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samedi, 21 mars 2015

L’AUSTRIA TRA PASSATO E PRESENTE

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L’AUSTRIA TRA PASSATO E PRESENTE

Cristiano Puglisi

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Le relazioni austro-russe hanno costituito una costante dello scenario geopolitico dell’Europa centrale fin dal XVIII secolo. Ai tempi in cui l’Austria era parte dell’allora Sacro Romano Impero, le relazioni tra le due corone imperiali (quella degli zar e quella della casata d’Asburgo) furono centrali nel costituire una barriera cristiana all’espansione dell’Impero Ottomano verso nordest e nordovest. A testimonianza di quanto strategiche a livello territoriale fossero considerate queste relazioni da parte della corona d’Asburgo, va ricordato che le prime notizie di carattere etnografico sul popolo russo, entrarono in Europa occidentale nel XVI secolo grazie al Rerum Moscoviticarum Commentarii, opera del diplomatico imperiale Sigmund Von Heberstein, che fu due volte ambasciatore del Sacro Romano Impero in Russia(1).

Peraltro è curioso osservare come, già ai tempi di Von Heberstein, sul piano ideale e spirituale le due corone fossero unite non solo da interessi strategici, ma anche dalla stretta correlazione di stampo tradizionale tra il potere politico e il potere religioso. Il termine slavo “Tsar” derivava infatti dal latino “Caesar”(2), utilizzato quindi per indicare una monarchia di stampo imperiale nel senso medioevale del termine. Tre secoli più tardi tale unità ideale trae nuova linfa nell’ambito delle guerre napoleoniche, quando fu lo zar Alessandro I a farsi promotore di quella Santa Alleanza che includeva anche l’Austria e la Prussia e il cui compito, sconfitto Napoleone, era quello di prevenire il riemergere di focolai di carattere antimonarchico in Europa occidentale, ponendovi come argine un significativo blocco mitteleuropeo(3). A suggellare la sacralità di tale missione era venuta in soccorso, già dal biennio 1806-1807, la presa di posizione della Chiesa Ortodossa russa, da parte della quale il Bonaparte era frequentemente presentato come l’Anticristo(4). Tale affinità ideologica tra Russia ed Austria perdurò in maniera significativa fino alla conclusione dei moti del 1848.

Dalla seconda metà del XIX secolo, le pulsioni panslaviste dell’impero russo, che minavano le sostanziali fondamenta dell’impero austroungarico, accesero un periodo di ostilità intermittente tra i due Paesi che si concluse solamente al termine del secondo conflitto mondiale, quando l’Austria fu suddivisa in quattro zone d’influenza (americana, francese, inglese e sovietica), salvo recuperare pienamente la propria sovranità nel 1955. Fu allora che le relazioni tra due Paesi (l’Austria democratica e l’Unione Sovietica) ripresero quota, questa volta su un filo conduttore per certi aspetti diametralmente opposto a quello che aveva caratterizzato il sodalizio di un secolo prima, dato che all’opposizione al liberalismo si sostituì, quale collante, il socialismo. Primo cancelliere, già dal 1945, dell’Austria liberata dai nazisti fu infatti il socialista Karl Renner, il quale godeva del favore di Stalin(5) e che per questo solo dopo diversi mesi fu riconosciuto quale legittimo governante dalle altre forze alleate.

Proprio Karl Renner fu uno dei leader della corrente cosidetta “austromarxista” che, formatasi nella polveriera culturale dell’ultimo impero austroungarico, sviluppò all’interno del Partito Socialdemocratico (SPO) una propria e autonoma visione del socialismo che tentava di realizzare una sintesi tra il rispetto dell’autodeterminazione delle comunità etniche locali e il concetto di stato nazionale(6). Tale terzietà di pensiero rispetto alle posizioni politiche dominanti a livello globale (gli austromarxisti si opponevano decisamente alla critica dell’interesse nazionale quale “stratagemma borghese”(7)), all’interno del mondo politico austriaco non fu tuttavia esclusiva del fronte socialista. Basti qui citare la figura di Julius Raab, cancelliere del Partito Popolare Austriaco (OVP) dal 1953 al 1961 e precedentemente membro del Governo di Engelbert Dollfuss (1934-38). Raab nel 1955 si fece promotore della Commissione congiunta dei prezzi e dei salari, una chiara rievocazione del pensiero corporativista, che era appunto alla base dell’esecutivo Dollfuss ma anche, come è noto, della dottrina economica fascista(8). E proprio in una prospettiva di collaborazione consociativa e corporativa, a differenza di altri Paesi europei, l’Austria si caratterizzò nel dopoguerra per una coalizione tra le due principali forze politiche (socialisti e popolari) che fino agli anni ’60 produssero governi di unità nazionale che procedettero alla nazionalizzazione di comparti industriali strategici e alla costruzione di un moderno sistema di welfare.

Sia tale carattere di terzietà, che la presenza di un forte partito socialista come il SPO, ebbero un ruolo non secondario nel determinare il comportamento dell’Austria durante la Guerra Fredda. Il 26 ottobre del 1955, il giorno seguente all’abbandono del territorio austriaco da parte delle ultime truppe alleate, il parlamento approvò infatti la neutralità del Paese, che è ancor oggi parte del diritto internazionale(9). Questo fu un successo della diplomazia di Mosca, che, tramontato definitivamente nel 1950 il tentativo di inglobare il Paese nella sua orbita con l’appoggio di socialisti e comunisti, evitò in questo modo una “nuova Germania” contesa tra il blocco atlantico e quello sovietico. Che il sentimento di indipendenza rispetto ai principali attori geopolitici fosse sentito realmente dalla classe dirigente austriaca è del resto ben rappresentato dal fatto che il 26 ottobre è tutt’ora celebrato come giorno festivo.

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Dalla fine degli anni ’80, con il progressivo venir meno della pressione di Mosca a Est per il mantenimento di una rigida posizione di neutralità, si ripropose la questione di un ingresso del Paese nella Comunità Europea(10), che fu infine formalizzato nel 1995 e, salvo eccezioni nell’ala sinistra dell’SPO, appoggiato trasversalmente negli anni dalle forze politiche di Governo. Un’integrazione del Paese alla NATO, opzione questa tradizionalmente vista, soprattutto a partire dagli anni ’60 che videro la fine dei governi di coalizione, con favore dai popolari dell’OVP e invece osteggiata dai socialdemocratici del SPO(11). Il ruolo del SPO nei rapporti con l’Unione Sovietica meriterebbe una trattazione più approfondita. Basti però citare come, negli anni ’50 e ’60, il partito fosse frequentemente sospettato di lassismo nei confronti dell’intelligence sovietica(12).

Tali atteggiamenti restarono sostanzialmente immutati fino ai primi anni 2000. Gli eventi subirono un’accelerazione con la guerra in Bosnia Erzegovina, che vide l’Austria siglare il documento Partnership for Peace (1995) per poi inviare le proprie truppe a sostegno dei contingenti NATO nei balcani e di nuovo nel 1999 in Kossovo. Nel luglio 2002, il presidente austriaco Thomas Klestil incontrò il Segretario Generale della NATO, Lord Robertson, incontro che precedette l’invio di truppe austriache a supporto del contingente atlantico in Afghanistan. Nel giugno 2011 si registrò la visita ufficiale di Anders Fogh Rasmussen (Segretario Generale della NATO) a Vienna(13). Politicamente significativo è infine stato il processo di valutazione svoltosi dal 21 al 30 maggio del 2013 alla base di Allentsteig, dove funzionari NATO hanno supervisionato il livello di preparazione delle truppe destinate al progetto PfP per verificare che fossero compatibili con gli standard dell’alleanza per il progetto EURAD13(14). D’altra parte è bene dire che, se da un lato i servizi di intelligence sovietica ebbero per l’Austria un interesse particolare, dall’altro sebbene al di fuori della NATO oggi il Paese ha sul suo territorio due basi militari americane: si tratta di Neulengbach e Konigswarte, gestite e coordinate dal Comando generale statunitense della National Security Agency di Fort Meade (nel Maryland) e organizzate in cooperazione con i servizi segreti britannici, canadesi, australiani e neozelandesi(15).

Il processo di integrazione europea non ha però troncato le relazioni dell’Austria con la Federazione Russa. Anzi. Secondo un analista della The Jamestown Foundation, lo scomparso austro-americano Roman Kupchinski, anche dopo la fine della Guerra Fredda, l’Austria è rimasto uno degli hub favoriti dall’intelligence di Mosca tanto che, secondo il medesimo autore, l’SVR (servizio di intelligence russo all’estero) avrebbe proprio a Vienna la sua centrale più importante in Europa(16). Quel che è certo tuttavia, è la presenza proprio in Austria di numerose compagnie legate al mercato delle commodities e connesse con la compagnia di stato russa Gazprom. Proprio il comparto energetico è centrale nell’attuale assetto di relazioni commerciali tra Austria e Russia. Il 24 aprile del 2010, la partecipata statale OMV, prima tra le aziende dei Paesi europei a siglare accordi commerciali con l’Unione Sovietica nel 1968, siglò un accordo di cooperazione con Gazprom per la costruzione della sezione austriaca di South Stream mentre il 29 aprile del 2014, già in piena crisi ucraina, il CEO di OMV, Gerhard Roiss siglò con Gazprom un memorandum che prevedeva la partecipazione della compagnia russa nel Central European Gas Hub, situato nel piccolo comune di Baumgarten, nello stato federato del Burgenland(17). Un luogo quasi simbolico: governato dal 1964 da esponenti dell’SPO, il Burgenland, trovandosi al confine con l’Ungheria, Paese del quale ospitava un significativa minoranza etnica, era negli anni della “cortina di ferro” strategicamente significativo.

Lungi dal rappresentare un atto di sudditanza, l’accordo tra OMV e Gazprom rientrava in una logica di mutuale convenienza. Dipendente per il 60% dalle forniture di gas provenienti dalla Federazione Russa, OMV aveva avviato nel 2012 un progetto per estrarre gas dalle coste rumene del Mar Nero attraverso una partnership tra la Petrom (compagnia rumena controllata a maggioranza da OMV) ed Exxon Mobil. In questo modo OMV, qualora South Stream avesse visto la luce, avrebbe paradossalmente potuto utilizzare le infrastrutture realizzate con la collaborazione di Gazprom per ridurre la propria dipendenza dal mercato russo, come osservato anche dal New York Times in un articolo dello scorso 22 luglio(18).

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Visto lo scenario, non sorprende dunque che nel mese di dicembre, anche in seguito all’annuncio da parte del presidente russo Vladimir Putin della cancellazione del progetto South Stream, il cancelliere austriaco del PSO Werner Faymann abbia preso rigidamente posizione sia contro le sanzioni alla Russia (17 dicembre)(19), sia contro il Trattato transatlantico di libero scambio (TTIP)(18 dicembre)(20), che prevede un’integrazione tra il mercato europeo e quello nordamericano. Relativamente al TTIP, Faymann ha spiegato come l’Austria non intenda avallare una concessione di privilegi alle affermato multinazionali americane, mentre relativamente alle sanzioni, il cancelliere ha che l’Unione Europea non deve essere “una versione in abiti civili della NATO”.

Tale dichiarazione, più che la prima, è significativa in quanto rappresenta non solo una presa di posizione squisitamente pratica, ma anche e soprattutto ideologica (per il rifiuto di un trattato estremamente liberomercatista) rispetto ai rapporti di Vienna con l’alleanza atlantica che, come abbiamo visto, dalla metà degli anni ’90 si sono evoluti in un sostanziale crescendo. Tale presa di posizione dimostra come l’Austria, sebbene oggi integrata nel contesto dell’Europa comunitaria, sia ancora pronta a tornare a svolgere, all’occorrenza, un ruolo di autonomia, terzietà e alterità nel contesto politico europeo. Una possibilità questa che, rispetto ad altri Paesi europei, deriva, oltre che dal diritto internazionale, anche da una ridotta presenza militare straniera sul proprio territorio. L’Austria può dunque appresentare, nell’ambito dell’attuale momento di forte criticità nei rapporti tra la Federazione Russa, l’Unione Europea e la NATO, un cuscinetto in grado di ammorbidire in seno all’Europa le posizioni atlantiste più intransigenti, rappresentando così per Mosca un potenziale partner di primissimo piano anche per gli anni a venire e, data la sua lunga storia, un punto di riferimento strategico per il panorama mitteleuropeo.

NOTE
1. http://www.hs-augsburg.de/~harsch/germanica/Chronologie/16Jh/Sigismund/sig_intr.html
2. G.Davidson, Coincise English Dictionary, Wordsworth Editions Ltd. 2007, ISBN 1840224975, pag.1000
3. cfr. H.Troyat, Alessandro I. Lo zar della Santa Alleanza, Bompiani, 2001, ISBN 8845291170, 9788845291173
4. P.G.Dwyer, Napoleon and Europe, Routledge, 2014, ISBN 1317882717, 9781317882718, pag.255
5. H.Picks, Guilty victims: Austria from the holocaust to Haider, I.B.Tauris, 2000, ISBN 1860646182, 9781860646188, pag.35
6. M.Cattaruzza, La nazione in rosso: socialismo, comunismo e questione nazionale, 1889-1953, Rubbettino Editore, 2005, ISBN, 8849811772, 9788849811773, pag.17
7. M.Lallement, Le idee della sociologia, volume 1, EDIZIONI DEDALO, 1996, ISBN 8822002024, 9788822002020, pag.108
8. P.S.Adams, The Europeanization of the Social Partnership: The Future of Neo-corporatism in Austria and Germany, ProQuest, 2008, ISBN 0549663916, 9780549663911, pag.171
9. J.A.K.Hey, Small States in World Politics: Explaining Foreign Policy Behavior, Lynne Rienner Publishers, 2003, ISBN 1555879438, 9781555879433, pag.96
10. R.Luther – W.C.Mueller, Politics in Austria: Still a Case of Consociationalism, Routledge, 2014, ISBN 1135193347, 9781135193348, pag.203
11. G.Bischof-A.Pelinka-M.Gehler, Austrian Foreign Policy in Historical Context, Transaction Publishers, 2006, ISBN 1412817684, 9781412817684, pag.212
12. B.Volodarsky, The KGB’s Poison Factory, Frontline Books, 2013, ISBN 1473815738, 9781473815735 , pag.118
13. http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_75912.htm?selectedLocale=en
14. http://www.aco.nato.int/nato-evaluates-the-capability-of-the-austrian-armed-forces.aspx
15. http://www.eurasia-rivista.org/dal-mare-nostrum-al-gallinarium-americanum-basi-usa-in-europa-mediterraneo-e-vicino-oriente/15230/
16. http://www.jamestown.org/single/?no_cache=1&tx_ttnews%5Btt_news%5D=34516#.VJ2_KV4BY
17. http://www.south-stream.info/press/news/news-item/south-stream-returning-to-austria/
18. http://www.nytimes.com/2014/07/23/business/energy-environment/an-austrian-company-in-gazproms-grip.html?_r=0
19. http://derstandard.at/2000009627760/Faymann-zieht-EU-Sanktionen-in-Zweifel
20. http://www.krone.at/Oesterreich/Faymann_droht_im_Ernstfall_mit_TTIP-Klage-Auch_im_Alleingang-Story-432130

A Green Light for the American Empire

 

 

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A Green Light for the American Empire

The American Empire has been long in the making. A green light was given in 1990 to finalize that goal. Dramatic events occurred that year that allowed the promoters of the American Empire to cheer. It also ushered in the current 25-year war to solidify the power necessary to manage a world empire. Most people in the world now recognize this fact and assume that the empire is here to stay for a long time. That remains to be seen.

Empires come and go. Some pop up quickly and disappear in the same manner. Others take many years to develop and sometimes many years to totally disintegrate. The old empires, like the Greek, Roman, Spanish and many others took many years to build and many years to disappear. The Soviet Empire was one that came rather quickly and dissipated swiftly after a relatively short period of time. The communist ideology took many decades to foment the agitation necessary for the people to tolerate that system.

Since 1990 the United States has had to fight many battles to convince the world that it was the only military and economic force to contend with. Most people are now convinced and are easily intimidated by our domination worldwide with the use of military force and economic sanctions on which we generously rely. Though on the short term this seems to many, and especially for the neoconservatives, that our power cannot be challenged. What is so often forgotten is that while most countries will yield to our threats and intimidation, along the way many enemies were created.

The seeds of the American Empire were sown early in our history. Natural resources, river transportation, and geographic location all lent itself to the development of an empire. An attitude of “Manifest Destiny” was something most Americans had no trouble accepting. Although in our early history there were those who believed in a powerful central government, with central banking and foreign intervention, these views were nothing like they are today as a consequence of many years of formalizing the power and determination necessary for us to be the policeman of the world and justify violence as a means for spreading a particular message. Many now endorse the idea that using force to spread American exceptionalism is moral and a force for good. Unfortunately history has shown that even using humanitarian rhetoric as a justification for telling others what to do has never worked.

Our move toward empire steadily accelerated throughout the 20th century. World War I and World War II were deadly for millions of people in many countries, but in comparison the United States was essentially unscathed. Our economic power and military superiority steadily grew. Coming out of World War II we were able to dictate the terms of the new monetary system at Bretton Woods as well as the makeup of all the international organizations like NATO, the United Nations, and many others. The only thing that stood in America’s way between 1945 and 1990 was the Cold War with the Soviet Union. Significant events of 1990 sealed the fate of the Soviet Empire, with United States enjoying a green light that would usher in unchallenged American superiority throughout the world.

Various names have been given to this war in which we find ourselves and is which considered necessary to maintain the empire. Professor Michael Rozeff calls it the “Great War II” implying that the Great War I began in 1914 and ended in 1990. Others have referred to this ongoing war as “The Long War.” I hope that someday we can refer to this war as the “The Last War” in that by the time this war ends the American Empire will end as well. Then the greatness of the experiment in individual liberty in our early history can be resumed and the force of arms can be replaced by persuasion and setting an example of how a free society should operate.

There are several reasons why 1990 is a significant year in the transition of modern day empires. It was a year that signaled the end of the USSR Empire and the same year the American Empire builders felt vindicated in their efforts to assume the role of the world’s sole superpower.

On February 7, 1990 the Central Committee of the Communist Party of the Soviet Union met and ceded its monopoly political power over its empire. This was followed in a short period of time with the breakup of the Soviet system with 15 of the 17 republics declaring their independence from Moscow. This was not a total surprise considering the fact that the Soviets, in defeat, were forced to leave Afghanistan in February 1989. Also later that year, on November 9, 1989, the Berlin wall fell. Obviously the handwriting was on the wall for the total disintegration of the Soviet system. The fact that the Communist Party’s leaders had to concede that they no longer could wield the ominous power that the Communist Party exerted for 73 years was a seminal event. None of this could have been possible without significant policy changes instituted by Mikhail Gorbachev after his assuming power as president in 1985, which included Glasnost and Perestroika—policies that permitted more political openness as well as significant economic reforms. These significant events led up to the Soviet collapse much more so than the conventional argument that it was due to Ronald Reagan’s military buildup that forced the Soviets into a de facto “surrender” to the West.

The other significant event of 1990, and not just a coincidence, was the “green light” message exchanged between April Glaspie and Saddam Hussein on July 25, 1990. Though the details of this encounter have been debated, there is no doubt that the conclusion of it was that Saddam Hussein was convinced that the United States would not object to him using force to deal with a dispute Iraq had with Kuwait. After all, the US had just spent eight years aligning itself with him in his invasion and war with the Iranians. It seemed to him quite logical. What he didn’t realize was the significance of the changes in the world powers that were ongoing at that particular time. The Soviets were on their way out and the American Empire was soon to assert its role as the lone super power. The US was anxious to demonstrate its new role.

When one reads the communications between Washington and Iraq, it was not difficult to believe that a green light had been given to Saddam Hussein to march into Kuwait without US interference. Without this invasion, getting the American people to support a war with Iraq would have been very difficult. Before the war propaganda by the US government and the American media began, few Americans supported President Bush’s plans to go to war against an ally that we assisted in its eight-year war against Iran. After several months of propaganda, attitudes changed and President Bush was able to get support from the US Congress, although he argued that that was unnecessary since he had obtained a UN resolution granting him the authority to use his military force to confront Saddam Hussein. The need for Constitutional authority was not discussed.

US ambassador April Glaspie was rather explicit in her comments to Saddam Hussein: “we have no opinion on Arab – Arab conflicts, like your border disagreement with Kuwait.” The US State Department had already told Saddam Hussein that Washington had “no special defense or security commitments to Kuwait.” It’s not difficult interpreting conversations like this as being a green light for the invasion that Hussein was considering. Hussein had a list of grievances regarding the United States, but Glaspie never threatened or hinted about how Washington would react if Hussein took Kuwait. Regardless, whether it was reckless or poor diplomacy, the war commenced. Some have argued that it was deliberate in order to justify the beginning of the United States efforts in rebuilding the Middle East – a high priority for the neoconservatives. Actually whether the invasion by Saddam Hussein into Kuwait was encouraged or permitted by deliberate intentions or by miscalculations, the outcome and the subsequent disaster in Iraq for the next 25 years was a result of continued bad judgment in our dealing with Iraq. That required enforcing our goals with military intervention. The obvious failure of this policy requires no debate.

On August 1, 1990, one week after this exchange between ambassador Glaspie and Saddam Hussein, the invasion of Kuwait by Iraq occurred. Immediately following this attack our State Department made it clear that this invasion would not stand and President Bush would lead a coalition in removing Iraqi forces from Kuwait. On January 17, 1991, that military operation began. The forced evacuation of Iraqi troops from Kuwait was swift and violent, but the war for Iraq had just begun and continues to this day. It also ushered in the climactic struggle for America’s efforts to become the official and unchallenged policeman of the world and to secure the American Empire.

President Bush was not bashful in setting the stage for this clearly defined responsibility to assume this role since the Soviet Empire was on the wane. A very significant foreign policy speech by Bush came on September 11, 1990 entitled, “Toward a New World Order.” This was a clear definition of internationalism with United States in charge in the tradition of Woodrow Wilson and Franklin D Roosevelt. In this speech there was a pretense that there would be Russian and United States cooperation in making the world safe for democracy—something that our government now seems totally uninterested in. Following the speech, the New York Times reported that the American left was concerned about this new world order as being nothing more than rationalization for imperial ambitions in the middle 1980s. Obviously the geopolitics of the world had dramatically changed. The green light was given for the American hegemony.

This arrogant assumption of power to run the world militarily and to punish or reward various countries economically would continue and accelerate, further complicating the financial condition of the United States government. Though it was easy for the United States to push Hussein back into Iraq, subsequent policy was destined to create havoc that has continued up to the present day. The sanctions and the continuous bombing of Iraq were devastating to the infrastructure of that country. As a consequence it’s been estimated that over 500,000 Iraqis died in the next decade, many of them being children. Yet there are still many Americans who continue to be mystified as to why “they – Arabs and Muslims – hate us.” By the end of 1991, on Christmas Day, the final blow to the Soviet system occurred. On that date Gorbachev resigned and the Soviet flag was lowered for the last time, thus officially ending the Soviet Empire. Many had hoped that there would be “a peace dividend” for us since the Cold War was officially ended. There’s no reason that could not have occurred but it would have required us to reject the notion that it was our moral obligation and legal responsibility to deal with every crisis throughout the world. Nevertheless we embarked on that mission and though it continues, it is destined to end badly for our country. The ending of the Soviet Empire was a miraculous event with not one shot being fired. It was a failed system based on a deeply flawed idea and it was destined to fail. Once again this makes the point that the use of military force to mold the world is a deeply flawed policy. We must remember that ideas cannot be stopped by armies and recognize that good ideas must replace bad ones rather than resorting to constant wars.

It should surprise no one that a policy endorsing the use of force to tell others how to live will only lead to more killing and greater economic suffering for those who engage in this effort, whether voluntarily or involuntarily. Twenty five years have passed since this green light was given for the current war and there’s no sign that it will soon end. So far it has only emboldened American political leaders to robustly pursue foreign interventionism with little thought to the tremendous price that is continuously paid.

During the 1990s there was no precise war recognized. However our military presence around the world especially in the Middle East and to some degree in Africa was quite evident. Even though President George HW Bush did not march into Baghdad, war against the Iraqi people continued. In an effort to try to get the people to rebel against Saddam Hussein, overwhelming sanctions and continuous bombing were designed to get the Iraqi people to rebel and depose Hussein. That did not work. Instead it worked to continue to build hatred toward America for our involvement in the entire region.

Our secretive influence in Afghanistan during the Soviet occupation had its unintended consequences. One was that we were fighting on the side of bin Laden and we all know how that turned out. Also, in an effort to defeat communism, the CIA helped to promote radical Islam in Saudi Arabia. Some argue that this was helpful in defeating the Soviets in Afghanistan. This most likely is not true since communism was doomed to fail anyway, and the cost to us by encouraging radical Islam has come back to haunt us.

It has been estimated that our policies directed at Iraq during the 1990s caused the death of thousands of Iraqis, many of these coming from the destruction of their infrastructure and creating a public health nightmare. When Madeleine Albright was asked about this on national TV she did not deny it and said that that was a price that had to be paid. And then they wonder why there is so much resentment coming from these countries directed toward United States. Then George Bush Junior invaded Iraq, his justification all based on lies, and another 500,000 Iraqis died. The total deaths have been estimated to represent four percent of the Iraqi population. The green light that was turned on for the Persian Gulf War in 1990 stayed lit and even today the proponents of these totally failed wars claim that the only problem is we didn’t send enough troops and we didn’t stay long enough. And now it’s argued that it’s time to send ground troops back in. This is the message that we get from the neoconservatives determined that only armed might can bring peace to the world and that the cost to us financially is not a problem. The proponents never seem to be concerned about the loss of civil liberties, which has continued ever since the declaration of the Global War on Terrorism. And a good case can be made that our national security not only has not been helped, but has been diminished with these years of folly.

And the true believers in empire never pause. After all the chaos that the US government precipitated in Iraq, conditions continue to deteriorate and now there is strong talk about putting troops on the ground once again. More than 10,000 troops still remain in Afghanistan and conditions there are precarious. Yemen is a mess as is also Libya, Pakistan, Somalia, Syria, and Ukraine — all countries in which we have illegally and irresponsibly engaged ourselves.

Today the debate in Congress is whether or not to give the President additional authority to use military force. He asked to be able to use military force anyplace anytime around the world without further congressional approval. This is hardly what the Founders intended for how we dealt with going to war with other nations. Some have argued, for Constitutional reasons, that we should declare war against ISIS. That will prove to be difficult since exactly who they are and where they are located and how many there are is unknown. We do know it is estimated that there are around 30,000 members. And yet in the surrounding countries, where the fighting is going on and we are directly involved, millions of Muslims have chosen not to stand up to the ruthless behavior of the ISIS members.

Since declaring war against ISIS makes no more sense than declaring war against “terrorism,” which is a tactic, it won’t work. Even at the height of the Cold War, in a time of great danger to the entire world, nobody suggested we declare war against “communism.” Islamist extremism is based on strong beliefs, and as evil as these beliefs may be, they must be understood, confronted, and replaced with ideas that all civilized people in the world endorse. But what we must do immediately is to stop providing the incentive for the radicals to recruit new members and prevent American weapons from ending up in the hands of the enemy as a consequence of our failed policies. The incentives of the military-industrial complex along with the philosophy of neoconservatism that pushes us to be in more than 150 countries, must be exposed and refuted. Occupation by a foreign country precipitates hatred and can never be made acceptable by flowery words about their need for American-style “democracy.” People who are occupied are always aware of the selfish motivation of the occupiers.

The announcement by President George HW Bush on September 11, 1990 about the new world order was well received. Prior to that time it was only the “conspiracy theorists” who constantly talked about and speculated about the New World Order. Neoconservative ideas had been around for a long time. They were endorsed by many presidents and in particular Woodrow Wilson with his goal of spreading American goodness and making the ”world safe for democracy” – none of which can be achieved by promoting war. In the 1990s the modern day neoconservatives, led by William Kristol and Robert Kagan, enjoyed their growing influence on America’s foreign policy. Specifically, in 1997 they established the Project for the New American Century (PNAC) for the specific purpose of promoting an aggressive foreign policy of interventionism designed to promote the American Empire. This policy of intervention was to be presented with “moral clarity.” “Clarity” it was, but “moral” is another question. Their goal was to provide a vision and resolve, “to shape a new century favorable to American principles and interest.”

It was not a surprise that admittedly the number one goal for the New World order was to significantly increase military spending and to be prepared to challenge any regime hostile to America’s interests. They argued that America had to accept its unique role as the sole superpower for extending international order as long as it served America’s interests. Although neoconservatives are thought to have greater influence within the Republican Party, their views have been implemented by the leadership of both Republicans and Democrats. First on PNAC’s agenda was to continue the policy designed to undermine Saddam Hussein with the goal of eventually invading Iraq – once they had an event that would galvanize public support for it. Many individuals signed letters as well as the statement of principles and most were identified as Republicans. Interestingly enough, the fourth person on the list of signatories for the statement of principles was Jeb Bush, just as he was planning his second run for governor of Florida. The neoconservatives have been firmly placed in a position of influence in directing America’s foreign policy. Though we hear some debate between the two political parties over when and whom to strike, our position of world policeman is accepted by both. Though the rhetoric is different between the two parties, power always remains in the hands of those who believe in promoting the empire.

The American Empire has arrived, but there’s no indication that smooth sailing is ahead. Many questions remain. Will the American people continue to support it? Will the American taxpayer be able to afford it? Will those on the receiving end of our authority tolerate it? All empires eventually end. It’s only a matter of time. Since all empires exist at the expense of personal liberty the sooner the American Empire ends the better it will be for those who still strive to keep America a bastion for personal liberty. That is possible, but it won’t be achieved gracefully.

Though the people have a say in the matter, they have to contend with the political and financial power that controls the government and media propaganda. The powerful special interests, who depend on privileges that come from the government, will do whatever is necessary to intimidate the people into believing that it’s in their best interest to prop up a system that rewards the wealthy at the expense of the middle class. The nature of fiat money and the privileges provided to the special interests by the Federal Reserve makes it a difficult struggle, but it’s something that can be won. Unfortunately there will be economic chaos, more attacks on our civil liberties, and many unfortunate consequences coming from our unwise and dangerous foreign policy of interventionism.

Since all empires serve the interests of a privileged class, the people who suffer will constantly challenge their existence. The more powerful the empire, the greater is the need for the government to hold it together by propaganda and lies. Truth is the greatest enemy of an abusive empire. Since those in charge are determined to maintain their power, truth is seen as being treasonous. Whistleblowers and truth tellers are seen as unpatriotic and disloyal. This is why as our empire has grown there have been more attacks on those who challenge the conventional wisdom of the propagandists. We have seen it with the current administration in that the president has used the Espionage Act to curtail freedom of the press more than any other recent president. Fortunately we live in an age where information is much more available than when it was controlled by a combination of our government and the three major networks. Nevertheless it’s an uphill struggle to convince the people that it is in their best interests to give up on the concept of empire, foreign interventionism, allowing the special interests to dictate foreign policy, and paying the bills with the inflation of the money supply provided by the Federal Reserve. The laws of economics, in time, will bring such a system to an end but it would be nice if it would be ended sooner through logic and persuasion.

If it’s conceded that there was a dramatic change with the green light given by April Glaspie and President Bush in 1990, along with the collapse, almost simultaneously, of the Soviet system, the only question remains is when and who will turn on the red light to end this 25 year war. Sometime it’s easier to establish an empire than it is to maintain and pay for it. That is what our current political leaders are in the business of currently doing and it’s not going well. It appears that a comparatively small but ruthless non-government entity, ISIS, is playing havoc with our political leaders as well as nearly all the countries in the Middle East. Because there is no clear understanding of what radical Islam is all about  —since it is not much about Islam itself — our policies in the Middle East and elsewhere will continue to drain our resources and incite millions more to join those who are resisting our occupations and sanctions. The day will come when we will be forced to give up our role as world policeman and resort to using a little common sense and come home.

This will only occur when the American people realize that our presence around the world and the maintenance of our empire has nothing to do with defending our Constitution, preserving our liberties, or fulfilling some imaginary obligation on our part to use force to spread American exceptionalism. A thorough look at our economic conditions, our pending bankruptcy, our veterans hospitals, and how we’re viewed in the world by most other nations, will compel Americans to see things differently and insist that we bring our troops home – the sooner the better.

Vocal proponents of the American Empire talk about a moral imperative that requires us to sacrifice ourselves as we try to solve the problems of the world. If there was even a hint this effort was accomplishing something beneficial, it might be more difficult to argue against. But the evidence is crystal-clear that all our efforts only make things worse, both for those we go to teach about democracy and liberty and for the well-being of all Americans who are obligated to pay for this misplaced humanitarian experiment. We must admit that this 25-year war has failed. Nevertheless it’s difficult to argue against it when it requires that that we not endorse expanding our military operations to confront the ISIS killers. Arguments against pursuing a war to stop the violence, however, should appeal to common sense. Recognizing that our policies in the Middle East have significantly contributed to the popular support for radical Islam is crucial to dealing with ISIS. More sacrifices by the American people in this effort won’t work and should be avoided. If one understands what motivates radical Islam to strike out as it does, the solution would become more evident. Voluntary efforts by individuals to participate in the struggle should not be prohibited. If the solution is not more violence on our part, a consideration must be given to looking at the merits of a noninterventionist foreign policy which does not resort to the killing of hundreds of thousands of individuals who never participated in any aggression against United States — as our policies have done since the green light for empire was given.

How is this likely to end? The empire will not be ended legislatively or by the sudden embrace of common sense in directing our foreign policy. The course of interventionism overseas and assuming the role of world policeman will remain for the foreseeable future. Still the question remains, how long will that be since we can be certain that the end of the empire will come. Our military might and economic strength is now totally dependent on the confidence that the worldwide financial markets give to the value of the US dollar. In spite of all the reasons that the dollar will eventually be challenged as the world reserve currency, the competition, at present, by other currencies to replace it, is nil. Confidence can be related to objective facts such as how a country runs its fiscal affairs and monetary policy. Economic wealth and military strength also contribute artificial confidence to a currency. Perceptions and subjective reasons are much more difficult to define and anticipate. The day will come when the confidence in the dollar will be greatly diminished worldwide. Under those conditions the tremendous benefits that we in the United States have enjoyed as the issuer of the reserve currency will be reversed. It will become difficult if not impossible for us to afford huge budget deficits as well as very large current account deficits. National debt and foreign debt will serve as a limitation on how long the empire can last. Loss of confidence can come suddenly and overwhelmingly. Under those conditions we will no longer be able to afford our presence overseas nor will we be able to continue to export our inflation and debt to other nations. Then it will require that we pay for our extravagance, and market forces will require that we rein in our support for foreign, corporate, and domestic welfare spending. Hopefully this will not come for a long time, giving us a chance to educate more people as to its serious nature and give them insight into its precise cause. Nevertheless we live in a period of time when we should all consider exactly what is the best road to take to protect ourselves, not only our personal wealth but also to prepare to implement a system based on sound money, limited government, and personal liberty. This is a goal we can achieve. And when we do, America will enjoy greater freedom, more prosperity and a better chance for peace.

Le dogmatisme démocratique: l’erreur fatale des Occidentaux

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SYRIE : L’AVEU AMÉRICAIN
Le dogmatisme démocratique: l’erreur fatale des Occidentaux

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
 
Le djihadisme qui veut nous détruire, nous l’avons créé, les Américains l'ont financé. Nous avons partout voulu tuer le mauvais cochon. On commence à peine à le comprendre et encore pas tout le monde. L'extraordinaire revirement américain sur le régime Assad est tout de même un sacré aveu.

Assad résiste et son régime avec lui. On pensait qu’il allait être emporté en quelques mois par un printemps démocratique syrien  puis par une rébellion armée de gentils sunnites voulaient en finir avec la dictature de la minorité chiite des Alaouites. Son armée, dirigée par les cadres de la minorité religieuse au pouvoir, a tenu bon. Petit à petit la rébellion a changé de visage et a été confisquée par les djihadistes sunnites.

C’était tout de même prévisible, l’ennemi syrien de Damas, combattu par les Américains, était en fait le même que celui imposé par les Américains à Bagdad. Le pouvoir chiite irakien a donc réussi à déclencher une révolte sunnite armée devenue une insurrection islamiste.

Notre incohérence est telle que le succès des djihadistes irakiens, destructeurs des cultures passées et génocidaires de chrétiens a été rendue possible par l’apport décisif de l'infrastructure de l'armée baasiste, c’est à dire nationaliste et laïque de Saddam Hussein. La cohérence est du côté de la Russie et de l'Iran, surtout de l'Iran qui, en Irak comme en Syrie, appuyé sur le terrain par le hezbollah libanais, soutient l’arc chiite qui résiste au djihadisme sunnite.

La réalité géopolitique s’impose petit à petit à l'utopie idéologique. C’est  ce qui inquiète tant les monarchies du golfe qui financent, contre les chiites, les égorgeurs sectaires de l’EI. Car c’est l' Iran, allié d'Assad, qui a la clé de la victoire sur le terrain, au sol, et certainement pas nos bombardements de bonne conscience. Les américains, principaux responsables sauf en Libye de ce chaos devenu une guerre mondiale religieuse ou en tout cas une guerre menée au monde par une secte se référant à une religion, commencent peut-être à comprendre.

Les Etats-Unis devront négocier avec le président syrien Bachar el-Assad pour mettre fin au conflit qui vient d'entrer dans sa cinquième année, a reconnu le secrétaire d'Etat américain John Kerry. « Au final, il faudra négocier. Nous avons toujours été pour les négociations dans le cadre du processus (de paix) de Genève I », a déclaré Kerry dans une interview diffusée sur la chaîne CBS .Washington travaille pour « relancer » les efforts visant à trouver une solution politique au conflit, a dit le chef de la diplomatie américaine. Les Etats-Unis avaient participé à l'organisation de pourparlers entre l'opposition syrienne et des émissaires de Damas à Genève au début de l'année dernière. Ce processus de Genève prévoit une transition politique négociée. Mais les deux cycles de négociations n'avaient produit aucun résultat et la guerre s'est poursuivie.

Depuis le début du conflit en mars 2011, plus de 215.000 personnes ont été tuées et la moitié de la population déplacée. Les Etats-Unis, a poursuivi le secrétaire d'Etat, « continuent certes à pilonner le groupe Etat islamique, qui s'est emparé de larges pans de territoire en Irak et en Syrie, mais leur objectif reste de mettre fin au conflit en Syrie. Les Etats-Unis ne veulent pas d'un effondrement du gouvernement et des institutions en Syrie qui laisserait le champ libre aux extrémistes islamistes, dont le groupe Etat islamique (EI) ».

« Aucun d'entre nous, Russie, Etats-Unis, coalition [contre l'EI], Etats de la région, ne veut un effondrement du gouvernement et des institutions politiques à Damas », a déclaré  John Brennan, directeur de la CIA, à New York devant le centre de réflexion Council on Foreign Relations. Des « éléments extrémistes », dont l'EI et d'anciens militants d'Al-Qaïda, sont « en phase ascendante » dans certaines régions de Syrie, a soutenu M. Brennan. Interrogé sur une potentielle coopération entre Washington et Téhéran en Irak, M. Brennan a suggéré que les deux pays collaboraient indirectement contre un ennemi commun, l'EI. « Il y a un alignement de certains intérêts entre nous et l'Iran » en ce qui concerne la lutte contre l'EI en Irak, a-t-il affirmé.

On commence a comprendre qui est l’ennemi principal. Enfin… On… pas encore vraiment les Anglais et encore moins les Français qui continuent à sauter sur place en scandant, d’exécutions d’otages en attentats? de destructions en épurations, « démocratie – démocratie – démocratie » 

vendredi, 20 mars 2015

Stratfor: VS wil ten koste van alles alliantie Duitsland-Rusland voorkomen

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Stratfor: VS wil ten koste van alles alliantie Duitsland-Rusland voorkomen

‘Amerika zet volken tegen elkaar op om te voorkomen dat ze zich tegen VS keren’

VS zet in op het ten val brengen van Rusland en de EU en het steunen van Turkije en Japan als nieuwe machten

George Friedman, hoofd van de Amerikaanse private inlichtingendienst Stratfor, heeft in een toespraak gezegd dat het belangrijkste strategische doel van de Verenigde Staten het voorkomen van een alliantie tussen Duitsland en Rusland is. Dat pact zou namelijk als enige de wereldwijde hegemonie van Amerika kunnen uitdagen. Friedman erkende dat de VS over de hele wereld een ‘verdeel en heers’ tactiek toepast door volken en landen tegen elkaar op te zetten, zodat ze zich niet tegen Amerika (kunnen) keren.

‘Amerika moet oceanen en ruimte blijven controleren’

‘De VS heeft een fundamenteel belang: ze controleert alle oceanen van de wereld,’ aldus Friedman in een toespraak voor de in 1922 opgerichte Chicago Council on Global Affairs. ‘Geen enkele andere macht heeft dat ooit gedaan. Daarom vallen wij bij volken binnen, maar kunnen zij niet bij ons binnenvallen. Dat is een prachtige zaak.’

‘Het behouden van de controle over de oceanen en de ruimte is het fundament van onze macht. De beste manier een vijandelijke vloot te overwinnen is te voorkomen dat zo’n vloot wordt opgebouwd.’

Verdeel-en-heers

‘De politiek die ik zou aanbevelen is die Ronald Reagan in Irak en Iran heeft toegepast. Hij financierde beide partijen, zodat ze tegen elkaar gingen vechten en niet tegen ons. Het was cynisch, zeker niet moreel verdedigbaar, maar het functioneerde.’

‘Dat is het punt: de VS kan Eurazië niet bezetten. Op het moment dat we één laars op Europese bodem zetten, zijn wij op grond van de demografische verschillen getalsmatig totaal in de minderheid. Wij kunnen een leger verslaan, maar niet Irak bezetten... Wij zijn wel in staat om meerdere met elkaar overhoop liggende machten te ondersteunen, zodat ze zich op zichzelf concentreren...’

Die ‘ondersteuning’ bestaat volgens Friedman uit militaire, economische en financiële hulp en het sturen van –natuurlijk dik betaalde- ‘adviseurs’ van bijvoorbeeld zijn eigen private inlichtingendienst.

‘Uit balans brengen van landen zeer eenvoudig’

Dat Amerikaanse regeringen dachten tegelijkertijd ‘democratie’ naar landen zoals Afghanistan en Irak te brengen, is een misrekening geweest, aldus de Stratfor topman. Het uit balans brengen van landen bleek echter buitengewoon eenvoudig. Friedman noemde het niet, maar hij zal ongetwijfeld de vele burgerdoden door onder andere drone aanvallen en de totale chaos bedoelen die in diverse landen ontstond na Amerikaans ingrijpen.

Amerikaans imperium wordt nog groter

Grote voorbeeld is wat hem betreft het Romeinse Rijk, dat eveneens een verdeel-en-heers tactiek toepaste. De Nazi’s hebben in zijn ogen bewezen dat een directe bezetting niet werkt, maar alleen indirecte controle over landen en volken mogelijk is.

Het Amerikaanse imperium is wat Friedman betreft nog lang niet uitgegroeid. Er komt zelfs nog een ‘derde hoofdstuk’ aan. Wat dat inhoudt vertelde hij niet, maar daarbij gaat het ongetwijfeld om het realiseren van de ‘Nieuwe Wereld Orde’ zoals die op 11 september 1991 door president George Bush werd aangekondigd. (1)

Alliantie Duitsland-Rusland grootste bedreiging

Wat dit nog machtigere Amerikaanse imperium zou kunnen bedreigen is een alliantie tussen Duitsland en Rusland. Het voorkomen van die concurrerende wereldmacht is in Friedmans ogen de komende jaren het belangrijkste strategische doel van de Verenigde Staten. De door de CIA geleide staatsgreep in Oekraïne en de anti-Russische propaganda in de Westerse media staan geheel in het teken van het veroorzaken van zoveel mogelijk spanningen tussen Europa en Rusland.

Ten val brengen Rusland en EU

In zijn boek ‘De volgende 100 jaar’ (2009) schreef de chef van Stratfor dat de Verenigde Staten er voor zullen zorgen dat Turkije, Polen en Japan tussen 2020 en 2030 nieuwe regionale machten worden, en Oost Europa een pro-Amerikaans blok wordt. Al deze ontwikkelingen hebben als doel twee potentiële concurrenten, Rusland en de EU, ten val te brengen.

Xander

(1) KOPP
(2) Deutsche Wirtschafts Nachrichten

L’UTOPIA GEOPOLITICA DELL’ “IMPERO LATINO”

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L’UTOPIA GEOPOLITICA DELL’ “IMPERO LATINO”

Davide Ragnolini

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Il Mar Mediterraneo, come topos del rapporto tra Europa e Vicino Oriente e con una naturale vocazione geopolitica di crocevia tra Nord e Sud del mondo, si presenta oggi al centro di un processo storico che vede un’ingerenza di attori atlantici, di natura “oceanica”.

Seguendo lo storico Mollat du Jourdin possiamo distinguere «due Mediterranei europei»,[i] cioè “due mari tra le terre” nel continente europeo. Di quello a nord aperto all’Oceano e «totalmente europeo»[ii] lo storico francese scrive: «i mari del Nord-ovest e del Nord europeo ritrovarono la loro vocazione ad essere il dominio del profitto e del potere, vocazione per altro mai dimenticata»;[iii] del Mediterraneo a sud, con il suo appellativo di mare nostrum, egli scrive che la sua natura sta nell’essere «un mare se non chiuso ad ogni modo incluso in un universo politico, dapprima unico, e centrato sull’Europa, e in seguito esteso all’Africa».[iv] Questo secondo Mediterraneo collocato nel Mezzogiorno dell’Europa si trova in una posizione geografica euro-afroasiatica che lo distingue da quello settentrionale sotto l’aspetto culturale ed antropologico conferendogli un carattere di unicità: «un mare su cui si affacciano tre continenti e tre religioni monoteistiche che non sono mai riuscite a prevalere l’una sull’altra».[v] Danilo Zolo osserva infatti che questo luogo sincretico di culture, popoli ed etnie differenti «come tale non è mai stato monoteista» e si presenta anzi come un «pluriverso irriducibile di popoli e di lingue che nessun impero mondiale oceanico può riuscire a ridurre ad unum».[vi] Nella misura in cui tale pluriverso ha un’unità storico-geografica ma non politica, economica e militare, la “deriva oceanica” del Mediterraneo si verifica attraverso un processo di erosione della sua unità, e sottrazione della suo spazio di autonomia geopolitica a favore di attori diversi da quelli dell’Europa mediterranea e del mondo arabo-musulmano.[vii] Questa considerazione geopolitica sull’unità del pluriverso mediterraneo deve essere congiunta con un’altra più specificamente storico-politica relativa alla crisi dello Stato-nazione, che Habermas, nel 1996, svolgeva nel seguente modo: «la sovranità degli stati nazionali si ridurrà progressivamente a guscio vuoto e noi saremo costretti a realizzare e perfezionare quelle capacità d’intervento sul piano sopranazionale di cui già si vedono le prime strutture. In Europa, Nordamerica e  Asia stanno infatti nascendo organizzazioni soprastatali per regimi continentali che potrebbero offrire l’infrastruttura necessaria alla tuttora scarsa efficienza delle Nazioni Unite».[viii] Le entità sovrastatali a cui fa riferimento il liberale Habermas, apologeta dell’operato dell’Onu e dell’Ue, non sono le stesse delineate dal filosofo hegeliano Alexandre Kojève. Tuttavia la diagnosi dell’idea di Stato-nazione, assieme alla prima considerazione sull’unità del pluriverso mediterraneo, costituisce il punto di avvio dell’intuizione geopolitica del filosofo russo-francese nel suo L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese (27 agosto 1945). Questo Esquisse d’une doctrine de la politique française fu pubblicato in versione dimidiata solo nel 1990 sulla rivista diretta da Bernard-Henry Lévy («La Regle du Jeu», I, 1990, 1). Su questo testo, pubblicato integralmente in italiano nel 2004 all’interno di una raccolta di scritti di Kojève intitolata Il silenzio della tirannide, anche il filosofo italiano Giorgio Agamben ha recentemente richiamato l’attenzione[ix]; tuttavia esso è passato pressoché inosservato all’interno dell’ideologia europeista dominante.

La stesura di questo abbozzo di dottrina geopolitica francese avvenne nell’agosto 1945, e trasse occasione dalla cooptazione di Kojève da parte di un suo ex-allievo nei negoziati dell’Avana per la creazione del GATT.[x] Due sono le preoccupazioni che Kojève espone all’inizio del suo scritto, e sono strettamente legate alle immediate circostanze storiche francesi: una, più remota, era quella relativa allo scoppio di una terza guerra mondiale in cui il suolo francese sarebbe potuto diventare campo di battaglia tra russi e anglosassoni; l’altra, più concreta, era costituita dalla crescita del «potenziale economico della Germania», per cui l’«l’inevitabile integrazione di questo paese – che si tenterà di rendere “democratico” e “pacifico” – all’interno del sistema europeo comporterà fatalmente la riduzione della Francia al rango di potenza secondaria».[xi] Il quadro giuridico-politico internazionale sul quale si delinea l’analisi di Kojève è quello della progressiva crisi dello Stato-nazione, prodotto dalla modernità politica a vantaggio di «formazioni politiche che fuoriescono dai limiti nazionali».[xii] Lo Stato moderno per poter essere politicamente efficace deve, in questo mutato quadro geopolitico, poter poggiare su una «vasta unione “imperiale” di nazioni imparentate».[xiii] A provare tale tendenza secondo Kojève sarebbe anche l’insufficienza dello sviluppo militare, sempre più determinata dai limiti economici e demografici su scala nazionale che rendono impossibile la gestione di eserciti in una fase post-nazionale. Ma il limite è evidentemente nell’idea stessa di Stato-nazione.

Nella lettura storica che egli diede della sconfitta del Reich tedesco viene messa in rilievo l’impossibilità da parte di uno Stato di preservare un’esistenza politica sulla limitata base di uno Stato-nazione e con la sua connessa «ideologia nazionalista».[xiv] Da questo punto di vista nella sua analisi, similmente a quella svolta dal secondo Carl Schmitt, interessato all’idea di Grossraum sul piano internazionale, vi è «la consapevolezza del deperimento della sovranità statuale».[xv] La stessa diagnosi dell’idea e della realtà storica dello Stato-nazione è data oggi da Alain de Benoist, per il quale l’unità artificiale dello Stato-nazione è diventata ormai un’istanza di mediazione inefficace tra le tendenze centrifughe di regionalismi e irredentismi etnolinguistici dal basso e la pressione dei mercati mondiali dall’alto.[xvi]

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Secondo Kojève l’erosione dell’efficacia politica dello Stato-nazione si poté già scorgere da un lato nel liberalismo borghese, che affermava il primato della società di individui sull’autonomia politica dello Stato, dall’altro nell’internazionalismo socialista, che pensava di realizzare il trasferimento della sovranità delle nazioni all’umanità.[xvii] Secondo il filosofo francese, se la prima teoria si caratterizzò per miopia nel non vedere un’entità politica sovranazionale, la seconda fu ipermetrope nel non scorgere entità politiche al di qua dell’umanità. Kojève intuì che la nuova struttura politica statale che si stava configurando sarebbe costituita da imperi intesi come «fusioni internazionali di nazioni imparentate».[xviii] Da un punto di vista storico-filosofico il Weltgeist hegeliano, prima di poter incarnarsi nell’umanità, sembra dover assumere la forma dell’Impero,[xix] senza con ciò rinunciare alla propria teleologia di una metempsicosi cosmostorica tesa ad una comunità mondiale. Una concreta realizzazione storica di un’entità politica sorretta dalla mediazione tra universalismo e particolarismo geopolitico sarebbe stata rappresentata dall’«imperial-socialismo» di Stalin, che si contrappose sia all’astratto Stato-umanità di Trotzki, sia al particolarismo del nazional-socialismo tedesco.

All’imperial-socialismo sovietico, o impero slavo-sovietico, si contrappose un’altra efficace entità politica che Kojève qualifica come imperiale: l’«impero anglo-americano».[xx] Nell’acuta analisi precorritrice del filosofo francese, la «Germania del futuro», estinguendosi come Stato-nazione caratterizzato da esclusivismo geopolitico ed autonomia politica in base al principio postvestfaliano dello Stato come superiorem non reconoscens,[xxi] «dovrà aderire politicamente all’uno o all’altro di questi imperi».[xxii] Da un punto di vista culturale-religioso, la parentela che egli individua tra anglosassoni e tedeschi si fonderebbe sull’ispirazione protestante comune. Il problema che si pose Kojève fu dunque specificamente geopolitico e tuttora assolutamente attuale: scongiurare la riduzione della Francia a «hinterland militare ed economico, e quindi politico, della Germania, divenuta avamposto militare dell’impero anglosassone».[xxiii] L’orientamento della Germania verso l’impero anglo-americano si sarebbe potuto osservare negli sviluppi storici e geopolitici successivi.

Ma nell’analisi dell’hegeliano francese, il problema della riduzione della sovranità coinvolgerebbe conseguentemente le altre nazioni dell’Europa occidentale «se si ostineranno a mantenersi nel loro isolamento politico “nazionale”».[xxiv] Il progetto politico proposto da Kojève è teso quindi alla creazione di una terza potenza tra quella ortodossa slavo-sovietica e quella protestante germano-anglo-sassone: un impero latino alla cui testa possa porsi la Francia al fine di salvaguardare la propria specificità geopolitica assieme a quella di altre nazioni latine, minacciate da un bipolarismo mondiale che preme su uno spazio mediterraneo da oriente e da occidente.

La vocazione di tale progetto imperiale non potrebbe però avere un carattere imperialistico, perché non sarebbe capace di un sufficiente potere offensivo verso gli altri due imperi, ma avrebbe piuttosto la funzione di preservare la pace e l’autonomia geopolitica di un’area che si sottrae al pericolo di egemonie imperialistiche esterne impedendo che il proprio spazio diventi campo di battaglia di Asia e Pacifico.[xxv] L’analisi della situazione della Francia svolta da Kojève rivela però alcune precise difficoltà di realizzazione di questo progetto politico. Secondo il filosofo francese alla «fine del periodo nazionale della storia»[xxvi], che peraltro la Francia faticherebbe a riconoscere, si aggiunge un processo di «spoliticizzazione» del Paese, cioè di perdita della volontà politica ed una conseguente decadenza sotto il piano sociale, economico e culturale. Un progetto sovranazionale implica un dinamismo diplomatico e uno sforzo di mediazione culturale di cui i paesi latini si devono assumere l’impegno. La parentela che Kojève scorge tra le nazioni latine come Francia, Italia e Spagna, e che costituisce l’elemento coesivo di un progetto di entità politica postnazionale, è caratterizzato da un punto di vista culturale da «quell’arte del tempo libero che è l’origine dell’arte in generale».[xxvii] Tale peculiarità dell’«Occidente latino unificato»[xxviii] sarebbe un aspetto identitario omogeneo ai Paesi latini e rimarrebbe ineguagliato dagli altri due imperi. Per questa ragione antropologico-culturale Danilo Zolo può affermare che «l’area mediterranea vanta la più grande concentrazione artistica del mondo».[xxix]

Più in generale, secondo Kojève la formazione di entità politiche imperiali dopo lo Stato-nazione è rafforzata dalla coesione di queste nazioni imparentate con le Chiese più o meno ufficiali ad esse corrispondenti.[xxx] Questa parentela o unione latina può diventare un’entità politica reale solo formando un’autentica unità economica, condizione materiale di esistenza di tale progetto sovranazionale. Ben lungi dall’essere un vettore di conflitto, tale impero latino potrebbe garantire un’intesa politicamente efficace tra culture diverse ma unite nello stesso spazio di appartenenza e comunità di destino. È su questa identità geopolitica comune che è possibile pensare ad un efficace antidoto contro l’idea di clash of civilizations, costitutivamente estranea all’area mediterranea: «un’intesa tra la latinità e l’islam – scrisse Kojève – renderebbe singolarmente precaria la presenza di altre forze imperiali nel bacino mediterraneo».[xxxi]

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Da questo punto di vista identitario-culturale, la considerazione sull’esigenza di unità economica nell’area latina delineata dal filosofo francese è ben lontana dal liberalistico primato dell’economico sul politico che si è affermato ed istituzionalizzato successivamente nell’Unione europea. L’unione economica dei Paesi latini è infatti pensata solo come condizione, mezzo dell’unità imperiale latina, non come una sua ragion d’essere, perché il fine ultimo di questa è essenzialmente politico ed è sorretto da un’ideologia specifica. Categoria fondamentale dell’ideologia dell’unità imperiale latina è l’indipendenza e l’autonomia, alla quale si rivelano subordinati altri aspetti come quelli di potenza e di grandezza. Una politica militarista secondo Kojève tradisce una insicurezza e minaccia di instabilità che la formazione di un progetto sovrastatale mediterraneo dovrebbe allontanare: «il militarismo nasce dal pericolo e soprattutto dalla sconfitta, cioè da una debolezza solo probabile o già verificatasi».[xxxii] Per questa ragione il fenomeno di militarismo ed imperialismo viene da Kojève rigettato come «meschino», e spiegato come il riflesso di uno Stato-nazione fragile e non di una struttura politica imperiale.

A tale impero latino dovrà corrispondere un esercito sovranazionale «sufficientemente potente da assicurargli un’autonomia nella pace e una pace nell’autonomia» e non nella dipendenza di uno dei due imperi rivali.[xxxiii] Come già rilevato sopra, la potenza militare dell’impero latino né potrebbe, né dovrebbe avere carattere offensivo, ma piuttosto un carattere difensivo riferito ad una concreta localizzazione nello spazio: «l’idea di un Mediterraneo “mare nostrum” potrebbe e dovrebbe essere il fine concreto principale, se non unico, della politica estera dei latini unificati […] si tratta di detenere il diritto e i mezzi di chiedere una contropartita a coloro che vorranno circolare liberamente in questo mare o di escluderne altri. L’accesso o l’esclusione dovranno dipendere unicamente dall’assenso dell’impero latino grazie ai mezzi di cui esso solo può disporre».[xxxiv] L’isolamento dei singoli paesi latini non li farebbe altro che naufragare sul blocco imperiale anglo-sassone, trasformandoli in «satelliti nazionali»[xxxv] di una delle due formazioni imperiali straniere. Interessante è l’osservazione di Kojève sul pericoloso potenziale di squilibrio geopolitico ed economico che la Germania può costituire rispetto ai Paesi latini e all’Europa intera: «se il pericolo di una Germania nemica sembra essere scongiurato per sempre, il pericolo economico rappresentato da una Germania “alleata” affrontato all’interno di un blocco occidentale che sia un’emanazione dell’impero anglosassone non è affatto chimerico, mentre rimane, anche sul piano politico, incontestabilmente mortale per la Francia»[xxxvi] e per gli altri Paesi latini. L’impero latino come entità politica autonoma potrebbe essere in grado di «opporsi in maniera costante ad un’egemonia continentale tedesca» o anglo-americana.

L’idea di impero latino non deve cioè essere connessa ai limiti di un anacronistico Stato-nazione, ma riferito a «fusioni internazionali di nazioni imparentate»[xxxvii] o «unione internazionale di nazioni imparentate».[xxxviii).

I problemi politici interni che ostacolerebbero il progetto di impero latino in Francia sarebbero secondo Kojève costituiti sia dal «quietismo economico e politico» che paralizza l’intraprendenza politica del Paese, cioè ostacolano «l’attività negatrice del dato, quindi creatrice e rinnovatrice», sia da formazioni partitiche che si rivelano essere «tanto più intransigenti nel loro atteggiamento quanto meno questo è dottrinale».[xxxix] La compresenza di questi due aspetti agirebbe in modo ostativo rispetto al progetto di impero latino, e non possiamo certo dire che oggi, sotto l’esperienza del commissariamento tecnico-economico dei governi e nella caotica frammentarietà di partiti deideologizzati la situazione possa definirsi più idonea sul piano fattuale per la costruzione di un progetto geopolitico sovranazionale alternativo.

Nell’analisi che Kojève svolge sulla possibile collaborazione ed idoneità dei vari partiti politici esistenti in Francia rispetto al progetto di impero latino, di grande rilievo è il rapporto che viene delineato tra formazione imperiale e Chiesa. Nella nascente fase storica di formazione di imperi post-nazionali le Chiese cristiane tra loro separate sembrano abbisognare dell’esistenza di compagini intermedie tra l’umanità e le nazioni.[xl] Si potrebbe quindi osservare un isomorfismo strutturale dal punto di vista geopolitico tra le Chiese separate e le formazioni imperiali: né universalistici, né limitati in un’anacronistica idea di Stato-nazione. La Chiesa cattolica, in questo quadro geopolitico in cui i movimenti imperiali rappresentano l’attualità, acquisirebbe «il patrocinio spirituale dell’impero latino»[xli] e, tenendosi salda alla propria natura di Chiesa potenzialmente universale, ricorderebbe all’impero latino il suo carattere storicamente transitorio all’interno dello sviluppo storico. Il progetto di impero latino nella sua configurazione storica e geopolitica si differenzia dal Grossraum schmittiano per il fatto che esso non esercita, o almeno non primariamente, la funzione di katechon[xlii] perché da un punto di vista geopolitico rappresenta «la forma intermedia tra Vestfalia e Cosmopolis»,[xliii] e sul piano storico «prepara e anticipa lo stato mondiale».[xliv]

Questo progetto per una dottrina geopolitica francese e mediterranea seppur si inquadri in un rapporto di opposizione all’unipolarismo anglo-americano e sia schiettamente orientato in una prospettiva multipolare, dal punto di vista storico-escatologico diventa vettore di realizzazione dell’idea di Stato-umanità secondo l’umanismo filosofico di Kojève.

L’8 maggio di quest’anno, a proposito del progetto geopolitico di questo singolare «marxiste de droite»[xlv], è apparso sulla rivista tedesca Die Welt un articolo che, al contrario di quello di Agamben, non è affatto passato inosservato. Il sociologo tedesco Wolf Lepenies,[xlvi] nella sua risposta al duro documento del Partito socialista francese contro il dogma economico dell’austerità tedesca, chiama in causa la dottrina geopolitica di Kojève di un’unione contro la Germania, che sembrerebbe acquisire fama e simpatie presso la sinistra francese e troverebbe risonanza presso il filosofo italiano Agamben. L’articolo di Lepenies è critico anche verso l’intuizione kojèviana di una Germania che persegue i propri vantaggi economici all’ombra di un blocco euro-atlantista. Tale episodio è significativo sul piano negativo: un articolo di un quotidiano tedesco conservatore di oggi, fondato dalle forze inglesi vincitrici nel 1946, rivolto contro il progetto geopolitico alternativo da un filosofo francese pensato nel dopoguerra non può che assumere rilievo sotto il profilo della teoria geopolitica contemporanea. Il binomio Germania-Eurolandia, col suo potenziale destabilizzante per il continente europeo e in particolare per i paesi mediterranei europei, può essere ridiscusso solo a partire dalla critica al suo fondamento geopolitico euro-atlantista, come intuì Kojève all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.



[i] MOLLAT DU JOURDIN M., L’Europa e il mare dall’antichità ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 14.

[ii] Ivi, p. 29.

[iii] Ivi, p. 66.

[iv] Ivi, p. 29.

[v] ZOLO D., Per un dialogo fra le culture del Mediterraneo in AA. VV., Mediterraneo. Un dialogo tra le sponde, a cura di F. Horchani e D. Zolo, Jouvence, Roma, 2005, p. 18.

[vi] Ibidem.

[vii] Cfr. ZOLO D., La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, a cura di F. Cassano e D. Zolo, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 18-21. Cfr. anche l’interessante intervista di Alain de Benoist rivolta a Danilo Zolo su questo tema reperibile nel seguente sito: http://www.juragentium.org/topics/med/it/benoist.htm.

[viii] HABERMAS J., Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza in ID., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 120-121.

[ix] Il titolo dell’articolo di Giorgio Agamben apparso su Repubblica il 15 marzo di quest’anno si intitola “Se un impero latino prendesse forma nel cuore dell’Europa”, ed è reperibile nel seguente sito:  http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/15/se-un-impero-latino-prendesse-forma-nel.html.

[x] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in AA. VV., Quaderni fiorentini per la storia del pensiero moderno, vol. XXXV, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 379.

[xi] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in ID., Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano, 2004, p. 163.

[xii] Ivi, p. 164.

[xiii] Ivi, p. 165.

[xiv] Ivi, pp. 167-168.

[xv] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 393.

[xvi] Cfr. DE BENOIST A., L’idea di Impero, in AA. VV., Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n.° 1/2013.

[xvii] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., pp. 168-169.

[xviii] Ivi, p. 169.

[xix] Ivi, p. 170.

[xx] Ivi, p. 171.

[xxi] ZOLO D., Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 68.

[xxii] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., p. 172.

[xxiii] Ivi, p. 173.

[xxiv] Ivi, p. 174.

[xxv] Ivi, p. 175.

[xxvi] Ivi, p. 179.

[xxvii] Ivi, p. 183.

[xxviii] Ivi, p. 184.

[xxix] ZOLO D., La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, op. cit., p. 17.

[xxx] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., p. 185.

[xxxi] Ivi, p. 188.

[xxxii] Ivi, p. 193.

[xxxiii] Ibidem.

[xxxiv] Ivi, p. 195.

[xxxv] Ivi, p. 196.

[xxxvi] Ivi, p. 197.

[xxxvii] Ivi, p. 169.

[xxxviii] Ivi, p. 181.

[xxxix] Ivi, p. 198.

[xl] Ivi, p. 208.

[xli] Ivi, p. 209.

[xlii] SCHMITT C., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, a cura di Franco Volpi, Adelphi, 2003, p. 42 e sgg.

[xliii] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 394.

[xliv] Ivi, p. 398.

[xlv] AUFFRET D., Alexandre Kojève, La philosophie, l’État, la fin de l’Histoire, Paris, Grasset, 1990, p. 423, cit. in TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 401.

 

L'Amérique prépare une nouvelle guerre du Pacifique

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L'Amérique prépare une nouvelle guerre du Pacifique

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Ceci paraîtra une plaisanterie, mais il n'en est rien. Dans cette guerre, l'ennemi ne sera plus le Japon, mais la Chine. Pour s'en convaincre, il suffit de lire un document que Washington vient de rendre public, intitulé " A Cooperative Strategy for 21st Century Seapower: Forward, Engaged, Ready ” dit aussi CS21R (référence ci-dessous)
 
Ce document, préparé par l'US Navy, les corps de Marine et les Gardes côtes, actualise l'ancienne stratégie maritime définie en 2007. Il marque un changement profond d'orientation, traduisant ce que Barack Obama a nommé le « pivot vers l'Asie ». Il insiste sur l'importance croissante au plan stratégique de ce qu'il nomme l' «  Indo-Asia-Pacific region ». Cette importance, aux plans économique, militaire et géographique impose aux Etats-Unis de pouvoir s'appuyer sur des forces navales capables de protéger les intérêts américains.
 

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Le CS21R insiste sur le fait qu'il est impératif pour les Etats-Unis de maintenir « une prédominance navale globale » afin d'empêcher les adversaires de l'Amérique de faire usage contre elle des théâtres océaniques mondiaux. La possibilité de mener dans les eaux internationales des opérations loin des côtes américaines constitue un élément essentiel de cette prédominance.

Le principal (et seul) de ces adversaires, bien que non nommé, est la Chine. Le Pentagone a prévu dans le même temps des plans de guerre contre la Chine connus sous le nom de “AirSea Battle”. Ils reposent sur la capacité de monter contre la Chine une opération massive, aérienne et à base de missiles, très en profondeur sur le territoire chinois lui-même. Il s'agira de détruire les infrastructures militaires et économiques chinoises, ce qui sera suivi d'un blocus économique. Au prétexte d'assurer la liberté de navigation dans les grandes voies maritimes, le Pentagone se met en état de bloquer les routes utilisées par la Chine dans l'océan Indien lui permettant d'importer des produits pétroliers et des matières premières en provenance de l'Afrique et du Moyen-Orient.

A cette fin, le CS21R prévoit de « rebalancer » 60% des forces navales et aériennes des Etats-Unis vers la zone Indo-Pacifique. L'US Navy entretiendra au Japon un groupe de porte-avions d'attaque et des forces d'intervention rapide aéro-navales adéquates (Carrier Strike Group, Carrier Airwing and Amphibious Ready Group). Elle ajoutera de nouveaux sous-marins d'attaque et navires de combat littoral à ceux existants déjà à Guam et Singapour.

 

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Renvoyons au document pour plus de détail concernant l'énorme force déjà en place et les renforts à lui apporter d'ici les 5 prochaines années. Apparemment les crédits ne vont pas manquer, non plus que l'accord de tous les pays qui seront nécessairement impliqués, avec ou sans leur consentement éclairé, dans ces opérations de guerre. Comment la Chine va-t-elle prendre tout ceci?  La question apparemment n'est pas posée. Certains diront que tout document stratégique prévoit la possibilité de mener des guerres contre d'autres puissances, même si de telles guerres ne sont jamais engagées. Mais en ce cas, la seule et unique puissance visée est la Chine, et tout semble indiquer que le document est destiné à préparer contre elle des interventions militaires qui n'auront rien de théorique. .

Dans le même temps, chacun a pu noter les cris d'alarme poussés par les spécialistes américains de la défense à l'annonce faite par la Chine selon laquelle celle-ci se préparait à construire un 2e porte-avions, destiné à compléter le vieux bâtiment déjà en service, reconditionné à partir d'un PA datant de l'ex URSS et fourni par la Russie.

Sources

* http://www.navy.mil/maritime/MaritimeStrategy.pdf

Voir aussi Wikipedia http://en.wikipedia.org/wiki/A_Cooperative_Strategy_for_21st_Century_Seapower

* Sur le nouveau porte avions chinois, lire

http://www.spacewar.com/reports/China_building_second_aircraft_carrier_PLA_colonel_999.html

Washington’s War on Russia

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Only Moscow Can Stop It

Washington’s War on Russia

by MIKE WHITNEY
Ex: http://www.counterpunch.org

“In order to survive and preserve its leading role on the international stage, the US desperately needs to plunge Eurasia into chaos, (and) to cut economic ties between Europe and Asia-Pacific Region … Russia is the only (country) within this potential zone of instability that is capable of resistance. It is the only state that is ready to confront the Americans. Undermining Russia’s political will for resistance… is a vitally important task for America.”

-Nikolai Starikov, Western Financial System Is Driving It to War, Russia Insider

“Our first objective is to prevent the re-emergence of a new rival, either on the territory of the former Soviet Union or elsewhere, that poses a threat on the order of that posed formerly by the Soviet Union. This is a dominant consideration underlying the new regional defense strategy and requires that we endeavor to prevent any hostile power from dominating a region whose resources would, under consolidated control, be sufficient to generate global power.”

-The Wolfowitz Doctrine, the original version of the Defense Planning Guidance, authored by Under Secretary of Defense Paul Wolfowitz, leaked to the New York Times on March 7, 1992

The United States does not want a war with Russia, it simply feels that it has no choice. If the State Department hadn’t initiated a coup in Ukraine to topple the elected president, Viktor Yanukovych, then the US could not have inserted itself between Russia and the EU, thus, disrupting vital trade routes which were strengthening nations on both continents. The economic integration of Asia and Europe–including plans for high-speed rail from China (“The New Silk Road”) to the EU–poses a clear and present danger for the US whose share of global GDP continues to shrink and whose significance in the world economy continues to decline. For the United States to ignore this new rival (EU-Russia) would be the equivalent of throwing in the towel and accepting a future in which the US would face a gradual but persistent erosion of its power and influence in world affairs. No one in Washington is prepared to let that happen, which is why the US launched its proxy-war in Ukraine.

The US wants to separate the continents, “prevent the emergence of a new rival”, install a tollbooth between Europe and Asia, and establish itself as the guarantor of regional security. To that end, the US is rebuilding the Iron Curtain along a thousand mile stretch from the Baltic Sea to the Black Sea. Tanks, armored vehicles and artillery are being sent to the region to reinforce a buffer zone around Europe in order to isolate Russia and to create a staging ground for future US aggression. Reports of heavy equipment and weapons deployment appear in the media on nearly a daily basis although the news is typically omitted in the US press. A quick review of some of the recent headlines will help readers to grasp the scale of the conflict that is cropping up below the radar:

“US, Bulgaria to hold Balkans military drills”, “NATO Begins Exercises In Black Sea”, “Army to send even more troops, tanks to Europe”, “Poland requests greater US military presence”, “U.S. Army sending armored convoy 1,100 miles through Europe”, “Over 120 US tanks, armored vehicles arrive in Latvia”, “US, Poland to Conduct Missile Exercise in March – Pentagon”

Get the picture? There’s a war going on, a war between the United States and Russia.

Notice how most of the headlines emphasize US involvement, not NATO. In other words, the provocations against Russia originate from Washington not Europe. This is an important point. The EU has supported US-led economic sanctions, but it’s not nearly as supportive of the military build up along the perimeter. That’s Washington’s idea and the cost is borne by the US alone. Naturally, moving tanks, armored vehicles and artillery around the world is an expensive project, but the US is more than willing to make the sacrifice if it helps to achieve its objectives.

And what are Washington’s objectives?

Interestingly, even political analysts on the far right seem to agree about that point. For example, check out this quote from STRATFOR CEO George Friedman who summed it up in a recent presentation he delivered at The Chicago Council on Foreign Affairs. He said:

“The primordial interest of the United States, over which for centuries we have fought wars–the First, the Second and Cold Wars–has been the relationship between Germany and Russia, because united there, they’re the only force that could threaten us. And to make sure that that doesn’t happen.” … George Friedman at The Chicago Council on Foreign Affairs, Time 1:40 to 1:57)

Bingo. Ukraine has nothing to do with sovereignty, democracy or (alleged) Russian aggression. That’s all propaganda. It’s about power. It’s about imperial expansion. It’s about spheres of influence. It’s about staving off irreversible economic decline. It’s all part of the smash-mouth, scorched earth, take-no-prisoners geopolitical world in which we live, not the fake Disneyworld created by the western media. The US State Department and CIA toppled the elected-government in Ukraine and ordered the new junta regime to launch a desperate war of annihilation against its own people in the East, because, well, because they felt they had no other option. Had Putin’s ambitious plan to create a free trade zone between Lisbon to Vladivostok gone forward, then where would that leave the United States? Out in the cold, that’s where. The US would become an isolated island of dwindling significance whose massive account deficits and ballooning national debt would pave the way for years of brutal restructuring, declining standards of living, runaway inflation and burgeoning social unrest. Does anyone really believe that Washington would let that to happen when it has a “brand-spanking” trillion dollar war machine at its disposal?

Heck, no. Besides, Washington believes it has a historic right to rule the world, which is what one would expect when the sense of entitlement and hubris reach their terminal phase. Now check out this clip from an article by economist Jack Rasmus at CounterPunch:

“Behind the sanctions is the USA objective of driving Russia out of the European economy. Europe was becoming too integrated and dependent on Russia. Not only its gas and raw materials, but trade relations and money capital flows were deepening on many fronts between Russia and Europe in general prior to the Ukraine crisis that has provided the cover for the introduction of the sanctions. Russia’s growing economic integration with Europe threatened the long term economic interests of US capitalists. Strategically, the US precipitated coup in the Ukraine can be viewed, therefore as a means by which to provoke Russian military intervention, i.e. a necessary event in order to deepen and expand economic sanctions that would ultimately sever the growing economic ties between Europe and Russia long term. That severance in turn would not only ensure US economic interests remain dominant in Europe, but would also open up new opportunities for profit making for US interests in Europe and Ukraine as well…

When the rules of the competition game between capitalists break down altogether, the result is war—i.e. the ultimate form of inter-capitalist competition.” (The Global Currency Wars, Jack Rasmus, CounterPunch)

See? Analysts on the right and left agree. Ukraine has nothing to do with sovereignty, democracy or Russian aggression. It’s plain-old cutthroat geopolitics, where the last man left standing, wins.

The United States cannot allow Russia reap the benefits of its own vast resources. Oh, no. It has to be chastised, it has to be bullied, it has to be sanctioned, isolated, threatened and intimidated. That’s how the system really works. The free market stuff is just horsecrap for the sheeple.

Russia is going to have to deal with chaotic, fratricidal wars on its borders and color-coded regime change turbulence in its capital. It will have to withstand reprisals from its trading partners, attacks on its currency and plots to eviscerate its (oil) revenues. The US will do everything in its power to poison the well, to demonize Putin, to turn Brussels against Moscow, and to sabotage the Russian economy.

Divide and conquer, that’s the ticket. Keep them at each others throats at all times. Sunni vs Shia, one ethnic Ukrainian vs the other, Russians vs Europeans. That’s Washington’s plan, and it’s a plan that never fails.

US powerbrokers are convinced that America’s economic slide can only be arrested by staking a claim in Central Asia, dismembering Russia, encircling China, and quashing all plans for an economically-integrated EU-Asia. Washington is determined to prevail in this existential conflict, to assert its hegemonic control over the two continents, and to preserve its position as the world’s only superpower.

Only Russia can stop the United States and we believe it will.

MIKE WHITNEY lives in Washington state. He is a contributor to Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion (AK Press). Hopeless is also available in a Kindle edition. He can be reached at fergiewhitney@msn.com.

jeudi, 19 mars 2015

Noam Chomsky : l'Amérique latine à l'avant-garde contre le néolibéralisme

 

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Noam Chomsky: l'Amérique latine à l'avant-garde contre le néolibéralisme

Auteur : Javier LORCA
Traduction Luis Alberto Reygada
Ex: http://zejournal.mobi

Lors de sa conférence magistrale au Forum pour l'émancipation et l'égalité qui s'est tenu à Buenos Aires du 12 au 14 mars dernier, le philosophe et activiste étasunien a analysé l'évolution géopolitique globale 70 ans après la Seconde Guerre Mondiale, avec l'ascension puis le déclin des Etats-Unis en tant qu'axe principal. « L'Amérique latine a fait des pas significatifs vers sa libération de la domination impérialiste », a-t-il signalé.

Loin de se laisser déstabiliser par les nombreux applaudissements qui ont accompagné son arrivée à la tribune du Théâtre Cervantes, Noam Chomsky, sérieux et concentré, a commencé à lire le discours de sa conférence magistrale dans le cadre du Forum pour l’Emancipation et l’Egalité. Dans une rhétorique classique, il a débuté en présentant son thème : un état des lieux du point de vue historique et géopolitique 70 ans après la fin de la Seconde Guerre Mondiale. « C’est en Amérique latine qu’a eu lieu un des développements les plus spectaculaires durant cette période. Pour la première fois en 500 ans, l’Amérique latine a fait des pas significatifs vers sa libération de la domination impérialiste », a signalé l’intellectuel et militant de gauche étatsunien (...). « Ce sont des évènements qui ont une portée historique très profonde, qui incluent des pas importants vers l’intégration et dans le but de faire face à des problèmes internes extrêmement graves qui avaient empêché le développement salutaire de celle qui devrait être une des régions les plus dynamiques et prospères de la planète ».

Chomsky, âgé de 86 ans, a présenté à son public un aperçu global mais centré sur la place des Etats-Unis, son essor et son déclin, qu’il a illustré en se basant sur le contraste flagrant entre deux conférences régionales : celle de Chapultepec (Mexique) en 1945 et celle de Carthagène des Indes (Colombie) en 2012, qui ont été « radicalement différentes », une preuve des profonds changements historiques qui ont eu lieu entretemps.

Après la fin de la Seconde Guerre Mondiale, alors que les différentes puissances qui avaient participé au conflit en sont ressorties « très affaiblies », les Etats-Unis ont initié une croissance exponentielle et ont réussi à concentrer « la moitié de la richesse du monde », multiplié leur force de frappe (avec a bombe atomique) et étendu leur contrôle sur le continent et sur les deux océans. A partir de là, les dirigeants nord-américains (Chomsky a parlé concrètement du personnel du Département d’Etat) se ont commencé à « organiser le monde afin de satisfaire les nécessités des secteurs dominants des Etats-Unis, c’est-à-dire le secteur des corporations ». Et ils ton réussi à « détenir un pouvoir indiscutable » qui n’a fait que freiner la souveraineté des autres Etats qui étaient en compétition avec l’Amérique du Nord.

La réorganisation du globe a eu antre d’autres objectifs “restaurer l’ordre en Europe”, ce qui impliquait “détruire la résistance antifasciste compromise avec la démocratie radicale ». En 1945, une conférence a été organisée pour établir « les règles du jeu en Amérique latine » à Chapultepec, où a été encouragée « l’élimination du nationalisme économique, avec l’exception de celui des Etats-Unis », pour assurer le rendement des investissements nord-américains. Chomsky a rappelé que l’Amérique latine était, pour les gouvernements des étatsuniens, « notre petite région qui n’a jamais embêté personne », selon la définition de Henry Stimson, ancien secrétaire de Guerre des EU.

C’est un autre rapport de force que le linguiste et professeur du MIT a décrit au sujet du début du XXIème siècle. Lors de la conférence de Carthagène, en 2012, il n’y a pas eu de consensus pour la déclaration finale car les Etats-Unis et le Canada se sont retrouvés dans une position d’isolement, entourés par la position majoritaire de la région au sujet de trois points. Cuba, la lutte contre le narcotrafic et la réclamation argentine des îles Malouines. « Tout cela était impensable il y a encore quelques années », a remarqué Chomsky. « La comparaison de ces conférences permet d’observer la décadence des Etats-Unis. » Comment ce déclin est-il arrivé ? Pour Chomsky, c’est le résultat d’un long processus qui trouve ses origines dès 1945, lorsque les Etats-Unis présupposent tacitement qu’ils sont les maîtres du monde. « La décadence était inévitable au fur et à mesure que le monde industrialisé se ravivait (après la guerre) et que le processus de décolonisation avançait. »

Noam Chomsky a ensuite tenté de mettre à nu l’imposture nord-américaine mise en place pour justifier le déploiement militaire et la menace latente de nouvelles incursions belliqueuses. « Que s’est-il passé à la fin de la Guerre Froide ? ». Les gouvernements étatsuniens qui se sont succédés ont maintenu la pression militaire « non pas pour freiner l’Union Soviétique, mais pour freiner les puissances du Tiers-Monde ». L’idée dominante aux Etats-Unis est toujours la même et Chomsky la décrit avec une subtile ironie : « une préoccupation par le nationalisme radical qui se trompe en croyant que les principaux bénéficiaires des richesses d’un pays doivent être ses habitants et non les investisseurs étatsuniens ».

Depuis la fin des années ’70 cette idéologie s’est matérialisée en “une attaque néolibérale, une attaque mondiale sur les droits de l’homme », et une ingénierie bureaucratique organisée pour protéger les grandes banques et corporations des récurrentes crises du capitalisme, dont les coûts sont transférés à l’ensemble de la société. « L’Amérique latine -selon lui- a été à l’avant-garde de la lutte contre l’assaut néolibéral ».

La fin de sa conférence a été marquée par un avertissement au sujet des plusieurs risques aux conséquences apocalyptiques. « L’espèce humaine se trouve au bord du précipice. Deux dangers menacent l’humanité : la guerre nucléaire et la catastrophe écologique. Durant les dernières années, ces menaces se sont accrues. Pour la première, nous connaissons la solution : il faut éliminer les armes nucléaires », a signalé Chomsky, soulevant une vague d’applaudissements. Mais il a ensuite rappelé que les Etats-Unis avaient annoncé des investissements en millions de dollars pour moderniser son armement nucléaire. Il ne s’est pas non plus montré optimiste au sujet des problèmes écologiques générés par l’activité humaine (en se référant tout particulièrement à l’extraction de combustibles fossiles) : « Nous ne savons pas clairement comment surmonter la situation écologique catastrophique dans laquelle nous nous trouvons » mais il est indispensable d’aborder cette question, si l’homme souhaite vraiment continuer à vivre sur la planète Terre.

Venezuelan Sanctions, U.S. Dominance and the Power Elite

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Venezuelan Sanctions, U.S. Dominance and the Power Elite

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

What are the real foreign policy objectives of the U.S. government? They are hidden under its rhetoric and propaganda. They are submerged and kept submerged by the media and even by academics and historians who study these matters. These objectives are certainly not well-understood by the broad public or accepted as the actual objectives. Outside commentators who do seek to articulate what these objectives are quite often disagree or emphasize different factors. Lacking insider knowledge of the real motives behind foreign policy actions, most outside commentators have to make do with educated guesses.

Consider an Executive Order issued by Obama on March 9, 2015 that sanctions seven Venezuelans. Nothing in it that explains the sanctions has any credibility. It is totally a fog of propaganda and diversion from the actual goals that are never mentioned. The first sentence in the Fact Sheet is simply ridiculous and a total fabrication that no sensible person can possibly believe:

“President Obama today issued a new Executive Order (E.O.) declaring a national emergency with respect to the unusual and extraordinary threat to the national security and foreign policy of the United States posed by the situation in Venezuela.”

One must understand that this language is contained in an official document issued by the White House. Nothing good can come out of a system that routinely pushes out fake ideas, falsehoods and fabrications like this. The results are cynical disregard for law, government secrecy, lack of government accountability, isolation of officials from voters, hubris among officials, hidden contempt for the public, distrust, and the encouragement for officials to employ power. Lies of this order and magnitude are poisonous.

The order goes on to list its moral goals of punishing various accused persons for their bad behavior:

“This new authority is aimed at persons involved in or responsible for the erosion of human rights guarantees, persecution of political opponents, curtailment of press freedoms, use of violence and human rights violations and abuses in response to antigovernment protests, and arbitrary arrest and detention of antigovernment protestors, as well as the significant public corruption by senior government officials in Venezuela.”

Nothing could sound more reasonable, and yet nothing is less credible than this declaration. Why? Because in countless other cases the U.S. not only turns a blind eye to the same sorts of goings-on but actually fully supports them. The U.S. is currently supporting Ukraine (the Kiev junta) while its security services and certain armed forces have been torturing prisoners that they have captured. The U.S. itself engaged in torture and has not yet punished those who were responsible for it. The U.S. has employed means of warfare that produced systematic human rights violations orders of magnitude worse than anything in Venezuela. The U.S. has supported death squads in Central America. The U.S. government does little to influence despicable behavior of local police and courts within this country. The U.S. has consistently supported Saudi Arabia and nearby states that both employ practices of the same kind condemned in this order and have supported ISIS terrorists. The Obama administration has been very tough on journalists and whistleblowers, thereby chilling press freedoms.

There has been marked instability in Venezuela and repression. Much worse repression is going on in Ukraine by its government, one that the U.S. supports and is assisting in its military efforts.

One can only reach the conclusion that the justifications in the executive order are phony.

This leaves us speculation as to what the real motives are. At the root of it is that the U.S. government is alarmed by the independence being exhibited by Venezuela and several other Latin American governments. Imperialism is a fundamental factor, and this requires a dominant U.S. position. There are political maneuvers in Venezuela and neighboring lands that tie directly to economic matters. For example, China has a presence in Venezuela that competes with American interests. Venezuela is a large oil producer. Venezuela is forming a Bank of the South in conjunction with Argentina, Brazil, Paraguay, Uruguay, Bolivia and Ecuador. These political-economic moves remind one of the moves that were being made by Gaddafi and Libya prior to their destruction by U.S. and NATO forces.

Sanctions on Venezuelan officials are a warning. They are a slap on the wrist to warn the government of potential harsher measures. Human rights violations are a smokescreen. The real target is the government and the real objective is control of economic policies by the U.S. The U.S. does not want to see South American countries making links to such countries as China and Russia.

The U.S. policy in Ukraine and Middle East is the very same. It seeks to break down Russian influence on its periphery, including Ukraine. Condemnations of Putin and Russian aggression are propaganda smokescreens. In the Middle East, the U.S. wants to contain Iran. In the Far East, the U.S. wants to contain China. The U.S. seeks dominance in Central Asia too, as in Afghanistan.

In every major region of the world, the single factor that most clearly explains U.S. foreign policy is a quest for unquestioned and unchallenged U.S. hegemony. The groups or interests that lie behind this quest are a matter of some debate. In a general way, we can call them imperial interests; but that doesn’t identify them clearly. There are those who see a cabal of Bilderbergers and Trilateral Commission types. Others see international bankers. A few see Jews or Zionists or Rothschilds. The military-industrial complex is a clear possibility.

There is a kind of elite club of power-seekers and power-users. The membership changes over time but the guiding ideas and philosophy do not change. The strategic goal remains the same, but the steps to achieve it change. The members, for lack of a more accurate term, are not fully united. They have divisions. They communicate and write position papers. They jockey for power and influence. They protect the system and the club, from which the political operatives who manage U.S. foreign policy are drawn. The club has had longevity. It has a fairly common and standard way of communicating its aims to make them sound pleasing and moral, as in this executive order. It coalesces around enemies of the day. Occasional members provide revealing insights into the true motives and objectives. In fact, this is quite often the case. But the vast majority of press communications deliver the club (or party) line, drowning out the truth of the motivations of its members.

Those outside the club can join it and become “one of the guys” by adopting the party line. Pundits and professors can do this voluntarily, being rewarded by positions, amenities, access to the powerful and those in the know, tips that can be turned to profit, favors and the gratifications of power. So can businessmen or members of the military. Fresh college recruits can join the club at the lower rungs and advance if they have the kinds of skills that this system finds useful. The elite needs bright people and attracts them; power, privilege, advancement and the reinforcements of higher-ups attract them. It takes no particular religion, class, sex or political party affiliation to enter this elite. It might help actually to believe the elite’s own propaganda and worldview, i.e., to believe in American exceptionalism, but this is not essential. Hypocrites are welcome into the club too, as long as they tow the mark.

In my opinion, there is no single group that has been running this elite and orchestrated its many moves over the decades. The people at the center of the club who most influence policies change. The power elite is fluid. The motives of the individuals involved vary. Their backgrounds vary. There is no conscious behind-the-scenes secret plan that’s being carried out by a select group of individuals. The situation is different than that. Rather, there is a coalescing of various people and interests around a common view. This coming together occurs through the central presence of a powerful state. Without that the members of the power elite would have a much, much more difficult time finding each other, allying with one another and becoming a force. The coming together uses the state as the connecting point, and it uses the state as the instrument to wield power. The formulation of positions or policies that serve as the means to the overall end is complex.

The basic objective of U.S. global dominance or hegemony prevails over well over a hundred years because it is an objective that coalesces the group and simultaneously affords the individual members the best opportunities to achieve their individual objectives and satisfy their motives, which vary. The state and the global dominance of the state are a kind of shield and sword that protect and project the power of the power elite.

Other empires and competing powers may work in roughly the same way. We need only assume that underlying them all is the will to dominance. States arise because of this will to dominance, and the process is aided to some extent by the fear that foreigners will dominate unless the state is powerful. The state provides a focal point, or point of attraction for expressing this will.

The U.S. version has been especially successful because it has had a foundation in a productive economy that existed for reasons independent of the power elite’s policies. There has also been something of an ideological foundation. An economic foundation may not be essential, however. There are many cases where people coalesce around religious beliefs or ideological beliefs, producing a state and an elite in that way.

mercredi, 18 mars 2015

États-Unis : Sanctions contre Douguine, le théoricien du nouvel impérialisme russe

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États-Unis : Sanctions contre Douguine, le théoricien du nouvel impérialisme russe

Ex: http://fortune.fdesouche.com

Alexandre Douguine, penseur atypique, défend depuis longtemps le dépeçage de l’Ukraine au nom de sa vision d’une Russie « eurasiatique », influençant le Kremlin et une partie des radicaux européens.

Les États-Unis viennent de publier une nouvelle liste de 14 personnes à sanctionner pour leur rôle dans la crise ukrainienne. Au milieu des militaires, des personnages politiques favorables à l’ancien régime ou aux nouvelles républiques autoproclamées de l’Est du pays, figure un intellectuel russe, Alexandre Douguine.

Ce personnage atypique prône, depuis des années, le retour d’une grande Russie «eurasiatique», avec l’oreille attentive du Kremlin comme l’histoire récente l’a montré.

Si Douguine est très peu connu en Occident, il est en Russie un personnage public, notamment grâce à ses succès en librairie. Intellectuel, théoricien géopolitique, il prend part à la vie politique russe.


Né en 1962 au sein d’une famille de militaire, il est aujourd’hui facilement reconnaissable avec sa barbe biblique qui lui donne un petit air de Raspoutine. Politiquement, il a débuté chez les monarchistes, avant de passer chez les communistes puis de devenir l’idéologue du Parti national-bolchévique.

Autre figure de ce mouvement, l’écrivain Limonov dira de lui qu’il est le «Cyrille et Méthode du fascisme». Il est en effet devenu «le seul doctrinaire d’ampleur de la droite radicale russe», selon la spécialiste Marlène Laruelle*.

Eurasie et anti-américanisme

Douguine est aujourd’hui considéré comme le chantre du «néo-eurasisme», cette théorie géopolitique qui veut redonner à la Russie sa splendeur, sa puissance et sa sphère d’influence des époques soviétique et tsariste. Et même au-delà, puisqu’il préconise l’intégration de la Mandchourie, du Tibet ou de la Mongolie à cet espace.

En Europe, les Pays-Baltes et les Balkans doivent selon être réintégrés. Quant à l’Ukraine, elle devait être dépecée: bien avant les évènements de l’an dernier, il réclamait la division du pays selon les sphères d’influence de Moscou et de Kiev.

Le développement de cette puissance russe «eurasiatique», va de pair avec un très fort anti-américanisme, et un anti-atlantisme, qui semble ne pas avoir échappé à Washington.

Une influence sur Poutine?

Alexandre Douguine a ses entrées auprès du pouvoir. Il est depuis longtemps conseiller à la Douma, le Parlement russe. Il possède également une certaine influence auprès de l’Académie militaire russe. On ne sait pas, en revanche, s’il voit souvent le président Vladimir Poutine. Il y a eu entre eux des hauts et des bas. Quand on le questionne sur le sujet, Douguine reste évasif.

Le retour de Poutine semble être une période favorable. «À l’évidence, l’influence de Douguine est considérable […] Dans ses derniers discours, le président [Poutine] adopte ses thématiques et même sa phraséologie. C’est effrayant», témoignait l’an dernier un conseiller du Kremlin.

Au-delà du Kremlin, ses thèses ont depuis longtemps franchi les frontières russes pour être adoptées par une partie de l’extrême droite européenne, qui le considère comme l’un de ses prinicpaux penseurs. En France, de nombreux nationalistes russophiles s’y réfèrent et Douguine, que l’on a pu voir à Paris lors d’une Manif pour tous, dit «bien connaître» Jean-Marie Le Pen.

«Nous ne voyons absolument pas le lien entre tout ce qui s’est passé dans les sud-est de l’Ukraine et ces sanctions», a réagi, à l’annonce des sanctions, le vice-ministre des Affaires étrangères russes, Sergueï Ryabkov. La décision américaine montre que les États-Unis ne sous-estiment pas le rôle de Douguine dans les derniers développements de la politique extérieure russe

Notes:

* Marlène Laruelle. La Quête d’une identité impériale. Le néo-eurasisme dans la Russie contemporaine. Editions PETRA. 2007.

Le Figaro

mardi, 17 mars 2015

The ISIS-US Empire – Their Unholy Alliance Fully Exposed

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The ISIS-US Empire – Their Unholy Alliance Fully Exposed

Let’s be perfectly clear. The United States is not actually at war with ISIS. As Global Research director, economist and author Michel Chossudovsky plainly points out recently, Obama is simply waging “a fake war” against the Islamic State forces, putting on another propaganda show for mainstream media to keep his flock of American sheeple asleep in echo-chambered darkness. With a mere cursory review of recent historical events, one can readily realize that virtually everything Big Government tells us is happening in the world, you can bet is a boldface lie.

For over three and a half decades the US has been funding mostly Saudi stooges to do its dirty bidding in proxy wars around the world, beginning in Afghanistan in the 1980’s to fight the Soviets with the mujahedeen-turned al Qaeda that later would mutate into ISIS. Reagan and Bush senior gave Osama bin Laden his first terrorist gig. Our mercenary “Islamic extremists” for-hire were then on the CIA payroll employed in the Balkans during the 1990’s to kill fellow Moslem Serbs in Kosovo and Bosnia. For a long time now Washington’s been relying on the royal Saudi family as its chief headhunters supplying the United States with as needed terrorists on demand in order to wage its geopolitics chessboard game of global hegemony, otherwise known by the central banking cabal as global “Theft-R-Us.”

The Bush crime family were in bed with the bin Ladens long before 9/11 when that very morning George H W Bush on behalf of his Carlyle Group was wining and dining together with Osama’s brother at the posh DC Ritz Carlton while 19 box cutting Saudi stooges were acting as the neocon’s hired guns allegedly committing the greatest atrocity ever perpetrated on US soil in the history of this nation. And in the 9/11 immediate aftermath while only birds were flying the not-so-friendly skies above America, there was but one exception and that was the Air Force escort given the bin Ladens flying safely back home to their “Terrorists-R-Us” mecca called Saudi Arabia. On 9/11 the Zionist Israeli Mossad, Saudi intelligence and the Bush-Cheney neocons were busily pulling the trigger murdering near 3000 Americans in cold blood as the most deadly, most heinous crime in US history. If you’re awake enough to recognize this ugly truth as cold hard fact, then it’s certainly not a stretch to see the truth behind this latest US created hoax called ISIS.

Renowned investigative journalist and author Seymour Hersh astutely saw the writing on the wall way back in 2006 (emphasis added):

 To undermine Iran, which is predominantly Shiite, the Bush Administration has decided, in effect, to reconfigure its priorities in the Middle East. In Lebanon, the Administration has cooperated with Saudi Arabia’s government, which is Sunni, in clandestine operations that are intended to weaken Hezbollah, the Shiite organization that is backed by Iran. The U.S. has also taken part in clandestine operations aimed at Iran and its ally Syria. A by-product of these activities has been the bolstering of Sunni extremist groups that espouse a militant vision of Islam and are hostile to America and sympathetic to Al Qaeda.

The US Empire along with its international partner-in-crime Israel has allowed and encouraged Saudi Arabia, Qatar and the United Arab Emirates to be the primary financiers of al Qaeda turned ISIS. Even Vice President Joe Biden last year said the same. If Empire wanted to truly destroy the entire Islamic extremist movement in the Middle East it could have applied its global superpower pressure on its allied Gulf State nations to stop funding the ISIS jihadists. But that has never happened for the simple reason that Israel, those same Arab allies and the United States want a convenient “bad guy” enemy in the Middle East and North Africa, hiding the fact that al Qaeda-ISIS for decades has been its mercenary ally on the ground in more recent years in the Golan Heights, Libya, Iraq and Syria.

As recently as a month ago it was reported that an Islamic State operative claimed that funding for ISIS had been funneled through the US. Of course another “staunch” US-NATO ally Turkey has historically allowed its territory to be a safe staging ground as well as a training area for ISIS. It additionally allows jihadist leaders to move freely in and out of Syria through Turkey. Along with Israel and all of US Empire’s Moslem nation states as our strategic friends in the Middle East, together they have been arming, financing and training al Qaeda/ISIS to do its double bidding, fighting enemies like Gaddafi in Libya and Assad in Syria while also posing as global terrorist boogie men threatening the security of the entire world. Again, Washington cannot continue to double speak its lies from both sides of its mouth and then expect to continue having it both ways and expect the world to still be buying it.

A breaking story that’s creating an even larger crack in the wall of the US false narrative is the revelation that Iraqi counterterrorism forces just arrested four US-Israeli military advisors assisting (i.e., aiding and abetting) the ISIS enemy, three of whom hold duel citizenships from both Israel and America. This latest piece of evidence arrives on the heels of a Sputnik article from a couple weeks ago quoting American historian Webster Tarpley saying that “the United States created the Islamic State and uses jihadists as its secret army to destabilize the Middle East.” The historian also supported claims that the ISIS has in large part been financed by the Saudi royal family. Interviewed on Press TV the critic of US foreign policy asked why NATO ally Turkey bordering both Iraq and Syria where the Islamic State jihadists continue to terrorize, why can’t Turkey simply use its larger, vastly superior army to go in and defeat the much smaller ISIS, especially if the US and NATO were serious about destroying their alleged enemy. Again, if ISIS is the enemy, why did the US recently launch an air strike on Assad’s forces that were in process of defeating ISIS? The reason is all too obvious, the bombing was meant to afflict damage to stop Assad’s forces from beating back ISIS that the US is clearly protecting.

Finally, Tarpley reaffirmed what many others have been saying that chicken hawk Senator John McCain is actual buddies with ISIS kingpin Abu Bakr al-Baghdadi. Of course photos abound of his frequent “secret” meetings with ISIS leadership illegally conducted inside Syria. This confirmed fact provides yet one more obvious link between the high powered criminal operative posing as US senator and the so called enemy of the “free world” ISIS.

Recall that iconic photo from June last year of American supplied trucks traveling unimpeded in the ISIS convoy kicking up dust in the Iraqi desert fresh from the Syrian battlefields heading south towards Baghdad. It was no accident that they were equipped with an enormous fleet of brand new Toyota trucks and armed with rockets, artillery and Stinger missiles all furnished by US Empire. Nor was it an accident that the Iraqi Army simply did an about face and ran, with orders undoubtedly coming from somewhere high above in the American Empire. The Islamic State forces were allowed to seize possession of 2500 armored troop carriers, over 1000 Humvees and several dozen US battlefield tanks all paid for by US tax dollars. This entire spectacle was permitted as ISIS without any resistance then took control of Mosul the second largest city in Iraq including a half billion dollars robbing a bank. Throughout this process, it was definitely no accident that the United States allowed the Islamic State forces to invade Iraq as with advanced US airpower it could have within a couple hours easily carpet bombed and totally eliminated ISIS since the Islamic State possessed no anti-aircraft weapons. And even now with the hi-tech wizardry of satellites, lasers, nanotechnology and advanced cyber-warfare, the US and allied intelligence has the means of accurately locating and with far superior firepower totally eradicating ISIS if the will to do so actually existed. But the fact is there is no desire to kill the phantom enemy when in fact it’s the friend of the traitors in charge of the US government who drive the Empire’s global war policy.

Washington’s objective last year was to purposely unleash on already ravaged Iraq the latest US-made, al Qaeda morphed into the Islamic monster-on-steroids to further destabilize the Middle Eastseek a regime change to replace the weak, corrupt, Sunni persecuting Maliki government in Baghdad and ‘balkanize” Iraq into three separate, powerless, divisive sections in similar vein of how the West tore apart and dissected Yugoslavia into thirteen ineffectual pieces. The globalist pattern of bank cabal loans drowning nations into quicksand debt and transnationals and US Empire posts predatorily moving in as permanent fixtures always replace what was previously a far better off sovereign nation wherever King Midas-in-reverse targets to spreads its Empire disease of failed-state cancer. After Yugoslavia came Iraq, Afghanistan, Libya, Syria, Yemen and Ukraine. It goes on and on all over the globe. The all too familiar divide and conquer strategy never fails as the US Empire/NWO agenda. But the biggest reason ISIS was permitted to enter and begin wreaking havoc in Iraq last June was for the Empire to re-establish its permanent military bases in the country that Maliki had refused Washington after its December 2011 pullout.

With 2300 current US troops (and rising up to 3000 per Obama’s authorization) once again deployed back on the ground in Iraq acting as so called advisors, Iraq is now the centerpiece of US military presence in the Middle East region. Before a doubting House Armed Services Committee last Tuesday, CENTCOM Commander General Lloyd Austin defended Obama’s policyinsisting that ISIS can be defeated without use of heavy ground forces, feebly claiming that they’re on the run because his commander-in-chief’s air strike campaign is actually working. How many times before have we heard generals’ glowing reports to Congress turn out to be lies?

As far as PR goes, it appears the lies and propaganda are once again working. With help from the steady stream of another beheading-of-the week posted like clockwork on Youtube for all the world to shockingly see, not unlike when traffic slows down to look for bloodied car victims mangled on the highway. Apparently this thinly veiled strategy is proving successful again on the worked over, dumbed down, short attention-spanned American population. According to a poll released just a few days ago, 62% of Americans want more GI boots on the ground in Iraq to fight the latest made-by-America enemy for Iraq War III. Incredibly only 39% believe that more troops on the ground would risk another long, protracted war. Again, short attention spans are doomed to keep repeating history as in Vietnam, Iraq and Afghanistan.

This polling propaganda disinformation ploy fits perfectly with prior statements made a few months ago by America’s top commander General Martin Dempsey that the US military presence in both Iraq and Syria must be a long term commitment as the necessary American sacrifice required to effectively take out ISIS. With US leaders laying the PR groundwork for more Empire occupations worldwide, of course it’s no accident that it conveniently fits in with the Empire’s agenda to wage its war of terror on a forever basis. Efforts by Washington to “prep” Americans for these “inevitable,” open-ended wars around the globe are designed to condition them into passive acceptance of lower intensity, “out-of-sight, out-of-mind” conflicts specifically to minimize and silence citizens from ever actively opposing yet more human slaughter caused by more US state sponsored terrorism in the form of unending imperialistic wars.

Every one of these “current events” have been carefully planned, coordinated, timed and staged for mass public consumption, none more so than those beheadings of US and British journalists, aid workers and Middle Eastern Christians along with the desecration of ancient Iraqi history with dozens of destroyed museums, churches and shrines. Obama and the Empire want us all to be thoroughly horrified and disgusted so we fear and hate the latest designated Islamic enemy. Hating your enemy to the point of viewing them as the lowest of the lowest, sub-human animal is an old psyops brainwashing trick successfully employed in every single war from the dawn of violent man. It effectively dehumanizes the enemy while desensitizing the killing soldier. For over a year now we’ve seen this same MSM game being relentlessly waged to falsely demonize Putin. The sinister, warped minds of the divide and conquer strategists from the ruling class elite don’t mind the resultant hating of Moslems around the world either. That’s all by diabolical design too.

If only six organizations control the entire planet’s mass media outlet that feeds the masses their daily lies like their daily bread, another winning bet would be that in a heartbeat they could also effectively shut down the internet pipeline that showcases ISIS horror show theatrics on the global stage. But by design, they are willingly, cunningly disseminated for worldwide mass consumption.

In fact the only consistent group that’s even been able to militarily hold their own and actually challenge ISIS, the Kurds, are watching UK ship heavy arms to the same losing team the Iraqi army that ran away from defending Mosul. The last time the West gave them weapons and supplies, they handed them right over to ISIS.

In a recent Guardian article, a Kurdish captain said that the Kurds offered to even buy the second hand weapons from the British used in Afghanistan. But because the West is afraid the heavy arms might empower Kurdish nationalism into demanding their own sovereign nation for the first time in history, the US wants to ensure that Iraq stays as one nation after implanting its latest Baghdad puppet regime. The fiercely independent Kurds are feared if they were granted autonomy that they might refuse to allow their homeland to be raped and plundered by the US unlike the corrupt current Iraqi government. The Kurdish fighters could sorely use the bigger guns as they plan to launch an offensive in April or May to take back Mosul from ISIS. But when permitting an ancient ethnic group its proper due by granting political autonomy risks interfering with the Empire’s rabid exploitation of another oil-rich nation, all bets are off in doing the right thing.

The mounting evidence is stacking up daily to unequivocally prove beyond any question of a doubt that ISIS is in fact a US mercenary ally and not the treasonous feds’ enemy at all. From mid-August 2014 to mid-January 2015 using the most sophisticated fighter jets known to man, the US Air Force and its 19 coalition allies have flown more than 16,000 air strikes over Iraq and Syria ostensibly to “root out” ISIS once and for all. Yet all this Empire aggression has nothing to show for its wasted phony efforts as far as inflicting any real damage on the so called ISIS enemy. Labeled a “soft counterterrorism operation,” a prominent Council on Foreign Relations member recently characterized Obama’s scheme as too weak and ineffectual, and like a true CFR chicken hawk, he strongly advocates more bombs, more advisers and special operations forces deployed on the ground.

But the records show that all those air strikes are purposely not hitting ISIS forces because they are not the actual target. Many air strike missions from both the US Air Force as well as Israeli jets have been designed to destroy extensive infrastructure inside Syria that hurts the Syrian people, causing many innocent civilian casualties, while not harming ISIS at all. This in turn ensures more ISIS recruits for America’s forever war on terror. Repeatedly oil refineries, pipelines and grain storage silos have also been prime targets damaged and destroyed by the West. Because in 2013 Obama’s false flag claim that Assad’s army was responsible for the chemical weapons attack was thwarted by strong worldwide opposition and Putin’s success brokering the deal that had Assad turning over his chemical weapons, a mere year later ISIS conveniently provided Obama’s deceitful excuse to move forward with his air offensive on Syria after all.

Finally, on numerous occasions the US was caught red-handed flying arms and supply drops to the Islamic jihadists on the ground. According to Iraqi intelligence sources, US planes have engaged regularly in air drops of food and weapons to ISIS. These sighting began to be observed after one load was “accidentally” dropped last October into so called enemy hands supposedly meant to go to the Kurdish fighters. Realizing the US has betrayed them, as of late Iraqi security forces have been shooting down US and British aircraft engaged in providing supplies and arms to their ISIS enemy. This is perhaps the most incriminating evidence yet in exposing the truth that ISIS is being supported, supplied and protected by the US Empire more than even the Iraqi government forces the US claims to be assisting in this phony war against the militant Islamic jihadists.

Clearly the unfolding daily events and developments in both Iraq and Syria overwhelmingly indict the United States as even more of “the bad guy” than the supposed ISIS terrorists. Recently the US was caught financing ISIS and has all along supported Arab allies that knowingly fund Islamic extremism. During the six months since Obama vowed to go after them and “root them out,” countless times the US and allies have maintained the so called enemy’s supply line with regularly scheduled air drops. Meanwhile, in both Syria and Iraq after a half year of alleged bombing, ISIS forces are reported to be stronger than ever. The air strikes have not been hitting jihadist targets because the American and coalition forces’ actual targets in Syria have been vital infrastructure and civilians that are clearly attacks on Assad. All of this irrefutable evidence piling up is backfiring on the American Empire. The world is now learning just how devious, diabolical and desperate the warmongering, pro-Zionist powerbrokers who are the war criminals controlling the US rogue government really are. Their evil lies are unraveling their demonic agenda as the truth cannot be stopped.

Reprinted with permission from GlobalResearch.ca.

Une Alliance stratégique Iran/Russie/Egypte est-elle possible?

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Une Alliance stratégique Iran/Russie/Egypte est-elle possible?

Ex: http://nationalemancipe.blogspot.com
 
Les crises régionales ont élargi la convergence politique Téhéran-Moscou, ce qui a amené un pays, comme l'Egypte, à être convergent avec l'Iran et la Russie, au sujet des dossiers régionaux. Le ministre russe de la Défense s'est rendu, du 19 au 21 janvier, à Téhéran, où il a rencontré ses pairs iraniens, et signé avec eux un accord, qui prévoit d'accroître la coopération militaire et défensive entre l'Iran et la Russie.
 
Dans un article, le Centre des études arabes et des recherches politiques a procédé à un décryptage de cette visite, première du genre, depuis 2002. Dans son analyse, ce Centre évoque la signature de cet accord de coopération entre l'Iran et la Russie, dans les domaines de la formation, de l'exécution des manœuvres, et écrit : les médias iraniens et russes ont qualifié cette visite de très importante, dans leurs estimations, et ont souligné que cette visite sera un point de départ, pour la constitution d'une alliance stratégique entre l'Iran et la Russie. Ces médias ont indiqué que Moscou avait signé avec l'Iran le contrat de la vente à Téhéran des missiles S-300, d'avions de combat de type "Soukhoï", "Mig-30", "Soukhoï 24", ainsi que des pièces détachées nécessaires. La récente visite, en Iran, du ministre russe de la Défense semble être considérée comme stratégique, car elle sert les intérêts des deux parties, les deux pays étant exposés aux pressions de l'Occident, l'Iran, pour son programme nucléaire, et la Russie, en raison de la crise d'Ukraine.

 Cependant, certains analystes ne sont pas aussi optimistes, quant à ces accords, et disent qu'ils ne sont pas le signe d'un changement stratégique, dans les relations Téhéran-Moscou, car la Russie n'a rien fait, pour empêcher l'adoption, par l'Occident, des sanctions contre l'Iran, et a, d'ailleurs voté, toutes les résolutions anti-iraniennes, adoptées par le Conseil de Sécurité de l'ONU. La Russie a exprimé son mécontentement des pourparlers Iran/Etats-Unis, à Oman, sans l'invitation faite à ce pays d'y assister. En plus, en 2010, la Russie a refusé d'honorer ses engagements, pour vendre le système de défense anti-aérienne S-300, dans le cadre d'un contrat, signé avec l'Iran, d'un montant de 800 millions de dollars. 
 
La Russie a achevé la centrale atomique de Boushehr, avec un retard de dix ans. De plus, les Russes ne voient pas d'un bon œil le programme nucléaire iranien, et c'est pour cela qu'ils se sont rapprochés, à cet égard, des Occidentaux. A cela, s'ajoute le fait que les Russes sont inquiets de l'accès à un accord entre l'Iran et l'Occident, car un tel accord permettra à l'Occident de s'approvisionner en énergie, auprès de l'Iran, et mettre, ainsi, fin à sa dépendance énergétique vis-à-vis de la Russie. 
 

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Cela étant dit, il y a de nombreux intérêts communs entre les deux pays, surtout, en ce qui concerne les dossiers régionaux, des intérêts communs, qui l'emportent sur les hésitations, les doutes et les divergences. A ce propos, le Directeur du Centre d'études et d'analyses stratégiques de Russie dit : «A l'instar de la Russie, l'Iran est opposé à la croissance et à la montée en puissance des groupes takfiris extrémistes, au Moyen-Orient. Affectés par la baisse du prix du pétrole, les deux pays réclament la hausse du prix du pétrole. 
En outre, les deux pays se trouvent, dans des positions similaires, dues aux sanctions, appliquées à leur encontre, par l'Occident. L'Iran et la Russie s'accordent, unanimement, à soutenir le gouvernement de Bachar al-Assad, en Syrie, et à freiner la montée en puissance et la croissance des groupes terroristes takfiris et extrémistes, comme «Daesh». Les deux pays sont d'avis que la montée en puissance d'un tel groupe et des groupes similaires, représente un défi important, pour leur politique régionale et internationale, ainsi que pour leurs intérêts nationaux.
 
 Mais cela ne s'arrête pas là. Les deux pays sont parvenus, récemment, à une autre convergence, sur le plan régional, qui est celle liée au dossier du Yémen, à telle enseigne, que Moscou, comme Téhéran, ont annoncé leur soutien au mouvement d'Ansarallah. Moscou est persuadée que le soutien au Mouvement d'Ansarallah fournira à ce pays la possibilité de reprendre ses chaleureuses et amicales relations avec le Yémen, qui marquaient les années de la guerre froide. Mais la raison la plus importante, qui conduit à cette convergence Téhéran/ Moscou, c'est leur position unie, face à l'Arabie Saoudite. Ils veulent mettre sous pression l'Arabie Saoudite, sur le plan régional, notamment, au Yémen. Depuis novembre, l'Arabie a abaissé le prix du pétrole, pour s'aligner sur les Etats-Unis, en vue d'exercer des pressions sur l'Iran et la Russie. En guise de réaction, la Russie a soutenu le Mouvement d'Ansarallah, qui fait partie de l'axe chiite, dans la région. Cet axe est considéré, actuellement, comme le plus important allié de Moscou, dans la région, pour faire face aux pays, tels que l'Arabie saoudite et aux groupes terroristes, comme «Al-Qaïda», en général, dans la région, et, en particulier, au Yémen.
 
 La Russie a tout fait, au Conseil de sécurité de l'ONU, pour l'empêcher de déclarer, comme étant illégaux, les développements, survenus au Yémen, pour justifier, ainsi, le recours à la force, afin de réprimer les révolutionnaires. Parallèlement à l'accroissement de la coordination et de la convergence politique entre l'Iran et la Russie envers des dossiers régionaux, dont le Yémen et la Syrie, le changement de position de l'Egypte envers la crise syrienne a suscité l'étonnement de beaucoup de gens. Cela a montré que le Caire s'inquiète, grandement, de la croissance et de la montée en puissance des groupes et courants salafistes et takfiris extrémistes. D'où sa position convergente avec celle de l'Iran et de la Russie sur la Syrie. Cette convergence politique du Caire avec Téhéran et Moscou ne se borne pas au dossier syrien, car elle s'est élargie aux évolutions yéménites, car l'Egypte ne voit pas dans la montée en puissance d'Ansarallah, au Yémen, une menace contre sa sécurité nationale.

lundi, 16 mars 2015

Israel, Gaza, and Energy Wars in the Middle East

Tomgram: Michael Schwartz, Israel, Gaza, and Energy Wars in the Middle East
 
Ex: http://www.tomdispatch.com

oil-in-gaza.jpgTalk of an oil glut and a potential further price drop seems to be growing. The cost of a barrel of crude now sits at just under $60, only a little more than half what it was at its most recent peak in June 2014. Meanwhile, under a barrel of woes, economies like China's have slowed and in the process demand for oil has sagged globally. And yet, despite the cancellation of some future plans for exploration and drilling for extreme (and so extremely expensive) forms of fossil fuels, startling numbers of barrels of crude are still pouring onto troubled waters.  For this, a thanks should go to the prodigious efforts of "Saudi America" (all that energetic hydraulic fracking, among other things), while the actual Saudis, the original ones, are still pumping away.  We could, in other words, have arrived not at "peak oil" but at "peak oil demand" for at least a significant period of time to come.  At Bloomberg View, columnist A. Gary Shilling has even suggested that the price of crude could ultimately simply collapse under the weight of all that production and a global economic slowdown, settling in at $10-$20 a barrel (a level last seen in the 1990s).

And here's the saddest part of this story: no matter what happens, the great game over energy and the resource conflicts and wars that go with it show little sign of slowing down.  One thing is guaranteed: no matter how low the price falls, the scramble for sources of oil and the demand for yet more of them won't stop.  Even in this country, as the price of oil has dropped, the push for the construction of the Keystone XL pipeline to bring expensive-to-extract and especially carbon-dirty Canadian "tar sands" to market on the U.S. Gulf Coast has only grown more fervent, while the Obama administration has just opened the country's southern Atlantic coastal waters to future exploration and drilling.  In the oil heartlands of the planet, Iraq and Kurdistan typically continue to fight over who will get the (reduced) revenues from the oil fields around the city of Kirkuk to stanch various financial crises.  In the meantime, other oil disputes only heat up.

Among them is one that has gotten remarkably little attention even as it has grown more intense and swept up ever more countries.  This is the quarter-century-old struggle over natural gas deposits off the coast of Gaza as well as elsewhere in the eastern Mediterranean.  That never-ending conflict provides a remarkable and grim lens through which to view so many recent aspects of Israeli-Palestinian relations, and long-time TomDispatch regular Michael Schwartz offers a panoramic look at it here for the first time.

By the way, following the news that 2014 set a global heat record, those of us freezing on the East Coast of the U.S. this winter might be surprised to learn that the first month of 2015 proved to be the second hottest January on record.  And when you're on such a record-setting pace, why stop struggling to extract yet more fossil fuels? Tom

The Great Game in the Holy Land
How Gazan Natural Gas Became the Epicenter of An International Power Struggle

By Michael Schwartz

Guess what? Almost all the current wars, uprisings, and other conflicts in the Middle East are connected by a single thread, which is also a threat: these conflicts are part of an increasingly frenzied competition to find, extract, and market fossil fuels whose future consumption is guaranteed to lead to a set of cataclysmic environmental crises.

Amid the many fossil-fueled conflicts in the region, one of them, packed with threats, large and small, has been largely overlooked, and Israel is at its epicenter. Its origins can be traced back to the early 1990s when Israeli and Palestinian leaders began sparring over rumored natural gas deposits in the Mediterranean Sea off the coast of Gaza. In the ensuing decades, it has grown into a many-fronted conflict involving several armies and three navies. In the process, it has already inflicted mindboggling misery on tens of thousands of Palestinians, and it threatens to add future layers of misery to the lives of people in Syria, Lebanon, and Cyprus. Eventually, it might even immiserate Israelis.

Resource wars are, of course, nothing new. Virtually the entire history of Western colonialism and post-World War II globalization has been animated by the effort to find and market the raw materials needed to build or maintain industrial capitalism. This includes Israel's expansion into, and appropriation of, Palestinian lands. But fossil fuels only moved to center stage in the Israeli-Palestinian relationship in the 1990s, and that initially circumscribed conflict only spread to include Syria, Lebanon, Cyprus, Turkey, and Russia after 2010.

The Poisonous History of Gazan Natural Gas

Back in 1993, when Israel and the Palestinian Authority (PA) signed the Oslo Accords that were supposed to end the Israeli occupation of Gaza and the West Bank and create a sovereign state, nobody was thinking much about Gaza's coastline. As a result, Israel agreed that the newly created PA would fully control its territorial waters, even though the Israeli navy was still patrolling the area. Rumored natural gas deposits there mattered little to anyone, because prices were then so low and supplies so plentiful. No wonder that the Palestinians took their time recruiting British Gas (BG) -- a major player in the global natural gas sweepstakes -- to find out what was actually there. Only in 2000 did the two parties even sign a modest contract to develop those by-then confirmed fields.

BG promised to finance and manage their development, bear all the costs, and operate the resulting facilities in exchange for 90% of the revenues, an exploitative but typical "profit-sharing" agreement. With an already functioning natural gas industry, Egypt agreed to be the on-shore hub and transit point for the gas. The Palestinians were to receive 10% of the revenues (estimated at about a billion dollars in total) and were guaranteed access to enough gas to meet their needs.

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Had this process moved a little faster, the contract might have been implemented as written. In 2000, however, with a rapidly expanding economy, meager fossil fuels, and terrible relations with its oil-rich neighbors, Israel found itself facing a chronic energy shortage. Instead of attempting to answer its problem with an aggressive but feasible effort to develop renewable sources of energy, Prime Minister Ehud Barak initiated the era of Eastern Mediterranean fossil fuel conflicts. He brought Israel's naval control of Gazan coastal waters to bear and nixed the deal with BG. Instead, he demanded that Israel, not Egypt, receive the Gaza gas and that it also control all the revenues destined for the Palestinians -- to prevent the money from being used to "fund terror."

With this, the Oslo Accords were officially doomed. By declaring Palestinian control over gas revenues unacceptable, the Israeli government committed itself to not accepting even the most limited kind of Palestinian budgetary autonomy, let alone full sovereignty. Since no Palestinian government or organization would agree to this, a future filled with armed conflict was assured.

The Israeli veto led to the intervention of British Prime Minister Tony Blair, who sought to broker an agreement that would satisfy both the Israeli government and the Palestinian Authority. The result: a 2007 proposal that would have delivered the gas to Israel, not Egypt, at below-market prices, with the same 10% cut of the revenues eventually reaching the PA. However, those funds were first to be delivered to the Federal Reserve Bank in New York for future distribution, which was meant to guarantee that they would not be used for attacks on Israel.

This arrangement still did not satisfy the Israelis, who pointed to the recent victory of the militant Hamas party in Gaza elections as a deal-breaker. Though Hamas had agreed to let the Federal Reserve supervise all spending, the Israeli government, now led by Ehud Olmert, insisted that no "royalties be paid to the Palestinians." Instead, the Israelis would deliver the equivalent of those funds "in goods and services."

This offer the Palestinian government refused. Soon after, Olmert imposed a draconian blockade on Gaza, which Israel's defense minister termed a form of "'economic warfare' that would generate a political crisis, leading to a popular uprising against Hamas." With Egyptian cooperation, Israel then seized control of all commerce in and out of Gaza, severely limiting even food imports and eliminating its fishing industry. As Olmert advisor Dov Weisglass summed up this agenda, the Israeli government was putting the Palestinians "on a diet" (which, according to the Red Cross, soon produced "chronic malnutrition," especially among Gazan children).

When the Palestinians still refused to accept Israel's terms, the Olmert government decided to unilaterally extract the gas, something that, they believed, could only occur once Hamas had been displaced or disarmed. As former Israel Defense Forces commander and current Foreign Minister Moshe Ya'alon explained, "Hamas... hasconfirmed its capability to bomb Israel's strategic gas and electricity installations... It is clear that, without an overall military operation to uproot Hamas control of Gaza, no drilling work can take place without the consent of the radical Islamic movement."

Following this logic, Operation Cast Lead was launched in the winter of 2008. According to Deputy Defense Minister Matan Vilnai, it was intended to subject Gaza to a "shoah" (the Hebrew word for holocaust or disaster). Yoav Galant, the commanding general of the Operation, said that it was designed to "send Gaza decades into the past." As Israeli parliamentarian Tzachi Hanegbi explained, the specific military goal was "to topple the Hamas terror regime and take over all the areas from which rockets are fired on Israel."

Operation Cast Lead did indeed "send Gaza decades into the past." Amnesty International reported that the 22-day offensive killed 1,400 Palestinians, "including some 300 children and hundreds of other unarmed civilians, and large areas of Gaza had been razed to the ground, leaving many thousands homeless and the already dire economy in ruins." The only problem: Operation Cast Lead did not achieve its goal of "transferring the sovereignty of the gas fields to Israel."

More Sources of Gas Equal More Resource Wars

In 2009, the newly elected government of Prime Minister Benjamin Netanyahu inherited the stalemate around Gaza's gas deposits and an Israeli energy crisis that only grew more severe when the Arab Spring in Egypt interrupted and then obliterated 40% of the country's gas supplies. Rising energy prices soon contributed to the largest protests involving Jewish Israelis in decades.

As it happened, however, the Netanyahu regime also inherited a potentially permanent solution to the problem. An immense field of recoverable natural gas was discovered in the Levantine Basin, a mainly offshore formation under the eastern Mediterranean. Israeli officials immediately asserted that "most" of the newly confirmed gas reserves lay "within Israeli territory." In doing so, they ignored contrary claims by Lebanon, Syria, Cyprus, and the Palestinians.

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In some other world, this immense gas field might have been effectively exploited by the five claimants jointly, and a production plan might even have been put in place to ameliorate the environmental impact of releasing a future 130 trillion cubic feet of gas into the planet's atmosphere. However, as Pierre Terzian, editor of the oil industry journal Petrostrategies, observed, "All the elements of danger are there... This is a region where resorting to violent action is not something unusual."

In the three years that followed the discovery, Terzian's warning seemed ever more prescient. Lebanon became the first hot spot. In early 2011, the Israeli government announced the unilateral development of two fields, about 10% of that Levantine Basin gas, which lay in disputed offshore waters near the Israeli-Lebanese border. Lebanese Energy Minister Gebran Bassil immediately threatened a military confrontation, asserting that his country would "not allow Israel or any company working for Israeli interests to take any amount of our gas that is falling in our zone." Hezbollah, the most aggressive political faction in Lebanon, promised rocket attacks if "a single meter" of natural gas was extracted from the disputed fields.

Israel's Resource Minister accepted the challenge, asserting that "[t]hese areas are within the economic waters of Israel... We will not hesitate to use our force and strength to protect not only the rule of law but the international maritime law."

Oil industry journalist Terzian offered this analysis of the realities of the confrontation:

"In practical terms... nobody is going to invest with Lebanon in disputed waters. There are no Lebanese companies there capable of carrying out the drilling, and there is no military force that could protect them. But on the other side, things are different. You have Israeli companies that have the ability to operate in offshore areas, and they could take the risk under the protection of the Israeli military."

Sure enough, Israel continued its exploration and drilling in the two disputed fields, deploying drones to guard the facilities. Meanwhile, the Netanyahu government invested major resources in preparing for possible future military confrontations in the area. For one thing, with lavish U.S. funding, it developed the "Iron Dome" anti-missile defense system designed in part to intercept Hezbollah and Hamas rockets aimed at Israeli energy facilities. It also expanded the Israeli navy, focusing on its ability to deter or repel threats to offshore energy facilities. Finally, starting in 2011 it launched airstrikes in Syria designed, according to U.S. officials, "to prevent any transfer of advanced... antiaircraft, surface-to-surface and shore-to-ship missiles" to Hezbollah.

Nonetheless, Hezbollah continued to stockpile rockets capable of demolishing Israeli facilities. And in 2013, Lebanon made a move of its own. It began negotiating with Russia. The goal was to get that country's gas firms to develop Lebanese offshore claims, while the formidable Russian navy would lend a hand with the "long-running territorial dispute with Israel."

By the beginning of 2015, a state of mutual deterrence appeared to be setting in. Although Israel had succeeded in bringing online the smaller of the two fields it set out to develop, drilling in the larger one was indefinitely stalled "in light of the security situation." U.S. contractor Noble Energy, hired by the Israelis, was unwilling to invest the necessary $6 billion in facilities that would be vulnerable to Hezbollah attack, and potentially in the gun sights of the Russian navy. On the Lebanese side, despite an increased Russian naval presence in the region, no work had begun.

Meanwhile, in Syria, where violence was rife and the country in a state of armed collapse, another kind of stalemate went into effect. The regime of Bashar al-Assad, facing a ferocious threat from various groups of jihadists, survived in part by negotiating massive military support from Russia in exchange for a 25-year contract to develop Syria's claims to that Levantine gas field. Included in the deal was a major expansion of the Russian naval base at the port city of Tartus, ensuring a far larger Russian naval presence in the Levantine Basin.

While the presence of the Russians apparently deterred the Israelis from attempting to develop any Syrian-claimed gas deposits, there was no Russian presence in Syria proper. So Israel contracted with the U.S.-based Genie Energy Corporation to locate and develop oil fields in the Golan Heights, Syrian territory occupied by the Israelis since 1967. Facing a potential violation of international law, the Netanyahu government invoked, as the basis for its acts, an Israeli court ruling that the exploitation of natural resources in occupied territories was legal. At the same time, to prepare for the inevitable battle with whichever faction or factions emerged triumphant from the Syrian civil war, it began shoring up the Israeli military presence in the Golan Heights.

And then there was Cyprus, the only Levantine claimant not at war with Israel. Greek Cypriots had long been in chronic conflict with Turkish Cypriots, so it was hardly surprising that the Levantine natural gas discovery triggered three years of deadlocked negotiations on the island over what to do. In 2014, the Greek Cypriots signed an exploration contract with Noble Energy, Israel's chief contractor. The Turkish Cypriots trumped this move by signing a contract with Turkey to explore all Cypriot claims "as far as Egyptian waters." Emulating Israel and Russia, the Turkish government promptly moved three navy vessels into the area to physically block any intervention by other claimants.

As a result, four years of maneuvering around the newly discovered Levantine Basin deposits have produced little energy, but brought new and powerful claimants into the mix, launched a significant military build-up in the region, and heightened tensions immeasurably.

Gaza Again -- and Again

Remember the Iron Dome system, developed in part to stop Hezbollah rockets aimed at Israel's northern gas fields? Over time, it was put in place near the border with Gaza to stop Hamas rockets, and was tested during Operation Returning Echo, the fourth Israeli military attempt to bring Hamas to heel and eliminate any Palestinian "capability to bomb Israel's strategic gas and electricity installations."

Launched in March 2012, it replicated on a reduced scale the devastation of Operation Cast Lead, while the Iron Dome achieved a 90% "kill rate" against Hamas rockets. Even this, however, while a useful adjunct to the vast shelter system built to protect Israeli civilians, was not enough to ensure the protection of the country's exposed oil facilities. Even one direct hit there could damage or demolish such fragile and flammable structures.

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The failure of Operation Returning Echo to settle anything triggered another round of negotiations, which once again stalled over the Palestinian rejection of Israel's demand to control all fuel and revenues destined for Gaza and the West Bank. The new Palestinian Unity government then followed the lead of the Lebanese, Syrians, and Turkish Cypriots, and in late 2013 signed an "exploration concession" with Gazprom, the huge Russian natural gas company. As with Lebanon and Syria, the Russian Navy loomed as a potential deterrent to Israeli interference.

Meanwhile, in 2013, a new round of energy blackouts caused "chaos" across Israel, triggering a draconian 47% increase in electricity prices. In response, the Netanyahu government considered a proposal to begin extracting domestic shale oil, but the potential contamination of water resources caused a backlash movement that frustrated this effort. In a country filled with start-up high-tech firms, the exploitation of renewable energy sources was still not being given serious attention. Instead, the government once again turned to Gaza.

With Gazprom's move to develop the Palestinian-claimed gas deposits on the horizon, the Israelis launched their fifth military effort to force Palestinian acquiescence, Operation Protective Edge. It had two major hydrocarbon-related goals: to deter Palestinian-Russian plans and to finally eliminate the Gazan rocket systems. The first goal was apparently met when Gazprom postponed (perhaps permanently) its development deal. The second, however, failed when the two-pronged land and air attack -- despite unprecedented devastation in Gaza -- failed to destroy Hamas's rocket stockpiles or its tunnel-based assembly system; nor did the Iron Dome achieve the sort of near-perfect interception rate needed to protect proposed energy installations.

There Is No Denouement

After 25 years and five failed Israeli military efforts, Gaza's natural gas is still underwater and, after four years, the same can be said for almost all of the Levantine gas. But things are not the same. In energy terms, Israel is ever more desperate, even as it has been building up its military, including its navy, in significant ways. The other claimants have, in turn, found larger and more powerful partners to help reinforce their economic and military claims. All of this undoubtedly means that the first quarter-century of crisis over eastern Mediterranean natural gas has been nothing but prelude. Ahead lies the possibility of bigger gas wars with the devastation they are likely to bring.

Michael Schwartz, an emeritus distinguished teaching professor of sociology at Stony Brook University, is a TomDispatch regular and the author of the award-winning books Radical Protest and Social Structure andThe Power Structure of American Business (with Beth Mintz). His TomDispatch book, War Without End, focused on how the militarized geopolitics of oil led the U.S. to invade and occupy Iraq. His email address is Michael.Schwartz@stonybrook.edu.

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Copyright 2015 Michael Schwartz

Le Vénézuela «extraordinaire menace pour les Etats-Unis»

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Le Vénézuela «extraordinaire menace pour les Etats-Unis»

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

En préambule d'un décret imposant un régime de sanctions (interdiction d'accès au territoire, gel des avoirs bancaires) à 7 responsables vénézueliens impliqués dans la répression violente de manifestations ayant eu lieu récemment et dirigées contre le président Maduro, Barack Obama a publié une déclaration estimant que le Venezuela était responsable «d'une inhabituelle et extraordinaire menace pour la sécurité nationale et la politique extérieure des États-Unis».
 
Le Vénézuela est ainsi assimilé à la Syrie, l'Iran ou la Birmanie, sans mentionner la Russie. Barack Obama a ajouté qu'il déclarait « l'urgence nationale pour faire face à cette menace.»

Le président Nicolas Maduro a vivement réagi à la décision américaine. «Le président Barack Obama [...] a décidé de se charger personnellement de renverser mon gouvernement et d'intervenir au Venezuela pour en prendre le contrôle», a-t-il affirmé, au cours d'un discours télévisé de deux heures. En réponse, il a décidé de nommer ministre de l'Intérieur le chef des services de renseignements sanctionné par les Américains. Le plus haut responsable diplomatique à Washington a également été rappelé.

Nous avions indiqué ici, dans un article du 11 février, que tout laissait penser qu'un coup d'Etat contre le président Maduro, successeur de Hugo Chavez et aussi détesté à Washington aujourd'hui que ne l'était ce dernier de son vivant, était sans doute en préparation.

Effectivement, peu après, le 13 février, le maire de Caracas, et figure de l'opposition Antonio Ledezma avait été arrêté par les services de renseignement, soupçonné d'avoir encouragé un coup d'Etat dans le pays. Nous ne pouvons évidemment nous prononcer sur ce point. Néanmoins il est connu de tous que les Etats-Unis, directement ou par personnes interposées, ont l'habitude de faire tomber les régimes qui s'opposent à eux en provoquant de tels pronunciamientos.

Il est clair que la nouvelle déclaration de Barack Obama contre le Vénézuéla, ressemblant beaucoup à une déclaration de guerre, ne pourra qu'être interprétée à Caracas et dans les autres capitales, ainsi qu'au sein du BRICS, comme préparant une intervention militaire. Ainsi pourrait disparaître un gouvernement dont le grand tort est d'être non aligné sur Washington et allié de la Russie, sans compter le fait que le Vénézuela dispose d'importantes réserves de pétrole sur lesquelles les grandes compagnies pétrolières américaines aimeraient bien mettre la main.

L'affaire ne sera pas cependant aussi facile qu'Obama semblait le penser. On apprend ce jour 12 mars que la Russie va se joindre aux manœuvres militaires défensives planifiées pour cette fin de semaine (14 et 15 mars) dans tout le Venezuela. Le ministre de la Défense, Serguéi Shoigu, a accepté l'invitation de son collègue vénézuélien, Vladimir Padrino Lopez. La Russie participera aux exercices militaires des forces de défense antiaérienne et aux manœuvres de tir de lance-roquettes multiple russe BM-30 Smerch. À ceci s'ajoutera l'escale de navires russes dans les ports du Venezuela.

L'Amérique ne pourra évidemment pas comparer cela à la crise des missiles de 1962 l'ayant opposée à Cuba et indirectement à l'URSS. Mais nous pouvons être certain que l'accusation sera lancée. Il serait pertinent alors de rappeler à Obama sa propre participation militaire, directement ou via l'Otan, en Ukraine et dans la majorité des pays frontaliers à la Russie, à des manoeuvres militaires plus qu'agressives.

Jean Paul Baquiast

La Russie répond à l’appel du Venezuela

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La Russie répond à l’appel du Venezuela

Auteur : Oscar Fortin
Ex: http://zejournal.mobi

Le président Obama doit se mordre les doigts d’avoir ouvert toutes grandes les portes à la présence militaire russe en Amérique latine et dans les Antilles. Par son décret, véritable déclaration de guerre contre le Venezuela, il aura incité ce dernier à faire appel aux bons offices de la Russie et de sa technologie militaire pour assurer sa défense. S’il s’agit pour le Venezuela d’un appui de grande importance, c’est pour la Russie, à n’en pas douter, une opportunité tout à fait inattendue. Une occasion en or pour Poutine de donner la pareille à Washington qui se fait si présent politiquement et militairement en Ukraine, dans les Balkans, la Mer noire et la Méditerranée.

La nouvelle du jour qui va interpeller très fortement les bien-pensants des politiques guerrières étasuniennes est que la Russie et le Venezuela vont se joindre aux manœuvres militaires défensives planifiées pour cette fin de semaine (14 et 15 mars) dans tout le Venezuela. Le ministre de la Défense, Serguéi Shoigu, a accepté l’invitation de son collègue vénézuélien, Vladimir Padrino Lopez, pour que la Russie participe aux exercices militaires des forces de défense antiaérienne et aux manœuvres de tir de lance-roquettes multiple russe BM-30 Smerch. À ceci s’ajoute l’entrée amicale de navires russes dans les ports du Venezuela.

Cette participation de la Russie à la défense du Venezuela contre les menaces d’invasion militaire de la part des États-Unis ne sera pas sans rappeler à Obama sa propre participation militaire en Ukraine et dans la majorité des pays frontaliers à la Russie. Il sera mal placé pour se plaindre du fait qu’un pays ami, la Russie, apporte son soutien à un autre pays ami, le Venezuela, lequel est menacé d’invasion par son pire ennemi, les États-Unis.

Nous ne sommes évidemment plus en 1962, lors de la crise des missiles à Cuba où la menace nucléaire était à 90 kilomètres des frontières étasuniennes. Au Venezuela, il n’y a pas d’armes nucléaires et les frontières des deux pays sont séparées par des milliers de kilomètres. De plus, l’Amérique latine d’aujourd’hui n’est plus celle des années 1960. De nombreux peuples sont parvenus à vaincre les résistances oligarchiques et impériales pour conquérir démocratiquement les pouvoirs de l’État et les mettre au service du bien commun. De nombreux organismes régionaux se sont développés. Leur présence devient une caution de l’indépendance et d’intégration des peuples de l’Amérique latine. C’est le cas, entre autres, d’UNASUR, de MERCOSUR, de l’ALBA, de CELAC.

De toute évidence, l’Oncle SAM s’acharne à ne pas reconnaître ces changements et continue de vivre comme si l’Amérique latine était toujours sa Cour arrière dont il peut disposer à volonté. Tôt ou tard, il faudra qu’il change son attitude et ses politiques. Ce ne sont plus ces peuples qui doivent changer leurs politiques et leur régime de gouvernance, mais c’est plutôt lui qui doit procéder à ce changement. Ce sont maintenant les peuples qui lui tordent le bras pour qu’il change ses vieilles habitudes impériales en celles de partenaire respectueux et respectables.


- Source : Oscar Fortin

dimanche, 15 mars 2015

Vers une Allemagne post-occidentale?

par Hans Kundnani
Ex: http://l-arene-nue.blogspot.fr
 
Ce texte est la traduction d'un article de Hans Kundnani, paru dans la revue Foreign affairs de janvier-février 2015. Hans Kundnani est un spécialiste de la politique étrangère allemande et officie notamment au sein d'un Think Tank, le Conseil européen pour les relations internationales. Ses analyses sont souvent remarquables, mais il me semble hélas qu'elles sont assez peu relayées en France. C'est pourquoi j'ai traduit ce papier. Il dresse le portrait d'une Allemagne telle que nous ne la connaissons absolument pas, mais telle qu'elle est assez souvent décrite - pour ce que j'en ai lu - dans la presse anglo-saxone, bien moins "coincée" que la notre sur sujet-là, et qui se refuse à en faire un tabou. Attention, ça décoiffe !
***
L'annexion de la Crimée par la Russie en mars 2014 a été un choc stratégique pour l'Allemagne. Soudain, l'agression russe mettait en cause l'ordre sécuritaire européen que la République fédérale tenait pour acquis depuis la fin de la Guerre froide. Berlin venait de passer deux décennies à tenter de renforcer ses liens politiques et économiques avec Moscou, mais l'action de la Russie en Ukraine suggérait que le Kremlin n'était plus guère intéressé par un partenariat avec l'Europe. En dépit de la dépendance de l'Allemagne au gaz russe et de l'importance de la Russie pour les exportateurs allemands, la chancelière Angela Merkel a fini par accepter de sanctionner la Russie. Elle a même contribué à persuader d'autres États membres de l'Union européenne à faire de même.
 
Mais la crise en Ukraine a rouvert de vieilles questions relatives à la relation de l'Allemagne au reste de l'Occident. En avril 2014, lorsque la radio allemande ARD demande à ses auditeurs quel rôle leur semble devoir jouer leur pays dans la crise, seuls 45% se prononcent pour une Allemagne au diapason de ses alliés de l'UE et de l'OTAN. En revanche, 49% souhaitent que l'Allemagne joue un rôle de médiateur entre la Russie et l'Ouest. Des résultats qui ont inspiré à l'hebdomadaire Der Spiegel un édito daté de mai où il met en garde l'Allemagne contre la tentation de détourner de l'Occident.

 

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La réponse germanique à la crise ukrainienne doit être replacée dans le contexte d'un affaiblissement de long terme de ce qu'on nomme la Westbindung, c'est à dire l'arrimage du pays à l'Ouest, en vigueur depuis l'après-guerre. La chute du mur de Berlin et l'élargissement de l'Union européenne ont libéré le pays de la dépendance à l'égard des États-Unis que lui imposait l'impératif de se protéger contre l'Union soviétique. Dans le même temps, l'économie allemande, très dépendante aux exportations, est devenue plus tributaire de la demande des marchés émergents, notamment du marché chinois.
 
Le pays a beau rester attaché à l'intégration européenne, ces facteurs permettent tout à fait d'imaginer une politique étrangère allemande post-occidentale. Un tel changement a des enjeux de taille. Étant donnée la montée en puissance de l'Allemagne au sein de l'UE, les relations du pays avec le reste du monde détermineront dans une large mesure celles de tout l'Europe.
 
Le paradoxe allemand
 
L'Allemagne a toujours eu une relation compliquée avec l'Occident. D'un côté, bon nombre des idées politiques et philosophiques qui comptent à l'Ouest proviennent d'Allemagne, avec des penseurs aussi majeurs qu'Emmanuel Kant. Mais d'un autre côté, l'histoire intellectuelle allemande est mêlée d'éléments plus sombres, qui ont parfois menacé les valeurs occidentales, comme le courant du nationaliste du début du XIXe siècle. À partir de la seconde moitié du XIXème, les nationalistes allemands ont cherché à définir l'identité allemande par opposition avec les principes rationalistes et libéraux de la Révolution française et les Lumières. Le phénomène a culminé dans le nazisme, que l'historien Heinrich August Winkler a défini comme « l'apogée du rejet germanique du monde occidental ». Dès lors, l'Allemagne était un cas paradoxal. Elle était partie intégrante de l'Occident tout en le défiant radicalement de l'intérieur.
 
Après la Seconde Guerre mondiale, l'Allemagne de l'Ouest participe à l'intégration européenne, et, en 1955, elle rejoint l'OTAN. Pour une bonne quarantaine d'années, la Westbindung, conduit l'Allemagne à prendre des initiatives de sécurité conjointes avec ses alliés occidentaux, ce qui représente pour elle une nécessité existentielle l'emportant sur tout les autres objectifs de politique étrangère. Le pays continue de se définir comme une puissance occidentale tout au long des années 1990. Sous le chancelier Kohl, l'Allemagne réunifiée décide d'adopter l'euro. À la fin de la décennie, elle semble même se réconcilier avec l'utilisation de la force militaire pour s'acquitter de ses obligations de membre de l'OTAN. Après le 11 septembre 2001, Gerhard Schröder promet aux États-Unis une « solidarité inconditionnelle » et engage des troupes en Afghanistan.


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Toutefois, au cours de la dernière décennie l'attitude de l'Allemagne envers le reste du monde occidental change. Dans le débat sur l'intervention en Irak en 2003, Schröder évoque l'existence d'une « voie allemande », qui se distingue de la « voie américaine ». Et depuis lors, la République fédérale n'a cessé d'affermir son opposition à l'usage de la force armée. Après son expérience en Afghanistan, elle semble avoir décidé que la meilleure leçon à tirer de son passé nazi n'était pas « plus jamais Auschwitz » - l'argument précisément invoqué pour justifier la participation à l'intervention l'OTAN au Kosovo en 1999 - mais « plus jamais la guerre ». D'un bout à l'autre de l’échiquier politique, les responsables allemands définissent désormais leur pays comme une Friedensmacht , une « puissance de paix ».
 
L'attachement de l'Allemagne à la paix a fini par conduire l'Union européenne et les États-Unis à l'accuser de jouer au cavalier solitaire au sein de l'alliance occidentale. S'exprimant à Bruxelles en 2011, le secrétaire américain à la Défense Robert Gates avertissait ainsi que l'OTAN était en voie de devenir une « alliance à deux vitesses », avec d'un côté les membres prêts à contribuer aux engagements de l'alliance, et de l'autre ceux qui appréciaient les avantages de l'adhésion, qu'ils s'agisse de garanties en termes de sécurité ou des places en État-major, mais refusaient de partager les risques et les coûts. Il pointait en particulier ces membres de l'OTAN qui refusent de consacrer à la défense le montant convenu de 2 % de leur PIB. Or l'Allemagne est à peine à 1,3 %. Récemment, la France également critiqué son voisin pour son inaptitude à fournir une contribution digne de ce nom à l'occasion des interventions au Mali ou en République centrafricaine.

 
Mais l'une des raisons pour lesquelles l'Allemagne a négligé ses obligations envers l'OTAN est que la Westbindungn'apparaît plus comme une nécessité stratégique absolue. Après la fin de la guerre froide, l'Union européenne et l'OTAN se sont élargies aux pays d'Europe centrale et orientale, ce qui fait que l'Allemagne est désormais « entourée d'amis» et non plus d'agresseurs potentiels, comme l'a dit un jour l'ancien ministre de la Défense Volker Rühe. Elle est donc bien moins dépendante des États-Unis pour sa sécurité.
 
Dans le même temps, son économie est devenue plus dépendante des exportations, notamment en direction de pays non-occidentaux. Durant la première décennie de ce siècle, alors que la demande intérieure restait faible et que les entreprises gagnaient en compétitivité, l'Allemagne devenait de plus en plus accro aux débouchés extérieurs. Selon la Banque mondiale, la part des exportations dans le PIB du pays a bondi de 33% 2000 à 48% en 2010. Ainsi, à partir de l'ère Schröder, l'Allemagne commence orienter sa politique étrangère en fonction de ses intérêts économiques et plus particulièrement en fonction des besoins de son commerce extérieur.
 
Un autre facteur a également contribué à cette réorientation. Il s'agit de la montée d'un sentiment anti-américain dans l'opinion publique. Si la guerre en Irak a rendu les Allemands confiants dans leur capacité à se montrer autonomes vis à vis des États-Unis sur les questions militaires, la crise financière de 2008 a fait naître l'idée qu'ils pouvaient également s'autonomiser dans le domaine économique. Pour beaucoup d'Allemands, la crise a mis en évidence les lacunes du capitalisme anglo-saxon et validé le bien fondé d'une économie sociale de marché comme la leur. En 2013, les révélations relatives aux écoutes de la NSA y compris sur le téléphone portable de Merkel, ont encore renforcé ce sentiment anti-américain. Désormais, beaucoup d'Allemands disent qu'ils ne partagent plus les mêmes valeurs que le États-Unis. Certains avouent même qu'ils ne les ont jamais partagées.
 

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Pour sûr, la culture politique libérale de l'Allemagne, fruit de son intégration à l'Ouest, perdurera. Mais il reste à voir si le pays continuera à suivre systématiquement ses partenaires et à défendre coûte que coûte les valeurs occidentales, alors que sa croissance est devenue tributaire de pays non-occidentaux. Pour avoir une idée de l'évolution possible d'une politique étrangère allemande post-occidentale, il suffit de se rappeler 2011, qui vit la République fédérale s'abstenir au Conseil de sécurité de l'ONU sur l'intervention en Libye, tout comme la Russie et la Chine, et à l'opposé de la France, de la Grande-Bretagne et des États-Unis. Certains responsables allemands assurent que cette décision ne reflète pas une tendance de long terme. Mais un sondage réalisé par la revue de géopolitique Politikpeu après le vote au Conseil de sécurité a montré que les Allemands se répartissent en trois groupes. Ceux qui pensent qu'il faut continuer à coopérer principalement avec les partenaires occidentaux, ceux pour qui il faut privilégier d'autres pays, comme la Chine, l'Inde ou la Russie, et ceux qui souhaitent combiner les deux approches.
 
La nouvelle Ostpolitik
 
La politique russe de l'Allemagne a longtemps été basée sur l'échange politique et sur l'interdépendance économique. Lorsque Willy Brandt devient chancelier de la RFA en 1969, il essaie de contrebalancer la Westbindung en recherchant une relation plus ouverte avec l'Union soviétique. Il inaugure une nouvelle approche devenue célèbre sous le nom d'Ostpolitik(ou « politique orientale »). Brandt pensait que l'approfondissement des entre les deux puissances pourraient éventuellement conduire à la réunification allemande, une conception que son conseiller Egon Bahr baptisa Wandel durch Annäherung: le « changement par le rapprochement ».
 
Depuis la fin de la guerre froide, les liens économiques entre Allemagne et Russie se sont encore renforcés. Invoquant le souvenir de l'Ostpolitik, Schröder entreprit lui-même une politique de Wandel durch Handel , ou « changement par le commerce ». Les responsables politiques allemands, en particulier les sociaux-démocrates, se sont faits les hérauts d'un « partenariat pour la modernisation », au titre duquel l'Allemagne fournirait à la Russie la technologie pour moderniser son économie - puis, idéalement, ses pratiques politiques.
 
L'existence de ces liens aident à comprendre la réticence initiale de l'Allemagne à l'idée d'imposer des sanctions après l'incursion russe en Ukraine en 2014. Avant de décider si elle emboîterait ou non le pas aux États-Unis, Mme Merkel a subi les pressions de puissants lobbyistes de l'industrie, emmenés par le Comité pour les relations économiques en Europe de l'Est. Celui-ci a fait valoir que les sanctions pénaliseraient durement l'économie allemande. Afin de témoigner de soutien au président russe Vladimir Poutine, Joe Kaeser, le PDG de Siemens, lui a rendu visite dans sa résidence des environs de Moscou juste après l'annexion de la Crimée. Kaeser avait alors garanti à Poutine que sa firme, qui faisait des affaires en Russie depuis près de 160 ans, ne laisserait pas quelques « turbulences de court terme » - sa manière de désigner de la crise - affecter sa relation avec le pays. Dans un éditorial publié dans le Financial Times en mai 2014, le directeur général de la Fédération des industries allemandes, Markus Kerber, écrivait que les entreprises allemandes soutiendrait les sanctions, mais le feraient « le cœur lourd ».
 

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La forte dépendance allemande à l'énergie russe a également conduit Berlin à redouter les sanctions. Après la catastrophe nucléaire de Fukushima en 2011, la République fédérale a en effet décidé de sortir du nucléaire plus tôt que prévu, ce qui a rendu le pays plus dépendant encore au gaz russe. En 2013, la Russie fournissait environ 38% de son pétrole à l'Allemagne et 36% de son gaz. L'Allemagne pourrait certes diversifier ses sources d'approvisionnement, mais un tel processus prendrait des décennies. Dans l'immédiat, elle se montre donc réticente à toute perspective de contrarier Moscou.
 
Quant aux sanctions, Angela Merkel ne s'est pas seulement heurtée à l'opposition des industriels, mais également à celle de son opinion publique. Certains, aux États-Unis ou en Europe, ont eu beau accuser le gouvernement allemand d'être trop conciliant avec la Russie, beaucoup en Allemagne, l'on trouvé au contraire trop agressif. Illustration: lorsque le journaliste Bernd Ulrich a appelé de ses vœux des mesures sévères contre Poutine, il s'est fait littéralement inonder de courriers haineux l'accusant de visées bellicistes. Même Frank-Walter Steinmeier, ministre des Affaires étrangères et perçu de longue date comme un ami de la Russie, a dû faire face à des accusations similaires. Les révélations quant à l'espionnage pratiqué par la NSA ont par ailleurs accru la sympathie pour la Russie. Comme Bernd Ulrich le notait en avril 2014, «  quand le Président russe dit se sentir oppressé par l'Occident, beaucoup ici pensent « nous aussi »».
 
Cette identification à la Russie a des racines historiques profondes. En 1918, Thomas Mann publiait un livre, Considérations d'un homme étranger à la politique, dans lequel il affirmait que la culture allemande était distincte - supérieure - à celle des autres pays occidentaux comme la France ou le Royaume-Uni. La culture germanique, soutenait-il, se trouve quelque part entre la culture russe et les cultures du reste de l'Europe. Cette idée a connu un regain de vitalité spectaculaire ces derniers mois. L'historien Winkler critiquait vertement, dans le Spiegel, en avril 2014, la démarche de ces Allemands qui expriment un vif soutien pour à la Russie, et tentent de repopulariser « le mythe d'une connexion entre les âmes russe et allemande ».
 
L'élaboration par Merkel d'une réponse à l'annexion de la Crimée a donc relevé du funambulisme. La chancelière a d'abord cherché à maintenir ouverte la possibilité d'une solution politique, au prix d'heures passées au téléphone avec Poutine, et en envoyant Steinmeier jouer l'intermédiaire entre Moscou et Kiev. Ce n'est qu'après que le vol de la Malaysia Airlines eût été abattu le 17 Juillet 2014, a priori par les séparatistes pro-russes, que les responsables allemands se sentirent à l'aise pour adopter une position plus ferme. Même alors, le soutien de l'opinion aux sanctions demeura tiède. Un sondage réalisé en août par l'ARD révélait par exemple que 70 % des Allemands soutenaient la seconde salve des sanctions européennes contre la Russie, qui comprenait l'interdiction de visas et le gel des avoirs d'une liste d'hommes d'affaires russes. En revanche, seuls 49 % se disaient prêts à continuer de soutenir les sanctions si elles devaient nuire à l'économie domestique, comme ce serait probablement le cas la troisième série de sanctions. Et cela pourrait être plus marqué encore si l'Allemagne entrait en récession, ainsi que de nombreux analystes l'annoncent. Les industriels allemands ont eu beau accepter les sanctions, ils n'en ont pas moins continué à faire pression sur Merkel pour les assouplir. En outre, l'Allemagne a clairement fait savoir qu'aucune option militaire n'était sur la table. Au moment du sommet de l'OTAN au Pays de Galles en septembre, Merkel s'est opposée au projet d'établir une présence permanente de l'Alliance en Europe orientale, et a fait valoir qu'une telle initiative constituerait un viol de l'acte fondateur OTAN-Russie 1997. Pour le dire autrement, la République fédérale n'a aucune volonté de mener une politique de containment de la Russie.

 
Le pivot vers la Chine
 
L'Allemagne s'est également rapprochée de la Chine, un indice encore plus probant de l'amorce d'une politique étrangère post-occidentale. Comme avec la Russie, les liens sont de plus en plus étroits. Durant la décennie écoulée, les exportations vers la Chine ont augmenté de façon exponentielle. En 2013, elles sont montées jusqu'à 84 milliards de dollars, presque le double du montant vers la Russie. L'Empire du Milieu est devenu le deuxième plus grand marché pour les exportations allemandes hors de l'UE, et pourrait bientôt dépasser les États-Unis pour devenir le premier. Il est d'ores et déjà le principal marché pour Volkswagen et pour la Classe S de Mercedes-Benz.

 

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Les relations entre l'Allemagne et la Chine se sont intensifiées après la crise financière de 2008, alors que les deux pays se trouvaient dans le même camp dans les débats sur l'économie mondiale. Tous deux avaient tendance à exercer une pression déflationniste sur leurs partenaires commerciaux, critiquaient la politique d'assouplissement quantitatif conduite par la Fed américaine et ignoraient les appels des États-Unis à prendre des mesures pour corriger les déséquilibres macroéconomiques mondiaux. Dans le même temps, tous deux se rapprochaient politiquement. En 2011, ils ont même commencé à tenir annuellement une consultation intergouvernementale. C'était la première fois que la Chine se lançait dans une négociation aussi étroite avec un autre pays.
 Pour l'Allemagne, la relation est essentiellement économique, mais pour la Chine, qui souhaite une Europe forte pour contrebalancer la puissance américaine, elle est également stratégique. Pékin voit l'Allemagne comme une clé pour obtenir le type d'Europe qu'elle désire, d'abord parce que la République fédérale semble être de plus en plus puissante au sein de l'Union européenne, mais peut-être aussi parce que les tropismes allemands semblent plus proches des siens que ne le sont ceux, par exemple, de la France ou du Royaume-Uni.
 
Le rapprochement Berlin-Pékin intervient cependant que les États-Unis adoptent une approche plus dure envers la Chine dans le cadre de ce qu'on appelle leur pivot vers l'Asie. Ceci pourrait poser un problème majeur à l'Occident. Si Washington venait à se trouver en conflit avec la Chine sur des questions économiques ou de sécurité, s'il venait à y avoir une « Crimée asiatique » par exemple, il y a une possibilité réelle que l'Allemagne demeure neutre. Certains diplomates allemands en Chine ont déjà commencé à prendre leurs distances avec l'Ouest. En 2012 par exemple, l'ambassadeur d'Allemagne à Pékin, Michael Schaefer, déclarait dans une interview: « je ne pense pas qu'il y existe encore une chose telle que l'Occident ». Compte tenu de leur dépendance croissante au marché chinois, les entreprises allemandes seraient encore plus opposées à l'idée de sanctions qu'elles ne le furent contre la Russie. Le gouvernement allemand serait d'ailleurs plus réticent à en prendre, ce qui creuserait encore les divisions au sein de l'Europe, puis entre l'Europe et les États-Unis.

 
Une Europe allemande
 
La peur de la neutralité allemande n'est pas chose nouvelle. Au début des années 1970, Henry Kissinger, conseiller à la sécurité nationale des États-Unis, avertissait que l'Ostpolitik à l’œuvre en RFA pourrait être une carte dans les mains de l'Union soviétique et menacer l'unité transatlantique. Il prévenait que des liens économiques plus étroits avec l'URSS ne pourraient qu'accroître la dépendance de l'Europe vis à vis de l'Est, ce qui compromettrait les solidarités à l'Ouest.
 
Le danger que pressentait Kissinger n'était pas tant un départ de la RFA de l'OTAN, mais, comme il le dit dans ses mémoires, le fait qu'elle puisse « se tenir à l'écart des tensions hors d'Europe, même quand seraient menacés les intérêts fondamentaux et la sécurité ». Heureusement pour Washington, la guerre froide a tenu ces tentations en échec, cependant que l'Allemagne de l'Ouest s'appuyait sur Washington pour assurer sa sécurité.
 
Cependant, l'Allemagne se trouve à présent dans une position plus centrale et plus forte en Europe. Pendant la guerre froide, la RFA était un État faible et quasi marginal de ce qui est devenu l'Union européenne. A l'inverse, l'Allemagne réunifiée est aujourd'hui l'une des plus fortes, si ce n'est la plus forte puissance d'Europe. Ceci étant donné, une Allemagne post-occidentale pourrait emporter à sa suite nombre d'autres pays, en particulier les pays d'Europe centrale et orientale dont les économies sont profondément imbriquées avec la. Si le Royaume-Uni quitte l'UE, comme il est en train de l'envisager, l'ensemble sera encore plus susceptible de s'aligner sur les préférences germaniques, en particulier pour tout ce qui concerne les relations avec la Russie et la Chine. Dans ce cas, l'Europe pourrait se trouver en opposition avec les États-Unis – et une faille pourrait s'ouvrir au sein du monde occidental, pour ne jamais se refermer.

La Russie, amie d'une Europe authentique

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La Russie, amie d'une Europe authentique

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

La guerre civile ukrainienne, l’annexion de la Crimée et le récent assassinat de l’opposant libéral Boris Nemtsov, amènent les media occidentaux à considérer la Russie de Poutine comme une menace pour la paix en Europe. Selon une inversion accusatoire classique, un article du journal Le Monde du 23 février affirme même que la Russie considérerait l’Union Européenne « comme son ennemie ».

Que reproche-t-on réellement à Poutine ? De braver les interdits de la police de la pensée. De remettre en cause les dogmes d’un Occident sur le déclin. D’avoir redonné à la Russie ses lettres de noblesse, alors qu’elle était affaiblie et même avilie du temps d’Eltsine. Poutine en effet n’est pas un partisan déclaré d’une « gay pride » moscovite mais il préfère relancer la natalité du peuple russe, qui était auparavant au plus bas. S’il n’est pas nationaliste, désavouant les excès de la droite radicale, il est néanmoins patriote.

Gorbatchev a été abusé. S’il a eu raison de redonner leur liberté aux pays d’Europe centrale et orientale, s’il a été utile pour libérer la Russie d’une dictature nocive, les USA en revanche n’ont pas joué le jeu. Ils n’ont jamais traité la (nouvelle) Russie comme un partenaire respectable, à traiter avec correction. Pendant qu’Eltsine assistait impuissant ou complice au démantèlement du pays, engraissant les oligarques comme d’autres engraissent les oies, un par un, les pays d’Europe centrale adhéraient à l’OTAN, une organisation née pour enrayer le communisme et qui n’avait donc plus lieu d’exister après 1991.

Poutine a été choisi en 1999 par Eltsine mais sans avoir encore révélé qui il était. Il a tenu sa parole, protégeant la famille de l’ancien président de poursuites sans doute justifiées. En revanche, il a démantelé le système Eltsine, traquant sans répit les « marchands du temple ». Berezovski dut s’exiler et Khodorkovski finit en prison. Poutine a eu le temps d’analyser les causes du déclin de son pays et nommer les coupables. Au pouvoir, il va donc les combattre sans ménagement. D’un point de vue russe, ces gens ont trahi leur patrie.

Poutine a parfaitement compris que la Russie était une nation d’Europe et a maintenu la ligne de la « maison commune européenne » au moins jusqu’à 2005. Il a tendu la main à l’Union Européenne qui jamais n’a eu le courage de la saisir, préférant être la vassale des USA. S’il a obtenu difficilement l’abandon de la mise en place de bases américaines anti-missiles aux frontières du pays, il n’a pas pu enrayer la stratégie américaine contre son pays et n’a pas réussi à convaincre les autres Européens de se désolidariser de cette puissance qui a mis le continent sous diktat.

La stratégie russe consiste donc à neutraliser les vassaux de l’Amérique qui vivent à ses frontières, y compris par des actions militaires. La Transnistrie, l’Ossétie du nord et l’Abkhazie et maintenant le Donbass ukrainien, empêchent Moldavie, Géorgie ou Ukraine de rejoindre l’OTAN. L’adhésion à l’Union Européenne, dans la mesure où cette dernière ne se place pas en adversaire, ne le dérange pas. C’est une réponse impopulaire aux yeux de la communauté internationale et cause de conflits gelés. Il est trop facile d’en accuser la Russie. C’est bien parce qu’elle est victime d’une stratégie russophobe d’encerclement, pensée par les technocrates de Washington, républicains comme démocrates, qu’elle est contrainte de répondre comme elle le peut et sans bénéficier des appuis nécessaires pour éviter de jouer un « mauvais rôle ».

La balle est clairement dans le camp de l’Union Européenne. C’est à celle de décider si elle veut continuer à payer les pots cassés d’une stratégie atlantiste ou si elle est prête à prendre son destin en mains. La politique qu’elle mène est contraire à ses intérêts et surtout à ceux des peuples. Elle est vectrice de mondialisme lorsqu’elle devrait au contraire être un rempart.

Les USA n’ont peur que d’une chose, que l’Union Européenne et la Russie convergent et travaillent de concert pour l’intérêt des Européens. Ils favorisent donc en son sein tous les germes de décadence, promouvant toutes formes de communautarisme, et sont un soutien sans réserve d’une immigration massive indigeste et mettant en danger les valeurs les plus ancestrales de la civilisation européenne.

Or la Russie semble renoncer à cette espérance d’une Europe se libérant de ce joug et préfère se tourner par défaut vers l’Asie. Elle commet là une erreur majeure. Son avenir est européen et ne peut qu’être européen. Son salut est en elle et en nous, comme le nôtre d’ailleurs. Elle choisit d’encourager les passions centrifuges de l’Union Européenne au lieu d’encourager son unité, de peur que cette unité se fasse contre elle.

Mais les vrais européistes savent que la Russie a toujours été le rempart de l’Europe face à l’Asie avide de ses richesses. Et ils savent désormais que la Russie est aussi le rempart de l’Europe contre une Amérique qui nie ses racines européennes et se retourne contre la maison-mère, trahissant dans le même temps le peuple américain fondateur, de souche européenne, minoritaire sur son propre sol dans quelques décennies.

Les libéraux-atlantistes, dans et en dehors de la Russie, sont des ennemis déclarés de notre civilisation et de leur propre peuple. Les gouvernements d’Europe orientale qui tapent sur la Russie se trompent d’ennemis. Et les nationalistes ukrainiens, passéistes, bafouent les principes mêmes qu’ils devraient chérir, oubliant qu’ils sont des Slaves et (donc) des Européens et pas des Occidentaux. La Russie n’est pas l’ennemie de l’Europe, elle est une composante de l’Europe. Les Russes sont nos frères, comme le sont pour eux et pour nous les Ukrainiens. Mais la Russie attend que les Européens envoient à leur tour les bons signaux et redeviennent maîtres chez eux, dans tous les sens du terme.

L’alliance euro-russe, le ralliement de la Russie au projet d’unification politique du continent européen, voilà la seule ligne que devraient défendre de véritables Européens, d’âme et de sang, de cœur et de raison. En n’oubliant pas que les spéculateurs qui ont attaqué la Grèce et par ce biais la zone euro ne roulaient pas pour Moscou mais pour Washington. En n’oubliant pas qu’une Europe unie de l’Islande à la Russie sera et de loin la première puissance mondiale, détrônant les USA. En n’oubliant pas que la grande Europe sera capable de faire entendre sa voix, et ainsi de protéger concrètement son identité contre toutes les agressions, internes et externes, du mondialisme.

Si l’avenir de la Russie est européen, l’avenir de l’Europe est dans l’amitié avec la Russie, même « poutinienne ». Nous pourrons donner des leçons à Vladimir Poutine quand nous aurons su nous doter de vrais dirigeants et entreprendre les réformes indispensables pour notre salut. Et je ne doute pas qu’alors les Russes sauront nous encourager. Mais n’attendons pas d’eux qu’ils fassent le travail pour nous.

L’Europe avec la Russie, la Russie dans l’Europe !

Thomas FERRIER (PSUNE)

L’inévitable chemin vers Damas

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RECOMPOSITION DU MOYEN-ORIENT
L’inévitable chemin vers Damas

Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr
La guerre imposée au peuple syrien dure depuis près de quatre ans. Un organe autoproclamé comme indépendant,  à partir de Londres compte les morts et les évalue à 200 000 morts qu’il impute  naturellement au gouvernement légitime syrien. Les oppositions off-shore pour reprendre la judicieuse expression de René Naba, ont fait long feu. Bachar tient toujours malgré toutes les coalitions, il s’est même permis le luxe d’être réélu pour un nouveau mandat. On a même accusé Assad de gazer son peuple et l’histoire retiendra qu’il n’en est rien; la ligne rouge a pourtant été franchie selon les critères américains, mais Obama a décidé de ne pas bombarder Damas. Il sera suivi par la Grande-Bretagne qui, du fait d’un vote aux communes négatif, s’est retirée de la coalition. Le feuilleton gazage s’est arrêté avec le veto russe et sa proposition de détruire le stock d’armes chimiques. Ce qui fut fait. Reste la France et son obsession de punir Assad.

François Hollande voulait «punir» Assad

De fait, la rhétorique guerrière de François Hollande fait appel au bien et au mal. Hollande se voit défendre la veuve et l’orphelin syriens . Faut-il «punir» Bachar al-Assad ? écrit le philosophe Philippe-Joseph Salazar. Pour justifier une potentielle attaque en Syrie, François Hollande l’affirme: si le régime syrien a utilisé l’arme chimique contre sa population, il faut le corriger. Légitime-t-on une guerre par le châtiment? « La France est prête à punir ceux qui ont pris la décision infâme de gazer des innocents », disait François Hollande il y a quelques jours. (…) « Punition », « châtiment », ces mots ont été bannis de tout discours politique depuis des années. (…) Sans compter que se réactive un argumentaire néocolonialiste et impérialiste: nous, grande civilisation occidentale, sommes dépositaires des vrais principes moraux… Nous voilà revenus au XIXe siècle. Au nom de la démocratie, on envoie les canonnières.(…) Nous sommes au-dessus de la Charte. Nous sommes le bien absolu. On retrouve la rhétorique de la «mission civilisatrice», mais sous une forme inattendue (…) 
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On se souviendra que Hollande n’a pas puni Assad du fait que Obama ne l’a pas accompagné. Lâché à la fois par Obama et par  Cameron, Hollande ne voulait prendre aucun risque inutile.

La situation présente: Où en est-on actuellement?

Le conflit aurait pu encore durer sur une ancienne cinétique celle de l’impasse. Souvenons nous  : Aucune  des conférences  (Génève I et II), malgré tout le savoir du diplomate algérien  Lakhdar Brahimi envoyé spécial à la fois des Nations Unies et de la Ligue Arabe , n’a pu aboutir à la résolution de la crise syrienne crée par l’Occident de toute pièce par un Occident sûr de lui et dominateur qui pensait la régler à la libyenne. Ce ne fut pas une promenade de santé et le peuple syrien est en train de payer pour un conflit qui le dépasse .

Cependant  depuis juin 2014, la donne a changé. Il est vrai que les médias aux ordres n’ont pas cessé et continuent de diaboliser Assad. Cette contribution de Kristien Pietr, permet de décrire la situation après l’avènement d’un nouveau venu, Daesh, qui a changé totalement le paysage politique au Proche-Orient. « Dans la foulée du «printemps arabe», certains esprits ont désigné le président syrien Bachar al-Assad comme le Satan des temps modernes – «un individu qui ne mérite pas de vivre» selon Laurent Fabius… Quel est donc le crime commis par le président syrien pour déclencher une telle haine? Posséder la 3e armée mondiale, à l’exemple de Saddam Hussein? Rien de tout cela! Comme dans chaque État souverain, le dirigeant syrien a dû réprimer les émeutes, mater les affrontements interreligieux et les rebelles armés.» 
«Une coalition hétéroclite s’est formée contre le pouvoir syrien, soutenue par les rois du pétrole et dirigée depuis Londres. Des milliers de «conseillers» militaires étrangers entraînent les volontaires en Turquie, en Jordanie, en Irak et, sur le terrain opérationnel, en Syrie. Face à cette coalition contre nature, le président syrien ne peut compter que sur le soutien de la Russie et de l’Iran (présent depuis fort longtemps dans le sud-est de l’Irak)».
«Malgré ces aides occidentales, complétées par des brigadistes recrutés en Europe, mais surtout de katibas arrivant de toute la planète, Damas ne cède pas et, bien au contraire, reprend des positions stratégiques. Après des années de guerre, ces «gentils rebelles djihadistes» deviennent subitement infréquentables! Comprenne qui pourra… Dès la prise de Mossoul par les salafistes, la communauté internationale opère un revirement à 180°. À cette occasion, les djihadistes ont mis la main sur les arsenaux de 4 divisions de l’armée irakienne (formées et équipées par les USA) et aussi sur un trésor de guerre de 425 millions de dollars en dépôt à la banque centrale de la ville. Le sigle arabe de Daesh – «ad-dawla al islamiyya fi-l Iraq wa-scham» – remonte à sa création en 2006, quand Al Qaîda en Irak forme, avec cinq autres groupes djihadistes, le conseil consultatif des moudjahidines en Irak. (…) »
«  Il est surprenant de constater que c’est l’armée de Bachar al-Assad qui livre maintenant des armes aux Kurdes assiégés à Kobané, alors que la Turquie assiste tranquillement à leur massacre.» En outre, il faut aussi noter que toute tentative de regroupement ou de création de républiques nationalistes arabes, qui aurait pu s’inspirer de la doctrine et de l’idéologie de Michel Aflak, a été sabotée par les USA et la CIA, à commencer par la destitution de Mossadegh en 1953. (…) Il est grand temps de stopper les élucubrations des dirigeants américains. Oui, après le soldat Ryan, il faut sauver le président Bachar!» 

La décantation : Un nouveau  Proche-Orient avec Assad ?

Les ennemis d’hier sont les alliés d’aujourd’hui. Pour Thiery Meyssan, du fait de l’évolution rapide de la situation au Proche-Orient, Barack Obama étudie de nouvelles options: «depuis plusieurs mois écrit-il, Barack Obama tente de modifier la politique états-unienne au Proche-Orient de manière à éliminer l’Émirat islamique avec l’aide de la Syrie. Mais il ne le peut pas, d’une part, parce qu’il n’a cessé de dire des années durant que le président el-Assad devait partir, et d’autre part, parce que ses alliés régionaux soutiennent l’Émirat islamique contre la Syrie. Pourtant, les choses évoluent lentement de sorte qu’il devrait y parvenir bientôt. Ainsi, il semble que tous les États qui soutenaient l’Émirat islamique ont cessé de le faire, ouvrant la voie à une redistribution des cartes.»

Thierry Meyssan pense que tout est lié à l’accord Etats-Unis-Iran, qui permettrait à Barack Obama d’avoir les mains libres, notamment vis-à-vis d’Israël surtout s’il y a une nouvelle équipe élue en Israël à partir du 17 mars «Le monde attend écrit-il, la conclusion d’un accord global entre Washington et Téhéran (…) Il porterait sur la protection d’Israël en échange de la reconnaissance de l’influence iranienne au Proche-Orient et en Afrique. Cependant, il ne devrait intervenir qu’après les élections législatives israéliennes du 17 mars 2015 (…) Dans ce contexte, les élites états-uniennes tentent de s’accorder sur leur politique future, tandis que les alliés européens des États-Unis se préparent à s’aligner sur ce que sera la nouvelle politique US
Plusieurs scénarii sont sur la table poursuit Thierry Meyssan, le plus probable serait de reprendre langue avec Bachar Al Assad pour détruire Daesh. Il écrit: «La recherche du consensus aux États-Unis. Après deux années de politique incohérente, Washington tente d’élaborer un consensus sur ce que devrait être sa politique au «Proche-Orient élargi». Le 10 février, le National Security Network (NSN), un think tankbipartisan qui tente de vulgariser la géopolitique aux États-Unis, publiait un rapport sur les options possibles face à l’Émirat islamique. Il passait en revue une quarantaine d’opinions d’experts et concluait à la nécessité d’«endiguer, puis de détruire» l’Émirat islamique en s’appuyant d’abord, sur l’Irak, puis sur la Syrie de Bachar el-Assad».
«Durant les derniers mois, plusieurs facteurs poursuit-il, ont évolué sur le terrain. L’«opposition modérée» syrienne a totalement disparu. Elle a été absorbée par Daesh. Au point que les États-Unis ne parviennent pas à trouver les combattants qu’ils pourraient former pour construire une «nouvelle Syrie». (…) Israël a cessé le 28 janvier 2015 (riposte du Hezbollah à l’assassinat de plusieurs de ses leaders en Syrie) son soutien aux organisations jihadistes en Syrie. Durant trois et demi, Tel-Aviv leur fournissait des armes, soignait leurs blessés dans ses hôpitaux militaires, appuyait leurs opérations avec son aviation (..) Le nouveau roi d’Arabie saoudite, Salmane, a renvoyé le prince Bandar, le 30 janvier 2015, et interdit à quiconque de soutenir l’Émirat islamique. (;;)Identiquement, la Turquie semble avoir également cessé de soutenir les jihadistes depuis le 6 février et la démission du chef du MIT, ses Services secrets, Hakan Fidan.»

Thierry Meyssan décrit six options, l’une d’elle serait: «Affaiblir, puis détruire l’Émirat islamique, en coordonnant des bombardements états-uniens avec les seules forces capables de le vaincre au sol: les armées syrienne et irakienne. C’est la position la plus intéressante parce qu’elle peut être soutenue à la fois par l’Iran et par la Russie. (…) Ces éléments permettent aisément de prévoir l’avenir: dans quelques mois, peut-être même dès la fin mars, Washington et Téhéran parviendront à un accord global. Les États-Unis renoueront le contact avec la Syrie, suivis de près par les États européens, France comprise. On découvrira que le président el-Assad n’est ni un dictateur, ni un tortionnaire. Dès lors, la guerre contre la Syrie touchera à sa fin, tandis que les principales forces jihadistes seront élimées par une véritable coalition internationale».

La visite de quatre élus français à Damas à l’insu du plein gré de l’Elysée…

Pour ne pas être en reste, le gouvernement français tente de prendre le train en marche. Il envoie au feu…des critiques quatre parlementaires, qui font -consentant- le chemin de Damas pour reprendre langue avec Assad. Ils le font certainement pas pour plaire à Assad, mais de deux maux il faut choisir le moindre; La peur inspirée par Daesh impose cela. Ainsi, quatre sénateurs et députés français ont défié la diplomatie française en se rendant à Damas et en rencontrant Bachar Al Assad. Le Lundi 23 février deux députés, Gérard Bapt (PS, Haute-Garonne) et Jacques Myard (UMP, Yvelines) sont à Beyrouth. Deux sénateurs, Jean-Pierre Vial (UMP, Savoie) et François Zocchetto (UC, Mayenne) sont déjà à Damas. Ces quatre parlementaires appartiennent aux groupes d’amitiés franco-syriennes à l’Assemblée nationale et au Sénat. C’est la première visite d’élus français à Damas depuis le début de la guerre en Syrie en 2011. Elle a lieu à titre privé, insistent-ils. (…)» 

«L’homme-orchestre du voyage est Jérôme Toussaint. Il explique que ce voyage se justifie tant sur le plan humanitaire qu’en raison de la présence des chrétiens d’Orient en Syrie et du maintien à Damas du lycée français Charles-de-Gaulle. De plus, les attentats de janvier en France prouvent la nécessité de rouvrir le dialogue sécuritaire avec Damas pour combattre les réseaux djihadistes. (…) Dans les faubourgs de la capitale syrienne, la circulation est dense, la ville est grise, les visages marqués par la fatigue et quatre ans de guerre. La délégation est invitée à la résidence du mufti de la République, Ahmad Badr Al-Din Hassoun, Il est entouré de deux patriarches, le grec-catholique Grégorios III Lahham, et le grec-orthodoxe Youhanna. Les trois hommes ont à coeur de convaincre les élus français que leur ennemie n’est pas la République laïque syrienne, exemple unique dans la région d’une parfaite coexistence entre sunnites et minorités, disent-ils, mais bien les djihadistes de Daesh et leurs commanditaires, l’Arabie saoudite, le Qatar et la Turquie.»

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Naturellement, ils ont été désavoués, à la fois par le président, le Premier ministre et le ministre des Affaires étrangères, mais on peut être certain que le debriefing… Les parlementaires en mission, dénoncent des «postures»politiques et l’hypocrisie de ceux qui savaient. Car rien n’avait été laissé au hasard. Ils affirment qu’avant de partir, Gérard Bapt avait averti le ministère des Affaires étrangères, opposé au voyage et dont la position depuis le début du conflit n’a pas varié: haro sur Bachar Al Assad et soutien à une coordination de l’opposition pourtant en pleine déliquescence. À l’Élysée, le député socialiste s’était entretenu avec Jacques Audibert, conseiller diplomatique de François Hollande, et Emmanuel Bonne, de la cellule diplomatique.» 

Comment parler à Assad à qui on souhaite la mort?

La décantation est en train de se faire, on préfère la peste de Assad au choléra de Daesh. Renaud Girard reporter international au Figaro interviewé par Alexandre Devecchio déclare qu’il faut aller combattre Daesh en s’alliant avec Assad: «(…)Ils ont eu raison de faire ce voyage, ne serait-ce que pour se rendre compte de l’état de la route entre la frontière libanaise et Damas, de l’état de la capitale. Il faut bien comprendre que la diplomatie ne se fait pas avec ses amis. C’est l’art de parler à ses adversaires ou à ses rivaux. On peut reprocher beaucoup de choses à Bachar el-Assad, mais ce n’est pas une raison pour ne pas lui parler. Car Bachar el-Assad incarne la Syrie: il n’incarne certainement pas 95% de la population, mais rien ne prouve qu’en cas d’élection réellement libre, il n’emporterait pas la majorité.»

Nicolas Sarkozy et Alain Juppé ont fait l’énorme erreur de fermer l’ambassade, qui était pour nous la place où nous pouvions parler au régime et surtout obtenir des renseignements. La position française est intenable car elle ne prend pas en compte la notion d’ennemi principal. Nous avons remplacé le général Kadhafi par les amis de Bernard-Henri Lévy. Cela n’a pas marché et nous sommes face à un désordre total.» 

«Selon un sondage Ifop, une majorité de Français condamne cette initiative. Cependant, le débat sur la nécessité de dialoguer avec le régime syrien est désormais ouvert. Jean-Christophe Lagarde a jugé que l’exécutif français avait fait preuve «d’hypocrisie» en condamnant ce déplacement. 44% des Français souhaitent rétablir un dialogue «compte tenu de la menace que continue de représenter l’Etat islamique (EI) en Syrie comme en Irak». (…) les voix réclamant une reprise de la discussion avec Damas se multiplient, face à la menace croissante représentée par les jihadistes de l’Etat islamique, et leurs recrues étrangères susceptibles de revenir commettre des attentats en Occident.

On s’acharne à dire que les droits de l’homme sont bafoués par le régime Assad. Outre le fait que c’est un gouvernement légitimement élu, on lui sait gré de tenir et de sauver ce qui reste de la Syrie pour éviter un scénario à la libyenne. Certes, Assad n’est pas poussin de la première éclosion, il doit passer la main. Il rentrera alors dans l’histoire pour avoir résisté au nouvel ordre qui, sous couvert de mots creux, liberté, démocratie est une prédation.

*Professeur à l'Ecole Polytechnique d'Alger

Mit »Cips« gegen Swift: BRICS forcieren Bau der neuen Weltordnung

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Mit »Cips« gegen Swift: BRICS forcieren Bau der neuen Weltordnung

Markus Gärtner

Die westliche Systempresse schreibt eifrig die BRICS-Gruppe mit über drei Milliarden Menschen in Brasilien, Russland, Indien, China und Südafrika ab. Die Leitmedien illustrieren ausführlich wirtschaftliche und politische Plagen von Peking bis Moskau, die freilich nur die Hälfte der Wahrheit darstellen: Strauchelnde Regierungen, einbrechendes Wachstum sowie öffentliche Budgets, die Fässern ohne Boden gleichen.

Das ist derzeit in der tonangebenden Presse das durchgängige Szenario. Es soll suggerieren, dass Nordamerika und Europa trotz verheerender Schuldenberge, Vergreisung und Reformmüdigkeit sowie einem absurd aufgeblähten und vom Kollaps bedrohten Finanzsystem immer noch relativ gut dastehen und alternativlos dominieren.

Das Ablenkungsmanöver des Mainstreams wird dadurch abgerundet, dass wir als Publikum fast nirgends lesen, wie dramatisch sich in diesen Wochen das Entstehen eines neuen politischen und wirtschaftlichen Machtblocks in Asien, Südamerika und Afrika beschleunigt.

Die BRICS setzen in Windeseile um, was sie seit Monaten angekündigt haben. Sie bauen eine neue globale Ordnung, die die sklerotische westliche Infrastruktur schon bald ablösen soll.

Doch in den etablierten Zeitungen lesen wir fast nur, dass die großen Wachstumsmärkte jetzt ebenfalls auf den Bauch gefallen sind. Nach dem Motto: Die autoritär geführten Schwellenländer können es auch nicht besser.

Weiterlesen:

http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/markus-gaertner/mit-cips-gegen-swift-brics-forcieren-bau-der-neuen-weltordnung.html

Mali et Azawad

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MALI ET AZAWAD
La France paye pour ses contradictions géostratégiques

Ibrahima Sène*
Ex: http://metamag.fr

Comme les Etats Unis avec l’Armée de l’Etat Islamique qu’ils ont aidé à s’armer et à s’entraîner contre la Syrie, et qui aujourd’hui s’est retournée contre les intérêts américains, la France risque de voir un nouveau rapprochement du Mnla avec les groupes jihadistes, pour frapper ses intérêts dans la zone sahélo sahéliennes. Et Bamako, qui vient d’être frappé par un attentat meurtrier, risque de retourner à la case départ pour défendre militairement l’intégrité de son territoire et la sécurité de ses populations.


Moktar Belmoktar, chef d’un groupe armé proche d’Al Qaida, vient de revendiquer publiquement l’attaque terroriste de la nuit du 6 au 7 mars à Bamako, intervenue quelques jours seulement, après que le ministre des Affaires étrangères de la France a exigé des mouvements armés, en lutte contre Bamako, de « signer sans délai » les « Accords de paix d’Alger ».


Dans son communiqué rendu public, il ne fait aucun doute que c’est la France qui est visée dans cet attentat au Restaurant « La Terrasse », alors que le Belge et les Maliens tués dans une rue adjacente, ne seraient que des victimes collatérales lors de la fuite des assaillants. Le fait que cette attaque soit aussi intervenue dans un contexte marqué par le refus par certains mouvements rebelles de signer les « Accords d’Alger », sous prétexte de la nécessité d’un « délai pour consulter leurs bases », montre bien que ces « accords » ne mettront pas fin à la crise au Nord du Mali.


Ce serait un signal évident de la volonté de mettre en échec ce « compromis franco–algérien » pour ramener la paix dans cette partie de la zone sahélo sahélienne, que reflètent les « Accords d’Alger ». Les autorités françaises se sont avérées incapables de faire accepter par le Mnla, qu’elles ont toujours utilisé dans cette crise, ce « compromis franco-algérien » qui éloigne toute perspective d’un « Etat indépendant touareg » aux frontières de l’Algérie.


En effet, le Mnla est victime du changement politique intervenu en France avec le départ de Sarkozy et l’arrivée de François Hollande. Ce changement au niveau de l’Exécutif français, a entrainé des modifications dans les modalités de mise en œuvre des objectifs géostratégiques des autorités françaises dans la zone sahélo-sahélienne.

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C’est ainsi que l’instrumentalisation du Mnla par Sarkozy, dans la mise en œuvre de la politique géostratégique de la France au Mali, avait comme contrepartie sa promesse de le soutenir pour obtenir, de Bamako, son accord pour transformer le Nord Mali en République indépendante de l’Azawad sous la direction de celui-ci.


C’est pour mettre en œuvre cet «Accord», rendu public à plus reprises par les dirigeants du Mnla sans jamais être démentis par les autorités françaises, que ce groupe armé fut transféré et équipé en Libye sous l’égide de la France, pour s’installer au Nord Mali, avant qu’il ne s’attaque aux forces de sécurités du pays pour proclamer l’Indépendance de l’Azawad.


De leur côté, les autorités françaises mirent la pression sur Bamako pour qu’il s’attèle à respecter le calendrier électoral et tenir des élections présidentielles, plutôt que de s’occuper de la libération du Nord Mali transformé en «République indépendante de l’Azawad».


Pour la France, il faillait, après les élections présidentielles puis législatives du Mali, que les nouvelles autorités puissent ouvrir des négociations avec les séparatistes du Nord et non mener une guerre pour libérer cette partie de leur territoire national.


L’acceptation de ce scénario français, par le président Malien de l’époque, Amadou Toumani Touré (ATT), fut fatal à son régime qui fut renversé par un coup d’Etat militaire mené par de jeunes officiers outrés de l’abandon de la souveraineté de leur peuple sur toute l’étendue du territoire malien, dont une partie était livrée à des troupes jihadistes qui se livraient à des massacres des troupes des forces de sécurité et des populations, livrées à elles par le gouvernement malien.


Cette réaction patriotique des jeunes officiers fut, pour Paris, un crime de lèse-majesté qu’il fallait sanctionner sans tarder et de façon exemplaire. C’est ainsi que Paris eut recours aux Chefs d’Etat de l’Uemoa, de la Cedeao et de l’Union Africaine (U.A), qui avaient à leur tête ses «hommes liges» , pour étouffer économiquement, financièrement, militairement et politiquement, le nouveau pouvoir militaire afin de l’empêcher de mobiliser le peuple malien d’un un « rassemblement de salut national» pour libérer le Nord de leur pays, et assurer l’intégrité de leurs frontières et la sécurité du peuple.


C’est pour cela que les avoirs extérieurs du Mali furent bloqués par l’UEMOA, comme cela fut le cas de la Côte d’Ivoire sous BAGBO, et un embargo économique et sur les armes fut décrété par la Cedeao. C’est dans ce cadre que Paris suspendit ses accords de défense avec le Mali, et qu’eut lieu le blocage à Accra des armes commandées par le gouvernement du Mali, bien avant la chute de A.T.T.


Cependant, les tentatives de Sarkozy de mobiliser une armée d’intervention de la Cedeao pour le «rétablissement de l’ordre constitutionnel » au Mali furent bloqués par la résistance du Ghana et du Nigéria, malgré l’activisme de partis politiques et d’organisations de la société civile du Mali, regroupés dans un «Front anti putschiste» pour réclamer le départ des militaires, le retour à l’ordre constitutionnel pour organiser les élections dans le « respect du calendrier républicain».


Ce contexte avait paralysé le nouveau pouvoir militaire et avait permis aux groupes jihadistes de sanctuariser le Nord Mali en y imposant un pouvoir islamique radical et de chasser, vers le Burkina, le Mnla qui les avait associés dans sa lutte indépendantiste.

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C’est dans cette situation de triomphe des jihadistes qu’est intervenue la chute de Sarkozy, avec l’arrivée de Hollande qui dut changer de modalités de mise en œuvre de la politique géostratégique de la France, face au nouveau projet des groupes jihadistes,d’étendre leur pouvoir hors des limites du Nord Mali, baptisé République indépendante de l’Azawad, pour s’ébranler vers Bamako.


La France de Hollande ne pouvait donc plus attendre la tenue d’élections, encore moins l’envoi de troupes de la Cedeao, et décidait ainsi de l’« Opération Serval » en s’appuyant non pas sur l’armée malienne pour libérer le Nord Mali, mais sur le Mnla qu’elle a fait revenir du Burkina sous ses ailes. C’est ainsi que l’armée malienne fut parquée dans les environs de Gao, par la France, avec le soutien des Usa et la complicité des Nations Unies qui ont dépêché des forces pour maintenir la paix au Nord Mali, en laissant le Mnla contrôler la région de Kidal, d’où l’ «Opération Serval » avait chassé les jihadistes.


Cette deuxième occupation du nord Mali par le Mnla, grâce à la France, avait fini par convaincre ses dirigeants du respect, par Hollande, des engagements de Sarkozy d’amener Bamako à accepter leur revendication d’indépendance de l’Azawad. Et surtout que le nouveau pouvoir issu des élections présidentielles n’avait pas hésité de faire arrêter les dirigeants du putsch qui a fait tomber ATT et avait libéré certains de leurs principaux dirigeants pourtant accusés de « crimes de guerre », par les Autorités maliennes, et qui avaient même annulé les mandats d’arrêt internationaux lancés contre les autres. D’autant plus que le nouveau pouvoir avait signé de nouveaux « Accords militaires » avec la France, lui permettant d’exhausser son vœu de toujours de faire de la base militaire stratégique de Tessalit, au nord Mali, sa base opérationnelle dans le cadre de sa nouvelle opération militaire dans la zone sahélo sahélienne, baptisée « Bahran ».


Mais ce que le Mnla n’avait pas pu voir venir, c’est le changement de la politique française vis-à-vis de l’Algérie, qui ne voyait pas d’un bon œil l’avènement d’un Etat Touareg dans le nord Mali à ses frontières, et qui faisait d’elle l’alliée stratégique du nouveau pouvoir malien qui voulait empêcher la partition de son territoire. D’où le double rapprochement de Paris et de Bamako vers Alger.
C’est ainsi que l’Algérie, de verrou qu’il faillait faire sauter sous Sarkozy, au même titre que la Libye sous Khadafi, est devenue avec Hollande un partenaire stratégique dans la zone sahélo sahélienne avec qui il fallait coopérer. Et pour le Mali, l’Algérie est devenue un allié stratégique contre un Etat indépendant Touareg au Nord.


Ce n’est qu’avec la tenue des négociations de paix à Alger, que le Mnla a découvert peu à peu le changement de la politique française envers l’Algérie et ses conséquences sur les engagements qu’elle avait pris pour la réalisation de son projet politique. D’où le dépit amoureux entre Paris et le Mnla, qui refuse d’obéir aux injonctions de Paris pour signer « les Accords de Paix » d’Alger, et l’attentat spectaculaire du mouvement jihadiste proche de Al Qaida qui vient rappeler tristement ses engagements d’hier, à la France, vis-à-vis de l’Azawad.


Comme les Etats Unis avec l’Armée de l’Etat Islamique qu’ils ont aidé à s’armer et à s’entraîner contre la Syrie, et qui aujourd’hui s’est retournée contre les intérêts américains dans cette sous région du Moyen Orient, la France risque de voir un nouveau rapprochement du Mnla avec les groupes jihadistes, pour frapper ses intérêts dans la zone sahélo sahéliennes. Et Bamako, risque de retourner à la case départ pour défendre militairement l’intégrité de son territoire et la sécurité de ses populations.


La France, une fois Tessalit en poche, veut se retirer du Mali le plus rapidement possible pour concentrer ses efforts militaires au soutien du Tchad et du Niger dans la guerre contre Boko Haram, et exploiter au maximum, par sa présence, les conséquences de la reconfiguration du Nigéria et du Cameroun qu’entrainerait inéluctablement la partition attendue du Nigéria sous les effets conjugués des coups de Boko Haram et d’une grave crise post électorale. D’où son engagement total au « compromis franco-algérien » de paix qui lui permet, avec l’implication totale de l’Algérie, de mieux assurer la sécurité de ses intérêts économiques dans la zone, contre les jihadistes.


En effet, une crise post « électorale qui va paralyser l’Etat nigérian serait du pain béni pour Boko Haram en vue de faire éclater le Nigéria au détriment de nos aspirations pan africaines, et de la sécurité de nos peuples.


Les Nigérians qui ont poussé leur pays vers ce gouffre ont trahi à jamais ces aspirations des peuples d’Afrique pour satisfaire les intérêts géostratégiques des Usa et de la France en Afrique. Ils n’ont tiré aucune leçon de ceux qui, au Moyen Orient et au Mali, ont servi pour faire cette sale besogne pour les grandes puissances occidentales et qui aujourd’hui, par « dépit amoureux » s’en prennent à elles.


La preuve est aussi faite, que les « Accords de défense » avec la France et les Usa, signés par nos gouvernants, ne résistent nullement à leurs intérêts stratégiques qui priment sur nos intérêts nationaux que ces «Accords» sont censés défendre.


Bamako, devrait donc, lui aussi, profiter de l’implication totale d’Alger pour faire appliquer ces « accords de paix », et solliciter le soutien de la Cedeao, sous la direction du Ghana, et de l’Ua, sous la direction de Mugabe, pour faire respecter l’intégrité de son territoire et y assurer la sécurité de ses populations.


Plus que jamais, avec les « Accords d’Alger », les conditions sont politiquement réunies pour permettre à la Cedeao et à l’Ua, de remplir leurs missions historiques d’intégration de nos forces armées et de sécurité, pour défendre l’intégrité territoriale des Etats issus du colonialisme et la sécurité de leurs populations.


C’est ce défi que la crise politique et militaire du Nigéria lui impose aussi de relever. C’est pourquoi, il est attendu du pde la Cedeao et de l’Ua de s’impliquer auprès des partis politiques en compétition et des organisations de la société civile du Nigéria, pour éviter tout recours à la violence ou à la paralysie de l’Etat, pour régler les contentieux électoraux que le monde entier attend et que l’Afrique redoute profondément.


Pan Africanistes de tous les pays d’Afrique et de la Diaspora, Unissons-nous pour le respect des « Accords de paix d’Alger », et pour un « traitement politique » approprié de toute crise post électorale au Nigéria. Ne laissons pas les ennemis de l’Afrique nous avoir une nouvelle fois.


* journaliste à Penbazuka.org

samedi, 14 mars 2015

El futuro de Eurasia: prolegómenos para la integración geopolítica del continente


Por Leonid Savin

Ex: http://www.elespiadigital.com

El comienzo del siglo XXI no ha sido tan color de rosa como fue descrito por los futurólogos y planificado por los políticos: una crisis financiera mundial, los problemas dentro de la zona euro, el “pantano” para las tropas estadounidenses en Irak y Afganistán, los conflictos armados en Europa Central, Norte de África y el Medio Oriente, una serie de revoluciones de color en el espacio post-soviético, y disturbios en las capitales de Europa Occidental. Se diría que con la tecnología moderna, la herencia histórica y el acuerdo convencional sobre los derechos humanos, Europa ya ha definido su futuro y, si no está siguiendo lo planificado, por lo menos está manteniendo las políticas regulatorias en el ámbito de su competencia. Sin embargo, los desarrollos actuales indican que todo resultó ser más complicado. El mundo ha entrado en una zona de turbulencia geopolítica, con procesos en varios niveles, nuevos retos y respuestas asimétricas.

Además de la vieja dicotomía entre conservadores y progresistas, surgen en Europa nuevas tendencias políticas que intentan repensar su europeidad y priorizar el futuro desarrollo y la supervivencia. Variantes en relación al tema del futuro de la OTAN y la planificación de la defensa conjunta con los EEUU, fluyen desde cumbres marginales y anti-globalización como desde un fondo político intelectual, lo que demuestra la inutilidad de ejecutar la política de antiguos vectores.

La situación es tal que el debate contemporáneo en torno al futuro de Europa, el destino de Rusia y de otros países del continente, no puede considerarse por separado. De la investigación etimológica al replanteamiento pragmático del viejo Lebensraum (incluyendo la dependencia de recursos) – de una forma u otra, la superpoblada orilla de Eurasia desde Gibraltar hasta el mar de Barents está volviendo su mirada hacia el Este.

En cierta época, los conceptos de “Europa” y “Asia” se limitaron al mundo helenístico y a los países vecinos, dentro de un paradigma que asignó significados particulares. La expansión del Imperio Romano, la era de la gran migración y la difusión del cristianismo, cambiaron la estructura política de la parte occidental del continente euroasiático. Mientras esta región se sumergió en un frenesí feudal, un nuevo imperio se formó en las fronteras orientales. La Horda de Genghis Khan logró en un tiempo extraordinariamente corto unir por la fuerza kanatos, reinos y principados, extendiéndose a través de miles de kilómetros, mostrando un nuevo modelo de Estado, de diplomacia y de tácticas militares. La importancia histórica del proyecto mongol es simplemente asombrosa. Nadie más, ni antes ni después, fue capaz de crear tal vasto Imperio. Mientras tanto, hay claros marcadores geopolíticos de este fenómeno. Historiadores europeos modernos han señalado que la Rus había frustrado la oleada de nómadas de Asia hacia Occidente, salvando así a Europa de una inminente desaparición. Interpretaciones completamente diferentes se expresaron en relación con el destino de Rusia. Aunque la escuela soviética de pensamiento insistió en la existencia del yugo mongol-tártaro, la escuela histórico-filosófica euroasianista refuta tales supuestos, con el apoyo de elementos de hecho. De acuerdo con la teoría del cambio de los imperios, la Rus tomó la batuta de las hordas ya fragmentadas, en gran medida tomando prestados sus mecanismos de construcción del Estado, necesario para una mayor expansión.

Aunque anteriormente hubiera “campañas contra los cismáticos” y otros obstáculos (como en todas partes), la primera confrontación total de Oriente y Occidente comenzó con la “era de Gutenberg” [1]. La imprenta, originalmente concebida con el fin de ayudar a difundir la Palabra de Dios, no sólo dio lugar a un efecto contrario (porque la difusión de la Biblia socavó la autoridad de la Iglesia Católica), sino también a la aparición de las primeras instituciones de la guerra de la información. Mientras que las primeras embajadas de Europa occidental viajaron para comerciar con Moscú, la población local fue sometida a un adoctrinamiento, recurriendo a las metáforas del Antiguo testamento y creando una imagen poco favorecedora de los gobernantes de Rusia y de su pueblo.

Sin embargo, la primera ola de globalización que termina con el descubrimiento de América, apareció como el comienzo de una nueva era global. Al mismo tiempo, Europa, desgarrada por guerras y contradicciones, trasladó parte de su teatro de operaciones de combate a los territorios de los nuevos espacios abiertos, inaugurando así el comienzo de nuevos procesos civilizatorios.

Todavía había muchos episodios de comprensión mutua entre Rusia y Europa en una serie de cuestiones, sin embargo, con el inicio del siglo XX, la modernidad alcanzó todo su potencial, y tres ideologías principales saltaron a la arena: el marxismo con el postulado de la la lucha de clases; el corporativismo estatal con una perspectiva nacional, que se convirtió en el nacionalsocialismo y el fascismo; y el liberalismo. Las tres tendencias ideológicas no eran ajenas a las cuestiones territoriales, nacionales y de recursos, pero parece que la escuela geopolítica anglosajona deliberadamente ha demonizado a Rusia. Ellos hicieron de Rusia, conceptualmente, no sólo un Heartland, sino también una fuente de inestabilidad, de donde se originó el “tierra de vándalos” a imagen de los hunos, los turcos y los mongoles, que atacaron los alrededores del mundo romano [2]. A estas alturas, con la memoria histórica ya debilitada, después del colapso del Imperio Austro-Húngaro pocos estuvieron interesados en la historia del pueblo húngaro, que venía desde más allá de los Urales, y otros temas fueron pasados por alto. ¿Quién recuerda ahora a los ávaros, que una vez penetraron en el territorio de la actual Alemania y, de hecho, crearon Baviera (y ahora el tipo antropológico de la población de esta tierra federal es marcadamente diferente del de los sajones o de Westfalia), o de los eslavos, presidiendo el área del actual Berlín? ¿Y recuerdan en los círculos políticos polacos las ideas de un destacado dramaturgo y escritor, Stanisław Witkiewicz, quien en la década de 1930 expresó en su metáfora artística la ansiedad asociada a la amenaza de la migración desde China? [3]

Aunque estas observaciones pueden parecer insignificantes, son todos eslabones de una cultura estratégica de uno u otro estado con su pueblo, de alguna manera realizados en la geopolítica popular.

Turquificar Alemania, africanizar Francia, indianizar el Reino Unido, magrebizar Italia y España, y un número aún no determinado de chinos, vietnamitas y otras diásporas asiáticas en cada país de la UE, en la dinámica geopolítica, puede conducir a resultados muy impredecibles [4]. Mas la rápida islamización de los países europeos en el contexto de un declive demográfico de la población nativa. El estado de ánimo actual en algunos países de la UE, en particular entre los nuevos miembros, muestra claramente que a la gente no le gustan los proyectos de etno-globalización en su tierra natal, al menos en su forma presente [5]. Característicamente, el principal vector de la migración actual pasa por el eje Norte-Sur, no por el eje Este-Oeste, donde la frontera sanitaria artificial todavía juega el papel de parachoques disuasorio.

La guerra fría no sólo condujo a la división en dos bandos, sino también a la aparición de una nueva terminología. En Occidente hay una cristalización final de la filosofía política, conocida como atlantismo. Un político británico, John Williams, amplía este término calificándolo como teología atlantista [6]. Afirma que, como cualquier teología, el atlantismo se basa en el mito de que, en última instancia, los intereses geopolíticos y geoestratégicos de Europa y Estados Unidos son inseparables. Al mismo tiempo, Williams cree que las relaciones entre los EEUU, Europa y Rusia durante la Guerra Fría son también otro mito, que se tradujo en una crisis de identidad propia.

La sustitución por el neo-atlantismo (el neologismo nació en Italia en la década de 1950) [7] como definición de las nuevas relaciones entre los miembros de la comunidad atlántica, tampoco duró mucho y está perdiendo rápidamente su sustancia interna. Así como con las instituciones de la democracia, resulta obvio que va a declinar. En este sentido, cabe señalar que el término “déficit democrático” ha surgido en Europa en 1977 para definir la incapacidad de los países miembros de la UE para abordar las cuestiones relacionadas con las necesidades de los ciudadanos europeos [8].

En este contexto, viendo a los Estados Unidos como su sucesor geopolítico, la Europa unida debe reconocer que no estaba en condiciones de hacer frente al programa de “Melting Pot“, y digerir todos los inmigrantes de sus antiguas colonias, junto con la nueva fuerza laboral de la migración continua.

El cuadro de la Europa pos-Guerra Fría fue transformado por la admisión de nuevos miembros en la UE. El factor mar Báltico-Negro fue añadido al factor dominante Atlántico-Mediterráneo, y los países de esta región se vieron obligados a enfrentarse a una serie de cuestiones: la adaptación del sistema jurídico, las instituciones políticas y civiles, la economía; tratando de preservar su memoria y sus tradiciones históricas nacionales al mismo tiempo. Junto con esta expansión geográfica fue posible la aparición de un discurso sobre el nuevo eje geopolítico, en cierta medida compitiendo con el viejo eje [9]. La cuestión de la centralidad para definir la nueva Europa (el término de Friedrich Naumann “Middle Europa“) también siguió siendo reinterpretada. Se propusieron definiciones tales como “MidiEurope“, “Dimidial Europa” y “Viscalian Europa“, que se basan en los términos latinos correspondientes [10]. Éstas definiciones se superponen con los conceptos existentes de Euroregiones, basados en el modelo de cuenca (el área de las cuencas del Mosa-Rin, las tierras bajas del Danubio). Una escuela geopolítica alemana sobre Eurafrica sonó de nuevo, sin embargo, bajo la influencia de los intereses franceses – creando así el fantasma de la Unión Mediterránea, que no pudo llegar a buen puerto debido al bloqueo alemán a la posibilidad de este proyecto. Del mismo modo, en las nuevas versiones posmodernas y tecno-políticas (con la energía y el componente de la comunicación) fue revivido el proyecto de Mezhmorye (“entre los mares” Báltico y Negro), del geógrafo y cartógrafo polaco Eugeniusz Romer, el prototipo que a su vez sirvió para la idea de Jagiellonian (Gran Lituania). Junto con los atractivos respecto a la comunicación (la adaptación de la ruta “desde los varegos a los griegos” en un nuevo guión), este modelo geopolítico tuvo un componente étnico-nacional, se asumió que la identidad cultural báltico-eslava serviría como una base adicional para la ejecución de este proyecto. Pero las preguntas acerca de la pertenencia a un tipo de civilización [11], a veces llamada el mundo occidental-cristiano o el super-ethnos europeo-occidental, condujo al descubrimiento de algunas contradicciones profundamente arraigadas en función de factores históricos o etno-políticos, que también tienen un componente pragmático que se expresa en la estructura de las fronteras y los puntos de vista sobre la asignación de los recursos. Frente la presión de los antiguos miembros de la UE para la homogeneización del espacio económico, que se refleja sobre todo en el hecho de que las empresas transnacionales han tenido acceso a los recursos nacionales, los Estados del eje mar Báltico-Negro estaban interesados en medidas proteccionistas contra un efecto tan unilateral de globalización.

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Podemos decir que los intentos iniciales para establecer una Unión de cooperación regional, junto con los componentes históricos, hasta cierto punto han servido como base para la remodelación de este proyecto en un plano estratégico diferente, más amplio, que afecta a los intereses de las grandes potencias – continental (Euroasiática) y atlantista (mundialista). No es casualidad que cierto número de investigadores comenzaran a comparar el modelo del eje mar Báltico-Negro con una frontera sanitaria, como la que se formó después del Tratado de Versalles al final de la Primera Guerra Mundial. Un proyecto geopolítico, indirectamente asociado con tales ideas, llamado GUUAM (Georgia, Ucrania, Uzbekistán, Azerbaiyán y Moldavia), que no tuvo ningún verdadero desarrollo y fue concebido como un proyecto de los países occidentales (incluyendo los EEUU) para crear una barrera artificial entre la Rusia moderna y la UE.

Podemos recordar otra serie de proyectos, ni siquiera realizados, como Chimerica o Сhindia, pero a juzgar por la posición de la futura integración de Rusia y Europa, que en teoría es el proyecto más grande e importante que podría cambiar el orden mundial, es necesario hacer algunas observaciones preliminares. La alianza llamada Eurosiberia ya era considerada como una opción de futuro. La necesidad de convergencia fue destacada por Jean Thiriart, quien soñaba con un imperio desde Dublín hasta Vladivostok (no obstante, prediciendo la caída de la URSS).

Los opositores intransigentes a la amistad y la cooperación con Rusia apuntan a los precedentes históricos y a la imprevisibilidad del gobierno ruso. En realidad, Europa vió muchos más conflictos históricos. Incluso después de los Acuerdos de Helsinki, una guerra civil estalló en el corazón mismo de Europa – la de Yugoslavia, que tuvo consecuencias de largo alcance, incluyendo el reconocimiento de Kosovo. El movimiento moderado de los secesionistas y el separatismo radical en España, el Reino Unido y Bélgica continúa hasta nuestros días. Y quien vigile de cerca la crónica de los acontecimientos internacionales, encontrará fácilmente que los EEUU es el más impredecible: la promesa de no ampliar la OTAN hacia el Este en la década de 1990 y de permanecer en Kirguistán sólo durante dos años en la base de Manas (y en muchas otras, incluso en los países de la UE), fueron promesas vacías. Y si en este tipo de cuestiones de principio no existe ninguna garantía de que Washington no vaya a engañar de nuevo, ¿cómo es posible además trabajar con un socio tan fiable?

Ahora estamos en el siguiente punto de bifurcación, cuando existe una oportunidad de hacer un breve alto en el camino y repensar los procesos asociados a los patrimonios territoriales, los estados nacionales, los agravios históricos, etc., para crear una nueva estrategia común, adecuada para todos los actores de Eurasia. Por supuesto, el término puede tener varios significados semánticos. Por ejemplo, la India, China y el sudeste asiático son aglomeraciones demasiado específicas incluso para las antiguas repúblicas soviéticas. Y los primeros euroasianistas imaginaron Eurasia como Rusia, y no como Europa más Asia, considerándolo un mundo único. Sin embargo, Eduard Suess, en su obra fundamental “The Face of the Earth” [12], utiliza el concepto de Eurasia apuntando la arbitrariedad de los límites entre Europa y Asia, y que las fronteras no son sólo una herramienta de separación, sino también un fenómeno social complejo que une a las naciones y a los pueblos.

Quizás muchos señalarán un tipo muy diferente de conciencia de los pueblos y países desde Chukotka hasta el Atlántico, pero ¿sobre qué base los pueblos de Europa construirán juntos una existencia colectiva si ya hay tantas contradicciones en la UE? En nuestra opinión, para crear una plataforma geopolítica compartida que pueda satisfacer a todos, o al menos a la mayoría de las fuerzas, los desacreditados conceptos de democracia y liberalismo, y el populismo social de izquierda de partidos y líderes particulares, que son una nueva versión de la consigna de los francmasones – “libertad, igualdad, fraternidad” -, son poco adecuados. ¿Qué nueva idea debería unir y satisfacer a todos los pueblos de Eurasia?

El fundador del movimiento eurasiático, el geógrafo Petr Savitsky, propuso un modelo de ideocracia que se caracteriza por una visión del mundo compartida, y por la buena voluntad de las élites gobernantes en servir a la única idea rectora que representa “el beneficio del colectivo de los pueblos que habitan este particular mundo autárquico”[13]. Esta es una muy buena definición, y si este mundo se interpreta como el espacio del continente euroasiático, hay muchos puntos en común y perspectivas para una realización creativa.

Además, el común destino continental es el elemento vinculante que apunta las condiciones geopolíticas comunes. No es coincidencia que Hitler tratara de llegar hasta los Urales, lo cual habla acerca de la integridad de la plataforma del Este europeo, no obstante, incluso los Urales no son ya una barrera, y el extremo Oriente está más “europeizado” que algunas ciudades en las inmediaciones de Moscú. Las comunicaciones modernas y los centros de transporte crearon un mosaico geopolítico polifacético de un mismo cuadro. Y si antes del siglo XX todavía era posible hablar de un “obstáculo eurasiático”, en referencia a la extensión de las tierras del Imperio Ruso, a las eternamente congeladas latitudes del norte, y a la carencia de acceso a los mares cálidos, separados por Persia y la India, ahora todo eso es facilitado por los proyectos de infraestructura de transportes, las nuevas tecnologías y la comprensión de los principios de autarquía económica propuestos por Friedrich List.

Hace mucho tiempo llegó un momento en el que, a partir de pequeños grupos construidos sobre el principio de la autosuficiencia, fue necesario trasladarse a las zonas de “topogénesis” (o el lugar de desarrollo, el término propuesto por Peter Savitsky para explicar el conjunto de factores geográficos, étnicos, económicos, históricos y otros, que representan un todo) [14], y Grandes Espacios de Carl Schmitt. Dado el sistema político internacional contemporáneo de múlti-capas y multi-nivel, tal proyecto es factible.

Si bien no vamos a hablar sobre el futuro de la política migratoria (aunque Rusia tiene una gran cantidad de territorios no desarrollados que, como antes, pueden ser poblados por extranjeros – Catalina la Grande dio tierra a los alemanes; los kurdos, los serbios y otros pueblos encontraron refugio en Rusia), este delicado asunto debería ser resuelto con cuidado y gradualmente.

Aún así, hay que sacar algunas conclusiones relacionadas con la posibilidad de crear una configuración supranacional unificada.

La UE debería reconocer su dependencia constante de los recursos energéticos rusos. El “North Stream” ya había conectado Rusia con Alemania. El “South Stream” finalmente cerrará la dirección del Mar Negro. Todos los pragmatistas entienden que la idea de “Nabucco” es desequilibrada y motivada políticamente. Las tecnologías verdes resuelven el problema sólo parcialmente. Además de la energía, hay otros recursos naturales, incluyendo el agua, los minerales, los bosques, etc. Rusia ocupa una sexta parte de la tierra y posee el máximo inventario de estos recursos. Por supuesto, con las políticas posmodernas actuales y los procesos de globalización, uno puede ser dueño de la tierra de manera extraterritorial, pero en el caso de Rusia, al menos en el corto plazo, eso no es posible. Sólo las inversiones mutuas y los proyectos de integración (comenzando con la cancelación del régimen de visados), pueden abrir el acceso real a la gestión de estos recursos en nombre de los intereses comunes.

Es una cuestión de voluntad política. Sólo los fuertes pueden crear una formación tan gigantesca. Hagamos que esto sea una voluntad colectiva, aunque debemos actuar con decisión y audacia. Llámelo una autodeterminación geopolítica de todos los participantes del proceso.

Es posible que, junto con los procesos globales, nuevos horizontes conducirán a la creación de una nueva clase (relativamente hablando), y darán lugar a la superación de la dicotomía derecha-izquierda en algunos sistemas políticos. En el período de entreguerras en Europa hubo intentos de poner en práctica iniciativas interesantes bautizadas como “la tercera vía”. Es posible que en el proceso de diseño político una nueva teoría política sea creada [15].

¿Cómo continuará la discusión política, social, económica, de defensa y sobre muchos otros temas? Sólo podemos decir que es necesario un “multiálogo” [16] como herramienta para la comunicación interestatal y para la comunicación internacional, en el proceso de producción de las normas y las instituciones necesarias.

A pesar del proceso de creación de la Unión Euroasiática, como Vladimir Putin dijo en octubre de 2011 hablando de la participación de la UE en la construcción de Eurasia, tal proyecto está aún, al margen del discurso de grupos intelectuales independientes, sólo en el esfera de la imaginación. Pero, como escribió un famoso teórico estadounidense del comunitarismo, Michael Walzer, incluso un estado es invisible, y para que aparezca, debe ser imaginado, debe dársele un carácter, y luego, personificarlo y hacerlo visible. La imaginación, según Albert Einstein, es mejor que el conocimiento, por lo tanto, la configuración emergente de Eurasia es el retorno de un sueño para todos los pueblos del continente, que serán capaces de poner en práctica gradualmente en la realidad. Y el conocimiento existente (incluyendo la experiencia negativa), y la tecnología deberían ser instrumentos para esta Gran Empresa Geopolítica.

Notas:

[1] Marshall McLuhan. The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man. University of Toronto Press, 1962.

[2] J. Mackinder Halford. The Geographical Pivot of History, Geographical Journal, London, 1904.

[3] Stanislaw Witkiewicz. Nienasycenie. Powiesc, t. 1-2, Warsz., 1957.

[4] La cuestión del etnocentrismo en un estado nacional, es decir, la división entre “nosotros” y “ellos”, se planteaba a menudo en el discurso ideológico, reflejándose, por ejemplo, en una “caza de brujas”, y en una política nacional. Sin embargo, incluso en una sociedad homogénea en términos culturales y étnicos, siempre habrá algunos mecanismos invisibles que empujan a la violencia mutua. El filósofo francés René Girard propone apartarse del modelo de “etnocentrismo” y buscar la causa dentro de la sociedad, que durante la historia del mundo siempre ha necesitado un chivo expiatorio. Para obtener más información, consulte René Girard. La violencia et le Sacre. Grasset y Fasquelle, 1972.

[5] La prueba de esto es el fracaso del proyecto de la multiculturalidad, lo que fue reconocido por Angela Merkel y Nicolas Sarkozy.

[6] John Williams, Atlanticism: The Achilles’ Heel of European Security, Self-Identity and Collective Will. http://www.redpepper.org.uk/atlanticism/

[7] Pietro Pirani. “The Way We Were”: Continuity and Change in Italian Political culture. 5, 2008. http://www.psa.ac.uk/journals/pdf/5/2008/Pirani.pdf

[8] Laffen, B. “Democracy and the European Union’, in Cram, L., Dinan, D. and Nugent, N. (eds.)

-Developments in the European Union, London: Macmillan Press Ltd., 1999, p. 334

[9] Leonid Savin. And the geopolitics of regional risks, Geopolitics No. 10

[10] Drynochkin A.V. Eastern Europe as an element of system of global markets. M: Olita, 2004. p. 11.

[11] Hay que señalar que no existe una clara interpretación del término “civilización”.

[12] Suess, Eduard. Das Antlitz der Erde. Wien, 1885.

[13] N.S. Trubetskoy. Acerca de la idea de un estado ideocrático, Eurasian chronicle. Issue XI. Paris, 1935. pp. 29-37.

[14] Peter Savitsky. The Continent Of Eurasia. – M.: Agraffe, 1997.

[15] Alain de Benoist propone llamar a una futura teoría que trascienda el marco del marxismo, el liberalismo y el fascismo, el Nuevo Nomos de la Tierra, y el profesor Alexander Dugin llama a tal ideología la Cuarta Teoría Política.

[16] Duke R. Gaming: The Future Language. N. Y.: Sage Publications, 1974.

(Traducción Página Transversal)

China en Rusland lanceren in herfst anti-dollar alliantie

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China en Rusland lanceren in herfst anti-dollar alliantie

Rusland blijft Amerikaanse staatsobligaties dumpen

Het Amerikaanse dollar imperium loop op zijn einde.

Inzet: Enorm reclamebord in Bangkok, waar de Bank of China adverteert met ‘RMB (renminbi): De Nieuwe Keus – De Wereld Munt.’

Het einde van het Amerikaanse dollar imperium is een grote stap dichterbij gekomen nu na Rusland ook China een alternatief lanceert voor het door Amerika gedomineerde wereldwijde SWIFT betalingssysteem. Rusland werd hiertoe gedwongen door de Westerse sancties in verband met de situatie in Oekraïne. China is er echter op uit om op termijn de dollar als wereld reservemunt van de troon te stoten, en adverteert daar zelfs openlijk mee (3). Als in september of oktober het Chinese alternatief van start gaat en een succes wordt, dan dreigt een spoedige instorting van de Verenigde Staten als supermacht.

De al jaren dreigende ontkoppeling van de opkomende BRICS-landen (Brazilië, Rusland, India, China,  Zuid Afrika) met de dollar wordt in het Westen nog altijd niet echt serieus genomen. Inmiddels blijkt dit proces al veel verder gevorderd te zijn dan ooit voor mogelijk werd gehouden.

Rusland lanceert alternatief en dumpt Amerikaanse staatsobligaties

Na uitgesloten te zijn van het internationale SWIFT betalingssysteem, een sanctie als gevolg van de –zoals onze lezers weten niet bestaande- Russische militaire acties in Oekraïne, lanceerde het Kremlin een alternatief waar meteen al 91 kredietinstellingen bij aangesloten werden. Tegelijkertijd dumpten de Russen een record hoeveelheid Amerikaanse schatkistpapieren, alleen al in december 2014 voor een bedrag van $ 22 miljard, maar liefst 20% van hun totaal (2).

Het Westen deed nogal lacherig over Ruslands alternatief voor SWIFT, want wat zou dat systeem voor zin hebben als andere landen er geen gebruik van zouden maken? Mocht dat onverhoopt wél gebeuren, dan zou de status van de dollar ernstig worden ondermijnd.

Chinezen lanceren in herfst CIPS

Nu blijkt dat het ‘onverwachte’ gevolg een Chinese navolging van de Russische stap is. Ook de Chinezen lanceren nu hun eigen internationale betalingssysteem: CIPS (China International Payment System), dat grensoverschrijdende transacties in yuan (renminbi) gaat regelen. Dit systeem zal mogelijk al in september of oktober actief worden.

De Westerse provocaties in Oekraïne hebben dus niet alleen Rusland, maar ook China er versneld toe aangezet stappen te ondernemen om de dollar los te laten. Eerder besloten Moskou en Peking al om een deel van hun onderlinge (olie)handel in de eigen valuta te gaan afrekenen.

Rol yuan in wereldhandel groeit snel

In november 2014 haalde de Chinese munt de Canadese en Australische dollar in en kwam het in de top-5 van internationaal meeste gebruikte valuta terecht. Tot nu toe moeten grensoverschrijdende yuan-transacties via zogenaamde clearing banken worden afgehandeld, maar met het nieuwe CIPS is die tussenstap niet langer nodig.

Omdat China de VS als grootste economie ter wereld aan het inhalen is, zal met CIPS steeds meer internationale handel niet langer in dollars, maar in yuans worden afgerekend. In december vorig jaar steeg het aantal wereldwijde betalingen met de Chinese munt al met 20,3% ten opzichte van een jaar eerder.

Rusland en China ‘gedwongen’ door regering Obama

‘Gesteld kan worden dat als het inderdaad een briljante tactische zet van de regering Obama was om Rusland –en door geopolitieke verwantschap ook China- uit het door de VS gecontroleerde monetaire transactie mechanisme te zetten en daarmee de twee grootste uitdagers van de Amerikaanse wereldwijde dominantie in hun eigen –of gezamenlijke- betalingssysteem te dwingen - wel, gefeliciteerd dan: dat is gelukt,’ wordt op de onafhankelijke financieel-economische website Zero Hedge sarcastisch geconcludeerd. (1)

Xander

(1) Zero Hedge
(2) Zero Hedge
(3) Zero Hedge

vendredi, 13 mars 2015

L'Amérique Latine défend le Venezuela face au décret du président Obama

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L'Amérique Latine défend le Venezuela face au décret du président Obama

Rapprochement de Caracas avec Athènes

Auteur : Thierry Deronne
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Traduction Jean-Marc del Percio
Ex: http://zejournal.mobi

Après la décision du président Barack Obama, le 9 mars 2015, de décréter « l’urgence nationale aux États-Unis » face à la « menace inhabituelle et extraordinaire pour la sécurité nationale et notre politique extérieure qu’est le Venezuela » (sic), le président de Bolivie Evo Morales a demandé une réunion d’urgence de l’UNASUR (organisme regroupant la totalité des nations sud-américaines) et de la CELAC (Communauté élargie des États Latino-américains et des Caraïbes) « pour nous déclarer en état d’urgence et défendre le Venezuela face à l’agression de Barack Obama. Nous allons défendre le Venezuela » Il a souligné l’importance de l’unité des peuples face à l’Empire qui tentent de « nous diviser, pour nous dominer politiquement et nous spolier sur le plan économique ».

Le président Correa, à travers son chancelier, a exprimé son « rejet le plus ferme de la décision illégale et extra-territoriale contre le Venezuela, qui représente une attaque inacceptable pour sa souveraineté ». Il a rappelé le signal négatif que constitue la signature de ce décret par Obama 48 heures après la visite de travail de l’UNASUR à Caracas. Cette délégation a enquêté sur la récente tentative de coup d’État contre le président Nicolas Maduro, élu en avril 2013, a rejeté l’ingérence extérieure, demandant aux secteurs violents de l’opposition de revenir à la voie électorale.

« Comment le Venezuela menace-t-il les Etats-Unis? A des milliers de kilomètres de distance, sans armes stratégiques et sans employer de ressources ni de fonctionnaires pour conspirer contre l’ordre constitutionnel étasunien ? Une telle déclaration faite dans une année d’élections législatives au Venezuela révèle la volonté d’ingérence de la politique extérieure étasunienne. » a déclaré pour sa part le gouvernement cubain.

Les mouvements sociaux latino-américains se sont mobilisés en défense de la démocratie vénézuélienne. Pour Joao Pedro Stédile, de la direction nationale du Mouvement des Sans Terre du Brésil : « Au Brésil il y a un peuple qui est avec vous, nous serons toujours solidaires et nous ne laisserons pas l’Empire envahir le Venezuela pour récupérer ses gisements de pétrole ». Le mouvement social bolivien a également manifesté sa solidarité. Rodolfo Machaca, dirigeant de la Confédération syndicale des travailleurs agricoles, a condamné l’ingérence des États-Unis dans les affaires intérieures vénézueliennes, et leur complicité avec les violences organisées par la droite. Selon Machaca : « La situation au Venezuela nous préoccupe, c’est pourquoi nous proclamons notre solidarité avec ce pays, mais aussi avec le président Maduro. Nous condamnons l’ingérence nord-américaine, et toutes les tentatives de coup d’État ou autres manœuvres visant à la déstabilisation du Venezuela. ».

Rafael Correa dénonce les manipulations médiatiques contre le Venezuela

Rafael-Correa-MPI.jpgLe 1er mars, depuis Montevideo, où il assistait à l’investiture du président uruguayen Tabaré Vasquez, le président Correa a déclaré : «Le Venezuela est confronté à une guerre économique et médiatique, et se retrouve dans la situation d’autres gouvernements progressistes d’Amérique latine, avant lui. Cette situation, on l’a déjà vécu en Amérique latine. Souvenons-nous de ce qui est arrivé à (Salvador) Allende : la même guerre économique, le même type d’ingérence, les mêmes attaques médiatiques. De grâce, tirons les leçons de l’Histoire ». Selon Correa, cette ingérence « ne débouchera pas forcément sur ce qui est arrivé à Allende. Il n’en demeure pas moins que nous sommes confrontés chaque jour aux tentatives de déstabilisation de gouvernements démocratiques et progressistes d’Amérique latine, par la guerre économique, et à la manipulation mondiale en matière d’information ».

Au sujet de l’arrestation du maire d’opposition de Caracas, Antonio Ledezma, accusé d’implication dans un complot visant à déstabiliser le gouvernement de Nicolas Maduro, le président Correa a déclaré qu’il était « réducteur de commenter cet événement sans connaître les détails de l’affaire, en outre la souveraineté et les institutions de chaque pays doivent être respectées ».

Le Venezuela et la Grèce renforcent leurs relations bilatérales

En visite officielle en Grèce le 6 mars, la ministre des Affaires étrangère Delcy Rodriguez a félicité le nouveau gouvernement du premier ministre Alexis Tsipras, au nom du Gouvernement Bolivarien et du peuple vénézuelien. Dès la victoire de Syriza, Maduro avait salué la décision des électeurs malgré « la campagne médiatique qui tentait de leur faire peur en présentant notamment Alexis Tsipras comme l’agent d’une dictature vénézuélienne »

La Chancelière vénézuélienne a été reçue par Alexis Tsipras qui a manifesté son intention d’accueillir prochainement en Grèce le président Nicolas Maduro, assurant de son soutien le Venezuela et son peuple et insistant sur l’affection qu’il lui porte.

Accompagnée de l’ambassadeur du Venezuela en Grèce – Farid Fernandez – Mme Rodriguez a eu aussi l’occasion de rencontrer son homologue grec Nikos Kotzias (photo). La réunion a porté sur la possibilité de renforcer les relations bilatérales entre les deux pays dans le domaine économique et commercial. Nikos Kotzias a reçu des informations sur la situation actuelle au Venezuela et a souligné l’importance de nouer des relations solides dans les domaines de la technologie, de l’économie, du commerce et du tourisme.

Un désir commun s’est exprimé : qu’Athènes devienne l’un des principaux partenaires de Caracas.

Cette visite officielle en Grèce répond à la volonté de Caracas de renforcer l’émergence d’un monde multipolaire, au sein duquel prévaudront le respect mutuel, la compréhension, la coopération, mais aussi le droit pour les peuples à l’autodétermination, à la liberté et à la souveraineté.


- Source : Thierry Deronne-Traduction Jean-Marc del Percio

jeudi, 12 mars 2015

Le monde anglo-saxon en guerre contre l’Europe?

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Le monde anglo-saxon en guerre contre l’Europe?

Auteur : Alexandre Latsa
Ex: http://zejournal.mobi

Les accords de Minsk ont fait ressurgir une vérité oubliée un peu trop vite : les États européens ont un rôle fondamental et incontournable quand il faut gérer une crise sur ce continent.

Paris et Berlin se sont en effet bien gardés d’inviter Washington et Bruxelles, c’est-à-dire l’Otan et l’UE, à ces négociations de Minsk, destinées à avancer vers un accord de paix, dans cette guerre civile qui se déroule en Ukraine.

Ironie de l’histoire : la Biélorussie, régulièrement taxée de « dernière dictature d’Europe », a accueilli une rencontre ayant permis aux puissances continentales de bloquer les velléités guerrières anglo-saxonnes.

Prises entre l’enclume des faucons ukrainiens et le marteau de leurs sponsors américains, les élites ukrainiennes, qui auraient naïvement cru à la fable de leur intégration fraternelle au sein de la communauté euro-atlantique, doivent désormais déchanter.

Les rêves d’adhésion immédiate à l’Union Européenne et à l’OTAN sont partis en fumée, et le pays est maintenant très proche de la faillite. Le divorce avec la Russie sur le modèle géorgien se fait au prix d’une guerre contre le monde russe et donc quasi-directement contre la Russie. Dans le même temps, les oligarques qui ont pris le pouvoir en Ukraine après les événements de la place Maïdan ont mis les nations européennes face à une situation très complexe.

Du côté de l’Europe de l’ouest, on essaie de croire à la paix en Ukraine et de rester optimistes, mais une scission apparaît de plus en plus nettement. D’une part, se profile un axe qui recherche la paix et d’autre part un groupe qui souhaite un affrontement plus direct avec Moscou.

L’axe anglo-saxon, fauteur de guerre ?

Dans ce groupe, quatre acteurs principaux.

Il y a d’abord l’Angleterre, dont le ministre de la Défense Michael Fallon affirme que Moscou fait planer un « véritable danger » sur les pays baltes. Quant à l’ex-ministre britannique de la Défense Liam Fox, il martèle que les forces de l’OTAN doivent « offrir aux Ukrainiens les capacités nécessaires pour se défendre » et notamment des « armes antichars sophistiquées » car la Russie menacerait de dominer l’Europe. Même son de cloche pour l’ancien responsable des services secrets russes qui affirme que la Russie représente une « menace en tant qu’État » pour l’Angleterre.

Il y a le Canada, l’un des acteurs étrangers les plus actifs durant le Maïdan, fait rarement mis en lumière par les médias français, qui vient d’être clairement appelé à l’aide par les autorités ukrainiennes qui affirment se préparer à une « guerre d’envergure » contre la Russie. Et au passage, sans aucun doute, à balayer d’un revers de main les accords de Minsk.

Washington menace de son côté la Russie de sanctions d‘une extrême gravité en l’accusant de faire entrer des chars en Ukraine, ce que pourtant François Hollande lui même dément. Fort de ce mythe médiatique, Washington étudie même la possibilité de livrer des armes à l’Ukraine afin de torpiller la fragile tentative de « quintuple entente continentale » arrachée à Minsk pendant la nuit du 11 au 12 février.

Enfin il y a l’OTAN, dont le commandant adjoint de l’Alliance atlantique en Europe, le général Adrian Bradshaw, vient d’affirmer, tout comme l’ex-secrétaire général de l’Otan Anders Fogh Rasmussen, que la Russie pourrait être tentée d’envahir des pays membres du bloc. Grace à la crise ukrainienne, l’Alliance se redonne une raison d’exister et peut utiliser ses satellites en Europe (Pologne, États baltes…) pour constituer un cordon "Otanien" entre Paris, Berlin et Moscou. La crise en Ukraine a donc permis en quelque sorte l’apparition d’un projet de mur américain, qui remplacerait le mur de Berlin.

L’Europe face à ses contradictions historiques et systémiques

Un commentateur objectif et raisonnable pourrait se demander ce qu’un axe non-européen et maritime « Otan-Washington-Londres-Ottawa » peut apporter à une crise ne concernant que des puissances continentales européennes ou péri-européennes. Il pourrait avec étonnement constater que cet « axe du bien » a été exclu des négociations vers la paix mises en place par l’axe « Paris-Berlin-Moscou ». Il y a pourtant des explications à cela.

À la fin du second conflit mondial, l’Europe a confié sa défense aux États-Unis pour se protéger du péril soviétique. Lors de la disparition de ce danger, les Européens n’ont pas fait l’effort de créer un système de défense indépendant. L’OTAN a poursuivi son expansion vers l’est du continent, pays par pays. Dans cette organisation, la suprématie américaine coule de source.

La jurisprudence De Gaulle n’a pas fait tache d’huile, tandis que Berlin s’est montré incapable de s’affirmer en leader de la puissance militaire européenne. L’Allemagne se contentait de prendre le leadership économique d’une construction européenne ayant transformé les pays de l’union en sujets de ce nouveau Reich puissant économiquement, mais sans défense autonome.

Une Allemagne désormais prise en tenaille entre sa tendance naturelle à l’expansion vers l’Est (militaire en 1940, économique en 2000) et le risque d’une guerre ouverte dans laquelle elle serait la grande perdante, à cause de sa position économique dominante. Enfin, et peut être surtout, l’UE n’a toujours pas clairement défini ses frontières, ses limites civilisationnelles et par conséquent la limite territoriale et géographique de son expansion.

La Russie et les frontières du monde russe

L’Europe se retrouve face à une Russie en pleine mutation. Parallèlement au redressement économique spectaculaire qu’il a connu, le pays vit une mutation qui est de nature géopolitique. On l’imaginait devenir une puissance européenne ou quasi-européenne au début des années 2000 ; depuis quelques années, on constate au sein des élites russes une tendance géopolitique "eurasiatique" qui s’est beaucoup affirmée et qui tend à devenir dominante.

Ce changement de cap a logiquement entraîné une reconfiguration systémique et permanente tant de la politique étrangère russe, que de la gestion de ses marches (son étranger proche) et de la relation avec sa zone d’influence propre : le fameux « monde russe » que l’on peut qualifier « d’étranger intérieur », une notion difficile à comprendre pour les occidentaux.

Avec moins de 9 habitants au kilomètre carré, la Russie n’est pas un État nation européen comme les autres. Certaines frontières sont très éloignées du centre politique, et d’autres n’ont pas, en Russie, une signification identitaire aussi forte qu’en Europe occidentale. Cette réalité explique l’obsession russe d’avoir marches stables. L’existence de populations situées « hors » des frontières administratives de l’Etat russe actuel, mais se considérant comme appartenant au monde russe, complique encore les choses, que l’on pense par exemple aux Ossètes, aux populations russophones du Donbass ou à une partie de la population de la Moldavie.

Quel avenir pour l’Ukraine entre Washington, Moscou et l’Europe ?

Le retour de la Russie en tant qu’acteur géopolitique indépendant et autonome, ayant ses propres intérêts et les moyens de les défendre, est un élément clairement déstabilisant pour l’agenda américain en Eurasie et en Europe. Mais cette nouvelle donne place également l’Europe face à des choix stratégiques. L’affaire ukrainienne le démontre, en contraignant l’Europe à naviguer entre l’unilatéralisme de Washington et ses intérêts propres. Ces derniers n’allant pas du tout dans le sens d’une guerre sur le continent et contre la Russie, avec laquelle l’interaction commerciale, politique et économique est croissante depuis une quinzaine d’années.

Les Américains et les Européens ont globalement deux visions et des intérêts diamétralement opposés quant à l’avenir de leur relation avec l’Ukraine.

Pour Washington, l’Ukraine est un pion stratégique fondamental du fait de sa position géographique. Une fois l’Ukraine affranchie de l’influence de Moscou, elle pourrait se transformer en satellite docile, à l’extrémité est du continent, pour introduire l’OTAN en Eurasie, en commençant par la mer noire, et ainsi refouler la Russie vers l’Est. Le plus loin possible du « mur de Washington ».

L’Ukraine ne revêt en revanche aucun intérêt stratégique fondamental pour Paris ou Berlin, ni sur le plan militaire, ni sur le plan sécuritaire. Sur le plan économique, le pays peut représenter un marché potentiel pour certains produits européens, et pourrait devenir une source importante de main d’œuvre bon marché pour l’Allemagne. Sous cet angle, du reste, l’opération ukrainienne permet aux Etats-Unis de donner des gages économiques à leur allié allemand en Europe ; du moins tant que Berlin ne se permet pas de s’octroyer une quelconque liberté sur le plan militaire ou sécuritaire. Ceci explique en partie l’effroi qui a saisi Washington, Berlin et la soi-disant « nouvelle Europe » sous tutelle militaire américaine et sous domination économique allemande lorsque les Français ont esquissé la vente de navires Mistral, alors que dans le même temps l’Allemagne procède elle à des entraînements militaires avec des reproductions des mitrailleuses en bois en raison de la faiblesse de son budget militaire.

Si la paix revient en Ukraine, ce qui semble improbable, il faudra rebâtir, avec tous ces intérêts divergents, un système viable de relations Europe-Ukraine-Russie.

On imagine mal comment il pourrait pacifiquement s’esquisser sans que l’Ukraine ne redevienne ce que sa géographie et son histoire lui imposent d’être : un pont naturel entre la Russie d’un côté, et l’Europe centrale et occidentale de l’autre et surtout un tampon suffisamment étendu pour éviter au monde euro-occidental et au monde eurasien bien des heurts, et bien des affrontements.

Je dis improbable que la paix ne revienne car une question bien plus inquiétante se profile à l’horizon, question que les dirigeants occidentaux semblent ne pas vouloir se poser : l’Ukraine en tant qu’État existe-t-elle encore ?


- Source : Alexandre Latsa

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mercredi, 11 mars 2015

Nieuwe Saudische koning probeert moslimcoalitie tegen Iran te vormen

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Nieuwe Saudische koning probeert moslimcoalitie tegen Iran te vormen

Al 10.000 door Iran gecommandeerde troepen op 10 kilometer van grens Israël

Arabische media kiezen kant van Netanyahu tegen Obama

Breuk tussen Israël en VS brengt aanval op Iran dichterbij dan ooit

De sterk in opkomst zijnde Shia-islamitische halve maan zal zich tegen haar natuurlijke ‘berijder’ keren: Saudi Arabië, met in de ster op de kaart het centrum van de islam: Mekka.

De Saudische koning Salman, opvolger van de in januari overleden koning Abdullah, heeft de afgelopen 10 dagen gesprekken gevoerd met de leiders van alle vijf Arabische oliestaten, Jordanië, Egypte en Turkije, over de vorming van een Soenitische moslimcoalitie tegen het Shi’itische Iran. De Saudi’s hebben Iraanse bondgenoten de macht zien overnemen in Irak en Jemen, en weten dat zij zelf het uiteindelijke hoofddoel van de mullahs in Teheran zijn.

Grootste struikelblok voor de gewenste coalitie is de Moslim Broederschap, die gesteund wordt door Turkije en Qatar, maar in Egypte, Jordanië en Saudi Arabië juist als een terreurorganisatie wordt bestempeld. Koning Salman is dermate bevreesd voor een nucleair bewapend Iran, dat hij inmiddels bereid lijkt om ten aanzien van de Broederschap concessies te doen.

Saudi Arabië zal worden vernietigd

In zo’n 2500 jaar oude Bijbelse profetieën wordt voorzegd dat de Perzen (Elam = Iran) uiteindelijke (Saudi) Arabië zullen aanvallen (Jesaja 21). Jordanië (Edom en Moab) zal hoogstwaarschijnlijk ten prooi vallen aan Turkije (Daniël 11:41), dat eveneens Egypte zal aanvallen. Saudi Arabië komt dan alleen te staan en zal totaal worden vernietigd (Jeremia 49:21).

Het land waarin de islam is ontstaan voelt de bui al enige tijd hangen en probeert nu bijna wanhopig ‘het beest’ waar ze eeuwen op gereden heeft, gunstig te stemmen. Turkije zal echter nooit de alliantie met de Moslim Broederschap opgeven, net zoals Egypte nooit de Broederschap zal steunen.

Het beest dat de hoer haat

Enkele jaren geleden schreven we dat Turkije een geheim samenwerkingspact gesloten heeft met Iran. Beide landen hebben historische vendetta’s met de Saudi’s, die de Ottomaanse Turken verrieden met Lawrence van Arabië. Ook de vijandschap tussen het Wahabitische huis van Saud en de Iraanse Shi’iten bestaat al eeuwen.

Bizar: ISIS is oorspronkelijk een ‘uitvinding’ van de Wahabieten en niet de Shi’iten, maar streeft desondanks toch naar het einde van het Saudische koninkrijk. Hetzelfde geldt voor de Moslim Broederschap, Hezbollah en andere islamitische terreurgroepen. Dit is exact zoals de Bijbel het voorzegd heeft: de volken en landen van ‘het beest’ zullen ‘de hoer van Babylon’ haten, zich omkeren en haar verscheuren / met vuur verbranden.

Arabische media kiezen kant van Netanyahu tegen Obama

De Arabieren vallen zelf Israël echter (nog) niet aan omdat de Joodse staat een onverklaarde bondgenoot is tegen Iran. Onlangs zouden de Saudi’s zelfs hun luchtruim hebben opengesteld voor de Israëlische luchtmacht, nadat bekend werd dat de Amerikaanse president Obama vorig jaar dreigde Israëlische vliegtuigen boven Irak neer te schieten toen de regering Netanyahu op het punt stond Iran aan te vallen.

Diverse toonaangevende Arabische media kozen afgelopen week openlijk de kant van de Israëlische premier, nadat hij in diens toespraak voor het Amerikaanse Congres de toenadering van Obama tot Iran impliciet fel bekritiseerd had. Netanyahu’s woorden onderstreepten dat er de facto een breuk tussen Amerika en Israël is ontstaan, die zolang Obama president is niet meer zal worden geheeld. Dit brengt een Israëlische aanval op Iran dichterbij dan ooit tevoren (4).

Het is al jaren bekend dat Obama Netanyahu haat, en andersom is er eveneens sprake van groot wantrouwen en minachting. Net als in Jeruzalem ziet men ook in bijna alle Arabische Golfstaten, maar vooral in Saudi Arabië, Obama liever vandaag dan morgen verdwijnen.

In Iran wordt nog steeds ‘dood aan Amerika’ geschreeuwd

Wrang genoeg voor Washington geldt dat ook voor Iran. ‘Allahu Akbar! Khamenei is de leider. Dood aan de vijanden van de leider. Dood aan Amerika. Dood aan Engeland. Dood aan de hypocrieten. Dood aan Israël!’ schreeuwden Iraanse officieren begin februari toen Khamenei vol trots verklaarde dat Iran uranium tot 20% verrijkt had, terwijl hij Obama uitdrukkelijk had beloofd dit niet te doen.

Deze oorlogskreet wordt al sinds 1979 dagelijks gebezigd in Iran. In dat jaar liet de Amerikaanse president Jimmy Carter toe dat de hervormingsgezinde Shah van Iran werd afgezet door de extremistische Ayatollah Khomeini. Het onmiddellijke gevolg was een bloederige oorlog met Irak, waarbij meer dan één miljoen doden vielen.

Al 10.000 Iraanse troepen bij grens Israël

Zodra het door Turkije en Iran geleide rijk van ‘het beest’ Israël aanvalt, zullen Sheba en Dedan, de Saudi’s en de Golfstaten, enkel toekijken (Ezechiël 38:13). Dat we snel deze laatste fase van de eindtijd naderen blijkt uit het feit dat er op dit moment in Syrië al zo’n 10.000 door Iran gecommandeerde troepen – ‘vrijwilligers’ uit Iran, Irak en Afghanistan- op slechts 10 kilometer van de Israëlische grens staan. Dat zouden er in de toekomst 100.000 of zelfs meer kunnen worden (2)(3).

Het Vaticaan ‘de hoer’ en vervolger van christenen?

Terwijl de Bijbelse eindtijdprofetieën overduidelijk voor onze eigen ogen in vervulling gaan zijn veel Westerse christenen hier nog steeds blind voor, omdat hen geleerd is dat ‘de hoer’ het Vaticaan is, en de ‘valse profeet’ een toekomstige paus is die de grote wereldreligies met elkaar zal verenigen, daar het evangelie voor zal opofferen en katholieken en andere christenen (!) zal laten onthoofden omdat ze dit zullen weigeren.

Als ‘de hoer’ het Vaticaan is, dan zou dat echter betekenen dat de katholieke/ christelijke landen waar zij op ‘zit’ haar zullen aanvallen en verbranden. Denken mensen nog steeds serieus dat andere landen in Europa Rome zullen aanvallen, terwijl moslim terreurgroepen zoals ISIS regelmatig openlijk dreigen om in de nabije toekomst Italië binnen te vallen en het Vaticaan te vernietigen? Terwijl christenen in Irak, Egypte, Syrië, Nigeria en andere moslimlanden nu al worden vermoord en onthoofd vanwege hun geloof en omdat weigeren zich te bekeren tot de islam (= het beest te aanbidden)?

Moderne ‘Torens van Babel’ in Mekka

In eerdere artikelenstudies (zie hyperlinks onderaan) voerden we uitgebreid Bijbels bewijs aan –en geen giswerk theorieën- dat ‘de hoer van Babylon’, ‘dronken van het bloed der heiligen en van het bloed der getuigen van Jezus’ zich precies daar bevindt waar Johannes haar zag: in ‘de woestijn’ (Openbaring 17:3). Alleen al hierom kan het nooit om Rome, New York of Brussel gaan. De 7 gigantische torens bij het Ka’aba complex in Mekka –het grootste ter wereld- worden plaatselijk zelfs letterlijk ‘De berg Babel’ genoemd.

Eindtijd: Niet Europa of Amerika, maar Israël centraal

Niet Europa, niet Amerika en ook niet Rusland staan centraal in de Bijbelse eindtijdprofetieën van zowel het Oude als het Nieuwe Testament –al spelen zij natuurlijk wel een rol-, maar het Midden Oosten, Israël en de omringende moslimwereld. Pas als de coalitie van het (moslim)beest Israël aanvalt –bedenk dat de islam zichzelf omschrijft als ‘het beest uit de afgrond’!- met de bedoeling de Joodse staat weg te vagen en de laatste resten van het christendom in het Midden Oosten uit te roeien, zal de Messias, Jezus Christus, in eigen persoon neerdalen, tussenbeide komen en alle vijanden vernietigend verslaan.

Xander

(1) Reuters via Shoebat
(2) American Thinker
(3) The Christian Monitor
(4) KOPP