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mardi, 13 septembre 2011

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il Pakistan è scosso da una considerevole spirale di violenza. Ai bombardamenti statunitensi lungo il confine con l’Afghanistan si sono aggiunti gli scontri etnici nelle province del Belucistan e del Sindh. Per quanto riguarda quest’ultima regione, il carattere d’indiscriminata conflittualità contraddistingue soprattutto la sua capitale, Karachi. L’estrema violenza caratterizzante la città potrebbe comportare delle conseguenze imprevedibili per l’intero Pakistan, mettendo in seria discussione l’unità e l’intregrità territoriale del paese. La conflittualità interna è strettamente connessa agli interessi dei paesi limitrofi e degli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni anche per l’Afghanistan.

Karachi rappresenta il centro urbano e portuale economicamente più importante del Pakistan. La città è il traino dell’industria, del commercio e delle comunicazioni, in particolar modo per quanto riguarda i settori tessile e automobilistico, l’editoria, l’informatica e la ricerca medica. Il centro urbano è, inoltre, un fondamentale nodo geostrategico affacciato sul Mar Arabico. Data l’importanza economica di Karachi, già florido centro prima della nascita del Pakistan, la capitale del Sindh ha attirato nel corso degli ultimi due secoli un gran numero di migranti provenienti da diverse aree del Subcontinente, trasformandosi in una città multietnica e multilinguistica. Nella città, prima del 1947, convivevano diverse etnie, attirate dalle possibilità commerciali; erano presenti differenti comunità religiose, principalmente musulmani, hindu, parsi e cristiani. Karachi e il Sindh intero, in seguito alla partizione tra India e Pakistan, sono stati contraddistinti da una massiccia migrazione di musulmani provenienti dall’India, demominati mohajirs e di lingua urdu (mohajirs in urdu significa “migrante”). Rispetto ad altre aree del Pakistan, nel Sindh la migrazione urdu è stata più evidente ed ha generato una situazione di maggiore criticità. Mentre nelle restanti zone del paese la minoranza dei mohajirs è stata assimilata perché il suo numero era inferiore rispetto alla popolazione autoctona, nel Sindh, molto più vicino geograficamente all’India, i nuovi arrivati di lingua urdu superarono numericamente le etnie locali, modificando considerevolmente il carattere etnico della provincia.

Una delle cause scatenanti l’attuale stato di violenza della città è da ricercare nel composito carattere etnico del Sindh, complicato a partire dal 1947. La conflittualità tra etnie a Karachi e nella regione circostante non è, infatti, un problema che caratterizza il Pakistan da pochi anni, ma è invero una situazione perdurante da decenni. Tra gli anni ’50 e ’80 la regione era contraddistinta in particolare dagli scontri tra la popolazione di lingua urdu, rappresentanti solitamente la classe urbana, commerciale e maggiormente istruita della provincia, e i sindhi, gruppo etnico per la maggior parte dei casi rurale e meno istruito, trasformatosi minoranza nel proprio territorio storico. Gli scontri vennero, inoltre, utilizzati a seconda dei mutevoli interessi delle autorità centrali di Islamabad, tradizionalmente intenti a privilegiare l’etnia punjabi. La presenza a Karachi dei mohajirs è, inoltre, considerevolmente aumentata a partire dal 1971, in seguito alla migrazione di ulteriori gruppi musulmani di lingua urdu provenienti dall’ex Pakistan orientale dopo l’indipendenza del Bangladesh.

 

I motivi degli scontri etnici a Karachi e le possibili conseguenze per l’integrità territoriale del Pakistan

 

Le violenze quotidiane che hanno trasformato Karachi in un pericoloso centro, teatro di scontro tra bande, mafie locali e gruppi armati artefici di rapimenti, estorsioni ed esecuzioni sommarie, è dovuto principalmente alla conflittualità tra i mohajirs e i pashtun, questi ultimi di recente immigrazione. Il nesso tra criminalità e politica è molto forte, mentre le forze di sicurezza locali e le autorità centrali di Islamabad non sono in grado, per il momento, di riportare la città in una situazione di normalità. I partiti politici più importanti di Karachi, il Muttahida Quami Movement (MQM) rappresentante gli urdu, 45% della città, e l’Awami National Party (ANP), partito della minoranza pashtun, 25% degli abitanti di Karachi, si accusano a vicenda per la responsabilità delle violenze; i due gruppi politici, assieme al partito nazionale e governativo del Pakistan People’s Party (PPP), che a Karachi rappresenta gli interessi sindhi, sono i diretti responsabili delle violenze. Queste sono esplose soprattutto a partire dal 27 giugno, quando l’MQM decise di uscire dalla coalizione di governo del Sindh per l’avversione nei confronti dell’ANP e per incompresioni politiche con il governo nazionale di Islamabad guidato dal PPP. Il carattere etnico della città è complicato ulteriormente dalla presenza di altre minoranze, in particolare balochi, punjabi, kashmiri, saraiki e numerose altri gruppi etnici. A Karachi è presente anche una minoranza sciita, la quale si è sovente scontrata con la maggioranza sunnita. I sindhi, 60% della popolazione di Karachi nel 1947, oggi rappresentano il 7% della città.

La massiccia presenza pashtun a Karachi è recente ed è dovuta soprattutto alla considerevole migrazione verso sud delle popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali del Pakistan, soprattutto dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e dalle Federally Administered Tribal Areas (FATA), ma anche dall’Afghanistan; le migrazioni sono state causate dall’invasione sovietica del 1979, da quella USA nel 2011 e dai bombardamenti statunitensi lungo la linea Durand. Le recenti migrazioni di pashtun, ma anche di tagiki, hazara, turkmeni e uzbeki provenienti dall’Afghanistan, hanno modificato considerevolmente il carattere etnico di Karachi, la quale unitamente alle violenze tra urdu e sindhi, è diventata teatro di scontri tra urdu e pashtun, e tra questi ultimi e i sindhi. Senza dimenticare i punjabi, rappresentanti gli interessi dei militari e delle autorità centrali pakistane, attente a favorire una o l’altra etnia a seconda delle circostanze politiche. La recente storia del paese è caratterizzata da questa particolare linea di politica interna.

L’attuale importanza dell’MQM, terzo gruppo politico a livello nazionale, è derivata, infatti, dall’azione governativa del regime di Zia ul-Haq tra anni ’70 e ‘80. Avendo come fine l’indebolimento del PPP e del suo capo, Zulfiqar Ali Bhutto, di etnia sindhi e il cui governo venne rovesciato proprio da Zia, il generale favorì la nascita e il consolidamento politico del partito urdu. L’MQM si rafforzò nel corso degli anni ’80, trasformandosi in un’importante forza di equilibrio nel panorama politico pakistano, alleandosi, a seconda delle circostanze, con il PPP o con la conservatrice Pakistan Muslim League (PML). Dopo il crollo di Zia, l’ISI accusò l’MQM di essere una forza cospirativa filo-indiana, finanziata dai servizi segreti di Nuova Delhi e avente come obiettivo primario la creazione di uno Stato autonomo di lingua urdu, il Jinnahpur con Karachi capitale. Durante gli anni ’90, infatti, l’MQM ha subito una violenta repressione da parte del governo centrale di Islamabad, in particolar modo quando salirono al potere Nawaz Sharif (PML-N) e Benazir Bhutto (PPP). Il partito degli urdu contò invece sull’appoggio del generale Pervez Musharraf, anch’esso di etnia mohajirs. Nell’ultimo decennio, infatti, l’MQM ha registrato una considerevole espansione, aumentando la propria influenza nell’intero paese, ma soprattutto in Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. Diversi analisti sostengono il fatto che l’MQM possa contare attualmente sul decisivo appoggio dell’apparato militare pakistano e dell’ISI, vicini all’etnia punjabi, in modo da poter controbilanciare l’influenza pashtun nel Sindh, ma soprattutto nell’intero Pakistan.

Le violenze a Karachi sono dunque legate alla complicata situazione della politica interna pakistana, ricalcante le differenze etnico-linguistiche del paese. La forza politica dell’MQM non è attualmente riscontrabile solo nella città portuale, ma è evidente nell’intero paese. In questa fase politica è necessario per gli altri partiti, soprattutto per il PPP, scendere a patti con l’MQM, il quale si è trasformato in un indispensabile partito, garante del mantenimento dell’equilibrio politico del Pakistan. A Karachi le violenze sono aumentate in seguito all’abbandono da parte dell’MQM del governo federale del Sindh: i mohajirs accusano Zardari e il PPP di essere troppo vicini all’ANP. Lo scontro tra MQM e governo centrale è legato anche ai recenti arresti di attivisti mohajirs di Karachi accusati di terrorismo.

Una spiegazione delle violenze che stanno attraversando Karachi è connessa certamente alle migrazioni di popolazione pashtun nella città. Non si tratta solamente di un problema sociale ed economico, per l’evidente accresciuta competizione tra etnie diverse nella ricerca di lavoro e nell’acquisto di terre. Una questione fondamentale riguarda una problematica di tipo politico, ovvero quale gruppo etnico assumerà il controllo di Karachi, la città economicamente più importante del Pakistan che garantisce il 68% delle entrate nazionali. Le preoccupazioni dei diversi gruppi etnici sono evidenti: gli abitanti di lingua urdu temono la “talebanizzazione” della città ad opera della minoranza pashtun; questi ultimi denunciano l’eccessiva violenza dei mohajirs; i sindhi osservano negativamente sia i pashtun sia i mohajirs. Tutti e tre i gruppi etnici maggioritari di Karachi accusano il governo centrale di Islamabad di privilegiare l’etnia punjabi, favorendo lo sviluppo del solo Punjab a discapito degli altri territori dello Stato.

Le violenze fra etnie, fomentate dall’MQM, dall’ANP e dal PPP, possono portare a della serie conseguenze non solo per la città, ma anche per il resto del paese, generando una potenziale situazione d’instabilità. Se si pensa all’attuale situazione del Belucistan, tale scenario non sembra lontano dalla realtà. Di fondamentale importanza sono i risvolti geopolitici connessi alla stabilizzazione del paese e l’azione che intraprenderanno i diversi attori internazionali attenti alle sorti del Pakistan e dell’Afghanistan.

 

I collegamenti internazionali delle violenze a Karachi e nel Pakistan

 

Secondo l’ottica pakistana, una delle cause della situazione di completa anarchia e settarismo di Karachi deriva dall’appoggio esterno alle diverse fazioni in lotta. Questo sarebbe garantito in primo luogo dall’India, ma anche da Stati Uniti e Israele. Una delle spiegazioni offerte dal governo nel passato per descrivere la conflittualità del Sindh, ripresa recentemente, è connessa all’azione svolta da attori esterni, i quali aizzano le diverse etnie del paese una contro l’altra, in modo da favorire la destabilizzazione e lo smembramento del Pakistan.

La situazione in Belucistan, zona ricca di gas naturale e minerali, ma molto povera, è particolarmente tesa. Secondo Islamabad, i servizi segreti dell’India appoggerebbero le spinte indipendentiste dei beluci e le violenze anti-punjabi. Il Belucistan è teatro, inoltre, del violento scontro tra governo centrale e movimenti sciiti della regione. Secondo la visuale pakistana, oltre ai servizi segreti indiani, agirebbero in Belucistan la CIA e l’MI6 britannico, i quali fomenterebbero le azioni anti-governative dei beluci. Il Pakistan guarda con sospetto all’attivismo indiano nella città iraniana di Chabahar, anch’essa beluca. L’azione statunitense potrebbe avere dei chiari risvolti negativi per gli interessi cinesi nell’area e per l’Iran, dato l’indipendentismo beluco presente nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan.

Sempre secondo Islamabad, la RAW indiana, il Mossad e la CIA favorirebbero il traffico illegale di armi nell’emporio di Karachi, la cui zona portuale è controllata dall’MQM. All’indomani della visita di Karzai e Zardari a Tehran lo scorso giugno, il ministro degli interni pakistano Rehman Malik ha riferito pubblicamente alla stampa del ritrovamento di armi di fabbricazione israeliana a Karachi.

Il Pakistan, se da una parte ha visto deteriorarsi i propri legami con gli Stati Uniti, ha migliorato i propri rapporti con l’Iran, testimoniati concretamente dal possibile avvio dei lavori in territorio pakistano del gasdotto di collegamento tra Tehran e Islamabad. L’Arabia Saudita osserva con particolare preoccupazione l’avvicinamento tra i due paesi, foriero di una pericolosa messa in discussione del teorema dell’inevitabile scontro e competizione tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano. Un problema comunque di primo piano da risolvere nel dialogo iraniano-pakistano sarà legato al finanziamento del gruppo terroristico Jandullah, il quale opera nel Sistan-Belucistan e, secondo l’Iran, ha legami diretti con l’ISI. L’Iran ha sospetti anche sull’Afghanistan, mentre la stessa Islamabad ritiene che ci siano dei collegamenti tra Tehran e l’indipendentismo beluco in Pakistan. Islamabad ha, inoltre, intensificato i propri rapporti con la Cina. In questo modo il governo pakistano, legandosi maggiormente a Tehran e Pechino, sta aumentando considerevolmente il proprio potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. Un altro fattore da considerare è, inoltre, il crescente interesse di Russia, Iran e Cina per la questione afghana. Gli Stati Uniti guardano naturalmente con estremo interesse l’evolversi della situazione interna del Pakistan, un paese del quale non possono fare a meno per la propria strategia in Afghanistan. Vista la recente intenzione di mantenere una base militare a Kabul fino al 2024 è necessario, nell’ottica statunitense, sostenere un dialogo con i talebani, i quali non appaiono comunque troppo favorevoli alla presenza di truppe nordamericane in Afghanistan; del medesimo parere sono Russia, Cina, Pakistan e Iran. Islamabad, possibile canale privilegiato per il dialogo con i talebani, diventa dunque fondamentale per l’azione statunitense in Afghanistan, data anche l’attuale debolezza politica di Karzai.

La destabilizzazione del Pakistan e il suo potenziale controllo si collegano alle recenti violenze di Karachi, connesse a una strategia volta al favorire lo smembramento del paese asiatico discussa in diversi think tank nordamericani (vedi l’articolo http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Tutto ciò è collegabile alla notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il controllo diretto dell’arsenale nucleare pakistano, alle richieste di Islamabad di poter disporre del diritto di veto per gli unilaterali bombardamenti statunitensi sul proprio territorio e alle schermaglie tra CIA e ISI, con l’insolito avvicendarsi nel giro di pochi mesi di tre diversi capi del servizio segreto statunitense a Islamabad. Se da una parte, inoltre, gli Stati Uniti vogliono ricercare un dialogo con i talebani, dall’altro lato non si curano dei bombardamenti nei confronti di quei gruppi che hanno già raggiunto una pacificazione con il Pakistan, ma che operano in Afghanistan, vedi la rete Haqqani, con possibili ripercussioni negative per la sicurezza interna di Islamabad. Un’altra fondamentale questione riguarda il temine degli aiuti finanziari di Washington nei confronti del Pakistan, uniti alla crisi finanziaria e all’impossibilità da parte degli Stati Uniti di mantenere un costoso apparato militare in Afghanistan, vista anche l’attenzione crescente per il Vicino Oriente e il Nord Africa. Resta da capire se le strategie sul Pakistan discusse nei think tank statunitensi verranno concretamente messe in azione. Sta di fatto che un’interpretazione dell’attuale fase critica del Pakistan è connessa al teatro afghano, poiché il carattere di estrema precarietà del paese può essere valutato come una diretta conseguenza dell’invasione e destabilizzazione dell’Afghanistan, propagatasi successivamente in territorio pakistano. Il collasso del sistema statale è concretamente in atto lungo il confine tra i due paesi e le migrazioni dei pashtun verso Karachi degli ultimi anni rendono la situazione della città e del paese in generale sempre più complicata.

E’ da valutare, inoltre, quanto le violenze a Karachi possano favorire gli interessi statunitensi, vista la sua posizione strategica come unico porto in grado di supportare le truppe NATO in Afghanistan. Kabul non ha collegamenti via mare e risulta essenziale l’attenzione nordamericana su Karachi, importante porto sul Mar Arabico e attualmente punto strategico per il riformimento di mezzi e truppe via mare da indirizzare in Afghanistan. Nell’emporio di Karachi si può individuare un ulteriore elemento che testimonia l’importanza del Pakistan per gli Stati Uniti. Collegato alla questione della città e alle sue minoranze, saranno da valutare anche gli impatti sull’etnia pashtun del potenziale dialogo che potrebbe stabilirsi tra i talebani e gli Stati Uniti, così come il ruolo che ricoprirà il Pakistan nei colloqui.

Dialogo valutato negativamente dall’India e dall’Iran. Per quanto riguarda Nuova Delhi è da valutare quanto convenga all’India fomentare l’indipendentismo delle minoranze etniche presenti in Pakistan. La destabilizzazione dell’Afghanistan, avvenuta a partire dal 2001, con la successiva caotica situazione pakistana, non è detto che non si espanda anche in India. Se da una parte, con l’annichilimento del Pakistan si conorerebbe il sogno della definitiva sconfitta del nemico, da una diversa prospettiva tutto ciò potrebbe comportare delle serie ripercussioni per l’autonomismo e l’indipendentismo di vaste aree interne del paese, soprattutto in Kashmir e nel nord-est indiano. Se da una parte gli Stati Uniti hanno come obiettivo il caos per poi controllare la situazione, sembra che recentemente Nuova Delhi stia addontando una politica più accorta nei confronti del Pakistan.

 

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

lundi, 12 septembre 2011

La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

Guennadi Ziouganov

Ex: http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/

Pravda, 1 Settembre 2011

 

Secondo i media, le forze che cercano di rovesciare il governo della Libia hanno occupato la capitale, Tripoli, e diverse altre città. Ovunque siano commettono omicidi di massa e saccheggi. E’ stato anche saccheggiato l’eccezionale museo nazionale di Tripoli.

 

Tutto questo parla da se del tipo di persone coinvolte nella lotta contro il governo legittimo. E’ ben noto che l’”opposizione” che si sarebbe ribellata contro la “tirannia” di Gheddafi, sta ricevendo armi dall’estero. Ma ancora, non avrebbero potuto affrontare le truppe del governo libico, senza il sostegno massiccio dell’aviazione della NATO, che ha distrutto i centri di comando, depositi di munizioni e armi e le linee di comunicazione. I “ribelli” appaiono solo dopo che la tempesta di fuoco della NATO ha distrutto ogni cosa sul suo cammino.

 

Questo è certamente un intervento militare, accuratamente nascosto dietro lo schermo trasparente dei “ribelli”. In Libia, si sta perfezionando una nuova tattica per rovesciare i governi indesiderabili all’Occidente, con ampio uso di eserciti privati e di mercenari come ausiliari alla NATO. Tutto questa orgia si svolge sotto la copertura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’attuazione del “no-fly zone”, il cui presunto obiettivo era proteggere la popolazione civile della Libia dai bombardamenti. In pratica, gli aerei della NATO ha lanciato attacchi con missili e bombe, non solo contro le posizioni dell’esercito libico, anche contro le strutture civili nelle città. Di conseguenza, essi hanno ucciso migliaia di civili, tra cui anziani e bambini. Fatti come questi sono, secondo il diritto internazionale, un crimine contro l’umanità. Ma la lingua dei Gesuiti della NATO, le vite distrutte vengono chiamate “danni collaterali”.

 

La Libia è l’ultima vittima dell’intervento globale della NATO, che è diventato possibile dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Proprio in questo momento, con la scomparsa di una forza capace di affrontare l’avventurismo dell’oligarchia mondiale, apparve al nostro attuale “partner” la sensazione dell’impunità. Imposta dall’esterno, ebbe inizio la guerra civile in Jugoslavia, che si è conclusa dopo 78 giorni di bombardamenti di città e cittadine indifese.

 

Poi gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno invaso l’Iraq, impigliandosi nel filo spinato di quel paese. Poi seguì l’Afghanistan, convertito dalle truppe di occupazione in un ritrovo per la produzione di droga. Nel frattempo, le agenzie d’intelligence dell’Alleanza avviarono le rivolte “arancione” in Georgia, Ucraina e Moldavia. Passando anni a cercare di rovesciare il Presidente bielorusso Lukashenko.

 

La Siria è prossimo della lista, sottoposta ad attacchi di insorti armati dall’esterno. Assistiamo alla guerra di informazione contro il governo siriano. Prova eloquente dei preparativi per l’intervento della NATO.

 

Oggi il mondo affronta un nuovo colonialismo, nella sua variante più disgustosa e cinica, proprio come lo era due secoli fa. L’ex potenze coloniali, USA, Regno Unito e Francia ancora rivendicano il diritto di decidere del destino di qualsiasi stato sovrano. Durante questa operazione “umanitaria” hanno calpestato la Carta delle Nazioni Unite e le norme del diritto internazionale. Come risultato, la Libia è stata sommersa nel caos, e potrebbe eventualmente svilupparsi successivamente nello scenario somalo: la divisione in innumerevoli tribù e clan che si combattono tra loro. La Russia è anch’essa responsabile della tragedia in Libia, dal momento che il governo ha dato il via libera alla risoluzione anti-Libia delle Nazioni Unite, non usando il suo potere di veto e, quindi, unendosi alle sanzioni contro la Libia. Questo ha significato non solo che abbiamo perso 20 miliardi di dollari di potenziali benefici dal commercio e della cooperazione economica con questo ricco paese africano, ma abbiamo anche perso uno degli stati amici che avevamo nella regione strategicamente importante del Mediterraneo.

 

Se non finisce questa orgia del neo-colonialismo, la Russia con i suoi sconfinati territori e le sue enormi riserve di materie prime, diventerà uno degli obiettivi futuri dell’esportazione atlantista della “democrazia”. Indebolito da due decenni di cosciente deindustrializzazione e decadenza, con un esercito demoralizzato e distrutto, il nostro Paese inevitabilmente diventerà un bersaglio per l’intervento.

 

Il PCRF condanna la pirateria mondiale dell’oligarchia coloniale ed esorta il governo della Federazione Russa a prendere coscienza delle conseguenze più pericolose che comporta la collusione con gli aggressori.

 

Solo un governo forte e patriottico, in grado di rilanciare l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, la scienza e la cultura, il nostro passato di potenza e il ritorno delle nostre Forze Armate, può salvare la Russia dal ripetersi dello scenario libico delle rivoluzioni “colorate”.

 

Link: [1] http://josafatscomin.blogspot.com/2011/09/destruccion-de-libia-crecela-amenaza.html [2] http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/ http://tortillaconsal.com/tortilla/print/9378

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru http://www.bollettinoaurora.da.ru http://aurorasito.wordpress.com

vendredi, 09 septembre 2011

Warum das Gaddafi-Regime gestürzt wurde

Geheimdienste, Euro-Krise und Libyen: Warum das Gaddafi-Regime wirklich gestürzt wurde

Udo Ulfkotte

Zugegeben, man kann das Wort »Libyen« inzwischen nicht mehr hören. Aber selbst in den Hauptnachrichtensendungen wird inzwischen so viel Unsinn über Libyen verbreitet, dass wir nachfolgend einfach einmal jene Fakten auflisten, die von offiziellen Medien aus Unwissenheit oder absichtlich verschwiegen werden. Die Wahrheit sieht dann etwas anders aus. Und Sie werden schnell merken, wie Sie als Durchschnittsbürger von Politik und Medien an der Nase herumgeführt wurden. Denn ohne die Aktionen in Libyen wären französische Banken zusammengebrochen.

 

 

Tatsache ist: In Ländern wie Bahrain, Saudi-Arabien oder den Vereinigten Arabischen Emiraten ist keine militärische Intervention geplant, um die dortigen Diktatoren zu stürzen. Im Gegenteil: Länder wie Deutschland wollen die Diktatoren dort sogar noch mit deutschem Fachpersonal und mit Waffen unterstützen. Warum also intervenierte man ausgerechnet in Libyen? Kennen Sie die Fakten, dann kennen Sie die Wahrheit.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/udo-ulfkotte/geheimdienste-euro-krise-und-libyen-warum-das-gaddafi-regime-wirklich-gestuerzt-wurde.html

 

Libye: pétrole et droits de l'homme

Libye pétrole et droits de l'Homme

Ex: http://www.insolent.fr/

110902 La campagne militaire engagée au printemps contre le régime de Kadhafi étant terminée, pour la mission initialement définie, on peut maintenant parler tout à fait librement de la Libye sans risquer d'attenter au moral de l'armée française.

Je redis en cette occasion que, de mon point de vue, (1)⇓ la capacité de défense et d'action des nations européennes représente, dans ce type de situation, un enjeu beaucoup plus important que toutes les autres considérations.

Les gouvernements de Paris et de Londres s'étaient engagés, pour la première fois depuis 1956, dans un processus de confrontation : il eût été catastrophique que cette opération échouât comme il était advenu de celle de Suez.

Défendre l'armée française partout où elle se bat me semble à la fois un impératif moral et politique qui devrait s'imposer à tous les Français. Et, en même temps il implique de se préoccuper sérieusement des insuffisances de nos capacités militaires que dénoncent les plus hautes instances de l'État-major : on pouvait craindre au printemps que la France et l'Angleterre ne soient pas en mesure d'atteindre leurs objectifs.

On peut remarquer à cet égard, et on doit le souligner, que les forces adverses leur ont tenu la dragée haute plus longtemps que prévu.

Quant aux dépenses qu'a engendrées cette affaire, on les estime pour la république jacobine à hauteur de 200 millions d'euros contre 270 millions de livres sterling, soit 306 millions d'euros du côté britannique, (2)⇓ beaucoup moins que l'effort financier des États-Unis qui revendiquent 27 % des sorties aériennes.

Depuis hier 1er septembre la réunion des 60 pays présentés pour "amis de la Libye" se tient à Paris. Elle met en lumière les vraies préoccupations de la plupart des États participants. L'attitude "chacun pour soi" des gouvernements européens persiste à se présenter de manière de plus en plus inquiétante.

Rappelons qu'une des conditions essentielles du traité négocié à Maastricht en 1991, beaucoup plus importante que les critères monétaires, comportait une identité de défense autour de l'Union de l'Europe occidentale. Et on remarquera que, depuis, celle-ci a disparu.

On soulignera également l'évanescence de la politique extérieure commune sous la responsabilité de Lady Ashton. Reconnaissons-lui au moins ce mérite : elle joue sans défaillir ce rôle de figuration intelligente pour lequel on l'a embauchée.

On savait l'Union européenne plus encline à se préoccuper de consommatique que de géopolitique. On découvre que, désunie, l'Europe réduite à son grouillement de 27 nains, qu'aucune Blanche Neige ne semble envisager de sortir de leurs enfantillages, se révèle encore plus mercantile dans la division.

Des soupçons contradictoires avaient été exprimés au moment de la décision d'intervenir en Libye.

Par charité chrétienne on m'abstiendra de citer ici ceux qui pensaient que l'on faisait la guerre pour complaire à BHL, aussi bien que leurs contradicteurs aux yeux desquels on prenait pour Tobrouk un taxi, conduit par feu Oussama bin Laden.

Car, non seulement les uns et les autres se fourvoyaient eux-mêmes, plus encore qu'ils ne trompaient leurs lecteurs ou leurs auditeurs, mais, se croyant anticonformistes, ils se situaient bien au-dessous de la vérité.

Le roi de la brosse à reluire glapissait sa chronique ce 2 septembre sur RTL consacrée au dossier libyen sans prononcer le mot pétrole. Autant dire qu'il s'agissait de la question essentielle puisqu'Alain Duhamel n'en parlait pas.

Le fameux projet surnommé "Eurabia" se développe en effet depuis bientôt 40 ans dans un contexte de servilité devant la finance pétrolière. On l'a rebaptisé, ces derniers temps, "Union pour la Méditerranée" et on veut à tout prix nous fourguer comme paradigme le modèle turco-démocratique de l'AKP, en oubliant bien sûr que l'habile démagogue Erdogan avait accepté en 2010 de recevoir le "prix Kadhafi des Droits de l'Homme". Dernière survivance du traité de Sèvres, l'Irak petroleum company n'aspire plus qu'à redevenir la Turkish petroleum company.

Ne nous parlez donc plus de guerre pour les droits de l'Homme. Dites en toute franchise que vous cherchez à rassurer les émirs et à défendre les intérêts du CAC 40. Cela deviendra plus crédible et plus tangible.

Mais quels que soient les motifs à court terme de ce genre de confrontations, on doit mettre en garde nos compatriotes quant aux échéances des conflits futurs. Ils surgiront de manière d'autant plus inéluctable que nos moyens de défense ont été rognés, d'année en année, depuis maintenant un demi-siècle.

On fait de la sécurité intérieure un enjeu électoral, et cela ne manque pas de justification.

Qui osera se faire écho, dans la prochaine campagne présidentielle, et au cours de la campagne législative qui suivra, des signaux d'alarme très nets lancés par les chefs militaires ?

JG Malliarakis
        
Apostilles

  1. cf. notre chronique du 21 mars "Les occidentaux face à leurs ennemis" qui nous a valu bien sûr quelques crachats.
  2. f. Le Canard enchaîné du 24 juillet.
  3. cf. "Le prétendu modèle turc".

Vous pouvez entendre l'enregistrement de nos chroniques
sur le site de Lumière 101

mercredi, 07 septembre 2011

Der Westen will die Kontrolle über den Erdölreichtum Libyens an sich reissen

Der Westen will die Kontrolle über den Erdölreichtum Libyens an sich reißen

Prof. Michel Chossudovsky

Die libyschen Revolutionäre haben den Krieg in dem erdölreichen nordafrikanischen Land noch gar nicht gewonnen, da diskutieren die westlichen Mächten bereits etwa darüber, dass die Übergangsregierung in der Ära nach Gaddafi die Erdölverträge erfüllen müsse.

 

Wären die USA und ihre NATO-Verbündeten auch bereit, im Falle interner Streitigkeiten in der libyschen Krise ihre Erdölinteressen mit Bodentruppen durchzuzusetzen?

 

In einem Interview mit Press TV erläutert Michel Chossudovsky, Direktor des Zentrums zur Forschung zur Globalisierung, die derzeitigen Entwicklungen. Im Folgenden lesen Sie eine geringfügig überarbeitete Fassung des Interviews.

 

 

Interview mit dem Direktor des Zentrums für Forschung zur Globalisierung (CRG) Prof. Michel Chossudovsky

 

Die Westmächte haben erklärt, die internationale Gemeinschaft werde den politischen Übergang zu einem freien und demokratischen Libyen unterstützen. Welche Form wird diese »Unterstützung« annehmen? Soll Libyen eine »Demokratie nach westlichem Vorbild« aufgezwungen werden? Was bedeutet das für die libysche Bevölkerung? Die gleiche Sprache und die gleichen Begriffe waren auch zu hören, als sie vor zehn Jahren Afghanistan und vor acht Jahren den Irak angriffen. Die Vereinigten Staaten beharren immer noch darauf, dass ihre Soldaten Immunität vor Strafverfolgung genießen sollten. Womit ist in Libyen zu rechnen?

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/prof-michel-chossudovsky/der-westen-will-die-kontrolle-ueber-den-erdoelreichtum-libyens-an-sich-reissen.html

samedi, 03 septembre 2011

Sur le "Dictionnaire de géopolitique et de géoéconomie" de Pascal Gauchon


Sur le "Dictionnaire de géopolitique et de géoéconomie" de Pascal Gauchon (PUF)

jeudi, 01 septembre 2011

Boreas Rising

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Boreas Rising:
White Nationalism & the Geopolitics of the Paris-Berlin-Moscow Axis, Part 1

By Michael O'MEARA

Ex: http://www.counter-currents.com/ 

 “History is again on the move.”
—Arnold Toynbee

For a half-century, we nationalists stood with the “West” in its struggle against the Asiatic Marxism of the Soviet bloc. There was little problem then distinguishing between our friends and our foes, for all evil was situated in the collectivist East and all virtue in the liberal West.

Today, things are much less clear. Not only has the Second American War on Iraq revealed a profound geopolitical divide within the West, the social-political order associated with it now subverts our patrimony in ways no apparatchik ever imagined. Indeed, it seems hardly exaggerated to claim that Western elites (those who Samuel Huntington calls the “dead souls”)[1] have come to pose the single greatest threat to our people’s existence.

For some, this threat was discovered only after 1989. Yet as early as the late forties, a handful of white nationalists, mainly in Europe, but with the American Francis Parker Yockey at their head, realized that Washington’s postwar order, not the Soviet Union, represented the greater danger to the white biosphere.[2] Over the years, particularly since the fall of Communism, this realization has spread, so that a large part of Europe’s nationalist vanguard no longer supports the West, only Europe, and considers the West’s leader its chief enemy.[3]

For these nationalists, the United States is a kind of anti-Europe, hostile not only to its motherland, but to its own white population. The Managerial Revolution of the thirties, Jewish influence in the media and the academy, the rise of the national security state and the military-industrial complex have all had a hand in fostering this anti-Europeanism, but for our transatlantic cousins its roots reach back to the start of our national epic. America’s Calvinist settlers, they point out, saw themselves as latter-day Israelites, who fled Egypt (Europe) for the Promised Land. Their shining city on the hill, founded on Old Testament, not Old World, antecedents, was to serve as a beacon to the rest of humanity. America began—and thus became itself—by casting off its European heritage. The result was a belief that America was a virtuous land, dedicated to liberty and equality, while Europe was mired in vice, corruption, and tyranny. Then, in the eighteenth century, this anti-Europeanism took political form, as the generation of 1776 fashioned a new state based on Lockean/Enlightenment principles, which were grafted onto the earlier Calvinist ones. As these liberal modernist principles came to fruition in the twentieth century, once the Christian, Classical vestiges of the country’s “Anglo-Protestant core” were shed, they helped legitimate the missionary cosmopolitanism of its corporate, one-world elites, and, worse, those extracultural, anti-organic, and hedonistic influences hostile to the European soul of the country’s white population.[4]

This European nationalist view of our origins ought to trouble white nationalists committed to a preserving America’s European character, for, however slanted, it contains a not insignificant kernel of truth. My intent here is not to revisit this interpretation of our history, but to look at a development that puts it in a different racial perspective. So as not to wander too far afield, let me simply posit (rather than prove) that the de-Europeanizing forces assailing America’s white population are only superficially rooted in the Puritan heritage. The Low Church fanatics who abandoned their English motherland and inclined America to a biblical enterprise, despite their intent, could not escape their racial nature, which influenced virtually every facet of early American life. Indeed, the paradox of America is that it began not simply as a rejection but also as a projection of Europe. Thus, beyond their ambivalent relationship to Europe, Americans (until relatively recently) never had any doubt that their race and High Culture were European. As such, they showed all the defining characteristics of the white race, taming the North American continent with little more than rifles slung across their backs, and doing so in the European spirit of self-help, self-reliance, and fearlessness. As Francis Parker Yockey writes: “America belongs spiritually, and will always belong to the [European] civilization of which it is a colonial transplantation, and no part of the true America belongs to the primitivity of the barbarians and fellaheen outside of this civilization.”[5]

As long, then, as Americans were of Anglo-Celtic (or European) stock, with racially conscious standards, their Calvinist or liberal ideology remained of secondary importance. Our present malaise, I would argue, stems less from these ideological influences (however retarding) than from a more recent development—the Second World War—whose world-transforming effects were responsible for distorting and inverting our already tenuous relationship to Europe. For once our motherland was conquered and occupied (what the apologists of the present regime ironically refer to as its “liberation”) and once the new postwar system of transnational capital was put in place, a New Class of powers with a vested interest in de-Europeanizing America’s white population was allowed to assume command of American life. The result is the present multiracial system, whose inversion of the natural order negates the primacy of our origins and promises our extinction as a race and a culture. The only possibility of escaping its annihilating fate would seem, then, to be another revolutionary transformation of the world order—one that would throw the existing order into crisis and pose an alternative model of white existence. The “Paris-Berlin-Moscow Axis” formed during the recent Iraq war, I believe, holds out such a possibility.

Genesis of an Axis

As part of its Mobiles Géopolitique series, the Franco-Swiss publisher L’Age d’Homme announced in April 2002 the release of Paris-Berlin-Moscou: La voie de l’indépendance et de la paix (Paris-Berlin-Moscow: The Way of Peace and Independence). Authored by Henri de Grossouvre, the youngest son of a prominent Socialist party politician, and prefaced by General Pierre Marie Gallois, France’s premier geostrategic thinker, Paris-Berlin-Moscou argued that Europe would never regain its sovereignty unless it threw off American suzerainty and did so in alliance with Russia.

In recommending a strategic alliance between France, Germany, and Russia for the sake of a Eurasian federation stretching from the Atlantic to the Pacific, Grossouvre’s thesis seemed entirely utopian. For although the prospect of such an alliance had long animated the imagination of revolutionary nationalists, it seemed more fantasy than possibility, even when proposed by a well-connected and reputable member of the governing elites. Fantasy, however, rather unexpectedly took hold of the international arena. Within months of the book’s publication, its thesis assumed a life of its own, as the new Likudized administration in Washington started beating the drums for another war on Iraq.

The axis and the war it sought to avoid will be looked at in the following sections. Here, a few words on Grossouvre’s book are in order, for, besides being one of those novel cases where life seemed to imitate art, it stirred the European public, was extensively reviewed, led to the organization of several international conferences attended by diplomats, military leaders, and parliamentarians, and culminated in a website with over two thousand pages of documentation.[6] Its effect on the European—especially on the anti-liberal—spirit has been profound. If the axis it proposes is stabilized as an enduring feature of the international order (and much favors that), a realignment as significant as 1945 could follow.

Paris-Berlin-Moscou begins by acknowledging the common values linking America and Europe, the so-called Atlantic community, as well as the US role in guaranteeing European security during the Cold War. On both these counts, the author’s establishment ties are evident, for no anti-liberal views the Atlantic relationship in quite such uncritical terms. Nevertheless, in arguing that these two factors no longer justify Europe’s dependence on the United States, he breaks with the prevailing system (or at least what was the prevailing system) of strategic thought.

In Grossouvre’s view, Europe’s geopolitical relationship to the United States was fundamentally altered between 1989 and 1991, when Eastern Europe threw off its Soviet yoke, Germany reunified, and Russia called off the Communist experiment begun in 1917. Then, as Europe’s strategic dependence on the US came to an end, so too did its heteronomy.[7] Moreover, it is only a matter of time, Grossouvre predicts, before Russia recovers, China develops, and US power is again challenged. In the meantime, US efforts to perpetuate its supremacy, defend its neo-liberal system of global market relations, and stifle potential threats to its dominance are transforming it into a force of international instability. But even if this were not the case, Grossouvre contends that Europeans would still need to separate themselves from America’s New World Order (NWO), for their independence as a people is neither a luxury nor a vanity, but requisite to their survival.[8] For as Carl Schmitt contends, it is only in politically asserting itself that a people truly exists—conscious of its place in history, oriented to the future, and secure in its identity.[9]

Europe’s ascent—and here Grossouvre most distinguishes himself from the reigning consensus—will owe little to the European Union (EU). Although its GNP is now approaching that of the US; its share of world imports and exports is larger; its manufacturing capacity and productivity are greater; its population is larger, more skilled, and better educated; its currency, the euro, sounder; and its indebtedness qualitatively lower, the EU does not serve Europe in any civilizational sense.[10] Its huge unwieldy bureaucracy serves only Mammon, which means it lacks a meaningful political identity and hence the means to play an international role commensurate with its immense economic power. It indeed caricatures the “European idea,” representing a technocratic economism without roots and without memory, focused on market exchanges and financial orthodoxies that are closer in spirit to America’s neo-liberal model than to anything native to Europe’s own tradition. (As one French rightist argues, “Every time the technocrats in Brussels speak, they profane the idea of Europe.”)[11] The EU’s growth has, in fact, gone hand in hand with the weakening of its various member states—and the corresponding failure to replace them with a continental or federal alternative.[12] Given its current enlargement to twenty-five members, political unity has become an even more remote prospect, particularly in that many of the new East European members lack any sense of the European idea.

A strong centralized state, however, is key to Europe’s future. Since the Second World War, power is necessarily continental: Only a Großraum (large space), a geopolitically unified realm animated by a “distinct political idea,” has a role to play in today’s world.[13] Yet even with the dissolution of the East-West bloc, a continental state is not likely to emerge from the EU’s expanding market system. If earlier state-building is any guide (think of Garibaldi’s Italy, Kara-George’s Serbia, Pearse’s Ireland, or Washington’s America), political unification requires a vision, a mobilizing project, emanating from a history of blood and struggle. As Jean Thiriart writes: “One does not create a nation with speeches, pious talk, and banquets. One creates a nation with rifles, martyrs, jointly lived dangers.”[14] For Grossouvre, this mobilizing vision is De Gaulle’s Grande Europe: a political-civilizational Großraum pivoted on a Franco-German confederation (encompassing Charlemagne’s Francs de l’Ouest et Francs de l’Est), allied with Russia, and forged in opposition to the modern Carthage.

The three great continental peoples, he believes, constitute the potential “core” around which a politically federated Europe will coalesce. Like De Gaulle, who refused to accept his country’s defeat in 1940 and who fought all the rest of his life against the conquerors of 1945, Grossouvre views the entwined cultures of the French, Germans, and Russians as fundamentally different from les Anglo-Saxons (the English and the Americans), whose thalassocratic, Low Church, and market-based order favors a rootless, economic definition of national life. Accordingly, for most of her history, with the tragic exception of the 1870–1940 period, France’s great enemy was “perfidious Albion,” not Germany.[15] Then, after 1945, this larger historical relationship was resumed, as numerous cooperative ventures succeeded in blunting nationalist antagonisms—to the point that war between them is now inconceivable.[16] Finally, in 1963, when De Gaulle and Konrad Adenauer signed the Treaty of Elysée, their reconciliation was formalized on the basis of an institutionalized system of social, economic, and political collaborations. Their supranational commitment to Europe has since had a powerful synergetic effect, influencing virtually every significant measure undertaken in the name of continental unity. The complementary nature of these closely related peoples has, in fact, triumphed over the political disunity that came with the Treaty of Verdun (843).[17] While a confederation between France and Germany is probably still on the distant horizon, the history of the last 60 years suggests that their national projects are converging.[18] Until then, they are likely to continue to speak with a single voice, for France and Germany are more than two states among the EU’s twenty-five. In addition to being the crucible of European civilization, their combined populations (142 million), their economic power (41 per cent of the EU), and, above all, their capacity to transcend national interests make them special—the nucleus, the motor, the vanguard of a potentially united Europe. Whatever political organization the EU eventually achieves will undoubtedly be one of their doing.

A somewhat different convergence is also under way in the East. The fall of the Berlin Wall in 1989 and Germany’s ensuing reunification shifted Europe’s center of gravity eastward. The EU’s enlargement to Eastern Europe this year moved it even farther in this direction. The consolidation of Europe’s eastward expansion hinges, though, on Russia, whose white, Christian people, as the historian Dieter Groh argues, represents one of the great primeval stirrings of the European conscience.[19] (It was the Roman Catholic Church, in its schism with Orthodox Christianity in 1054, not Russia’s history, culture, or racial disposition that kept it from being recognized as a European nation.) France has ancient ties with Russia and today shares many of the same geopolitical interests. But it is Germany that is now most involved in Russian life. She is Russia’s chief trading partner, her banks are the chief source of Russian investment capital, and her 1800 implanted entrepreneurs the leading edge of Russian economic development.[20] Thanks to these ties, along with bimonthly meetings between Russia’s Vladimir Putin and Germany’s Gerhard Schröder, Russia is presently engaged in numerous joint ventures with the EU. Together, they have put seven communications satellites into orbit, developed a global positioning system (Galileo) to rival the American one (GPS), signed numerous agreements in the field of aerospace research, given one another consultative voice in the other’s military operations, upgraded and expanded the roads, canals, and railways linking them, brokered a series of deals related to gas and energy, and established an elaborate system of cultural exchanges. Visa-free travel between Russia and the EU is expected by 2007. And though Russia is too big to be integrated into the EU, she is nevertheless developing relations with it that portend ones of even greater strategic significance.

Russia also sees its future in Europe. Since the collapse of Communism and the imposition of what critical observers characterize as a “Second Treaty of Versailles,” it has been on life-support.[21] The economy is in shambles, the state discredited, society afflicted with various pathologies, and its former empire shattered. The appointment of Vladimir Putin in 1999 and his subsequent election as president in 2000 and again in 2004 represent a potential turnaround (even if he is not the ideal person to lead Russia). Full recovery is probably still far off, but it has begun and Europe—its capital, markets, and expertise—is necessary to it. Putin also believes Europe’s growing estrangement from America’s unilateral model of hegemony will eventually lead it into a collective security pact with Russia.[22] Having distanced himself from the pro-American regime of the corrupt Yeltsin, whose liberal market policies were an excuse to plunder the accumulated wealth of the Russian people, and having had his various efforts at rapprochement rebuffed by the Bush administration (which continues to encroach on Russia’s historical spheres of interest), this Deutsche im Kreml now looks to exploit his German connections to gain a wedge in European affairs.[23]

His Eurocentric policies are already assuming strategic form, for Russia’s vast oil reserves have the potential of satisfying all of Europe’s energy needs. (As russophobes say, Russia will build her hegemony in Europe with pipelines.) To consolidate these emerging East-West exchanges, Russia has recently received a €400 million grant to modernize its institutional, legal, and administration apparatus to accord with the EU’s. At the same time, tariffs on Russian imports have been slashed (50 percent of Russian exports now go to the EU) and the EU is sponsoring Russia’s admission to the World Trade Organization. Putin’s arrest of the oligarch Mikhail Khodorkovsky, one of the principal proponents of US-style “casino capitalism,” and the seizure of his massive Yukos oil concern, the resignation of the last Yeltsin holdovers, especially Alexander Voloshin; and an ongoing series of internal reforms, however incomplete, represent further steps toward a restoration of Russian state power.[24] Finally, Russia possesses the military capacity, even in its debilitated state, to guarantee Europe’s security, for in a period when America’s “new liberal imperialism” runs roughshod over European concerns, threatening endless conflicts detrimental to their interests, Russia suddenly becomes a credible defense alternative.[25]

Grossouvre concludes that an axis based on France’s political leadership, Germany’s world class economy, and Russia’s military might represent the potential nucleus of a future Eurasian state. Five distinct advantages, he argues, would follow from such a rapprochement: It would guarantee Europe’s independence from America, correct certain imbalances in the globalization process, enhance the EU’s security, solve its energy needs, and complement the different qualities of its allied members. If such an axis draws the chief continental powers into a more enduring alliance, it will inevitably reshape the international order, making the white men of the North—the Boreans—the single most formidable force in the world.[26] It should come as no surprise, then, that Grossouvre’s most strident critics are to be found in those former left-wing Jewish ranks (as represented by Bernard-Henri Lévy, André Gluckmann, Alain Finkielkraut, etc.), who, like our home-grown neocons, champion the raceless, deculturated policies of Washington’s New World Order.

Notes

1. Samuel P. Huntington, Who Are We? The Challenge to America’s National Identity (New York: Simon and Schuster, 2004), pp. 264ff.

2. Francis Parker Yockey, The Enemy of Europe (Reedy, W.V,: Liberty Bell Publications, 1981). In this same period, a related argument can be found in the works of Maurice Bardèche, Julius Evola, Otto Strasser, and, later, Jean Thiriart.

3. For example: Claudio Finzi, “‘Europe’ et ‘Occident’: Deux concepts antagonistes,” Vouloir (May 1994); Guillaume Faye, Le système à tuer les peuples (Paris: Copernic, 1981).

4. For example, Robert de Herte (Alain de Benoist) et Hans-Jürgen Nigra (Giorgio Locchi), “Il était une fois l’Amérique,” Nouvelle Ecole 27–28 (Fall 1975); Robert Steuckers, “La menace culturelle américaine” (January 16, 1990), http://foster.20megsfree.com [2]; Reinhard Oberlercher, “Wesen und Verfall Amerikas” (n.d.), http://www.deutsches-kolleg.org [3]

5. Francis Parker Yockey, “The Destiny of America” (1955), http://www.counter-currents.com/2011/06/the-destiny-of-america/ [4]

7. Emmanuel Todd, Après l’empire: Essai sur la décomposition du système américain (Paris: Gallimard, 2002); Charles A. Kupchan, The End of the American Era: U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the 21st Century (New York: Knopf, 2002).

8 Henri de Grossouvre, Paris-Berlin-Moscou: La voie de l’indépendence et de la paix (Lausanne: L’Age d’Homme, 2002), p. 47.

9 Carl Schmitt, The Concept of the Political, tr. by G. Schwab (Chicago: University of Chicago Press, 1996), p. 53.

10 Robert Went, “Globalization: Can Europe Make a Difference?,” EAEPE 2003 conference paper, http://eaepe.infomics.nl/papers/Went.pdf [6]

11. Louis Vinteuil, “Discours sur l’Europe” (July 20, 2004), http://www.voxnr.com

12. Pierre-Marie Gallois, Le consentement fatal: L’Europe face aux Etats-Unis (Paris: Seuil, 2001).

13. In 1943, at the height of the Second World War, Pierre Drieu La Rochelle wrote: “The national era has come to an end and an age of [continental] empires is dawning.” See Révolution Nationale: Articles 1943–44 (Paris: L’Homme Libre, 2004), p. 7. Theoretically, the notion of a European Großraum was worked out in Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (Cologne: Greven Verlag, 1950); its most impressive programmatic formulation is Jean Thiriart, Un empire de 400 millions d’hommes: L’Europe (Brussels, 1964).

14. Jean Thiriart, For the European Nation-State (Paraparaumu, NZ: Renaissance Press Pamphlet,  n.d.).

15. Pauline Schnapper, La Grande Bretagne et l’Europe: Le grand malentendu (Paris: Eds. Presses de Sciences Po, 2000); Christian Schubert, Grossbritannien: Insel zwischen den Welten (Munich: Olzog, 2004).

16. Brigitte Sauzay, “L’Allemagne et la France: Quel avenir pour la coopération?” (n.d.), http://geogate.geographie.uni-marburg.de [7]

17. This treaty divided Charlemagne’s empire, separating the Germanic tribes of the West from those of the East. In one respect, the fratricidal history of nineteenth and twentieth century nationalism was a history of this separation.

18. Blanine Milcent, “La ‘Françallemagne’ attendra,” L’Express, December 11, 2003.

19. Dieter Groh, Russland und das Selbstverständis Europas (Neuwied: Luchterhand Verlag, 1961). Also see Georges Nivat, Russie-Europe: La fin du schisme (Lausanne: L’Age d’Homme, 1993); Andreas-Renatus Hartmann, “Die neue Nachbarschaftspolitik der Europäischen Union” (April 16, 2004), http://www.boschlektoren.de [8]

20. Klaus Thörner, “Das deutsche Spiel mit Russland” (February 2003), http://www.diploweb.com

21. Nikolai von Kreitor, “Russia and the New World Order” (1996). Published years before the Iraq war, Kreitor’s article is perhaps the single most important analysis to have been made of the international situation leading up to the war. My views here are much indebted to it.

22. Wladimir Putin, “Russland glaubt an die große Zukunft der Partnerschaft mit Deutschland,” Die Zeit (April 10, 2002).

23. Alexander Rahr, “Ist Putin der ‘Deutsche’ im Kreml?” (September 2002), http://www.weltpolitik.com [9]

24. Jacques Sapir, “Russia, Yukos, and the Elections” (February 2004), worldoil.com ; “Poutine restaure l’Etat: Un entretien avec Jacques Sapir,” Politis 774 (November 6, 2002); Wolfgang Strauss, “Putin oder Chodorkowski: 14. März, eine Niederlage Amerikas” (March 29, 2004), http://staatsbriefe.de [10]

25. One sign of this capacity is the fact that in 2003, Russia became the world’s number one arms exporter. See P. Schleiter, “Defense, securité, relations internationales” (April 25, 2004), http://www.polemia.com [11]; also Yevgeny Bendersky, “Keep a Watchful Eye on Russia’s Military Technology” (July 21, 2004), http://www.pinr.com [12]

26. The notion of a possible northern imperium of white men is taken from Guillaume Faye, Le coup d’Etat mondial: Essai sur le Nouvel Impérialisme Américain (Paris: L’Æncre, 2004), pp. 183ff. On the myth of the Boreans (or Hyperboreans), see Jean Mabire, Thulé: Le soleil retrouvé des hyperboréens (Lyon: Irminsul, n.d.).

Boreas Rising:
White Nationalism & the Geopolitics of the Paris-Berlin-Moscow Axis, Part 2

A Defensive Alignment

The Paris-Berlin-Moscow axis arose in reaction to the Second American War on Iraq. It needs thus to be understood in the context of that war, which the Bush administration treated as the second phase of its war on terror, the first being the invasion of Afghanistan and the assault on the Taliban regime harboring bin Laden’s al-Qa’ida (both of which, incidentally, were, via the CIA and Pakistan’s ISI, made in the USA).[1] However much it resembled the Anglo-Afghan and Russo-Afghan wars of the nineteenth century, the American assault on Afghanistan did not provoke the kind of opposition that Iraq would, for there was still enormous sympathy for the US after “9/11.” “Victory,” moreover, came quickly, as it had for all former conquerors. The Taliban were chased from Kabul and the warring tribes associated with the US-supported Northern Alliance, which did most of the fighting on the ground, soon gained control of the countryside. While Afghanistan has since reverted to a pre-state form of regional, tribal rule (ideal for narco-terrorists) and most al-Qa’ida fighters succeeded in dispersing, the Bush administration was nevertheless able to broadcast publicly satisfying TV images of swift, forceful action.[2]

Buoyed up by the nearly effortless rout of the medieval Taliban, Bush adopted the policies recommended by his neoconservative advisers,[3] whose neo-Jacobin assertion of American power not only has nothing to do with fighting Islamic terrorism, but cloaks a Judeo-liberal vision of global domination which threatens to turn the entire Middle East into something akin to Israel’s occupation of the West Bank. Key to their vision is Iraq, whose threat to Israel has been repackaged by such Jewish propaganda mills as the Project for the New American Century as a threat to US security. Besides promoting a peculiar blend of liberal statist and Zionist strategic concerns that represents a turn (not a break) in US foreign policy, the Krauthammers, Wolfowitzes, and other sickly neocon types advising the administration seek to “Sharonize” Washington’s strategic culture. To this end, military force is designated the option of choice, and a moralistic Manichaeanism which pits the US and Israel against the world’s alleged evils is used to legitimate the most dishonorable policies.[4] As the former wastrel of the Bush dynasty signed on to this Likud-inspired agenda, he began making a case for extending his antiterror crusade to Mesopotamia. Iraq’s “Hitler-like tyrant,” he claimed, had links with al-Qa’ida and weapons of mass destruction (WMD) capable of reaching the United States.

While America’s TV-besotted masses had little difficulty swallowing his unsubstantiated argument, the rest of the world balked.[5] At this point in early 2002, the two shores of the Atlantic began pulling apart. German chancellor Gerhard Schröder was the first major European figure to oppose Bush’s war plans. He was soon joined by French president Jacques Chirac. In July 2002 they issued a joint declaration formally rejecting the US proposal, stating that the UN’s embargo and its inspectors were doing their job and that the proposed attack would only distract from the “real war on terror.” By September, Russia (whose economic situation required the good graces of Washington) hinted that it too would veto a UN resolution sanctioning war. Then, on February 10, 2003, Putin joined Chirac and Schröder in issuing a declaration condemning what one senior US intelligence officer later called “an avaricious, premeditated, unprovoked war against a foe who posed no immediate threat.”[6]

The Paris-Berlin-Moscow axis thus originated as a temporary coalition organized around a single point of agreement. Convinced that Bush had failed to make his case for war, the French, Germans, and Russians thought the evidence for al-Qa’ida links and WMD was unconvincing (we know now, by the government’s own admissions, that it was a tissue of lies, distortions, and manipulations).[7] Their coalition was nevertheless more than a response to a momentary disturbance in the world system. As one high-level Russian analyst characterized it, the coalition was a “rebellion against a unilateral America unwilling to accommodate European interests.”[8] As such, it announced a possible geopolitical power shift from the Atlantic to Eurasia.

Globalism at Gunpoint

Since the Cold War’s end, international relations have undergone changes as fundamental as those following the world-historical realignment of 1945.[9] The neoconservatives influencing Bush, in their preemptive crusade for what is tendentiously labeled “global democracy,” have been anxious to take advantage of these “shifting tectonic plates in international politics . . . before they harden again.”[10] As Robert Kagan and William Kristol, two of the chief neocon publicists, argue: There is a danger today that an unassertive US will lose control of the world order it created in 1945. Beginning with the fall of the Soviet Union, when the field was cleared of possible rivals, they believe the US should have consolidated its “benevolent hegemony,” turning the unipolar moment into the unipolar era. Instead, George I and Clinton allegedly failed to exploit the moment, further ensnaring the US in multilateral relations that compromised its power and interests.[11]

Against this trend, the Bush administration has carried out what some characterize as a “revolution in foreign policy.” Without abandoning Washington’s objective of developing a global market system based on American-style liberal-democratic principles, it now employs hegemonist methods, codified in the new Bush Doctrine, that change the way the US asserts its power abroad.[12] In this vein, the administration dismisses international laws and institutions, as it asseverates America’s unilateral right to alter the world system however it wishes, including attacking and overthrowing states deemed a threat to its security. Traditional strategies of deterrence and containment have consequently been supplanted by a proactive policy of prevention and preemption, just as ad hoc coalitions are given precedence over established alliances and collective security arrangements, regime change over negotiations with “failed” states, and ideological goals over previous notions of the national interest.[13]

The entire tenor of American power has thus altered, but against those who claim Bush has abandoned the core assumptions of the liberal internationalist tradition, the conservative Andrew J. Bacevich points out that his foreign policy innovations are largely methodological in character. For the past half century, no matter which party occupied the White House, US policy has pursued a single overarching goal: “global openness”—as in Hay’s “Open Door” imperialism—which promotes the movement of goods, peoples, and fashions into and out of world markets for the sake of US capitalist concerns.[14] Moreover, in assuming responsibility for this integrated international trading system—this “empire”—the US wins the right not only “to sell Big Macs and Disney products round the world,” but to govern the system itself.

While Bacevich’s argument is an excellent foil to those seeking to portray Bush as a revolutionary—somehow different from the Democrats who have manipulated the United States into most of the 20th century wars and played a leading role in semantically transforming “democracy” and “human rights” into the totalitarian double-speak of the NWO—Bacevich nevertheless ignores the different ways in which the two parties implement their liberal internationalist principles. Republicans, especially since Reagan, are inclined to see the growth of US national power as the precondition for sustaining their imperial system, while Democrats look to the universalization and institutionalization of their liberal principles. This disposes Republicans to a unipolar model of liberal internationalism based on military supremacy, unlike Democrats, who favor a world-government model emphasizing the economic facets of globalization and the need for international regulation. (Lately, though, the Democratic world-government types, if such influential liberal internationalists as those associated with Richard Haas of the Council on Foreign Relations and Helmut Sonnenfeldt of the Brookings Institution are any guide, seem increasingly disposed to the unipolar model; John Kerry’s neocon cloning of Bush’s foreign policy also suggests a shift toward the Republican vision.) But whether pursued by Republicans or Democrats, this liberal internationalist agenda, with its emphasis on the antitraditional and anti-Aryan forces of free trade, free markets, and open societies, has been a bane to white people everywhere—for it wars against “the fundamental value of blood and race as creators of true civilization.”[15]

In pressing into areas which were off-limits during the Cold War, Washington’s imperial market system has become increasingly aggressive. Under Clinton, the Weinberger/Powell Doctrine of avoiding military engagements unless absolutely necessary was discarded, as the “unipolar moment” ushered in by the Soviet collapse was treated as a blank check for “intervening practically wherever and whenever it chose.” In this spirit, Clinton’s Secretary of State contemplated invading Iraq and disparaged the principle of national sovereignty. Her distinction between war and the use of military force has since reoriented US policy, as military interventions overseas cease being labeled wars and become armed forms of “humanitarianism.”[16] Finally, the Clinton Doctrine of Enlargement, in championing the worldwide spread of US-style democracy and free markets (that is, the globalist assault on national identity and national institutions), privileged unilateralism (rechristened “assertive multilateralism”) over containment and disarmament.[17]

Although he avoided Bush’s swaggering brand of leadership, Clinton was only slightly less coercive in promoting the totalitarian ideology of openness.[18] It is hardly irrelevant that Iraq was bombed nearly every day of his administration, that Bosnia was turned into a US military protectorate, and that unilateral military action, in one of the great “war crimes” of the 20th century, was taken against Serbia. Though smaller in scale than Operation Iraqi Freedom, the terrorist air assault on this proud little country (whose historical role was the defense of the white borderlands) aimed at “spreading democracy” for the sake of openness. Symptomatic of the “openness” Washington favors, the Albanian Liberation Front (UCK), an Islamic, drug-smuggling, terrorist mafia with links to al-Qa’ida, was armed and trained by Clinton’s government and a quarter million Christian Serbs, whose nationalist aspirations represented an affront to the New World Order, were ethnically cleansed from Kosovo.[19] These interventions by the Clintonistas also played a leading role in destabilizing the international state system, giving rise to new stateless groups whose megaterrorism is historically unprecedented. The horror of 9/11 and the unfathomable massacre of Russian children at Beslan, not to mention numerous lesser affronts to our humanity, have roots in Clinton’s Yugoslavian intervention. Bush has simply accelerated this process, which is nourishing new, more nihilistic forms of terrorism.[20]

Although he came into office complaining of Clinton’s immodest foreign policy, Bush II has actually gone further, introducing methods which removed the existing restraints on Washington’s use of military force and whatever reservation it might have in violating national sovereignty.[21] Like Clinton, he is a man beholden to alien and dishonorable interests, and inspired by a juvenile notion of power. His “faith-based foreign policy,” like the alley-cat policies of his predecessor, privileges the liberalization of global trade relations, imposes the cosmopolitan imperatives of his corporate supporters on virtually every issue pertinent to the nation’s biocultural welfare, rejects the American tradition of “isolationism,” and runs roughshod over whoever resists an order hostile to ethnocultural particularisms (unless they take innocuous folkloric forms). He might differ with Clinton in favoring a missile defense system, a different approach to China, and a Likudnik rather than a Laborite Zionism, but he is no less committed to a global system of market democracies “open to trade and investment, and policed by the United States.” As one Marxist puts it: “Playboy Clinton, Cowboy Bush, same policy.”[22] With his “Judeo-Protestant” rhetoric of American exceptionalism and his willingness to remove the velvet glove from America’s mailed fist, Bush’s “jackbooted Wilsonianism” differs from that of his predecessor mainly in linking economic globalization to “military modernization.”

As the neoconservatives Thomas Barnett and Henry Gaffney argue, the Bush Doctrine ought to be viewed as a necessary complement to the globalizing process. They claim that before 9/11 globalization (which much of the world identifies with Americanization) was mainly economic, thought best left to business. The collapse of the Twin Towers has since (allegedly) triggered a more serious reflection on America’s role as globalism’s “system administrator.” In their view, bin Laden’s al-Qa’ida, Saddam Hussein’s Iraq, and all the “rogue states”—Bush’s “axis of evil”—act as “dangerous disconnects” from a world based on interdependence and a single framework of economic governance. (Although they refrain from taking their argument to its logical conclusion, globalization here is inadvertently revealed as the harbinger of global terror.)[23] Faced with these threats to its one-world system, the market not only needs to be policed, the US has a responsibility to maintain its harmonious functioning. Bush’s unilateralist use of force, in applying military power whenever violent “disconnects” interrupt the international flow of labor, raw materials, and energy, Barnett and Gaffney argue, aims at ensuring the security and operability of the globalizing process.[24] But what they do not mention is that once economic globalization is joined with “military globalization,” the globalizing process is not so much ensured as altered, becoming less a neutral extension of economic trends (not that it ever was simply that) and more a classic expression of imperial power. In Iraq, for instance, the American army had no sooner occupied Baghdad than its neoconservative viceroy, Paul Bremer, began to dismantle the Iraqi state, privatize the economy, open the borders to unrestricted imports (unless they came from France or Germany), and, within two weeks of his arrival, had declared that Iraq was “now open for business.”[25]

September 11, then, did not change the long-range goal of US foreign policy (global openness), only the way in which it was pursued. The restraints on military force, already compromised under Clinton, were formally thrown off and a proactive doctrine of preemption superseded the more reactive methods of containment and disarmament. At the same time, Clinton’s human rights rhetoric and “humanitarian” militarism were jettisoned for the bellicose language of “strategic vital interests” and “imperial responsibilities.” It would be misleading, however, to think the transatlantic rift was due solely to Bush’s militaristic assertion of US global interests. Long before 9/11, real policy differences had begun to emerge: over trade; agriculture; armament exports; relations with Cuba, Iran, and Korea; the Palestinian-Israeli conflict; the Echelon economic espionage system monitoring European faxes, e-mails, and phone calls; the Kyoto Protocol; globalization; the abrogation of the ABM treaty; the euro and the dollar, etc. All these differences, in one way or another, reflected Europe’s unwillingness to remain a pawn on Washington’s global chessboard.[26] In the year leading up to Iraq, as Europe sought to check Bush’s unilateralist moves, the transatlantic relationship went into crisis, forcing France and Germany to assert their autonomy sooner than they might otherwise have intended.[27]

Notes

 

1. Alexandre del Valle, Islamisme et Etats-Unis: Une alliance contre l’Europe (Laussanne: L’Age d’Homme, 1999).

2. Justin Raimondo, “Afghanistan: The Forgotten War” (June 21, 2004), http://antiwar.com; Elaine Sciolino, “NATO Chief Offers Bleak Analysis,” New York Times, July 3, 2004.

3. Louis R. Browning, “Bioculture: A New Perspective for the Evolution of Western Populations,” The Occidental Quarterly 4(1) (Spring 2004).

4. There is still no satisfactory treatment of neocon foreign policy. One of the better recent ones, although highly flawed, especially in ignoring its Jewish roots, is Stefan Halper and Jonathan Clarke, America Alone: Neo-Conservativism and the Global Order (Cambridge: Cambridge University Press, 2004). On neoconservatism’s racial basis, see Kevin MacDonald, “Understanding Jewish Influence III: Neoconservatism As a Jewish Movement,” The Occidental Quarterly 4(2) (Summer 2004). The previous, and in many ways, still existing strategic basis of U.S. policy is perhaps best represented by Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives (New York: Basic Books, 1997). On the larger historical contours of U.S. foreign policy, see Walter A. McDougall, Promised Land, Crusader State: The American Encounter with the World since 1776 (New York: Houghton Mifflin, 1997).

5. John Le Carré, “The United States Has Gone Completely Mad,” London Times, January 15, 2003. With some irony, one Russian general, Leonid Ivashov, characterized the U.S. media coverage of the war debate (and not simply that of Fox News) as something one might expect in a “police state.” See Johannes Voswinkel, “Schmallippig im Kreml,” Die Zeit (15/2003). For one of the more interesting critiques of the controlled media’s role in mobilizing the population behind Bush’s crusade, see David Miller, “Caught in the Matrix” (April 26, 2004), http://www.scoop.co.nz [2]

6. The anonymous author of Imperial Hubris (2004), quoted in Julian Borgen, “Bush Told He Is Playing into Bin Laden’s Hands,” The Guardian, June 19, 2004.

7. Andrew Buncombe, “Carter Savages Bush and Blair,” The Independent, March 27, 2004; David Corn, The Lies of George W. Bush (New York: Three Rivers Press, 2004); F.-B. Huyghe, “Pour en finir avec les ADM” (February 2004), http://vigirak.com [3]; the Carnegie Endowment for International Peace, “WMD in Iraq” (January 2004), http://www.ceip.org [4]

8. Viatcheslav Dachitchev, “La Turkie doit-elle faire partie de l’Europe?” (July 8, 2004), http://www.voxnr.com [5]

9. Gabriel Kolko, “The U.S. Must Be Contained: The Coming Elections and the Future of American Global Power” (March 12, 2004), http://www.counterpunch.org [6]; Robert L. Hutchins, “The World after Iraq” (April 8, 2003), http://www.cia.gov

10. Norm Dixon, “What’s behind War on Terrorism? (September 2002), www.globalresearch.ca [7]

11. Robert Kagan and William Kristol, “The Present Danger,” The National Interest 59 (Spring 2000).

12. The Bush Doctrine was elaborated in three key documents, which can be accessed at http://www.whitehouse.gov [8].  They are: “Presidential Speech of 17 September 2001,” “President Bush Delivers Graduation Speech at West Point” (June 1, 2002), “The National Security Strategy of the United States of America” (September 2002).

13. François Géré, “La nouvelle stratégie des Etats-Unis” (May 2002), http://www.diploweb.com [9]; Ivo H. Daalder and John M. Lindsay, America Unbound: The Bush Revolution in Foreign Policy (Washington: Brookings Institution Press, 2003), p. 13; Chalmers Johnson, “Sorrows of Empire” (November 2003), http://www.fpif.org [10]

14. Andrew J. Bacevich, American Empire: The Realities and Consequences of U.S. Diplomacy (Cambridge: Harvard University Press, 2002).

15. Julius Evola, Three Aspects of the Jewish Problem (N.P.: Thomkins & Cariou, 2003), p. 36.

16. Thomas W. Lippman, Madeleine Albright and the New American Diplomacy (Boulder: Westview Press, 2004). In his treatment of the subject, James Mann suggests (correctly, in my view) that the move to military assertiveness begins, haphazardly, with George I. See Rise of the Vulcans: The History of Bush’s War Cabinet (New York: Viking, 2004), pp. 179–97.

17. Phillipe Grasset, “Finalement, Clinton sera-t-il réélu?” (June 25, 2004), http://www.dedefensa.org [11]

18. Nikolai von Kreitor, “American Political Theology” (n.d.), http://foster.20megsfree.com [12]; Mann, Rise of the Vulcans, pp. 214–15.

19. Michael A. Weinstein, “Containment or Concessions: The Eclipse of Regime Change” (June 28, 2004), http://www.yellowtimes.org [13]; Hunt Tooley, “The Bipartisan War Machine” (September 17, 2003), http://www.mises.org [14]; Pierre M. Gallois, La sang du pêtrole: Bosnie (Lausanne: L’Age d’Homme, 1996).

20. Brendan O’Neill, “Beslan: The Real International Connection” (8 September 2004), http://www.spiked-online.com [15]; David Halberstam, War in a Time of Peace: Bush, Clinton and the Generals (New York: Scribner, 2001).

21. Bacevich, American Empire, p. 199; Daalder and Lindsay, America Unbound, pp. 36–40.

22. Samir Amin, “Le contrôle militaire de la planète” (February 17, 2003), http://www.alternatives.ca [16]

23. “Globalization inevitably generates global terror. For if the U.S. claims the entire planet as its sphere of vital interests, then all the territory of the U.S. becomes a possible sphere of vital interests for global terrorists.” See Alexander Dugin, “Premiers signes de l’apocalypse” (October 18, 2004), http://www.voxnr.com [17]

24. Thomas Barnett and Henry Gaffney, “Operation Iraqi Freedom Could Be the First Step toward a Larger Goal: True Globalization,” Military Officer 1(5) (May 2003); also Thomas Barnett, The Pentagon’s New Map: War and Peace in the 21st Century (New York: Putnam, 2004). Cf. Alain Joxe, “Les enjeux stratégiques globaux après la guerre d’Iraq” (May 27, 2003), http:www.ehess.fr [17]

25. Naomi Klein, “Baghdad Year Zero: Pillaging Iraq in Pursuit of a Neocon Utopia,” Harper’s Bazaar (September 2004).

26. Charles A. Kupchan, “The End of the West,” The Atlantic Monthly (November 2002).

27. Europe’s growing alienation from the U.S. is thus not just about the latter’s unilateralist bullying. In addition to the above cited issues, it also touches on the drug-running, mafia, terrorist, and espionage networks that the U.S. operates in Europe. For example, see Rémi Kaufer, L’arme de la désinformation: Les multinationales américains en guerre contre l’Europe (Paris: Grasset, 1999); Xavier Rauffer, Le grand réveil des mafias (Paris: Lattés, 2003); Karl Richter, Tödliche Bedrohung USA: Waffen und Szenarien der globalen Herrschaft (Tübingen: Hohenrain Verlag, 2004); Alexander del Valle, Guerres contre l’Europe (Paris: Syrtes, 2001); Robert Steuckers, “Espionage par satellites, guerre cognitive, manipulation par les mafias” (November 2003), http://www.centrostudaruna.it; Thierry Meyssen, “Propagande états-unien” (January 2, 2003), http://www.reseauvoltaire.net [18]

Boreas Rising:
White Nationalism & the Geopolitics of the Paris-Berlin-Moscow Axis, Part 3

A Promising Rapprochement

In the last instance, the US-European rift of 2002–2003 followed from the Cold War’s end, which destroyed the rationale for the transatlantic alliance and hence the restraints on European autonomy. For without the Red Army on the Elbe, Europe was no longer obliged to take orders from the West Wing. Because NATO has outlived its usefulness and Bush’s unipolar security system made no accommodation to Europe’s post-Cold War status, the more self-confident Europeans have begun to distance themselves from Washington.

However headline-capturing, their modest assertion of autonomy has nevertheless been carried out in ways that are thoroughly inadequate to Europe’s independence, based as they are on principles of jurisprudence and ethics, rather than on more consequential forms of power. In Robert Kagan’s now famous characterization, Europeans are from Venus and Americans from Mars, with the former acting as if the world were governed by abstract Kantian principles, ignorant of or unwilling to acknowledge the violent Hobbesian reality which Americans, especially after 9/11, have been forced to confront.[1] In other words, Europeans look to negotiations, diplomacy, and international law to resolve international disputes, while Americans emphasize the importance of military force. These differing “perspectives and psychologies of power,” the anti-white Kagan suggests, explain something of what divides the two shores of the Atlantic.[2] But perhaps more debilitating than Europe’s “Kantianism” (which will not last) is the fact that its increasingly autonomous foreign policy is less an expression of its political identity (although it is that) than a symptom of its liberal evasion of what such an identity ought to entail.

In France, for instance, which is the sole continental country to have defended the European idea in the last half century, as well as maintained a nuclear arsenal and professional army worthy of a “power,” opposition to US unilateralism has been framed largely in liberal internationalist terms that draw attention away from the state’s failed domestic policies. Since De Gaulle’s death, France has been in decline. The population is aging, millions of inassimilable Muslim immigrants are colonizing its lands, and virtually all the major institutions are in need of reform. Having eyes only for the “poor immigrant,” the metastasizing state bureaucracy imposes unrealistic social laws that hamper production and serve as a force for national decline. At the same time, the historical sources of nationalism have been dissolved, the native French dispirited by the institutionalization of multiculturalism, and the country’s extraordinary military and diplomatic apparatus, the necessary basis of both French and European power, if not neglected, then underfunded.[3] The hoopla that comes with France’s resistance to Bush simply focuses attention away from these failures and toward geopolitical developments that are potentially key to Europe’s future, but whose import is limited by the state’s misconceived domestic policies. As Julius Evola puts it: “The measure of freedom is power.”[4] And because Europeans are now uncomfortable with the exercise of power, their freedom is necessarily limited.

It is worth recalling that Jacques Chirac was responsible for the totalitarian mobilization against the presidential candidacy of the nationalist Jean Marie Le Pen in 2002.[5] Like much of the European governing class, he is a product of the same plutocratic system that subordinates national interests to international finance, indifferent to everything associated with his people’s blood and soil.[6] Such a system, as our own experiences reveal, is incapable of producing anything other than mediocrities. In this spirit, Chirac’s opposition to Washington’s unipolar order orients to a multipolar model based on liberal market principles hostile to Europe’s unique bioculture. As Guillaume Faye points out, Chirac’s opposition to the Iraq war was motivated less by his Gaullist nationalism (which he routinely betrays) than by his pacifist and Third World politics.[7] With the 2007 presidential elections in view, his foreign policy seems, in fact, aimed at the new Muslim electorate, which thrives on his anti-American, Third World, and multilateralist posturing.[8]

Faye also claims that American power is ultimately a reflex of Europe’s refusal of power.[9] Like many commentators, he stresses that US power in this period is greatly exaggerated and goes unchecked mainly for want of challengers. Revealingly, Chirac has, for all his opposition to Bush, done little to rearm Europe and what he does do he does for the worst of reasons, neglecting Grande Europe in the name of a legalistic idealism that contradicts the biocultural foundations of European life. Rather than fixating on the illegalities and incivilities of American unilateralism (which has proven to be a paper tiger in Iraq), he and other establishment leaders would make a greater contribution to Europe’s destiny if they devoted more attention to its military, restored the basis of its national identity, and addressed the real dangers coming from the South. Worse, they wholeheartedly subscribe to the American model of ethnopluralism, communitarianism, and multiculturalism. Just as US leaders think nothing of sending troops halfway around the world to fight a war whose immediate beneficiary is Israel, ignoring the more serious security threat posed by the Third World’s incessant assaults on the country’s southern border, European elites (and the demonstrators massed behind them) trumpet their solidarity with the Islamic Middle East, whose immigrants are presently rending the fabric of European life. There are good reasons for opposing Bush’s war, but the liberal ones motivating Chirac cannot but come back to haunt the continent.

Germany’s relationship with the US is significantly different than France’s, but no less infused with noxious anti-identitarian influences. Germany was virtually remade by the Americans after 1945 and throughout the Cold War remained subservient to them. Yet Germany is slowly beginning to throw off her tutelage. Schröder nevertheless adheres to values and policies that qualify as examples of Kagan’s Kantianism (i.e., pure liberalism). More than Chirac, he upholds Washington’s earlier liberal internationalism, criticizing Bush for violating its principles.[10] (As one journalist for the Süddeutsche Zeitung writes: “We [Germans] owe a great debt to the US for contributing to our transformation into truly democratic citizens after World War II. . . . They [Americans] must forgive us if we have difficulty letting go some of the lessons we have learned.”)[11] It was thus his pacifism—his Social Democratic opposition to power per se—rather than any geopolitical ambition for a powerful Europe that seems to have prompted his opposition to the Iraq war.[12] And in this, alas, he resembles much of the German population, which prefers bourgeois comforts to those virtues that made earlier generations great. Finally, Schröder, like Chirac, supports Turkey’s admission to the EU and panders to the new “German Turk” electorate. He might therefore have been the first German chancellor since Hitler to frontally oppose Washington, but he has no intention of letting the old anti-liberal dream of white renaissance out of the bag.[13]

Despite the mediocre stature of these politicians, which makes them ill-suited to the great tasks at hand, I would argue that the “force of things”—the realities of power and the dictates of survival—is greater than those charged with carrying them out.[14] This seems especially evident in Europe’s rapprochement with Russia. For as France and Germany become increasingly alienated from the US, they lean eastward—even though French and German elites have much more in common with their American than their Russian counterparts.[15]

A rapprochement between the three great European peoples promises great things. As Karl Haushofer once said: “The day when Germans, Frenchmen, and Russians unite will be the last day of Anglo-Saxon [i.e., liberal] hegemony.”[16] Bush—and this is why his administration seems destined to achieve world-historical significance—has brought about what a century of US geostrategists have sought to prevent. Conversely, it is hardly coincidental that even at the Cold War’s height, a wing of the French military looked to Russia as a possible ally. In 1955, the prominent geostrategist, Admiral Raoul Castex, published an article titled “Moscou, rempart de l’Occident?” (Moscow, rampart of the West?), in which he wondered if Russia might not one day become “the vanguard of the white world’s defense.”[17] Today, in a period when Grande Europe—from Dublin to Vladivostok—is at peace, white nationalists in Europe and America again pose Castex’s question and again affirm the possibility that Russia has a leading role to play in the white race’s defense. Indeed, the question now possesses a qualitatively greater weight than it did a half century ago, before the Third World hordes, abetted by the West’s liberal elites, began their colonization of our lands. Russia, moreover, is not just the last white nation on earth, but the only one to have shown the slightest interest in defending its ethnoracial identity. (Our russophobic nationalists might be reminded that the former Soviet Union was the sole white power to define nationality racially.) Its heritage of nationalism, socialism, and anti-liberalism also lends it something of that “Prussian socialism” which Spengler and Yockey saw as the one viable antidote to Western liberalism.[18] In courting Russian support in their conflict with the US, French and German elites might think Putin will be converted to their misconceived Kantianism, but in the great racial-civilizational battles that lie ahead, it is far more likely that Russia’s ethnonationalism will prevail.[19]

America’s Future

Since the rise to world power of the United States, white America has been in decline. For most of the twentieth century, but especially since the end of the Second World War, the country’s overlords have taken one step after another to de-Europeanize its white population. To this end, white culture and identity have been socially re-engineered. White communities, schools, and businesses have been forced to integrate with races previously considered inferior and inimical. And, for the last 40 years, whites have been expected to replace themselves with Third World immigrants. As the biocultural identity of white Americans gives way to a universal, transnational, and global one (the ideological analogue of the New World Order), they are further alienated from who they are.[20] Against this de-Europeanization and the postnational, multiracial regime succeeding it, the small, isolated pockets of white resistance confront a seemingly impossible task—similar to the one King Canute faced when he tried to hold back the ocean tide. Because of this, I would argue that only a catastrophe will save white America. Only a catastrophic collapse of the political, institutional, and cultural systems associated with imperial America—call it the managerial state, liberal democracy, corporate capitalism, the NWO, or whatever label you prefer—holds out any possibility that a small, racially conscious vanguard of white Americans will succeed in defending their people’s existence.[21] With the Iraq war, Bush—”this Buster Keaton of the apocalypse”—has opened a Pandora’s box of catastrophes. He, in fact, has done more to discredit, weaken, and vilify the existing systems of liberal subversion than any previous president, inadvertently creating conditions that should give white Americans another chance to regain control of their destiny. In this spirit, his administration acts as “a lightning rod for catastrophes.”  As one foreign observer notes: “The paradox of the present situation is that the worse the crisis becomes, the more Washington reinforces the position that evokes so much resistance.”[22] Indeed, his “war on terror creates more monsters than its destroys.”[23] Lacking the cognitive and normative tools to deal with a complex area like the Mideast, the president ends up managing the Iraqi occupation “by the seat of his pants.”[24] And as he does, the real dangers threatening the country are totally ignored: the dangers posed by the mestizo and Asiatic colonization of our lands, the growth of US Muslim communities, the denationalization of the economy and the looming fiscal crisis of the state, the Zionist domination of the political and information systems, the replacement of truth with propaganda and disinformation, the deculturation and miscegenation of our people, and the unrelenting assault on everything associated with the “freedoms” he allegedly defends in Mesopotamia. Instead of inaugurating a new era of unchallenged American power and enhancing national security, Bush seems set on preparing their demise.[25] Since the murderous terror of 9/11, his administration has shattered the myth of American military omnipotence, tarnished the country’s moral authority, alienated its allies, squandered its once formidable diplomatic powers, created the basis of an anti-US realignment, and undermined America’s image not only as a force for democracy and order, but as a secure economic haven. This latter tendency is now causing overseas investors to think twice about sending their capital to the US, which, combined with the ballooning expenses of the Iraq war, is hastening the dollar’s decline and the country’s economic deterioration. But more than undermining American power and prestige, the Bush administration has discredited the liberal civilizational model associated with the United States, provoking, in the process, a worldwide revulsion against the “American way of life.”[26]

The simple-minded, dishonorable, and raceless character of Bush’s government—riddled with Israeli spies and unsavory influence peddlers and premised on the belief that truth is irrelevant to its political calculus—seems to epitomize nothing so much as the debilitated state of our governing classes and their inability to serve as a nation-bearing stratum. That for the first time in American history Europe is not the focus of US strategic thinking, but rather Israel, should say it all.[27] It would be misleading, though, to think the failures at the highest level of state are simply the result of an unusually incompetent administration or its alien controllers. For even the “opposition” party produces candidates who are but variants of the reigning mediocrity.[28] This suggests that the system itself is bankrupt. Not coincidentally, the telltale signs of blockage, symptomatic of regimes heading toward the abyss (or “staying the course,” as George II says), appear now with increased frequency. The great bard of our decline, H. Millard, likens America to a runaway train. “The Israel firsters, neurotics, low IQ PTA types, political opportunists, easily susceptible dupes, genocidal blenders, party loyalists, war profiteers, and opportunists of various stripes” who are at the controls either have no idea of what they are doing or an unwillingness to profess it publicly.[29]

Contrary to the pipedreams of both our conservatives and liberals, there will be no going back.[30] Like the Soviet Union in the 1980s, the US has become bogged down in a protracted war at the very moment its economy is in steep decline. The slash-and-burn policies Bush has introduced will also be extremely difficult to retract, no matter who captures the White House in 2008. But even if there were a desire to retract them, the means are lacking. For example, in 1956, when Dwight Eisenhower warned France and England not to retake the Suez Canal, after Egypt nationalized it, he was able to threaten the stability of their national currencies. Today, the dollar is itself threatened.[31] For all the fabled shock and awe of US power in this period, the country is qualitatively weaker than it was a generation ago, when it was able to rein in the largest European empires. This erosion of its economic, diplomatic, moral, and even military power, combined with the near universal opposition to its increasingly unilateral and militaristic foreign policy, cannot but provoke a geopolitical realignment. The prospect of the Iraq war spreading to Iran and elsewhere will simply compound these destabilizing forces.[32] Increased conflict abroad, growing dissent at home, and deep division within the government itself are also likely to foster decisional paralysis, further exacerbating the crisis.

But however this crisis plays out, America and Europe seem set on a collision course.[33] Already wary of Washington, France and Germany (along with Spain, Belgium, and Italy, once Berlusconi goes) will eventually have no choice but to reposition themselves in opposition to it, for their strategic imperatives are increasingly at odds. This is certain to trigger new conflicts and new alignments, compelling Europeans to reaffirm their sovereignty—and their distinct strategic identity. As they do, their cooperation is bound to deepen and their nationalist consciousness to grow. At the same time, certain mentalities will be forced to change and certain taboos to fall, including the postmodern ones that leave Europe powerless. The collapse of the Cold War alliance system also throws open the strategic-political parameters of the international arena. The future, as a consequence, now holds out several possible alternatives. The Paris-Berlin-Moscow axis may still lack credibility, but this is probably less important than the effect it has had—and will continue to have—on the European spirit. It thus promises a possible renewal. The big question is whether or not Europeans have the will and acumen to realize it.

Fundamental to virtually all schools of geopolitical thought is the notion that the augmentation of power in one part of the world inevitably comes at the expense of another part. If the Paris-Berlin-Moscow axis continues to affect the continent and shift power out of the Atlanticist camp, this cannot but destabilize the United States, for without its omnipotent dollar and its domination of global markets, it will no longer be able to consume more than it produces, to live on credit, to afford the social-welfare measures that buy off the Africans and tame the Mexicans, to sustain the social-engineering schemes discriminating against the talents and energies of its white majority, to afford the police, the drugs, the TVs, and the computer toys that narcotize its cretinized masses. The institutionalization of such an axis is also likely to dislodge America’s dominant place in the world system, setting off economic disruptions that will make it impossible for whites to live in the old way, to lose themselves in vacuous material comforts, to accept the lies that fly in the face of reality. Once this point is reached, European-Americans will be forced to act like people elsewhere who are suddenly thrown into a do-or-die situation.[34]

Like the “American Century” Henry Luce announced in 1941, the “New American Century” of Washington’s current generation of schemers and chiselers promises an even greater holocaust of our people. The future they envisage might indeed be called the New Anti-White Century. For like the order issuing from their Second World War, the one planned for the period following Iraq will not serve white America, only the alien, plutocratic, and cosmopolitan interests aligned in the current Washington-London-Tel Aviv axis.

No one should be surprised, then, that when the inevitable collapse comes, white America’s front fighters will not mourn the eclipse of the so-called American Century, for they are nationalists not in the nineteenth century sense. They do not fight for the petty-statism of the so-called “nation-state”—which is now made up of peoples from many different nations. The American, German, and French states—none of these entities any longer represent the descendants of those who founded them. As Sam Francis puts it, “the state has become the enemy of the nation.”[35] And as a thousand years of European history demonstrate, whenever the state and the nation come into conflict, the latter inevitably proves the stronger. I think it is no exaggeration to claim that only on the ruins of the existing political order will white America be reborn—and reborn not as another constitutional “nation-state” which elevates abstract rights above biocultural imperatives, but as a northern imperium of white peoples who, as Bismarck exhorted, “think with their blood.”

Those who would dismiss the Paris-Berlin-Moscow axis as a temporary happenstance, a product of convenience, inflated with purely speculative significance, should be reminded that the 21st century will decide if white people have a future or not. From this perspective, collapse and realignment are necessities—and necessities have a way of engendering the imagination appropriate to them. For when the world’s population reaches ten billion, when China, India, and all Asia challenge the white man’s dominance, when the colored multitudes crossing our borders are magnified by ten or a hundred, when oil is depleted and raw materials are used up, when all the forests have been cut down and all the cultivable lands claimed, and—hopefully—when the Paris-Berlin-Moscow axis has established an alternative realm of white existence, the ensuing chaos cannot but sunder whatever misbegotten allegiance white Americans have had to the present system. Then, in alliance with their kinsmen in Europe and Russia, they—if they are to survive as a people—will have no choice but to accept that they are made not in the multihued images of a deracinated humanity, but in that of the luminous Boreans, whose destiny opposes the darkening forces of Bush’s America.

Let us prepare for the coming collapse.

Notes

1. Robert Kagan, Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order (New York: Knopf, 2003), p. 3. Actually, the unreferenced metaphor originates with Denis MacShane, “Europe and America Need Each Other More Than Ever,” http://www.post-gazette.com [2]

2. Kagan, Of Paradise and Power, p. 28.

3. Guillaume Faye, La colonisation de l’Europe: Discours vrai sur l’immigration et l’Islam (Paris: L’Æncre, 2000); Nicolas Baverez, La France qui tombe (Paris: Perrin, 2004).

4. Julius Evola, Imperialismo pagano: Il fascismo dinanzi al pericolo euro-cristiano (Padua: Ar, 1996), p. 45.

5. Yves Daoudal, Le tour infernal: 21 avril–5 mai (Paris: Godefroy de Bouillon, 2003).

6. Yves-Marie Laulan, Jacques Chirac et le déclin français 1974–2002 (Paris: François-Xavier de Guilbert, 2001); Emmanuel Ratier, Le vrai visage de Jacques Chirac (Paris: Facta, 1995).

7. Faye, Le coup d’Etat mondial, p. 113.

8. Omer Taspinar, “Europe’s Muslim Streets,” Foreign Policy (MarchApril 2003).

9. As Schröder says: “Es gibt nicht zu viel Amerika, es gibt zu wenig Europa.” See “Die Krise, die Europa eint: Ein Gespräch mit Gerhard Schröder,” Die Zeit (14/2003). Cf. Philippe Grasset, “Le dilemme stratégique des U.S.A: Sa faiblesse militaire” (June 15, 2004), http://www.dedefensa.org

10. Günter Maschke, “Vereinigte Staaten sind die Macht der Unordnung,” Deutsche Stimme (June 2003).

11. Quoted in Richard Lambert, “Misunderstanding Each Other,” Foreign Affairs (March–April 2003).

12. Alexander Rar, “Europa ist Zerspaltet” (December 15, 2003), http://evrazia.org [3]

13. Edouard Husson, “Crise allemande, crise européenne?” (March 2003), http://www.diploweb.com [4]

14. As Joseph de Maistre said of the revolutionaries of 1789: “Ce ne sont point les hommes qui mènent la révolution, c’est la révolution qui emploie les hommes.” See Considérations sur la France (Lyon: Vitte, 1924), p. 7.

15. Maja Heidenreich, “Europa und Russland: Eine rückblickende und analysierende Darstellung” (n.d.), http://www.boschlektoren.de/ [5]

16. Quoted in Sacha Papovic, “De la dialectique géopolitique” (August 2003), http://www.voxnr.com.

17. Cited in “Russie-France-Allemagne” ( n.d.), http://www.paris-berlin-moscou.org [6]

18. Oswald Spengler, Preussentum und Sozialismus (Munich: Beck, 1919); K. R. Bolton, ed., Varange: The Life and Thoughts of Francis Parker Yockey (Paraparaumu, NZ: Renaissance Press, 1998), pp. 36–38. Also N. N. Alexeiev, “Raisons spirituelles de la civilisation eurasiste” (1998), http://www.voxnr.com [7]

19. W. Joseph Stoupe, “The Inevitability of a Eurasian Alliance” (August 17, 2004), http://atimes.com [8]

20. James Kurth, “The War and the West,” Orbis (Spring 2002).

21. Guillaume Faye, Avant-Guerre: Chronique d’un cataclysme annoncé (Paris: L’Æncre, 2002).

22. Philippe Grasset, “Comment Rumsfeld devient le garante de l’aventure irakienne” (May 11, 2004), http://www.dedefense.org [9]

23. François-Bernard Huyghe, Quatrième guerre mondiale: Faire mourir et faire croire (Paris: Rocher, 2004), p. 9.

24. D. Priest and T. E. Ricks, “Growing Pessimism on Iraq: Doubts Increase within U.S. Security Agencies,” The Washington Post, September 29, 2004.

25. Philippe Grasset, “La destruction méthodique de la puissance américaine” (September 27, 2004), http://www.dedefensa.org [10]; Guatam Adhikari, “The End of the Unipolar Myth,” International Herald Tribune, September 27, 2004.

26. Philippe Grasset, “Comment l’américainisme est en train d’apparaître pour ce qu’il est: un problème de civilisation” (September 1, 2004), http://www.dedefensa.org [10]

27. Brent Scowcroft, George I’s national security adviser, has publicly criticized George II for being “inordinately influenced by Israel’s Prime Minister Ariel Sharon. ‘Sharon just has him wrapped around his little finger’, Scowcroft said. ‘I think the president is mesmerized.’“ See “Key GOP Figure Raps Bush on Mideast,” San Francisco Chronicle, October 17, 2004.

28. Ehsan Ahari, “How Bush, Kerry Are One and the Same” (September 2, 2004), http://www.latimes.com [11]

29. H. Millard, “Ridin’ the Runaway Train Named America” (2004), http://www.newnation.org [12]

30. Françoise Vergniolle de Chantal, “Les débats américains sur la relations transatlantiques” (2004), http://robert-schuman.org [13]

31. Ian Williams, “Deterring the Empire” (May 13, 2003), http://www.alternet.org [14]

32. David Wood, “U.S. to Sell Precision-Guided Bombs to Israel” (September 23, 2004), http://www.newhousesnews.com [15]

33. Ian Black, “The Transatlantic Drift,” The Guardian, September 20, 2004; Philippe Grasset, “L’UE: Une stratégie de rupture avec l’Amérique” (September 20, 2004), http://www.dedefensa.org [10]

34. Faye, Avant-Guerre.

35. Sam Francis, “When the State Is the Enemy of the Nation” (July 19, 2004), http://www.vdare.com [16] This is not to say that the state is inherently the enemy of the nation—only that this is the case with the existing liberal state. On the difference between statism and nationalism, see Walker Connor, Ethnonationalism: The Quest for Understanding (Princeton: Princeton University Press, 1994).


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mardi, 30 août 2011

Türkei: Regierung unterrichtet NATO über Kriegsvorbereitungen

Türkei: Regierung unterrichtet NATO über Kriegsvorbereitungen

Udo Ulfkotte

Vor wenigen Monaten noch begründeten viele EU-Politiker die Notwendigkeit der Aufnahme der Türkei in die EU mit dem großen Wirtschaftswachstum des Landes. Jetzt aber geht es mit der türkischen Wirtschaft steil bergab. Um das Volk abzulenken, bereitet die Regierung nun (für die Zeit nach dem Ende Gaddafis in Libyen) Krieg gegen das türkische Nachbarland Syrien vor. Die türkische Wirtschaft erlebt ein Desaster: Die Lira wurde seit Jahresbeginn gegenüber dem Euro um 25 Prozent abgewertet. Immer mehr junge Türken sind arbeitslos. 95 Prozent der Bevölkerung sind hoffnungslos überschuldet. Diplomaten berichten, dass mehr als 2 Millionen junge Türken nach Europa wollen. Mit dem Krieg gegen Syrien will man die Lage wieder in den Griff bekommen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo-ulfkotte/tuerkei-regierung-unterrichtet-nato-ueber-kriegsvorbereitungen.html

mercredi, 24 août 2011

Geopolitics of Leviathan

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Geopolitics of Leviathan

By Edouard RIX

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

“Nur Meer und Erde haben hier Gewicht.”
(Only sea and land matter here.)
—Goethe

This article is less concerned with geopolitics than with thalassopolitics, a neologism coined by professor Julien Freund “to call into question certain conceptions of geopolitics that privilege telluric phenomena over maritime phenomena.”

“World history is the history of the fight of maritime powers against continental powers and of continental powers against maritime powers” writes Carl Schmitt in Land and Sea.

In the Middle Ages, the cabbalists interpreted the history of the world as a combat between the powerful whale, Leviathan, and the no less powerful Behemoth, a land animal imagined as looking like an elephant or a bull. Behemoth tries to tear Leviathan with its defenses, its horns or its teeth, while Leviathan, for its part, tries to stop with its fins the mouth and the nose of the land animal to starve or suffocate it. A mythological allegory not unrelated to the blockade of a terrestrial power by a maritime power.

The “Sea Power” of Admiral Mahan

Around the turn of the 20th century, the American Alfred T. Mahan in The Influence of Sea Power upon History (1890), the German Friedrich Ratzel in Das Meer als quelle der Volkergrösse [The Sea as Source of National Greatness] (1900), and the British Halford John Mackinder in Britain and the British Seas (1902), attach a paramount importance to the sea as source of power of the nations.

Admiral, historian, and professor at the US Naval Academy, Alfred T. Mahan (1840–1914) is the most famous geopolitician of the sea, his work comprising twenty books and 137 articles. On the basis of the study of European History of the 17th and 18th centuries, he sought to show how maritime power (Sea Power) appeared determinative of the growth and prosperity of nations.

For him, the sea can act against the land, whereas the reverse is not true and, in the long run, the sea always ends up winning any fight against the land. Mahan is deeply persuaded that the control of the seas ensures the domination of the land, which he summarizes with the formula “the Empire of the sea is without any doubt the Empire of the world.” By thus affirming the intrinsic superiority of the maritime empires, he offers a theoretical justification to imperialism, the great expansionist movement of the years 1880–1914.

In The Problem of Asia, published in 1900, Mahan applies his geopolitical paradigm to Asia, insisting on the need for a coalition of maritime powers to contain the progression towards the open sea of the great terrestrial power of the time, Russia. Indeed, he stresses that its central position confers a great strategic advantage on the Russian Empire, because it can extend in all directions, and its internal lines cannot be crossed.

On the other hand—and here lies its principal weakness—its access to the sea is limited, Mahan seeing only three possible axes of expansion: toward Europe, to circumvent the Turkish blockade of the straits, toward the Persian Gulf, and toward the China Sea. This is why the admiral recommends damming up the Russian tellurocracy through the creation of a vast alliance of the maritime powers, thalassocracies, which would include the United States, Great Britain, Germany, and Japan, the Americans asserting themselves as the leaders of this new Holy Alliance.

Halford John Mackinder

Inspired by Admiral Mahan, the British academic Halford John Mackinder (1861–1947) also believed that the fundamental geopolitical reality is the opposition between continental powers and maritime powers. A fundamental idea run throughout his work: the permanent confrontation between the Heartland, i.e. the central-Asian steppe, and the World Island, the continental mass Asia-Africa-Europe.

In 1887, Mackinder delivered a short public speech to the Royal Geographical Society that marked his resounding debut on the geopolitical stage, declaring in particular “there are two types of conquerors today: land wolves and sea wolves.” Behind this allegorical and somewhat enigmatic utterance is the concrete reality of Anglo-Russian competition in Central Asia. In fact, Mackinder was obsessed by the safety of the British Empire vis-à-vis the rise of Germany and Russia. In 1902, in Britain and the British Seas, he noted the decline of Great Britain and concluded from it that she must “divide the burden” with the United States, which would take over sooner or later.

In his famous essay of 1904, “The Geographical Pivot of History,” he formulates his geopolitical theory. One can summarize it in two principal points: (1) Russia occupies the pivotal zone inaccessible to maritime power, from which it can undertake to conquer and control the Eurasian continental mass, (2) against Russia, maritime power, starting from its bastions (Great Britain, the United States, South Africa, Australia, and Japan) that are inaccessible to terrestrial power, encircles the latter and prohibits her from freely reaching the open sea.

Studying the “pre-Colombian” epoch, Mackinder contrasted the Slavs, who inhabited the forests, with the nomadic riders of the steppes. This semi-desert Asian steppe is the Heartland, surrounded by two densely populated crescents: the inner crescent, encompassing India, China, Japan, and Europe, which are territorially adjacent to the Heartland, and the outer crescent, made up of various islands. The inner crescent is regularly subject to the pressures of nomadic horsemen from the steppes of the Heartland.

Everything changed in the “Colombian” age, which saw the confrontation of two mobilities, that of England which began the conquest of the seas, and that of Russia which advanced gradually in Siberia. For the academic Mackinder, this double European expansion, maritime and continental, found its explanation in the opposition between Rome and Greece. Indeed, he affirms that the Germans were civilized and Christianized by the Roman, the Slavs by the Greeks, and that whereas the Romano-Germans conquered the oceans, the Slavs seized the steppes on horseback.

Mackinder made the separation between Byzantine and Western Empires in 395, exacerbated by the Great Schism between Byzantium and Rome in 1054, the nodal point of this opposition. He emphasized that after the fall of Constantinople to the Turks, Moscow proclaimed itself the new center of Orthodoxy (the Third Rome). According to him, in the 20th century, this religious antagonism will lead to an ideological antagonism, between Communism and capitalism: Russia, heiress of the Slavic country village community, the Mir, will choose Communism, the West, whose religious practice privileges individual salvation, for capitalism . . .

For Mackinder, the opposition Land/Sea is likely to lean in favor of the land and Russia. Mackinder noted that if the United Kingdom could send an army of 500,000 to South Africa at the time of the Boer Wars, a performance saluted by all the partisans of the maritime power, Russia at the same time had succeeded in an even more exceptional exploit by maintaining an equivalent number of soldiers in the Far East, thousands of kilometers of Moscow, thanks to the Trans-Siberian Railroad. With the railroad, the terrestrial power was henceforth able to deploy its forces as quickly as the oceanic power.

Enthralled by this revolution in land transportation, which would make it possible for Russia to develop an industrialized space that is autonomous from and closed to trade with the thalassocracies, Mackinder predicted the end of the “Colombian” age and concluded that the telluric power is superior, summarizing his thought in a striking aphorism: “Whoever holds continental Europe controls the Heartland. Whoever holds the Heartland controls the World Island.”

Indeed, any economic autonomy in central-Asian space leads automatically to a reorganization of the flow of trade, the inner crescent thus having an interest in developing its commercial relations with the center, the Heartland, to the detriment of the Anglo-Saxon thalassocracies. A few years later, in 1928, Stalin’s announcement of the implementation of the first Five Year Plan would reinforce the British thinker, who did not fail to stress that since the October Revolution, the Soviets built more than 70,000 kilometers of railways.

Shortly after the First World War, Mackinder published Democratic Ideals and Reality, a concise and dense work in which he recalls the importance of the Russian continental mass, that the thalassocracies can neither control from the seas nor invade completely. Thus, concretely, it is imperative to separate Germany from Russia by a “cordon sanitaire,” in order to prevent the union of the Eurasiatic continent. This prophylactic policy was pursued by Lord Curzon, who named Mackinder High Commissioner in “South Russia,” where a military mission assisted the White partisans of Anton Denikin and obtained from them the de facto recognition of the new Republic of Ukraine . . .

To make impossible the unification of Eurasia, Mackinder never ceased recommending the balkanization of Eastern Europe, the amputation from Russia of its Baltic and Ukrainian glacis, the “containment” of Russian forces in Asia so that they could not threaten Persia or India.

Notes

1. C. Schmitt, Terre et Mer (Paris: Le Labyrinthe, 1985), p. 23. [See the English translation available on this website here [2]. -- Trans.]

2. The names of Leviathan and Behemoth are borrowed from the Book of Job (chapters 40 and 41).

3. A. T. Mahan, The Problem of Asia and its Effect upon International Policies (London: Sampson Low-Marston, 1900), p. 63.

Source: Edouard Rix, Terre & Peuple, No. 46 (Winter Solstice 2010), pp. 39–41.

Online: http://tpprovence.wordpress.com/2011/07/07/geopolitique-du-leviathan/ [3]

Geopolitics of Leviathan, Part 2

Karl Haushofer’s Kontinentalblock 

 

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It was in Germany, under the decisive influence of Karl Haushofer (1869–1946), that geopoliticians, diplomats, and National Revolutionary and National Bolshevik theorists (the Jünger brothers, Ernst Niekisch, Karl-Otto Paetel) would oppose thalassocratic pretentions with greatest force.

A Bavarian artillery officer and professor at the War Academy, Karl Haushofer was sent to Japan in 1906 to reorganize the Imperial Army. During his return to Germany on the Trans-Siberian railroad, he became vividly aware of the continental vastness of Russian Eurasia. After the First World War, he earned a doctorate and became professor of geography in Munich, where connected with Rudolf Hess. In 1924, Haushofer founded the famous Zeitschrift für Geopolitik (Journal of Geopolitics). He was the direct intellectual heir to his compatriot Friedrich Ratzel and the Swede Rudolf Kjeller.

To begin, let us set aside the black legend of Haushofer as fanatical Hitlerist who used geopolitics to justify the territorial conquests of the Third Reich, a legend based in “American propaganda efforts,” according to Professor Jean Klein.[1] This diabolization will astonish only those who are ignorant of the anti-thalassocratic orientation of Haushofer’s geopolitics . . .

 

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Haushofer wished to rise above petty nationalisms. Thus, beginning in 1931, in Geopolitik der Pan-Ideen (Geopolitics of Continental Ideas), he advocated the constitution of vast continental spaces as the only means to go beyond the territorial and economic weakness of traditional States. The first stage could be the sub-continental gatherings theorized in 1912 by the geographer E. Banse, who recommended 12 large civilizational regions: Europe, Greater Siberia (Russia included), Australia, the East Indies, Eastern Asia, the “Nigritie” (the “black lands,” i.e., Africa), Mongolia (with China, Indochina, and Indonesia), Greater California, the Andes, America (Atlantic North America), and Amazonia.

HaushoferPazifischen0187-01.jpgHaushofer’s radically continentalist and anti-thalassocratic thought came into focus in 1941, when he published Der Kontinentalblock-Mitteleuropa-Eurasien-Japan (The Continental Bloc Central Europe-Eurasia-Japan). Written after the Germano-Soviet pact, this work argued for a Germano-Italo-Soviet-Japanese alliance that would radically reorganize the Eurasian continental mass. He stressed that the permanent fear of the Anglo-Saxons is the emergence of a Berlin-Moscow-Tokyo axis, which would completely escape the influence of the commercial thalassocracies, which, he writes, practice the policy of the anaconda, which consists in gradually encircling and slowly suffocating its prey. But a unified Eurasia would be too large for the Anglo-American anaconda. Thanks to its gigantic mass, it could resist any blockade.

haushofer_raum_small.jpgThe idea of a tripartite alliance first occurred to the Japanese and Russians. At the time of the Russo-Japanese War of 1905, when the British and Japanese united against the Russians, some of the Japanese leadership—including Hayashi, their ambassador in London, Count Gato, Prince Ito, and Prime Minister Katsura—desired a Germano-Russo-Japanese pact against the English seizure of global sea traffic. The visionary Count Gato recommended a troika in which the central horse, the strongest one, flanked by two lighter and more nervous horses, Germany and Japan. In Russia, the Eurasian idea would be incarnated a few years later by the minister Sergei Witte, the creative genius of the Trans-Siberian Railroad who in 1915 advocated a separate peace with the Kaiser.

Needless to say, Haushofer disapproved of Hitler’s wars of conquest in the East, which went against his historical project of creating a Eurasian continental bloc.

The Anaconda Strategy of Spykman and Brzezinski

 

Route of the Trans-Siberian Railroad

The fundamental idea, posed by Mahan and Mackinder, to prohibit Russia’s access to the open sea, would be reformulated by Nicholas John Spykman (1893–1943), who insisted on the pressing need for controlling the maritime ring or Rimland, the littoral zone bordering the Heartland and which runs from Norway to Korea: “Whoever controls the maritime ring holds Eurasia; whoever holds Eurasia controls the destiny of the world.”[2]

Interpreting this maxim at that onset of the Cold War, the United States tried by a policy of “containment” of the USSR, to control the Rimland by means of a network of regional pacts: NATO in Europe, the Baghdad Pact then the Organization of the central treaty of the Middle East, SEATO and ANZUS in the Far East.

With the collapse of the Soviet bloc, one might have expected a strategic redeployment of the USA and a break with Mackinderite orthodoxy. But that was not to be. So much so that still today, the (semi-official) foreign policy adviser most heeded by President Obama proves to be a dedicated disciple of Mackinder: none other than Zbigniew Brzezinski, a friend of David Rockefeller, with whom he co-founded the Trilateral Commission in 1973, and Jimmy Carter’s National Security Advisor from 1977 to 1980. His major theoretical work, The Grand Chessboard, appeared in 1997, at the time of the wars in Yugoslavia undertaken mainly under his initiative, under the aegis of the Secretary of State Madeleine Albright.

Brzezinski’s strategic analysis cynically reprises Anglo-Saxon geopolitical doxa: Eurasia, which comprises half the planet’s population, constitutes the spatial center of world power. The key to control Eurasia is Central Asia. The key to control Central Asia is Uzbekistan. For this Russophobe of Polish origin, the objective of the American Grand Strategy must be to fight against a China-Russia alliance. Considering that the principal threat comes from Russia, he recommends its encirclement (the anaconda, always the anaconda) by the establishment of military bases, or, in the absence of friendly regimes in the former Soviet republics (Ukraine included), insisting in particular on the necessary utilization of Islamists. Paradoxically, it is in the name of the fight against these same Islamists that American forces were deployed Uzbekistan after September 11th, 2001 . . . Machiavelli is not dead!

Notes

1. Jean Klein, Karl Haushofer, De la géopolitique (Paris: Fayard, 1986).

2. N. Spykman, The Geography of the Peace (New York: Harcourt-Brace, 1944), p. 43.

Edouard Rix, Terre & Peuple, No. 46 (Winter Solstice 2010), pp. 39–41.


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lundi, 22 août 2011

IRAN-USA: la grande parodie

IRAN – USA : la grande parodie

par Jean-Marc Desanti

Ex: http://leschevaliersnoirs.hautetfort.com/

«  Le pouvoir n'existe plus que comme parodie  »

(Jean Baudrillard )

 

Il n'existe pas entre états stables de tensions irréductibles car il n'y a pas entre gouvernements de relations établies «  une fois pour toutes  ». Les adversaires d'hier deviennent les amis d'aujourd'hui et les alliés de demain, parce que la nature même de tout pouvoir est de survivre en développant une politique prioritairement conforme à ses intérêts, c'est à dire, en termes moins élégants, de tout faire pour durer.

 

Les USA et l'Iran ont , officiellement, connu une amitié réciproque jusqu'à la chute du Shah, puis en apparence, depuis vingt ans, de violentes tensions qui semblaient se cumuler durant le conflitIran-Irak. En réalité l'administration américaine de Reagan misa très concrètement sur Téhéran en organisant des livraisons massives d'armes par l'intermédiaire d'Israël. Ce qu'on nomma « l'Irangate » apparaissait comme incompréhensible aux yeux de beaucoup de « spécialistes », l'explication était pourtant simple : Face au « matérialisme » soviétique l'islamisme était favorisé. En vendant des armes aux iraniens les États-Unis faisaient d'une pierre deux coups.

D'une part ils se servaient des profits engrangés pour soutenir « les contras » qui combattaient les Sandinistes soutenus par l'URSS au Nicaragua et d'autre part nourrissaient la lutte armée contre l'Irak, faisant plus de 500 000 morts, qui avait le soutien de Paris et de Moscou.

 

Puis, les évènements continuèrent à resserrer les liens très discrets mais très étroits entre Washington et Téhéran. En 1998, 70 000 hommes des forces terrestres et aériennes iraniennes, appartenant aux pasdaran (gardiens de la révolution) et aux bassidji (milices islamiques) se massèrent à une cinquantaine de kilomètres de la frontière afghane en menaçant d'intervenir pour écraser les talibans. C'est à cette époque que la Vevak ( services secrets iraniens ) établit des contacts avec le commandant Massoud. C'est à cette époque aussi que la Vevak et la CIA s'entendirent sur le plan de soutien et de secours aux forces de Massoud. Téhéran était, d'ailleurs, déjà engagé dans le conflit, ses avions ravitaillant en vivres et en armes depuis des mois l'Hazarajat, une région du centre de l'Afghanistan, tenue par les milices chiites hazaras, alliées de Massoud et que les talibans n'avaient pas encore conquises.

 

Aussi lorsque le premier décembre 2001 l'US Air Force commença les bombardements sur Tora Bora, elle put bénéficier de l'ouverture de l'espace aérien iranien pendant deux mois.

 

Mieux encore, en 2003, l'armée américaine est partie du Koweit vers Bagdad, via le désert de Nassiriyah, les brigades de l'organisation Badr avec leurs 15000 hommes ( réfugiés et transfuges chiites irakiens ayant combattu avec les iraniens pendant la guerre irano-irakienne ) étaient déjà entrées depuis la côte d'Al Imara et de Sa'd Algharbi pour protéger les arrières de l'armée américaine. C'est à ce moment-là aussi que les Iraniens proposèrent aux Etats-Unis le fameux accord 6+6 , les six pays frontaliers de l'Irak, plus les USA et les pays du Conseil de sécurité, plus l'Égypte... Ce qui fut appliqué, dans les faits, malgré les dénégations embarrassées des diplomates US.

 

Pour le Pentagone, les iraniens sont des gens censés avec lesquels on peut faire « de bonnes affaires », la réciproque est vraie.

 

Depuis une dizaine d'années, il n'est pas de mois où l'on n'annonce une attaque américano-israélienne ou israélienne ou américaine contre l'Iran. Les experts les plus avisés nous exposent avec précision le déroulement des opérations futures, escomptant bien qu'avec le temps , ils auront forcément un jour raison …

 

Mais il n'en est rien et pour cause.

 

Les américains ont pu, grâce au puissant allié chiite, pacifier l'Irak, c'est à dire morceler le pays en le laissant sous forte influence iranienne.

 

Les iraniens, toujours inquiets et en opposition face au monde arabe sunnite, ont réussi par Gi interposés à détruire Bagdad l'orgueilleuse et même, par ricochet, à s'introduire et à remporter de grandes victoires en imposant le Hezbollah dans le jeu compliqué entre le Liban, la Syrie et Israël.

 

Le reste, recette médiatique rabâchée de l'intox et de la peur, n'est qu'un rideau de fumée , des gesticulations à usage interne.

 

Le USA PATRIOT Act n'est-il pas indispensable au capitalisme d'état américain pour expliquer ses atteintes aux droits fondamentaux face à l'apocalypse d'un nucléaire iranien ?

 

De même la répression de toute opposition par les bassidji ne trouve-t-elle pas sa parfaite justification dans les manœuvres supposées destructrices du « grand Satan » ?

 

Mais observons, de plus près, les dernières trouvailles des deux présumés protagonistes.

 

On parle de plus en plus du PJAK, groupe révolutionnaires armé kurde créé en 2004, d'inspiration marxiste et féministe ( la moitié des combattants sont des femmes ).

 

Ce groupe perpétrerait des attentats à la frontière de l'Irak et de l'Iran.

Le 4 Février 2009, Barrack Obama décréta le PJAK , comme groupe international terroriste. Cet acte gouvernemental américain n'est-il pas un soutien direct au gouvernement iranien ?

 

Quel genre de conception est-ce ? Pourquoi le président américain prend-t-il cette décision et choisit-il de ne pas soutenir la démocratie et les droits des groupes minoritaires en Iran comme les Kurdes, les Azéris, les Assyriens, les Juifs ou les Arabes ? 

 

Le gouvernement américain sait pourtant bien que les droits des Kurdes n'ont pas été reconnus pendant un siècle. Comment se fait-il alors que le président Obama s'oppose aux droits fondamentaux tels que le respect de toute culture et le libre apprentissage de sa langue maternelle ?

 

Ce volontarisme politique soutient-il le gouvernement iranien pour lui permettre de continuer son « alliance » avec le Pentagone, et le gouvernements turc afin que la Turquie puisse rester membre de l'OTAN ? 

 

Le régime iranien craint-il les militants du PJAK parce qu'ils sont pour la démocratie ?

 

Il semble, curieusement, que l'administration Obama ne supporte pas la lutte pour la démocratie en Iran.

 

De même, elle montre une patience peu commune et une prudence inhabituelle dans ses commentaires, concernant les évènements sanglants en Syrie. Le peuple kurde qui a vécu en Syrie des milliers d'années, avant même l'arrivée des Arabes au Moyen-Orient, n'a pas obtenu la citoyenneté syrienne, et est le premier à payer le prix du sang aujourd'hui.

 

Est-ce donc la raison pour laquelle on laisse la répression durer et se renforcer encore ?

 

« Nous avons des rapports de nos frères à l'intérieur de l'appareil de sécurité iranien qui démontrent que des généraux turcs sont venus en Iran pour préparer l'écrasement du PJAK et faire porter, à l'organisation,la responsabilité d'actes terroristes réalisés par des provocateurs », a déclaré Amir Karimi, membre du Comité de coordination du PJAK. 

 

« Ce plan de terreur fait partie de leur tentative pour obtenir de l'Union européenne de rallier les États-Unis afin de répertorier le PJAK comme un groupe terroriste ».

 

Pendant ce temps, en Europe, le régime iranien a envoyé quelques tueurs à gages en l'Allemagne pour abattre le secrétaire général du PJAK, Rahman Haji Ahmadi. 

 

« La police allemande a appelé la semaine dernière Ahmadi pour l'avertir que trois tueurs iraniens, utilisant des passeports turcs, avaient emménagé dans un appartement près de l'endroit où il vit  », a déclaré le porte-parole du PJAK . « Ils lui ont demandé d'être prudent, mais ne lui ont offert aucune protection  ».

 

Comment comprendre de telles circonvolutions ?

 

Il nous suffit de regarder une carte du «  grand Moyen -Orient », projet US machiavélique déjà largement engagé.

 

Ainsi, si on y voit un Kurdistan « libre » avec pour capitale Kirkouk, où les kurdes représentaient les trois quarts de la population en 1897, avant d'être massacrés dès 1980 par le régime arabe d'Hussein, avec l'aide et la complicité des turcs et des iraniens, on observe aussi que l'Iran débarrassé au nord – ouest des kurdes, récupérerait, au sud-ouest, une vaste zone appelée «  états arabes chiites  », entourant le Koweït et ayant une frontière commune avec les «  territoires intérieurs saoudiens indépendants  », une partie de l'Arabie saoudite démembrée.

 Il est à craindre qu'une fois de plus, ayant toujours besoin de barbouzes pour leurs opérations très spéciales, la NSA, avec l'aide du MIT turc ( Millî İstihbarat Teşkilatı ) et de la Vevak n'ait encore créé, un nouveau Al Qaida ou une nouvelle UCK, manipulables à souhait, qu'elle agite , qui parfois lui échappe, mais qui donne l'impression, l'illusion fausse qu'il se passe « quelque chose » , que demain peut-être les rapports de force basculeront.

 

Mais tout est sous contrôle. Le logiciel suit sa progression. Tous les paramètres ont été rentrés, les hypothèses élaborées sont testées et corrigées en temps réel.

 

N'oublions pas, Oncle Sam ne sort de son grand chapeau que le meilleur scénario possible à ses yeux.

 

Pour les petits James Bond obéissants comme Oswald, Diem, Bakhtiar, Moro, Kabila ou Ben Laden , leurs destinées, nous le savons, est de finir truffés de plomb car les états ne s'opposent jamais. Il peut y avoir, seulement, des changements d'équipes, des rotations de mafias ( pour ceux qui transgressent les règles du Monopoly mondial ). On sort les « caves » de la salle de jeu pour ne garder que les « affranchis ».

 

Les états sont, ne l'oublions pas, le « game », le casino, la banque.

Le lieu où se décident les règles à suivre impérativement, les pauses, les clients qui gagnent un peu, les mensonges, les stratégies et les trahisons, bref ce qui fait que la banque ne perd jamais.

 

Jean-Marc DESANTI

 

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samedi, 20 août 2011

Choc des civilisations ou querelles intestines?

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Choc des civilisations ou querelles intestines ?

Thierry MUDRY
 
En Europe, la thèse du « choc des civilisations », en partie inspirée de l’œuvre de Samuel Huntington, s’est frayé, semble-t-il, un chemin jusque dans le discours de certains partis de gouvernement qualifiés de « modérés » ou « conservateurs ».

Cette thèse postule l’existence de conflits inévitables entre les systèmes religieux porteurs de normes politiques, juridiques et culturelles qui structurent les civilisations. Ainsi, aux yeux d’un nombre croissant d’Européens, la civilisation occidentale christo-centrée apparaît-elle menacée sur le territoire européen même par l’Islam: par le terrorisme islamique et, plus sournoisement, par les tentatives des croyants musulmans visant à imposer une plus grande visibilité sociale de leur religion et à se conformer à des normes dérogatoires à l’ordre public (polygamie) et à la culture dominante (port du voile).

Il est pourtant évident que tous les résidents ou citoyens européens d’origine ou de croyance musulmane ne partagent pas l’opinion des éléments les plus radicaux d’entre eux qui prétendent placer l’Islam, tant symboliquement que politiquement, au cœur de l’espace public. Et ce désaccord n’est pas seulement motivé par l’adhésion à un crédo laïque « à la française », mais aussi, dans de larges secteurs, par une interprétation somme toute assez classique de la doxa islamique ou une approche assez conforme à la jurisprudence islamique de ce que doivent être les rapports entre l’Islam et l’État dans une société majoritairement non musulmane.

Il est également évident que le terrorisme islamiste vise prioritairement les pays musulmans et les populations musulmanes elles-mêmes qu’il prétend vouloir ramener à ce qu’il affirme être la pureté du message muhamadien.

C’est là un exemple parmi d’autres du fait que les conflits religieux n’opposent pas tant les religions entre elles, dans un « choc des civilisations », que des factions adverses au sein de chaque religion, voire au sein de chaque dénomination.

Cela ne revient évidemment pas à dire que ce « choc des civilisations » est une fiction, qu’il est purement fantasmé, loin s’en faut. Il acquiert une réalité du seul fait que nombre d’acteurs politiques croient en son existence, et que certains autres l’instrumentalisent aux fins d’affaiblir leurs rivaux ou ennemis potentiels: on sait l’usage que les États-Unis ont fait de l’arme islamique contre le nationalisme arabe laïque et contre l’Union soviétique, usage que Zbigniew Brzezinski avait remarquablement décrit dans Le Grand Échiquier, et l’usage qu’en a fait Israël contre les chrétiens palestiniens, souvent surreprésentés dans le mouvement de libération nationale, et contre l’O.L.P. Aujourd’hui, il est permis de se demander si la promotion de la multi-culturalité par la puissance américaine, modèle imposé à l’Europe, avec les tensions sociales qu’elle y fait naître et le « choc des civilsations » qu’elle y favorise, n’obéit pas, elle aussi, à des buts politiques précis…

Qui qu’il en soit, il faut admettre que le « choc des civilisations » n’est bien souvent lui-même que le produit, que la conséquence d’un rapport de forces et de conflits internes aux ensembles religieux en cause.

Ainsi l’actuelle polémique pan-européenne sur la construction des minarets et sur le port du voile intégral apparaît-elle d’abord comme un débat interne à la communauté musulmane avant que d’être un débat impliquant la société globale. On peut même considérer qu’elle constitue d’abord un enjeu de pouvoir au sein de la communauté musulmane et que le bénéfice que souhaitent en tirer les radicaux n’est pas l’« islamisation » de l’Europe (objectif certes souhaitable à leurs yeux mais difficilement accessible) que la « ré-islamisation » et la radicalisation de l’opinion musulmane locale.

Les parallèles historiques avec la situation actuelle de l’Islam en Europe ne manquent pas.

On pourrait évoquer la conquête ottomane des Balkans avec laquelle s’affirme l’image d’un Islam militairement expansif voué à subjuguer l’Europe et à la plier à sa loi.

Or, comme l’ont montré Irène Beldiceanu-Steinherr et Michel Balivet, cette conquête a été menée, avec l’appui de derviches hétérodoxes, par des seigneurs des frontières indociles échappant au contrôle d’un pouvoir central ottoman embryonnaire. Elle a débouché, dans un premier temps, moins sur l’islamisation des populations soumises que sur l’émergence d’un syncrétisme local.

La réaction sunnite qui s’est fait jour à partir du règne de Selîm Ier (1512-1520), face à la menace des Safavides iraniens devenus les champions du chiisme (encore un conflit interne à l’Islam!), conduira les dynastes ottomans à mettre au pas les musulmans d’Anatolie et des Balkans, dont on pouvait craindre les sympathies safavides, et à procéder à leur normalisation politique et religieuse.

C’est dire que la conquête ottomane des Balkans a d’abord été l’expression de dissensions internes à la société et à l’État musulmans ottomans, plutôt qu’un affrontement frontal entre Chrétienté et Islam. Le sultan a d’ailleurs été longtemps plus assuré de la loyauté de ses sujets chrétiens que de celle de ses sujets musulmans balkaniques!

Quittant les rives de la Méditerranée, il n’est pas inutile d’évoquer l’un des derniers conflits « religieux » armés dont l’Europe a été le théâtre: le conflit nord-irlandais.

Même si Samuel Huntington n’a pas compté, au nombre des fractures civilisationnelles qu’il inventorie, l’opposition entre le « catholicisme gaélique irlandais » et le « protestantisme anglo-saxon britannique » (pour reprendre une terminologie populaire aux XIXème et XXème siècles tant dans les Îles britanniques qu’en Amérique du Nord), celle-ci revêt encore aux yeux de beaucoup en Irlande du Nord l’aspect d’un choc de civilisations.

Les accords du Vendredi Saint qui ont, en 1998, mis un terme progressif au conflit nord-irlandais en organisant le désarmement et le démantèlement des groupes para-militaires républicains et loyalistes, et la participation de leurs branches politiques au processus électoral local, ont en quelque sorte conforté cette vision des choses en associant indissolublement catholicisme, républicanisme et culture gaélique, d’un côté, protestantisme, unionisme et culture britannique dans sa variante « ulster scot », de l’autre. Avec ces accords destinés à restaurer la paix se voit donc consacrée la division « sectaire » des six comtés en deux sociétés, deux cultures irréductiblement distinctes.

Pourtant, la situation ainsi figée par les accords de paix est un produit de l’histoire récente de l’île.

Il faut relever en effet que la confédération de Kilkenny qui fut, au XVIIème siècle pendant la guerre des Trois Royaumes, la première expression politique du catholicisme irlandais unissant les Gaels, les habitants originels de l’île, et les Vieux-Anglais, les descendants des premiers colons anglais de l’île restés fidèles au catholicisme (la confédération de Kilkenny soutenait le roi Charles Ier contre le parlement anglais et Cromwell), consacra l’hégémonie de la langue anglaise et de la loi anglaise, la common law, au sein du catholicisme local.

A l’inverse, une grande partie, voire la majorité des colons presbytériens d’Irlande du Nord venus d’Écosse étaient à l’origine de langue et de culture gaéliques comme l’ont montré récemment J. Michael Hill et l’historien du presbytérianisme irlandais Roger Blaney.

Au XVIIIème siècle, ce sont les protestants, seuls détenteurs des droits politiques, qui contestèrent la domination politique, économique et culturelle britannique sur l’Irlande à travers le mouvement des Volontaires irlandais et celui, plus radical, des Irlandais-Unis, tandis que l’Église et les classes moyennes catholiques espéraient que l’union de l’Irlande à la Grande-Bretagne déboucherait sur l’émancipation des catholiques irlandais.

La situation actuelle résulte en fait clairement des mutations du catholicisme et du protestantisme irlandais amorcés au XIXème siècle.

Le premier a connu une « révolution dévotionnelle » (selon l’expression d’Emmet Larkin) initiée par le cardinal Cullen au lendemain de la Grande Famine. Ce prélat s’était donné pour objectif d’aligner le catholicisme local sur les canons du catholicisme continental et de « re-catholiciser » de la sorte ses ouailles suspectes d’indifférence religieuse, de s’adonner à des pratiques païennes ou, encore, de manifester des inclinations protestantes.

Chez les protestants s’affirma le courant évangélique et pan-protestant au sein du presbytérianisme et de l’anglicanisme, soucieux d’unir dans un prosélytisme agressif la famille protestante jusqu’alors divisée contre la menace démographique et les revendications « papistes ». Avec lui se dessina bien tardivement le « sectarisme » protestant dans ses dimensions tout à la fois religieuses, politiques et culturelles.

Mais il aura fallu pour cela que le courant évangélique l’emporte définitivement sur le courant « non-souscripteur » (ce courant refusait l’adhésion obligatoire à la confession de Westminster) et sur le courant millénariste du presbytérianisme irlandais, engagés à des degrés divers dans la lutte contre l’establishment politico-religieux anglican, comme le montre l’implication de leurs pasteurs et de leurs paroisses dans le mouvement des Irlandais-Unis et le soulèvement révolutionnaire de 1798.

Il aura fallu qu’il l’emporte également sur les courants anglo-catholique et libéral de l’anglicanisme irlandais sensibles aux convergences dogmatiques et liturgiques avec le catholicisme et aux affinités entre croyants des deux confessions.

Ce sont donc ces mutations décisives qui favoriseront en Irlande l’affrontement direct entre le catholicisme et le protestantisme.

Là aussi, à l’image de la question musulmane telle qu’elle est posée aujourd’hui en Éurope, la prétendue guerre de religions ou de civilisations n’y est que la conséquence d’un règlement de comptes interne.

C’est dire que la géopolitique des conflits religieux se doit d’être d’abord une géopolitique des conflits intra-confessionnels.

Thierry Mudry

À propos de l'auteur

Thierry Mudry
 
Docteur en droit et avocat au Barreau de Marseille, Thierry Mudry est également chargé d'enseignement à l'Institut d'études politiques d'Aix-en-Provence. Ses recherches et ses cours portent sur le fait religieux et ses rapports avec la problématique identitaire et les dynamiques géopolitiques.

mardi, 16 août 2011

Opérations de l'OTAN en Libye: accélérateur d'une dislocation géopolitique mondiale?

Opérations militaires de l'OTAN en Libye : accélérateur d'une dislocation géopolitique mondiale ?

Xavier JARDEZ

Ex: http://www.polemia.com/ 

otan-libye.jpgDans son bulletin GEAB N° 51 (Global Europe Anticipation Bulletin – janvier 2011)*, le Laboratoire Européen d'Anticipation Politique (LEAP) – think tank monégasque dirigé par Franck Biancheri - prévoyait que l’année 2011 serait une année difficile pour ceux qui n’étaient pas préparés à la crise systémique globale, c'est-à-dire « une crise que affecte les fondements même du système (tous les secteurs et tous les relais, et non pas un secteur particulier comme c'était le cas avec la bulle Internet par exemple) et une crise qui affecte simultanément toute la planète (et non pas comme en 1929 un espace atlantique Etats-Unis et Europe de l'Ouest encore peu intégré in fine) ». Selon le LEAP, l’intervention anglo-américano-française en Libye en est la parfaite illustration ainsi qu’un puissant soutien à la dislocation géopolitique mondiale.

On demanda à l’opinion publique d’approuver, non de penser

Le vrai contexte du conflit libyen n’a rien à voir avec ce que gouvernements et médias en donnent tant en Grande-Bretagne qu’en France et aux Etats-Unis. Il débute avec la révolution en Tunisie et sa propagation aux autres pays arabes avec des résultats divergents. Dans l’analyse de GEAB 52 (février 2011), la Libye apparaissait dans la catégorie des « pays dont les régimes pouvaient contenir jusqu’à la fin de 2012, en recourant à la violence, les tentatives de changement ». Y figuraient aussi l’Algérie, l’Arabie saoudite, la Syrie contre lesquels, selon le bulletin, ni la Grande-Bretagne, ni la France, ni les Etats-Unis n’oseraient lancer une action militaire « pour défendre les populations » ou « accélérer le changement » pour les raisons suivantes :

  • -une trop grande population
  • -des régimes dont la déstabilisation serait dangereuse pour l’Occident
  • -des implications régionales potentiellement « explosives »
  • -des obstacles logistiques
  • -une certaine opposition de puissances non-occidentales à une résolution onusienne de soutien
  • -un destin militaire incertain
  • -un fort impact sur les prix mondiaux du pétrole et du gaz.

La différence de traitement entre la Libye et ces derniers pays est que les opérations militaires y apparaissaient techniquement, politiquement et militairement possibles à moindre risque contrairement aux pays cités. Kadhafi a été diabolisé dans les médias occidentaux mais a été courtisé, ces dernières années par les leaders occidentaux, notamment Sarkozy lui offrant tous les honneurs, pour lui vendre armes et réacteurs nucléaires. Son pays est vaste mais peu peuplé, croulant sous le pétrole dans une région hostile à la centralisation du pouvoir. Il était donc la cible rêvée si l’on arrivait à donner à cette action militaire une légitimité internationale.

Qui fut la suivante :

« Le peuple libyen est attaqué brutalement par un dictateur méprisable ; les démocraties (une espèce de mini-OTAN) doivent protéger de toute urgence le peuple libyen en révolte (dont personne n’a vu de photos même dans Benghazi, à l’inverse de ce qui s’est passé pour les foules en Egypte, au Yémen à Bahreïn, en Jordanie), de massacres de masse perpétrés par le dictateur libyen (ici encore pas de preuves, pas de photos) ; les révolutionnaires ont de plus formé un gouvernement alternatif dont la légitimité doit être soutenue (sans savoir vraiment qui en faisait partie à l’exception de l’ancien ministre de l’intérieur, Abdel Fattah Younis – certainement un grand démocrate - et quelques exilés de Londres et des Etats-Unis depuis des décennies). »

On demanda donc, spécialement en France, à l’opinion publique d’approuver, non de penser.

Pas de plan B en cas d’échec occidental

Les jours qui suivirent ont très rapidement montré

  • -que le peuple libyen ne s’est pas soulevé ;
  • -que les services secrets français, britanniques et la CIA opéraient en Libye bien avant le « déclenchement » officiel de la rébellion ;
  • -que le soutien à cette coalition de la part des pays arabes ou africains a été quasi inexistant ;
  • -qu’une large portion de l’Occident (Allemagne, Pologne…) a été opposé à cette intervention militaire ;
  • -que Sarkozy, Cameron et Obama n’avaient pas de plan B si le « blitzkrieg » échouait ;
  • -que la situation était source de risques géopolitiques majeurs pour le monde arabe et l’Europe.

(….)

Quels étaient les objectifs des participants à l’intervention militaire ? Pour Obama, pris au piège de l’effondrement du « mur du pétro-dollar » dû à la révolution arabe, et englué dans des problèmes budgétaires, financiers et économiques, à qui il était impossible de s’afficher comme un adversaire direct d’un autre pays musulman après l’Irak et l’Afghanistan, il s’agit de maintenir « le mur » par l’établissement de régimes « amis », de consolider le camp occidental en générant des conflits entre l’Occident et le reste du monde, de vendre des armes et d’engendrer des zones d’instabilité autour de l’Europe pour ralentir toute velléité d’indépendance stratégique de l’Europe. Pour Cameron, soutien fidèle des Etats-Unis, ses buts traditionnels épousent ceux de leur parrain, et s’y ajoute, celui jamais démenti, d’affaiblir la cohésion de l’Europe continentale. Sarkozy, converti aux vertus de l’américanisme, légitimant au nom de la démocratie, tout action servant les intérêts de l’Occident, a abandonné, sur l’autel de l’intervention en Libye, les deux pendants de la politique étrangère des dernières décennies, à savoir, le renforcement de la cohésion européenne autour de la France et de l’Allemagne et l’affaiblissement de l’influence US en Méditerranée. Pour Sarkozy, même les plus fervents soutiens à l’intervention en Libye affirment qu’elle est là à des fins de politique domestique, pour remonter sa popularité. Si rien ne marche en Libye, il deviendra pour Obama, le principal coupable.

Quant aux pays arabes, opposés a priori à l’intervention en Libye, ils s’y sont ralliés car le danger pour eux n’est pas Kadhafi, mais les révolutions populaires arabes et tout ce qui peut les affaiblir est le bienvenu. Ils ont ainsi eu le plaisir de voir l’Occident engager un conflit qui leur évite d’étendre un soutien aux mouvements révolutionnaires qui éclatent chez leurs voisins. Si Israël joue dans ce conflit la carte de la discrétion, il ne fait aucun doute que son influence est primordiale dans le conflit libyen, car il lui permet de miner le mouvement révolutionnaire arabe qui l’inquiète.

Cauchemar géopolitique

C’est ainsi que le conflit libyen accélère le processus de dislocation géopolitique mondial selon certaines lignes :

  • -incapacité des Etats-Unis à assumer le leadership militaire. Depuis 1945, c’est la première fois que la coalition qu’ils ont assemblée réunit si peu de pays. L’Occident étant réduit au strict minimum. Il n’y a ni Asiatiques, ni Africains, ni Latino-Américains. Des Arabes, seul le Qatar est visible.
  • -LEAP pense que le conflit libyen aboutira à l’émergence d’un vrai centre européen de défense et au-delà de la défense, la position de l’Allemagne axée sur la diplomatie prévaudra.
  • -failles dans l’unité de l’OTAN
  • -naissance d’une diplomatie Euro-BRIC avec l’abstention de l’Allemagne au Conseil de Sécurité fidèle à sa ligne d’indépendance vis-à-vis de Washington, initiée par Schröeder
  • -impasse de l’Europe sur la « Somalie méditerranéenne » : piraterie, mafias en tous genres, terrorisme, instabilité régionale… ces conséquences sont loin des promesses de changements démocratiques en Libye prophétisées par la coalition.

L’intervention en Libye peut donner lieu à un cauchemar géopolitique pire que celui de la Yougoslavie, l’Irak et l’Afghanistan réunis. Elle est une aubaine pour ceux qui souhaitent affaiblir les mouvements révolutionnaires dans le monde arabe. En France, concernant cette guerre, la propagande médiatique est telle qu’il est impossible d’accorder la moindre foi aux sondages. Le Laboratoire Européen d'Anticipation Politique (LEAP) remarque d’ailleurs que « la cote de popularité d Nicolas Sarkozy continue de chuter, ce qui est bien incompatible avec les fortes adhésions à sa politique libyenne affirmées par les sondeurs » (1).

LEAP
24/07/2011
Extrait GEAB n°54 (15 avril 2011)
Résumé et synthèse par Xavière Jardez

Polémia invite ses lecteurs à se reporter sur le site http://www.france-irak-actualite.com/ . Ils y trouveront des informations sur la situation actuelle de la Libye au lendemain de l’assassinat du général Younès, chef de l’armée rebelle, et sur les doutes quant à l'avenir, formulés par le président Sarkozy et son ministre des affaires étrangères, sur lesquels les médias français se montrent assez discrets.

*Version intégrale : http://www.leap2020.eu/Operation-militaire-en-Libye-Un-accelerateur-puissant-de-la-dislocation-geopolitique-mondiale_a6826.html

(1) Alors qu’en mars 63% des Français soutenaient - soi-disant - l’intervention française en Libye, le 1er juillet ils n’étaient plus que 30% à y être « plutôt favorable ». Selon une enquête de l’hebdomadaire Le Point, publiée le 20 juillet : 66% des Français ne souhaitent pas la réélection de Nicolas Sarkozy.

Correspondance Polémia – 9/08/2011

 

Xavière Jardez

dimanche, 07 août 2011

La contesa geopolitica sino-statunitense

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La contesa geopolitica sino – statunitense

Giacomo Giabellini
 
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/ 

 

Che la prorompente ascesa di svariati paesi abbia assestato un duro colpo all’assetto mondiale incardinato sull’unipolarismo statunitense è un fatto che pochi oseranno contestare.

La resurrezione della Russia sotto l’autoritaria egida di Putin affiancata all’affermazione della Cina al rango di grande potenza costituiscono i due principali fattori destabilizzanti in grado di ridisegnare i rapporti di forza a livello internazionale.

 

Se la Russia, tuttavia, ha potuto contare sulla monumentale eredità sovietica, la Cina ha fatto registrare un progresso politico ed economico assolutamente straordinario.

 

Il lungimirante progetto di ristrutturazione messo a punto in passato da Deng Xiao Ping ha inoppugnabilmente svolto un ruolo cruciale nell’odierno riscatto cinese e tracciato un solco profondo entro il quale sono andati a collocarsi tutti i suoi successori, da Jang Zemin a Hu Jintao, passando per Jang Shangkun.

 

Come tutti i paesi soggetti a forte sviluppo economico, la Cina si trova a dover soddisfare una crescente seppur già esorbitante domanda di idrocarburi.

 

Per farlo, è costretta ad estendere la propria capacità di influenza ai paesi produttori Medio Oriente e a quelli dell’Africa orientale attraverso i territori dell’Asia centrale e le vie marittime che collegano il Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale.

 

In vista di tale scopo, la diplomazia cinese ha escogitato una efficace strategia diplomatica imperniata sul principio della sussidiarietà internazionale e profuso enormi sforzi per dotarsi di un esercito capace di sostenere gli ambiziosi progetti egemonici ideati dal governo di Pechino.

 

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che raggruppa Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, e Uzbekistan e che annovera Iran, Pakistan, India e Mongolia in qualità di osservatori – patrocinata dalla Cina ha promosso una partnership strategica tra i paesi aderenti ad essa atta a favorire un’integrazione continentale in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutto l’insieme.

 

In aggiunta, va sottolineato il fatto che è in fase di consolidamento l’asse Mosca – Pechino nello scambio tra armamenti e petrolio.

 

La Cina acquista gran parte delle proprie forze militari dalla Russia dietro congrui conguagli e costituisce il primo cliente per il mercato bellico russo.

 

Caldeggia la realizzazione di una pipeline che attinga dai giacimenti russi e faccia approdare petrolio ai terminali cinesi, trovando però l’opposizione della Russia, incapace di far fronte tanto alla domanda cinese quanto a quella europea.

 

In compenso, Mosca sostiene la realizzazione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico finalizzato a far affluire il gas iraniano in territorio cinese attraverso Pakistan ed India, in grado di orientare gli idrocarburi iraniani verso est e consentendo in tal modo alla Russia di assestarsi su una posizione assolutamente dominante ed incontrastata sul solo mercato europeo.

 

Ruggini vecchie e nuove hanno impedito la rapida realizzazione dei progetti in questione portando il governo di Pechino ad individuare soluzioni alternative.

 

Non a caso, uno dei grandi scenari in cui si gioca attualmente la partita tra gli Stati Uniti in declino ma decisi a vender cara la pelle e la rampante Cina in piena ascesa economica è l’Africa, che grazie alle sue immense risorse di idrocarburi (e materie prime) costituisce l’oggetto del desiderio tanto dell’una quanto dell’altra potenza.

 

La Storia insegna sia che la scoperta di giacimenti di idrocarburi nelle regioni povere costituisce il reale movente dei conflitti che vedono regolarmente fazioni opposte combattere aspramente, quasi sempre a danno della popolazione, per garantirsene il controllo sia che dietro di esse si celano direttamente o indirettamente quelle grandi potenze interessate ad estendere la propria egemonia geopolitica.

 

Sudan, Nigeria, Congo, Angola, Yemen, Myanmar (l’elenco è sterminato).

 

La penetrazione di Pechino in Africa è proceduta gradualmente, ma il consolidamento di essa è stato reso possibile solo grazie ai passi da gigante fatti registrare dalla marina cinese.

 

Dietro suggerimento dell’influente ammiraglio Liu Huaqing, il governo di Pechino aveva infatti sostenuto il progetto riguardante l’adozione di sottomarini classe Kilo e di incrociatori classe Sovremenniy, oltre al potenziamento dei sistemi di intelligence e delle tecnologie militari necessarie a supportare una flotta efficiente ed attrezzata di tutto punto per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia.

 

Il Primo Ministro Hu Jintao e suoi assistenti di governo hanno inoltre potuto approfittare della risoluzione ONU di fine 2008 finalizzata alla repressione della pirateria del Corno d’Africa per insinuare la propria flotta fino al Golfo Persico e al largo del litorale di Aden, don licenza di sconfinare in aperto Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.

 

La pirateria, ben supportata dal caos politico che governa la Somalia, in questi ultimi anni ha esteso consistentemente il proprio raggio d’azione arrivando a lambire le coste dell’Indonesia e di Taiwan ad est e del Madagascar a sud.

 

Ciò ha effettivamente sortito forti ripercussioni sui traffici marittimi internazionali, portando circa un terzo delle cinquemila imbarcazioni commerciali che transitavano annualmente per quella via a propendere per il doppiaggio del Capo di Buona Speranza pur di evitare di imboccare il Canale di Suez.

 

Ciò ha comportato un dispendio maggiore di denaro dovuto alla dilatazione dei tempi di trasporto e rafforzato le ragioni della permanenza della flotta cinese lungo le rotte fondamentali.

 

Tuttavia l’opera di contrasto alla pirateria – sui cui manovratori e membri effettivi ben poca luce è stata fatta – si colloca in un piano del tutto secondario nell’agenda cinese, interessata prioritariamente ad assumere il controllo delle rotte marittime fondamentali e dei paesi che si su di esse si affacciano.

 

Di fondamentale importanza a tale riguardo risultano gli stretti di Malacca e Singapore, specialmente in forza della quantità di petrolio che vi transita, ben tre volte superiore a quella che transita attraverso il Canale di Suez.

 

Circa quattro quinti dei cargo petroliferi provenienti dal Golfo Persico destinati alla Cina passa per lo Stretto di Malacca, mentre gran parte di quelli diretti al Giappone passano per quello di Singapore.

 

E’ interessante notare come, di converso, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano agito pesantemente per destabilizzare i paesi che costituiscono l’asse portante della strategia cinese.

 

La secessione del Sudan del Sud dal governo centrale di Khartoum ha minato l’integrità della Repubblica del Sudan privandola dell’area ricca di petrolio e compromettendone gran parte degli introiti legati alle esportazioni.

 

Nel fomentamento dei dissidi si è intravista la mano pesante di Israele, che per ammissione dello stesso ex direttore dello Shin Bet Avi Dichter aveva sostenuto attivamente le forze indipendentiste del sud.

 

Un’operazione atta a privilegiare le etnie e le tribù meridionali invise alla preponderanza araba del resto del paese, che segna una logica soluzione di continuità rispetto alla classica strategia antiaraba propugnata da Tel Aviv, interessata costantemente a stringere legami con i paesi regionali non arabi.

 

Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano rifornito di aiuti i paesi limitrofi al Sudan affinché sovesciassero il governo centrale di Khartoum fin dall’era Clinton, mentre attualmente si sono “limitati” a stanziare corpose iniezioni di denaro a contractors privati incaricati di addestrare le frange secessioniste.

 

La Cina era il principale sponsor del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, con il quale erano stati regolarmente barattati tecnologie, armamenti e infrastrutture in cambio di petrolio.

 

Un altro paese fortemente destabilizzato in relazione alla sua posizione strategicamente cruciale è lo Yemen, cui gli Stati Uniti hanno richiesto con insistenza la concessione dell’isola di Socotra per installarvi una base militare che, se unita alla Quinta Flotta stanziata nel vicino Bahrein, formerebbe la principale forza militare dell’intero Golfo Persico.

 

L’isola si situa a metà strada tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano ed occupa una posizione che coincide con il crocevia delle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo, mediante il Canale di Suez, al Golfo di Aden e al Mar Cinese Meridionale.

 

Myanmar è stato invece oggetto di una vera e propria rivoluzione colorata, quella “color zafferano” che deve il suo nome al colore delle vesti indossate dai monaci buddhisti protagonisti delle rivolte antigovernative.

 

Non è un segreto che la giunta militare guidata dall’enigmatico generale Than Shwe si sia resa responsabile di efferatezze che la rendono difficilmente difendibile, ma siccome gli stati non hanno mai conformato il proprio operato alle tavole della legge morale non stupisce che il sostegno statunitense accordato alle frange rivoltose non abbia nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani, ma risponda a ben precisi obiettivi geopolitici.

 

Il dominio degli stretti di Malacca e Singapore consente infatti di esercitare un controllo diretto sugli approvvigionamenti energetici destinati alla Cina.

 

La Cina ha però effettuato le proprie contromosse, fornendo il proprio appoggio politico all’isolato governo di Rangoon e raggiungendo con esso accordi commerciali e diplomatici di capitale importanza strategica.

 

Pechino ha rifornito la giunta militare al potere di armamenti e tecnologie militari, ha stanziato fondi sostanziosi per la costruzione di numerose infrastrutture come strade, ferrovie e ponti.

 

In cambio, ha ottenuto il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti gasiferi presenti sui fondali delle acque territoriali ex birmane oltre a quello di dislocare le proprie truppe e di installare basi militari nel territorio del Myanmar.

 

Alla luce dei fatti, risulta che il Myanmar corrisponda a un segmento fondamentale del “filo di perle” concepito da Pechino, l’obiettivo strategico che prevede l’installazione di basi militari in tutti i paesi del sud – est asiatico che si affacciano sull’oceano indiano.

 

Tale obiettivo è oggettivamente favorito dall’evoluzione dei rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, in evidente rotta di collisione.

 

Islamabad ha mal digerito tanto le accuse di connivenza con il terrorismo rivolte ai propri servizi segreti (ISI) quanto le sortite unilaterali compiute dai droni statunitensi in territorio pakistano e ha giocato sulla centralità mediatica di cui è stato oggetto il poco credibile blitz che avrebbe portato all’uccisione di Osama Bin Laden per esternare pubblicamente la propria ferma protesta nei confronti dell’atteggiamento di Washington, che ha a sua volta replicato aspramente per bocca del Segretario alla Difesa Robert Gates e poi  per il suo successore Leon Panetta.

 

Ciò ha spinto Pechino a scendere in campo al fianco del Pakistan, suscitando il plauso del Presidente Ali Zardari.

 

Tuttavia le relazioni tra Cina e Pakistan erano in fase di consolidamento da svariati mesi e hanno prodotto risultati letteralmente allettanti.

 

La realizzazione del porto sia civile che militare di Gwadar, dal quale è possibile dominare l’accesso al Golfo Persico,  è indubbiamente il più importante di essi.

 

Il progetto in questione comprende inoltre la costruzione di una raffineria e di una via di trasporto in grado di collegare lo Xinjiang al territorio pakistano.

 

Un valore aggiunto al porto di Gwadar  è già stato inoltre conferito dall’intesa raggiunta con Islamabad e il governo di Teheran relativa alla realizzazione di un corridoio energetico destinato a far approdare il gas iraniano ai terminali cinesi.

 

In tal modo  lo sbocco portuale di Gwadar promette di divenire una dei principali snodi commerciali per l’energia iraniana, attirando Teheran verso l’orbita cinese e consentendo quindi al governo di Pechino di inanellare un’ulteriore gemma alla propria “collana di perle”.

 

 

 

La chiara vocazione eurasiatica del progetto cinese ha ovviamente suscitato forti preoccupazioni presso Washington, che non mancherà di lastricare di mine la nuova “via della seta” finalizzata a compattare il Vicino e Medio Oriente all’Asia orientale e suscettibile di sortire forti contraccolpi sulla politica energetica europea, destinata a legarsi indissolubilmente alla Russia.

 

samedi, 06 août 2011

Le cauchemar pakistanais

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Le cauchemar pakistanais

Afghanistan, Pakistan, Inde: Pourquoi la guerre dans l’Hindou-Kouch va durer encore longtemps

par Jürgen Rose*

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

AFPAK: c’est ainsi que les géostratèges appellent le théâtre des hostilités dans l’Hindou-Kouch qui oppose deux acteurs étroitement liés: l’Afghanistan et le Pakistan. Ces deux Etats sont davantage liés que séparés par une frontière longue de 2640 kilomètres qui traverse le territoire de 40 millions de Pachtounes, divisés en 65 tribus, qui vivent le long de cette ligne. Cette frontière est traversée quotidiennement par quelque 200 000 de ces personnes. C’est sous le couvert de cet incessant flux humain que tous les combattants irréguliers peuvent se déplacer entre leurs zones d’opérations en Afghanistan et leurs zones de repli au Pakistan, combattants qui, par leur guérilla, infligent depuis des années des pertes de plus en plus importantes aux troupes d’occupation internationales dans l’Hindou-Kouch.
Cette situation constitue la raison principale pour laquelle le président George W. Bush avait déjà ordonné des opérations de commando de ses Special Forces et des attaques de drones sur le territoire du Pakistan. Fraîchement entré en fonctions, Barack Obama, couronné du prix Nobel de la paix à Oslo, a ordonné d’intensifier ces lâches attaques de drones – pilotées depuis des postes de commandement inattaquables aux Etats-Unis, loin du théâtre des hostilités – qui font des quantités de victimes civiles innocentes. En outre, le chef de guerre du Bureau ovale exerce des pressions de plus en plus fortes sur Islamabad pour que l’armée pakistanaise «enfume» les nids de résistance et les zones de repli de la guérilla dans les zones tribales de la North West Frontier Province (NWFP) afin de mettre fin au conflit en Afghanistan.
Toutefois, cette stratégie, qui mise sur une victoire militaire sur la guérilla semble condamnée à l’échec. En effet, elle ignore des paramètres fondamentaux qui déterminent la politique pakistanaise, surtout la situation difficile dans laquelle se trouve enfermé le Pakistan entre l’Afghanistan à l’ouest et l’Inde à l’est. Cette situation conflictuelle a été désignée par l’acronyme plus approprié d’AFPAKIND. Ce «dilemme sandwich» résulte du conflit existentiel dans lequel se trouve le Pakistan, depuis sa fondation, avec la grande puissance nucléaire qu’est l’Inde dont la manifestation la plus visible est le conflit à propos du Cachemire qui a fait l’objet de trois guerres mais n’est toujours pas résolu.
L’engagement indien en Afghanistan ne peut qu’inquiéter les généraux pakistanais qui voient de toute façon leur pays menacé en permanence sur son front oriental. C’est que là-bas, pour ainsi dire à l’arrière du Pakistan, l’Inde n’a pas seulement créé un réseau de bases de ses Services secrets RAW appelées officiellement «consulats» ou «centres d’information». De là elle apporte notamment un soutien à des rebelles séparatistes dans la province pakistanaise du Béloutchistan et pilote des attaques de cibles situées au Pakistan. En outre, Delhi amène ses conseillers militaires à former également les forces armées afghanes (ANA) et investit d’importantes sommes d’argent dans la reconstruction et le développement de cet Etat d’Asie centrale. Dans ce but, elle coopère surtout avec les forces de l’Alliance du Nord que les Etats-Unis ont catapulté au pouvoir en 2001 et en même temps avec le régime taliban pachtoune soutenu par les Services de renseignements «Inter Services Intelligence» (ISI) et l’armée qui sert de représentant des intérêts stratégiques du Pakistan.
Il n’y a donc rien d’étonnant à ce qu’Islamabad associe le régime de Kaboul, de plus en plus lié à l’Inde, avec le développement d’un «Front occidental» visant à soutenir le terrorisme au-delà de la frontière du Pakistan et le considère comme un ennemi. L’importante menace pour ses intérêts stratégiques qui en résulte a pour conséquence que les militaires pakistanais, avec l’aide de l’ISI, continuent de soutenir de toutes leurs forces la résistance afghane selon la devise «L’ennemi de mon ennemi est mon ami.» Robert D. Blackwill, analyste américain réputé, a noté récemment à ce sujet dans un article de Foreign Affairs ce qui suit: «L’Armée pakistanaise, dominée par son attitude hostile à l’Inde et le désir de profondeur stratégique ne va ni cesser de soutenir les talibans afghans qui, pendant de nombreuses années, ont défendu leurs intérêts et de leur offrir un sanctuaire, ni accepter un Afghanistan vraiment indépendant.» Cette résistance, constituée avant tout des talibans, du réseau Haqqani et des combattants de Gulbuddin Hekmatyar, se recrute avant tout parmi les Pachtounes vivant de part et d’autre de la frontière afghano-pakistanaise. En sous-main, les militaires pakistanais concèdent sans détours qu’ils collaborent naturellement avec ces groupements parce qu’ils ont besoin en Afghanistan d’alliés sur lesquels ils puissent compter.
Pour Islamabad, le caractère fâcheux de cette situation consiste dans le fait qu’il doit d’une part soutenir la lutte des résistants afghans contre les troupes d’occupation internationales jusqu’à ce qu’elles s’en aillent afin que les forces valables pour une alliance contre l’Inde reprennent le pouvoir à Kaboul. L’ex-chef de l’ISI, le général de division Asad M. Durrani, a déclaré à ce sujet lors d’une interview menée par l’auteur de ces lignes: «Nous essayons naturellement de maintenir absolument le contact avec toutes les forces de la résistance et en particulier avec les talibans depuis qu’ils sont venus au pouvoir en 1995 en Afghanistan. Mais je serais personnellement très reconnaissant si l’ISI soutenait la résistance afghane. En effet, c’est seulement si la résistance afghane – celle des «nouveaux talibans», pas celle du mollah Omar – demeure suffisamment forte que les troupes étrangères se retireront. Sinon, elles resteront. […] Même si, depuis 2001, cela ne correspond plus à la position officielle du gouvernement pakistanais, les talibans, qui s’opposent aux forces d’occupation en Afghanistan, mènent à mon avis notre guerre au sens où, s’ils réussissent, les troupes étrangères se retireront. Mais s’ils échouent et si l’Afghanistan reste sous domination étrangère, nous continuerons d’avoir des problèmes. Si L’OTAN, la puissance militaire la plus forte du monde, s’incruste pratiquement à la frontière pakistanaise pour des raisons d’intérêts économiques et géopolitiques – songez au new great game – cela créera un énorme malaise au Pakistan.»
D’autre part cependant les forces armées pakistanaises, pour empêcher, en territoire pakistanais, des opérations militaires de plus grande ampleur que la guerre des drones et les opérations de commando des Special Forces, se voient contraintes, en tant qu’alliées des Etats-Unis dans la «guerre contre le terrorisme», d’intervenir contre les combattants irréguliers. Cette situation conflictuelle constitue en quelque sorte la garantie fatale que la guerre dans l’Hindou-Kouch durera aussi longtemps que les troupes occidentales d’occupation resteront dans le pays et que le conflit existentiel pakistano-indien ne sera pas résolu, celui-ci n’étant certes pas forcément dans l’intérêt absolu des généraux pakistanais car la paix avec l’Inde exposerait l’Etat et la société à une pression de légitimité durable et mettrait en péril l’aide considérable des Etats-Unis en matière d’armement. Dans ce contexte, l’assassinat du chef terroriste Oussama ben Laden, salué par le gouvernement Obama comme un succès politique éclatant, n’aura que peu d’influence sur la guerre en Afghanistan, d’autant plus que la politique d’occupation de l’«unique grande puissance» va de toute façon se poursuivre indéfiniment étant donné ses intérêts stratégiques et géoéconomiques à long terme, malgré toutes les déclarations sur le retrait des troupes. Par conséquent tout laisse penser que ces prochaines années, on va continuer à mourir et à tuer copieusement dans le lointain Hindou-Kouch, avec la participation fidèle de la vassale des Etats-Unis qu’est la Bundeswehr, cela s’entend.    •

Il faut cesser de livrer des armes a Benghazi

Le ministre russe des Affaires étrangères, Lavrov, a reproché à son homologue français Juppé, lors d’une visite à Moscou la semaine passée, d’avoir interprété les résolutions de l’ONU d’une manière très libre. […]
Lundi, le président d’Afrique du Sud, Zuma, avait présenté le nouveau plan de paix de l’Union africaine au président russe Medvedjew et au secrétaire général de l’OTAN Rasmussen lors de pourparlers à Sotchi. Des diplomates ont rapporté, qu’un cessez-le-feu était prévu, qui pourrait aboutir, par un dialogue national et une phase transitoire, finalement à une démocratie et des élections.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 6/7/11

L’Union africaine: Ne pas arrêter Kadhafi

Tripolis, le 3 juillet (dapd). Le Président de la Commission de l’Union africaine, Jean Ping, a invité tous les gouvernements du continent à ignorer le mandat d’arrêt de la Cour pénale internationale contre le chef d’Etat libyen Kadhafi. Le tribunal de la Haye a été «discriminatoire» et poursuit uniquement des crimes commis en Afrique tout en ignorant ceux que les puissances occidentales ont commis en Irak, en Afghanistan ou au Pakistan, a déclaré Ping vendredi soir.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 4/7/11

jeudi, 04 août 2011

Guerre contre l'Europe

Pour Burak Turna, l'image qu'ont les Turcs de l'Europe inspire le conspirationnisme. L'Europe est perçue comme terre de conquête.

Guerre contre l’Europe

par Tancrède JOSSERAN
 
Guerre contre l'Europe
 
Alors que les négociations avec l’Union européenne sont entrées dans une phase de doute, un puissant courant eurosceptique est en train d’émerger en Turquie. L’un des succès de librairie les plus significatifs de ces derniers mois : « La troisième guerre mondiale » (1), décrit dans un futur proche l’invasion de l’Europe par l’armée turque.

Avec la « Troisième guerre mondiale », (Üçüncü dünya Savasi), Burak Turna (photo) récidive le succès de son précédent roman de politique fiction : « Tempête de métal » (500 000 exemplaires vendus). Il ne s’agit plus cette fois pour l’auteur d’imaginer l’attaque de la Turquie par les États-Unis, mais de mettre en scène une vaste confrontation à l’échelle planétaire entre l’Orient et l’Occident. Dans le climat d’incertitude et de méfiance qui prévaut aujourd’hui dans les relations entre la Turquie et l’Union Européenne et, plus globalement, de l’Occident avec le monde musulman, le livre de Burak Turna apparaît comme un véritable miroir de l’image que les Turcs se font et de l’Europe, et d’eux-mêmes. C’est cette vision tendue, pleine de contradictions, oscillant entre désir et rejet, que cette œuvre de fiction, bien que confuse et manichéenne, permet d’appréhender.

L’Orient contre l’Occident

En 2010, une crise économique d’ampleur mondiale provoque l’effondrement des principales places financières de la planète, les unes après les autres. Profitant du chaos ainsi généré, une société secrète, « la fraternité des chevaliers de la mort » alliée au Vatican, déclenche une guerre à l’échelle planétaire. Le but final de la mystérieuse confrérie étant l’instauration d’ « un État mondial » (2) blanc et chrétien. Pour ce faire, cette société encourage la dialectique du choc des civilisations à travers le monde, en manipulant les mouvements identitaires et populistes en Europe, ainsi que des sectes comme la Falong en Chine. L’Allemagne, l’Autriche, la Hollande, la France sont en proie à une vague de pogroms contre les musulmans, et plus particulièrement contre les Turcs. Ce déchaînement de violence, touche aussi les ressortissants russes des pays baltes, ce qui force Moscou à intervenir. De même, la tension entre la Chine et les États-Unis pour le contrôle du Pacifique, débouche sur une opération aéronavale à Taiwan. L’Inde, alliée à la Chine, profite de la confusion générale pour anéantir la flotte américaine dans sa base de Diego Garcia et s’emparer des possessions françaises dans l’Océan Indien.
Décidés à mettre fin aux exactions contre leurs ressortissants, Ankara et Moscou alliées au tandem Pékin-New-Dehli unissent leurs efforts militaires. Une spectaculaire opération aéroportée est menée contre l’Allemagne. Les parachutistes turcs, largués par des Antonovs, hissent l’étendard écarlate frappé du croissant sur le Reichstag. Les Américains, trop occupés à faire face aux Chinois dans le Pacifique, abandonnent leurs alliés européens. Un nouvel ordre continental émerge des décombres de l’ancienne Europe dont la capitale est transférée à Istanbul.

Tout au long du récit l’auteur prend bien soin de ne pas isoler l’Islam des autres civilisations non-occidentales. Aussi, l’axe islamo-orthodoxo-hindou-confucéen créé pour la circonstance, valide davantage la thèse du choc entre l’Orient et l’Occident, qu’entre ce dernier et l’Islam. Comme Samuel Huntington avant lui, Burak Turna fait de la Russie un corps étranger à l’Europe en la plaçant dans le camp de l’Orient. En dépit de cette volonté de faire passer au second plan le facteur religieux et les divergences propres à chacune des civilisations de « l’axe oriental », l’auteur à quelque peine à expliquer la disparition des conflits entre musulmans et chrétiens dans le Caucase, l’apaisement subit des tensions dans le Cachemire et au Singkiang (Kirghizstan chinois). Finalement, le grand paradoxe de cet ouvrage réside dans cette volonté des Turcs à vouloir se faire accepter comme Européens en se comportant en conquérants, tout en rejetant l’identité occidentale.

L’Europe une terre de conquête ?

Ultime cap de l’Asie, point d’aboutissement des invasions, marche occidentale de l’Empire ottoman et extrémité nord-occidentale de l’avancée arabe, l’Europe demeure dans l’imaginaire turc un espace d’expansion. Dans une certaine mesure, le processus d’adhésion à l’UE est vécu comme une revanche sur l’Histoire, et la continuation des guerres ottomanes par d’autres moyens. Il est significatif qu’au lendemain de la validation de la candidature d’Ankara par le conseil des ministres des Vingt-Cinq, dans la capitale autrichienne, en décembre 2004, un grand quotidien turc ait titré « Vienne est tombée ! ». Au retour de son périple européen, Erdogan était accueilli triomphalement à Istanbul et surnommé : le « conquérant de l’Europe ».

Malgré son appartenance à un milieu laïc et occidentalisé, Burak Turna reste lui-même marqué par cette rhétorique belliciste. Dans son livre, sa représentation de l’ennemi européen emprunte beaucoup au registre religieux. Les soldats européens y sont décrits comme un ramassis de soudards dépravés et criminels, à l’instar des « croisés avant eux » (3). Le Vatican incarne le danger spirituel qui guette la Turquie et le monde non-occidental. La conspiration qui en émane, a pour but « d’effacer les cultures traditionnelles partout dans le monde et de créer une société d’esclaves » (4) . Nous serons les « propriétaires de la planète » (5), fait s’exclamer Burak Turna à un cardinal, porte-parole de Benoît XVI.

Ici, la figure de l’ennemi alimente l’imaginaire du complot. L’idée que l’action du Vatican puisse faire peser une menace sur l’existence de la Turquie prend sa racine dans le projet du pape Clément VIII (1592-1605) de reconquérir Istanbul et de convertir l’Empire ottoman. Plus récemment, les propos de Jean-Paul II dans son message pascal de 1995, ont été relevés avec suspicion. Le saint Père appelait les organisations armées, et spécialement les Kurdes, à s’asseoir autour de la table de négociations. Le Vatican conviait aussi Ankara à s’associer à cette initiative. Peu après, une campagne de presse relayée par le Catholic World Report aux États-Unis, s’en prenait violemment à la Turquie en l’accusant de « génocide » à l’égard des populations Kurdes. En 1998, la nomination par Jean-Paul II de deux cardinaux, dont l’identité n’a pas été dévoilée, a suscité des interrogations dans les milieux nationalistes turcs (6).

Si ces inquiétudes peuvent apparaître très exagérées, pour ne pas dire dénuées de fondement sérieux, elles n’en recoupent pas moins des « pensées réflexes » ancrées dans le psychisme turc.

En-dehors de Burak Turna, ces théories conspirationistes sont, ces derniers temps, largement reprises dans les médias. Le chroniqueur vedette de télévision, Eröl Mütercimler, s’est fait une spécialité de la dénonciation de ces forces occultes qui dirigent le monde. Pour Mütercimler, l’Europe ne voudra jamais de la Turquie car elle est intrinsèquement un club chrétien (hiristiyan kulübü). Les « architectes du nouvel ordre mondial » auraient selon lui, abouti à une forme de syncrétisme entre leur déisme maçonnique et les valeurs chrétiennes des pères fondateurs de l’Europe. Cette synthèse humanitaro-chrétienne exclurait de fait la Turquie musulmane. Pour appuyer ses propos, Mütercimler prend l’exemple du drapeau européen dont les 12 étoiles sur fond bleu représenteraient la robe de la Sainte Vierge… (7)

Ce regard turc sur l’Europe, si ambigu, si paradoxal, qu’offre le livre de Turna, est à l’image d’un pays prisonnier entre son enracinement oriental et sa marche vers l’Occident. Une Europe perçue à la fois comme une terre de conquête, comme un lieu d’affrontement, mais aussi comme la dispensatrice d’une manne précieuse, un club de riches, un Occident chrétien qui, même pour des musulmans, demeure un idéal de civilisation.

Tancrède Josseran


1) Burak Turna, Üçüncü dünya savasi, Timas Edition, Istanbul, 2005
2) Idem. p 271
3) Idem. p 348
4) Idem. p 130
5) Idem. p 271
6) Erol Mütercimler, Komplo teorileri, Alfa, Istanbul, 2006: “AB’hiristiyan kulübü’dür“ [L’Union Européenne est un club chrétien], p176-180
7) Idem. “Vatikan’in gizli ilisskileri“ [Les relations secretes du Vatican], p 293-300

 

À propos de l'auteur

 

mercredi, 03 août 2011

Somalie: merci, mais nous avons déjà amplement donné...

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Somalie : merci, mais nous avons déjà amplement donné…

 

Communiqué de Bernard Lugan

 

29 juillet 2011

 

 

La Somalie étant encore frappée par une famine, une nouvelle fois les médias déversent des images atroces accompagnées de commentaires dégoulinants de bons sentiments et chargés de reproches culpabilisateurs. Comme si nous, Européens, avions la moindre responsabilité dans ce drame dont les deux principales causes répétitives sont clairement identifiées :

 

- Une guerre tribale que se livrent des clans historiquement rivaux.

- Une surpopulation suicidaire qui a détruit le fragile équilibre écologique régional. Comment pourrait-il d’ailleurs en être autrement avec un taux de natalité brute de plus de 48% et un indice de fécondité par femme atteignant 6,76 enfants ?

 

Au moment où une intense campagne vise à préparer les esprits à une intervention, il est impératif de donner les clés du problème somalien tant il est vrai que seul le retour à l’histoire permet de tempérer les émois humanitaires :

 

1) La Somalie est en guerre depuis 1978. Le problème n’y est pas ethnique mais tribal, le grand ensemble ethnique somali qui occupe une vaste partie de la Corne de l’Afrique est en effet divisé en trois grands groupes (Darod, Irir et Saab), subdivisés en tribus, en clans et en sous clans qui se sont toujours opposés. Hier pour des points d’eau et des vols de chameaux, aujourd’hui pour des trafics plus « modernes ».

 

2) Le 15 octobre 1969, après l’assassinat du président Ali Shermake, le général Siyad Barre prit le pouvoir. C’était un Darod de la tribu Maheran. En 1977, il lança son armée dans l’aventureuse guerre de l’Ogaden. Dans un premier temps, l’armée éthiopienne fut balayée, puis l’offensive somalienne se transforma en déroute. Après cette défaite, les réalités tribales s’imposèrent avec encore plus de force qu’auparavant et le gouvernement ne fut plus désigné que sous l’abréviation MOD, qui signifiait Marehan-Ogadeni-Dhulbahante, à savoir les trois clans associés aux affaires.

 

3) Une terrible guerre tribale opposa ensuite les Darod entre eux. Finalement, la tribu Hawiyé l’emporta sur celle des Maheran et le 27 janvier 1991 le général Siyad Barre fut renversé.

 

4) La Somalie subit alors la loi de deux factions antagonistes du CSU (Congrès  somalien unifié), mouvement tribal des Hawiyé, qui éclata sur un critère clanique opposant le clan agbal d’Ali Mahdi Mohamed au clan Habar Gedir dirigé par le « général » Mohamed Farah Aidid. Dans le nord du pays, le 18 mai 1991, le Somaliland, ancien protectorat britannique, se déclara indépendant.

 

5) La guerre des milices provoqua une atroce famine et l’opinion américaine se mobilisa. En France le docteur Kouchner lança la campagne du « sac de riz pour la Somalie ». Puis, au mois de décembre 1992, un corps expéditionnaire  US débarqua dans une mise en scène théâtrale pour « rendre l’espoir » aux populations somaliennes. L’opération « Restore Hope » avait été déclenchée au nom d’une nouvelle doctrine inventée pour la circonstance, l’ingérence humanitaire, ce colonialisme des bons sentiments. Ce fut un échec cuisant et le 4 mai 1993, l’ONU prit le relais des Etats-Unis en faisant débarquer un corps expéditionnaire de 28.000 hommes. Le 5 juin, 23 Casques Bleus pakistanais furent tués par les miliciens du « général » Aidid et le 12 juin, un commando américain échoua dans une tentative de représailles contre le chef de guerre somalien. Le 3 octobre enfin, 18 soldats américains perdirent la vie dans l’affaire de la « chute du faucon noir ».

 

6) Au mois de mars 1994, à Nairobi, un accord de réconciliation fut signé entre les deux chefs hawiyé, mais il demeura lettre morte. A partir du mois d’août, l’anarchie fut totale, les hommes d’Ali Mahdi contrôlant le nord de Mogadiscio et ceux du « général » Aidid le sud. Le 22 août, 7 Casques Bleus indiens furent tués. Les Américains rembarquèrent alors, abandonnant dans le bourbier somalien le contingent de l’ONU composé de soldats pakistanais et bengalais. Le 28 février 1995, il fallut un nouveau débarquement baptisé opération « Bouclier unifié » pour extraire les malheureux devenus otages. L’ONU quittait  la Somalie sur un cuisant échec politique et militaire qui lui avait coûté 136 morts et 423 blessés.

 

7) Les clans somalis se retrouvèrent  alors entre eux et ils s’affrontèrent de plus belle. Le 1° août 1996, le « général » Aidid, grièvement blessé au combat mourût. Son fils Hussein Aidid lui succéda à la tête de son parti, le CSU/UNS (Congrès somalien unifié/Union nationale somalienne), c’est à dire sa milice tribale composée du noyau dur du sous clan des Saad, lui-même étant une sous division du clan des Habr Gedir de la tribu hawiyé. Dans le sud du pays, les miliciens de Hussein Aidid s’opposèrent aux Rahanwein, ces derniers s’affrontant ensuite en fonction de leur appartenance clanique tandis que dans le nord-est, plusieurs composantes des Darod dirigées par Abdullahi Yussuf Ahmed créaient au mois d’août 1998 une région autonome baptisée  Puntland.

 

8) En 2004, après d’interminables discussions entre les factions claniques, un accord  de partage du pouvoir fut trouvé, mais le Gouvernement Fédéral de Transition, incapable de s’installer en Somalie fut contraint de « gouverner » depuis le Kenya.

 

9) Puis un nouveau mouvement fit son apparition sur la scène somalienne, les Tribunaux islamiques dont les milices, les Shababs (Jeunes) menacèrent de prendre Mogadiscio. Au mois de décembre 2006, pour les en empêcher, l’armée éthiopienne entra en Somalie sans mandat international, mais encouragée par les Etats-Unis.

 

10) Par le vote de la Résolution 1744 en date du 21 février 2007, le Conseil de sécurité de l’ONU autorisa ensuite le déploiement d’une mission de l’Union Africaine, l’AMISOM. L’UA avait prévu qu’elle serait composée de 8000 hommes, or les pays volontaires ne se bousculèrent pas.

 

Depuis, à l’exception du Somaliland et dans une mesure moindre du Puntland, les islamistes contrôlent  la majeure partie du pays. Or, pour eux, la famine est une véritable aubaine car :

- Elle va leur permettre d’être reconnus par la « communauté  internationale » qui devra traiter avec eux pour l’acheminement de l’aide alimentaire.

- Elle va leur permettre d’achever la prise de contrôle du pays.

- Elle va leur permettre de tirer de juteux profits des détournements de cette aide, comme cela avait été le cas lors de la grande famine d’Ethiopie dans les années 1984-1985. 

 

La conclusion de cette mise au point est donc claire : nous n’avons rien à faire dans cette galère. A moins, naturellement, de vouloir verser dans le « tonneau des Danaïdes » somalien une aide qui serait pourtant tellement utile à nos SDF et à toutes ces familles françaises qui ne mangent plus à leur faim.

Enfin, mes pensées vont à cet officier français - et à sa famille -, prisonnier des milices somaliennes depuis deux longues années et dont le sort n’émeut pas particulièrement l’opinion. Mais il est vrai qu’il n’a pas la chance d’appartenir à la corporation journalistique...

 

Pour en savoir plus sur l’actualité africaine libérée du prisme de la pensée unique et du politiquement correct, je ne puis que vous conseiller de vous abonner à la revue l’Afrique Réelle envoyée par PDF le 15 de chaque mois. Pour en savoir plus : 

http://www.bernard-lugan.com

http://afriquereelle.blogspot.com

 

Bernard Lugan  

dimanche, 24 juillet 2011

Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Das US-Abenteuer in Georgien sowie die eklatante Wirtschafts- und Finanzkrise, die das westliche System derzeit heimsucht, zeigen, daß die Vereinigten Staaten von Amerika an diesem Punkt in der Geschichte nicht in der Lage sind, die Führungsrolle zu übernehmen. Auf Grundlage beispielsweise der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Mitte—Peripherie etc. scheinen keinerlei künftige geopolitische Szenarien von Bedeutung herauszuarbeiten zu sein. Betrachten wir die kontinentalen sowie multikontinentalen Gemeinsamkeiten und Unterschiede der globalen Akteure, so zeigen sich uns die Säulen, auf denen ein neues internationales System für Indiolateinamerika und Eurasien ruhen kann.


Von der Regierungsunfähigkeit der USA

Die jüngste Diskussion um Georgien setzt dem Gerede um die sogenannten „unipolaren“ Vereinigten Staaten von Amerika und vor allen Dingen der Behauptung, diese hätten ein wirkungsvolles geopolitisches System — das heißt ein multipolares System — geschaffen, endlich ein Ende.

Dies sehen nicht nur die meisten jener Beobachter und Berichterstatter so, die — während sich der Niedergang der „unverzichtbaren Nation“ (so ein Syntagma der US-Außenministerin Madeleine Albright) vollzieht — im Zuge der Herbstkrise zwischen Moskau und Tiflis wiederholt eine neue Bipolarität beschworen und Formulierungen aus der Zeit des „kalten Krieges“ entstaubt haben. In Wahrheit sind wir von einem erneuten Aufleben des alten bipolaren Systems weit entfernt; die Nachkriegszeit von 1945 bis 1989 ist von einem ideologischen Widerstreit gekennzeichnet gewesen (nämlich zwischen den Antithesen Kapitalismus—Kommunismus und Totalitarismus—Demokratie), der nun aber nicht so sehr an den lymphatischen Knotenpunkten des bipolaren Gleichgewichtes aufgelöst, sondern vielmehr dadurch entschieden worden ist, daß die heutigen großen Nationen mit kontinentalen Ausmaßen, wie zum Beispiel China, Indien und Brasilien, die aufgrund ihrer wirtschaftlichen Entwicklung und dank des geopolitischen Bewußtseins, das sie unter ihrer jeweiligen politischen Führung rund ein Jahrzehnt lang kultiviert haben, gediehen sind und heute danach streben, auf der weltweiten Bühne in politischer, wirtschaftlicher und sozialer Hinsicht verantwortungsvolle Rollen zu übernehmen.

Wir müssen sogleich hinzufügen, daß das Ende der US-dominierten unipolaren Hegemonie keineswegs die militärische Vorherrschaft berührt, die Washington in weiten Teilen der Welt besitzt. Doch Washingtons Macht in geopolitischer Hinsicht ist heute geringer als noch vor einigen Jahren. Ich möchte allerdings darauf hinweisen, daß diese Hegemonie heute für die internationale Stabilität vielleicht noch gefährlicher ist, als dies in der Vergangenheit der Fall war, gerade weil sie wackelig und empfindlich ist und Washington und das Pentagon leicht aus dem Gleichgewicht geraten können, wie die georgische Krise ja auch gezeigt hat.

Die tiefe Strukturkrise der US-Wirtschaft1 [1] hat nur dazu beigetragen, den Prozeß der Machteinbuße des „westlichen Systems“, der seit Mitte der 90er Jahre zu beobachten ist, zu beschleunigen. Mit den Auswirkungen, die dieser Prozeß auf die Vereinigten Staaten haben wird, auf die „einzige Weltmacht“, haben sich in den ersten Jahren unseres Jahrhunderts Autoren wie Chalmers Johnson2 [2] und Emmanuel Todd3 [3] in ihren jeweiligen Analysen befaßt; hierin zeigen die Verfasser auf, wohin dieser Prozeß bald führen wird und wie die Zersetzung des US-Systems vonstatten geht.

Johnson, ein profunder Kenner Asiens im allgemeinen und Japans im besonderen, meint, daß die USA in den Jahren 1999/2000 nicht in der Lage gewesen seien, ihre Beziehungen mit den Ländern Asiens souverän aufrechtzuerhalten, während man doch deutlich „die fortgesetzten Bemühungen ihres Landes, die ganze Welt zu beherrschen“4 [4] verfolgen konnte. Zu den Veränderungen, die sich bereits sichtbar abzeichnen und die geopolitische Situation der nahen Zukunft erahnen lassen, zählt Johnson auch „Chinas zunehmende Orientierung am Vorbild der asiatischen Staaten mit hohem Wirtschaftswachstum“.5 [5] Der gleiche Autor weiß von der mitleidslosen Analyse David P. Calleos zu berichten,6 [6] der bereits im Jahre 1987 die Auflösung des internationalen Systems schilderte und die Ansicht vertrat, daß die Vereinigten Staaten am Ende des 20. Jahrhunderts eine „raubgierige Hegemonialmacht“ seien „mit wenig Sinn für Ausgewogenheit“.

Sowohl der Franzose Todd als auch der Amerikaner Johnson sind der Ansicht, daß die USA aufgrund der Kriege im Mittleren Osten und in Jugoslawien zu einem Unsicherheitsfaktor für das gesamte internationale System geworden sind; Todd zufolge wirken sich unter anderem die ökonomischen Verflechtungen der Vereinigten Staaten deutlich nachteilig aus, wie ja auch das negative Wirtschaftswachstum des letzten Jahrzehnts unzweifelhaft zeigt.

Einige Jahre später, im Januar 2005, wird ein so aufmerksamer und brillanter Beobachter wie Michael Lind von der New America Foundation („Stiftung Neues Amerika“) in einem wichtigen Artikel in der Financial Times argumentieren, daß einige eurasische Länder (in erster Linie China und Rußland) sowie Südamerika „in aller Stille“ Maßnahmen in die Wege leiten, die den nordamerikanischen Einfluß „verringern“ sollen.7 [7]

Luca Lauriola hat sich dem erst kürzlich — 2007 — im wesentlichen angeschlossen;8 [8] in den Worten Claudio Muttis: „Lauriola bringt einige Argumente vor, die man wie folgt zusammenfassen kann: 1.) Die USA stellen nicht mehr die große Weltmacht dar; 2.) die technologische Großmacht Rußland ist heute mächtiger, als die die USA es sind; 3.) die strategische Verständigung zwischen Rußland, China und Indien bietet eine geopolitische Alternative zu den USA; 4.) die USA stecken mitten in einer schweren Finanz- und Wirtschaftskrise, die den Auftakt zu einem veritablen Kollaps bildet; 5.) in dieser Lage steht die US-Macht so ‚einsam und verlassen‘ da, daß Moskau, Peking und Neu-Delhi versucht sein werden, Reaktionen zu provozieren, die zu globalen Katastrophen führen können; 6.) die Administration Bush schreitet beharrlich auf den Abgrund zu, während die Regierung der Welt vorgaukelt, alles sei in bester Ordnung; 7.) die Lebensbedingungen der Mehrzahl der US-Bürger sind mit denen in manchen Entwicklungsländern vergleichbar; 8.) das Bild, das sich uns heute von den USA bietet, ist keineswegs eine historische Ausnahme, vielmehr zeigt sich in der US-Geschichte eine klare Kontinuität (vom Völkermord an den native Americans bis zum Terrorismus, wie er in Vietnam praktiziert wurde); 9.) in den USA hält die gleiche messianische Lobby die politischen Zügel in Händen, die schon früher in der Sowjetunion die Nomenklatura gestellt hat.“9 [9]

Aber warum steht die Supermacht USA nicht einmal mehr sagen wir zwanzig Jahre vor ihrem Kollaps? Warum soll ein globaler Akteur wie die Vereinigten Staaten von Amerika nicht in der Lage sein, sich weiter an der Macht zu halten und seine offen verkündete „Neue Ordnung“, seine New Order, in demokratischer und liberaler Manier durchzusetzen?

Die Antworten auf diese Fragen sind im großen und ganzen nicht nur einfach in den Untersuchungen von Wirtschaftswissenschaftlern und/oder in politischen Widersprüchen des westlichen Systems zu finden. Sie sind meiner Meinung nach vielmehr in der Auslegung und Anwendung geopolitischer Lehrsätze durch die US-Macht zu suchen. Die Vereinigten Staaten von Amerika — eine thalassokratische Weltmacht — waren schon immer bestrebt, ihre Einflußsphäre auch auf den südamerikanischen Subkontinent auszudehnen. Es ist dies eine geopolitische Praxis, die ich bereits an anderer Stelle als „chaotisch“ bezeichnet habe;10 [10] darunter ist eine Geopolitik der „fortwährenden Störung“ empfindlicher Territorien zu verstehen, um diese dem eigenen Einfluß zu unterstellen und sie schlußendlich dem eigenen Hoheitsgebiet einzuverleiben. Dieses Vorgehen zeugt allerdings von der Unfähigkeit, jene wahrhaft gegliederte internationale Ordnung zu verwirklichen, die diejenigen durchsetzen müssen, deren Trachten auf eine weltweite Führerrolle, eine globale leadership, gerichtet ist.

Zwei italienische Geopolitiker, Agostino Degli Espinosa (1904–1952) und Carlo Maria Santoro (1935–2002), haben in ganz verschiedenen Epochen und mit großem zeitlichen Abstand voneinander — der erste in den 1930ern, der zweite in den 1990ern — den USA übereinstimmend einen wichtigen Zug attestiert, nämlich die Unfähigkeit zu regieren und zu verwalten.

Vor vielen Jahrzehnten, im Jahre 1932, schrieb Agostino Degli Espinosa: „Amerika will gar nicht regieren, es will vielmehr auf die einfachste Art und Weise herrschen, die man sich denken kann, nämlich mittels der Dollar-Herrschaft“, und er fährt fort, „das bedeutet nicht nur, daß seine Gesetze oktroyiert und sein Wille durchgesetzt wird; sondern das bedeutet das Diktat eines Gesetzes, dem der Geist der Menschen oder der Völker in solcher Weise anhaftet, daß Regierende und Regierte ein spirituelle Einheit bilden.“11 [11]

Carlo Maria Santoro hat vor über sechzig Jahren noch einmal unterstrichen, daß die US-Amerikaner sich die „maritime Macht […] überhaupt nicht ausmalen, ja nicht einmal konzeptionell vorstellen können, nicht Eroberung und Verwaltung noch die hierarchische Unterteilung, wie die großen Kontinentalreiche“ sie aufwiesen.12 [12]

Die thalassokratische Besonderheit der USA, die Santoro hervorgehoben hat, und die Unfähigkeit zum Regieren, die schon Degli Espinosa so meisterhaft erläuterte, weisen deutlicher als jede andere Analyse auf den künftigen Niedergang amerikanischer Macht hin. In diesem Zusammenhang müssen natürlich weitere kritische Elemente bezüglich der Expansion des US-Imperialismus berücksichtigt werden: Militäreinsatz, öffentliche Ausgaben, geringe diplomatische Kompetenz.

Der historische Tag, an dem die Führungsunfähigkeit der USA offen zutage trete, sei nun gekommen, behauptete der französische Wirtschaftswissenschaftler Jacques Sapir jüngst. Dem Direktor der Hochschule École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) zufolge habe sich bereits in der Krise von 1997 bis 1999 gezeigt, „que les États-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays“13 [13]. Sapir sieht in der Globalisierung selbstverständlich einen Aspekt der US-Expansion, denn er versteht die Anwendung der amerikanischen Politik im großen Maßstab als eine Politik der freiwilligen finanziellen und merkantilen Öffnung.14 [14] Zu diesem Zeitpunkt, da nun das liberale US-amerikanische Süppchen mittels des Diktats des Internationalen Währungsfonds weiteren Patienten eingeflößt werden soll — obwohl dies doch schon in Indonesien mißlang und sich auch Kuala Lumpur nachdrücklich dagegen gewehrt hat —, unterstreicht Sapir, daß es Pekings verantwortungsvolle Wirtschaftspolitik ist, die die Stabilität im Fernen Osten garantiert.

Es sei hier festgehalten, daß die Beschleunigung des ökonomischen und politischen Schrumpfungsprozesses der USA (2007/08) in eine Zeit fällt, da die Führung der Nation nach wie vor in Händen einer Machtclique liegt, die sich auf die Ideen des neokonservativen think tank beruft. Die Neocons haben bekanntlich Washington in den letzten Jahren — spätestens seit 1998, dem Jahre des Beginns der „Revolution in Military Affairs“ — soweit wie möglich zu einer aggressiven und expansionistischen Außenpolitik gedrängt; es war dies eine Politik, die sich eng an die Prinzipien des Alten Testamentes (— der messianische Impuls bildet einen festen Bestandteil des US-Patriotismus wie auch eine Konstante des US-Nationalcharakters —) sowie an die trotzkistische Theorie von der „permanenten Revolution“ gehalten hat, wobei letztere allerdings eine besondere — nämlich konservative — Beugung hat hinnehmen müssen. Diese Theorie ist nicht nur gewissermaßen das theoretische Substrat der Strategie des permanent war, des „beständigen Krieges“, welche Vizepräsident Dick Cheney lanciert und welche die Bush-Administration im Laufe der letzten beiden Legislaturperioden (2000–08) so eifrig umgesetzt hat, weshalb in Washington die „Geopolitik des Chaos“ aufgeblüht ist.

 

Indiolateinamerika und Eurasien

Die USA empfinden sich von der Notwendigkeit der geostrategischen Ordnung (über die in Eurasien Rußland und China die Kontrolle ausüben, in der südamerikanischen Hemisphäre dagegen Brasilien, Argentinien sowie die Karibik) und einer grundlegenden Wirtschafts- und Finanzkrise eingeengt; sie scheinen verwirrt und schwanken einerseits zwischen einer Außenpolitik noch aggressiverer Art und mit noch mehr Muskelspiel als in der jüngsten Vergangenheit und andererseits einer realistischen Neueinschätzung ihrer eigenen globalen Rolle. Derweil werden sich die größten eurasischen Nationen — allen voran Rußland und China — und die wichtigsten südamerikanischen Nationen — Argentinien und Brasilien — ihres wirtschaftlichen, politischen und geostrategischen Potentials in immer stärkerem Maße bewußt.

Dies setzt voraus, daß politische Analytiker und Entscheidungsträger neue Paradigmen zur Anwendung bringen, um die Gegenwart zu interpretieren. Die Auslegungsschemata der Vergangenheit, die auf der Grundlage der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Zentrum—Peripherie fußen, scheinen keine Gültigkeit mehr zu haben. Eine Analyse der Gegenwart wird von Nutzen sein, um alle notwendigen Elemente zu erfassen, um die geopolitischen Szenarien der Zukunft zu umreißen, um sich einer kontinentalen wie auch multipolaren Sichtweise zu befleißigen, um Bündnisse wie auch Spannungen zwischen den globalen Akteuren auszumachen; hier richten wir unsere Aufmerksamkeit auf die interkontinentalen Achsen zwischen beiden Hemisphären unseres Planeten.

Die BRIC-Achse (Brasilien, Rußland, Indien und China), die neue geoökonomische Achse zwischen Eurasien und Indiolateinamerika, ist mittlerweile eine wohldefinierte, attraktive Tatsache und wird in naher Zukunft verschiedene eurasische und südamerikanische Nationen verbinden. Wenn sich diese Achse nicht kurz- bis mittelfristig konsolidiert, wird der britische „westliche“ Traum von einer euroatlantischen Gemeinschaft, „von der Türkei bis Kalifornien“15 [15], weitergeträumt werden, und die Weltmacht USA — als Kopf der Triade Nordamerika, Europa und Japan — wird weiterhin herrschen.

Auf dem jüngsten Gipfeltreffen der Außenminister der BRIC-Staaten (im Mai 2008 in Jekaterinburg/Rußland) wurde die Absicht bekräftigt, die wirtschaftlichen und politischen Beziehungen zu den neuen aufstrebenden Ländern enger zu gestalten; in den USA faßte man dies als veritablen Affront auf. Man sollte das Treffen der „Großen Fünf“ (Brasilien, Indien, China, Mexiko und Südafrika) in Sapporo auch in Verbindung mit dem G8-Gipfel in Tōyako im Juli 2008 sehen.

Mit dem Amtsantritt von Ministerpräsident Wladimir Putin in Rußland im August 1999 begannen sich zwischen Rußland und einigen südamerikanischen Ländern dauerhafte wirtschaftliche Beziehungen anzubahnen, die in den letzten Jahren intensiviert wurden und eine gewisse politische Dimension angenommen haben.

China zeigte sein Interesse an Südamerika bereits im April 2001 mit dem historischen Besuch von Staatspräsident Jiang Zemin in mehreren südamerikanischen Nationen auf dem Subkontinent. China, stets auf der Suche nach Rohstoffen und Energieressourcen für die industrielle Entwicklung, ist der Auffassung, daß es in seinen bevorzugten und strategischen Partner-Staaten Brasilien, Venezuela und Chile erheblichen Investitionsbedarf gibt, damit die grundlegende Infrastruktur geschaffen werden kann (heute gibt es rund 400 bis 500 Handelsvereinbarungen zwischen Peking und den wichtigsten südamerikanischen Ländern einschließlich Mexikos).

Das Interesse Rußlands und Chinas an Südamerika wächst daher von Tag zu Tag. Die russische Gasprom (und mit ihr Eni)16 [16] hat im September 2008 Verträge mit Venezuela über die Erforschung des Gebietes Blanquilla Est und der Karibikinsel La Tortuga, etwa 120 Kilometer nördlich von der Hafenstadt Puerto La Cruz (im Norden Venezuelas) gelegen, unterzeichnet, und Moskau hat einen Plan zur Schaffung eines Ölkonsortiums in Südamerika verabschiedet. Während der russische Mineralölkonzern Lukoil nach Gesprächen mit der Erdölgesellschaft Petróleos de Venezuela S. A. (PDVSA, auch „Petroven“) eine Punktation verfaßte, reiste ferner Staatspräsident Hugo Chávez im September 2008 nach Peking, um ein Dutzend Handelsabkommen über die Lieferung landwirtschaftlicher, technologischer und petrochemischer Erzeugnisse mit dem chinesischen Staatsoberhaupt Hu Jintao zu unterzeichnen; überdies verpflichtete sich Chávez, bis 2010 fünfhunderttausend Barrel Öl pro Tag zu liefern und hernach eine Million bis zum Jahre 2012.

Darüber hinaus sind Peking und Caracas nach intensiven Verhandlungen von Mai bis September 2008 übereingekommen, die notwendigen Voraussetzungen für die Errichtung einer im gemeinschaftlichen Besitz befindlichen Raffinerie in Venezuela zu schaffen und gemeinsam in China eine Flotte von vier gigantischen Öltankern zu bauen, um die erhöhten Öl-Lieferungen zu bewältigen.

Die Karibik und Südamerika scheinen nicht mehr zu sein als der „Hinterhof“ Washingtons. Washingtons Sorgen vergrößern sich angesichts Nikaraguas Anerkennung der Republiken Südossetien und Abchasien, angesichts Venezuelas Auftreten als Gastgeber für russische strategische Bomberpiloten auf Fernaufklärung und vor allem angesichts der Beschleunigung des Prozesses der südamerikanischen Integration durch das enge Bündnis zwischen Buenos Aires und Brasília. Die Beziehungen zwischen den beiden größten Ländern des amerikanischen Subkontinentes, Argentinien und Brasilien, haben es jüngst (Oktober 2008) gestattet, das Sistema de Pagos en Monedas Locales (SML)17 [17] für den wirtschaftlich-kommerziellen Austausch ins Leben zu rufen. Die Umgehung des US-Dollars durch den SML ist ein erster echter Schritt in Richtung auf eine währungspolitische Integration in den Gemeinsamen Markt „Mercosur“ und der Beginn der Schaffung einer „regionalen Drehscheibe“, die wohl vor allem auf die im wirtschaftlich-kommerziellen Bereich bereits soliden Beziehungen zu Rußland und China wird bauen können, die sich in der unmittelbar nächsten Zeit prächtig entwickeln werden.

Washingtons Nervosität wächst noch angesichts von Pekings und Moskaus Ausweitung ihres Einflusses in Afrika und angesichts der Unterhaltung ihrer Beziehungen mit dem Iran und Syrien.

Aber so wichtig und notwendig solche ökonomischen, kommerziellen und politischen Vereinbarungen auch sein mögen, damit sich das neue multipolare System, dessen beide Säulen Eurasien im Nordosten und Indiolateinamerika im Südwesten sind, richtig entwickeln kann, müssen letztere unbedingt ihre Seeküsten kontrollieren und ihre (oft künstlich von Washington und London hervorgerufenen) internen Spannungen im Zaum halten, die ihre wahre Achillesferse darstellen.

China und Rußland sollten allerdings, wenn sie den USA gegenübertreten, beachten, daß die einstige Hypermacht derzeit zwar mit Sicherheit eine „verlorene“ Nation ist, sie aber immer noch ein geopolitisches Gebilde von kontinentalen Ausmaßen und Herrin ihrer eigenen Küsten ist und noch immer eine starke Flotte besitzt,18 [18] die auf jedem Kriegsschauplatz des Planeten auftauchen kann; das heißt, es gilt vernünftige und ausgewogene Lösungen zu suchen, damit der Grad der Störungen auf globaler Ebene nicht noch zunimmt. Jüngst haben wir daran erinnert, daß Washington nun seine Vierte Flotte reaktiviert hat (bestehend aus elf Schiffen, einem Atom-U-Boot und einem Flugzeugträger), um in bedrohlicher Weise die Verpflichtung zu demonstrieren, die man für mittel- und südamerikanischen „Partner“ habe. Die furchteinflößende Macht, die die USA Eurasien und vor allem Rußland gegenüber zur Schau stellen, bildet den Ausgangspunkt für eine Politik der Integration oder der verstärkten Zusammenarbeit des Subkontinents mit Europa und Japan — auch mit China. In ebendiesem Zusammenhange müssen wir die neue Politik von Rußlands Präsident Dmitri A. Medwedew in bezug auf die Entwicklung der russischen Streitkräfte betrachten, insbesondere die Modernisierung der Marine.19 [19] Obwohl wir im Zeitalter der sogenannten „Geopolitik des Raumes“ und der geostrategischen Raketenwaffen sowie der Strategischen Verteidigungsinitiative (SDI) leben, bilden doch Schiffe auf den Weltmeeren auch heute noch den Prüfstein der Macht, an dem globale Akteure ihre Strategien zu beweisen eingeladen sind; dies gilt noch mindestens das nächste Jahrzehnt hindurch sowohl für „Binnenmeere“ (Mittel- und Schwarzes sowie Karibisches Meer) als auch in den Ozeanen.

Um völlig zu verstehen, in wessen Händen in Übersee die Macht liegt und — nach dem Willen der USA — auch künftig liegen soll, täten Peking und Moskau gut daran, der Worte Henry Kissingers eingedenk zu sein, der vor Jahren schrieb:

Geopolitisch betrachtet, ist Amerika eine Insel weitab der riesigen Landmasse Eurasiens, dessen Ressourcen und Bevölkerung die der Vereinigten Staaten bei weitem übertreffen. Und nach wie vor ist die Beherrschung einer der beiden Hauptsphären Eurasiens — Europas also und Asiens — durch eine einzige Macht eine gute Definition für die strategische Gefahr, der sich die Vereinigten Staaten einmal gegenübersehen könnten, gleichviel, ob unter den Bedingungen eines Kalten Krieges oder nicht. Denn ein solcher Zusammenschluß wäre imstande, die USA wirtschaftlich und letztlich auch militärisch zu überflügeln, eine Gefahr, der es selbst dann entgegenzutreten gälte, wenn die dominante Macht offenkundig freundlich gesinnt wäre. Sollten sich deren Absichten nämlich jemals ändern, dann stieße sie auf eine amerikanische Nation, deren Fähigkeit zu wirkungsvollem Widerstand sich erheblich vermindert hätte und die folglich immer weniger in der Lage wäre, die Ereignisse zu beeinflussen.“20 [20]

Das zu Eurasien Gesagte gilt, nahezu perfekt gespiegelt, in gleicher Weise auch für Indiolateinamerika. Aus evidenten geostrategischen Gründen muß Indiolateinamerika — und das heißt derzeit Brasilien, Argentinien und Venezuela — die Spannungen niedrig halten, die die Instabilität einiger an die Andenkette angrenzenden Länder schüren;21 [21] hier kommt Bolivien eine Vorrangstellung zu, das als Binnenstaat die Westküste des amerikanischen Subkontinents mit seinem Osten verbinden könnte. Brasília, Buenos Aires, Santiago de Chile und Caracas mußten nun gezwungenermaßen ihre politischen wie militärischen Beziehungen ankurbeln — unter der Vormundschaft der USA, wenn man so will — und haben dabei ihr besonderes Augenmerk auf den Ausbau ihrer Hochseeflotten, sowohl zivile wie militärische, gelegt. Die gegenwärtigen Entwicklungen scheinen Indiolateinamerika, dank des „fernen Freundes“ — der eurasischen Macht —, in die Hände zu spielen. Die gegenwärtigen Entwicklungen, das muß gesagt werden, nutzen auch Europa und Japan.

Für das Gleichgewicht des Planeten jedoch bleibt nur zu hoffen, daß die Macht der USA auf ein rechtes Maß zurückschrumpft und daß sich die Vereinigten Staaten danach keiner unbesonnenen Revanchestrategie verschreiben.


Aus dem Italienischen von D. A. R. Sokoll


1 [22] Die derzeitige Wirtschafts- und Finanzkrise geht nach Meinung einiger Experten, unter diesen Jacques Sapir, auf die drei Jahre 1997 bis 1999 zurück. (Jacques Sapir. Le Nouveau Siècle XXI.: Du siècle „américaine“ au retour des Nations. Paris: Seuil, 2008. S. 11.) Hier sei daran erinnert, daß die USA — in der Überzeugung, die „einzige Weltmacht“ (Zbigniew Brzezinski) zu sein — „[u]ngefähr von 1992 bis 1997 […] eine ideologische Kampagne [führten], die auf die Öffnung aller nationalen Märkte für den freien Welthandel und den ungehinderten Kapitalverkehr über nationale Grenzen hinweg abzielte“ (Chalmers Johnson Ein Imperium verfällt: Wann endet das Amerikanische Jahrhundert? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Karl-Blessing-Verlag, 2000. S. 269).

2 [23] Chalmers Johnson. Ein Imperium verfällt: Ist die Weltmacht USA am Ende? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Goldmann, 2001.

3 [24] Emmanuel Todd. Weltmacht USA: Ein Nachruf. übers. v. Ursel Schäfer u. Enrico Heinman. München: Piper, 2003.

4 [25] Johnson, a. a. O., S. 55.

5 [26] Johnson, a. a. O., S. 54.

6 [27] „Das internationale System zerbricht nicht nur, weil schwankende und aggressive neue Mächte versuchen, ihre Nachbarn zu dominieren, sondern auch weil zerfallende alte Mächte, statt sich anzupassen, versuchen, ihre ihnen aus den Händen gleitende Überlegenheit in eine ausbeuterische Vormachtstellung auszubauen.“ (David P. Calleo. Die Zukunft der westlichen Allianz: Die NATO nach dem Zeitalter der amerikanischen Hegemonie. übers. v. Helena C. Jadebeck. Stuttgart: Bonn Aktuell, 1989. S. 218.

7 [28] Michael Lind. „How the U.S. Became the World’s Dispensable Nation.“ In: Financial Times, 26. Januar 2005.

8 [29] Luca Lauriola. Scacco matto all’America e a Israele: Fine dell’ultimo Impero. Bari: Palomar, 2007.

9 [30] Claudio Mutti in seiner Rezension von: Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, a. a. O. — Veröffentlicht auf: www.eurasia.org, am 27. Januar 2008.

10 [31] Tiberio Graziani. „Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta.“ In: Eurasia: Rivista di studi geopolitici, 4/2007, S. 7.

11 [32] Agostino Degli Espinosa. „Imperialismo USA.“ In: Augustea. Nr. 10. Rom/Mailand, 1932. S. 521.

12 [33] Carlo Maria Santoro. Studi di Geopolitica 1992–1994. Turin: G. Giappichelli, 1997. S. 84.

13 [34] Auf Deutsch: „daß die Vereinigten Staaten unfähig gewesen sind, mit der internationalen finanziellen Lossagung fertigzuwerden, zu denen sie unsere Länder selbst getrieben und die sie uns auferlegt haben“. — Sapir, a. a. O., S. 11 f.

14 [35] Ebd., S. 63 f.

15 [36] Mit diesen Worten hat Sergio Romano in zwei Briefen in der Tageszeitung Corriere della Sera die britische Anti-Europa-Politik kommentiert: „Das Ziel der Briten ist die Schaffung einer großen atlantischen Gemeinschaft, von der Türkei bis Kalifornien, und London mittendrin wäre natürlich der Dreh- und Angelpunkt.“ (Sergio Romano. „Perché è difficile fare l’Europa con la Gran Bretagna.“ In: Corriere della Sera, 12. Juni 2005. S. 39.)

16 [37] Das Akronym steht für Ente Nazionale Idrocarburi und bezeichnet den Erdöl- und Energiekonzern, der das größte Wirtschaftsunternehmen Italiens darstellt. 1999 hat Eni mit Gasprom eine Vereinbarung über den Bau der Blue-Stream-Pipeline unterzeichnet, die Rußland über das Schwarze Meer mit der Türkei verbindet. — Anm. d. Übers.

17 [38] Zahlungssystem in lokaler Währung. Zwischenstaatliche Geschäfte werden direkt in Brasilianischen Reais und Argentinischen Pesos abgerechnet, ohne Umweg über die Weltwährung Dollar. — Anm. d. Übers.

18 [39] Alessandro Lattanzio weist darauf hin, daß „die US-Marine vor zehn Jahren noch vierzehn Flugzeugträger sowie Trägerkampfgruppen gehabt hatte. Jetzt besitzt sie auf dem Papier noch zehn [Flugzeugträger], aber nur fünf, sechs stehen im Einsatz“. (Alessandro Lattanzio. „La guerra è finita?“ Vortrag anläßlich des FestivalStoria zu Turin am 16. Oktober 2008.)

19 [40] Alessandro Lattanzio. „Il rilancio navale della Russia.“ In: www.eurasia-rivista.org (Stand: 1. Oktober 2008).

20 [41] Henry A. Kissinger. Die Vernunft der Nationen: Über das Wesen der Außenpolitik. übers. v. Matthias Vogel u. a. Berlin: Siedler, 1994. S. 904.

21 [42] Bekanntlich haben Analysten Südamerika in zwei Bogenbereiche untergliedert: einerseits den Andenbogen, bestehend aus Venezuela, Kolumbien, Ecuador, Peru, Bolivien, Paraguay, und andererseits den Atlantikbogen, bestehend aus Brasilien, Uruguay, Argentinien und Chile.

samedi, 23 juillet 2011

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell'Eurasia

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell’Eurasia

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 La transizione dal sistema unipolare a quello multipolare genera tensioni in due particolari aree della massa eurasiatica: il Mediterraneo e l’Asia Centrale. Il processo di consolidamento del policentrismo sembra subire una impasse causata dall’atteggiamento “regionalista” assunto dalle potenze eurasiatiche. L’individuazione di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, quale funzionale cerniera della massa euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi all’integrazione eurasiatica.

Nel processo di transizione tra il momento unipolare e il nuovo sistema policentrico si osserva che le tensioni geopolitiche si scaricano principalmente su aree a forte valenza strategica. Tra queste, il bacino mediterraneo e l’Asia Centrale, vere e proprie cerniere dell’articolazione euroafroasiatica, hanno assunto, a partire dal primo marzo del 2003, un particolare interesse nell’ambito dell’analisi geopolitica riguardante i rapporti tra gli USA, le maggiori nazioni eurasiatiche e i Paesi del Nord Africa. Quel giorno, si ricorderà, il parlamento della Turchia, vale a dire il parlamento della nazione-ponte per eccellenza tra le repubbliche centroasiatiche e il Mediterraneo, decise di negare l’appoggio richiesto dagli USA per la guerra in Iràq1. Questo fatto, lungi dal costituire solamente un elemento di negoziazione tra Washington e Ankara, come in un primo momento poteva apparire (e certamente lo fu anche, a causa di due elementi contrastanti: la fedeltà turca all’alleato nordamericano e la preoccupazione di Ankara per l’effetto che l’ipotizzata creazione di un Kurdistan, nell’ambito dell’allora probabile progetto d tripartizione dell’Iràq, avrebbe avuto sulla irrisolta “questione curda” ), stabilì tuttavia l’inizio di una inversione di tendenza della cinquantennale politica estera turca2. Da allora, con un crescendo continuo fino ai nostri giorni, la Turchia, tramite soprattutto l’avvicinamento alla Russia (facilitata dalla scarsa propensione dell’Unione Europea ad includere Ankara nel proprio ambito) e la sua nuova politica di buon vicinato, ha cercato di praticare una sorta di smarcamento dalla tutela statunitense, rendendo di fatto scarsamente affidabile un tassello fondamentale per la penetrazione nordamericana nella massa eurasiatica. Oltre gli ostacoli costituiti dall’Iràn e dalla Siria, gli strateghi di Washington e del Pentagono devono oggi tener conto infatti anche della nuova e poco malleabile Turchia.

Il mutamento di condotta della Turchia è avvenuto nel contesto della più generale e complessa trasformazione dello scenario eurasiatico, tra i cui elementi caratterizzanti sono da registrare la riaffermazione della Russia su scala continentale e globale, la potente emersione della Cina e dell’India nell’ambito geoeconomico e finanziario e, per quanto concerne la potenza statunitense, il suo logoramento sul piano militare in Afghanistan e in Iràq.

Quello che, a far data dal crollo del muro di Berlino e dal collasso sovietico, sembrava apparire come l’avanzamento inarrestabile della “Nazione necessaria” verso il centro della massa continentale eurasiatica, seguendo le due seguenti predeterminate direttrici di marcia:

 - una, procedente dall’Europa continentale, volta all’inclusione, a colpi di “rivoluzioni colorate”, nella propria sfera d’influenza dell’ex “estero vicino” sovietico, prontamente ribattezzato la “Nuova Europa”, secondo la definizione di Rumsfeld, e destinata strategicamente, nel tempo, a “premere” contro una Russia ormai allo stremo;

- l’altra, costituita dalla lunga strada che dal Mediterraneo si protrae verso le nuove repubbliche centroasiatiche, volta a tagliare in due la massa euroafroasiatica e a creare un permanente vulnus geopolitico nel cuore dell’Eurasia;

si era arrestato nel volgere di pochi anni nel pantano afgano.

Falliti gli ultimi tentativi di “rivoluzioni colorate” e sommovimenti telediretti da Washington nel Caucaso e nelle Repubbliche centroasiatiche, rispettivamente a causa della fermezza di Mosca e delle congiunte politiche eurasiatiche di Cina e Russia, messe in atto, tra l’altro, attraverso la Organizzazione della Conferenza di Shanghai (OCS), la Comunità economica eurasiatica e il consolidamento di relazioni di amicizia e cooperazione militare, gli USA al termine del primo decennio del nuovo secolo dovevano riformulare le proprie strategie eurasiatiche.

 

La prassi egemonica atlantica

 

L’assunzione del paradigma geopolitico proprio al sistema occidentale a guida statunitense, articolato sulla dicotomia Stati Uniti versus Eurasia e sul concetto di “pericolo strategico”3, induce gli analisti che lo praticano a privilegiare gli aspetti critici delle varie aree bersaglio degli interessi atlantici. Tali aspetti sono costituiti comunemente dalle tensioni endogene dovute in particolare a problematiche interetniche, disequilibri sociali, disomogeneità religiosa e culturale4, frizioni geopolitiche. Le soluzioni approntate riguardano un ventaglio di interventi che spaziano dal ruolo degli USA e dei loro alleati nella “ricostruzione” degli “stati falliti” (Failed States) secondo modalità diversificate (tutte comunque miranti a diffondere i “valori occidentali” della democrazia e della libera iniziativa, senza tenere in alcun conto le peculiarità e le tradizioni culturali locali), fino all’intervento militare diretto. Quest’ultimo viene giustificato, a seconda delle occasioni, come una risposta necessaria per la difesa degli interessi statunitensi e del cosiddetto ordine internazionale oppure, nel caso specifico degli stati o governi che l’Occidente ha valutato, preventivamente e significativamente, in accordo alle regole del soft power, “canaglia”, quale estremo rimedio per la difesa delle popolazioni e la salvaguardia dei diritti umani5.

Considerando che la prospettiva geopolitica statunitense è tipicamente quella di una potenza talassica, che interpreta il rapporto con le altre nazioni o entità geopolitiche muovendo dalla propria condizione di “isola”6, essa identifica il bacino mediterraneo e l’area centroasiatica come due zone caratterizzate da una forte instabilità. Le due aree rientrerebbero nell’ambito dei cosiddetti archi di instabilità come definiti da Zbigniew Brzezinski. L’arco di instabilità o di crisi costituisce, come noto, una evoluzione ed un ampliamento del concetto geostrategico di rimland (margine marittimo e costiero) messo a punto da Nicholas J. Spykman7. Il controllo del rimland avrebbe permesso, nel contesto del sistema bipolare, il controllo della massa eurasiatica e dunque il contenimento della sua maggiore nazione, l’Unione Sovietica, ad esclusivo beneficio della “isola nordamericana”.

Nel nuovo contesto unipolare, la geopolitica statunitense ha definito come Grande Medio Oriente la lunga e larga fascia che dal Marocco giunge fino all’Asia Centrale, una fascia che andava secondo Washington “pacificata” in quanto costituiva una ampio arco di crisi, a causa delle conflittualità generate dalle disomogeneità sopra descritte. Tale impostazione, veicolata dagli studi di Samuel Huntington e dalle analisi di Zigbniew Brzezinski, spiega abbondantemente la prassi seguita dagli USA al fine di aprirsi un varco nella massa continentale eurasiatica e da lì premere sullo spazio russo per assumere l’egemonia mondiale. Tuttavia alcuni fattori “imprevisti” quali la “ripresa” della Russia, la politica eurasiatica condotta da Putin in Asia Centrale, le nuove intese tra Mosca e Pechino, nonché l’emersione della nuova Turchia (fattori che messi in relazione alle relative e contemporanee “emancipazioni” di alcuni paesi dell’America Meridionale delineano uno scenario multipolare o policentrico) hanno influito sulla ridefinizione dell’area come un Nuovo Medio Oriente. Tale evoluzione, emblematicamente, venne resa ufficiale nel corso della guerra israelo-libanese del 2006. In quell’occasione, l’allora segretario di Stato Condoleeza Rice ebbe a dire: «Non vedo l’interesse della diplomazia se è per ritornare alla situazione precedente tra Israele ed il Libano. Penso sarebbe un errore. Ciò che vediamo qui, in un certo modo, è l’inizio, sono le doglie di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa noi facciamo, dobbiamo essere certi che esso sia indirizzato verso il nuovo Medio Oriente per non tornare al vecchio»8. La nuova definizione era ovviamente programmatica; mirava infatti alla riaffermazione del partenariato strategico con Tel Aviv ed alla frantumazione – indebolimento dell’area vicino e medio orientale nel quadro di quello che alcuni giorni dopo la dichiarazione di Condoleeza Rice venne precisato dal primo ministro israeliano Olmert essere il “New Order” in “Medio Oriente”. Parimenti programmatico era il sintagma “Balcani eurasiatici” coniato da Brzezinski in riferimento all’area centroasiatica, giacché utile alla formulazione di una prassi geostrategica che, attraverso la destabilizzazione dell’Asia Centrale sulla base delle tensioni endogene, aveva (ed ha) lo scopo di rendere problematica la potenziale saldatura geopolitica tra Cina e Russia.

Negli anni che vanno dal 2006 alla operazione “Odyssey Dawn” contro la Libia (2011), gli USA, nonostante la retorica inaugurata dal 2009 dal nuovo inquilino della Casa Bianca, hanno di fatto perseguito una strategia mirante alla militarizzazione dell’intera striscia compresa tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale. In particolare, gli USA hanno messo in campo, nel 2008, il dispositivo militare per l’Africa, l’Africom, attualmente (aprile 20011) impegnato nella “crisi” libica, finalizzato al radicamento della presenza statunitense in Africa in termini di controllo e di pronto intervento nel continente africano, ma anche puntato nella direzione del “nuovo” Medio Oriente e dell’Asia Centrale. In sintesi, la strategia statunitense consiste nella militarizzazione della fascia mediterranea-centroasiatica. Gli scopi principali sono:

  1. creare un cuneo tra l’Europa meridionale e l’Africa settentrionale;

  2. assicurare a Washington il controllo militare dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente (utilizzando anche la base di Camp Bondsteel presente nel Kosovo i Metohija), con una particolare attenzione all’area costituita da Turchia, Siria e Iràn;

  3. tagliare” in due la massa eurasiatica;

  4. allargare il cosiddetto arco di crisi nell’Asia Centrale.

Nell’ambito del primo e del secondo obiettivo, l’interesse di Washington si è rivolto principalmente verso l’Italia e la Turchia. I due paesi mediterranei, per motivi diversi (ragioni eminentemente di politica industriale ed energetica per l’Italia, ragioni più propriamente geopolitiche per Ankara, desiderosa di ricoprire un ruolo regionale di primo livello, peraltro in diretta competizione con Israele) hanno negli ultimi anni tessuto rapporti internazionali che, in prospettiva, poiché forti delle relazioni con Mosca, potevano (e possono) fornire leve utili per una potenziale exit strategy turco-italiana dalla sfera di influenza nordamericana. Il tentativo oggettivo di aumentare i propri gradi di libertà nell’agone internazionale operati da Roma e Ankara cozzavano contro non solo gli interessi generali di natura geopolitica di Washington e Londra, ma anche contro quelli più “provinciali” dell’Union méditerranéenne di Sarkozy.

 

Il multipolarismo tra prospettiva regionalista e eurasiatica

 

La prassi applicata dal sistema occidentale guidato dagli USA volta, come sopra descritto, ad ampliare le crisi in Eurasia e nel Mediterraneo al fine non della loro stabilizzazione, bensì del mantenimento della propria egemonia, mediante militarizzazione dei rapporti internazionali e coinvolgimento degli attori locali, oltre ad individuare altri futuri e probabili bersagli (Iràn, Siria, Turchia) utili al radicamento statunitense in Eurasia, pone alcune riflessioni in merito allo “stato di salute” degli USA e alla strutturazione del sistema multipolare.

Ad una analisi meno superficiale, l’aggressione alla Libia di USA, Gran Bretagna e Francia, non è affatto un caso sporadico, ma un sintomo della difficoltà di Washington di operare in maniera diplomatica e con senso di responsabilità, quale un attore globale dovrebbe avere. Esso evidenzia il carattere di rapacità tipico delle potenze in declino. Il politologo ed economista statunitense David. P. Calleo, critico della “follia unipolare” e studioso del declino degli USA, osservava nel lontano 1987 che «…le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace»10. Luca Lauriola nel suo Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero11, sostiene, a ragione, che le potenze eurasiatiche, Russia, Cina e India trattano la potenza d’oltreatlantico, ormai “smarrita e impazzita”, in modo da non suscitare reazioni che potrebbero generare catastrofi planetarie.

Per quanto invece riguarda il processo di strutturazione del sistema multipolare, occorre rilevare che quest’ultimo avanza lentamente, non a causa delle recenti azioni statunitensi in Africa Settentrionale, ma piuttosto per l’atteggiamento “regionalista” assunto dagli attori eurasiatici (Turchia, Russia e Cina), i quali stimando il Mediterraneo e l’Asia Centrale solo in funzione dei propri interessi nazionali, non riescono a cogliere il significato geostrategico che queste aree svolgono nel più ampio scenario conflittuale tra interessi geopolitici extracontinentali (statunitensi) ed eurasiatici. La riscoperta di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, evidenziando il ruolo di “cerniera” che esso assume nell’articolazione euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi per superare l’ impasse “regionalista” che subisce il processo di transizione unipolare-multipolare.

 * Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG.

1 Elena Mazzeo, “La Turchia tra Europa e Asia”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VIII, n.1 2011.

2 La Turchia aderisce al Patto Nato il 18 febbraio 1952.

3 «Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti», Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634–635.

«Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.» Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

4 Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

5 Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden, Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

6 «Un tipico descrittore geopolitico è la visione degli USA come una “isola”, non troppo diversa geopoliticamente dall’Inghilterra e dal Giappone. Tale definizione esalta la loro tradizione di commercio marittimo ed interventi militari oltremare e, ovviamente, di sicurezza basata sulla distanza e l’isolamento.» Phil Kelly, “Geopolitica degli Stati Uniti d’America”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VII, n.3 2010.

7 Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

8 «But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one», Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 luglio 2006

9 Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Mosca , 9-10 giugno 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

10 David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

11 Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.


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La pourpre et le croissant, identité nationale et armée en Turquie

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La pourpre et le croissant, identité nationale et armée en Turquie

par Tancrède Josseran

 

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La République turque est indissociablement liée à l’institution militaire. En 1923, l’armée pose les fondements de l’Etat, et l’Etat engendre la nation. Les élites militaires se sentent naturellement investies de l’identité nationale. La désintégration pitoyable de l’Empire ottoman a conforté en eux une profonde défiance envers les ensembles cosmopolites. L’armée est politique puisqu’elle est l’Etat. Contre les antagonismes religieux, ethniques, sociaux, elle assure la continuité de l’Etat et sa sauvegarde à travers le temps.

Avec un contingent de 700 000 hommes, en additionnant la gendarmerie, l’institution militaire occupe une place déterminante dans la vie du pays. Preuve de cet enracinement en août 1999, le ministre turc de la culture, Istemihan Talay, (membre du Parti d’Action Nationaliste) déclarait à l’issue d’une conférence de presse : « la nation turque est une nation armée. La figure du soldat renvoie au fondement de notre identité nationale. Tout turc naît soldat » (1).

Pour comprendre le rôle de l’armée dans la société turque, il faut commencer par renverser les stéréotypes mentaux en cours en Occident. Les sociétés développées ont supprimé tout sens tragique à la vie. La quête d’un bien être artificiel et l’individualisme exacerbé ont évacué le dépassement de soi. La mort synonyme d’anéantissement y est devenue une infamie. Conséquence, elles repoussent dans une commune aversion les deux termes de l’existence : elles ne veulent plus mourir mais refusent également de donner la vie. Le sacrifice est incompris. C’est justement la finalité des armées, qui pour mener à bien leur mission, c’est à dire la défense de l’honneur national, de l’intégrité du territoire, doivent en échange accepter l’effort, la souffrance, la mort. Or les motifs pour lesquels les armées sont rejetées dans les sociétés occidentales sont précisément celles pour lesquelles elles sont respectées en Turquie, parce qu’elles rendent constamment présente l’idée du don ultime de soi.

La guerre notre mère

Les nations se construisent par le glaive, et par ce même glaive oeuvrent à la conservation de la paix et du bien commun. L’organisation de la violence source de mort est en même temps l’outil de perpétuation de la vie. La guerre est la genèse du monde sans laquelle il n’y a pas d’avancées. Pour Suat Ilhan, maître à penser de la géopolitique turque et titulaire de la chaire de géostratégie de l’Académie de sécurité nationale (Milli Güvenlik Akademesi) : « La guerre, spécialement les grands conflits sont l’occasion d’emprunter un certain nombre de traits culturels. La guerre est un produit culturel, l’innovation technologique en découle, elle est cause et conséquence de la modernisation et de l’adhésion aux normes de la civilisation» (2). En outre, souligne Ilhan, la guerre est aussi révélatrice de l’altérité, de l’essence profonde d’une civilisation. Il cite le discours de Mustapha Kemal commémorant l’anniversaire de la guerre d’indépendance et la libération de l’Anatolie des forces de l’Entente en 1922: « Au final, ce n’est pas uniquement la force physique, c’est aussi nos ressources morales et culturelles qui assurentnotre prééminence» (3).

Les guerres font l’Histoire. Elles sont selon Ilhan, le « meilleur moyen d’appréhender» l’histoire turque (4). Elles sont consubstantielles au nomadisme des Turcs d’Asie Centrale. Ces migrations s’organisent à l’ origine vers quatre directions distinctes :

-­‐La Chine et l’Inde

-­‐La Mer Caspienne, et le nord de Mer Noire

-­‐Les Balkans et l’Europe Centrale

-­‐Le Moyen-Orient

Ces régions ont été en même temps le théâtre géographique des guerres turques. Celles-­‐ci ne sont pas encore terminées et leurs conséquences se font encore sentir. La guerre entre Chinois et peuplades turques remonte aux Huns. C’est contre eux que la dynastie des Shi-Huangdi commence à construire la Grande muraille. Aujourd’hui, un conflit de faible intensité se poursuit au Turkestan Oriental avec les Ouighours. Il est selon Ilhan l’épilogue d’une lutte commencée « depuis 2000 ans» (5). En Inde, ce conflit a commencé avec les Huns Blancs et s’est poursuivi avec l’arrivée des Moghols. L’Islam s’est répandu pendant ces guerres. Les tensions récurrentes entre Dehli et Islamabad seraient donc la conséquence de ces invasions.

Mais dans l’imaginaire turc, les guerres les plus importantes restent celles livrées contre l’Europe : «Elles sont dans notre histoire, les luttes les plus longues et les plus usantes» (6). Pour Ilhan, l’Europe a fortifié son identité contre cette menace extérieure. L’identité occidentale a « trouvé l’autre» (7). Dans un raccourci saisissant, Ilhan observe que si entre 632, date la mort de Mahomet, et 1071 année de l’arrivée des Turcs en Anatolie, la figure de l’autre chez les Européens est celle de l’arabe, elle reste avant et après ces deux dates à travers les Huns et les Ottomans, celle du turc...

Les croisades constituent un événement fondamental de cet affrontement. En 1056 Thugri Beg et les Turcs Seldjoukides poursuivant leur migration vers l’Ouest s’emparent de Bagdad. Le chef turc reçoit le titre de Sultan du dernier Calife abbasside. Charge à lui de protéger et de propager l’Islam. C’est sur cet épisode que s’appuient les tenants de la synthèse turco­islamique, véritable idéologie d’Etat mise en place par l’armée après l’intervention militaire de septembre 1980, pour affirmer l’idée d’une destinée manifeste intrinsèque aux Turcs. Dans un contexte de fortes tensions internationales et sociales, où terrorismes de droite et de gauche se répondent mutuellement, l’armée voit en l’Islam la force susceptible de stabiliser la société et d’unifier la nation autour d’un socle commun. Les Turcs à l’époque des «Seldjoukides ...ont fait face en Anatolie, en Syrie, en Palestine, à la Première croisade. A l’époque ottomane dans les Balkans, ils ont arrêté la Deuxième croisade. Le troisième temps de la guerre entre Européens et Turcs prend la forme d’un affrontement avec les Russes» (8).

Au lendemain de la Première Guerre mondiale, le traité de Sèvres prévoit le partage des dépouilles de l’empire vaincu entre les puissances de l’Entente. C’est le début de la guerre d’indépendance « Istiqlal Harbi ». Elle est dans le récit national turc simultanément et paradoxalement « le précurseur des mouvements d’émancipations du monde islamique de l’Occident» et la condition à l’édification « d’un Etat indépendant préalable à la modernisation de la société» (9). Dès lors, il s’agit en s’appropriant ce qu’il y a de meilleur dans le corpus culturel occidental, « de parvenir par étape à la société contemporaine en mêlant ces acquis à la culture turque »(10).

L’armée des steppes

Le bulletin de liaison de l’armée de terre fait remonter la première force organisée au règne de Mete Han, chef hunnique du Ier siècle av. JC (11). Cavaliers réputés, les Turcs inventent la selle et l’étrier. Ils sont de redoutables archers. La distance et l’éloignement dans l’espace en Asie Centrale empêchent la création de fortes entités étatiques. Aussi la condition première à la survie d’un groupe organisé réside dans l’utilisation du cheval. Dans l’histoire turque, la domestication du cheval est capitale.


Elle est la deuxième qualité la plus importante après la fonction guerrière. Ilhan remarque qu’« en raison des menaces qui ont pesé dans l’histoire turque, le soldat est un élément essentiel, ses qualités sont primordiales» (12). Si l’empire ottoman est cosmopolite et multiculturel, son armée en revanche est nationale et musulmane. Seuls les musulmans sont astreints à faire leur service militaire. Par conséquent, l’armée est l’une des rares institutions impériales où l’élément turc domine sans partage. Les militaires se sentent naturellement les dépositaires de l’identité nationale et de sa défense à travers les aléas du temps. Les fondateurs de la République, Mustapha Kemal et Ismet Inönü, sont des hommes d’arme. Au début du XXème siècle, cette aspiration nationale est confuse. Elle ne commence réellement à pénétrer les esprits qu’avec le Premier conflit mondial. Les soldats du Sultan sont partis à la guerre Ottomans, ils en reviennent Turcs. Sous l’effet des épreuves, des trahisons, un embryon de conscience collective émerge. L’homogénéité contre l’hétérogénéité, tel est l’enjeu du processus de construction initié par les militaires. Laïcité et intégrité du territoire sont les deux piliers du nouvel Etat. Sans laïcité, pas de lien national possible, mais sans unité, pas de cohésion politique, et par conséquent pas de laïcité.

La laïcité est la religion civique de la République dans la mesure où elle substitue aux allégeances communautaires de la théocratie ottomane un lien national.

Paradoxalement, si la laïcité reste la valeur cardinale, l’armée a su jeter des ponts avec la foi du Prophète. Elle est le socle identitaire sur lequel la République a déterminé l’appartenance à la nation turque au moment des échanges de population après la guerre d’indépendance. Cet islam scientiste et national est organisé dans le cadre d’une laïcité concordataire. Les desservants du culte dépendent du ministère des Affaires religieuses, le Dinayet. En d’autres termes, comme le souligne Ilhan, si « l’islam n’est pas l’idéologie de la République, il est le système de croyance de la majorité des citoyens turcs » (13).

La mission des militaires est la défense de l’Etat, or pour de nombreux Turcs, la préservation de l’Etat est la condition essentielle à la sauvegarde de l’Islam. Les navires de la marine ont tous obligatoirement un exemplaire du Coran à leur bord. Les soldats turcs sont appelés «Mehmetcik» (soldat de Mahomet). Ils montent à l’assaut au cri de Allah, Allah. Avant d’ouvrir le feu, l’invocation islamique bismillah est prononcée. L’armée est considérée comme le cœur du Prophète (Peygamber Oçagi). Chaque soldat tombé au champ d’honneur est déclaré martyr (sehit). Dans un sens plus large, ce terme désigne celui tombé pour l’Islam au cours du Djihad. Le nom de guerre de Mustapha Kemal, Ghazi, a lui-même une connotation religieuse puisqu’il désigne les guerriers musulmans dans leur guerre sainte contre les chrétiens. Le drapeau écarlate frappé du croissant blanc reflète ce balancement permanent entre tradition et modernité.

Un homme nouveau

En Turquie, deux ministères utilisent le terme de « national » dans leur intitulé. Les ministères de la Défense et de l’Education. Si le premier assure la sauvegarde de la République et l’intégrité du territoire, le second en revanche a pour mission d’éduquer le futur citoyen dans l’obéissance aux préceptes de la révolution kémaliste, et d’assurer son épanouissement moral dans la turcité.

Pour reprendre les mots d’un officiel turc: « L’armée est une école et l’école est une armée» (14). Il s’agit donc d’une guerre sur deux fronts. A terme, la propédeutique kémaliste doit accoucher d’un homme nouveau, viril, vertueux, héroïque. Ce processus de construction nationale repose sur le soldat et l’instituteur :

« Durant la guerre d’indépendance, tandis que l’armée combattait les Grecs sur le front, une armée de professeurs préparaient à Ankara l’assaut final contre l’obscurantisme. La guerre et l’éducation sont jumelles; le soldat chasse l’occupant du pays, l’enseignent en extirpe l’ignorance» (15).

Dès lors, dans le discours identitaire et civique turc, l’aspect militaire est déterminant. La figure du soldat est l’extension naturelle du caractère national et son accomplissement ultime. Le manuel d’éducation civique en vigueur dans les lycées du pays expose ainsi les traits inhérents à la race turque :

«-­‐Les Turcs sont la race la plus ancienne, la plus noble et la plus héroïque du monde.

-­‐La civilisation turque commence avec l’Histoire, elle est parmi les plus anciennes et les plus développées. Elle est à l’origine de la civilisation contemporaine.

-­‐Le turc est combattant, fort, plein de fougue, intelligent, brave, magnanime, exemple de morale et de vertu pour le reste de l’humanité.

-­‐La femme et l’homme turcs sont fidèles et vertueux. Quand ils fusionnent, ils forment une force indestructible.

-­‐ Les victoires des Turcs commencent avec l’Histoire. Les armées turques ont donné naissance à la gloire et l’honneur.

-­‐Les Turcs sont dévoués à leurs pays et vigilants quant à leur indépendance et à leur souveraineté. Ils n’hésitent pas à défier la mort pour la protéger.


-­‐En définitive, le turc est un être supérieur qui a une place à part sur terre» (16).

Cette éthique se retrouve également au sein des écoles militaires. Plus que des soldats, elles ont reçu pour mission de former les cadres de la nation. A partir du jour où ils franchissent le seuil de l’école, les élèves officiers s’entendent répéter qu’ils sont l’élite de la nation et sa conscience éveillée. Maintenus à l’écart des vicissitudes de la vie civile, ils conçoivent rapidement un mépris prononcé pour la médiocrité du monde extérieur. Leur serment reflète cet engagement qui implique l’idée du sacrifice ultime car selon leurs paroles, « un pays n’existe que si on peut mourir pour lui» (17). Le patriotisme s’identifie naturellement au Kémalisme et aux principes qui en découlent : souveraineté nationale, unité de l’Etat, laïcité. Les cadets sont encouragés à prendre modèle sur Atatürk et à sentir sa prés en ce dans leur service quotidien. Cette immanence est particulièrement forte certains jours de l’année. Chaque 13 mars est célébré le jour d’entrée de Kemal à l’école militaire. A l’appel matinal, les élèves officiers figés au garde-­‐ à-­‐ vous dans l’air froid du matin répondent présent à l’appel du nom du père de la nation. La commémoration de sa mort tous les 10 novembre et la visite de son mausolée, immensité de marbre aux lignes austères qui dominent Ankara, sont un moment de recueillement collectif. Le soir, dans leur chambrée, les élèves officiers sont invités à prendre comme livre de chevet le Nutuk. Texte fondateur du kémalisme, ce discours fleuve prononcé en 1927, résume l’œuvre de redressement national. Il a valeur d’écriture sainte.

Les objectifs de l’armée recoupent les trois finalités dévolues au politique, la conservation de l’intégrité du territoire et de son indépendance dans la concorde intérieure et la sécurité extérieure. L’article 35 du règlement interne de l’armée établit que le devoir des forces armées est de protéger la patrie, la République et la Constitution, « si besoin par les armes contre l’extérieur et l’intérieur» (article 85) (18). Une lecture large de ces articles donne un droit d’intervention dans le cours des affaires politiques. L’urgence politique n’admet pas de répit, elle exige une décision ferme, nette et rapide. En clair, l’institution militaire considère qu’ « est souverain celui qui décide de la situation exceptionnelle» (19). C’est la puissance, « les armes» qui créent les conditions d’application du droit. La force est le moyen essentiel et sinon le seul capable de restaurer l’unanimité nationale fêlée. Le glaive tranche le nœud de la discorde et rétablit l’harmonie perdue.

Tancrède JOSSERAN.

1 ) Hürriyet, 11 aout 1999

2 ) Suat Ilhan, Türk olmakzordur, ( Il est dur d’être turc), Alfa, Istanbul, 2009 .

3 ) Ibid.p.44.

4 ) Idem.

5 ) Ibid.p.320.

6 ) Ibid. p. 319.

7 ) Ibid.p.322.

8 ) Ibid.p.328.

9 ) Ibid.p.693.

1 0) Ibid.p.673.

1 1) Kara Kuvvetleri Haber Bulletin, «Kara Kuvetlerinin 2206’nci yildonumu kutlandi », (2206 eme anniversaires de la fondation de l’armée de terre), juillet 1997.

1 2 ) Op.cit.(2).p.610.

1 3) Ibid.p.728.

1 4) Ayse Gül, The myth of the military-nation, Palagrave-macmillan, London,

2004.p.119. 1 5) Idem.p.122. 16)Idem.p.126. 1 7) Gareth Jenkins, Context and circumstance : The Turkish military and politics, The

international Institute for Strategic Studies,London, 2001, p.32.

1 8) Vural Savas, AKP çoktan kapatilmaliydi, (L’AKP aurait du être interdit), Bilgi Yayinevi, Istanbul, 2008, p.153.

1 9)Carl Schmitt, Théologie politique, Gaillimard, Paris, 1988,p.123.

dimanche, 17 juillet 2011

Artico: una nuova rotta commerciale per l'Asia

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Artico: una nuova rotta

commerciale per l’Asia

      

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La disputa per il controllo dell’Artico è appena iniziata. In ballo c’è il controllo delle risorse energetiche, le nuove vie per i traffici marittimi e i nuovi spazi per la pesca e il turismo. E proprio l’apertura del Passaggio a Nord-Est costituisce una delle risorse che Mosca intende sfruttare sul piano economico e commerciale.

 

Un cargo, MV Nordic Barents, ha trasportato oltre 40.000 tonnellate di minerale di ferro, dal porto norvegese di Kirkenes, salpando il 4 settembre scorso e diventando così la prima nave straniera a compiere un viaggio commerciale attraverso le acque dell’Artico russo. Il bastimento ha attraversato la North Sea Route (Passaggio a Nord-est), percorrendo le coste settentrionali della Russia per raggiungere e attraversare lo stretto di Bering. Circa tre settimane dopo, ha attraccato a Xingang, nel nord della Cina. “L’intero viaggio è andato benissimo. Non ci sono stati grandi ritardi ed è stato molto economico. Comparato al Capo di Buona Speranza, il risparmio per il solo carburante è stato di circa 550.000 dollari”, ha dichiarato Christian Bonfils, Ceo della Nordic Bulk Carriers.


I russi utilizzano le acque artiche tutto l’anno, oramai da decenni. Il progressivo ritrarsi della banchisa causato dal surriscaldamento globale negli ultimi anni ha spinto le compagnie di navigazione straniere a guardare verso nord nella speranza di sfruttare le nuove rotte di navigazione commerciale. Ma fino a poco tempo la rotta dell’Estremo Nord era chiusa alle navi straniere. Le aziende era obbligate ad utilizzare il canale di Suez, un viaggio che dalla Norvegia, richiede quasi il doppio del tempo. L’anno scorso la Tschudi shipping che possiede una miniera a Kirkenes, ha chiesto ai russi la possibilità di utilizzare la via del Mare del Nord per raggiungere la Cina, il più grande cliente della miniera.
“Abbiamo ottenuto un messaggio molto chiaro dallo Stato russo: Vogliamo competere con Suez”, ha sottolineato il Ceo Felix Tschudi.


Fino a quel momento l’incertezza era enorme per i costi d’ingaggio di un rompighiaccio russo. “Il prezzo che abbiamo pagato l’anno scorso [210.000 dollari] per il servizio fornito dal rompighiaccio è stata comparabile a quello per il Canale di Suez”, ha chiosato Bonfils. Ciò dimostra che nelle intenzioni dei russi qualcosa sta cambiando. A spiegare le cause è stato il professor Lawson Brigham, dell’Università di Fairbanks in Alaska, sottolineando che tutto ciò è dovuto alla volontà russa di sfruttare le risorse naturali dell’area. “Il motivo di fondo è che il Pil della Russia è legato allo sviluppo delle risorse naturali dell’Artico”, ha osservato il docente, ma interesse di Mosca è anche quello di realizzare un sistema di trasporto delle risorse naturali ai grandi mercati globali, in particolare a quello cinese. Nella regione infatti sono presenti enormi giacimenti di risorse naturali, tra cui nichel, ferro, fosforo, rame e cobalto, nonché idrocarburi. La Russia spera così di sfruttare le enormi ricchezze dei fondali artici e favorire commerci e trasporti attraverso il Passaggio a Nord-est, Una rotta questa più breve di migliaia di km rispetto alle altre: 13mila chilometri verso l’Asia, circa 10mila in meno rispetto alla rotta tradizionale del Canale di Suez. Per l’anno in corso è previsto un traffico di tre milioni di tonnellate, una cifra che il vice premier russo Sergej Ivanov conta di raddoppiare nel 2012.

vendredi, 15 juillet 2011

Géopolitique du Léviathan


Géopolitique du Léviathan

Nur Meer und Erde haben hier Gewicht

 (Seules la mer et la terre pèsent ici)

 Goethe

Plus que de la géopolitique, cet article relève de la thalassopolitique, néologisme créé par le professeur Julien Freund « pour remettre en cause certaines conceptions de la géopolitique, qui privilégient les phénomènes telluriques par rapport aux phénomènes maritimes ».

« L’histoire mondiale est l’histoire de la lutte des puissances maritimes contre les puissances continentales et des puissances continentales contre les puissances maritimes » (1) a écrit Carl Schmitt dans Terre et Mer.

Dès le Moyen-Age, les cabbalistes interprétaient l’histoire du monde comme un combat entre la puissante baleine, le Léviathan, et le non moins puissant Behemoth, animal terrien imaginé sous les traits d’un éléphant ou d’un taureau (2). Le Behemoth essaie de déchirer le Léviathan avec ses défenses, ses cornes ou ses dents, tandis que le Léviathan, de son côté, s’efforce de boucher avec ses nageoires la gueule et le nez du terrien pour l’affamer ou l’étouffer. Allégorie mythologique qui n’est pas sans rappeler le blocus d’une puissance terrestre par une puissance maritime.

Le Sea Power de l’amiral Mahan

A la charnière des XIXème et XXème siècles, l’Américain Alfred T. Mahan dans The Influence of Sea Power upon History (1890), l’Allemand Friedrich Ratzler dans Das Meer als quelle der Volkergrösse (1900) et le Britannique Halford John Mackinder dans Britain and the British Seas (1902), accordent une importance primordiale à la mer comme source de puissance des nations.

Amiral, historien et professeur à l’US Naval Academy, Alfred T. Mahan (1840-1914) est le plus célèbre géopoliticien de la mer, son œuvre comportant vingt livres et 137 articles. Partant de l’étude de l’Histoire européenne aux XVIIème et XVIIIèmes siècles, il cherche à démontrer comment la puissance maritime (Sea Power) s’est révélée déterminante pour la croissance et la prospérité des nations. Pour lui, la mer peut agir contre la terre, alors que l’inverse n’est pas vrai et, à la longue, la mer finit toujours par l’emporter dans sa lutte contre la terre. Mahan est profondément persuadé que la maîtrise des mers assure la domination des terres, ce qu’il résume par la formule « l’Empire de la mer est sans nul doute l’Empire du monde » (3). En affirmant ainsi la supériorité intrinsèque des empires maritimes, il offre une justification théorique à l’impérialisme, ce grand mouvement expansionniste des années 1880-1914.

Dans The problem of Asia, paru en 1900, Mahan applique à l’Asie son paradigme géopolitique, insistant sur la nécessité d’une coalition des puissances maritimes pour contenir la progression vers la haute mer de la grande puissance terrestre de l’époque, la Russie. En effet, il souligne que sa position centrale confère un grand avantage stratégique à l’Empire russe, car il peut s’étendre dans tous les sens et ses lignes intérieures ne peuvent être coupées. Par contre, et là réside sa principale faiblesse, ses accès à la mer sont limités, Mahan ne voyant que trois axes d’expansion possibles : en Europe, pour contourner le verrou des détroits turcs, en direction du Golfe persique et sur la Mer de Chine. C’est pourquoi l’amiral préconise un endiguement de la tellurocratie russe passant par la création d’un vaste front des puissances maritimes, des thalassocraties, qui engloberait les Etats-Unis, la Grande-Bretagne, l’Allemagne et le Japon, les Américains s’imposant comme les chefs de file de cette nouvelle sainte Alliance.

Halford John Mackinder

S’inspirant de l’amiral Mahan, l’universitaire britannique Halford John Mackinder (1861-1947) estime, lui aussi, que la réalité géopolitique fondamentale est l’opposition entre puissances continentales et puissance maritimes. Une idée fondamentale traverse toute son œuvre : la confrontation permanente entre la Terre du Milieu ou Heartland, c’est-à-dire la steppe centre-asiatique, et l’Ile du Monde ou World Island, la masse continentale Asie-Afrique-Europe.

En 1887, Mackinder prononce, devant le public de la Royal Geographical Society, une allocution qui marque son entrée tonitruante sur la scène géopolitique, déclarant notamment « il y a aujourd’hui deux types de conquérants : les loups de terre et les loups de mer ». Derrière cette phrase allégorique et quelque peu énigmatique se tient l’arrière-plan concret de la rivalité anglo-russe en Asie centrale. En fait, Mackinder est obsédé par le salut de l’Empire britannique face à la montée de l’Allemagne et la Russie. Dès 1902, dans Britain and the British seas, il constate le déclin de la Grande-Bretagne et en conclut que cette dernière doit « partager le fardeau » avec les Etats-Unis, qui prendront tôt ou tard sa relève.

C’est dans sa célèbre communication de 1904, « The geographical pivot of history » (Le pivot géographique de l’histoire), qu’il formule sa théorie géopolitique. On peut la résumer en deux points principaux :

1°) la Russie occupe la zone pivot inaccessible à la puissance maritime, à partir de laquelle elle peut entreprendre de conquérir et contrôler la masse continentale eurasienne,

2°) en face, la puissance maritime, à partir de ses bastions (Grande-Bretagne, Etats-Unis, Afrique du Sud, Australie et Japon) inaccessibles à la puissance terrestre, encercle cette dernière et lui interdit d’accéder librement à la haute mer.

Etudiant l’époque « pré-colombienne », Mackinder oppose les Slaves, installés dans les forêts, aux peuples de cavaliers nomades présents sur les espaces non-boisés. Cette steppe asiatique, quasi déserte, est la Terre du Milieu (Heartland), entourée de deux croissants fortement peuplés : le croissant intérieur (inner crescent), regroupant l’Inde, la Chine, le Japon et l’Europe, qui jouxte territorialement la Terre du Milieu, et le croissant extérieur (outer crescent), constitué de diverses îles. Le croissant intérieur est soumis régulièrement à la poussée des nomades cavaliers venus des steppes de la Terre du Milieu.

Tout change à l’ère « colombienne », qui voit l’affrontement de deux mobilités, celle de l’Angleterre qui amorce la conquête des mers, et celle de la Russie qui avance progressivement en Sibérie. Pour l’universitaire, cette double expansion européenne, maritime et continentale, trouve son explication dans l’opposition entre Rome et la Grèce. En effet, il affirme que le Germain a été civilisé et christianisé par le Romain, le Slave par le Grec, et qu’alors que le Romano-germain a conquis les océans, le Greco-Slave s’est emparé à cheval de la steppe. Mackinder fait de la séparation entre Empires d’Orient et d’Occident, en 395, aggravée lors du Grand Schisme entre Byzance et Rome, en 1054, le point nodal de cette opposition. Il souligne qu’après la prise de Constantinople par les Turcs, Moscou s’est proclamée nouveau centre de l’Orthodoxie (la troisième Rome). Au XXème siècle, cet antagonisme religieux débouchera, selon lui, sur un antagonisme idéologique, entre le communisme et le capitalisme : la Russie, héritière de la communauté villageoise paysanne slave, le Mir, optera pour le communisme, l’Occident, dont la pratique religieuse privilégie le salut individuel, pour le capitalisme…

Cette opposition Terre/Mer risque de basculer en faveur de la terre et de la Russie. Mackinder remarque que si le Royaume-Uni a pu envoyer une armée de 500 000 hommes en Afrique-du-Sud lors de la guerre des Boers, performance saluée par tous les partisans de la puissance maritime, au même moment, la Russie avait, elle, réussi un exploit encore plus exceptionnel en entretenant un nombre équivalent de soldats en Extrême-Orient, à des milliers de kilomètres de Moscou, grâce au train transsibérien. Avec le chemin de fer, la puissance terrestre est désormais capable de déployer ses forces aussi vite que la puissance océanique. Obnubilé par cette révolution des transports terrestres, qui permettra à la Russie de développer un espace industrialisé autonome et fermé au commerce des thalassocraties, Mackinder prédit la fin de l’âge « colombien » et conclut à la supériorité de la puissance tellurique, résumant sa pensée dans un aphorisme saisissant : « Qui tient l’Europe continentale contrôle le Heartland. Qui tient le Heartland contrôle la World Island ». Effectivement, toute autonomisation économique de l’espace centre-asiatique conduit automatiquement à une réorganisation du flux des échanges, le croissant interne ayant alors intérêt à développer ses relations commerciales avec le centre, la Terre du Milieu, au détriment des thalassocraties anglo-saxonnes. Quelques années plus tard, en 1928, l’annonce par Staline de la mise en œuvre du 1er plan quinquennal confortera le penseur britannique, qui ne manquera pas de souligner que depuis la Révolution d’Octobre les soviétiques ont construit plus de 70.000 kms de voies ferrées.

Au lendemain de la Première guerre mondiale, Mackinder publie Democratic Ideals and Reality, un ouvrage concis et dense dans lequel il rappelle l’importance de la masse continentale russe, que les thalassocraties ne peuvent ni contrôler depuis la mer ni envahir complètement. Concrètement, il faut selon lui impérativement séparer l’Allemagne de la Russie par un « cordon sanitaire », afin d’empêcher l’unité du continent eurasiatique. Politique prophylactique suivie par Lord Curzon, qui nomme l’universitaire Haut commissaire britannique en « Russie du Sud », où une mission militaire assiste les partisans blancs de Dénikine, et obtient que ces ceux-ci reconnaissent de facto la nouvelle république d’Ukraine… Pour rendre impossible l’unification de l’Eurasie, Mackinder n’aura de cesse de préconiser la balkanisation de l’Europe orientale, l’amputation de la Russie de son glacis baltique et ukrainien, le « containment » des forces russes en Asie afin qu’elles ne puissent menacer la Perse ou l’Inde.

Le Kontinentalblock de Karl Haushofer

C’est en Allemagne, et sous l’influence décisive de Karl Haushofer (1869-1946), que géopoliticiens, diplomates et théoriciens nationaux-révolutionnaires et nationaux-bolcheviques (les frères Jünger, Ernst Niekisch, Karl-Otto Paetel) s’opposeront avec le plus de force aux prétentions thalassocratiques.

Officier d’artillerie bavarois et professeur à l’Académie de guerre, Karl Haushofer, envoyé au Japon en 1906 pour y réorganiser l’armée impériale, prend conscience lors de son voyage de retour vers l’Allemagne, effectué avec le Transsibérien, de l’immensité continentale de l’Eurasie russe. Après la Première Guerre Mondiale, il obtient un doctorat et devient professeur de géographie à Munich, où il se lie avec Rudolf Hess. Fondateur, en 1924, de la célèbre Zeitschrift für Geopolitik (Revue de Géopolitique), Haushofer est l’héritier direct des travaux de son compatriote Ratzel et du Suédois Kjeller. Ecartons d’abord la légende noire d’un Haushofer partisan acharné de l’hitlérisme et de sa géopolitique comme entreprise justificatrice des conquêtes territoriales du IIIème Reich, légende dont le professeur Jean Klein trouve la source dans les « efforts déployés par la propagande américaine » (4). Cette diabolisation n’étonnera que ceux qui méconnaissent l’orientation anti-thalassocratique de la géopolitique haushoférienne…

Soucieux de dépasser les petits nationalismes, Haushofer prône dès 1931, dans Geopolitik der Pan-Ideen (Géopolitique des idées continentales), la constitution de vastes espaces continentaux, seuls capables de dépasser la faiblesse territoriale et économique des Etats classiques. Une première étape pourrait passer par les rassemblements sub-continentaux théorisés en 1912 par le géographe E. Banse, qui préconisait 12 grandes aires civilisationnelles : l’Europe, la Grande Sibérie (Russie incluse), l’Australie, l’Orient, l’Inde, l’Asie Orientale, la « Nigritie », la Mongolie (avec la Chine, l’Indochine et l’Indonésie), la Grande Californie, les Terres Andines, l’Amérique (Amérique du Nord atlantique) et l’Amazonie.

Sa pensée, radicalement continentaliste et hostile aux thalassocraties, se précise lorsqu’il publie, en 1941, Der Kontinentalblock-Mitteleuropa-Eurasien-Japan (Le bloc continental-Europe-Europe centrale-Eurasie-Japon). Rédigé après le pacte-germano soviétique, cet ouvrage se prononce pour une alliance germano-italo-soviéto-nippone qui réorganiserait radicalement la masse continentale eurasienne. Il souligne que la crainte permanente des Anglo-saxons est de voir se constituer un axe Berlin-Moscou-Tokyo, qui échapperait totalement à l’emprise des thalassocraties marchandes. Celles-ci, écrit-il, pratiquent la politique de l’Anaconda, qui consiste à enserrer progressivement leurs proies et à les étouffer lentement. Or l’Eurasie, si elle parvient à s’unir, s’avèrera une proie trop grosse pour l’anaconda anglo-américain, échappant ainsi, grâce à sa masse gigantesque, à tout blocus.

Cette idée d’alliance tripartite a d’abord germé dans des esprits japonais et russes. Lors de la guerre russo-japonaise de 1905, quand Britanniques et Nippons se coalisaient contre les Russes, une partie des dirigeants japonais, dont l’ambassadeur à Londres Hayashi, le comte Gato, le prince Ito et le premier ministre Katsura souhaitaient une entente germano-russo-japonaise contre la mainmise anglaise sur le trafic maritime mondial. Visionnaire, le comte Gato préconisait alors une troïka, où le cheval central, le plus fort, aurait été la Russie, flanquée de deux chevaux légers, plus nerveux, l’Allemagne et le Japon. En Russie, l’idée eurasienne, sera incarnée, quelques années plus tard, par le ministre Witte, génial créateur du Transsibérien et partisan dès 1915 d’une paix séparée avec le Kaiser.

Inutile de préciser qu’Haushofer désapprouvera les guerres de conquête à l’Est entreprises par Hitler, qui allaient à l’encontre de son projet historique de constitution d’un bloc continental eurasiatique.

La stratégie de l’anaconda, de Spykman à Brzezinski

L’idée fondamentale, posée par Mahan et Mackinder, d’interdire à la Russie l’accès à la haute mer, sera reformulée par Nicholas John Spykman (1893-1943), qui insistera sur l’impérieuse nécessité de contrôler l’anneau maritime ou Rimland, cette zone littorale bordant la Terre du Milieu et qui court de la Norvège à la Corée : « Qui maîtrise l’anneau maritime tient l’Eurasie, qui tient l’Eurasie maîtrise la destinée du monde » (5).

Interprétant cette maxime dès le déclenchement de la Guerre froide, les Etats-Unis tenteront alors, par une politique de « containment » de l’URSS, de contrôler le rimland au moyen d’un réseau de pactes régionaux : OTAN en Europe, Pacte de Bagdad puis Organisation du traité central du Moyen-Orient, OTASE et ANZUS en Extrême-Orient.

Avec l’effondrement du bloc soviétique, l’on aurait pu s’attendre à un redéploiement stratégique des USA, et à une rupture avec la vulgate mackindérienne. Il n’en a rien été. A tel point qu’aujourd’hui encore, le conseiller (officieux) de politique étrangère le plus écouté du nouveau président américain Obama, se révèle être un disciple zélé de Mackinder. Il s’agit de Zbigniew Brzezinski, ami de David Rockefeller, avec qui il cofonda la Commission Trilatérale en 1973, et conseiller à la sécurité nationale du président Jimmy Carter de 1977 à 1980. Son œuvre théorique majeure, Le Grand Echiquier, parut en 1997, au moment des guerres de Yougoslavie entreprises en grande partie à son initiative, sous l’égide du secrétaire d’Etat aux Affaires étrangères Madeleine Albright. L’analyse stratégique de Zbigniew Brzezinski reprend cyniquement la doxa géopolitique anglo-saxonne : l’Eurasie, qui regroupe la moitié de la population de la planète, constitue le centre spatial du pouvoir mondial. La clef pour contrôler l’Eurasie est l’Asie centrale. La clef pour contrôler l’Asie centrale est l’Ouzbékistan. Pour ce russophobe d’origine polonaise, l’objectif du Grand Jeu américain doit être de lutter contre l’alliance Chine-Russie. Considérant que la principale menace vient de la Russie, il préconise son encerclement (l’anaconda, toujours l’anaconda) par l’implantation de bases militaires, ou à défaut de régimes amis, dans les ex- républiques soviétiques (Ukraine incluse), insistant en particulier sur la nécessaire instrumentalisation des islamistes. Paradoxalement, c’est au nom de la lutte contre ces mêmes islamistes que les forces américaines se déploieront en Ouzbékistan après le 11 septembre 2001… Machiavel, pas mort !

Edouard Rix, Terre & Peuple magazine, solstice d’hiver 2010, n° 46, pp. 39-41.

Notes

(1) C. Schmitt, Terre et Mer, Le Labyrinthe, Paris, 1985, p. 23.

(2) Les noms de Léviathan et de Behemoth sont empruntés au Livre de Job (chap. 40 et 41).

(3) A.T. Mahan, The problem of Asia an its effect upon international policies,, Sampson Low-Marston, London, 1900, p.63.

(4) Jean Klein, Karl Haushofer, De la géopolitique, Fayard, Paris, 1986.

(5) N. Spykman, The geography of the peace, Harcourt-Brace, New-York, 1944, p. 43.

 

mercredi, 13 juillet 2011

Der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

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Die Kräfte der Manipulation: der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

Mahdi Darius Nazemroaya

Bei ihrem Vormarsch gegen das Eurasische Herzland versuchen Washington und seine Gefolgsleute, sich den Islam als geopolitisches Werkzeug zunutze zu machen. Politisches und soziales Chaos haben sie bereits geschaffen. Dabei wird versucht, den Islam neu zu definieren und ihn den Interessen des weltweiten Kapitals unterzuordnen, indem eine neue Generation sogenannter Islamisten, hauptsächlich unter den Arabern, ins Spiel gebracht wird.

Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

Die heutige Türkei wird den aufbegehrenden Massen in der arabischen Welt als demokratisches Modell präsentiert, dem es nachzueifern gilt. Unbestreitbar hat Ankara Fortschritte gemacht im Vergleich zu den Zeiten, als es verboten war, in der Öffentlichkeit Kurdisch zu sprechen. Dennoch ist die Türkei keine funktionsfähige Demokratie, sondern eher eine Kleptokratie mit faschistischen Zügen.

Mehr:http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mahdi-darius-nazemroaya/die-kraefte-der-manipulation-der-islam-als-geopolitisches-werkzeug-zur-kontrolle-des-nahen-und-mitt.html

lundi, 11 juillet 2011

Die Destabilisierung Syriens und der Krieg in der Grossregion Naher und Mittlerer Osten

Die Destabilisierung Syriens und der Krieg in der Großregion Naher und Mittlerer Osten

Prof. Michel Chossudovsky

In Syrien entwickelt sich mit verdeckter Unterstützung ausländischer Mächte, einschließlich der USA, der Türkei und Israels, ein bewaffneter Aufstand. Bewaffnete Aufständische, die islamischen Organisationen zuzurechnen sind, haben die Grenze nach Syrien aus Richtung Türkei, des Libanon und Jordaniens überschritten. Das amerikanische Außenministerium bestätigte, dass es die Aufständischen unterstützt. 

»Die USA sind dabei, ihre Kontakte zu Syrern auszuweiten, die auf einen Regimewechsel in ihrem Land setzen. Dies erklärte die Vertreterin des amerikanischen Außenministeriums Victoria Nuland. ›Wir haben damit begonnen, unsere Kontakte zu Syrern auszuweiten, die sowohl in Syrien selbst wie im Ausland zu einem Regimewechsel aufrufen‹, erklärte sie. Zugleich wiederholte sie, Barack Obama habe bereits zuvor den syrischen Präsidenten Baschar al-Assad aufgefordert, Reformen einzuleiten oder seine Machtposition zu räumen.« (Voice of Russia, 17. Juni 2011)

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/prof-michel-chossudovsky/die-destabilisierung-syriens-und-der-krieg-in-der-grossregion-naher-und-mittlerer-osten.html

lundi, 06 juin 2011

Obama ou le velours afro-américain sur le poing d'acier yankee

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Obama ou le velours afro-américain sur le poing d’acier yankee

 

Entretien avec le Professeur Francis Boyle sur le rôle politique mondial de Barack Obama

 

Dans la deuxième partie de son entretien accordé au Dr. Gerhard Frey jr., le Prof. Francis Boyle se concentre principalement sur le rôle que doit jouer la présidence d’Obama dans le plan général de l’impérialisme américain (première partie : http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2011/05/09/p... ).

 

Q. : Prof. Boyle, pour nous Européens, Obama demeure un homme à mystères. Lorsqu’il a accédé à la présidence, il a fait ôter le buste de Churchill qui ornait le « Bureau ovale » de la Maison Blanche, non seulement parce qu’il s’agissait d’un prêt —et non d’un don— de l’ambassade britannique, mais parce qu’il voulait montrer que, vu son idiosyncrasie familiale, il ne pouvait pas, théoriquement, avoir le même mode de pensée que George Bush jr…

 

FB : N’oublions pas, d’abord, que lorsque Obama a fréquenté la « Columbia University », son « mentor » y était rien moins que Zbigniew Brzezinski. Ce dernier fut également son conseiller pendant la campagne électorale des présidentielles qui l’a mené à la Maison Blanche. Dès qu’Obama y est entré, il a truffé littéralement cette Maison Blanche de poulains issus de l’écurie de Brzezinski.

 

Personnellement, lorsque j’étais à Harvard, j’ai suivi le même curriculum pour ma promotion qu’avaient suivi jadis Kissinger et Brzezinski. Obama a terminé ses études après moi à la « Harvard Law School ». Lorsque j’étais à Harvard, le « Centre des Relations Internationales » m’avait donné le même bureau qu’avait occupé préalablement Kissinger. Je connais donc bien la manière de penser de personnalités comme Kissinger et Brzezinski. Lisez le livre de Brzezinski, The Grand Chessboard (« Le grand échiquier ») et vous y découvrirez que tout tourne autour d’une volonté bien résolue de s’emparer de toutes les réserves de pétrole et de gaz naturel. Celui qui a écrit ce livre est donc le principal conseiller d’Obama en politique étrangère ! Ensuite, Kissinger, lui aussi, conseille le Président. Quant au Général James Jones qui, jusqu’en octobre 2010, a été le conseiller d’Obama en matière de sécurité et de défense, il a déclaré ouvertement qu’il recevait chaque jour des directives de Kissinger. Je vous assure : il n’y a aucune différence entre Kissinger et Brzezinski. Sur le plan formel, l’un est « démocrate » et l’autre « républicain », mais ils défendent tous deux les mêmes idées et projets. Et je le répète : vous découvrirez la politique étrangère d’Obama dans les ouvrages de Brzezinski. Pour l’essentiel, cette politique étrangère dérive in fine de la géopolitique britannique de Sir Halford John Mackinder, théoricien d’une politique mondiale de puissance. C’est cela que l’on enseigne à Harvard de nos jours : comment il faut procéder pour dominer le monde. Voilà pourquoi Obama reçoit les conseils prodigués par Kissinger et Brzezinski.

 

Q. : Peut-être mais quoi qu’il en soit, le père d’Obama a été emprisonné au Kenya lors de la révolte antibritannique des Mau Maus. On pourrait dès lors penser, au vu de cette mésaventure paternelle, qu’Obama s’émancipera de cette politique de puissance, quoi que lui disent Kissinger et Brzezinski. Dans tout ce que vous dites, on dirait qu’Obama n’est qu’une simple marionnette…

 

caric_obama_book_sf.jpgFB : Je ne dirais pas qu’il n’est qu’une simple marionnette. Je me réfère notamment à des informations accessibles à tout un chacun, qui ont été dûment documentées et vérifiées et qui proviennent des travaux d’un reporter et journaliste d’investigation australien, réputé fort sérieux et couronné de quelques prix. Il s’agit de John Pilger. Celui-ci a pu prouver qu’après sa collaboration avec Brzezinski à la Columbia Université, Obama a travaillé pour une organisation camouflée de la CIA, la « Business International Corporation », qui aurait également financé le coût énorme de ses études et apuré ses dettes auprès de son université. Je pense que l’on peut poser, en toute vraisemblance, l’hypothèse qu’Obama a travaillé pour la CIA.

 

Pour résumer ce que je viens de dire : Obama n’est pas une marionnette, il fait partie du système. Il est le gant de velours afro-américain sur le poing d’acier de l’habituel impérialisme américain. Bush, lui, était le poing d’acier sans gant. Mais avec cette manière abrupte d’agir, les objectifs s’avéraient difficiles à atteindre, parce qu’une telle attitude était rejetée par les autres puissances qui comptent sur la scène globale. C’est pourquoi on a décidé de faire intervenir un autre acteur de la réserve et Obama est arrivé…

 

Q. : Qui donc se profile derrière Kissinger et Brzezinski ?

 

FB : Derrière Kissinger et Brzezinski se trouvent David Rockefeller et tout le clan Rockefeller. Tous les deux se trouvaient sur leur « payroll », sur la liste des personnes qu’ils finançaient : ainsi, lorsque Kissinger n’a pas obtenu son poste à Harvard, il a travaillé pour les Rockefeller. Brzezinski s’y est ajouté en 1973 quand il avait vainement essayé de devenir le directeur de la Commission Trilatérale. A l’époque, on avait choisi Jimmy Carter pour devenir candidat à la présidence. Lorsqu’il a emporté la course à la Maison Blanche, les Rockefeller ont introduit Brzezinski dans la place. Il a pris alors le rôle que jouait Kissinger sous Nixon. Nous constatons dès lors que quoi qu’il arrive, que ce soient les démocrates ou les républicains qui occupent l’avant-scène du pouvoir, ce sont toujours des poulains issus des écuries de ces deux personnalités qui définissent la politique étrangère américaine. David Halberstam, dans on livre « The Best and the Brightest », rappelle que ce « modus operandi » n’est pas récent : quand Kennedy entre à la Maison Blanche, après avoir, lui aussi, achevé des études à Harvard, il recrute effectivement « les meilleurs et les plus brillants » dans cette même université et ces intéressants sujets nous ont bien vite amené la guerre du Vietnam. Je viens de résumer très brièvement le bilan de cinquante années de politique étrangère américaine.  On ne doit donc pas être étonné qu’Obama reprenne tout bonnement les programmes qui fonctionnent depuis un demi siècle.

 

Q. : Ne craignez-vous pas qu’un jour ou l’autre on vous impose le silence…

 

FB : N’avons-nous pas tous appris la leçon du Pasteur Martin Niemöller ? Nous devons ouvrir la bouche et nous n’avons pas le droit de nous taire. Il n’y a rien de plus à dire.

 

(entetien paru dans « DNZ », Munich, Nr. 18/2011)

 

* *

Le Professeur Francis Boyle, né en 1950, est docteur en sciences juridiques et en philosophie, issu de Harvard. Au cours de sa carrière, il a travaillé sur le « Biological Weapons Anti-Terrorism Act » de 1989 et sur la législation américaine relative à la transposition en droit des accords sur les armes biologiques de 1972. Il a donné des cours de droit international à l’Académie militaire de West Point et en Libye et a représenté la Bosnie-Herzégovine et la Palestine. Il s’est engagé à défendre les droits des peuples indigènes comme les Amérindiens Pieds Noirs au Canada, les Lakota et le peuple autochtone des Iles Hawaï.

 

mercredi, 01 juin 2011

Le face à face russo-chinois

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Le face à face russo-chinois : le « vide » sibérien face « au trop plein » chinois

par Marc ROUSSET

La Russie coopère avec la Chine dans le cadre de l’Organisation de coopération de Shanghaï (O.C.S.) qui vise à empêcher toute incursion de l’O.T.A.N. (ou des États-Unis seuls) en Asie centrale. Mais parallèlement, Moscou est très préoccupée de la montée en puissance de la Chine avec qui elle partage 4 300 km de frontières communes. La Russie ne peut oublier que les seules invasions  du territoire russe qui  aient réussi venaient toujours de l’Est. Moscou est donc de facto très ouvert à toute coopération européenne qui lui permet d’accroître l’encadrement international de la puissance chinoise émergente et également de renforcer sa capacité à défendre les richesses et le potentiel économique de la  Sibérie, l’enjeu du XXIe siècle entre la Grande Europe de Brest à Vladivostok et la Chine.

J’ai à maintes reprises demandé aux puissances occidentales de ne pas identifier le communisme soviétique à la Russie et l’histoire de la Russie »  a pu dire Alexandre Soljenitsyne. La Russie est en fait la sentinelle de l’Europe face à la Chine et à l’Asie centrale. L’Europe doit se considérer  comme l’« Hinterland » de la Russie  et voir dans la Sibérie  le « Far East » de la Grande Europe. L’Europe ne va pas de Washington à Bruxelles, mais de Brest à Vladivostok. En Sibérie, en Asie centrale, l’Européen, c’est le Russe ! Ces thèmes ont été abordés dans mon ouvrage La Nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou. Il est donc  intéressant de s’interroger sur ce que certains ont appelé le « péril jaune » pour le monde européen, suite au déséquilibre structurel démographique entre la Chine et la Russie et au « vide sibérien » face au « trop plein » chinois.

La démographie chinoise

La population de la République populaire  de Chine s’élevait fin  2010  à 1 341 000 000 d’habitants. Si l’on y rajoute Hong Kong, Macao et Taïwan, la population de la Chine est la plus grande du monde et  s’élève à 1 370 000 000 d’habitants, soit plus du cinquième de l’humanité.

La baisse rapide de la mortalité et le retard du contrôle des naissances sous  Mao Tsé-Toung, encourageant un temps les Chinois à procréer une armée de « petits soldats » ont contribué à une forte croissance démographique. En 1953, la Chine totalisait seulement 582 000 000 habitants.

Toutefois, selon les dernières projections démographiques de l’O.N.U. (2008), la population chinoise pourrait ne jamais atteindre 1 500 000 d’habitants, plafonnant à 1 460 000 000 en 2035 avant d’amorcer une décroissance. La politique de l’enfant unique pratiquée par la Chine depuis 1979 sur la décision de Deng Xiao-Ping a porté ses fruits : quatre cents millions de naissances auraient été évitées en vingt-cinq ans. Le taux de fécondité a atteint une moyenne de 1,77 enfant par femme entre 2005  et 2010 quand il était de 4,77 entre 1970 et 1975 et déjà de 2,93 enfants par femme en moyenne les cinq années suivantes.

Il faut bien mesurer les limites de la politique de l’enfant unique. Dès sa mise en place, la loi obligeant tous les Chinois mariés à n’avoir qu’un seul enfant a été battue en brèche par deux exceptions  de taille : les couples de paysans avaient droit à deux enfants si le premier s’avérait être une fille, et les ethnies non Han n’étaient pas soumises à la loi car menacées puisque minoritaires. D’autre part, seules les zones urbaines et les six provinces relevant du pouvoir central ont été soumises à la loi de l’enfant unique. Cet ensemble constitue 35 % seulement de la population chinoise totale. La totalité de la Chine a donc, en réalité, 1,47 enfant par couple.

En 2002, une loi autorisait un couple à avoir plusieurs enfants moyennant une taxe de six cents euros par enfant supplémentaire. Depuis juillet 2007, le gouvernement central autorise les couples composés de deux enfants uniques à avoir, eux-mêmes, deux enfants. Une ville comme Shanghaï, dont le niveau de vieillissement de la population est l’un des plus élevé du pays, est allée plus loin en 2009. Elle encourage les couples à avoir deux enfants en supprimant notamment les aides sociales allouées jusque là aux couples sans enfants.

Le gouvernement chinois aurait ainsi tendance à assouplir la politique de l’enfant unique. La Chine est tiraillée entre deux maux, surpopulation et déséquilibre entre les sexes, vieillissement de la population provoqué par un faible taux de la natalité. Les plus de 65 ans étaient cent millions en 2008; ils seront trois cent quarante millions en 2050, soit près de 25 % de la population. La réalité compliquée de la question démographique chinoise ne préjuge pas de ce que décidera finalement le gouvernement chinois. Un fait structurel et objectif  demeure : il y aura toujours plus d’un milliard de Chinois au Sud de la Sibérie. Le déséquilibre  structurel démographique de l’ordre de 1 à 10 avec la Russie est d’autant plus préoccupant que, comme le disait Aristote, « la nature a horreur du vide ».

Évolution et perspectives de la démographie russe

Le  début du déclin démographique russe coïncide avec l’arrivée de  Gorbatchev au pouvoir (1985 – 1991), c’est-à-dire avec la mise en place de la Perestroïka suivie de l’effondrement du système soviétique. En 1990, la Russie comprenait cent quarante-neuf millions d’habitants, cent quarante-cinq millions d’habitants en 2001 et cent quarante-deux millions en 2007, soit sept millions d’habitants en moins de vingt ans, un rythme de croisière de disparition du peuple russe de 400 000 citoyens de moins chaque année. En fait, le rythme de disparition était d’environ   800 000  habitants par an car, depuis la fin de l’U.R.S.S., 400 000 Russes ont quitté chaque année les ex-républiques soviétiques pour la mère patrie.

Au début des années 2000, selon Boris Revitch du Centre de démographie russe, l’espérance de vie était de 59 ans pour un homme à la naissance, soit vingt ans de moins qu’en Europe occidentale, pour plusieurs raisons : l’alcoolisme (34 500 morts par an), le tabagisme (500 000 morts par an), les maladies cardio-vasculaires (1 300 000 de morts par an), le cancer (300 000 morts par an), le S.I.D.A., les accidents de la route (39 000 morts par an), les meurtres (36 000 morts par an), les suicides (46 000 décès par an), la déficience du système de santé qui faisait la fierté de l’U.R.S.S. et qui était devenue une catastrophe sanitaire avec, par exemple, une mortalité infantile (11 pour 1000), deux fois plus élevée que dans l’U.E.

Tandis que de plus en plus de Russes mouraient, de moins en moins naissaient. À la fin des années 1990, il y avait au minimum trois millions d’I.V.G. par an en Russie, pour un million de naissances, avec un taux de fécondité tombé au plus bas en 1999 à 1,16 enfants par femme. L’habitat trop exigu dans les grands immeubles du système soviétique contribuait  à la nouvelle habitude de l’enfant unique.

Dans son discours au Conseil de la Fédération en mai 2006, le président Poutine a confirmé la mise en place d’une politique nataliste par son bras droit Dimitri Medvedev, en aidant les jeunes couples à faire un second, voire un troisième enfant. Une batterie de mesures a été prise pour aider à la natalité. Les plus importantes sont des primes financières de l’État, des avantages fiscaux, mais aussi des aides au crédit et au logement. Les résultats  du plan Medvedev couplés avec une politique migratoire  de Russes de l’ex-U.R.S.S. et de nombreux Ukrainiens ont été fulgurants. La population a décru de 760 000 habitants en 2005, 520 000 habitants en 2006, 238 000 en 2007, 116 000 en 2008. En 2009 avec 1 760 000 naissances, 1 950 000 décès, 100 000 émigrants et 330 000 naturalisations, la population russe a augmenté pour la première fois depuis quinze ans de quelque 50 000 habitants. Le taux de fécondité de 1,9 enfant par femme en 1990, tombé à 1,1 enfant par femme en 2000 était remonté à 1,56 enfants par femme en 2009, soit un taux similaire à celui de l’Union européenne de 1,57 enfants  par femme. Bien que le nombre d’avortements ait diminué, on recensait encore en 2008 1 234 000 avortements  pour 1 714 000 naissances.

D’ici à  2050,  la démographie russe  va donc être soumise à deux forces contradictoires : d’une part, la politique nataliste gouvernementale, l’opinion publique hostile à l’immigration non russe, la construction en plein essor, les améliorations en matière d’éducation, d’agriculture et de santé (les quatre « projets nationaux »), le retour aux valeurs traditionnelles, à la religion orthodoxe et d’autre part l’effet d’hystérésis, suite à la chute de l’U.R.S.S., qui correspond à un rétrécissement structurel de la strate de population en âge de procréer (1), les influences néfastes de l’Occident et de sa « culture de mort » (libéralisation de la contraception, de l’avortement, de l’homosexualité, féminisme et travail des femmes, regroupement des populations dans les métropoles, destruction des petits agriculteurs, allocations familiales attribuées de plus en plus aux populations immigrées)

Trois prévisions démographiques majeures ont été envisagées pour l’année 2030 en 2010 par le Ministère russe de la Santé.

Selon une prévision estimée mauvaise, la population devrait continuer à baisser pour atteindre 139 630 000 en 2016 et 128 000 000 d’habitants en 2030. Le taux d’immigration resterait « faible »  autour de 200 000 par an pour les vingt prochaines années.

Selon une prévision estimée moyenne, la population devrait atteindre 139 372 000 habitants en 2030. Le taux d’immigration serait contenu à 350 000 nouveaux entrants par an.

Selon une prévision haute, la population devrait augmenter à près de 144 000 000 habitants en 2016 et continuer à augmenter jusqu’à 148 000 000 en 2030. Le taux d’immigration serait plus élevé dans  cette variante, soutenant la hausse de la population et avoisinerait les 475 000 nouveaux entrants par an. Sur vingt ans, on arriverait à une « immigration » équivalente à 8 % de la population du pays. Celle-ci serait principalement du Caucase et de la C.E.I., soit  des  populations post-soviétiques, russophones dont des communautés sont déjà présentes en Russie, et donc pas foncièrement déstabilisantes.

Pour l’année 2050, il nous paraît bien difficile pour ne pas dire impossible de se prononcer. Il semble donc plus raisonnable de retenir pour l’année 2050 dans les  prévisions 2006 de l’O.N.U. (2), le point haut de 130 millions d’habitants, la prévision de l’O.N.U. étant de 107 800 000 habitants avec un point bas de 88 000 000 habitants.

L’enjeu de la Sibérie

Sibérie tient son nom de la petite ville de Sibir. L’étymologie du mot est incertaine, mais le terme pourrait provenir du turco-mongol sibir désignant un peuplement très dispersé. La Sibérie est la partie asiatique de la Fédération de Russie : une immense région  d’une surface de 13 100 000 km2 (environ vingt-quatre fois la surface de la France) très peu peuplée (39 000 000 habitants soit environ 3 habitants au km2). Cette partie Nord de l’Asie représente 77 % de la surface de la Russie, elle-même deux fois plus grande que les États-Unis, mais seulement 27 % de sa population.

La Sibérie a les plus grandes forêts de la planète. L’intérêt économique majeur réside dans les richesses de son sous-sol, de pétrole et de gaz qui pourraient aller jusqu’au pôle Nord où la Russie a planté son drapeau par plus de 4 000 m de fond en juillet 2007. La Sibérie fournit de l’hydro-électricité et du charbon avec de riches bassins tels que celui du Kouzbass. Grâce à la Sibérie, avec cinq cents années de réserve, la Russie est le deuxième producteur mondial de charbon derrière les États-Unis. La Sibérie possède des gisements d’argent, d’or, d’uranium, de cuivre, de titane, de plomb, de zinc, d’étain, de manganèse, de bauxite, molybdène, de nickel… Un diamant sur quatre extrait dans le monde provient de Sibérie. Le réchauffement climatique ouvre la perspective d’exploitation d’autres immenses ressources en hydrocarbures. Moscou va être un acteur de premier plan dans la pièce qui va se jouer pour les ressources naturelles, la science et le transit maritime du XXIe siècle dans le Grand Nord.

La Sibérie d’aujourd’hui : un avant-poste des Européens face à la Chine

La Moscovie s’est construite contre les vagues déferlantes tartares et s’est toujours représentée comme une forteresse érigée au cœur d’un océan de plaines immenses et sans bornes. Les Russes ont colonisé la Sibérie, le Caucase et l’Asie centrale parce qu’ils étaient obligés de le faire. La Russie a connu pendant deux siècles le joug tartaro-mongol. La colonisation russe correspondait à des impératifs vitaux pour sa survie, à l’obligation géopolitique de trouver des frontières naturelles dont elle était dépourvue et qui était indispensable à sa protection. L’expansionnisme russe, contrairement à celui de l’Europe occidentale, était défensif et structurel.

Si les savants ont déclaré solennellement le paisible Oural au paysage ondulé, dont la pente ne devient raide que dans le nord, loin de la toundra, comme une ligne de démarcation entre l’Asie et l’Europe, les autochtones, eux, le considèrent comme une ligne de partage des eaux couverte de forêt, et rien de plus.

Les Russes se souviennent de Yermak comme d’un aventurier cosaque aussi remarquable que Magellan, d’un conquistador aussi intrépide que Cortez, car ce fut Yermak qui conduisit la première mission réussie dans la mystérieuse Sibérie, et qui inspira aux Russes l’idée de repousser leurs frontières de 6 200 km plus à l’Est, jusqu’à la côte asiatique du Pacifique. Trois fois dans l’histoire, la Sibérie fut traversée par des conquérants : par les hordes de cavaliers d’Attila et de Gengis Khan puis, en sens inverse, par le millier d’hommes de Yermak. C’est en 1558 qu’Ivan IV le Terrible accorde des privilèges d’exploitation des territoires situés à l’Est de l’Oural aux Stroganov, équivalents des Fugger, à la recherche de fourrures. Un  mouvement est lancé qui conduira les cosaques sur les rives du Pacifique en 1639 (et même plus tard en Alaska). Tandis que Français et Allemands se disputaient quelques lambeaux de territoire en Italie et aux Pays-Bas, une poignée de cavaliers navigateurs explorateurs parcourait une étendue vaste comme vingt fois la France ou l’Allemagne, plusieurs centaines de fois l’Alsace, la Flandre ou le Milanais. À la fin du XVIIIe siècle, la Russie a conquis la Sibérie. Ce territoire reste aujourd’hui  vide même si l’une des principales retombées du Transsibérien fut l’augmentation substantielle de la migration vers l’Est de l’Empire russe. 3 800 000 personnes émigrèrent vers la Sibérie entre 1861 et 1914 et contribuèrent à la russification des populations indigènes de Sibérie. Sans le Transsibérien, ces populations auraient émigré vers l’Amérique. La Sibérie  ne comptait  que 1 500 000 habitants en 1815, dix millions en 1914 et vingt-trois millions en 1960.

La nécessité de l’espace : une vérité qui n’est plus reconnue

Que depuis toujours la politique soit une lutte pour l’espace, pour acquérir une base, une place, que l’espace constitue l’alpha et l’oméga de toute vie, que la politique, la science, le commerce ne sont rien d’autre que l’acquisition de cet espace, voilà une vérité qui n’est plus reconnue.

Un avantage évident revient à qui, outre sa technicité, dispose aussi des matières premières nécessaires. Qui n’a que sa technique à offrir et doit importer les matières premières est désavantagé. C’est l’indépendance à long terme que de pouvoir se nourrir des produits de sa terre, que d’exploiter ses propres matières premières indispensables à la vie et à la protection, que de pouvoir se défendre avec des armes conçues et fabriquées chez soi. La certitude de pareils avantages, c’est un espace suffisamment grand qui la confère, si l’on s’en tient à l’exemple américain. A contrario, le Japon redeviendra à terme le vassal de la Chine simplement en raison du manque d’espace et donc de sa plus faible population  par rapport à son futur suzerain.

L’espace contient tout ce dont nous avons besoin, même l’air que nous respirons et l’eau qui nous désaltère. Il constitue donc le bien suprême. Plus d’espace, c’est plus d’oxygène, plus de pain, plus de rivières et de forêts, plus de terrain pour bâtir sa maison, plus de terre pour les jardins, plus de possibilités de repos, plus de distance d’homme à homme, une sphère privée élargie pour chacun, plus d’occasions de fuir les bruits et l’intoxication des villes, plus de calme pour penser, élaborer des projets, travailler, rêver, réfléchir. C’est accroître tout ce qui rend la vie digne d’être vécue et qui, hélas, se fait de plus en plus rare. Renoncer à l’espace, c’est renoncer à la vie.

L’Eurasie, du Pacifique à la Baltique, peut contenir plus d’hommes que le territoire de l’Europe occidentale. Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du Sud du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe. Le grand défi de la Sibérie est son trop faible peuplement par trente-neuf millions de Russes avec le risque d’une colonisation rampante par la Chine. La  Sibérie restera-t-elle russe et donc sous le contrôle civilisationnel européen ou deviendra-t-elle chinoise et asiatique ?

Les traités inégaux et l’actuelle frontière entre la Chine et la Russie

En 1689, suite à cinquante ans de confrontations armées inégales numériquement entre les cosaques et les Mandchous, les empires chinois et russe signent le traité de Nertchinsk : la Russie renonce à l’intégralité du bassin de l’Amour. L’empire Qing n’avait jamais occupé ces terres du nord, mais il ne souhaitait pas voir les Russes s’y installer. À partir du  XVIIIe siècle, la Russie cherche cependant à devenir une puissance navale dans l’océan Pacifique; elle encouragea les Russes à venir s’y établir et développe une présence militaire dans la région. La Chine n’avait jamais gouverné réellement la région et les avancées russes passèrent inaperçues. Les habitants de ces territoires n’étaient pour la plupart pas des Hans, mais des Mandchous, des Tibétains ou des Turcs. Au milieu du XIXe siècle, le bassin de l’Amour restait ainsi une terre sauvage où sur un million de km2 ne vivaient pas plus de trente mille personnes.

Mais dans les années 1850, la donne géopolitique a changé, l’Empire chinois est affaibli. En 1842, la Chine, suite à la Guerre de l’Opium, avait cédé Hong Kong par le traité de Nankin. Une nouvelle expédition russe a lieu pour explorer la région du fleuve Amour. En 1858, la Chine doit signer le traité d’Aïgoun, considéré comme un des nombreux traités inégaux avec les puissances occidentales. La Russie prend le contrôle de la rive gauche de l’Amour, de l’Argoun à la mer. « La Russie a réussi à arracher à la Chine un territoire grand comme la France et l’Allemagne réunis et un fleuve long comme le Danube », commentait Engels dans un article. Deux ans plus tard, en même temps que le sac du Palais d’Été par la coalition franco-anglaise, la Russie confirme et amplifie ses gains par la convention de Pékin. Elle obtient la cession de la région de Vladivostok et  Khabarovsk sur les rives droites de l’Amour et de l’Oussouri. Vladivostok qui était un village chinois du nom de Haichengwei « Baie des concombres de la mer » est fondée officiellement en 1860 et signifie « Seigneur de l’Orient ».

La Russie cherche plus tard à contrôler la Mandchourie pour protéger la Sibérie et élargir son ouverture sur l’océan Pacifique. Elle obtient la cession de Port-Arthur (Lüshunkou en chinois). La défaite face au Japon en 1905 ruine cette politique. La Russie renonce à la Mandchourie et doit céder Port-Arthur. Ce dernier retrouvera temporairement la souveraineté soviétique entre 1945 et 1955.

Dans les années 1960, les relations entre la Chine et l’U.R.S.S. se dégradent fortement et MaoTsé-Toung remet en cause les traités signés  au XIXe siècle entre les empires russe et mandchou. À partir de 1963, les incidents frontaliers se multiplient. Dès 1964, le président Mao, dans un discours aux parlementaires japonais, fait allusion aux territoires perdus. Ces tensions aboutissent en 1969 à un affrontement armé pour le contrôle de l’île Damanski sur la rivière Oussouri  qui fait des centaines de morts, en majorité chinois, mais n’aboutit pas à un nouveau tracé. L’U.R.S.S. envisage même de détruire préventivement les installations nucléaires chinoises. Dans les années qui suivent, la situation reste très tendue et n’évolue guère jusqu’aux années 1980.

À partir de 1988, à l’instigation de Mikhaïl Gorbatchev, les relations entre l’U.R.S.S. et la Chine se détendent et les négociations reprennent. Le 16 mai 1991, la Russie et la Chine signent un traité sur les frontières, qui laisse toutefois en suspens le sort de certains petits territoires  disputés. Ces derniers points sont réglés par différents accords signés dans un contexte diplomatique nettement plus détendu. Le dernier traité est signé en 2004. À l’issue de ces règlements, la Chine a réalisé quelques gains territoriaux très mineurs par rapport aux traités antérieurs.

Le résultat final, c’est qu’aujourd’hui la frontière sino-russe est constituée de deux morceaux de longueurs très inégales situés de part et d’autre de la Mongolie. Elle est définie dans son intégralité depuis 2004. Le tronçon de l’Ouest ne mesure que 50 km. Le tronçon de l’Est mesure  4 195 km. C’est la sixième plus longue frontière internationale du monde. L’intégration des territoires frontaliers par les deux empires russe et chinois a été tout à fait différente. Les plaines du Nord-Est de la Chine ont été rapidement peuplées et mises en valeur par des colons chinois dès le début du XIXe siècle. Par contre, le peuplement de l’Extrême-Orient russe par des colons venus de Russie d’Europe a été moins important et beaucoup plus long (3). La différence entre les deux peuplements a donné naissance à une ligne de discontinuité de part et d’autre du fleuve Amour et de la rivière Oussouri : d’un  côté, sept millions de Russes, de l’autre, plus de soixante millions de Chinois vivant dans les provinces frontalières du Jilin et du Heilongjiang. Les manuels d’histoire chinois apprennent aux écoliers que l’Extrême- Orient russe a été pris par la force à La Chine qui a signé les traités sous la menace.

Le danger chinois démographique et économique à court terme en Extrême-Orient et en Sibérie russe

En Russie, l’opinion publique est hostile à l’immigration. Contrairement aux affabulations de l’Occident, même si le « péril jaune » est très réel à terme, plus particulièrement en Sibérie et en Extrême-Orient, il y a à ce jour en Russie, un maximum de 400 000 Chinois, selon Zhanna Zayonchkouskaya, chef de Laboratoire de migration des populations de l’Institut national de prévision économique de l’Académie des Sciences de Russie, et non pas plusieurs millions comme cela a pu être annoncé. Les Russes ont veillé au grain et ont pris des mesures très sévères pour éviter une possible invasion. La seule immigration qui a été favorisée est le rapatriement de Russes établis dans les anciennes républiques soviétiques (Kirghizistan, Kazakhstan, Pays baltes, Turkménistan. ). Des villes comme Vladivostok, Irkoutsk, Khabarovsk, Irkoutsk Krasnoïarsk… et même Blagovetchensk, à la frontière chinoise, sont des villes européennes  avec seulement quelques commerçants ou immigrés chinois en nombre très limité. Une invasion aurait pu avoir lieu en Extrême-Orient dans les années 1990, tant la situation s’était dégradée. Il est à remarquer que les migrants  chinois de l’époque ont profité du laxisme et  de l’anarchie ambiante pour filer à l’Ouest de la Russie. Être clandestin n’est pas aisé aujourd’hui en Extrême-Orient et en Sibérie : la frontière est relativement imperméable; le risque est grand; les hôtels sont sous contrôle étroit; le chaos qui suivit l’éclatement de l’U.R.S.S. est déjà loin.

Il n’en reste pas moins vrai qu’un climat d’hostilité, voire de peur, s’est développé envers les Chinois chez les Russes d’Extrême-Orient qui a été largement utilisé dans le débat russe sur les orientations de politique étrangère (3). En 2001, le XVe congrès du Parti communiste chinois avait décidé d’une stratégie de consolidation de la présence chinoise à l’étranger, en encourageant la population à émigrer. Pékin avait fait savoir à Moscou qu’il n’appuierait sa candidature à l’O.M.C. que contre la promesse de ne pas réglementer l’entrée de la main-d’œuvre chinoise sur le marché du travail russe. Le ministre russe de la Défense, Pavel Grachev, avait pu déclarer : « Les Chinois sont en train de conquérir pacifiquement les confins orientaux de la Russie ». Et, selon un haut responsable russe des questions d’immigration, « nous devons résister à l’expansionnisme chinois ». Le problème est d’autant plus grave, au-delà du taux de la natalité, que la région se vide et que de nombreux Russes repartent  en Russie de l’Ouest. Ces dernières années, la région de Magadan a été délaissée par 57 % de sa population, la péninsule du Kamtchaka par 20 % et l’île Sakhaline par 18 %. La densité moyenne en Extrême-Orient est de 1,2 habitant au kilomètre carré contre une moyenne nationale de 8,5. Bref, selon les prévisions les plus pessimistes, l’Extrême-Orient russe peuplé de 6 460 000 personnes au 1er janvier 2010 pourrait ne compter que 4 500 000 habitants en 2015, contre 7 580 000 au plus haut.

Sur le plan économique, en 2002, selon l’analyste Andreï PIontkovsky, 10 % seulement des échanges  de l’Extrême-Orient russe se faisaient avec les autres régions de Russie. 90 % des achats extra-provinciaux  venaient  de Chine, Corée du sud ou Japon à cause du coût prohibitif du fret aérien ou ferroviaire avec l’Ouest de la Russie. À Vladivostok, Khabarovsk, et à Irkoutsk en Sibérie, la plupart des voitures avaient le volant à droite parce qu’elles venaient  directement du Japon où l’on conduit à gauche. Des  mesures ont été prises tout récemment par les autorités, non sans difficultés, pour favoriser l’achat de voitures  russes et abaisser le coût du fret.

La structure des échanges commerciaux bilatéraux avec la Chine s’est renversée depuis la fin de la guerre  froide. La Russie devient le « junior partner » de la Chine. Dans les exportations russes vers la Chine, les matières premières dominent : produits minéraux (56,4 %) en  2008, principalement pétrole et dérivés; bois et dérivés (15,5 %); produits de la chimie (13,9 %); métaux et dérivés (5,3 %); seulement 4,4 % pour les machines, l’équipement et les moyens de transport. Les exportations chinoises vers la Russie sont, pour l’essentiel, constituées de ces derniers articles(53,9 %), ainsi que de métaux(8,4 %), de produits chimiques (6,8 %) et de textiles (15,1 %). Les autorités russes ne se satisfont visiblement pas de cet état de fait. Le Kremlin n’accepte pas que la Russie devienne un réservoir de matières premières pour la Chine et insiste constamment sur la nécessité de corriger la structure des exportations russes.

La Russie s’efforce aussi d’orienter les investissements chinois de façon à endiguer la désindustrialisation de l’Extrême-Orient russe. Plus globalement, le Kremlin est convaincu que fermer l’Extrême-Orient et la Sibérie à la Chine et à d’autres partenaires étrangers (Corée, Japon, pays d’Asie du Sud-Est ) reviendrait à les condamner à terme, voire à les perdre en les rendant plus vulnérables aux appétits territoriaux d’autres pays de la région, la Chine en premier lieu. En revanche, mettre en concurrence plusieurs pays étrangers dans cette région permet d’espérer qu’aucun d’entre eux « ne parviendra à atteindre l’hégémonie »; de plus, si les relations avec la Chine devaient se détériorer, la Russie aurait acquis la possibilité de défendre plus efficacement ses zones frontalières puisqu’elle les aura mieux développées. Moscou, on le voit, n’écarte pas complètement la perspective d’une réouverture des problèmes territoriaux avec la Chine, malgré le règlement du litige frontalier en 2008 et l’engagement des deux pays, dans leur traité d’amitié et de bon voisinage, à s’abstenir de toute revendication territoriale mutuelle.

Ce  souci russe en Asie orientale apparaît encore plus nettement en Asie centrale. Dans cette région, Moscou ne se sent plus aussi sûr que par le passé de la force de ses moyens d’influence (minorités russes, liens historiques et économiques…). La Chine a considérablement étoffé sa présence économique dans cette zone depuis le début des années 2000 et semble en passe de supplanter la Russie comme premier partenaire commercial des États centre-asiatiques. Face à la force de frappe financière et économique de la Chine, la Russie va-t-elle longtemps pouvoir faire le poids ? Au sein de l’O.C.S., à l’heure de la crise économique globale, c’est Pékin qui a occupé le terrain en consentant aux membres de l’Organisation des prêts d’un montant de dix milliards de dollars. La situation est encore plus grave, aux yeux de Moscou, dans le domaine énergétique : la politique de Pékin va directement à l’encontre de la stratégie du Kremlin, déterminé à contrôler le plus possible les hydrocarbures de la zone Caspienne/Asie centrale afin de conforter ses positions  face aux clients européens. Le lancement, fin 2009, du gazoduc Turkménistan – Ouzbékistan – Kazakhstan – Chine qui s’ajoute à l’oléoduc  kazakho-chinois ne réjouit pas plus la Russie que les tubes Caspienne – Turquie contournant son territoire promus dans les années 1990 par les États-Unis. Au point que certains experts russes estiment que Moscou pourrait être tenté de fomenter des troubles dans le Turkestan oriental pour faire dérailler les accords énergétiques Chine – Asie centrale.

Les visées chinoises inéluctables à moyen terme sur la Mongolie extérieure et à très long terme sur la Sibérie

Le temps n’est plus où la Russie débordait de forces vives, jusqu’à pouvoir sacrifier vingt millions d’hommes dans la lutte contre le nazisme. On comprend mieux pourquoi les responsables russes  continuent de refuser pour le moment de vendre certains matériels de portée stratégique tels que les chasseurs bombardiers de type TU 22 ou TU 95, ou encore des sous-marins de quatrième génération de la classe « Amour » ou « Koursk ». Selon le chancelier Bismarck, « l’important, ce n’est pas l’intention, mais le potentiel » et comme chacun sait, l’histoire n’est pas irréaliste (Irrealpolitik) et  droit-de-l’hommiste, mais réaliste (Realpolitik) et imprévisible.

La montée en puissance de la Chine ne se traduira pas seulement par le remplacement progressif de l’anglo-américain par le mandarin en Asie, mais aussi par des visées territoriales.

L’expansionnisme  nationaliste chinois se  traduit d’une façon forte et brutale pour mater dans l’œuf et empêcher toute velléité de résistance, aussi bien au Tibet qu’au Xinjiang. Le chemin de fer à 6 200 000 dollars qui relie Pékin à Lhassa renforce l’emprise de la Chine sur le Tibet et sa capacité de déploiement militaire rapide contre l’Inde. Il est probable qu’après avoir maintenant récupéré Hong Kong et Macao de façon pacifique et selon les traités, la Chine a déjà et aura comme première préoccupation de rétablir sa souveraineté sur l’île de Taïwan. Avec ses 1 400 missiles pointés vers « l’île rebelle », Pékin a menacé d’écraser sous le feu ses « frères » taïwanais, s’ils devaient proclamer leur indépendance. Dans les faits, la réunification avec Taïwan est bel et bien en marche. Le mandarin est  la langue officielle à Taïwan. Les vols aériens et les communications ont été progressivement rétablis avec le continent. La symbiose est de plus en plus étroite entre les deux économies

Une fois Taïwan sous sa coupe, la Chine cherchera tout naturellement à récupérer la Mongolie extérieure cédée par la Chine à la Russie en 1912 et devenue ensuite une république populaire, puis un État indépendant lors du démantèlement de l’U.R.S.S. « La Chine va d’abord s’occuper de Taïwan, puis ce sera notre tour » a pu dire B. Boldsaikhan, chef politique en Mongolie extérieure du mouvement Dayar Mongol. État de 1 535 000 km2, sous-peuplée avec seulement 2 800 000 habitants, dotée de très riches gisements aurifères et d’uranium, la Mongolie extérieure, pendant de la Mongolie intérieure autonome chinoise, est déjà contrôlée économiquement par les Chinois, quelque 100 000 Russes ayant fait très rapidement leurs valises en 1990. La Mongolie extérieure sera un jour inéluctablement envahie comme le Tibet et, au-delà de quelques protestations américaines, la Chine rétablira en fait une souveraineté légitime historique  sur l’ensemble de la Mongolie qui date de la soumission de la Mongolie aux Mandchous en 1635. Gengis Khan est considéré en Chine comme un héros de la nation chinoise; un mausolée lui a été construit à Ejin Horo, dans la province chinoise de Mongolie intérieure, pour le huit centième anniversaire de sa naissance.

Puis ce sera le tour de l’Extrême-Orient russe. Selon Andreï Piontkovsky, directeur du Centre d’études stratégiques de Moscou, c’est la Chine de l’Orient et non pas l’Occident qui représente la menace stratégique la plus sérieuse pour la Russie. Ces revendications s’inscrivent dans le droit fil du concept stratégique « d’espace vital » d’une grande puissance qui, selon les théoriciens chinois, s’étend bien au-delà de ses frontières.

La Russie et la Chine occupent ensemble un espace géographiquement continu entre la mer Baltique et la Mer de Chine de 26 600 000  km2, habités par 1 400 000 000 personnes. Des  similitudes apparaissent lors de l’analyse de l’histoire de ces deux grands et complexes blocs géopolitiques. Tous deux s’étaient constitués au détriment de l’empire nomade des Mongols, dont la Mongolie enclavée  entre la Chine et la Russie, constitue le dernier vestige, avec la Mongolie intérieure, rattachée à la Chine, et la Bouriatie faisant partie de la Russie. Tous deux possèdent une zone périphérique, peu peuplée et sous-exploitée (la Sibérie et l’Extrême-Orient pour la Russie, le Tibet et le Xinjiang pour la Chine). Cependant, la Chine est plus peuplée que la Russie. Son poids démographique constitue en même temps un atout (le marché  le plus grand de la planète) et un handicap majeur (le pays est surpeuplé et proche de la saturation). Certains spécialistes estiment que le seuil de l’auto-suffisance chinoise se trouve à 1 500 000 000 habitants. En Sibérie et en Extrême-Orient, il y a tout ce qui manque à la Chine : les hydrocarbures, les matières premières et l’espace pour développer l’agriculture. Un paradoxe se dessine,  car  la Russie est un géant géographique et la Chine manque d’espace. Ces deux ensembles géopolitiques sont donc condamnés soit à collaborer, soit à s’affronter. On se rappellera  que le projet communiste a réuni ces deux géants  géopolitiques pendant onze ans. La perspective d’un tel rapprochement était devenue le pire des cauchemars pour les responsables occidentaux et américains.

Le retour de la Russie sur le Pacifique était logique et inévitable. Cependant, avec un déclin démographique, la Russie est-elle capable de mettre seule en valeur la Sibérie ? Il n’est pas suffisant d’avoir une volonté politique, il faut également disposer de moyens. C’est pourquoi l’affrontement paraît à long terme inéluctable. Il est clair que l’O.C.S. n’est qu’une parenthèse tactique pour les deux futurs adversaires afin de mieux pouvoir contrer l’Amérique en Asie centrale. La puissance  balistique de la Russie avec ses 2 200 têtes nucléaires est dans un horizon prévisible la seule garantie de non invasion de la Sibérie  par la Chine.

Une leçon à méditer…

Selon Hélène Carrère d’Encausse, la Sibérie est « un espace vide aux abords d’une Chine surpeuplée » (4). Si l’Europe se considère à terme comme l’Hinterland de la Russie et ne se laisse pas envahir par l’immigration extra-européenne en préservant sa civilisation, elle peut constituer avec la Russie la Grande Europe qui serait une forteresse inexpugnable face à la Chine, l’Islam et l’Asie centrale. Dans ce cas, la Sibérie pourrait rester sous contrôle civilisationnel russe et donc européen.

Le schéma alternatif, c’est que les cent quarante millions descendants des Scythes soient envahis par un milliard et demi de Chinois qui brûlent de passer l’Amour tandis que l’Europe, déversoir naturel de l’Afrique, comme l’a d’ailleurs explicité le Libyen Kadhafi, est  tout aussi menacée !

Pour ceux qui trouveront ces propos bien pessimistes, je souhaiterais leur rappeler cette magnifique exposition du musée Guimet : « Kazakhstan : Hommes, bêtes et dieux de la steppe ». Il fut un temps, dès le deuxième millénaire avant notre ère, où le Kazakhstan et l’Ouzbékistan  étaient le domaine non des Asiates, mais des Aryens : les Scythes. D’origine et de langue indo-européennes, décrits par Aristote citant Hérodote comme ayant des « cheveux blonds et blanchâtres », les Scythes nomadisaient de l’Ukraine à l’Altaï. Leur civilisation était très riche et d’une rare finesse (art funéraire, maîtrise des métaux précieux, travail des objets utilitaires…). Comment une civilisation aussi brillante dont les chefs entreprenants et guerriers ne craignaient rien tant que mourir dans leur lit, ont-ils disparu ? Sans doute ont-ils été victimes de ce que les Slaves appellent « la peste blanche », la dénatalité. Et son inéluctable corollaire, la submersion par des ethnies à la natalité galopante et l’inévitable métissage. Dans leur match démographique contre la déferlante asiatique, les Scythes ne pesèrent pas lourd. Les hordes tartares les avalèrent et le génie de la race se tarit.

Une leçon à méditer pour les Européens de l’Ouest face à l’Afrique et pour les Russes en Sibérie face au trop plein chinois.

Marc Rousset

Notes

1 : Hélène Carrère d’Encausse, La Russie entre deux mondes, Fayard, 2009, p. 65.

2 : cf. le rapport de l’O.N.U., World Population Prospects : the 2006 revision.

3 : Sébastien Colin, « Le développement des relations frontalières entre la Chine et la Russie », dans les Études du C.E.R.I., n° 96, juillet 2003.

4 : Hélène Carrère d’Encausse, op. cit., p. 172.


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