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mercredi, 27 juillet 2011

Oswald Spengler ed il senso metapolitico del declino occidentale

 Oswald Spengler ed il senso metapolitico del declino occidentale

Luca Valentini

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

La crisi morale, oltre che economica e finanziaria, che attualmente attanaglia l’Italia, le farsesche vicende dell’attuale cricca di potere al governo, spesso conducono anche i più acuti osservatori a smarrire quella visione d’insieme e di lontani orizzonti che dovrebbe sempre caratterizzare una visione del mondo e della vita autenticamente tradizionale, cioè fondata e determinata su principi dall’Alto.

E’ importante tale precisazione, perché, al di là delle giuste analisi sociologico-politiche, delle doverose battaglie per il benessere del Popolo Italiano, mai si dovrebbe dimenticare che l’ampiezza della crisi va ben oltre il nostro Paese e che le radici sono ben più profonde di ciò che ai nostri occhi si manifesta, essendo il piano finanziario solamente una risultante di un processo degenerativo, che interessa, nelle sue profondità abissali, i caratteri più interni dell’intera civilizzazione occidentale, nel suo spirito, nella sua moderna involuzione, nelle imboscate e nei tradimenti che essa ha subito.

Riferirsi a Oswald Spengler ed a ciò che ha espresso nelle sue opere, particolarmente nel Il Tramonto dell’Occidente, come noi faremo sinteticamente in questo articolo, ha proprio la determinata volontà di mettere in risalto codesto piano d’osservazione, un orizzonte che va ben oltre la semplice narrazione storicistica o i lineari ed apparentemente confusi e contradditori accadimenti del quotidiano, ma che vuole riaprire una riflessione, un ragionamento all’interno della nostra comunità sull’essenzialità di un approfondimento metapolitico che è e deve essere un approfondimento sulla nostra civiltà, sulla decadenza secolare che la caratterizza, nel rapporto della Tradizione Europea – che dal nostro punto di vista è essenzialmente Tradizione elleno-romano-germanica – con la sfera del Sacro, con l’esplicitazione nell’istituzione statuale, fino alle più ramificate e secondarie sezioni dello sviluppo produttivo e sociale: “Le civiltà sono degli organismi. La storia mondiale è la loro biografia complessiva” (da Il Tramonto dell’Occidente).

Un’analisi che valorizzi e ridesti il senso nascosto, occulto, quella terza dimensione della storia che molti smarriscono, insieme con quei punti di riferimento che unici possono stabilire un preciso quanto indispensabile percorso di autoriconoscimento identitario per la nostra comunità, per chi ricerca nell’impegno politico e culturale l’Uomo Nuovo e Differenziato dalla modernità, dalla pandemia inarrestabile che conduce oramai da diversi secoli l’intero Occidente – e con esso tutto il resto del mondo – verso un baratro di cui non si riescono a vedere vie d’uscita o possibilità di risalita. Per riferirci direttamente a Oswald Spengler, si rammenti come affermasse esserci un ciclo vitale per ogni singola civiltà, quasi fosse la stessa un vero e proprio ente animico, con una precisa contezza di se stesso. In riferimento all’Occidente sarebbe esistita prima la civiltà greco-romana, sorta grazie alle migrazioni indoeuropee in Grecia e nella penisola italica, che lo stesso ha definito “apollinea”, seguita da una civiltà germanica o detta “faustiana”. Entrambe queste Kultur hanno in sé un simbolo esprimente il proprio spirito vitale: Apollo, divinità della forma e della misura, dell’equilibrio interno, spirituale ed estetico; Faust, il personaggio creato da Goethe, come aspirazione perpetua che tenta di colmare lo iato tra l’esistenza parziale e limitata dell’Uomo e le altezze metafisiche della Divinità Trascendente. L’odierna società, pertanto, è il prodotto dell’esaurimento di tale forza originaria, di tale spirito ancestrale, lo spegnimento progressivo di ogni slancio oltre l’umano, di ogni classica forma interna: “Ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità (da Il Tramonto dell’Occidente)”.

A tal punto, partendo proprio da questa presa di coscienza, che dovrà risultare quanto più profonda e lucidamente attiva, si può accennare a ciò può e deve essere il senso di una militanza, di un impegno politico-culturale. Nella fase finale di questo ciclo, in questa umanità parodistica, l’unica via da percorrere è quella che conduce alla fedeltà nel proprio essere, alla costruzione di una comunità di uomini e di donne, conscia delle proprie radici e fiera della propria diversità dal resto del mondo. La lotta interna per la nascita di uomo che tragga da sé la legge da osservare, che sia impassibile ed inattaccabile di fronte alla marea che tutto corrompe, un uomo che con il suo essere sia esempio e trasmissione di Tradizione, questa la via d’onore che i nostri cuori hanno il diritto di percorrere. Il nostro ed unico scopo è quello, pertanto, anche grazie a questo giornale, di mettere a disposizione di quanti possano e vogliano le nostre umili  conoscenze di studio e di ricerca tradizionali, per “fare ciò che deve essere fatto”, come Evola ci ricorda, e per rimanere fedeli all’Idea, che può essere valorosamente servita solo se da Spengler si assume la consapevolezza del mondo in cui siamo stati destinati a vivere:…civiltà crepuscolare che è – scrive su La Vita italiana Evola riferendosi agli scritti di Spengler – una civiltà delle masse, civiltà antiqualitativa, inorganica, urbanistica, livellatrice, intimamente anarchica, demagogica, antitradizionale”.

* * *

Pubblicato sul periodico d’informazione politica Il Megafono, anno 2011.

mardi, 26 juillet 2011

Marc Laudelout sur Louis-Ferdinand Céline

 

Céline, bulletin celinien, un homme, un destin,

Marc Laudelout sur Louis-Ferdinand Céline
http://meridienzero.hautetfort.com/archive/2011/07/06/emission-n-57-louis-ferdinand-celine.html

Hugo Pratt: gli occhi blu ferro dell'avventura

Hugo Pratt: gli occhi blu ferro dell'avventura

di Roberto Alfatti Appetiti

Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

 

Adulatori in vita e millantatori dopo la morte. Ogni grande attira su di sé questo esercito invisibile e minaccioso. Pronti a giurare: io c’ero. Amici (presunti tali), testimoni (per sentito dire), figure marginali che si reinventano protagonisti. Ombre in cerca di luce riflessa. Biografi di professione. Così, quando vieni a sapere che è in arrivo un libro su Hugo Pratt, pensi: un altro? C’è ancora qualcosa da sapere sul creatore di Corto Maltese – ti domandi - che non sia stato già ampiamente riferito, scandagliato nei programmi cosiddetti di approfondimento e soprattutto che non abbia raccontato egli stesso con quella sua straordinaria capacità affabulatoria?
La risposta, dopo aver letto Con Hugo (Marsilio, pp. 247 € 16,00), da pochi giorni nelle librerie italiane, è sì. Perché a scriverlo è Silvina Pratt, figlia del maestro. Perché sin da quando aveva diciotto anni ne ha tradotto le opere. Non per un favoritismo paterno. Certe espressioni dialettali veneziane per chiunque altro sarebbero risultate incomprensibili. Perché è la testimonianza autentica di chi ha conosciuto (bene) e amato (molto) l’altro Pratt, l’uomo.
Hugo? «Uno che parte, uno che appartiene agli altri» – letteralmente, visto che ai figli sono stati strappati i diritti d’autore – ma che rimane pur sempre un genitore. Affettuoso, certamente, ma anche inquieto. Scostante, di un’allegria che sa essere contagiosa quanto la tristezza. Di una vitalità dirompente, alternata a cupezze improvvise. «Con lui sembra di essere sulle montagne russe. Con i suoi occhi blu di ferro, acuti come scalpelli, riesce a far abbassare lo sguardo altrui. È consapevole del suo ascendente sugli altri – scrive Silvina – e non se ne rallegra, anzi a volte ne è furioso e triste». Meno longilineo ed elegante del suo alter ego “spirituale, di quel suo figliuolo di carta spedito in giro per il mondo all’alba del Novecento, ma – se possibile – persino più carismatico. «Sul palmo sinistro della mano – ha scritto Alberto Ongaro, curatore della prefazione del libro, parlando di Corto – ha ancora la cicatrice che indica una falsa linea della fortuna. In realtà, di fortuna ne ha avuto poca. Le cose che conquista gli sfuggono dalle mani così regolarmente che si ha il sospetto che sia proprio lui a lasciarsele sfuggire apposta. In realtà, l’unica cosa che gli importi è di recitare una parte nel mondo dell’avventura».
Quale migliore definizione anche per Pratt? Sempre con la valigia pronta e in fuga da se stesso, allergico ai legami e nient’affatto venale, innamorato, in fondo, soprattutto dell’avventura. «Mio padre era sempre pronto ad abbellire la verità. Voleva trasformare e correggere ogni cosa, il suo nome, il suo passato, la sua famiglia. La realtà doveva apparirgli troppo scialba». Troppo spesso distante: quando è lontano e quando c’è, immerso nei suoi sogni. Persino nella casa di famiglia a Malamocco, villaggio di pescatori all’estremità del Lido di Venezia, seduto per ore in silenzio a osservare il gioco delle onde che si infrangono sugli scogli. Tanto da far scrivere a Silvina: «Il più doloroso dei ricordi è la sua assenza».
Eppure non c’è traccia di amarezza nei confronti di Hugo, come lo ha sempre chiamato. Mai papà. «Nessuno dei suoi figli l’ha chiamato “papà”. Ci ho provato verso i quattro o cinque anni. Lui non dice niente, ma si volta di scatto, come se avesse preso la scossa. Per un “figlio della lupa”, nipote del fondatore del movimento fascista a Venezia, probabilmente è meglio diventare un “duro” il più presto possibile. Figlio unico, Hugo nutriva una grandissima ammirazione per gli uomini di famiglia. Soldato adolescente, partito per la guerra in Africa, ha visto suo padre Rolando, fascista, imprigionato e poi, malato, morire in un campo di prigionia sotto il sole d’Africa».
Silvina racconta anche di sua nonna Lina, la mamma di Hugo: «Conservava tanti ricordi della “sua” Africa, della “sua” Italia. Sopra il letto era possibile ammirare la foto in bianco e nero di suo marito in uniforme...». Del resto, anche il piccolo Hugo, arruolato dal padre nella polizia coloniale a soli quattordici anni, subirà il fascino di quelle divise. «Sono stati i soldati – spiega Silvina – a conferirgli la sua forma mentis. Gli anni trascorsi in un accampamento miserabile e sporco. Verso le sette di pomeriggio squillavano le trombe africane, mentre i colori della bandiera francese calavano dall’asta. Hugo aveva voglia di piangere. Al posto del blu, avrebbe voluto vedere il verde».
Per la guerra, comunque, nessuna nostalgia: «Ha distrutto la mia famiglia – ha raccontato lo stesso Pratt – come potrei amarla? Ho visto il dolore di mia madre, ho perso amici, come Sandro Gerardi, che si erano messi con i fascisti e sono stati uccisi dai partigiani. La guerra mi ha fatto maturare, comprendere cosa c’è dietro la politica e le ideologie, l’assurdità dei nazionalismi e dell’imperialismo». Con la fine delle ostilità, «finalmente arrivò la pace – ha ricordato in seguito Pratt con feroce ironia – e con la nuova generazione arrivò l’obbligatorio impegno per l’impegno. La parola avventura fu messa al bando. Non è mai stata ben vista, né dalla cultura cattolica, né da quella socialista. È un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro, porta scompiglio e disordine. L’uomo di avventure, come Corto, è apolide e individualista, non ha il senso del collettivo. Bisognava rispolverare Marx ed Engels, autori che mi annoiarono immediatamente. Venni subito accusato di infantilismo, di fascismo e di edonismo, ma soprattutto di essere evasivo, inutile come quegli scrittori che mi piacevano e che avrei dovuto dimenticare. Non ci riuscii e mi accorsi che c’erano parecchi altri che leggevano i narratori contestati. Alla fine ci riconoscemmo come una elite desiderosa di essere inutile».
Eppure quell’etichetta di fascista gli era rimasta appiccicata. Non che se ne facesse un cruccio. «Hugo mi diceva – riferisce Silvina – che i fascisti a quell’epoca, prima di Hitler, erano diversi». Rientrato in Italia, aveva aderito alla Rsi. E, ragazzetto, aveva assistito all'epopea della Decima Mas - dove pure aveva pensato di andare per “avventura” nel battaglione Lupo - e all'arrivo degli anglo-americani come alla resistenza antitedesca vicina agli alleati. Per poi seguire la sua vera e grande vocazione: il fumetto. A soli diciotto anni è tra i fondatori de l’Asso di Picche. A ventidue è già in Argentina, dove rimarrà per tredici anni, collaborando tra gli altri con Hector G. Oesterheld, futuro sceneggiatore dell’opera di fantascienza L’eternauta. Qui conosce la giovanissima Anne Frognier, di origine belga, che sposerà e diventerà madre di Silvina (e gli ispirerà “Anna della giungla”, la protagonista dell’omonima serie). Seconde nozze dopo quelle con Gucky Wogerer, la mamma di Lucas e Marina. E poi il Brasile, San Paolo. Londra. Il ritorno in Italia. La collaborazione con il Corriere dei piccoli. E alla fine degli anni Sessanta, dopo la chiusura di Sgt. Kirk – la rivista aperta nel 1967 con il genovese Florenzo Ivaldi, su cui pubblicherà i lavori argentini, la serie de Gli scorpioni del deserto, ambientata in Africa durante la seconda guerra mondiale, e la prima avventura di Corto Maltese, Una ballata del mare salato – il trasferimento a Parigi.
Su Pif, popolare settimanale francese di fumetti, pubblica ventuno storie brevi di Corto Maltese ma la collaborazione si interrompe bruscamente nel 1973, perché – lo racconta anche Silvina – «le tendenze libertarie di Corto non collimano con le direttive che orientano la rivista verso un’obbedienza di stampo comunista». Hugo preferisce lasciare e accettare le proposte della concorrenza: Casterman, l’editore di Hergé e del settimanale Tintin. Finalmente arriva il successo. Dalla Francia e ovunque cresce il mito di Corto Maltese e lo stesso Pratt diventa personaggio. Milo Manara – che del veneziano è stato amico e allievo – lo trasforma nel protagonista della serie H.P. e Giuseppe Bergman. Di lui dirà: «La sua capacità evocativa è talmente coinvolgente che il suo continuo avvicinarsi all’essenzialità grafica riesce addirittura ad aggiungere nuove suggestioni al disegno, invece di toglierne. In un disegno di Pratt si può stabilire l’ora in cui si svolge l’azione, l’intensità della luce, la violenza del sole, se c’è fresco, se c’è caldo».
L’ultima storia di Corto, Mu, è del 1988. «Non morirà – aveva dichiarato Hugo Pratt – se ne andrà perché in un mondo dove tutto è elettronica, è calcolato, tutto è industrializzato, non c’è posto per un tipo come Corto Maltese». Un po’ come ha fatto Pratt, quando – a metà anni Ottanta – si è ritirato a Grandvaux, presso Losanna, in una casa abbastanza grande da ospitare la sua infinita libreria e con una vista sul lago Lemano. Poco prima di morire – nell’agosto del 1995 a 68 anni – ha fondato insieme alla colorista Patrizia Zanotti la casa editrice Lizard, che edita l’intera opera del maestro, oltre a libri e saggi su Hugo Pratt, su Corto e i luoghi cari alla sua letteratura. E sempre la Zanotti, l’anno scorso, ha annunciato il possibile ritorno di Corto Maltese – in Francia – con storie nuove, forse già dal Natale 2009.
La realizzazione delle nuove avventure sarà affidata a autori “di grande personalità”. Sapranno restituire le stesse atmosfere di Pratt? Sarebbero piaciuti al maestro? Chissà. Per fortuna, sinora, ci è stata risparmiata una trasposizione cinematografica. Tempo fa la proposero a Gabriele Salvatores, l'autore di Mediterraneo, che declinò l’invito: «Ho rifiutato – ha spiegato il regista napoletano – perché il produttore voleva farlo diventare una specie di Indiana Jones. Preferisco lasciarlo navigare su quella sottile linea d’inchiostro e sognare un film su Corto Maltese scritto da Hugo Pratt e diretto da Sergio Leone. E forse, da qualche parte, quei due ci stanno lavorando».

 


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Atlantis & the Death of the American Myth

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Atlantis & the Death of the American Myth

John MORGAN

Ex: http://www.counter-currents.com/

On Friday, July 8, 2011, the 135th and last-ever space shuttle mission, carried out by the shuttle Atlantis, is being launched. What many Americans don’t seem to realize yet is that this effectively marks the end of a half-century of America’s adventure into space which began with John F. Kennedy’s call for America to land men on the Moon in his famous 1961 speech.

Since that time NASA carried out the Mercury, Gemini and Apollo programs, the last of which successfully completed 6 astronaut landings on the Moon. This was followed closely by the shuttle program, which began in 1981 and lasted for 30 years. So after this illustrious record, what’s next?

The answer is: nothing. NASA had a Constellation program in development which was intended to replace the shuttle, and which it was hoped would eventually return men to the Moon and perhaps eventually go on to Mars. But last year President Obama declared that the program was hopelessly behind schedule and over-budget, and killed it, over the protests of many of the Apollo astronaut veterans. After all, when you’re engaged in two wars (four these days, counting Libya and Yemen) and trying to create and fund a lot of ambitious social programs while being trillions of dollars in debt, space travel seems a bit extravagant.

This means that from now on, if America ever wants or needs to send astronauts into space, such as to the international space station, it will have to hitch a ride with its former competitors, the Russians. (If there is any greater indicator of declining American power and wealth than that, I don’t know what it is.) And the Russians are still using the same old Soyuz rockets that they’ve been building since the 1960s. It makes you think that maybe the U.S. should have kept around a few of its Saturn V rockets from the Apollo days.

Not that manned American spaceflight is completely dead. After killing the Constellation project, Obama’s people came up with a plan by which NASA may eventually build some sort of capsule that can be attached to existing commercial satellite launchers, rockets that are built and owned by private companies rather than by NASA itself. So the dream of space travel has officially been privatized. How far off can “Planet Starbucks” be, to quote Fight Club?

I can’t get too worked up about the fate of the shuttle itself. Its technology is antiquated by today’s standards. And it was never really inspiring, since all it ever did, and all it was ever capable of doing, was to make short excursions into low-earth orbit and then come home. As an American kid growing up in the 1980s, I remember the shuttle was kind of a bummer after the previous generation had been able to experience the thrill of landing men on the Moon.

But still, the shuttle was cool. It could land like a plane rather than splashing down in the ocean as the old space capsules had done. It could be re-used many times, unlike all previous rockets. And it at least showed that we were doing something in space.

In the ’80s many of us were convinced that the shuttle was just part of a larger plan to bring the world of 2001: A Space Odyssey into reality, with routine flights to the Moon, manned missions to other planets, and Hiltons in orbit, all within our lifetimes.

Looking back after 30 years and 135 missions, it now seems that NASA was just marking time. Atlantis is the end of an era, and an indicator of the dangerous new era that America is entering.

Like any healthy civilization, America, since its birth, has always had a motivating myth to inspire its people, westward expansion being the most prominent one. In the 1960s, when American confidence was flagging in the face of apparently unstoppable Soviet expansionism and the ongoing humiliation of the Vietnam War, the goal of landing a man on the Moon helped to inspire Americans.

Yes, I’m well aware that the Apollo program was not really about the grandeur of space exploration or the desire to go there “in peace for all mankind,” but was just intended to pay the Soviet Union back for Sputnik. And I think most Americans must have known that at the time.

But still, it was exciting, and it was a good reason to do well in school or read a book or care about your country. And as a myth, it continues to be effective — “landing a man on the Moon” has been a rallying cry for defenders of America and Western civilization ever since.

While space travel was inspiring to me as a boy, in my adult years other things inspire me now. A great book or a great piece of music, or a spiritually advanced individual, or someone dedicated wholeheartedly to a good cause, mean a lot more to me these days than do astronauts or space flights.

I’ve also grown quite negative in my view of America’s role in the world, as well as of science’s ability to solve humanity’s genuine problems (and still more about scientism, or science’s elevation to the same status that rightfully belongs to religion). But in spite of all that, if America landed astronauts on the Moon or Mars, I haven’t grown so cold that it wouldn’t warm my heart.

Every great civilization has a motivating myth that gives its citizens a sense of purpose and meaning. And the United States did have that once, even when those myths were occasionally bad ones, such as “making the world safe for democracy.” But what myth can America offer today? The only myths that we have are not those which spark the imagination, one’s enthusiasm and the will, but only those by which America is trying desperately not to lose what it already has, such as the “war on terror,” which is really just a clumsy attempt to reverse America’s declining geopolitical power and grab the last of the cheap oil resources.

I really don’t know what inspires young minds today. At the risk of sounding like a young fogey (I’m only 37), perhaps that’s why the younger generation seem so materialistic and self-centered, since there’s never been much in terms of social idealism to capture their imaginations. What can America offer as something to inspire its young people? National health care? Multiculturalism? Imposing democracy by force of arms upon people who don’t want it? Bringing down the deficit? No wonder the young are more interested in worrying about their careers and their bank accounts.

I think the most frightening aspect of the end of American manned spaceflight has been the apparent lack of public outcry about it. Either people are ignorant of what’s afoot, or they are simply too jaded or worried about more immediate problems to care. Whatever the case may be, the end of the shuttle program marks the end of the last vestiges of the American myth.

I generally tend to shy away from apocalyptic collapse scenarios. Still, it cannot be denied that the United States, while it may continue to coast in some form for decades to come, has already seen its best days. The task now is not to mourn but to construct an alternative which can inspire our people for the age that will come after the American age. And I think we can do better.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/07/atlantis-and-the-death-of-the-american-myth/

lundi, 25 juillet 2011

Storia della cultura fascista

Storia della cultura fascista

di Luca Leonello Rimbotti


Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

image.jpgÈ appena uscito un libro eccellente sul Fascismo e la sua importanza come moderno movimento rivoluzionario: non esitiamo a considerarlo un vero e proprio manuale di base, in grado di rompere gli steccati del conformismo vetero-ideologico e di porsi come strumento di contro-cultura di qualità: su di esso può essere ricostruita pezzo a pezzo tutta la storiografia del nuovo Millennio sul Fascismo. E con esso si può finalmente buttarsi alle spalle la lunga e avvilente stagione in cui a dominare la scena erano gli intellettuali codardi e opportunisti, i gestori della menzogna storica, i grandi camaleonti allevati in gioventù dal Regime, da questo messi in pista e poi, alla prova dei fatti, rivoltatiglisi contro come un groviglio di serpi rancorose, subito asservite ai nuovi padroni del dopoguerra. L’eccezionale uscita editoriale si chiama Storia della cultura fascista (il Mulino) di Alessandra Tarquini, una giovane ricercatrice di scuola defeliciana che già conoscevamo come ottima storica di Gentile e del gentilianesimo. Di questo libro bisogna parlare alto e forte. Deve essere da tutti conosciuto, studiato, divulgato. Non foss’altro per quella compostezza ed equanimità che, a distanza di quasi settant’anni dalla fine del Fascismo, è il minimo che si possa richiedere ad uno studioso di oggi.

Fatti i conti con i vecchi rottami della faida ideologica, appartenenti a una stagione ingloriosamente trapassata, la Tarquini passa in rassegna tutte le componenti che hanno costituito l’anima del movimento e del Regime fascisti: l’uno e l’altro sono da lei giudicati essenzialmente come soggetti politici rivoluzionari portatori di modernità e di cultura innovatrice. Viene così rovesciato l’assunto propagandistico di quanti avevano per decenni irriso il Fascismo, dicendolo privo di una sua originale ideologia, di una sua peculiare cultura, di una sua spinta modernizzatrice. La studiosa – in questa che è propriamente una storia della storiografia sul Fascismo – precisa che, per la verità, negli ultimi decenni già si erano avuti i sintomi di un generale ripensamento degli storici in materia. I tempi dei Quazza, dei Bobbio, dei Santarelli, dei Tranfaglia e compagni, una volta crollato il comunismo sovietico e prontamente liquidata la sbornia marxista che aveva dettato legge soprattutto negli anni Settanta, ha lasciato campo a posizionamenti più seri. Le boutade sul Fascismo reazionario e sul Mussolini pagato dai padroni capitalisti, le pedestri generalizzazioni sugli incolti picchiatori, tutte cose che comunque rimangono a testimonianza di un’atmosfera italiana popolata da studiosi sovente di rara bassezza qualitativa, vengono sostituite con l’analisi che oggi «gli storici hanno capovolto i loro giudizi e sono passati dal negare l’esistenza della cultura fascista al ricostruire i suoi diversi e molteplici aspetti considerandoli non solo importanti, ma addirittura decisivi per capire il fascismo».

Quando, negli anni Sessanta, uscirono gli studi capitali di Mosse e De Felice, la canèa antifascista fece di tutto per spingerli ai margini. Poi, mano a mano, si aprivano spiragli, si notavano marce indietro. Poterono così aversi i libri, per dire, di Isnenghi, Turi, Zunino, che, pur non rinunciando alla polemica ideologica anche fuori posto, tuttavia dimostravano che la repubblica delle lettere si stava rendendo conto che il Fascismo era stato un fenomeno ben più complesso che non “l’orda degli Hyksos” immaginata da Croce e sulla cui traccia si era gettata la muta degli storici marxisti o di scuola azionista. Poi, soprattutto dall’estero, arrivarono in successione un Gregor, uno Sternhell, un Cannistraro, ma specialmente poi un Griffin, e su questa scia si è potuta avere in Italia la densa produzione soprattutto di Emilio Gentile, ma anche di tutta una serie di nuovi storici, che nell’insieme hanno prodotto con risultati notevoli indagini anche minute sul Fascismo come combinazione di mito e organizzazione, di totalitarismo e modernità.

Intendiamoci, il rigurgito passatista è sempre dietro l’angolo: e ogni tanto ancora escono libri che sembrano scritti, e male, quarant’anni fa, e pur sempre i vecchi Tasca o Salvatorelli continuano qua e là a far pessima scuola. Ma, in generale, le nebbie si stanno diradando e il Fascismo comincia a vedersi riconosciuti alcuni tratti fondamentali. Che, come la Tarquini ben precisa, furono essenzialmente la modernità, la centralità del popolo e la cultura. Il tutto, incardinato sul principio del primato della politica, dette vita ad una autentica rivoluzione. Anzi, come la storica puntualizza, si trattò proprio di una sorta di rivoluzione conservatrice, che se da un lato proteggeva quanto di buono vi era nel tessuto sociale tradizionale, dall’altro si presentava con un massimo di proiezione sul futuro. Ciò che la Tarquini, riferendosi ad esempio a Sternhell, ha sottolineato nel senso che il Fascismo fu un fenomeno politico «dotato di una propria ideologia rivoluzionaria non meno coerente del liberalismo e del marxismo, che aveva espresso la volontà di creare una nuova civiltà e un uomo nuovo». Fu infatti anche una rivoluzione antropologica, un tentativo di rifare l’uomo accentuandone le disposizioni alla socialità e al solidarismo, infrangendo così sia l’individualismo liberale che la massificazione collettivista marxista.

La Tarquini riassume gli ambienti che erano alla base della concezione politica fascista: i “revisionisti” (guidati da Bottai, con elementi di spicco come Pellizzi);  gli “intransigenti” (con Soffici, Maccari, Ricci come punte di lancia); e i “gentiliani” (Cantimori, Spirito, Carlini, Volpicelli, Saitta fra gli altri). Tra queste posizioni si muovevano uomini ai limiti dell’una o dell’altra cerchia e talvolta si avevano passaggi non contraddittori, trasversali, come ad es. un Malaparte o un Longanesi, vicini sia a “Strapaese” che a “900″ di Bontempelli.

Grazie a questi gruppi venne assicurata la centralità del popolo nella visione del mondo fascista, il popolo come “pura forza”, cioè «un soggetto depositario di valori positivi», per il quale, come scrive la Tarquini, gli scrittori politici «si impegnavano nella società del loro tempo sostenendo la costruzione di un nuovo Stato nazionale e popolare». Qualcosa che accendeva la modernità. Le veloci pagine della studiosa ricordano che il Fascismo fu cultura, e anzi alta cultura, sin dagli inizi del Regime vero e proprio, con il “Manifesto degli intellettuali fascisti” voluto da Gentile nel 1925 e che vedeva schierati alcuni pesi massimi della cultura italiana del Novecento, fra i quali Pirandello, Volpe, Codignola, Ungaretti, Soffici, che si andavano ad affiancare ai D’Annunzio, il “primo Duce del Fascismo”, ai Marinetti, ai Cardarelli, ai Papini, etc. E siamo in attesa di qualcuno che ci dica quale altro regime si sia mai avvalso di una così potente schiera di aperti sostenitori.

Ma la Tarquini è anche originale, laddove traccia percorsi nuovi: ricordando l’influenza che il filosofo Giuseppe Rensi (in anni recenti al centro di un processo di rivalutazione, dopo un lungo oblìo) ebbe sul Fascismo e sulla sua idea di autorità; oppure sulla figura di Emilio Bodrero, storico della filosofia e docente alla Scuola di Mistica Fascista, secondo il quale, sin dal 1921, il Fascismo doveva «mobilitarsi come forza rivoluzionaria, per conquistare il potere e dare vita a un nuovo ordine politico».

La Tarquini ricorda anche l’avanguardismo giovanile, fulcro incandescente di elaborazione ideologica e di spinta rivoluzionaria il cui programma, sin dagli esordi del 1920, esprimeva un massimo di moderna socialità, dato che proponeva di «adeguare i programmi scolastici alle esigenze professionali dei ragazzi» e di «abolire il voto in condotta, di sostenere gli studenti più poveri e di rendere obbligatorio l’insegnamento dell’educazione fisica». E poi c’erano le donne. E che donne…da Ada Negri (prima donna nominata all’Accademia d’Italia, nel 1940), alla Deledda (che partecipò alla stesura del testo unico per le scuole medie), fino alla Sarfatti, regina incontrastata del modernismo fascista in politica, in letteratura e nelle arti.

E, a proposito dell’arte e della sostanza del Fascismo come «politicizzazione dell’estetica» e volontà di «socializzazione degli intellettuali» (e in campo artistico basti ricordare la passione fascista di un Sironi, di un Severini, di un Primo Conti, di un Piacentini, di un Terragni, etc.), l’autrice rammenta la presenza massiccia di artisti e letterati di primo piano nello squadrismo (Rosai, Maccari, Malaparte-Suckert, ma potremmo aggiungere lo stesso Marinetti, oppure Lorenzo Viani, Gallian, etc.), così come non manca di scrivere che l’enorme fermento ideologico e culturale messo in moto e catalizzato dal Fascismo si presentò, come avevano già indicato i vari Nolte, Mosse e Del Noce, come «un fenomeno politico figlio della modernità», così da «esprimere una forte spinta alla modernizzazione dell’economia, della società e della cultura». Il senso della missione dei giovani, il progetto di un destino comune, l’esaltante prospettiva di un popolo unito e socialmente avanzato furono il cuore dello sforzo culturale messo in campo dal Fascismo, che poté usufruire di un vero e proprio esercito di intellettuali d’alto e non di rado altissimo livello: ad un impietoso confronto, l’odierna incolta e rozza liberaldemocrazia mondiale – priva di intellettuali che superino il quarto d’ora di celebrità mediatica – ne esce distrutta.



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Le déni des réalités, la clé du mystère de notre décadence...

 

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Le déni des réalités, la clé du mystère de notre décadence...

par Marc ROUSSET

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

Le déni des réalités par nos sociétés sous l’emprise des médias politiquement corrects et des politiciens pratiquant l’art de plaire et du mensonge avec pour seule fin d’être réélus, est l’explication principale de notre décadence.

Le libre échange mondialiste comme l’a très bien démontré Maurice Allais n’est rien d’autre que le suicide économique des pays occidentaux, l’Allemagne, au-delà des apparences, ne devant être que le dernier pays à connaitre à son tour ce sort peu enviable. Alors que le discours dominant du journalisme proclame depuis trois  décennies que le protectionnisme européen est le mal absolu, les travaux de Paul Bairoch à Genève et de nombreuses universités américaines (industrialisation de l’Asie, Tariff Growth factories...) aboutissent à un résultat inverse. Quant à la théorie de Ricardo, elle ne vaut que dans un monde stable et figé du XVIIIème siècle faisant abstraction des mouvements internationaux de capitaux de notre monde actuel, des taux de change qui peuvent varier de 50% et de la mise en œuvre  des technologies de pointe dans les pays à bas salaire. La désindustrialisation et  le chômage structurel tant aux Etats-Unis (17% au-delà du taux officiel de 9,1%°) qu’en Europe témoignent enfin du déni des conséquences catastrophiques pour les peuples du libre échangisme mondialiste qui ne fait que le bonheur des sociétés multinationales. Enfin le symbole même de la ligne Maginot qui a parfaitement joué son rôle est un déni historique des réalités ; par là même on instille dans nos esprits l’idée fausse qu’il est inutile de réagir et de  songer à se défendre ! La seule erreur en 39-40 a pourtant été de ne pas continuer la ligne Maginot jusqu’à Dunkerque et de ne pas avoir de divisions mécanisées blindées. Les Allemands avaient la ligne Siegfried qui  elle aussi a magnifiquement fonctionné et coûté de nombreuses vies aux Alliés fin 1944-début 1945 !

De même nos élites nient les réalités de la disparition programmée de la langue française qu’ils trahissent, comme Valérie Pécresse et tant d’autres, du matin jusqu’au soir, d’une façon éhontée. Selon Claude Hagège, du Collège de France, avant un demi-siècle, les langues autres que l’anglais auront disparu en Europe ou, alors, se seront provincialisées ». Les réalités, c’est le stupide accord de Londres signé sous la Présidence de Nicolas Sarkozy qui fait de l’anglo-américain la langue des Brevets de l’Europe. Les réalités, c’est qu’en 1945, 95% des jeunes Italiens étudiaient le français ; ils représentent moins de 30% aujourd’hui et le français n’est même plus enseigné comme première langue en Italie ! La réalité, c’est que la langue française est envahie par les armées du sabir anglo-américain qui la ravagent comme les armées anglaises ravageaient la France pendant la Guerre de Cent Ans et  que, si rien ne change, l’on se dirige à terme vers une nouvelle Louisiane !

Il m’a fallu attendre un grand nombre de printemps pour apprendre que, contrairement à tout ce que j’ai pu voir depuis que je suis sur cette Terre, selon la théorie du « gender », autre énormité qui nous arrive directement des Etats-Unis, la masculinité et la féminité ne seraient pas déterminées par le sexe de la personne, mais par la culture : bref, on ne naîtrait pas homme ou femme, mais on le deviendrait ! Cette folle théorie heurte le sens commun le plus élémentaire et son grand ennemi est la nature, la loi naturelle que l’on veut bizarrement nier tant il est facile de jongler et de dire n’importe quoi dans le monde virtuel  des  Idées...

Que l’on songe également aux cocoricos démographiques français, soi-disant  champions d’Europe de la natalité qui nient la réalité, à savoir la perte du caractère blanc et européen du peuple de France avec un taux de fécondité des femmes européennes de 1,7 enfants par femme, soit moins que le taux de reproduction d’une population à l’identique qui doit être de 2,1, tandis que l’invasion en cours continue avec un  taux de natalité des populations immigrées  d’origine extra-européenne de 3, 4. Les médias en ne publiant que des chiffres globaux, nient les catastrophiques réalités démographiques.

En matière d’immigration, les bien-pensants à l’humanisme exacerbé, comme le remarque Jean Raspail, déclinent à l’infini les valeurs républicaines oublieux que la France est une « patrie charnelle » qui existait déjà bien avant 1789, avec des frontières ; ils n’arpentent pas assez souvent les couloirs parisiens du métro ou du RER pour constater l’invasion en cours ! La réalité, c’est que les naissances d’origine extra-européennes représentent 17% des naissances aujourd’hui et qu’elles atteindront 30% en 2030 et 50% en 2050, si rien ne change ! La réalité, c’est que la France  compte plus de 550 000 immigrés en situation irrégulière dont le coût annuel est de 4,6 milliards d’euros tandis que le coût global des 7,8 millions immigrés légaux et illégaux est de 35 milliards d’euros par an ! Il y a là des premières économies bien réelles à faire, quitte à donner l’ordre de tirer pour défendre nos frontières ou rétablir l’ordre dans nos banlieues criminelles, comme l’auraient fait tout naturellement et sans états d’âmes  nos pères depuis la nuit des temps, après sommation !

La crise de l’endettement public et de l’euro fait penser à ce qu’a connu l’Argentine. Tout allait très bien dans ce pays jusqu’à ce que l’on reconnaisse subitement que c’est la faillite généralisée. L’ex-ministre des Finances d’Argentine Robert Lavagna, lors d’une rencontre début Juillet 2011 à Aix en Provence, qui était aux manettes peu après que son pays ait répudié sa dette souveraine en 2001-2002 a pu dire : « Il y a d’abord un refus de la réalité. Puis un retard à reconnaitre la crise au fur et à mesure que les déséquilibres s’accroissent : on continue de dire qu’il s’agit d’un problème de liquidités alors que le pays n’est plus solvable ni compétitif ». La réalité, c’est que l’Europe traverse une crise profonde car elle gère ses finances en s’inspirant des idées socialistes irresponsables de Madame Aubry (surnombre de fonctionnaires, 35 heures, âge de la retraite, endettement inconscient et sans fin  pour relancer la consommation au lieu de consacrer, comme l’Allemagne ces mêmes ressources pour muscler, créer et développer l’offre, c'est-à-dire investir dans  les entreprises !) La réalité, c’est que la France présente des comptes en déficit depuis trente ans quelle que soit la conjoncture économique, qu’elle croule sous 1600 milliards euros de dettes  et qu’avec des taux d’intérêts aujourd’hui très faibles, elle consacre déjà 50 milliards au paiement de ses seuls intérêts, soit davantage qu’au budget de fonctionnement de l’Education nationale ! Merci Monsieur Mitterrand, Merci Monsieur Chirac, sans oublier notre Président actuel légèrement moins irresponsable sur le seul  plan économique ! Quant à la Grèce, on a réussi à faire passer pour solvable un pays techniquement en faillite. L’UE, Messieurs Sarkozy, Trichet, Strauss-Kahn, toutes les banques françaises et allemandes, et la béni oui-oui  Madame Lagarde avec sa brillante carrière consistant à plaire  dans l’air du temps anglo-saxon, insistaient pour sauver un pays ruiné, avec un déficit budgétaire qui représente 10% du PIB et une dette de 350 milliards qui dépasse de 150% la richesse produite en un an ! Telle la Cigale de La Fontaine, après avoir chanté pendant plus de 30 ans, voilà venu le temps pour les Européens (tout comme pour les Américains) de rembourser les dettes abyssales bien réelles. Et lorsque les Agences de Notation font enfin leur travail, en décrivant les tristes réalités, les mêmes bien-pensants hypocrites qui leur avaient reproché de ne pas avoir dévoilé l’escroquerie des « subprime » crient au scandale en souhaitant casser ce thermomètre inflexible, froid et accusateur qui leur fait si peur ! L’Allemagne, elle est revenue aux 40 heures, va faire passer l’âge de la retraite à 67ans et a des charges salariales pour ses fonctionnaires qui représentent 7,2% du PIB contre plus de 13% du PIB pour la France ! Redresser  la France et les comptes français n’est donc pas compliqué ; il suffit d’avoir l’estomac et la volonté d’un De Gaulle : combattre effectivement l’immigration extra-européenne avec une immigration zéro, la politique du retour et une aide nataliste pour les seules familles européennes, passer aux 40 heures, revenir à l’âge de la retraite à 65 ans de l’avant catastrophe mitterrandiste, diminuer le nombre des fonctionnaires d’une façon drastique pour gagner 6% du PIB, augmenter le budget de la défense à 3%du PIB, faire preuve d’autorité et demander aux jeunes lycéens irresponsables, endoctrinés  qui manifestent pour la retraite à 60 ans de revenir à leurs chères études, ce dont ils ont bien besoin, vu le niveau  actuel du baccalauréat… et, sans même parler de l’Allemagne, voyons comment la Suède et le Canada ont réalisé leur spectaculaire redressement en s’attaquant en particulier à l’inefficacité de la fonction publique, exit donc les énarques carriéristes, technocrates prétentieux, ne songeant qu’à pantoufler dans le privé, avides de privilèges cachés par les nuages de fumées protectrices du service public, aux beaux discours lénifiants, mais irréalistes et incapables depuis la création de l’ENA en 1945 de mettre en place des structures administratives légères, compétitives et efficaces...

En matière de défense, au-delà  des rodomontades sarkoziennes, la réalité, c’est que la France, avec un effort insuffisant de 1.5% du PIB (5,1% sous le général De Gaulle), des régiments qui fondent comme neige au soleil, et des équipements militaires prototypes, devient une puissance militaire de second ordre, un  valet  de l’OTAN ! La réalité, suite à l’intervention en Libye, c’est que l’amiral Pierre Forissier, chef de la Marine, a insisté publiquement le 10 juin 2011 sur les contraintes de « régénération » des équipements et des hommes. Elles feront que si l’opération libyenne dure jusqu’à la fin de 2011, il faudra se passer de l’unique porte-avions français en 2012. Il est en effet du devoir d’un chef militaire de dire les choses telles qu’elles sont quand il y va du maintien des capacités opérationnelles dans la durée et de la vie des hommes et des femmes qui sont sous ses ordres. Quant à la défense européenne qui devait être la contrepartie de la réintégration de la France dans   l’OTAN, la réalité c’est que le Président  Nicolas Sarkozy, après son passage  en force devant le Parlement pour faire avaler la pilule, nous a illusionné une fois de plus, que le sujet est enterré, suite à l’éternelle opposition britannique, et que la cellule de planification opérationnelle du QG européen à Cotenbergh dans les environs de Bruxelles qui comprend en tout et pour tout 8 personnes, n’a jamais été utilisée , même pour l’intervention au Tchad !

En ce qui concerne la folie droit de l’hommiste propre à notre époque, en opposition totale avec l’histoire vécue depuis  qu’il y a des hommes sur terre, nous citerons seulement le très réaliste Joseph de Maistre : « J’ai vu dans ma vie des Français, des Italiens, des Russes. Je sais même grâce à Montesquieu qu’on peut être persan ; mais quant à l’homme, je déclare ne l’avoir rencontré de ma vie ; s’il existe, c’est bien à mon insu » (1)

Nous vivons donc la folie de « l’IrrealPolitik » avec les pertes des valeurs de la  famille, de la  patrie, de l’effort, du dépassement de soi, du travail, de l’autorité, du devoir, bref tout ce qui a fait la Grandeur de la France depuis les débuts de son histoire jusqu’à la perte de son Empire ! A ce déni des réalités salvatrices des valeurs traditionnelles et des faits, ont succédé l’individualisme, l’hédonisme matérialiste, l’irresponsabilité, la repentance, le droit de l’hommisme, les envolées lyriques humanistes, style Bernard Henri Levy,  qui nous conduisent à la décadence. Les Européens occultent délibérément les réalités ethniques, géographiques, identitaires, démographiques, économiques, historiques, considérées comme des résidus du passé. De Gaulle parlait de « la lampe merveilleuse qu’il suffirait de frotter pour voler au-dessus du réel ». Cioran, lui, au-delà du déni des réalités, dans deux ouvrages écrits en 1956 et 1964, avec des sentiments prémonitoires,  nous aide à mieux réaliser le malaise existentiel de l’Européen : « Pauvre Occidental ! La civilisation, son œuvre, sa folie, lui apparaît comme un châtiment qu’il s’est infligé et qu’il voudrait à son tour faire subir à ceux qui y ont échappé jusqu’ici (2) (...) Les traces du barbare qu’il fut, on les chercherait en vain : tous ses instincts sont jugulés par sa décence. Au lieu de le fouetter, d’encourager ses folies, ses philosophes l’ont poussé vers l’impasse du bonheur (3) (...). Nous nous illusionnons à propos de l’idéal du bien vivre qui n’est que la manie des époques déclinantes » (4).

Notes

1 -Joseph de Maistre, Considérations sur la France, 1790

2 - Cioran, La Chute dans le temps-Paris-Gallimard, 1964, p. 36

3 - Cioran, La Tentation d’exister-Paris-Gallimard, 1956, p. 30

4 - Cioran, Ibid,  p.27

 

dimanche, 24 juillet 2011

Krantenkoppen - Juli 2011 (8)

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Krantenkoppen
Juli 2011 (8)
NEDERLANDER KRIJGT GEEN IDENTITEITSKAART ZONDER VINGERAFDRUKKEN:
 
 
PROFESSOR VERLAAT ULB UIT PROTEST WEGENS ANTISEMITISCHE INCIDENTEN:
De joodse professor Jacques Brotchi beschuldigt de vrijmetselaarsuniversiteit ULB van 'antisemitisme' voor een paar onbenulligheden:
http://www.standaard.be/artike ​l/detail.aspx?artikelid=DMF201 ​10719_007
 
 
THE OLD IMPERIALIST PROJECT TO DIVIDE LIBYA IN THREE HAS BEEN EXECUTED:
Interesting article about the huge lies of the Western media on Libya, the structure of the Libyan society, the NATO war on Libya as an effort to 'remodel' Africa and the strong resistance of the Libyan people against NATO:
 
 
BAAS IN EIGEN BUIK:
"U verkoopt uw huis en trekt u bescheiden terug in een uiterst eenvoudige huurwoning om maar eens wat te noemen. U bouwt uw verdere verplichtingen af tot een kinderlijk niveau waarbij uw huisbankier u zal vragen of alles nog wel goed met u gaat.
Op die manier loopt u vooraan in de keiharde internationale sanering die ons allen nog te wachten staat. Een betere wereld begint bij u zelf, is daarbij het motto. Verder regeert u vanuit belegd vermogen, hoe bescheiden dat ook mag zijn. ...Uw leven is verworden tot een ‘debt free environment’. U bent onderweg van uw krantenwijk naar uw villawijk op deze manier, zonder dat u het beseft. U bent geen slaaf meer van onbetrouwbare regeringspartners of duistere financiële instellingen die u van alles proberen aan te smeren. U bent baas in eigen buik":
 http://www.ftm.nl/followleader ​/baas-in-eigen-buik.aspx
 
 
DE SCHULDENKWESTIE: AMERIKA SPEELT RUSSISCHE ROULETTE:
‎"Toen Bill Clinton zijn presidentschap in 2001 overdroeg aan George Bush was het budget min of meer in evenwicht. Maar 2 dure oorlogen, belastingsverminderingen voor de rijken en de recessie maakten daar snel een eind aan":
http://www.express.be/business ​/nl/economy/de-schuldenkwestie ​-amerika-speelt-russische-roul ​ette/149341.htm
 
 
LA HONGRIE MET EN PLACE DES CAMPS DE TRAVAIL OBLIGATOIRES:
"Des policiers pourraient surveiller ces salariés regroupés dans des camps et affectés à de gros projets d’infrastructure. Principale cible de ce programme : les Roms dont le taux de chômage avoisine les 50 %":
http://fr.myeurop.info/2011/07 ​/13/la-hongrie-met-en-place-de ​s-camps-de-travail-obligatoire ​-2956
 
 
NIEUWE WET OP KERKEN GOEDGEKEURD IN HONGARIJE:
Hongarije snoeit drastisch in het aantal erkende godsdiensten: "De nieuwe wet bepaalt dat maar 14 godsdiensten een officiële erkenning kunnen krijgen van de Staat, maar laat de deur echter open voor andere religieuze gemeenschappen. Tevoren waren er meer dan 300 religieuze gemeenschappen erkend":
http://www.rorate.com/nieuws/n ​ws.php?id=67203
 
 
LA RE-COLONISATION DE L'AFRIQUE A DEJA COMMENCE:
Interesting interview with French journalist Thierry Meyssan about the US war on 2 fronts in Libya and Syria:
 
 
BISSCHOP PRIESTERFRATERNITEIT ST.-PIUS X VEROORDEELD TOT BOETE VAN 6.500 EURO:
De boete van Mgr. Williamson voor negationisme werd in beroep verlaagd van 10.000 euro naar 6.500 euro.
http://www.rorate.com/nieuws/n ​ws.php?id=67174
 
 
DSK A-T-IL ETE VICTIME DE LA GUERRE D' INFLUENCE ENTRE WASPS ET JUIFS?
"DSK aurait eu la preuve que le stock d'or de fort Knox est manquant et qu'il ne pouvait donc plus l'utiliser pour venir soutenir une monnaie mondiale basée sur les DTS (Droits de Tirage Spéciaux) voulus par le FMI pour répondre à la crise":
http://www.cameroonvoice.com/n ​ews/article-news-3906.html#.Th ​qg2oXiiQl.facebook
 
 
VLADIMIR PUTIN'S 2012 DILEMMA:
"Putin, Russia's most powerful politician, will have the decisive say in determining who will serve as president for the next 6 years. Once his choice is made sometime this year, the ruling elite will support the chosen candidate. The outcome of his informal choice will most likely be formalized in the March election":
http://www.themoscowtimes.com/ ​news/article/news-analysis-vla ​dimir-putins-2012-dilemma/4403 ​76.html
 
 
RUSSIE-BIELORUSSIE-KAZAKHSTAN: UN NOUVEAU POLE MONDIAL:
"Nous envisageons de créer une association puissante qui pourrait et devrait devenir l'un des pôles de l'économie mondiale":
http://fr.rian.ru/economic_new ​s/20110712/190126199.html
 
 
L'OTAN FACE A L' INGRATITUDE DES LIBYENS:
"La Coalition des volontaires était venue en Libye pour sauver la population civile de la répression du tyran Kadhafi. Quatre mois plus tard, les foules libyennes ont déserté le territoire libéré de Benghazi et se massent dans de gigantesques manifestations anti-OTAN":
http://www.voltairenet.org/L-O ​TAN-face-a-l-ingratitude-des

L. F. Céline: nouvelles parutions italienne et néerlandaise

Louis-Ferdinand Céline: nouvelles parutions italienne et néerlandaise

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/ 

 
Parution aux éditions Il Settimo Sigillo de lettres de Céline à la presse collaborationniste entre 1940 et 1944. Un choix d'Andréa Lombardi, préfacé par Stenio Solinas, traduit du français par Valeria Ferretti. http://lf-celine.blogspot.com

Presentiamo qui, per la prima volta in italiano, le discusse lettere e gli scritti di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese e apparse su “Je suis partout”, “Au Pilori”, “Germinal”, “La Gerbe”...
I temi toccati da Céline in queste lettere “maledette”, vanno dalla disfatta del 1940 e Vichy, gli ebrei, il razzismo, la guerra, la collaborazione franco-tedesca e gli intellettuali, alla polemica letteraria contro Proust, Cocteau e Peguy. Nel volume sono anche riprodotte le pagine originali delle ormai introvabili riviste e quotidiani dove apparvero gli scritti tradotti, mentre le appendici comprendono la risposta di Céline alle accuse della Procura francese, un ricordo di Céline scritto da Karl Epting, direttore dell’Istituto Tedesco di Parigi, un breve saggio sulla cultura politicizzata della Sinistra in quegli stessi anni e uno sui rapporti tra gli intellettuali francesi e tedeschi, e numerose fotografie.



Un livre de Nico Keuning paraît en néerlandais sur la période de l'exil danois, De laatste reis, De Deense jaren van Céline in ballingschap 1945 - 1951, aux éditions Aspekt.


Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) heeft als soldaat, (onder zijn werkelijke naam Destouches), arts en schrijver een turbulent leven geleid. Als avonturier en gelukzoeker zocht hij zijn heil in Afrika en in zijn functie als hygiënist van de Volkenbond reisde hij onder andere naar Amerika, Engeland, Duitsland, Denemarken...

Met zijn roman Reis naar het einde van de nacht (1932) bracht hij een vernieuwing in de Europese literatuur teweeg. ‘Ik heb de emotie weer in de schrijftaal gebracht.’ In Nederland vond hij bewonderaars onder schrijvers als Gerard Reve en W.F. Hermans. Wellicht ook door zijn misantropie, paranoia en eigenzinnigheid. Eind jaren ’30 neemt zijn carrière een dramatische wen- ding als hij in antisemitische pamfletten openlijk sympathiseert met ideeën van het nationaal-socialisme en het Franse volk waarschuwt tegen de joden en de dreiging van een Tweede Wereldoorlog. Uit angst geëxecuteerd te worden, slaat Céline in juni 1944 op de vlucht.

De laatste reis laat een andere Céline zien: een schrijver in het plunje van een zwerver op de vlucht door Duitsland, ondergedoken in Kopenhagen, opge- sloten in de Vestre Fængsel, de gevangenis in Kopenhagen, onder huisarrest in Klarskovgaard op het Deense eiland Seeland. Een kankerende Céline, een hatende Céline een wanhopige Céline, maar vooral een schrijvende Céline. Tijdens zijn Deense ballingschap (1945-1951) schreef hij naast een aantal romans zo’n vierduizend brieven, waarvan honderden aan zijn advovaat Thorvald Mikkelsen die in een ministerie van Justitie de slepende rechtszaak uiteindelijk wist te winnen.

Nico Keuning bezoekt de adressen in Kopenhagen, Korsør en Klarskovgaard, komt in contact met Céline-kenners, vindt nieuwe documenten, ontdekt een ‘pleitrede’ van Céline uit 1946 en werpt een ander licht op de Deense jaren van zowel de persoon Destouches als de schrijver Céline, die nu vijftig jaar geleden, op 1 juli 1961 in Meudon overleed.

Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Das US-Abenteuer in Georgien sowie die eklatante Wirtschafts- und Finanzkrise, die das westliche System derzeit heimsucht, zeigen, daß die Vereinigten Staaten von Amerika an diesem Punkt in der Geschichte nicht in der Lage sind, die Führungsrolle zu übernehmen. Auf Grundlage beispielsweise der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Mitte—Peripherie etc. scheinen keinerlei künftige geopolitische Szenarien von Bedeutung herauszuarbeiten zu sein. Betrachten wir die kontinentalen sowie multikontinentalen Gemeinsamkeiten und Unterschiede der globalen Akteure, so zeigen sich uns die Säulen, auf denen ein neues internationales System für Indiolateinamerika und Eurasien ruhen kann.


Von der Regierungsunfähigkeit der USA

Die jüngste Diskussion um Georgien setzt dem Gerede um die sogenannten „unipolaren“ Vereinigten Staaten von Amerika und vor allen Dingen der Behauptung, diese hätten ein wirkungsvolles geopolitisches System — das heißt ein multipolares System — geschaffen, endlich ein Ende.

Dies sehen nicht nur die meisten jener Beobachter und Berichterstatter so, die — während sich der Niedergang der „unverzichtbaren Nation“ (so ein Syntagma der US-Außenministerin Madeleine Albright) vollzieht — im Zuge der Herbstkrise zwischen Moskau und Tiflis wiederholt eine neue Bipolarität beschworen und Formulierungen aus der Zeit des „kalten Krieges“ entstaubt haben. In Wahrheit sind wir von einem erneuten Aufleben des alten bipolaren Systems weit entfernt; die Nachkriegszeit von 1945 bis 1989 ist von einem ideologischen Widerstreit gekennzeichnet gewesen (nämlich zwischen den Antithesen Kapitalismus—Kommunismus und Totalitarismus—Demokratie), der nun aber nicht so sehr an den lymphatischen Knotenpunkten des bipolaren Gleichgewichtes aufgelöst, sondern vielmehr dadurch entschieden worden ist, daß die heutigen großen Nationen mit kontinentalen Ausmaßen, wie zum Beispiel China, Indien und Brasilien, die aufgrund ihrer wirtschaftlichen Entwicklung und dank des geopolitischen Bewußtseins, das sie unter ihrer jeweiligen politischen Führung rund ein Jahrzehnt lang kultiviert haben, gediehen sind und heute danach streben, auf der weltweiten Bühne in politischer, wirtschaftlicher und sozialer Hinsicht verantwortungsvolle Rollen zu übernehmen.

Wir müssen sogleich hinzufügen, daß das Ende der US-dominierten unipolaren Hegemonie keineswegs die militärische Vorherrschaft berührt, die Washington in weiten Teilen der Welt besitzt. Doch Washingtons Macht in geopolitischer Hinsicht ist heute geringer als noch vor einigen Jahren. Ich möchte allerdings darauf hinweisen, daß diese Hegemonie heute für die internationale Stabilität vielleicht noch gefährlicher ist, als dies in der Vergangenheit der Fall war, gerade weil sie wackelig und empfindlich ist und Washington und das Pentagon leicht aus dem Gleichgewicht geraten können, wie die georgische Krise ja auch gezeigt hat.

Die tiefe Strukturkrise der US-Wirtschaft1 [1] hat nur dazu beigetragen, den Prozeß der Machteinbuße des „westlichen Systems“, der seit Mitte der 90er Jahre zu beobachten ist, zu beschleunigen. Mit den Auswirkungen, die dieser Prozeß auf die Vereinigten Staaten haben wird, auf die „einzige Weltmacht“, haben sich in den ersten Jahren unseres Jahrhunderts Autoren wie Chalmers Johnson2 [2] und Emmanuel Todd3 [3] in ihren jeweiligen Analysen befaßt; hierin zeigen die Verfasser auf, wohin dieser Prozeß bald führen wird und wie die Zersetzung des US-Systems vonstatten geht.

Johnson, ein profunder Kenner Asiens im allgemeinen und Japans im besonderen, meint, daß die USA in den Jahren 1999/2000 nicht in der Lage gewesen seien, ihre Beziehungen mit den Ländern Asiens souverän aufrechtzuerhalten, während man doch deutlich „die fortgesetzten Bemühungen ihres Landes, die ganze Welt zu beherrschen“4 [4] verfolgen konnte. Zu den Veränderungen, die sich bereits sichtbar abzeichnen und die geopolitische Situation der nahen Zukunft erahnen lassen, zählt Johnson auch „Chinas zunehmende Orientierung am Vorbild der asiatischen Staaten mit hohem Wirtschaftswachstum“.5 [5] Der gleiche Autor weiß von der mitleidslosen Analyse David P. Calleos zu berichten,6 [6] der bereits im Jahre 1987 die Auflösung des internationalen Systems schilderte und die Ansicht vertrat, daß die Vereinigten Staaten am Ende des 20. Jahrhunderts eine „raubgierige Hegemonialmacht“ seien „mit wenig Sinn für Ausgewogenheit“.

Sowohl der Franzose Todd als auch der Amerikaner Johnson sind der Ansicht, daß die USA aufgrund der Kriege im Mittleren Osten und in Jugoslawien zu einem Unsicherheitsfaktor für das gesamte internationale System geworden sind; Todd zufolge wirken sich unter anderem die ökonomischen Verflechtungen der Vereinigten Staaten deutlich nachteilig aus, wie ja auch das negative Wirtschaftswachstum des letzten Jahrzehnts unzweifelhaft zeigt.

Einige Jahre später, im Januar 2005, wird ein so aufmerksamer und brillanter Beobachter wie Michael Lind von der New America Foundation („Stiftung Neues Amerika“) in einem wichtigen Artikel in der Financial Times argumentieren, daß einige eurasische Länder (in erster Linie China und Rußland) sowie Südamerika „in aller Stille“ Maßnahmen in die Wege leiten, die den nordamerikanischen Einfluß „verringern“ sollen.7 [7]

Luca Lauriola hat sich dem erst kürzlich — 2007 — im wesentlichen angeschlossen;8 [8] in den Worten Claudio Muttis: „Lauriola bringt einige Argumente vor, die man wie folgt zusammenfassen kann: 1.) Die USA stellen nicht mehr die große Weltmacht dar; 2.) die technologische Großmacht Rußland ist heute mächtiger, als die die USA es sind; 3.) die strategische Verständigung zwischen Rußland, China und Indien bietet eine geopolitische Alternative zu den USA; 4.) die USA stecken mitten in einer schweren Finanz- und Wirtschaftskrise, die den Auftakt zu einem veritablen Kollaps bildet; 5.) in dieser Lage steht die US-Macht so ‚einsam und verlassen‘ da, daß Moskau, Peking und Neu-Delhi versucht sein werden, Reaktionen zu provozieren, die zu globalen Katastrophen führen können; 6.) die Administration Bush schreitet beharrlich auf den Abgrund zu, während die Regierung der Welt vorgaukelt, alles sei in bester Ordnung; 7.) die Lebensbedingungen der Mehrzahl der US-Bürger sind mit denen in manchen Entwicklungsländern vergleichbar; 8.) das Bild, das sich uns heute von den USA bietet, ist keineswegs eine historische Ausnahme, vielmehr zeigt sich in der US-Geschichte eine klare Kontinuität (vom Völkermord an den native Americans bis zum Terrorismus, wie er in Vietnam praktiziert wurde); 9.) in den USA hält die gleiche messianische Lobby die politischen Zügel in Händen, die schon früher in der Sowjetunion die Nomenklatura gestellt hat.“9 [9]

Aber warum steht die Supermacht USA nicht einmal mehr sagen wir zwanzig Jahre vor ihrem Kollaps? Warum soll ein globaler Akteur wie die Vereinigten Staaten von Amerika nicht in der Lage sein, sich weiter an der Macht zu halten und seine offen verkündete „Neue Ordnung“, seine New Order, in demokratischer und liberaler Manier durchzusetzen?

Die Antworten auf diese Fragen sind im großen und ganzen nicht nur einfach in den Untersuchungen von Wirtschaftswissenschaftlern und/oder in politischen Widersprüchen des westlichen Systems zu finden. Sie sind meiner Meinung nach vielmehr in der Auslegung und Anwendung geopolitischer Lehrsätze durch die US-Macht zu suchen. Die Vereinigten Staaten von Amerika — eine thalassokratische Weltmacht — waren schon immer bestrebt, ihre Einflußsphäre auch auf den südamerikanischen Subkontinent auszudehnen. Es ist dies eine geopolitische Praxis, die ich bereits an anderer Stelle als „chaotisch“ bezeichnet habe;10 [10] darunter ist eine Geopolitik der „fortwährenden Störung“ empfindlicher Territorien zu verstehen, um diese dem eigenen Einfluß zu unterstellen und sie schlußendlich dem eigenen Hoheitsgebiet einzuverleiben. Dieses Vorgehen zeugt allerdings von der Unfähigkeit, jene wahrhaft gegliederte internationale Ordnung zu verwirklichen, die diejenigen durchsetzen müssen, deren Trachten auf eine weltweite Führerrolle, eine globale leadership, gerichtet ist.

Zwei italienische Geopolitiker, Agostino Degli Espinosa (1904–1952) und Carlo Maria Santoro (1935–2002), haben in ganz verschiedenen Epochen und mit großem zeitlichen Abstand voneinander — der erste in den 1930ern, der zweite in den 1990ern — den USA übereinstimmend einen wichtigen Zug attestiert, nämlich die Unfähigkeit zu regieren und zu verwalten.

Vor vielen Jahrzehnten, im Jahre 1932, schrieb Agostino Degli Espinosa: „Amerika will gar nicht regieren, es will vielmehr auf die einfachste Art und Weise herrschen, die man sich denken kann, nämlich mittels der Dollar-Herrschaft“, und er fährt fort, „das bedeutet nicht nur, daß seine Gesetze oktroyiert und sein Wille durchgesetzt wird; sondern das bedeutet das Diktat eines Gesetzes, dem der Geist der Menschen oder der Völker in solcher Weise anhaftet, daß Regierende und Regierte ein spirituelle Einheit bilden.“11 [11]

Carlo Maria Santoro hat vor über sechzig Jahren noch einmal unterstrichen, daß die US-Amerikaner sich die „maritime Macht […] überhaupt nicht ausmalen, ja nicht einmal konzeptionell vorstellen können, nicht Eroberung und Verwaltung noch die hierarchische Unterteilung, wie die großen Kontinentalreiche“ sie aufwiesen.12 [12]

Die thalassokratische Besonderheit der USA, die Santoro hervorgehoben hat, und die Unfähigkeit zum Regieren, die schon Degli Espinosa so meisterhaft erläuterte, weisen deutlicher als jede andere Analyse auf den künftigen Niedergang amerikanischer Macht hin. In diesem Zusammenhang müssen natürlich weitere kritische Elemente bezüglich der Expansion des US-Imperialismus berücksichtigt werden: Militäreinsatz, öffentliche Ausgaben, geringe diplomatische Kompetenz.

Der historische Tag, an dem die Führungsunfähigkeit der USA offen zutage trete, sei nun gekommen, behauptete der französische Wirtschaftswissenschaftler Jacques Sapir jüngst. Dem Direktor der Hochschule École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) zufolge habe sich bereits in der Krise von 1997 bis 1999 gezeigt, „que les États-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays“13 [13]. Sapir sieht in der Globalisierung selbstverständlich einen Aspekt der US-Expansion, denn er versteht die Anwendung der amerikanischen Politik im großen Maßstab als eine Politik der freiwilligen finanziellen und merkantilen Öffnung.14 [14] Zu diesem Zeitpunkt, da nun das liberale US-amerikanische Süppchen mittels des Diktats des Internationalen Währungsfonds weiteren Patienten eingeflößt werden soll — obwohl dies doch schon in Indonesien mißlang und sich auch Kuala Lumpur nachdrücklich dagegen gewehrt hat —, unterstreicht Sapir, daß es Pekings verantwortungsvolle Wirtschaftspolitik ist, die die Stabilität im Fernen Osten garantiert.

Es sei hier festgehalten, daß die Beschleunigung des ökonomischen und politischen Schrumpfungsprozesses der USA (2007/08) in eine Zeit fällt, da die Führung der Nation nach wie vor in Händen einer Machtclique liegt, die sich auf die Ideen des neokonservativen think tank beruft. Die Neocons haben bekanntlich Washington in den letzten Jahren — spätestens seit 1998, dem Jahre des Beginns der „Revolution in Military Affairs“ — soweit wie möglich zu einer aggressiven und expansionistischen Außenpolitik gedrängt; es war dies eine Politik, die sich eng an die Prinzipien des Alten Testamentes (— der messianische Impuls bildet einen festen Bestandteil des US-Patriotismus wie auch eine Konstante des US-Nationalcharakters —) sowie an die trotzkistische Theorie von der „permanenten Revolution“ gehalten hat, wobei letztere allerdings eine besondere — nämlich konservative — Beugung hat hinnehmen müssen. Diese Theorie ist nicht nur gewissermaßen das theoretische Substrat der Strategie des permanent war, des „beständigen Krieges“, welche Vizepräsident Dick Cheney lanciert und welche die Bush-Administration im Laufe der letzten beiden Legislaturperioden (2000–08) so eifrig umgesetzt hat, weshalb in Washington die „Geopolitik des Chaos“ aufgeblüht ist.

 

Indiolateinamerika und Eurasien

Die USA empfinden sich von der Notwendigkeit der geostrategischen Ordnung (über die in Eurasien Rußland und China die Kontrolle ausüben, in der südamerikanischen Hemisphäre dagegen Brasilien, Argentinien sowie die Karibik) und einer grundlegenden Wirtschafts- und Finanzkrise eingeengt; sie scheinen verwirrt und schwanken einerseits zwischen einer Außenpolitik noch aggressiverer Art und mit noch mehr Muskelspiel als in der jüngsten Vergangenheit und andererseits einer realistischen Neueinschätzung ihrer eigenen globalen Rolle. Derweil werden sich die größten eurasischen Nationen — allen voran Rußland und China — und die wichtigsten südamerikanischen Nationen — Argentinien und Brasilien — ihres wirtschaftlichen, politischen und geostrategischen Potentials in immer stärkerem Maße bewußt.

Dies setzt voraus, daß politische Analytiker und Entscheidungsträger neue Paradigmen zur Anwendung bringen, um die Gegenwart zu interpretieren. Die Auslegungsschemata der Vergangenheit, die auf der Grundlage der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Zentrum—Peripherie fußen, scheinen keine Gültigkeit mehr zu haben. Eine Analyse der Gegenwart wird von Nutzen sein, um alle notwendigen Elemente zu erfassen, um die geopolitischen Szenarien der Zukunft zu umreißen, um sich einer kontinentalen wie auch multipolaren Sichtweise zu befleißigen, um Bündnisse wie auch Spannungen zwischen den globalen Akteuren auszumachen; hier richten wir unsere Aufmerksamkeit auf die interkontinentalen Achsen zwischen beiden Hemisphären unseres Planeten.

Die BRIC-Achse (Brasilien, Rußland, Indien und China), die neue geoökonomische Achse zwischen Eurasien und Indiolateinamerika, ist mittlerweile eine wohldefinierte, attraktive Tatsache und wird in naher Zukunft verschiedene eurasische und südamerikanische Nationen verbinden. Wenn sich diese Achse nicht kurz- bis mittelfristig konsolidiert, wird der britische „westliche“ Traum von einer euroatlantischen Gemeinschaft, „von der Türkei bis Kalifornien“15 [15], weitergeträumt werden, und die Weltmacht USA — als Kopf der Triade Nordamerika, Europa und Japan — wird weiterhin herrschen.

Auf dem jüngsten Gipfeltreffen der Außenminister der BRIC-Staaten (im Mai 2008 in Jekaterinburg/Rußland) wurde die Absicht bekräftigt, die wirtschaftlichen und politischen Beziehungen zu den neuen aufstrebenden Ländern enger zu gestalten; in den USA faßte man dies als veritablen Affront auf. Man sollte das Treffen der „Großen Fünf“ (Brasilien, Indien, China, Mexiko und Südafrika) in Sapporo auch in Verbindung mit dem G8-Gipfel in Tōyako im Juli 2008 sehen.

Mit dem Amtsantritt von Ministerpräsident Wladimir Putin in Rußland im August 1999 begannen sich zwischen Rußland und einigen südamerikanischen Ländern dauerhafte wirtschaftliche Beziehungen anzubahnen, die in den letzten Jahren intensiviert wurden und eine gewisse politische Dimension angenommen haben.

China zeigte sein Interesse an Südamerika bereits im April 2001 mit dem historischen Besuch von Staatspräsident Jiang Zemin in mehreren südamerikanischen Nationen auf dem Subkontinent. China, stets auf der Suche nach Rohstoffen und Energieressourcen für die industrielle Entwicklung, ist der Auffassung, daß es in seinen bevorzugten und strategischen Partner-Staaten Brasilien, Venezuela und Chile erheblichen Investitionsbedarf gibt, damit die grundlegende Infrastruktur geschaffen werden kann (heute gibt es rund 400 bis 500 Handelsvereinbarungen zwischen Peking und den wichtigsten südamerikanischen Ländern einschließlich Mexikos).

Das Interesse Rußlands und Chinas an Südamerika wächst daher von Tag zu Tag. Die russische Gasprom (und mit ihr Eni)16 [16] hat im September 2008 Verträge mit Venezuela über die Erforschung des Gebietes Blanquilla Est und der Karibikinsel La Tortuga, etwa 120 Kilometer nördlich von der Hafenstadt Puerto La Cruz (im Norden Venezuelas) gelegen, unterzeichnet, und Moskau hat einen Plan zur Schaffung eines Ölkonsortiums in Südamerika verabschiedet. Während der russische Mineralölkonzern Lukoil nach Gesprächen mit der Erdölgesellschaft Petróleos de Venezuela S. A. (PDVSA, auch „Petroven“) eine Punktation verfaßte, reiste ferner Staatspräsident Hugo Chávez im September 2008 nach Peking, um ein Dutzend Handelsabkommen über die Lieferung landwirtschaftlicher, technologischer und petrochemischer Erzeugnisse mit dem chinesischen Staatsoberhaupt Hu Jintao zu unterzeichnen; überdies verpflichtete sich Chávez, bis 2010 fünfhunderttausend Barrel Öl pro Tag zu liefern und hernach eine Million bis zum Jahre 2012.

Darüber hinaus sind Peking und Caracas nach intensiven Verhandlungen von Mai bis September 2008 übereingekommen, die notwendigen Voraussetzungen für die Errichtung einer im gemeinschaftlichen Besitz befindlichen Raffinerie in Venezuela zu schaffen und gemeinsam in China eine Flotte von vier gigantischen Öltankern zu bauen, um die erhöhten Öl-Lieferungen zu bewältigen.

Die Karibik und Südamerika scheinen nicht mehr zu sein als der „Hinterhof“ Washingtons. Washingtons Sorgen vergrößern sich angesichts Nikaraguas Anerkennung der Republiken Südossetien und Abchasien, angesichts Venezuelas Auftreten als Gastgeber für russische strategische Bomberpiloten auf Fernaufklärung und vor allem angesichts der Beschleunigung des Prozesses der südamerikanischen Integration durch das enge Bündnis zwischen Buenos Aires und Brasília. Die Beziehungen zwischen den beiden größten Ländern des amerikanischen Subkontinentes, Argentinien und Brasilien, haben es jüngst (Oktober 2008) gestattet, das Sistema de Pagos en Monedas Locales (SML)17 [17] für den wirtschaftlich-kommerziellen Austausch ins Leben zu rufen. Die Umgehung des US-Dollars durch den SML ist ein erster echter Schritt in Richtung auf eine währungspolitische Integration in den Gemeinsamen Markt „Mercosur“ und der Beginn der Schaffung einer „regionalen Drehscheibe“, die wohl vor allem auf die im wirtschaftlich-kommerziellen Bereich bereits soliden Beziehungen zu Rußland und China wird bauen können, die sich in der unmittelbar nächsten Zeit prächtig entwickeln werden.

Washingtons Nervosität wächst noch angesichts von Pekings und Moskaus Ausweitung ihres Einflusses in Afrika und angesichts der Unterhaltung ihrer Beziehungen mit dem Iran und Syrien.

Aber so wichtig und notwendig solche ökonomischen, kommerziellen und politischen Vereinbarungen auch sein mögen, damit sich das neue multipolare System, dessen beide Säulen Eurasien im Nordosten und Indiolateinamerika im Südwesten sind, richtig entwickeln kann, müssen letztere unbedingt ihre Seeküsten kontrollieren und ihre (oft künstlich von Washington und London hervorgerufenen) internen Spannungen im Zaum halten, die ihre wahre Achillesferse darstellen.

China und Rußland sollten allerdings, wenn sie den USA gegenübertreten, beachten, daß die einstige Hypermacht derzeit zwar mit Sicherheit eine „verlorene“ Nation ist, sie aber immer noch ein geopolitisches Gebilde von kontinentalen Ausmaßen und Herrin ihrer eigenen Küsten ist und noch immer eine starke Flotte besitzt,18 [18] die auf jedem Kriegsschauplatz des Planeten auftauchen kann; das heißt, es gilt vernünftige und ausgewogene Lösungen zu suchen, damit der Grad der Störungen auf globaler Ebene nicht noch zunimmt. Jüngst haben wir daran erinnert, daß Washington nun seine Vierte Flotte reaktiviert hat (bestehend aus elf Schiffen, einem Atom-U-Boot und einem Flugzeugträger), um in bedrohlicher Weise die Verpflichtung zu demonstrieren, die man für mittel- und südamerikanischen „Partner“ habe. Die furchteinflößende Macht, die die USA Eurasien und vor allem Rußland gegenüber zur Schau stellen, bildet den Ausgangspunkt für eine Politik der Integration oder der verstärkten Zusammenarbeit des Subkontinents mit Europa und Japan — auch mit China. In ebendiesem Zusammenhange müssen wir die neue Politik von Rußlands Präsident Dmitri A. Medwedew in bezug auf die Entwicklung der russischen Streitkräfte betrachten, insbesondere die Modernisierung der Marine.19 [19] Obwohl wir im Zeitalter der sogenannten „Geopolitik des Raumes“ und der geostrategischen Raketenwaffen sowie der Strategischen Verteidigungsinitiative (SDI) leben, bilden doch Schiffe auf den Weltmeeren auch heute noch den Prüfstein der Macht, an dem globale Akteure ihre Strategien zu beweisen eingeladen sind; dies gilt noch mindestens das nächste Jahrzehnt hindurch sowohl für „Binnenmeere“ (Mittel- und Schwarzes sowie Karibisches Meer) als auch in den Ozeanen.

Um völlig zu verstehen, in wessen Händen in Übersee die Macht liegt und — nach dem Willen der USA — auch künftig liegen soll, täten Peking und Moskau gut daran, der Worte Henry Kissingers eingedenk zu sein, der vor Jahren schrieb:

Geopolitisch betrachtet, ist Amerika eine Insel weitab der riesigen Landmasse Eurasiens, dessen Ressourcen und Bevölkerung die der Vereinigten Staaten bei weitem übertreffen. Und nach wie vor ist die Beherrschung einer der beiden Hauptsphären Eurasiens — Europas also und Asiens — durch eine einzige Macht eine gute Definition für die strategische Gefahr, der sich die Vereinigten Staaten einmal gegenübersehen könnten, gleichviel, ob unter den Bedingungen eines Kalten Krieges oder nicht. Denn ein solcher Zusammenschluß wäre imstande, die USA wirtschaftlich und letztlich auch militärisch zu überflügeln, eine Gefahr, der es selbst dann entgegenzutreten gälte, wenn die dominante Macht offenkundig freundlich gesinnt wäre. Sollten sich deren Absichten nämlich jemals ändern, dann stieße sie auf eine amerikanische Nation, deren Fähigkeit zu wirkungsvollem Widerstand sich erheblich vermindert hätte und die folglich immer weniger in der Lage wäre, die Ereignisse zu beeinflussen.“20 [20]

Das zu Eurasien Gesagte gilt, nahezu perfekt gespiegelt, in gleicher Weise auch für Indiolateinamerika. Aus evidenten geostrategischen Gründen muß Indiolateinamerika — und das heißt derzeit Brasilien, Argentinien und Venezuela — die Spannungen niedrig halten, die die Instabilität einiger an die Andenkette angrenzenden Länder schüren;21 [21] hier kommt Bolivien eine Vorrangstellung zu, das als Binnenstaat die Westküste des amerikanischen Subkontinents mit seinem Osten verbinden könnte. Brasília, Buenos Aires, Santiago de Chile und Caracas mußten nun gezwungenermaßen ihre politischen wie militärischen Beziehungen ankurbeln — unter der Vormundschaft der USA, wenn man so will — und haben dabei ihr besonderes Augenmerk auf den Ausbau ihrer Hochseeflotten, sowohl zivile wie militärische, gelegt. Die gegenwärtigen Entwicklungen scheinen Indiolateinamerika, dank des „fernen Freundes“ — der eurasischen Macht —, in die Hände zu spielen. Die gegenwärtigen Entwicklungen, das muß gesagt werden, nutzen auch Europa und Japan.

Für das Gleichgewicht des Planeten jedoch bleibt nur zu hoffen, daß die Macht der USA auf ein rechtes Maß zurückschrumpft und daß sich die Vereinigten Staaten danach keiner unbesonnenen Revanchestrategie verschreiben.


Aus dem Italienischen von D. A. R. Sokoll


1 [22] Die derzeitige Wirtschafts- und Finanzkrise geht nach Meinung einiger Experten, unter diesen Jacques Sapir, auf die drei Jahre 1997 bis 1999 zurück. (Jacques Sapir. Le Nouveau Siècle XXI.: Du siècle „américaine“ au retour des Nations. Paris: Seuil, 2008. S. 11.) Hier sei daran erinnert, daß die USA — in der Überzeugung, die „einzige Weltmacht“ (Zbigniew Brzezinski) zu sein — „[u]ngefähr von 1992 bis 1997 […] eine ideologische Kampagne [führten], die auf die Öffnung aller nationalen Märkte für den freien Welthandel und den ungehinderten Kapitalverkehr über nationale Grenzen hinweg abzielte“ (Chalmers Johnson Ein Imperium verfällt: Wann endet das Amerikanische Jahrhundert? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Karl-Blessing-Verlag, 2000. S. 269).

2 [23] Chalmers Johnson. Ein Imperium verfällt: Ist die Weltmacht USA am Ende? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Goldmann, 2001.

3 [24] Emmanuel Todd. Weltmacht USA: Ein Nachruf. übers. v. Ursel Schäfer u. Enrico Heinman. München: Piper, 2003.

4 [25] Johnson, a. a. O., S. 55.

5 [26] Johnson, a. a. O., S. 54.

6 [27] „Das internationale System zerbricht nicht nur, weil schwankende und aggressive neue Mächte versuchen, ihre Nachbarn zu dominieren, sondern auch weil zerfallende alte Mächte, statt sich anzupassen, versuchen, ihre ihnen aus den Händen gleitende Überlegenheit in eine ausbeuterische Vormachtstellung auszubauen.“ (David P. Calleo. Die Zukunft der westlichen Allianz: Die NATO nach dem Zeitalter der amerikanischen Hegemonie. übers. v. Helena C. Jadebeck. Stuttgart: Bonn Aktuell, 1989. S. 218.

7 [28] Michael Lind. „How the U.S. Became the World’s Dispensable Nation.“ In: Financial Times, 26. Januar 2005.

8 [29] Luca Lauriola. Scacco matto all’America e a Israele: Fine dell’ultimo Impero. Bari: Palomar, 2007.

9 [30] Claudio Mutti in seiner Rezension von: Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, a. a. O. — Veröffentlicht auf: www.eurasia.org, am 27. Januar 2008.

10 [31] Tiberio Graziani. „Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta.“ In: Eurasia: Rivista di studi geopolitici, 4/2007, S. 7.

11 [32] Agostino Degli Espinosa. „Imperialismo USA.“ In: Augustea. Nr. 10. Rom/Mailand, 1932. S. 521.

12 [33] Carlo Maria Santoro. Studi di Geopolitica 1992–1994. Turin: G. Giappichelli, 1997. S. 84.

13 [34] Auf Deutsch: „daß die Vereinigten Staaten unfähig gewesen sind, mit der internationalen finanziellen Lossagung fertigzuwerden, zu denen sie unsere Länder selbst getrieben und die sie uns auferlegt haben“. — Sapir, a. a. O., S. 11 f.

14 [35] Ebd., S. 63 f.

15 [36] Mit diesen Worten hat Sergio Romano in zwei Briefen in der Tageszeitung Corriere della Sera die britische Anti-Europa-Politik kommentiert: „Das Ziel der Briten ist die Schaffung einer großen atlantischen Gemeinschaft, von der Türkei bis Kalifornien, und London mittendrin wäre natürlich der Dreh- und Angelpunkt.“ (Sergio Romano. „Perché è difficile fare l’Europa con la Gran Bretagna.“ In: Corriere della Sera, 12. Juni 2005. S. 39.)

16 [37] Das Akronym steht für Ente Nazionale Idrocarburi und bezeichnet den Erdöl- und Energiekonzern, der das größte Wirtschaftsunternehmen Italiens darstellt. 1999 hat Eni mit Gasprom eine Vereinbarung über den Bau der Blue-Stream-Pipeline unterzeichnet, die Rußland über das Schwarze Meer mit der Türkei verbindet. — Anm. d. Übers.

17 [38] Zahlungssystem in lokaler Währung. Zwischenstaatliche Geschäfte werden direkt in Brasilianischen Reais und Argentinischen Pesos abgerechnet, ohne Umweg über die Weltwährung Dollar. — Anm. d. Übers.

18 [39] Alessandro Lattanzio weist darauf hin, daß „die US-Marine vor zehn Jahren noch vierzehn Flugzeugträger sowie Trägerkampfgruppen gehabt hatte. Jetzt besitzt sie auf dem Papier noch zehn [Flugzeugträger], aber nur fünf, sechs stehen im Einsatz“. (Alessandro Lattanzio. „La guerra è finita?“ Vortrag anläßlich des FestivalStoria zu Turin am 16. Oktober 2008.)

19 [40] Alessandro Lattanzio. „Il rilancio navale della Russia.“ In: www.eurasia-rivista.org (Stand: 1. Oktober 2008).

20 [41] Henry A. Kissinger. Die Vernunft der Nationen: Über das Wesen der Außenpolitik. übers. v. Matthias Vogel u. a. Berlin: Siedler, 1994. S. 904.

21 [42] Bekanntlich haben Analysten Südamerika in zwei Bogenbereiche untergliedert: einerseits den Andenbogen, bestehend aus Venezuela, Kolumbien, Ecuador, Peru, Bolivien, Paraguay, und andererseits den Atlantikbogen, bestehend aus Brasilien, Uruguay, Argentinien und Chile.

Summoning the Gods: Essays on Paganism

Now Available for Pre-order!

Summoning the Gods:
Essays on Paganism in a God-Forsaken World

We are pleased to announce our sixth title:

Collin Cleary
Summoning the Gods:
Essays on Paganism in a God-Forsaken World

Edited with an Introduction [2] by Greg Johnson
San Francisco: Counter-Currents, 2011
220 pages

 

Hardcover limited edition of 100 numbered and signed copies: $35 (Pre-order special: $30)

Release date: July 14, 2011

Note: All books ordered before July 14, 2011 will be personalized by Collin Cleary.

Neo-paganism is the attempt to revive the polytheistic religions of old Europe. But how? Can one just invent or reinvent an authentic, living faith? Or are modern neo-pagans just engaged in elaborate role-playing games?

In Summoning the Gods, Collin Cleary argues that the gods have not died or forsaken us so much as we have died to or forsaken them. Modern civilization—including much of modern neo-paganism—springs from a mindset that closes man off to the divine and traps us in a world of our own creations. Drawing upon sources from Taoism to Heidegger, Collin Cleary describes how we can attain an attitude of openness that may allow the gods to return.

In these nine wide-ranging essays, Collin Cleary also explores the Nordic pagan tradition, Tantrism, the writings of Alain de Benoist, Karl Maria Wiligut, and Alejandro Jodorowsky, and Patrick McGoohan’s classic television series The Prisoner. Cleary’s essays are models of how to combine clarity and wit with spiritual depth and intellectual sophistication.

Summoning the Gods establishes Collin Cleary as one of the leading intellectual lights of contemporary neo-paganism.

Advance Praise for Summoning the Gods

“The writings of Collin Cleary are an excellent example of the way in which old European paganism continues to question our contemporaries in a thought-provoking way. Written with elegance, his work abounds in original points of view.”

—Alain de Benoist, author of On Being a Pagan

“Jung compared the absence of the gods to a dry riverbed: their shapes remain, but devoid of the energy and substance that would make them live among us as they used to. What we await is the energy and substance to flow once more into the forms. The words of Collin Cleary, his thoughts and ideas, constitute the kind of fresh and vital energy that is needed to effect the renewal of the gods in our contemporary world.”

— Dr. Stephen E. Flowers, author of The Northern Dawn

“Collin Cleary’s Summoning the Gods is one of the most important books in its field.  Unlike those who would speak for the gods, he shows us how to bring the gods into our lives by letting Them speak for themselves. Perhaps most importantly, Cleary has given serious followers of pagan religions the philosophical tools to defend their beliefs against the most erudite critics.”

— Stephen A. McNallen, Asatru Folk Assembly

“Collin Cleary is a rare breed: a scholar of the mystical, and at the same time a mystic whose probing visions are informed by rigorous study. These are more than just eloquent and thought-provoking essays on myth, religion, or art; at their best, they resonate with the august and ancient tradition of the philosophical dialogue. Time and again, Cleary offers insights that powerfully orient the reader toward archaic ways of thinking, knowing, and seeing vividly—as if through newly opened eyes.”

—Michael Moynihan, co-editor, TYR: Myth—Culture—Tradition

“I have admired Collin Cleary’s work in TYR and Rûna for years, and I am delighted that this volume of nine essays has arrived in the world. Cleary possesses the admirable ability to write with a frank ‘openness to the divine’ (to use his own phrase). He does so both clearly and profoundly, on a number of inter-related subjects. The essay ‘Philosophical Notes on the Runes’ ought to be required reading for all serious students of the runic systems. This book belongs in every radical Traditionalist library.”

—Juleigh Howard-Hobson, author of Sommer and Other Poems

“Collin Cleary’s Summoning the Gods is a landmark publication in the intellectual side of the Heathen revival. By applying modes of analysis ranging from Heideggerian phenomenology to Hegelian dialectic, Cleary manages to penetrate deep into the core of polytheistic religiosity. Attracting a thinker of Cleary’s stature is an indicator of the vibrancy and health of modern Heathen thought. This book should be a welcome addition to any thinking Heathen’s book shelf.”

—Christopher Plaisance, editor of The Journal of Contemporary Heathen Thought

Contents

Introduction [2] by Greg Johnson

 

Neo-Paganism

1. Knowing the Gods
2. Summoning the Gods: The Phenomenology of Divine Presence
3. Paganism without Gods: Alain de Benoist’s On Being a Pagan

Nordic Paganism

4. What God Did Odin Worship? [3]
5. Philosophical Notes on the Runes
6. The Missing Man in Norse Cosmogony
7. Karl Maria Wiligut’s Commandments of Gôt

Among the Ruins

8. Patrick McGoohan’s The Prisoner
9. The Spiritual Journey of Alejandro Jodorowsky

About the Author

Collin Cleary, Ph.D. is an independent scholar living in Sandpoint, Idaho. He is one of the founders of TYR: Myth—Culture—Tradition, the first volume of which he co-edited. A fellow of the Rune-Gild, his writings have appeared in TYR and Rûna. This is his first book.

Ordering Information

Hardcover limited edition of 100 numbered and signed copies: $35
(Pre-order special: $30)

Release date: July 14, 2011

Note: All books ordered before July 14, 2011 will be personalized by Collin Cleary.

 


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Archeological Cultures

Archaeological Cultures

By Andrew HAMILTON

Ex: http://www.counter-currents.com/

In the attempt to understand who we are and where we came from, history takes us only so far. Once the written record thins and ends—not far back in time, evolutionarily speaking—we are left primarily with archaeological evidence and inferences from linguistics.

Prehistory is a world of few facts and much guesswork. In the early historical period, when archaeological evidence and spotty written records at least complement one another, existing knowledge is extended. But when the historical record ends completely and archaeologists take over, the situation becomes much more opaque.

The unit of prehistorical analysis is the “culture,” characterized by a defined range of material artifacts. Cultures may be named after particularly rich geographical sites, after unique artifacts, or after regions in which sites of a certain type frequently occur. For each culture a geographical distribution can be mapped and radiocarbon dating pinpoint an estimated date and duration. A series of prehistorical maps can be drawn showing sequences of cultures analogous to sequences of peoples and states on historical maps.

Therefore, cultures should be visualized both “horizontally” and “vertically.” The horizontal dimension is a culture’s geographic distribution, the vertical its development, persistence, and disappearance across time, as well as the sequential succession of different cultures.

Thus, cultural change in prehistoric Europe can be envisioned as a shifting mosaic of different cultures (white ethnic groups or “populations”) moving across the continental landscape in both time and space.

Kossinna’s Law

gustaf_kossina.jpgThe term “culture” entered archaeology through 19th century German ethnography, where the Kultur of tribal groups and rural peasants was distinguished from the Zivilisation of urbanized peoples. Kultur was used by German ethnologists to designate the distinctive ways of life of a particular people or Volk.

The idea of archaeological cultures became central to the discipline in the 20th century thanks to the work of Gustaf Kossinna (1858–1931) of the University of Berlin, the most famous archaeologist in the German-speaking world of his day (he was also a linguist).

Kossinna perceived the archaeological record as a mosaic of clearly defined cultures (Kultur-Gruppen or culture groups) that were strongly associated with race. He was particularly interested in reconstructing the movements of direct prehistoric ancestors of Germans, Slavs, Celts and other Indo-European ethnic groups in order to trace the Aryan race to its homeland or Urheimat.

Kossinna developed the theory that regionally delimited ethnic groups can be defined by the material cultures identified by archaeologists. A unified set of archaeological artifacts, a culture, was the sign of a unified ethnicity: “Sharply defined archaeological cultural areas correspond unquestionably with the areas of particular people or tribes.”

This statement is known as “Kossinna’s law.” The only objection to it is the imputation of an invariable identity between archaeological cultures and ethnic or racial groups (populations). The science is more complicated than that.

Kossinna’s law applies best to Neolithic and subsequent eras. The advent of agriculture was accompanied by a population explosion—the Neolithic Demographic Transition. By contrast, in the earliest human era, the Paleolithic, distinct cultural groups and differences are less readily discernible in the archaeological record.

Kossinna’s ideas have made him anathema to guardians of the racial Zeitgeist. Symptomatic of the dumbing down of academia, he is invariably depicted as a proto-Nazi.

Unfortunately, Kossinna’s “academic racism” is warm tap water compared to the poisonous brew of any of the hundreds of professors of Jewish Studies, Holocaust Studies, “Whiteness Studies,” Asian Studies, African Studies, Native American Studies, and Latino Studies active in universities today. Kossinna and other white academics routinely vilified as “racists” are sorry contenders for the mantle. For real hate you must examine today’s academy.

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The Linear Pottery Culture

Kossinna’s concept of archaeological culture was introduced into the English-speaking academy by Australian-born, English-descended Stalinist archaeologist V. Gordon Childe, who stated in The Danube in Prehistory (1929):

We find certain types of remains—pots, implements, ornaments, burial rites, house forms—constantly recurring together. Such a complex of regularly associated traits we shall term a “cultural group” or just a “culture.” We assume that such a complex is the material expression of what today would be called a people.

Noted for synthesizing archaeological data from a variety of sources, Childe was the first academic to construct a prehistory of the entire European continent (The Dawn of European Civilization, 1925). He also wrote The Aryans: A Study of Indo-European Origins (1926), a cause for discomfort among the politically correct today.

Examples of very early Neolithic cultures in Europe include the Starčevo-Kőrös-Criş culture [3] (Serbia-Hungary-Romania) and the Karnavo culture of Bulgaria.

The first agrarian society in central and eastern Europe was the Linear Pottery culture (Linearbandkeramik, LBK), formerly known as the Danubian culture after V. Gordon Childe’s book. Starting around 5500 BC from the middle Danube (Bohemia, Moravia, Hungary) it expanded northward along the Rhine and the other rivers going north through the German and Polish plains toward the North Sea.

According to McEvedy’s hypothesis in 1967,

Given that the Danubians were a genuine people and remained so until provincial differences began to appear among them a millennium after they had expanded across central Europe, it is difficult to avoid the view that their movement created an Indo-European heartland which must be postulated for roughly this time and place on purely linguistic grounds. Therefore the Danubian culture represents the arrival and establishment of the Indo-Europeans in Central Europe. (Colin McEvedy [5], The Penguin Atlas of Ancient History, 9)

Limitations of the Culture Concept

By definition, a prehistory in racial and ethnic terms remains hypothetical. Despite its popularity as a means of organizing the archaeological record, a simple correlation between peoples and distinctive archaeological cultures is not always warranted.

Nevertheless, as Colin McEvedy observed 45 years ago, “We are not so helpless in this matter as the puritans pretend.” And Indo-Europeanist archaeologist J. P. Mallory adds, “While one may deny the necessity of assuming an invariable one-to-one correlation between an archaeological [culture] and a linguistic entity, it is equally perverse to assume that there can be no correlation between the two.” (In Search of the Indo-Europeans: Language, Archaeology and Myth, 1989, 164. Emphasis added.)

It will likely soon be possible to make well-founded inferences about the genotypes of ancient populations from DNA analyses of human remains. To a limited extent this is already occurring.

It is perfectly acceptable to make reasonable predictions and assumptions about white prehistory based upon archaeological, linguistic, anthropological, and genetic evidence. Archaeologists and prehistorians formulate analogous hypotheses and assumptions about scores of matters all the time.

What is not acceptable is to deny prehistoric evidence due to racist-ideological dogmas motivated by the determination that whites must and will be denied a sense of collective identity.

People so motivated are keenly aware that the development of identity among whites akin to that enjoyed by Jews and non-whites could derail the genocidal policies upon which contemporary politics and the culture war are predicated.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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samedi, 23 juillet 2011

La pourpre et le croissant, identité nationale et armée en Turquie

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La pourpre et le croissant, identité nationale et armée en Turquie

par Tancrède Josseran

 

Ex: http://www.scriptoblog.com/

 
La République turque est indissociablement liée à l’institution militaire. En 1923, l’armée pose les fondements de l’Etat, et l’Etat engendre la nation. Les élites militaires se sentent naturellement investies de l’identité nationale. La désintégration pitoyable de l’Empire ottoman a conforté en eux une profonde défiance envers les ensembles cosmopolites. L’armée est politique puisqu’elle est l’Etat. Contre les antagonismes religieux, ethniques, sociaux, elle assure la continuité de l’Etat et sa sauvegarde à travers le temps.

Avec un contingent de 700 000 hommes, en additionnant la gendarmerie, l’institution militaire occupe une place déterminante dans la vie du pays. Preuve de cet enracinement en août 1999, le ministre turc de la culture, Istemihan Talay, (membre du Parti d’Action Nationaliste) déclarait à l’issue d’une conférence de presse : « la nation turque est une nation armée. La figure du soldat renvoie au fondement de notre identité nationale. Tout turc naît soldat » (1).

Pour comprendre le rôle de l’armée dans la société turque, il faut commencer par renverser les stéréotypes mentaux en cours en Occident. Les sociétés développées ont supprimé tout sens tragique à la vie. La quête d’un bien être artificiel et l’individualisme exacerbé ont évacué le dépassement de soi. La mort synonyme d’anéantissement y est devenue une infamie. Conséquence, elles repoussent dans une commune aversion les deux termes de l’existence : elles ne veulent plus mourir mais refusent également de donner la vie. Le sacrifice est incompris. C’est justement la finalité des armées, qui pour mener à bien leur mission, c’est à dire la défense de l’honneur national, de l’intégrité du territoire, doivent en échange accepter l’effort, la souffrance, la mort. Or les motifs pour lesquels les armées sont rejetées dans les sociétés occidentales sont précisément celles pour lesquelles elles sont respectées en Turquie, parce qu’elles rendent constamment présente l’idée du don ultime de soi.

La guerre notre mère

Les nations se construisent par le glaive, et par ce même glaive oeuvrent à la conservation de la paix et du bien commun. L’organisation de la violence source de mort est en même temps l’outil de perpétuation de la vie. La guerre est la genèse du monde sans laquelle il n’y a pas d’avancées. Pour Suat Ilhan, maître à penser de la géopolitique turque et titulaire de la chaire de géostratégie de l’Académie de sécurité nationale (Milli Güvenlik Akademesi) : « La guerre, spécialement les grands conflits sont l’occasion d’emprunter un certain nombre de traits culturels. La guerre est un produit culturel, l’innovation technologique en découle, elle est cause et conséquence de la modernisation et de l’adhésion aux normes de la civilisation» (2). En outre, souligne Ilhan, la guerre est aussi révélatrice de l’altérité, de l’essence profonde d’une civilisation. Il cite le discours de Mustapha Kemal commémorant l’anniversaire de la guerre d’indépendance et la libération de l’Anatolie des forces de l’Entente en 1922: « Au final, ce n’est pas uniquement la force physique, c’est aussi nos ressources morales et culturelles qui assurentnotre prééminence» (3).

Les guerres font l’Histoire. Elles sont selon Ilhan, le « meilleur moyen d’appréhender» l’histoire turque (4). Elles sont consubstantielles au nomadisme des Turcs d’Asie Centrale. Ces migrations s’organisent à l’ origine vers quatre directions distinctes :

-­‐La Chine et l’Inde

-­‐La Mer Caspienne, et le nord de Mer Noire

-­‐Les Balkans et l’Europe Centrale

-­‐Le Moyen-Orient

Ces régions ont été en même temps le théâtre géographique des guerres turques. Celles-­‐ci ne sont pas encore terminées et leurs conséquences se font encore sentir. La guerre entre Chinois et peuplades turques remonte aux Huns. C’est contre eux que la dynastie des Shi-Huangdi commence à construire la Grande muraille. Aujourd’hui, un conflit de faible intensité se poursuit au Turkestan Oriental avec les Ouighours. Il est selon Ilhan l’épilogue d’une lutte commencée « depuis 2000 ans» (5). En Inde, ce conflit a commencé avec les Huns Blancs et s’est poursuivi avec l’arrivée des Moghols. L’Islam s’est répandu pendant ces guerres. Les tensions récurrentes entre Dehli et Islamabad seraient donc la conséquence de ces invasions.

Mais dans l’imaginaire turc, les guerres les plus importantes restent celles livrées contre l’Europe : «Elles sont dans notre histoire, les luttes les plus longues et les plus usantes» (6). Pour Ilhan, l’Europe a fortifié son identité contre cette menace extérieure. L’identité occidentale a « trouvé l’autre» (7). Dans un raccourci saisissant, Ilhan observe que si entre 632, date la mort de Mahomet, et 1071 année de l’arrivée des Turcs en Anatolie, la figure de l’autre chez les Européens est celle de l’arabe, elle reste avant et après ces deux dates à travers les Huns et les Ottomans, celle du turc...

Les croisades constituent un événement fondamental de cet affrontement. En 1056 Thugri Beg et les Turcs Seldjoukides poursuivant leur migration vers l’Ouest s’emparent de Bagdad. Le chef turc reçoit le titre de Sultan du dernier Calife abbasside. Charge à lui de protéger et de propager l’Islam. C’est sur cet épisode que s’appuient les tenants de la synthèse turco­islamique, véritable idéologie d’Etat mise en place par l’armée après l’intervention militaire de septembre 1980, pour affirmer l’idée d’une destinée manifeste intrinsèque aux Turcs. Dans un contexte de fortes tensions internationales et sociales, où terrorismes de droite et de gauche se répondent mutuellement, l’armée voit en l’Islam la force susceptible de stabiliser la société et d’unifier la nation autour d’un socle commun. Les Turcs à l’époque des «Seldjoukides ...ont fait face en Anatolie, en Syrie, en Palestine, à la Première croisade. A l’époque ottomane dans les Balkans, ils ont arrêté la Deuxième croisade. Le troisième temps de la guerre entre Européens et Turcs prend la forme d’un affrontement avec les Russes» (8).

Au lendemain de la Première Guerre mondiale, le traité de Sèvres prévoit le partage des dépouilles de l’empire vaincu entre les puissances de l’Entente. C’est le début de la guerre d’indépendance « Istiqlal Harbi ». Elle est dans le récit national turc simultanément et paradoxalement « le précurseur des mouvements d’émancipations du monde islamique de l’Occident» et la condition à l’édification « d’un Etat indépendant préalable à la modernisation de la société» (9). Dès lors, il s’agit en s’appropriant ce qu’il y a de meilleur dans le corpus culturel occidental, « de parvenir par étape à la société contemporaine en mêlant ces acquis à la culture turque »(10).

L’armée des steppes

Le bulletin de liaison de l’armée de terre fait remonter la première force organisée au règne de Mete Han, chef hunnique du Ier siècle av. JC (11). Cavaliers réputés, les Turcs inventent la selle et l’étrier. Ils sont de redoutables archers. La distance et l’éloignement dans l’espace en Asie Centrale empêchent la création de fortes entités étatiques. Aussi la condition première à la survie d’un groupe organisé réside dans l’utilisation du cheval. Dans l’histoire turque, la domestication du cheval est capitale.


Elle est la deuxième qualité la plus importante après la fonction guerrière. Ilhan remarque qu’« en raison des menaces qui ont pesé dans l’histoire turque, le soldat est un élément essentiel, ses qualités sont primordiales» (12). Si l’empire ottoman est cosmopolite et multiculturel, son armée en revanche est nationale et musulmane. Seuls les musulmans sont astreints à faire leur service militaire. Par conséquent, l’armée est l’une des rares institutions impériales où l’élément turc domine sans partage. Les militaires se sentent naturellement les dépositaires de l’identité nationale et de sa défense à travers les aléas du temps. Les fondateurs de la République, Mustapha Kemal et Ismet Inönü, sont des hommes d’arme. Au début du XXème siècle, cette aspiration nationale est confuse. Elle ne commence réellement à pénétrer les esprits qu’avec le Premier conflit mondial. Les soldats du Sultan sont partis à la guerre Ottomans, ils en reviennent Turcs. Sous l’effet des épreuves, des trahisons, un embryon de conscience collective émerge. L’homogénéité contre l’hétérogénéité, tel est l’enjeu du processus de construction initié par les militaires. Laïcité et intégrité du territoire sont les deux piliers du nouvel Etat. Sans laïcité, pas de lien national possible, mais sans unité, pas de cohésion politique, et par conséquent pas de laïcité.

La laïcité est la religion civique de la République dans la mesure où elle substitue aux allégeances communautaires de la théocratie ottomane un lien national.

Paradoxalement, si la laïcité reste la valeur cardinale, l’armée a su jeter des ponts avec la foi du Prophète. Elle est le socle identitaire sur lequel la République a déterminé l’appartenance à la nation turque au moment des échanges de population après la guerre d’indépendance. Cet islam scientiste et national est organisé dans le cadre d’une laïcité concordataire. Les desservants du culte dépendent du ministère des Affaires religieuses, le Dinayet. En d’autres termes, comme le souligne Ilhan, si « l’islam n’est pas l’idéologie de la République, il est le système de croyance de la majorité des citoyens turcs » (13).

La mission des militaires est la défense de l’Etat, or pour de nombreux Turcs, la préservation de l’Etat est la condition essentielle à la sauvegarde de l’Islam. Les navires de la marine ont tous obligatoirement un exemplaire du Coran à leur bord. Les soldats turcs sont appelés «Mehmetcik» (soldat de Mahomet). Ils montent à l’assaut au cri de Allah, Allah. Avant d’ouvrir le feu, l’invocation islamique bismillah est prononcée. L’armée est considérée comme le cœur du Prophète (Peygamber Oçagi). Chaque soldat tombé au champ d’honneur est déclaré martyr (sehit). Dans un sens plus large, ce terme désigne celui tombé pour l’Islam au cours du Djihad. Le nom de guerre de Mustapha Kemal, Ghazi, a lui-même une connotation religieuse puisqu’il désigne les guerriers musulmans dans leur guerre sainte contre les chrétiens. Le drapeau écarlate frappé du croissant blanc reflète ce balancement permanent entre tradition et modernité.

Un homme nouveau

En Turquie, deux ministères utilisent le terme de « national » dans leur intitulé. Les ministères de la Défense et de l’Education. Si le premier assure la sauvegarde de la République et l’intégrité du territoire, le second en revanche a pour mission d’éduquer le futur citoyen dans l’obéissance aux préceptes de la révolution kémaliste, et d’assurer son épanouissement moral dans la turcité.

Pour reprendre les mots d’un officiel turc: « L’armée est une école et l’école est une armée» (14). Il s’agit donc d’une guerre sur deux fronts. A terme, la propédeutique kémaliste doit accoucher d’un homme nouveau, viril, vertueux, héroïque. Ce processus de construction nationale repose sur le soldat et l’instituteur :

« Durant la guerre d’indépendance, tandis que l’armée combattait les Grecs sur le front, une armée de professeurs préparaient à Ankara l’assaut final contre l’obscurantisme. La guerre et l’éducation sont jumelles; le soldat chasse l’occupant du pays, l’enseignent en extirpe l’ignorance» (15).

Dès lors, dans le discours identitaire et civique turc, l’aspect militaire est déterminant. La figure du soldat est l’extension naturelle du caractère national et son accomplissement ultime. Le manuel d’éducation civique en vigueur dans les lycées du pays expose ainsi les traits inhérents à la race turque :

«-­‐Les Turcs sont la race la plus ancienne, la plus noble et la plus héroïque du monde.

-­‐La civilisation turque commence avec l’Histoire, elle est parmi les plus anciennes et les plus développées. Elle est à l’origine de la civilisation contemporaine.

-­‐Le turc est combattant, fort, plein de fougue, intelligent, brave, magnanime, exemple de morale et de vertu pour le reste de l’humanité.

-­‐La femme et l’homme turcs sont fidèles et vertueux. Quand ils fusionnent, ils forment une force indestructible.

-­‐ Les victoires des Turcs commencent avec l’Histoire. Les armées turques ont donné naissance à la gloire et l’honneur.

-­‐Les Turcs sont dévoués à leurs pays et vigilants quant à leur indépendance et à leur souveraineté. Ils n’hésitent pas à défier la mort pour la protéger.


-­‐En définitive, le turc est un être supérieur qui a une place à part sur terre» (16).

Cette éthique se retrouve également au sein des écoles militaires. Plus que des soldats, elles ont reçu pour mission de former les cadres de la nation. A partir du jour où ils franchissent le seuil de l’école, les élèves officiers s’entendent répéter qu’ils sont l’élite de la nation et sa conscience éveillée. Maintenus à l’écart des vicissitudes de la vie civile, ils conçoivent rapidement un mépris prononcé pour la médiocrité du monde extérieur. Leur serment reflète cet engagement qui implique l’idée du sacrifice ultime car selon leurs paroles, « un pays n’existe que si on peut mourir pour lui» (17). Le patriotisme s’identifie naturellement au Kémalisme et aux principes qui en découlent : souveraineté nationale, unité de l’Etat, laïcité. Les cadets sont encouragés à prendre modèle sur Atatürk et à sentir sa prés en ce dans leur service quotidien. Cette immanence est particulièrement forte certains jours de l’année. Chaque 13 mars est célébré le jour d’entrée de Kemal à l’école militaire. A l’appel matinal, les élèves officiers figés au garde-­‐ à-­‐ vous dans l’air froid du matin répondent présent à l’appel du nom du père de la nation. La commémoration de sa mort tous les 10 novembre et la visite de son mausolée, immensité de marbre aux lignes austères qui dominent Ankara, sont un moment de recueillement collectif. Le soir, dans leur chambrée, les élèves officiers sont invités à prendre comme livre de chevet le Nutuk. Texte fondateur du kémalisme, ce discours fleuve prononcé en 1927, résume l’œuvre de redressement national. Il a valeur d’écriture sainte.

Les objectifs de l’armée recoupent les trois finalités dévolues au politique, la conservation de l’intégrité du territoire et de son indépendance dans la concorde intérieure et la sécurité extérieure. L’article 35 du règlement interne de l’armée établit que le devoir des forces armées est de protéger la patrie, la République et la Constitution, « si besoin par les armes contre l’extérieur et l’intérieur» (article 85) (18). Une lecture large de ces articles donne un droit d’intervention dans le cours des affaires politiques. L’urgence politique n’admet pas de répit, elle exige une décision ferme, nette et rapide. En clair, l’institution militaire considère qu’ « est souverain celui qui décide de la situation exceptionnelle» (19). C’est la puissance, « les armes» qui créent les conditions d’application du droit. La force est le moyen essentiel et sinon le seul capable de restaurer l’unanimité nationale fêlée. Le glaive tranche le nœud de la discorde et rétablit l’harmonie perdue.

Tancrède JOSSERAN.

1 ) Hürriyet, 11 aout 1999

2 ) Suat Ilhan, Türk olmakzordur, ( Il est dur d’être turc), Alfa, Istanbul, 2009 .

3 ) Ibid.p.44.

4 ) Idem.

5 ) Ibid.p.320.

6 ) Ibid. p. 319.

7 ) Ibid.p.322.

8 ) Ibid.p.328.

9 ) Ibid.p.693.

1 0) Ibid.p.673.

1 1) Kara Kuvvetleri Haber Bulletin, «Kara Kuvetlerinin 2206’nci yildonumu kutlandi », (2206 eme anniversaires de la fondation de l’armée de terre), juillet 1997.

1 2 ) Op.cit.(2).p.610.

1 3) Ibid.p.728.

1 4) Ayse Gül, The myth of the military-nation, Palagrave-macmillan, London,

2004.p.119. 1 5) Idem.p.122. 16)Idem.p.126. 1 7) Gareth Jenkins, Context and circumstance : The Turkish military and politics, The

international Institute for Strategic Studies,London, 2001, p.32.

1 8) Vural Savas, AKP çoktan kapatilmaliydi, (L’AKP aurait du être interdit), Bilgi Yayinevi, Istanbul, 2008, p.153.

1 9)Carl Schmitt, Théologie politique, Gaillimard, Paris, 1988,p.123.

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell'Eurasia

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell’Eurasia

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 La transizione dal sistema unipolare a quello multipolare genera tensioni in due particolari aree della massa eurasiatica: il Mediterraneo e l’Asia Centrale. Il processo di consolidamento del policentrismo sembra subire una impasse causata dall’atteggiamento “regionalista” assunto dalle potenze eurasiatiche. L’individuazione di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, quale funzionale cerniera della massa euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi all’integrazione eurasiatica.

Nel processo di transizione tra il momento unipolare e il nuovo sistema policentrico si osserva che le tensioni geopolitiche si scaricano principalmente su aree a forte valenza strategica. Tra queste, il bacino mediterraneo e l’Asia Centrale, vere e proprie cerniere dell’articolazione euroafroasiatica, hanno assunto, a partire dal primo marzo del 2003, un particolare interesse nell’ambito dell’analisi geopolitica riguardante i rapporti tra gli USA, le maggiori nazioni eurasiatiche e i Paesi del Nord Africa. Quel giorno, si ricorderà, il parlamento della Turchia, vale a dire il parlamento della nazione-ponte per eccellenza tra le repubbliche centroasiatiche e il Mediterraneo, decise di negare l’appoggio richiesto dagli USA per la guerra in Iràq1. Questo fatto, lungi dal costituire solamente un elemento di negoziazione tra Washington e Ankara, come in un primo momento poteva apparire (e certamente lo fu anche, a causa di due elementi contrastanti: la fedeltà turca all’alleato nordamericano e la preoccupazione di Ankara per l’effetto che l’ipotizzata creazione di un Kurdistan, nell’ambito dell’allora probabile progetto d tripartizione dell’Iràq, avrebbe avuto sulla irrisolta “questione curda” ), stabilì tuttavia l’inizio di una inversione di tendenza della cinquantennale politica estera turca2. Da allora, con un crescendo continuo fino ai nostri giorni, la Turchia, tramite soprattutto l’avvicinamento alla Russia (facilitata dalla scarsa propensione dell’Unione Europea ad includere Ankara nel proprio ambito) e la sua nuova politica di buon vicinato, ha cercato di praticare una sorta di smarcamento dalla tutela statunitense, rendendo di fatto scarsamente affidabile un tassello fondamentale per la penetrazione nordamericana nella massa eurasiatica. Oltre gli ostacoli costituiti dall’Iràn e dalla Siria, gli strateghi di Washington e del Pentagono devono oggi tener conto infatti anche della nuova e poco malleabile Turchia.

Il mutamento di condotta della Turchia è avvenuto nel contesto della più generale e complessa trasformazione dello scenario eurasiatico, tra i cui elementi caratterizzanti sono da registrare la riaffermazione della Russia su scala continentale e globale, la potente emersione della Cina e dell’India nell’ambito geoeconomico e finanziario e, per quanto concerne la potenza statunitense, il suo logoramento sul piano militare in Afghanistan e in Iràq.

Quello che, a far data dal crollo del muro di Berlino e dal collasso sovietico, sembrava apparire come l’avanzamento inarrestabile della “Nazione necessaria” verso il centro della massa continentale eurasiatica, seguendo le due seguenti predeterminate direttrici di marcia:

 - una, procedente dall’Europa continentale, volta all’inclusione, a colpi di “rivoluzioni colorate”, nella propria sfera d’influenza dell’ex “estero vicino” sovietico, prontamente ribattezzato la “Nuova Europa”, secondo la definizione di Rumsfeld, e destinata strategicamente, nel tempo, a “premere” contro una Russia ormai allo stremo;

- l’altra, costituita dalla lunga strada che dal Mediterraneo si protrae verso le nuove repubbliche centroasiatiche, volta a tagliare in due la massa euroafroasiatica e a creare un permanente vulnus geopolitico nel cuore dell’Eurasia;

si era arrestato nel volgere di pochi anni nel pantano afgano.

Falliti gli ultimi tentativi di “rivoluzioni colorate” e sommovimenti telediretti da Washington nel Caucaso e nelle Repubbliche centroasiatiche, rispettivamente a causa della fermezza di Mosca e delle congiunte politiche eurasiatiche di Cina e Russia, messe in atto, tra l’altro, attraverso la Organizzazione della Conferenza di Shanghai (OCS), la Comunità economica eurasiatica e il consolidamento di relazioni di amicizia e cooperazione militare, gli USA al termine del primo decennio del nuovo secolo dovevano riformulare le proprie strategie eurasiatiche.

 

La prassi egemonica atlantica

 

L’assunzione del paradigma geopolitico proprio al sistema occidentale a guida statunitense, articolato sulla dicotomia Stati Uniti versus Eurasia e sul concetto di “pericolo strategico”3, induce gli analisti che lo praticano a privilegiare gli aspetti critici delle varie aree bersaglio degli interessi atlantici. Tali aspetti sono costituiti comunemente dalle tensioni endogene dovute in particolare a problematiche interetniche, disequilibri sociali, disomogeneità religiosa e culturale4, frizioni geopolitiche. Le soluzioni approntate riguardano un ventaglio di interventi che spaziano dal ruolo degli USA e dei loro alleati nella “ricostruzione” degli “stati falliti” (Failed States) secondo modalità diversificate (tutte comunque miranti a diffondere i “valori occidentali” della democrazia e della libera iniziativa, senza tenere in alcun conto le peculiarità e le tradizioni culturali locali), fino all’intervento militare diretto. Quest’ultimo viene giustificato, a seconda delle occasioni, come una risposta necessaria per la difesa degli interessi statunitensi e del cosiddetto ordine internazionale oppure, nel caso specifico degli stati o governi che l’Occidente ha valutato, preventivamente e significativamente, in accordo alle regole del soft power, “canaglia”, quale estremo rimedio per la difesa delle popolazioni e la salvaguardia dei diritti umani5.

Considerando che la prospettiva geopolitica statunitense è tipicamente quella di una potenza talassica, che interpreta il rapporto con le altre nazioni o entità geopolitiche muovendo dalla propria condizione di “isola”6, essa identifica il bacino mediterraneo e l’area centroasiatica come due zone caratterizzate da una forte instabilità. Le due aree rientrerebbero nell’ambito dei cosiddetti archi di instabilità come definiti da Zbigniew Brzezinski. L’arco di instabilità o di crisi costituisce, come noto, una evoluzione ed un ampliamento del concetto geostrategico di rimland (margine marittimo e costiero) messo a punto da Nicholas J. Spykman7. Il controllo del rimland avrebbe permesso, nel contesto del sistema bipolare, il controllo della massa eurasiatica e dunque il contenimento della sua maggiore nazione, l’Unione Sovietica, ad esclusivo beneficio della “isola nordamericana”.

Nel nuovo contesto unipolare, la geopolitica statunitense ha definito come Grande Medio Oriente la lunga e larga fascia che dal Marocco giunge fino all’Asia Centrale, una fascia che andava secondo Washington “pacificata” in quanto costituiva una ampio arco di crisi, a causa delle conflittualità generate dalle disomogeneità sopra descritte. Tale impostazione, veicolata dagli studi di Samuel Huntington e dalle analisi di Zigbniew Brzezinski, spiega abbondantemente la prassi seguita dagli USA al fine di aprirsi un varco nella massa continentale eurasiatica e da lì premere sullo spazio russo per assumere l’egemonia mondiale. Tuttavia alcuni fattori “imprevisti” quali la “ripresa” della Russia, la politica eurasiatica condotta da Putin in Asia Centrale, le nuove intese tra Mosca e Pechino, nonché l’emersione della nuova Turchia (fattori che messi in relazione alle relative e contemporanee “emancipazioni” di alcuni paesi dell’America Meridionale delineano uno scenario multipolare o policentrico) hanno influito sulla ridefinizione dell’area come un Nuovo Medio Oriente. Tale evoluzione, emblematicamente, venne resa ufficiale nel corso della guerra israelo-libanese del 2006. In quell’occasione, l’allora segretario di Stato Condoleeza Rice ebbe a dire: «Non vedo l’interesse della diplomazia se è per ritornare alla situazione precedente tra Israele ed il Libano. Penso sarebbe un errore. Ciò che vediamo qui, in un certo modo, è l’inizio, sono le doglie di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa noi facciamo, dobbiamo essere certi che esso sia indirizzato verso il nuovo Medio Oriente per non tornare al vecchio»8. La nuova definizione era ovviamente programmatica; mirava infatti alla riaffermazione del partenariato strategico con Tel Aviv ed alla frantumazione – indebolimento dell’area vicino e medio orientale nel quadro di quello che alcuni giorni dopo la dichiarazione di Condoleeza Rice venne precisato dal primo ministro israeliano Olmert essere il “New Order” in “Medio Oriente”. Parimenti programmatico era il sintagma “Balcani eurasiatici” coniato da Brzezinski in riferimento all’area centroasiatica, giacché utile alla formulazione di una prassi geostrategica che, attraverso la destabilizzazione dell’Asia Centrale sulla base delle tensioni endogene, aveva (ed ha) lo scopo di rendere problematica la potenziale saldatura geopolitica tra Cina e Russia.

Negli anni che vanno dal 2006 alla operazione “Odyssey Dawn” contro la Libia (2011), gli USA, nonostante la retorica inaugurata dal 2009 dal nuovo inquilino della Casa Bianca, hanno di fatto perseguito una strategia mirante alla militarizzazione dell’intera striscia compresa tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale. In particolare, gli USA hanno messo in campo, nel 2008, il dispositivo militare per l’Africa, l’Africom, attualmente (aprile 20011) impegnato nella “crisi” libica, finalizzato al radicamento della presenza statunitense in Africa in termini di controllo e di pronto intervento nel continente africano, ma anche puntato nella direzione del “nuovo” Medio Oriente e dell’Asia Centrale. In sintesi, la strategia statunitense consiste nella militarizzazione della fascia mediterranea-centroasiatica. Gli scopi principali sono:

  1. creare un cuneo tra l’Europa meridionale e l’Africa settentrionale;

  2. assicurare a Washington il controllo militare dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente (utilizzando anche la base di Camp Bondsteel presente nel Kosovo i Metohija), con una particolare attenzione all’area costituita da Turchia, Siria e Iràn;

  3. tagliare” in due la massa eurasiatica;

  4. allargare il cosiddetto arco di crisi nell’Asia Centrale.

Nell’ambito del primo e del secondo obiettivo, l’interesse di Washington si è rivolto principalmente verso l’Italia e la Turchia. I due paesi mediterranei, per motivi diversi (ragioni eminentemente di politica industriale ed energetica per l’Italia, ragioni più propriamente geopolitiche per Ankara, desiderosa di ricoprire un ruolo regionale di primo livello, peraltro in diretta competizione con Israele) hanno negli ultimi anni tessuto rapporti internazionali che, in prospettiva, poiché forti delle relazioni con Mosca, potevano (e possono) fornire leve utili per una potenziale exit strategy turco-italiana dalla sfera di influenza nordamericana. Il tentativo oggettivo di aumentare i propri gradi di libertà nell’agone internazionale operati da Roma e Ankara cozzavano contro non solo gli interessi generali di natura geopolitica di Washington e Londra, ma anche contro quelli più “provinciali” dell’Union méditerranéenne di Sarkozy.

 

Il multipolarismo tra prospettiva regionalista e eurasiatica

 

La prassi applicata dal sistema occidentale guidato dagli USA volta, come sopra descritto, ad ampliare le crisi in Eurasia e nel Mediterraneo al fine non della loro stabilizzazione, bensì del mantenimento della propria egemonia, mediante militarizzazione dei rapporti internazionali e coinvolgimento degli attori locali, oltre ad individuare altri futuri e probabili bersagli (Iràn, Siria, Turchia) utili al radicamento statunitense in Eurasia, pone alcune riflessioni in merito allo “stato di salute” degli USA e alla strutturazione del sistema multipolare.

Ad una analisi meno superficiale, l’aggressione alla Libia di USA, Gran Bretagna e Francia, non è affatto un caso sporadico, ma un sintomo della difficoltà di Washington di operare in maniera diplomatica e con senso di responsabilità, quale un attore globale dovrebbe avere. Esso evidenzia il carattere di rapacità tipico delle potenze in declino. Il politologo ed economista statunitense David. P. Calleo, critico della “follia unipolare” e studioso del declino degli USA, osservava nel lontano 1987 che «…le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace»10. Luca Lauriola nel suo Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero11, sostiene, a ragione, che le potenze eurasiatiche, Russia, Cina e India trattano la potenza d’oltreatlantico, ormai “smarrita e impazzita”, in modo da non suscitare reazioni che potrebbero generare catastrofi planetarie.

Per quanto invece riguarda il processo di strutturazione del sistema multipolare, occorre rilevare che quest’ultimo avanza lentamente, non a causa delle recenti azioni statunitensi in Africa Settentrionale, ma piuttosto per l’atteggiamento “regionalista” assunto dagli attori eurasiatici (Turchia, Russia e Cina), i quali stimando il Mediterraneo e l’Asia Centrale solo in funzione dei propri interessi nazionali, non riescono a cogliere il significato geostrategico che queste aree svolgono nel più ampio scenario conflittuale tra interessi geopolitici extracontinentali (statunitensi) ed eurasiatici. La riscoperta di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, evidenziando il ruolo di “cerniera” che esso assume nell’articolazione euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi per superare l’ impasse “regionalista” che subisce il processo di transizione unipolare-multipolare.

 * Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG.

1 Elena Mazzeo, “La Turchia tra Europa e Asia”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VIII, n.1 2011.

2 La Turchia aderisce al Patto Nato il 18 febbraio 1952.

3 «Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti», Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634–635.

«Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.» Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

4 Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

5 Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden, Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

6 «Un tipico descrittore geopolitico è la visione degli USA come una “isola”, non troppo diversa geopoliticamente dall’Inghilterra e dal Giappone. Tale definizione esalta la loro tradizione di commercio marittimo ed interventi militari oltremare e, ovviamente, di sicurezza basata sulla distanza e l’isolamento.» Phil Kelly, “Geopolitica degli Stati Uniti d’America”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VII, n.3 2010.

7 Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

8 «But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one», Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 luglio 2006

9 Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Mosca , 9-10 giugno 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

10 David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

11 Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.


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Carl Schmitt: Total Enemy, Total State & Total War

Total Enemy, Total State, & Total War

Carl SCHMITT

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 Translated by Simona Draghici

Editor’s Note:

The following translation from Carl Schmitt appears online for the first time in commemoration of Schmitt’s birth on July 11, 1888. The translation originally appeared in Carl Schmitt, Four Essays, 1931–1938, ed. and trans. Simona Draghici (Washington, D.C.: Plutarch Press, 1999).

I

cs.jpgIn a certain sense, there have been total wars at all times; a theory of the total war, however, presumably dates only from the time of Clausewitz who would talk of “abstract” and “absolute” wars.”[1] Later on, under the impact of the experiences of the last Great War, the formula of total war has acquired a specific meaning and a particular effectiveness. Since 1920, it has become the prevailing catchword. It was first brought out in sharp relief in the French literature, in book titles like La guerre totale. Afterwards, between 1926 and 1928, it found its way into the language of the proceedings of the disarmament committee at Geneva. In concepts such as “war potential” (potentiel de guerre), “moral disarmament” (désarmement moral) and “total disarmament” (désarmement total). The fascist doctrine of the “total state” came to it by way of the state; the association yielded the conceptual pair: total state, total war. In Germany, the publication of the Concept of the Political has since 1927 expanded the pair of totalities to a set of three: total enemy, total war, total state. Ernst Jünger’s book of 1930 Total Mobilization made the formula part of the general consciousness. Nonetheless, it was only Ludendorff’s 1936 booklet entitled Der Totale Krieg (The Total War) that lent it an irresistible force and caused its dissemination beyond all bounds.

The formula is omnipresent; it forces into view a truth whose horrors the general consciousness would rather shun. Such formulas, however, are always in danger of becoming widespread nationally and internationally and of being degraded to summary slogans, to mere gramophone records of the publicity mill. Hence some clarifications may be appropriate.

(a) A war may be total in the sense of summoning up one’s strength to the limit, and of the commitment of everything to the last reserves.[2] It may also be called total in the sense of the unsparing use of war means of annihilation. When the well-known English author J. F. C. Fuller writes in a recent article, entitled “The First of the League Wars, Its Lessons and Omens,” that the Italian campaign in Abyssinia was a modern total war, he only refers to the use of efficacious weapons (airplanes and gas), whereas looked at from another vantage point, Abyssinia in fact was not capable of waging a modern total war nor did Italy use its reserves to the limit, reach the highest intensity, and lead to an oil blockade or to the closing of the Suez Canal, because of the pressure exerted through the sanctions imposed by the League of Nations.

(b) A war may be total either on both sides or on one side only. It may also be deliberately limited, rationed and measured out, because of the geographical situation, the war technique in use, and also the predominant political principles of both sides. The typical 18th-century war, the so-called “cabinet war,” was essentially and deliberately a partial war. It rested on the clear segregation of the soldiers participating in the war from the non-participant inhabitants and non-combatants. Nevertheless, the Seven Years War of Frederick the Great was relatively total, on Prussia’s side, when compared with the other powers’ mobilization of forces. A situation, typical of Germany, showed itself readily in that case: the adversity of geographical conditions and the foreign coalitions compelled a German state to mobilize its forces to a higher degree than its more affluent and fortunate bigger neighbors.[3]

(c) The character of the war may change during the belligerent showdown. The will to fight may grow limp or it may intensify, as it happened in the 1914–1918 world war, when the war trend on the German side towards the mobilization of all the economic and industrial reserves soon forced the English side to introduce general conscription.

(d) Finally, some other methods of confrontation and trial of strength, which are not total, always develop within the totality of war. Thus for a time, everyone seeks to avoid a total war which naturally carries a total risk. In this way, after the world war, there were the so-called military reprisals (the 1923 Corfu Conflict, Japan-China in 1932), followed by the attempts at non-military, economic sanctions, according to Article 16 of the Covenant of the League of Nations (against Italy, autumn 1935), and finally, certain methods of power testing on foreign soil (Spain 1936–1937) emerged in a way that could be correctly interpreted only in close connection with the total character of modern warfare. They are intermediate and transitional forms between open war and true peace; they derive their meaning from the fact that total war looms large in the background as a possibility, and an understandable caution recommends itself in the delineation of the conflictual spaces. Likewise, it is only from this point of view that they can be grasped by the science of international law.

II

The core of the matter lies in warfare. From the nature of the total war one may grasp the character and the whole aspect of state totality; from the special character of the decisive weapons one may deduce the peculiar character and aspect of the totality of war. But it is the total enemy that gives the total war its meaning.[4]

The different services and types of warfare, land warfare, sea warfare, air warfare, they each experience the totality of war in a particular way. A corresponding world of notions and ideas piles on each of these types of warfare. The traditional notions of “levée en masse” (levy), “nation armée” (nation in arms), and “Volk in Waffen” (the people in arms) belong to land warfare.[5] Out of these notions emerged the continental doctrine of total war, essentially as a doctrine of land warfare, and that thanks mainly to Clausewitz. Sea warfare, on the other hand, has its own strategic and tactical methods and criteria; moreover, until recently, it has been first and foremost a war against the opponent’s trade and economy, whence a war against non-combatants, an economic war, which by its laws of blockade, contraband, and prizes, drew neutral trade into the hostilities, as well. Air warfare has not so far built up a similar fully-fledged and independent system of its own. There is no doctrine of air warfare yet that would correspond to the world of notions and concepts accumulated with regard to land and sea warfare. Nonetheless, as a consequence of air warfare, the overall configuration sways in the main towards a three-dimensional total war.

The “if” of a total war is beyond any doubt today. The “how” may vary. The totality is perceptible from opposite vantage points. Hence the standard type of guide and leader in a total war is necessarily different. It would be too simple an equation to accept that the soldier will step into the centre of this totality as the prevailing type in a total war to the same extent as in other kinds of wars previously.[6] If, as it has been said, total mobilization abolishes the separation of the soldier from the civilian, it may very well happen that the soldier changes into a civilian as the civilian changes into a soldier, or both may change into something new, a third alternative. In reality, it all depends on the general character of the war. A real war of religion turns the soldiers into the tools of priests or preachers. A total war that is waged on behalf of the economy becomes the tool of economic power groups. There are other forms in which the soldier himself is the typical model and the ascending expression of the character of the people. Geographical conditions, racial and social peculiarities of all kinds, are factors that determine the type of warfare waged by great nations. Even today it is unlikely that a nation could engage in all the three kinds of warfare to a degree equal to the three-dimensional total war. It is probable that the centre of gravity in the deployment of forces will always rest with one or the other of the three kinds of warfare and the doctrine of total war will draw on it.[7]

Until now the history of the European peoples has been dominated by the contrast of the English sea warfare with the Continental land warfare. It is not a matter of “traders and heroes” or that sort of thing, but rather the recognition that any of the various kinds of warfare may become total, and out of its own characteristics generate a special world of notions and ideals as its own doctrine and also relevant to international and constitutional law, particularly in the assessment of the soldier’s worth and of his position in the general body of the people. It would be a mistake to regard the English sea warfare of the last three centuries in the light of the total land warfare of Clausewitz’s theory, essentially as mere trade and economic but not total warfare, and to misinterpret it as unconnected with and markedly different from totality. It is the English sea warfare that generated the kernel of a total world view.[8]

The English sea warfare is total in its capacity for total enmity. It knows how to mobilize religious, ideological, spiritual, and moral forces as only few of the great wars in world history have done. The English sea warfare against Spain was a world-wide combat of the Germanic and Romance peoples, between Protestantism and Catholicism, Calvinism and Jesuitism, and there are few instances of such outbursts of enmity as intense and final as Cromwell’s against the Spaniards. The English war against Napoleon likewise changed from a sea war into a “crusade.” In the war against Germany between 1914 and 1918, the world-wide English propaganda knew how to whip up enormous moral and spiritual energies in the name of civilization and humanity, of democracy and freedom, against the Prussian-German “militarism.” The English mind had also proved its ability to interpret the industrial-technical upsurge of the 19th century in the terms of the English worldview. Herbert Spencer drew an extremely effective picture of history that was disseminated all over the world, in countless works of popularization, the propagandistic force of which proved its worth in the 1914–1918 World War. It was the philosophy of mankind’s progress, presented as an evolution from feudalism to trade and industry, from the political to the economic, from soldiers to industrialists, from war to peace. It portrayed the soldier essentially as Prussian-German, eo ipso “feudal reactionary,” a “medieval” figure standing in the way of progress and peace. Moreover, out of its specificity, the English sea warfare evolved a full, self-contained system of international law. It asserted itself and its own concepts held on their own against the corresponding concepts of Continental international law throughout the 19th century. There is an Anglo-Saxon concept of enemy, which in essence rejects the differentiation between combatants and non-combatants, and an Anglo-Saxon conception of war that incorporates the so-called economic war. In short, the fundamental concepts and norms of this English international law are total as such and certainly indicative of an ideology in itself total.

Finally, the English constitutional regulations turned the subordination of the soldiers to the civilians into an ideological principle and imposed it upon the Continent during the liberal 19th century. By those standards, civilization lies in the rule of the bourgeois, civilian ideal which is essentially unsoldierly. Accordingly, the constitution is always but a civil-bourgeois system in which, as Clemenceau put it, the soldier’s only raison d’être is to defend the civilian bourgeois society, while basically he is subject to civilian command. The Prussian soldier state carried on a century-long political struggle on the home front against this bourgeois constitutional ideal. It succumbed to it in the Autumn of 1918. The history of Prussian Germany’s home politics from 1848 to 1918 was a ceaseless conflict between the army and parliament, an uninterrupted battle which the government had to fight with the parliament over the structure of the army, and the army budget necessary to make ready for an unavoidable war, that were determined not by the necessities of foreign policy but rather by compromises regarding internal policy. The dictate of Versailles, which stipulated the army’s organization and its equipment to the smallest detail, in an agreement of foreign policy, was preceded by half a century of periodical agreements of internal policy between the Prussian-German soldier state and its internal policy opponents, in which all the details of the organization and the equipment of the army had been decided by the internal policy. The conflict between bourgeois society and the Prussian soldier state led to an unnatural isolation of the War Office from the power of command and to many other separations, consistently rooted in the opposition between a bourgeois constitutional ideal imported from England either directly or through France and Belgium, on the one hand, and the older constitutional ideal of the German soldiery, on the other.[9]

Today Germany has surmounted that division and achieved a close integration of its soldier force.[10] Indeed, attempts will not fail to be made to describe it as militarism, in the manner of earlier propaganda methods, and to hold Germany guilty of the advent of total war. Such questions of guilt too belong to the totality of the ideological wrangles. Le combat spirituel est aussi brutal que la bataille d’hommes (spiritual combat is as brutal as the battles of men). Nonetheless, before nations stagger into a total war once more, one must raise the question whether a total enmity truly exists among the European nations nowadays. War and enmity belong to the history of nations. But the worst misfortune only occurs wherever the enmity is generated by the war itself, as in the 1914–1918 war, and not as it would be right and sensible, namely that an older, unswayed enmity, true and total to the Day of Judgment, should led to a total war.

Translator’s Notes

Originally published in Völkerbund und Völkerrecht, vol. 4, 1937, this essay was reproduced in Posirionen und Begriffe im Kampf mit Weimar-Gent-Versailles, 1929–1939, (Hamburg, 1940), pp. 235–239.

1. General Carl von Clausewitz (1780–1831) is best known for his book Vom Kriege, never finished and published posthumously, which incidentally has been translated into English under the title On War. There are numerous versions available in print.

2. Carl Schmitt’s own political principles of “will” and “energy,” components of his qualitative concept of total state, derive from this characteristic feature of “total war”: collective determination to assume a cause considered worthwhile and unreserved commitment to its fulfillment. As a generalized rallying around and enthusiasm for a cause and a particular course of action, it is a frequent phenomenon of social psychology, yet its usually ephemeral character makes it unfit as a durable basis of any social structure. I remember the enthusiasm with which in 1982, to a man, the Argentines, for instance, rallied to the idea of going to war to free the Maldives and hurried to put it into practice, and the accompanying hatred which grew against the British. The enthusiasm cooled off quickly, but not the hatred, which lingered on. To perpetuate the enthusiasm, a plethora of other factors have to be brought in, of which, in the case of Germany at the beginning of the ’thirties, Carl Schmitt actually had not a clue.

3. The “lesson” is in keeping with the Hitlerite Frederician cult and legitimating tradition and does not claim to be historically accurate. Although a digression that seems out of place, it has a certain significance for the time it was made. In the autumn of 1936, Hitler circulated a memorandum revealing his expansionist intentions. Then in 1937, the organization of the nation to serve those intentions began, a process which coincided with the rise of the SS state. In November of the same year the German media were ordered to keep silent about the preparations for a “total war.” Bearing all that in mind, Schmitt’s short digression reads more as a warning of danger than a point of military strategy.

4 . What is interesting here is his insistence on the existential essence of the phenomenon, which is consonant with his earlier definition of the political and at the same time renders the distinction between the professional soldier and the civilian meaningless. Moreover, total enmity with its implicit elimination of the adversary excludes any prospect of a peace treaty, as the war is to go on until one of the belligerents is annihilated.

5. Das Volk in Waffen (The Nation in Arms) happens to be the title of a work on total war by Colmar von der Goltz (1843–1916), published in 1883, and which is an important stepping stone in the reflection on modern warfare that led to Ludendorff’s book.

6. At the beginning of February 1938, Adolf Hitler became commander in chief of the German armed forces, appointing General Keitel his assistant at the head of the High Command of the Armed Forces, as the War Ministry was dissolved.

7. Eventually only the Soviet Union came closest to Carl Schmitt’s expectations, while the United States waged a fully-fledged three-dimensional war, dictated by its geographical position and sustained by its vast economic and technical resources most of which remained outside the battle zone.

8. For a broader treatment of the subject-matter see Carl Schmitt’s Land und Meer, which as Land and Sea is available in an English translation (Washington, D.C.: Plutarch Press, 1997).

9. The conflict between the civil society and the military in Germany was the subject-matter of a longer essay by Carl Schmitt, published in Hamburg in 1934 under the title Staatsgefüge und Zusammenbruch des Zweites Reiches. Der Sieg des Burgers über den Soldaten (The State Structure and the Collapse of the Second Reich. The Burghers’ Victory Over the Soldiers).

 

10. Röhm, the ideological soldier, had been eliminated in 1934, at the same time as the political soldiers, the Generals von Schleicher and von Bredow. Furthermore, as already mentioned in note 6 above, the War Ministry ceased to exist at the beginning of 1938, while the Commander in Chief, Field Marshal Werner von Blomberg was removed from his post for having compromised himself by marrying a “lady with a past,” and his prospective successor, General von Fritsch was forced to resign on a trumped-up Charge of homosexuality. At the same time, sixteen other generals were retired and forty-four were transferred. Göring who had been very active in carrying out this “integration” got for it only the title of field marshal, as Hitler kept for himself the supreme military command.

 


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US-Regierung gibt offen zu, mexikanische Drogenbanden mit Waffen beliefert zu haben

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US-Regierung gibt offen zu, mexikanische Drogenbanden mit 30.000 Waffen beliefert zu haben

Mike Adams

Nun wurde endlich ausführlich darüber berichtet, dass unter der Regierung Obama amerikanische Bundesagenten aktiv daran beteiligt waren, mehr als 30.000 voll funktionsfähige Waffen in die Hände mexikanischer Drogenbanden gegeben zu haben. Sie stellten alle Überwachungs- und Verfolgungsaktivitäten überall dort ein, wo diese Waffenverkäufe abliefen.

 

Es handelt sich hier nicht um eine Verschwörungstheorie oder einen Kriminalroman. Es wird offen zugegeben, dass diese Operation vom BATFE (Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, besser bekannt als »ATF«, eine amerikanische Bundesbehörde mit polizeilichen Befugnissen, die dem Justizministerium untersteht) auf Befehl Washingtons durchgeführt wurde. Das Programm trug den Namen »Fast and Furious«.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mik...

vendredi, 22 juillet 2011

Le Tribunal de l'histoire ne reconnaît que les vainqueurs finaux

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Le Tribunal de l’histoire ne reconnaît que les vainqueurs finaux

par Marc ROUSSET

Julien Freund, dans L’essence du politique, remarquait que la morale, domaine du privé, ne peut interférer avec le politique, domaine de l’espace public, de l’histoire et de la survie politique. L’histoire est le domaine  de la loi du plus fort  et de la « Realpolitik » quel que soit le camouflage dont on l’habille. L’« Irrealpolitik » du politiquement correct et des droits de l’hommistes se refuse de penser la conflictualité, ce qui est un déni des réalités. Et selon l’ancien chancelier Bismarck, cité par Vladimir Poutine, « l’important n’est pas l’intention, mais le potentiel ». Quant à Joseph S. Nye, ancien vice-Secrétaire à la Défense, « la puissance militaire est à la sécurité ce que l’oxygène est à la respiration : on n’y prête guère attention, sauf lorsqu’on vient à  manquer », comme en Libye, où les forces  aérienne françaises et anglaises manquent de munitions et  ne peuvent se passer des A.W.A.C.S. et de l’aide américaine pour mettre en place la zone d’exclusion aérienne. À quand la sortie de l’O.T.A.N., une véritable défense européenne avec un noyau dur franco-allemand et un budget de défense double pour ces deux pays, soit 3 % minimum du P.I.B., permettant de mettre en place les bases d’une véritable défense européenne ? Le général de Gaulle avait porté l’effort de défense  militaire de la France jusqu’à 5,1 % du P.I.B. !

Guillaume Faye, dans La nouvelle question juive, remarque combien il est rigoureusement impossible qu’Israël, qu’il se fasse faucon ou colombe, puisse un jour vivre en paix avec les Arabes dans une zone de co-prospérité comme le souhaite l’O.N.U. Le droit sur une terre invoqué par les Juifs comme par les Arabes, ne vaut rien face aux faits car seuls comptent la force, la fécondité et la capacité de se maintenir. Personne n’a jamais raison face au Tribunal de l’histoire qui ne reconnaît que les vainqueurs finaux.

Quant au royaume franc de Jérusalem, né de la première Croisade  et de la prise de Jérusalem, le 15 juillet 1099 par Godefroy de Bouillon, il ne dura que deux siècles. Après de nombreuses péripéties et malgré une troisième Croisade conduite par Philippe II Auguste et Richard Cœur de Lion, tout comme une croisade de Saint Louis qui gouverna le royaume de 1250 à 1254, le sultan mamelouk Baybars reprit petit à petit les différentes places fortes du royaume. La dernière place forte franque fut Saint-Jean d’Acre qui tomba le 28 mai 1291.

À Montréal, dans les années 1970, il était complètement illusoire d’espérer pouvoir garder Montréal bilingue. Soit Montréal devenait anglophone, soit Montréal devenait francophone. Dans le pseudo-équilibre bilingue de l’époque, les anglophones grignotaient en fait les francophones car les immigrants, au nom de la liberté du père de famille, envoyaient leurs enfants  dans les écoles anglophones. Seule la Loi 101, suite à l’action terroriste  du Front de libération du Québec (F.L.Q.) et politique du Parti Québécois, a fait triompher dans l’immédiat les francophones qui se sont inspirés de la maxime de Lacordaire  comme quoi « c’est la liberté qui opprime et l’intervention qui libère ».

De même pendant la Guerre de Cent Ans des Français d’Amérique, les « coureurs des bois » gagnèrent de magnifiques batailles (Fort-Duquesne en 1754, Fort-Carillon en 1758); ils occupèrent les terres vides en se mariant parfois avec les Indiens, menacèrent d’encerclement complet les colonies anglaises, mais perdirent la guerre car les Anglais s’étaient établis plus au Sud, beaucoup plus attractif pour le peuplement et l’activité économique grâce à des apports britanniques, hollandais, suédois et allemands. Par la suite, les colonies anglaises, plus fortement peuplées, n’eurent de cesse d’éliminer par la force les possesseurs français. En 1763, suite au traité de Paris, l’Amérique du Nord était définitivement perdue pour la France.

Imaginons également un instant ce que seraient aujourd’hui nos sociétés, notre droit, nos valeurs si l’Allemagne avait gagné la Seconde Guerre mondiale, ce dont il s’en est fallu de peu. Toutes les valeurs qui paraissent aujourd’hui évidentes et indiscutable dans nos démocraties seraient inversées et la majeure partie des populations y adhérerait, tout comme la quasi-totalité des Allemands jusqu’au 8 mai 1945. On a pu dire que la France jusqu’à la Libération comptait quarante millions de pétainistes ! Malheur aux vaincus… (Vae victis !). Nos sociétés seraient aujourd’hui officiellement racistes, pratiqueraient la préférence communautaire, ne connaîtraient pas le libre-échange mondialiste, l’immigration extra-européenne, vivraient le culte des héros, d’un pouvoir central  fort, du dépassement de soi, de l’abnégation totale pour son pays, d’un holisme sacré proche des valeurs traditionnelles de l’Antiquité et de celle nos pères à Verdun… en lieu et place…  du droit de l’hommisme, de l’individualisme hédoniste matérialiste, du métissage, du culte de l’argent, de l’antiracisme, de la démocratie… avec des lois qui seraient exactement le contraire des lois liberticides Pleven et Gayssot.

Le  tribunal de Nuremberg, s’il fut effectivement le lieu de justice des droits de l’homme, fut avant tout le lieu de justice unilatéral des vainqueurs finaux envers les vaincus. Les prétentions à une justice universelle comme on le voit de nos jours avec le « Deux poids, deux mesures » pour la Syrie et la Libye ou les Serbes et les Albanais du Kosovo, relèvent de l’utopie. Staline, le « mangeur d’hommes », le tyran rouge, le responsable du massacre de plus de quatre mille officiers polonais « nationalistes et contre-révolutionnaires » en 1940 dans la forêt de Katyn, l’un des plus grands criminels de l’Histoire avec sept millions de morts suite à la famine planifiée en Ukraine en 1932 -1933 et onze millions d’ennemis de classe emprisonnés, fusillés, torturés ou envoyés au Goulag, avait aussi sa place devant le tribunal de Nuremberg, alors qu’il en était  juge .

 

Au lendemain du jugement de Nuremberg, le général américain Curtis Lemay, commandant des forces alliées en Europe, responsable de l’opération « Pointblank », l’un des stratèges des bombardements qui rasèrent les villes allemandes a pu dire : « Si Hitler avait gagné, c’est moi qui aurais été jugé pour crimes de guerre ». De leur côté, les Britanniques, en particulier le chef du « Bomber Command » Arthur Harris que les Allemands considèrent comme un criminel de guerre, prétendaient dresser la population  par ce « moral bombing » contre Hitler, mais la Gestapo et la guillotine travaillaient sans relâche en Allemagne. Les bombardements de terreur sur la population civile allemande furent un échec, mais constituaient de crimes de guerre car ils visaient expressément des populations civiles pour faire capituler des militaires. De nombreux prisonniers et travailleurs étrangers remplaçaient dans les ateliers les Allemands mobilisés et les villes étaient peuplées surtout de femmes, d’enfants et de vieillards; le but recherché était donc bien de tuer les familles des soldats pour les démoraliser. Les 135 millions de tonnes de bombes anglo-américaines lâchées sur l’Allemagne (à comparer avec  les seulement 0,58 millions de tonnes sur la France et  20 000 morts français) ont fait plus de 600 000 victimes en Allemagne. En février 1945, une attaque sur la petite ville d’horlogers de Pforzheim tua 20 000 des 60 000 habitants. On avait testé les bombes incendiaires sur Lübeck en mars 1942. L’opération Gomorrhe sur Hambourg en août 1943 se solda par 40 000 tués, asphyxiés ou brûlés vifs dans un incendie de 20 km2 (44 % des immeubles détruits). Cologne, Brême, Würzbourg, Fribourg et bien d’autres cités furent rasées. En août 1944, ce fut l’opération Tonnerre contre Berlin : 20 000 bombardiers tuèrent ou blessèrent 220 000 habitants. En février 1945, ce fut le tour de la ville de Dresde qui était bourrée de réfugiés en provenance de l’Est, avec des bombes au phosphore pour transformer les êtres humains en torches vivantes et les égouts en feu ! Dans les nuits du 13 au 15 février 1945, les bombes lâchées par 800 bombardiers alliés sur Dresde font 135 000 morts et détruisent 80 % de la ville. Le chef du « Bomber Command » Arthur Harris avait donc aussi sa place devant le Tribunal de Nuremberg. Et que dire du crime de guerre, relancé par le roman du Prix Nobel Günter Grass, sur le torpillage du Wilhelm-Gustloff plein à craquer de civils dans la Baltique par un sous-marin soviétique, tout comme la vitrification d’Hiroshima et de Nagasaki ou des bombardements au Viêtnam ou en Irak qui resteront à jamais impunis par cette  soi-disant  justice universelle à sens unique.

Et il en sera de même pour le sort que connaîtra le colonel  Mouammar Kadhafi, suite à l’agression d’un pays souverain par l’O.T.A.N. au nom d’une pseudo-morale occidentale ainsi que celui des différentes parties prenantes, après le retrait programmé de l’Occident et la nouvelle stratégie en Afghanistan. In fine, tout dépend du verdict des armes. Rien n’a changé depuis l’ordre de destruction du premier temple par Nabuchodonosor en 587 av. J.-C., du second Temple par Titus en 70 et les fables de la Fontaine : « La raison du plus fort est toujours la meilleure ». Georges  Gusdorf, lui, nous rappelait que « tout n’est que force et rapport de force ».

Marc Rousset


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Philippe Prévost sur les révoltes arabes sur Méridien Zéro



 

Philippe Prévost sur les révoltes arabes sur Méridien Zéro

Dragan Cavic (Republika Srpska): "Sezession ist derzeit keine Option"!

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„Sezession ist derzeit keine Option“

 

Dragan Cavic, Ex-Präsident der Republika Srpska, über die Bedeutung des Daytoner Abkommens

Ex: http://www.zurzeit.at/

Herr Cavic, die internationale Gemeinschaft drängt auf eine Verfassungsreform in Bosnien, um den Staat zu zentralisieren. Wie stehen Sie dazu?

Dragan Cavic: Bosnien kann als Staat nur überleben, wenn es dezentralisiert bleibt. Wir haben kein Problem damit, daß es gesamtstaatliche Institutionen gibt, die die Funktion haben, anderen Staaten bilateral oder multinational gegenüberzutreten. Solche Institutionen sind notwendig und müssen bestehen, aber man muß die Sachen, die in Dayton unterschrieben wurden, beibehalten. Das heißt, daß die Interessen und die Identitäten der Völker, die in Bosnien und Herzegowina leben, gesichert werden müssen, und das betrifft natürlich auch die Republika Srpska.

Insbesondere EU und USA werfen Bosnien vor, der derzeitige Staatsaufbau sei ineffizient. Wie sehen Sie das?

Cavic: Vielleicht, aber man muß dazu auch sagen, daß man von Bosnien viel zu viel verlangt. Soll man von Bosnien verlangen, daß es in drei Jahren die Schweiz sein wird? Das wird aber nicht der Fall sein, weil Wunsch und Realität zwei Paar Schuhe sind. Vor 16 Jahren, also vor nicht allzu langer Zeit, ist ein grausamer und blutiger Krieg zu Ende gegangen ist, und dieser Krieg wird noch für Jahrzehnte Nachwirkungen haben. Wenn man bedenkt, daß wir den Krieg hatten, sind wir trotzdem einen großen Schritt vorwärts gekommen, wenn man Bosnien-Herzegowina mit Zypern vergleicht: Wie sind die Verhältnisse in Zypern 35 Jahre nach dem Krieg und wie sind sie in Bosnien 16 Jahre nach dem Krieg? – Da ist doch schon ein großer Unterschied!

Würden im Falle einer Zentralisierung die bosnischen Serben von der moslemischen Mehrheit an die Wand gedrängt werden?

Cavic: Wenn das der Fall wäre, würden die bosnischen Moslems mit all ihren Entscheidungen – weil sie auch von der Bevölkerung her mehr sind – die Serben überstimmen und damit würde die Mehrheit bestimmen, was die Minderheit zu machen hat. Aber gerade das wird durch den Daytoner Vertrag verhindert, der den Frieden in Bosnien-Herzegowina ermöglicht hat. Und betrachten Sie die bosniakisch-kroatische Föderation: Dort sind die bosnischen Kroaten gerade deswegen unzufrieden, weil sie immer wieder erleben müssen, daß sie von den bosnischen Moslems überstimmt werden und eigentlich kein Mitspracherecht haben.

Wenn das Daytoner Abkommen geändert werden sollte, wäre dann für die bosnischen Serben die Sezession eine Option?

Cavic: So, wie es jetzt mit dem Daytoner Abkommen und den zwei Entitäten ist, müssen die bosnischen Serben keine Sezession machen, weil es in Ordnung ist. Sobald es sich ändert, ist es aber eine andere Frage. Wenn die internationale Gemeinschaft oder ein anderer Druck auf die bosnischen Serben oder auf Bosnien ausübt, damit es zur Zentralisierung kommt und daß die Republika Srpska von der Bildfläche verschwindet, dann müssen die Serben den Weg der Sezession gehen. Aber zurzeit haben sie kein Bedürfnis, Bosnien zu verlassen, weil die Republika Srpska die Souveränität des serbischen Volkes gewährleistet. Denn die Republika Srpska umfaßt die Hälfte der Fläche des Gesamtstaates und ein Drittel der Macht in Bosnien-Herzegowina kommt aus der Republika Srpska.

In Österreich heißt es immer wieder, der bosnische Islam sei liberal. Wie sehen Sie das, zumal Sie aufgrund ihrer verschiedenen Funktionen das Land besonders gut kennen?

Cavic: Die traditionellen Bosnier haben den Islam immer liberal gelebt. Erst mit dem Krieg sind mit Unterstützung von Saudi-Arabien und dem Iran Mudschaheddin nach Bosnien gekommen und damit die Radikalen wie Wahhabiten und Salafisten, was in Bosnien eine Neuheit war. Aber dennoch sind die Islamisten in Bosnien nicht besonders stark vertreten, und die Mehrheit der Bosniaken ist dem liberalen Islam treugeblieben. Das sind jene Menschen, die die Tradition des liberalen Islam weiterleben, und die ihre serbischen und kroatischen Nachbarn respektieren.

Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.

Hollywood startet Massengehirnwäsche-Kampagne

Hollywood startet Massengehirnwäsche-Kampagne als Vorbereitung auf die nächste Freisetzung von biotechnisch hergestellten Viren

Ethan A. Huff

Die Unterhaltungsindustrie ist kein unbekanntes Wesen für staatliche Propagandafeldzüge, darin bilden die jüngsten Hollywoodfilme keine Ausnahme. Schon ein kurzer Blick auf den Trailer für den neuen Film Contagion lässt erkennen, dass es sich hier wohl eher um eine massive Gehirnwäsche-Kampagne handelt, die die Amerikaner psychologisch auf die nächste absichtliche Freisetzung eines biotechnisch hergestellten Virus vorbereiten – während die Zuschauer gleichzeitig auf subtile Weise darauf programmiert werden, die Vorstellung zu akzeptieren, im Falle eines Ausbruchs einer großen, verheerenden Seuche wäre eine Impfung die einzige Lösung.

 

 

Diese Taktik ist natürlich nichts Neues. Lässt man die Themen der großen Filme, die in den letzten Jahrzehnten auf den Markt gebracht wurden, noch einmal Revue passieren und vergleicht sie damit, was jeweils nicht viel später in der realen Welt geschah, dann zeigt sich mit geradezu gespenstischer Deutlichkeit, dass Hollywood eng mit den Absichten und Plänen der Kräfte verbunden ist, die heute die verschiedenen Regierungen der Welt, die US-Regierung nicht ausgenommen, in der Hand haben.

Viele – wenn nicht gar alle – Filme, die heute herauskommen, sind, so scheint es, nichts weiter als psychologische Manipulationsversuche, um entweder die Menschen geistig so abzustumpfen, dass sie eine bestimmte politische Agenda übernehmen, oder um ihr Denken buchstäblich für kommende Katastrophen zu konditionieren.

 

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/enthuellungen/ethan-a-huff/hollywood-startet-massengehirnwaesche-kampagne-als-vorbereitung-auf-die-naechste-freisetzung-von-bio.html

jeudi, 21 juillet 2011

Chilenas Bellas en Uniforme Militar

Chilenas Bellas en Uniforme Militar

Le Bulletin célinien n°332

Le Bulletin célinien n°332 - juillet/août 2011

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 
Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°332.
 
Au sommaire :

- Bloc-notes (Marc Laudelout)
- In memoriam Colette Destouches
- L’année de Céline ou « la fête des fous » (Pierre Lalanne)
- In memoriam Thomas Federspiel (François Marchetti)
- Huit entretiens sur Céline (Frédéric Saenen)
- La revanche posthume de Céline (Jérôme Dupuis)
- Céline toujours indésirable à Montmartre (Marc Laudelout)
- Villon et Céline [1] (Pierre de Bonneville)
- Céline en Goétie (Philippe Alméras)
- Hommage de la S.E.C. à Céline

Un numéro de 24 pages, 6 € franco.
Le Bulletin célinien, B. P. 70, Gare centrale, BE 1000 Bruxelles
 

 

 

Botschaft aus dem libyschen Sandmeer

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Botschaft aus dem libyschen Sandmeer

Interessant ist, was der Diplomat über seinen ehemaligen Mentor Gaddafi zu sagen wußte: Nicht dieser, sondern dessen Söhne seien das Übel. Ein interessanter Aspekt. Das bringt mich auf ein naheliegendes Thema: Wer könnte wohl gemeint sein, wenn davon die Rede ist, die Reise eines FP-Vermittlers  nach Tripolis sei mit „verschiedenen Seiten“ abgesprochen worden?  Nachdem EU und NATO davon nichts wissen wollen, wer könnte das sonst sein? Israel?                                                                                                                   

Da mit der Mission nicht der in der Partei für Außenpolitik sonst Zuständige, sondern der „Hausjude“ der Partei betreut wurde, wäre dies ja naheliegend. Aber auch dieser hat eigentlich nichts wesentlich Neues aus Tripolis mitgebracht, worüber nicht schon griechische oder italienische Gesprächspartner Gaddafis zu berichten gewußt hätten. Es sei denn, er verschweigt etwas, was nur für eine auserwählte Seite bestimmt ist.                        

Vielleicht ist aber alles ganz anders und das ganze Theater bloß ein PR-„Gag“. Und das magere Ergebnis insofern auch verständlich wäre, daß Gaddafis Sohn für einen Abgesandten jenes Politikers, der seinen Freund Jörg Haider einst beschimpfte, ganz einfach nicht mehr Zeit als fünf dürftige Minuten erübrigen wollte.                                   

Zudem  gilt ja für stolze Beduinen jene Haltung, wie sie in einem alten libyschen Lied zum Ausdruck kommt: „Ein Hirt von meinem Stamme gilt mir mehr als all die üpp´gen Freunde um mich her“.

mercredi, 20 juillet 2011

Cossack Duty (music by Dmitri Khvorostovsky)

Cossack Duty (music by Dmitri Khvorostovsky)

Théorie du genre : destituer l'homme de son humanité

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Théorie du genre : destituer l'homme de son humanité

Ex: http://www.polemia.com/

Luc Chatel vient d’imposer dans les programmes de première de Sciences de la vie et de la terre la « théorie du genre ». Le professeur Jean-François Mattei analyse ici le sens philosophique de ce lyssenkisme pédagogique. Il s’agit pour lui d’une négation pure et simple de la notion d’humanité, d’un retour à la barbarie dans une perspective post-soixante-huitarde.

Polémia.

 

La confusion des genres

 

On ne comprend pas la vague de fond des gender studies américaines... qui monte à l’assaut des rives françaises, si l’on se contente d’y voir un avatar du féminisme. Il s’agit en effet moins de libérer la femme de son oppression biologique que de destituer l’homme de son piédestal ontologique dans un retournement inattendu. Le « genre » ne concerne pas en effet l’homme en tant que mâle, sexué selon le système hétérogamétique XY dont la biologie montre la nécessité, mais l’homme en tant qu’humanité, voué à une essence dont l’éthique affirme la dignité. Pour le dire brièvement, la théorie du genre veut en finir avec l’humanisme occidental depuis la Renaissance afin d’abolir toute forme d’universalité. Le diagnostic de Michel Foucault sera ainsi corroboré : l’ « homme » est bien, en Occident, une « invention récente » dont le visage de sable s’efface peu à peu « comme à la limite de la mer ».

Les travaux sur le genre partent d’un postulat radical : la différence entre l’homme et la femme relève d’un genre social sans rapport avec le genre sexuel, dans la mesure où le comportement humain dépend du seul contexte culturel. S’il y a une différence biologique des sexes, elle n’a aucune incidence anthropologique, encore moins éthique, de sorte que l’hétérosexualité n’est pas une pratique orientée par la nature, mais l’effet d’un déterminisme culturel qui a imposé ses normes oppressives. On s’attaque en conséquence à la différence entre le masculin et le féminin en annulant, avec leur identité propre, leur inclusion dans la catégorie de l’humain. Monique Wittig, la « lesbienne radicale » qui refuse d’être une « femme » et qui prétend ne pas avoir de « vagin », énonce l’impératif catégorique du temps : il faut détruire politiquement, philosophiquement et symboliquement les catégories d’ « homme » et de « femme » (La pensée straight, p. 13). Et cette destruction s’impose parce qu’ « il n’y pas de sexe », qu’il soit masculin ou féminin, car c’est « l’oppression qui crée le sexe et non l’inverse » (p. 36). Si le genre grammatical n’existait pas, le sexe biologique se réduirait à une différence physique anodine.

Déconstruire les différences entre le masculin et le féminin

On avance donc, dans un énoncé purement performatif, que les différences entre le féminin et le masculin sont les effets pervers de la construction sociale. Il faut donc déconstruire celle-ci. Mais on ne se demande à aucun moment pourquoi les sociétés humaines ont toujours distingué les hommes et les femmes, ni sur quel fond l’édifice grammatical, culturel et politique prend appui. Comment expliquer que tous les groupes sociaux se soient ordonnés selon les « oppositions binaires et hiérarchiques » de l’hétérosexualité, comme le reconnaît Judith Butler ? Loin de s’inquiéter de cette permanence, la neutralité du genre se contente de dissocier le biologique de l’anthropologique, ou, si l’on préfère, la nature de la culture, afin d’évacuer la fonction tyrannique du sexe.

Cette stratégie de déconstruction ne se réduit pas à la négation de l’hétérosexualité. Les gender studies, au même titre que les queer studies ou les multicultural studies, ont le souci de miner, par un travail de sape inlassable, les formes d’universel dégagées par la pensée européenne. Judith Butler n’hésite pas à soutenir que « le sexe qui n’en est pas », c’est-à-dire le genre, constitue « une critique de la représentation occidentale et de la métaphysique de la substance qui structure l’idée même de sujet » (Trouble dans le genre, p. 73). On se débarrasse, d’un coup de plume, du sexe, de l’homme, de la femme et du sujet pris dans la forme de l’humanité. Ce qui entraîne par une série de contrecoups, la destruction de l’humanisme, imposé aux autres cultures par l’impérialisme occidental, et, plus encore, la destruction de la république, de l’État et de la rationalité. La déconstruction, apportée aux USA par la French Theory avant qu’elle nous revienne comme un boomerang, a pour fin ultime de ruiner le logocentrisme identifié par Derrida à l’eurocentrisme, en d’autres termes à la raison universelle.

Confusion entre l’homme et la femme et la réalité et la virtualité

Elle se fonde pour cela sur la confusion des genres, entre l’homme et la femme, mais aussi entre la réalité et la virtualité. C’est ce que laissait entendre la critique de l’hétérosexualité par Foucault au profit de l’homosexualité qui permettrait de « rouvrir des virtualités relationnelles et affectives » (Dits et Écrits). C’est pour sacrifier à ces virtualités qu’un couple canadien décidait récemment de ne pas révéler aux gens le sexe de leur bébé de quelques mois, prénommé Storm, afin qu’il puisse le choisir librement par la suite.

On aurait tort alors de regretter que le genre, à défaut du sexe, fasse une entrée remarquée à Sciences Po et dans les programmes des lycées. L’humanité future est désormais en marche vers un monde sans oppression qui, délivré du sexe, sera bon chic bon genre. Quand ce dernier aura définitivement neutralisé les identités et les différences, l’homme nouveau pourra partager le soulagement de Swann : « Dire que j’ai gâché des années de ma vie, que j’ai voulu mourir, que j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre ! »

Jean-François Mattéi
Institut universitaire de France
Le Procès de l’Europe, PUF, 2011
Magistro  18/06/2011

Voir aussi les articles sur Polémia :

« La barbarie intérieure : essai sur l'immonde moderne », de Jean-François Mattei 
Ils osent mettre le « gender » dans les programmes scolaires !
La théorie du « genre » au programme des lycées : une nouvelle avancée totalitaire 
Théorie du Gender : bienvenue dans « Le Meilleur des Mondes »

Correspondance Polémia – 30/06/2011

mardi, 19 juillet 2011

Intellectuels faussaires: triomphe médiatique des experts en mensonge

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« Les Intellectuels faussaires : Le triomphe médiatique des experts en mensonge » de Pascal Boniface (entretiens)

 

Ex: http://www.polemia.com/

Directeur de l’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), engagé à gauche, Pascal Boniface décape des idoles médiatiques, qu’il appelle des « experts en mensonge ». Un réjouissant jeu de massacre.

On ne peut guère soupçonner Pascal Boniface d’avoir, lui aussi, retourné sa veste, comme tant de ces « intellectuels faussaires » qu’il décrypte avec alacrité dans son dernier ouvrage éponyme. Après sa thèse d’État en droit international public sur les sources du droit international du désarmement, il fait très tôt partie des jeunes conseillers en affaires stratégiques proches de Charles Hernu, le premier ministre de la Défense de François Mitterrand, après mai 1981. Expert pour les questions de défense auprès du groupe socialiste de l’Assemblée nationale, il travaille aussi sur ces sujets aux cabinets de Jean-Pierre Chevènement, ministre de la Défense, puis de Pierre Joxe, d’abord à l’Intérieur puis à nouveau à la Défense.

mensongesmédiatiques,manipulations mdiatiques,livre,pascal boniface,france,actualité,médias,presse,journauxBoniface est resté fidèle à cet engagement socialiste, tout en menant une brillante carrière d’universitaire (il est aujourd’hui enseignant à l’Institut d’études européennes de l’université Paris-VIII) et de consultant. Passé par l’université Paris-I, l’École spéciale militaire de Saint-Cyr Coëtquidan et l’Institut d’études politiques de Paris et de Lille, il crée en 1990 l’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), l’un des meilleurs think tanks français. Il en est le directeur. Auteur d’une quarantaine d’ouvrages, responsable de l’Année stratégique et du trimestriel la Revue internationale et stratégique, il est aussi, pour une autre passion, le secrétaire général de la Fondation du football.

On peut discuter son analyse du conflit israélo-palestinien : en 2003, son livre Est-il permis de critiquer Israël ? avait déjà suscité de vives controverses (lire dans Valeurs actuelles). Sa galerie des “experts en mensonge” est sans doute un peu polémique, parfois injuste. Sa liste – Bernard-Henri Lévy, Caroline Fourest, Alexandre Adler, François Heisbourg, Philippe Val et quelques autres – est sans doute incomplète. Mais les citations qu’il fait, les rappels de quelques énormités et de concepts creux assénés par tous ces intellectuels courtisés par tant de médias font mouche. Pascal Boniface s’est sans doute fait des ennemis pour longtemps. Il nous explique les raisons de cette charge, à gauche toute…

Frédéric Pons : Pourquoi avoir écrit ce livre maintenant sur les « intellectuels faussaires » ?

Pascal Boniface : Il est vrai qu’il aurait pu être écrit de puis longtemps. J’attendais que quelqu’un s’en charge. Cela n’est pas venu. J’étais de plus en plus agacé de voir ces mensonges et contre vérités défiler en boucle, ne pas être contredits. Voir ces faussaires triompher médiatiquement, alors que nombreux étaient ceux qui connaissaient leurs failles, devenait difficile à supporter ; je me suis donc attelé à la tâche. Les multiples réactions positives que je reçois montrent que, pour le public également, le moment était venu.

F.P. :Est-il exact que vous avez essuyé le refus de nombreux éditeurs ?

P.B. : Quatorze éditeurs ont rejeté le livre ; et encore, je ne l’avais envoyé ni à Grasset, ni à Denoël, ni à quelques autres dont je connaissais par avance la réponse, forcément négative. Cela montre bien le poids des connivences dans le milieu éditorial et, d’un certain côté, le non-respect du public auquel on dénie une variété de choix. Il y a là un vrai problème sur le plan démocratique.

F.P. Et dans les médias ?

P.B. : Si je ne peux pas parler d’un silence médiatique, il est vrai que je n’ai guère d’illusions sur les comptes-rendus de nombreux grands médias. Mais des journaux d’opinion à droite comme à gauche en font part et, surtout, le bouche à oreille fonctionne fort bien.

F.P. : N’êtes-vous pas vous-même, comme quelques journalistes de Valeurs actuelles, un habitué des plateaux de télévision ?

P.B. : Je suis en effet régulièrement invité dans des médias. Il y en a également où je suis interdit, uniquement sur la base de mes positions sur le conflit au Proche-Orient.

F.P. : Vous vous êtes aussi trompé…

P.B. : Mais je défie quiconque de me prendre en défaut de mensonges volontaires. Il a pu m’arriver de commettre des erreurs, comme tout un chacun, mais moins que certains que je cite en exemple. Cela me mortifie à chaque fois que je m’en rends compte. Mais je ne pourrais jamais émettre un argument auquel je ne crois pas, uniquement parce qu’il me permettrait de mieux convaincre le public.

F.P. : Homme de gauche, vous brisez des idoles qui sont pour la plupart issues de la gauche ou engagées à gauche. Ne tirez-vous pas contre votre propre camp, et peut-on être débatteur de droite sans être automatiquement un faussaire ?

P.B. : Je suis malheureusement parvenu à un âge où je n’ai plus d’illusions sur le fait que le monopole du coeur ou de la vertu serait à gauche. Je me sens toujours de gauche mais je connais des gens de droite d’une parfaite intégrité et animés par des convictions sincères et l’envie de servir l’intérêt général, et des gens qui se disent de gauche qui ne sont que des opportunistes sans foi ni loi et qui, au-delà des déclarations généreuses, ne pensent qu’à leur carrière personnelle.

F.P. : Qu’appelez-vous exactement « le bain amniotique de la pensée dominante » ?

P.B. : C’est le fait de croire que le monde occidental est supérieur aux autres civilisations, qu’il a le monopole de la vertu, qu’il serait en danger parce que justement il est plus vertueux, qu’Israël est la seule démocratie du Proche-Orient et que l'opposition à sa politique ne s’explique que par ce facteur, qu’il est l’avant-garde de la lutte contre le terrorisme islamiste, et que donc, au lieu de le critiquer pour sa politique à l’égard des Palestiniens, il faudrait plutôt le soutenir. Enfin, c’est aussi penser que l’islam en tant que tel est un danger. Et puis surtout, par rapport aux périls stratégiques, se concentrer sur la dénonciation des effets sans jamais réfléchir aux causes.

F.P. : Que reprochez-vous précisément à « l’entrée en force de la morale dans l’agenda international », phénomène que vous disséquez et qui permettrait à certains intellectuels de « nous faire avaler des couleuvres » ?

P.B. : Je serais ravi que la morale entre en force dans les relations internationales. Malheureusement, on l’évoque pour ne pas la mettre en pratique. Trop souvent son évocation conduit à un manichéisme qui divise le monde en deux : le bien d’un côté, le mal de l’autre. Par ailleurs, si on tranche les situations stratégiques au nom de la morale, on parvient vite à une situation où celui qui s’oppose à vous n’est pas un contradicteur mais un être immoral. Si votre opposant est contre la morale, pas la peine d’argumenter, il suffit d’excommunier. C’est une insulte à l’intelligence. Trop souvent, ceux qui se réclament d’une approche morale le font de façon sélective.

F.P. : Pourquoi dites-vous que BHL est de venu le « seigneur et maître des faussaires » ?

P.B. : Il a bâti autour de lui un réseau dont il est le centre. Membre du conseil de surveillance du Monde, président de celui d’Arte, actionnaire de Libération, proche d’Arnaud Lagardère et de François Pinault, il occupe une place médiatique absolument incroyable. Fort de cette position, il peut raconter n’importe quoi sans que jamais cela ne remette en question sa visibilité. Sur sa proximité avec le commandant Massoud, avec la famille de Daniel Pearl, il a multiplié les contrevérités. Par connivence ou par peur, on n’ose pas le contredire si on fait partie du milieu médiatique.

F.P. : Comment caractériseriez-vous le portrait type d’une « sérial-menteuse », telle que vous la décrivez sous les traits de Caroline Fourest ?

P.B. : Elle est la Marion Jones du débat public : apparence impeccable, bonnes performances, mais qui ne sont pas basées sur l’honnêteté. Simplement, la lutte antidopage est plus efficace dans le domaine du sport que la lutte antimensonges dans le domaine intellectuel. Sa caractéristique principale est d’attribuer à ses adversaires des propos qu’ils n’ont jamais tenus pour s’en offusquer.

F.P. : En êtes-vous sûr ?

P.B. : Encore récemment, pour répondre au portrait que je dresse d’elle, elle disait que j’avais toujours soutenu “des régimes peu recommandables” (ce qui est plutôt le cas de nombre de ses amis), que je combattais tous ceux qui défendaient la laïcité et le droit des femmes, et elle s’interrogeait par ailleurs de façon calomnieuse sur les financements de l’Iris (en clair, elle sous-entendait que j’étais financé par les pays arabes). Bien sûr elle ne répondait en rien sur le fond à ma démonstration, qu’elle confirmait plutôt par ses propos.

F.P. : Peut-on dire qu’Israël et l’islamisme sont devenus des facteurs clivants entre intellectuels, notamment à gauche, transformant certains en “faussaires” ?

P.B. : Je n’irai pas jusque-là. Il y a d’autres éléments, mais il est vrai que le soutien d’Israël et la stigmatisation de l’islam permettent une certaine impunité aux faussaires.

F.P. : Est-il possible, dans les médias, d’échapper aux «vents dominants » ou aux modes intellectuelles ?

P.B. : Malgré un battage médiatique digne des régimes autoritaires, Bernard-Henri Lévy n’aurait vendu que 3 500 exemplaires de son dernier livre. Cela prouve que le public est moins idiot que ne le pense une partie de ces élites faussaires. La connivence ne crée pas forcément le succès. En revanche, elle éloigne une grande partie de l’opinion de ces élites, ce qui est dangereux pour la démocratie.

Propos recueillis par Frédéric Pons
Valeurs actuelles 
30/06/2011

Pascal Boniface, Les Intellectuels faussaires : Le triomphe médiatique des experts en mensonge, Jean-Claude Gawsewich éditeur, mai 2011, 272 pages, 19,90 euros

Correspondance Polémia – 4/07/2011