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vendredi, 05 octobre 2012

Verso una “relazione” Russia-Pakistan in sfida a Washington

Verso una “relazione” Russia-Pakistan in sfida a Washington

Si assiste ad un nuovo inizio dei legami Pakistan-Russia con la prevista visita del presidente russo Vladimir Putin, citata dei media del Pakistan per i primi di ottobre; la prima visita di un presidente russo in Pakistan. Una cosa considerata improbabile, in passato, potrebbe presto diventare una realtà con le due parti che si battono per un nuovo inizio nei rapporti bilaterali. Anche se i media statali russi hanno messo in dubbio la visita di Putin, è ovvio che anche se la visita venisse annullata, un altro funzionario di alto livello, come il ministro degli Esteri, si recherà in visita in Pakistan.


La visita, rivolta principalmente alla conferenza quadrilaterale sull’Afghanistan di Islamabad, porterebbe anche a un faccia a faccia con il presidente del Pakistan. È stato riferito dai funzionari del ministero degli Esteri russo, che i due stati firmeranno anche un MOU (Memorandum of Understanding) multiplo per lo sviluppo e gli investimenti nei settori dell’acciaio e dell’energia del Pakistan. Il presidente Asif Ali Zardari, che ha incontrato una delegazione di alto livello russa in Pakistan, all’inizio di settembre, guidata dal ministro dello sport russo, ha espresso il suo desiderio di cooperazione con Mosca nei settori succitati. [i]
Storicamente, la Russia e il Pakistan non hanno mai goduto di prolungati fruttuosi legami. Anche dopo la nascita del Pakistan, Liaqat Ali Khan, primo ministro del Pakistan, aveva preferito visitare gli Stati Uniti, anche se fu invitato per primo dal governo sovietico. Le relazioni videro il loro culmine solo durante il governo di Zulfiqar Ali Bhutto, quando durante la sua visita, nel 1974 [ii], il governo sovietico decise di costruire l’Acciaieria del Pakistan a proprie spese, aiutandolo anche nel settore dell’energia nucleare. Poi con  il regime di Zia-ul-Haq, l’amministrazione Carter degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e il generale Zia collaborarono, con l’aiuto dei partiti di destra, per formare i mujaheddin contro i sovietici in Afghanistan [iii].


Tenendo a mente il contesto attuale della situazione politica del Pakistan, gli ultimi sviluppi hanno  la massima importanza per il paese.


Attualmente, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno aumentato la pressione sul Pakistan per strapparne il supporto alla politica di Washington di rafforzamento della propria influenza nella regione, nonostante l’apparente contraddizione con gli interessi nazionali del Pakistan. Insieme a ciò, gli Stati Uniti stanno perdendo la loro influenza nella regione a causa del crescente sentimento anti-USA. È per questo che una maggiore cooperazione a livello bilaterale e nel quadro della Shanghai Cooperation Organization (SCO), aiuterà a affrontare le questioni politiche ed economiche del Pakistan. Questo, a sua volta, offrirà nuove opportunità a Islamabad per una politica estera più indipendente e una minore dipendenza economica dagli Stati Uniti e dalle istituzioni finanziarie internazionali, apparentemente controllate dagli Stati Uniti [iv]. L’attuale politica di Washington nella guerra in Afghanistan, sembra essere volta a diminuire l’impatto di Islamabad nel paese e sul processo di pace, e a rafforzare il ruolo dell’India nella soluzione della crisi [v]. Non sorprende che i funzionari di Kabul abbiano anche mostrato un atteggiamento ostile nei confronti del Pakistan, che si riflette in regolari accuse nei confronti della dirigenza pakistana di sostenere la rete haqqani e le organizzazioni estremiste che operano in Pakistan [vi] [vii] [viii].

Con l’attuale dipendenza finanziaria e strategica, il Pakistan può agire solo come semplice spettatore contro le politiche e le pretese degli Stati Uniti. Solo aumentando la cooperazione con la Cina e la Russia nell’approccio regionale che affronti la questione afgana e garantisca la stabilità del paese, aiuterà il Pakistan a tutelare i propri interessi nazionali. E’ ovvio che i legami positivi con la Russia non solo rafforzeranno strategicamente il Pakistan, ma saranno anche una buona occasione per superare i problemi energetici del paese, stimolando anche gli scambi e la cooperazione regionali. Nel quadro della cooperazione militare, il Maresciallo dell’Aria Tahir Rafiq Butt, ha visitato Mosca ad agosto, e ha definito la sua visita uno sviluppo significativo verso una maggiore cooperazione con la Russia nel settore della difesa, in particolare nella difesa aerea. Inoltre, è stato segnalato che all’inizio di settembre il capo dell’esercito del Pakistan, Generale Ashfaq Pervez Kiyani, è stato in visita a Mosca per un incontro ad alto livello con il suo omologo russo. Questa visita potrebbe essere di enorme importanza, in quanto punta verso una svolta politica importante. Un portavoce del ministero degli Esteri di Islamabad, in condizioni di anonimato, ha detto: “Abbiamo voltato una nuova pagina nelle nostre relazioni con la Russia. Si tratta di un grande cambiamento.” [ix]
Il Pakistan è un membro attivo della comunità internazionale nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera. Tenendo conto di questo significato speciale e la pubblicità negativa raccolta dai media mondiali, anche dopo aver fatto tutti gli sforzi e sacrifici possibili, sarebbe utile ampliare la cooperazione con i paesi della SCO, in particolare Russia e Cina. Tale cooperazione può esservi anche in settori quali la prevenzione e la mitigazione dei rischi naturali e tecnologici, la gestione delle emergenze, la formazione e lo sviluppo di esperti locali – dove la Russia ha una vasta esperienza – in materia di risorse scientifiche e tecniche assieme alle risorse umane e finanziarie. L’attuale ripresa nei rapporti può essere utilizzata per sviluppare una cooperazione economica a lungo termine con la Russia.

Mosca ha espresso interesse a partecipare alla costruzione del TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, Trans-Afghanistan Pipeline), al programma energetico CASA-1000 (Commercio ed Energia per la Regione Asia Centrale – Asia Meridionale) e all’Acciaieria del Pakistan [x]. A questo proposito, Islamabad potrebbe elaborare proposte per la partecipazione di Mosca nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali del paese, portando a uno sviluppo positivo delle relazioni bilaterali. Il Pakistan gode di un grande vantaggio strategico, è un ponte e corridoio per diverse regioni. Questo lo rende, anche per la Russia, un luogo attraente per materializzare la sua profondità strategica. Pertanto, gli sviluppi in corso tra Mosca e Islamabad, le visite ad alto livello e il possibile ruolo del Pakistan nella SCO, le indicazioni per una grande alleanza Sud ed Est asiatica, nella forma dello SCO e di un asse del partenariato Cina-Russia-Pakistan-Iran, possono portare a presagi positivi non solo per la regione, ma anche per il continente asiatico nel suo complesso.

Note
[i] [ii] [iii] [iv] [v] [vi] [vii] [viii] [ix] [x]

Copyright © 2012 Global Research

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora

vendredi, 21 septembre 2012

Problématique et prospective géopolitiques de la question pakistanaise

 

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Andrea Jacopo SALA:

Problématique et prospective géopolitiques de la question pakistanaise

 

Ce sont les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la seconde guerre mondiale qui constituent le point de départ à analyser pour comprendre les tensions qui ont affecté la zone la plus méridionale du continent asiatique. La fin des empires coloniaux et la volonté d’émancipation des nations émergentes ont entraîné un partage nouveau des territoires, tenant compte des réalités culturelles qui, auparavant, avaient cohabité sous une hégémonie étrangère unique, britannique en l’occurrence. On ne peut nullement se référer au découpage arbitraire que les puissances dominantes et coloniales ont imposé car elles sont une des causes premières des tensions qui ont ensanglanté ces pays, lesquels, aujourd’hui encore, présentent des cicatrices difficilement guérissables. Ces cicatrices, béantes, sont autant de bonnes opportunités pour tous ceux qui veulent s’immiscer dans les querelles intérieures et dans les contentieux diplomatiques qui affectent ces pays du Sud et du Sud-est de l’Asie, comme si les castes dirigeantes de l’Occident avaient la nostalgie du statut colonial d’antan, que ces jeunes nations ont rejeté; ces castes préfèrent encore et toujours contrôler ces pays indirectement, au bénéfice de leurs prorpes intérêts, plutôt que de prendre acte, sereinement, des maturations et des changements qui se sont effectués au fil du temps.

 

Il faut donc esquisser un bref panorama historique des événements les plus marquants qui ont accompagné la désagrégation de l’ancien “Raj” britannique, ainsi que de leurs conséquences directes, puis il faut passer au tamis toutes les problématiques liées au terrorisme, car ce terrorisme est un des moyens les plus utilisés pour intervenir dans et contre les choix politiques posés par les anciennes colonies britanniques, aussi pour s’immiscer dans les potentialités émergentes germant dans ces pays mêmes et pour freiner ou ralentir les nouvelles perspectives géopolitiques qui se révèlent réalisables depuis quelques temps.

 

Après le “Raj” britannique

 

Le “Raj” britannique des Indes (au pluriel!), on le sait, a été subdivisé en deux pays, le Pakistan et l’Inde, en 1947. C’était l’aboutissement de cette longue lutte indienne pour l’indépendance qui s’était radicalisée dans les années 20 et 30 du 20ième siècle, lutte dont les vicissitudes sont bien connues du public occidental grâce à la fascination qu’avait exercée sur bien des esprits la forte personnalité politique et spirituelle que fut Mohandas Karamchand Gandhi. Parallèlement au Parti du Congrès National Indien (PCNI), dont le “Mahatma” (Gandhi) était le membre le plus influent, existait aussi le Parti de la Ligue Musulmane (PLM), dirigé par Mohammed Ali Jinnah, tout aussi âpre dans sa lutte contre le colonialisme britannique. Dans une première phase de la lutte pour l’indépendance indienne, le PLM était allié au PCNI puisqu’ils avaient des objectifs communs. Mais, dès que les Britanniques promirent de résoudre la question indienne en renonçant à toutes prérogatives coloniales dans la région, les rapports entre le leader musulman et Gandhi se sont détériorés: tandis que le “Mahatma”, inspiré par les thèses théosophiques, rêvait d’une seule et unique nation indienne où coexisteraient pacifiquement plusieurs religions, Mohammed Ali Jinnah revendiquait l’instauration d’un Etat exclusivement islamique. La résolution du problème fut confiée à Lord Mountbatten qui a accepté la requête des Musulmans et a, par voie de conséquence, partagé le territoire du “Raj” britannique entre les dominions du Pakistan et de l’Inde.

 

Le plan Mountbatten contenait toutefois beaucoup d’approximations et de concessions arbitraires (et parfois inutiles), si bien qu’on ne pouvait guère le faire appliquer tout en voulant maintenir la paix: la zone d’influence du Pakistan était divisée fort maladroitement en un Pakistan occidental et un Pakistan oriental, séparé l’un de l’autre par un immense territoire sous juridiction indienne; de nombreux territoires, comme le Cachemire, n’avaient été attribués officiellement à aucun des deux nouveaux Etats souverains; malgré la volonté affichée d’attribuer aux uns et aux autres des territoires sur base de critères religieux et culturels, la partition laissait des zones à majorité hindoue au Pakistan et des zones à majorité musulmane au nouveau “dominion” de l’Inde.

 

 

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A cette situation délicate s’ajoutaient les prétentions chinoises sur quelques territoires de l’ancien “Raj” britannique. Le tout a enflammé la région pendant la seconde partie du 20ème siècle, aux dépens des populations. Pas moins de quatre guerres ont sévi et, suite à l’une d’elles, la zone baptisée par Lord Mountbatten “Pakistan oriental” est devenue indépendante, avec l’aide des Indiens, pour devenir l’actuel Bengladesh; la région du Cachemire a été divisée selon les lignes des fronts où s’étaient successivement affrontés Pakistanais, Indiens et Chinois. Il ne faut pas oublier non plus les nombreuses migrations qui ont suivi la partition, où les Hindous quittaient en masse les territoires sous juridiction pakistanaise-musulmane et où les Musulmans quittaient les zone attribuées à la nouvelle Inde indépendante, majoritairement hindoue. Ces transferts de population ont eu des effets fortement déstabilisants pour les équilibres internes des deux nouveaux Etats. Entretemps, alors que l’Inde optait pour la voie de la modernisation sous l’impulsion du gouvernement de Nehru, le Pakistan fut secoué par une série de coups d’Etat militaires, renversant à intervalles réguliers les régimes démocratiques.

 

Terrorisme et guerre au terrorisme

 

Après avoir déployé une politique fièrement hostile aux Etats-Unis sous la houlette de Zulfiqar Ali Bhutto, qui a ouvert le Pakistan aux technologies nucléaires, le pays tombe ensuite sous une nouvelle dictature militaire, dirigée par le Général Muhammad Zia-ul-Haq et fortement inspirée par le fondamentalisme musulman. La période de la dictature de Zia-ul-Haq fut celle d’une collaboration étroite avec les bandes anti-soviétiques actives dans le conflit afghan; ensuite, l’amitié entre Zia-ul-Haq et le chef d’une faction insurrectionnelle afghane, Gulbuddin Hekmatyar —appuyée par un financement d’au moins 600 millions de dollars en provenance des circuits de la CIA et transitant par le Pakistan— favorisait un soutien direct à la puissante guérilla intégriste qui luttait contre les Soviétiques (1).

 

L’existence même d’Al-Qaeda est issue de ce contexte conflictuel entre, d’une part, le gouvernement légal afghan, soutenu par l’Union Soviétique, et, d’autre part, l’insurrection des “moudjahiddins”. D’après l’ancien ministre britannique des affaires étrangères, Robert Cook, Al-Qaeda serait la traduction en arabe de “data-base”. Et ce même Cook affirmait dans un entretien accordé à “The Guardian”: “Pour autant que je le sache, Al-Qaeda était, à l’origine, le nom d’une ‘data-base’ (base de données) du gouvernement américain, contenant les noms des milliers de moudjahiddins enrôlés par la CIA pour combattre les Soviétiques en Afghanistan” (2). Ce que confirme par ailleurs Saad al-Fagih, chef du “Movement for Islamic Reform” en Arabie Saoudite: Ben Laden s’est bel et bien engagé, au départ, pour s’opposer à la présence soviétique en Afghanistan (3). Si cet appui initial des Américains à de telles organisations (qui seraient ensuite partiellement passées dans les rangs du terrorisme anti-occidental) explique les raisons stratégiques qui ont forcé les Etats-Unis à se rapprocher des organisations fondamentalistes islamiques, celles-ci, dès qu’elles ne fournissent plus aucun avantage stratégique et ne servent plus les intérêts géopolitiques immédiats de Washington, deviennent automatiquement “ennemies” et sont donc combattues en tant que telles.

 

Dans cette logique, on peut s’expliquer la ruine actuelle du Pakistan, sombrant dans le chaos sous le regard des Américains. Après la chute du régime de Zia-ul-Haq et pendant toute la durée du régime de Pervez Mucharraf, le gouvernement du Pakistan a été continuellement accusé de soutenir les talibans (4), surtout depuis l’opération, parachevée avec succès, visant l’arrestation du troisième personnage dans la hiérarchie d’Al-Qaeda, Khalid Shaykh Muhammad. Dans un tel contexte (et un tel imbroglio!), le ministre indien des affaires étrangères n’a pas hésité à déclarer “que le Pakistan a échoué dans ses projets d’éradiquer le terrorisme qui puise ses racines sur son prorpe territoire”: c’était immédiatmeent après les attentats de Mumbai (Bombay) (5). Ce bref rapprochement entre l’Inde et les Etats-Unis, prévisible et dirigé contre le Pakistan, ne devrait pourtant pas mener à une éventuelle intervention occidentale dans la zone du Cachemire, vu que tous les Etats impliqués dans cette zone se sont toujours montrés très rétifs à des interventions extérieures, même si de telles interventions pouvaient faire pencher la balance dans le sens de leurs propres intérêts géopolitiques. Il me paraît inutile, ici, d’évoquer la prétendue exécution du terroriste Osama Ben Laden, justement sur le territoire du Pakistan lui-même.

 

Mais pourquoi les relations américano-pakistanaises se sont-elles détériorées à ce point, et de manière assez inattendue?

 

Le tracé des gazoducs

 

La Pakistan est devenu membre observateur de l’OCS (Organisation de Coopération de Shanghai) en 2005, ce qui constitue déjà un motif d’inquiétude pour les pays inféodés à l’OTAN. Cependant, ce qui constitue probablement la cause principale de la mobilisation des énergies et des médias pour discréditer la République Islamique du Pakistan est la proposition des Iraniens, séduisante pour les Pakistanais, de construire un gazoduc qui reliera les deux pays et dont Islamabad a prévu la parachèvement pour 2014. Le projet initial aurait dû également impliquer l’Inde, dans la mesure où un terminal du gazoduc y aurait abouti, mais les pressions américaines ont empêché l’adhésion de l’Inde au projet suggéré par l’Iran.

 

 

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Le projet déplait à l’évidence aux Etats-Unis non seulement parce qu’il renforce les relations entre deux pays islamiques mais aussi et surtout parce que le nouveau choix du Pakistan est diamètralement contraire aux plans prévus pour un autre gazoduc, le gazoduc dit “TAPI”, qui devrait partir du Turkménistan et passer par l’Afghanistan et le Pakistan pour aboutir en Inde, tout en étant étroitement contrôlé par des investisseurs américains.

 

Dans ce jeu, la région du Beloutchistan joue un rôle de premier plan, région habitée majoritairement par une ethnie très apparentée aux Pachtouns. Les Pachtouns sont un peuple originaire de régions aujourd’hui afghanes et se sont rendus tristement célèbres pour leurs violences et pour leurs velléités indépendantistes (tant en Iran qu’au Pakistan), sans oublier leurs trafics d’opium et d’héroïne qui posent quantité de problèmes au gouvernement pakistanais.

 

Les jeux stratégiques demeurent toutefois peu clairs et peu définis jusqu’à présent, si bien qu’il me paraît difficile de se prononcer d’une manière définitive sur les problèmes de la région. Le Pakistan reçoit encore et toujours un soutien financier de la part des Etats-Unis, en provenance directe du Pentagone; officiellement, cet argent sert à lutter contre le terrorisme mais, forcément, on peut très bien imaginer qu’il s’agit surtout de convaincre Islamabad de refuser l’offre iranienne.

 

Andrea Jacopo SALA,

Article paru sur le site italien http://www.eurasia-rivista.org/ en date du 6 août 2012.

 

Notes:

 

(1)   http://it.wikipedia.org/ Entrée sur Gulbuddin Hekmatyar.

(2)   http://www.guardian.co.uk/ , 8 juillet 2005

(3)   http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/shows/binladen/interviews/al-fagih.html/

(4)   http://www.asiantribune.com/index.php?q=node/3231/

(5)   http://www.repubblica.it/2008/11/sezioni/esteri/india-attentato-3/dimissioni-capo-provincia/dimissioni-capo-provincia.html/

 

vendredi, 04 mai 2012

Le retour du Colonel Peters

La carte du "Grand Moyen-Orient" dessinée par Ralph Peters (lieutenant-colonel retraité de l'US Army) et raillée par bon nombre d'incrédules et niais n'ayant jamais lu le "Grand échiquier" de Brzezinski, revient à la une; avérée par l'actualité.

Le retour du Colonel Peters

Paul Delmotte

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

peters2.jpgEn juin 2006, le lieutenant-colonel retraité de l’US Army, Ralph Peters, s’était fait connaître par la publication dans l’Armed Force Journal d’une carte de sa main (voir ci-dessous) envisageant une complète refonte des frontières du « Grand Moyen-Orient » où G.W.Bush projetait d’injecter la démocratie parlementaire – et de marché ! – à l’occidentale.

Certes, à l’époque tant l’énormité de ces modifications et le fait qu’apparemment, il ne s’agissait que de la publication d’une carte autorisaient à penser que les propositions du colonel Peters resteraient de simples élucubrations.

Pourtant, une série d’informations récentes pourrait toutefois indiquer que la fameuse carte n’a peut-être pas été reléguée au fond d’un tiroir poussiéreux.

Vers un Grand Azerbaïdjan ?

Mark Perry, auteur de Talking to Terrorists. Why America must engage with its enemies (Basic Books, 2010), révèle dans un article paru en mars et basé sur des fuites de Wikileaks[1] la coopération militaire aussi poussée que mal connue entre l’Azerbaïdjan et Israël et montre que l’usage de bases aériennes azerbaïdjanaises, dont celle de Sitalcay, pourrait permettre aux avions israéliens de bombarder, le cas échéant, plus efficacement l’Iran puisqu’il pourraient s’y poser après leurs raids plutôt que de devoir faire l’aller-retour vers leurs bases de départ. Toutefois, dans le même texte, Perry rappelle qu’en février 2012, un membre du parti au pouvoir à Bakou, capitale de la république dynastique et pétrolière d’Azerbaïdjan, en très bon termes avec l’Occident, a demandé à son gouvernement de rebaptiser le pays en Azerbaïdjan du Nord, appel qui relève d’un irrédentisme souhaitant « réunifier la patrie » en y rattachant les provinces azériphones du Nord-ouest de l’Iran[2], considérées comme l’Azerbaïdjan du Sud. Rappelons que plus de15 millions d’Azéris (selon les chiffres iraniens, apparemment minimisés) vivent dans le nord-est de l’Iran contre 9,1 millions en Azerbaïdjan même. D’où les craintes iraniennes d’un séparatisme azéri, qui s’était déjà manifesté, avec l’appui de l'URSS à la fin de la 2ème Guerre mondiale, par la création d’un Gouvernement populaire d'Azerbaïdjan séparatiste et hostile au Chah[3]. Une appréhension renouvelée à Téhéran suite à la naissance d’un Azerbaïdjan indépendant à la faveur du démantèlement de l’URSS.

Limitons-nous à observer que sur la carte du colonel Peters : le très récalcitrant Iran devrait se voir amputer au Nord-ouest de la région azérie de Tabriz, au Sud-ouest du Khouzistan arabophone et, au Sud-est, de sa province baloutche.

Un « Baloutchistan libre » ?

Tout récemment, le blog Atlas Alternatif titrait : « Des républicains américains veulent faire éclater le Pakistan » et faisait état d’une série d’auditions, le 8 février 2009, de la sous-commission des Affaires étrangères de la Chambre des États-Unis consacrées aux « violations des Droits de l’Homme au Baloutchistan », sous l’égide du député républicain de Californie Dana Rohrabacher. Rencontre qui avait soulevé la colère du gouvernement pakistanais. Étaient en effet conviés à ces auditions, outre des universitaires, des délégués d’Amnesty International et de Human Rights Watch, ce qui n’a rien d’étonnant vu le thème des rencontres, mais aussi le lieutenant-colonel Ralph Peters…

Autre « petite chose » à souligner : l’an dernier, l’ambassadeur US au Pakistan, Cameron MUNTER, a réitéré la demande de son gouvernement d’ouvrir un consulat au Baloutchistan[4].

Or, pour ce qui est du Pakistan, Peters envisageait l’amputation de sa province du Baloutchistan et la réunion de cette dernière avec les régions baloutches du sud-est de l’Iran pour former un État libre du Baloutchistan, doté ipso facto d’une importante façade sur l’océan indien avec, en son milieu, le port de Gwadar. C. à d. une remise en cause de la Ligne Goldschmid (1871) par laquelle Londres avait délimité la frontière entre l’Iran et son Empire des Indes, ligne frontalière reprise en 1947 par le Pakistan.

L’on sait déjà qu’au Baloutchistan – qui forme 42% du territoire du Pakistan, mais dont les 7 millions de Baloutches ne forment que 5% de sa population – opèrent des groupes tribaux armés, ulcérés non seulement de voir leur région négligée par Islamabad, mais faire l’objet d’une politique de peuplement pachtoune et pendjabi. S’ajoute à cela le fait que le sous-sol du Baloutchistan recèlerait d’immenses ressources en gaz et en pétrole.

Casser le « collier » chinois

Par ailleurs, la valeur stratégique du Baloutchistan s’est vue multipliée par la création, financée par la Chine lors de la décennie écoulée, d’un port en eaux profondes à Gwadar qui devrait constituer le terminal d’un gazoduc venant du Turkménistan. Ceci au risque d’aggraver le mécontentement de certains Baloutches, le nouveau port menaçant à leurs yeux d’accroître la fuite des ressources de la région et de créer principalement de nouveaux emplois parmi les « immigrés » du reste du Pakistan. Pour la Chine par contre, le projet de Gwadar comporte plusieurs avantages, ce qui justifie peut-être les accusations pakistanaises d’une aide de l’Inde à la guérilla baloutche. Gwadar désenclave en effet les provinces ouest de la Chine (Xinjiang), offre à sa marine des facilités portuaires situées à l’ouest de l’Inde et proches du « verrou stratégique » du détroit d’Ormuz, et permet à la RPC un approvisionnement, énergétique, à partir de l’Afrique et du Moyen-Orient, plus « terrestre », échappant donc en partie au contrôle américain des routes maritimes du Sud-est asiatique.Un « Baloutchistan libre » parrainé par Washington et Delhi et obtenant la haute main sur Gwadar n’aurait-il pas l’avantage d’ôter l’une des plus belles perles du « collier »[5] stratégique que Pékin tente de constituer à l’ouest de l’Inde et au nord de l’océan Indien ? Et cela alors même que le putsch du 7 février dernier aux Maldives, immédiatement cautionné par les Etats-Unis et la « plus grande démocratie du monde » que serait l’Inde, pourrait bien avoir mis fin aux souhaits chinois d’ajouter, avec une base de sous-marins dans l’atoll maldivien de Marao, une nouvelle pièce à leur parure.

La guerre de l’ombre que livrent des agents américains et israéliens dans plusieurs régions de l’Iran non-persanophones (Azerbaïdjan-occidental, Khouzistan, Sistan-Baloutchistan) n’est plus qu’un secret de polichinelle. Une guerre qui se déroule à l’occasion, avec une collaboration tacite… d’Al-Qaïda, à laquelle serait « affilié » le Jundullah, groupe sunnite du Baloutchistan iranien (le Sistan-Baloutchistan) partisan d’un système fédéral en Iran, qui, depuis 2005, s’est fait remarquer par une tentative d’assassinat de M. Ahmadinejad (septembre 2005), ses enlèvements de soldats iraniens, ses attentats contre des casernes de l’armée ou des Gardiens de la Révolution[6] ou contre des mosquées[7] ou des manifestations religieuses chiites[8], malgré le coup dur qu’a constitué pour l’organisation la capture et l’exécution, en juin 2010, de son leader Abdolmalek Righi.

Un peu plus à l’Ouest : un « réduit » alaouite ?

Par ailleurs, Fabrice Balanche, Maître de conférences à l’Université Lumière-Lyon II [9], écrivait dans la dernière parution d’Alternatives internationales (n°54, mars 2012) qu’en cas de débâcle du régime syrien, « le clan Assad peut tenter de créer grâce à ses moyens militaires un réduit dans la région alaouite, sur la côte, avec l’aide de Moscou et de Téhéran ». Or, ce « réduit alaouite » figure bel et bien sur la carte du colonel Peters, mais… inclus dans un « Greater Lebanon », un « Plus grand Liban », qui ferait main basse sur toute la côte syrienne jusqu’aux frontières turques, privant cette fois la Syrie, de surcroît dûment amputée de ses régions nord-est au profit d’un « Kurdistan libre », de toute façade maritime.

peters3.jpgDe même, à la mi-mars, New Lebanon[10]estimait que « la vieille idée du mandat français » revenait à l’ordre du jour, « l’enclave alaouite [pouvant] devenir un État indépendant si Assad perdait tout contrôle sur Damas », et précisant que le clan Assad chercherait dans ce cas à élargir le « réduit alaouite » à la région de l’Idlib pour qu’il s’étende jusqu’à la frontière turque au-delà de laquelle vivent quelque 15 millions d’alévis.

Question : « le rejet régional et international » et « le refus total » de la Turquie d’un tel projet sont-ils aussi assurés que semble le penser New Lebanon ?

Sarkozy, apprenti Pandore

En Libye, la proclamation, le 6 mars dernier, de l’autonomie partielle de la Cyrénaïque, l’est du pays, par le cheikh Ahmed Zoubaïr Al-Senoussi, au demeurant neveu de l’ex-roi Idriss Al-Senoussi et s’exprimant au nom de quelque 3000 chefs de tribus et personnalités, est certes dues à des facteurs locaux – projet de loi électorale sur base démographique, sentiment d’abandon du « cœur de la révolution » en faveur de Tripoli – mais les accusations de projets séparatistes liés à la concentration des richesses pétrolières dans cette même région et bénéficiant d’un soutien occulte de « puissances étrangères » ne sont pas à rejeter sans plus.

Toujours en Libye, mais au Sud, les combats entre Toubous et tribus arabes dans la région de Sebha qui auraient fait quelque 150 morts entre le 26 et le 31 mars, pourraient ranimer les aspirations au séparatisme de ces mêmes Toubous.

À suivre donc…

 

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Carte élaborée par le Lieutenant-Colonel américain Ralph PETERS et publiée dans le Armed Forces Journal en juin 2006. Peters est colonel retraité de l'Académie Nationale de Guerre US. (Carte sous Copyright 2006 du Lieutenant-Colonel Ralph Peters) – Source : Mahdi Darius NAZEMROAYA, Le projet d'un « Nouveau Moyen-Orient ». Plans de refonte du Moyen-Orient, in Mondialisation.ca, 11 décembre 2006

1er avril 2012

Paul DELMOTTE

Professeur de Politique internationale à l’IHECS

Source : Investig'Action michelcollon.info

[1] L’Azerbaïdjan, le terrain d’atterrissage secret d’Israël (http://www.slate.fr/story/52415/israel-iran-azerbaidjan-g...)

2] Provinces d’Azerbaïdjan occidental et oriental, d’Ardabil, de Zanjan et, partiellement, celles d’Hamadan et de Qazvin

3] Velléités séparatistes que l’on a cru voir se réveiller avec les manifestations survenues en 2006, e. a. à Nagadesh.

[4] Selon I.SALAMI, in Palestine Chronicle, 28.10.11

[5]L’on appelle poétiquement « stratégie du collier de perles » les efforts de la Chine en vue de s’assurer une série de bases navales pour mieux assurer ses approvisionnements énergétiques moyen-orientaux. À part Gwadar, les autres perles sont Chittagong (Bangla-Desh), Sittwe, Coco, Hiangyi, Khaukpyu, Mergui, Zadetkui Kyun (Myanmar), des bases en Thaïlande et au Cambodge, Hanbatota (Sri-Lanka). Depuis l’an dernier, un accord avec les Seychelles envisage la construction d’installations de réapprovisionnement de la marine chinoise.

[6] Comme en octobre 2009 (42 morts)

[7] Comme à Zahedan, en mai 2009 (25 morts) ou en juillet 2010 (26 morts)

[8] Comme à Chabahar en décembre 2010

[9] Auteur de La région alaouite et le pouvoir syrien (Karthala, 2006) et de l’Atlas du Proche-Orient arabe (PUPS-RFI, 2012), F.Balanche a également collaboré au volumineux et incontournable ouvrage dirigé e. a. par notre compatriote Baudouin Dupret, La Syrie au présent. Reflets d’une société, Sindbad/Actes Sud, 2007

[10] Courrier International, 22-28 mars 2012

dimanche, 05 février 2012

Le rapport secret de l’Otan sur le double jeu pakistanais

Le rapport secret de l’Otan sur le double jeu pakistanais ou les talibans prêts à (re)prendre le contrôle de l’Afghanistan

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Ce document décrit dans le détail la collusion entre les services secrets pakistanais et les talibans afghans.

La nature incestueuse des liens qui unissent les services de renseignements pakistanais (ISI) aux talibans afghans était connue depuis de longues années par les capitales occidentales. Mais le rapport secret compilé par des officiers américains en Afghanistan, basé sur 27.000 interrogatoires de plus de 4000 détenus talibans ou membres d’al-Qaida et transmis aux commandants de l’Otan le mois dernier, est une véritable bombe.

Le document, intitulé «l’état des talibans», repris mercredi par le Times et la BBC, décrit pour la première fois en détail les relations intimes et la collusion existant entre le gouvernement et les services pakistanais d’un côté, les talibans afghans de l’autre. L’État pakistanais aurait ainsi mis en place un réseau complexe d’espions et d’intermédiaires chargés de donner des conseils stratégiques aux talibans combattant la coalition.

Un soutien concret aux insurgés

«Le gouvernement du Pakistan reste intimement engagé auprès des talibans», notent les auteurs. Y compris dans l’assistance fournie aux insurgés, selon le rapport, pour organiser leurs attaques contre les forces de la coalition et le gouvernement Karzaï en Afghanistan. Les services secrets pakistanais, écrivent les auteurs, offrent un soutien concret aux insurgés via des groupes militants basés au Waziristan et au Baloutchistan, à la frontière de l’Afghanistan. Les officiers de l’ISI «soutiennent la nécessité de poursuivre le djihad et l’expulsion des envahisseurs étrangers d’Afghanistan».

Les services pakistanais, poursuit le rapport, sont au fait de toutes les activités des talibans afghans et de leurs chefs, qu’ils reçoivent régulièrement et à qui ils fournissent profusion de conseils. «Le Pakistan sait tout. Les Pakistanais contrôlent tout», affirme un commandant d’al-Qaida interrogé par les Américains.

Le rapport affirme également que le gouvernement pakistanais et l’ISI connaissent parfaitement les lieux de résidence des plus hauts dirigeants talibans. La capture de Ben Laden, tué par les forces spéciales américaines au nord d’Islamabad en mai 2011, dans une maison qui jouxtait une grande académie militaire, avait déjà jeté un froid entre Washington et Islamabad. Mais si l’on en croit les détenus interrogés, le chef taliban Haqqani habiterait juste à côté de l’ISI, dans la capitale pakistanaise. Quand au mollah Omar, le commandant suprême des talibans, il pourrait s’être réfugié dans la région de Quetta, au sud-est du Pakistan.

«Profondeur stratégique»

Entre les deux pays, les frontières, qui s’étendent sur 2.500 kilomètres, ont toujours été poreuses et pachtounes. Depuis l’intervention des forces internationales en Afghanistan après le 11 septembre 2001, les talibans se sont réfugiés dans des bases, au sein des Zones tribales frontalières.

Le Pakistan et ses services de renseignements, qui ont besoin de la «profondeur stratégique» de leur voisin du Nord, notamment face à l’ennemi indien héréditaire, ont toujours joué un double jeu dans la région, faisant croire aux Américains qu’ils participaient à la guerre contre le terrorisme tout en encourageant les extrémistes en Afghanistan. Mais le rapport des officiers américains va encore plus loin en suggérant que les chefs talibans sont directement manipulés par le Pakistan.

Eclairage :

Soutenus par leurs alliés pakistanais, les talibans s’apprêtent à reprendre le pouvoir après le retrait des forces de l’Otan prévu en 2014. Serait-ce un échec majeur de la politique occidentale menée en Afghanistan depuis dix ans et dont l’un des buts avait été de chasser du pouvoir les talibans alliés à al-Qaida, puis d’empêcher leur retour? C’est en substance ce que suggère le contenu du rapport secret américain transmis à l’Otan le mois dernier.

Ses conclusions, en tout cas, sont en contradiction totale avec les déclarations des chefs militaires et politiques occidentaux, qui assurent au contraire que les insurgés afghans ont reculé, ­affaiblis par la nouvelle politique de contre-insurrection (surge). Et que les forces de sécurité afghanes, police et armée, seront bientôt assez fortes pour assurer la sécurité du pays et résister à la pression des talibans.

 

 

Changement de stratégie

«La force, la motivation, le financement et les succès tactiques des talibans sont demeurés intacts», précise le rapport. Les insurgés sont même davantage «confiants» dans leur victoire, que beaucoup jugent aujourd’hui «inévitable».

Après avoir été chassés du pouvoir fin 2001, les talibans ont commencé à regagner du terrain à partir de 2005, lorsque les forces américaines et britanniques étaient polarisées sur le conflit irakien. Aujourd’hui, la guérilla est active dans les deux tiers du pays. Elle mène régulièrement des actions jusqu’au cœur de la capitale.

Depuis un an, affirment les détenus interrogés dans le rapport, les talibans ont changé de stratégie. Ils privilégient désormais les efforts destinés à capitaliser sur l’impopularité du gouvernement corrompu d’Hamid Karzaï plutôt que les opérations militaires.

Afin de ne pas retarder le transfert de responsabilités aux forces afghanes, le mollah Omar aurait signé une directive demandant aux insurgés de ne pas attaquer les troupes étrangères quand elles se retirent. Et pour encourager les forces de l’Otan à quitter l’Afghanistan plus vite, les talibans auraient volontairement cessé leurs attaques dans certaines régions. Ils ont aussi, affirment les détenus interrogés par les Américains, multiplié leurs efforts pour convaincre les responsables gouvernementaux au niveau local et les soldats enrôlés dans les forces afghanes de les rejoindre. C’est la première fois qu’est ainsi décrite la coopération ­entre les insurgés talibans et les militaires de l’ANA, formés par les troupes de l’Otan.

Gouvernement de l’ombre

«Que ce soit ou non officiel, les talibans, dans tout l’Afghanistan, travaillent déjà avec le gouvernement au niveau local», affirme le rapport. Certains membres du cabinet de Kaboul auraient même repris contact avec les insurgés, anticipant leur victoire. «De nombreux Afghans se préparent à un éventuel retour des talibans», écrivent encore les auteurs.

L’émergence progressive d’un gouvernement taliban de l’ombre et l’influence grandissante des insurgés dans les zones où les forces de l’Otan se sont retirées, posent aujourd’hui des questions sur la capacité du gouvernement et des forces afghanes à contrôler le pays après 2014. Les forces de sécurité afghanes, qui formaient pourtant l’ossature de la nouvelle stratégie occidentale, seront-elles capables de résister longtemps aux talibans après le départ des troupes de combat? Rien n’est moins sûr, même si, avant de pouvoir reprendre Kaboul, les insurgés devront encore affronter les forces spéciales des pays occidentaux, qui n’ont pas prévu de se retirer en même temps que les troupes de combat, en 2014.

Isabelle Lasserre

mercredi, 12 octobre 2011

Karzai s’éloigne du Pakistan et se rapproche de l’Inde

Ferdinando CALDA:

Karzai s’éloigne du Pakistan et se rapproche de l’Inde

Le Président afghan rencontre Singh pour renforcer les rapports bilatéraux

inde,afghanistan,pakistan,moyen orient,politique internationale,géopolitiqueLe Président de l’Afghanistan, Hamid Karzai, revient d’une mission en Inde, à un moment plutôt délicat pour les équilibres et les alliances qui sont en train de se modifier dans la région. La visite du leader afghan —qui, le 4 octobre 2011, a rencontré le premier ministre indien Manmohan Singh et le ministre des affaires étrangères S. M. Krishna—  revêt une signification particulière, à la lumière des tensions récentes entre les Afghans et leurs voisins pakistanais, ennemis historiques de la Nouvelle Dehli.

Tout en rappelant qu’Islamabad est l’unique interlocuteur plausible pour chercher à faire avancer un processus de paix avec les Talibans (vus les rapports présumés et privilégiés des services secrets pakistanais de l’ISI avec les miliciens islamistes et vu le fait que “tous les sanctuaires des terroristes se trouvent sur le territoire pakistanais), Karzai et quelques autres ministres de son gouvernement ont accusé le gouvernement du Pakistan de “ne pas soutenir nos efforts pour ramener la paix et la sécurité en Afghanistan”. L’assassinat récent de Burhanuddin Rabbani, chef du Haut Conseil de Paix afghan en charge des négociations avec les Talibans, a refroidi les rapports entre l’Afghanistan et le Pakistan. Une commission d’enquête afghane a affirmé que le fauteur de l’attentat est venu du Pakistan; hier, Kaboul a accusé les Pakistanais de ne pas collaborer à l’enquête.

Et tandis que le gouvernement afghan envoie des inspecteurs à Islamabad, Karzai s’envole vers la Nouvelle Dehli, pour la deuxième fois en un an, avec la ferme intention de renforcer dans l’avenir la coopération entre son pays et l’Inde. L’Inde ne peut certes étendre “militairement” son influence sur l’Afghanistan (du fait qu’elle n’a pas de frontière commune avec ce pays) mais pourrait très bien devenir un important partenaire commercial de Kaboul. Ce n’est pas un hasard si l’Inde est de fait l’un des principaux donateurs pour l’Afghanistan, où elle a investi plus de deux milliards de dollars depuis 2001. Cet effort semble avoir donné ses fruits, si l’on considère qu’au cours de l’année fiscale 2009-2010, le volume des échanges commerciaux entre les deux pays a atteint le chiffres de 588 millions de dollars. Il faut souliger tout particulièrement que l’Inde est aujourd’hui l’un des plus importants marchés pour les exportations afghanes de produits agricoles, un secteur sur lequel le gouvernement de Kaboul mise beaucoup. Cette nouvelle visite de Karzai devrait renforcer ultérieurement l’implication indienne en Afghanistan. Certaines sources évoquent d’ores et déjà un “accord de partenariat stratégique”, qui impliquerait les Indiens dans l’entraînement et la formation des forces de sécurité afghanes.

Mais l’Inde n’est pas le seul pays à vouloir occuper une place de première importance en Afghanistan, dès que les troupes de l’OTAN auront quitté le pays. Par sa position stratégique, tant économique que militaire, l’Afghanistan, comme depuis toujours, suscite bien des convoitises. Mis à part les Etats-Unis, qui sont en train de négocier avec Kaboul le droit de maintenir leurs bases pendant quelques décennies, il y a aussi la Russie et, surtout, la Chine qui investissent déjà dans la reconstruction du pays, dans l’espoir de s’accaparer des riches ressources du sous-sol afghan et de se réserver une présence garantie et stable sur le territoire. Il ne faut pas oublier non plus deux autres puissances régionales, l’Iran et l’Arabie Saoudite, dont la présence potentielle n’est certes pas aussi affichée, mais qui ne voudront sûrement pas courir le risque d’être exclus de tout contact avec l’Afghanistan dans les prochaines décennies.

Enfin, et ce n’est certainement pas là le moins important des facteurs en jeu, le Pakistan continue à voir dans les massifs montagneux afghans un éventuel refuge inaccessible, tout comme sont inaccessibles les dangereux sanctuaires des groupes armés islamistes, en cas de nouvelle guerre avec l’Inde.

Ferdinando CALDA.

( f.calda@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 octobre 2011 – http://www.rinascita.eu ).

jeudi, 06 octobre 2011

Pakistan und das »Haqqani-Netzwerk«: Die jüngste, inszenierte Bedrohung Amerikas und das Ende der Geschichte

Pakistan und das »Haqqani-Netzwerk«: Die jüngste, inszenierte Bedrohung Amerikas und das Ende der Geschichte

Paul Craig Roberts

 

Haben Sie schon einmal von den Haqqanis gehört? Ich kann es mir kaum vorstellen. Ähnlich wie das Al-Qaida-Netzwerk, von dem vor dem 11. September noch keiner gehört hatte, tauchte das »Haqqani-Netzwerk« genau zur richtigen Zeit aus der Versenkung auf, um den nächsten Krieg Amerikas zu rechtfertigen – gegen Pakistan.

 

Mit der Behauptung Präsident Obamas, der Al-Qaida-Anführer Osama bin Laden sei zur Strecke gebracht worden, ging der Bedrohung durch dieses altgediente Schreckgespenst die Luft aus. Eine Terrororganisation, die ihren Anführer unbewaffnet und schutzlos zurücklässt und ihn damit zum leichten Ziel eines Mordanschlags macht, wirkt nicht länger furchterregend. Es wird Zeit für ein neues, noch bedrohlicheres Schreckgespenst, das dem »Krieg gegen den Terror« neue Nahrung geben soll.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/paul-craig-roberts/pakistan-und-das-haqqani-netzwerk-die-juengste-inszenierte-bedrohung-amerikas-und-das-ende-der-g.html

mardi, 13 septembre 2011

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il legame strategico tra Pechino e Islamabad è sempre più forte. Il tradizionale rapporto diplomatico tra i due paesi si è consolidato recentemente con l’intensificarsi dei legami economici, commerciali, energetici e militari, unitamente all’allontamento pakistano nei confronti degli Stati Uniti. La stabilità dell’alleanza sino-pakistana è però messa alla prova dalle sfide poste dai gruppi armati degli estremisti islamici operanti nello Xinjiang cinese.

La crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi mesi ha comportato il rafforzamento dello storico legame esistente tra Islamabad e Pechino. Le relazioni tra i due paesi sono in realtà ottime da circa un trentennio, a differenza di quelle pakistano-statunitensi; il proficuo rapporto diplomatico tra Stati Uniti e Pakistan ha, infatti, ricoperto un ruolo fondamentale nelle rispettive politiche estere durante l’intervento sovietico in Afghanistan tra anni ’70 e ’80, per poi subire un deciso deterioramento all’inizio degli anni ’90. Il rapporto tra Washington e Islamabad è tornato ad essere importante in seguito all’invasione afghana statunitense del 2001, nella quale il Pakistan è stato utilizzato come fondamentale punto d’appoggio per il controllo di Kabul. L’unilaterale bombardamento dei territori nord-occidentali del Pakistan, la crescente ingerenza statunitense nella politica interna pakistana, mediante mezzi militari e servizi d’intelligence, e i comportamenti ambigui pakistani in alcune questioni di primaria importanza hanno comportato un deciso peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Questo deterioramento ha raggiunto l’apice tra maggio e giugno, in seguito alla rivendicazione statunitense dell’uccisione di Osama Bin Laden in Pakistan.

I sempre più tesi rapporti tra i due paesi sono legati, inoltre, all’avvicinamento statunitense nei confronti dell’India, il quale ha raggiunto il proprio culmine nel 2007, mai così evidente rispetto al passato; l’amminsitrazione Bush e l’attuale governo di Manmohan Singh avevano delle ottime relazioni diplomatiche. Il Pakistan non gradisce, inoltre, il ruolo affidatogli dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, nel quale osserva un pericoloso calo del proprio ascendente strategico su Kabul. L’Afghanistan è tradizionalmente considerato da Islamabad una propria area d’influenza, strategicamente importante nel caso di un conflitto con l’India, poiché visto come territorio di supporto o di ritirata nell’ipotesi di una massiccia invasione del Pakistan dell’esercito di Nuova Delhi.

Il primo paese a difendere il rispetto dell’integrità territoriale di Islamabad in seguito alla notizia della morte di Bin Laden è stata la Cina; visitata poche settimane dopo dal primo ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe, inoltre, permesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato dagli Stati Uniti nel territorio pakistano.

Il legame sino-pakistano rappresenterà un importante elemento delle future relazioni internazionali, in particolar modo nel confronto tra Stati Uniti e Cina, tra quest’ultima e l’India, nonché negli interessi cinesi in Afghanistan e nel più generale contesto del cosiddetto “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale. Mentre il Pakistan nel corso degli anni ’80 fu un importante alleato degli Stati Uniti durante la guerra sovietica in Afghanistan, fondamentale territorio di transito per i rifornimenti militari destinati ai combattenti anti-sovietici, oggi Islamabad non garantisce, nell’ottica nordamericana, il medesimo contributo per il tentativo statunitense di controllare l’Afghanistan. La relazione con Islamabad rappresenta per gli Stati Uniti un elemento di vitale importanza per i propri interessi a Kabul. Basta considerare l’importanza strategica del paese pakistano, dotato degli unici punti d’accesso via mare per le truppe statunitensi e della NATO e per i rifornimenti militari, nonché territorio di collegamento geostrategico nel cuore dell’Eurasia. Il porto di Karachi è fondamentale per l’arrivo e invio di truppe e materiale bellico, passante poi in territorio pakistano mediante trasporto su strada, giungendo successivamente a Kabul e Kandahar. Gli Stati Uniti stanno ricercando una possibile alternativa ai rifornimenti via Pakistan, data l’insicurezza di Karachi e del confine lungo la linea Durand. Gli altri collegamenti ai porti situati in paesi confinanti con l’Afghanistan, Iran e Cina, sono impraticabili per evidenti motivi politici. Una via d’accesso alternativa è potenzialmente quella passante attraverso le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale: esiste un discorso aperto con l’Uzbekistan, dal quale passerebbero i rifornimenti provenienti dal porto di Riga, in Lettonia, passando per il territorio russo e kazako. Esiste un’altra opzione, probabilmente maggiormente fattibile rispetto a quella precedente, vista la lunghezza del percorso e la possibile inclusione della Russia nell’affare afghano, prospettiva non gradita a Washington. E’ quella attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, il Mar Caspio e il Turkmenistan oppure via Kazakistan e Uzbekistan. L’attenzione statunitense nei confronti di Baku, Ashagabat, Astana e Tashkent è in ogni caso in costante aumento.

Negli ultimi mesi è comunque evidente come il Pakistan punti maggiormente ad adottare una politica estera più autonoma nei confronti di Washington, attivandosi, inoltre, nel potenziamento delle relazioni con i vicini, soprattutto con la Cina, ma anche con Iran e Russia.

L’importanza strategica del Pakistan, unito al suo attivismo in politica estera, ha reso il governo del paese molto più convito nel richiedere il termine dei bombardamenti dei droni statunitensi nelle province nord-occidentali. Nel caso in cui ciò non avvenga, il Pakistan è pronto ad adottare una politica ancor più marcatamente filo-cinese, avendo, inoltre, l’appoggio della Cina, critica nei confronti delle azioni statunitensi nel paese. Un ulteriore fattore è legato al termine dell’aiuto economico statunitense, unito al declinare dei rifornimenti militari: il Pakistan guarda anche in questo caso a incrementare i propri legami economici e militari con la Cina.

Un’altra arma spendibile a livello diplomatico dal Pakistan è legata alle risorse energetiche. Lo stretto rapporto con Pechino, oltre ad aumentare l’influenza cinese in Asia Meridionale e Centrale, comporterebbe un’importante vittoria per la Cina nella competizione riguardante l’approvigionamento di petrolio e gas naturale.

La Cina è interessata a investire massicciamente in Pakistan. I punti chiave della strategia energetica sino-pakistana sono rappresentati dal potenziamento del porto di Gwadar, dalla quale possono passare i gasdotti e oleodotti provenienti dall’Iran. I progetti d’investimento cinese nel paese sono legati alla realizzazione del gasdotto IP, al quale potrebbe partecipare in sostituzione dell’India, con evidenti vantaggi in termini economici per il Pakistan grazie ai diritti di transito. La Cina è interessata al potenziamento di infrastrutture, strade e ferrovie pakistane, unitamente alla costruzione dei collegamenti per il petrolio e il gas naturale lungo il territorio pakistano partendo dalla città beluca per arrivare al Gilgit-Baltistan. I progetti sino-pakistani sono legati al potenziamento degli assi viari che assieme alle pipeline collegherebbero il Pakistan allo Xinjiang. A questo proposito sono in progetto la costruzione di diversi collegamenti stradali e ferroviari tra Kashgar e Abbotabad, e tra la città dello Xinjiang e Havelian. Un ulteriore collegamento tra i due paesi lungo confine è quello delle fibre ottiche, mentre il più importante e ambizioso progetto caratterizzante la cooperazione sino-pakistana è il collegamento stradale, ferroviario ed energetico tra Gwadar e Urumqi.

La recente visita di Gilani a Pechino si è conclusa con la firma di importanti accordi commerciali, finanziari e tecnologici, seguito dei colloqui del dicembre 2010, nei quali erano previsti il potenziamento della cooperazione in diversi settori: energia, sistema bancario, tecnologia, costruzione, difesa e sicurezza. Il crescente legame economico tra Pechino e Islamabad è unito alla tradizionale e comune avversione verso l’India, la quale può essere ostacolata nella sua ascesa in Asia Meridionale dall’azione comune dei due paesi asiatici. La Cina aiutò militarmente il Pakistan in seguito alla guerra sino-indiana del 1962, così come fornì la tecnologia nucleare al paese dopo che l’India nel 1974 iniziò i suoi primi test nucleari. Tra gli anni ’80 e ’90 la Cina ha stabilito un’alleanza militare e nucleare con Islamabad, ancora oggi molto forte. Più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinate al Pakistan. I due paesi hanno in progetto la produzione congiunta degli aerei da combattimento JF-17 Thunder (FC-1 Fierce in Cina). Durante il mese di marzo 2011 si è svolta un’importante esercitazione aereonautica tra la Pakistan Air Force (PAF) e la People’s Liberation Army Force (PLAFF) denominata Shaheen 1 (in urdu significa aquila). Si tratta della prima manovra militare tra PAF e PLAFF, alla quale si aggiungeranno nel corso del 2011 delle esercitazioni tra il PLA e l’esercito pakistano. Un simile legame militare tra i due paesi, oltre ad essere un importante fattore all’interno degli equilibri asiatici, dimostra come oggi la Cina possa agire molto più attivamente rispetto al passato in uno Stato considerato strategico per gli Stati Uniti per la propria politica in Afghanistan, ma anche in Asia Meridionale. Dato il lento declino economico statunitense, il Pakistan ha individuato nella Cina un’alternativa importante, la quale, a differenza di Washington, è in costante ascesa economica e militare. La cooperazione militare sino-pakistana è valutata da Islamabad e Pechino anche come una forma di bilanciamento nell’area nei confronti delle simili politiche militari adottate da Russia e India.

Inoltre, mentre gli Stati Uniti premono sul Pakistan per il proprio arsenale nucleare, la Cina rappresenta un’importante fonte di tecnologia in questo settore. A questo proposito Pechino sarebbe intenzionata a finanziare i progetti di costruzione per nuovi reattori nucleari in Pakistan.

Per quanto riguarda un fattore negativo legato alle relazioni tra Cina e Pakistan, è possibile fare riferimento all’attuale situazione dello Xinjiang. La regione cinese è un’area ricca di gas e petrolio, confinante con le repubbliche centro-asiatiche e con una considerevole presenza di abitanti di religione musulmana. Il territorio è attraversato da decenni dalla spinta indipendentista degli uiguri. La Cina ha sostenuto che i responsabili degli attentati avvenuti nello Xinjiang poche settimane fa sono estremisti islamici dello East Turkestan Islamic Movement (ETIM) o Turkistani Islamic Party (TIP) provenienti da campi d’addestramento situati nelle zone tribali del Pakistan. L’ETIM ha legami con la rete Haqqani e con il Tehrik – e – Taliban Pakistan (TTP). L’accusa cinese di simili resposabilità pakistane per le violenze degli uiguri rappresentano un campanello d’allarme per Islamabad. Secondo l’intelligence pakistana la Cina starebbe premendo il Pakistan affinché crei delle basi militari nelle aree tribali in modo da controllare la possibile azione degli estremisti e il loro successivo sconfinamento in territorio cinese. La Cina avrebbe anche intenzione di inviare delle proprie truppe nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa, senza comunque l’intenzione di creare delle basi militari permanenti. Sarà da valutare come gli Stati Uniti considereranno la possibile presenza militare cinese in Pakistan.

I media cinesi hanno criticano significativamente le autorità pakistane per l’incapacità dell’esercito di controllare le aree tribali del paese. Il quotidiano pakistano “Dawn” ha sostenuto come gli attentati possano portare a della conseguenze negative nelle relazioni bilaterali tra Islambad e Pechino, comportando delle serie ripercussioni soprattutto per il Pakistan. Allo stesso modo l’incapacità di Islamabad nel prevenire l’azione dei terroristi può risultare controproducente per la potenziale cooperazione sino-pakistana in Afghanistan. Una possibile azione congiunta delle autorità pakistane assieme a quelle cinesi potrebbe garantire, invece, nell’ottica di Pechino, un possibile miglioramento della condizione delle aree nord-occidentali del Pakistan, avendo come conseguenza dei possibili benifici per la situazione dello Xinjiang. Una condizione importante per la Cina è rappresentata dal contemporaneo termine dei bombardamenti statunitensi nell’area, i quali possono fomentare l’estremismo islamico. Senza dubbio la cooperazione tra Islamabad e Pechino nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa renderà ancora più evidente lo stretto legame sino-pakistano, foriero di interessanti conseguenze nel contesto dell’attuale competizione in corso nella regione.

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il Pakistan è scosso da una considerevole spirale di violenza. Ai bombardamenti statunitensi lungo il confine con l’Afghanistan si sono aggiunti gli scontri etnici nelle province del Belucistan e del Sindh. Per quanto riguarda quest’ultima regione, il carattere d’indiscriminata conflittualità contraddistingue soprattutto la sua capitale, Karachi. L’estrema violenza caratterizzante la città potrebbe comportare delle conseguenze imprevedibili per l’intero Pakistan, mettendo in seria discussione l’unità e l’intregrità territoriale del paese. La conflittualità interna è strettamente connessa agli interessi dei paesi limitrofi e degli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni anche per l’Afghanistan.

Karachi rappresenta il centro urbano e portuale economicamente più importante del Pakistan. La città è il traino dell’industria, del commercio e delle comunicazioni, in particolar modo per quanto riguarda i settori tessile e automobilistico, l’editoria, l’informatica e la ricerca medica. Il centro urbano è, inoltre, un fondamentale nodo geostrategico affacciato sul Mar Arabico. Data l’importanza economica di Karachi, già florido centro prima della nascita del Pakistan, la capitale del Sindh ha attirato nel corso degli ultimi due secoli un gran numero di migranti provenienti da diverse aree del Subcontinente, trasformandosi in una città multietnica e multilinguistica. Nella città, prima del 1947, convivevano diverse etnie, attirate dalle possibilità commerciali; erano presenti differenti comunità religiose, principalmente musulmani, hindu, parsi e cristiani. Karachi e il Sindh intero, in seguito alla partizione tra India e Pakistan, sono stati contraddistinti da una massiccia migrazione di musulmani provenienti dall’India, demominati mohajirs e di lingua urdu (mohajirs in urdu significa “migrante”). Rispetto ad altre aree del Pakistan, nel Sindh la migrazione urdu è stata più evidente ed ha generato una situazione di maggiore criticità. Mentre nelle restanti zone del paese la minoranza dei mohajirs è stata assimilata perché il suo numero era inferiore rispetto alla popolazione autoctona, nel Sindh, molto più vicino geograficamente all’India, i nuovi arrivati di lingua urdu superarono numericamente le etnie locali, modificando considerevolmente il carattere etnico della provincia.

Una delle cause scatenanti l’attuale stato di violenza della città è da ricercare nel composito carattere etnico del Sindh, complicato a partire dal 1947. La conflittualità tra etnie a Karachi e nella regione circostante non è, infatti, un problema che caratterizza il Pakistan da pochi anni, ma è invero una situazione perdurante da decenni. Tra gli anni ’50 e ’80 la regione era contraddistinta in particolare dagli scontri tra la popolazione di lingua urdu, rappresentanti solitamente la classe urbana, commerciale e maggiormente istruita della provincia, e i sindhi, gruppo etnico per la maggior parte dei casi rurale e meno istruito, trasformatosi minoranza nel proprio territorio storico. Gli scontri vennero, inoltre, utilizzati a seconda dei mutevoli interessi delle autorità centrali di Islamabad, tradizionalmente intenti a privilegiare l’etnia punjabi. La presenza a Karachi dei mohajirs è, inoltre, considerevolmente aumentata a partire dal 1971, in seguito alla migrazione di ulteriori gruppi musulmani di lingua urdu provenienti dall’ex Pakistan orientale dopo l’indipendenza del Bangladesh.

 

I motivi degli scontri etnici a Karachi e le possibili conseguenze per l’integrità territoriale del Pakistan

 

Le violenze quotidiane che hanno trasformato Karachi in un pericoloso centro, teatro di scontro tra bande, mafie locali e gruppi armati artefici di rapimenti, estorsioni ed esecuzioni sommarie, è dovuto principalmente alla conflittualità tra i mohajirs e i pashtun, questi ultimi di recente immigrazione. Il nesso tra criminalità e politica è molto forte, mentre le forze di sicurezza locali e le autorità centrali di Islamabad non sono in grado, per il momento, di riportare la città in una situazione di normalità. I partiti politici più importanti di Karachi, il Muttahida Quami Movement (MQM) rappresentante gli urdu, 45% della città, e l’Awami National Party (ANP), partito della minoranza pashtun, 25% degli abitanti di Karachi, si accusano a vicenda per la responsabilità delle violenze; i due gruppi politici, assieme al partito nazionale e governativo del Pakistan People’s Party (PPP), che a Karachi rappresenta gli interessi sindhi, sono i diretti responsabili delle violenze. Queste sono esplose soprattutto a partire dal 27 giugno, quando l’MQM decise di uscire dalla coalizione di governo del Sindh per l’avversione nei confronti dell’ANP e per incompresioni politiche con il governo nazionale di Islamabad guidato dal PPP. Il carattere etnico della città è complicato ulteriormente dalla presenza di altre minoranze, in particolare balochi, punjabi, kashmiri, saraiki e numerose altri gruppi etnici. A Karachi è presente anche una minoranza sciita, la quale si è sovente scontrata con la maggioranza sunnita. I sindhi, 60% della popolazione di Karachi nel 1947, oggi rappresentano il 7% della città.

La massiccia presenza pashtun a Karachi è recente ed è dovuta soprattutto alla considerevole migrazione verso sud delle popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali del Pakistan, soprattutto dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e dalle Federally Administered Tribal Areas (FATA), ma anche dall’Afghanistan; le migrazioni sono state causate dall’invasione sovietica del 1979, da quella USA nel 2011 e dai bombardamenti statunitensi lungo la linea Durand. Le recenti migrazioni di pashtun, ma anche di tagiki, hazara, turkmeni e uzbeki provenienti dall’Afghanistan, hanno modificato considerevolmente il carattere etnico di Karachi, la quale unitamente alle violenze tra urdu e sindhi, è diventata teatro di scontri tra urdu e pashtun, e tra questi ultimi e i sindhi. Senza dimenticare i punjabi, rappresentanti gli interessi dei militari e delle autorità centrali pakistane, attente a favorire una o l’altra etnia a seconda delle circostanze politiche. La recente storia del paese è caratterizzata da questa particolare linea di politica interna.

L’attuale importanza dell’MQM, terzo gruppo politico a livello nazionale, è derivata, infatti, dall’azione governativa del regime di Zia ul-Haq tra anni ’70 e ‘80. Avendo come fine l’indebolimento del PPP e del suo capo, Zulfiqar Ali Bhutto, di etnia sindhi e il cui governo venne rovesciato proprio da Zia, il generale favorì la nascita e il consolidamento politico del partito urdu. L’MQM si rafforzò nel corso degli anni ’80, trasformandosi in un’importante forza di equilibrio nel panorama politico pakistano, alleandosi, a seconda delle circostanze, con il PPP o con la conservatrice Pakistan Muslim League (PML). Dopo il crollo di Zia, l’ISI accusò l’MQM di essere una forza cospirativa filo-indiana, finanziata dai servizi segreti di Nuova Delhi e avente come obiettivo primario la creazione di uno Stato autonomo di lingua urdu, il Jinnahpur con Karachi capitale. Durante gli anni ’90, infatti, l’MQM ha subito una violenta repressione da parte del governo centrale di Islamabad, in particolar modo quando salirono al potere Nawaz Sharif (PML-N) e Benazir Bhutto (PPP). Il partito degli urdu contò invece sull’appoggio del generale Pervez Musharraf, anch’esso di etnia mohajirs. Nell’ultimo decennio, infatti, l’MQM ha registrato una considerevole espansione, aumentando la propria influenza nell’intero paese, ma soprattutto in Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. Diversi analisti sostengono il fatto che l’MQM possa contare attualmente sul decisivo appoggio dell’apparato militare pakistano e dell’ISI, vicini all’etnia punjabi, in modo da poter controbilanciare l’influenza pashtun nel Sindh, ma soprattutto nell’intero Pakistan.

Le violenze a Karachi sono dunque legate alla complicata situazione della politica interna pakistana, ricalcante le differenze etnico-linguistiche del paese. La forza politica dell’MQM non è attualmente riscontrabile solo nella città portuale, ma è evidente nell’intero paese. In questa fase politica è necessario per gli altri partiti, soprattutto per il PPP, scendere a patti con l’MQM, il quale si è trasformato in un indispensabile partito, garante del mantenimento dell’equilibrio politico del Pakistan. A Karachi le violenze sono aumentate in seguito all’abbandono da parte dell’MQM del governo federale del Sindh: i mohajirs accusano Zardari e il PPP di essere troppo vicini all’ANP. Lo scontro tra MQM e governo centrale è legato anche ai recenti arresti di attivisti mohajirs di Karachi accusati di terrorismo.

Una spiegazione delle violenze che stanno attraversando Karachi è connessa certamente alle migrazioni di popolazione pashtun nella città. Non si tratta solamente di un problema sociale ed economico, per l’evidente accresciuta competizione tra etnie diverse nella ricerca di lavoro e nell’acquisto di terre. Una questione fondamentale riguarda una problematica di tipo politico, ovvero quale gruppo etnico assumerà il controllo di Karachi, la città economicamente più importante del Pakistan che garantisce il 68% delle entrate nazionali. Le preoccupazioni dei diversi gruppi etnici sono evidenti: gli abitanti di lingua urdu temono la “talebanizzazione” della città ad opera della minoranza pashtun; questi ultimi denunciano l’eccessiva violenza dei mohajirs; i sindhi osservano negativamente sia i pashtun sia i mohajirs. Tutti e tre i gruppi etnici maggioritari di Karachi accusano il governo centrale di Islamabad di privilegiare l’etnia punjabi, favorendo lo sviluppo del solo Punjab a discapito degli altri territori dello Stato.

Le violenze fra etnie, fomentate dall’MQM, dall’ANP e dal PPP, possono portare a della serie conseguenze non solo per la città, ma anche per il resto del paese, generando una potenziale situazione d’instabilità. Se si pensa all’attuale situazione del Belucistan, tale scenario non sembra lontano dalla realtà. Di fondamentale importanza sono i risvolti geopolitici connessi alla stabilizzazione del paese e l’azione che intraprenderanno i diversi attori internazionali attenti alle sorti del Pakistan e dell’Afghanistan.

 

I collegamenti internazionali delle violenze a Karachi e nel Pakistan

 

Secondo l’ottica pakistana, una delle cause della situazione di completa anarchia e settarismo di Karachi deriva dall’appoggio esterno alle diverse fazioni in lotta. Questo sarebbe garantito in primo luogo dall’India, ma anche da Stati Uniti e Israele. Una delle spiegazioni offerte dal governo nel passato per descrivere la conflittualità del Sindh, ripresa recentemente, è connessa all’azione svolta da attori esterni, i quali aizzano le diverse etnie del paese una contro l’altra, in modo da favorire la destabilizzazione e lo smembramento del Pakistan.

La situazione in Belucistan, zona ricca di gas naturale e minerali, ma molto povera, è particolarmente tesa. Secondo Islamabad, i servizi segreti dell’India appoggerebbero le spinte indipendentiste dei beluci e le violenze anti-punjabi. Il Belucistan è teatro, inoltre, del violento scontro tra governo centrale e movimenti sciiti della regione. Secondo la visuale pakistana, oltre ai servizi segreti indiani, agirebbero in Belucistan la CIA e l’MI6 britannico, i quali fomenterebbero le azioni anti-governative dei beluci. Il Pakistan guarda con sospetto all’attivismo indiano nella città iraniana di Chabahar, anch’essa beluca. L’azione statunitense potrebbe avere dei chiari risvolti negativi per gli interessi cinesi nell’area e per l’Iran, dato l’indipendentismo beluco presente nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan.

Sempre secondo Islamabad, la RAW indiana, il Mossad e la CIA favorirebbero il traffico illegale di armi nell’emporio di Karachi, la cui zona portuale è controllata dall’MQM. All’indomani della visita di Karzai e Zardari a Tehran lo scorso giugno, il ministro degli interni pakistano Rehman Malik ha riferito pubblicamente alla stampa del ritrovamento di armi di fabbricazione israeliana a Karachi.

Il Pakistan, se da una parte ha visto deteriorarsi i propri legami con gli Stati Uniti, ha migliorato i propri rapporti con l’Iran, testimoniati concretamente dal possibile avvio dei lavori in territorio pakistano del gasdotto di collegamento tra Tehran e Islamabad. L’Arabia Saudita osserva con particolare preoccupazione l’avvicinamento tra i due paesi, foriero di una pericolosa messa in discussione del teorema dell’inevitabile scontro e competizione tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano. Un problema comunque di primo piano da risolvere nel dialogo iraniano-pakistano sarà legato al finanziamento del gruppo terroristico Jandullah, il quale opera nel Sistan-Belucistan e, secondo l’Iran, ha legami diretti con l’ISI. L’Iran ha sospetti anche sull’Afghanistan, mentre la stessa Islamabad ritiene che ci siano dei collegamenti tra Tehran e l’indipendentismo beluco in Pakistan. Islamabad ha, inoltre, intensificato i propri rapporti con la Cina. In questo modo il governo pakistano, legandosi maggiormente a Tehran e Pechino, sta aumentando considerevolmente il proprio potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. Un altro fattore da considerare è, inoltre, il crescente interesse di Russia, Iran e Cina per la questione afghana. Gli Stati Uniti guardano naturalmente con estremo interesse l’evolversi della situazione interna del Pakistan, un paese del quale non possono fare a meno per la propria strategia in Afghanistan. Vista la recente intenzione di mantenere una base militare a Kabul fino al 2024 è necessario, nell’ottica statunitense, sostenere un dialogo con i talebani, i quali non appaiono comunque troppo favorevoli alla presenza di truppe nordamericane in Afghanistan; del medesimo parere sono Russia, Cina, Pakistan e Iran. Islamabad, possibile canale privilegiato per il dialogo con i talebani, diventa dunque fondamentale per l’azione statunitense in Afghanistan, data anche l’attuale debolezza politica di Karzai.

La destabilizzazione del Pakistan e il suo potenziale controllo si collegano alle recenti violenze di Karachi, connesse a una strategia volta al favorire lo smembramento del paese asiatico discussa in diversi think tank nordamericani (vedi l’articolo http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Tutto ciò è collegabile alla notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il controllo diretto dell’arsenale nucleare pakistano, alle richieste di Islamabad di poter disporre del diritto di veto per gli unilaterali bombardamenti statunitensi sul proprio territorio e alle schermaglie tra CIA e ISI, con l’insolito avvicendarsi nel giro di pochi mesi di tre diversi capi del servizio segreto statunitense a Islamabad. Se da una parte, inoltre, gli Stati Uniti vogliono ricercare un dialogo con i talebani, dall’altro lato non si curano dei bombardamenti nei confronti di quei gruppi che hanno già raggiunto una pacificazione con il Pakistan, ma che operano in Afghanistan, vedi la rete Haqqani, con possibili ripercussioni negative per la sicurezza interna di Islamabad. Un’altra fondamentale questione riguarda il temine degli aiuti finanziari di Washington nei confronti del Pakistan, uniti alla crisi finanziaria e all’impossibilità da parte degli Stati Uniti di mantenere un costoso apparato militare in Afghanistan, vista anche l’attenzione crescente per il Vicino Oriente e il Nord Africa. Resta da capire se le strategie sul Pakistan discusse nei think tank statunitensi verranno concretamente messe in azione. Sta di fatto che un’interpretazione dell’attuale fase critica del Pakistan è connessa al teatro afghano, poiché il carattere di estrema precarietà del paese può essere valutato come una diretta conseguenza dell’invasione e destabilizzazione dell’Afghanistan, propagatasi successivamente in territorio pakistano. Il collasso del sistema statale è concretamente in atto lungo il confine tra i due paesi e le migrazioni dei pashtun verso Karachi degli ultimi anni rendono la situazione della città e del paese in generale sempre più complicata.

E’ da valutare, inoltre, quanto le violenze a Karachi possano favorire gli interessi statunitensi, vista la sua posizione strategica come unico porto in grado di supportare le truppe NATO in Afghanistan. Kabul non ha collegamenti via mare e risulta essenziale l’attenzione nordamericana su Karachi, importante porto sul Mar Arabico e attualmente punto strategico per il riformimento di mezzi e truppe via mare da indirizzare in Afghanistan. Nell’emporio di Karachi si può individuare un ulteriore elemento che testimonia l’importanza del Pakistan per gli Stati Uniti. Collegato alla questione della città e alle sue minoranze, saranno da valutare anche gli impatti sull’etnia pashtun del potenziale dialogo che potrebbe stabilirsi tra i talebani e gli Stati Uniti, così come il ruolo che ricoprirà il Pakistan nei colloqui.

Dialogo valutato negativamente dall’India e dall’Iran. Per quanto riguarda Nuova Delhi è da valutare quanto convenga all’India fomentare l’indipendentismo delle minoranze etniche presenti in Pakistan. La destabilizzazione dell’Afghanistan, avvenuta a partire dal 2001, con la successiva caotica situazione pakistana, non è detto che non si espanda anche in India. Se da una parte, con l’annichilimento del Pakistan si conorerebbe il sogno della definitiva sconfitta del nemico, da una diversa prospettiva tutto ciò potrebbe comportare delle serie ripercussioni per l’autonomismo e l’indipendentismo di vaste aree interne del paese, soprattutto in Kashmir e nel nord-est indiano. Se da una parte gli Stati Uniti hanno come obiettivo il caos per poi controllare la situazione, sembra che recentemente Nuova Delhi stia addontando una politica più accorta nei confronti del Pakistan.

 

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

samedi, 06 août 2011

Le cauchemar pakistanais

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Le cauchemar pakistanais

Afghanistan, Pakistan, Inde: Pourquoi la guerre dans l’Hindou-Kouch va durer encore longtemps

par Jürgen Rose*

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

AFPAK: c’est ainsi que les géostratèges appellent le théâtre des hostilités dans l’Hindou-Kouch qui oppose deux acteurs étroitement liés: l’Afghanistan et le Pakistan. Ces deux Etats sont davantage liés que séparés par une frontière longue de 2640 kilomètres qui traverse le territoire de 40 millions de Pachtounes, divisés en 65 tribus, qui vivent le long de cette ligne. Cette frontière est traversée quotidiennement par quelque 200 000 de ces personnes. C’est sous le couvert de cet incessant flux humain que tous les combattants irréguliers peuvent se déplacer entre leurs zones d’opérations en Afghanistan et leurs zones de repli au Pakistan, combattants qui, par leur guérilla, infligent depuis des années des pertes de plus en plus importantes aux troupes d’occupation internationales dans l’Hindou-Kouch.
Cette situation constitue la raison principale pour laquelle le président George W. Bush avait déjà ordonné des opérations de commando de ses Special Forces et des attaques de drones sur le territoire du Pakistan. Fraîchement entré en fonctions, Barack Obama, couronné du prix Nobel de la paix à Oslo, a ordonné d’intensifier ces lâches attaques de drones – pilotées depuis des postes de commandement inattaquables aux Etats-Unis, loin du théâtre des hostilités – qui font des quantités de victimes civiles innocentes. En outre, le chef de guerre du Bureau ovale exerce des pressions de plus en plus fortes sur Islamabad pour que l’armée pakistanaise «enfume» les nids de résistance et les zones de repli de la guérilla dans les zones tribales de la North West Frontier Province (NWFP) afin de mettre fin au conflit en Afghanistan.
Toutefois, cette stratégie, qui mise sur une victoire militaire sur la guérilla semble condamnée à l’échec. En effet, elle ignore des paramètres fondamentaux qui déterminent la politique pakistanaise, surtout la situation difficile dans laquelle se trouve enfermé le Pakistan entre l’Afghanistan à l’ouest et l’Inde à l’est. Cette situation conflictuelle a été désignée par l’acronyme plus approprié d’AFPAKIND. Ce «dilemme sandwich» résulte du conflit existentiel dans lequel se trouve le Pakistan, depuis sa fondation, avec la grande puissance nucléaire qu’est l’Inde dont la manifestation la plus visible est le conflit à propos du Cachemire qui a fait l’objet de trois guerres mais n’est toujours pas résolu.
L’engagement indien en Afghanistan ne peut qu’inquiéter les généraux pakistanais qui voient de toute façon leur pays menacé en permanence sur son front oriental. C’est que là-bas, pour ainsi dire à l’arrière du Pakistan, l’Inde n’a pas seulement créé un réseau de bases de ses Services secrets RAW appelées officiellement «consulats» ou «centres d’information». De là elle apporte notamment un soutien à des rebelles séparatistes dans la province pakistanaise du Béloutchistan et pilote des attaques de cibles situées au Pakistan. En outre, Delhi amène ses conseillers militaires à former également les forces armées afghanes (ANA) et investit d’importantes sommes d’argent dans la reconstruction et le développement de cet Etat d’Asie centrale. Dans ce but, elle coopère surtout avec les forces de l’Alliance du Nord que les Etats-Unis ont catapulté au pouvoir en 2001 et en même temps avec le régime taliban pachtoune soutenu par les Services de renseignements «Inter Services Intelligence» (ISI) et l’armée qui sert de représentant des intérêts stratégiques du Pakistan.
Il n’y a donc rien d’étonnant à ce qu’Islamabad associe le régime de Kaboul, de plus en plus lié à l’Inde, avec le développement d’un «Front occidental» visant à soutenir le terrorisme au-delà de la frontière du Pakistan et le considère comme un ennemi. L’importante menace pour ses intérêts stratégiques qui en résulte a pour conséquence que les militaires pakistanais, avec l’aide de l’ISI, continuent de soutenir de toutes leurs forces la résistance afghane selon la devise «L’ennemi de mon ennemi est mon ami.» Robert D. Blackwill, analyste américain réputé, a noté récemment à ce sujet dans un article de Foreign Affairs ce qui suit: «L’Armée pakistanaise, dominée par son attitude hostile à l’Inde et le désir de profondeur stratégique ne va ni cesser de soutenir les talibans afghans qui, pendant de nombreuses années, ont défendu leurs intérêts et de leur offrir un sanctuaire, ni accepter un Afghanistan vraiment indépendant.» Cette résistance, constituée avant tout des talibans, du réseau Haqqani et des combattants de Gulbuddin Hekmatyar, se recrute avant tout parmi les Pachtounes vivant de part et d’autre de la frontière afghano-pakistanaise. En sous-main, les militaires pakistanais concèdent sans détours qu’ils collaborent naturellement avec ces groupements parce qu’ils ont besoin en Afghanistan d’alliés sur lesquels ils puissent compter.
Pour Islamabad, le caractère fâcheux de cette situation consiste dans le fait qu’il doit d’une part soutenir la lutte des résistants afghans contre les troupes d’occupation internationales jusqu’à ce qu’elles s’en aillent afin que les forces valables pour une alliance contre l’Inde reprennent le pouvoir à Kaboul. L’ex-chef de l’ISI, le général de division Asad M. Durrani, a déclaré à ce sujet lors d’une interview menée par l’auteur de ces lignes: «Nous essayons naturellement de maintenir absolument le contact avec toutes les forces de la résistance et en particulier avec les talibans depuis qu’ils sont venus au pouvoir en 1995 en Afghanistan. Mais je serais personnellement très reconnaissant si l’ISI soutenait la résistance afghane. En effet, c’est seulement si la résistance afghane – celle des «nouveaux talibans», pas celle du mollah Omar – demeure suffisamment forte que les troupes étrangères se retireront. Sinon, elles resteront. […] Même si, depuis 2001, cela ne correspond plus à la position officielle du gouvernement pakistanais, les talibans, qui s’opposent aux forces d’occupation en Afghanistan, mènent à mon avis notre guerre au sens où, s’ils réussissent, les troupes étrangères se retireront. Mais s’ils échouent et si l’Afghanistan reste sous domination étrangère, nous continuerons d’avoir des problèmes. Si L’OTAN, la puissance militaire la plus forte du monde, s’incruste pratiquement à la frontière pakistanaise pour des raisons d’intérêts économiques et géopolitiques – songez au new great game – cela créera un énorme malaise au Pakistan.»
D’autre part cependant les forces armées pakistanaises, pour empêcher, en territoire pakistanais, des opérations militaires de plus grande ampleur que la guerre des drones et les opérations de commando des Special Forces, se voient contraintes, en tant qu’alliées des Etats-Unis dans la «guerre contre le terrorisme», d’intervenir contre les combattants irréguliers. Cette situation conflictuelle constitue en quelque sorte la garantie fatale que la guerre dans l’Hindou-Kouch durera aussi longtemps que les troupes occidentales d’occupation resteront dans le pays et que le conflit existentiel pakistano-indien ne sera pas résolu, celui-ci n’étant certes pas forcément dans l’intérêt absolu des généraux pakistanais car la paix avec l’Inde exposerait l’Etat et la société à une pression de légitimité durable et mettrait en péril l’aide considérable des Etats-Unis en matière d’armement. Dans ce contexte, l’assassinat du chef terroriste Oussama ben Laden, salué par le gouvernement Obama comme un succès politique éclatant, n’aura que peu d’influence sur la guerre en Afghanistan, d’autant plus que la politique d’occupation de l’«unique grande puissance» va de toute façon se poursuivre indéfiniment étant donné ses intérêts stratégiques et géoéconomiques à long terme, malgré toutes les déclarations sur le retrait des troupes. Par conséquent tout laisse penser que ces prochaines années, on va continuer à mourir et à tuer copieusement dans le lointain Hindou-Kouch, avec la participation fidèle de la vassale des Etats-Unis qu’est la Bundeswehr, cela s’entend.    •

Il faut cesser de livrer des armes a Benghazi

Le ministre russe des Affaires étrangères, Lavrov, a reproché à son homologue français Juppé, lors d’une visite à Moscou la semaine passée, d’avoir interprété les résolutions de l’ONU d’une manière très libre. […]
Lundi, le président d’Afrique du Sud, Zuma, avait présenté le nouveau plan de paix de l’Union africaine au président russe Medvedjew et au secrétaire général de l’OTAN Rasmussen lors de pourparlers à Sotchi. Des diplomates ont rapporté, qu’un cessez-le-feu était prévu, qui pourrait aboutir, par un dialogue national et une phase transitoire, finalement à une démocratie et des élections.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 6/7/11

L’Union africaine: Ne pas arrêter Kadhafi

Tripolis, le 3 juillet (dapd). Le Président de la Commission de l’Union africaine, Jean Ping, a invité tous les gouvernements du continent à ignorer le mandat d’arrêt de la Cour pénale internationale contre le chef d’Etat libyen Kadhafi. Le tribunal de la Haye a été «discriminatoire» et poursuit uniquement des crimes commis en Afrique tout en ignorant ceux que les puissances occidentales ont commis en Irak, en Afghanistan ou au Pakistan, a déclaré Ping vendredi soir.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 4/7/11

mardi, 31 mai 2011

Peter Scholl Latour: révolutions arabes et élimination de Ben Laden

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Révolutions arabes et élimination de Ben Laden

 

Entretien avec Peter Scholl-Latour

 

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

 

Q. : Professeur Scholl-Latour, vous revenez tout juste d’un voyage en Algérie. Quelle est la situation aujourd’hui en Algérie ? Une révolution menace-t-elle aussi ce pays ?

 

PSL : La situation en Algérie est plutôt calme et j’ai même pu circuler dans les campagnes, ce qui n’est pas sans risques, mais notre colonne a bien rempli sa mission. Vers l’Ouest, j’ai pu circuler tout à fait librement mais en direction de l’Est, de la Kabylie, je suis arrivé seulement dans le chef-lieu, Tizi Ouzou ; ailleurs, la région était bouclée. Pas tant en raison d’actes terroristes éventuels —ceux-ci surviennent mais ils sont assez rares—  mais parce que des enlèvements demeurent toujours possibles et les autorités algériennes les craignent.

 

Q. : Au contraire de l’Algérie, la Libye ne retrouve pas le calme, bien au contraire. Tout semble indiquer que la situation de guerre civile conduit au blocage total. Comment jugez-vous la situation ?

 

PSL : Je pense qu’à terme Kadhafi et son régime vont devoir abandonner la partie ou que le Colonel sera tué. Mais ce changement de régime et cette élimination du chef n’arrangeront rien, bien évidemment, car, en fin de compte, les deux régions qui composent la Libye, la Tripolitaine et la Cyrénaïque sont trop différentes l’une de l’autre, sont devenues trop antagonistes, si bien que nous nous trouverons toujours face à une situation de guerre civile. Surtout que le pays n’a jamais connu de système politique démocratique. Cela n’a jamais été le cas ni dans la phase brève de la monarchie ni auparavant sous la férule italienne : finalement, il n’y a pas de partis constitués en Libye ni de personnalités marquantes qui pourraient s’imposer au pays tout entier. On peut dire que le système ressemble, mutatis mutandis, à ceux qui régnaient en Tunisie et en Egypte.

 

Q. : Donc ce qui menace la Libye, c’est un scénario à l’irakienne…

 

PSL : Cela pourrait même être pire. Nous pourrions déboucher sur un scénario à la yéménite (BT : faibles structures étatiques et conflits intérieurs) ou, plus grave encore, à la somalienne (BT : effondrement total de toutes les structures étatiques et domination de groupes islamistes informels). La réaction générale des Algériens est intéressante à observer : je rappelle que, dans ce pays, les militaires avaient saisi le pouvoir en 1991, parce que le FIS islamiste, à l’époque encore parfaitement pacifique, avaient gagné les élections libres et emporté la majorité des sièges ; à la suite du putsch militaire, les Algériens ont connu une guerre civile qui a fait 150.000 morts. Aujourd’hui, l’homme de la rue en Algérie dit qu’il en a assez des violences et des désordres. Les Algériens observent avec beaucoup d’inquiétude les événements de Libye et se disent : « Si tels sont les effets d’un mouvement démocratique, alors que Dieu nous en préserve ! ».

 

Q. : Quel jugement portez-vous en fait sur les frappes aériennes de l’OTAN contre Kadhafi, alors que la résolution n°1973 de l’ONU n’autorise que la protection des civils ? Il semble que l’OTAN veut imposer de force un changement de régime…

 

PSL : Bien entendu, l’OTAN a pour objectif un changement de régime en Libye. Le but est clairement affiché : l’OTAN veut que Kadhafi s’en aille, y compris sa famille, surtout son fils Saïf al-Islam et tout le clan qui a dirigé le pays pendant quarante ans. Pourra-t-on renverser le régime de Kadhafi en se bornant seulement à des frappes aériennes ? Ce n’est pas sûr, car les insurgés sont si mal organisés et armés qu’ils essuient plus de pertes par le feu ami que par la mitraille de leurs ennemis.

 

Q. : Comment peut-on jauger la force des partisans de Kadhafi ?

 

PSL : A Tripoli, c’est certain, les forces qui soutiennent Kadhafi sont plus fortes qu’on ne l’avait imaginé. Certaines tribus se sont rangées à ses côtés, de même qu’une partie de la population. Car, en fin de compte, tout allait bien pour les Libyens : ils avaient le plus haut niveau de vie de tout le continent africain. Certes, ils étaient complètement sous tutelle, sans libertés citoyennes, mais uniquement sur le plan politique. Sur le plan économique, en revanche, tout allait bien pour eux. Kadhafi dispose donc de bons soutiens au sein de la population, ce que l’on voit maintenant dans les combats qui se déroulent entre factions rivales sur le territoire libyen. De plus, dans les pays de l’aire sahélienne, il a recruté des soldats qu’il paie bien et qui combattent dans les rangs de son armée.

 

* * *

 

peterscholllatour.jpgQ. : Après la mort d’Ousama Ben Laden, le terrorisme islamiste connaîtra-t-il un ressac ? Al-Qaeda est-il désormais un mouvement sans direction ?

 

PSL : Au cours de ces dernières années, Ousama Ben Laden n’a plus joué aucun rôle et je ne sais pas s’il a jamais joué un rôle… Ben Laden était un croquemitaine, complètement fabriqué par les Américains. Ousama Ben Laden n’a donc jamais eu l’importance qu’on lui a attribuée. Le rôle réel de Ben Laden relève d’un passé bien révolu : il a été une figure de la guerre contre l’Union Soviétique, qui, dans le monde arabe, en Arabie Saoudite, en Iran et ailleurs, a coopéré avec les Américains et les services secrets pakistanais pour récolter de l’argent et des armes afin d’organiser la résistance afghane contre les Soviétiques. Dès que ceux-ci ont été vaincus, il s’est probablement retourné contre les Américains mais il n’a certainement pas organisé les prémisses de l’attentat contre le World Trade Center.

 

Q. : Et qu’en est-il d’Al-Qaeda, qui, selon toute vraisemblance, semble agir depuis l’Afghanistan ?

 

PSL : Les combattants d’Al-Qaeda, qui ont été actifs sur la scène afghane, ne sont pas ceux qui se sont attaqués au World Trade Center. Les auteurs de cet attentat étaient des étudiants, dont une parte est venue d’Allemagne et qui étaient de nationalité saoudienne. Ensuite, il faut savoir que le mouvement al-Qaeda n’est nullement centralisé et, de ce fait, centré autour de la personnalité d’un chef, comme on aime à le faire croire. La nébuleuse Al-Qaeda est constituée d’une myriade de petits groupuscules et c’est la raison majeure pour laquelle je ne crois pas qu’elle cessera d’agir à court ou moyen terme.

 

Q. : Les Etats-Unis veulent étendre à la planète entière la « démocratie » et l’Etat de droit, mais voilà que Ben Laden est abattu sans jugement par un commando d’élite. Cette action spectaculaire aura-t-elle des effets sur la crédibilité des Etats-Unis au Proche et au Moyen Orient, surtout sur les mouvements de démocratisation ?

 

PSL : Cela n’aura absolument aucun effet. Car les Etats du Proche ou du Moyen Orient agiraient tous de la même façon contre leurs ennemis. Au contraire, dans ces Etats, on se serait étonné de voir un procès trainer en longueur. De plus, Ousama Ben Laden aurait pu dire des choses très compromettantes pour les Américains. D’autres gouvernements, y compris en Europe (sauf bien sûr en Allemagne…), auraient d’ailleurs agi exactement de la même façon que les Américains.

 

Q. : Pendant des années, Ben Laden a pu vivre tranquillement au Pakistan. Dans quelle mesure le Pakistan est-il noyauté par les islamistes ?

 

PSL : La popularité de Ben Laden équivaut à zéro en Afghanistan, pays à partir duquel il avait jadis déployé ses actions, parce que les gens ne le connaissent quasiment pas là-bas. Mais au Pakistan, il est désormais devenu une célébrité, parce que son élimination a été perpétrée en écornant la souveraineté pakistanaise. Le Pakistan ne reproche pas tant aux Américains d’avoir éliminé Ben Laden, mais d’avoir enfreint délibérément, et de manière flagrante, la souveraineté territoriale de leur pays, dans la mesure où Washington n’a jamais informé les autorités pakistanaises de son intention d’envoyer un commando pour liquider le chef présumé d’Al-Qaeda. C’est essentiellement cela que les Pakistanais reprochent aujourd’hui aux Américains. Cette manière d’agir est contraire à l’esprit de tout bon partenariat, un partenariat que l’on dit exister entre les Etats-Unis et leur allié pakistanais.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°21/2011 ;  http://www.zurzeit.at/ ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

vendredi, 27 mai 2011

USA und Pakistan fast im offenen Krieg

USA und Pakistan fast im offenen Krieg. Chinesisches Ultimatum an die Adresse Washingtons: kein Angriff!

Webster G. Tarpley

US-Pak-Relations-pakistan defence news blog.jpgChina hat die Vereinigten Staaten offiziell wissen lassen, dass ein von Washington geplanter Angriff auf Pakistan als Akt der Aggression gegen Peking ausgelegt werden wird. Diese unverblümte Warnung ist das erste seit 50 Jahren – den sowjetischen Warnungen während der Berlin-Krise von 1958 bis 1961 – bekannt gewordene strategische Ultimatum, das den Vereinigten Staaten gestellt wird. Es ist ein Anzeichen dafür, dass sich die Konfrontation zwischen den USA und Pakistan zu einem allgemeinen Krieg auszuweiten droht.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/webster-g-tarpley/usa-und-pakistan-fast-im-offenen-krieg-chinesisches-ultimatum-an-die-adresse-washingtons-kein-angr.html

dimanche, 15 mai 2011

Obama, le Pakistan, Ben Laden: des manoeuvres tortueuses...

Obama, le Pakistan, Ben Laden : des manoeuvres tortueuses...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Nous reproduisons ci-dessous une analyse de Jean-Paul Baquiast, publiée sur son site Europe solidaire, à propos de l'opération "Ben Laden" et de ses développements stratégico-médiatiques.

 

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Obama, le Pakistan, Ben Laden

Des nuages de fumées de plus en plus opaques continuent à être émis par les Etats-Unis pour camoufler aux yeux du monde les manoeuvres tortueuses impliquant les relations entre l'administration fédérale, le lobby militaro-industriel, le Pakistan, nombre d'autres protagonistes moins importants et dont l'affaire Ben Laden représente la partie émergée.

Nous avons dans un article précédent parlé d'enfumage, principalement dirigé contre ceux qui dans le monde entier ont le tort de chercher à comprendre le dessous des cartes. L'enfumage continue plus que jamais mais on peut regretter que Barack Obama, présenté à l'intérieur et à l'extérieur comme un parangon de bonne foi, en soit l'instrument sinon l'instigateur principal.

Il suffit de jeter un coup d'oeil sur les éditorialistes non alignés de la presse américaine pour se rendre compte que plus personne sauf les naïfs invétérés ne croit en Amérique au récit héroïque présenté par Obama lui-même en annonçant le coup de mains ayant permis de supprimer Ben Laden. Existait-il encore un personnage de ce nom doté du curriculum vitae que le renseignement américain lui avait inventé. Dans l'affirmative, à supposer qu'un Ben Laden très diminué ait survécu en se cachant à Abbottabad, près d'Islamabad, comment croire que tant le Pakistan que l'Amérique aient pu l'ignorer jusqu'à ces derniers jours. Mais s'ils ne l'ignoraient pas, pourquoi faisaient-ils comme s'ils l'ignoraient et pourquoi, subitement, manifestement de connivence, l'ont-ils fait disparaître un beau jour.

L'hypothèse la plus répandue, dans les médias américains non conformistes, est que le Pentagone, la CIA et Obama, les trois grands protagonistes de cette aventure, ont eu besoin du « mythe Ben Laden » pour justifier ces dernières années, non seulement une mobilisation permanente de type sécuritaire qualifiée de « global war on terror » mais l'occupation de l'Afghanistan. Il s'est cependant trouvé que le coût de la guerre, comme ses résultats de plus en plus désastreux, obligent Obama à précipiter le retrait. Mais devant l'hostilité de la CIA représentée par son omniprésent directeur Léon Panetta, comme plus généralement de celle du lobby militaire représenté par le Pentagone, qui n'auraient pas accepté un départ pur et simple, le trio a été obligé d'inventer un éclatant fait d'armes qui rendra dans les semaines à venir ce retrait beaucoup plus acceptable. L'économie budgétaire en résultant, comme sa nouvelle aura de chef de guerre, permettra ainsi à Barack Obama d'aborder se réélection dans de bien meilleurs conditions qu'auparavant. Il saura en compensation mettre un frein aux propositions de réduction du budget militaire qui continuent à circuler dans certains cercles démocrates. 

Il semble que Panetta ait été convaincu d'accepter ce deal. En tant que sympathisant démocrate, il devrait en principe « rouler pour Obama », que ce soit aujourd'hui ou demain. Mais la CIA se garde des biscuits si l'on peut dire. Elle vient d'annoncer que Ben Laden, loin d'être un grand malade inoffensif comme le prétendaient les conspirationnistes, préparait de nouveaux attentats sur le sol américain. La CIA dispose surtout de l' « immense » réserve des documents saisis sur les ordinateurs et disques durs de Ben Laden, qu'elle sera la seule à déchiffrer. Elle pourra donc annoncer au monde exactement ce qu'elle voudra pour justifier les politiques futures du Pentagone – Pentagone dont assez normalement Panetta devrait prendre la tête en remplacement de Robert Gates apparemment disqualifié. Il s'ensuit que la liberté d'action future de Barack Obama sera nécessairement très contrainte par les révélations que les militaires et les gens du renseignement jugeront bon de faire (nous allions dire d'inventer) à partir de tous les documents qu'ils analyseront.


Quant au Pakistan, bien malin, même à Washington, qui pourrait dire ce qu'il veut vraiment, compte tenu des diverses factions qui se disputent le gouvernement, dont l'ISI et l'armée ne sont pas les moindres. On peut penser que ces dernières années, il avait intérêt lui-aussi à encourager le mythe Ben Laden, peut-être en accord secret avec la CIA. Il ne pouvait pas cependant laisser supposer qu'en fonction de cet accord il protégeait directement ledit Ben Laden, aux yeux par exemple de l'Inde.

Mais aujourd'hui, plus que les survivances d'El Qaida, aujourd'hui, ce sont les Talibans qui importent aux yeux du Pakistan. Il semble que le départ américain étant désormais programmé, il lui est devenu impératif de s'entendre avec eux pour que l'Afghanistan à ses frontières occidentales continue à lui assurer un potentiel back-up à l'égard de l'Inde. Or Ben Laden n'était en rien apprécié par les Talibans, qui y voyaient plutôt semble-t-il une émanation de l'Arabie saoudite.


Certes, orchestrée par la classe politique unanime - et pas seulement par l'opposition -, la colère monte au Pakistan. Elle éclabousse à la fois les responsables du gouvernement civil et le tout puissant appareil militaire. On leur reproche indifféremment leur dissimulation ou leur aveuglement. Mais on peut penser qu'une fois sorti du guêpier que représentait la présence de Ben Laden, ces deux forces dirigeantes s'entendront à nouveau pour continuer à ménager l'Amérique tout en jouant divers double-jeux avec les gouvernements de la région.

Ce que nous continuons pour notre compte à trouver affligeant, c'est la candeur avec laquelle les Européens admettent le récit héroïque présenté par Obama lui-même, alors que, comme nous l'avons indiqué, un nombre croissant de ses compatriotes refusent dorénavant de le laisser duper.

Jean-Paul Baquiast (Europe solidaire, 9 mai 2011)

 

Der Mythos von Abbottabad

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Der Mythos von Abbottabad

Michael WIESBERG

Ex: http://ww.jungefreiheit.de/

Es ist Zeit, aus der medial verabreichten Jubel-Narkose in der Causa Osama bin Laden (OBL) aufzuwachen und den Verstand wieder einzuschalten. An dieser Stelle möchte ich ein wenig Starthilfe in Form von offenen Fragen und Gedankenspielen geben, die sich im Hinblick auf die Tötung des „Terrorfürsten“ aufdrängen, die in westlichen Medien als Heldenstück der US-Navy-Seals beziehungsweise als Ausdruck der Entschlossenheit von US-Präsident Obama verklärt worden ist.

Bilal-Stadt, der nordöstliche Vorort von Abbottabad und OBL letzter Aufenthaltsort, zirka 50 Kilometer Luftlinie von Islamabad entfernt, hat einen Militärbezirk, was unter anderem die Anwesenheit von Sicherheitspersonal und Geheimdienstmitarbeitern impliziert. Ibn Ladens Haus befand sich etwa 500 Meter entfernt von der pakistanischen Militärakademie Kakul. Fremde, die keinen militärischen Hintergrund haben, müssen hier über kurz oder lang auffallen. Überdies bot sich keine direkte Fluchtmöglichkeit in Richtung derjenigen Gebiete Afghanistans, die von der Taliban kontrolliert werden. Warum ist Ibn Laden samt Familie gerade hier untergetaucht?

Was passierte mit den Leichen der Familienangehörigen?

Neben Ibn Laden sollen weitere Personen umgekommen sein, angeblich auch ein Sohn Ibn Ladens. Was ist aus ihren Leichen geworden beziehungsweise wo sind diese Leichen? Warum hielt sich OBL ausgerechnet in einem auffälligen, „festungsartig“ ausgebauten Wohnkomplex auf, der die umliegenden, deutlich kleineren Häuser klar überragte? Naheliegend wäre es gewesen, eines der unauffälligen kleineren Häuser auszuwählen.

Die letzten Guantánamo-Dokumente, die via Wikileaks veröffentlicht worden sind, enthüllen, daß US-Geheimdienste seit längerem wußten, daß sich OBL und seine Familie oder Teile seiner Familie in Abbottabad aufhalten. Wurde das Kommandounternehmen vorzeitig vom Zaun gebrochen, um zu verhindern, daß Ibn Laden nach Bekanntwerden dieser Dokumente den Standort wechselt? Zur Erinnerung: Der Libyer Abu al-Libi, ein El-Kaida-Kurier, wurde am 2. Mai des Jahres 2005 in der nahe Abbottabad gelegenen Stadt Mardan verhaftet. Im Januar 2011 stellten Fahnder Umar Patek, einen der Planer des Attentats im Jahr 2002 auf der indonesischen Ferieninsel Bali, in Abbottabad. Abbottabad erfreute sich offensichtlich in El-Kaida-Kreisen einer gewissen Beliebtheit.

FBI-Fahndungsliste führt die Vorgänge von 9/11 nicht auf

Warum wird immer wieder behauptet, OBL sei der Drahtzieher der Anschläge vom 11. September 2001 gewesen, obwohl er laut FBI wegen dieser Anschläge gar nicht gesucht wurde? Laut Fahndungsliste des FBI – Danke an Rainer Rupp, das er darauf in der Jungen Welt erneut aufmerksam gemacht hat – wurde er wegen der Anschläge auf die US-Botschaften in Nairobi und Daressalam gesucht, nicht aber wegen der Vorgänge im Zusammenhang mit 9/11.

Wie bei den Anschlägen am 11. September 2001 wurde auch diesmal die Erhebung von wichtigen Beweismitteln verunmöglicht. Eine Obduktion der Leiche OBL beziehungsweise eine eindeutige Identifikation seiner Person durch unabhängige Experten konnte nicht stattfinden. Die digitale „Daten-Goldader“, die OBL angeblich hinterlassen haben soll, eröffnet den USA neue Optionen, dort zu intervenieren, wo diese es gerade für angezeigt halten. Diese Daten könnten der Generalschlüssel für einen „Krieg gegen den Terror“ werden, der alle Konventionen hinter sich läßt. Abbottabad wäre vor diesem Hintergrund zwar das Ende der Ära OBL, bedeutet möglicherweise aber den Auftakt für eine neue Ära des Antiterrorkrieges, mit dem die USA seit der Präsidentschaft von George W. Bush ihre geostrategische Interessen zu bemänteln suchen.

El Kaida, so eine der letzten Meldungen, soll in einem Posting in „islamistischen Internetforen“ bestätigt haben, daß die militärische Operation zur Tötung von OBL am Sonntag erfolgreich gewesen sei und hilft dem Weißen Haus damit, bösartige Verschwörungstheorien zu entkräften. Wie hilfreich! Bezeichnend bleibt das, was ein Sprecher des Weißen Hauses anmerkte, nämlich daß El Kaida damit nur das „Offensichtliche“ anerkenne. Auf die Frage nach weiteren Details der Operation erklärte er, es sei „extrem wichtig“ [!], daß er darüber nichts mehr sage. Dieser Sprecher wird seine Gründe dafür haben, warum er „darüber“ lieber nichts mehr sagt ...

Michael Wiesberg, 1959 in Kiel geboren, Studium der Evangelischen Theologie und Geschichte, arbeitet als Lektor und als freier Journalist. Letzte Buchveröffentlichung: Botho Strauß. Dichter der Gegenaufklärung, Dresden 2002.

En la muerte de Bin Laden

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En la muerte de Bin Laden

Ex: http://infokrisis.blogia.com/

Info-krisis.- El 2 de mayo han matado a Bin Laden. Peor fue lo del parque de Monteleón ese mismo día en 1808. De alguna manera se tenía que acabar con la historia improbable de un terrorista que durante 10 años ha mantenido en jaque a los servicios de inteligencia y a las policías de todo el mundo. Y lo he hecho un triste 2 de mayo. Hay algunas reflexiones que se me ocurre en este momento.

*     *     *

Las cosas han cambiado mucho en los últimos 10 años. En 2001, cuando Bush utilizó los dos mil y pico muertos de las Torres Gemelas como excusa para emprender dos guerras coloniales, los EEUU todavía aspiraban a ser “la ciudad en la colina”, el país modelo de virtudes con su “destino manifiesto”, recompensado por Dios con la hegemonía mundial. Al menos eso se creía en el “cinturón de la Biblia” y entre los cristianos “renacidos”. Y con mucho más fundamento lo creían también los cerebros neoconservadores que, como el “primo de Zumosol” querían enseñar a diestro y siniestro como se mantiene una “voluntad de imperio” (con minúsculas) rentable para los negocios.

Pero de 2001 a 2011 han ocurrido muchas cosas: el ascenso de China y de los países emergentes, la gran crisis económica de 2007, la recomposición de Rusia, las revueltas árabes, el empantanamiento en Irak y Afganistán y, sobre todo, una deuda interna que supera el 14% del PIB norteamericano y que no hay forma de disminuir, han hecho que cada vez más se tambalee la posición de los EEUU tanto en el exterior como incluso en el interior.

Por otra parte, los idus de la crisis han llegado, pero no han pasado. Y en la Casa  Blanca, hoy se respira un ambiente ligeramente más realista: los EEUU tienen los días contados como potencia hegemónica mundial. De hecho, si hoy no se han declarado en quiebra es gracias a las inyecciones diarias de fondos en las Bolsas norteamericanas, fondos que vienen de China, petrodólares, euros, libras esterlinas, etc. Obama parece el hombre que si logra mantenerse otros cuatro años en el poder tendrá el triste honor de certificar la quiebra del “imperio norteamericano” y ser su enterrador oficial. Esa quiebra es hoy irreversible y los EEUU como todo imperio morirá por su poder hipertrófico y su gigantismo.

Pero, además, incluso la única oposición digna de tal nombre que tiene Obama, el Tea Party, ya no cree siquiera en el “terrorismo internacional”. Para ellos, la verdadera amenaza es el “comunismo”. Allí se entiende por “comunismo” lo que aquí quiere decir “socialismo” y allí lo que aquí se considera “socialdemocracia” es llamado también “comunismo”. Por eso no puede extrañarnos que el Tea Party (véase el artículo http://info-krisis.blogspot.com/2011/03/el-ultimo-grito-de-la-derecha.html) se manifieste incrédulo ante el “terrorismo internacional” y haya introducido un giro en los sectores neoconservadores norteamericanos: el “enemigo” no es ya el “fundamentalismo islámico”, sino el “comunismo” porque “ya está en el poder con Obama”. ¿La prueba? La miserable reforma de la sanidad norteamericana considerada como iniciativa “socialista”. El “enemigo” ya no es el “terrorismo internacional” sino el “comunismo anidado dentro de la administración gracias a Obama.

Si Al-Qaeda sirvió para que ese mastuerzo analfabestia que fue Bush pudiera prestigiarse a costa de ejercer como “master and commander” y si utilizó los extraños ataques del 11-S para declarar sus dos guerras de conquista que han enriquecido extraordinariamente a sus amigos del complejo militar-petrolero-industrial y han sumido un poco más a los EEUU en el pozo sin fondo del déficit, a Obama, ni Bin Laden, ni Al-Qaeda le servían absolutamente para nada. Además no eran cosa suya. Era necesario, pues, dar el carpetazo final, a la primera oportunidad. Y esta se ha presentado el 2 de mayo de 2011.

Poco importa quién ha muerto en Pakistán, si es que ha muerto alguien, y poco importa si es el auténtico Bin Laden o un actor, o un muñeco de goma. Siempre quedará la duda. Lo han hecho de tal manera que ya en los momentos de escribir estas líneas se especulan con tres o cuatro versiones diferentes de la “operación”, contradictorias entre sí. ¿A quién se le ocurre “enterrar el cadáver en el mar”? ¿Tanto cuesta meterlo en el pasapuré? ¿Y qué me dicen de la menos truculenta cremación que siempre permite esparcir las cenizas sin dejar rastros? Aunque lo normal hubiera sido que habiendo cometido atentados –presuntamente– en medio mundo, el cadáver fuera presentado a la “comunidad internacional” para que ésta pudiera determinar que, efectivamente, se trataba de aquel que los Seals pretendían que se trataba y que el ADN recogido correspondía al del cadáver.

Los EEUU han llevado el desenlace del Caso Bin Laden tan mal como construyeron al personaje. Si éste ha podido pasar como fundador de una extraña “franquicia” terrorista ello ha sido posible gracias a la credulidad de una población anestesiada y por la presión psicológica de unos medios de comunicación en su mayoría acríticos. El Caos Bin Laden coleará durante años y las versiones que aparecerán sobre su muerte serán tan misteriosas como todo lo que ha rodeado al personaje desde hace 20 años.

*     *     *

Había prisa en los últimos tiempos en pasar la página Bin-Laden. De un lado porque en los últimos 20 días, el presidente Obama está asaeteado por quienes dudan si nació en el corazón de África o si nació en Haway. Este era un buen momento para borrar a Bin Laden en la seguridad de que esta noticia taparía a cualquier otra, y acallaría las dudas sobre el presidente.

De otro lado, algo está pasando desde hace seis meses en el mundo árabe cuya importancia aún no puede valorarse, pero, en cualquier caso no conviene dejar atrás una pieza como Bin Laden a través del cual ya no se puede explicar nada: porque en ninguna de estas revueltas árabes ha aparecido Al-Qaeda, ni franquiciado alguno. Y si eso es así –y así es, porque de haber sido otra cosa los medios lo hubieran alardeado en portada y a grandes titulares– es evidente que el fundamentalismo islámico, aún existiendo, no tiene nada que ver con una Al Qaeda que nadie sabe dónde está.

Si Al Qaeda existiera, su presencia habría sido notable en las revueltas árabes. No lo ha sido. Al Qaeda es el gran ausente de las convulsiones árabes, simplemente porque no tiene entidad real, ni probablemente la haya tenido nunca más allá de unas docenas de islamistas chalados y sin dos dedos de frente dispuestos a ser manipulados o a llevar la reivindicación de un atentado y pensar que lo han cometido (hoy mismo El País –aprovechando- recordaba que las pistas del 11-S pasan por España… algo que ningún tribunal ha conseguido demostrar jamás).

Y, ahora, cuando están emergiendo nuevos gobiernos en el mundo árabe lo peligroso para EEUU sería seguir fomentando el antiislamismo que emana sin esfuerzo de la presencia hasta hace unas horas de Bin Laden en la foto de los 10 hombres más buscados en aquel país.

*     *     *

Por todo esto era un buen momento para eliminarlo: los norteamericanos reforzaban su confianza en un presidente que medio año después de su elección ya había caído en picado y sigue sin remontar; las “primaveras árabes” exigían que las baterías se apuntaran hacia otra parte. Y, por lo demás, el horno económico no está para bollos: EEUU tiene que emprender la retirada de Irak este verano y la de Afganistán en breve, a pesar de que hoy la situación sea mucho más inestable en ambos países que hace una década. Hace quince días ni siquiera había dinero para pagar a los funcionarios de Washington (y los marines son considerados funcionarios). Ahora, con la “misión cumplida” (Bin Laden muerto), los EEUU pueden hacer más presentable su retirada de Irak y la futura de Afganistán.

Por todo eso era preciso que Bin Laden –un hallazgo para las “operaciones psicológicas” del Pentágono que ya no tenía lugar ni en la nueva línea de la administración norteamericana, ni siquiera en el acervo doctrinal de la oposición conservadora del Tea Party–, desapareciera para siempre, rindiendo un último servicio a la Casa Blanca. Y lo ha hecho un 2 de mayo. Lo dicho, peor fue lo del parque de Monteleón. Y además fue de verdad…

© Ernest Milà – infokrisis – infokrisis@yahoo.eshttp://infokrisis.blogia.comhttp://info-krisis.blogspot.com – Prohibida la reproducción de este texto sin indicar origen

jeudi, 17 février 2011

Internationale hulp strategisch gebruikt voor politieke en militaire belangen

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"Internationale hulp strategisch gebruikt voor politieke en militaire belangen" (Oxfam)

       
BRUSSEL 10/02 (BELGA/AFP) = De donorlanden van humanitaire en
ontwikkelingshulp spenderen hun geld steeds meer in functie van eigen
politieke en veiligheidsbelangen in het buitenland. Dat stelt de internationale
hulporganisatie Oxfam in het rapport "Whose aid is it Anyway", dat
donderdag gepubliceerd werd. 
   
"Hulp met politieke en militaire doelen op korte termijn bereikt de
armste mensen niet en bouwt ook geen langdurige veiligheid op in fragiele
staten", luidt het. Ook voor de donoren blijkt die aanpak op lange
termijn geen goede uitkomst.
 
 De trend ontwikkelde zich sinds 2001, het jaar van de aanslagen van
11 september. De veiligheidsvraagstukken werden toen topprioriteit
in de Westerse landen. De nieuwe richtlijn werd zelfs formeel
opgenomen in het beleid rond financiële steun van de Verenigde Staten,
Canada en Frankrijk.
 
Het rapport zegt ook dat tussen 2001 en 2008 zo een 40 procent van
de internationale hulpstromen uitgegeven werd in slechts twee
landen: Afghanistan en Irak. Samen met Pakistan gaat het om een derde van
alle hulp. De rest werd verdeeld over 150 andere arme landen. De
politisering en militarisering van hulp zou het de hulporganisaties ook
veel moeilijker maken om hulp te bieden op sommige plaatsen. 
Tenslotte zijn in 2010 volgens Oxfam 225 humanitaire medewerkers
gedood, ontvoerd of gewond geraakt tijdens gewelddadige aanvallen. In
2002 waren er dat "maar" 85. EBA/MAE/

mardi, 25 janvier 2011

Saudi-Arabien will Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen

Saudi-Arabien will Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen

Udo Ulfkotte

 

Weil weder Israel noch die Vereinigten Staaten die Fortführung des iranischen Atomwaffenprogramms mit einem Militärschlag verhindert haben, will Saudi-Arabien nun seine Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen. Die Saudis haben auf dem südlich von Riad gelegenen geheimen unterirdischen Militärgelände von al-Sulaiyil alles für die Überführung ihrer Atomsprengköpfe vorbereiten lassen. Dort gibt es Tunnel für pakistanische Ghauri-II-Raketen, die eine Reichweite von 2.300 Kilometern haben. Saudi-Arabien ist seit vielen Jahren schon militärische Nuklearmacht, hatte die eigenen Waffen aber geschickt in Pakistan gelagert. So konnte man behaupten, nicht zu den Atomwaffenstaaten zu gehören.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

 

 

mardi, 16 novembre 2010

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

 

Sollte es das Ziel von Hillary Clintons State Department sein, die Bildung einer wachsenden Allianz von Staaten zu forcieren, die die US-Außenpolitik ablehnen, dann ist diesem Bemühen glänzender Erfolg beschieden. Das jüngste Beispiel ist Pakistan: Die USA machen Druck, weil Pakistan angeblich zu »sanft« mit den Taliban und al Qaida (oder was die USA so bezeichnen) umgeht. Der Effekt ist, dass Pakistan in eine engere Allianz mit China, dem einstigen Partner in der Zeit des Kalten Krieges, gedrängt wird, und zu den USA auf Abstand geht.

 

 

Im Im vergangenen Monat hat Obamas Präsidialamt dem US-Kongress einen Bericht übermittelt, in dem der pakistanischen Armee vorgeworfen wurde, sie vermeide »militärische Einsätze, die sie in direkten Konflikt mit den afghanischen Taliban oder mit al-Qaida-Kämpfern bringen würden«, dies sei eine »politische Entscheidung«. Der Druck, den die USA in den vergangenen Monaten erzeugt haben, um den Krieg in Afghanistan auf das benachbarte Kirgisistan und jetzt auch Pakistan auszuweiten, birgt die Gefahr, dass in der gesamten Region, die ohnehin zu den instabilsten und chaotischsten der ganzen Welt zählt, ein Krieg ausgelöst wird, bei dem zwei Atommächte, nämlich Indien und Pakistan, in eine direkte Konfrontation geraten könnten. Die Politiker in Washington scheinen nicht den geringsten Schimmer von der komplizierten, historisch gewachsenen Kluft zwischen den Stämmen und Ethnien in der Region zu haben. Anscheinend glauben sie, mit Bomben ließe sich alles lösen.

Wenn die Regierung in Pakistan nun verstärkt unter Druck gesetzt wird, so werden dadurch allem Anschein nach die militärischen und politischen Bindungen an Washington nicht etwa gefestigt, wie es noch unter dem Ex-Präsidenten, dem »Starken Mann« Musharraf in gewisser Weise der Fall gewesen war. Vielmehr wird Pakistans jetziger Präsident Asif Zardari China, dem geopolitischen Verbündeten aus der Zeit des Kalten Krieges, in die Arme getrieben.

Laut einem Bericht in Asian News International hat Zardari in Washington bei einem Treffen mit Zalmay Khalilzad, dem ehemaligen US-Botschafter in Pakistan und neokonservativen Kriegsfalken, die US-Regierung beschuldigt, sie »arrangiere« die Angriffe, die den Taliban in Pakistan angelastet werden, um einen Vorwand zu schaffen, unbemannte Drohnen auf pakistanisches Gebiet abzufeuern.* Angeblich habe Zardari gesagt, die CIA habe Verbindungen zu den pakistanischen Taliban, die als Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan oder TTP bekannt sind.

Obwohl das Militär in Pakistan von der Unterstützung der USA abhängig ist, herrscht Berichten zufolge im Land eine stark anti-amerikanische Stimmung, die weiter angeheizt wird, wenn Zivilisten bei amerikanischen Drohnenangriffen verletzt oder getötet werden. Auch über die wachsenden militärischen Kontakte Washingtons zu Pakistans Rivalen Indien herrscht große Empörung.
Angesichts der stärkeren Hinwendung Washingtons zu Indien setzt die pakistanische Elite im einflussreichen Sicherheits-Establishment verstärkt auf die Beziehungen zwischen Islamabad und Peking. Pakistan und China verbindet eine, wie oft gesagt wird, »wetterfeste« Freundschaft: eine Allianz aus der Zeit des Kalten Krieges, die aus der geografischen Lage und der beiderseitigen Antipathie gegen Indien erwachsen ist.

Anfang dieses Jahres hat China angekündigt, in Pakistan zwei Atomkraftwerke bauen zu wollen, eine strategische Antwort auf das Nuklearabkommen zwischen Indien und den USA. Dem Vernehmen nach verhandelt der staatliche chinesische Atomkonzern China National Nuclear Corporation zurzeit mit den pakistanischen Behörden über den Bau eines Atomkraftwerks mit einer Leistung von einem Gigawatt.

China hat Pakistan für die Zusammenarbeit bei der Bekämpfung potenzieller muslimischer Aufstände in der Unruheprovinz Xinjiang an der Grenze zu Pakistan und Afghanistan gewonnen. Außerdem baut China Dämme und Anlagen zur Erkundung von Edelmetallen. Von größter strategischer Bedeutung ist der von China betriebene Bau eines Tiefseehafens in Gwadar am Arabischen Meer in der pakistanischen Provinz Belutschistan, von dem aus Öl aus dem Nahen Osten über eine neue Pipeline in die chinesische Provinz Xinjiang transportiert werden soll. Washington betrachtet dies beinahe als kriegerische Handlung gegen die US-Kontrolle über den strategisch lebenswichtigen Ölfluss aus dem Nahen Osten nach China. Die Unruhen ethnischer Uiguren in Xinjiang im Juli 2009 trugen eindeutig die Handschrift amerikanischer NGOs und Washingtoner Geheimdienste, anscheinend sollte damit die wirtschaftliche Tragfähigkeit der Pipeline untergraben werden.

China dringt auch in Süd- und Zentralasien weiter vor, verlegt Pipelines über das Gebiet ehemaliger Sowjetrepubliken und erschließt die Kupferfelder in Afghanistan.
Nach Aussage des pensionierten indischen Diplomaten Gajendra Singh »zeigt Hintergrundmaterial in britischen Archiven, dass London sich ein schwaches Pakistan als Verbündeten im Süden Sowjetrusslands geschaffen hat, um die westlichen Ölfelder im Nahen Osten zu schützen, denn die sind noch immer der Preis, um den der Westen im Irak, im Iran, in Saudi-Arabien und anderen Gebieten am Golf, am Kaspischen Becken und in Zentralasien kämpft«.

dimanche, 24 octobre 2010

L'imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

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L’imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

di Kurt Nimmo

Fonte: megachip [scheda fonte] 

La settimana scorsa i funzionari USA dichiaravano che c’era ancora una minaccia proveniente da indimostrati terroristi in Europa, mentre la polizia di New York conduceva un’esercitazione che simulava un attacco “stile Mumbai” contro i civili nel distretto finanziario di Manhattan. Il capo dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato ha esposto ai giornalisti a Londra un allarme per i viaggiatori emanato il 3 ottobre che consigliava a chi viaggiava in Europa che un "assalto in stile Mumbai" su obiettivi civili, poteva essere imminente, o forse no.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

abc_floydnews_playSabato scorso, funzionari federali hanno ammesso che l’uomo d'affari statunitense David Coleman Headley, che si presume abbia confessato di essere un reclutatore di terroristi in relazione agli attentati di Mumbai del 2008, lavorava come informatore della DEA, mentre si esercitava con i terroristi in Pakistan.

«I funzionari federali, che parlavano solo in sottofondo per la delicatezza del caso Headley, hanno dichiarato inoltre di sospettare un legame tra Headley e le figure di al-Qa‛ida le cui attività hanno suscitato recenti minacce terroristiche contro l'Europa», riferisce Pro Publica, un’agenzia on line non-profit indipendente che produce giornalismo investigativo.

Venerdì scorso, Pro Publica ha riferito che l'FBI era stata messa in guardia in merito ai legami terroristici di Headley ben tre anni prima che gli attentati di Mumbai avessero luogo.

Headley, tuttavia, non è stato arrestato fino a 11 mesi dopo l'attacco. «Dopo che Headley è stato arrestato nel 2005 per una lite domestica a New York, la moglie ha raccontato agli investigatori federali il suo duraturo coinvolgimento con il gruppo terroristico Lashkar-i-Taiba e i suoi estensivi programmi di formazione nei campi pakistani», scrive Sebastian Rotella. «Ha anche loro riferito che si era vantato di essere un informatore pagato dagli Stati Uniti, mentre era in corso la formazione terroristica».

Lashkar-i-Taiba è stata programmata per operazioni occulte. Si tratta di una creazione dell'Inter-Services Intelligence, o ISI, i servizi pakistani, e «riceve considerevoli risorse finanziarie e materiali nonché altre forme di assistenza da parte del governo del Pakistan, indirizzate in primo luogo attraverso l'ISI. L'ISI è la principale fonte di finanziamento di Lashkar-i-Taiba. E anche l'Arabia Saudita alimenta la provvista dei fondi», secondo il South Asia Terrorism Portal.

Lashkar-e-Taiba ha inoltre avuto un ruolo nella campagna bosniaca organizzata dall’ISI contro i serbi, che era diretta dalla CIA e dai servizi segreti britannici.

Lashkar è l'ala militare del Markaz Dawat wal Irshad, collegato all’Ahl-e Hadith pakistano, un gruppo con stretti legami di affiliazione ai wahabiti sauditi. Markaz è stata fondata nel 1986 da due professori universitari pakistani assistiti da Abdullah Azzam, uno stretto collaboratore di Osama bin Laden. Azzam è stato "arruolato" da parte della CIA per guidare gruppi islamici a Peshawar e poi come intermediario tra i Mujāhidīn afghani.

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La notizia della connessione di Headley all’intelligence non è una novità.

Nel 2009 è stato riferito che egli poteva «essere stato un agente sotto copertura degli Stati Uniti diventato una canaglia», secondo il «Times of India».

Durante le sue operazioni e contatti in India, Headley si è presentato spesso come un agente della CIA.

David Headley è stato menzionato in un rapporto sul terrorismo interno redatto da Tom Kean, Lee Hamilton, e dall’istituto bipartisan con sede a Washington National Security Preparedness Group.

Kean e Hamilton si erano a suo tempo sforzati di concentrare la colpa per gli attentati dell'11 settembre 2001 a carico di musulmani cavernicoli. «La leadership dei gruppi islamici radicali, tra cui al-Qa‛ida, si è americanizzata attraverso figure come il chierico radicale Anwar al-Awlaki, cresciuto in New Mexico, e David Headley da Chicago, che ha contribuito a pianificare gli attacchi terroristici a Mumbai del 2008», ha riferito il «New York Post» in occasione del nono anniversario dell'11 settembre.

In effetti il terrorismo è diventato "americanizzato", perché in realtà gran parte del terrorismo islamico è una creazione dell'intelligence USA, britannica e israeliana, con l'aiuto di partner gregari come la Germania.

Nel 1997, Headley, alias Daood Sayed Gilani, un condannato per traffico di droga, è stato strappato via dalla prigione dalla DEA e spedito in Pakistan per condurre operazioni di sorveglianza sotto copertura per conto della Drug Enforcement Administration. Nel 2002 e tre volte nel 2003, ha frequentato campi di addestramento in Pakistan di Lashkar-e-Taiba, l’organizzazione creata e finanziata dall’ISI e dai sauditi.

L'FBI era ben consapevole di tutto ciò. Secondo il rapporto di Pro Publica, non solo la moglie di Headley ha raccontato all'FBI che suo marito era un militante attivo di Lashkar-e-Taiba, ma anche che si era a lungo esercitato nei suoi campi pakistani e aveva anche fatto acquisti per visori notturni e altri apparecchi.

Ancora una volta ci verrà detto che tutto questo è stato un «fallimento dell'intelligence» e che Headley ha violato i patti per essere stato radicalizzato da parte di terroristi pakistani.

A questo punto, però, non ci viene detto più di nulla. I grandi media, con la notevole eccezione del «New York Times» e dell'Associated Press, non riportano questa storia. È appena un puntino sullo schermo radar dei grandi organi di comunicazione. La minaccia terroristica europea, ovviamente fraudolenta, ha ricevuto molta più copertura, anche se non vi è assolutamente alcuna prova che dei terroristi avessero intenzione di fare alcunché in Europa o altrove, men che meno negli Stati Uniti.

Di quante altre prove abbiamo bisogno? David Headley stava ovviamente lavorando per il governo degli Stati Uniti ed è stato "radicalizzato" e formato da un gruppo che i documenti indicano come CIA-ISI con collegamenti con i sauditi e il wahhabismo.

La CIA non tenta più nemmeno di coprire le proprie tracce, quando manovra il terrorismo "falso" e i gruppi terroristici. Cinque minuti con un motore di ricerca in internet bastano a produrre informazioni sufficienti a dimostrare il fatto che i governi ingegnerizzano il terrorismo e i terroristi.

I governi usano abitualmente il terrore sintetico per mandare avanti i loro programmi in agenda. È tutto alla luce del sole e ci si presenta di fronte. Ma non aspettatevi che il «New York Times» o la CNN colleghino i puntini. Sottolineare l'ovvio, si sa, è un lavoro per teorici della cospirazione…

 

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip.

Fonte: http://www.infowars.com/mumbai-terror-suspect-worked-for-....

lundi, 23 août 2010

Le fondamentalisme islamiste en Afghanistan et au Pakistan

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Robert STEUCKERS :

Le fondamentalisme islamiste en Afghanistan et au Pakistan

 

Extrait d’une conférence tenue à Genève au « Cercle Proudhon » en avril 2009 et à la tribune de « Terre & Peuple » (Flandre-Hainaut-Artois)

 

Quand le pouvoir royal afghan de Zaher Shah a cédé devant les modernisateurs précommunistes puis communistes, qui firent appel à l’intervention civile puis militaire de l’URSS, l’Afghanistan perdait sa neutralité, son statut d’Etat tampon entre la masse territoriale soviétique du temps de la Guerre Froide, héritière volens nolens de la masse territoriale de l’empire tsariste. En perdant cette qualité d’Etat tampon, de zone neutralisée, l’Afghanistan abandonnait le destin que lui avaient imposé les accords de Yalta et les dispositions anglo-russes antérieures de 1842 et de 1907, suite aux guerres anglo-afghanes et aux accords anglo-russes sur le partage en zones d’influence du territoire persan. La Russie, en vertu de ces accords de 1907, ne pouvait pas dépasser la ligne Téhéran-Kaboul. L’URSS, en franchissant cette ligne et en occupant le réseau routier afghan au Sud de Kaboul, enfreignait ces règles et entamait ainsi une guerre larvée contre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne, très soucieux de maintenir le statu quo ante.

 

Pour répondre au défi que représentait l’Armée Rouge au sud de Kaboul, les stratégistes américains et britanniques ont mis en œuvre la tactique de l’ « insurgency », préconisée par Zbigniew Brzezinski, théoricien d’un plan plus vaste : les puissances anglo-saxonnes, et plus particulièrement la thalassocratie américaine, devaient non seulement chasser les Soviétiques d’Afghanistan, les éloigner de l’Océan Indien, mais aussi leur contester la maîtrise de l’Asie centrale, dont le territoire avait servi de tremplin à toutes les tentatives russes d’avancer en direction de l’Inde et de l’Océan Indien. Pour mettre en œuvre l’insurrection afghane destinée à épuiser l’Armée Rouge dans le guêpier que deviendra le massif de l’Hindou Kouch, les services anglo-saxons créeront de toutes pièces le mouvement des « moudjahidines », recrutés dans les tribus afghanes mais aussi dans tous les pays musulmans et dans la diaspora arabe (10.000 volontaires). Ces « moudjahidines » seront formés par le MI6 britannique et commandés par des « Seigneurs de la Guerre », des « Warlords », comme Dostan ou Massoud. Le gros des troupes proviendra de l’ethnie pachtoune, ethnie guerrière de langue indo-européenne. Ces combattants pachtounes et ces « moudjahidines » venus de tous les coins du monde islamique recevront des armes américaines et britanniques modernes, dont des missiles « Blowpipes » et « Stingers » (ces derniers étant à tête chercheuse). Jusqu’en 1992, le « Warlord » Hekmatyar recevra l’appui des Saoudiens et des Américains et ses troupes seront flanquées des pré-talibans, dans les rangs desquels Ben Laden servira d’intermédiaire saoudien. Il est le disciple d’un frère musulman palestinien formé en Egypte et replié sur Peshawar au Pakistan, dans ce que l’on appelle aujourd’hui la zone tribale pachtoune le long de la frontière afghane. Les pré-talibans, les réseaux saoudiens mâtinés de frères musulmans installés à Peshawar obtiennent rapidement le soutien des services secrets pakistanais, le fameux ISI.

 

Les « moudjahiddines » d’Hekmatyar ont donc précédé sur la scène afghane les talibans de Ben Laden. Celui-ci n’est pas le créateur de cette milice de croyants radicaux : la paternité de ce mouvement militant et armé revient au général pakistanais Naseerullah Babar. Le raisonnement de ce militaire et stratégiste pakistanais était le suivant : le Pakistan procède, dès sa création lors de la partition de l’Inde en 1947, de la tradition islamique radicale dite « déobandiste », issue de musulmans expulsés d’Inde. Le déobandisme n’a jamais cessé, au cours de l’histoire pakistanaise, d’exciter les esprits ; pour le Général Babar, il convient de recycler les têtes brûlées du déobandisme dans la Djihad, tout à la fois en Inde, et plus particulièrement au Cachemire, et en Afghanistan, puisque les Saoudiens et les Américains demandent du personnel pour une insurrection locale contre les Soviétiques ou les pouvoirs prosoviétiques en place après le départ de l’Armée Rouge. Cette disposition va dans le sens des intérêts géopolitiques du Pakistan : en effet, depuis la partition de 1947, Islamabad est préoccupé par l’absence de réelle profondeur stratégique du Pakistan face à son ennemi héréditaire indien. Si le Général Babar, par la stratégie qu’il propose aux Américains, peut ajouter la zone de peuplement pachtoune de l’Afghanistan au territoire pakistanais, il obtient ipso facto cette profondeur stratégique qui manque à son pays. Telles sont les raisons nationales qui ont poussé les services pakistanais à soutenir le projet d’insurgency, voulu par Brzezinski, et à créer une force islamiste, financée par des capitaux saoudiens, sur le territoire pakistanais. L’objectif était certes de diffuser un islam fondamentaliste mais consistait surtout à élargir l’espace stratégique pakistanais à la zone pachtoune de l’Afghanistan.

 

Dans le cadre de la guerre pour les hydrocarbures et leur acheminement, qui constitue la véritable raison de toutes les conflictualités entre les Balkans et l’Indus, les services du Général Babar et les talibans de Ben Laden sont les alliés des pétroliers américains d’UNOCAL contre leurs concurrents argentins de BRIDAS. Cette alliance durera jusqu’en 1998. A partir de ce moment-là, les talibans cessent brusquement, dans la propagande occidentale, d’être de « courageux combattants de la liberté », des « Freedom Fighters », et deviennent en un tournemain des « obscurantistes ». Des voix interpellent même brutalement l’allié officiel pakistanais : le Pakistan devient le « craddle of terror », le « berceau de la terreur ».

 

Mais était-ce une nouveauté ? Non. Naseerullah Babar était depuis longtemps déjà un obsédé de l’Afghanistan. Son rêve était de fusionner les deux pays pour avoir une profondeur géographique suffisante pour défier l’Inde. Effectivement, l’histoire nous enseigne que l’Inde est à la merci d’un ennemi extérieur qui tient les territoires du Pakistan et de l’Afghanistan actuels. C’était vrai à la veille des invasions indo-européennes de l’Inde à la protohistoire ; c’était vrai au temps de Mahmoud de Ghazni ; c’était vrai à la veille des invasions mogholes. En 1973, Mohammed Daoud renverse Zaher Shah et instaure un régime moderniste, porté par une gauche anti-islamique et « pan-pachtoune ». Daoud et les siens rêvent d’un grand Pachtounistan, réunissant les zones tribales pachtounes de l’Afghanistan et du Pakistan. L’intégrité territoriale pakistanaise est dès lors en danger et l’idéal d’une plus grande profondeur stratégique, face à l’Inde, battu en brèche. Un certain Rabbani, accompagné de deux étudiants, Hekmatyar et Massoud, se rend au Pakistan et obtient l’accord d’Ali Bhutto pour tenir, contre le nouveau pouvoir progressiste de Daoud, la vallée du Panshir. Cette menace intimide Daoud qui évitera dorénavant d’évoquer trop bruyamment l’idéal d’un grand « Pachtounistan ».  C’est alors que Naseerullah Babar présente Hekmatyar et Massoud à l’ambassadeur américain en poste au Pakistan. Nous sommes en 1979 : l’alliance entre les « moudjahiddines » et les services pakistanais et américains vient de naître.

 

Mais l’idylle est interrompue par les vicissitudes violentes de la vie politique pakistanaise. Le Général Zia ul-Haq prend le pouvoir à Islamabad. Ali Bhutto est condamné à mort et pendu. Naseerullah Babar est jeté en prison. Mais Zia ul-Haq accepte que les Américains protègent et arment le poulain de Babar, Hekmatyar, qui devient le principal représentant des « moudjahiddines ». Cette situation dure jusqu’en 1988. Cette année-là, les troupes soviétiques quittent l’Afghanistan et restituent ipso facto la situation qui existait avant leur entrée dans le pays. L’URSS ne franchit plus la ligne Téhéran-Kaboul. Elle n’est plus en contradiction avec les accords de Yalta et les modi vivendi anglo-russes de 1842 et 1907. Zia ul-Haq est tué, en même temps que l’ambassadeur américain, dans un attentat. Plus de témoins ! Et on met alors en selle la propre fille d’Ali Bhutto, Benazir Bhutto. En coulisses ressuscite le plan pakistanais d’absorber l’Afghanistan, de se doter ainsi d’une profondeur stratégique face à l’Inde et d’avoir un accès plus direct aux richesses d’Asie centrale. Ce plan, issu des cogitations de Babar, prévoit la construction d’un oléoduc d’UNOCAL. Pour le réaliser, il faut une provocation. L’ISI va la créer de toutes pièces. Une colonne de camions se dirige vers les Turkménistan mais une milice la bloque à hauteur de Kandahar. Aussitôt, téléguidés par l’ISI, le mollah Omar et les talibans prennent cette localité clef du territoire afghan. Nous sommes à un moment de l’histoire tragique de l’Afghanistan où convergent les intérêts d’UNOCAL (donc des Etats-Unis), du Pakistan et des talibans. Une fois Kandahar pris, les talibans marchent sur Kaboul, pour éliminer un pouvoir jugé trop « moderniste » et trop favorable à la Russie. Mais, coup de théâtre, Benazir Bhutto parie sur BRIDAS et non plus sur UNOCAL : on ne l’assassine pas, on ne la pend pas à un gibet comme son père mais on la fait tomber pour « corruption », avant de la remettre en selle, pour démontrer qu’il existe une alternance de pouvoir, même au Pakistan, et de la faire assassiner en pleine rue et en pleine campagne électorale. A la suite de l’éviction violente de Benazir Bhutto, Nanaz Sharif prend le pouvoir, renoue avec UNOCAL. Son successeur Musharraf sera sommé d’arrêter tout soutien aux talibans. Depuis ces événements, le Pakistan est une poudrière instable qui fragilise dangereusement les positions des Etats-Unis et de l’OTAN en Afghanistan.   

 

Ces vicissitudes de l’histoire afghane et pakistanaise démontrent que le fondamentalisme islamiste et son expression la plus virulente, les talibans, sont une pure création des services, voire un golem qui leur échappe et prend parfois des formes inattendues, et hostiles aux Etats-Unis, dans les pays musulmans et dans les diasporas musulmanes d’Europe et d’ailleurs.

 

Robert STEUCKERS.

 

jeudi, 13 mai 2010

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

di Alessio Stilo - 09/05/2010

Fonte: eurasia [scheda fonte]


Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

La peculiare posizione strategica rende il Pakistan un “perno geografico”, per dirla alla Mackinder, di assoluto valore nella contesa afghana, dove gli Stati Uniti e i loro alleati si giocano il tutto per tutto rischiando di trasformare la quasi-decennale operazione bellica in un nuovo Vietnam. Peraltro le analogie con la celeberrima disfatta costituiscono un oscuro monito per il Pentagono: anche allora il duo Nixon-Kissinger dispose l’incremento delle truppe con l’obiettivo di recuperare posizioni di forza per trattare con il nemico, lo stesso cui ambiscono i guerriglieri dopo aver dimostrato sul campo di non poter essere battuti.

A detta di analisti autorevoli, la nuova ricetta afghana dell’amministrazione Obama sarebbe riassumibile in tre parole: surge, bribe and run – aumenta le truppe, compra il nemico e scappa. In sostanza, i vertici del Pentagono starebbero allestendo “un’onorevole ritirata” mascherata dall’incremento degli effettivi, non prima di aver convinto il resto del mondo della vittoria degli Alleati sulla frastagliata schiera dei fondamentalisti.

Il ruolo geostrategico

E’ bene tener presente che, nell’ambito della scontro contro i ribelli, Islamabad è ritenuto il paese maggiormente in grado di fornire un aiuto concreto agli Stati Uniti, vuoi per la posizione strategica, vuoi per l’appoggio nemmeno troppo velato di parte dei suoi servizi segreti a taluni gruppi islamici radicali, vuoi perché in Pakistan è operativo il Ttp (Tehrik-e-taliban Pakistan) – gruppo taliban locale, il quale gode di un consolidato sostegno da parte della popolazione.

L’alleato pakistano, nel siffatto contesto, ha ribadito ai vertici della Difesa Usa di voler offrire il suo aiuto volto a sconfiggere i taliban in cambio di poter avere un “ruolo costruttivo nel Kashmir”. Inoltre Islamabad non intende precludersi l’opportunità, una volta cessate le ostilità, di esercitare la sua longa manus sul vicino Paese martoriato dall’instabilità: in considerazione della mai sopita ostilità con l’India, l’obiettivo primario del Pakistan risulta quello di poter fare affidamento su un governo afghano alleato, in maniera tale da potersi avvalere dei territori confinanti nell’eventualità di un scontro con il colosso indiano.

Islamabad brama altresì di concorrere con New Delhi sotto il profilo dell’accaparramento delle risorse energetiche, avendo preso atto degli investimenti indiani – un miliardo e 200 mila dollari – in Afghanistan. L’India ha interesse a proteggere i propri investimenti a Kabul e servirsi dell’Afghanistan come corridoio verso l’Asia centrale, e in una simile congiuntura va inserita la recente visita del primo ministro Manmohan Singh in Arabia Saudita, ufficialmente per stipulare accordi relativamente alle materie prime. In realtà, New Delhi sta tentando di scovare qualche rete che consenta il contatto diretto con i taliban nella prospettiva di poter svolgere il proprio ruolo in Afghanistan all’indomani della ritirata americana; tuttavia nelle cancellerie del potente paese asiatico ignorano che i sauditi hanno ormai poca influenza sul movimento talebano. L’unica via per raggiungere i taliban passa dal Pakistan e, anche a detta degli statunitensi, per gli indiani la strada verso Kabul non può prescindere dal Kashmir.

Alla stregua di quanto accennato, gli interessi nazionali perseguiti dal governo pakistano gli impediscono di collocarsi in maniera netta nella lotta contro i ribelli jihadisti, motivo per il quale la potente Inter-Sevices Intelligence (ISI) si era spinta sino all’appoggiare l’ascesa dei taliban al governo di Kabul.

Benché negli ultimi anni i servizi segreti pakistani, persuasi dai cospicui assegni a stelle e strisce, si siano impegnati al fianco di Washington in alcune operazioni tese a minare le basi organizzative del gruppo estremista islamico, permangono i sospetti di presunti appoggi dell’ISI – o di parte di esso – alla causa talebana, senza contare la crescente ribellione interna originata sia dal malcontento per le politiche dei vari governi, sia dagli attacchi indiscriminati dei droni americani che colpiscono i civili.

Le relazioni tra pashtun afghani e pakistani

Nell’analizzare le relazioni di Islamabad con Kabul è necessario rimembrare la questione del confine tra i due paesi, segnato dalla cosiddetta “Linea Durand”, una frontiera – rimasta inalterata – tracciata dagli allora dominatori britannici che tagliò in due le realtà tribali preesistenti senza tener conto della demografia.

La linea Durand demarca un’area abitata da popolazioni di etnia pashtun, maggioritaria sia in Afghanistan che nella vasta fascia di territorio pakistano sotto la giurisdizione della Provincia della Frontiera del Nord-Ovest (Sarhad) e delle Federally Administred Tribal Areas (Aree tribali di Amministrazione Federale: Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan), senza contare che tribù appartenenti alla suddetta stirpe si sono stanziate anche nel Belucistan e nella zona di Karachi. Secondo fonti recenti, in totale i pashtun ammonterebbero a 42 milioni di persone – il 42% della popolazione dell’Afghanistan e il 15% di quella pakistana.

Storicamente la massima aspirazione dei pashtun è stata la costituzione di un’unica entità statale che comprendesse le diverse zone ove essi risiedono – grosso modo l’attuale Afghanistan e parte del Pakistan -, detta Pashtunistan. A causa delle diatribe, il confine rappresentato dalla linea Durand ha continuato ad essere una fonte di tensione tra i due paesi confinanti e attualmente i leader pashtun di entrambi gli Stati non riconoscono la legittimità della linea Durand.

La saldatura degli interessi dei pashtun pakistani con quelli dei vicini afghani trae origine, dunque, non solo dal malcontento per le politiche dei governi, ma anche dall’affinità ideologica nonché dal comune obiettivo di istituire un’entità statuale governata dalla Shari’a.

Sebbene il governo pakistano giudichi il confine definitivamente stabilito, tanto da essersi formalmente impegnato – agli occhi degli Stati Uniti – a renderlo più sicuro, il presidente afghano Karzai ha più volte dichiarato di ritenere doverosa una “grande assemblea” per la ridefinizione della frontiera. Altro quesito, consequenziale a quanto esposto circa la linea di demarcazione, è quello che concerne i profughi afghani in fuga dal conflitto e rifugiatisi nel territorio limitrofo: costoro costituiscono la manovalanza per i reclutatori di guerriglieri, i quali li addestrano nei campi profughi situati al confine per inviarli successivamente sul campo di battaglia.

Influenze esterne

A seguito del ruolo centrale riconosciutogli dall’amministrazione Obama nel presentare la “AfPak Strategy”, il Pakistan ha rimpinguato i propri forzieri e ricevuto ulteriori aiuti al suo esercito, ovvero un miglioramento delle capacità anti-terroristiche delle milizie, senza tralasciare l’istituzione di programmi di ricostruzione e sviluppo che vertono su una sorta di “nation building” tale da (ri)avvicinare la popolazione alla causa atlantica.

Nonostante l’evoluzione della strategia atlantista, il Pakistan rimane lontano dall’esimersi dall’intrattenere rapporti con i taliban afghani, i quali permetterebbero ad Islamabad di riconquistare il ruolo di potenza egemone nel momento in cui gli Alleati dovessero abdicare.

La “reinventata partnership strategica Usa-Pakistan” – secondo la definizione degli analisti del South Asia Analysis Group – promette ben poco, considerato che l’esercito pakistano, pur avendo la capacità di raggiungere obiettivi/aspettative statunitensi, non ha interesse a ottemperare in maniera totale ai dettami dell’alleato. I taliban che allignano nelle aree tribali del confine sono, infatti, considerati una vera e propria “risorsa” dall’esercito pakistano; tramite l’intermediazione dell’ISI, taluni generali mantengono contatti diretti con determinati elementi dell’insorgenza, e ciò malgrado recentemente siano stati arrestati schiere di dirigenti talebani.

La cattura di leader del calibro del mullah Abdul Ghani Baradar, del precedente governatore della provincia afghana del Nangarhar, Moulvi Abdul Kabeer, del mullah Abdul Salam – governatore-ombra di Kunduz – e di Mir Muhammad, anche lui un governatore-ombra nell’Afghanistan settentrionale, rischia tuttavia di mutare lo scenario in corso. A detta di un militante qaedista, come conseguenza degli arresti effettuati negli ultimi mesi, i talebani hanno reciso ogni possibilità di dialogo – che sia con l’Afghanistan, col Pakistan o con gli Usa – e adesso potrebbero lavorare più strettamente con Al-Qaeda.

In conclusione bisogna rimarcare il ruolo della Cina nella partita AfPak, che potrebbe palesarsi quale fiancheggiatore indiretto degli Stati Uniti per via del suo coinvolgimento nel contrastare i gruppi taliban, ritenuti da Pechino essere i fomentatori del focolare interno – leggi Xinjiang – sempre pronto a riaccendersi. Il dragone dagli occhi a mandorla è il maggior socio commerciale di Islamabad (nel 2006 i due paesi hanno siglato un accordo sul libero scambio, entrato in vigore nel 2007), oltreché il suo più rilevante alleato nell’area asiatica. La Cina potrebbe, in ultima analisi, puntare sul suo rapporto privilegiato col Pakistan per esortare il governo di Zardari ad un maggiore impegno nella lotta contro il movimento talebano.

* Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)
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mardi, 11 mai 2010

Il bombarolo di Times Square legato a terroristi controllati dalla CIA

Il bombarolo di Times Square legato a terroristi controllati dalla CIA

di Paul Joseph Watson - 09/05/2010

Fonte: megachip [scheda fonte]


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Time%20Square.jpgUn uomo arrestato in Pakistan in relazione al fallito attentato dell'autobomba di Times Square (che aveva viaggiato con l'accusato dell'attentato, Faisal Shahzad), è membro di un'organizzazione terroristica controllata dall'Agenzia di intelligence britannica MI6 e dalla CIA.  Lo riferisce il «Los Angeles Times»:

 Sheik Mohammed Rehan, che è stato arrestato martedì a Karachi, «presumibilmente viaggiava con Shahzad da Karachi a Peshawar il 7 luglio 2009, su un pickup, hanno detto le autorità. I due rientrarono a Karachi il 22 luglio. Non si sa perché sono andati a Peshawar né se lì abbiano incontrato qualcuno».

Rehan è un membro del gruppo militante Jaish-e-Muhammad, un'organizzazione terroristica venuta alla ribalta a metà degli anni Novanta, ed è stato coinvolto in attacchi nella regione di confine del Kashmir contesa tra India e Pakistan. Il gruppo ha inoltre contribuito a realizzare, a dicembre del 2001, l'attacco contro il Parlamento indiano che ha portato l'India e il Pakistan sull'orlo della guerra nucleare, tensione che si è rivelata molto redditizia per i produttori di armi inglesi e americani che hanno venduto armi a entrambe le parti.

«Gli attacchi terroristici del dicembre 2001 al parlamento indiano - che hanno contribuito a spingere l'India e il Pakistan sull'orlo della guerra - sono stati condotti da due gruppi di ribelli con sede in Pakistan: Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Muhammad, entrambi segretamente sostenuti dall'ISI (Inter-Services Intelligence) pakistano» scrive Michel Chossudovsky. «Inutile dire che questi attacchi terroristici supportati dall'ISI servono agli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Non solo contribuiscono a indebolire e a spaccare l'Unione Indiana, ma anche a creare le condizioni che favoriscono lo scoppio di una guerra regionale tra Pakistan e India».

Jaish-e-Muhammad, il gruppo emerso ora in merito alla vicenda di Times Square, è stato fondato da Ahmed Omar Saeed Sheikh, “l'uomo con la valigetta dell'11/9” che consegnò 100mila dollari dagli Emirati Arabi Uniti a Mohammed Atta per volere del generale Mahmud Ahmed, allora capo dell'ISI. Mahmud Ahmed, l'uomo che ordinò ad Ahmed Omar Saeed Sheikh di finanziare gli attacchi al Pentagono e al World Trade Center, incontrò il parlamentare repubblicano Porter Goss e il senatore democratico Bob Graham a Washington DC la mattina del'11/9. Nei giorni prima e dopo l'attacco, Ahmed incontrò anche il capo della Cia George Tenet, nonché l'attuale vice-presidente Joe Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato.

In un rapporto sul coinvolgimentodel gruppo Jaish-e-Muhammad nell'omicidio di Daniel Pearl, che stava indagando sull'ISI, il «Pittsburgh Tribune-Review» ha riferito che il governo pakistano, «ritiene che il potere di Saeed Sheikh provenga non dall'ISI, bensì dai suoi legami con la CIA».

L'ex Presidente del Pakistan Pervez Musharraf ha inoltre dichiarato che Sheikh fu assoldato dal MI6 mentre studiava a Londra per il tentativo di destabilizzare la Bosnia. Durante il conflitto in Bosnia del 1992-1995, la CIA ha aiutato Osama Bin Laden e Al-Qa‛ida ad addestrare e armare i musulmani bosniaci

Nel 2002, il «Times» di Londra ha riferito che Sheikh «non è un terrorista comune, ma un uomo che ha connessioni che arrivano in alto nelle élites militari e dell'intelligence del Pakistan e negli ambienti più vicini a Osama Bin Laden e all'organizzazione di al-Qaeda».

Nonostante il coinvolgimento intimo di Sheikh in numerosi atti di terrorismo e in sequestri politici, compreso il massacro di Mumbai del 2008, è stato sempre protetto sia dalla CIA sia dall’intelligence britannica.

Insomma, questo è l'uomo che ha fondato il gruppo che ora emerge in relazione con il pasticciato attentato di Times Square: una risorsa della CIA e del MI6.

«Gli esperti ritengono che il gruppo Jaish-e-Muhammad benefici tuttora dei legami con la potente cerchia dell'intelligence del governo del Pakistan. Alcuni esperti reputano che l'Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan abbia facilitato la formazione del gruppo» afferma l’articolo del «Los Angeles Times» del 5 maggio 2010.

La maggior parte degli analisti geopolitici concorda sul fatto che l'ISI pakistano non è in realtà nient'altro che un avamposto della CIA. L'ISI non fa nulla che la CIA non abbia approvato. Sin dall'11/9 la CIA ha versato milioni di dollari all'ISI, pari a non meno di un terzo dell'intero bilancio dell'ISI, a dispetto della nota storia dell'agenzia di spionaggio straniera che finanzia e arma gruppi terroristici come Jaish-e-Muhammad e a dispetto del fatto che finanziò i dirottatori dell'11/9.

Dal momento che le impronte digitali della CIA si trovano ovunque in quasi tutti i gruppi terroristici mediorientali, non sorprende che ora venga a galla un legame fra la CIA e l'attentatore di Times Square. Non ci siamo ancora imbattuti in un terrorista che non sia stato addestrato, equipaggiato, radicalizzato, incastrato o provocato da una agenzia di intelligence occidentale o di un gruppo terroristico controllato da un agenzia di intelligence occidentale.

 

Traduzione per Megachip a cura di Manlio Caciopo.

 

mardi, 02 mars 2010

Les rebelles sunnites d'Iran ne pouvaient agir seuls

Les rebelles sunnites d'Iran ne pouvaient agir seuls
<http://blog.lefigaro.fr/malbrunot/2010/02/les-rebelles-su...>

Par Georges Malbrunot  le 23 février 2010  

Spécialiste de la minorité sunnite d'Iran, le chercheur français Stéphane Dudoignon nous livre son analyse, après l'arrestation par Téhéran du chef des rebelles sunnites du Jundallah, qui ont multiplié les attentats contre le pouvoir iranien ces douze derniers mois. 

Quelle est la signification politique de l’arrestation du chef des rebelles sunnites du Jundallah (l’Armée de Dieu) ?

Stéphane Dudoignon : Abdomalek Righi représente le héros national baloush d’Iran. Il est la tête du réseau des rebelles sunnites qui luttent contre le régime. C’est une très belle prise pour le pouvoir iranien. Après la création de leur formation en 2002, les insurgés sunnites avaient lancé des attaques ciblées ou enlevé des soldats iraniens, mais toutes les portes n’étaient pas fermées avec le pouvoir iranien. Ce qui n’est plus le cas, depuis le printemps 2009. En effet, Jundallah a alors opéré un tournant stratégique en commettant un attentat de grande ampleur de type Al Qaida contre une mosquée à Zahedan, qui avait tué 28 personnes en mai. En octobre, les rebelles s’en étaient pris ensuite à un centre des Gardiens de la révolution, liquidant 42 personnes, dont plusieurs officiers. Cette violence tous azimuts est nouvelle en Iran, elle ne correspond à aucune tradition iranienne.

Faut-il en conclure que Jundallah avait reçu des ordres ou un soutien logistique de l’extérieur, comme Téhéran l’en accuse ?

Je n’ai pas de preuves pour dire que le Pakistan ou les Américains sont derrière Jundallah. Cela étant, il est impensable que Righi, sa femme et plusieurs centaines de ses partisans, aient pu trouver refuge au Pakistan, sans qu’à un moment ou à un autre, ils aient été en contact avec la sécurité locale. Après son virage du printemps 2009, Righi se sentait-il plus fort ? Etait-il appuyé par l’extérieur ? Je pose la question. Je constate que ses deux derniers attentats ont visé les Gardiens de la révolution, l’unité d’élite, dont la mission est de protéger le régime iranien contre toute tentative de déstabilisation. Ces opérations manifestaient clairement de la part de Jundallah une volonté de rupture avec la République islamique. Les blogs du mouvement proféraient depuis six mois des injures contre le Guide, Ali Khameneï. C’était nouveau.
Quelles conséquences cette mise hors d’état de nuire va-t-elle avoir dans les relations de l’Iran avec son voisin pakistanais ?

Elle devrait permettre une amélioration de ces relations. Righi était devenu une pomme de discorde entre Téhéran et Islamabad. Par ailleurs, au plan interne, cette capture élimine un des principaux obstacles sur le chemin de négociations entre le pouvoir iranien et les leaders religieux baloush. Depuis 2009, ceux-ci s’étaient désolidarisés de Righi et du Jundallah. Une chose est sûre : Righi va passer un mauvais quart d’heure, comme son frère Abdel Hamid qui est dans le couloir de la mort, après avoir été, lui aussi, appréhendé par la sécurité iranienne. Le témoignage d’Abdolmalek Righi est certainement redouté par ses commanditaires. On peut faire confiance aux services de sécurité iraniens pour instrumentaliser ses aveux.



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lundi, 19 octobre 2009

Pakistan: un fondamentalisme anti-chiite?

untitterrled-vi.jpgPakistan: un fondamentalisme anti-chiite?

 

Dans une présentation didactique des principaux groupes fondamentalistes pakistanais actifs aujourd’hui, le quotidien flamand “De Morgen”, dans son édition du 16 octobre 2009, révèle les objectifs de base de quatre formations djihadistes:

-          le Lashkar-e-Jhangri (LEJ)

-          le Sipah-e-Sahaba Pakistan (SSP)

-          le Jaish-e-Mohammed (JEM)

-          le lashkar-e-Taiba (LET).

 

Le LEJ est une organisation sunnite née dans les années 90 et destinée à lutter, dans un premier temps, contre les chiites pakistanais. Ultérieurement le LEJ a opté pour un djihadisme généralisé. On lui attribue deux attentats: celui perpétré contre l’Hôtel Mariott à Islamabad et celui commis contre l’équipe de cricket du Sri-Lanka.

 

Le SSP (“Armée des Amis du Prophète”) a été fondé en 1985 dans l’intention de lutter contre les Chiites, parce que ceux-ci étaient majoritairement de gros propriétaires terriens dont les intérêts entraient en collision avec les hommes d’affaires et les professions indépendantes d’obédience sunnite. Le SSP est très lié au LEJ. Celui-ci est d’ailleurs issu des groupes les plus radicaux du SSP. Leur objectif est de faire du Pakistan un Etat exclusivement sunnite et de déclarer les chiites non musulmans et, par là même, parias et privés de tous droits de citoyenneté.

 

Le JEM (“Armée de Mohammed”), que l’on dit lié à Al Qaïda, avait été dissous après un attentat contre le Parlement indien en 2001. Au départ, ce groupe armé avait pour objectif de lutter contre les Indiens au Cachemire; plus tard, il a recentré ses activités dans la “zone tribale”, contigüe et du Penjab et de l’Afghanistan, pays auquel il a étendu ses activités, en liaison avec certains éléments des Talibans.

 

Le LET (“Armée des Justes”) a été constitué en 1990 pour lutter contre les Indiens au Cachemire avec, au départ, le soutien de l’armée et des services secrets pakistanais. On accuse le LET d’avoir commis l’attentat contre l’hôtel international de Mumbai (Bombay). Les Etats-Unis et l’Inde soupçonnent toujours le Pakistan de soutenir le LET.

 

(source: Ayfer ERKUL, “Dodelijke terreur in Pakistan”, in “De Morgen”, 16 oct. 2009).

 

Conclusion:

 

1)       Le djihadisme, avec ses répercusssions “terroristes” avait pour objectif premier de lutter contre l’influence indirecte de l’Iran, qui aurait pu s’exercer via les communautés chiites, et contre l’Inde.

 

2)       Le Pakistan, allié des Etats-Unis, a donc bel et bien servi d’instrument pour lutter contre le chiisme, en tant que prolongement de l’influence culturelle iranienne, et cela, sans doute dès l’époque du Shah. L’élimination de l’Empereur Pahlevi n’a nullement mis un terme aux persécutions anti-chiites, preuve que l’objectif final de Washington et d’Islamabad n’a jamais été d’éliminer un monarque qui aurait enfreint les droits de l’homme, comme on aimait dire du temps de Carter, ni d’éliminer de dangereux extrémistes fondamentalistes iraniens et chiites, mais de bloquer toute influence iranienne en direction de l’Afghanistan, du Pakistan et de l’Inde, selon les principes de “Grande Civilisation” théorisés par le dernier Shah et son entourage. De même, la manipulation de têtes brûlées djihadistes servait à enrayer le politique indienne dans la région (surtout au Cachemire), l’Inde étant soupçonnée de sympathies pour la Russie et de lui donner ainsi, indirectement, accès à l’Océan Indien.

 

3)       L’alliance entre le fondamentalisme sunnite et les Etats-Unis se confirme, lorsqu’on examine les motivations premières des djihadistes pakistanais: leur ennemi, au départ, n’est ni l’Occident ni le communisme mais le chiisme et l’Inde. Les Etats-Unis ne pouvaient accepter ni une politique autonome de l’Iran impérial ni une politique autonome de la République Islamique d’Iran ni un tandem russo-indien dans l’Océan du Milieu.

 

4)       L’option, récurrente dans certains milieux politiques ou métapolitiques non conformistes européens, de considérer que l’Islam est un bloc uni et, partant, une “force anti-impérialiste” dirigée contre les Etats-Unis en particulier et contre l’Occident en général, s’avère dès lors fausse et manichéenne. Le clivage sunnisme/chiisme est très souvent plus fort chez les djihadistes de base que le clivage Islam/Occident.

 

5)      Les Etats-Unis, en appliquant la stratégie Brzezinski d’une alliance entre Mudjahhidins et Américains dès l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan en 1979, ont bel et bien ouvert une boîte de Pandore. Et les déboires que les Américains et leurs alliés doivent encaisser aujourd’hui dans la région sont les déboires de l’arroseur arrosé.

jeudi, 30 juillet 2009

Les Kafirs Kalash

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Les Kafirs Kalash

 

La région autour de Chitral, dans la province frontalière du Nord-Ouest du Pakistan, nous offre des panoramas paradisiaques, des forêts riches en faune dans des vallées profondes entre des montagnes gigantesques et majestueuses. Les bipèdes humains de la région, il convient de s’en méfier: c’est là que Winston Churchill, jeune soldat et correspondant de guerre, écrivit son premier livre, “The Malakand Field Force” en 1897; les armées de la Reine Victoria y affrontaient l’Emir de Chitral et sa horde sauvage. La région est également célèbre pour son hashish de toute première qualité.

 

C’est là aussi que vivent encore deux mille Kafirs Kalash, terme qui signifie les “infidèles vêtus de noir”. Ce nom est dû aux vêtements masculins car les femmes y portent des étoffes très colorées. Ils honorent quelques dieux connus des védas indiennes, mais dont le culte est tombé en désuétude chez les Hindous. La principale de ces divinités est “Imra”, l’équivalent du sanskrit “Yama Rana” (ou “Roi Yama”), dieu des mortels et de la mort, dont le nom dérive d’une racine indo-européenne “*Jemo”, le “jumeau”. Cette  divinité présente aussi un apparentement avec la figure mythologique perse “Yima” qui, premier mortel, est le père de l’humanité. Dans les panthéons indo-européens, nous trouvons également un “Ymir” vieux-norrois, géant primordial qui s’auto-sacrifia pour que les parties de son corps servent de composantes pour la construction du monde. Le dieu védique de l’assaut et des tempêtes, Indra, survit dans le culte des Kafirs Kalash, notamment sous l’appellation d’“Indotchik”, la foudre, et d’“Indrou”, l’arc-en-ciel. On chuchote aussi que leurs fêtes religieuses, à la tombée de la nuit, se terminent par des pratiques sexuelles de groupe, ce que d’aucuns qualifieront de typiquement “païen”.

 

Il y a une trentaine d’années, les Kafirs Kalash étaient bien plus nombreux, y compris leurs dieux, surtout grâce à l’isolement dont ils bénéficiaient, haut dans leurs montagnes. Le malheur les a frappés en 1979, l’année où éclata la guerre civile afghane qui entraîna l’intervention soviétique. De nombreux Afghans s’installèrent dans la région frontalière et y furent accueillis par les Deobandis pakistanais, les homologues locaux des Wahhabites saoudiens, les plus fanatiques des musulmans. 

 

Rapt de femmes

 

Les nouveaux venus ont commencé par déboiser les vallées puis par occuper le territoire des Kafirs Kalash et, enfin, par enlever leurs femmes. Les Kalash sont de complexion plus claire que leurs voisins; les Européens qui ont voyagé au Pakistan ont souvent constaté que la peau blanche des hommes comme des femmes y est très appréciée sur le marché du sexe. Les parents des filles enlevées et mariées de force à un musulman ne pouvaient revoir leur enfant qu’après s’être convertis à l’islam. D’autres moyens de pression ont été utilisés pour les obliger à la conversion, notamment les prêts à taux usuraires, dont on pouvait se débarrasser à condition de subir la circoncision; ensuite, la discrimination dans l’octroi des moyens modernes de distribution d’eau et d’électricité, que le régime du Général Zia n’accordait qu’aux seuls musulmans. Les minorités religieuses au Pakistan subissent terreur et brimades de toutes sortes. La communauté kalash qui, contrairement aux chrétiens, ne bénéficie d’aucun appui international, était ainsi condamnée à disparaître. Dans les années 90, toutefois, les choses ont changé. Les voies carrossables et l’électricité avaient été installées: le gouvernement démocratique (mais qui ne le fut que brièvement) se rendit compte qu’il pouvait exploiter la région kalash sur le plan touristique, la population indigène servant d’attraction avec son folklore. Il n’y aurait pas un chat pour débourser de l’argent pour aller voir de près l’islam vivant de cette région mais, en revanche, pour assister aux prouesses chorégraphiques des derniers païens indo-européens, on sort les dollars de son portefeuille. Il faut désormais s’acquitter d’un droit de péage pour entrer sur le territoire des Kalash.

 

Le Yeti

 

Ensuite, il faut bien que le Pakistan ait quelques minorités religieuses, réduites à la taille d’un musée, pour faire croire qu’il respecte scrupuleusement les principes de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme. Dans les médias occidentaux, on trouvera toujours quelques bonnes âmes mercenaires pour relayer la propagande du gouvernement pakistanais qui cherche à démontrer la “tolérance islamique”. Une ONG grecque, motivée par le mythe qui veut que les Kalash descendent des soldats d’Alexandre le Grand, a même reçu l’autorisation d’ouvrir une école et une clinique là-bas. L’enquête la plus récente, relevant de ce que l’on appelle aujourd’hui l’“observation participante”, a été menée, chez les Kalash, par Jordi Magraner (1958-2002). Ce zoologue catalan était parti là-bas, au départ, pour chercher le yeti, la variante himalayenne du monstre du Loch Ness. Ou, pour être plus précis, y chercher le “bar-manou”, le “grand homme”, comme l’appelle la population locale. Si le terme “bar-manou” est une transformation maladroite de “barf-manou”, alors il faudrait traduire ce vocable par “l’homme des neiges”. Lorsque j’eus une conversation avec Magraner peu avant sa mort, il me prétendait qu’il y avait du vrai dans les récits indigènes relatifs au “bar-manou”, même si lui ne l’avait jamais vu. Quoi qu’il en soit, ses intérêts s’étaient portés vers cette curiosité anthropologique que sont les derniers païens indo-européens. Il avait entrepris un vol vers l’Europe pour rendre visite à sa famille et pour communiquer le fruit de ses recherches à l’occasion d’un congrès à Paris; en fait, Magraner était lui-même devenu un Kalash.

 

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Il avait appris à parler les trois langues de la région de Chitral. Les motivations de certains humains sont sublimes: lorsqu’on parle, comme Magraner, l’espagnol, l’hindi et le chinois, trois langues seulement, on peut communiquer avec la moitié du monde. Malgré cela, cet homme exceptionnel a fait l’effort considérable d’apprendre trois langues pour converser avec deux milliers de personnes (et au départ, cet effort n’a été entrepris que pour les questionner sur ce qu’elles savaient du “bar-manou”!). Les Kalash lui avait offert une fiancée, pour sceller son intégration. Certes, il restait au bas de l’échelle sociale, avec une seule femme, les Kalash les plus haut placés, eux,  ont plusieurs épouses. Malheureusement pour ce chercheur formidable, les islamistes ont appris son engagement pour les “idolâtres”. On retrouva son corps, la gorge tranchée, comme Theo Van Gogh. Selon ses dispositions testamentaires, il fut enterré sur place, selon le rite kalash.

 

“Moestasjrik” /  “ ’t Pallieterke”.

(article paru dans “’t Pallieterke”, Anvers, 29 mars 2006; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 03 juin 2009

Il Pakistan sempre più instabile

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Il Pakistan sempre più instabile

  

Giovedì 28 Maggio 2009 – Matteo Bernabei - http://www.rinascita.info

  
 



Lo scontro tra l’esercito regolare pachistano e le milizie talibane cambia fronte e modalità.
Dopo la riconquista governativa della città di Mingora, la zona di combattimento si è spostata nella parte nord orientale del Paese. Spostamento dovuto, secondo le autorità di Islamabad, alla ritirata dei talibani cacciati dalla valle dello Swat dall’avanzata dei militari pachistani. Baitullah Mehsud, leader di Tehrik i Taliban Pakistan, aveva minacciato nei giorni scorsi di colpire le più importanti città
dello Stato se gli attacchi contro i suoi uomini non fossero cessati. Tutti fattori che avrebbero dovuto fare da avvisaglia all’attacco portato ieri dagli estremisti islamici contro una stazione di polizia a Lahore, nella provincia del Pakistan nordorientale del Punjab. Una delle aree più importanti del Paese considerata, tra l’altro, la capitale culturale del Pakistan, già il 4 marzo scorso teatro dell’attentato contro l’autobus della squadra di cricket dello Sri Lanka e che poche settimane vide il sequestro di 800 allievi di una scuola di polizia. L’attacco di ieri, compiuto con un’auto bomba carica di 100 kg di esplosivo e con il supporto di uomini armati, ha causato la morte di 27 agenti e il ferimento di almeno altri 300. Ma l’attentato rischia di essere solo l’inizio di una serie di azioni che potrebbero avere conseguenze ben più gravi. La strategia improvvisata e frettolosa, incoraggiata dagli Stati Uniti, con cui Islamabad ha deciso di portare avanti l’offensiva armata, e che ha messo in pericolo la popolazione nella valle dello Swat - avvisata con solo 24 ore di anticipo e impossibilitata a fuggire a causa del coprifuoco - rischia ora di degenerare completamente. Il fronte dello scontro è stato trasferito all’interno delle città, situate in regioni dove prima la presenza talibana era praticamente assente, offrendo inoltre la possibilità alle milizie islamiche di colpire senza dare alcun punto di riferimento alle forze armate regolari. Il tutto a scapito della popolazione che ancora una volta per salvarsi dovrà abbandonare le proprie case, questa volta però senza sapere nemmeno di preciso dove fuggire.

 

Pagina stampata dal sito rinascita.info il sito di Rinascita - Quotidiano di Liberazione Nazionale.
http://www.rinascita.info/cc/RQ_Mondo/EkuFVEApZFnSrlPpat.shtml