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mardi, 28 décembre 2010

Peter Scholl-Latour : Krieg ohne Ende

 

Peter Scholl-Latour: Krieg ohne Ende

Una nuova geopolitica indiana?

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Una nuova geopolitica indiana?

Daniele GRASSI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Una delle maggiori novità sullo scenario geopolitico degli ultimi due decenni è certamente rappresentata dall’India.

Sebbene l’ascesa della Cina abbia come effetto quello di mettere in secondo piano ogni altra realtà, non si può affatto trascurare il percorso che ha portato New Delhi a proporsi come una delle maggiori economie globali in termini assoluti.

Certo, i numeri aiutano e non poco. L’India infatti, con i suoi 1.2 miliardi di abitanti costituisce il paese più popoloso al mondo e ciò fa sì che ogni suo passo getti una lunga ombra su gran parte del globo. Non bisogna dimenticare infatti, che il suo tasso di crescita economica annua, dal 1997 ad oggi, è di circa il 7% ed è secondo solo a quello cinese.

Tuttavia, l’India resta il paese col maggior numero di gente che vive sotto la soglia di povertà, vale a dire, circa il 25% della sua popolazione.

Ci vorranno dunque, tassi di crescita molto elevati per almeno altri due decenni perché la condizione della popolazione più disagiata subisca dei miglioramenti veri e propri.

 

 

 

La politica estera indiana dopo l’indipendenza

 

Il percorso di crescita indiano è cominciato ad inizio anni Novanta, quando si è proceduto alla liberalizzazione di molti settori economici ed il Paese si è aperto all’economia di mercato.

La trasformazione economica ha proceduto di pari passo con un radicale cambiamento riguardante la politica estera.

 

L’idea di Nehru era quella di dare vita ad un grande paese che perseguisse una politica di pacifica coesistenza con gli altri attori regionali e globali.

Il suo profondo idealismo si scontrò ben presto con una realtà che non lasciava spazio a velleità neutralistiche e richiedeva prese di posizione nette.

Le tensioni col Pakistan circa il controllo del territorio del principato kashmiro sfociarono in diversi conflitti armati, il primo dei quali nel primo anno dell’indipendenza dei due Paesi, il 1947.

Ciò però non distolse Nehru dal suo intento di percorrere una strada di non allineamento e di guidare gli altri Paesi che volessero intraprendere il medesimo percorso.

Nei primi anni della sua esistenza, New Delhi tentò di sganciarsi dal confronto bipolare alleandosi con Pechino, ma questo tentativo sfociò in una delle maggiori umiliazioni della storia indiana: la sonora sconfitta subita proprio da parte della Cina nel 1962.

 

Il risultato fu un sostanziale isolamento a cui l’India tentò di porre rimedio avvicinandosi progressivamente alle posizioni del blocco sovietico.

Questa politica la danneggiò tanto in termini economici, quanto a livello geopolitico. Il Pakistan infatti, approfittò di questa situazione per proporsi come maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione sud-asiatica, ricevendo enormi benefici in termini di aiuti finanziari e soprattutto militari.

Islamabad si fece anche mediatore tra Washington e Pechino e fu l’artefice dell’incontro avvenuto nel 1972 tra Nixon e Mao Zedong, il quale pose fine alla politica americana delle “due Cine”.

Il tutto si tradusse in un isolamento ancora più accentuato dell’India, che sarebbe terminato solo nei primi anni Novanta.

 

 

L’asse Washington-New Dehli-Tel Aviv

Il crollo dell’Unione Sovietica ed una profonda crisi economica spinsero infatti New Delhi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito che l’aiutasse a superare il momento difficile che stava attraversando. In cambio, all’India fu chiesto di liberalizzare la propria economia e di aprirsi ai mercati internazionali.

Non è una caso che fu proprio in quegli anni che il Pressler Amendment pose fine agli aiuti economici che Washington si era impegnata a fornire al Pakistan, interrompendo una collaborazione che si era intensificata durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Gli Stati Uniti decisero di fare dell’India il loro maggiore alleato nell’Asia meridionale e ciò ebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul rapporto con Islamabad, storica rivale di New Delhi.

 

La politica estera indiana è stata da allora contraddistinta dallo stretto legame con Washington, il quale ne ha fortemente condizionato l’andamento e continua tuttora a farlo.

L’India rappresenta, col Giappone ed altri Stati della regione asiatica, una delle armi usate dagli Stati Uniti per contenere l’ascesa della Cina. L’obiettivo americano è infatti quello di impedire che Pechino assurga al ruolo di leader incontrastato dell’area e New Delhi costituisce un alleato fondamentale per la buona riuscita di questa strategia.

La crescente collaborazione tra l’India ed Israele rientra proprio in questo progetto di contenimento della Cina e si è tradotto, specie negli ultimi anni, in un legame molto stretto soprattutto dal punto di vista militare.

New Delhi e Tel Aviv sono infatti impegnate in attività congiunte di lotta al terrorismo e l’India rappresenta ormai il più importante mercato di sbocco per gli armamenti prodotti in Israele.

Tutto ciò ha delle importanti ricadute a livello geopolitico e l’asse Washington – New Delhi – Tel Aviv costituisce ormai una realtà capace di influenzare le dinamiche interne all’Asia e al Medio-Oriente, producendo inevitabili ricadute sulla politica globale.

 

 

 

Riposizionamento strategico?

 

Tuttavia, la posizione indiana si sta facendo sempre più complicata e richiede un’analisi piuttosto complessa.

Le vicende afghane degli ultimi 3 decenni hanno avuto ripercussioni importanti sulla politica estera indiana e continuano a produrre effetti di non poco conto.

L’ascesa dei talebani a metà anni ’90 ebbe come risultato quello di avvicinare New Delhi a Teheran e Mosca, paesi molto attivi nel sostegno alla cosiddetta Alleanza del Nord, fazione non-pashtun che si opponeva al dominio talebano.

In seguito all’occupazione afghana da parte degli USA e dei suoi alleati nell’ottobre del 2001, l’India è stata uno dei paesi più attivi nella ricostruzione dell’Afghanistan e figura attualmente tra i maggiori donatori del governo di Kabul.

I buoni rapporti col governo guidato da Karzai, il quale ha effettuato i suoi studi proprio in India e conserva legami personali con questo Paese, e l’implementazione di numerosi progetti infrastrutturali hanno fondamentalmente come obiettivo, quello di dar vita ad un’alleanza in grado di contenere l’influenza esercitata dal Pakistan su Kabul.

La presenza indiana in Afghanistan rappresenta dunque una delle maggiori preoccupazioni per Islamabad e ha avuto un peso molto importante nel delineare la politica adottata dal Pakistan nel Paese confinante. Il timore di un governo filo-indiano insediato a Kabul dopo il ritiro delle truppe straniere, ha infatti spinto Islamabad a supportare con decisione gruppi di militanti che hanno proprio nella regione occidentale del Pakistan, le loro basi operative.

Lo scopo è quello di utilizzare questi gruppi come assets strategici, una sorta di asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.

Quel momento sembra oggi essere giunto e il tentativo del governo Karzai di negoziare coi talebani sta dando ragione alla strategia pakistana.

L’ammissione dell’amministrazione Obama di non poter fare a meno del supporto di Islamabad per porre fine al conflitto che da anni sta dilaniando l’Afghanistan, suona infatti come una sorta di resa e apre importanti spazi per la politica estera pakistana.

L’avvicinamento degli ultimi mesi tra Zardari e Karzai costituirebbe un’ulteriore prova di quel che sta accadendo oggi a Kabul.

Gli Stati Uniti hanno ormai compreso di non poter conseguire una vittoria effettiva sui talebani e hanno così deciso di intraprendere la strada dei negoziati e non possono dunque fare a meno del sostegno delle forze armate e di intelligence pakistane.

La promessa fatta da Obama al governo indiano di impegnarsi affinché New Delhi consegua un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, suona un po’ come un contentino, peraltro difficilmente realizzabile, per mettere a freno le crescenti ansie indiane.

 

Le vicende afghane stanno facendo emergere una verità con cui gli Stati Uniti dovranno fare i conti nei prossimi anni: l’estrema difficoltà di intrattenere rapporti di cooperazione sia con l’India che col Pakistan.

L’incapacità di risolvere la questione kashmira richiede, da parte di Washington, un continuo barcamenarsi tra le richieste indiane e quelle pakistane, spesso inconciliabili tra di loro.

Col tempo diventerà sempre più difficile mantenersi in equilibrio tra Islamabad e New Delhi e, a meno di un improbabile avvicinamento tra i due Paesi, gli Stati Uniti potrebbero essere chiamati a compiere una scelta di campo definitiva.

Il Pakistan e l’India sono consapevoli di ciò e stanno entrambi tentando di acquisire un maggiore potere negoziale nei confronti di Washington.

 

 

 

L’India strizza l’occhio all’Iran

 

Mentre Islamabad è impegnata ad approfondire i suoi legami storici con Pechino, specie dal punto di vista militare, l’India sta cercando di trovare una posizione di maggiore indipendenza per quel che concerne la sua politica estera.

Sebbene sia ben lungi dal trovarla, alcuni segnali di ciò sono già ravvisabili nei suoi rapporti con l’Iran.

Risalgono, ad esempio, allo scorso 28 ottobre le dichiarazioni del governo indiano circa una presunta volontà di volere riprendere il dialogo con Teheran per la realizzazione di un gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Pakistan ed India.

La strenua opposizione di Washington nei confronti di questo progetto, ed i problemi che caratterizzano la regione pakistana del Baluchistan, hanno finora frenato la sua realizzazione.

Tuttavia, i crescenti bisogni energetici dell’India potrebbero spingerla ad esplorare strade affatto gradite all’amministrazione americana.

 

La recentissima notizia dell’accordo raggiunto dai governi turkmeno, afghano, pakistano e indiano per la realizzazione del gasdotto TAPI, sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a quanto detto, ma i dubbi circa l’effettiva capacità del Turkmenistan di pompare gas a sufficienza, oltre ai problemi di sicurezza che attanagliano il territorio afghano, potrebbero comportare notevoli ritardi di realizzazione, costringendo i paesi dell’Asia meridionale a cercare percorsi alternativi.

 

La collaborazione tra New Delhi e Teheran riguarda diversi altri progetti e non si ferma dunque all’IPI.

Il porto iraniano di Chabahar risulta centrale nell’ottica di tale cooperazione. Progettato e finanziato proprio dall’India, questo porto detiene un valore strategico molto importante.

L’importanza di Chabahar è legata, ad esempio, alla sua capacità di fare da sbocco per le risorse energetiche della regione centro-asiatica, permettendo all’India di rafforzare le sue relazioni commerciali con questi paesi ritenuti di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo economico.

Inoltre, tramite Chabahar, l’India è in grado di aggirare il Pakistan ed esportare le proprie merci in Afghanistan e negli altri Paesi dell’area. Il nuovo accordo di transito siglato da Afghanistan e Pakistan infatti, non permette a New Delhi di utilizzare il territorio pakistano per il trasporto dei beni da esportazione e Chabahar rappresenta la migliore alternativa possibile.

L’Iran soddisfa circa il 15% del fabbisogno energetico indiano, una percentuale piuttosto bassa se si considerano le enormi potenzialità del patrimonio gassifero iraniano.

Tuttavia, è ancora presto perché l’India adotti posizioni non gradite a Washington e per il momento, New Delhi è impegnata in un’azione di mediazione tra l’Iran e gli Stati Uniti.

Nonostante l’opposizione indiana all’acquisizione del nucleare da parte di Teheran, il Paese sud-asiatico si sta impegnando affinché non vengano adottate nuove sanzioni nei confronti dell’Iran.

Complici gli importanti interessi economici nutriti da molte compagnie indiane, New Delhi sta cercando di ammorbidire la posizione americana sull’argomento ed ha come obiettivo ultimo, quello di sottrarre l’Iran all’isolamento in cui si trova attualmente, in modo da poter sviluppare ulteriormente le enormi potenzialità di un’eventuale cooperazione economica e politica.

Gli interessi che legano i due Paesi sono infatti numerosi e vanno dall’energia all’Afghanistan, senza dimenticare che l’India ospita la più numerosa comunità sciita al mondo dopo l’Iran.

Sono troppe le variabili in gioco per poter azzardare, al momento, previsioni circa le dinamiche geopolitiche che caratterizzeranno il futuro prossimo.

I segnali che ci giungono oggi sono talvolta contrastanti e ancora troppo soggetti alla volatilità del presente e dunque suscettibili di smentite ed inversioni di rotta.

Quel che però è certo è che in Asia si sta assistendo ad una netta ridefinizione degli equilibri di forza e nessuno degli attori coinvolti lascerà nulla di intentato per spuntarla sugli altri.

* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.

lundi, 27 décembre 2010

L'incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina piu vicine

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L’incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina più vicine

Fonte: “

Reseau Voltaire [1]

Qualsiasi siano i conflitti in corso all’interno delle mura del Cremlino fra Medvedev e Putin, ci sono ultimamente chiari segnali che sia Pechino sia Mosca si stiano muovendo con decisione, dopo un lungo periodo di esitazione, al fine di rafforzare la cooperazione strategica economica a fronte del palese sgretolarsi del ruolo d’unica superpotenza degli USA. Se questa tendenza si rafforzasse, si verificherebbe il peggiore incubo geopolitico di Washington: una massa continentale eurasiatica riunita, in grado di sfidare l’egemonia economica globale dell’America.


Parafrasando il proverbio cinese, potremmo affermare di vivere senza dubbio in «tempi interessanti». Non appena sembrava che Mosca si stesse avvicinando a Washington nel corso della Presidenza di Medvedev, accettando di cancellare la vendita all’Iran di un controverso sistema di difesa missilistica S-300 e iniziando a cooperare con Washington sui progetti della NATO, incluso forse lo scudo antimissile, Mosca e Pechino si sono accordati su una serie di misure che possono avere grosse implicazioni geopolitiche, non ultime per il futuro della Germania e quello dell’Unione Europea.

Nel corso d’incontri di vertice tenutisi a San Pietroburgo, il primo ministro cinese Wen Jiabao e la sua controparte russa, Vladimir Putin, hanno fatto una serie d’annunci passati relativamente inosservati nei principali mezzi di comunicazione occidentali, temporaneamente ossessionati dai dubbi scandali legati a “Wikileaks”. È già la settima volta che i dirigenti dei due paesi si incontrano quest’anno, e certamente questo significa qualcosa.

Ad oggi non ci sono stati molti investimenti cinesi nel mercato russo e quelli che si sono verificati, avevano forma prevalente di prestiti. Il valore degli investimenti diretti e di portafoglio in progetti concreti rimangono insignificanti, così come il livello di investimento della Russia in Cina: la situazione è destinata però a cambiare. Alcune società russe sono già quotate alla Borsa di Hong Kong ed esiste un numero di progetti di investimento russo-cinesi per la creazione di tecnoparchi sia in Russia sia in Cina.

Lasciando cadere il dollaro

I due Primi Ministri hanno annunciato, fra l’altro, di aver raggiunto un accordo per rinunciare al dollaro nel loro commercio bilaterale utilizzando al suo posto le proprie valute. Inoltre hanno raggiunto accordi potenzialmente di vasta portata su energia, commercio e modernizzazione economica delle remote regioni del vasto spazio euroasiatico dell’Estremo Oriente russo.

Fonti cinesi hanno rivelato alla stampa russa che questa mossa rifletterebbe relazioni più strette fra Pechino e Mosca e lo scopo non sarebbe quello di sfidare il dollaro. Putin ha allegramente annunciato: «Per quanto riguarda la compensazione commerciale, abbiamo deciso di usare le nostre valute». Egli ha aggiunto che la moneta cinese yuan ha cominciato ad essere scambiata col rublo russo nel mercato interbancario cinese, mentre il renminbi, fino ad ora solo moneta domestica e non convertibile, avrà presto una parità col rublo in Russia.

Ad oggi il commercio fra i due paesi avveniva in dollari. In seguito allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 e l’estrema volatilità del dollaro e dell’euro, entrambe le nazioni hanno cercato nuovi modi di evitare l’uso della valuta statunitense nel commercio, tentativo potenzialmente importante per il futuro della stessa. Al fine di ottimizzare lo sviluppo e la struttura del commercio, i due governi hanno creato la Camera di Commercio russo-cinese per i macchinari e prodotti tecnologici. Il Greenwood World Trade Center a Mosca, attualmente in costruzione da una società cinese, sarà nel 2011 un centro espositivo e commerciale di prodotti cinesi in Russia e servirà da piattaforma per incrementare gli scambi non governativi tra i due paesi.

Allo stato attuale il commercio fra Russia e Cina è in rapida crescita. Nei primi 10 mesi di quest’anno, il volume del commercio bilaterale ha raggiunto circa 35 miliardi di euro, un incremento su base annua del 45%. Quest’anno si prevede che gli scambi totali supereranno i 45 miliardi, portandosi così vicini al livello precedente alla crisi finanziaria. Entrambe le parti hanno intenzione di aumentare il volume degli scambi in maniera significativa nei prossimi anni e alcuni analisti russi credono che potrebbe anche raddoppiare nel giro d’un triennio. L’esclusione del dollaro non è cosa da poco e, se seguita da altri Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (il gruppo di sei paesi eurasiatici instaurato da Cina e Russia nel 2001) potrebbe indebolirne il ruolo di valuta di riserva mondiale.

Dal Trattato di Bretton Woods nel 1944 il dollaro è stato posto al centro del sistema di commercio globale e l’egemonia statunitense si è basata su due pilastri indispensabili: il dominio degli Stati Uniti come potenza militare insieme al ruolo esclusivo del dollaro come valuta di riserva mondiale. La combinazione di potenza militare e ruolo di riserva della propria valuta per tutto il commercio di petrolio, altre materie prime essenziali e prodotti finanziari, ha permesso a Washington di finanziarsi concretamente le sue guerre per il dominio globale col “denaro degli altri”.

Cooperazione energetica

Accordi interessanti sono stati siglati anche nell’ambito della cooperazione energetica bilaterale. È chiaro che i due colossi euroasiatici hanno in programma di espandere il commercio bilaterale al di fuori del dollaro in modi interessanti, includendo in maniera significativa l’energia, dove la Cina ha enormi deficit e la Russia enormi sovrappiù e non solo nel petrolio e nel gas.

Le due parti espanderanno la cooperazione nell’energia nucleare a partire dall’aiuto offerto dalla Russia alla Cina per la costruzione di centrali nucleari e di progetti congiunti russo-cinesi al fine di arricchire l’uranio in linea con le normative AIEA e produrlo in paesi terzi ed inoltre per costruire e sviluppare una rete di raffinerie petrolifere in Cina. È già in essere il primo progetto, Tianjin. Un accordo prevede l’acquisto di due reattori nucleari russi da parte della centrale nucleare cinese di Tianwan, il complesso più avanzato di energia nucleare in Cina. Così pure l’esportazione del carbone dalla Russia alla Cina dovrebbe superare i 12 milioni di tonnellate nel 2010, ed è destinata ad aumentare.

Le compagnie petrolifere cinesi forniranno anche gli investimenti necessari per aggiornare i progetti per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti d’idrocarburi e la raffinazione del petrolio, in joint venture con società statali e private russe. In aggiunta, un gasdotto russo-cinese diventerà operativo a fine anno. Un punto importante ancora da sistemare è l’ammontare del prezzo del gas russo alla Cina: l’accordo è previsto nei prossimi mesi. La Russia chiede un prezzo per la fornitura di gas Gazprom che sia uguale a quello per i clienti europei, mentre Pechino richiede uno sconto.

I maggiori progetti di sviluppo industriale

Ci saranno intensi e reciproci investimenti industriali nelle remote regioni lungo i 4200 km di frontiera in comune, in particolare fra la Siberia e l’Estremo Oriente russi ed il Dungbei cinese, dove negli anni ’50 e ’60, prima dell’incrinarsi delle relazioni fra Unione Sovietica e Cina, l’URSS aveva costruito centinaia di impianti industriali leggeri e pesanti. Quest’ultimi sono stati modernizzati e rimpiti di nuove tecnologie cinesi o d’importazione, ma le solida fondamenta industriali d’epoca sovietica sono ancora là.

Questo – sostengono alcuni analisti russi – conferirà alla cooperazione regionale un livello tecnologico più elevato, soprattutto fra i territori di Chabarovsk e Primor’e, le regioni di Čita e Irkutsk, la Transbaikalia, tutta la Siberia, l’Heilongjiang ed altre province cinesi.

Nel 2009 Cina e Russia firmavano un programma con scadenza 2018 per lo sviluppo congiunto di Siberia, Estremo Oriente russo, e province nord orientali della Cina, attraverso un chiaro piano d’azione che comprendeva dozzine di progetti di cooperazione tra le specifiche regioni per sviluppare 158 strutture nelle aree di confine, nel settore del legno, chimica, infrastrutture stradali e sociali, agricoltura e diversi progetti di esportazione di energia.

Il viaggio di Wen segue la visita di tre giorni del Presidente Medvedev in Cina a settembre, durante la quale assieme al presidente Hu Jintao ha lanciato il da tempo discusso gasdotto trans-frontaliero da Skovorodino, nella parte orientale della Siberia, a Daqing, nel nord est della Cina. Entro la fine del 2010 il petrolio russo inizierà a fluire verso la Cina al ritmo di 300.000 barili al giorno per i prossimi vent’anni, grazie ad un accordo di tipo “credito in cambio di petrolio” da 20 miliardi di euro, stipulato lo scorso anno.

La Russia sta cercando di espandersi all’interno del crescente mercato energetico asiatico e in particolar modo in quello cinese, e Pechino vuole migliorare il suo approvvigionamento energetico diversificando rotte e fonti. Il gasdotto raddoppierà l’esportazione di petrolio russo in Cina, oggi trasportato principalmente tramite una lenta e costosa rotta ferroviaria, e farà della Russia uno dei suoi primi tre fornitori di greggio alla Cina, assieme a Arabia Saudita e Angola; un importante realizzo geopolitico per entrambi.

Il premier cinese Wen durante una conferenza stampa a San Pietroburgo ha affermato che la partnership fra Pechino e Mosca ha raggiunto «livelli di cooperazione senza precedenti» e ha promesso che i paesi «non diventeranno mai nemici». È dalla rottura sino-sovietica durante la Guerra Fredda che la geopolitica di Washington cerca di creare una profonda spaccatura tra i due paesi per rafforzare la sua influenza sul vasto dominio eurasiatico.

Come ho affermato in precedenza, l’unica potenza del pianeta che in teoria potrebbe ancora offrire un deterrente nucleare credibile a Washington è la Russia, per quanti problemi economici possa avere. La capacità militare cinese è ancora distante anni da quella russa, ed è principalmente difensiva. Sembra essere la Cina l’unica potenza economica in grado di rappresentare una sfida per il declinante gigante statunitense. La complementarità fra i due sembra essere stata pienamente compresa. Forse le prossime rivelazioni di Wikileaks “scopriranno” dettagli imbarazzanti su questa cooperazione; dettagli convienti per l’agenda geopolitica di Washington. Per il momento, però, la crescente cooperazione economica sino-russa rappresenta il peggior incubo geopolitico di Washington in un momento in cui la sua influenza globale è chiaramente in declino.

(Traduzione di Eleonora Ambrosi)


* F. William Engdahl, economista e co-direttore di “Global Research”, fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org

URL to article: http://www.eurasia-rivista.org/7499/lincubo-geopolitico-di-washington-russia-e-cina-piu-vicine

dimanche, 26 décembre 2010

Wikileaks, geopolitische Absichten und South Stream

Wikileaks, geopolitische Absichten und South Stream

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Die Flut von internen Botschaftsberichten, die Julian Assange, der geheimnisumwobene Gründer der Internetplattform Wikileaks, jüngst in die Öffentlichkeit gebracht hat, gehört zu den eher seltsamen Vorfällen aus der Welt der Geheimdienste. Doch sind diese Enthüllungen für das State Department oder die US-Außenpolitik allgemein gar nicht so unangenehm wie behauptet. Denn bei dem, was da bekannt wurde, handelt es sich um einen Mix aus langweiligen und zumeist unbedeutenden Einzelheiten, die Botschaftsmitarbeiter aus aller Welt melden, und »gezielten« Lecks, wie sie der ehemalige US-Sicherheitsberater Zbigniew Brzezinski nennt.

 

 

So werden in einer internen Mitteilung Putin und Medwedew als »Batman und Robin« bezeichnet – witzig, aber doch nicht gerade wichtig. Wie sich herausstellt, war kein einziges dieser Dokumente als »streng geheim« klassifiziert. Etwa 40 Prozent der 250.000 Seiten stehen überhaupt nicht unter Verschluss.

Zu den Dokumenten, die Brzezinski als mit »gezielten« Tatsachen »platziert“ bezeichnet, um den »Absichten eines Geheimdiensts zu dienen«, gehören Mitteilungen über Verhandlungen, die Moskau und die italienische Berlusconi-Regierung über den Bau der geopolitisch wichtigen South-Stream-Gaspipeline geführt haben.

Im Dezember 2009 war der russische Präsident Medwedew zur Unterzeichnung eines Abkommens über die geplante Erdgas-Pipeline South Stream nach Rom gereist. Wie jetzt enthüllt wurde, hat US-Außenministerin Hillary Clinton eine genaue Überprüfung der Beziehungen zwischen Rom und Moskau angeordnet, besonders im Hinblick auf South Stream. Washington setzt nämlich auf ein anderes Pferd: das extrem teure »Nabucco«-Projekt, dessen Wirtschaftlichkeit bisher mangels ausreichender Einspeisung nicht gesichert ist.

In den letzten Monaten hat der Streit Nabucco gegen South Stream die Dimensionen der scharfen amerikanisch-sowjetischen Auseinandersetzungen angenommen, die während des Kalten Krieges in der Reagan-Ära über die Energieversorgung in Europa geführt wurden. Dabei steht weit mehr auf dem Spiel als nur der finanzielle Gewinn aus Gasverkauf oder Pipelinebau. Es geht vielmehr um die Zukunft Westeuropas und die Zukunft der eurasischen Geopolitik – auf den ersten Blick nicht unbedingt ersichtlich.

Eurasische Pipeline-Geopolitik

Mit der Auflösung der Sowjetunion und dem Zusammenbruch des Militärbündnisses des Warschauer Pakts war 1991 der Kalte Krieg, zumindest aus Moskauer Sicht, beendet. Moskau hatte die weiße Flagge gehisst. Überfordert durch den Rüstungswettlauf mit den USA und geschwächt durch den niedrigen Ölpreis, lag die Wirtschaft am Boden. Für den niedrigen Ölpreis war das State Department verantwortlich, das Druck auf Saudi-Arabien ausgeübt hatte, um Moskau von den Deviseneinnahmen abzuschneiden, die 1986/87 durch Ölexporte erzielt worden waren. Zwei Jahre später willigte Michail Gorbatschow ein, die Berliner Mauer einzureißen. Manche Beobachter sprachen damals von der größten fremdfinanzierten Übernahme (»leveraged buyout«) der Geschichte.

Das einzige Problem liegt darin, dass Washington keinerlei Veranlassung gesehen hat, den Kalten Krieg von amerikanischer Seite zu beenden. Anstatt die feierlichen Versprechungen einzuhalten, die man Gorbatschow im Rahmen der Gespräche über die deutsche Wiedervereinigung gemacht hatte, wonach die USA die Länder des ehemaligen Warschauer Pakts nicht in die NATO einbeziehen würde, nutzte Washington in den 1990er-Jahren Russlands Schwäche und dehnte die NATO bis direkt vor Moskaus Haustür aus. Mit Polen, Ungarn und Rumänien, Bulgarien und den baltischen Staaten hatte die NATO Russland 2003 eingekreist. Gleichzeitig verlangte der IWF als Teil der »Schocktherapie« von der russischen Regierung die Privatisierung der Staatsbetriebe. Russlands strategische Rohstoffe und andere unschätzbare Vermögenswerte gingen in westliche Hände über.

Doch im Laufe des Jahres 2003 hatte sich Präsident Wladimir Putin fest im Amt etabliert und den verschiedenen russischen Oligarchen zu verstehen gegeben, dass er die Ausbeutung russischer Vermögenswerte durch den Westen nicht weiter ausdehnen wollte. Der entscheidende Warnschuss erfolgte im Oktober 2003 mit der Verhaftung des politisch ambitionierten Michael Chodorkowski, dessen Yukos-Sibneftoil-Konzern kurz davor stand, bis zu 40 Prozent der Anteile an dieser größten privaten russischen Ölgesellschaft an ExxonMobil oder Chevron zu verkaufen. Eingefädelt hatten das Geschäft George H. W. Bush und die einflussreiche Carlyle Group aus Washington. Chodorkowski verstieß damit gegen ein Versprechen, das Putin den russischen Oligarchen abverlangt hatte: sie würden die Vermögenswerte, die sie dem Staat bei der vom IWF verordneten Privatisierung in der Jelzin-Ära buchstäblich gestohlen hatten, nicht weiter veräußern.

2003 wurde auch die Einkreisung Russlands dramatisch vorangetrieben, als die vom State Department finanzierte »Rosen-Revolution« in Georgien und die »Orange«-Revolution in der Ukraine

Washingtons Widerstand gegen die russische South-Stream-Pipeline ist Ausdruck eines geopolitischen Machtkampfs um die Vorherrschaft in Europa.

ausbrachen. Dadurch wurden zwei Marionetten Washingtons ins Amt gehievt, die sich verpflichtet hatten, ihre Länder in die NATO zu führen. Damals brachte Russland die einzige Waffe ins Spiel, über die das Land noch verfügte: die Kontrolle über die weltweit größten Erdgas-Reserven. Außerdem gab es den Gazprom-Konzern, zu dessen Vorstand Medwedew gehört hatte, bevor er in die Putin-Regierung eintrat.

Putin handelte mit der deutschen Schröder-Regierung das politisch bedeutsame Nord-Stream-Pipelineprojekt aus. Die Nord Stream, über die kürzlich das erste russische Gas nach Deutschland und in die EU gepumpt wurde, löste in Washington und bei der Regierung des NATO-Lands Polen wütende Proteste aus. Doch trotz des immensen Drucks wurde der Bau vorangetrieben.

Jetzt wird vom russischen Gazprom-Konzern die South-Stream-Pipeline gebaut. Über die Pipeline soll Gas von den russischen Gasfeldern aus der Region des Kaspischen Meeres über den Grund des Schwarzen Meeres und den Balkan bis nach Süd- und Norditalien gepumpt werden. Die Europäer sind die größten Abnehmer von russischem Gas.

Selbst England plant, ab 2012 erstmals Gas aus Russland direkt über die Nord-Stream-Pipeline zu pumpen. Streitereien zwischen Russland und der Ukraine, die offensichtlich ermuntert wurden, als Wiktor Juschtschenko, Washingtons Mann-in-Orange, noch Präsident der Ukraine war, hatten in Italien und anderen europäischen Ländern zu Engpässen bei der Gasversorgung geführt. Vor diesem Hintergrund erklärte der italienische Regierungschef Berlusconi: »Wir wollen erreichen, dass die South Stream nicht über ukrainisches Gebiet verlegt wird. Deshalb unternehmen wir jede Anstrengung, von der Türkei die Zusicherung zu erhalten, dass die South Stream durch ihre territorialen Gewässer verlegt werden kann.« Der französische Energiekonzern EDF verhandelt zurzeit über eine 10-prozentige Beteiligung an dem Projekt.

Im Dezember 2009 haben der italienische Energiekonzern ENI und Gazprom vereinbart, dass die South Stream bis Italien geführt wird. Ein technisch-wirtschaftliches Gutachten über das South-Stream-Projekt wird im Februar 2011 vorgelegt. Bis Ende 2015 soll die Pipeline in Betrieb genommen werden. Mit Bulgarien, Serbien, Ungarn, Slowenien und Kroatien hat Russland bereits Verträge über den Bau über Land unterzeichnet.

Die EU-Kommissionssprecherin für Energie, Marlene Holzner, verlangte eine Änderung des russisch-bulgarischen Vertrags über das Gaspipeline-Projekt South Stream, sodass auch andere EU-Länder Zugang zur Pipeline erhielten. Eine Fraktion in der EU unterstützt Washingtons Alternative Nabucco. Während der EU-Kommissar nach außen darauf besteht, dem South-Stream-Projekt eine faire Chance einzuräumen, arbeitet er de facto an dessen Sabotage, zugunsten von Nabucco. Holzner wird in der Presse mit den Worten zitiert: »Europäische Vertreter hatten Einwände dagegen, dass Bulgarien durch den Vertrag mit Russland zur vollständigen und ungehinderten Durchleitung russischen Gases über das eigene Staatsgebiet verpflichtet war […] Für uns liegt die Priorität bei Nabucco, weil damit die Quellen für die Gasversorgung leichter diversifiziert werden können.«

Die Wikileaks-Enthüllungen über die Beziehungen zwischen Berlusconi und Putin entsprechen Brzezinskis Definition von »gezielten« Lecks. De facto lassen sie Berlusconi als Spielball der Moskauer Energie-Geopolitik erscheinen. In den Mitteilungen ist von Berlusconis »ungewöhnlich engen Beziehungen« zu Wladimir Putin die Rede; über die South-Stream-Gaspipeline heißt es, sie errege in Washington »erhebliches Misstrauen«.

Eindeutig soll die ohnehin bedrängte Berlusconi-Regierung mit dem gezielten Leck in politische Verlegenheit gebracht werden, und zwar genau zu dem Zeitpunkt, wo der extravagante Premierminister mit einer Flut von persönlichen Skandalen und Rücktritten in seiner Koalition zu kämpfen hat.

Bisher sieht es allerdings nicht danach aus, als beeinträchtigten die Enthüllungen die Energie-Kooperation zwischen Moskau und Rom. Unbeeindruckt von den Wikileaks-Veröffentlichungen ist der russische Präsident Medwedew soeben im Rahmen der erweiterten russisch-italienischen Regierungsgespräche im russischen Skiort Krasnya Polyana an der Schwarzmeerküste mit Silvio Berlusconi zusammengetroffen. Am Rande der Gespräche unterzeichneten der russische Stromkonzern RAO und die italienische Enel-Gruppe eine Absichtserklärung für eine Partnerschaft.

Die Vereinigten Staaten werden heute nicht nur in Moskau, sondern in immer breiteren westeuropäischen Kreisen als Supermacht betrachtet, die vor dem endgültigen Abstieg steht. Angesichts der schlimmsten Wirtschaftsdepression seit den 1930er-Jahren, bei der kein Ende in Sicht ist, und der Unfähigkeit Obamas und der US-Außenpolitik zu einer für die EU günstigen Zusammenarbeit bemüht sich eine wachsende Fraktion in der politischen und wirtschaftlichen Elite von Frankreich über Italien bis Deutschland um engere Wirtschaftsbeziehungen mit Russland und eurasischen Staaten, die als Markt der Zukunft gelten. Das löst in Washington natürlich nicht gerade Jubelgeschrei aus. Vor diesem geopolitischen Hintergrund sollten die Wikileaks-»Enthüllungen« über Italien und Russland gesehen werden.

 

jeudi, 23 décembre 2010

Peter Scholl-Latour: La Turquie, grande puissance régionale

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La Turquie en marche pour devenir une grande puissance régionale face à une Europe affaiblie !

 

 

Entretien avec Peter SCHOLL-LATOUR

 

Propos recueillis par Bernhard TOMASCHITZ

 

Q. : Dr. Scholl-Latour, la Turquie s’affiche de plus en plus comme une puissance indépendante, consciente d’elle-même, de sa destinée et de son histoire ; elle s’affirme ainsi sur la scène internationale. A-t-elle les potentialités nécessaires pour devenir une grande puissance régionale au Proche-Orient ?

 

PSL : La Turquie possède indubitablement de telles potentialités : elle dispose d’une armée conventionnelle qui est probablement plus forte que la plupart des armées européennes ; qui plus est, une nouvelle islamisation s’est emparée de la Turquie, ce qui confère à l’Etat de nouvelles orientations géopolitiques. Il est possible que les Turcs et Erdogan n’aient pas encore reconnu les chances réelles dont ils disposent, des chances qui ne pourront être saisies si la Turquie s’associe trop étroitement à l’Europe. Lorsque, dans des conversations avec des Turcs, on mentionne le fait qu’ils sont les héritiers d’un grand empire et non pas l’appendice d’une Union Européenne qui marine dans le vague, on rencontre tout de suite leur approbation. Et, de fait, ce serait bien le rôle de la Turquie, et non pas d’une autre puissance, de créer un minimum d’ordre dans l’espace moyen-oriental qui menace actuellement de sombrer dans le chaos.

 

Q. : Quel est le rapport qu’entretient la Turquie avec ses voisins ?

 

PSL : Les Turcs ont bien sûr un rapport tendu avec l’Irak parce que dans le Nord de l’Irak, les Kurdes, qui y forment la population majoritaire de souche, sont devenus quasiment indépendants du gouvernement de Bagdad et que cette quasi indépendance pourrait constituer un précédent pour les Kurdes de Turquie. Mais jusqu’à présent les Kurdes d’Irak, et surtout leur leader Barzani, se sont comportés de manière très adéquate et très subtile. Par ailleurs, la Turquie a accompli un grand pas en avant en direction de la Syrie, avec laquelle elle cultivait une longue inimitié : aujourd’hui les rapports ente la Syrie et la Turquie sont bons. En revanche, les rapports avec Israël, qui, auparavant, étaient excellents sur les plans de la coopération militaire et technologique, se sont considérablement détériorés. Ce fut sans doute la grande erreur des Israéliens qui n’ont rien fait pour contrer cette évolution ; on constate dès lors qu’en Turquie, hommes politiques et hommes de la rue convergent dans des attitudes nettement anti-israéliennes.

 

Ensuite, et c’est l’essentiel pour la Turquie, il y a le Caucase et l’Asie centrale. Dans le Caucase, les Azéris, habitants de l’Azerbaïdjan, sont chiites alors que les Turcs sont sunnites. Mais les deux peuples sont purement turcs de souche et parlent des langues très similaires. La zone occupés par des peuples turcs (turcophones) comprend le Turkménistan, le Kazakhstan et s’étend à tout le territoire centre-asiatique jusqu’à la province occidentale de la Chine, peuplée d’Ouïghours, également locuteurs d’une langue turque. Ce sont tous ces facteurs-là qui font que la Turquie, sur le plan culturel comme sur le plan religieux, dispose d’un potentiel très important.

 

Q. : Vous venez de nous parler des Etats turcophones d’Asie centrale : dans quelle mesure les intérêts économiques jouent-ils un rôle dans l’accroissement possible de la puissance turque ?

 

PSL : Ce sont les Américains, les Russes, les Chinois et les Européens qui convoitent les richesses de ces régions. L’Asie centrale possède de riches gisements de pétrole et de gaz naturel et les dirigeants des Etats turcophones sont passés maîtres dans l’art stratégique. Le Kazakhstan a certes proposé la construction d’un système d’oléoducs et de gazoducs qui passerait par les pays du Caucase du Sud pour aboutir en Turquie et déboucher en Méditerranée, tout en contournant et la Russie et l’Iran mais, par ailleurs, les Kazakhs ont été suffisamment futés pour conclure des accords similaires avec les Russes.

 

Q. : Et quel rôle jouent les Turcs dans les Balkans ?

 

PSL : Dans les Balkans, nous n’avons pas très bien perçu le jeu des Turcs jusqu’ici. Ce jeu se joue bien entendu, avant tout, dans les Etats qui possèdent des populations musulmanes autochtones, notamment les Albanais, représentés également au Kosovo et en Macédoine où un tiers de la population est d’ethnie albanaise. La Macédoine, dans un tel contexte, connaît déjà des tensions entre les Slaves chrétiens orthodoxes et les Albanais musulmans et deviendra sans doute une poudrière dans l’avenir. La Turquie y avancent ses pions avec grande prudence, en se posant comme l’Etat protecteur et a contribué à une ré-islamisation de la Bosnie, alors que cette région de l’ex-Yougoslavie avait été, sous Tito, complètement détachée de l’orbe musulmane.

 

Conséquence : dans tout règlement interne des Balkans, nous devons désormais prendre la Turquie en considération et tenir compte de son point de vue.

 

Q. : Quels obstacles pourraient survenir qui freineraient la montée en puissance de la Turquie ?

 

PSL : Jusqu’ici le premier ministre turc Erdogan a déployé sa stratégie de manière très raffinée et a forgé des liens étroits entre son pays et l’Iran. Cette stratégie a ceci de remarquable que la Turquie est un pays essentiellement sunnite tandis que l’Iran est majoritairement chiite, ce qui avait conduit dans le passé à une longue inimitié. Aujourd’hui un rapprochement est en train de se produire et, chose curieuse, la Turquie et l’Iran ont, de concert avec le Brésil, cherché à aplanir le conflit qui oppose l’Occident à l’Iran au sujet de son projet atomique. Ni les Américains ni les Européens n’ont réagi !

 

Q. : La Turquie, membre de l’OTAN, se rapproche de l’Iran ; cela pourra-t-il conduire à une rupture avec les Etats-Unis et avec l’Occident en général ?

 

PSL : Il n’y a que deux Etats stables dans la région : la Turquie et l’Iran. Face à ces deux pôles de stabilité, le Pakistan est au bord du chaos et est fortement sollicité par la guerre en Afghanistan. Il est aussi intéressant de constater qu’à Kaboul, où je me suis encore rendu récemment, on discute du retrait des troupes de l’OTAN et des Américains. Le retrait des Américains devrait se passer dans un contexte digne, sans que la grande puissance d’Outre Atlantique ne perde la face comme ce fut le cas au Vietnam : or la seule puissance capable de gérer ce retrait de manière pacifique et honorable, c’est la Turquie, parce qu’elle est membre de l’OTAN tout en étant un pays musulman. Les soldats turcs stationnés en Afghanistan y jouissent d’une sympathie relative.

 

Q. : La Turquie veut devenir une plaque tournante dans la distribution d’énergie. Comment jugez-vous cette volonté ?

 

PSL : Je n’aime pas beaucoup cette théorie de la « plaque tournante ». L’Europe, qui en parle continuellement, veut constituer avec la Turquie une union économique et politique étroite, alors qu’il y aura bientôt cent millions de Turcs ! Que restera-t-il alors de l’Europe, avec sa population en plein déclin démographique ? Ensuite je crois que les Turcs se sont aperçu qu’une adhésion à l’UE ne va pas vraiment dans le sens de leurs intérêts.

 

Ensuite viennent les exigences européennes en matière de respect des droits de l’homme, tel que le prévoit la Charte européenne. Si elle respecte la teneur de cette Charte, la Turquie devra accorder aux quinze millions de Kurdes, qui vivent dans le pays, une autonomie culturelle et politique. Cela conduira à de formidables tensions, voire à une guerre civile sur le territoire turc. En conséquence, les Turcs se diront qu’il est plus raisonnable de ne pas adhérer pleinement à cette Union Européenne, qui exige d’eux tant de devoirs. Mis à part cela, la Turquie, si on la compare à d’autres Etats européens, est une grande puissance.

 

Q. : Comment perçoit-on la montée en puissance de la Turquie dans les Etats qui firent jadis partie de l’Empire ottoman ?

 

PSL : De manière très différente selon les Etats. En Irak, la question kurde handicape considérablement les rapport turco-irakiens, mais il faut prendre en considération que les Chiites forment désormais la majorité au sein de l’Etat irakien et que les Chiites d’Iran s’entendent bien, aujourd’hui, avec les Turcs. J’avais rappelé tout à l’heure l’ancienne inimitié qui opposait la Syrie à la Turquie parce que les Turcs avaient annexé en 1939 la région d’Iskenderum, dont la population était majoritairement arabe. La Syrie a oublié aujourd’hui cette querelle ancienne et cherche, auprès de la Turquie, une certaine protection face à Israël. Les relations avec l’Iran se sont considérablement améliorées et Ankara cherche maintenant à étendre la Ligue islamique au Pakistan. Mais c’est là un très vaste projet et on ne pourra vraiment le prendre en considération que si les problèmes de l’Afghanistan sont résolus.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ).  

Quand les Etats-Unis soutiennent l'indépendance du Sud-Soudan

Bernhard TOMASCHITZ :

Quand les Etats-Unis soutiennent l’indépendance du Sud-Soudan

 

south_sudan_map.gifLe 9 janvier prochain, les habitants des provinces méridionales du Soudan décideront, par le biais d’une consultation populaire, s’ils veulent vivre ou non dans leur propre Etat. Il n’y aura pas de surprise : on ne s’attend pas à autre chose qu’à un « oui » massif en faveur de l’indépendance car le Sud animiste et chrétien lutte depuis plusieurs décennies pour se détacher du Nord musulman. Ce n’est qu’en 2005 qu’il fut mis un terme aux violences par la signature d’un Accord de Paix général (APG) ; depuis lors, l’instabilité règne toujours dans cet Etat africain, le plus grand en surface de tout le Continent noir.

 

La consultation populaire, qui aura lieu tout au début de l’année 2011, ne concerne pas seulement le droit à l’autodétermination des peuples, car les provinces méridionales du Soudan constituent un véritable kaléidoscope de peuples et d’ethnies ; non, l’enjeu est plus vaste : il s’agit bien évidemment des matières premières, car les gisements de pétrole des ces provinces constituent 80% de tout le brut que retire le Soudan de son sol. Toutefois, le Nord ne perdrait pas, en cas d’indépendance du Sud, l’ensemble de ces 80% de pétrole extrait du sol soudanais, car l’APG prévoit un partage fifty/fifty des ressources pétrolières. Pourra-t-on maintenir un partage aussi rigoureusement équilibré en cas d’indépendance du Sud ? Rien n’est moins sûr. L’ « International Crisis Group », une boîte à penser pro-américaine, dont le siège est à Bruxelles, pense, qu’en cas de sécession définitive du Sud, la teneur des accords de paix subira des modifications substantielles, du simple fait que les ressources pétrolières seront les seules sources de revenu des provinces méridionales devenues indépendantes.

 

Depuis des années déjà, le régime islamiste de Khartoum est un partenaire étroit de la Chine, qui tente d’apaiser en Afrique sa fringale croissante de matières premières. En se déployant ainsi sur le Continent noir, la Chine heurte les intérêts américains en Afrique, où elle devient petit à petit un concurrent gênant. Jusque dans les années 80, c’était le géant pétrolier américain Chevron qui exploitait principalement l’or noir au Soudan, avant qu’il ne se retire à cause des effets négatifs de la guerre civile ; désormais, il est remplacé à la première place par la « China National Petroleum Corporation ». Cette entreprise pétrolière chinoise, qui appartient à l’Etat, possède 40% de la société soudanaise « Greater Nile Petroleum Operating ».

 

Le 23 décembre 2004, on pouvait lire les remarques suivantes dans le journal américain « Washington Post », généralement bien informé : « Les liens de la Chine avec le Soudan sont devenus particulièrement étroits, ce qui prouve que les liens économiques que tisse la Chine éveillent des soucis quant aux droits de l’homme en dehors de ses frontières, ce qui entraine une collision avec la politique suivie par les Etats-Unis et avec les intérêts économiques américains ». Par la suite, Washington a fait feu de tous bois pour affaiblir le Nord et, par ricochet, la Chine. Sur le plan politique, cette stratégie s’est exprimée par un soutien au SPLM (« Sudan People’s Liberation Movement »), le mouvement politique qui compte le plus dans les provinces méridionales du Soudan. Comme son nom l’indique, ce SPLM a eu un passé marxiste-léniniste, qu’il a pourtant bien vite abandonné à la fin de la Guerre Froide pour rejoindre le camp occidental et, par suite, pour obtenir le soutien de Washington.

 

Le Soudan, dans son ensemble, s’avère important dans la stratégie globale des Etats-Unis. Dans un rapport stratégique rédigé par l’instance d’aide au développement, l’USAID, on lit que le Soudan relève de « la plus haute priorité », parce ce pays africain est important dans la lutte contre le terrorisme, pour assurer la stabilité dans la région. Les chiffres sont également parlants : lors de l’année budgétaire 2009, l’USAID a dépensé au total quelque 420 millions de dollars « pour de l’aide humanitaire » au Soudan, surtout, bien entendu, au bénéfice des provinces du Sud. Il ne s’agit pas en priorité de distribuer des vivres à des populations menacées de famine ou de soutenir la construction ou la restauration d’infrastructures mais d’aider à mettre sur pied des structures politiques dignes d’un Etat. Voyons comment l’USAID voit les choses : cette instance estime qu’il y a là-bas « une possibilité inhabituelle de travailler avec de nouvelles entités gouvernementales, afin de soutenir un plan de réformes qui, s’il réussit, ira dans le sens des intérêts de la politique extérieure américaine dans la région, non seulement face à l’Iran, mais dans toute la Corne de l’Afrique ». En clair, si un Etat chrétien/animiste dans le Sud du Soudan émerge sur la scène internationale, il sera ipso facto une base d’appui dans le voisinage immédiat de la Somalie, posée comme « Etat failli » donnant asile à des islamistes. Pour Washington, se donner un tel satellite constituerait une aubaine formidable. Selon certaines sources, des conseillers militaires auraient déjà été déployés dans le Sud du Soudan.

 

On doit aussi constater que les fondations des partis américains, financées par de l’argent gouvernemental, comme l’ « International Republican Institute » (IRI) ou le « National Democratic Institute » (NDI) s’activent depuis assez longtemps au Soudan. L’IRI déclare travailler avec le gouvernement sud-soudanais semi-autonome à Juba, afin « d’augmenter sa capacité à gouverner efficacement ». A tout cela s’ajoutent divers programmes aux échelons nationaux, régionaux et locaux, où les participants sont familiarisés avec « les avantages de la démocratie libérale de modèle américain ».

 

Certes, les Américains sont bien conscients du fait que leurs partenaires du gouvernement sud-soudanais ne sont que des figurants peu fiables sur l’échiquier. Ce qui préoccupent surtout les Américains, c’est le peu d’expérience qu’ont ces Soudanais du Sud dans l’art de gouverner et leurs tendances, typiquement africaines, à succomber à la corruption. Ces déviances, les Américains les observent avec une certaine inquiétude. C’est aussi pour cette raison que l’USAID prévoit l’instauration de sept ministères-clefs, sur lesquels l’instance n’apporte guère de précisions, des ministères que les Américains prendront à leur charge, tandis qu’ils formeront aussi les futurs fonctionnaires de ce nouvel Etat appelé très bientôt à se constituer, afin que s’établisse un « gouvernement honnête et transparent » à Juba. Finalement, Washington veut éviter de se fabriquer une fois de plus un vassal qui, très vite, se détachera de la superpuissance du monde occidental.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°50/2010).     

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans?

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Friedrich-Wilhelm MOEWE :

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans ?

 

Que se passe-t-il actuellement dans les Balkans ? Une islamisation rampante sans qu’il n’y ait une véritable immigration. Il existe bel et bien une volonté politique d’installer un noyau dur islamisé dans les Balkans : c’est ce que nous apprennent les récentes révélations de documents secrets américains et de dépêches d’ambassades ; on y trouve bon nombre de notes sur les dirigeants turcs actuels, dont les ambitions ne sont guère modestes et qui visent clairement à avancer les pions de la Turquie non seulement en direction de l’Union Européenne mais aussi et surtout en direction des Balkans. Lorsque le ministre turc des affaires étrangères déclare son opinion et dit urbi et orbi qu’une nouvelle domination ottomane dans les Balkans profiterait à la région et que, simultanément, les minorités musulmanes balkaniques croissent en nombre, on peut dire, sans risque d’exagérer, que l’islam, sous la houlette turque, est en train de gagner du terrain dans les Balkans. D’où, il nous paraît légitime de poser la question : quelles sont les raisons qui font que ce soient justement les Balkans qui posent un problème récurrent en Europe et pour l’Europe ? Les problèmes n’ont pas seulement émergé après la seconde guerre mondiale car les turbulences ethniques et politiques agitaient depuis longtemps déjà la région, qui accumulait les difficultés. Les racines de la situation actuelle, pour laquelle il n’y a pratiquement aucune solution en vue sur la scène politique internationale, datent d’il y a quelques décennies. Il faut en chercher les prémisses dans les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la dernière guerre mondiale : les pays des Balkans ont été « libérés » de manière atypique ; ils n’ont pas été libérés par les armées de l’un des grands vainqueurs mais se sont en quelque sorte « auto-libérés », par l’intermédiaire des mouvements de partisans de Josip Broz, dit « Tito », en Yougoslavie, et d’Enver Hoxha, en Albanie. Tito, qui avait du génie politique, qui était un stratège rusé, a réussit à consolider son pouvoir dans les Balkans en maintenant un certain équilibre ethno-religieux et en imposant un socialisme paternaliste, tout en se proclamant l’adepte d’une solidarité internationale avec les pays non alignés.

 

La Yougoslavie s’est effondrée après la fin du titisme et beaucoup de sang a coulé, alors que le reste de l’Europe centrale et orientale se transformait pacifiquement dans les années 90 du 20ème siècle, tandis que la question allemande trouvait sa solution dans une réunification pacifique.

 

Il y avait donc, après le communisme, une diversité religieuse et ethnique dans les Balkans, ce qui invitait les nations occidentales, elles-mêmes fort diversifiées dans leurs composantes, à se choisir des partenaires dans le processus d’intégration à l’UE et aux autres instances européennes. Les affinités électives, nées de l’histoire, entre peuples d’Europe centrale et peuples d’Europe orientale, avaient aussi des connotations religieuses : l’Allemagne et l’Autriche se sentaient plus proches de la Croatie ; la France et la Grande-Bretagne semblaient privilégier la Serbie. Les Bosniaques musulmans ont pu et peuvent toujours compter sur le soutien de la Turquie et des pays arabes, même si l’Autriche jouit en Bosnie d’un capital historique positif.

 

La crise balkanique, qui s’éternise, a montré que l’Europe eurocratique est incapable de faire la paix dans son environnement immédiat, ce qui a pour corollaire gênant de démontrer que les Etats-Unis sont « irremplaçables ».

 

Le Traité de paix de Dayton est considéré comme une sorte d’armistice ethno-religieux orchestré par les Etats-Unis, qui, à l’époque, s’étaient enthousiasmés pour le livre de Samuel Huntington, « The Clash of Civilizations » (« Le choc des civilisations »). Ce traité donne, d’une part, l’impression illusoire d’être systématique, d’avoir bétonné la séparation entre les ennemis irréductibles de la région, et, d’autre part, d’avoir voulu maintenir l’islam local sous contrôle. Ainsi, on a cru que la Fédération croato-musulmane en Bosnie-Herzégovine était une structure bien conçue et inévitable, où les musulmans allaient être placés sous le contrôle de catholiques croates intransigeants.

 

L’avenir n’a pas été aussi simple : la diplomatie internationale a commis bon nombre de bourdes depuis 2001. Ainsi, les Croates de Bosnie ont été considérablement affaiblis, au point de ne plus représenter ce qu’ils représentaient auparavant ; ensuite, la création de nouveaux Etats, comme le Monténégro et le Kosovo, qui sont tous deux des Etats à majorité musulmane réelle ou potentielle, constitue un nouvel élément contribuant à l’affaiblissement général des entités politiques non musulmanes de la région. La situation dans les Balkans n’a pas trouvé de solution et c’est là une invitation aux Turcs à restaurer les structures de feu l’Empire ottoman, puisque l’UE n’a ni stratégie ni projet pour la région et ses membres agissent de manière désordonnée et contradictoire. D’où il ne reste que deux facteurs d’ordre possibles dans les Balkans : d’une part, un islam promu par la Turquie et, d’autre part, une orthodoxie slave en phase de réorganisation. Reste à savoir si ces deux facteurs en lice se heurteront ou trouveront entre eux des intérêts convergents.

 

Force est de constater que seules des structures de domination très expérimentées, comme le furent celles des Ottomans ou des Habsbourg d’Autriche, ont pu gérer le paysage politique très fragmenté de l’Europe du Sud-Est. Tito a réussi, lui aussi, parce son idéologie communiste avait des allures impériales et que sa façon de procéder avait quelque chose de monarchique. L’UE, malgré tous ses efforts, pourra-t-elle obtenir des résultats ? Rien n’est moins sûr.

 

On peut observer très nettement une forte croissance de la population dans les régions traditionnellement habitées par des Musulmans, ce qui fait qu’aujourd’hui la Bosnie-Herzégovine, pour la première fois depuis plusieurs siècles d’histoire, possède désormais une majorité absolue musulmane. On n’en est pas encore vraiment conscient car le dernier recensement complet date de 1991. Que les Musulmans soient majoritaires maintenant ne fait toutefois aucun doute, vu les données crédibles qui sont avancées pour étayer ce fait. Le Monténégro est un autre Etat sur le point de devenir majoritairement musulman. Au Kosovo, ce sont les clivages religieux qui ont entrainé la guerre interethnique et c’est l’islam qui en est sorti vainqueur sans aucun doute possible. La Macédoine, elle aussi, a une population musulmane qui fait le tiers du total démographique du pays. Autre indicateur qu’il convient de remarquer : ce n’est pas qu’en Albanie que l’on rêve d’une Grande Albanie, mais aussi au Kosovo, où, pour atténuer l’effet négatif que pourrait avoir tout discours grand-albanais sur les Européens eurocratisés, on parle souvent d’ « Albanie naturelle ». Or tout Etat grand-albanais serait à domination musulmane et s’insèrerait parfaitement dans les plans d’hégémonie turque, de facture néo-ottomane.

 

Friedrich-Wilhelm MOEWE.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ). 

dimanche, 19 décembre 2010

Wetterleuchten in Asien - steigt die Kriegsgefahr?

Wetterleuchten in Asien – steigt die Kriegsgefahr?

Wolfgang Effenberger

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Genau vor 60 Jahren tobte vom 26. November bis 13. Dezember 1950 die Schlacht um den nordkoreanischen Changjin-Stausee. Chinesische Truppen waren überraschend über den Yalu-Fluss, den Grenzfluss zur Mandschurei, vorgedrungen und zwangen die US-Verbände zum hastigen Rückzug aus den nur Wochen zuvor gewonnenen Stellungen in Nordkorea. Der Angriff der etwa 300.000 Mann starken chinesischen »Freiwilligenarmee« endete mit einer der spektakulärsten Niederlagen des US-Militärs in seiner gesamten Geschichte. Um ein unter US-amerikanischem Einfluss vereinigtes Korea zu vermeiden, hatte China mit einer zunächst 300.000 Soldaten umfassenden »Freiwilligenarmee« Nordkorea zu unterstützen begonnen.

 

 

Es folgte ein sich lange hinziehendes Patt, das erst mit dem im Juli 1953 erklärten Waffenstillstand endete. Der Krieg hatte annähernd vier Millionen Menschen das Leben gekostet; die meisten davon waren koreanische Zivilisten. (1) Sechs Jahrzehnte nach den erbitterten Kämpfen amerikanischer und chinesischer Truppen streben die Spannungen auf der koreanischen Halbinsel offenbar wieder auf einen neuen Höhepunkt zu. Angeheizt durch einen sich zuspitzenden Großmachtkonflikt zwischen Washington und Beijing?

Die Ankunft einer US-Kriegsflotte im Gelben Meer unter Führung des atomgetriebenen Flugzeugträgers USS George Washington scheint eine weitere Eskalation der augenblicklichen Krise zu bestätigen. Den Marschbefehl erhielt die Flotte angeblich unmittelbar nach dem Beschuss der Insel Yeonpyeong durch Nordkorea am 23. November 2010. Für die meisten der westlichen Medien stand zweifelsfrei der Schuldige fest: Die unprovozierten Nordkoreaner hatten erneut den Waffenstillstand gebrochen und einen Bündnispartner der USA angegriffen. Pflichtgemäß berichtete ABC News von Präsident Obamas »Empörung« über die Provokation und dessen Willen, mit Südkorea »Schulter an Schulter zu stehen«. (2)

In der folgenden Flut von Artikeln und Medienberichten meldete sich auch Zbigniew Brzezinski zu Wort. Der alte Geostratege hatte als Jimmy Carters Sicherheitsberater die Mudschahedin bewaffnet, um die Sowjetunion in das afghanische Abenteuer zu locken. Nun sah er in dem Beschuss ein Zeichen dafür, »dass das nordkoreanische Regime einen Punkt des Wahnsinns erreicht hat«. Die rational kaum zu ergründenden Handlungen zeigen Brzezinski, »dass das Regime außer Kontrolle ist.« (3) So einfach scheint es aber nicht zu sein. Nur einen Tag vor der nordkoreanischen Provokation hatte Südkorea unter dem Codenamen »Hoguk« rund 70.000 Soldaten für ein Manöver mit »scharfem Schuss« in diesem umstrittenen Grenzgebiet zusammengezogen. An dieser jährlichen Militärübung nahmen Dutzende von südkoreanischen und US-Kriegsschiffen und rund 500 Flugzeuge teil. (4) Ursprünglich war auch die Teilnahme von US-Truppen geplant, die aber offenbar im letzten Augenblick absagten. (5) Anstatt unreflektiert auf Nordkorea zu verweisen, hätte eine verantwortliche Berichterstattung die Hintergründe aufhellen beziehungsweise eine neutrale Untersuchung for-dern müssen. Muss nicht auch das südkoreanische Manöver »Hoguk« in einem umstrittenen Grenzgebiet als Provokation angesehen werden? Die Insel Yeonpyeong liegt in unmittelbarer Nähe des nordkoreanischen Festlandes. Einseitig hatte Ende des Koreakrieges im Jahr 1953 US-General Mark Clark die umstrittene Grenzziehung zu Nordkoreas Nachteil festgelegt. Nordkorea hat diese Seegrenze nie anerkannt.

Nun scheint die Krise mit der überraschenden Dienstreise des Stabschefs der US-Armee, Admiral Mike Mullen, zu einem Besuch nach Seoul weitere Kreise zu ziehen.

Die Spannungen zwischen Nord- und Südkorea oszillieren im Weltmachtpoker. Bereits einige Tage vor Obamas Besuch in Japan demonstrierten Anfang November 2009 über 20.000 Japaner in Ginowan gegen den weiteren Ausbau der US-Militärstützpunkte und den Neubau eines der modernsten Einsatz- und Kampfführungszentren auf der Insel Okinawa – Fertigstellung bis 2013. Weiter verlangten sie die Schließung der in der Nähe ihrer Stadt gelegenen amerikanischen Marine-Corps-Futenma-Air-Base. Unter dem Beifall der Demonstranten rief der Bürgermeister von Ginowan, Yoichi Iha, dem japanischen Premierminister Yukio Hatoyama zu, Präsident Obama zu sagen, »dass Okinawa keine US-Basen mehr braucht.« Abschießend forderte der Bürgermeister vom Premier »eine tapfere Entscheidung zu treffen und mit der Last und Qual von Okinawa Schluss zu machen.« (6) Schon früher hatte die Opposition gegen die Anwesenheit einer strategisch bedeutenden US-Militärbasis in Japan Stellung bezogen. Sind doch von diesem »unsinkbaren Flugzeugträger der Vereinigten Staaten« China, Taiwan und Nordkorea leicht zu erreichen. Japan als östliches Einfallstor nach Eurasien.

Am Mittwoch hatte Clinton zusammen mit US-Verteidigungsminister Robert Gates bei einem ungewöhnlichen Besuch des innerkoreanischen Grenzorts Panmunjom schärfere Strafen gegen Pjöngjang verkündet, um dessen »nuklearen Bestrebungen Einhalt zu gebieten«.

Am 21. Juli besuchte US-Außenministerin Hillary Clinton zusammen mit US-Verteidigungsminister Robert Gates die entmilitarisierte Zone des innerkoreanischen Grenzorts Panmunjom. Dort verkündete sie schärfere Strafen gegen Pjöngjang, um dessen »nuklearen« Bestrebungen Einhalt zu gebieten. Der demonstrative Charakter dieses »Besuches« offenbarte auch das weitere Gepäck der US-Außenministerin: neue Wirtschaftsembargos gegen Nordkorea und die Ankündigung von der Zunahme der gemeinsamen Militärmanöver mit Südkorea in den kommenden Monaten. Das hatte der Pressesekretär des Pentagons, Jeff Morrell, bereits auf der Pressekonferenz am 14. Juli ausgeführt: »Auch werden gemeinsame Militärmanöver bei den Verhandlungen 2+2 [zwischen Nord- und Südkorea sowie China und den USA] zur Sprache gebracht. Zu denen gehören neue See- und Luftmanöver im japanischen Meer und Gelben Meer.« Weiter führte Morell aus: »All diese Manöver sind defensiver Natur, aber sie geben Nordkorea eine klare abschreckende Botschaft und demonstrieren unsere unerschütterliche Verpflichtung zur Verteidigung Südkoreas.« (7)

Von Seoul flog die US-Außenministerin nach Hanoi zur asiatischen Sicherheitskonferenz. Dort warf Hillary Clinton der Regierung in Pjöngjang ein »provokatives, gefährliches Verhalten« vor. Daraufhin kündigte ein Sprecher der nordkoreanischen Delegation eine »physische Antwort« an und sprach von »Kanonenbootdiplomatie« und einer Bedrohung der nationalen Souveränität. (8)

Nur drei Tage später kreuzten 20 Marineschiffe und 200 Kriegsflugzeuge aus Südkorea und den USA, darunter der eigens nach Korea geschickte Flugzeugträger »George Washington« vier Tage lang zwischen Südkorea und Japan. Weitere Militärübungen wurden für August geplant.

Mit der Verschärfung ihres Kurses reagieren die USA auf die schwache Resolution des Weltsicherheitsrats. Der hatte den Untergang der südkoreanischen Korvette »Cheonan« im März verurteilt, ohne den angeblichen Angreifer Nordkorea zu erwähnen.(9)

Peking hatte eine schärfere UN-Resolution verhindert und sich »tief besorgt« über die südkoreanisch-amerikanischen Manöver geäußert. Sie würden die Spannungen in der Region weiter anheizen.

Laut südkoreanischen Presseberichten haben die USA bereits seit Juni bei rund zehn Banken in Südostasien, Südeuropa und dem Nahen Osten heimlich etwa 100 Konten einfrieren lassen, über die Nordkorea angeblich illegale Geschäfte abwickeln soll. (10)

Warum heizt die US-Administration gerade jetzt das Koreaproblem an? Sollen hier die Chinesen gebunden werden, um mehr Handlungsfreiheit gegen den Iran zu bekommen?

Trotz – oder aufgrund? – aller wirtschaftlichen, politischen und militärischen Schwierigkeiten scheinen die USA an ihren globalen Plänen und der per Gesetz verankerten Seidenstraßenstrategie (11) festzuhalten. Die Stützpunkte im zentralen US-Militärkommando CENTCOM – vom kaspischen Raum bis zum Horn von Afrika – werden weiter ausgebaut. Ebenso wie im Osten Eurasien wird im Westen und zwar in Wiesbaden das Pendant zu Ginowan auf der Insel Okinawa gebaut.

Völlig unspektakulär war in der US-Armeezeitung Stars & Stripes am 20. Oktober 2009 vom Umzug des Hauptquartiers der US Army/Europe (USAREUR) von Heidelberg nach Wiesbaden zu lesen. (12) Auf dem dortigen US-Airfield Erbenheim soll bis 2013 das neue Europa-Hauptquartier der US Army entstehen. 68 Jahre nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges und nach elf US-Präsidenten seit Harry Truman (1945–1953) sollen von einem amphitheaterähnlichen Einsatz- und Kampfführungszentrum aus die militärischen Geschicke Europas gesteuert werden. Das 84 Millionen Dollar teure dreistöckige Zentrum wird auf ca. 26.500 Quadratmetern mit den neuesten Kommunikations- und Planungsgeräten ausgestattet und zur modernsten US-Militäreinrichtung in Europa ausgebaut. Den Grund für den Neubau erläuterte der Operationschef der USAREUR, Brigadegeneral David G. Perkins: »Bisher ist das Hauptquartier der USAREUR weder dazu ausgelegt, noch technisch oder personell so ausgestattet, dass es als Kriegsführungshauptquartier dienen könnte.« Welche neuen Kriege sollen von hier aus ab 2013 geführt werden?

 

Anmerkungen:

 

(1) R. J. Rummel: »Statistics of North Korean Democide Estimates, Calculations and Sources«, STATISTICS OF DEMOCIDE, Chapter 10, unter http://www.mega.nu/ampp/rummel/sod.chap10.htm [09.12.10]

(2) White House: »President Obama ›Outraged‹ by North Koreas Attack«, November 23, 2010, 12:32 PM, unter http://blogs.abcnews.com/politicalpunch/2010/11/white-hou...

(3) Zbigniew Brzezinski, »America and China’s first big test«, Financial Times, 23. November 2010.

(4) Gregory Elich: »Spiralling out of Control: The Risk of a New Korean War«, in Global Research vom 4. Dezember 2010

(5) Justin Raimondo: »Latest incident a provocation – but by whom?«, vom 24. November 2010, http://original.antiwar.com/justin/2010/11/23/korean-conu...

(6) Zitiert aus »Japanese protest US base before Obama visit« in yahoo news, http://news.yahoo.com/s/afp/20091108/wl_asia_afp/japanusd...

(7) http://german.irib.ir/analysen/kommentare/item/113405-hil...

(8) Martin Fritz: »US-Sanktionen gegen Nordkorea. Kalter Krieg wird heißer«, taz vom 23. Juli 2010, http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/kalter-krieg-... [09.12.10]

(9) Eine südkoreanische Untersuchung hatte ein Torpedo des Nordens als Ursache für den Tod von 46 Seeleuten identifiziert. Nordkorea bestreitet dies jedoch.

(10) Martin Fritz: »US-Sanktionen gegen Nordkorea. Kalter Krieg wird heißer«, taz vom 23. Juli 2010, http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/kalter-krieg-... [09.12.10]

(11) Seidenstraßen-Strategie-Gesetz

Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152-106th Congress)

Offizieller Titel: To amend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the economic and political independence of the countries of the South Caucasus and Central Asia.

Im Mai 2006 modifiziert:

Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749-109th Congress)

Offizieller Titel: A bill to update the Silk Road Strategy Act of 1999 to modify targeting of assistance in order to support the economic and political independence of the countries of Central Asia and the South Caucasus in recognition of political and economic changes in these regions since enactment of the original legislation.

(12) Mark Patton: »Contract awarded for Wiesbaden USAREUR center«, in: Stars and Stripes, European edition, 20. Oktober 2009, http://www.stripes.com/article.asp?section=104&articl...

 

vendredi, 17 décembre 2010

La disparition des Etats-Unis en tant que superpuissance mondiale

La disparition des Etats-Unis en tant que superpuissance mondiale

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Un atterrissage en douceur pour les Etats-Unis d’ici quarante ans ? N’y pensez pas ! La disparition des Etats-Unis en tant que superpuissance mondiale pourrait survenir bien plus vite que ce que l’on imagine. Si Washington rêve de 2040 ou de 2050 comme date de fin pour le « Siècle Américain », une estimation plus réaliste des tendances aux Etats-Unis et dans le monde laisse penser qu’en 2025, exactement dans 15 ans, tout pourrait être pratiquement terminé.

 [1]

Malgré l’aura d’omnipotence que la plupart des empires projètent, un regard sur leur histoire devrait nous rappeler que ce sont des organismes fragiles. L’écologie de leur pouvoir est si délicate que lorsque les choses commencent à aller vraiment mal, les empires se désagrègent généralement à une vitesse incroyable : juste une année pour le Portugal, deux années pour l’Union Soviétique, 8 pour la France, 11 pour les Ottomans, 17 pour la Grande-Bretagne et, selon toute vraisemblance, 22 ans pour les Etats-Unis, à partir de la cruciale année 2003.

Les futurs historiens identifieront probablement l’invasion irréfléchie de l’Irak par l’administration de George W. Bush, cette année-là, comme le commencement de la chute de l’Amérique. Cependant, à la place du bain de sang qui a marqué la fin de tant d’empires du passé, avec des villes qui brûlent et des civils massacrés, cet effondrement impérial du 21ème siècle pourrait survenir de façon relativement discrète, par les circonvolutions invisibles de l’effondrement économique ou de la guerre cybernétique.

Mais n’ayez aucun doute : lorsque la domination mondiale de Washington prendra irrémédiablement fin, il y aura des souvenirs quotidiens douloureux de ce qu’une telle perte de pouvoir signifie pour les Américains de tous les milieux. A l’instar de ce qu’une demi-douzaine de nations européennes ont découvert, le déclin impérial tend à avoir un impact remarquablement démoralisant sur une société, apportant ordinairement des privations économiques pendant au moins une génération. Au fur et à mesure que l’économie se refroidit, la température politique monte, déclenchant souvent de sérieux troubles.

Les données économiques, éducatives et militaires disponibles indiquent, pour ce qui est de la puissance mondiale des Etats-Unis, que les tendances négatives s’accumuleront rapidement d’ici à 2020 et atteindront probablement une masse critique au plus tard en 2030. Le Siècle Américain, proclamé si triomphalement au commencement de la Deuxième Guerre Mondiale, sera réduit à néant et s’éteindra d’ici à 2025, dans sa huitième décennie, et pourrait être relégué définitivement au passé d’ici 2030.

Fait révélateur, en 2008, la Commission Nationale Américaine des Renseignements [US National Intelligence Council] a admis pour la première fois que la puissance globale des Etats-Unis suivait vraiment une trajectoire déclinante. Dans l’un de ses rapports périodiques sur le futur, Global Trends 2025 [Tendances Mondiales 2025], cette commission a cité « le transfert brutal de la richesse mondiale et de la puissance économique, actuellement en cours, de l’Ouest vers l’Est », et « sans précédent dans l’histoire moderne », comme premier facteur du déclin de la « force relative des Etats-Unis – même dans le domaine militaire ». Toutefois, comme beaucoup à Washington, les analystes de cette commission ont anticipé un atterrissage très en douceur et très long de la prééminence mondiale américaine, et ils ont nourri l’espoir que d’une façon ou d’une autre les Etats-Unis « garderaient longtemps une capacité militaire unique… afin de projeter leur puissance militaire sur le monde » pour les décennies à venir.

Pas la moindre chance ! Selon les projections actuelles, les Etats-Unis se retrouveront en deuxième position derrière la Chine (déjà deuxième économie mondiale) en terme de production économique, aux alentours de 2026, et derrière l’Inde d’ici à 2050. De même, l’innovation chinoise suit une trajectoire qui conduira la Chine au leadership mondial en science appliquée et en technologie militaire entre 2020 et 2030, juste au moment où les nombreux scientifiques et ingénieurs brillants de l’Amérique actuelle prendront leur retraite, sans pouvoir être adéquatement remplacés à cause d’une nouvelle génération mal instruite.

D’ici 2020, selon les prévisions actuelles, le Pentagone se lancera dans un va-tout militaire d’un empire mourrant. Il lancera une triple couverture spatiale létale, constituée de robotique avancée et qui représente le dernier meilleur espoir de Washington de maintenir son statut de puissance mondiale, malgré son influence économique déclinante. Toutefois, dès cette année-là, le réseau mondial de satellites de communication de la Chine, soutenu par les super-ordinateurs les plus puissants du monde, sera également entièrement opérationnel, procurant à Pékin une plate-forme indépendante pour la militarisation de l’espace et un puissant système de communication pour ses missiles – ou attaques cybernétiques – dans tous les endroits de la planète.

Enveloppée dans sa prétention démesurée impériale, comme Whitehall ou le Quai d’Orsay avant elle, la Maison Blanche semble toujours imaginer que le déclin américain sera progressif, modéré et partiel. Dans son Adresse à l’Union en janvier dernier, le Président Barack Obama a donné la garantie qu’il « n’accepte pas la deuxième place pour les Etats-Unis d’Amérique ». Quelques jours plus tard, le Vice-président Joseph Biden, a tourné en dérision l’idée même que « nous sommes destinés à réaliser la prophétie de [l’historien Paul] Kennedy, selon laquelle nous serons une grande nation qui aura échoué parce que nous avons perdu le contrôle de notre économie et que nous nous sommes trop agrandis ». De la même manière, Joseph Nye, le gourou néolibéral en politique étrangère, s’exprimant dans le numéro de novembre du journal institutionnel Foreign Affairs, a balayé toute idée d’essor économique et militaire de la Chine, rejetant « les métaphores trompeuses de déclin organique » et niant qu’une détérioration de la puissance globale des Etats-Unis était en cours.

Les Américains ordinaires, voyant leurs emplois se délocaliser à l’étranger, ont une vision plus réaliste que leurs dirigeants qui, eux, sont bien protégés. Un sondage d’opinion d’août 2010 a mis en évidence que 65% des Américains pensaient que leur pays était désormais « en état de déclin ». Déjà, l’Australie et la Turquie, des alliés militaires traditionnels des Etats-Unis, utilisent leurs armes fabriquées en Amérique pour des manœuvres aériennes et navales conjointes avec la Chine. Déjà, les partenaires économiques les plus proches des Etats-Unis s’éloignent de la position de Washington et se tournent vers la devise chinoise, dont les taux sont manipulés. Alors que le président [Obama] revenait d’Asie le mois dernier, un gros titre sinistre du New York Times résumait ainsi le moment fort de son voyage : « Sur La Scène Mondiale, La Vision Economique d’Obama Est Rejetée, La Chine, La Grande-Bretagne Et L’Allemagne Contestent Les USA, Les Pourparlers Commerciaux Avec Séoul Ont Egalement Echoué ».

D’un point de vue historique, la question n’est pas de savoir si les Etats-Unis perdront leur puissance globale incontestée, mais juste à quelle vitesse et avec quelle brutalité se produira leur déclin. A la place des désirs irréalistes de Washington, prenons la propre méthodologie du National Intelligence Council pour décrypter l’avenir, afin de suggérer quatre scénarios réalistes (accompagnés de quatre évaluations associées de leur situation actuelle) sur la manière, que ce soit avec fracas ou dans un murmure, dont la puissance globale des Etats-Unis pourrait toucher à sa fin dans les années 2020. Ces scénarios futuristes comprennent : le déclin économique, le choc pétrolier, la mésaventure militaire et la Troisième Guerre Mondiale. Même si ces scénarios sont loin d’être les seules possibilités en matière de déclin – voire même d’effondrement – américain, ils offrent une fenêtre sur un futur qui arrive au pas de charge.

Le déclin économique

La situation actuelle

Aujourd’hui, trois menaces principales existent vis-à-vis de la position dominante des Etats-Unis dans l’économie mondiale : la perte de l’influence économique grâce à une part du commerce mondial qui se rétrécit, le déclin de l’innovation technologique américaine et la fin du statut privilégié du dollar en tant que devise de réserve mondiale.

Dès 2008, les Etats-Unis sont déjà tombés au troisième rang mondial pour les exportations, avec 11% des exportations mondiales, comparés à 12% pour la Chine et 16% pour l’Union Européenne. Il n’y a aucune raison de croire que cette tendance va s’inverser.

De la même façon, le leadership américain dans l’innovation technologique est sur le déclin. En 2008, les Etats-Unis étaient encore numéro deux derrière le Japon en matière de dépôts de brevets, avec 232.000, mais la Chine se rapprochait très vite avec 195.000 brevets, grâce à une augmentation foudroyante de 400% depuis l’an 2000. Un signe annonciateur d’un déclin supplémentaire : en 2009, les Etats-Unis sont tombés au plus bas, au cours de la décennie précédente, parmi les 40 pays étudiés par la Fondation pour l’Innovation et l’Information Technologique, en termes de « changement » dans la « compétitivité mondiale en matière d’innovation ». Ajoutant du corps à ces statistiques, en octobre dernier, le Ministère de la Défense chinois a dévoilé le super-ordinateur le plus rapide du monde, le Tianhe-1 A, si puissant, selon un expert américain, qu’il « fait voler en éclat les performances de l’actuelle machine n°1 » aux Etats-Unis.

Ajoutez à cette preuve limpide que le système éducatif américain, qui constitue la source des futurs scientifiques et innovateurs, est passé derrière ses concurrents. Après avoir été à la tête du monde pendant des décennies sur la tranche d’âge des 25-34 ans possédant un diplôme universitaire, ce pays a sombré à la douzième place en 2010. Le Forum Economique Mondial, la même année, a classé les Etats-Unis à une médiocre 52ème place sur 139 pays, en ce qui concerne la qualité de ses universités de mathématiques et d’instruction scientifique. Près de la moitié de tous les diplômés en sciences aux Etats-Unis sont désormais des étrangers, dont la plupart rentreront chez eux, et ne resteront pas aux Etats-Unis comme cela se passait autrefois. Autrement dit, d’ici 2025, les Etats-Unis se retrouveront probablement face à une pénurie de scientifiques de talent.

De telles tendances négatives encouragent la critique acerbe croissante sur le rôle du dollar en tant que devise de réserve mondiale. « Les autres pays ne veulent plus adhérer à l’idée que les Etats-Unis savent mieux que les autres en matière de politique économique », a observé Kenneth S. Rogoff, ancien chef économiste au FMI. A la mi-2009, avec les banques centrales qui détenaient un montant astronomique de 4.000 milliards de dollars en bons du trésor américain, le Président russe Dimitri Medvedev a insisté sur le fait qu’il était temps de mettre fin au « système unipolaire artificiellement maintenu » et basé sur « une devise de réserve qui avait été forte dans le passé ».

Simultanément, le gouverneur de la banque centrale chinoise a laissé entendre que l’avenir pourrait reposer sur une devise de réserve mondiale « déconnectée des nations individuelles » (c’est-à-dire, le dollar américain). Prenez tout ceci comme des indications du monde à venir et comme une tentative possible, ainsi que l’a soutenu l’économiste Michael Hudson, « d’accélérer la banqueroute de l’ordre mondial militaro-financier des Etats-Unis ».

Un scénario pour 2020

Après des années de déficits croissants, nourris par des guerres incessantes dans des pays lointains, en 2020, comme l’on s’y attend depuis longtemps, le dollar américain perd finalement son statut spécial de devise de réserve mondiale. Soudain, le coût des importations monte en flèche. Incapable de payer des déficits allant crescendo en vendant des bons du Trésor à présent dévalués, Washington est finalement obligé de réduire considérablement son budget militaire boursouflé. Sous la pression de ses citoyens et de l’étranger, Washington retire les forces américaines de centaines de bases à l’étranger qui se replient sur un périmètre continental. Cependant, il est désormais bien trop tard.

Face à une superpuissance qui s’éteint et qui est incapable de payer ses factures, la Chine, l’Inde, l’Iran, la Russie et d’autres puissances, grandes ou régionales, défient et provoquent la domination des Etats-Unis sur les océans, dans l’espace et le cyberespace. Pendant ce temps, en pleine inflation, avec un chômage qui croit sans cesse et une baisse continue des salaires réels, les divisions intérieures s’étendent en violents clashs et en débats diviseurs, souvent sur des questions remarquablement hors sujet. Surfant sur une vague politique de désillusion et de désespoir, un patriote d’extrême-droite capture la présidence avec une rhétorique assourdissante, exigeant le respect de l’autorité américaine et proférant des menaces de représailles militaires ou économiques. Le monde ne prête quasiment pas attention alors que le Siècle Américain se termine en silence.

Le choc pétrolier

La situation actuelle

Une victime collatérale de la puissance économique déclinante de l’Amérique a été son verrouillage des approvisionnements en pétrole. Accélérant et dépassant l’économie américaine gourmande en pétrole, la Chine est devenue cet été le premier consommateur mondial d’énergie, une position détenue par les Etats-Unis depuis plus d’un siècle. Le spécialiste [américain] de l’énergie Michael Klare a exposé que ce changement signifie que la Chine « donnera le rythme pour façonner notre avenir mondial ».

D’ici 2025, la Russie et l’Iran contrôleront près de la moitié des réserves mondiales de gaz naturel, ce qui leur octroiera potentiellement un énorme effet de levier sur une Europe affamée d’énergie. Ajoutez les réserves pétrolières à ce mélange, ainsi que le National Intelligence Council a prévenu, et dans juste 15 ans, deux pays, la Russie et l’Iran, pourraient « émerger comme les chevilles ouvrières de l’énergie ».

Malgré leur ingéniosité remarquable, les principales puissances pétrolières vident actuellement les grands bassins de réserves pétrolières qui s’avèrent être des extractions faciles et bon marché. La véritable leçon du désastre pétrolier de « Deepwater Horizon » dans le Golfe du Mexique n’était pas les normes de sécurité laxistes de BP, mais le simple fait que tout le monde ne voyait que le « spectacle de la marée noire » : l’un des géants de l’énergie n’avait pas beaucoup d’autre choix que de chercher ce que Klare appelle du « pétrole coriace », à des kilomètres sous la surface de l’océan, pour maintenir la croissance de ses profits.

Aggravant le problème, les Chinois et les Indiens sont soudainement devenus des consommateurs d’énergie beaucoup plus gourmands. Même si les approvisionnements en pétrole devaient rester constants (ce qui ne sera pas le cas), la demande, et donc les coûts, est quasiment assurée de monter – et, qui plus est, brutalement. D’autres pays développés répondent agressivement à cette menace en se plongeant dans des programmes expérimentaux pour développer des sources énergétiques alternatives. Les Etats-Unis ont pris une voie différente, faisant bien trop peu pour développer des sources énergétiques alternatives, tandis qu’au cours des dix dernières années, ils ont doublé leur dépendance sur les importations du pétrole provenant de l’étranger. Entre 1973 et 2007, les importations de pétrole [aux Etats-Unis] sont passées de 36% de toute l’énergie consommée aux Etats-Unis à 66%.

Un scénario pour 2025

Les Etats-Unis sont restés si dépendants du pétrole étranger que quelques événements défavorables sur le marché mondial de l’énergie déclenchent en 2025 un choc pétrolier. En comparaison, le choc pétrolier de 1973 (lorsque les prix ont quadruplé en quelques mois) ressemble à un avatar. En colère face à la valeur du dollar qui s’envole, les ministres du pétrole de l’OPEP, se réunissant en Arabie Saoudite, exigent les futurs paiements énergétiques dans un « panier de devises », constitué de yen, de yuan et d’euro. Cela ne fait qu’augmenter un peu plus le coût des importations pétrolières américaines. En même temps, tandis qu’ils signent une nouvelle série de contrats de livraison à long-terme avec la Chine, les Saoudiens stabilisent leurs propres réserves de devises en passant au yuan. Pendant ce temps, la Chine déverse d’innombrables milliards pour construire un énorme pipeline à travers l’Asie et finance l’exploitation par l’Iran du plus grand champ gazier au monde, à South Pars, dans le Golfe Persique.

Inquiets que l’US Navy pourrait ne plus être en mesure de protéger les bateaux-citernes naviguant depuis le Golfe Persique pour alimenter l’Asie Orientale, une coalition entre Téhéran, Riyad et Abu-Dhabi forme une nouvelle alliance inattendue du Golfe et décrète que la nouvelle flotte chinoise de porte-avions rapides patrouillera dorénavant dans le Golfe Persique, depuis une base dans le Golfe d’Oman. Sous de fortes pressions économiques, Londres accepte d’annuler le bail des Américains sur la base de Diego Garcia, située sur son île de l’Océan Indien, tandis que Canberra, contrainte par les Chinois, informe Washington que sa Septième Flotte n’est plus la bienvenue à Fremantle, son port d’attache, évinçant de fait l’US Navy de l’Océan Indien.

En quelques traits de plume et quelques annonces laconiques, la « Doctrine Carter », selon laquelle la puissance militaire étasunienne devait éternellement protéger le Golfe Persique, est enterrée en 2025. Tous les éléments qui ont assuré pendant longtemps aux Etats-Unis des approvisionnements illimités en pétrole bon marché depuis cette région – logistique, taux de change et puissance navale – se sont évaporés. A ce stade, les Etats-Unis ne peuvent encore couvrir que 12% de leurs besoins énergétiques par leur industrie d’énergie alternative naissante, et ils restent dépendants du pétrole importé pour la moitié de leur consommation d’énergie.

Le choc pétrolier qui s’ensuit frappe le pays comme un ouragan, envoyant les prix vers de nouveaux sommets, rendant les voyages une option incroyablement coûteuse, provoquant la chute-libre des salaires réels (depuis longtemps en déclin) et rendant non-compétitif ce qui reste des exportations américaines. Avec des thermostats qui chutent, le prix des carburants qui bat tous les records et les dollars qui coulent à flot vers l’étranger en échange d’un pétrole coûteux, l’économie américaine est paralysée. Avec des alliances en bout de course qui s’effilochent depuis longtemps et des pressions fiscales croissantes, les forces militaires américaines commencent finalement un retrait graduel de leurs bases à l’étranger.

En quelques années, les Etats-Unis sont fonctionnellement en faillite et le compte à rebours à commencé vers le crépuscule du Siècle Américain.

La mésaventure militaire

La situation actuelle

Contrairement à l’intuition, tandis que leur puissance s’éteint, les empires plongent souvent dans des mésaventures militaires inconsidérées. Ce phénomène, connu des historiens spécialistes des empires sous le nom de « micro-militarisme », semble impliquer des efforts de compensation psychologique pour soulager la douleur de la retraite ou de la défaite en occupant de nouveaux territoires, pourtant de façon brève et catastrophique. Ces opérations, irrationnelles même d’un point de vue impérial, produisent souvent une hémorragie de dépenses ou de défaites humiliantes qui ne font qu’accélérer la perte de puissance.

A travers les âges, les empires assaillis souffrent d’une arrogance qui les conduit à plonger encore plus profond dans les mésaventures militaires, jusqu’à ce que la défaite devienne une débâcle. En 413 av. J.-C., Athènes, affaiblie, envoya 200 vaisseaux se faire massacrer en Sicile. En 1921, l’Espagne impériale mourante envoya 20.000 soldats se faire massacrer par les guérillas berbères au Maroc. En 1956, l’empire britannique déclinant détruisit son prestige en attaquant Suez. Et, en 2001 et en 2003, les Etats-Unis ont occupé l’Afghanistan et envahi l’Irak. Avec la prétention démesurée qui marque les empires au fil des millénaires, Washington a augmenté à 100.000 le nombre de ses soldats en Afghanistan, étendu la guerre au Pakistan et étendu son engagement jusqu’en 2014 et plus, recherchant les désastres, petits et grands, dans ce cimetière nucléarisé des empires, infesté par les guérillas.

Un scénario pour 2014

Le « micro-militarisme » est si irrationnel et imprévisible que les scénarios en apparence fantaisistes sont vite surpassés par les évènements réels. Avec l’armée américaine étirée et clairsemée de la Somalie aux Philippines et les tensions qui montent en Israël, en Iran et en Corée, les combinaisons possibles pour une crise militaire désastreuse sont multiformes.

Nous sommes au milieu de l’été 2014 au sud de l’Afghanistan et une garnison américaine réduite, dans Kandahar assailli, est soudainement et de façon inattendue prise d’assaut par les guérillas Taliban, tandis que les avions américains sont cloués au sol par une tempête de sable aveuglante. De lourdes pertes sont encaissées et, en représailles, un commandant militaire américain embarrassé lâche ses bombardiers B-1 et ses avions de combat F-16 pour démolir tout un quartier de la ville que l’on pense être sous contrôle Taliban, tandis que des hélicoptères de combat AC-130 U « Spooky » ratissent les décombres avec des tirs dévastateurs.

Très vite, les Mollahs prêchent le djihad dans toutes les mosquées de la région, et les unités de l’armée afghane, entraînées depuis longtemps par les forces américaines pour renverser le cours de la guerre, commencent à déserter massivement. Les combattants Talibans lancent alors dans tout le pays une série de frappes remarquablement sophistiquées sur les garnisons américaines, faisant monter en flèche les pertes américaines. Dans des scènes qui rappellent Saigon en 1975, les hélicoptères américains portent secours aux soldats et aux civils américains depuis les toits de Kaboul et de Kandahar.

Pendant ce temps, en colère contre l’impasse interminable qui dure depuis des dizaines d’années à propos de la Palestine, les dirigeants de l’OPEP imposent un nouvel embargo pétrolier contre les Etats-Unis pour protester contre leur soutien à Israël, ainsi que contre le massacre d’un nombre considérable de civils musulmans dans leur guerre en cours dans tout le Grand Moyen-Orient. Avec le prix des carburants qui monte en flèche et ses raffineries qui s’assèchent, Washington prend ses dispositions en envoyant les forces des Opérations Spéciales saisir les ports pétroliers du Golfe Persique. En retour, cela déclenche un emballement des attaques-suicides et le sabotage des pipelines et des puits de pétrole. Tandis que des nuages noirs s’élèvent en tourbillons vers le ciel et que les diplomates se soulèvent à l’ONU pour dénoncer catégoriquement les actions américaines, les commentateurs dans le monde entier remontent dans l’histoire pour appeler cela le « Suez de l’Amérique », une référence éloquente à la débâcle de 1956 qui a marqué la fin de l’Empire Britannique.

La Troisième Guerre Mondiale

La situation actuelle

Au cours de l’été 2010, les tensions militaires entre les Etats-Unis et la Chine ont commencé à croître dans le Pacifique occidental, considéré autrefois comme un « lac » américain. Même un an plus tôt, personne n’aurait prédit un tel développement. De la même manière que Washington a exploité son alliance avec Londres pour s’approprier une grande part de la puissance mondiale de la Grande-Bretagne après la Deuxième Guerre Mondiale, la Chine utilise à présent les profits générés par ses exportations avec les Etats-Unis pour financer ce qui risque probablement de devenir un défi militaire à la domination américaine sur les voies navigables de l’Asie et du Pacifique.

Avec ses ressources croissantes, Pékin revendique un vaste arc maritime, de la Corée à l’Indonésie, dominé pendant longtemps par l’US Navy. En août, après que Washington eut exprimé un « intérêt national » dans la Mer de Chine méridionale et conduit des exercices navals pour renforcer cette revendication, le Global Times, organe officiel de Pékin, a répondu avec colère, en disant : « Le match de lutte entre les Etats-Unis et la Chine sur la question de la Mer de Chine méridionale a fait monter les enchères pour décider quel sera le futur dirigeant de la planète. »

Au milieu des tensions croissantes, le Pentagone a rapporté que Pékin détient à présent « la capacité d’attaquer… les porte-avions [américains] dans l’Océan Pacifique occidental » et de diriger « des forces nucléaires vers l’ensemble… des Etats-Unis continentaux. » En développant « des capacités offensives nucléaires, spatiales et de guerre cybernétique », la Chine semble déterminée à rivaliser pour la domination de ce que le pentagone appelle « le spectre d’information dans toutes les dimensions de l’espace de combat moderne ». Avec le développement en cours de la puissante fusée d’appoint Long March V, de même que le lancement de deux satellites en janvier 2010 et d’un autre en juillet dernier, pour un total de cinq [déjà mis sur orbite], Pékin a lancé le signal que le pays faisait des progrès rapides en direction d’un réseau « indépendant » de 35 satellites pour le positionnement, les communications et les capacités de reconnaissance mondiales, qui verra le jour d’ici 2020.

Pour contrôler la Chine et étendre mondialement sa position militaire, Washington a l’intention de construire un nouveau réseau numérique de robotique aérienne et spatiale, de capacités avancées de guerre cybernétique et de surveillance électronique. Les planificateurs militaires espèrent que ce système enveloppera la Terre dans un quadrillage cybernétique capable de rendre aveugles des armées entières sur le champ de bataille ou d’isoler un simple terroriste dans un champ ou une favela. D’ici 2020, si tout fonctionne selon son plan, le Pentagone lancera un bouclier à trois niveaux de drones spatiaux – pouvant atteindre l’exosphère depuis la stratosphère, armés de missiles agiles, reliés par un système modulaire de satellites élastique et opérant au moyen d’une surveillance totale par télescope.

En avril dernier, le Pentagone est entré dans l’histoire. Il a étendu les opérations de drones à l’exosphère en lançant discrètement la navette spatiale non habitée X-37 B, la plaçant en orbite basse au-dessus de la planète. Le X-37 B est le premier d’une nouvelle génération de véhicules non-habités qui marqueront la militarisation complète de l’espace, créant une arène pour les futures guerres, contrairement à tout ce qui a été fait auparavant.

Un scénario pour 2025

La technologie de la guerre spatiale et cybernétique est tellement nouvelle et non-testée que même les scénarios les plus bizarres pourraient bientôt être dépassés par une réalité encore difficile à concevoir. Toutefois, si nous employons simplement le type de scénarios que l’US Air Force a elle-même utilisés dans son 2009 Future Capabilities Game, nous pouvons obtenir « une meilleure compréhension sur la manière dont l’air, l’espace et le cyberespace coïncident dans l’art de la guerre » ; et, commencez alors à imaginer comment la prochaine guerre mondiale pourrait réellement être livrée !

Il est 23h59 en ce jeudi de Thanksgiving 2025. Tandis que les foules se pressent dans les cyberboutiques et qu’elles martèlent les portails de Best Buy pour des gros discounts sur les derniers appareils électroniques domestiques provenant de Chine, les techniciens de l’US Air Force, au Télescope Spatial de Surveillance de Maui [Hawaï], toussent sur leur café tandis que leurs écrans panoramiques deviennent soudainement noirs. A des milliers de kilomètres, au centre de commandement cybernétique au Texas, les combattants cybernétiques détectent rapidement des codes binaires malicieux qui, bien que lancés de façon anonyme, montrent l’empreinte numérique distincte de l’Armée de Libération Populaire de Chine.

Cette première attaque ouverte n’avait été prévue par personne. Le « programme malicieux » prend le contrôle de la robotique à bord d’un drone américain à propulsion solaire, le « Vulture », alors qu’il vole à 70.000 pieds au-dessus du Détroit de Tsushima, entre la Corée et le Japon. Il tire soudain tous les modules de fusées qui se trouvent en dessous de son envergure gigantesque de 135 mètres, envoyant des douzaines de missiles létaux plonger de façon inoffensive dans la Mer Jaune, désarmant ainsi efficacement cette arme terrible.

Déterminé à répondre coup pour coup, la Maison Blanche autorise une frappe de rétorsion. Confiant que son système de satellites F-6, « fractionné et en vol libre » est impénétrable, les commandants de l’Air Force en Californie transmettent les codes robotiques à la flottille de drones spatiaux X-37 B qui orbitent à 450 kilomètres au-dessus de la Terre, leur ordonnant de lancer leurs missiles « triple terminator » sur les 35 satellites chinois. Aucune réponse. Proche de la panique, l’US Air Force lance son véhicule de croisière hypersonique Falcon dans un arc de 160 kilomètres au-dessus de l’Océan Pacifique et ensuite, juste 20 minutes plus tard, envoie les codes informatiques pour tirer les missiles contre sept satellites chinois en orbite basse. Les codes de lancement sont soudainement inopérants.

Au fur et à mesure que le virus chinois se répand irrésistiblement à travers l’architecture des satellites F-6 et que ces super-ordinateurs américains de deuxième classe ne parviennent pas à cracker le code diablement complexe du programme malicieux, les signaux GPS, cruciaux pour la navigation des navires et des avions américains dans le monde entier, sont compromis. Les flottes de porte-avions commencent à tourner en rond au milieu du Pacifique. Des escadrons d’avions de combat sont cloués au sol. Les drones moissonneurs volent sans but vers l’horizon, se crashant lorsque leur carburant est épuisé. Soudain, les Etats-Unis perdent ce que l’US Air Force a longtemps appelé « le terrain élevé de combat ultime » : l’espace. En quelques heures, la puissance mondiale qui a dominé la planète pendant près d’un siècle a été vaincue dans la Troisième Guerre Mondiale sans causer la moindre victime humaine.

Un nouvel ordre mondial ?

Même si les événements futurs s’avèrent plus ternes que ce que suggèrent ces quatre scénarios, toutes les tendances importantes pointent vers un déclin beaucoup plus saisissant de la puissance américaine d’ici 2025 que tout ce que Washington semble maintenant envisager.

Alors que les alliés [des Etats-Unis] dans le monde entier commencent à réaligner leurs politiques pour rencontrer les puissances asiatiques montantes, le coût de maintien des 800 bases militaires ou plus à l’étranger deviendra tout simplement insoutenable, forçant finalement Washington à se retirer graduellement à contre-cœur. Avec la Chine et les Etats-Unis qui se trouvent dans une course à la militarisation de l’espace et du cyberespace, les tensions entre les deux puissances vont sûrement monter, rendant un conflit militaire d’ici 2025 au moins plausible, voire quasiment garanti.

Pour compliquer un peu plus les choses, les tendances économiques, militaires et technologiques exposées brièvement ci-dessus n’agiront pas de manière clairement isolée. Comme cela s’est produit pour les empires européens après la Deuxième Guerre Mondiale, de telles forces négatives se révèleront sans aucun doute synergiques. Elles se combineront de façon complètement inattendue, créeront des crises pour lesquelles les Américains ne sont absolument pas préparés et menaceront d’envoyer l’économie dans une spirale descendante soudaine, reléguant ce pays dans la misère économique, pendant une génération ou plus.

Tandis que la puissance américaine s’estompe, le passé offre un éventail de possibilités pour un futur ordre mondial. A un bout de ce spectre, la montée d’une nouvelle superpuissance mondiale, même si elle est improbable, ne peut pas être écartée. Toutefois, la Chine et la Russie manifestent toutes deux des cultures autoréférentielles, des écritures abstruses non-romaines, des stratégies de défense régionales et des systèmes légaux sous-développés, leur contestant les instruments clés pour la domination mondiale. Alors, dans ce cas, aucune superpuissance de semble pouvoir succéder aux Etats-Unis.

Dans une version noire contre-utopique de notre futur mondial, il est concevable qu’une coalition d’entreprises transnationales, de forces multilatérales comme l’OTAN et d’une élite financière internationale puisse élaborer un réseau supranational instable qui ne donnerait plus aucun sens à l’idée même d’empires nationaux. Tandis que des entreprises dénationalisées et des élites multinationales dirigeraient de façon usurpée un tel monde depuis des enclaves urbaines sécurisées, les multitudes seraient reléguées dans des terres, rurales ou urbaines, laissées à l’abandon.

Dans Planet of Slums [planète bidonvilles], Mike Davis offre au moins une vision partielle du bas vers le haut d’un tel monde. Son argument est que le milliard de personnes (deux milliards d’ici 2030) déjà entassées dans des bidonvilles fétides de type favelas autour du monde, feront « les villes sauvages et en faillite du Tiers Monde […] l’espace de combat caractéristique du 21ème siècle ». Alors que l’obscurité s’installe sur quelques super-favelas futures, « l’empire peut déployer des technologies orwelliennes de répression », tandis que « les hélicoptères de combats de type hornet chassent des ennemis énigmatiques dans les rues étroites des bas-quartiers… Tous les matins, les bidonvilles répliquent par des attentats-suicides et des explosions éloquentes ».

Au milieu de ce spectre de futurs possibles, un nouvel oligopole pourrait émerger entre 2020 et 2040, avec les puissances montantes chinoise, russe, indienne et brésilienne collaborant avec des puissances en déclin comme la Grande-Bretagne, l’Allemagne, le Japon et les Etats-Unis, en vue d’imposer une domination globale ad hoc, semblable à l’alliance approximative des empires européens qui ont dirigé la moitié de l’humanité aux alentours de 1900.

Une autre possibilité : la montée d’hégémons régionaux dans un retour à quelque chose rappelant le système international en œuvre avant que les empires modernes ne se forment. Dans cet ordre mondial néo-westphalien, avec ses perspectives sans fin de micro-violence et d’exploitation incontrôlée, chaque hégémon dominerait sa région immédiate – le Brésil en Amérique du Sud, Washington en Amérique du Nord, Pretoria en Afrique méridionale, etc. L’espace, le cyberespace et les profondeurs maritimes, retirés du contrôle de l’ancien « gendarme » planétaire, les Etats-Unis, pourraient même devenir des nouvelles parties communes mondiales, contrôlées au moyen d’un Conseil de Sécurité onusien élargi ou d’une autre institution ad hoc.

Tous ces scénarios extrapolent des tendances futuristes existantes, sur la supposition que les Américains, aveuglés par l’arrogance de décennies de puissance sans précédent historique, ne peuvent pas prendre ou ne prendront pas les mesures pour gérer l’érosion incontrôlée de leur position mondiale.

Si le déclin de l’Amérique suit en fait une trajectoire de 22 années entre 2003 et 2025, alors les Américains ont déjà gaspillé la plus grande partie de la première décade de ce déclin avec des guerres qui les ont détournés des problèmes à long-terme et, de la même manière que l’eau est bue rapidement par les sables du désert, des trillions de dollars terriblement nécessaires gaspillés.

S’il reste seulement 15 ans, les risques de les gaspiller tous reste toujours élevé. Le Congrès et le président [des Etats-Unis] sont à présent dans une impasse ; le système américain est submergé par l’argent des grandes entreprises qui bloquent les usines ; et peu de choses laissent penser que toute question d’importance, y compris les guerres américaines, l’Etat national sécuritaire bouffi de l’Amérique, son système éducatif démuni et ses approvisionnements énergétiques archaïques, sera traitée avec assez de sérieux pour assurer la sorte d’atterrissage en douceur qui pourrait maximiser le rôle et la prospérité des Etats-Unis dans un monde en changement.

Les empires d’Europe sont révolus et le pouvoir suprême des Etats-Unis se poursuit. Il semble de plus en plus improbable que les Etats-Unis obtiendront quelque chose qui ressemble de près ou de loin à la réussite de la Grande-Bretagne, pour façonner un ordre mondial réussi qui protège leurs intérêts, préserve leur prospérité et porte la marque de leurs meilleures valeurs.

Alfred W. McCoy

Traduction : Questions Critiques [2]

Alfred W McCoy est professeur d’histoire à l’Université de Wisconsin-Madison. Auteur régulier pour TomDispatch, il préside également le projet “Empires in transition”, un groupe de travail mondial de 140 historiens, provenant d’universités issues de quatre continents.

 

 


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Il ritorno turco nei Balcani

Il ritorno turco nei Balcani

di Alessandro Daniele

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il ritorno turco nei Balcani

 

La partecipazione, registratasi lo scorso luglio, del primo ministro turco Erdogan a fianco del presidente bosniaco Silajdžic e di quello serbo Tadic alle commemorazioni per il 15° anniversario del genocidio di Srebrenica ha segnato il ritorno della Turchia nei Balcani e l’esportazione della sua politica di “zero problemi coi vicini” anche nella ex Jugoslavia.

In particolare la presenza di Tadic all’evento ha rappresentato un grande successo per la diplomazia turca, che sin dall’autunno del 2009 aveva favorito l’inizio del dialogo tra Bosnia e Serbia con la visita del presidente turco Abdüllah Gül a Belgrado. Tale visita portò nell’aprile successivo alla firma di una dichiarazione con la quale Turchia, Bosnia e Serbia si impegnavano a promuovere una politica regionale basata sulla sicurezza ed il dialogo reciproco. Inoltre il 12 giugno scorso Erdogan, durante la sua visita nei Balcani, si recò a Belgrado per incontrare il premier serbo Cvetkovic e stipulare sei accordi di cooperazione che hanno sancito la libera circolazione delle persone tra Turchia e Serbia, nonché l’inizio di una maggiore cooperazione commerciale tra i due Paesi che culminerà nell’istituzione di una zona di libero scambio.

Altro importante tema di cui si è discusso a Belgrado è stato quello legato ai trasporti: in tale settore è stato delineato un progetto di cooperazione turco-serba in virtù del quale alcuni aeroporti militari dei due Paesi saranno aperti al traffico civile. Tale cooperazione, inoltre, porterà alla probabile acquisizione da parte della Turkish Airlines della compagnia serba Jat Airways, nonché allo stanziamento di circa 750 milioni di euro destinati a finanziare la costruzione di un’autostrada che collegherà Serbia e Montenegro passando per il Sangiaccato. Proprio quest’ultimo ha rappresentato l’ultima tappa del viaggio nei Balcani di Erdogan, il quale a Novi Pazar ha inaugurato un nuovo centro culturale turco.

La Turchia nei Balcani cento anni dopo

L’attuale attivismo turco nei Balcani coincide all’incirca con il centenario della “cacciata” dell’Impero ottomano dalla penisola. In occasione della prima guerra balcanica del 1912, infatti, un’alleanza composta da Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria sconfisse l’Impero, provocando l’inizio del ritiro definitivo della potenza ottomana dalla regione, ritiro che si sarebbe completato all’indomani della sconfitta nella Grande Guerra, combattuta dai turchi a fianco degli Imperi Centrali di Germania ed Austria-Ungheria.

Cento anni dopo è ovviamente un’altra Turchia quella che torna nei Balcani: si tratta di un Paese sostanzialmente democratico e moderno, con grandi potenzialità economiche, che si pone tra l’altro come autorevole membro della Nato e fedele alleato degli americani.

I Balcani, invece, rappresentano una realtà geopolitica per molti aspetti simile a quella di cent’anni fa: dopo una lunga parentesi storica, che andò dalla prima guerra mondiale alla fine della guerra fredda, nella regione sono “ricomparsi” piccoli Stati, chi più chi meno dipendenti dalle potenze europee, che a volte presentano caratteristiche “sui generis” come nel caso della Bosnia e del Kosovo, la prima persa dalla Turchia nel 1908 ed il secondo abbandonato dai turchi a seguito della sconfitta nella prima guerra balcanica.

Il dato davvero curioso è rappresentato dal fatto che la Turchia si trova oggi in compagnia del gruppo dei Paesi dei Balcani occidentali che aspirano ad aderire all’Unione Europea: a parte la Croazia, il cui ingresso nell’Unione sembra essere prossimo, tutti gli altri Stati (cioè Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Albania e Kosovo) sono i Paesi che per secoli hanno fatto parte dell’Impero ottomano.

La questione della stabilizzazione della regione balcanica

Al di là delle comuni radici storiche, la Turchia è attualmente impegnata in iniziative concrete volte anche a contribuire alla definitiva stabilizzazione della regione balcanica. In quest’ottica il suo interesse si è concentrato principalmente sulla Bosnia e si è concretizzato nell’ingresso effettivo della diplomazia turca sulla scena balcanica, registratosi all’indomani del fallimento del vertice di Butmir (l’aeroporto di Sarajevo) dell’ottobre 2009. Tale vertice è consistito in un incontro organizzato da europei e americani che avrebbe dovuto sbloccare l’impasse istituzionale che negli ultimi anni ha impedito le riforme in Bosnia, promuovendo il superamento degli accordi di pace di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra.

A partire dall’ottobre del 2009 l’iniziativa turca nei Balcani è dunque proseguita senza soste. Il 16 ottobre il ministro degli esteri turco Davutoglu, intervenendo ad un Convegno tenutosi a Sarajevo, parlò di una storia ed un futuro comune per la Turchia e i Balcani. Dieci giorni dopo il presidente turco Abdullah Gül dichiarò che Serbia e Turchia sono Paesi chiave nei Balcani, mentre il presidente serbo Boris Tadi parlò di collaborazione strategica tra i due Paesi.

Lo scorso 24 aprile, poi, si è svolto ad Istanbul un vertice definito storico tra i presidenti di Turchia, Bosnia Erzegovina e Serbia: tale vertice si è concluso con una Dichiarazione in cui si affermava l’impegno congiunto volto a promuovere la stabilizzazione della regione balcanica. Esso fu inoltre preceduto da un incontro, avvenuto a Belgrado, tra Davotuglu ed il suo omologo serbo Jeremic e quello spagnolo Moratinos, presidente di turno dell’Unione Europea, per discutere del vertice Ue/Balcani occidentali che si sarebbe tenuto il 2 giugno ed al quale avrebbe partecipato anche la Turchia. Vertice il cui maggior successo è stato quello di aver messo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di tutti i Paesi della regione, compresi quelli di Serbia e Kosovo. E sembra proprio che questo risultato sia stato raggiunto anche grazie alla Turchia, alla quale la Serbia aveva chiesto di adoperarsi per convincere gli esponenti kosovari a partecipare all’evento.

Considerazioni conclusive

Alcuni osservatori si chiedono se l’attivismo turco nei Balcani sia totalmente autonomo o se sia stato ispirato dagli Stati Uniti. Di certo esso è visto positivamente sia da Washington che da Bruxelles, come ha dimostrato l’invito a partecipare al vertice Ue/Balcani del 2 giugno. D’altronde ad Ankara questo ruolo non può che far piacere, non solo alla luce delle sue ambizioni di potenza regionale, ma anche perché può consentire alla Turchia di conquistare consensi preziosi soprattutto nell’ottica di una felice prosecuzione dei negoziati di adesione all’Unione europea. Negoziati il cui esito positivo è tutt’altro che sicuro anche alla luce delle resistenze di alcuni Paesi membri e delle perduranti difficoltà per l’Unione derivanti dalle adesioni del 2004 e del 2007.

Al di là comunque dell’eventuale ingresso turco nell’Ue, appare sempre più evidente come la Turchia, spesso stanca di attendere un’Europa che preferisce impegnarsi nell’opera di mediazione tra Hamas e Fatah in Palestina o nella ricerca di un accordo con Brasile e Iran sul nucleare, stia cercando in tutti i modi di assumere un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale.

Per ulteriori approfondimenti si veda dal sito di Eurasia:

La politica estera della Turchia: da baluardo occidentale a ponte tra Europa ed Asia

Riferimenti bibliografici

Franzinetti, Guido. I Balcani dal 1878 a oggi. Carocci: 2010.

Bianchini S. – Marko J. Regional cooperation, peace enforcement, and the role of the treaties in the Balkans. Longo Angelo: 2007.

Zürcher, Erik J. Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri. Donzelli, Roma: 2007.

Fiorani Piacentini, Valeria. Turchia e Mediterraneo allargato. Democrazia e democrazie. Franco Angeli: 2006.

Tremul, Francesco. La Turchia nel mutato contesto geopolitico. UNI Service: 2006.

Bozarslan, Hamit. La Turchia contemporanea. Il Mulino, Bologna: 2006.

Biagini, Antonello. Storia della Turchia contemporanea. Bompiani: 2002.

Hale, William. Turkish Foreign Policy. 1774-2000. Frank Cass, London-Portland: 2002.

* Alessandro Daniele è dottore in Relazioni e Politiche Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)

 

mercredi, 15 décembre 2010

Vers un Big Bang géopolitique - Entretien avec H. Juvin

Vers un Big Bang géopolitique

Entretien avec Hervé Juvin

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

juvin.jpgHervé Juvin n’est pas qu’un économiste, ni uniquement un essayiste, non plus seulement le président d’Eurogroup Institute, il est encore et surtout un analyste incomparable, aussi lucide que courageux, du monde comme il ne va plus.
La crise – économique, systémique, anthropologique – que traverse l’Occident, ou plutôt les Occidents disloqués, a trouvé en lui l’un de ses interprètes les plus perspicaces. Il vient de publier chez Gallimard un essai sur « le renversement du monde », ce monde sur lequel on vivait et qui se retrouve la tête en bas. Décapant. Et très éclairant.

Le Choc du mois : Ce que vous appelez le « renversement du monde » tient d’abord selon vous à une sorte de pathologie de l’Occident qui serait devenu incapable de penser les dimensions du politique et de l’identité…

Hervé Juvin : Je ne suis pas sûr qu’il n’y ait pas, au lieu d’un Occident, plutôt des Occidents, au pluriel, et de plus en plus. L’intervention américaine dans l’ex-Yougoslavie, pour ne citer qu’elle, est un moment où l’Occident s’est sans aucun doute battu contre lui-même. On peut en dire autant de la crise financière, qui a vu l’opposition anglo-américaine contre l’Europe s’exacerber. En fait, il faut revenir à ce moment particulier, non pas tant de la chute du mur de Berlin que de la dissolution de l’Empire soviétique, dont on oublie toujours de rappeler à quel point elle fut éminemment et très curieusement pacifique. De là va résulter un mouvement d’euphorie qui traversera quasiment tout l’ensemble occidental et dont l’expression emblématique restera le livre de Fukuyama, La fin de l’Histoire et le dernier homme. Trois raisons à cela : d’abord, l’on assistait à la fin du colonialisme ; ensuite, l’on voyait l’explosion du bloc qui incarnait non seulement le Mal, mais encore plus sûrement l’Autre absolu ; enfin, l’on pouvait estimer que la démocratie était en train de s’universaliser. Autant de raisons qui nous ont poussés à croire qu’il était possible de s’abstraire de la condition politique. Or, la condition politique, c’est essentiellement deux choses : le fait qu’il y a des hommes, et non pas l’Homme avec un grand H, comme le remarque si bien Hannah Arendt ; et le fait qu’il y a des frontières, à l’intérieur desquelles les hommes exercent la liberté de s’autodéterminer, dans le cadre d’une nation, à travers un État souverain et un territoire national clos.
Autrement dit, les Mêmes décident de ce qui concerne les Mêmes : les décisions que prend le peuple français n’engagent que les seuls Français, du présent et des générations à venir, pas les Américains, les Russes, les Marocains, etc. Or, on assiste pendant plus d’une décennie à la mise en apesanteur de cette condition politique. Comme les frontières vont disparaître et la démocratie planétaire s’étendre partout, il n’y aura plus que des individus, tous voués à la poursuite du bonheur, tous habités par un désir illimité. Dès lors, le seul principe de régulation des individus sera l’économie ou le marché, bref ce phénomène extrêmement important que l’on va désigner sous le nom de globalisation.

Vous expliquez également que cette globalisation repose sur une alliance objective entre l’ État et le marché. Quelle forme a-t-elle prise ?

Dans les années 1990, nous sommes entrés, sur le plan politique, en territoire inconnu, par suite de la diffusion des Droits de l’Homme, perçus comme un droit illimité de l’individu à se départir de tout collectif, à briser tout lien, à nier toute appartenance, à se désengager de tout rapport durable et pérenne avec les siens. De défensifs, le sans-frontiérisme et le mondialisme sont ainsi devenus agressifs. Parler de nationalités, de frontières et de souveraineté vous faisait passer pour démodé et vieux jeu, sinon carrément indécent. Le Droit et le Marché prétendaient alors se substituer au Politique dans une conjuration tout à fait étonnante qui devait déboucher sur une libération de l’individu et même du collectif, toutes deux éminemment bénéfiques. Le phénomène a été abondamment commenté, notamment par les penseurs socialistes issus de l’extrême gauche dans les termes les plus enthousiastes. Ce sont les grands mots de «société citoyenne» ou «société civile», lesquelles viendraient reprendre leurs droits.
Il n’en fut rien. Ce à quoi on va assister, c’est au contraire à l’apparition d’une configuration tout à fait inédite, mise en évidence par la crise, dans laquelle, comme Marx et Nietzsche l’avaient bien vu dès la fin du xixe siècle, l’ État ne va plus se définir que contre le peuple, et même contre les peuples, parce qu’il devient l’infrastructure de déploiement du marché, du libre-échange, de la circulation indéfinie des capitaux, des biens et des personnes. La grande entreprise entreprend de changer les peuples, organisant l’invasion et le démantèlement des Nations, avec le concours d’ États tenus par des engagements arrachés par Bruxelles sous l’influence anglo-américaine. C’en est fini du principe majoritaire, du suffrage universel et de la démocratie représentative. Le paradoxe, c’est que tout cela va se faire sous l’égide du Droit, alors qu’on assiste au retour des principes constitutifs de la Colonisation. Car si l’on veut bien poser un regard un peu décapant et inhabituel sur la situation actuelle, il faut revenir à la conférence de Bandung, en 1955, réunion d’ États asiatiques et africains qui annonce la fin de la période coloniale et l’avènement d’un nouvel ordre du monde. A cinquante ans de distance, il ne fait aucun doute que l’appel de Bandung a été entendu, puisque la décolonisation politique a été effective. Mais il est tout aussi évident que l’on a assisté parallèlement à une colonisation interne des sociétés humaines par la finance de marché et l’économie. De façon inattendue, violente, avec une rapidité ravageuse, l’économie a pris le pouvoir. Cela uniquement parce que les États ont mis à la disposition du marché leurs infrastructures, dont celles relevant de la sécurité, de la censure et du contrôle des populations. Telle est la configuration que la crise a révélée. J’en veux pour preuve la promptitude avec laquelle les États ont volé au secours d’établissements financiers et de sociétés d’assurance en situation de faillite (et qui auraient mérité d’être faillis), en mobilisant avec une rapidité impressionnante toutes leurs ressources, qui sont en dernier ressort celles du contribuable.

La globalisation occidentale serait donc la fille des colonialismes européens ?

Le colonialisme du xixe siècle, c’était déjà le rêve d’un monde sans limites, d’une nature inépuisable, et plus encore l’idée que le monde s’offrait aux colons blancs pour en user à leur guise parce qu’ils étaient les détenteurs de la civilisation, de la morale et du Bien. On oublie d’ailleurs toujours de rappeler que quelques-uns des plus éminents dirigeants socialistes de la IIIe République furent les plus ardents colonisateurs. Mais les colonialismes européens étaient nationaux, plus que religieux ou financiers. C’était la France, l’Allemagne, l’Angleterre, qui plantaient leurs drapeaux. Aujourd’hui, le régime des colons se déploie sous l’influence américaine, et, dorénavant, chinoise. Si le modèle américain, c’est certes celui de la première libération d’un peuple du colon britannique, c’est aussi celui d’un développement par l’éradication des indigènes. Le génocide indien libère la terre pour l’exploitation infinie du colon.
Nous assistons aujourd’hui à l’extension mondiale de ce système. Le droit du colon, c’est-à-dire celui du développeur et de l’investisseur capable de rentabiliser n’importe quel actif, est jugé supérieur à celui de peuples autochtones et indigènes à demeurer sur leur sol, selon leurs mœurs, lois et règles.
Le droit au développement masque l’obligation de se développer… ou de partir. Contre l’économie, nul ne saurait se dresser légitimement. C’est exactement ce principe qui préside à la colonisation interne de nos sociétés, par exemple à l’obligation d’accepter l’immigration de peuplement.
Pour le dire très clairement, le principe de la colonisation étendue à la totalité du monde est en train de recréer un vaste marché de l’esclavage, en contraignant toutes les ressources terrestres à fonctionner dans le système économique à un prix de marché jugé universel. Ce qui constitue la négation absolue du droit des autochtones à disposer d’eux-mêmes. L’événement nouveau et renversant, c’est que nous, Européens, sommes en train de subir le même phénomène d’humiliation, d’expulsion et d’invasion, qu’enduraient jadis les colonisés. Interdits d’identité, bafoués dans nos mœurs et lois, privés de nos mots et expressions, au nom d’une conformité sur laquelle veillent les chiens de garde de la nouvelle Internationale, nous nous rapprochons insensiblement, mais rapidement, de la condition des indigènes si bien décrite par Claude Lévi-Strauss. A quand des réserves pour les Français de souche ? La lutte pour la décolonisation interne de nos sociétés sera le sujet politique de la génération à venir. Ce sera l’occasion d’affirmer une nouvelle radicalité républicaine, l’occasion aussi de réaliser l’union de tous les peuples contre l’entreprise mondialisée et la finance satellisée.

Pensez-vous que la survie même des nations occidentales soit engagée dans ce processus néo-colonial ?

Après 1990, se sont développés un discours et une idéologie abrités sous le double biais du libre-échange, garant de la croissance et de la stabilité des prix, et de la liberté de mouvement des hommes, garante de la paix dans le monde comme du droit de chacun à poursuivre son bonheur privé. Il s’agissait clairement d’une idéologie de la disparition des nations. On voit aujourd’hui avec quelle naïveté l’Union européenne l’a endossée, estimant que la poursuite de la construction européenne ne pouvait se faire qu’en défaisant le national. Une telle politique comportait un risque considérable : en détricotant les nations, on réveillait le démon des origines, celui des religions, mais aussi des régionalismes qui sont en train de gagner toute l’Europe. Aveugles aux conséquences de la mondialisation – déracinement, désaffiliation, désappartenance –, nous n’avons pas voulu voir la violence qu’elle ne manquerait pas de semer dans le monde. Or, l’on sait – ou l’on devrait savoir – que rien n’est plus capable de violence, et d’une violence illimitée, qu’un homme seul, réduit aux émotions et aux passions, privé de liens, d’attachements et, souvent, de convictions. Ce modèle de « l’homme sans qualités », de l’homme-bulle, de l’homme en apesanteur, est le produit de la société de marché et l’idéal de la démocratie planétaire. A nier la condition politique, nous avons pensé que l’individu absolu était l’homme du futur, alors qu’un tel individu, non seulement, n’existe pas, mais peut s’avérer être un monstre capable de tout. Ce que nous commençons à entrapercevoir, ici ou là, dramatiquement. La mondialisation a donc sécrété une extrême violence. En sortir appellera en retour une violence identique. En clair, nous sommes partis pour une phase qui va répondre, au moins à moyen terme, à la brutalité de la mondialisation, sur fond de retour des questions de frontières, d’identités de souveraineté, de légitimité, lesquelles vont laisser muette une large partie de la classe politico-intellectuelle, qui, depuis une génération au moins, a désappris à penser la politique. Le temps de la décolonisation interne de nos sociétés est venu.

A vos yeux, les chefs d’ État occidentaux sont donc directement responsables de la crise que le monde traverse depuis trois ans ?

La crise a d’abord été une crise du sans-limite. Il est clair que lorsque des entreprises, qui se disent privées et n’apportent de l’argent qu’à leurs seuls actionnaires, tout en faisant jouer un effet de levier sur le collectif – État et contribuable –, parce qu’elles sont, selon l’expression consacrée, « trop grosses pour mourir », c’est qu’elles ont au préalable trop grossi. Cet effet de levier sur la collectivité n’est pas tolérable.
Seconde faute majeure, celle de l’interdépendance. La crise a été manifestement une crise de l’interdépendance. Or, si nous avons été sauvés, c’est par des pays dont la monnaie n’est pas convertible et qui se sont protégés des excès des mouvements de capitaux et de l’économie de marché. En somme, nous avons été sauvés parce que l’interdépendance n’est pas planétaire. Mais quels sont les conseils prodigués, au terme de la série des G20 suscitée par l’Occident, pour sortir de la crise ? Accroître l’interdépendance (on le voit avec la pression exercée sur la Chine et l’air pincé des institutions mondiales à l’encontre de pays comme l’Inde ou le Brésil qui refusent l’afflux de capitaux spéculatifs). C’est donc aussi une crise de l’absence de responsabilité. Ceux qui, par cupidité et refus de tout lien avec une communauté ou une collectivité quelconques, en ont été à l’origine ne veulent endosser aucune responsabilité, et même pour la plupart, ne seront tout simplement pas remis en cause. Les Américains n’ont-ils pas l’insolence de faire la leçon au monde ? On voit pourtant bien que le règne de la conformité à la norme et à la règle ne résout rien, tant il est vrai que la responsabilité ne s’exerce que devant une communauté ou une collectivité définies, la responsabilité planétaire n’existant pas. Mais encore une fois, ce qui a triomphé, c’est le principe du renard libre dans un poulailler libre.
Ce qui me conduit à ce constat quelque peu désolant : tout indique que nous sommes dans un système de crise. La crise, c’est ce que l’on a inventé de mieux pour casser les systèmes de protection sociale en Europe, pour étendre le règne du marché et pour liquider tout ce qui dans les sociétés humaines et les peuples constitués n’entendait pas s’abandonner à l’interdépendance et à la loi du marché mondial. Voilà où nous en sommes : tout faire pour que rien ne change, tel est le credo inentamé de l’Occident. Mais ajouter des liquidités à une mer de liquidités pour éviter la déflation, réclamer plus d’interdépendance pour faire financer le naufrage américain et occidental par ceux qui ont préservé jusqu’ici leur autonomie, tout cela ne pourra pas fonctionner. Le sauvetage du système peut faire illusion un moment, mais il ne fera que rendre la crise encore plus grave, par renforcement des illusions du libre-échangisme, du mondialisme et du sans-frontiérisme. Alors que ce à quoi devraient travailler les décideurs et responsables, c’est précisément de préparer l’après.

Ce que naturellement ils ne font pas ?

Parce qu’il s’agit avant tout de parer au plus pressé, parce que l’ensemble des cadres intellectuels mis en place depuis plus d’une trentaine d’années sont devenus totalement obsolètes. Nous devons nous habituer à la fin de l’universel, réapprendre que la condition humaine ne se réduit pas à l’existence d’un homme-bulle en apesanteur, redécouvrir les identités, les frontières, les nations, les religions, les passions politiques. Bref, nous devons rouvrir les yeux sur le monde. Or, en Europe et aux États-Unis, on semble persuadé que les autres sont destinés à devenir pareils à nous. Ce qui nous épargne d’avoir à nous y intéresser. Nous avons jadis conquis le globe parce que nous avons été extraordinairement riches en mondes, capables de nous intéresser à l’Autre, d’essayer de le comprendre, infiniment curieux, observateurs et ouverts. Mais voilà, nous sommes devenus pauvres en mondes. Nous ne voyons pas la manière dont le monde se renverse. C’est probablement le plus grand sujet d’inquiétude pour les années à venir. J’invite tous les dirigeants à partir à la redécouverte du monde. C’est la tâche la plus essentielle aujourd’hui. Il faut se départir de cet immense mensonge, quasiment criminel, selon lequel le monde serait devenu plat. Le monde n’est plat que pour ceux qui vont d’aéroports en Hilton et d’Hilton en aéroports. Nous sommes aveugles à l’impressionnante montée de l’Islam, facteur géopolitique aussi important que l’avènement de la Chine ; aveugles au contrôle d’Internet par les États-Unis ; aveugles au discrédit du soft-power occidental, résultat du « deux poids, deux mesures » appliqué dans le domaine nucléaire aussi bien que dans les agressions américaines contre l’Irak et l’Afghanistan ; aveugles aux renaissances politiques que provoquent les agressions des fonds d’investissement sur les terres agricoles ; aveugles aux effets de la diffusion planétaire des technologies de communication.    

Propos recueillis par Philippe Marsay


Hervé Juvin, Le renversement du monde, Politique de la crise,
« Le Débat », Gallimard, 261 p., 17,90 €.

lundi, 13 décembre 2010

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

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Ex: http://xandernieuws.punt.nl/?id=613934&r=1

 WikiLeaks (8):

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

'Wraak op Europa vanwege nederlaag bij Wenen'

Erdogan woedend vanwege onthulling 8 geheime bankrekeningen in Zwitserland

Tayyip Erdogan: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten.'

Uit diverse door WikiLeaks gelekte documenten blijkt dat binnen de heersende
AK Partij van de Turkse premier Erdogan de wijdverspreide opvatting heerst
dat het de opdracht is van Turkije om Europa te islamiseren en om 'Andalusië
(Zuid Spanje) te heroveren en de nederlaag bij Wenen in 1683 te wreken.' De
verspreiding van de islam in Europa is volgens de belangrijkste denktank van
de AKP het werkelijke hoofddoel van het beoogde Turkse lidmaatschap van de
EU. (1)

Binnen de AKP zijn er echter ook stemmen die bang zijn dat het lidmaatschap
van de EU zal leiden tot een 'verwaterde' versie van de islam en de daarbij
behorende Turkse tradities. 'Als de EU 'ja' zegt (tegen het Turkse
lidmaatschap) zal alles er een korte tijd rooskleurig uitzien. Maar dan
ontstaan de echte moeilijkheden voor de AKP. Als de EU 'nee' zegt dan zal
dat aanvankelijk lastig zijn, maar op de lange termijn veel gemakkelijker,'
als AKP prominent Sadullah Ergin.

Erdogan wordt omschreven als een machtswellusteling die iedereen wantrouwt
en streeft naar totale alleenheerschappij. 'Tayyip (Erdogan) gelooft in
God... maar vertrouwt hem niet,' zou zijn vrouw Emine het treffend hebben
uitgedrukt. Erdogan stelt zich in het openbaar weliswaar pragmaitisch en
'gematigd' op, maar heeft wel degelijk een islamistische achtergrond. Als
burgemeester van Istanbul noemde hij zichzelf in 1994 de 'imam van Istanbul'
en een 'dienstknecht van de Sharia.' (2) In 1998 verbleef hij zelfs vier
maanden in de gevangenis vanwege het voordragen van een extremistisch
islamitisch gedicht dat sprak van de verovering van alle niet-moslimlanden
door de islam: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten...' (3)

De Turkse premier reageerde woedend toen uit een WikiLeaks document uit 2004
naar voren kwam dat hij maar liefst acht geheime bankrekeningen in
Zwitserland heeft waar hij regelmatig grote sommen geld naar wegsluist (4).
Vanzelfsprekend ontkende Erdogan alle aantijgingen, noemde hij de documenten
'geroddel' en dreigde hij om gerechtelijke stappen tegen de onthullers te
nemen. Verder omschrijven Amerikaanse diplomaten Erdogan als iemand die
Israël haat en zich omringt met gluiperige adviseurs. Ook zou hij enkel en
alleen islamistische kranten lezen. Tevens wordt zijn minister van
Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu omschreven als 'extreem gevaarlijk'.

Recent schreven we al dat uit eerdere gelekte documenten blijkt dat Turkije
zowel indirect als actief het moslimterrorisme in Irak (en tevens
Afghanistan) steunt met wapens en geld. De verwijzing binnen de AKP naar
Andalusië en de Ottomaanse nederlaag bij Wenen in 1683 is geheel volgens het
islamitische principe dat landen en streken die ooit onder moslim controle
stonden voor altijd islamitisch grondgebied blijven en verplicht moeten
worden heroverd. Alle Nederlandse politieke partijen -met uitzondering van
de PVV en de SGP- besloten onlangs om de Turkse doelstelling om Europa en
dus ook Nederland te islamiseren niet tegen te gaan.

(1) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2010/11/30/225/
(2) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2007/03/21/ANKARA...
(3) Atlas Shrugs
http://atlasshrugs2000.typepad.com/atlas_shrugs/2009/10/s...
n-of-europe-rally-december-13th-spread-the-word-save-the-world.html
(4) Ynet News http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3992628,00.html

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612882&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks (3):

Vooral Saudi's willen aanval op Iran; Turkije onbetrouwbaar

Erdogan omringt zich met 'parasitaire bedriegers' - Veel Arabische landen
zien Iran als 'existentiële bedreiging' - Geen schokkende onthullingen over
Israël

WikiLeaks 'Shocker'(?): Het enige continent waar Barack Obama nog populair
is, Europa, laat de Amerikaanse president nu juist volkomen koud.

Uit de ruim 250.000 geheime documenten die WikiLeaks op internet heeft gezet
blijkt dat vooral Saudi Arabië -nog meer zelfs dan Israël- herhaaldelijk
aandringt op een Amerikaanse militaire aanval op Iran, en dat het hoofd van
de gevreesde Israëlische geheime dienst Mossad, Meir Dagan, hier juist op
tegen is en meer ziet in strenge sancties en undercover operaties om het
regime Ahmadinejad -die onder diplomaten de bijnaam 'Hitler' heeft gekregen-
omver te werpen.

De Saudische koning Abdullah heeft de laatste jaren regelmatig van de VS
geëist Iran aan te vallen. In 2008 kreeg de Amerikaanse generaal David
Petraeus van de afgevaardigde van Abdullah in Washington te horen dat
Amerika 'het hoofd van de slang moet afhakken'. De Saudi's vrezen een Iran
met kernwapens misschien wel nog meer als Israël, waar minister van Defensie
Barak weliswaar regelmatig eveneens pleitte voor militair ingrijpen (4),
maar het machtige hoofd van de Mossad, Meir Dagan, hier juist heel
pessimistisch over was en zich wilde concentreren op het omverwerpen van het
huidige Iraanse regime door middel van sancties en geheime operaties.

Naast Saudi Arabië hebben ook officials uit Jordanië en Bahrain Amerika
openlijk opgeroepen om desnoods met militaire middelen een einde te maken
aan het Iraanse nucleaire programma. Ook de leiders van de Verenigde
Arabische Emiraten en Egypte zien Iran als 'het kwaad' en een 'existentiële
bedreiging', die 'ons in een oorlog zal doen storten'. Israëlische officials
zeggen al jaren dat wat de Arabische leiders publiekelijk meedelen iets heel
anders is dan wat ze een privé gesprekken zeggen.

Turkije onbetrouwbaar
Gisteren meldden we al dat de Arabische krant Al-Hayat schreef dat uit de
WikiLeaks publicaties blijkt dat Turkije door middel van het smokkelen van
wapens en geld steun geeft aan de moslimterroristen in Irak en zelfs
betrokken is bij het opblazen van een brug in de hoofdstad Baghdad.

Volgens het Duitse blad Der Spiegel, één van de internationale media die
vooraf inzage kreeg in de geheime documenten, karakteriseren Amerikaanse
diplomaten Turkije dan ook als onbetrouwbaar. De Turkse premier Erdogan zou
weinig begrijpen van de politiek buiten Ankara en het Turkse leiderschap is
verdeeld door de infiltratie van radicale islamisten. 'Erdogan heeft zich
omringd met een ijzering kring van sycofante (sycofant = gemene bedrieger,
beroepsverklikker, parasiet) (maar minachtende) adviseurs,' aldus een gelekt
diplomatiek bericht.

Geen schokkende onthullingen over Israël
Waar veel Israëlhaters vanzelfsprekend op hoopten, namelijk dat de Joodse
staat in de gelekte documenten bevestigd zou worden als de boeman en de
grote instigator van het kwaad in de wereld, is totaal niet uitgekomen,
precies zoals de Israëlische premier Netanyahu al voorspeld had. Er is zelfs
nauwelijks iets noemenswaardigs te vermelden, behalve dat hoge Israëlische
officials regelmatig hun grote zorg uitspreken over Iran en zeggen dat
Israël het zich niet kan veroorloven zich te laten verrassen.

Over Iran gesproken: tijdens de tweede Libanonoorlog in 2006 smokkelde het
regime Ahmadinejad onder de vlag van de Iraanse Rode Maansikkel (de
Arabische variant van het Rode Kruis) wapens en geheime agenten naar
Libanon. Dit zou blijken uit een bericht uit Dubai dat gebaseerd is op een
ontmoeting in 2008 tussen een Amerikaanse diplomaat en een niet bij name
genoemde bron.

Ander interessante onthullingen
- Donors uit Saudi Arabië blijven de belangrijkste financiers van het (Al
Qaeda) Soennitische moslimterrorisme. Het Arabische Golfstaatje Qatar blijkt
het slechtst mee te werken met anti-terreuroperaties.

- Een bijna conflict tussen de VS en Pakistan over mislukte Amerikaanse
pogingen om Pakistaans verrijkt uranium veilig te stellen voor terroristen.

- Zuid Koreaanse en Amerikaanse diplomaten speculeren over de vereniging van
de beide Korea's na het eventuele instorten van Noord Korea. China, dat hier
mordicus op tegen is, zou moeten worden overgehaald met aantrekkelijke
handelsovereenkomsten.

- Amerikaanse diplomaten deden aan handjeklap om andere landen te overtuigen
gevangenen van Guantanomo Bay over te nemen. Slovenïe kreeg te horen dat
Obama alleen (officials van) het land wilde ontmoeten als ze een gevangene
zouden overnemen. Het onafhankelijke eiland Kiribati kreeg miljoenen dollars
aangeboden voor een hele groep gedetineerden, en België kreeg te horen dat
het een goedkope manier was om een prominente plaats in Europa te verwerven.

- De Afghaanse regering wordt verdacht van corruptie. De autoriteiten van de
Verenigde Arabische Emiraten ontdekten dat de op bezoek zijnde Afghaanse
vice-president $ 52 miljoen bij zich had, van onbekende herkomst en met
onbekende bestemming. Besloten werd om het maar zo te laten. Natuurlijk
ontkent Massoud alles.

- Zoals velen al vermoedden blijkt het Chinese Politburo inderdaad achter
het blokkeren van Google in dat land te zitten. Tevens heeft de Chinese
overheid zowel eigen medewerkers als experts van buitenaf en onafhankelijke
hackers ingezet om in te breken in de de computersystemen van de Amerikaanse
overheid en andere Westerse landen. Ook de Dalai Lama en het Amerikaanse
bedrijfsleven zijn sinds 2002 het doelwit.

- Een bizarre alliantie: Amerikaanse diplomaten beschrijven de 'buitengewoon
nauwe' relatie tussen de Russische premier Vladimir Putin en de Italiaanse
premier Silvio Berlusconi -liefhebber van 'wilde feesten'-, inclusief
lucratieve energiecontracten en overdadige cadeaus. Berlusconi zou in
toenemende mate de spreekbuis van Putin in Europa aan het worden zijn.

- Over Putin zelf: alhoewel hij inderdaad met afstand de machtigste man van
Rusland is, wordt hij in toenemende mate ondermijnd door een onhandelbaar
bureaucratisch systeem dat zijn bevelen vaak negeert. Putin wordt door
diplomaten omschreven als een 'alpha mannetje'. Andere aardige bijnamen voor
wereldleiders: Angela 'Teflon' Merkel (overigens gekarakteriseerd als iemand
die geen besluiten durft te nemen), 'keizer zonder kleren' Nicolas Sarkozy
en 'lichtgewicht' David Cameron (3). De Noord Koreaanse leider Kim Jong il
zou lijden aan epilepsie en de Libische leider Muammar Gaddaffi zou zich 24
uur per dag laten verzorgen door een 'hete blonde' verpleegkundige.

- Als laatste: ontnuchterend nieuws voor de vele Obama liefhebbers in
Europa, het enige continent waar de meerderheid nog blij met hem lijkt te
zijn: volgens het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken heeft Obama
helemaal niets met Europa en kijkt hij veel liever naar het Oosten dan naar
het Westen. Amerika ziet de wereld als een conflict tussen twee
supermachten, waar de Europese Unie slechts een bijrolletje in speelt.
 
(1) Jerusalem Post http://www.jpost.com/International/Article.aspx?id=197130

(2) Arutz 7 http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140882
(3) DEBKA http://www.debka.com/article/20402/
(4) DEBKA http://www.debka.com/article/20404/

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612703&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks:

Turkije steunt moslimterroristen Irak

In 2007 werd de belangrijke Sarafiya brug in Baghdad door terroristen
opgeblazen. Turkije blijkt nu direkt betrokken bij het opblazen van
tenminste één brug in de Iraakse hoofdstad.

De ontmaskering van Turkije als anti-Westerse extremistische moslimstaat
krijgt een extra ontluisterende dimensie nu uit de nieuwe documenten die
WikiLeaks zal publiceren blijkt dat de Turken zorgden dat er wapens naar Al
Qaeda in Irak werden gesmokkeld en dat ze zelfs zowel direkt als indirekt
betrokken zijn geweest bij terreuraanslagen in Baghdad.

Volgens de Arabische krant Al-Hayat bewijzen de geheime officiële documenten
dat de Turkse autoriteiten toestemming gaven voor de smokkel van wapens en
geld naar de Al Qaeda terroristen in Irak. Ook laten de documenten zien dat
Turkije betrokken was bij onder andere het opblazen van een brug in Baghdad
en werd er in 2009 bij terroristen munitie in beslag genomen dat gemarkeerd
was met 'made in Turkey'.

Eén van de documenten die door Al Hayat worden genoemd bevat een gecodeerd
bericht dat zo te zien door een Amerikaanse inlichtingendienst werd
verzonden. De tekst 'Uit Turkije zijn grote hoeveelheden water aangekomen.
Over een paar uur zullen grote golven Baghdad treffen. Sommige mensen zijn
de irrigatiekanalen aan het verbreden' lijkt te wijzen op het arriveren van
wapens uit Turkije, bedoeld voor aanslagen en andere terreuracties in
Baghdad.

De VS probeert in het licht van de komende nieuwe WikiLeaks publicaties de
diplomatieke schade te beperken.'Deze onthullingen brengen de VS en onze
belangen schade toe. Ze zullen over de hele wereld spanning creëren in de
relaties tussen onze diplomaten en onze vrienden... Als het vertrouwen (van
andere overheden) beschadigd wordt en op de voorpagina van de kranten of in
het nieuws van radio en tv belandt, heeft dat een impact,' aldus P.J.
Crowley, woordvoerder van het Amerikaanse minister van Buitenlandse Zaken.

Het is echter maar de vraag of Amerika en Europa aandacht zullen durven
besteden aan de Turkse steun voor de moslimterroristen in Irak. Hierdoor zou
immers de conclusie moeten worden getrokken dat Turkije geen betrouwbare
bondgenoot is, dubbelspel speelt en de recente aansluiting van Turkije bij
het extremistische islamitische blok Iran-Syrië-Hezbollah-Hamas daarom
bloedserieus is en een direct gevaar oplevert voor de NAVO en het Westen.
Ook moet dan definitief worden toegegeven dat de Turken absoluut niet bij de
Europese Unie horen. (1)

(1) Arutz 7  http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140843

dimanche, 12 décembre 2010

Geopolitische Hintergründe der NATO Intervention im Kosovo

Archives - 2000

 GEOPOLITISCHE HINTERGRÜNDE

DER NATO INTERVENTION IM KOSOVO

Serge TRIFKOVIC

 Ex: http://trifkovic.mystite.com/

Aussage vor dem  ständigen Komitee für auswärtige Angelegenheiten und internationalen Handel im kanadische Unterhaus, Ottawa, 17. Februar 2000

corridor8.gifDer Krieg der Nato gegen Jugoslawien im Jahre 1999 markiert einen deutlichen Wendepunkt, nicht nur für Amerika und die NATO sondern auch für den  gesamten Westen. Das Prinzip der nationalen Souveränität und sogar das Prinzip der Rechtstaatlichkeit wurde Namens einer angeblichen humanitären Ideologie untergraben. Tatsachen verdrehte man zu Erfindungen und sogar diese Erfindungen, die ausgegeben wurden um die eigene Handlungsweise zu rechtfertigen, erheben keinen Anspruch auf Glaubwürdigkeit mehr.

 

Traditionelle Systeme für den Schutz nationaler Freiheiten auf politischer, rechtlicher und wirtschaftlicher Ebene sind jetzt in Instrumente für deren Zerstörung umgewandelt worden. Aber weit entfernt davon, dass die westlichen Regierungseliten mit ihrem rücksichtslosen Durchsetzen der Ideologie einer multiethnischen Gesellschaft und internationalen Menschenrechten ihre Vitalität zeigen, könnte ihr Engreifen im Balkan möglicherweise der verstörende Ausdruck des kulturellen und moralischen Zerfalls eben dieser herrschenden Eliten sein. Ich werde darum meine Anmerkungen den Folgen des Krieges widmen, in Hinblick auf das sich bildende neue internationale System und die letztendliche Auswirkung auf die Sicherheit und Stabilität selbst der westlichen Welt.

 

Fast ein Jahrzehnt trennte Wüsten-Sturm von der Bombardierung aus humanitären Gründen. 1991 war der Vertrag von Maastricht unterzeichnet, und mit der Verlauf des restlichen Jahrzehnts hat die stückweise Usurpierung der traditionellen europäischen Souveränität durch ein Regime von kontrollierenden Körperschaften in Brüssel und nicht gewählten Beamten platzgegriffen, die sich mittlerweile dreist genug fühlen Osterreich vorschreiben zu können, wie es seine eigenen Angelegenheiten zu führen hätte. Auf dieser Seite des Ozeans (der Autor spricht in Ottawa. d. Übers.) Gab es die Einsetzung der NAFTA und 1995 brachte die Uruguay-Runde des GATT  die WTO. Die neunziger Jahre waren somit ein Jahrzehnt in dem nach und nach die neue internationale Ordnung begründet wurde. Das Anschwärzen nationaler Souveränität hypnotisierte die Öffentlichkeit derart, dass sie dem Prozess der Demontage gerade der Institutionen applaudierten, die noch alleiniger Ausdruck der Hoffnung auf Volksvertretung waren. Der Prozess ist soweit fortgeschritten, dass Präsident Clinton behaupten kann (in: Ein gerechter und notwendiger Krieg, New York Times, 23. Mai 1999): Hätte die NATO Serbien nicht bombardiert, wäre sie selbst in Hinblick auf gerade die Werte, für die sie selbst steht, unglaubwürdig geworden.

 

Tatsächlich aber war der Krieg sowohl unrecht als auch unnötig. Aber das bemerkenswerte an Clintons Aussage lag darin, dass er vor aller Öffentlichkeit das internationale System, das seit dem Westfälischen Frieden (1648) besteht, für null und nichtig erklärt hat. Es war zwar ein unvollkommenes System, dass oftmals gebrochen wurde, es  stellte aber die Grundlage für internationale Verständigung dar, an die sich lediglich einge wenige rote und schwarze Totalitaristen offenkundig nicht gehalten haben. Seit dem 24. März 1999 wird es mit der sich immer deutlicher abzeichnenden Clinton Doktrin ersetzt, die eine Blaupause der Breschnev Doktrin der eingeschränkten Souveränität darstellt und die seinerzeit die sowjetische Invasion in der Tschechoslowakei 1968 rechtfertigte. Wie sein sowjetischer Vorgänger gebrauchte Clinton eine abstrakte und weltanschaulich befrachtete Vorstellung - die der universellen Menschenrechte- als Vorwand für die Verletzung des Rechts und der Tradition. Die Clinton Doktrin hat ihre Wurzeln in der beiden Parteien eigenen Hybris der Washingoner aussenpolitischen "Elite", der ihr eigens Gebräu von ihrer Rolle als "letzter und alleiniger Supermacht" zu Kopf gestiegen ist. Rechtliche Formalitäten sind passé und moralische Vorstellungen - die in internationalen Angelegenheiten niemals sakrosankt sind - werden durch einen zynischen Gebrauch einer situationsgebundenen Moral ersetzt, je nach Lage der im Bezugsystem der Supermacht handelnden.

 

Nun ist also wieder imperiales Grossmachtdenken zurückgekehrt, aber in neuer Form. Alte Religion, Fahnen und nationale Rivalitäten spielen keine Rolle. Aber das starke Verlangen nach Aufregung [exitement] und Wichtigkeit, das die Briten bis nach Peking, Kabul und Khartum, die Franzosen nach Faschoda (s. Fussnote#1 d. Übers.)  und Saigon, die Amerikaner nach Manila trieb ist jetzt wieder aufgetaucht. Das Resultat war, dass ein unabhängiges Land mit einem Krieg überzogen wurde, weil es sich weigerte, fremde Truppen auf seinem Boden zuzulassen. Alle anderen Rechtfertigungen sind nachträgliche Rationalisierungen. Die Mächte, die diesen Krieg geführt haben, haben es begünstigt und dazu aufgehetzt, dass eine ethnische Minderheit die Loslösung betreiben konnte, eine Loslösung, die, wenn sie einmal formal vollzogen ist, manch eine europäische Grenze in Frage stellen wird. In Hinblick auf jede andere europäische Nation würde diese Geschichte surreal klingen. Die Serben wurden jedoch so weitgehend dämonisiert, dass sie nicht mehr davon ausgehen können, dass man sie so wie andere behandelt.

 

Doch die Tatsache dass der Westen mit den Serben machen kann, was er will, erklärt noch nicht, warum er das tun soll. Es ist kaum Wert, dass man es widerlegt, und dennoch: Die fadenscheinigen Ausreden für eine Intervention. Humanitäre Gründe wurden angeführt. Aber was ist mit Kaschmir, Sudan, Uganda, Angola, Sierra Leone, Sri Lanka, Algerien? Feinsäuberlich auf Video aufgenommen und amanpourisiert [s. Fussnote#2 d. Übers.], jedes hätte zwölf Kosovos leicht aufgewogen. Natürlich gab es keinen Völkermord. Verglichen mit den Schlachtfeldern der Dritten Welt war das Kosovo ein unbedeutender Konflikt auf niedriger Ebene, etwas schmutziger vielleicht als in Nordirland vor einem Jahrzehnt, aber weit geringer als Kurdistan. Bis Juni 1999 gab es 2108 Opfer auf allen Seiten im Kosovo, in einer Provinz von über 2 Millionen Menschen. Es schneidet selbst im Vergleich zu Washington D. C. (Bevölkerung: 600 000) mit seinen 450 Selbstmorden besser ab. Leichen zählen ist unanständig, aber wenn man die Brutalität und ethnischen Säuberungen bedenkt, die von der NATO ignoriert oder, wie die 1995 in Kroatien oder die in der Osttürkei, sogar geduldet wurden, dann wird deutlich, dass es im Kosovo nicht um universale Prinzipien ging. In Washington gilt Abdullah Ocalan als Terrorist, aber die UCK sind Freiheitskämpfer.

 

Worum ging es dann? Die Stabilität der Region, wurde als nächstes behauptet. Wenn wir den Konflikt jetzt nicht stoppen, greift er auf Mazedonien, Griechenland, die Türkei und praktisch den ganzen Balkan über. Gefolgt von einem  grossen Teil Eurpopas. Aber die Kur - Serbian solange bombardieren bis ein ethisch reines albanisches Kosovo unter den wohlwollenden Augen der NATO an die albanische UCK Drogen-Maffia übergeht - wird eine Kettenreaktion in der exkommunstischen Hälfte Europa auslösen.

 

Sein erstes Opfer wird die frühere jugoslawische Republik Mazedonien sein, in der die widerspenstige albanische Minderheit ein Drittel der Gesamtbevölkerung ausmacht. Wird denn das Modell Pristina nicht auch von den Ungarn in Rumänien, (die dort zahlreicher sind als Albaner im Kosovo), und in der Südslowakei gefordert werden? Was soll die Russen in der Ukraine, in Moldavien, in Lettland und im Norden Kasachstan davon abhalten sich dem anzuschliessen? Oder die Serben und Kroaten im chronisch instabilen Dayton - Bosnien? Und wenn schliesslich, die Albaner auf Grund ihrer Anzahl ihre  Trennung bekommen, trifft dass selbe dann auch auf die Latinos in Südkalifornien oder Texas zu, sobald die ihre angelsächsischen Nachbarn zahlenmässig überwiegen und eine zweisprachige Staatlichkeit verlangen könnten die zu einer Wiedervereinigung mit Mexiko führen würde? Sollen Russland und China die Vereinigten Staaten mit Bombardierung drohen, wenn es nicht einlenkt?

 

Das was jetzt im Kosovo herausgekommen ist, stellt ein äusserst unvollkommenes Modell einer neuen Balkanordnung dar, das die Ambitionen aller ethnischen Gruppen des früheren Jugoslawiens, mit Ausnahme der Serben, zu befriedigen sucht. Das ist für alle Betroffenen eine zerstörerische Strategie. Auch wenn man sie jetzt mit Gewalt zum Gehorsam gezwungen hat, sollen die Serben bei der entstehenden künftigen Ordnung der Dinge nichts einzusetzen haben. Früher oder später werden sie darum kämpfen, den Kosovo zurück zugewinnen. Der Frieden von Karthago, den man heute Serbien auferlegt, wird für künftige Jahrzehnte zu chronischer Instabilität und Streit führen. Er wird den Westen auf dem Balkan in einen Morast verstricken und, sobald Mr. Clintons Nachfolger kein Interesse mehr daran haben, für die auf üblem Wege gewonnenen Erwerbungen ihrer Balkanverbündeten gerade zu stehen, garantiert einen neuen Krieg geben.

 

Die NATO hat jetzt gewonnen, aber der Westen hat verloren. Der Krieg hat genau die Prinzipien unterminiert, die den Westen ausmachen, nämlich, die Herrschaft des Rechts. Der Anspruch auf Menschenrechte kann weder für die Herrschaft des Rechts noch der Moral jemals die Grundlage bilden. Universelle Menschenrechte, die von ihrer Verwurzelung im jeweiligen Ort und der Zeit losgelöst sind, öffnen jedem Hauch einer Empörung und jeder Laune des Augenblicks darüber, wer gerade ein Opfer darstellt, den Weg. Die fehlgeleitete Bemühung, die NATO von einer Verteidigungs-gemeinschafft in eine Mini-U.N. zu verwandeln, mit selbstverfassten Verantworlichkeiten über das Gebiet seiner Vertragspartner hinaus, ist ein sicherer Weg zu weiteren Bosniens und Kosovos. Jetzt, da die Clintonistas und die NATO im Kosovo erfolgreich waren, können wir mit weiteren neuen und noch gefährlicheren Abenteuern anderswo rechnen. Aber beim nächsten Mal werden die Russen , die Chinesen, Inder und andere schlauer sein und uns nicht mehr die Sprüche über Freie Märkte und demokratische Menschenrechte abkaufen. Die Zukunft des Westens wäre in einem dann womöglich unvermeidlichen Konflikt unsicher.

 

Kanada sollte die Folgen eines solchen Kurses gut bedenken und um seinetwillen und den Frieden und die Stabilität der ganzen Welt seinen Mut zusammentun und Nein zum weltweiten Eingreifen sagen. Muss es wirklich in widerspruchsloser Unterwerfung zusehen, wie ein langdauerndes gefährliches militärisches Experiment gestartet wird, dass uns in einen wirklichen Krieg um Zentralasien hineinzieht? Soll es demnächst neue UCKs entlang Russlands islamischen Rand gegen "Völkermord" "verteidigen", darunter ethnische Gruppen deren Namen heute noch keine westliche Presse kennt und die eine Reihe guter Begründungen für eine Intervention hergeben könnten, gut genug, soll heissen so schlecht wie die der Kosovo-Albaner.

 

War Kanadas Geschichte als Teil des englischen Weltreiches so süss, dass es ein Herrschaftszentrum in Washington braucht, als Ersatz für das verlorene London? Fühlt sich Kanada bei der Wahrheit, die sich heute langsam herausschält, wohl, dass es über Krieg und Frieden weniger die Wahl hat, als in der Zeit, als es ein freies Dominion unter dem alten Statut von Westminster war? Denn ganz ohne Zweifel kann derKrieg, den die NATO im April und Mai 1999 geführt hat von etwas, das "die Allianz" genannt werden kann, weder beabsichtigt noch gewollt worden sein, wenn 1998 innerhalb des Ringes (der oberen Kommandoebene d. Übers.) der Einsatz von Gewalt ausgeheckt worden war.

 

Wert zu fragen wäre auch, wie diese Zurückstufung Kanadas und anderen NATO-Mitglieder auf den Status einer zweitrangigen imperialen Macht, einen von den Medien angeführten politischen Prozess in Gang setzt, der dazu führt, dass nationale Meinungsbildung- und Beschlussfassung, ausser einer rein formalen Einpeitschfunktion [Cheer-leader funktion], bedeutungslos werden. Es wäre auch zu fragen wie es dazu kommen konnte, dass das Hauptkriegsziel der Nato war "die Allianz zusammen zu halten", und welche Disziplinen damit gemeint waren und wie leicht und blutig sich das wiederholen lässt. Der moralische Alleinvertretungsanspruch der von den Befürwortern der Intervention als Ersatz für eine rationale Argumentation gegeben wurde kann nicht länger aufrechterhalten werden. Ein echter Zwiespalt in Hinblick auf unsere gemeinsame menschliche Verantwortung, sollte nicht dafür herzuhalten haben, um den Virus Imperialismus eines sich wiedererweiternden Westen zu reaktivieren. Je arroganter die neue Doktrin auftritt, um so grösser die Bereitschaft für die Wahrheit zu lügen. Die Fähigkeit etwas zu tun, unterstützt die moralische Selbstachtung, wenn wir den Gedanken von uns weisen können, dass wir weniger moralisch Handelnde als Verbraucher von vorgekauten Wahlmöglichkeiten sind. Am Aufgang des Jahrtausends leben wir in einem virtuellen Collosseum in dem exotische und finstere Unruhestifter nicht von Löwen sondern von mystischen Flugapparaten des Imperiums getötet werden. Während die Kandidaten für die Bestrafung - oder das Martyrium - in die Arena gestossen werden, reagieren viele der Bevölkerung im Westen auf die Show wie imperialen Konsumenten und nicht wie Bürger mit einem parlamentarischen Recht und einer demokratischen Verpflichtung, die Vorgänge zu hinterfragen. Mögen die Ergebnisse ihrer gegenwärtigen Untersuchungen erweisen, dass ich unrecht habe. Vielen Dank.

 

FUSSNOTEN DES UEBERSETZERS  (Hartmut Gehrke-Tschudi)

 

FUSSNOTE #1: Faschoda: Stadt im Südsudan, am weissen Nil. 1898 war es der Schauplatz des Faschoda Konflikts der Frankreich und England an den Rand eines Krieges brachte und 1899 zum englisch-französischen Grenzabkommen führte, das die Grenze zwischen dem Sudan und franz. Kongo entlang der Wasserscheide des Kongo und Nil Beckens festlegte. Die Bildung einer englisch-französischen Entente 1904 veranlasste die Briten dazu, den Namen der Stadt in »Kodok« umzuändern, in der Hoffnung die Erinnerung an diesen Vorfall zu vertuschen.

FUSSNOTE #2: ein Sarkasmus des Autors, betr.: Christiane Amanpour die Leni Riefenstahl der USA, seit Golfkriegszeiten Kriegsberichterstatterin des CNN und Frau von US-Stabschef James Rubin. A. wollte wenige Wochen vor Kriegsbeginn in den Kosovo reisen, um für die westliche Wertegemeinschaft den "Beweis" zu bringen, dass dort ethn.Vertreibungen und Völkermord stattfinden. Die jugosl. Regierung erlaubte ihr aber nicht die Einreise. Sie hatte A. Art der manipulativen Berichterstattung schon kennengelernt und wollte der NATO keinen Vorwand zum Krieg geben.

mercredi, 08 décembre 2010

Washingtons geopolitischer Albtraum: China und Russland verstärken die wirtschaftliche Zusammenarbeit

Washingtons geopolitischer Albtraum: China und Russland verstärken die wirtschaftliche Zusammenarbeit

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Jenseits aller fraktionellen Auseinandersetzungen, die im Kreml zwischen Putin und Medwedew geführt werden mögen, mehren sich in jüngster Zeit eindeutige Hinweise darauf, dass sich Peking und Moskau nach langem Zögern darauf orientieren, die wirtschaftliche Zusammenarbeit zu stärken. Ausschlaggebend dafür mag auch die offenkundige Desintegration der USA als alleiniger Supermacht gewesen sein. Wenn sich der gegenwärtige Trend fortsetzt, dann wird Washingtons schlimmster geopolitischer Albtraum wahr: Einigkeit zwischen den Staaten auf der eurasischen Landmasse, die gemeinsam in der Lage sind, die Hegemonie Amerikas als Wirtschaftsmacht herauszufordern.

 

 

Ein genauer Blick auf die Karte zeigt, warum die wirtschaftliche Kooperation zwischen Russland und China Washington Kopfschmerzen bereitet

 

Wie es in einem chinesischen Sprichwort heißt, leben wir in »interessanten Zeiten«. Gerade noch sah es so aus, als bewegte sich Moskau unter Präsident Medwedew stärker auf Washington zu: Medwedew hatte eingewilligt, den umstrittenen Verkauf von S-300-Raketenabwehrsystemen an den Iran auf Eis zu legen und schien einer Kooperation mit Washington über Fragen der NATO einschließlich eines möglichen Raketenschildes nicht abgeneigt. Doch jetzt haben sich Moskau und Peking auf eine ganze Reihe von Maßnahmen verständigt, die weitreichende geopolitische Auswirkungen haben können, nicht zuletzt auf die Zukunft Deutschlands und der Europäischen Union.

Nach Gesprächen auf höchster Ebene haben Chinas Premierminister Wen Jiabao und sein russischer Amtskollege Wladimir Putin kürzlich in St. Petersburg öffentlich mehrere Projekte angekündigt, die in den westlichen Mainstream-Medien, die zurzeit von den Wikileaks-Skandalen geradezu besessen sind, relativ wenig Beachtung gefunden haben. Es war das siebte Mal in diesem Jahr, dass hochrangige Vertreter der beiden Länder zu Gesprächen zusammenkamen. Das allein ist schon ein Hinweis auf wichtige Entwicklungen.

Bisher gibt es kaum nennenswerte chinesische Investitionen in Russland, die wenigen Ausnahmen erfolgen zumeist in Form von Darlehen. Direkte und Portfolio-Investitionen in reale Projekte sind nach wie vor unbedeutend. Auch russische Investitionen in China sind bislang unbedeutend, doch das soll sich nun ändern. Mehrere russische Unternehmen sind bereits an der Börse in Hongkong gelistet; im Rahmen des Aufbaus gemeinsamer Technologieparks in Russland und China werden inzwischen eine Reihe russisch-chinesischer Hochtechnologie-Investitionsprojekte verfolgt.

Der Dollar wird fallengelassen

Unter anderem gaben die beiden Premierminister bekannt, man habe sich darauf geeinigt, im bilateralen Handel auf den Dollar zu verzichten und auf die eigenen Währungen zu setzen. Außerdem wurden potenziell weitreichende Vereinbarungen bezüglich Energie, Handel und die wirtschaftliche Modernisierung entlegener Regionen im Fernen Osten Russlands getroffen.

Chinesische Quellen berichteten in der russischen Presse, sie hielten diesen Schritt für Anzeichen engerer Beziehungen zwischen Peking und Moskau; der Dollar solle nicht infrage gestellt werden. Unbekümmert kündigte Putin an: »Wir haben beschlossen, bei der Abwicklung des Handels auf unsere eigenen Währungen zu setzen.« Der chinesische Yuan werde mittlerweile auf dem chinesischen Interbankenmarkt gegen russische Rubel gehandelt, während der Renminbi, der bis vor Kurzen noch als chinesische Inlandswährung nicht konvertibel war, laut Putin auch bald in Russland gegen den Rubel gehandelt werden könne.

Bisher war der gesamte Handel zwischen beiden Ländern in US-Dollar abgewickelt worden. Mit

Putin und Wen haben sich bei ihrem jüngsten Treffen auf mehr als nur die Rettung des Tigers geeinigt

Beginn der US-Finanzkrise 2007 und angesichts der extremen Volatilität des Dollar und des Euro hatten beide Länder nach Wegen gesucht, den Warenverkehr demnächst unabhängig vom Dollar abzuwickeln – mit möglicherweise weitreichenden Folgen für Letzteren. Um die Struktur des Handels zu optimieren und neue Entwicklungsmöglichkeiten zu eröffnen, haben die beiden Länder die Chinesisch-Russische Handelskammer für Maschinenbau- und Elektronikprodukte eingerichtet. Das Greenwood-Welthandelszentrum, das von einem chinesischen Unternehmen gebaut wird, soll 2011 als Ausstellungs- und Handelszentrum für chinesische Produkte in Russland eröffnet werden und als öffentliches Forum zur Stärkung des nicht-staatlichen Handels zwischen Russland und China fungieren.

Der bilaterale Handel zwischen Russland und China wächst zurzeit kräftig. In den ersten zehn Monaten dieses Jahres erreichte er ein Volumen von fast 35 Milliarden Euro, das bedeutet gegenüber dem Vorjahr einen Anstieg um 45 Prozent. Insgesamt wird für das ganze Jahr ein Handelsvolumen von 45 Milliarden Euro erwartet, womit beinahe wieder das Niveau vor der Finanzkrise erreicht wird. Beide Seiten wollen den Handel in den kommenden Jahren deutlich ausweiten; in Russland gehen einige von einer Beinahe-Verdopplung in den nächsten drei Jahren aus.1 Deshalb hat die Frage, ob der Dollar dabei umgangen wird, einiges Gewicht. Wenn mehr Länder der Shanghai Cooperation Organization – der 2001 von Russland und China gegründeten Organisation aus sechs eurasischen Staaten – diesem Beispiel folgen, so würde der Dollar in seiner Rolle als Weltreservewährung erheblich geschwächt.

Seit der Dollar 1944 im Bretton-Woods-Abkommen als zentrale Währung des Welthandelssystems etabliert wurde, beruhte die Hegemonie der USA auf zwei unabdingbaren Säulen: erstens der militärischen Dominanz und zweitens der Rolle des Dollars als Weltreservewährung. Durch die Kombination von Militärmacht und strategischer Bedeutung des Dollar beim Handel mit Öl, anderen wichtigen Rohstoffen und im Finanzwesen allgemein war Washington in der Lage, die eigenen Kriege um die weltweite Vorherrschaft mit „dem Geld anderer Leute“ zu finanzieren.

Kooperation im Bereich Energie

Auch im Bereich internationaler Energie-Kooperation wurden interessante Abkommen unterzeichnet. Die beiden großen eurasischen Mächte Russland und China planen, den vom Dollar unabhängigen bilateralen Handel auf interessante Weise auszubauen, besonders im Bereich Energie, in dem China erhebliche Defizite und Russland ebenso erhebliche Überschüsse nicht nur an Öl und Gas aufzuweisen hat.

Beide Staaten wollen die Zusammenarbeit bei der Nutzung der Kernenergie ausbauen. zunächst sollen in China mit russischer Hilfe Kernkraftwerke gebaut und gemeinsame russisch-chinesische Projekte zur Urananreicherung entwickelt werden, die den Standards der Internationalen Atomenergiekommission entsprechen. In Drittländern soll Uran gefördert werden; außerdem soll in China ein ganzes Netz von Ölraffinerien gebaut und entwickelt werden. Das erste Projekt, das chinesische Kernkraftwerk Tianjin, ist bereits unter Dach und Fach. Vereinbart wurde der Kauf von zwei russischen Kernreaktoren für Tianjian, den modernsten Kernkraftwerk-Komplex in China.

Auch der Export russischer Kohle nach China wird voraussichtlich 2010 über 12 Millionen Tonnen erreichen und in Zukunft weiter steigen.

Chinesische Ölgesellschaften investieren in die Nachrüstung russischer Projekte zur Exploration, Entwicklung und Verarbeitung von Erdöl, in Joint Ventures mit staatlichen und privaten russischen Unternehmen. Die Inbetriebnahme einer russisch-chinesischen Pipeline ist für Ende 2010 geplant.

Noch nicht abgeschlossen sind Preisverhandlungen über russisches Gas, das nach China geliefert wird; doch auch hier wird in den nächsten Monaten eine Einigung erwartet. Russland verlangt für das von Gazprom gelieferte Gas denselben Preis, der auch europäischen Kunden in Rechnung gestellt wird; Peking fordert einen Preisnachlass.

Große Industrie-Entwicklungsprojekte

Auf der Liste stehen auch gemeinsame industrielle Investitionen in den entlegenen Regionen entlang der 4200 km langen Grenze zwischen Sibirien und dem Fernen Osten Russlands und der chinesischen Region Dungbei. Dort hatte die Sowjetunion in den 1950er und 1960er Jahren, vor dem Bruch mit China, Hunderte Fabriken der Leicht- und Schwerindustrie gebaut. Diese sind in der Zwischenzeit modernisiert und mit neuer chinesischer oder importierter Technik ausgerüstet worden, aber das solide industrielle Fundament aus der Sowjetära besteht noch. Dies wird nach Auskunft russischer Analysten zu regionaler Zusammenarbeit auf einem höheren technischen Niveau beitragen, besonders zwischen den Distrikten Chabarowsk und Primorye sowie den Regionen Chita und Irkutsk, dem Gebiet Transbaikal und ganz Sibirien sowie auf chinesischer Seite der Provinz Heilongjiang und anderen Provinzen.2

2009 haben sich China und Russland außerdem ein bis 2018 terminiertes Programm für die gemeinsame Entwicklung Sibiriens und des Fernen Ostens sowie den nordöstlichen Provinzen Chinas geeinigt. Es umfasst Dutzende von Kooperationen zwischen bestimmten Regionen zur Entwicklung von 158 Industrieanlagen im russisch-chinesischen Grenzgebiet, vor allem von Betrieben der Holzverarbeitung und der chemischen Industrie, beim Straßenbau, der sozialen Infrastruktur und Landwirtschaft sowie mehrere Projekte für den Export von Energie.

Die Russlandreise von Premierminister Wen folgte auf den dreitätigen China-Besuch des russischen Präsidenten Medwedew im September, bei dem dieser gemeinsam mit Präsident Hu Jintao das lange geplante grenzüberschreitende Pipeline-Projekt von Skoworodina in Ostsibirien nach Daqing in Nordost-China in Gang gebracht hatte. Ende 2010 wird erstmals russisches Öl nach China fließen, und zwar mit einer Rate von 300.000 Barrel pro Tag. Der im vergangenen Jahr geschlossene Liefervertrag hat eine Laufzeit von 20 Jahren und ein Volumen von 20 Milliarden Euro.

Russland strebt an, auf den schnell wachsenden asiatischen, besonders den chinesischen Energiemarkt vorzustoßen; Peking will die Energiesicherheit erhöhen, indem Quellen und Versorgungsrouten diversifiziert werden. Durch die neue Pipeline wird sich der Export von russischem Öl nach China, der bisher über eine langsame und teure Eisenbahnroute erfolgt, verdoppeln. Russland wird damit neben Saudi-Arabien und Angola zum dritten wichtigen Rohöl-Lieferanten für China – für beide Seiten ein wichtiger geopolitischer Gewinn.

Bei einer Pressekonferenz in St. Petersburg erklärte Premierminister Wen, die Partnerschaft zwischen Peking und Moskau habe eine »nie dagewesene Ebene« erreicht; er gelobte, dass beide Länder »nie zum Feind des anderen« werden sollten. Seit dem chinesisch-sowjetischen Bruch während des Kalten Krieges ist Washingtons Geopolitik darauf gerichtet, einen Keil zwischen die beiden Staaten zu treiben und damit ihren Einfluss über den weiten eurasischen Raum auszuhebeln.

Wie ich bereits in früheren Beiträgen betont habe, bleibt Russland allen wirtschaftlichen Problemen zum Trotz die einzige Macht, die gegenüber Washington über eine glaubwürdige nukleare Abschreckung verfügt. Davon ist die militärische Macht Chinas, die ja hauptsächlich zur Selbstverteidigung aufgebaut wurde, noch Jahre entfernt. Die einzige Wirtschaftsmacht, die die schwindende wirtschaftliche Macht der USA herausfordern kann, ist China. Offenbar hat man verstanden, wie gut sich beide ergänzen. Vielleicht wird Wikileaks demnächst peinliche Details über diese Zusammenarbeit »aufdecken«, die Washingtons geopolitischen Absichten entgegenkommen. Für den Augenblick jedoch bedeutet die wachsende Wirtschaftskooperation zwischen China und Russland für Washington den schlimmsten geopolitischen Albtraum, und das genau zu dem Zeitpunkt, wo der weltweite Einfluss Washingtons schwindet.


1 Sergei Luzyanin, Russian Chinese economic cooperation serves the longterm domestic goals, RIA Novosti, 26. November 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_op/20101126/161505920.html

2 Ebenda

 

samedi, 04 décembre 2010

A. Latsa: un autre regard sur la Russie

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"Un autre regard sur la Russie"
par Alexandre Latsa*

Depuis que je réside en Russie, il m’est souvent arrivé, lors de discussions avec mes amis russes, d’aborder le sujet du niveau de vie et aussi de la pauvreté. Bien sûr ce sujet est essentiel: tout le monde souhaite bien et en général mieux vivre qu’avant.

La mondialisation, grâce à la télévision et internet a permis à toute la planète de contempler et de souhaiter le niveau de vie jugé idéal: le niveau de vie occidental. Récemment dans la rubrique "Opinions des lecteurs" d’un journal russe, il était demandé à des étudiants quelle question ils souhaiteraient poser au président Medvedev. Une jolie étudiante, âgée de 23 ans avec des grands yeux d’écureuil posait la question suivante: "Dimitri Anatolievitch, quand allons-nous enfin bien vivre?".

En Russie, le salaire moyen est d’approximativement 500 euros par mois en 2009 et de 1.000 euros par mois à Moscou. Ces chiffres sont assez déconcertants pour qui connaît le coût de la vie dans ce pays. Cependant, je dis souvent à mes amis que ces salaires moyens sont pourtant déjà bien supérieurs à ceux d’Etats de l’Union Européenne tels que la Roumanie (350 euros) ou la Bulgarie (150 euros).

La Russie, sur le papier, se situerait pour l’instant sous le niveau estonien (700 euros) ou polonais (875 euros). Evidemment, la Roumanie et l’Estonie, ce n’est pas la France. Il est vrai que le salaire moyen en France s’élève à 1.800 euros. En plus me rétorquent-ils le coût de l’immobilier en Russie (qui est un réel problème national) dépasse les niveaux de prix français! Bien sûr, ils semblent avoir raison d’un point de vue purement mathématique.

Pourtant d’autres indicateurs économiques sont plus flatteurs pour la Russie. Prenons par exemple la pauvreté. Celle-ci a reculé de moitié en dix ans, la part des Russes vivant sous le seuil de pauvreté ayant diminué de 29 à 15% de la population entre 2000 et 2009.
En France, le taux de pauvreté, qui était de 6,2% de la population en 2001 à la veille du passage à l’euro atteint aujourd’hui 13,7%. La moitié des Français en 2009 vit avec moins de 1.500 euros par mois, ce qui en France n’est vraiment pas beaucoup. Autre indicateur, le chômage. Celui-ci touche aujourd’hui 7% de la population active en Russie, alors qu’il avoisine 12% en France et presque 25% pour les moins de 24 ans.

Enfin, peut-on réellement comparer les niveaux de vie?

Il n’est pas du tout évident que 500 euros à Omsk confèrent moins de pouvoir d’achat que 1.500 euros à Bordeaux. Autre exemple, est-on plus riche à Paris qu’à Moscou avec, disons, 1.000 euros? Assurément non. En 2009, selon la Banque mondiale, la Russie se classait même devant la France pour le pouvoir d’achat par devise nationale.

Mais ces statistiques ne veulent pas tout dire. En France, par exemple, elles sont maquillées par des concepts comme la précarité, le temps partiel ou le surendettement qui explosent depuis quelques années et sont très significatifs du mal-être général. Alors bien sûr la France, via son généreux système d’aide sociale, ne laisse pas sans assistance financière les gens sans ressources ou les chômeurs.

C’est encore vrai aujourd’hui mais le débat sur le coût d’un tel système (déficitaire de 23 milliards d’euros en 2010) est désormais lancé et il est plausible que la crise économique signe la fin de l’Etat providence ("Etat providence " désigne la forme prise par l'intervention de l'État dans la vie économique et sociale-ndlr.) à la française.

Que se passera-t-il alors que l’Etat ne "peut pas" donner du travail à tous ces gens? Les Russes savent-t-ils que le niveau d’endettement de l’Etat français est tel que chaque nouveau né doit déjà 25.000 euros? En Russie a contrario, il est encore fréquent que les revenus réels soient plus élevés que les salaires, de nombreux Russes cumulant une seconde activité en parallèle à leur travail principal.

Cela est, malgré tout, possible dans une économie suffisamment souple et suffisamment dynamique, comme l’est la Russie. Une économie sans dettes mais avec des réserves financières massives. Les prévisions de croissance en Russie pour les deux ou trois prochaines années sont les plus élevées d’Europe et feraient rêver n’importe quel gouvernement de la zone Euro. Il semble donc que la Russie soit sur une phase ascendante, pendant que de nombreux pays européens, comme la France, soient dans une phase plutôt descendante.

Imaginons que durant les dix prochaines années, la situation perdure, que les niveaux de " salaires " continuent à augmenter en Russie et la pauvreté à diminuer, tandis que le phénomène inverse se passe en France. Dès lors mes amis russes dans 10 ans tiendront t-ils le même discours?

Pour ma part, il me semble que l’évaluation du niveau de vie n’est pas définissable seulement par des indicateurs économiques linéaires. Cette sensation que l’avenir sera meilleur que le passé fait qu’il est devenu possible pour les Russes de ne plus regretter le passé, mais également de ne plus craindre l’avenir. A l’inverse, les Français qui ont connu l’insouciance des "Trente Glorieuses" (cette période d’embellie économique allant de 1945 au choc pétrolier de 1973) ne cessent d’en parler comme d’un âge d’or, révolu. La dégradation de la situation économique, sociale et identitaire a fait que les Français aujourd’hui ne sont plus sereins face à l’avenir.

Samedi soir, en allant dîner dans un restaurant de mon quartier, Rio Grande, je me suis plongé dans ces réflexions en observant les clients. Sur des morceaux de rock russe des années 1970 repris par un duo talentueux, les habitués dansaient, indépendamment de leur âge et de leurs origines sociales, pourtant très variées.

Je précise que j’habite dans un quartier excentré, un "spalniy rayon" classique au bout d’une ligne de métro. Finalement les gens avaient l’air relativement heureux et insouciant et j’en suis arrivé à la conclusion que le sentiment global de sécurité et de confiance est un indicateur fondamental du réel niveau de vie. Selon cet indicateur-là, les Russes en 2010 sont sans aucun doute parmi les premiers au classement européen.

"Un autre regard sur la Russie": Mistral gagnant

* Alexandre Latsa, 33 ans, est un blogueur français qui vit en Russie. Diplômé en langue slave, il anime le blog DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie".

vendredi, 03 décembre 2010

Un coup d'Etat civil pro islamique à Ankara...

Un coup d'État civil pro islamique à Ankara...

Par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: L'Insolent

  

Les conséquences de la réunion de l'Otan à Lisbonne directes et indirectes, ne manquent pas de se faire sentir. Et cela commence par l'un des principaux alliés, la Turquie. Les années 1946-1950 avaient vu la mise en place, dans ce pays, de gouvernements démocratiques formellement civils. Plusieurs coups d'État les ont renversés successivement. Or pour la première fois depuis 60 ans, deux ministres (1) ont pris la décision d'y mettre à pied trois généraux. (2) Ceux-ci se trouvent impliqués dans le cadre du complot Bayloz remontant à 2003. Le chef du parti laïc de gauche CHP soutient de façon significative les trois putschistes, qui font appel aux tribunaux spéciaux. Cela s'est produit la semaine écoulée, qui suivait immédiatement la rencontre de l'alliance occidentale.

S'agissant de tout autre pays, on trouverait cette situation critique du point de vue journalistique et conjoncturel. L'événement serait couvert de façon dramatique par les gros moyens d'information. Et on jugerait aussi cette normalisation, sur le fond, parfaitement conforme aux principes de la gouvernance mondiale.

Il n'en va pas de même dans une société où l'élément militaire joue, ou plutôt jouait jusqu'à une date très récente, un rôle central dans tous les réseaux de pouvoir. Rappelons ainsi que le poids économique de la couche dirigeante de l'armée issue du kémalisme, en fait le principal partenaire apprécié en France par les milieux se disant de gauche et non moins laïcistes.

Les dirigeants civils, eux-mêmes disciples de l'islam moderniste (3), ont obtenu à Lisbonne de la part des Américains et des autres alliés une concession qu'ils jugent essentielle. On leur a accordé que l'Iran ne soit pas explicitement mentionné comme adversaire dans le cadre de la mise en place du bouclier anti-missiles de l'Alliance atlantique. Dans ce contexte, ils se sentent en mesure de rogner un peu plus les prérogatives des militaires laïcs.

On pourrait donc aboutir au renversement complet du rapport de forces établi par les jeunes-turcs en 1909, puis par le kémalisme en 1923, un concept paradoxal : un "coup d'État" civil.

En apparence, formellement, si cette évolution aboutit, elle ne rencontrera que des approbations, au moins dans un premier temps, sur la scène internationale.

Pour le moment d'ailleurs un seul pays, pratiquement, semble s'y opposer, émettre des réserves, agiter et alerter plus ou moins discrètement ses propres éléments d'influence. Il s'agit de l'État qui avait tissé depuis le début des années 1950 des liens très solides de coopération avec l'armée d'Ankara. Pour le moment, en effet, le gouvernement israélien actuel redoute à plus ou moins juste titre une coalition régionale des pays musulmans. Ceci ne s'était jamais produit depuis la fondation d'Israël. L'État hébreu, de guerre en guerre, et pendant ces périodes intercalaires que l'on appelle, un peu imprudemment peut-être, "la paix" avait toujours su séparer les deux puissances musulmanes régionales non arabes, l'Iran comme la Turquie, et s'employer efficacement à diviser les Arabes entre eux. Sur ce dernier terrain il n'a pas rencontré trop de difficultés.

Dans sa chronique de Zaman Today du 27 novembre M. Ergun Babahan prend à cet égard à partie l'ancien ambassadeur américain en Turquie M. Eric Edelman. Il en fait à la fois le porte-parole à Washington d'une certaine coulisse et il l'accuse de "vivre dans un monde virtuel", de se montrer "coupé du réel". Le vrai reproche porte sur l'évaluation de la durée, que ses partisans jugent illimitée, du gouvernement turc actuel.

De ce dernier point de vue nous ne disposons à vrai dire d'aucune boule de cristal. Nous les laissons au Quai d'Orsay. Contentons-nous des faits.

Lors de la sortie très spectaculaire de Erdogan à Davos en janvier 2009, puis encore lors des incidents de la flottille Mavi Marmara en mai 2010, on a pu remarquer que le gouvernement d'Ankara ne craignait pas désormais de s'aliéner les réseaux pro-israéliens du monde entier. Aux Etats-Unis, où il réside, remarquons d'ailleurs que Fethullah Gülen tient des propos apaisants. Certains observateurs mal informés ou naïfs, comme M. Gurfinkel dans Valeurs actuelles, les prennent ou tentent de les faire prendre à leurs lecteurs pour argent comptant.

Or, désormais, le quotidien officieux Zaman est monté d'un cran dans la séparation : on y met en accusation l'influence sioniste en Amérique du nord. Personne ne peut croire inconscients de la gradation, les professionnels de la communication qui fabriquent ce journal, très proche du pouvoir et techniquement très bien fait. Y compris dans l'usage des mots, il ne nomme plus d'ailleurs désormais ses adversaires pour "sionistes", il revient à un registre sémantique qui servait beaucoup à la charnière des XIXe et XXe siècles.

Or, parallèlement, les dirigeants d'Ankara haussent également le ton dans leurs négociations avec l'Europe. Ils jugent en effet que la défense du continent a été confirmée ces dernières semaines comme dépendant intégralement du bon vouloir de Washington. Plusieurs longues analyses officieuses confirment ce fait, pour tout observateur lucide, malheureusement évident. (4) Il semble pour nous humiliant, mais pour les Turcs réconfortant, que l'Union "européenne", les guillemets me paraissent désormais s'imposer, persiste à ne penser son destin qu'en tant que grosse patate consommatique.

Représentée au plan international par les glorieux Barroso, Van Rompuy et Lady Ashton l'organisation bruxelloise des 27 petits cochons roses se préoccupe plus de sauver ses banquiers que de défendre ses ressortissants.

Le projet "Eurabia" a été décrit (5) comme préparant pour les prochaines décennies, au nord de la Méditerranée la situation de dhimmitude que subissent depuis des siècles les chrétiens d'orient. Ce processus de domestication des peuples par la trahison de leurs élites économiques semble donc en bonne voie.

Les ennemis de la liberté si actifs contre notre continent s'y emploient dans les coulisses de Bruxelles.

En professionnels de la conversion par conquête, je ne doute pas que les islamistes turcs observent leurs proies, qu'ils l'hypnotisent par leurs mots d'ordre et qu'ils se régalent de leurs faiblesses. On peut cependant encore s'y opposer. (6)

 

Notes

 

1.                   Il s'agit des ministres de l'intérieur Bechir Atalay et du ministre de la Défense Vecdi Gönül

2.                   Les militaires limogés sont un général de gendarmerie, du général Abdullah Gavremoglou et du major Gürbüz Kaya.

3.                   Nous donnons à ce sujet quelques précisions dans L'Insolent du 23 novembre "Les dirigeants turcs vrais islamistes et faux bisounours".

4.                   cf. les analyses publiées dans Zaman les 24 et 27 novembre

5.                   cf. le livre de Bat Ye'or "Eurabia, the Euro-Arab Axis" 2005 ed. Farleigh Dickinson University Press, version française "Eurabia, l’axe euro-arabe" 304 pages 2006 éd. Jean-Cyrille Godefroy.

6.                   J'aurais le plaisir de signer mon livre "La question turque et l'Europe" au prochain salon du livre d'Histoire le dimanche 5 décembre. Mais vous pouvez aussi dès maintenant l'acquérir directement sur le site des Éditions du Trident. Rappel : il est plus courtois vis à vis des organisateurs, pour les personnes qui se rendraient à ce salon d'acquérir les ouvrages sur place.

mercredi, 01 décembre 2010

La visione di un mondo multipolare è la chiave per un futuro possibile

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La visione di un mondo multipolare è la chiave per un futuro possibile

di O. Pesce

Ex: http://conflittiestrategie.splinder.com/

Ascoltando le unanimi opinioni in merito all’Afganistan di La Russa, Fassino e le disquisizioni di Frattini viene spontaneo pensare perché si formano certe idee o meglio cosa nascondono.

Mentre in Afganistan Karzai apre un terreno di discussione con i Talebani per porre fine alla guerra e annuncia: “Via gli army contractors entro la fine dell’anno”, da noi si parla di armare gli aerei del contingente italiano con bombe (ovviamente da usare). Si precisa che il ritiro delle truppe dell’ISAF è condizionato dall’esito delle trattative con i Talebani moderati. Creando così delle discriminazioni e degli ostacoli che intralciano il processo di pace.

Tutti possono osservare che di fronte a una situazione che si muove velocemente, con mutevoli scenari, non è plausibile riproporre le ormai vecchie storielle sulla presenza delle truppe ISAF in Afganistan, cioè per la “democrazia” eccetera…

Veniamo al dunque:

1. Brasile, Venezuela e Turchia esprimono nel loro ultimo incontro un’unanime dichiarazione favorevole alle posizioni di Teheran;

2. Negli ultimi tempi si nota che in Turchia l’esecutivo legislativo (la politica) si è rafforzato rispetto all’esercito (da sempre stretto alleato della NATO). La stessa alleanza che la Turchia ha con Israele è a una svolta, si consideri che Israele è un alleato strategico statunitense. Il primo ministro turco Erdogan esprime opinioni che non caldeggiano l’entrata della Turchia nella UE;

3. Nello stesso Iran si è rafforzata la posizione di Ahmadinejad (sostenuto dalle forze armate) mentre si sente di meno la guida degli ayatollah. Il presidente iraniano vuol trattare, ricerca soluzioni politiche dimostrando che non vuole lo scontro militare ( l’attenzione agli armamenti è uno strumento per far avanzare la trattativa e scoraggiare l’aggressione);

4. Karzai ha reso pubbliche le trattative con il Mullah Omar;

Quali previsioni e considerazioni trarre da questi nuovi fatti?

Il problema reale è che sia l’Iran che la Turchia sono potenze regionali e come tali si muovono in uno scacchiere che riguarda in particolare l’Afganistan e le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. L’interesse di queste potenze regionali non è nel ricercare lo scontro militare con l’occidente, ma nel trovare tra loro la soluzione dei problemi dell’intera area cercando una convivenza con la Cina e la Russia come potenze confinanti. Tutto ciò proprio in funzione dello sviluppo economico e sociale dell’intera area, che è ricca di materie prime, che possiede antiche culture e ha possibilità reali di sviluppo economico. Non dimentichiamoci che anche gli stessi iracheni del post Saddam hanno sempre chiesto di risolvere i loro problemi da soli, senza la presenza di truppe occidentali. Se la trattativa di Karzai avesse un esito positivo si verrebbe a porre in atto il ritiro totale delle truppe ISAF.

L’occidente non ha nulla a che vedere con questi paesi, l’occidente per tali popoli è l’espressione del colonialismo. La stessa rivalità tra Sciiti e Sunniti non è una questione reale, ma una forzatura dell’occidente come la montatura della ricerca delle armi chimiche di Saddam.

Queste analisi sono indicatori che nel mondo si fa sempre più strada la tendenza verso un mondo multipolare. Magari questa propensione potrebbe non tradursi subito in realtà, ma certe riflessioni e previsioni vanno ugualmente fatte perché possono delineare gli sviluppi futuri. Da noi si ignorano queste realtà e si continua a perseverare nella vecchia maniera delle bugie, a negare l’evidenza delle cose sulla base di una supremazia oggi svanita e molto spesso nel voler essere più realisti del re. Per cui, pur senza assumere toni trionfalistici e senza farci prendere da facili entusiasmi è necessario ribadire che il nostro paese, ma soprattutto l’Europa deve avere una sua politica che si apra a una modernizzazione minima del pianeta, che si ponga come interlocutore a questi paesi nello sviluppo economico e commerciale su un piano di parità. Il primo atto dell’Italia e dell’Europa consiste nel ritirare le missioni militari “di pace” da tutti i paesi. Occorre anche invertire la rotta sbagliata seguita finora e cioè considerare utili solo i paesi emergenti, mentre per i restanti del terzo mondo vi è solo rapina.


mardi, 30 novembre 2010

Summit di Lisbona: la NATO si proclama forza militare globale

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SUMMIT DI LISBONA: LA NATO SI PROCLAMA FORZA MILITARE GLOBALE


DI RICK ROZOFF
rickrozoff.wordpress.com

Ex: http://www.comedonchisciotte.org/

Dal vertice recentemente concluso della NATO (North Atlantic Treaty Organization) in Portogallo Washington ha ottenuto tutto quello che chiedeva ai suoi 27 alleati della Nato -almeno 20 partner della NATO che forniscono truppe per la guerra in Afghanistan- all'UE e alla Russia.

L'Alleanza Atlantica controllata dagli USA ha approvato senza riserve e anche senza delibere il piano americano che prevede di includere tutta l'Europa nel sistema missilistico di intercettazione mondiale del Pentagono e della sua Missile Defense Agency (MDA). La dichiarazione del vertice afferma: "La NATO manterrà una giusta combinazione di forze di difesa convenzionali, nucleari, e missilistiche. La difesa missilistica diventerà parte integrante della nostra posizione di difesa globale.". [1]

Nell'adottare il suo nuovo Concetto Strategico ha anche autorizzato un’analoga operazione di guerra informatica su scala continentale in combinazione con il nuovo USA Cyber Command del Pentagono -e per tutti gli scopi pratici sotto la sua direzione.



Ha inoltre ribadito l’impegno della coalizione sull’articolo 5 per rendere l'assistenza militare collettiva a ogni Stato membro sotto ipotetico attacco e esteso il concetto di attacco per includere categorie non-militari come computer, energia e minacce terroristiche. Il Concetto Strategico "riconferma il legame tra le nostre nazioni per difendere l’un l'altra contro l'attacco, anche contro nuove minacce alla sicurezza dei nostri cittadini". [2]

"I membri della NATO presteranno sempre reciproca assistenza contro un attacco, a norma dell'articolo 5 del Trattato di Washington. Tale impegno rimane fermo e vincolante. La NATO scoraggerà ogni minaccia di aggressione e difenderà da essa e dai problemi emergenti dove si minaccino la sicurezza fondamentale dei singoli alleati o l'Alleanza nel suo complesso".

Sia pure in mancanza di minacce militari convenzionali -come pure di quelle nucleari-, ovvero anche senza rischi di carattere militare nei riguardi dei membri della NATO nordamericani ed europei, altri pericoli –se pianificati- serviranno come base per l'attivazione dell'articolo 5. Essi includono attacchi o minacce alle reti di computer:

" Cyber-attacchi ... possono raggiungere una soglia tale da minacciare la prosperità nazionale ed euro-atlantica, la sicurezza e la stabilità", afferma la NATO, per cui i suoi membri sono obbligati a "sviluppare ulteriormente la capacità di prevenzione, individuazione, difesa e recupero dai cyber- attacchi, anche mediante l'uso del processo di pianificazione della NATO di rafforzare e coordinare le capacità nazionali di cyber-difesa, portando tutti gli organismi della NATO sotto cyber-protezione centralizzata .... "

"Dipendenza" europea dal petrolio e dal gas naturale russo e il controllo delle vie marittime strategiche e rotte commerciali:

"Alcuni paesi della NATO diventeranno più dipendenti dai fornitori esteri di energia e, in alcuni casi, dalla fornitura estera di energia e di reti di distribuzione per il loro fabbisogno energetico. Dato che una quota sempre maggiore del consumo mondiale è trasportato in tutto il mondo, le forniture di energia sono sempre più a rischio di perturbazione".

E diverse altre questioni neanche lontanamente connesse a faccende militari [3]:

"Vincoli vitali ambientali e delle risorse, tra cui rischi per la salute, il cambiamento climatico, scarsità d'acqua e il fabbisogno energetico crescente condizioneranno ulteriormente il futuro contesto di sicurezza nelle aree di interesse per la NATO e avranno il potenziale per incidere in misura significativa nella pianificazione e nelle operazioni della NATO".

La NATO ha anche ribadito il suo impegno a mantenere armi nucleari tattiche americane in Europa, con il Concetto strategico che dichaira: "finché ci sono armi nucleari nel mondo, la NATO rimarrà una alleanza nucleare".

E l'alleanza si è allineata con il cambiamento della Casa Bianca e il Pentagono da un impegno precedente per il "taglio" delle truppe Usa e Nato in Afghanistan a partire dall'anno prossimo per quello che Washington ha di recente definito un progetto "provvisorio" e "aspirazionale", di una strategia "transitoria" che potrebbe vedere forze militari occidentali ancora sulla scena della nazione asiatica 15 o più anni dopo il loro arrivo. La dichiarazione del vertice di Lisbona afferma: "La transizione sarà basata sullo stato di fatto, non fissata da un calendario, e non equivale al ritiro delle truppe ISAF".

Non c'è nessuna nazione o gruppo di nazioni che ponga alla NATO una sfida seria, nessuno costituisce una minaccia per l’unico blocco militare del mondo, e quasi nessuno ancora si frappone alla sua espansione globale. "Tuttavia, nessuno dovrebbe dubitare della determinazione della NATO se la sicurezza di uno dei suoi membri dovesse essere minacciata... La dissuasione, basata su un adeguato mix di capacità nucleari e convenzionali, resta un elemento centrale della nostra strategia globale .... Finché esistono armi nucleare, la NATO rimarrà una alleanza nucleare".

"La garanzia suprema della sicurezza degli alleati è fornita dalle forze nucleari strategiche dell'alleanza, in particolare quelle degli Stati Uniti; le forze strategiche nucleari indipendenti del Regno Unito e della Francia, che hanno un loro ruolo di dissuasione, contribuiscono alla deterrenza complessiva e alla sicurezza degli alleati».

Formalizzando i cambiamenti internazionali degli ultimi undici anni -in Europa, Asia, Africa e nel Mare Arabico– il nuovo Concetto Strategico della NATO obbliga tutti gli stati membri e decine di partner a “sviluppare e mantenere forze convenzionali robuste, mobili e dispiegabili per svolgere sia i compiti dovuti dall’articolo 5 che le operazioni delle spedizioni dell'alleanza, comprese nella NATO Response Force", e "garantire la più ampia partecipazione possibile degli alleati alla pianificazione della difesa collettiva in ruoli nucleari, nella costruzione del tempo di pace delle forze nucleari".

Invocando il semi-sconosciuto slogan che dal 1989 è stato impiegato nell’anticipazione e poi nella realizzazione dei progetti per subordinare tutta l'Europa sotto il comando militare della NATO [4], i capi di stato dell’alleanza a Lisbona la settimana scorsa hanno anche approvato il completamento dei piani di espansione che interessano i Balcani e l'ex Unione Sovietica:

"Il nostro obiettivo di un'Europa libera e integra e della condivisione di valori comuni, sarebbe meglio servito dalla eventuale integrazione nelle strutture euro-atlantiche di tutti i paesi europei che lo desiderano.

"La porta per l'adesione alla NATO rimane completamente aperta a tutte le democrazie europee che condividono i valori della nostra alleanza, che sono disposti e in grado di assumersi le responsabilità e gli obblighi di adesione, e la cui inclusione possa contribuire alla sicurezza comune e alla stabilità".


In particolare, la NATO "continuerà a sviluppare l’associazione con l'Ucraina e la Georgia nelle Commissioni NATO-Ucraina e NATO-Georgia, sulla base della decisione della Nato al summit di Bucarest del 2008" e "favorire l'integrazione euro-atlantica dei Balcani occidentali". Una menzione particolare è stata fatta riguardo la Bosnia, la Macedonia, il Montenegro e la Serbia.

La Commissione NATO-Georgia è stata istituita nel settembre del 2008, il mese dopo la guerra dei cinque giorni tra la Georgia e la Russia, che fu iniziata dal governo di Mikhail Saakashvili a Tbilisi, una settimana dopo che 1000 soldati Usa completarono l’esercitazione militare Immediate Response 2008 NATO Partnership for Peace, mentre le truppe e le attrezzature americane erano ancora in Georgia.

La decisione del vertice di Bucarest su un'eventuale adesione piena della Georgia e dell'Ucraina nella NATO e la creazione della Commissione NATO-Georgia ha dato luogo ad un Annual National Program per accelerare l'integrazione della Georgia nella NATO. Il percorso tradizionale di adesione, un Membership Action Plan (MAP), non è stato presentato alla Georgia nel 2008 a causa di due disposizioni NATO: una è quella per cui gli Stati membri non possono essere coinvolti in persistenti dispute territoriali (per questo motivo, per esempio, a Cipro non sarebbe stata data un MAP se fosse stata sul punto di aderire al Partenariato per la Pace) e l’altra che non ci possono essere forze militari straniere -vale a dire non-NATO- sul suolo di un potenziale socio.

Il governo georgiano rivendica le ormai indipendenti nazioni di Abkhazia e Ossezia del Sud come proprie e due anni fa ci sono stati piccoli contingenti di peacekeepers russi in entrambi i paesi. La Commissione NATO-Georgia e NATO e l’Annual National Program della NATO -un veicolo unico per integrare Georgia (e Ucraina) nella NATO bypassando i vincoli di cui sopra di un MAP - sono completati dalla Carta per il Partenariato Strategico (Charter on Strategic Partnership) Stati Uniti-Georgia la quale fu annunciata poco dopo la guerra del 2008 e firmata il 9 gennaio 2009. (La consimile Carta per il Partenariato Strategico Stati Uniti-Ucraina è stata firmata tra il segretario di Stato Condoleezza Rice e il ministro degli Esteri ucraino Volodymyr Ogryzko il 19 dicembre 2008).

La tesi di molti osservatori, compreso chi scrive, è che l'attacco georgiano in Ossezia del Sud il 7 agosto 2008 sarebbe stato, in caso di successo, immediatamente seguito da uno in Abkhazia, eliminando in tal modo gli ostacoli di cui sopra al pieno sviluppo della NATO nel Caucaso meridionale.

Il Parlamento della NATO, nella sessione autunnale dell'Assemblea in Polonia, il 12-16 novembre ha approvato una risoluzione che chiama l'Abkhazia e l'Ossezia del Sud "territori occupati", che ha portato il Ministero degli Esteri dell'Abkhazia a rispondere:

"La NATO è un'organizzazione che ha contribuito alla militarizzazione intensiva della Georgia per molti anni, fomentando la mentalità revanscista della leadership georgiana, che ha portato nell’agosto 2008 a spargimenti di sangue in Ossezia del Sud". [5]

Il presidente Barack Obama ha tenuto un colloquio col georgiano Saakashvili, a margine del vertice di Lisbona il 19 novembre.

I piani della NATO per una penetrazione più a est e a sud di ciò che molta gente pensa che sia l'Europa non sono limitati al Caucaso.

Il vertice di Lisbona, approvando la nuova dottrina della coalizione, ha anche affermato per la prima volta senza mezzi termini che la portata della NATO è tanto ampia quanto il mondo stesso:

"La promozione della sicurezza euro-atlantica è meglio garantita attraverso una vasta rete di relazioni con i paesi partner e organizzazioni in tutto il mondo".

Il presidente Obama e gli altri 27 capi di Stato della NATO hanno approvato il nuovo Concetto Strategico, che inoltre afferma:

"Siamo fermamente impegnati nello sviluppo di relazioni amichevoli e di cooperazione con tutti i paesi del Mediterraneo, e abbiamo intenzione di sviluppare ulteriormente il Mediterranean Dialogue nei prossimi anni. Attribuiamo grande importanza alla pace e alla stabilità nella regione del Golfo, e intendiamo rafforzare la nostra cooperazione nella Istanbul Cooperation Initiative".

Il Mediterranean Dialogue comprende la NATO e sette paesi in Africa e in Medio Oriente: Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia.

La Istanbul Cooperation Initiative del 2004 [6], mira al potenziamento delle partnership del Mediterranean Dialogue al livello di quelle del programma NATO "Partenariato per la Pace, che ha preparato 12 nazioni in Europa orientale per la piena adesione a partire dal 1999: Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca , Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia.

Viene anche consolidato il legame con i sei membri del Gulf Cooperation Council - Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti - in qualità di partner militari della NATO. Giordania ed Emirati Arabi Uniti sono paesi contributori ufficiali di truppe (Troop Contributing Nations –TCN) per la International Security Assistance Force in Afghanistan della NATO, come sono membri del Partenariato per la Pace della Georgia e dell'Ucraina nell’ex spazio sovietico e in Bosnia, Macedonia e Montenegro nei Balcani.

Lo scorso fine settimana la NATO ha promesso di "approfondire la cooperazione con gli attuali membri del Mediterranean Dialogue e di essere aperta all’inclusione in esso di altri Paesi della regione" e di "sviluppare un più profondo partenariato per la sicurezza con i nostri partner del Golfo e di rimanere pronti ad accogliere nuovi partner nella Istanbul Cooperation Initiative". Cioè, includere tutto il Medio Oriente e l'Africa settentrionale nella sua più ampia connnessione militare con un occhio alle nazioni come l'Iraq [7], Libano, Palestina, Yemen, Libia, Somalia, Gibuti, Etiopia, Senegal, Mali, Niger, Ciad e anche il Kenya.

La dichiarazione del summit ha confermato la prosecuzione dell'Operazione Active Endeavour, "l’operazione marittima nel Mediterraneo per il nostro articolo 5", l’operazione Ocean Shield al largo del Corno d'Africa, il trasporto aereo di di truppe ugandesi in Somalia per i combattimenti e il sostegno alla Forza africana in attesa e la Training Mission NATO in Iraq.

Oltre ai dettagli dei piani di espansione in Europa, Asia e Africa una dopo l’altra, la NATO ha annunciato che ora è una formazione politico-militare internazionale. La dichiarazione del vertice ha espresso "profonda gratitudine per la dedizione, la professionalità e il coraggio dei più di 143.000 uomini e donne provenienti da paesi alleati e partner, che vengono dispiegati nelle operazioni e le missioni della NATO".

La sua nuova dottrina afferma anche: "unica nella storia, la NATO è un’alleanza di sicurezza che mette in campo forze militari in grado di operare insieme in qualsiasi ambiente; capace di controllare operazioni dovunque attraverso la sua struttura di comando militarmente integrata...."

La NATO Response Force (NRF) della coalizione "fornisce un meccanismo per generare una elevata prontezza e un pacchetto di forze tecnologicamente avanzate costituito da elementi di terra, aria, mare e delle forze speciali che può essere schierato rapidamente in operazioni ovunque sia necessario." [8]

La NRF è stata proposta dall'allora Segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld, nel settembre del 2002 e formalizzato in occasione del vertice NATO di Praga nel novembre dello stesso anno. Essa ha effettuato la sua prima esercitazione a fuoco, la Steadfast Jaguar su grande scala del 2006, nella nazione dell'Africa occidentale dell'isola di Capo Verde. Alla fine dell'anno fu affermato che essa aveva piena capacità operativa formata da un massimo di 25.000 uomini "fatto di componenti di terra, aria, mare e delle forze speciali... in grado di svolgere missioni in tutto il mondo attraverso l'intero spettro delle operazioni." [9]

Alludendo in parte alla NRF, il nuovo Strategic Concept dichiara:

"Dove la prevenzione dei conflitti non abbia esito, la NATO sarà preparata e in grado di gestire le ostilità in corso. La NATO ha capacità uniche di gestione dei conflitti, compresa la facoltà senza pari di implementare e sostenere vigorose forze militari in campo".

Essa impegna inoltre i Paesi membri a "sviluppare ulteriormente la dottrina e le capacità militari per organizzare gli interventi, tra cui quelli per anti-insurrezione, stabilizzazione e ricostruzione".

A Lisbona, Obama ed i suoi colleghi capi di Stato hanno convenuto che:

"Noi, i leader politici della NATO, siamo determinati a continuare il rinnovamento della nostra alleanza in modo che sia adatta allo scopo di affrontare le sfide alla sicurezza del 21° secolo. Siamo fermamente impegnati a conservare la sua efficacia come l’alleanza politico-militare di maggior successo del mondo".

L’unica coalizione militare mondiale non protegge l'Europa da minacce chimeriche nucleari e missilistiche o dalle questioni che sono meglio affrontate dai rispettivi membri della sua magistratura, dalle forze di sicurezza interna ed ambientali,dai ministeri e dipartimenti dell'immigrazione, dell'energia, della salute pubblica e dalle unità di crisi.

Impiega piuttosto il continente europeo come una base operativa per le campagne e gli dispiegamenti militari ovunque altrove.

Tale ruolo è stato consolidato con l'integrazione militare di Stati Uniti, NATO e Unione europea [10]. Il 19 novembre il presidente della Consiglio europeo della UE, Herman Van Rompuy, si è rivolto ai leader della NATO a Lisbona e ha detto "la capacità delle nostre due organizzazioni per plasmare le nostre future condizioni di sicurezza sarebbe enorme se lavorassero insieme. È ora di abbattere le pareti restanti tra loro". [11]

La nuova dottrina della NATO del 21° secolo, afferma:

"L’Unione europea è un partner unico ed essenziale per la NATO. Le due organizzazioni condividono la maggioranza dei soci, e tutti i membri di entrambe le organizzazioni condividono valori comuni. La NATO riconosce l'importanza di una difesa europea più forte e più capace. Accogliamo con favore le entrata in vigore del trattato di Lisbona, che fornisce un quadro per rafforzare le capacità dell'UE di affrontare le sfide comuni.

"Alleati non comunitari rappresentano un significativo contributo a tali sforzi. Per il partenariato strategico tra la NATO e l'UE, il loro pieno coinvolgimento in queste iniziative è essenziale. La NATO e l'UE possono e devono giocare ruoli di rafforzamento in modo complementare e reciproco".


La NATO ha anche acquisito un nuovo partner in Eurasia, uno con il territorio più grande del mondo, che si estende dal Baltico e il Mar Nero fino al Pacifico: la Russia. Il soggetto di un altro articolo.

Rick Rozoff
Fonte: http://rickrozoff.wordpress.com
Link: http://rickrozoff.wordpress.com/2010/11/22/lisbon-summit-nato-proclaims-itself-global-military-force/
22.11.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cuar di ETTORE MARIO BERNI

1) North Atlantic Treaty Organization Lisbon Summit Declaration http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68828.htm?mode=pressrelease

2) Strategic Concept For the Defence and Security of The Members of the North Atlantic Treaty Organisation http://www.nato.int/lisbon2010/strategic-concept-2010-eng.pdf

3) Thousand Deadly Threats: Third Millennium NATO, Western Businesses Collude On New Global Doctrine Stop NATO, October 2, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/02/thousand-deadly-threats-third-millennium-nato-western-businesses-collude-on-new-global-doctrine

4) Berlin Wall: From Europe Whole And Free To New World Order Stop NATO, November 9, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/11/09/berlin-wall-from-europe-whole-and-free-to-new-world-order

5) Russian Information Agency Novosti, November 18, 2010

6) NATO In Persian Gulf: From Third World War To Istanbul Stop NATO, February 6, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/nato-in-persian-gulf-from-third-world-war-to-istanbul

7) Iraq: NATO Assists In Building New Middle East Proxy Army Stop NATO, August 13, 2010 http://rickrozoff.wordpress.com/2010/08/14/iraq-nato-assists-in-building-new-middle-east-proxy-army

8) North Atlantic Treaty Organization Allied Command Operations http://www.aco.nato.int/page349011837.aspx

9) North Atlantic Treaty Organization The NATO Response Force http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49755.htm

10) EU, NATO, US: 21st Century Alliance For Global Domination Stop NATO, February 19, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/eu-nato-us-21st-century-alliance-for-global-domination

11) EUobserver, November 21, 2010

Mistral gagnant

Mistral gagnant

Par Alexandre Latsa*

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Lorsque la Russie a rendu public son souhait d’acquisition de Bâtiments de Projection et de Commandement (BPC) Mistral, la France a répondu par l’affirmative. Rapidement pourtant, des voix se sont élevées, exprimant des réticences à cette transaction. Ces réticences émanaient d’États impliqués dans des contentieux plus ou moins importants avec la Russie (Géorgie, États Baltes) et qui craignaient un risque de déséquilibre de la sécurité régionale, crainte accrue par le conflit d’août 2008 dans le Caucase.

Pourtant il semble irréaliste d’imaginer que la Russie de 2010 ait des intentions agressives envers un pays européen et ces réticences ont été interprétées comme une possible crispation de Washington, embarrassé par une acquisition de matériel aussi sensible. Mais le cadre est sans doute plus large et concerne l’évolution des rapports de force sur les mers, et l’affaiblissement de la domination militaire et maritime américaine, acquise durant la guerre froide. Pour mieux cerner la situation, il convient de comprendre l’utilité des Mistral et regarder dans quel contexte global la Russie souhaite cette acquisition.

Les BPC sont des outils de projection, permettant de réaliser depuis la mer des opérations terrestres. Multi-fonctionnels, ils peuvent servir au débarquement de troupes, à la lutte contre la piraterie maritime ou encore à des actions humanitaires. Le Mistral, qui appartient à cette classe BPC, peut transporter jusqu’à 1200 hommes, 16 hélicoptères, jusqu’à 120 véhicules (dont des blindés), deux aéroglisseurs et des navettes de débarquement.

Le navire comprend en outre des canons, des batteries de missiles, des installations médicales, et un centre de commandement. La forte capacité de projection et de déplacement sur des théâtres d’opérations lointains que permet ce BPC est essentielle pour la Russie qui ne possède plus à ce jour de matériel équivalent, depuis le retrait des navires de type Rogov, au début de la décennie.

 

Durant la guerre froide, l’URSS ainsi que les régimes non alignés rechignaient à l’acquisition de porte-avions et porte-aéronefs, guidés par un non interventionnisme et un anti-impérialisme dogmatique, lorsque ce n’était pas pour des contraintes matérielles. Dès la fin de la guerre froide, le monde a connu une décennie de domination militaire américaine totale, acquise justement par cette capacité de déplacement et projection de forces militaires à l’autre bout de la planète. 20 ans plus tard, l’émergence de puissances régionales contribue à entraîner la planète vers un multilatéralisme qui fait que désormais de nombreux pays ont  des ambitions de présence sur les océans du globe.

Hormis les traditionnelles flottes Occidentales, la Russie, la Chine, le Brésil, la Corée du sud, la Turquie ou le Japon souhaitent se doter de porte-avions ou porte-hélicoptères, ce qui devrait permettre à tous ces États une réelle capacité d’intervention à l’autre bout du monde au milieu du siècle. La Russie via l’amiral Vladimir Vysotsky avait montré  son intérêt pour les BPC français lors du salon Euronaval de 2008, expliquant que la Russie se préparait à construire une flotte de porte-avions, prévue pour être opérationnelle vers 2060.

Le barrage des réticences diplomatiques contourné, et les « resets » entre la Russie, l’Amérique, et l’OTAN confirmés, l’année franco-russe tombait à point. Vladimir Poutine, en confirmant dès le milieu de l’année, lors d’une visite à Paris, que Moscou ne fournirait pas de missiles S-300 à l’Iran après le vote de sanctions par l’ONU, avait en outre réglé cette épineuse question.  Les différends entre les parties au contrat portaient sur deux points : les technologies afférentes, et le lieu de fabrication. La France souhaitait une vente sans technologie de pointe et qu’au moins deux bateaux soient fabriqués en France. La Russie, elle, conditionnait l’achat aux technologies liées et souhaitait acheter un seul navire, et faire construire les trois autres en Russie.

Si l’on semble plutôt se diriger vers la formule française pour la fabrication, le premier bateau devrait être livré avec la technologie de pointe liée, et notamment les dispositifs de calcul de conduite des opérations aériennes, essentiels pour le développement ultérieur des porte-avions. Récemment, Vera Chistova, vice-ministre de la Défense pour les moyens économiques et financiers, a confirmé que les dépenses pour l’achat ont été pré-intégrées aux budgets russes des trois prochaines années.

Côté français, Le directeur de la DCNS (fabricant militaire du Mistral) Pierre Legros, a lui indiqué que ces navires disposeraient des mêmes équipements que ceux de la marine française et que les seules différences seraient un pont d’envol renforcé pour accueillir les hélicoptères russes et une coque plus résistante pour pouvoir naviguer dans des eaux glacées. Quand au PDG de l’association des chantiers où devrait être fabriqué le Mistral, il a affirmé que le premier navire pourrait être construit fin 2013 et le deuxième en 2015. Les chantiers navals russes devant être en mesure de construire seuls les autres bâtiments dès l’année 2016.

Il est donc plausible, et souhaitable, que l’année franco-russe se termine par un accord commercial et politique majeur.  Pour le président français l’enjeu est de taille, sur un plan financier, le prix d’un bateau avoisinant les 500 millions d’euros, mais également sur un plan politique, afin de prouver que la ré-intégration de l’OTAN en 2009 n’a pas ôté toute souveraineté à la France. Du côté russe, l’acquisition est importante d’un point de vue militaire, mais aussi sur le plan géopolitique, la Russie se donnant ainsi pleinement les moyens d’atteindre l’objectif de la politique entamée en mars 2000 : rester une puissance de premier plan.

* Alexandre Latsa, 33 ans, est un blogueur français qui vit en Russie. Diplômé en langue slave, il anime le blog DISSONANCE, destiné à donner un « autre regard sur la Russie« .

Ria Novosti

La guerre des empires selon F. Lenglet

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La guerre des empires (F. Lenglet)

 

Pour François Lenglet (FL), la « guerre des empires » est inéluctable. L’hypothèse d’une alliance structurelle USA-Chine est, à ses yeux, une « bulle géopolitique » qui finira par exploser, et sans doute assez vite. Nous sommes d’accord, même si (on le verra plus loin), nous marquons quelques fortes divergences avec l’analyse de l’auteur, à notre avis trop pro-US.

La thèse, dans les  grandes lignes :

FL établit un parallèle inquiétant entre le rapport actuel Washington-Pékin et le rapport Londres-Berlin en 1899. Deux économies interdépendantes, l’une ayant longtemps été en avance sur l’autre, plus puissante et plus avancée. Puis, progressivement, l’économie «  à la remorque » se renforce, et finit par battre son alliée à son propre jeu. Dès lors, l’alliance n’est plus possible, parce qu’on ne sait plus qui est le maître de qui. La rivalité commence.

 

Les arguments qu’on oppose à ce parallèle ne satisfont par FL.

La Chine, se démocratiser ? Pur occidentalo-centrisme. Pour qui voit les choses du point de vue chinois, quel est le meilleur régime politique : une démocratie occidentale corrompue, dévorée par le cancer financier, virtualisée par le marketing tout puissant, ou un régime pékinois autoritaire, mais qui garantit à son peuple le doublement du PIB tous les sept ans ? A part le droit de vote, dont ils ne sauraient sans doute pas quoi faire, les Chinois n’ont rien à gagner à se « démocratiser », si la « démocratie » veut dire, concrètement, le règne de Goldman Sachs.

La Chine, puissance pacifique qui ne s’intéresse qu’à elle-même ? Niaiserie. Il existe un très fort ressentiment chinois. Pour Pékin, les guerres de l’opium et le « siècle de l’humiliation », qui suivit, jouent un peu le rôle du traité de Versailles dans l’Allemagne de Weimar : une honte, et surtout, une injustice. Les occidentaux ont souvent tendance à croire que leur suprématie mondiale de ces deux derniers siècles traduit un ordre des choses quasi-essentialisable. Illusion : c’est oublier qu’à l’échelle du temps long, le pays le plus développé et le plus puissant du monde a été, le plus souvent, la Chine. Et de cela, les Chinois, eux, se souviennent parfaitement.

Alors, USA, Chine : un fauteuil pour deux ?

Première question : comment en est-on arrivé là ?

FL commence par rappeler l’histoire des relations américano-chinoises. La visite de Nixon, en 1972, a été le coup d’envoi d’un partenariat USA/Chine qui, pour ne pas avoir été sans nuages, s’est bon an mal an maintenu pendant quatre décennies.

Au départ, pour les  USA, il s’agit surtout de contrer l’URSS. Exemple, l’opération Chestnut, lancée en 1979, permet aux Américains d’implanter une station d’écoute ultra-perfectionnée dans le désert occidental chinois. Pour écouter qui ? Les soviétiques, sur le point d’entrer en Afghanistan (où la CIA s’active, afin précisément d’attirer Moscou dans le piège). Face à l’enjeu représenté par le soutien chinois contre l’URSS, l’amitié avec Taiwan ne pèse pas lourd, aux yeux des conservateurs réalistes (Kissinger, puis Brzezinski).

Pour la Chine, dès le départ, l’alliance aigre-douce avec les USA est surtout une affaire économique  Pékin n’a pas vraiment besoin des investissements occidentaux (la Chine n’a jamais manqué de capital, parce qu’avec un coût du travail quasi-nul, on n’a pas besoin de capitaux importants pour produire – le travail, au besoin, fabrique le capital productif). Mais la Chine a en revanche désespérément besoin des technologies occidentales.

Dans les années 80, Deng lance donc la modernisation à marche forcée de l’économie chinoise, et pour récupérer de la technologie sans permettre l’implantation en profondeur des USA, il invente une solution aussi simple que redoutable : les « zones économiques spéciales », sorte de Far West chinois ultra-capitaliste, qui va servir de filtre (la technologie occidentale passe, mais, le pouvoir restant aux Chinois dans les joint-ventures, l’influence est bloquée). Les firmes américaines, qui pensent leur planification à beaucoup moins long terme que Pékin, vont se laisser attirer dans le piège, fascinées qu’elles sont par le gigantesque marché chinois. Un marché de dupe, où la dupe n’est pas celui qu’on croit : les capitalistes occidentaux sont persuadés qu’ils viennent de gagner la guerre contre leurs propres peuples (en mettant en concurrence le salarié occidental et l’esclave chinois) ; c’est vrai, mais ils ont aussi, sans le savoir, perdu la guerre à l’échelle géopolitique, contre une oligarchie rivale…

Quoi qu’il en soit sur le long terme, au fil des années 80-90, une sorte de symbiose s’instaure progressivement entre les deux géants. Pékin offre aux firmes US sa main d’œuvre quasiment illimitée, très bon marché et remarquablement docile. Les Américains, en retour, offrent la technologie, le savoir-faire, et un appui massif à la Chine pour son intégration dans l’économie mondiale (clause de la nation la plus favorisée, puis OMC).

Mais cette symbiose n’a jamais été sans ambiguïté et nuages. Dès 1982, les Chinois se sont rendu compte que, contrairement aux accords passés, la CIA construisait des réseaux sur leur sol (plus tard, cela débouchera sur la secte Falun Gong). Aussitôt, exploitant la diaspora, profitant de l’envoi aux USA de dizaines puis de centaines de milliers d’étudiants, ils bâtissent leurs propres réseaux (les services secrets chinois sont potentiellement plus puissants que la CIA elle-même – nous y reviendrons dans une note de lecture ultérieure).

Surtout, le mode de développement choisi par Pékin présente un inconvénient pour la population : une génération entière est sacrifiée. Le PIB chinois présente en effet, à partir de la fin des années 80, une structure tout à fait atypique : exportations gigantesques (jusqu’à 35 % certaines années, soit un taux d’extraversion absurde pour une économie de cette taille), investissement fabuleux (jusqu’à 50 % certaines années, un taux qui ferait presque passer le décollage japonais pour une entreprise au rabais !)… et, donc, obligatoirement, une part du PIB réservée à la consommation très faible (certaines années, à peine 20 %).

L’avantage de cette formule, évidemment, c’est que le développement des capacités productives se fait à une vitesse foudroyante. Si vous investissez 50 % de votre PIB, étant donné que dans les conditions chinoises, 5 points d’investissement rapportent à peu près 1 point de capacité productive, vous faîtes croître vos capacités de production de 10 % par an (ce que feront les Chinois pendant trente ans). Mais si en plus, vous exportez 30/35 % de votre PIB (pour accumuler des réserves de change et acheter, en réalité, de la technologie), il vous reste peu pour la consommation. Conséquence : les salaires versés aux ouvriers qui produisent pour l’investissement ou l’exportation n’ont pas de contrepartie dans le marché intérieur, et le risque de surchauffe inflationniste est permanent. La Chine pourrait en sortir en remplaçant les exportations par le marché intérieur, mais comme Pékin veut absolument acheter de la technologie (et de l’influence), le choix sera maintenu durablement en faveur de ce modèle qu’on pourrait qualifier de « stakhanovisme à l’échelle d’un pays-continent ».

Comme le rappelle FL, le « printemps de Pékin » en 1989 fut donc beaucoup plus une demande de remise en cause de ce modèle (moins d’exportation, plus de consommation) qu’une revendication démocratique (même si, peut-être du fait de l’existence de réseaux CIA, les étudiants pékinois mirent en avant la revendication politique stricto sensu). Et donc, la boucherie de Tian Anmen ne signifiait pas que le « communisme » était maintenu, mais plus simplement que la Chine, pour ne pas avoir à tolérer l’influence occidentale (en échange des technologies) continuerait à acheter du savoir-faire en exportant à tout va – au prix de sa « génération sacrifiée ».

Ce message, d’ailleurs, fut reçu en Occident : pour la galerie, Bush père prit quelques sanctions peu durables ; mais en arrière-plan, le très puissant lobby patronal US-China Business Council a parfaitement décodé Tian Anmen : pour lui, cela veut dire, tout simplement, que la Chine va poursuivre son développement en sacrifiant une génération, et qu’il y a donc beaucoup, beaucoup d’argent à gagner dans les « zones économiques spéciales ». De fait, ce qui s’est décidé à Tian Anmen, c’est donc une alliance objective entre l’oligarchie postcommuniste chinoise et l’oligarchie néolibérale US – alliance dont les consommateurs surendettés américains et les ouvriers surexploités chinois vont faire les frais (une analyse que, bien entendu, FL s’abstient de formuler aussi brutalement – ici, c’est nous qui décodons).

Les années 1990-2008 voient le triomphe de la « Chinamérique ». Les flux commerciaux croissent vertigineusement, au rythme de la bulle financière occidentale et de l’économie productive asiatique. Il en découle une période de forte croissance apparemment globale, en réalité purement chinoise ; l’Amérique réelle est en train d’imploser – même si, au départ, personne n’accepte de le voir.

Ici, FL propose une analyse qui, à notre humble avis, fait la part trop belle aux élites occidentales. Pour lui, les dirigeants du capitalisme occidental auraient toléré la dévaluation de 50 % du Yuan en 1994 parce qu’ils souhaitaient maintenir coûte que coûte les liens avec la Chine (et non, comme nous le pensons, parce qu’ils y voyaient un moyen d’intensifier la guerre de classes en Occident même). Idem, FL estime que lorsque les taux longs US n’ont pas immédiatement suivi la remontée des taux courts en 2005, les dirigeants US n’ont pas compris que cela venait des achats chinois de bons du trésor US (sans rire ?). Et il ajoute que la crise des subprimes trouve son origine dans le dérèglement du marché des taux par les achats chinois à partir de cette date, ce qui est tout simplement faux (l’explosion du marché des subprimes est antérieur de trois ans au décrochage des taux longs, il remonte à 2001/2002, et il trouve son origine dans les taux directeurs bas de la FED – lire à ce sujet « Crise ou coup d’Etat ? »).
Bref, l’analyse de FL fait à notre avis la part un peu trop belle au discours officiel US ; nous croyons quant à nous que les USA ont accepté le Yuan comme monnaie de guerre chinoise parce que cette monnaie de guerre était, aussi, celle de leur propre guerre, contre leurs propres peuples, en vue d’un ajustement brutal de la structure de classe.

Quoi qu’il en soit, le double marché de dupes s’est maintenu pendant deux décennies, de 1990 à 2008. Ni l’incident de 1994 (bâtiment chinois intercepté car soupçonné de livrer des armes chimiques à l’Iran), ni celui de 1999 (bombardement « par erreur » de l’ambassade de Chine à Belgrade lors de l’opération US/Otan pour le Kosovo) n’ont remis en cause les dynamiques commerciales formidables enclenchées par la « Chinamérique »…

Jusqu’au moment où ces dynamiques ont produit ce qu’elles devaient produire : le basculement du centre de gravité du capitalisme global. Voilà comment nous en sommes arrivés où nous sommes aujourd’hui.

Deuxième question : et où va-t-on, après ?

Fondamentalement, le heurt va opposer deux puissances qui sont, et l’une, et l’autre, des empires. Il ne faut pas ici tomber dans le simplisme : il n’y a pas d’un côté une puissance malsaine, de l’autre une puissance saine. Il y a deux systèmes de pouvoirs immenses, l’un sur le déclin (donc plus prédateur à court terme), l’autre en expansion (donc n’ayant pas besoin d’être prédateur à court terme), mais aussi brutaux l’un que l’autre.

Oui, oui, on sait, l’Amérique est « démocratique », pas la Chine – mais allez donc poser la question à Bagdad, vous allez voir… Et oui, oui, on sait, la Chine n’a pas attaqué de pays récemment – mais allez poser la question de son « émergence pacifique » aux millions d’esclaves qui triment dans ses usines, et là aussi, vous verrez…

FL nous apprend qu’en 1999, deux colonels de l’armée chinoise inventent le concept de « guerre hors limite », notion pratiquement identique au concept US du « Fourth Generation Warfare » : la guerre qui se déploie sur tous les fronts, en impliquant tous les aspects de la vie politique, économique et culturelle, parce que la confrontation directe, par l’armement, est devenue impensable (trop grande puissance de destruction). Et quand les USA inventent la « lutte contre le terrorisme » pour justifier leur impérialisme, la Chine conçoit la théorie de « l’émergence pacifique » pour désamorcer les critiques que son offensive économique tous azimuts pourraient susciter.

Chine et USA jouent chacun avec leurs atouts propres, mais en réalité, ils jouent sur le même échiquier, et avec des logiques de puissance précontraintes par la nature même de leur affrontement. Les Chinois font semblant de ne pas avoir de prétention à la domination globale (sauf quand il s’agit de mettre la main sur le pétrole du Soudan et du Tchad – alors là, on y va franchement, soutien militaire inclus), et les Américains font semblant de coopérer sans arrière-pensée (sauf quand une firme chinoise veut s’emparer d’Unocal – alors là, pas touche, il y va du contrôle US sur le pétrole d’Asie centrale…).

A ce petit jeu, la puissance montante part a priori gagnante. Plus grand marché du monde, Pékin va progressivement supplanter les USA comme le pays qui définit les normes (une des sources de la puissance US au XX° siècle). Ayant désormais refait l’essentiel de son retard technologique, la Chine n’a plus vraiment besoin des USA ; ce qu’elle achetait jusqu’ici à l’Ouest, c’était de la technologie ; mais désormais, la technologie, elle peut dans une large mesure la produire elle-même.

Plus structurant peut-être, le modèle de « socialisme de marché » inventé par Pékin (l’Etat possède en réalité l’outil de production, mais tolère l’enrichissement du management) semble, à ce stade, mieux fonctionner qu’un modèle US néolibéral en chute libre. Comme le rappelle FL, depuis 30 ans, la Chine fait exactement le contraire de ce qui est préconisé par le FMI – et le moins qu’on puisse dire, c’est qu’elle s’en sort mieux que ceux qui ont obéi au « consensus de Washington ».

Privatiser l’économie, dit le FMI. Restructurer les entreprises d’Etat, répond Pékin. Libéraliser le compte de capital du pays, dit le FMI. Contrôle des changes, répond Pékin. Banque centrale indépendante, dit le FMI. Contrôle politique sur le crédit, répond Pékin.

Jusque dans la gestion de la crise financière, Pékin donne une leçon de pragmatisme et d’efficacité à l’Occident : sauver les banques, dit l’Occident ; relancer par l’économie productive, répond Pékin (l’UE sauve les créanciers de la Grèce, la Chine investit dans ses usines…).

En somme, pour FL, ce qui vient de se passer, en 2008, c’est une rupture d’environnement géostratégique : ce n’est pas la chute du capitalisme, non. C’est la chute du capitalisme occidental néolibéral. Un mur vient de tomber : celui que l’Occident avait érigé autour de son pouvoir global. La chute de ce mur-là joue, pour les Chinois, le rôle joué par la chute du Mur de Berlin pour les Occidentaux : l’annonce qu’on vient de gagner une guerre « de quatrième génération ». Nous ne dirons pas le contraire. Lire à ce sujet « Crise économique ou crise du sens ? ».

Conséquence  de cette rupture géostratégique : la « Chinamérique » va exploser.

Ici, deux théories s’opposent : le « découplage » (la Chine poursuivra sa croissance sans la « Chinamérique ») et la crise globale (les USA entraîneront la Chine dans leur faillite, car Pékin ne pourra pas maintenir sa croissance folle une fois la « Chinamérique » disparue).

Sur ce point précis, nous marquons un désaccord avec l’auteur de « La guerre des empires ».
FL prend position pour la crise globale, donc contre le « découplage ». Il invoque pour cela les premières conséquences de la crise, qui aura entraîné un effondrement des exportations chinoises (voir « Crise ou coup d’Etat ? »). La croissance chinoise réelle passe sensiblement sous le seuil des 8 % annuels (nécessaire pour éviter la hausse du chômage, dans un pays qui voit un gigantesque exode rural interne).
Pour notre part, nous doutons de la viabilité de cette analyse. Que dans un premier temps, la Chine subisse un ralentissement de croissance est évident, logique. Mais nous estimons que le marché intérieur chinois pourrait très rapidement prendre la relève des exportations ; encore une fois, ce qui explique la croissance chinoise, c’est un taux d’investissement énorme et des débouchés solvables (l’exportation) ; si les exportations calent, il reste le développement du marché intérieur, et rien n’empêche Pékin de le lancer, à présent, puisque l’acquisition des technologies est en passe d’être achevée (donc plus besoin des exportations pour financer l’acquisition de technologie), et les ressources financières existent (taux d’épargne élevé, réserves de change énorme : marché solvable).
Peut-être la crise US arrive-t-elle quelques années trop tôt pour la Chine ; mais à moyen terme, à notre avis, sauf problème écologique ou énergétique, on ne voit pas ce qui empêcherait la Chine de se développer par l’investissement et la consommation (lire, à ce sujet, « Crise économique ou crise du sens ? »).
Le fond du désaccord : FL pense que la relance chinoise par l’investissement va enclencher un cycle inflationniste ; à notre avis, il oublie que si la Chine développe son marché intérieur au lieu d’exporter, le risque social lié à la surchauffe va beaucoup baisser (puisque les salaires augmenteront avec l’inflation, laquelle sera contenue par un afflux de produits enfin destinés au marché intérieur). FL pense que la dette chinoise est trop importante pour développer le marché intérieur : à notre avis, il oublie qu’une dette totale (tous acteurs confondus) à 200 % du PIB (son estimation, à notre avis maximaliste) n’est pas insurmontable, si le taux d’épargne est élevé (il l’est en Chine) et, surtout, si la croissance permet de couvrir les intérêts (à ce stade, elle le permet). En outre, il ne faut pas négliger que les flux du commerce international peuvent très bien rebondir via les pays émergents entre eux (c’est d’ailleurs ce qui se passe depuis un an).
Bref, comme FL, nous croyons effectivement que la crise marque la fin d’un système : la mondialisation néolibérale occidentalo-centrée ; mais à la différence de cet auteur, nous estimons que la théorie du « découplage » est tout sauf absurde. Il ne s’agit pas de nier que la Chine va éprouver des difficultés (on ne reconvertit pas sans casse une industrie bâtie pour l’export), mais simplement d’estimer, tout bien considéré, que Pékin a de fortes chances de surmonter ces difficultés. Encore une fois, avec 10 % de croissance et un fort taux d’épargne, on couvre les intérêts d’une dette totale, tous acteurs confondus, à 200 % du PIB (situation chinoise). Alors qu’avec une croissance faible (2, 3 %), voire nulle, et une épargne anéantie, on ne couvre pas une dette totale (tous acteurs confondus) qui doit maintenant dépasser largement 300 % du PIB (situation US).
Donc, disons-nous, la Chine va souffrir – mais elle passera le cap (ce qui ne sera pas le cas des USA).
L’avenir dira qui avait raison…

FL est en revanche tout à fait intéressant quand il nous renseigne sur les premières étapes de l’explosion de la « Chinamérique ».

Du côté américain, deux tendances s’affrontent. Les « gentils garçons » veulent la paix avec la Chine (on les appelle les « panda huggers », les « embrasseurs de panda ») ; Obama, a priori, appartient à cette école « mondialisation avant tout » (son demi-frère est d’ailleurs marié à une chinoise), tout comme une bonne partie de son administration. Mais une autre tendance, qui prime au Congrès, « America first » en quelque sorte, veut la confrontation. Arme envisagée : le protectionnisme (enfin, on y vient) – la campagne de presse en cours aux USA sur la sécurité des biens fabriqués en Chine, ou encore les tentatives du Congrès pour faire accuser la Chine de manipulation monétaire, traduisent d’ailleurs une volonté de faire sentir aux Chinois que les « panda huggers » ne sont pas forcément les seuls à décider, à Washington.

On ne s’étonnera pas ici que l’administration Obama (financement : Soros donc Rothschild ; conseil stratégique : Brzezinski dont Rockefeller) soit « panda hugger » (finir de gagner la guerre de classes), tandis que le Congrès (soumis au vote de l’Amérique profonde et en partie financé par l’industrie US) soit nettement plus hard avec la Chine (préserver la puissance US)…

Du côté chinois, on prend progressivement conscience de sa puissance, et on teste le rival, à petites touches. Remise en cause du dollar comme monnaie de réserve mondiale (discours de Zhou Xiaochuan, gouverneur de la banque centrale chinoise). Pesée au sein du FMI en faveur d’une monnaie de réserve mondiale constituée d’un panier de monnaie. Accords avec des pays asiatiques qui officialisent le rôle de monnaie internationale régionale du Yuan.

Ce qu’il faut bien comprendre, en tout cas (et là-dessus, FL est très clair), c’est que le discours officiel sur la Chine « manipulatrice de monnaie » est surtout rhétorique. En réalité, les USA souhaitent d’un côté la réévaluation du Yuan (pour regagner des parts de marché), et la redoutent d’un autre côté (si le Yuan est réévalué, la puissance financière de Pékin, déjà considérable, deviendrait peut-être suffisante pour que la Chine remplace les USA comme première puissance monétaire du monde – ce qui lui permettrait de racheter les entreprises un peu partout, y compris en Occident).

En fait, Chine et USA sont, l’un comme l’autre, enfermés dans une manipulation commune qu’ils ont tolérée pour des raisons symétriques, et dont ils ne savent plus comment sortir.

Le problème, c’est qu’en sortant de cette manipulation commune, les USA et la Chine vont s’apercevoir qu’une fois le Yuan et le dollar convertibles, il n’y aura qu’un seul gagnant. Une des deux puissances va se trouver en situation de modeler l’économie mondiale – et il n’est pas du tout certain que ce soit les USA.

Conclusion de FL : tous les ingrédients sont réunis pour une nouvelle guerre planétaire – la quatrième (après les deux guerres mondiales et la guerre froide).

Troisième et dernière question : puisque ce qui vient, c’est une guerre, à quoi ressemblera cette guerre ?

Réponse : la « guerre sans limite », pour parler chinois, ou encore la « guerre de quatrième génération », pour parler US.

La guerre des mers : la Chine est en train  de construire une flotte capable de rivaliser avec l’US Navy. C’est logique : puisque les Chinois mettent la main sur les matières premières partout où ils peuvent, avec leurs réserves  de devise, ils veulent aussi pouvoir sécuriser les routes maritimes vers ces matières premières.

C’est aussi une mesure défensive : pour Pékin (que FL juge paranoïaque et que nous estimons simplement prudente), la Mer de Chine est un poste avancé. Surtout qu’il y a, au large, une bombe diplomatique prête à exploser : Taiwan, qui, en déclarant officiellement son indépendance, pourrait provoquer une intervention chinoise.

La Chine peut-elle rivaliser à termes avec la puissance militaire US ? Réponse : oui. Officiellement, Pékin dépense 10 fois moins que Washington en dépenses militaires (60 milliards de dollars contre 600 milliards). Mais la réalité serait, d’après FL, toute autre. Le chiffre réel des dépenses chinoises serait probablement du double du chiffre avoué, et comme les salaires chinois sont beaucoup plus faibles que les salaires US, on peut considérer que les 60 milliards officiels équivalent à 120 milliards réels au taux de change courant, et à 250 milliards à parité de pouvoir d’achat. Pékin dépenserait donc à peu près 40 % de ce que dépense Washington – et, en outre, n’ayant pas à financer d’expéditions coûteuses en Irak et en Afghanistan, ses dépenses d’équipement ne sont pas rognées par les dépenses de fonctionnement.

Au final, il semble peu probable que Pékin puisse jamais se donner les moyens de gagner une guerre conventionnelle contre les USA. Mais il est probable, en revanche, qu’elle puisse interdire à l’Amérique de considérer possible une victoire dans ce domaine.

Ce qui reportera le conflit vers d’autres théâtres d’opération, extérieurs à la sphère militaire…

La guerre du cyberespace : ils ont l’air malin, ceux qui annonçaient que l’Occident pouvait abandonner sans remord l’économie physique, puisqu’il allait gagner l’économie de la connaissance !

La Chine possède désormais le supercalculateur le plus puissant du monde. Elle possède aussi des entreprises performantes dans le secteur des télécoms. Elle compte 400 millions d’internautes. Elle forme chaque année des centaines de milliers d’ingénieurs dans les technologies de l’information. Le quart des tentatives de piratage observées dans le monde proviendrait de Chine. Le moteur de recherche Baidu domine Google en Chine même, tandis que les encyclopédies en ligne Baidu Baike et Hudong, contrôlée par le gouvernement chinois, n’ont même pas de concurrent (wikipedia est bloquée).

La Chine n’a pas le contrôle d’Internet, mais celui de son Internet. La Chine se met en situation de gagner, en tout cas sur son sol, la « guerre de l’information ». L’opération « faux SMS » conduite semble-t-il par la CIA en Iran, après la réélection d’Ahmadinedjad, n’est tout simplement pas « jouable » en Chine.

La guerre de l’or noir : la Chine n’a pas de pétrole. Pendant longtemps, ça ne l’a pas empêchée de dédaigner la grande stratégie globale : elle n’avait besoin du pétrole, n’ayant pas d’industrie. Cette période est révolue : la Chine va désormais se projeter à l’extérieur, contrairement à sa longue tradition, pour le pétrole (et d’autres matières premières).

Au total, et sur ces opérations récentes, la Chine s’est assurée l’exploitation de 8 milliards de barils hors de ses frontières (environ quatre ans de sa consommation au rythme actuel). Il est à noter que 30 % de cette manne vient d’Afrique… et 30 % d’Iran (où un seul champ représente 2,5 milliards de barils). Où l’on comprend pourquoi « l’axe du Mal » associe le Soudan et l’Iran…

En 2008, les investissements chinois à l’étranger ont dépassé 50 milliards de dollars, soit plus que les investissements étrangers en Chine. L’essentiel de cet effort porte sur les matières premières et les hydrocarbures.

La guerre du capital : la Chine n’a pas de pétrole, mais elle a tellement de devises qu’elle peut se permettre d’acheter bien d’autres choses encore.

On a récemment fait remarquer que l’évaluation de l’investissement nécessaire pour remettre en état l’ensemble du parc d’infrastructures des Etats-Unis (totalement délabré après 30 ans de néolibéralisme) correspond approximativement au montant des réserves de change chinoises. Ou pour le dire autrement (et cela donne une idée du raid financier qui se prépare potentiellement), les USA pourraient rembourser 20 ans de consommation de produits chinois à bas prix en vendant à la Chine… leurs ports, leurs routes, leurs aéroports, leurs ponts et leurs chemins de fer ! (où l’on comprend, encore une fois, que la réévaluation du Yuan est à la fois souhaitée et redoutée par Washington).

On n’en est pas là. Mais ça commence. Savez-vous que Volvo est, depuis quelques mois, une entreprise chinoise ? Et que si EDF s’est désengagée de l’électricité britannique, c’est parce que son concurrent chinois alignait les zéros ?

La guerre des modèles : le déluge d’argent chinois qui peut à tout moment fondre sur les entreprises occidentales va imposer au capital une révision drastique de son discours dominant (antiprotectionniste jusqu’ici). Ce n’est pas tant qu’il s’agisse de défendre le marché intérieur (les capitalistes occidentaux ne s’en préoccupent pas vraiment, ils pensent global avant tout) ; c’est qu’il va falloir défendre le contrôle exercé sur les entreprises par les institutions financières occidentales.

Cette défense va réhabiliter l’idée de compétition entre deux modèles. Non plus « la démocratie de marché » contre « l’économie dirigée par le Parti Unique », mais le néolibéralisme US contre le néo-colbertisme chinois. Or, dans cette guerre, il n’est pas certain que le modèle occidental prédomine. Si l’Amérique s’est longtemps imposée, rappelle FL, c’est parce qu’elle faisait rêver. Mais aujourd’hui, c’est la croissance chinoise qui fait rêver (en tout cas les peuples pauvres).

La Chine a d’ailleurs commencé cette guerre. Elle forme les élites des pays émergents. Il y a des milliers d’étudiants africains à Pékin. Partout, la Chine propose aux peuples longtemps dominés par l’Occident un modèle de rechange (lire la note de lecture sur « La Chinafrique »)… et cela ne se limite pas aux fonctions techniques ou d’encadrement intermédiaire : le directeur d’HEC s’est récemment étonné de la capacité des Chinois à rattraper leur retard dans la formation des gestionnaires !

La guerre culturelle : verrons-nous un jour un cinéma français proposer non plus trois films US (très bien faits) et un film français  (minable), mais trois films chinois (très bien faits) et un film français (toujours aussi minable) ? Pas impossible, même si c’est peut-être le seul terrain où les USA dominent encore …

Le mandarin va-t-il remplacer l’anglais comme langue la plus usitée  sur Internet ? Qui a répondu : jamais ? – perdu, c’est déjà le cas.

Pékin est pragmatique : pour développer l’apprentissage du chinois, le pouvoir chinois a copié rigoureusement le système des « alliances françaises », avec les « instituts Confucius » (60 dans le monde). En 2010, 30 millions de courageux ont entrepris l’apprentissage du Chinois (simplifié, tout de même – sinon, c’est dix ans d’études à raison de 4.000 idéogrammes par an).

Nous ne nous rendons pas compte de cet effort culturel, parce qu’il porte prioritairement sur la périphérie de l’Empire chinois. Pour l’instant, ce que veulent les dirigeants de Pékin, c’est réaffirmer leur prédominance culturelle sur les anciens Etats tributaires du système mandarinal.

Mais demain ?...

La guerre monétaire : Ce sera le terrain décisif. L’équation est simple : tant que le Yuan n’est pas réévalué, le dollar reste monnaie de réserve, mais l’Amérique implose. Le jour où le Yuan est réévalué, et où il devient convertible, il y aura deux monnaies de réserve possibles pour le monde (trois si l’euro existe encore, ce dont beaucoup doutent ici).

On en est peut-être très proche : voici un véritable symbole, la firme Mc Donald vient d’annoncer qu’elle s’endetterait en Yuans pour financer son implantation en Chine…

Le jour où le Yuan sera réévalué et convertible, on verra se produire un évènement décisif : les USA seront obligés soit d’emprunter en Yuan, ou, s’ils le font encore en dollars, de rembourser avec des dollars stabilisés, appuyés sur des actifs réels.

Ce jour-là, estime FL, l’Empire thalassocratique anglo-saxon aura perdu la suprématie mondiale. Et la guerre pourra opposer deux camps, parce qu’il y aura deux camps.

On pourra alors vérifier, pour la centième fois dans l’Histoire, que l’interdépendance économique ne garantit pas la paix. Au contraire : elle crée des opportunités de guerre, parce qu’elle oblige à définir le sens de la dépendance.

 

dimanche, 28 novembre 2010

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

erdogan-davutoglu-hasa-hz_-peygamber-mi-1011101200_l.jpgOn peut reprocher, certes, beaucoup de choses aux dirigeants turcs mais on doit leur reconnaître une qualité. Ils se préoccupent avant tout, pour ne pas dire exclusivement, de l'idée qu'ils se font du destin de leur pays.

On l'a vu encore à la faveur des réunions de Lisbonne du 20 novembre. Beaucoup d'observateurs croient découvrir une dérive les éloignant quelque peu de la vieille alliance atlantique. Mais en fait plus on analyse leur action et plus on finit par en considérer le sérieux.

I. Quelques mots d'abord sur le pouvoir civil en Turquie

Il existe bien évidemment, des nuances, des débats et même des contradictions parmi les dirigeants politiques d'Ankara et au sein des élites d'Istanbul.

Les détenteurs du pouvoir politique civil actuel se situent dans la mouvance d'un courant islamique précis. Ne les confondons ni avec les terroristes qui ont ouvertement déclaré la guerre au monde occidental, ni même avec les rétrogrades "salafistes" rêvant de revenir au monde de ceux qu'ils appellent leurs pieux ancêtres. Ce courant d'idées a toujours voulu rénover, moderniser un pays, et ceci dès la fin de l'Empire ottoman. La doctrine remonte Saïd Nursi et aux "nourdjous" (1). Son réformisme s'oppose à celui des jeunes-turcs et à leurs continuateurs actuels qui brandissent le drapeau du kémalisme et de sa laïcité. Essentiellement croyant, il entend refaire de sa patrie une grande puissance en s'appuyant sur l'islam et en sortant celui-ci de son archaïsme. Il tentera de convaincre, l'un après l'autre, les maîtres du pouvoir, à commencer par le sultan. Il s'adresse à une nation fondamentalement différente des peuples du Proche-Orient, soumis aux sultans-califes de Constantinople à partir du XIVe siècle. Son espace de rêve va "de l'Adriatique [et c'est en cela qu'il met l'Europe en danger] à la Muraille de Chine". Il se reflète donc aujourd'hui dans le parti "AK" qui tient le gouvernement [Ergogan] et la présidence de la république [Abdullah Gül]. Son journal "Zaman" constitue la meilleure source de données sur le pays. est inspiré depuis des années par Fethullah Gülen. Plusieurs fois arrêté dans son pays natal pour ses activités anti-laïques, celui-ci est depuis 1999 installé aux États-Unis. Certes ce chef de file se prononce, par exemple, pour le dialogue interreligieux et contre le terrorisme.

Mais il faut la naïveté, et l'ignorance sans faille des responsables occidentaux, pour le définir comme "modéré". D'ailleurs, on se souviendra que naguère cette étiquette passe-partout servait déjà à désigner les Saoudiens, mesurés certes, mais seulement dans leur modération. Pour l'avenir comprenons avant tout que ce pouvoir agit et agira en toute circonstance pour réislamiser le pays à long terme, notamment par le biais de l'éducation.

II. Les Turcs participaient donc, comme tous les autres pays membres du pacte, à la réunion de l'Otan qui s'est tenu à Lisbonne le 20 novembre.

Le traité fondateur a été signé en 1949. Il tendait alors à répondre au "coup de Prague" opéré par les Soviétiques l'année précédente. Contemporain de l'écriture par Jules Monnerot de sa "Sociologie du communisme" (2), il souffre, – par rapport à cette analyse puissante, qui vaut aujourd'hui encore pour comprendre l'entreprise islamiste, – d'une bien plus forte obsolescence.

En particulier, on se réunissait entre alliés de l'OTAN, puis on rencontrait les dirigeants russes pour adopter le "nouveau concept stratégique" impulsé par la diplomatie des États-Unis.

Celle-ci s'accroche évidemment encore, sous l'impulsion de Hillary Clinton, à l'idée d'une "alliance avec les musulmans modérés". Soulignons à cet égard que cette doctrine a notamment permis le développement, avec le soutien américain, de l'Organisation de la conférence islamique, qui réclame depuis 1970 "la libération de Jérusalem" en vue de laquelle elle a été constituée. Ceci tend sans doute à une convergence politico-financière avec les émirs du pétrole. En revanche il ne semble pas besoin de poser au spécialiste de la politologie new-yorkaise pour saisir les forces qui s'y opposent. Elles exercent une influence plus notoire encore chez les élus du parti démocrate qu'au sein des républicains.

De nombreuses et grandes questions préoccupaient les intervenants.

Selon les pays, et selon les opinions, les médias ont pu mettre ainsi l'accent sur l'évolution du conflit en Afghanistan, sur le désir d'en sortir, sur l'intervention d'unités blindées sur le terrain de ce conflit, sur la lutte anti-terroriste en général, ou sur la mise en place d'un bouclier anti-missiles destiné à lutter contre le danger nucléaire des États-voyous, désignant la Corée du nord et l'Iran.

Dans ce contexte, comment ne pas comprendre le désir des principaux participants d'associer la Russie aux efforts de l'alliance occidentale. Malgré les difficultés des dernières années, certains voudraient tenir pour un simple contretemps l'intervention dommageable contre la Géorgie et les pressions de Moscou sur ce qu'on y appelle "l'étranger proche". Ce rapprochement fait partie des évolutions incontournables à [plus ou moins long] terme.

III. Les réserves turques

On ne trouve cependant jamais de si bonne ambiance qu'on ne puisse gâcher. Cette roborative constatation du regretté Witold Gombrowicz répond à l'affirmation un peu utopique chère au ministre turc Ahmet Davutoglou, qu'on ne peut énoncer autrement qu'en basic english "no problem with out neighbours".

Avant, pendant et après la réunion de Lisbonne, Abdullah Gül, accompagné de son épouse voilée, faisait part (3) des réserves que son pays pose à l'évolution "globale" de l'alliance. À son retour il déclarait avoir "sauvé" les principes fondateurs défensifs de l'organisation. Ce disant, du reste, il ne semble pas avoir pris connaissance du traité d'origine qui, certes, prévoit une intervention en cas d'attaque contre un quelconque des alliés, ses navires ou ses aéronefs, mais fait également référence à la démocratie. L'Espagne franquiste en était tenue à l'écart. L'évolution actuelle de l'Alliance correspond à une nécessité. Il se révélera de plus en plus difficile à Ankara de vouloir ménager ses relations avec divers pays islamistes, et notamment avec l'Iran

À Lisbonne le fossé apparu depuis 2003 avec l'arrivée au pouvoir de l'équipe Erdogan-Gül, a continué de se creuser avec l'occident.

M. Gül a particulièrement voulu marquer ses distances avec l'Europe. Son ondoyante diplomatie continue à marteler son contentieux avec un membre de l'Union européenne, la république de Chypre. Il la rend toujours responsable majeur des nombreux blocages et déboires de la candidature, à laquelle on fait pourtant mine d'accorder de moins en moins d'importance.

Du point de vue européen on doit donc mesurer les dangers.

Rappelons les.

Le plus ancien péril, d'ordre territorial, porte traditionnellement sur les confins balkaniques de notre continent.

Aujourd'hui cela pèse sur l'archipel grec de la mer Égée, sur la Thrace occidentale ou sur une partie de la Bulgarie, où la Turquie revendique son droit de protéger les "pomaks". Ne doutons pas non plus que les orthodoxes des Balkans ne doivent se faire aucune illusion quant au soutien à attendre des occidentaux. Qu'il s'agisse des Américains, des Européens, des Britanniques ou même des Russes, personne ne lèvera le petit doigt pour les défendre en dépit de toutes les assurances théoriques du droit international.

Or le fait même que le Dr Ekmeleddin Ihsanoglu, secrétaire général turc de l'Organisation de la conférence islamique depuis 2004, ait fait inscrire (4) le "soutien aux musulmans" des Balkans comme objectif mondial des 56 pays membres souligne la réalité des menaces qui pèsent à terme sur les deux États européens limitrophes de la Turquie et sur la région.

Pendant de nombreuses années Bülent Ecevit était ainsi apparu comme le principal porte-parole de la gauche républicaine turque. En 1974, à la tête d'un gouvernement auquel s'associa le vieux chef islamiste Necmettin Erbakan, il commence par supprimer l'interdiction de la culture du pavot en Anatolie. Puis il envahit Chypre en invoquant son droit d'y protéger la minorité turque. Ceci en fait pendant quelque temps une sorte de héros national.

Or, c'est seulement en septembre 2002, sur la chaîne turque TRT que Bülent Ecevit le reconnut lui-même, pour la première fois depuis plus d'un quart de siècle. Cette occupation par l'armée d'Ankara en 1974 du nord de la république de Chypre, et qui dure encore, correspondait exclusivement à des motifs stratégiques. Autrement dit tous les arguments en faveur des Chypriotes musulmans servaient de simples prétextes. Cette minorité représentait 18 % de la population de l'île, colonie de la Couronne britannique. Les Anglais avaient cru bon de l'organiser et de l'instrumentaliser pour contrecarrer, après la seconde guerre mondiale, la revendication des Grecs. (5)

Mais les périls se concentrent de plus en plus sur d'autres dossiers et notamment sur l'influence que la Turquie exerce et exercera sur les communautés immigrées, revendiquant l'ensemble des gens supposés "d'origine musulmane", dans la vie politique de plusieurs pays en manipulant le poids électoral et le chantage du communautarisme.

On ne peut donc pas évaluer jusqu'où ira sa dérive hors de l'Otan.

On doit mettre dès aujourd'hui un terme à cette incongruité de la candidature à l'Union européenne. (6)
JG Malliarakis

2petitlogo

samedi, 27 novembre 2010

Kauft China künftig keine US-Staatspapiere mehr?

Kauft China künftig keine US-Staatspapiere mehr?

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Unter Hinweis auf die jüngste Entscheidung der US-Notenbank Federal Reserve, weitere 600 Milliarden Dollar zu drucken, um die taumelnden Wall-Street-Banken und den Immobiliensektor zu stützen, hat die chinesische Ratingagentur Dagong vor wenigen Tagen das Kreditrating für amerikanische Staatsanleihen heruntergestuft. Wenn die People’s Bank of China, die chinesische Zentralbank, dieser Einschätzung folgt und entsprechend weniger US-Staatspapiere kauft, dann stehen dem Dollar harte Zeiten bevor. Es kommt nicht überraschend, dass sich New Yorker Hedgefonds und Spekulanten genau in diesem kritischen Moment anschicken, eine neue Runde finanzieller Kriegsführung gegen Europa zu richten, dieses Mal wegen der prekären Lage einiger irischer Banken.

 

 

AnleihenpapierUSDollar.jpgDie Kreditrating-Agentur Dagong Global Credit, Chinas konservative Antwort auf das Monopol der von Amerika kontrollierten Agenturen Moody’s und Standard & Poor’s, hat vor wenigen Tagen die Qualität der Staatsverschuldung der Vereinigten Staaten von Amerika heruntergestuft; sie betrachtet die jüngste »Quantitative Lockerung« als absichtliche Abwertung des Dollar.

Dagong bewertet die amerikanischen Versuche, sich durch die Ausgabe von Anleihen den Weg aus den Schulden zu bahnen, mit großem Vorbehalt. Die Agentur kritisiert vor allem die, wie sie sagt, konkurrierende Abwertung der Währung und prognostiziert für die USA eine »lang anhaltende Rezession«.

In ihrer Erklärung heißt es: »Um die Krise im eigenen Land zu bewältigen, greift die US-Regierung zu der extremen wirtschaftlichen Politik, den US-Dollar um jeden Preis abzuwerten; dieser Schritt weist auf das tiefsitzende Problem in der Entwicklung und im Managementmodell einer nationalen Ökonomie hin. Es könnte für die USA schwierig werden, den richtigen Weg zu finden, die US-Wirtschaft wiederzubeleben, wenn die Regierung die Ursache der Kreditklemme und das Entwicklungsgesetz einer modernen Kreditwirtschaft nicht erkennt und weiterhin in dem Denken des traditionellen Wirtschaftsmanagement-Modells verharrt; es ist ein Anzeichen dafür, dass die wirtschaftliche und gesellschaftliche Entwicklung in eine längerfristige Rezessionsphase eintritt.«

Auf gut Deutsch: Die staatliche chinesische Ratingagentur erklärt, dass sie das Vertrauen in die Stabilität der enormen Bestände an Treasury Bonds, den amerikanischen Staatspapieren, verloren hat. China hat in den vergangenen Jahren Japan als größten Halter amerikanischer Staatsanleihen verdrängt, es wird geschätzt, dass die People’s Bank of China US-Staatspapiere im Wert von 1,4 Billionen Dollar hält.

In ihrer Analyse kommt die Agentur Dagong zu dem Schluss: »Die Gesamtkrise, in die die Welt aufgrund dieser Abwertung des US-Dollars gestürzt werden könnte, macht einen Wirtschaftsaufschwung in den USA noch weniger wahrscheinlich. Da sich keiner der für die US-Wirtschaft maßgeblichen Wirtschaftsfaktoren erkennbar verbessert hat, ist es möglich, dass die USA ihre geldpolitische Lockerung ausweiten, was den Interessen der Gläubiger zuwiderläuft.« Mit Letzteren ist eindeutig China gemeint.

In der Erklärung heißt es noch: »Angesichts der derzeitigen Lage könnten für die Vereinigten Staaten in den kommenden ein bis zwei Jahren nicht vorherzusagende Solvenzrisiken bestehen. Dementsprechend erteilt Dagong die Bewertung ›Ausblick negativ‹ für das in- und ausländische Kreditrating der Vereinigten Staaten.«

Die Herabstufung ist ein echter Paukenschlag, sie entspricht der wachsenden Sorge, die westliche Fondsmanager, einschließlich der amerikanischen Großbank Merrill Lynch, in den vergangenen Tagen bezüglich der Aussichten für die Inhaber von Staatspapieren zum Ausdruck gebracht haben.

Dagong genießt hohes Ansehen als unabhängige Kreditrating-Agentur, die eine konservativere Sicht vertritt als die bekannteren amerikanischen Agenturen. Bis vor Kurzem galt die amerikanische Staatsverschuldung als über jede Kritik erhaben, doch nach Aussage unabhängiger Analysten verschlechtert sich die Lage und wird sich auch in Zukunft weiter verschlechtern.

Just in dem Moment, in dem der Dollar erneut unter Verkaufsdruck gerät, wenden sich amerikanische Hedgefonds und Spekulanten gegen den Euro, dieses Mal geht es gegen Irland als das schwächste Glied. Genauso wie im vergangenen Dezember – als dem Dollar eine schwere Krise drohte – plötzlich auf wundersame Weise die griechische Krise losbrach, was den Dollar kurzfristig entlastete, so entdecken Hedgefonds jetzt, da sich eine neue Dollarkrise anbahnt, dass Irland genauso wie Griechenland die Zahlungsunfähigkeit drohen könnte. Einige Frankfurter Banker sprechen zutreffend von »finanzieller Kriegsführung«. Voller Naivität neigen die Regierungen der EU-Länder zu der Annahme, die New Yorker Finanzmärkte hielten sich an die offenen und transparenten »Spielregeln«. Die jüngsten kritischen Äußerungen von Finanzminister Schäuble über die Währungs- und Wirtschaftspolitik der USA lassen darauf schließen, dass man in Berlin kritisch überdenkt, was wirklich gespielt wird.

Bleiben Sie dran, denn hier bahnt sich ein größeres Drama in den atlantischen Beziehungen an.

 

jeudi, 25 novembre 2010

Cercle Aristote: l'amitié franco-russe - passé, présent, avenir

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LE CERCLE ARISTOTE

vous invite à un colloque sur le thème


« L'amitié franco-russe: passé, présent, avenir »


La manifestation se déroulera à L’INSTITUT DE LA DÉMOCRATIE ET DE LA COOPÉRATION, 63 bis, rue de Varenne, 75007 PARIS

le 3 décembre 2010, de 10 h 00 à 19 h 00.


Programme:

10h – 10h30 : Pierre-Yves ROUGEYRON, président du Cercle :  Introduction. 

10h30 – 11h30 : Valérie HALLEREAU, universitaire : « La réception de l’œuvre d'Alexandre Soljenitsyne en France ».

11h30 – 12h30 : Viatcheslav AVIOUTSKIY, docteur en géopolitique: «La diarchie au sommet du pouvoir russe ». 

PAUSE DEJEUNER

13h30 – 14h30 : Xavier MOREAU, Courrier de Russie: «Histoire et géopolitique franco-russe ».

14h30 – 15h30 : Marc ROUSSET, ancien directeur général d’entreprise: « L'axe Paris-Berlin-Moscou ».

15h30 – 16h30 : Ekaterina NAROTCHNITSKAÏA, Directrice du Département 'Europe et Amérique' au sein de l’Institut de l’Information scientifique en Sciences Sociales, Académie Russe des Sciences, Moscou : «Politiques et perceptions franco-russes ».

16h30 – 17h30 : Romain BESSONNET, Cercle Aristote : « La russophobie dans les médias français ».

17h30 – 18h30 : David MASCRÉ, docteur en mathématiques et en philosophie : « L’actualité de l’alliance franco-russe ».

18h30 – 19h : John LAUGHLAND, Directeur des Etudes de l’IDC: Conclusion générale.


Inscription obligatoire.  Veuillez confirmer votre présence en écrivant à romain.bessonnet@sfr.fr

 

lundi, 22 novembre 2010

Obama e le strategie di dominio mondiale

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Obama e le strategie di dominio mondiale

Più i preparativi di guerra si faranno febbrili, più l’economia a stelle e strisce spiccherà il volo

Angelo Spaziano

Ex: http://www.rinascita.eu/

Barack Obama ha subito una clamorosa débàcle alla Camera, dove il partito democratico è andato in minoranza. E anche al Senato “l’asinello” è collassato, pur mantenendo per un pelo la leadership. Il primo presidente nero nella storia americana è stato trombato perfino nel suo collegio senatoriale dell’Illinois e nella roccaforte dell’Ohio. Tuttavia, andrebbero fatte alcune importanti considerazioni al riguardo. Prima di tutto, va tenuto conto che per tradizione l’affluenza alle urne in occasione del rinnovo del Parlamento Usa è alquanto più contenuta rispetto alle presidenziali. E’ chiaro infatti che i primi a precipitarsi ai seggi nel mid term siano soprattutto gli scontenti della conduzione governativa nei due anni appena trascorsi. In secondo luogo c’è da calcolare che Barack Obama, pur generosissimo con i grandi trust bancari nazionali, saziati a profusione con vertiginosi benefit, è andato incautamente a falcidiare gli interessi delle lobby delle assicurazioni sanitarie e degli speculatori di borsa.


Era logico che alla prima occasione questi signori gli avrebbero presentato il conto. La riforma del welfare infatti ha esteso lo scudo del sistema sanitario di Stato a un 43 per cento di cittadini che non potevano permettersi la copertura assicurativa a pagamento. Aver sottratto tutta quella enorme massa di manovra alle fameliche mascelle delle “mutue” private era un gesto che non poteva non provocare feroci rappresaglie nei confronti dell’audace presidente. Peggio che mai è andata in materia finanziaria. Qui Obama, pur cedendo alle pressioni esercitate dai grandi trust bancari salvandoli dal tracollo, memore degli errori compiuti in passato da questi epigoni di Shylock, ha varato una riforma che, di fatto, ha posto sotto tutela le operazioni di scambio dei derivati e il capitale investibile a disposizione dagli istituti. Come se non bastasse, c’è stato pure il ritiro da Baghdad e quello ventilato, possibile entro il prossimo anno, da Kabul. Il che, pur giustificando il premio Nobel in bianco concessogli il giorno successivo l’elezione, significa essersi messo in rotta di collisione con la potente corporazione dei fabbricanti di cannoni. Anche la sfortuna ha rivestito un ruolo molto rilevante in questa prima parte di mandato obamiano. Non va dimenticato infatti il catastrofico impatto mediatico esercitato sugli americani dalla goffa gestione dell’emergenza inquinamento da idrocarburi sulle coste della Louisiana. Uno stillicidio di tre mesi durante i quali l’incessante fuoriuscita di greggio dal pozzo in avaria sul fondo del Golfo del Messico ha funzionato da doccia scozzese sulle istanze ecologiste degli statunitensi della costa sud, illusi e delusi a fasi alterne. Questa logorante guerra dei nervi ha scavato un fossato intorno all’immagine di Obama, che ha fatto la stessa figura che fece Bush con l’uragano Katryna, allorché mezza New Orleans rimase sommersa dal Mississippi. Da queste consultazioni quindi Obama è uscito con le ossa rotte, e c’era da aspettarselo. Il primo a rendersene conto è stato proprio lui, che all’improvviso si è dichiarato pronto a scendere a compromessi proprio con quegli avversari politici che ha sempre tenacemente combattuto con tutte le sue forze. Molto probabilmente, perciò, assisteremo a una marcata correzione della rotta fin qui seguita dall’inquilino della Sala Ovale, un fuoriclasse sfortunatamente azzoppato dalla congiuntura socioeconomica assai sfavorevole. Alla Casa Bianca potrebbero anche cadere delle teste. I democratici infatti spingono affinchè ci siano dei cambiamenti radicali. In primo luogo vogliono che Obama riveda l’incarico di diversi suoi collaboratori, fino a licenziarne alcuni. Il primo candidato a rischiare il posto potrebbe essere il segretario al Tesoro Tim Geithner. L’economia statunitense infatti, malgrado la forte svalutazione del dollaro non accenna a riprendere la marcia, e risulta troppo debole per garantire nuova occupazione. E Geithner, secondo gli elettori, è uno dei principali responsabili della situazione.


Ma, a ben pensarci, un modo per uscire dal tunnel della recessione ci sarebbe pure, anche se il rimedio rischia di essere peggiore dello stesso male. La storia patria, Franklin Delano Roosevelt e la Grande Depressione lo hanno insegnato. Del resto sta scritto sui libri di scuola e sulla manualistica di tutte le università del mondo. Come si concluse, alla fine, la crisi economica scaturita dal venerdì nero di Wall Street del 1929? Con la Seconda Guerra Mondiale, puntualmente scoppiata dieci anni dopo il crac. E’ qui che Obama potrebbe trovare la quadra per ribaltare completamente i pronostici e farsi rieleggere per un secondo mandato. Col beneplacito repubblicano e l’appoggio popolare, infatti, il presidente nero sarebbe in grado di mettere una volta per tutte una croce sopra le velleità iraniane di accedere nell’esclusivo club dell’atomo. Ciò gli gioverebbe assai politicamente, perché lo squadrone repubblicano marcerebbe compatto al suo fianco. E più i preparativi di guerra si faranno febbrili, più l’economia stellestrisce spiccherà il volo. Spendere in guerre, infatti, crea sempre posti di lavoro e stimola l’economia. Il secondo conflitto mondiale fece uscire gli Usa dalla depressione perché lo sforzo bellico comportò una massiccia mobilitazione d’interi settori produttivi della società civile. Non sarebbe la prima volta che dalle parti dello zio Sam ci si lanciasse in simili avventure pur di risolvere gravi turbative di natura economica. Infatti, malgrado il Pentagono stia cercando di tagliare miliardi di sovvenzionamenti per affrontare con l’adeguato rigore l’austerità di bilancio, gli yankee sembrano avere tutta l’intenzione di “spezzare le reni” all’Iran. Anche se scatenare un simile pandemonio per un vantaggio politico di così corto respiro sarebbe da folli e irresponsabili. Il programmato ritiro dai fronti di guerra iracheno e afgano, che sembra fatto apposta per concentrare tutte le forze disponibili in un altro teatro, i pacchi postali al tritolo provenienti dalla Grecia e dallo Yemen e diretti verso occidente, l’allarme su probabili attacchi di Al Qaeda, le misure di controllo sempre più ferree nei porti e aeroporti forse sono i primi inquietanti annunci di una perversa strategia geopolitica di dominio mondiale. Se così sarà, si salvi chi può.


18 Novembre 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4992

Maschke: "Die Deutschen werden zu Vasallen der USA ohne Lohn"

Archives: 1999 - Ex: http://www.platzdasch.homepage.t-online.de/

"Die Deutschen werden zu Vasallen der USA ohne Lohn"

N-KFOR-Kosovo-1.jpgHerr Maschke, hat Gregor Gysi recht, wenn er davon spricht, daß Deutschland einen Angriffskrieg gegen Serbien führt?

Maschke: Ja – unbedingt. Die Frage eines Angriffskrieges zwischen zwei Staaten ist ja kaum zu klären. Jedoch hat in diesem Fall ein Angriff auf deutsches Territorium nicht stattgefunden, und so müßte der Paragraph 26 des Grundgesetzes greifen, wonach ein Angriffskrieg eben verboten ist. Es gibt aber auch andere juristische Probleme. Es ist durch das Eingreifen eindeutig die Charta der Vereinten Nationen verletzt. Im Artikel 2 Absatz 4 ist allen Mitgliedern die Anwendung von und Drohung mit Gewalt untersagt. Dies bezieht sich auf zwischenstaatliche Gewaltanwendung, nicht auf innerstaatliche Gewalt oder Bürgerkriegslagen. Dann ist auch wichtig, daß hier ein Bruch des Nordatlantikvertrages stattfindet. Er erlaubt nur Verteidigung für den Fall, daß ein Mitglied angegriffen worden ist. Es ist jedoch kein Nato-Mitglied angegriffen worden. Auch hinsichtlich des Gelöbnisses des deutschen Soldaten ist dieser Krieg ein Problem, da er nur dafür einstehen soll, die Bundesrepublik Deutschland zu verteidigen. Einsätze außerhalb des Bundesgebietes dürfen nicht der Kriegsführung dienen. Selbst bei einer Legalisierung des Eingriffs der Nato durch die UNO bestünde das Problem, daß der Nordatlantikpakt eben keine regionale Organisation ist wie zum Beispiel die OSZE. Die Nato darf im Auftrag der UNO eigentlich gar nicht handeln, sondern die OSZE müßte selbst ihre Truppen zusammenstellen.

Nun werden Ihnen Kritiker entgegenhalten, Sie führten eine reine Formeldiskussion. Warum kann man Rechtsfragen nicht so lässig behandeln, wie es hier geschieht?

Maschke: Man kann ja gerne den Sinn des modernen Völkerrechts bezweifeln. Das tue ich übrigens auch.

Warum?

Maschke: Weil das moderne Völkerrecht militärische Interventionen erleichtert. Es geht relativ leger mit der Einmischung um. Der momentane Bruch des Völkerrechtes durch die Nato zerstört dieses Völkerrecht jedoch, basiert aber auf einer Art radikalisierten Fortschreibung dieses Rechtes. Wenn jetzt überhaupt keine Barrieren für eine Intervention bestehen, dann ist eine völlig willkürliche Lage da, die sich einer internationalen Anarchie nähern kann. Dann kann künftig überall beliebig interveniert werden, mit Hinweis auf die äußerst deutbaren Menschenrechte. Die dienen dann als Tarnung für imperialistische Interessen.

Wenn ich die Interpretationsmacht habe und auch die notwendige militärische Interventionskraft, dann kann ich überall auf der Welt meinen politischen Willen durchsetzen. Dies wird zu einem recht merkwürdigen Rechtsnihilismus führen. Zwar ist das Völkerrecht nicht der wichtigste Faktor in einer Theorie der internationalen Beziehungen. Die langfristigen Folgen für die zwischenstaatlichen Beziehungen sind aber nicht absehbar. Man muß Gysi in diesem Punkte uneingeschränkt recht geben.

Warum legen die Politiker überhaupt so viel Wert darauf, den Begriff "Krieg" zu vermeiden, und warum sprechen sie in bestem Orwell-Deutsch von "Friedensmaßnahmen", Interventionen etc.?

Maschke: Weil nach der UN-Charta ein Krieg verboten ist! Wenn ich den Kriegszustand anerkenne, hat das auch alle möglichen wirtschaftsrechtlichen, völkerrechtlichen und auch versicherungsrechtlichen Folgen. Die Tabuisierung hat ihren Sinn, weil das Völkerrecht aufbaut auf dem Gewaltverbot, auf dem Kriegsverbot. Man will nicht wahrhaben, daß man den Krieg wieder verrechtlichen muß und daß Krieg und Frieden korrelative Begriffe sind.

Wir müssen also jetzt vom Kosovo-Krieg sprechen.

Maschke: Natürlich! Krieg ist die bewaffnete Auseinandersetzung zwischen zwei kämpfenden Parteiungen. Es gibt auch Theorien, daß der Wille des einen genügt,um Krieg zu konstituieren. Natürlich ist der Konflikt auf dem Balkan ein Krieg. Wir wissen aus der Kriegsgeschichte, daß der Krieg alle möglichen Formen annehmen kann. "Der Krieg ist ein Chamäleon", sagt Clausewitz. Es ist interessant, daß sich der common sense durchsetzt und die Menschen immer wieder ganz unbefangen von Krieg sprechen.

Sie haben Anfang der 90er Jahre die deutsche Beteiligung am Golfkrieg der Amerikaner schärfstens kritisiert. Worin unterscheidet sich der Krieg gegen Serbien wesentlich vom Krieg gegen den Irak?

Maschke: Zunächst ist es ein europäischer Krieg. Der Golfkrieg diente dazu, eine antiamerikanische, arabische Großraumbildung zu verhindern. Dies natürlich auch im Hinblick auf und im Interesse Israels. Hier geht es im Prinzip darum, daß Europa unfähig ist, amerikanische Interventionen in Europa zu verhindern. Nicht nur das – Europa macht diese Interventionen mit, jedoch eher als Juniorpartner, als Vasall. Die amerikanischen Interessen sind ganz offensichtlich: Aufbau eines Groß-Albaniens und die Produktion von Flüchtlingen. Diese sind für Europa – auch wegen ihres kriminellen Potentials – bedenklich und spielen politisch immer die fünfte Kolonne der USA. Wir, Deutschland, unterstützen diesen Prozeß, was ich für eine ganz fantastische Leistung halte.

Die Idee der Strafaktionen aus der Luft ist so alt wie der Völkerbund.

Maschke:: Die Idee entwickelte sich als sogenannte Luftpolizei im Rahmen des Völkerbundes. Als Beispiel mag da England gelten, dem es gelang, mit einer "Imperial Police" solche Strafaktionen durchzuführen. Eine französische Idee war es, eine internationale Luftpolizei zu gründen. Auch der italienische Luftkriegstheoretiker Douhet glaubte, daß man mit wenigen Schlägen aus der Luft auf die Hauptstadt den Feind in die Knie zwingen könnte. Die Idee des Luftkrieges nach den großen Schlachten des Ersten Weltkrieges war es, Kriege zu begrenzen und kontrollierbar zu machen.

Dies hat auch eine Rolle bei der Gründung der UNO gespielt. Auch hier war die Rede von integrierten Luftstreitkräften, die allerdings nicht zustande kamen. Dies ist im Prinzip die Weiterentwicklung der Idee von großen Blockade-Flotten aus dem 19. Jahrhundert. Es hängt aber auch zusammen mit der Überschätzung der Möglichkeiten der Luftwaffe. Es stellt sich schließlich jedesmal die Frage, welche Ordnung man am Boden herstellt.

In Deutschland spricht man von einer humanitären Katastrophe, die sicherlich nicht wegzudiskutieren ist und die beschämen muß. Das alleine hat aber noch selten internationale Streitkräfte auf den Plan gerufen. Um welche großräumigen Interessen geht es in diesem Konflikt?

Maschke: Ich denke, es geht einfach um die Beherrschung und Kontrolle Europas durch die Vereinigten Staaten von Amerika. Wenn dort jemand hätte intervenieren müssen, dann die Europäer – die sich bekanntlich nicht einig sind. Unter anderem, weil London und Paris der Auffassung zu sein scheinen, daß ihnen ein schwaches Deutschland bekommt. So setzen diese auch auf die amerikanische Karte. Sie glauben, auch innerhalb der Europäischen Union vorwiegend nationale Interessen verfolgen zu können. Wenn wir, die Deutschen, europäische Interessen verfolgen wollen, müßten wir jedoch alles daran setzen, die Amerikaner aus diesem Konflikt herauszuhalten. In Wirklichkeit sind wir eher die weiche Eintrittsstelle für amerikanische Intervention und Penetration aller Art in Europa. Vor diesem Hintergrund kann man auch nur die Nato-Osterweiterung sehen. Deutschland ist hier der amerikanische Lieblingsvasall, der von der Intervention gar nichts hat.

Kehren nun die Konflikte wieder zurück, die zum Ausbruch des Ersten Weltkrieges geführt haben?

Maschke: Der Balkan war stets nur in Ruhe zu halten durch einen Hegemon, und dieser mußte die Füße auch irgendwie auf dem Boden haben. Dies war Rußland, Österreich-Ungarn oder das Deutsche Reich. Auch dieser Konflikt wurzelt jedoch im Prinzip im Diktat von Versailles. Wir können nach Irak schauen und wir können nach Jugoslawien schauen: Wir finden ständig die Folgen des Diktates von Versailles und des Ersten Weltkrieges – nicht die des Zweiten. Damals hat man eben auf einem Völkerrecht aufgebaut, das dem jetzigen gleicht. Dessen jetziger Bruch ist – seine Fortsetzung! Je weiter wir gehen, um so mehr entfernen wir uns vom richtigen Standpunkt.

Gibt es Parallelen zwischen dem Ausbruch des Ersten Weltkrieges und der jetzigen Mächtekonstellation?

Maschke: Es fehlt hier der Gegenpart und die internationale Konfrontation. Es könnte eine gewisse lokale Ausweitung geben, es enthält aber keinen Zündstoff für einen Weltkrieg.

Haben die USA mit dem Nato-Einsatz nicht auch das Ziel, Rußland endgültig aus Europa herauszudrängen?

Maschke: Sicher. Das paßt auch zur Nato- und EU-Osterweiterung. Wir haben uns jetzt selbst eingekreist und können nicht mehr die russische Karte spielen – Rußland wird wieder erstarken ...! Das ist wirklich keine große Meisterleistung.

Wäre eine deutsch-russische Initiative zur Befriedung des Kosovo und Disziplinierung der Serben nicht erfolgversprechend gewesen?

Maschke: Das wirkt etwas science-fiction-haft. Hier muß man die Potenz der Regierung in Deutschland und der deutschen Politiker bedenken.Wir reden zwar davon, wir müßten Verantwortung übernehmen und erwachsen werden. Dies bedeutet jedoch nur, daß wir von der bisherigen Abstinenz Abschied nehmen. Es läuft lediglich darauf hinaus, daß wir zu Mitläufern und Vasallen geworden sind. Dies haben wir schon im Golfkrieg gesehen. Erwachsen werden heißt nun Eingliederung in uns widerstrebende fremde Interessen. Das kann ja wohl nicht Sinn der Übung sein.

Welche Auswirkungen wird dieser erste wirkliche Krieg in Europa seit 1945 auf die Kräfteverhältnisse haben?

Maschke: Dies bedeutet zunächst die ständige Präsenz der Vereinigten Staaten in Europa. Sie werden den Einigungprozeß Europas vorantreiben – und Europa wird so eine riesige, durch Grenzen nicht mehr geteilte Penetrationssphäre der USA. Dies wird bedeuten, daß sich Rußland andere Partner suchen muß, sei es China oder Indien. Man kann Rußland natürlich durch Kreditpolitik kujonieren, aber das wird Grenzen haben.

Europa ist mit der Einführung des Euro kurz davor, wirtschaftlich zum bedrohlichsten Konkurrenten der USA zu werden. Soll es da politisch ausgeschaltet wird?

Maschke: Die EU ist kein Konkurrent für die USA, denn Amerika ist auf allen Ebenen, sei es militärisch, ökonomisch und vor allem massenkulturell, in Europa präsent. Die europäische Einigung hätte Sinn, wenn man die USA ausschlösse oder zurückdrängen würde. So ist es praktisch nur ein riesiges Lateinamerika de luxe für die USA. Es ist die alte Diskussion: Wollen wir eine europäische Einigung Europas oder eine amerikanische Einigung Europas?

Warum beteiligen sich Frankreich und Großbritannien an diesem Vorgehen der USA?

Maschke: Weil beide den deutschen Einfluß auf dem Balkan fürchten.

Sie schädigen sich doch aber selbst.

Maschke: Ja, weil jede Aktion, die Amerika nach Europa hineinbringt, im Prinzip alle Europäer und eine europäische Einigung Europas schädigt.

Der Angriff der Nato mußte die UNO brüskieren. Bedeutet dies jetzt auch das Ende dieser Organisation?

Maschke: Die UNO ist in den letzten Jahren zunehmend von den Vereinigten Staaten instrumentalisiert worden. Als das nicht mehr ging, hat man versucht, sie zu umgehen. Dies kann beliebig wiederholt werden. Die UNO hat heute gar keine Vermittlungsmacht mehr. Man kann sich heute fragen, ob man nicht zum Naturzustand zurückkehrt. Man kann sagen, daß das Ganze eine größere Simplizität und Ehrlichkeit in die internationalen Beziehungen bringt. Diese nähert sich sozialdarwinistischen Vorstellungen – was nicht beruhigend sein kann.

Das Recht des Stärkeren wird also im Prinzip als Recht der Weltpolizei USA verkauft?

Maschke: Wenn ich jetzt hingehe und argumentiere, es gebe etwas jenseits des Völkerrechts, dann habe ich natürlich Probleme, anderen den Bruch des Völkerrechtes vorzuwerfen. Wenn heute eine westliche Macht den Chinesen Vorhaltungen macht wegen Tibet, dann können die nur mit einem Fragezeichen antworten – nach Kosovo.

Gäbe es überhaupt eine andere Lösung für das Problem des Kosovo, Massenvertreibungen und Massaker zu verhindern?

Maschke: Wenn man interessiert ist an einer Ordnung auf dem Balkan, müßte man mit Bodentruppen eingreifen und eine Art Protektorat errichten. Wichtig ist, welche Folgen die jetzige Handlung hat. Das jetzige Handeln verschärft das Flüchtlingsproblem – und ich vermute, daß dies den USA aus den geschilderten Gründen sehr gut zupaß kommt, aber nicht uns. Die Luftschläge werden keine Lösung bringen, und es wird auch weiter Terror geben, selbst wenn die jugoslawische Armee im Kosovo auf Null gebracht ist. Man kann nicht immer so tun, als hätten alle Konflikte eine eindeutige Lösung. Der Konflikt Israels mit seiner Umgebung hat auch keine Lösung – solche Konflikte haben allenfalls eine Geschichte.

Es gab Ideen, die Albaner – ähnlich wie die Kroaten – massiv zu bewaffnen.

Maschke: Das bedeutet natürlich, daß trotz einer massiven Bewaffnung der Albaner das Verhältnis sehr ungleichgewichtig geblieben wäre. Das zweite wäre, man hätte sich aus dem Konflikt gleichsam verabschieden müssen. Das ist etwa bei dem Konflikt in Süd-Vietnam so gewesen. Dann wäre immer noch die Frage, ob sich die Albaner aus ihren Schwierigkeiten hätten befreien können. Sie hätten immer versucht, jemanden mit in diesen Konflikt hineinzuziehen.

Sie kennen Joschka Fischer als Frankfurter Sponti und haben sich oft mit ihm gestritten. Ist die Wandlung des Friedenskämpfers und Pazifisten zum Außenminister und Angriffskrieger konsequent?

Maschke: Ja. Das ist nicht inkonsequent, denn wenn die Feindschaft der Pazifisten zu den Nicht-Pazifisten groß genug ist, müssen sie – frei nach Carl Schmitt – auch zum Krieg schreiten. Das ist hier der Fall, nur nennen sie es anders. Wir kennen auch die Formeln bereits zur Genüge, sie sind bekannt seit Wilson – wir führen keinen Krieg gegen das deutsche Volk, wir führen keinen Krieg gegen das serbische Volk etc. Im Ernstfall spaltet sich der Pazifismus: der eine Teil sagt, Gewalt kann man nur mit Gewalt begegnen, die andern reagieren wie Ströbele – und sagen, wir wollen es generell nicht. Es gab nach dem Ersten Weltkrieg die Formel "Krieg gegen den Krieg". Jetzt heißt es Aktion gegen den Krieg oder friedenserzwingende Maßnahmen gegen den Krieg. Selbst der "Krieg gegen den Krieg" ist den Pazifisten jetzt zu kriegerisch – terminologisch! Das ist nicht überraschend. Aber in der Kriegsgeschichte des Jahrhunderts war immer festzustellen, daß sich die Pazifisten in solch einer Situation spalten – und die größere Fraktion wird "kriegerisch".

Glauben Sie, daß die Grünen an dieser Frage zerbrechen werden?

Maschke: Es kommt vor allem darauf an, wie lange das dauert. Welche Folgen das für Deutschland hat, wenn es bedeutende Verluste für Deutschland gibt. Wenn es nur kurz ist, wird man dies vergessen – und es werden sich nur sehr kleine Gruppen abspalten.

Ist es nicht seltsam, daß während des Golfkrieges Anfang der neunziger Jahre massenhaft Leute gegen die USA und den Krieg auf die Straße gegangen sind und jetzt kaum jemand zu sehen ist?

Maschke: Es ist sicherlich ganz wesentlich, wer an der Regierung ist. Obwohl man versucht hat, zum Beispiel Hussein zu satanisieren, scheint das nicht so erfolgreich gewesen zu sein wie bei den Serben.Gegen die Serben existiert ein parmanenter Groll, zumal sie erklärte Deutschlandfeinde sind. Der serbische Haß auf Deutschland ist unbezweifelbar, und es gibt einen antiserbischen Affekt in den Medien und einen Affekt für Kroatien. Hinzu kommt, daß ein Entsetzen entsteht, daß die Greuel durch die Serben mitten in Europa geschehen. Wenn das bei den Irakis geschieht, ist das nicht so verwunderlich. Der Europäer ist in seinem Selbstverständnis aufgeklärt und pazifiziert. Das gilt auch für die Serben. Die haben Telefone, Autos, sprechen Deutsch oder Englisch und scheinen zivilisiert, tragen Schlipse. Dann ist man ganz erstaunt, wenn die sich irgendwelche Körperteile abschneiden. Das paßt zu einem Gelben, Braunen, Schwarzen, aber nicht zu einem Europäer. Hier ist die Empörung dann plötzlich größer.

Inwieweit ist überhaupt die Bundesregierung Herr der Lage, wer gibt den Takt vor? Von wem und wie wird über den möglichen Bodenkrieg entschieden?

Maschke: Über den Bodenkrieg werden die entscheiden, die ihn auch durchsetzen wollen – auf parlamentarischem Wege. Da sehe ich Schwierigkeiten. Entscheiden wird es der Hegemon des Bündnisses – die USA. Und dieser kann das auch alleine machen. Doch werden wir das wahrscheinlich wieder mitmachen, weil wir unfähig sind, uns gegen die Vereinigten Staaten zu stellen. Die Grundregel scheint da ganz einfach: Wir tun das, was die USA für richtig halten.

Können sich die Deutschen überhaupt noch aus dem Einsatz zurückziehen? Es heißt ja, wer sich einmischt, übernimmt Verantwortung.

Maschke: Interessant ist ja die Erklärung von Johannes Rau. Er hatte den Einsatz gebilligt und gesagt, er hoffe, daß unsere Soldaten in Zukunft nicht öfters bei solchen und ähnlichen Aktionen mitmachen müssen.Wenn man sich die Konfliktlage in der Welt ansieht und die amerikanische Forderung nach Lastenteilung betrachet, kann man sich vorstellen, daß es eine Multiplizierung ähnlicher Konflikte gibt, bei denen wir des öfteren die Gefährten der USA sein werden. Insgesamt ist dies eine Salamitaktik. Wir machen erst auf dem Niveau mit, dann auf dem Niveau u.s.w. Das bedeutet am Schluß: "Germans to the front" – ohne daß wir wirklich Einfluß nehmen können. Wir haben auch keine eigene Taktik, dies mit einer allmählichen Einflußsteigerung zu verbinden. Wir sind Vasallen ohne Lohn. Das ist unsere Form der Fellachisierung bzw. Selbst-Fellachisierung.


"Die Friedensbewegung und die immer noch zu ängstlichen Politiker und Militärs stehen dem [der totalen Erlösung]  immer noch im Wege, aber auch sie werden dem geheimen Wunsch aller, den alle leugnen, nicht mehr lange widerstehen können. Letzteres ist in etwa die Quintessenz des jungen Münsteraner Philosophen Ulrich Horstmann, dessen Essay in der moralparfümierten geistigen Landschaft der Bundesrepublik durch seine Radikalität und seine elegante Schnoddrigkeit auffällt. Der gelegentlich dekadent-pathetische Ton [...] mindert das bösartige Lesevergnügen ein wenig. Und ist es nötig, daß Horstmann, ganz braver Sohn der Alma Mater, all die Scharteken der Außenseiterphilosophen mitschleppt? Doch so leistet er immerhin eine Anthologie der Sehnsucht nach dem Ende. [...] Ist denn das Zuendeführen des Werkes in Horstmanns Sinn ohne solche Spekulationen denkbar? Die Ausrottung der Menschheit wird unter humanitären Parolen erfolgen oder sie wird nicht gelingen. Horstmann scheut leider den Gedanken, ob nicht die von ihm geforderte Ausbreitung des anthropofugalen Denkens - aufgrund der dann entstehenden Gleichgültigkeit - das größte aller Hindernisse für die anthropofugale Sehnsucht wäre. [...] Die Pointe ist [...], daß das anthropofugale Denken gerade keine Garantie dafür bietet, daß ‚unsere Spezies bis auf das letzte Exemplar' vertilgt wird. Wer will, daß die Qual aufhört, legt sich eher aufs Sofa, als daß er den Helmriemen festzieht. Horstmanns Programm wird nicht von seinesgleichen verwirklicht werden, sondern von den Täternaturen, die es immer noch gibt."

Günter Maschke: Daß wir besser nicht da wären. In: Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16.8.1983