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vendredi, 08 avril 2011

Per il popolo, con il popolo - Il messagio di Evita e l'Argentina peronista

“Da che io lo ricordi, ogni ingiustizia mi fa dolere l’anima come se mi conficcassero dentro qualcosa. Di ogni età conservo il ricordo di qualche ingiustizia che mi fece indignare, dilaniando il mio intimo”.

Sua sorella Erminda sottolineò queste emozioni del cuore di Eva e disse: “Tu, Eva, vedevi il cielo proprio perché non smettevi di guardare negli occhi dei poveri … Il fatto è che gli avvenimenti dell’infanzia sono come radici, che non si vedono ma che continuano ad alimentarci …”. Eva stessa scriverà, ancora, nella Razòn de mi vida: “la ricchezza della nostra terra non è che una vecchia menzogna per i suoi figli. Durante un secolo nelle campagne e nelle città argentine sono state seminate la miseria e la povertà. Il grano argentino non serviva che ad appagare i desideri di pochi privilegiati … ma i peones che seminavano e raccoglievano questo grano non avevano pane per i loro figli”. Eva, a scuola, era la prima in recitazione e, nel 1933, a quattordici anni, ebbe l’ispirazione definitiva, recitando per la prima volta in pubblico, in un lavoro, preparato dalla scuola, intitolato Viva gli studenti. Un giorno offrirono a Eva la possibilità di fare un saggio a Radio Belgrano, a Buenos Aires, e, sebbene non precisato nelle date, il racconto dell’impressione che le produsse la metropoli, la Reina del Plata, si trova riflesso nel suo libro La Razòn de mi vida: “Un giorno visitai la città per la prima volta. Arrivando scoprii che non era come io l’avevo immaginata. Improvvisamente vidi i suoi quartieri miseri e capii dalle strade e dalle case che anche in città vi erano poveri e ricchi. Quella constatazione doveva colpirmi nel profondo, perché ogni volta che rientro in città da uno dei miei viaggi all’interno del Paese, mi ritorna quel primo impatto con la sua grandezza e la sua miseria: e provo la stessa sensazione di profonda tristezza che provai allora”. All’età di 15 anni (ritornata, nel frattempo, a Junin, la città in cui Juana Ibarguren e i suoi figli erano andati ad abitare fin dal 1931),  il 2 gennaio 1935, dopo essere rimasta in attesa della chiamata da Radio Belgrano che non arrivò, Eva, che non era persona da aspettare a lungo, lasciò la madre, le sorelle e prende il treno per Buenos Aires, dicendo alla sua maestra, Palmira Repetti: “Vado lo stesso a Buenos Aires. In un modo o nell’altro mi sistemerò”. Dopo quattro mesi dal suo arrivo, Eva ottenne la parte di una delle sorelle di Napoleone, in Madame Sans-Gene, di Moreau e Sardou. Nel 1937, Eva ottenne una parte in un film, Seguendos afuera, una sua foto fu pubblicata sulla rivista “Sintonia” e ebbe un ruolo  in No hay su egra como la mìa. (Mia suocera è unica), trasmessa anche da Radio Splendid. Si trattava, tuttavia, ancora di briciole di teatro, di frammenti di personaggi che non consentirono a Eva di uscire dall’anonimato, di affrancarsi dallo stato di bisogno, né dalla sensazione di insicurezza e di incertezza del futuro. Il 4 giugno 1943, un colpo di stato, fomentato dal generale Arturo Rawson, destituì il presidente Ramòn J. Castillo e lo sostituì con il generale Pedro Pablo Ramirez. Questa rivoluzione si opponeva alla candidatura, patrocinata dal presidente Castillo, di Robustiano Patron Costas, che significava la continuità del potere oligarchico e del feudalesimo dei proprietari terrieri. Il colonnello Juan Domingo Peròn ( che era uno dei giovani ufficiali del Gou, ovvero Grupo Obra de Unificacìon, una di quelle conventicole militari, la cui politica era fondata principalmente sull’obiettivo di liberare l’Argentina dalla dipendenza economica inglese) assunse la direzione, con l’incarico di trasformarla in una Segreteria, del Lavoro e della Previdenza sociale. Le idee politiche di Peròn non volevano limitarsi a conseguire l’indipendenza economica dall’Inghilterra. Peròn voleva trasformare l’Argentina in una nazione “economicamente libera, socialmente giusta e politicamente sovrana”. Riunì al suo fianco, alla Segreteria, uomini come Cipriano Reyes, un sindacalista, capo della C.G.T. (Confederacion General de Trabajo); José Figuerola, che gli avrebbe redatto tutto quanto si riferiva alla riforma sociale e ai piani quinquennali; Miguel Miranda, abile economista, che Jaruteche definì “grande argentino” per il magnifico programma di riforme economiche; Atilio Bramuglia, ministro degli Affari Esteri durante la prima presidenza Peròn, il colonnello Mercante, uno dei suoi collaboratori più fedeli che nei primi anni di governo poté essere considerato il delfino di Peròn, Cereijo, presidente della Banca Centrale, che diventò ministro delle Finanze, Borlenghi, ministro degli Interni; e infine il dottor Carrillo, ministro della Sanità, gabinetto che prima non esisteva e dal quale vennero promosse importanti campagne che sfociarono in un sensibile miglioramento dell’igiene e della salute degli argentini. Durante questi primi mesi d’attività alla Segreteria, Peròn adotta così una serie di misure che faranno fare all’Argentina spettacolari balzi in avanti nel settore della sicurezza sociale. Venne stabilito il principio del salario minimo, venne data la pensione dello stato a circa due milioni di lavoratori, si crearono i tribunali del Lavoro che garantivano parità di diritti tra datori di lavoro e lavoratori nei conflitti sociali, vennero istituite le commissioni paritetiche, con lo Stato cioè in qualità di mediatore. Inoltre fu emanata un’apposita legislazione per gli incidenti sul lavoro,  le malattie professionali,  la tredicesima mensilità, le ferie retribuite (già da allora di quattro settimane) e la durata della settimana lavorativa. A completamento del “pacchetto” venne poi formalmente riconosciuto lo stato giuridico dei sindacati, la cui costituzione era fortemente incoraggiata, i cui mezzi e le cui strutture furono notevolmente ampliati, consolidando definitivamente la natura riformista del sindacalismo argentino, dopo le precedenti tendenze anarchiche e nichiliste. Il 15 gennaio del 1944, la città di San Juan venne quasi totalmente distrutta da un terremoto. Città già povera, subì danni per un valore di 300 milioni di pesos e fu necessario evacuare i 50.000 abitanti sopravvissuti. Peròn, attraverso la sua Segreteria, organizzò tutti i soccorsi, l’evacuazione della popolazione e la riparazione dei danni. Peròn convocò una riunione di artisti del cinema, del teatro e della radio nella sede del Consejio Deliberante, allo scopo di organizzare uno spettacolo, la celebre festa del Luna Park, per raccogliere fondi destinati ai terremotati. Eva partecipò al grande avvenimento del Luna Park, nel quale vennero raccolti 21 mila pesos e Peròn dirà che “Il mondo si evolve verso i valori spirituali che trovano un baluardo negli artisti ai quali il popolo argentino deve il suo costante progresso”. Eva incontrò Peròn a questa festa, dove i biografi dicono che abbia avuto inizio la loro storia d’amore. Peròn la ricordò così: “Aveva la pelle bianca ma, quando parlava, il volto le si infiammava. Le mani diventavano rosse a forza d’intrecciarsi le dita. Quella donna aveva del nerbo”. Peròn schierandosi dalla parte dei lavoratori, fece avanzare quell’incendio, intraprese quel “cammino nuovo”, quel “percorso difficile”, quella “rivoluzione” di cui parlava Evita. Quella Rivoluzione Nazionale, i cui punti fondamentali erano: nazionalizzazione dei servizi pubblici, previdenza sociale, sovranità popolare, riforma agraria e organizzazione del lavoro. Sfidando così gli “uomini comuni” dell’oligarchia, gli “eterni nemici di tutto ciò che è nuovo, di ogni progresso, di ogni idea straordinaria”. Già il 16 giugno 1945 gli industriali avevano inviato un esposto al governo con il quale esigevano la rettifica della sua politica sociale. Naturalmente i sindacati reagirono in difesa della Segreteria. Nello scontro, le due forze si misurarono sullo steso terreno: la piazza. Cominciarono gli industriali con la Marcia della Costituzione e della Libertà che ebbe luogo il 17 settembre 1945. il governo dichiarò lo stato d’assedio e, per reazione, gli studenti occuparono numerose facoltà. Peròn affermò che era “naturale” che contro  le riforme si fossero “sollevate “le forze vive” che altri chiamano “i pesi morti”. Ma chi erano queste “forze vive”? “La Borsa: cinquecento persone che vivono trafficando su quanto producono gli altri; o l’Unione degli Industriali: dodici signori che, come ben si sa, vivono imponendo la loro dittatura al Paese”.  L’8 ottobre, un gruppo di allievi della Scuola Superiore di Guerra chiese al generale di brigata Eduardo Jorge Avalos, comandante della guarnigione di Campo de Mayo, di togliere a Peròn qualsiasi incarico. La richiesta arrivò al presidente Farrell, il quale si rese conto che, non accogliendola, avrebbe provocato inevitabilmente un sollevamento militare. Gli Stati Uniti, tramite l’ambasciatore Spruille Braden, diedero il loro appoggio a questa coalizione di industriali, studenti e militari. Ai loro occhi Però rappresentava un militare troppo rivoluzionario che esasperava l’atteggiamento dell’oligarchia. Peròn presentò, dunque, le proprie dimissioni scrivendo poche parole al presidente Farrell per comunicargli che si dimetteva “dalle cariche conferitegli di Vice – Presidente, di Ministro della Guerra e di Segretario di Stato al Lavoro e alla Previdenza sociale”. Il 10 ottobre Peròn rivolse un saluto d’addio ai 50.000 operai che lo acclamavano dinanzi alla sede della Segreteria: “Se la rivoluzione si fosse limitata a permettere comizi liberi avrebbe favorito esclusivamente un partito politico. Questo non poté, non può e non potrà essere mai il fine esclusivo della rivoluzione. E’ quanto avrebbero voluto alcuni politici per poter tornare; ma la rivoluzione incarna le riforme fondamentali che si è proposta di realizzare a livello economico, politico e sociale. Questa trilogia rappresenta la conquista della rivoluzione, che è ancora in marcia, e quali che siano gli avvenimenti, essa non potrà mai essere svilita nel suo significato più profondo. L’opera compiuta sinora è di una consistenza tale  che non cederà di fronte a nulla, e viene riconosciuta non da quanti la denigrano, ma dagli operai che la sentono. Quest’opera sociale che soltanto i lavoratori apprezzano nel suo vero valore, dev’essere difesa da essi in tutti i campi. Ho approvato anche in decreto di straordinaria  importanza per i lavoratori, riguardante gli aumenti salariali, l’instaurazione del salario mobile, cosa vitale e basilare, e la partecipazione ai profitti. Chiedo a tutti voli che portate nel cuore la bandiera delle rivendicazioni, di pensare ogni giorno della vostra vita che dobbiamo continuare a lottare ininterrottamente per quelle conquiste che sono gli obiettivi che porteranno la nostra repubblica alla testa delle nazioni del mondo. Ricordate e tenete ben impresso questo motto: “da casa al lavoro e dal lavoro a casa”, perché con esso vinceremo. Concludendo, non vi dico addio. Vi dico invece hasta siempre perché da oggi in poi starò con voi, adesso più che mai. E, infine, accettate questa raccomandazione che vi fa la Segreteria del “Lavoro e Previdenza”: unitevi e difendetela perché è la vostra e la nostra opera”. Quando un gruppo di ufficiali della Marina arrestò il colonnello e lo condusse a bordo della cannoniera Independencia, Eva si rivolse alla piazza e questa fu la sua prima importante azione politica. Il momento era storico ed Eva si lanciò nella lotta (“Bussai di porta in porta. In quel doloroso e interminabile peregrinare, sentivo ardere nel mio cuore la fiamma di un incendio, che annullava la mia assoluta piccolezza”), percorse in macchina i quartieri popolari chiamando gli operai allo sciopero (“A mano a mano che scendevo dai quartieri orgogliosi e ricchi verso quelli poveri e umili le porte si aprivano generosamente, con più cordialità”),  partecipando ai  preparativi del movimento – guidato da capi sindacali come Cipriano Reyes, Luis Gay e Luis Monzalvo – e al presidente Farrell non rimase che far rientrare Peròn dal confino nell’isola di Martin Garcia.  Peròn apparve al balcone della Casa Rosada alle 11,10 di sera del 17 ottobre 1945 e nella moltitudine di operai, che aveva atteso per l’intera giornata scoppiò un’oceanica e interminabile ovazione, un solo grido si innalzò all’unisono dalle trecentomila bocche dei descamisados: “Peròn Presidente!”, “Peròn Presidente!”. Solo due mesi dopo Peròn ed Eva si sposarono con il matrimonio sia civile (il 22 ottobre 1945 a Junin) che religioso (il 10 dicembre a La Plata). Per Evita (così amava essere chiamata dal popolo) “descamisados” sarà la definizione – cito La Razòn de mi vida – che più si addice al peronista militante: “Sono descamisados tutti coloro che si trovavano nella Plaza de Mayo il 17 ottobre 1945; quelli che hanno attraversato a nuoto il Riachuelo provenienti da Avellaneda, dalla Boca e dalla provincia di Buenos Aires, quelli che in colonne allegre, ma disposti a tutto, anche alla morte, quel giorno indimenticabile sono sfilati per l’Avenida de Mayo”. “Ciò che spinse le masse verso Peròn – scrisse Jaruteche – non fu il risentimento, fu la speranza”. La situazione, nell’ottobre 1945, era perciò allarmante per l’oligarchia che costituiva un gruppo di enorme influenza economica, che dirigeva la vita politica del paese, erigendo barriere insuperabili a livello di comunicazione sociale. Venne costituito un fronte unico chiamato Uniòn Democratica (fronte vasto ed eterogeneo che comprendeva radicali, socialisti, comunisti, demo – progressisti e contava sull’appoggio dell’unione industriali), sotto la protezione dell’allora ambasciatore americano Spruille Braden, il quale era all’origine del Libro blu, pubblicato dal Dipartimento di Stato, che denunciava il nazismo di Peròn. Manovra particolarmente infelice per un diplomatico, la cui prima regola di condotta dovrebbe essere quella di non ingerirsi negli affari interni del paese di accreditamento. Peròn seppe, infatti, sfruttare questa gaffe e riuscì a porre il nazionalismo dei suoi compatrioti di fronte all’alternativa efficacemente espressa dalla formula “Braden o Peròn”.

Peròn, d’accordo con Cipriano Reyes, capo della C.G.T., creò il Partito Laburista Argentino, che consisteva in un “raggruppamento di lavoratori urbani e rurali il scopo è di battersi per l’emancipazione politica e sociale delle classi lavoratrici, migliorandone le condizioni di lavoro, elevandone il tenore di vita e per l’instaurazione nel paese della democrazia integrale”, cioè una “democrazia sociale”, derivante dal superamento di quella “democrazia liberale” che, in realtà, era espressione di élite e di potentati economici. Non a caso uno dei presidenti che successero a Peròn, Arturo Frondizi, sottolineò che l’unica forza reale e concreta che abbia cambiato il volto dell’Argentina è stato il peronismo e che “appartiene ad una distorsione europea l’idea che il peronismo non sia stata una forma democratica”.  Nel programma vennero riprese le tematiche sui cui Peròn aveva già basato la sua azione di Segretario del Lavoro e della Previdenza sociale, e,  in particolare, partecipazione degli operai agli utili dell’impresa, lotta alla speculazione, salario minimo garantito e indicizzato, indennità di disoccupazione, riduzione dell’orario di lavoro, lotta contro il caro – vita, nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ridimensionamento del grande latifondo, con distribuzione della terra a piccole cooperative, controllo della grandi holding inglesi e americane presenti nel paese. Venne aggiunto, infine, su intelligente ispirazione di Evita, un ulteriore obiettivo, d realizzare in tempi brevi: l’estensione dei diritti politici alle donne, una misura che del rivoluzionario in un paese dove tradizionalmente l’elemento femminile viene tenuto ben lontano dalla politica e dalle grandi questioni economiche e sociali. Se gli uomini delusero Peròn, sua moglie e il suo Paese, l’Argentina, gli furono fedeli in modo difficilmente superabile. E per l’Argentina, per arricchirla, propose la creazione di grandi capitali che fossero frutto del lavoro e non della speculazione. E gli argentini scelsero naturalmente Peròn, il quale, il 24 febbraio 1946, con il fedele e scaltro Hortensio Quijano (un membro del partito radicale, che era stato ministro degli Interni e aveva avuto un ruolo decisivo negli avvenimenti del settembre e ottobre 1945) in qualità di candidato alla vicepresidenza, ottenne 1.479.511 voti contro 1.201.822 di Tamborini e di Mosca, notabili appartenenti all’ Uniòn Democratica, dando come risultato la vittoria peronista. Il trionfo ottenuto nelle elezioni aprì le porte della Presidenza a Peròn che assunse il potere il 4 giugno 1946. Evita, da allora, assunse un ruolo fondamentale. Non volle seguire “l’antico modello della moglie del presidente”. E’ chiaro, insomma, che Evita non si lasciò rinserrare dall’oligarchia nel ruolo di consorte del presidente della repubblica. Disse chiaramente nel suo libro La Razòn de mi vida: “Alcuni giorni dell’anno ero Eva Peròn [la moglie cioè del Presidente] e lo facevo molto bene. Tutto il resto del tempo ero Evita, l’ambasciatrice del popolo presso Peròn. Compito difficilissimo e richiedente sforzi continui … Se mi domandaste che cosa preferisco, la mia risposta sarebbe immediata e spontanea: mi piace di più il nome che mi dà il popolo. Quando un bambino mi dice Evita, mi sento madre di tutti i bambini, di tutti deboli e i diseredati della terra. Quando un operaio mi dice Evita mi sento compagna di tutti gli uomini che lavorano nel mio paese e nel mondo intero. Quando una donna della mia patria mi dice Evita mi sembra di essere sorella di quella e di tutte le donne dell’umanità …”. Evita, pur erssendo una donna di temperamento, che non si fermava né davanti alle parole, né davanti ai fatti, conosceva, tuttavia, i limiti della sua sfera d’azione che sapeva di non dover superare, e l’armonia fra i due fu, grazie al tatto di lei, costante fino alla fine. Peròn mantenne per sé il comando delle Forze Armate, la direzione della diplomazia, la direzione dell’economia e lasciò ad Evita la Segreteria del Lavoro, dove sbrigava le questioni coi dirigenti sindacali e incontrava i descamisados; faceva numerose visite e presenziava a inaugurazioni. Dell’equipe di Evita facevano parte Oscar Nicolini, nominato nel 1945 ministro delle Comunicazioni, e José Espejo, diventato, nel 1948, segretario della C.G.T., dopo l’uscita di scena di Luis Gay e di Aurelio Hernàndez. Nel 1947 venne intrapresa l’impresa più spettacolare: il viaggio in Europa di Evita. Il 6 giugno 1947 un quadrimotore Douglas DC4 dell’Iberia, messo a disposizione dalle autorità spagnole,  decollò dall’aeroporto di Buenos Aires per portare in Spagna Evita Peròn. Il viaggio in Europa fu l’opportunità di presentare Evita a livello internazionale: con il fascino, la sua giovinezza, la vitalità, sarebbe stata certamente in grado di conquistare le simpatie e i cuori della vecchia classe dirigente europea, facendo uscire il suo paese dallo stato d’emarginazione nel quale l’Argentina si trovava a causa della volontà di liberarsi dalla dipendenza, sia economica che politica, dalla Gran Bretagna e degli Stati Uniti, nazionalizzando la rete ferroviaria (posseduta, fin dal 1907, da società britanniche) e quella telefonica (detenuta fin dagli anni ’20 dalla multinazionale americana ITT). Peròn volle mantenere fede alle promesse elettorali, realizzando queste prime riforme, approfittando di una congiuntura internazionale favorevole all’Argentina. Gli indicatori macro – economici prospettavano, infatti, un futuro di benessere e di sviluppo: la ricomposizione degli equilibri internazionali nel dopoguerra favoriva la collocazione delle esportazioni argentine nel mercato mondiale; la bilancia commerciale era in forte attivo ed il paese disponeva di ingenti risorse d’oro e di valuta estera; la situazione occupazione era buona; inoltre la scelta di una crescita basata sui comparti leggeri dell’industria, puntando cioè su un settore che produceva beni per il mercato anziché capitali, s’intendeva non penalizzare i consumi e, soprattutto, utilizzare il settore industriale come strumento di assorbimento della disoccupazione (se nel 1943 le persone occupate nell’industria erano 488.700, nel 1949 raggiungevano la cifra di 955.900, cioè i posti di lavoro erano aumentati di circa il 96%) e di redistribuzione del reddito in favore delle classi lavoratrici urbane. Infatti, il soli tre anni dal 1946 al 1949, il reddito reale aumentò di più del 40%, trainando i consumi interni. Evita arrivò in Spagna domenica 8 giugno, alle sette del pomeriggio, accolta dal generalissimo Franco, affiancato da sua moglie, dona Carmen Polo de Franco e da sua figlia, Carmen Franco Polo.  All’aeroporto c’erano trecentomila madrileni in delirio che gridavano il suo nome. Un po’ più in là, un gruppo di ragazze della Falange agitava i fazzoletti. Dappertutto fiori e bandiere spagnole, rosso – giallo – rosso, e argentina azzurro – bianco – azzurro. Ricevuta dalla mani del generalissimo Franco la Grande Croce d’Isabella la Cattolica, che metterà in occasione del colloquio con Pio XII.,  Evita pronunziò, lunedì 9 giugno,  nella piazza d’Oriente,  un discorso breve ma efficace, in cui parlò solo di questioni sociali e di lavoratori, dicendo ciò che sentivano nella nuova Argentina, cercando di trasmettere la profonda aspirazione a una società nuova, nella quale “non vi siano né troppi ricchi né troppi poveri”, e la preoccupazione di rendere ogni giorno più concreta e reale, per ogni uomo e per ogni famiglia , la sicurezza della vita e la speranza di un costante miglioramento. Evita disse di essere venuta in Spagna non per formare “assi”, ma per tendere “arcobaleni di pace”, a portare un messaggio di speranza al Vecchio Mondo e anche un messaggio d’amore a tutti gli spagnoli da parte dei descamisados argentini. Più tardi la stessa Evita definirà questo ruolo con un’immagine altrettanto forte: “Sono il ponte che collega Peròn con il popolo. Attraversatemi!”. Il suo amore per i bisognosi la portò a voler visitare misere catapecchie dove vivevano donne malate e uomini senza lavoro. Evita, recandosi nelle principali località del paese, tenne una serie impressionante di interventi (a Madrid, in una scuola di orientamento professionale, a Granata, in una fabbrica, a Vigo, nella Casa del Pescatore) per esaltare l’instaurazione di “un ordine basato sulla giustizia sociale secondo i principi proclamati dal presidente Peròn, dove tutti possano godere di una giusta retribuzione; dove l’operaio possa vivere in condizioni di lavoro dignitose e possa conservare la sua salute, godere di benessere fisico e spirituale, proteggere la propria famiglia, innalzare il suo livello economico” affinché “nessuno soffra e nessuno si veda assediato da una terribile miseria”. Il 26 giugno 1947 lasciò la Spagna esclamando “Addio Spagna mia”. Purtroppo non altrettanto bene andarono le cose in Italia, Francia, Svizzera e Inghilterra: a Roma, l’ambasciata argentina era situata in piazza dell’Esquilino, di fronte alla sede di un sindacato italiano di ispirazione comunista e l’arrivo di Evita venne accolto da urla, parolacce e insulti terribili; a Parigi, la visita, pur essendo caratterizzata dalla migliore accoglienza ufficiale (sia da parte del presidente della Repubblica Vincent Auriol, che dal ministro degli Affari Esteri Georges Bidault), venne ridimensionata da numerosi ricevimenti privati, che mostrarono, come le autorità francesi si sforzassero di togliere ogni significato politico di “avvicinamento” tra i due paesi; a Berna un giovane svizzero aggredì Evita, lanciando dei sassi contro la sua macchina, rompendo il parabrezza e ferendo l’autista; la visita a Londra, fu annullata, perché la corte britannica si rifiutò di riceverla, proponendo, invece, che la visita avesse carattere privato. Proprio durante il viaggio di sua moglie in Europa, Peròn lanciò un messaggio di pace al mondo, affermando la sua teoria politica della “terza posizione”, elemento di stabilità, all’interno, tra lo sfruttamento capitalista e la disumanizzazione marxista e fattore di equilibrio, all’esterno, tra i due blocchi emersi dalla logica di Yalta: “… in questo momento è in corso una lotta tra il comunismo e il capitalismo … noi non vogliamo essere né contro l’uno né contro l’altro. Noi realizziamo nel nostro paese la dottrina dell’equilibrio e dell’armonia tra l’individuo e la collettività attraverso la giustizia sociale che rende dignità al lavoro, che armonizza il capitale, che eleva la cultura sociale … di modo che il noi sociale si realizza e si perfeziona attraverso l’io dell’individuo considerato come un essere umano …”. Infatti, un paese come la nuova Argentina era in grado di sfamare, con carne e grano, l’intero continente europeo lacerato e disorientato dalla recente guerra: “L’unico rischio che correrà il mondo in futuro è la fame ma noi abbiamo il cibo dei nostri campi”, ripeteva spesso Peròn. La fornitura di prodotti alimentari ai paesi belligeranti aveva consentito di accumulare già durante la guerra ingenti riserve in moneta estera. Inoltre le difficoltà di pagamento e di trasferimento delle valute intervenute nel periodo bellico, fecero sì che l’Argentina vantasse crediti non incassati nei confronti di diverse nazioni. Tra le quali c’era proprio la Gran Bretagna, che ancora nel 1946 non aveva saldato un debito di 150 milioni di sterline.

Deciso a portare avanti il proprio programma sociale e politico, Peròn adottò misure tipicamente keynesiane: : sussidio al credito, politica dei redditi, espansione della spesa pubblica e, di conseguenza, del deficit statale. Peròn giustificò, nell’ottobre del 1951, tale strategia con queste parole: “L’Argentina giustizialista dirige tutti i suoi sforzi verso al’affermazione della sovranità nazionale, cercando le basi per il sostenimento in una volontà popolare nitida ed internamente inattaccabile”. Infatti, la politica economica peronista aveva tra i propri obiettivi prioritari un rapido recupero di risorse che consentisse di realizzare una decisa redistribuzione del reddito in favore dei ceti urbani. Le cifre si riferivano al totale delle ore lavorative di un operaio nel 1949 che, messe a confronto con quelle del 1943, rivelavano un aumento del 16,6% mentre la retribuzione era superiore, rispetto a quella del 1943, del 388,5%. Peròn rafforzò la politica d’intervento diretto dello stato in economia con la costruzione di centrali idroelettriche e gasdotti, con l’ammodernamento delle reti di trasporto urbano ed extra – urbano, con l’istituzione della compagnia aerea di bandiera (le “Aerolìneas Argentinas”) e della flotta mercantile nazionale. Inoltre lo stato diventò anche produttore, gestendo con funzionari propri (spesso ufficiali e tecnici delle forze armate) l’industria bellica e le imprese del gruppo DINIE, costituito da società confiscate ai proprietari tedeschi all’indomani dell’entrata in guerra argentina, dichiarata il 27 marzo 1945, al fianco degli Alleati.  Ma l’intervento che più d’ogni altro sancì la volontà innovatrice del nuovo governo fu la nazionalizzazione del Banco Central, che diventò la chiave di volta della politica economica di Peròn, tramite il controllo del Banco Industrial e dell’Instituto Argentino de Promocìon del Intercambio (IAPI). Quest’ultimo, cui venne assegnato il monpolio del commercio con l’estero, acquistava direttamente dai produttori a prezzo amministrato i beni destinati all’esportazione – tipicamente cereali e prodotti di macellazione – , rivendendoli a prezzo di mercato sulle piazze internazionali e trasferendo i profitti ottenuti al Banco Industrial, che li avrebbe trasformati in capitali da assegnare in prestito a tassi iper – vantaggiosi al settore industriale per approvvigionarsi di materie prime, quali combustibile, macchinari e pezzi di ricambio. Tra il 1945 e il 1948 il Pil aumentò del 29%, trainato dalla crescita dell’industria leggera (tessile e alimentare in primis, impoverendo però il settore agricolo, cioè quello che fu il motore stesso dello sviluppo), che fece registrare un picco del 12,1% nel 1947.

Una delle riforme più importanti e popolari intraprese da Peròn fu la concessione alle donne del diritto di voto. La legge 13010 venne approvata il 9 settembre da una storica seduta del Parlamento, davanti al quale Peròn spiegò che “il riconoscimento dei diritti politici della donna costituisce un atto di giustizia in quanto la donna coopera con i suoi sforzi e con la stessa energia dell’uomo alla difesa degli interessi e dei diritti collettivi sacrificando spesso anche la vita, la famiglia e la serenità; sarebbe quindi inconcepibile che rimanesse esclusa dalla difesa dei suoi stessi diritti e interessi”. Da parte sua Evita , il 23 settembre 1947, giorno della promulgazione della legge, completò così il pensiero del marito: “Mi tremano le mani al contatto dell’alloro che sancisce la vittoria, perché qui, sorelle mie, in pochi articoli concentrati è riassunta una lunga storia di lotte, di scontri e di speranze …”.

“Noi donne siamo le missionarie della pace. I sacrifici e le lotte sono riusciti finora solo a raddoppiare la nostra fede. Innalziamo, tutte assieme, questa fede e con essa illuminiamo il sentiero del nostro destino. E’un destino grande, appassionato e felice. Per farlo nostro e meritarlo, disponiamo di tre elementi incorruttibili e inalterabili: una fiducia illimitata  in dio e nella sua infinita giustizia; una Patria incomparabile da amare con passione e un leader che il destino ha forgiato per affrontare vittoriosamente i problemi: il generale Peròn. Col voto e con lui contribuiremo  alla perfezione della democrazia argentina”.

L’8 luglio 1949 fu creata ufficialmente la Fondazione di Aiuto Sociale Maria Eva Duarte de Peròn, istituzione la cui responsabilità “compete unicamente e esclusivamente alla sua fondatrice”, che rappresentò un concetto di giustizia sociale molto lontano dal modo d’intendere la carità a parte delle dame dell’oligarchia: era regolata da uno statuto in accordo con le norme stabilite dal Ministero della Giustizia. Erano membri fissi del suo Consiglio Direttivo il Ministro delle Finanze e il segretario generale della C.G.T. i consiglieri erano nominati per metà dalla fondazione, e i restanti da rappresentanti operai del sindacato. Mille scuole e diciotto pensionati furono costruiti in provincia. Gli alunni, circa tremila, venivano da famiglie che vivevano nei ranchos de adobe e dormivano per terra. Evita fece costruire anche dei quartieri per studenti a Còrdoba e a Mendoza. Ma le sue grandi passioni erano il Quartiere degli studenti di Buenos Aires, che occupava cinque blocchi di case, e la Città dei bambini Amanda Allen (un’infermiera della fondazione, morta in un incidente aereo mentre rientrava in Argentina dopo essere andata in soccorso delle vittime di un terremoto che aveva scosso l’Ecuador), inaugurata il 14 luglio 1949. Oltre alle colonie di vacanza create a Ezeiza, vicino a Buenos Aires, Evita fece costruire delle “unità turistiche” a Chapadmalal (non lontano da Mar del Plata), a Uspallata (Mendoza) e a Embalse Rìo Tersero (Còrdoba). Ognuna di queste comprendeva un centro alberghiero che poteva ospitare da tremila a quattromila persone, operai, pensionati, studenti. Soltanto a Buenos Aires la fondazione aveva costruito quattro policlinici. Altri centri simili furono inaugurati in nove province. A Termas de Reyes (Jujuy, nel Nord – ovest del paese) e a Ramos Mejia (nella periferia di Buenos Aires) furono costruite delle cliniche pediatriche. Purtroppo l’ospedale dei bambini di Buenos Aires e un altro a Corrientes, sul litorale argentino, furono abbandonati dopo la caduta del peronismo. Nell’agosto 1948 il ministero del Lavoro proclamò solennemente la Dichiarazione dei diritti degli anziani. Nel luglio 1950, al teatro Colòn, Evita pianse per la gioia di poter assicurare una vecchiaia serena agli anziani argenti argentini quando diede le prime mille pensioni ad altrettanti anziani. La casa di riposo di Burzaco, vicino a Buenos Aires si sviluppava su due ettari e poteva accogliere duecento persone in un ambiente caloroso, tanto che Evita in La Razòn de mi vida: (che pure scrisse quando la sua malattia era ormai una realtà) sognava del giorno in cui, forse, lei stessa avrebbe potuto abitarvi. E, ancora, furono creati altri centri che accoglievano donne senza lavoro e senza domicilio, finché non si fossero trovati loro l’uno e l’altro. Ma il fiore  all’occhiello di Evita era il Pensionato dell’impiegata, sull’Avenida de Mayo, che accolse cinquecento donne venute a lavorare nella capitale. Tutte opere necessarie per accrescere il legame comunitario e solidaristico della gente. Questo fu un merito fondamentale della politica di Evita. La sua opera non era soltanto un impegno a favore dei più deboli, dei suoi descamisados , ma la volontà precisa di radicare nel profondo del suo popolo un legame molto forte, un senso di appartenenza che travalicasse ogni rivendicazione sociale, uno spirito di unione talmente forte da trasformare la popolazione argentina in un popolo unito: “Siamo un popolo che ha in mano il timone del proprio destino”, disse Evita “che è grande perché è popolare, che è degno perché è giustizialista , he è nobile perché è argentino e che è sublime perché c’è Peròn. E’ stato un miracolo che ha avuto conseguenze enormi a livello economico, politico e sociale. In primo luogo ha creato una giustizia sociale che ha riordinato i criteri distributivi, mobilitando le masse a favore delle grandi battaglie per l’indipendenza economica nazionale … Questa rinascita del nostro spirito che l’oligarchia non ha potuto vendere come ha venduto le nostre fonti di ricchezza, ha portato con sé la suprema dignità del lavoro e la definitiva liberazione dell’uomo. Abbiamo abbattuto con gioia i cupi orfanotrofi per innalzare le pareti chiare ed allegre della “Città dell’Infanzia”, dei convitti, dei policlinici, delle case – parcheggio, della casa dell’impiegata e dell’anziano, della “Città dello Studente”, delle città universitarie, delle colonie per le vacanze, delle case per la madre, delle scuole e delle mense popolari. On l scopa giustizialista abbiamo fatto piazza pulita delle capanne e delle baracche e abbiamo costruito quartieri operai, necessari per la dignità sociale delle nostre masse lavoratrici. Abbiamo esiliato l’elemosina per esaltare la solidarietà come criterio di giustizia. E continuiamo gioiosamente nella lotta perché il repmio è troppo grande e troppo bello per rinunciarvi. Questo premio è la felicità, il benessere e l’avvenire del nostro amato popolo descamisado”.

Il 26 luglio del 1949,  mille donne si radunarono al Teatro Nazionale Cervantes di Buenos Aires dove si tenne il Primo Congresso del Movimento Peronista Femminile. Con la fondazione di questo movimento riemerse con forza la volontà di occuparsi delle donne, dei loro problemi, di seguirle da vicino. Questo rapporto, però, si è evoluta, è diventato politico. Evita volle rivoluzionare anche il ruolo delle donne nella vita politica argentina. Disse Evita a quel pubblico femminile: “le donne sono state doppiamente vittime di tutte le ingiustizie. In famiglia soffrivano più d’ogni altro membro perché si assumevano tutta la miseria, la desolazione e sacrifici per evitarli ai propri cari. Portate in fabbrica, subivano tutta la prepotenza padronale. Tormentate dalla sofferenza, stroncate dai bisogni, stordite dalle giornate estenuanti e dalle pochissime ore destinate al riposo, distrutte dai lavori domestici, le nostre compagne di allora – che in molti paesi del mondo sono le nostre compagne di oggi, anche se è vergognoso ricordarlo – non trovarono altra soluzione se non rassegnarsi di fronte all’accumulazione sempre maggiore degli insensibili e bastardi capitalisti. Come se non bastasse, il destino riservava loro un’altra sofferenza. Scoperte dall’industriale come forza – lavoro meno cara, le donne che lavorano diventano le concorrenti dei fratelli lavoratori, compiendo – costrette dalle circostanze e dal bisogno di mandare avanti la famiglia – i loro stessi lavori pur ricevendo un salario inferiore”. Nel 1949,  quando le ingenti risorse valutarie accumulate durante la guerra andarono esaurendosi, la favorevole congiuntura esterna in cui mosse i suoi primi passi lo stato peronista cominciò ad invertirsi. La bilancia commerciale, dopo quattro anni consecutivi di surplus, fece registrare un deficit di 160 milioni di dollari, dovuto principalmente al ritorno alla normalità dei prezzi agricoli e della carne; lo sviluppo dell’industria leggera, inoltre, rese il paese sempre più dipendente da materie prime e semi – lavorati esteri, cosa che comportò l’ascesa dei costi di produzione e dei prezzi al consumo dei prodotti. La conseguenze ultime di questo processo fu il riaccendersi dell’inflazione, dal 13% del 1947 al 29% nel 1949. Per spiegare che il governo aveva la possibilità d’inaugurare una politica di austerità, davanti ad un comitato di 300 persone, in maggioranza donne, che, il 29 settembre 1950, fece visita a Peròn protestando contro il carovita e chiedendo misure contro gli speculatori, Peròn, ricorrendo a un’immagine forte,  disse: “Se il governo volesse deflazionare lo otterrebbe in una settimana. Con le ferrovie abbiamo comprato 23.000 proprietà. Basterebbe venderle, raccogliere il denaro, portarlo alla Caja de la Conversiòn e bruciarlo, in tal modo la circolazione diminuirebbe di circa il 39, 40 e 50%. Ma dopo, chi vedrebbe più un peso? Chi troverebbe più un peso dopo aver rarefatto in questo modo i mezzi di pagamento?”.

Il 2 agosto 1951, una folla di duecento sindacalisti della C.G.T. chiesero a Peròn di accettare la candidatura alla rielezione presidenziale ed espressero il “vivo desiderio” che Evita fosse candidata alla vicepresidenza. Il 22 agosto fu la data fissata per annunciare la candidatura di Evita. Ma ciò non avvenne,  l’esercito si oppose perché se Evita fosse stata eletta vicepresidente e se Peròn fosse morto prima di lei, Evita avrebbe preso il suo posto alla presidenza dell’Argentina e, dunque, al comando delle forze armate, come fece vent’anni dopo Isabelita Peròn. Il 31 agosto, Evita rinunciò alla candidatura alla vicepresidenza: “Ho solo un’ambizione personale, che il giorno in cui si scriverà il capitolo meraviglioso della storia di Peròn, di me si dica questo: c’era, al fianco di Peròn, una donna che si era dedicata a trasmettergli le speranze del popolo. Di questa donna si sa soltanto che il popolo la chiamava  con amore Evita”.  E un mese dopo questo messaggio radiofonico, Evita si mise a letto e comiciò a morire. E il paese stava morendo assieme a lei. il 1952 fu l’anno in cui la crisi raggiunse il suo culmine, anche per effetto delle avverse condizioni climatiche: la produzione agricola risultò del 15% inferiore all’anno precedente, il Pil calò del 6%, il tasso di inflazione sfiorò il 50%, mentre il salario reale diminuì tra il 1948 ed il ’52 di circa il 20%. Il 28 settembre 1951, proprio mentre stavano facendo a Evita una trasfusione di sangue data la sua estrema debolezza, il generale Benjamìn Menéndez si mise alla testa di un’insurrezione, che sarà facilmente domata. tesa a far crollare il governo peronista, ma le cui conseguenze matureranno nel 1955, il 16 settembre, con la  Revoluciòn libertadora, diretta dal generale Lonardi, che pose fine al governo di Peròn. Le elezioni dell’11 novembre 1951 segnarono per il Partito Peronista (frutto della fusione tra il Partido Laburista, la Unión Cívica Radical Junta Renovadora e il Partido Independiente di Alberto Tessaire, che raggruppava i conservatori che appoggiavano Peròn) un vero trionfo. Peròn venne eletto per la seconda volta con 4.652.000 voti contro i 2.358.000 del suo avversario, Ricardo Balbin della Unión Cívica Radical. Un margine notevolmente superiore a quello della prima elezione che consentì ai peronisti  di conquistare tutti i seggi del Senato e centrotrentacinque dei centoquarantanove seggi della Camera. Non bisogna poi dimenticare che, per la prima volta, votarono anche 3.816.654 donne, i cui suffragi andarono all’unico partito, cioè a quello peronista, che inserì delle donne nelle sue liste. Alla fine risultarono elette ventitre deputate e sei senatrici.
Il 3 novembre 1951 Evita fu ricoverata al policlinico Presidente Peròn, dove il ginecologo Humberto Dionisi le diagnosticò un carcinoma. All’inizio di novembre, il chirurgo George Pack, specialista del Memorial Cancer Hospital di New York, procedette a un’isterectomia totale. La vita di Evita si stava spegnendo, le restavano solo alcune gocce di vita e le offrì il 1° maggio, in un discorso carico di accenti di incredibile bellezza, l’ultima volta che Evita parlò in pubblico, sorretta dal marito sul balcone della Casa Rosada. “Miei cari descamisados. Ancora una volta siamo qui riuniti, lavoratori e donne del popolo; ancora una volta ci ritroviamo, noi descamisados, in questa storica piazza del 17 ottobre 1945 per dare la risposta al leader del popolo che questa mattina, a conclusione del suo messaggio, ha detto: “Chi vuole ascoltare,  ascolti; chi vuole seguire, segua”. Ed è questa la risposta, o mio generale. E’ il popolo lavoratore, è il popolo umile della Patria che qui e in tutto il Paese si è levato in piedi ed è pronto a seguire Peròn, il leader del popolo, il leader dell’umanità, che ha innalzato la bandiera della redenzione e della giustizia delle masse lavoratrici; esso lo seguirà contro l’oppressione dei traditori interni ed esterni, che, nell’oscurità della notte, vogliono iniettare il loro veleno di vipere nell’anima  nel corpo di Peròn, che è l’anima e il corpo stesso della Patria. Ma non ci riusciranno, così come l’invidia dei rospi non è riuscita a far tacere il canto del usignoli e le vipere non hanno impedito il volo dei condor”.

“Io chiedo a Dio di non permettere che degli insensati alzino la mano contro Peròn, perché guai a quel giorno! Quel giorno, mio generale, io marcerò alla testa dei descamisados per non lasciare interno nemmeno un sasso che non sia peronista. Noi non ci lasceremo schiacciare dallo stivale oligarca e traditore dei “vendipatria” che hanno sfruttato la classe lavoratrice. Noi non ci lasceremo più sfruttare da quelli che, vendutisi per quattro soldi, servono i padroni stranieri e consegnano il popolo della loro Patria con la stessa tranquillità con cui hanno venduto il loro Paese e le loro coscienze”.

“Ma noi siamo il popolo, e io so che il popolo sta all’erta, siamo invincibili, perché noi siamo la Patria”.

E’ una dichiarazione di guerra, ma Evita, la grande lottatrice era colpita a morte. 

Evita si spense  dolcemente, respirando appena. Poi emise un sospiro  e il suo cuore si fermò. La sua morte fu annunciata ufficialmente il 26 luglio 1952 alle 8,30 di sera. Una terribile solitudine avvolse l’Argentina. Una solitudine che non si dissipò nemmeno al ritorno di Peròn in patria, dopo vent’anni di esilio. Evita presagì bene l’avvenire del suo Paese quando gridava e piangeva nell’agonia: “Chi, ma chi si prenderà cura dei mie poveri?”.

GINO SALVI

BIBLIOGRAFIA

Evita, un mito del nostro secolo, di Alicia Dujovne Ortiz, 1995, Mondatori.
Chiamatemi Evita, di Carmen Llorca, 1984, Mursia.
Evita Peròn, la madonna dei descamisados, di Domenico Vecchioni, 1995, Eura Press.
La ragione della mia vita, introdotto da Vanni Blengino, 1996, Editori Riuniti.
Evita, il mio messaggio,  introdotto da Joseph A. Page, 1996, Fazi.
L’Argentina da Peròn a Cavallo (1945-2002), di Francesco Silvestri, 2003, Clueb

jeudi, 07 avril 2011

Al Qaida en Libye? L'OTAN donne raison au colonel Kadhafi!

Al Qaida en Libye ? L’Otan donne raison au colonel Kadhafi !

 

PARIS (NOVOPress) : Des membres du réseau terroriste international Al Qaida et du mouvement chiite libanais Hezbollah pourraient figurer parmi les insurgés qui luttent contre le colonel Mouammar Kadhafi, a annoncé mardi l’amiral américain James Stavridis, commandant suprême des forces de l’Otan en Europe. « Nous examinons à la loupe la composition des groupes rebelles et leurs leaders », a annoncé l’amiral, cité par la presse occidentale. Il existe des « signaux d’une présence potentielle d’Al Qaida et du Hezbollah », a-t-il poursuivi, confirmant ainsi… ce que le colonel Kadhafi avait déclaré à la télévision libyenne il y a plus d’un mois !

Cette présence possible d’islamistes radicaux brouille quelque peu l’image idyllique, présentée par les Occidentaux, des insurgés libyens supposés représenter l’avenir « démocratique » de la Libye. Elle n’empêche pourtant pas les Occidentaux, et notamment  les Etats-Unis et la France, d’envisager d’armer les factions insurgées. Alors, Paris et Washington bientôt fournisseurs d’armes d’Al Qaida ?

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Terre & Peuple n°47 - Editorial de Pierre Vial

Terre et Peuple n°47

La guerre civile en France?

Multiculturalisme ou multiracialisme?

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Editorial

Par Pierre Vial

L’hebdomadaire Marianne a publié un « Hors-série » (février-mars 2011) intitulé « La guerre civile en France ». Où il s’agit de passer en revue les conflits qui ont opposé les Français entre eux, depuis la guerre de Cent Ans jusqu’en mai 68 (il est affirmé, au passage, qu’ « il n’y a pas eu de génocide en Vendée »…on sait que le concept de génocide doit être réservé à certains) . Mais avec un prolongement jusqu’à nos jours, qui éclaire l’objectif réel de la publication. Dans un « Avant-propos » intitulé « Le spectre », il s’agit de mettre en garde les « citoyens »  contre les tentations qui pourraient les guetter : « Aujourd’hui, c’est d’une forte minorité musulmane qu’une partie de l’opinion, aiguillonnée par les démagogues, s’effraie. Les émeutes urbaines, des faits divers sordides, les ratés d’une insertion sociale malade du chômage créent un climat d’appréhension dangereux ». Moralité : « La France est défiée de reconstruire avec tous ses citoyens les principes d’un vouloir vivre ensemble sans esprit d’exclusion ». Car, bien sûr, on évite de poser la seule bonne question : ces « émeutes urbaines », ces « faits divers sordides », la faute à qui ? A quels « citoyens » ?

De l’extrême gauche à une ex-Nouvelle Droite qui, si j’ai bien compris, veut être aujourd’hui classée à gauche,  en passant par toutes les nuances de la gauche et de la droite parlementaires, c’est à dire alimentaires, on nous sert la tarte à la crème du « vivre ensemble ». Mais, pour « vivre ensemble », encore faut-il en avoir envie.

On connaît la chanson. Il y a « des problèmes » ? La raison en est « sociale ». Il faut donc accélérer la mixité. Mixité sociale, dit-on officiellement. En fait mixité raciale, comme tout le monde le sait mais n’ose le dire de peur d’être « pris en charge » par les nouveaux Inquisiteurs. Pas un mot, bien sûr, quant à la seule et vraie raison des « dysfonctionnements », comme on dit pudiquement, de la société « française » : une société multiraciale est, inévitablement, une société multiraciste. Parler de « guerre civile » évite de parler de la seule guerre, inévitable, qui vient : la guerre raciale. Et les apprentis-sorciers qui rêvent que « la République » va, grâce à ses « valeurs » (la « laïcité », cheval de bataille de Sarkozy…et de Marine Le Pen) , pouvoir mettre tout le monde d’accord, vont se réveiller dans un cauchemar sanglant. Ils auront tout fait pour.

Cependant des politiciens, qui ont les yeux vissés en permanence sur les chiffres des instituts de sondage, commencent à s’inquiéter. Au sujet de la seule question qui compte vraiment pour eux : leur réélection. Qui semble menacée par une évolution de l’état d’esprit des populations dans divers pays d’Europe, où l’immigration est enfin perçue pour ce qu’elle est, c’est à dire une invasion. Aussi faut-il jeter du lest. Le multiculturalisme, adopté comme recette miracle du « vivre ensemble » dans les pays confrontés à une forte immigration, est aujourd’hui répudié par nombre de politiciens de premier plan. La première, la chancelière allemande Angela Merkel a brisé le tabou, en déclarant le 16 octobre 2010 que « le multikulti a complètement échoué ». En Grande-Bretagne, le premier ministre David Cameron a embrayé le 5 février en dénonçant  un multiculturalisme d’Etat » qui amené la Grande-Bretagne à tolérer des comportements « en contradiction complète avec nos valeurs ». Bon dernier, Sarkozy déclare à son tour, le 10 février, sur TF1 : « La vérité, c’est que dans toutes nos démocraties, on s’est trop préoccupé de l’identité de celui qui arrivait et pas assez de l’identité du pays qui accueillait ». Bel exemple de retournement de veste de la part de celui qui, il n’y a pas si longtemps, n’avait que la « discrimination positive » à la bouche, tout le monde sachant bien qu’il s’agissait, avec cette belle formule, de favoriser systématiquement et sur tous les plans les envahisseurs au détriment des Européens.

A l’heure où les vagues d’invasion en provenance du sud de la Méditerranée prennent des proportions cataclysmiques, les débats oiseux sur l’intérêt du multiculturalisme sont proprement criminels et ceux qui, d’une façon ou d’une autre, s’y prêtent, sont coupables de haute trahison à l’égard de nos peuples européens. Qu’ils y réfléchissent : l’accélération de l’Histoire que nous sommes en train de vivre peut provoquer l’apparition d’une légitime justice populaire qui n’aura nul besoin d’un quelconque Tribunal Pénal International.

Vous pourrez vous procurer ce numéro au stand de Terre et peuple samedi prochain 9 avril lors du colloque de Synthèse nationale sur les 35 ans du regroupement familial à Paris (cliquez ici).

 

Les droits de l'homme contre la démocratie directe

Les droits de l’homme contre la démocratie directe

par Yvan Blot

 

Texte paru sur le site de la Fondation Polémia [1] sous le titre Droits de l’Homme et Démocratie directe : le problème du contrôle de constitutionnalité. Yvan Blot, auteur de La Démocratie confisquée (éd. Picollec, 1988), est président de Agir pour la Démocratie directe [2].

1/ Initialement, les droits de l’homme sont des libertés fondamentales

Les droits du citoyen à voter la loi et l’impôt, donc la démocratie directe, sont d’ailleurs cités explicitement dans les articles 6 et 14 de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789 qui fait partie de nos textes constitutionnels. La protection de ces droits est plus une affaire de culture que de droit. Ainsi, le Royaume-Uni comme la Suisse ne connaissent aucun mécanisme de contrôle de la constitutionnalité des lois, et ces deux pays n’en sont pas devenus des dictatures pour autant. Si la culture de la liberté est développée, on n’a pas de besoin de juge de la constitutionnalité. Si par contre la culture de la liberté est sous-développée, battue en brèche par des éléments de culture totalitaire, le juge constitutionnel peut devenir le pire ennemi des libertés, et donc de la démocratie directe.

2/ Actuellement, les droits de l’homme font souvent l’objet d’une dérive totalitaire et se retournent alors contre les libertés des citoyens.

Si les droits de l’homme sont interprétés de façon égalitariste (au sujet de l’immigration par exemple), ou comme droits de créance sur la société (droit à l’emploi ou au logement par exemple), ils servent à tuer les libertés. Ainsi, la Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) dans l’affaire Lautsi a demandé en 2009 à l’Italie de retirer les crucifix présents dans les écoles publiques. Suite aux protestations de 20 Etats européens, en général de l’Est, elle a inversé sa jurisprudence le 18 mars dernier. La Cour européenne de Justice de son côté interdit aux assureurs de fixer des primes d’assurance plus faibles pour les femmes qui ont statistiquement moins d’accidents que les hommes, au nom de l’égalité des sexes ! Dans son récent arrêt Hirst, la CEDH a demandé au Royaume-Uni, au nom de l’égalité, de redonner le droit de vote aux condamnés à la prison ce qui a suscité un tollé au Parlement britannique et dans le peuple.

S’agissant de la Suisse, la Cour européenne des droits de l’homme a été saisie par un recours de M. Hafid Ouardiri [3] contre le résultat de la votation populaire interdisant la construction de minarets. Mais des problèmes de procédures pourraient empêcher ce recours d’aboutir. De même, des intellectuels de gauche ont évoqué un recours contre les résultats de la votation populaire exigeant l’expulsion des étrangers condamnés à des crimes graves. Certains pensent qu’il faut restreindre la démocratie directe pour donner la priorité aux droits de l’homme interprétés par des cours européennes. Le juge se substitue alors au peuple et intervient dans la législation : il ne reste plus grand-chose de la séparation des pouvoirs ! C’est le poison de l’égalitarisme qui fait tourner la sauce des droits de l’homme et en fait une arme contre les libertés !

3/ Gouvernements des juges et « recall » aux Etats-Unis

En Amérique où, dans certains Etats, les juges des cours suprêmes sont élus, il existe la procédure de révocation ou « recall » qui est une procédure de démocratie directe. Une pétition de citoyen peut déclencher un référendum pour demander la révocation d’un juge ou d’un gouverneur. L’idée est que le peuple a le droit de révoquer ceux qu’il élit. En effet, le juge n’est qu’un homme et il peut aussi se retourner par idéologie contre la protection des libertés. Il faut alors que le citoyen ait un recours.

4/ Démocratie directe et contrôle de la constitutionnalité

Les systèmes varient selon les pays. En Suisse, un tel contrôle n’existe pas et le peuple peut modifier la constitution par initiative populaire. Aux Etats-Unis, des référendums peuvent avoir lieu sur toutes sortes de sujets dans les 27 Etats fédérés qui le permettent mais le citoyen peut toujours se plaindre du résultat d’un référendum s’il estime que celui-ci viole ses droits. L’ennui est que la Cour annule parfois le résultat : 9 juges ont-ils raison contre la majorité du peuple ? Cela créé un malaise. En Allemagne, c’est le tribunal constitutionnel de chaque Etat fédéré (Land) qui interdit a priori les référendums sur des sujets qu’il déclare inconstitutionnel. Mais alors tout dépend de la jurisprudence : dans certains Etats, les juges ont étouffé la démocratie directe, dans d’autres non !

Conclusion :

Aucun système n’est parfait. En pratique, le contrôle de constitutionnalité a parfois tendance à restreindre abusivement les droits politiques des citoyens. L’oligarchie judiciaire vient alors au secours des autres oligarchies et le peuple est lésé. En fait, la protection des libertés est plus affaire de culture que de droit comme on l’a dit au début. Avec une culture de liberté, contrôle de constitutionnalité ou pas, les libertés fondamentales sont protégées. Avec l’égalitarisme, les droits de l’homme deviennent une arme dévoyée pour réduire la liberté des citoyens et la souveraineté des Etats !

Yvan Blot

Yvan Blot donnera une conférence le lundi 4 avril à l’Hôtel Néva (rez-de-chaussée) 14, rue Brey, 75017 Paris (près de l’Etoile).
Contact : atheneion@free.fr


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[1] Fondation Polémia: http://www.polemia.com/

[2] Agir pour la Démocratie directe: http://www.democratiedirecte.fr/

[3] M. Hafid Ouardiri: http://www.tdg.ch/actu/suisse/recours-depose-strasbourg-contre-initiative-anti-minarets-2009-12-15

Carmina Burana - Dulce Solum - Carl Orff

Carmina Burana - Dulce Solum - Carl Orff

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La visione "corporativa" di Ugo Spirito

Nel 1935, il filosofo Ugo Spirito  (Arezzo, 1896 – Roma, 1979) presentava al Convegno di studi corporativi di Roma la sua relazione – intitolata Corporativismo e libertà – con la quale esprimeva la convinzione che la sfida al capitalismo dovesse essere vinta tanto sul piano tecnico quanto su quello spirituale, marcando una superiorità di tipo gerarchico-totalitario “in cui i valori umani si differenzino al massimo”. La concezione corporativistica di Spirito è infatti una visione, poiché non si derubrica a semplice metodologia, a insieme di processi di funzionalità tecnica, ma si eleva a momento spirituale nel quale la vita sociale si unifica moralmente “nella gioia del dare e del sacrificarsi”; in buona sostanza nel rifiuto di ogni fine privato dell’esistenza. In uno scritto del 1934, significativamente intitolato Il corporativismo come negazione dell’economia, Spirito afferma chiaramente che il corporativismo “non è economia, ma politica, morale, religione, essenza unica della rivoluzione fascista”. E proprio per questa ragione egli parlò di “comunismo gerarchico”, dove il primo termine va inteso in un senso assai distante da qualsiasi dogmatismo marxista-bolscevico; mentre il secondo rimanda alla libertà caratterizzata dal diritto al lavoro che seleziona un’èlite umana in grado di accedere ai vertici della comunità. Il comunismo inteso da Spirito è stile di vita più che sistema politico. Come scriverà nel 1947 in Filosofia del comunismo: “…Il comunismo può dare luogo ad istituzioni sociali e giuridiche…Può tendere ad una vita collettiva in cui il criterio di distribuzione dei beni sia fissato in funzione della produttività di ognuno; può eliminare le sperequazioni più gravi della vita attuale e le forme più chiare di sfruttamento. Ma detto questo risulta altresì è evidente che il comunismo può realizzarsi prima e senza la trasfigurazione della società, [può realizzarsi] in quella più profonda società che è in ognuno di noi – la societas in interiore homine – e che da noi soltanto acquista valore”. Il comunismo di Spirito è quindi più platonico che marxista, nell’affermazione che questo può realizzarsi prima e senza la rivoluzione delle strutture socio-economiche, in quanto rivoluzione interiore delle coscienze. Ma a questo proposito, Ugo Spirito chiarisce ulteriormente il suo punto di vista “Quando spontaneamente e gioiosamente rinuncio al di più, so di avere realizzato, anche nel mezzo del più anticomunistico regime politico, l’ideale del comunismo. Ideale che può sussistere non soltanto in un solo Paese…ma anche e soprattutto in un solo uomo, vale a dire nella coscienza del singolo; là dove può rivelarsi nella pura spiritualità”. Di qui l’apparentemente paradossale affermazione che non è il proletariato a costituire la forza realizzante l’avvento della società comunista – dato che esso aspira in fondo solo al comfort borghese. Soltanto il borghese che ha preso coscienza della metafisica comunista –cioè di una coscienza anticonsumistica – può rappresentare la forza trainante della Rivoluzione. 

Spirito contro la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 

Per questo Ugo Spirito percepì come insufficiente la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 che conservava gli aspetti di quel mondo borghese-capitalistico contro cui il fascismo, ispirandosi ad un’altra Carta, quella del Carnaro, era sorto. Il fascismo nasceva infatti per contrapporsi all’’individuocrazia’ liberale, affermando l’immanenza dello Stato nelle singole parti che lo compongono. Tuttavia, tentando di conciliare la proprietà privata con il dovere di metterla al servizio della collettività – al di là della reale capacità e volontà politica di trovare la giusta sintesi a tutto ciò – di fatto cedeva alla superiorità della prima, il cui diritto rimaneva intangibile. Nel Convegno di Ferrara del 1932, Spirito propose di tagliare il nodo di Gordio con la spada della “corporazione proprietaria”: tesi con la quale si affermava che la proprietà privata dei mezzi di produzione doveva passare alla corporazione intesa come corpo sociale intermedio tra individuo e Stato. In questo modo la Rivoluzione fascista avrebbe superato quella francese e la sua egoistica rivendicazione della proprietà privata, con un concetto di proprietà non più volto a fare di essa un inalienabile e assoluto diritto dell’individuo, ma una funzione utile all’interesse della Nazione. Concezione che in parte il fascismo faceva propria se pensiamo che la legge sulla Bonifica integrale autorizzava la revoca della proprietà qualora questa fosse stata lasciata inattiva. In ogni caso, se la ‘Carta del Lavoro’ aveva giustapposto l’interesse pubblico e quello privato, la tesi di Spirito tendeva a fonderli nell’identità di capitale e lavoro, di sindacalismo e proprietà. Con la corporazione “proprietaria”, il capitale sarebbe infatti passato dagli azionisti ai lavoratori, i quali avrebbero acquisito la proprietà in base a meriti gerarchici determinati da competenza e impegno. 

L’’eresia’ di Ugo Spirito venne immediatamente tacciata di bolscevismo. Reazione abbastanza scontata, anche perché lo stesso filosofo chiuse la sua relazione ferrarese dichiarò che la proposta da lui fatta andava verso un certo tipo di ‘socialismo nazionale’. Se l’oggi vedeva contrapposti Fascismo e Bolscevismo, il domani sarebbe stato di quel sistema che avrebbe saputo non negare l’altro, ma incorporarlo e superarlo in una forma più elevata. Ragione per cui “il Fascismo ha il dovere di fare sentire che esso rappresenta una forza costruttrice storicamente all’avanguardia, capace di lasciarsi alle spalle, dopo averli riassorbiti, Socialismo e Bolscevismo”. Chiuse il convegno il ministro Giuseppe Bottai (1895 –1959) che difese l’autonomia di corporazione, sindacato, impresa e Stato che Spirito voleva fondere nella già citata ‘corporazione proprietaria’; ma che nel contempo prese le distanze da quelli che, indossata la “maschera di cartone” del liberalismo, consideravano conclusa la sperimentazione corporativa. 

Il periodo della ‘rielaborazione’ 

Negli anni successivi, Ugo Spirito abbandonò la tesi ‘eretica’ sostenuta a Ferrara, pur riaffermando costantemente il carattere pubblicistico della proprietà e dichiarando un controsenso il concepirla privatisticamente. Tanto più che la fondazione dell’IRI sembrò a tutti gli effetti un passo avanti verso il riconoscimento della proprietà come res pubblica, attraverso un deciso intervento dello Stato in economia. Ancora nel 1941, Spirito scriveva in Guerra rivoluzionaria (rimasto inedito fino al 1989) che la Rivoluzione fascista non avrebbe mai condotto ad un comunismo ‘livellatore’, figlio diretto delle democrazie liberali: “Non aristocrazia ereditaria e neppure il suo astratto opposto segnato dalla democrazia maggioritaria, bensì la gerarchia di tutti continuamente formantesi e rinnovantesi nell’assolvimento delle funzioni sociali, dalle più elevate e complesse alle più umili e semplici. Non comunismo, dunque, fondato sul peso della massa come numero, ma ‘comunismo gerarchico’, ossia collaborazione di tutti all’opera comune, determinata in ogni suo aspetto con il solo criterio della competenza”. Proprio in quell’anno, tuttavia, il nuovo Codice civile stabiliva sì la funzione sociale della proprietà, ma ne tutelava comunque il carattere privatistico. La necessità di conseguire scopi sociali veniva affidata dunque all’impulso individuale e all’iniziativa del proprietario secondo la nota favola liberale, stando alla quale dall’interesse privato di alcuni nascerebbe l’utile per tutti. Nulla di strano però, se consideriamo i mille compromessi con le forze borghesi e clericali, con i grandi gruppi finanziari che certamente trovavano sponda e sostegno nella monarchia “borghese” dei Savoia, ai quali era ormai costretto il fascismo. Quando però la trahison des clercs – cioè il vero o presunto abbandono del fascismo da parte della borghesia – e il tradimento del re fecero venire meno la ragione stessa dei compromessi, fu però possibile un’accelerazione dell’evoluzione del sistema corporativo in direzione delle tesi di Spirito. Ma ciò avvenne troppo tardi, soprattutto in quanto il regime aveva ormai di fronte un ostacolo nuovo, oltre che poco disposto a compromessi: la Germania. La necessità da parte di quest’ultima di trasferire in patria lavoratori italiani e di utilizzare pure le industrie ubicate in Nord Italia per le proprie necessità, comportò l’opposizione del generale Hans Leyers, capo della Commissione Guerra e Armamenti del Nord d’Italia, al processo di socializzazione.  

Fu comunque significativo che il ‘Manifesto’ di Verona venne redatto dal segretario del partito Alessandro Pavolini insieme con Nicola Bombacci, e rivisto infine dal duce. Nel documento si parlò di socializzazione, ovvero della cooperazione delle forze del lavoro nella gestione delle imprese, eliminando così il dualismo tra lavoratori e datori di lavoro. Nella sostanza, l’obiettivo era certo quello di un miglioramento delle condizioni di vita degli operai delle industrie – il cui appoggio risultava fondamentale anche per la Repubblica Sociale Italiana – anche se attraverso la ‘socializzazione’  si riproponeva di realizzare una nuova concezione del lavoro, capace di sviluppare un senso di appartenenza, di solidarietà, di responsabilità. Un ethos capace di rivoluzionare il rapporto tra cittadini e quello tra popolo e Stato. Il lavoro si sarebbe ‘spiritualizzato’ poiché il peso fondamentale non sarebbe stato più attribuito alla semplice materialità del possesso dei mezzi di produzione. Ed era poi il senso di quanto il filosofo Giovanni Gentile, maestro di Spirito ebbe a dire in Genesi e struttura della società a proposito dell’Umanesimo del lavoro. Detto ciò, occorre riconoscere che la “corporazione proprietaria” di Spirito si spinse oltre la stessa socializzazione che, in ogni caso, avrebbe conservato il principio della proprietà privata intesa come beneficio esclusivo del capitalista.

 Il ruolo sociale ed etico della Corporazione 

Spirito attribuiva infatti la proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, affermando che la stessa produzione, avendo un ruolo sociale, non avrebbe potuto di conseguenza essere abbandonata all’arbitrio individuale del proprietario. La tesi di Spirito eliminava dunque ogni rischio; ma la socializzazione lasciò però uno spiraglio di cui i capitalisti del Nord seppero approfittare. Essa ebbe comunque il merito di introdurre principi di quel ‘socialismo nazionale’ auspicato da Spirito, riconsegnando dignità spirituale al lavoro e al lavoratore, nel rifiuto di ogni materialismo marxistico, di ogni determinismo storico e della lotta di classe. A guerra conclusa, il CNLAI dominato dai comunisti decretò l’abrogazione della legge sulla socializzazione delle imprese. E mentre il bolscevismo non abolì il capitalismo, la ‘socializzazione’ ebbe il merito di sapere ipotizzare un ‘socialismo nazionale’ assai prossimo alla Volksgemeinschaft, la Comunità di popolo tedesca. Un organismo in grado di eliminare ogni antagonismo di classe e capace di realizzare nelle aziende un modello di Stato nazionalsocialista. Ma la fine del Secondo Conflitto fece naufragare anche questo tentativo rivoluzionario, consentendo al mondo borghese-capitalistico si riappropriarsi dei suoi privilegi. Tuttavia, pochi anni dopo in Filosofia del comunismo, Spirito scriveva ancora: “…la civiltà liberale e borghese ha potuto fare della libertà il monopolio di una classe solo a patto che i molti non liberi ne pagassero il prezzo; ma se oggi la stessa libertà vuole essere rivendicata da tutti, sì che nessuno resti a condizionarne il privilegio, la lotta di classe si muta in lotta di gruppi e di individui, tutti al privilegio anelanti e tutti impegnati nella corsa degli egoismi più sfrenati. La presunta libertà diventa il principio della disgregazione, dell’atomismo e del conseguente caos, del quale già si avvertono i segni premonitori. Perché a questa logica sia dato sottrarsi, occorre vivere di un’altra fede, credere in un nuovo mondo sociale, che vada al di là del liberalismo e realizzi nella comunità degli uomini un ideale che non sia quello del tornaconto del singolo e del calcolo economico di chi guarda alla propria persona come centro del mondo”. Negli anni successivi, questa fede prese per Spirito sempre più il nome di comunismo; ma nonostante una sua certa ammirazione per il mondo sovietico (che ebbe modo di visitare in un viaggio di appena un mese), il comunismo di Spirito si identificava pur sempre in una forma di  ‘corporativismo antindividualistico’ e antimaterialistico che con il realismo sovietico non aveva proprio nulla da spartire. 

Rielaborazioni. La ‘nuova religione’  

Nello scritto del 1958, Cristianesimo e comunismo, Spirito vide nel socialismo e nel comunismo addirittura i veri continuatori della ‘rivoluzione cristiana’ in virtù della rivendicazione della dignità del lavoro nelle sue forme più umili e per la definitiva negazione della proprietà privata, caposaldo della rivoluzione borghese. Il comunismo avrebbe realizzato ciò non con la lotta di partito e con le sue rivendicazioni – che Spirito giudicava  mere continuazioni del mondo borghese – ma trasformandosi in ‘nuova metafisica’ e ‘nuova religione’ fondata sul rifiuto dello stesso principio individualistico. Un ideale compiuto che avrebbe consegnato alle coscienze un programma che “nasce dalla collaborazione di tutti, come ragione d’essere di una vita comune” in cui la volontà di ognuno si risolve nella volontà sociale. “Nessuno appartiene più a se stesso perché ognuno diventa soltanto parte di un organismo e dell’organismo acquista il carattere superiore, la forza, la coscienza e la finalità”. Ora, agli inizi del XXI secolo, dove il principio individualistico e il privilegio borghese sembrano avere trionfato ovunque, al di là del nome che ognuno di noi attribuisce alla ‘nuova fede’ di cui parla Spirito, non si può tralasciare di realizzarla dentro di noi, affinché la civiltà europea possa ancora guardare al futuro con un briciolo di speranza.

Rodolfo Sideri

mercredi, 06 avril 2011

Lo scenario libico di Obama per la Libia

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Lo scenario libico di Obama per la Libia

di Nil Nikandrov

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]

   
    
La visita di Barack Obama in America Latina (Brasile, Cile e El Salvador) dal 19 al 23 Marzo prosegue tra gli attuali eventi profondamente drammatici in Libia e nei suoi dintorni.
L’azione militare della coalizione Occidentale nei confronti del “Regime sanguinario di Gheddafi” sta diventando sempre più violenta. L’avvio di un intervento di terra è solo questione di tempo.

L’ostentato ordine di Obama di attaccare la Libia, impartito al 42esimo minuto della conversazione riservata con la sua controparte brasiliana Dilma Rousseff ha dimostrato un episodio ancor più scioccante del soggiorno del leader statunitense in America Latina. Un consigliere Statunitense del Presidente si è avvicinato ad Obama a dispetto di tutti gli standards di protocollo diplomatici e gli ha consegnato un foglio. Il Presidente degli Stati Uniti gli ha dato uno sguardo, ha preso un telefono cellulare dal suo consigliere e ha detto con voce ferma “Procedete!”. Il Presidente Afro – Americano ovviamente ha cercato di impressionare Dilma con la sua risoluzione, e di dimostrarle che ci sono momenti in cui la diplomazia e le buone maniere vengono messe da parte.



L ’Ambasciatore brasiliano alle Nazioni Unite si è astenuto durante il Consiglio di Sicurezza dal votare la risoluzione sulla Libia. Dilma Rousseff sembra essere più flessibile riguardo le relazioni bilaterali rispetto al suo predecessore Luiz Inacio Lula da Silva. Lula disse che era interessato a sviluppare relazioni con gli Stati Uniti, ma spesso sosterrebbe Chavez. Questa volta, anche Lula – l’unico dei quattro precedenti Presidenti brasiliani ad esser stati invitati a partecipare alla cena ufficiale con Obama, ha declinato l’invito. Ma Dilma agisce diversamente. Lei  ha parlato chiaro, vorrebbe la rimozione delle barriere doganali per i beni Brasiliani, come ad esempio l’etanolo, carne di maiale, succo d’arancia, cotone e acciaio. Il Brasile necessita anche dell’appoggio degli Stati Uniti per ottenere lo status di membro permanente nel Consiglio di Sicurezza ONU. Questi sono chiaramente interessi di vasta portata, ma il Brasile è disponibile ad un negoziato, annoverando anche un cambiamento di posizione riguardo l’accordo del così detto “Problema Chavez”.

I report televisivi sugli sviluppi in Libia sono trasmessi in America Latina seguendo programmi specifici negli studi televisivi statunitensi. Le incursioni aeree della NATO contro le strutture militari, gli attacchi con missili da crociera sul governo di Jamahirya e sulle sedi del partito, la caccia a Gheddafi attraverso l’uso di droni – tutto ciò si alterna con reports sulla visita di Obama in Sud America. I Presidenti ospiti e padroni di casa a Brasilia, Santiago del Cile e San Salvador, hanno stretto mani, pronunciato discorsi cordiali, si sono profusi in inchini, per dimostrare che l’America Latina è presumibilmente disinteressata (non poi del tutto) a ciò che sta accadendo sull’altro lato del globo, - in Libia.

I Presidenti della cricca di Washington in America Latina approvano puntualmente l’uso della forza da parte degli Stati Uniti contro coloro i quali “non sono con noi”. I Presidenti di Messico, Honduras, Costa Rica, Panama, Colombia, Perù e Paraguay, hanno espresso il loro sostegno all’attuale azione militare contro la Libia. I Presidenti di El Salvador e Cile, Mauricio Funes e Sebastian Pinera sono partners affidabili di Washington, sempre pronti ad allinearsi con Barack Obama.

Tuttavia i paesi dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe, - Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador e, chiaramente Cuba, si rendono conto fin troppo bene della ragione di fondo degli eventi in Libia. E la ragione è il petrolio. Fidel Castro predisse che la guerra era inevitabile molto tempo prima che venisse lanciata l’operazione “Alba dell’Odissea”. Le risoluzioni 1970 e 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU  sono una dimostrazione di disprezzo nei confronti di qualsiasi misura di legge internazionale. Coloro i quali non erano d’accordo venivano “polverizzati”, come presunto da Hugo Chavez. Stiamo assistendo alla progressiva attuazione del piano della globalizzazione per creare un “caos controllato” con il pretesto di interferire nelle questioni interne di quei paesi che hanno una “nota negativa”. L’obiettivo finale del progetto è l’annichilimento di coloro che si oppongono allo stile di globalizzazione americano. Ora è la Libia ad essere sotto attacco, ma il prossimo della lista è l’Iran. Questa sembra essere un’operazione sistematica di ripulitura contro quei paesi che collaborarono con la Russia, per garantire un accerchiamento strategico di quest’ultima.

Recentemente Hugo Chavez ha fatto diverse dichiarazioni circa gli eventi in Libia. Dice di esser sicuro che la coalizione Occidentale abbia attaccato il paese Arabo per impossessarsi delle sue più ricche riserve petrolifere e per distruggere fisicamente Gheddafi. “Sfortunatamente, ha detto Chavez, le Nazioni Unite sostengono la guerra nonostante ciò sia in conflitto con i principi fondamentali dell’Organizzazione”. Rivolgendosi ai latino – americani durante la sua trasmissione “Ciao, Presidente!” ha risposto a questa domanda “Chi ha dato a questi paesi , - Stati Uniti, Francia ecc. Il diritto di bombardare la Libia? Sono stati già segnalati civili uccisi durante le incursioni aeree. Questo è ovvio essendo la Libia bombardata dal mare, con 300 o 400 bombe e proiettili che colpiscono case e ospedali. Questa è un’operazione militare crudele che non riuscirà a distinguere tra innocenti e colpevoli. Chiediamo che l’attacco venga interrotto!”.

Le dichiarazioni di Hugo Chavez sono state condivise dalle sue controparti Boliviana, Ecuadoriana e Nicaraguense. Daniel Ortega ha esortato i paesi della coalizione Occidentale “a tornare in loro e dimostrare comprensione verso la proposta di Gheddafi di avviare un dialogo”. Per Ortega è ovvio, come anche per Chavez, che l’obiettivo principale degli aggressori è quello di impossessarsi delle ricchezze petrolio e gas della Libia: “Gli aggressori sono in gara tra loro per chi dovrà essere il primo ad occupare la Libia”. Il Presidente della Bolivia, Evo Morales, ha denunciato l’azione militare occidentale e ha garantito che tutti i colpevoli stranieri della morte di cittadini Libici  “verrebbero identificati e processati”. Rivolgendosi ai giornalisti, Morales ha detto “Ancora non sappiamo la completa verità riguardo ciò che sta realmente accadendo in Libia, perciò i mass media dovrebbero continuamente battersi per ottenere informazioni imparziali”.

Il sentimento anti-americano sta crescendo rapidamente alla luce degli eventi in Libia. Solo due o tre settimane fa, l’Ambasciatore Statunitente in Brasile, Thomas Shannon ha chiesto di usare Piazza Cinelandia, nella centrale Rio De Janeiro, per il discorso pubblico di Barack Obama a 30 000 Brasiliani. Il Presidente degli Stati Uniti cerca di imitare, anche se in sua assenza, Hugo Chavez, per verificare se potesse risultare altrettanto popolare in America Latina. Ma le aspettative statunitensi hanno dimostrato avere vita breve, e l’Ambasciata ha dovuto cancellare il discorso previsto. E’ diventato difficile garantire la sicurezza personale di Obama. I Brasiliani si sono indignati così tanto per il bombardamento della Libia che i responsabili della sicurezza del leader Americano avevano tutte le ragioni di aspettarsi problemi. Il breve slogan “Obama, vai a casa!” è diventato piuttosto popolare in Brasile. Nonostante ciò Barack Obama ha parlato al Teatro Municipale di Rio ad un pubblico decisamente più ristretto di 2000 ospiti selezionati, di cui ufficiali di sicurezza degli Stati Uniti, diplomatici  e ufficiali di polizia costituivano più della metà.

Le proteste contro gli attacchi anti –libici sono state riportate da tutte le nazioni Latino- Americane. 42 partiti del centrosinistra si sono riuniti in un seminario internazionale in Messico per adottare una dichiarazione sulla Libia. Alcuni di coloro che hanno firmato sono membri di partiti al potere, come ad esempio il Movimento per il Socialismo della Bolivia, il Fronte Ampio dell’Uruguay, il Partito dei Lavoratori del Brasile, il fronte Farabundo Martì per la Liberazione Nazionale di El Salvador ecc. Una manifestazione è stata organizzata a Santiago del Cile sotto lo slogan “Per la Pace, contro la Guerra”. Ulteriori proteste si preparano in Cile per denunciare la visita “dell’aggressore Obama”. La sicurezza è stata rafforzata nelle ambasciate degli Stati Uniti nelle nazioni del Centro e Sud America. Gli ufficiali statunitensi temono rappresaglie dai sostenitori radicali di Gheddafi. Varie generazioni di rivoluzionari Latino – Americani sono state educate sulla base del principale lavoro teoretico di Gheddafi- il suo Libro Verde.

Tra questi rivoluzionari c’è William Izarra del Venezuela un cospiratore ufficiale in pensione che ha viaggiato in Libia molto tempo prima che il tenente colonnello Hugo Chavez emerse sulla scena politica del Venezuela. Veterano dell’esercito, Izarra è ora responsabile del Centro per la formazione ideologica del Partito Socialista del Venezuela. Un “Communiquè” è stato divulgato a nome del Centro, affermando questo, in particolare: “Stiamo dando l’allarme a causa dell’attuazione dei piani di invasione militare della Libia  da parte degli Stati Uniti e della NATO. Devastante al punto da poter avere delle conseguenze sulla gente della Libia e creare un traumatizzante stereotipo della percezione di una guerra di “quarta generazione” in Africa, Asia e America Latina.

Il “Communiquè” incita affinché vengano aumentati gli sforzi della propaganda a supporto della Libia, e per condannare “l’asse” degli alleati Stati Uniti – Canada – Unione Europea- Lega Araba. Izarra non ha alcun dubbio che l’attacco nei confronti della Libia accrescerà i processi di destabilizzazione in Venezuela e provocherà movimenti attivi degli oppositori di Chavez nel 2011 e 2012, nella corsa alle elezioni presidenziali. Il piano sicuramente conterà su azioni concordate da parte di forze esterne (Stati Uniti) e interne (l’opposizione, “La Quinta Colonna”, “Chavismo senza Chavez”) che cercano di impedire che il leader venezuelano possa concorrere alle future elezioni presidenziali.


Fonte:  www.strategic-culture.org
Link: http://www.strategic-culture.org/news/2011/03/22/obama-libyan-scenario-for-venezuela.html


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MADDALENA IESUE’


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

SOS Terre Briarde

S O S TERRE BRIARDE  

ALERTE ECOLOGIQUE MAJEURE     
                                      
Chaque jour on mesure davantage l'étendue de la catastrophe qui s'abat sur
notre pays : La volonté de nous détruire va au-delà de la substitution de population, de la perte de nos
valeurs, de notre identité, de nos racines.
Il faut désormais qu'ils détruisent notre environnement, notre faune et notre flore, notre sol et notre  sous-sol en prétextant la croissance des besoins d'énergie et l'indépendance énergétique 
de notre pays!"
 

image002.jpgEn France, on a des idées et, en plus, on a du schiste bitumineux  
Voici le nouveau slogan qui remplace maintenant celui des années soixante-dix : "En France, on n’a pas de pétrole mais on a des idées !".
Comme aux Etats-Unis et au Canada où la société HALLIBURTON exploite le gaz et l’huile de schiste    par le procédé de fracturation de la roche  à grande profondeur (2000 ・ 3000 mètres). Cette technique a des conséquences effroyables sur l’environnement, la faune et la flore ainsi que sur la santé humaine. Les habitants des régions concernées aux USA et au Canada sont sinistrés et leur vie quotidienne est devenue un enfer. Voir à ce sujet les vidéos sur internet du reportage  "GASLAND" 

Pour ce qui est de la France, plusieurs projets d’exploitation du sous-sol en vue d’en extraire l’huile de schiste en explosant la roche par injection d’eau en quantité énorme additionnée de produits chimiques extrêmement nocifs sont en cours et ont reçu, dans le plus grand secret, les autorisations nécessaires de la part du gouvernement et notamment de l’ex-ministre de l’Ecologie, Jean-Louis Borloo en 2009… 
Les bénéficiaires sont les sociétés américaines TOREADOR (dont le principal dirigeant, Julien Balkany,  est très proche du pouvoir) et HESS et la société canadienne VERMILION. 
Le 16 avril devraient normalement commencer les premiers forages "exploratoires" à proximité de la commune de Doue en Seine & Marne mais ausi en différentes place de la Seine-et-Marne
L'est de l’Aisne, le sud de l'Oise ,l’ouest de la Marne et toute la Seine & Marne sont concernés. La Terre Briarde est menacée d’un désastre écologique et environnemental sans précédent en France:  ,  destruction de la faune et de la flore, dessication des terres agricoles, maladies puis mort des animaux domestiques, de ferme et d’élevage, terrains transformés en paysage lunaire  eau polluèe, impropre à la consommation , pollution extrême des nappes phrèatiques et épuisement de la principale réserve d’eau potable de la région parisienne. « La nappe de Champigny » qui alimente la rivière souterraine 
"la Dhuys"
 Habitants de Seine & Marne et du reste de la Brie, tout ceux et celles qui restent attachés à la terre de leurs ancêtres , mobilisez-vous, renseignez-vous, rassemblez-vous, car il y va de votre santé,  et de  notre patrimoine  
 
Ecoutez celles et ceux qui la dénoncent car vous ne pourrez pas dire que vous ne saviez pas !

n'oubliez pas de signer la pétition

 

 



INFORMATIONS            Association " Terre Briarde"   e-mail : demeter77@hotmail.fr                                        
Merci de faire circuler ce communiqué et de le reproduire si possible pour distribution.

Slavi Binev: Renforçons le dialogue avec l'Amérique latine!

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Renforçons le dialogue avec l’Amérique latine !

 

Entretien avec le député européen Slavi Binev (« Ataka »/Bulgarie) sur les relations entre l’Europe et l’Amérique latine

 

Croissance potentielle – Risques et opportunités pour l’Europe

 

Q. : Monsieur Binev, comme souhaiteriez-vous nous décrire les relations entre l’UE et l’Amérique latine ?

 

SB : La présidence espagnole de l’UE a promu les relations entre l’Europe et l’Amérique latine pendant la première moitié de l’année 2010. De cette volonté de resserrer les liens entre les deux continents ont résulté 1) un accord de partenariat entre l’UE et l’Amérique centrale et 2) une volonté d’entreprendre des négociations entre l’UE et le Mercosur. On a, à l’époque, esquissé également l’objectif final : atteindre un partenariat stratégique bi-régional dans les domaines politique, économique, social et culturel, afin qu’un développement de longue haleine puisse s’amorcer entre les deux régions du globe. Pourtant, malgré ces déclarations de principe, seuls deux pays, semble-t-il, accordent la priorité à ce projet : l’Espagne et le Portugal parce qu’ils ont des liens historiques avec les pays d’Amérique latine et qu’entre protagonistes européens et protagonistes latino-américains, il n’y a aucune barrière linguistique. Espagnols et Portugais ont donc une longueur d’avance.

 

Q. : On a annoncé un partenariat stratégique à l’occasion de plusieurs sommets. Mais qu’en est-il dans la pratique ? Intensifie-t-on réellement les rapports entre les deux continents ?

 

SB : Je pense que ce sont les latino-Américains les principaux coupables dans l’ensemble des négligences constatées. Au cours de ces dernières années, on a développé des instruments spéciaux pour asseoir une coopération optimale, on a tenu sommet sur sommet et on a donné vie à  « EuroLat », une assemblée parlementaire euro-sudaméricaine. L’UE demeure, comme auparavant, le principal investisseur dans la région, le second partenaire commercial et le plus important donateur en matière d’aide au développement. Donc, en dépit de tous les documents signés, l’Europe apparaît davantage comme un « sponsor » que comme un véritable partenaire en Amérique latine.

 

Lors de chaque sommet auquel j’ai participé en tant que membre parlementaire d’EuroLat, j’ai entendu des discours, exhortant l’Europe à aider et à investir. Mais pendant tout ce temps, on n’a rien fait pour combattre la criminalité dans des pays comme le Venezuela, le Salvador, le Mexique ou le Brésil. Dans certaines grandes villes, des quartiers entiers dans lesquels ont ne peut entrer sans être accompagné de sa petite armée personnelle ! C’est là que le bât blesse : on fait appel à des investisseurs et à des investissements mais on ne garantit pas la sécurité des investisseurs.

 

Q. : Dans quels domaines l’Europe pourrait-elle profiter d’un renforcement des relations entre l’UE et l’Amérique latine ?

 

SB : Les flux migratoires entre l’Amérique latine et l’Europe sont en pleine croissance et cette situation appelle un dialogue, qui devra braquer les projecteurs sur ce problème particulier (ainsi que sur d’autres problèmes). Le dialogue doit aboutir à un consensus, de façon à ce que l’on donne la priorité à une politique migratoire préventive, garantissant des canaux légaux pour une immigration légale, afin que l’on puisse mettre sur pied une politique équilibrée et appropriée, réglementant les flux migratoires.

 

Q. : Il y a deux ou trois décennies, on considérait partout dans le monde que l’Amérique latine était un « continent perdu ». Pour quelles raisons ce continent a-t-il, au contraire, amorcé un processus de développement positif, en est-il arrivé à une belle croissance ?

 

SB : Rien que sur le plan géographique, ce continent offre des potentialités uniques : où, dans le monde, pouvez-vous donc aller skier en été ? Et qu’en est-il de l’héritage culturel, avec des sites comme Cuzco, Machu Pichu, Inga Pirka, etc. ? Tous ces sites éveillent l’idée de « marchés » attrayants pour de nouvelles marchandises. C’est parce qu’il se trouve éloigné des grands centres d’effervescence du globe que le continent latino-américain a été défini comme « continent perdu » ; cependant, la globalisation et le besoin de nouveaux débouchés ont attiré l’attention de pays montants comme la Chine.

 

Q. : Des pays comme le Venezuela, et surtout le Brésil, ont développé, depuis un certain nombre d’années, une conscience autonome en matière de politique étrangère. Ces pays auront-ils la possibilité, dans un futur proche, d’influencer l’ordre du monde, de le marquer de leur sceau ?

 

SB : Pour le Venezuela, je ne peux rien dire pour le moment mais pour le Brésil, je puis constater d’ores et déjà qu’il fait partie désormais des grandes puissances du monde. Au cours de ces dernières années, les experts en matière de relations internationales ont prévu que les pays du groupe « BRIC » (Brésil, Russie, Inde et Chine) allaient graduellement faire émerger un monde multipolaire. L’économie brésilienne poursuivra indubitablement sa croissance et, malgré une petite récession due à la crise économique mondiale de 2008-2009, a atteint à nouveau une croissance de 7,5%. En observant cette croissance économique, les instances gouvernementales brésiliennes ont pris de plus en plus nettement conscience qu’elles devaient moderniser à grande échelle les forces armées du pays, si celui-ci entendait rendre bien crédibles ses revendications dans le domaine délicat des approvisionnements en pétrole et en gaz naturel, dont les gisements se trouvent tous en dehors des eaux territoriales. Le Brésil milite également pour obtenir un siège permanent au Conseil de Sécurité des Nations Unies.

 

Q. : L’influence des Etats-Unis est-elle encore forte dans la région ?

 

SB : L’influence nord-américaine est en déclin en Amérique latine. Mais les Etats-Unis y suscitent encore crainte et respect. Le problème des politiques intérieures des pays latino-américains, les vieux contentieux historiques toujours vivaces entre l’Amérique du Sud et les Etats-Unis, sont autant de questions épineuses et de véritables barrières, dont la présence empêche désormais Washington de retrouver ses chances dans la région. Tandis que les Etats-Unis, dans des questions importantes comme l’énergie, le commerce et l’immigration, se sont enfoncés dans une impasse, des pays comme la Chine et la Russie peuvent faire valoir leurs intérêts sans être empêtrés par un ballast historique incapacitant, n’ayant jamais cherché à influencer par la coercition la politique intérieure des Etats sud-américains. Quoi qu’il en soit, il me paraît légitime de soulever une question : toute l’attention que nous pourrions porter à l’Amérique latine portera-t-elle des fruits tant que les Etats-Unis resteront tapis à l’arrière-plan ?

 

(Entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°13/2011 ; propos recueillis par Bernard Tomaschitz ; http://www.zurzeit.at/ ).

Carmina Burana - Ave Nobilis - Carl Orff

Carmina Burana - Ave Nobilis

Carl Orff

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Little Caesar - Gabriele D'Annunzio the Abruzzese

Little Caesar

Gabriele D’Annunzio the Abruzzese
 
 

Self-proclaimed “Superman” Gabriele D’Annunzio (Photo by New York Scugnizzo)


“In men of the highest character and noblest genius there is to be found an insatiable desire for honor, command, power and glory.”

– Cicero: De Oficiis, I, 78 B.C.


The end of World War I witnessed the breakup of three of the great royal dynasties of Europe. The Hohenzollern Empire of Germany, the Hapsburg Empire of Austria-Hungary and the Romanov Empire of Russia all went the way of the Imperium Romanum before them…into the misty and romanticized pages of history. In their places were created various new geopolitical entities ranging from ethno-states like Poland to multi-national states like Czechoslovakia. With some notable exceptions (like Yugoslavia) the new governments were republics.


Centuries of authoritarian, monarchial rule plus the exorbitant costs of the war left the new crop of leaders ill-equipped to deal with the problems afflicting their respective societies. Soon a wave of demagogues, strongmen and tinpot dictators would enter the picture, attempting to carve out a legacy for themselves in the ruins of postwar Europe.


In Hungary the Bolshevik revolutionary Béla Kun (née Cohn Béla) established a brutal, short-lived Communist regime (1919) before being overthrown in a disastrous war with Romania. He fled to the nascent Soviet Union where he lived, and continued to brutalize, until he was executed under Stalin’s orders in 1938 “…because he knew too much.” Kun’s brief reign was ironically instrumental in subsequently moving Hungarian politics far to the Right.


In one of the more laughable episodes of this period, on March 13th, 1920 a group of 5,000 Freikorps (German paramilitary volunteers) led by a man named Hermann Ehrhardt seized control of the city of Berlin, drove out the Weimar government, and installed a nondescript fellow by the name of Wolfgang Kapp as figurehead ‘Chancellor’. A group of rightists led by one General Walther von Luëttwitz was the real power behind the throne.


Kapp, a bespectacled bureaucrat and journalist, lacked the charisma to make a convincing frontman. Most of the other Freikorps and military commanders as well as conservative politicians refused to have anything to do with him or his “government”. Four days later the whole scheme fell apart when the Weimar Cabinet called for a general strike and Kapp fled to Sweden. The schlemiel died of cancer two years later while in German custody in Leipzig.


The only happening during the so-called “Kapp Putsch” worth noting was the effect a singular, harsh incident associated with it (the shooting of a rambunctious, small boy by several Freikorps troops) would have on an eyewitness: a young Austrian veteran of the German Army by the name of Adolf Hitler. Several years later in his book Mein Kampf he would remark it was his first lesson in the use of force to rule the masses.


While its monarchy survived the war, Italy was not immune to the intrigues of demagogues. One, in fact, would eventually seize power in 1922. Four years later he would proclaim himself dictator while keeping the King around as a figurehead. His name was Benito Mussolini. As Il Duce he would march Italy nearly to its ruin in World War II. Before all this happened, however, he would have to contend with another forceful personality who very nearly ‘stole his thunder’. Though Mussolini won the contest, he was nonetheless profoundly influenced by this most remarkable individual whose biography is studied to this day by those fascinated with the lives of “those who dare”.


Place of birth in Pescara

(Courtesy of Wikimedia Commons)

Gabriele D’Annunzio was born on March 12th, 1863 in the town of Pescara, Abruzzi. Just a couple of years earlier the region had been part of the Kingdom of the Two Sicilies before its conquest by Giuseppe Garibaldi. Some controversy apparently exists among historians as to D’Annunzio’s birth name. His father, Francesco Paolo Rapagnetta, had been adopted at the age of 13 by a childless uncle named Antonio D’Annunzio. He was raised with the surname Rapagnetta-D’Annunzio. In 1858 he married Luisa De Benedictis, by whom he had five children – three girls and two boys. According to Professor John Woodhouse (Fiat-Serena Prof. of Italian Studies, Univ. of Oxford), at the time of Gabriele’s baptism Rapagnetta had been dropped and the elder boy was officially registered as Gabriele D’Annunzio. Later in his life he would take to writing his surname as “d’Annunzio” to give it a more noble air.


Francesco Paolo had inherited half of his uncle’s fortune and as a result Gabriele and his siblings grew up fairly well off. His father, however, was a notorious drinker and womanizer who kept a string of mistresses. This caused no small amount of ill feeling between father and son. The level of dysfunctional feelings in the D’Annunzio family household was revealed when Gabriele refused to travel a short distance to be with his father before he died. After his father’s death, Gabriele realized the family had been saddled with heavy debts, forcing him to sell the D’Annunzio country home.


Gabriele D’Annunzio’s talents as a writer, as well as his disregard for personal danger, were recognized early in his life. An oft-repeated tale goes that a local fisherman had once given the boisterous lad a mussel to eat. In trying to pry it open he accidentally stabbed himself in the left thumb, bleeding profusely. Instead of running home to his mother for aid, he first ate the mollusk before binding the wound himself.


Originally tutored at home, at the age of 11 his father sent him to a prestigious boarding school, the Collegio Cicognini, in Prato, Tuscany. It must have made quite an impression on young Gabriele as years later he would describe this place as “…a plantation made in the images of the second Circle [of Dante’s Inferno], reducing the most vivacious of human saplings to ‘dried twigs with poison’. Oddly, he would later send both of his sons there when they were old enough.


D’Annunzio’s first brush with fame came in 1879 when he wrote and later published a small collection of 30 poems he entitled Primo vere. The poetry was written in the neo-Latin style of the great Tuscan poet (and future Nobel laureate) Giosuè Carducci. Against the rules of the Collegio Cicognini, he sent a complimentary copy of the book to Giuseppe Chiarini, one of Italy’s leading critics, who gave the book a mostly favorable review in the influential newspaper Il fanfulla della domenica.


Veiled bust of Eleonora Druse

(Photo by New York Scugnizzo)

It was also during his adolescent phase D’Annunzio discovered his fascination with, and his power over, women. He was known to have had at least several passionate affairs with females while still a teenager. Given his physique, this was certainly strange, for Gabriele D’Annunzio stood less than 5’6” tall, was slightly built, and had teeth that would make an Englishman envious! Yet despite this and the fact he would bald early in life, he was never lacking for female company.


In 1881 he entered l’Universita di Roma La Sapienza where he aggressively pursued a literary career by joining various literary groups and writing articles for a number of local newspapers. A year later he published his second volume of poetry, Canto novo, which illustrated his break with the austerity of Carducci’s style by its sensuality and exultation of nature. Some of the 63 poems in the book dealt with the poet’s love for the landscape of his native Abruzzi.


Shortly after this he published Terra Vergine (It: Virgin Land), a collection of short stories dealing with the hardships of peasant life in his native Abruzzi. It was inspired by the pen of noted Sicilian writer Giovanni Verga, who achieved fame by his tales of the grinding poverty in his own native Sicily. For this some accused D’Annunzio of copying Verga’s ideas and plots. Most, though, recognized the originality of D’Annunzio’s work, especially his penchant for the shocking and grotesque. This contrasted with Verga’s use of pathos to arouse sympathy in the reader. Their writings were similar only in the subject matter.


When circumstances forced him to temporarily ‘retire’ from his journalistic activities, he devoted himself to writing novels. His first, Il piacere (1889), was later translated into English as The Child of Pleasure. His next novel was Giovanni Episcopo (1891). It was his third novel, L’innocente (It: The Intruder), published in 1892 and later translated into French, that first brought him attention and acclaim from foreign critics. His pen worked feverishly after this, creating novels and books of poetry. Of the former, his novel Il fuoco (1900) is considered by many literary critics to be the most lavish glorification of any city (in this case, Venice) ever written. Of the latter, his book Il Poema Paradisiaco (1893) is considered among the finest examples of D’Annunzio’s poetry.


His entrance into upper-class Roman society came in the form of a young, attractive woman named Maria Hardouin di Gallese. He seduced and impregnated her in April of1893, marrying her four months later under a cloud of scandal. Maria was the daughter of a noble house, and her father, a duke, strongly disapproved of D’Annunzio as a son-in-law. He was even conspicuously absent from their wedding. Though initially smitten with his young bride, Gabriele would later develop the disinterest that characterized his relationships with women throughout his life. After bringing three sons into the world, D’Annunzio and his wife divorced in 1891.


It would seem only natural a man with his surpassing ambitions would develop an interest in politics, and in that regard Gabriele D’Annunzio would hardly defy convention. Taking advantage of a vacancy in the Italian Parliament, D’Annunzio campaigned for a seat representing Ortona a Mare in his native Abruzzi. It was at this time D’Annunzio the dramatist first made use of giving speeches from balconies to the masses, one of many innovations of his that his fascist protégé Benito Mussolini would later emulate.


By 1897 he was elected to the Chamber of Deputies where he sat for three years as an independent. His devil-may-care attitude, however, caused him to amass a sizable debt. He was eventually forced to flee Italy for France to escape his creditors. During his self-imposed exile he did not grow lax. Among his works he wrote the Italian libretto for Pietro Mascagni’s powerful but inordinately long opera Parasina. In 1908 he took a flight with aviation pioneer Wilbur Wright, which piqued D’Annunzio’s interest in flying. He proved to be an able aviator.


D'Annunzio's airplane navigator scroll (Photo by New York Scugnizzo)


World War I saw his return to Italy in the spring of 1915 where he campaigned extensively for that country’s entry into the war on the side of the Triple Entente (UK, France and Russia). Unbeknownst to him was the fact Italy had by April 26th, 1915 signed a treaty (known later as the Treaty of London) pledging to enter the war on the side of the entente powers. After Italy entered the war on May 23rd, 1915, he volunteered his services as a fighter pilot, taking part in many battles. The publicity he received fueled his already tremendous ego. On January 16th, 1916 while trying to fly over the city of Trieste, his flying boat was attacked by Austrian fighter aircraft. Forced to make an emergency landing, he sustained an injury to the right side of his head which left him permanently blind in his right eye.


In spite of this serious injury, he continued to fly missions into Austrian territory. In August of 1917 he led no less than three daring bombing raids on the Austrian port city of Pola (now Pula, Croatia). These raids became famous in part because of D’Annunzio’s insistence his Italian airmen celebrate the success of each raid by yelling out the ancient Greco-Roman battle cry of “Eia, eia, eia, alala!” instead of the more traditional Germanic “Ip, ip, urrah!” which he considered uncouth and barbaric.


D'Annunzio's model SVA (Photo by New York Scugnizzo)


On October 24th, 1917 Italy suffered its greatest defeat of the war in the disaster at Caporetto. On February 10-11th, 1918 he took part in a daring, if militarily unimportant raid, into Austrian territory now known as the Bakar Mockery. Though it achieved no physical military objective, it uplifted Italian morale which had suffered as a result of Caporetto while delivering a psychological blow to the Austrians.


D’Annunzio’s greatest feat during the war came on August 9th, 1918 when leading the 87th fighter squadron “La Serenissima” he dropped a total of 400,000 propaganda leaflets (50,000 of them painted in the colors of the Italian flag) over the city of Vienna, capital of the Austro-Hungarian Empire. This daring mission is immortalized in Italy as “Il Volo su Vienna” (It: The Flight over Vienna).


At war’s end the internationally acclaimed “fighter-poet” returned to Italy, his ultra-nationalist and irredentist feelings having been hardened by years of battle. With the collapse of the Hapsburg Empire of Austria-Hungary, he dreamed of Italy expanding into the Balkans by annexing lands historically inhabited by Italian-speaking peoples. It was a dream shared by many both in Italy and on the other side of the Adriatic Sea. What would follow would catapult Gabriele D’Annunzio to the pinnacle of the fame and controversy that characterized his life.


After the war Italian armies occupied considerable territory in the Trentino, South Tyrol, Venezia Giulia, the Istrian Peninsula, Dalmatia and most of what is now Albania. In fact, these were most of the lands promised them four years earlier by the entente powers.


What threw a monkey wrench in the works was a man named Woodrow Wilson, President of the United States. The U.S. had been a late entry into the war, and in the minds of American diplomats they didn’t have to abide by the terms of the Treaty of London. Since the administration of President Teddy Roosevelt, America’s WASP elites had turned their previous continent-specific belief in “Manifest Destiny” to a global arena. At the negotiations pursuant to the infamous Treaty of Versailles, Wilson let it be known he believed every recognizable ethnos had the right to self-determination (translation: America had vested business and political interests in the creation of the pseudo-nation known as Yugoslavia).


As documented by Prof. Woodhouse, Wilson also inherited that wonderful Anglo-American tradition known as anti-Italian bigotry. This tradition had revealed itself previously on numerous occasions, most notably on March 14th, 1891 when a total of 17 Sicilian-Americans were murdered by a lynch mob comprised of a good chunk of the adult male population of the city of New Orleans, Louisiana!


During the negotiations in Paris on April 23rd, 1919 the head of the American delegation went so far as to publish a column in the French newspaper Le Temps condemning what he called “Italian imperialism”. He arrogantly claimed Italian negotiators were acting “contrary to Italian public opinion” (without stating exactly how he knew this to be true).


The crux of all this was the city of Fiume (now Rijeka, Croatia). A number of powers (including America’s ‘good friend’ the UK) desired control of this strategically important area. Wilson was adamant Fiume be turned over to the nascent state of Yugoslavia to fulfill its right to ‘self-determination’. That the bulk of the citizenry was Italian-speaking and had already voted by a wide margin to become part of Italy was irrelevant.


D'Annunzio's Uniform

(Photo by New York Scugnizzo)

D’Annunzio the pan-Italian ultra-nationalist was furious with what he saw as American interference in what was basically an Italian affair. In a series of speeches he whipped up the Italian masses in preparation for his “grand adventure” in Fiume. His speeches denouncing the treachery of the Allies and the arrogance of Wilson were given wide coverage in the American press, which gratuitously heaped anti-Italian invectives on him in turn.


It also didn’t help the Italian government’s case that numerous private individuals besides D’Annunzio were taking matters into their own hands. Benito Mussolini by this time had organized his first bands of squadristi (the future Blackshirts) to battle his political opponents and pave the way for his eventual takeover of Italy. Giovanni Host-Venturi, a captain of the Arditi (elite Italian storm troopers during World War I) and a Major Giovanni Giuriati formed the Legione Fiumana (Fiume Legion) to take the port city by force, if necessary. American, British and French critics pointed to this as “proof” the Italians could not be depended upon to correctly administer the territories promised them.


On September 12th, 1919 at the head of a motley force of 2,500 irregulars, Gabriele D’Annunzio the “fighter-poet” invaded the city of Fiume. The inter-Allied force of British, American and French soldiers garrisoned there chose not to force a confrontation in order to avoid an international incident with their Italian allies. Instead they withdrew. From the governor’s balcony D’Annunzio addressed a throng of the citizenry and informed them of his plan to annex Fiume to Italy. Their wildly enthusiastic response affirmed in his mind the justness of his actions.


The Italian government, however, was not so enthusiastic. General Pietro Badoglio telegraphed the Italian soldiers who had followed D’Annunzio into Fiume that they were guilty of desertion. D’Annunzio reacted by publicly condemning the government for its weakness and indecision.


Similarly, he lashed out (though privately) at Mussolini, who up until this time was a partner in D’Annunzio’s endeavor. D’Annunzio had expected material support from Il Duce. Mussolini, however, was not yet strong enough to make such a move and chose to bide his time, instead. He even went so far as to edit and then publish the highly vituperative letter D’Annunzio had written, denouncing him, to make it seem the poet-hero was in fact supportive of him. Only in 1954 was the text of the original letter published. By then, though, D’Annunzio’s name had become so thoroughly linked with Fascism few were willing to stick their necks out to expose the true contempt he had early on developed for Mussolini and his movement.


Italian Prime Minister Francesco Saverio Nitti, realizing the weight of popular opinion was with D’Annunzio, offered him generous terms, among which was a general amnesty for him and his men. Fiume and surrounding territories would also be ultimately joined with Italy. All should have proceeded smoothly after this, but for the fact that it was now D’Annunzio himself who began to stonewall. A referendum by the people of Fiume seemed supportive of Nitti’s offer; D’Annunzio declared the vote null and void.


Apparently Gabriele D’Annunzio, like Gaius Julius Caesar 2,000 years before him, had become addicted to the powers he now wielded. The notoriety, and the legion of female admirers now at his disposal, didn’t hurt either. He rejected Nitti’s offer.


The government in Rome then demanded the plotters surrender and sent a naval task force to blockade Fiume. Things became embarrassing, however, when a number of Italian sailors, including basically the entire crew of the destroyer Espero, joined up with D’Annunzio’s forces. It has also been long alleged that a number of sympathetic rightists in Northern Italy’s industrial community clandestinely shipped supplies to D’Annunzio’s forces (in violation of the blockade) while claiming losses due to ‘piracy’.


Renato Brozzi Fiume medal

(Photo by New York Scugnizzo)

In retaliation for the blockade D’Annunzio declared Fiume an independent state, the Reggenza Italiana del Carnaro (It: Italian Regency of Carnaro) with himself as Duce. This was the closest he came to becoming the Renaissance despot he dreamed of being. As Duce he indulged his megalomania, giving balcony speeches, surrounding himself with military trappings, black-shirted followers and fostering a cult of personality.


With the help of Italian syndicalist Alceste De Ambris he wrote a constitution for Fiume, the Carta del Carnaro (It: Charter of Carnaro), which combined elements of syndicalist, corporatist and liberal republican ideals. The Charter stipulated that Fiume was a corporatist state, with nine corporations controlling various sectors of the economy and a tenth, created by D’Annunzio, representing the people he judged to be ‘superior’ (poets, prophets, heroes and “supermen”).


It must be mentioned D’Annunzio’s idea of the ‘superman’ was more in line with the philosophical vision of Nietzsche rather than the racial one of Hitler. It is also worth noting the Charter declared music to be the fundamental principle of the state. This document plus D’Annunzio’s antics in Fiume greatly interested Benito Mussolini and in no small way influenced the future course of Fascism in Italy. In fact, D’Annunzio has been described by his detractors as the “John the Baptist of Fascism”.


On November 12, 1920 Italy signed the Treaty of Rapallo with the newly-formed Kingdom of Serbs, Croats and Slovenes (renamed Yugoslavia in 1929) which, among other things, established Fiume as the independent “Free State of Fiume”, effectively ending D’Annunzio’s dictatorship. D’Annunzio responded by declaring war on Italy. By this time it was obvious his hold on the city was crumbling. On Christmas Eve Italian troops invaded Fiume in the face of stiff resistance from diehard loyalists. A naval artillery shell from the Andrea Doria through the window of his headquarters impressed upon him the wisdom of surrender.


In a way, though, he won. Fiume would be a de facto Italian possession by 1924. It would remain so until the end of World War II when the victorious Allies would pry it from Italian hands and give it to Yugoslavia (after the ‘ethnic cleansing’ of its Italian population).


Far from returning with his tail between his legs, D’Annunzio’s popularity with the Italian populace was actually enhanced by his Fiume adventure. In spite of claims by many of his Fascist sympathies, he consistently refused to have anything to do with the movement. He even ignored fascist entreaties to run in the elections on May 21, 1921.


Piazza G. D'Annunzio, Ravenna (Photo by New York Scugnizzo)


In spite of this, Mussolini regarded the erstwhile dictator as a rival for his future control of Italy. His fears were probably well-placed as by this time a number of high-ranking members of the Fascist Party of Italy, including Blackshirt leader Italo Balbo, seriously considered the idea of turning to D’Annunzio for leadership. Thus, on August 13th, 1922, when Gabriele D’Annunzio fell out of a window two days before a scheduled meeting with Mussolini and Italian PM Nitti, many believed (and still believe) he had ‘help’ from some of Il Duce’s thugs.


D’Annunzio’s injuries as a result of his fall incapacitated him, leaving him unable to witness Mussolini’s triumphal “March on Rome” (October 22-29, 1922). After this he withdrew from politics, though he still from time to time “stuck his two cents in” many of Mussolini’s decisions. In 1924, after Italy formally annexed Fiume, D’Annunzio was ennobled the Prince of Monte Nevoso by the King upon the ‘recommendation’ of Mussolini. He approved of the Italian invasion of Ethiopia in 1935. However, he was adamantly opposed (along with Italo Balbo) to Mussolini having anything to do with Adolf Hitler, whom he contemptuously referred to in a letter to Mussolini as a marrano (Sp: swine).


Mussolini, for his part, was content to leave D’Annunzio alone after his ascension to power, preferring instead to regularly dole out large sums of money to him to finance his various egocentric projects. The most notable of these was a museum to himself D’Annunzio began during his lifetime, dubbed Il Vittoriale degli Italiani (It: The Shrine of Italian Victories) and located at his estate in Gardone Riviera, Lombardia. It contains his mausoleum.


Gabriele D’Annunzio died on March 1st, 1938, presumably of a stroke. His death caused a period of national mourning throughout Italy and beyond. Even in countries now hostile to Italy his passing was noted with sorrow. No less than The Times of London published this eulogy of him under the heading “The Spirit of the Cinquecento”:


Poet, novelist and politician, dramatist and demagogue, aesthete and soldier, Gabriele D’Annunzio, Prince of Monte Nevoso, is dead. No poet of our time has led a fuller life than this Byron of the modern world […] showed himself a fighter of dauntless courage and a politician who swayed the fortunes of Europe […] bore his wounds with stoic fortitude.


After his death his memory would be all but buried with him for the next 50 years. Scholars in recent decades, however, have shown a renewed interest in his life and works.


It would be simple to dismiss him as a mere hedonist and fascist (as many have done), ignoring his many contributions to the fields of journalism, poetry and drama. In truth, he was no fascist at all, for Gabriele D’Annunzio served neither Mussolini nor Fascism. He served no one and nothing other than his own ego and surpassing ambitions. His inability to form a lasting relationship with women, plus his penchant for decadent living, were perhaps his greatest personal flaws, but history has a habit of forgiving earth-shakers their frailties. His love of nature and aesthetics, as well as his utter rejection of Hitler, put him on a much higher plane than the plebe who became ruler of Italy. Had he lived in an earlier time, today he might be numbered with other tragic heroes who tried and failed like Cola di Rienzo or even Pompey the Great. His legacy is most certainly clouded by the politics of our times. His biography remains a case study of one of the most fascinating and striking personalities of the early part of the 20th century.


Niccolò Graffio


Further reading:

• John Woodhouse: Gabriele D’Annunzio: Defiant Archangel, Clarendon Press, 1998

http://www.gabrieledannunzio.net/english/index.htm

 

mardi, 05 avril 2011

Michel Drac: Pour une troisième voie économique!

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Boomerang libico per un fragile Occidente

Boomerang libico per un fragile Occidente

di Raffaele Sciortino

Fonte: megachip [scheda fonte]


obamabushgradual

 

È dunque tornata la guerra umanitaria. Entrata nel sistema dell’informazione e di qui nell’immaginario collettivo, non c’è neanche più bisogno di virgolettarla. Ritorna però in un contesto del tutto mutato rispetto agli anni Novanta. Ieri, sull’onda lunga della caduta del Muro e con la finanziarizzazione in piena ascesa, gli States avevano in mano saldamente l’iniziativa e potevano elargire promesse ai nuovi arrivati nel consesso delle democrazie occidentali. Oggi siamo dentro una crisi globale che è un aspetto dello smottamento profondo e strutturale dei meccanismi di riproduzione della vita sociale complessiva (vedi Fukushima). L’interventismo umanitario non ha l’iniziativa. La guerra alla Libia è reazione.

 

Reazione alla prima fase della sollevazione araba. Reazione di poteri voraci ma in affanno contro i possibili passaggi di radicalizzazione di un moto ampio e profondo in pieno svolgimento che sta intrecciando, dal basso, istanze di dignità, potere e riappropriazione. E che non ha bisogno di “aiuti” ma piuttosto rimanda un messaggio di possibile costruzione di un percorso comune di lotta e emancipazione.

 

Confitto di narrazioni

 

È da questa visuale - rovesciando la narrazione “democrazia”/tirannide o pro/contro Gheddafi - che è possibile sfuggire alla trappola-ricatto del dispositivo Onu “a protezione dei civili” sbandierato dall’”onesto” Napolitano e dalla macchietta Berluska, e all’ipocrita giustificazione dell’intervento da parte di chi voleva mandare i poliziotti francesi contro le piazze tunisine, come Sarkozy, o come Obama si muove con il double standard di sempre rispetto ai governi da sostenere o disarcionare e, ancor più cinicamente, ai morti buoni o cattivi. Le bombe sulla Libia fanno il paio con l’appoggio di Washington all’asse militari-fratelli musulmani concretizzatosi nel referendum costituzionale egiziano di pochi giorni fa a sancire la “transizione ordinata” auspicata dall’amministrazione Obama. Fanno il paio con l’avallo statunitense alla repressione dei moti in Bahrein, dopo l’ingresso di truppe saudite nel paese che ospita la base della V flotta, con il via libera a nuovi raid israeliani, con la situazione in Yemen e altro ancora.

 

Sono i movimenti che nulla hanno da farsi perdonare rispetto a certi indifendibili personaggi a poter costruire una propria autonoma posizione. Non è facile, certo, in quanto la strategia occidentale sta cercando di rimettere piede nell’area utilizzando come varco non solo l’occasione offerta dalla repressione gheddafiana ma proprio le istanze detournate in senso reazionario delle stesse insorgenze arabe. Ma neanche impossibile se riusciamo a ricollegarci con il senso profondo di queste istanze che è quello di rimettere in discussione un ordine globale sempre più ingiusto, incerto e onnivoro che sta scaricando i costi della crisi sui soliti noti, senza alcuna ricetta alternativa. E se dal mondo arabo salirà ancora più alta e ampia la protesta delle piazze.

 

Partiamo da un dato. L’intervento umanitario non sembra convincere. Non convince le piazze della Primavera araba che hanno costretto la stessa Lega Araba a tornare un poco sui propri passi. Non i “paesi emergenti” che - a ragione, e con l’aggiunta di Berlino - intravedono nella prima guerra tutta di Obama il segnale di una rinata tentazione U.S. a fronte di una crisi globale irrisolta. E neanche una buona parte della gente comune in Occidente, passiva è vero, ma il cui sentire è assai differente dai tempi della guerra kosovara. La coalizione dei volenterosi - reminescenza bushiana non casuale - si è mostrata fin qui litigiosa e soprattutto divisa su interessi tutt’altro che ideali, ma lo stesso mandato Onu sta perdendo di credibilità in particolare nell’opinione araba a misura che si è rivelato un lasciapassare per massicci bombardamenti (significativa la contestazione al Cairo contro il segretario generale dell’Onu da parte dei ragazzi del 25 gennaio). E se da Washington a Parigi e Londra la parola d’ordine - ora anche pronunciata a voce alta - è far fuori Gheddafi, questo vorrà dire bombardamenti continui e ancor più massicci e truppe di terra, o al minimo spaccare in due il paese, se non ridurlo ad una situazione tipo Somalia. La vicenda potrebbe dunque non chiudersi in poche settimane.

 

In quest’ottica - presupponendo il quadro, tutt’altro che lineare, aperto dalle soggettività in rivolta nel mondo arabo - proviamo qui a mettere a fuoco il ruolo peculiare di Washington e a schizzare i contorni geopolitici, peraltro in continuo movimento, della situazione.

 

Le due interpretazioni dell’intervento

 

La svolta interventista di Washington è maturata dopo una discussione assai accesa all’interno dello staff della Casa Bianca grazie alla spinta decisiva della Clinton, supportata da un’aperta alleanza tra neocons riciclati e internazionalisti liberali[1], contro le forti e aperte remore del Pentagono[2] e dei realpolitiker[3]. Se ne danno grosso modo due interpretazioni. Secondo la prima - ad esempio Lucio Caracciolo di Limes - si tratta di una decisione in cui Washington sarebbe stata tirata per i capelli dal protagonismo francese dentro un quadro di incertezza sul che fare rispetto al rimescolamento di carte in corso nel mondo arabo. Non si tratterebbe allora di un’american war, anche se ovviamente l’apporto militare statunitense resta indispensabile. Le affermazioni della Clinton sulle unique capabilities degli States sarebbero una subordinata del mesto/onesto riconoscimento obamiano “Non guidiamo noi la coalizione”. Una lettura, questa, cui pare sottesa la tesi del “declino americano”[4].

 

C’è invece una lettura che invita a guardare alle azioni che, come scrive il Washington Post[5], parlano più chiaro e a voce più alta delle dichiarazioni. Innanzi tutto, senza la garanzia della messa in moto del dispositivo militare e di comando statunitense Sarkozy non sarebbe stato in grado di muoversi e tanto meno di annichilire le forze aeree e le infrastrutture militari libiche. Questo è un dato evidente se si guarda a marca e numero dei missili lanciati. Mentre il galletto francese si pavoneggiava con il giullare-philosophe Levy, il direttore del comando congiunto delle forze armate U.S. dichiarava al Pentagono nel piano linguaggio lockiano: “Siamo al comando delle operazioni militari”. Inoltre, il ruolo giocato da Washington è stato decisivo nel varo - con “straordinaria velocità” scrive il NYT - della risoluzione Onu 1973 e in particolare della sua formulazione assai ampia ed estremamente flessibile basata sul principio della Responsability to Protect.[6] “A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa”.[7] Il “capolavoro” politico del presidente: lavorare dietro le quinte lasciando la scena agli europei per coinvolgere Onu e Lega Araba.[8]

 

 Regime change versione Obama

 

Insomma, ad un’analisi più attenta non si può negare l’incertezza che regna a Washington ma neanche il suo ruolo guida peculiare nella nuova impresa libica. Un ruolo in vesti formalmente multilaterali ma dentro un contesto inedito che le interpretazioni correnti colgono solo tangenzialmente. L’incertezza, le esitazioni e titubanze, la confusione sulla catena di comando, il lasciar spazio ai protagonismi francese e inglese, si spiegano innanzitutto a fronte dell’insorgenza in corso e dell’obiettiva difficoltà per Obama di non perdere la regione entro un rimescolamento profondo che comunque gli Stati Uniti non possono impedire. Bloccarlo difendendo uno status quo che va sbriciolandosi significa rischiare di perdere tutto. La partita va giocata dall’interno del cambiamento piuttosto che aggrappandosi ad una realtà oramai indifendibile. (Quasi si trattasse per Obama di recuperare all’esterno quella spinta al change esauritasi all’interno). [9]

 

Per l’amministrazione statunitense a ben vedere “la Libia conta non per il suo petrolio o l’ intrinseca rilevanza, conta perchè è un elemento chiave della turbinosa trasformazione del mondo arabo”. [10] Detto in altro modo, la partita libica se per Parigi è questione di compensare a danno di Roma la perdita della Tunisia (con un occhio alla “sua” Africa), per Washington è un varco che si apre assai opportunamente non solo per mettere piede militarmente ed economicamente in una sfera già europea a rischio di inserimento cinese - bissando così il successo della secessione in Sudan - ma soprattutto per condizionare e cauzionare politicamente l’insorgenza araba in corso.

 

Inserirsi in Libia, con forze militari discrete e soprattutto con un regime amico “democratico” e una ritrovata legittimità agli occhi del mondo arabo, proprio ai fianchi dei due paesi in cui le masse finora si sono mosse con più radicalità nel tentativo di riprendere nelle proprie mani il futuro: ecco, se riuscisse, il vero capolavoro. Nelle parole del presidente pronunciate all’incontro della Casa Bianca in cui ha optato per l’intervento: Questa è la più grande opportunità di riallineare i nostri interessi coi nostri valori. [11] Supportando o creando un regime amico - anche appaltato ai partner europei - nel nuovo contesto regionale. E insieme generando rivalità nazionali e confusione tra le masse. Si sfrutta qui un dato reale: il posizionamento nei confronti degli eventi, davanti a un Gheddafi che fino all’ultimo ha sostenuto Ben Ali, non è facile neanche per le piazze arabe. Mentre è chiaro che, se è vera la notizia di aiuti militari dell’esercito egiziano ai ribelli libici nel mentre dell’aggressione occidentale, ne uscirebbe rafforzata la subordinazione a Washington del quadro politico post-Mubarak. Ben diverse sarebbero infatti la natura e le modalità dell’aiuto di un Egitto rivoluzionario alla popolazione libica tutta contro un regime reazionario: ma dubitiamo che avrebbe l’avallo Onu...

 

La decisione che a molti è apparsa improvvisata si è sicuramente definita all’immediato per il rischio di perdere Bengasi e dunque un supporto locale per il regime change. Era però stato proprio Obama a fine febbraio[12], e lo ha ribadito durante il recente viaggio in America Latina, ad affermare che il rais libico deve andarsene. Dunque non la preoccupazione per i civili ha mosso un’amministrazione che non pare così solerte nel caso di regimi alleati come Bahrein e Yemen e continua impunemente a fare stragi coi droni dai cieli di Afghanistan e Pakistan. In realtà, il viaggio della Clinton in Tunisia ed Egitto nei giorni immediatamente precedenti ha fatto suonare il campanello d’allarme: proteste e scontri a Tunisi in occasione della sua visita e rifiuto di incontrarla da parte dei giovani del 25 gennaio al Cairo. [13] Dove stanno andando il cuore e le menti dei giovani arabi? Meglio affrettare il “rientro”...

 

Certo, la politica Usa corre su di un filo. La situazione per certi versi è più difficile in termini politici che non durante gli eventi di piazza Tahrir. Il riposizionamento di linea deciso in quel frangente per una “transizione ordinata” [14] è oggi messo alla prova. Quello che non si può dire però è che quel riposizionamento sia del tutto improvvisato. Al di là del discorso obamiano del Cairo, la Direttiva Presidenziale 11 dell’agosto dell’anno scorso avvisava che “la regione sta entrando in un periodo critico di transizione” e invitava ad affrontare gli inevitabili “rischi aprendo ai popoli del Medio Oriente e del Nord Africa la graduale ma reale prospettiva di una maggiore apertura politica”. [15] Obama mostra più lungimiranza dei suoi critici realisti. Per Washington lo status quo non è (più) stabile...

 

Strategia Usa e comune araba

 

Questo non significa affatto che la strategia di intervento fosse bell’e pronta a tavolino. L’impressione di una certa dose di improvvisazione persiste e alimenta critiche insieme alla non completa chiarezza sulla catena del comando e sugli obiettivi di medio termine dell’attacco. (Anche se, va detto, le difficoltà nel passare completamente il comando alla Nato come braccio armato di una risoluzione Onu per molti paesi indigeribile sono dovute non tanto alla grandeur francese ma assai più alle remore di Berlino e Ankara; e l’obiettivo di far fuori Gheddafi è condiviso da tutti, solo certe “anime belle” fanno finta di non saperlo).

 

Ma che non ci sia alcun piano lucidamente pensato a tavolino è dovuto principalmente al fatto che la dinamica dell’ondata che sta scuotendo i regimi arabi non è prevedibile nè controllabile da nessuno. Ed è questa la variabile indipendente che accelera e precipita gli eventi. E può determinare il successo o l’insuccesso dell’impresa occidentale in Libia, non tanto in termini militari quanto politici.

 

E qui si fanno avanti i rischi, emergono le fragilità degli Stati Uniti a fronte di un moto che potrebbe andare ben oltre le prime importanti acquisizioni immediate, oltre e contro i blocchi esterni e le interruzioni proprie di un percorso che ovviamente non ha nulla di predeterminato. Quali le contraddizioni che l’intervento militare può far emergere?

 

Primo. La mistura di hard e soft power Usa al suono dei missili seppur con un profilo di iniziativa defilato dietro gli “alleati” - della banda anche qualche emirato arabo - non è affatto detto che riesca convincente o anche solo indifferente agli occhi delle piazze arabe. E, anche al di là di segnali visibili (solo in Tunisia c’è stata qualche manifestazione ma non di massa contro i bombardamenti), non è detto che riesca a incanalare in senso filoccidentale quelle energie impegnate in prima istanza a far pulizia interna contro i diversi regimi dell’area.

 

Secondo. C’è stato un evidente scambio tra l’intervenire in Libia e il lasciar correre da parte di Washington rispetto alla repressione in atto nella penisola arabica. Non si tratta solo degli intrallazzi dei Saud per armare i ribelli libici, come documentato da Robert Fisk[16], delle loro pressioni su Francia e Gran Bretagna per l’intervento, della propaganda antilibica di Al Jazeera e della sua s/copertura rispetto ai bombardamenti su Tripoli, e di altre finezze del genere. Si tratta principalmente del fatto che se e quando nel cuore delle petro-monarchie la ribellione inizierà ad ampliarsi, il conto sarà presentato anche ad Obama. Nel Bahrein questo è già evidente. Certo, Washington non lo pagherà questo conto fino a che gli emiri non saranno caduti.

 

Terzo. La Libia potrebbe non essere una passeggiata per la coalizione dei volenterosi. Il consenso a Gheddafi, non solo a Tripoli, pare non proprio minoritario e anzi aumenta proprio a causa dei bombardamenti, secondo il Washington Post. [17] Questo mentre le forze dei ribelli potrebbero non essere da sole sufficienti a procurare il cambio di regime agognato. Si tratterà di vedere se dall’interno del campo gheddafiano verrà fuori una carta di ricambio. In ogni caso difficile prevedere stabilità per un paese la cui popolazione si è di fatto spaccata in due, tra repressione del rais e invocati bombardamenti stranieri.

 

Quarto. Quanto andrà avanti la passività tra la gente comune in un’Europa prossima al teatro di guerra? Passività dovuta non all’incomprensione del gioco che si sta giocando, ma allo smarrimento tra gli effetti della crisi globale e l’incapacità di legarsi attivamente, al di là della sorpresa e di una generica simpatia, alla sollevazione araba. Le rinate pulsioni di chiusura xenofoba in relazione al temuto arrivo di “ondate” di profughi sono il riflesso stravolto della ripresa di parola e dignità nel mondo arabo. Al medesimo albero sembrano appesi frutti marci e promettenti primizie.

 

Quinto. Se Obama dovesse impantanarsi in Nord Africa, nella sua war of choice, senza un ritorno immediato dall’ennesima avventura militare, i nodi critici dell’indebitamento statunitense e della crisi economico-sociale interna potrebbero diventare difficilmente gestibili.

 

Tutto ciò costringe i volenterosi a procedere con una qualche “cautela”, anche in termini militari. Costringe Washington all’understatement rispetto a ruolo e obiettivi.[18] Che è anche la ragione di fondo di quello che appare il caos nella catena di trasmissione fra strategia politica e comando delle operazioni militari. Lo esprime nel consueto asciutto linguaggio l’Economist: “Difficile pensare a un’impresa militare concepita con così tanti dubbi e ansie”.[19] Le incognite sono molte. Il successo della scommessa di Obama dipende... dal successo.

 

Non in termini prioritariamente militari, di nuovo. Il vero ostacolo alla politica di Obama sta nella reazione delle piazze arabe, nella loro capacità di portare fino in fondo la propria spinta senza farsi scippare la rivoluzione ma conquistandosi in questo percorso una effettiva ancorchè non facile autonomia. [20] Costruendo potenza in tutte le dimensioni a partire dalla capacità di ricomporre le istanze di libertà e democrazia con la spinta a riappropriarsi della produzione e riproduzione della vita. Quanto più l’opposizione ai regimi si rafforza su questo piano autenticamente di massa costituendo un nuovo soggetto “multitudinario”, tanto più diverrà difficile per l’Occidente precipitarsi ad “aiutarla”. [21] La rivoluzione araba non ha bisogno di un pezzetto di presente da redistribuirsi settorialmente o territorialmente, magari con le armi e però sotto lo sguardo di nuovi interessati tutori, ma piuttosto di un mondo comune da ricostruire.

 

Il che, detto con la cautela dovuta alla scarsissima informazione e senza concessione alcuna al rais libico, pone dei seri punti di domanda su quanto sta dandosi a Bengasi. Se è vero che, come ha scritto finanche il sito di Al Jazeera - tutt’altro che filo-gheddafiano - i ribelli libici “con poche armi e disperati, non sorprende abbiano invocato l’aiuto internazionale... mettendo però a rischio la propria indipendenza”. [22]

 

Europa, Europa

 

Una delle principali conseguenze del protagonismo francese è la rottura con Berlino. Davvero un bel risultato in prospettiva per la Francia e l’Europa. Il cow-boy parigino ha saltato la fila per bombardare prima degli altri ma, quel che è più ridicolo, pensa davvero di aver preso l’iniziativa. Se ne accorgerà presto anche se cercherà di coprire i danni con la sua parte di bottino... sottratta all’altro pagliaccio italiano che si sta contorcendo in tutti i modi per apparire anche lui volenteroso in vista dei residui dividendi da non perdere del tutto. Inutile cercare da queste parti qualsivoglia prospettiva di qualche respiro. Del resto cosa aspettarsi da figuri che hanno sostenuto fino all’ultimo Ben Ali e Mubarak.

 

La Germania non è della partita. Merkel ha operato uno strappo rispetto alla santa alleanza occidentale guardando non solo ai propri interessi energetici e alla propria opinione pubblica ma al legame in prospettiva con l’Oriente e i paesi emergenti coi quali Berlino è in grado di interagire attraverso prodotti e investimenti. Una mossa che, abbinata alla prospettiva di accelerare la fuoriuscita dal nucleare, sta già procurando alla cancelliera malumori nel suo partito, critiche dalle diverse voci interventiste, anche in parte di verdi e socialdemocratici - ah!, la “sinistra” europea - e velate minacce dagli ambienti statunitensi che rinfacciano a Berlino di non saper giocare da global player... alle loro regole. [23]

 

Il meno che si possa dire è che l’Europa nel suo insieme si sta pienamente meritando questa deriva. Incapace di dare una purchè minima risposta in positivo alle istanze provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo, succube di meschine rivalità nazionali, senza alternative effettive alla crisi della finanziarizzazione. Si vedrà se la spaccatura tra Parigi e Berlino avrà ripercussioni sulla capacità europea di reagire al prossimo tornante della crisi e agli attacchi speculativi ai debiti sovrani, che il quasi default portoghese potrebbe annunciare. E’ chiaro che l’offensiva obamiana per un “nuovo” Medio Oriente, anche con le armi, preannuncia la ferma intenzione di Washington di far pagare a altri i costi maggiori della crisi globale tutt’altro che risolta.

 

Di fronte a ciò resta che nessuna centralizzazione della governance economica europea, che pure Berlino ha portato avanti in questo ultimo anno, può alla lunga fare a meno di una stretta politica. E qui ritorna per il vecchio continente, e in particolare per Berlino, il dilemma di sempre: come possono le classi dirigenti riunificarsi senza rischiare di unificare il proletariato? Ovvero, come creare una efficace sovranità a un livello sovranazionale senza passare per un potere costituente? La multilevel governance è solo un palliativo...

 

Impero in crisi?

 

Se la Germania conferma la linea già seguita nel 2003, con coerenza non succube dell’obamamania, l’altro dato significativo è il configurarsi del fronte anti-interventista Brasilia-Mosca-Delhi-Pechino (Bric) che a sua volta dà oggettivamente ancora più risalto alla scelta tedesca. Esso ha poi fatto inevitabilmente da sponda ad altri soggetti statuali come il Sudafrica, all’inizio favorevole alla no-fly zone, e più in generale all’Unione Africana. C’è poi l’attivismo della Turchia - cerniera tra diverse aree geopolitiche e geoeconomiche, punta a giocare un ruolo di punta nel “nuovo” Medio Oriente nei fatti in concorrenza con il tentativo obamiano - che si frappone a un intervento targato Nato che “punti il fucile contro il popolo libico”.

 

La domanda che torna insistentemente anche in questa vicenda è se si sta facendo strada un'altra sponda, rispetto all'America e ai suoi alleati europei, se non addirittura un possibile assetto mondiale alternativo all'Occidente. La prima cosa è evidente ma tutt’altro che scontata. La seconda pare ad oggi solo un’opzione teorica. Ma al di là di un tema complesso e dai contorni indistinti, alcune riflessioni si possono fare a partire proprio dalla vicenda libica e più in generale dalla sollevazione delle piazze arabe.

 

Quello che vediamo sul versante statuale “anti-americano” è innanzitutto una reazione difensiva. E’ evidente, ad esempio, che Pechino ha tutto da perdere dall’eventuale successo dell’offensiva statunitense in Africa. Il rischio non è solo economico, è politico - basta pensare al Tibet - così come per la Russia nelle sue pur sempre instabili periferie. Ma il problema per questi paesi - a parte forse il Brasile però troppo distante - è che realisticamente non possono fare da sponda alle piazze arabe, in senso politico - desideri, immaginari e istanze di change - e sul piano finanziario a meno di scontrarsi direttamente con il comando globale del dollaro. Non è un caso allora che gli avvenimenti in Tunisia e Egitto abbiano messo in seria preoccupazione, ma per motivi opposti a quelli di Washington, anche Pechino minacciata nella sua “ascesa invisibile” sia dal moto delle masse sia dalla controffensiva a stelle e strisce. Se l’operazione Obama riuscisse gli States ne uscirebbero rafforzati anche nei confronti della Cina. Transitoriamente, certo, chè appena si ponesse in tutta la sua drammaticità il nodo della divisione internazionale del lavoro e del prelievo finanziario allora... Ciò non toglie che le pulsioni che promanano dal basso non sono certo in procinto di prendere il volo per l’Asia.

 

Questo non significa sopravvalutare la capacità di cattura del capitalismo occidentale. Ci porta anzi a provare a porre in altri termini quello che viene spesso presentato come il declino degli Stati Uniti. L’indebolimento relativo, su tutti i piani, degli Stati Uniti è un fatto. Il terremoto sociale e politico in Medio Oriente e in Nord Africa è uno scossone all’ordine americano (basta guardare ai timori di Israele). Ma più che rinviare in prospettiva alla successione egemonica di un’altra potenza in ascesa andrebbe letto nel quadro dello sfrangiamento, se non di una vera e propria disarticolazione, del sistema internazionale nel suo insieme, in controluce con la dinamica della crisi globale di cui in Occidente ancora non si sono visti gli effetti più dirompenti. Di qui lo “scongelamento” dei fronti geopolitici e dei blocchi sociali, di qui l’indeterminatezza crescente di alleanze, forme di governance e policies. In questo quadro non possiamo consolarci nè con l’idea di processi deterministici nè specularmente con l’immagine di un caos indistinto in cui tutte le vacche sono nere. Fuor di metafora: bisogna pur sempre fare i conti con la capacità degli Stati Uniti, incrinata ma non scomparsa, di farsi soggetto di ordine per l’insieme del sistema capitalistico globale. Un ruolo, è vero, sempre più parassitario e predatorio (e percepito come tale) ma comunque sia, pur nell’intensificarsi delle dinamiche competitive intercapitalistiche, senza sostituti credibili in vista. È su questa “rendita di posizione sistemica”, poggiante su un apparato finanziario e cognitivo ancora ineguagliato, che Washington può permettersi di fare ciò che il suo indebitamento vieterebbe a qualunque altra potenza. Non pare allora, allo stato, risolvibile questa situazione ibrida fra una configurazione imperiale, in cui le dinamiche competitive vengono sussunte ad una gerarchia polimorfa ma unitaria, e la classica dinamica imperialistica, in cui la competizione alla fine prevale sulla cooperazione intercapitalistica. Forse dovremo abituarci al fatto che la crisi è anche questa situazione ibrida.

 

Donne e uomini di qua e di là del Mediterraneo hanno di fronte una scelta di campo che può sfuggire alle regole del gioco imposte dai poteri globali. Dire no senza se e senza ma alla guerra, nel nuovo quadro determinato dalla crisi globale, vuol dire iniziare a creare un terreno comune contro quelle regole. Su tutto il resto possiamo e dobbiamo discutere. Ma avendo individuato il nostro battleground.

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/estero/1307-raffaele-sciortino-boomerang-libico-per-un-fragile-occidente.


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Libye et Côte d'Ivoire: "bons" démocrates contre "méchants" dictateurs?

Libye et Côte d'Ivoire: "bons" démocrates contre "méchants" dictateurs?

Par Bernard Lugan

gbagbo-m_0.jpgEn Côte d’Ivoire comme en Libye, ce ne sont pas de « bons » démocrates qui combattent de « méchants » dictateurs, mais des tribus ou des ethnies qui s’opposent en raison de fractures inscrites dans la longue durée.

La Libye est essentiellement constituée de deux provinces désertiques, la Tripolitaine et la Cyrénaïque reliées par une route côtière le long de laquelle ont lieu des escarmouches sans contact direct que les journalistes qualifient pompeusement de « combats ». Dans chacune des deux provinces domine une coalition tribale. De l’indépendance acquise en 1951 jusqu’à la prise du pouvoir par le colonel Kadhafi en 1969, ce fut la Cyrénaïque qui exerça le pouvoir. La Tripolitaine domina ensuite.

La révolte est un soulèvement ancré en Cyrénaïque, plus particulièrement autour des villes de Benghazi et de Dernah. Les autorités françaises ont reconnu ses dirigeants comme les seuls représentants du « peuple de Libye ». Un peu comme si la Catalogne s’étant soulevée contre Madrid, Paris reconnaissait les délégués de Barcelone comme seuls représentants du peuple espagnol…

Réduits à leurs seules forces, les rebelles de Cyrénaïque ont montré qu’ils sont incapables de conquérir la Tripolitaine et même de tenir leurs positions. Il n’y a donc que deux solutions à cette guerre :

1) La « coalition » intervient en force, jusqu’à terre, comme le font actuellement les forces spéciales américaines et cela pour permettre aux rebelles d’avancer afin d’en finir avec le colonel Kadhafi. Le problème est que le mandat de l’ONU n’autorise pas les « puissances du bien et de la morale » à s’immiscer aussi profondément dans la guerre civile libyenne.

2) Comme le demande l’Union africaine depuis le premier jour, une négociation devra débuter car l’aviation de l’Otan interdira de toutes les façons aux forces du colonel Kadhafi de reconquérir la Cyrénaïque.

En Côte d’Ivoire où l’affrontement n’est pas tribal mais ethnique, le pays est plus que jamais coupé en deux et, comme il fallait hélas s’y attendre, les massacres y prennent une ampleur cataclysmique. Une offensive éclair dont on connaîtra bientôt les détails et les parrains a permis aux forces nordistes d’arriver jusqu’à Abidjan. Cependant, même si l’avantage militaire des partisans d’Alassane Ouattara était confirmé, la crise ivoirienne n’en serait pas réglée pour autant. En effet, si pour la presse occidentale cette victoire annoncée est vue comme celle du président « démocratiquement élu » contre le président illégitime, pour les 46% de la population ayant voté Laurent Gbagbo, l’explication est autre : aidé par la France et les Etats-Unis, l’ensemble nordiste musulman a repris vers l’océan une expansion bloquée durant la parenthèse coloniale.

De fait, la coupure Nord-Sud entre le monde sahélien, ouvert et traditionnellement structuré en chefferies d’une part, et le monde littoral, forestier à l’Ouest, lagunaire à l’Est, peuplé d’ethnies politiquement cloisonnées d’autre part, est la grande donnée géopolitique régionale. L’actualité confirmant la géographie et l’histoire, les solutions qui ne prendraient pas en compte cette réalité ne sauraient régler la crise en profondeur.

Source L'Afrique réelle cliquez ici

 

Das europäisch-indische Freihandelsabkommen

Das europäisch-indische Freihandelsabkommen

Kavaljit Singh

Seit 2007 verhandeln Indien und die Europäische Union (EU) bereits über ein Freihandelsabkommen (FHA), das die Bereiche Handel von Gütern und Dienstleistungen, Investitionen, geistiges Eigentumsrecht und das Beschaffungswesen der öffentlichen Hand umfassen soll – aber die Verhandlungen haben mit zahlreichen Problemen zu kämpfen. Bisher fanden schon zehn Verhandlungsrunden statt. Das Abkommen soll Mitte 2011 unterschriftsreif sein.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/kavaljit-singh/das-europaeisch-indische-freihandelsabkommen-die-liberalisierung-von-dienstleistungsverkehr-und-inv.html

Ahmadinedjad hérisse le clergé chiite

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Ferdinando CALDA :

Ahmadinedjad hérisse le clergé chiite

 

Les milieux conservateurs iraniens reprochent à Ahmadinedjad d’avoir célébré la fête traditionnelle et païenne du Nowruz

 

Dimanche 27 mars 2011 à Téhéran : Mahmoud Ahmadinedjad, président de l’Iran, a inauguré officiellement les célébrations du Nowruz, fête traditionnelle persane du Nouvel An. Cette initiative a suscité bon nombre de critiques de la part des milieux conservateurs et religieux, parce qu’elle est d’essence non islamique.

 

La cérémonie s’est tenue en présence des présidents d’Afghanistan (Hamid Karzaï), d’Irak (Djalal Talabani), du Turkménistan (Gurbanguly Berdimuhammadov), du Tadjikistan (Emomali Rahmon) et d’Arménie (Serzh Sargsyan).

 

Des représentants d’une vingtaine d’autres pays assistaient également à la célébration, comme le ministre de la santé indien, le ministre des affaires étrangères d’Oman, le ministre de la culture du Kirghizistan, le vice-président de Zanzibar et le secrétaire général de l’Organisation de la Coopération économique (OCE). En deux ans, c’est la seconde fois consécutivement que l’Iran accueille les dirigeants des pays de la région pour célébrer le nouvel an persan par ce festival international du Nowruz.

 

Malgré ce succès diplomatique indéniable, les milieux conservateurs et religieux iraniens rejettent avec véhémence les racines païennes et préislamiques de cette fête et voient dans l’initiative d’Ahmadinedjad une dérive de plus vers le « laïcisme ». « L’Iran a ses fondements sur les seules valeurs islamiques », a souligné, ces derniers jours, Abdolnabi Namazi, un ayatollah membre de l’Assemblée des experts, tout en dénonçant les dangers du « nationalisme », vu l’accent mis sur les festivités traditionnelles du Nowruz. De son côté, le député conservateur Ahmad Tavakkoli, l’un des critiques les plus acerbes d’Ahmadinedjad, a demandé au gouvernement de « suspendre les festivités en signe de solidarité avec les citoyens des pays musulmans », tués lors des révoltes qui ont animé ces dernières semaines.

 

Les polémiques n’ont nullement empêché le bon déroulement des festivités du dimanche 27 mars 2011 mais ont néanmoins eu quelques conséquences. Le gouvernement, par exemple, a dû annuler  —officiellement par « manque de temps »—  les célébrations qui devaient avoir lieu dans la ville de Chiraz, proche des ruines de l’antique Persépolis, à cause de l’opposition que leur manifestaient les milieux conservateurs qui voyaient en elles une réminiscence des fastes donnés en 1971 par le dernier Shah pour les 2500 ans de l’impérialité iranienne, fêtes qui s’étaient précisément tenues à Chiraz.

 

Ce n’est pas la première fois, du reste, que les milieux religieux et conservateurs se sont dressés contre les positions qualifiées de « laïques » du Président Ahmadinedjad ; selon ces milieux, celui-ci se montrerait trop intéressés aux aspects nationaux et nationalistes de l’histoire iranienne et moins aux aspects religieux.

 

Pendant l’été 2011, par exemple, Ahmadinedjad a dû répondre à plusieurs questions parlementaires à la suite des déclarations de son chef  de cabinet, Esfandiar Rahim-Mashai, qui avait souligné la nécessité de soutenir une « école iranienne » au sein de l’islam, tout en faisant comprendre qu’il fallait par là donner la priorité aux intérêts du pays.

 

A plusieurs reprises, comme lorsqu’il s’est agi de remettre en question l’interdiction pour les hommes de porter la cravate et l’obligation pour eux de se laisser pousser la barbe, de nombreux porte-paroles du clergé chiite iranien ont invité Ahmadinedjad à « ne pas s’occuper de questions religieuses ».

 

Ferdinando CALDA.

(article paru dans le quotidien romain « Rinascita », 29 mars 2011 ; http://rinascita.eu/ ).

 

Commentaire :

La carte iranienne traditionnelle permet une meilleure diplomatie dans la région. Les tradition persanes préislamiques sont aux yeux de tous plus séduisantes que le fondamentalisme islamiste de Khomeiny.  C’est parce qu’il avait pratiqué une politique semblable que le Shah avait été éliminé par les Américains via l’artifice de la révolution islamiste. Les islamistes actuels travaillent pour les Etats-Unis en sabotant toute diplomatie iranienne traditionnelle, qui, elle, attire la sympathie de tous les voisins de l’Iran. Des clivages qu’il serait bon de garder en tête lorsque l’on pose un jugement, quel qu’il soit, sur la politique et la géopolitique du Moyen-Orient irano-centré.

Carl Schmitt, the Inquisition, and Totalitarianism

Carl Schmitt, the Inquisition, and Totalitarianism

Arthur VERSLUIS

Ex: http://www.esoteric.msu.edu/

The work of Carl Schmitt, on its face, presents us with enigmas; it is esoteric, arcane, words that recur both in scholarship about Schmitt and in his own writings.  Jan-Wenner Müller observes that Schmitt “employed what has been called a kind of philosophical ‘double talk,’ shifting the meaning of concepts central to his theory and scattering allusions and false leads throughout his work.”[1]  And Müller goes on to remark about Heinrich Meier’s work on Schmitt that ultimately Meier too “lapsed into the kind of double talk, allusiveness, and high-minded esoteric tone so typical of Strauss and, to a lesser extent, Schmitt.”[2]  Indeed, Schmitt himself writes, in The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes that “like all great thinkers of his times, Hobbes had a taste for esoteric cover-ups.  He said about himself that now and then he made ‘overtures,’ but that he revealed his thoughts only in part and that he acted as people do who open a window only for a moment and closely it quickly for fear of a storm.”[3]  This passage could certainly be applied to Schmitt himself, whose work both makes direct reference to Western esoteric traditions, and itself has esoteric dimensions.  These esoteric allusions and dimensions of Schmitt’s thought are, in fact, vitally important to understanding his work, but the question remains: what place do they have in it?

 

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Carl Schmitt and Early Modern Western Esotericism

   Much has been made of the exoteric-esoteric distinction in the thought of Leo Strauss.  Some authors suggested that a Straussian esotericism guided the neonconservative cabal within the Bush II administration, after all a secretive group that disdained public opinion and that was convinced of its own invincible rectitude even in the face of facts.[4] It is true that Strauss himself distinguished between an esoteric and an exoteric political philosophy.   In perhaps his most open statement, Strauss writes, coyly, of how “Farabi’s Plato eventually replaces the philosopher-king who rules openly in the virtuous city, by the secret kingship of the philosopher who, being a ‘perfect man,’ precisely because he is an ‘investigator,’ lives privately as a member of an imperfect society which he tries to humanize within the limits of the possible.”[5]  Strauss’s “secret kingship of the philosopher” is, by its nature, esoteric; as in Schmitt’s, there is in Strauss’s work a sense of the implicit superiority of the esoteric political philosopher.

    But in fact those who are searching for esotericism have much more to find in the work of Schmitt, not least because Schmitt’s references to classical Western esotericism are quite explicit.  Schmitt refers directly to Kabbalism and to Rosicrucianism, to Freemasonry, and, most importantly for our purposes, to Gnosticism.  It is quite important, if one is to better understand Schmitt, to investigate the meanings of these explicitly esoteric references in his work.  While there are allusions to such classical Western esoteric currents as Jewish Kabbalah, Rosicrucianism, and Freemasonry scattered throughout Schmitt’s writings, those references are concentrated in Schmitt’s 1938 The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes.  There are a number of reasons why Western esoteric currents should form a locus in this particular work, among them the fact that many of these traditions (notably, Rosicrucianism, Freemasonry, and Christian theosophy) emerged precisely in the early modern period of Hobbes himself and so correctly, as Schmitt recognized, represent historical context as well as contribute to Schmitt’s larger argument.

   But what is Schmitt’s larger argument regarding these esoteric currents?  There is little to indicate, at first glance, that Schmitt is derogating these esoteric currents—even the references to the Kabbalistic interpretation of leviathan, which come on the wake of Schmitt’s notorious 1936 conference on Judaism and jurisprudence, are not immediately recognizable as anti-semitic.  Schmitt’s own overview of his argument is instructive.  He summarizes the first chapter as covering the “Christian-theological and Jewish-cabbalistic interpretations” of the symbol of leviathan, and “the possibilities of a restoration of the symbol by Hobbes.”[6]  A restoration indicates a prior fall: this is our first clue.  Schmitt’s treatise on Hobbesian state theory is also an occasion for Schmitt’s diagnosis of modernity as socio-political decline, and in this decline, (in Schmitt’s view), esoteric currents played a part.  Hence he references the seminal twentieth-century French esoterist René Guénon’s La Crise du monde moderne (1927), and specifically Guénon’s observation that the collapse of medieval civilization into early modernity by the seventeenth century could not have happened without hidden forces operating in the background.[7]

   Both Schmitt and Guénon came from a Catholic background and perspective—and Guénon’s broader thesis was that the advent of early modernity represented one stage in a much larger tableau of decline in which modernity (representing the kali yuga or final age) would conclude in the appearance of the Antichrist and the end of the world.  In this Guénonian tableau of decline, the emergence of individualistic Protestantism represented an important step downward from the earlier corporate unity of Catholicism, and a similar perspective inheres in Schmitt’s work, no doubt why he alludes to Guénon in the first place.  Hence, in the important Chapter V of Leviathan, Schmitt refers to the “separation of inner from outer and public from private” that emerged during the early modern period, and in particular to “secret societies and secret orders, Rosicrucians, freemasons, illuminates, mystics and pietists, all kinds of sectarians, the many ‘silent ones in the land,’ and above all, the restless spirit of the Jew who knew how to exploit the situation best until the relation of public and private, deportment and disposition was turned upside down.”[8]

   At this point, we can see Schmitt’s perspective is implicitly critical of the subjectification and inward or contemplative turn characteristic of those who travel “the secret road” “that leads inward.”  He opposes the split between private spiritual life and public life, which Schmitt associates with Judaism as well as with Protestantism and the profusion of esoteric groups during this period—and by implication, affirms a unified, corporate inner and outer life that is characteristic of Catholicism.  Schmitt remarks that “as differently constituted as were the Masonic lodges, conventicles, synagogues, and literary circles, as far as their political attitudes were concerned, they all displayed by the eighteenth century their enmity toward the leviathan elevated to a symbol of state.”[9]  He sees Protestantism and the variety of esoteric groups or currents during the early modern period as symptomatic—like Guénon, he sees the emergence of modernity as a narrative of cultural disintegration. 

   Like Hobbes himself, Schmitt is pessimistic about the human condition.  Still, in Schmitt’s view, Hobbes was not proposing that human beings flee from the state of nature into a monstrous state leviathan, but rather was arguing for total state power only insofar as it guaranteed protection and security.  Hence, Schmitt writes, one’s obedience to the state is payment for protection, and when protection ceases, so too does the obligation to obey.[10]  The leviathan serves to diagnose the artificial, gigantic mechanism of the modern state, and to symbolize that state as an intermediate stage that can restrain or postpone the larger decline that modernity represents.  In Leviathan, Schmitt isn’t extolling the leviathan state or totalism, but rather coyly stops short—even though it is clear that he seeks a political alternative to the split between inner and outer life represented by the inward turn of esoteric groups and individuals, and by the subjectification represented by Romanticism during the early modern period. Schmitt belongs to the world of jurisprudence, to the realm of weighing and deciding, and one can see this in his treatment of esoteric groups, in which he acknowledges their differences—but he clearly has ‘placed’ them in his larger narrative as indicative of the fragmentation represented by modernity.

   It becomes clearer, then, how Schmitt could have seen in National Socialism a secular alternative to modernity.  Fascism represented for him, at least potentially, the re-unification of inner and outer life, a kind of modern re-unification of the mythic and spiritual with the outer public life.  It at first seemed to conform to the Hobbesian notion that in exchange for obedience, one receives protection from the state; it represented a new form of corporatism as an alternative to the socio-political disintegration represented by parliamentary democracy in the Weimar era; and it even offered an apparent unity of esoteric and exoteric through its use of symbolism and mythology in the service of the state.  But to the extent that he allied with the Nazis, Schmitt was consciously siding with the Inquisitors, and with totalistic state power.  In retrospect and by comparison, perhaps the “secret road” inward as represented by eighteenth-century esotericism was not quite so bad as all that.  Yet to understand more completely Schmitt in relation to the esoteric, we must turn to a subject he treats somewhat more explicitly: Gnosticism.

 Carl Schmitt and Gnosticism

   Schmitt writes that oppositions between friend and enemy are “of a spiritual sort, as is all man’s existence.”[11]  In Politische Theologie II, he writes that Tertullian is the prototype of the theological possibilities of specific judicial thinking, and refers to him as the “jurist Tertullian.”[12]  Heinrich Meier discusses Schmitt’s indebtedness to Tertullian and in fact remarks that “Tertullian’s guiding principle We are obliged to something not because it is good but because God commands it accompanies Schmitt through all the turns and vicissitudes of his long life.”[13]  What is it about Tertullian that Schmitt found so fascinating that he returned to his work again and again?  Divine authority as presented by Tertullian divides men: obedience to divine authority divides the orthodox from the heretics, the “friends of God” from the “enemies of God,” and the political theologian from the secular philosopher.  Here we are reminded of perhaps Tertullian’s most famous outcry: “What then does Athens have to do with Jerusalem?  What does the Academy have to do with the Church?  What do the heretics have to do with Christians?”[14]  Tertullian was, of course, a fierce enemy of Gnosticism, and his works, especially De praescriptione haereticorum, belong to the genre of heresiophobic literature. 

   Now with Tertullian’s antignosticism in mind, we should turn to the afterword of Schmitt’s Politische Theologie II, in which “gnostische Dualismus” figures prominently.  There, Schmitt remarks that Gnostic dualism places a God of Love, strange to this world, in opposition to the lord and creator of this evil world, the two conflicting in a kind of “cold war.”[15]  This he compares to the Latin motto noted by Goethe in Dichtung und Wahrheit, “nemo contra deum nisi deus ipse”—only a god can oppose a god.[16]  With these references, Schmitt is alluding to the Gnostic dualism attributed to the Gnostic Marcion, who reputedly posited two Gods, one a true hidden God, the other an ignorant creator God. 

  What is important here, for our purposes, is the underlying theme of heresy and orthodoxy.  As is well-known, for Schmitt, especially from Der Begriff des Politischen onward, the political world is defined in terms of the well-known Schmittean distinction between friend and foe.  But not so often remarked is that this friend-foe distinction can be traced directly back to the anti-heresiology of Tertullian.  Tertullian devoted a considerable number of pages to the refutation of Marcion in five books, and in particular attacked what he perceived as Marcionitic docetism.  In “Against the Valentinians,” Tertullian attacked “certain heretics who denied the reality of Christ’s flesh,” first among these heretics being, again, Marcion.[17]  For Tertullian, historicity is paramount: the docetic view that Christ did not come in the flesh but belongs to another world—this is unbearable to him.  Tertullian devotes hundreds of pages to detailing and attacking the works of those he designates heretical, and (perhaps ironically, given Tertullian’s venomous diatribes) compares them to scorpions full of venom.

   So virulent is Tertullian in his hatred of those he perceives as heretics that he goes so far as to imagine that “There will need to be carried on in heaven persecution [of Christians] even, which is the occasion of confession or denial.”[18]  Here we begin to see the dynamic that impels Tertullian’s hatred of those he designates as heretical.  On the one hand, Tertullian belongs in the context of Roman persecution of Christians as a whole—but on the other hand, he in turn carries on an intellectual persecution of heretics whom he sees as scorpions, that is, as vermin.[19]  Thus we see Tertullian’s perception of himself as defender of the historicist orthodox, the strength of whose identity comes on the one hand, from affirmation of faith in the historical Christ against the Romans, on the other hand, from rejection of the Gnostics who seek to transcend history and who affirm, for example, a docetic Christ.  Tertullian’s very identity exists by definition through negation—he requires the persecution of “heretics.”  Tertullian is the veritable incarnation of a friend/enemy dynamic, and he exists and defines himself entirely through such a dynamic.  We can even go further, and suggest that the background of persecution by the Romans in turn inevitably impels the persecuted historicist Christians to themselves become persecutors of those whom they deem heretics—a dynamic that continues throughout the subsequent history of Christianity (from the medieval condemnation of Eckhart right through the various forms of early modern and modern anti-mysticism within Protestant and Catholic Christianity alike).[20]  Tertullian, for all his fulminations against what he imagines as Gnostic dualism, is in fact himself the ultimate dualist [or duelist].  He cannot exist without historical enemies, without persecutors and without those whom he can persecute in his turn.

   Thus we begin to see the reasons for Schmitt’s endorsement of Tertullian as the paradigmatic jurist theologian and political theologian.  For Tertullian, Christ’s historicity is paramount—exactly as is the case with Schmitt himself.  In Nomos of the Earth, Schmitt proposes the historical importance within Christianity of the concept of the katechon, or “restrainer” that makes possible Christian empires whose center was Rome, and that “meant the historical power to restrain the appearance of the Antichrist and the end of the present eon.”[21] The concept of the katechon is derived from an obscure Pauline verse: II Thessalonians 2.6-7, “And you know what is restraining him now so that he may be revealed in his time.  For the mystery of lawlessness is already at work; only he who now restrains it will do so until he is out of the way.”  This passage is in the larger context of a Pauline warning against the “activity of Satan” among those who are “sent” a “strong delusion” by God himself [!] “so that all may be condemned who did not believe the truth (II.2.11).”  The katechon represents, for Schmitt, an “historical concept” of “potent historical power” that preserves the “tremendous historical monolith” of a Christian empire because it “holds back” nothing less than the eschatological end of history.[22] The Pauline context in Thessalonians can be read to support institutional Christianity as a prosecutorial power. In any case, the katechon makes intellectually possible (in Schmitt’s view) the emergence of the Christian empire oriented toward Rome and itself now a juridical, prosecutorial or persecutorial imperial power within history. 

   Now I am not arguing that Schmitt’s work—and in particular his emphasis on the role of antagonism and hostility as defining politics, nor his emphasis on historicity—derives only from Tertullian.  Rather, I hold that Schmitt refers to Tertullian because he finds in him a kindred spirit, and what is more, that there really is a continuity between Schmitt’s thought and the anti-heretical writings of Tertullian.  Both figures require enemies.  Schmitt goes so far as to write, in The Concept of the Political, that without the friend-enemy distinction “political life would vanish altogether.”[23]  And in the afterword to Political Theology II, Schmitt—in the very passages in which he refers to Gnosticism and in particular to dualism—ridicules modern “detheologization” [Die Enttheologisierung] and “depoliticization” [Die Entpolitisierung] characteristic of a liberal modernity based upon production, consumption, and technology.  What Schmitt despises about depoliticizing or detheologizing is the elimination of conflict and the loss thereby of the agonistic dimension of life without which, just as Tertullian wrote, the juridical trial  and judging of humanity cannot take place.  Tertullian so insists upon the primacy of persecution/prosecution that he projects it even into heaven itself.  Schmitt restrains himself to the worldly stage, but he too insists upon conflict as the basis of the political and of history; and both are at heart dualists.

   Why, after all, was Schmitt so insistent upon what he called “political theology”?  In the very term, there is a uneasy conjunction of the worldly sphere of politics with what usually would be construed as the otherworldly sphere of theology.  But Tertullian represents the forced convergence of these two spheres—in some central respects, Tertullian symbolizes the point at which Christianity shifted from the persecuted by Rome to the persecutor from Rome, the shift from Christ’s saying that His Kingdom is not of this world, to the assertion of Christendom as a political-theological entity and of the possibility of Christian empire—that is, of the compression together and perhaps even the merger of politics and theology.  This forced convergence of politics and theology could not take place without the absolute insistence upon an historical Christ and on the paramount importance of the horizontal, that is, of history itself (as opposed to and indeed, founded on the explicit rejection of the transcendence of history or of the vertical dimensions represented by gnosis).

   The work of Schmitt belongs to the horizontal realm of dualistic antagonism that requires the antinomies of friends and enemies and perpetual combat.  Schmitt is a political and later geopolitical theorist whose political theology represents, not an opening into the transcendence of antagonism, but rather an insistence upon antagonism and combat as the foundation of politics that reflects Tertullian’s emphasis on antagonism toward heretics as the foundation of theology.  When Schmitt writes, in The Concept of the Political, that “a theologian ceases to be a theologian when he . . . no longer distinguishes between the chosen and the nonchosen,” we begin to see how deeply engrained is his fundamental dualism.[24]  This dualism is bound up with Schmitt’s insistence upon “the fundamental theological dogma of the evilness of the world and man” and his adamant rejection of those who deny original sin, i.e., “numerous sects, heretics, romantics, and anarchists.”[25]  Thus “the high points of politics are simultaneously the moments in which the enemy is, in concrete clarity, recognized as the enemy.”[26]  The enemy, here, just as in Tertullian’s work, is those deemed to be heretical.

   Here we should recognize a certain irony.  Tertullian, we will recall, railed against the Gnostics because they supposedly were dualists and because some of them reputedly held that humanity was deluded and that the world was evil.[27]  Yet much of mainstream Christianity, like Tertullian himself, itself came to espouse a fierce dualism and an insistence on the evil nature of humanity and of the world.  Even when it is clear, as in the case of Valentinus, that his thought includes the transcendence of dualism, Tertullian cannot bring himself to recognize this transcendence because his mind works on the level of the juridical only—he is compelled to attack; indeed, his entire worldview is constructed around those whom he rejects, ridicules, refuses to recognize as in any way legitimate—around those whom he sees as his enemies.  And this fierce dualism, this need for that which is construed as heretical, as the enemy, is exactly what Schmitt’s work also reflects. 

   As perhaps Tertullian once did, Schmitt too came up against the command of Christ to “love your enemies” (Matt. 5.44; Luke 6.27).  His interpretation of it is befitting a wily attorney—he takes it only on a personal level.  “No mention is made of the political enemy,” Schmitt writes.  “Never in the thousand-year struggle between Christians and Moslems did it occur to a Christian to surrender rather than to defend Europe,” he continues, and the commandment of Christ in his view “certainly does not mean that one should love and support the enemies of one’s own people.”[28]  Thus, Christ can be interpreted as accepting political antagonism and even war—while forgiving one’s personal enemies along the way.  Schmitt conveniently overlooks the fact that nowhere in the New Testament can Christ be construed as endorsing, say, political war against Rome—His Kingdom is not of this world.  Is it really so easy to dismiss the power of the injunction to love one’s enemies?

   There is more.  For Schmitt’s distinction between the personal and the political here makes possible what his concept of the katechon also does: Christian empire.  Here we see the exact point at which the Christian message can be seen to shift from the world-transmuting one of forgiving one’s enemies to the worldly one that leads inexorably toward the very imperial authority and power against which Christ himself stood as an alternative exemplar.  “My Kingdom is not of this world,” Christ said.  But somehow a shift took place, and suddenly Christ was being made to say that his kingdom is of this world, that rather than forgiving one’s enemies, one should implacably war against them.  Thus we have the emergence of Christian empire.  But the collapse of feudalism and of the medieval polis, and the emergence of modernity ultimately meant the de-politicization of the world—the absence of enemies, of heretics, of those against whom others can define themselves—none other than the cultural vacuum represented by technological-consumerist modern society.

 

 Conclusions

   And so we again reach the argument that I began to suggest in “Voegelin’s Antignosticism and the Origins of Totalitarianism,” but from a very different angle.  There, I argued that rather than attempting (like Voegelin and his acolytes) to blame the victims—the Gnostics and ‘heretics’—for the advent of modernity and for totalitarianism, it might be more reasonable to take a closer look at the phenomenon of the Inquisition and of historicist Christianity (particularly millennialist Christianity) for the origins of modern secular chiliasm.  After all, it wasn’t the heretics or the Gnostics who burned people at the stake, or created institutional torture chambers, or who slaughtered the Albigensians.  Rather, it was the institutional church that did this. Our analysis of Schmitt’s work has brought us, unexpectedly, back to the same general terrain.

   It is worth remarking, however unpleasant it might be to admit it, that as Mao or Pol Pot did when their policies meant the deaths of millions, so too the Church itself did when it burned at the stake the great mystic Marguerite Porete, or the brilliant author Giordano Bruno and many others for heresy—all of these institutional murderers believed at least in part that they killed people for their own good, or at least, for the better good, and in order to realize some better state upon earth in the near future.  How is it that the medieval Church was so unwilling to allow the Albigensians their freedom and their own traditions?  Why was it so impossible to regard them as Christian brethren and not as enemies to be slaughtered?  By slaughtering those deemed heretics, one hastens the historical millennium of Christ’s kingdom upon earth, or so the logic goes.  Secular chiliasm in the technological modern world like that analyzed by Pellicani is only a more extensive and brutal form of the same phenomenon, whose origins are to be found in historicist Christianity, not among those victims of it that were deemed heretical.[29]

   Schmitt’s work belongs to the juridical tradition of Tertullian and he inherits Tertullian’s need for enemies, for heretics by which one can define oneself.  Thus it was not too difficult for Schmitt to organize the 1936 conference to weigh the “problem” of “the Jews”—he was predisposed toward the division of “us” and “them” by the triumphant Western historicist Christian tradition that peremptorily and with the persistence of two thousand years, rejected “heretics” who espoused gnosis and, all too frequently, rejected even the possibility of transcending dualism.  Indeed, Schmitt’s work allows us to see more clearly the historical current that was operative in National Socialism as well as in Mussolini’s Fascist party—and that brought Schmitt to open his 1936 conference remarks with the words of Hitler: “In that I defend myself against the Jews, I struggle to do the work of the Lord.”[30]  The murder of heretics has a theological origin; the murder of secular opponents has a political origin—but often the two are not so far apart, and so one could even speak of political theology in which to be the enemy is to be de facto heretical. 

   Thus, after the “Night of the Long Knives” and after Goebbels and Himmler carried out the murder of various dissidents, Schmitt published an article defending the right of the Third Reich and its leader to administer peremptory justice—and, in an interview published in the party newspaper Der Angriff,  defending none other than the Inquisition as a model of jurisprudence.[31]  Schmitt argued there that when Pope Innocent III created the juridical basis for the Inquisition, the Church inaugurated perhaps the “most humane institution conceivable” because it required a confession.  Of course, he goes on, the subsequent advent of confessions extracted by torture was unfortunate, but in terms of legal history, he thought the Inquisition a fine model of humane justice.  He managed to overlook the fact that the “crimes,” both in the case of the Inquisition and in the case of National Socialism in mid-1930s Germany, were primarily “crimes” of dissidence.

   Here we begin to consider the larger question of ideocracy as characteristic of modernity.  Ideocracy has nothing to do with Gnosticism or gnosis—but it might well have something to do with those who require enemies in order to define themselves, and with those who are willing to torture and slaughter in the name of some forthcoming imagined religious or secular millennium.  It is rigid ideocracy we see at work in the unreadable pronouncements of Communist China defending their occupation of Tibet and the insanity of the Cultural Revolution; it is rigid ideocracy at work in the pronouncements of Stalinist Russia, behind which millions upon millions lie dead.  Secular millennialism requires a rigid historicism—faith in history is necessary, a belief that one can remake this world and human society into a new historical model, even if the price is murder and torture.  Schmitt was a subtle thinker and very learned, no question of that.  His work offers us insights into the nature of modernity, into geopolitics, and into politics as combat.  But his work also, unexpectedly, throws light on the intellectual origins of modern ideocracies in early and medieval historicist, anti-heresiological Christianity.

 


[1] See Jan-Werner Müller, A Dangerous Mind: Carl Schmitt in Post-War European Thought, (New Haven: Yale UP, 2003), p. 7

[2] Ibid., p. 205

[3] See Carl Schmitt, G. Schwab, trs.,  The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes, (Westport: Greenwood, 1996), p. 26.

[4] See Hugh Urban, “Religion and Secrecy in the Bush Administration: The Gentleman, the Prince, and the Simulacrum,” in Esoterica VII(2005): 1-38.

[5] See Leo Strauss, Persecution and the Art of Writing, (Chicago: U. of Chicago P., 1952), p. 17; Leo Strauss, “Farabi’s Plato,” Louis Ginzberg Jubilee Volume, New York: American Academy for Jewish Research, 1945), pp. 357-393, p. 384.

[6] Schmitt, Leviathan, op. cit., p. 3.

[7] Ibid., p. 29.

[8] Ibid., p. 60.

[9] Ibid., p. 62.

[10] Ibid., pp. 96-97.

[11] See Heinrich Meier, Carl Schmitt and Leo Strauss: The Hidden Dialogue, (Chicago: U of Chicago P, 1995), p. 59, citing The Concept of the Political  (1933 ed.) III.9.

[12] See Schmitt, Politische Theologie II, (Berlin: Duncker und Humblot, 1970), p. 103, to wit: “Für eine Besinnung auf die theologischen Möglichkeiten spezifisch justischen Denkens ist Tertullian der Prototyp.”

[13] Heinrich Meier, The Lesson of Carl Schmitt, (Chicago: U of Chicago P, 1998), p. 92.

[14] See Meier, op. cit., p. 94, citing Tertullian, De praescriptione haereticorum, VII. 9-13: “Quid ergo Athenis et Hierosolymis?  Quid academiae et ecclesiae?  Quid haereticis et Christianis?”

[15] Schmitt, PTII, op. cit., p. 120: “Der gnostische Dualismus setzt einen Gott der Liebe, einen welt-fremden Gott, als den Erlöser-Gott gegen den gerechten Gott, den Herrn und Schöpfer dieser bösen Welt. . . [einer Art gefährlichen Kalten Krieges]”.

[16] Ibid., p. 122. 

[17] See A. Roberts and J. Donaldson, eds., Ante-Nicene Fathers, (Edinburgh: T & T Clark, 1989), III.521.

[18] Ibid., III. 643.

[19] See Tertullian’s treatise “Scorpiace,” op. cit., III.633-648.

[20] Here we might remark that Western forms of Christianity are strikingly different in this respect from those in the Eastern Church, where mysticism remained (however uneasily at times) incorporated into orthodoxy itself and not imagined as inherently inimical to orthodoxy.

[21] See Carl Schmitt, The Nomos of the Earth in the International Law of the Jus Publicum Europaeum, G.L. Ulmen, trs., (New York: Telos, 2003), pp. 59-60.

[22] Ibid., p. 60.

[23] Carl Schmitt, G. Schwab, trs., The Concept of the Political, (New Brunswick: Rutgers, 1976), p. 51.

[24] Ibid., p. 64.

[25] Ibid., p. 65.

[26] Ibid., p. 67.

[27] I write “supposedly” dualist and “reputedly” held the world to be evil because these accusations, repeated by Tertullian and several other ante-Nicene Fathers, are hardly borne out as characteristics of all the works we see in the Nag Hammadi library, the collection of actual Gnostic writings discovered in 1945. 

[28] Ibid., p. 29.

[29] See Luciano Pellicani, Revolutionary Apocalypse: Ideological Roots of Terrorism, (Westport: Praeger, 2003), pp. xi. I wholeheartedly agree with Pellicani’s basic thesis that “The expansion on a planetary scale of a new form of chiliasm that substituted transcendence with absolute immanence and paradise with a classless and stateless society is the most extraordinary and shattering historical-cultural phenomenon of the secular age.” But this “new form of chiliasm” has nothing whatever to do with Gnosticism as an actual historical phenomenon.  One cannot find a single instance in late antiquity among the Gnostics themselves for such a phenomenon—but if one were to refer instead to “the destructive calling of modern pseudo­-gnostic revolution” that seeks to “purify the existing through a policy of mass terror and annihilation,” Pellicani’s thesis would no longer be quite as subject to the criticism of an anachronistic misuse of terms.  Later in the book, Pellicani discusses the cases of the Pol Pot regime and of Communist China—both of which illustrate his larger thesis well.  But neither of these have anything whatever to do with the phenomenon of Gnosticism in any historically meaningful sense. Even Voegelin himself expressed doubts about attempting to apply “Gnosticism” to the case of Communist Russia—let alone to Cambodia!  Such cases could be construed to illustrate a uniquely modern pseudo-gnosticism—though one could with more accuracy dispense entirely with the dubious references to “Gnosticism” and simply refer to secular millennialism.

[30] See Carl Schmitt, “Das Judentum in der deutschen Rechtswissenschaft,” in “Die deutsche Rechtswissenschaft im Kampf gegen den jüdischen Geist,” in Deutsche Juristen-Zeitung, 41(15 Oct. 1936)20:1193-1199, cited in Gopal  Balakrishnan, The Enemy: An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, (London: Verso, 2000), p. 206.

[31] See “Können wir uns vor Justizirrtum schützen?” Der Angriff, 1 Sept. 1936, cited in Andreas Koenen, Der Fall Carl Schmitt, (Darmstadt: Wissenschaftliche, 1995), p. 703; see also Balakrishnan, op. cit., pp. 202-203.

lundi, 04 avril 2011

Dal Kosovo alla Libia: il lato oscuro dell'interventismo "umanitario"

Dal Kosovo alla Libia: il lato oscuro dell’interventismo “umanitario”

di Stefano Vernole

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

balka1.gifGiunto simbolicamente a Belgrado il 23 marzo (giorno antecedente all’anniversario dell’inizio dei bombardamenti sulla Federazione Jugoslava nel 1999), il capo del governo di Mosca, Vladimir Putin, avrebbe dichiarato che tra l’attuale crisi libica e quella kosovara di 12 anni fa esisterebbero diverse differenze.

 

Sicuramente, però, vi sono anche parecchie analogie.

Preparazione mediatica all’aggressione militare: come allora, l’intervento degli aerei della coalizione occidentale è stato preceduto da una lunga campagna dell’opinione pubblica, volta a demonizzare l’avversario. Nel 1999 fu il falso massacro di Racak a fornire il pretesto per l’umiliante ultimatum di Rambouillet, oggi sono state le false fosse comuni di Tripoli (1) e gli inesistenti raid aerei (2) sui manifestanti a permettere di scaldare i motori degli aerei dell’aviazione atlantica. Anche le parole d’ordine della propaganda occidentale sono sempre le stesse: “un dittatore che uccide il suo popolo” (allora Milosevic che vinse tutte le elezioni, oggi Gheddafi che sostituì nel 1969 un regime autocratico introducendo la democrazia diretta), gli “scudi umani” a protezione dei siti da bombardare (in realtà migliaia di volontari pronti a sacrificarsi, a Belgrado a difesa dei ponti sul Danubio, a Tripoli delle città libiche), “gli insorti lottano per la libertà e la democrazia” (in realtà l’UCK era un gruppo ideologicamente marxista-leninista e le tribù ribelli della Cirenaica sventolano le bandiere monarchiche), qualche accenno alla “pulizia etnica” e ai “mercenari” (che nemmeno vale la pena commentare), “Milosevic disposto ad arrendersi dopo 3 giorni di bombardamenti” (furono alla fine 78) e “Gheddafi scappato in Venezuela o in Bielorussia” (forse sarebbe piaciuto a Washington per attaccare Chavez e Lukashenko …), preparazione “culturale” alle rivolte (apertura di un centro statunitense finanziato da Soros a Pristina e discorso di Obama al Cairo).

Sostegno esterno agli insorti e andamento del conflitto: in Kosovo l’UCK venne addestrato, armato e finanziato da BND, SAS, CIA e servizi segreti albanesi, in Libia gli insorti di Bengasi da SAS, CIA, servizi segreti francesi, egiziani e sauditi. In un primo momento l’esercito di liberazione albanese del Kosovo conquistò oltre metà della provincia serba e assunse il controllo di tutte le strade principali, per essere travolto alla prima azione seria intrapresa dalla polizia militare di Belgrado. Lo stesso può dirsi per le tribù della Cirenaica che, dopo un fantomatico successo iniziale, stavano per scappare in Egitto e perdere anche la loro roccaforte. In entrambi i casi, questi gruppi ribelli sono stati utilizzati per creare un clima bellico idoneo per l’intervento esterno, vengono fatti massacrare perché non assumano troppa influenza e verranno poi scaricati quando le potenze occidentali avranno raggiunto i loro obiettivi (nel 1999 la NATO addirittura bombardò la caserma di Koshare, unico successo militare dell’UCK).

Divisione del paese: impossibilitata a vincere davvero il conflitto vista la scarsa attitudine delle sue truppe a condurre un intervento di terra, la NATO si accontentò nel 1999 di occupare soltanto il Kosovo (ricco di minerali e in posizione strategica per la sorveglianza dei corridoi energetici), per poi destabilizzare la Serbia e far cadere Milosevic in un secondo tempo. L’obiettivo principale in Libia è impiantare i soldati dell’Alleanza Atlantica in Cirenaica e nel Fezzan (ricchi di petrolio e in ottima posizione per il controllo dell’Egitto), quali basi iniziali di una futura eliminazione di Gheddafi in Tripolitania (3). La balcanizzazione del mondo continua.

Demonizzazione dell’avversario: agli Stati Uniti, si sa, piace l’impostazione leaderistica della politica e identificano sempre un paese con la sua guida: ieri Milosevic (in realtà un grigio burocrate socialista), oggi Gheddafi (abbastanza attempato, se non altro perché si trova a capo della Libia dal 1969). Questa identificazione totale del potere con un solo uomo, oltre a voler ricordare i paralleli con i grandi avversari storici degli anglosassoni (Mussolini, Hitler, Stalin), permette agli USA di recitare la parte dei “liberatori dall’oppressione” o “dalla dittatura” (sarebbe sufficiente confrontare i parametri economici e sociali della Serbia di Milosevic con l’attuale o della Libia di Gheddafi con il resto del continente africano per capire i “vantaggi” della “liberazione”). In ogni caso le pressioni e l’armamentario ideologico-propagandistico sono identici: sequestro di fantomatici conti all’estero o di improbabili “tesori”, incriminazione al Tribunale dell’Aja (quello che ha ammesso di aver distrutto le prove dei crimini compiuti contro i serbi in Kosovo), pressioni per l’esilio dei “dittatori”. Anche il tranello per attirarli nella trappola è stato pressoché lo stesso: nel 1995 Milosevic fu acclamato a Dayton quale “uomo della pace” (e infatti oggi le clausole approvate per mettere fine alla guerra di Bosnia vengono messe in discussione dalle pressioni atlantiste), Gheddafi dopo le minacce subite da Bush jr. e le riparazioni economiche pagate per l’attentato di Lockerbie (il presunto colpevole è stato rilasciato dagli inglesi per “una grave malattia” nonostante di salute stia benissimo, pur di evitare un processo di appello che avrebbe inchiodato i suoi accusatori britannici a mostrare prove in realtà inesistenti) venne riciclato come alleato nella “guerra al terrorismo”. L’apertura all’Occidente, evidentemente, non paga.

Interessi in gioco: sono abbastanza simili e riguardano il percorso degli oleodotti nel caso kosovaro, i diritti di sfruttamento del petrolio in quello libico (e questi, almeno oggi, sono stati ammessi perfino dalla nostra classe dirigente). Nel caso kosovaro ci furono anche quelli della droga e del traffico di migranti/prostituzione, probabile che anche in Libia avvenga qualcosa del genere. Posizionamento strategico della NATO: base militare USA di Camp Bondsteel in Kosovo (quale porta d’ingresso alle aree strategiche del pianeta, Vicino e Medio Oriente, Caucaso), destabilizzazione dell’influenza russa e turca nel Mediterraneo per la Libia (4), rilancio mediatico del ruolo dell’Alleanza Atlantica quale gendarme globale.

Danni all’Italia e mediazione russa: evidenti all’epoca dell’aggressione alla Serbia (affare Telekom Srbja, investimenti commerciali, inquinamento ambientale del Mar Adriatico, conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito sui propri militari, violazione della Costituzione, invasione della droga e della mafia kosovara), addirittura clamorosi con la partecipazione ai bombardamenti sulla Libia (perdita di cospicui contratti petroliferi, accordi energetici, perdita di credibilità internazionale dopo la concessione delle basi militari per un attacco militare e violazione del trattato di amicizia italo-libico, aumento dei migranti e probabilmente del traffico di droga) (5). Nel 1999, la Russia che aveva però posto il veto all’intervento nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, favorì con Chernomyrdin la fine delle ostilità; è probabile che ora molti, Berlusconi per primo, si augurino una mediazione russa per trovare una via d’uscita vantaggiosa per tutti.

Non sappiamo, infatti, quanto durerà ancora questa coalizione improvvisata di governi che ormai non hanno più nemmeno la decenza di vergognarsi delle proprie bugie, ma, soprattutto, dopo quanto esportato in Kosovo (dove i gestori del potere organizzavano i traffici di organi umani (6)), Iraq (con nefandezze come l’embargo sul latte ai bambini e le torture di Abu Ghraib) e Afghanistan (dove si confondono trafficanti di droga e necrofili) (7), attendiamo “fiduciosi” di scorgere i frutti del loro “intervento umanitario” in Libia.

 

* Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, è autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Ed. Noctua, Molfetta, 2008.


Note

 

  1. Paolo Pazzini su “Il Giornale”: “Vengo da Tripoli e vi dico che i giornali raccontano un sacco di menzogne”, 26 febbraio 2011, www.ilgiornale.it
  2. “I militari russi: nessun attacco aereo in Libia”, 2 marzo 2011, http://www.eurasia-rivista.org/8536/i-militari-russi-nessun-attacco-aereo-in-libia
  3. LIBIA:STRATEGA, NO FLY ZONE COME BOSNIA RISCHIA DI FALLIRE PERICOLO E’ STALLO, PAESE DIVISO PREVALGONO IDENTITA’ REGIONALI (ANSA) – ROMA, 21 MAR ”Stanno tentando di far cadere Gheddafi come avvenne con Milosevic negli Anni Novanta” ma ”questa volta potremmo fallire”. E’ quanto afferma Robert Kaplan, stratega militare del Center for New American Security, intervistato da La Stampa. ”In Libia vogliono imporre una no fly zone come la Nato fece nel 1994 sui cieli della Bosnia e anche nel 1999 sul Kosovo – afferma Kaplan – conducendo una campagna aerea di 99 giorni. Ma quelle due operazioni militari non portarono alla caduta di Milosevic, perche’ una no fly zone non e’ in grado di innescare cambiamenti di regime”. In Libia, secondo l’esperto, si sta tentando di indebolire Gheddafi allo stesso modo, ”fino al punto da portare qualcuno del suo campo a prendere l’iniziativa per eliminarlo o allontanarlo dal potere”. Ma la Libia ”non e’ la Serbia”. ”La Libia, in realta’, come stato non esiste – prosegue – perche’ a prevalere sono piuttosto le identita’ regionali in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan”. ”Se una no fly zone riesce a salvare Bengasi – afferma Kaplan – e indebolisce Gheddafi in Cirenaica, non significa che cio’ avverra’ anche in Tripolitania”. Il rischio per la coalizione e’ arrivare ad una situazione di stallo: ”la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo”. (ANSA).
  4. http://www.eurasia-rivista.org/8828/libia-che-alternative-aveva-litalia
  5. http://www.eurasia-rivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia
  6. http://www.eurasia-rivista.org/7839/kosovo-il-rapporto-marty-e-stato-censurato-da-israele

 

 

 

Pauvre Europe !

Pauvre Europe !

 

Ugo GAUDENZI

 

cameron-sarkozy.jpgNous ne pouvons pas vraiment affirmer que la nouvelle alliance entre Londres et Paris a été dûment sanctionnée par les termes de l’Accord franco-britannique de novembre 2010. Quoi qu’il en soit, les faits sont là et attestent d’une alliance en bon état de fonctionnement. Depuis lors, le bonhomme Sarközy a jeté aux orties la politique gaullienne anti-atlantiste et s’est découvert un nouveau rôle : celui d’être le fer de lance d’un nouvel Occident pugnace.

 

D’où l’agression éhontée perpétrée contre la Libye. D’où l’élimination du traditionnel pacte franco-allemand, qui était plus ou moins l’avatar de la politique inaugurée par De Gaulle pour faire advenir une « Europe européenne », autour d’un axe privilégié, dit « axe carolingien » ; celui-ci partait de Paris pour atteindre Berlin et, éventuellement, se projeter vers Moscou.

 

Au lieu d’emprunter la voie de l’indépendance européenne, Sarközy a fait sonner le glas annonçant le décès définitif de tout Etat supranational européen.

 

Sarközy a placé la France dans le sillage de la Grande-Bretagne : les deux puissances fonctionnent désormais comme roue de secours au fameux G2, c’est-à-dire le condominium monétaire et économique USA/Chine, qui impose ses volontés à tous, et disposent de tous, sur une planète occidentalisée.

 

Le binôme franco-britannique a réinventé des « rôles nationaux », c’est-à-dire néocoloniaux visant à apporter la « sécurité » en zone méditerranéenne : dans le Maghreb et au Proche-Orient, en Syrie et au Liban. Comme au bon vieux temps des accords Sykes-Picot. Que voilà en effet un beau passé à ressusciter !

 

Ugo GAUDENZI.

(éditorial du journal « Rinascita », Rome, 29 mars 2011 ; http://rinascita.eu/ ).

Obiettivo dei globalisti: la banca centrale libica

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Obiettivo dei globalisti: la banca centrale libica

di Eric V. Encina

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte] 


Una notizia raramente menzionata dai politici occidentali e gli esperti dei media: la Banca Centrale Libica (N.d.T: d'ora in poi siglata con BCL) è posseduta al 100% dallo Stato. I globalisti della finanza internazionale e i manipolatori del mercato non lo gradiscono e sono intenzionati a proseguire nei loro sforzi già avviati per detronizzare Muammar Muhammad al-Gaddafi, determinando la fine della Libia come nazione indipendente.

Al momento, il governo libico crea la propria moneta, il dinaro, attraverso gli impianti della banca centrale. Alcuni potrebbero obiettare che la Libia è uno stato sovrano con grandi risorse naturali, capace di sostenere il proprio destino economico. Uno dei maggiori problemi per i cartelli bancari globalisti è che, per fare affari con la Libia, devono accordarsi con la BCL e la sua valuta, e per questi motivi hanno un dominio e una forza contrattuale pari a zero. In conseguenza di ciò, spazzare via la BCL non figurerà di certo nei discorsi di Obama, di Cameron e di Sarkozy ma è sicuramente in cima alla lista all'agenda globalista per assorbire la Libia nello sciame di nazioni accondiscendenti.

Quando il fumo dei missili Cruise e delle bombe cluster cesserà, si vedranno all'opera i riformatori dell'Occidente per riformare il sistema monetario libico, saturandolo di dollari senza valore, avviando così una serie di caotici cicli inflattivi.

La BCL è attualmente un ente al 100% di proprietà statale e rappresenta l'autorità monetaria della Jamahiriya Araba Libica del Popolo Socialista. La struttura finanziaria e le procedure gestionali di una banca statale sono naturalmente molto differenti da quelle di una banca centrale europea o di quella statunitense; le sue quote non sono detenute da banche speculative o da una lista non rivelata di azionisti privati, così come avviene per la US Federal Reserve o la Banca d'Inghilterra. Le leggi costituzionali libiche danno incarico alla BCL di mantenere la stabilità monetaria e di promuovere una crescita sostenibile della sua economia nazionale. La Libia detiene inoltre il maggior numero di lingotti d'oro in proporzione al Prodotto Interno Lordo di qualsiasi altro paese, eccetto il Libano, secondo il World Gold Council che ha sede a Londra, in base ai report di gennaio del FMI. Il prezzo dell'oro è salito a $1,429.74 per oncia il 25 marzo 2011.

Quest'oro rimarrà in Libia una volta che le forze alleate avranno preso il controllo di Tripoli, oppure verrà smarrito, o verrà scambiato con vagonate su vagonate di foglietti con sopra stampata la scritta 'US Dollars'?

PIEGARE LA LIBIA AL NUOVO ORDINE MONDIALE

Nello statuto bancario libico, uno dei principali mandati è quello di regolare la quantità, la qualità e il costo del credito per incontrare le richieste di crescita economica e di stabilità monetaria. Questo, naturalmente, è esattamente l'opposto di quanto venga svolto dalle banche centrali possedute dai privati in tutto il mondo. Le banche centrali private favoriscono l'inflazione, creano bolle speculative per poi sgonfiarle, per trasferire ingenti somme di denaro dai ceti bassi e medi nelle mani delle élite finanziarie.

Sta diventando facile diagnosticare le vere cause del caso nel Medio Oriente e dei perduranti attacchi contro la Libia. Finanza, petrolio, militarizzazione e imperialismo, globalizzazione: tutto ciò fa parte dell'agenda corrente del Nuovo Ordine Mondiale. Egitto e Tunisia sono entrambe cadute in mano a dittature militari ad interim, e sono state rese schiave da miliardi di prestiti a basso costo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) e della Banca Mondiale.

Qualsiasi nazione che corra nella direzione opposta all'ortodossia del NWO verrà sicuramente ostracizzata e portata in salvo dalla mannaia militare. Le azioni di guerra 'legittime' contro queste nazioni non globaliste sono designate per umiliare, degradare e compromettere i diritti umani internazionali, una condizione che è largamente non condivisa nella maggior parte dei mondo.

UN PUPAZZO CANADESE DESIGNATO LEADER PER LE OPERAZIONI DELLA NATO IN LIBIA

La maggioranza degli osservatori direbbe che il Canada è neutrale nel conflitto libico. Ma in questo caso, il consesso degli avidi potenti del mondo ha deciso che il Canada sarà in prima fila nell'intervenire nel caos libico. Con rispetto per i leader e gli ufficiali del Canada, la sua partecipazione in questo conflitto così peculiare e nella copertura dell'opera di Obama in Libia sono troppo efficaci per incamerare profitti e per impossessarsi delle risorse di quella particolare regione del mondo.
“Il ministro della Difesa del Canada Peter MacKay ha riferito venerdì che il generale Charles Bouchard è stato incaricato di condurre la campagna militare degli alleati in Libia”, (Yahoo News, 25 marzo 2011). Bouchard è di stanza a Napoli, Italia, al Comando Unitario della Forze Alleate. Il più recente incarico di Bouchard è stato quello di comandante del NORAD. MacKay aggiunge anche che “sarà comandante delle operazioni NATO, che sono ancora in fase di determinazione”.

Questa è un'ulteriore sfida per il popolo canadese; un'altra ripercussione è data dal fatto che il budget canadese sarà prosciugato da questi interventi, mentre la Bank of Canada ha come principale attività la finanza del debito. Se il Canada, in un futuro non troppo distante, continuerà a partecipare ai conflitti, diventerà allora una pienamente compiuta nazione globalista e guerrafondaia, unendosi così a USA e Regno Unito.

Ci si potrebbe chiedere cosa diventerà il mondo che è perennemente in uno stato di conflitto. Perché costruire valore solo per distruggerlo con le guerre? Perché aumentare le tasse, spendere e senza ragione devastare le entrate dello stato, creare moneta dal nulla in maniera simile all'usura, e prendere o dare in prestito denaro con interessi di modo che il debito nazionale si accumuli con progressione geometrica? Vedremo i risultati col passare del tempo: il collasso economico, la creazione di povertà, il finanziamento continuo ai venditori e produttori di armi, le guerre tecnologiche più sofisticate della storia che causano le devastazioni più incredibili e danni irreparabili alla vita umana e a quella delle nazioni.

Se le politiche estere occidentali continueranno ad avere come base la guerra, per piegare sotto il proprio controllo le risorse mondiali, sembra non esserci un futuro per l'umanità.



Eric V. Encina, vive nelle Filippine e lavora come attivista e riformatore sociale. E' anche un sostenitore del credito sociale.

Fonte: http://21stcenturywire.com
Link: http://21stcenturywire.com/2011/03/28/globalist-target-the-central-bank-of-libya-is-100-state-owned/


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Presseschau - April 2011 / 1

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Presseschau

April 2011 - 1

Hallo,
einige Links. Bei Interesse anklicken...

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AUßENPOLITISCHES

Pakistanischer Minister für Minderheiten ermordet
http://www.fnp.de/fnp/nachrichten/politik/pakistanischer-minister-fuer-minderheiten-ermordet_rmn01.c.8720663.de.html

Allah erhalte uns den verrückten Gaddafi
Von Robert Hepp
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M53e309043ec.0.html

Islamische Demokratie?
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5085fe4f2e8.0.html

Nicht nur Libyen brennt: Islamistische Gewalt in Ägypten und Tunesien in beängstigendem Ausmaß
http://www.blauenarzisse.de/index.php/gesichtet/2380-nicht-nur-libyen-brennt-islamistische-gewalt-in-aegypten-und-tunesien-in-beaengstigendem-ausmass

(Cohn-Bendit sitzt beim Rotwein in seiner Frankfurter Luxus-Gründerzeitwohnung und übt sich als Kriegstreiber…)
Cheerleader „humanitärer Interventionen“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5badad267b7.0.html

Die "Libysche Revolution" und die gigantischen libyschen
Wasserreserven
http://www.politaia.org/wp-content/uploads/2011/03/Die-libysche-Revolution.pdf

Der kleine de Gaulle und der große Rat
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5a88fee82d5.0.html

Bomben im Namen der Humanität
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M57e03c11987.0.html

Gaddafi und Merkel
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5af7ffb89b0.0.html

Katzenjammer der Intellektuellen nach Referendum in Ägypten
http://www.abendblatt.de/politik/ausland/article1826529/Katzenjammer-der-Intellektuellen-nach-Referendum-in-Aegypten.html

Mahnwächter und Kerzenhalter
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M59f30c63b2a.0.html

Die Wiedergeburt der Entente cordiale
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5d2351f17a8.0.html

(Godwin´s Law, mal wieder im Turbotempo)
Nahost-Konflikt
Netanjahu vergleicht Ajatollah Chamenei mit Hitler
http://www.welt.de/politik/ausland/article12948453/Netanjahu-vergleicht-Ajatollah-Chamenei-mit-Hitler.html
Israel bringt Raketenabwehr in Stellung
http://www.dw-world.de/dw/function/0,,83389_cid_14946294,00.html

X-37B
Das geheimste Raumschiff der Welt
http://www.berlinonline.de/berliner-kurier/print/politik/339136.html

(so in etwa dürfte sich das die hiesige „Linke“ vermutlich hierzulande wünschen…)
Wut über Entlassungen
Indische Arbeiter verbrennen Manager
http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/0,1518,749062,00.html

(auf ein Urteil dürften die Täter lange warten können...)
Bummeljustiz
Indien hat die wahrscheinlich langsamsten Richter der Welt
http://www.augsburger-allgemeine.de/panorama/Indien-hat-die-wahrscheinlich-langsamsten-Richter-der-Welt-id14108971.html

(so sieht in etwa die reale Zukunftswelt unserer "Autonomen" aus, die gegen den "Bullenstaat" sind...)
Todesangst im Drogenkrieg
Schöne Polizeichefin (20) aus Mexiko flieht in die USA
http://www.bild.de/BILD/news/2011/03/04/mexiko-polizeichefin/morddrohungen-asyl-usa.html
http://www.fr-online.de/panorama/polizeichefin-auf-der-flucht/-/1472782/7732810/-/index.html

China
Weltwirtschaftliche Umbrüche
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M56475797f99.0.html

Fünfjahresplan
China baut die Kernkraft massiv aus
Während Atommeiler in Japan außer Kontrolle geraten sind, stimmt der Volkskongress in China für ehrgeizige Pläne zum Ausbau der Kernenergie. Kein Land will so viele Atomkraftwerke bauen wie das Reich der Mitte.
http://www.badische-zeitung.de/nachrichten/wirtschaft/china-baut-die-kernkraft-massiv-aus--42666599.html

Serbien
Knöllchen nur auf Kyrillisch
http://www.morgenweb.de/nachrichten/politik/20110310_mmm0000001353843.html

Lettisches Gericht genehmigt Kundgebung von SS-Veteranen
http://www.europeonline-magazine.eu/lettisches-gericht-genehmigt-kundgebung-von-ss-veteranen_116263.html

Slowenien: Zentralbank ehrt Kommunisten auf Zwei-Euro-Münze
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5afbadc52db.0.html

Grenzstreit: Konflikt um preußische Gedenktafel
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M522a4c75854.0.html

Polen protestieren gegen Holocaust-Buch
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5529c4e636a.0.html

Papst Benedikt XVI.Papst besucht Gedenkstätte für NS-Opfer
http://www.focus.de/panorama/vermischtes/papst-benedikt-xvi-papst-besucht-gedenkstaette-fuer-ns-opfer_aid_612733.html

Südafrika Petition gegen Lesbendiskriminierung: „Korrigierende Vergewaltigungen“ stoppen http://www.avaaz.org/de/stop_corrective_rape_6/?cl=990439501&v=8710

"Korrigierende Vergewaltigung"
Lesben wehren sich gegen Schändung
http://www.n-tv.de/mediathek/sendungen/auslandsreport/Lesben-wehren-sich-gegen-Schaendung-article858811.html

Portugal-Krise! Wie viel muss Deutschland zahlen?
http://www.bild.de/politik/2011/portugal-krise/sparpaket-abgelehnt-ruecktritt-17049176.bild.html

INNENPOLITISCHES / GESELLSCHAFT / VERGANGENHEITSPOLITIK

(gute Zustandsdokumentation…)
Kommunalwahl
Resigniert oder ahnungslos
http://www.fr-online.de/frankfurt/resigniert-oder-ahnungslos/-/1472798/8282260/-/index.html

Atomkraftwerk Isar II: Wie SPD und Grüne am AKW verdienen
Beide surfen auf der Anti-Atom-Welle. Die Grünen mit vollem Erfolg, die SPD halb obenauf. Beide verschweigen: Seit zig Jahren profitiert die rot-grüne Stadt München von einer 25-Prozent-Beteiligung am Atomkraftwerk Isar II.
http://www.stern.de/politik/deutschland/atomkraftwerk-isar-ii-wie-spd-und-gruene-am-akw-verdienen-1606196.html

Das passive Bürgertum
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5408f4cd7d1.0.html

Wertung aller Umwertungen
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M584515fca3f.0.html

Protest in der Wohlstandsgesellschaft: Unwetter in Sicht
http://www.blauenarzisse.de/index.php/anstoss/2347-protest-in-der-wohlstandsgesellschaft-unwetter-in-sicht

Schüsse auf US-Soldaten
Das Doppelleben des Attentäters Arid U.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article12685755/Das-Doppelleben-des-Attentaeters-Arid-U.html

CDU wertet Linkspartei gezielt auf
Ein „Streitgespräch“ mit Hintergrund
http://www.freie-waehler-frankfurt.de/artikel/index.php?id=51

Studie zum Wählerverhalten
Grüne machen Union und FDP Konkurrenz
http://www.rp-online.de/politik/deutschland/Gruene-machen-Union-und-FDP-Konkurrenz_aid_979499.html

Erste nach Holocaust ordinierte Rabbinerin eingeführt
http://www.bild.de/regional/bremen/bremen-regional/rabbinerin-alina-treiger-wird-ins-amt-eingefuehrt-17109074.bto.html

Israel und Unesco fördern Holocaust-Bildung
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b63fcc2b2b.0.html

(sie brauchen mal wieder die alte Leier…)
"Mein Kampf"-Verfilmung
Als Hitler noch Klein-Adolf war
http://www.spiegel.de/kultur/kino/0,1518,748675,00.html

Theater goes Kino
Sein Krampf
http://www.tagesspiegel.de/kultur/kino/sein-krampf/3904290.html

Lettow-Vorbeck-Allee: Gericht weist Klage gegen Umbenennung ab
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5637e14535c.0.html

Frankfurt
EZB-Neubau
Einigung bei Gedenkstätte
http://www.fr-online.de/frankfurt/einigung-bei-gedenkstaette/-/1472798/8072820/-/index.html

Hamburg
Kriegsdenkmal: Ideologie aus Muschelkalk
http://www.abendblatt.de/kultur-live/article1817275/Kriegsdenkmal-Ideologie-aus-Muschelkalk.html

Historiker kritisiert ARD für Äußerung zur Vertreibung
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b964880644.0.html

Unbekannte schänden Münchner Soldatenfriedhof
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5c189169501.0.html

The Soviet Story und das baltische Ärgernis
http://www.sezession.de/23801/the-soviet-story-und-das-baltische-argernis.html#more-23801

Buchmesse 2011, die Erste
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5d6621dd81a.0.html

Agentur Karl Höffkes
http://www.karlhoeffkes.de/wp/

(ziemlich schräg im Stil…)
Demonstration für die Freilassung Horst Mahlers
http://www.4shared.com/video/GlCdy8b-/Horst_Mahler_Freiheit.html

LINKE / KAMPF GEGEN RECHTS / ANTIFASCHISMUS

(The old game: Antifa outet, Frankfurter Rundschau verbreitet, Arbeitgeber knickt ein…)
Neonazis
Die zwei Gesichter des jungen G.
Ein Auszubildender der Kreisverwaltung Offenbach ist angeblich rechtsextrem. Neue "Kameradschaften" machen im Rhein-Main-Gebiet derzeit von sich reden.
http://www.fr-online.de/frankfurt/die-zwei-gesichter-des-jungen-g-/-/1472798/8252262/-/index.html
(nach zwei Tagen ist er bereits gefeuert…)

Wer hat uns verraten? – Teil II
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M51c2068acb4.0.html

Verdacht und Mimikry (2)
http://www.sezession.de/23496/verdacht-und-mimikry-2.html

Linken-Politiker wegen Beleidigung verurteilt: Sarrazin kein „Arsch“, dafür aber „Fascho“?
http://www.blauenarzisse.de/index.php/aktuelles/2362-linken-politiker-wegen-beleidigung-verurteilt-sarrazin-kein-arsch-dafuer-aber-fascho

SPD-Politiker zeigt Seehofer wegen Volksverhetzung an
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b2c4e32242.0.html

(Auch so ein Vollirrer. Man sieht: Zuviel Linksliberalismus und Vergangenheitsbewältigung haben für das Hirn die selbe Wirkung wir Jahre langer Drogenmissbrauch…)
Ich werfe Kieselsteine in den Strom…
Privater Blog von Ulrich Kasparick, Berlin
Wehret den Anfängen! Weshalb ich Horst Seehofer angezeigt habe….
http://ulrichkasparick.wordpress.com/2011/03/10/wehret-den-anfangen-weshalb-ich-horst-seehofer-angezeigt-habe/

Cottbusser Polizeichef unter Stasi-Verdacht
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M51d8f0ae6c3.0.html

SPD kritisiert neuen Stasi-Beauftragten
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M570b9007ef8.0.html

«Respekt! Kein Platz für Rassismus»
IG Metall will stärker gegen Rassismus vorgehen
Günter Wallraff und Andy Möller unterstützen Initiative in den Betrieben
http://www.nh24.de/index.php/vermischtes/22-allgemein/42478-ig-metall-will-staerker-gegen-rassismus-vorgehen

„Hilfe, die Touris kommen!“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5f14de76765.0.html

„Google den mal“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M558840d20f4.0.html

(Schöner Inside-Bericht… Soviel zum Reflexionsvermögen der Linken…)
Rechts = Links? Die Folgen einer fatalen Gleichsetzung und: woher kommt der Extremismusbegriff?
http://www.blauenarzisse.de/index.php/anstoss/2365-rechts-links-die-folgen-einer-fatalen-gleichsetzung-und-woher-kommt-der-extremismusbegriff

Linken-Kandidaten gehören linksextremen Organisationen an
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5322844f4c9.0.html

(eine wahrlich ganz seltsame Geschichte. Vielleicht wurde ja das Hirn gleich mit ausgewechselt?...)
Parteiübertritt nach Geschlechtsumwandlung
Linke Frau, rechter Mann
http://www.sueddeutsche.de/politik/parteiuebertritt-nach-geschlechtsumwandlung-linke-frau-rechter-mann-1.1070422

Film
Deutschland vor der RAF: «Wer wenn nicht wir»
http://www.fnp.de/nnp/nachrichten/kultur/deutschland-vor-der-raf-wer-wenn-nicht-wir_rmn01.c.8739776.de.html

War die RAF eine Frauen-Befreiungsfront?
http://www.werwennnichtwir-film.de/?p=382

"Mich interessieren die verborgenen Treibsätze"
Heute kommt Andres Veiels "Wer wenn nicht wir" in die Kinos und erzählt die Vorgeschichte der RAF. Sie fällt anders aus als erwartet
http://www.welt.de/print/die_welt/kultur/article12756108/Mich-interessieren-die-verborgenen-Treibsaetze.html

RAF-Terrorist enttarnt Bundesanwalt Buback als NSDAP-Mitglied
http://nachrichten.rp-online.de/politik/raf-terrorist-enttarnt-bundesanwalt-buback-als-nsdap-mitglied-1.577899

Grüne Paradoxien
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5f174accf11.0.html

Grüner Supermarkt
Joschka Fischer als Öko-Berater
http://www.journal-frankfurt.de/?src=journal_news_einzel&id=9949

Joschka Fischer kommentiert sein Leben in einem Kinofilm
http://www.sn-online.de/Nachrichten/Kultur/Uebersicht/Joschka-Fischer-kommentiert-sein-Leben-in-einem-Kinofilm

Gericht verurteilt Angeklagten zu Geldstrafe
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M550d056e301.0.html

Linksverdrehte Gegendemo in Frankfurt
http://www.pi-news.net/2011/03/linksverdrehte-gegendemo-in-frankfurt/

(Ihre Worte verraten ihre wahren politischen Positionen…)
Bayern: SPD-Politikerin wirft Verfassungsschutz „politische Stimmungsmache“ vor
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5be8b213100.0.html

Jagd des Andrea-Röpke-Clans erfolglos: „Erste Worte“ auf Buchmesse mit Leipziger Literaturverlag vorgestellt / Rilke-Preis an Berressem
http://www.blauenarzisse.de/index.php/aktuelles/2397-jagd-des-andrea-roepke-clans-erfolglos-erste-worte-auf-buchmesse-gemeinsam-mit-leipziger-literaturverlag-vorgestellt-rilke-preis-an-berressem

Der undeutsche Rilke und das trojanische Pferd
http://www.sezession.de/23630/der-undeutsche-rilke-und-das-trojanische-pferd.html

"Dich kennen wa, Dich wählen wa"
"Deutschlands frechster Arbeitsloser" Henrico Frank drängt in die Politik
Bei den Wiesbadener Kommunalwahlen tritt er am 27. März für den Ortsbeirat an
http://www.welt.de/print/welt_kompakt/frankfurt/article12902368/Dich-kennen-wa-Dich-waehlen-wa.html
http://www.bild.de/BILD/regional/frankfurt/dpa/2011/03/20/der-einst-frechste-arbeitslose-geht-in-die.html

Deutschlands frechster Arbeitsloser Henrico Frank geht in die Politik!
http://www.bild.de/politik/inland/henrico-frank/wechsel-in-die-politik-geglueckt-17125190.bild.html

Kritik an Hamburger Innensenator wegen Äußerungen zur „Roten Flora“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M58c551c7b52.0.html

Linksextremisten schicken Patrone an Innenminister
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M59080c24081.0.html

HH: Hotel sagt Veranstaltung mit NPD-Anwältin ab
http://de.indymedia.org/2011/03/303242.shtml

EINWANDERUNG / MULTIKULTURELLE GESELLSCHAFT

McAllister dankt türkischen Einwanderern
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5119aae52ea.0.html

Grüne und SPD fordern Aufnahme von Einwanderern aus Nordafrika
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M57d0ae3358e.0.html

Grüne fordern Abschiebestopp für Zigeuner in den Kosovo
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M52991d9dbf4.0.html

Kulturverein Rom e.V. - Roma-Lobby in Deutschland
http://www.romev.de/

Warum Bilz-Preis für den Rom e.V.?
Aus der Rede von Fritz Bilz
http://www.nrhz.de/flyer/beitrag.php?id=1132

HNA-Interview mit Henryk M. Broder zur Islam-Debatte: „Das ist ein absoluter Nullsatz“
http://www.hna.de/nachrichten/politik/politik-lokal/henryk-broder-das-absoluter-nullsatz-1155405.html

Grüne und Islamverbände kritisieren neuen Innenminister
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M55b6c53eb8f.0.html

Union stützt Friedrich nach Breitseite gegen Islam
http://www.welt.de/politik/deutschland/article12702140/Union-stuetzt-Friedrich-nach-Breitseite-gegen-Islam.html

Streit bei Islamkonferenz: Friedrich im Dschihad
http://www.stern.de/politik/deutschland/streit-bei-islamkonferenz-friedrich-im-dschihad-1669321.html

Menschenrechtsbeauftragter besorgt über Islamkonferenz
http://blog.zeit.de/joerglau/2011/03/31/menschenrechtsbeauftragter-besorgt-uber-islamkonferenz_4772

Friedrich: Probleme „nicht politisch korrekt ausblenden“
http://www.focus.de/politik/deutschland/gesellschaft-innenminister-friedrich-weist-kritik-zurueck_aid_613783.html

(naiv)
Rede von Erdogan
Störende Gräben
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/stoerende-graeben-1142415.html

(Mozart-Oper in türkisch… Es soll der Integration dienen; inwiefern wird nicht erläutert)
Türkisch in der Oper, Tafeln mit Barenboim
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/tuerkisch-in-der-oper-tafeln-mit-barenboim_rmn01.c.8719869.de.html
Türkische Entführung
http://www.welt.de/print/welt_kompakt/vermischtes/article12667775/Tuerkische-Entfuehrung.html
(lapidare Presse-Meldungen)

(Auch der Film „Almanya“ wird wohl der „Integration“ dienen sollen…)
Text von Britta Schmeis, dpa. Vielfach in der Regionalpresse gedruckt
http://www.stern.de/kultur/film/almanya-willkommen-in-deutschland-witzige-und-warmherzige-familiengeschichte-1662069.html

(Gesinnungsethiker Wulff möchte die Lage in Nordafrika vollends eskalieren lassen…)
Wulff kritisiert zögerliches Vorgehen der EU gegen Libyen
Bundespräsident Christian Wulff hat das zögerliche Vorgehen der EU gegen die libysche Führung kritisiert.
http://www.stern.de/news2/aktuell/wulff-kritisiert-zoegerliches-vorgehen-der-eu-gegen-libyen-1658404.html

Polenz: Kirchen sollen für den Islam werben
Der CDU-Politiker Ruprecht Polenz hat die deutschen Kirchen dazu aufgefordert, der Bevölkerung ein besseres Bild vom Islam zu vermitteln.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5776298db50.0.html

(mit solchen Späßchen vertreibt sich eine bestimmte Klientel Jugendlicher die Freizeit. Manchmal natürlich auch noch mit Gewalt garniert…)
Penner in Frankfurt am Main Aufmucken
http://www.youtube.com/watch?v=iXqnZfx-4S0

SPD-Intergrationsbeauftragte: Brüder gehören Islamisten-Szene an
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5fedf572d96.0.html

„Obama von Altona“ tief gefallen: Ex-Bürgerschaftsabgeordneter Bülent Ciftlik verhaftet
http://www.blauenarzisse.de/index.php/aktuelles/2388-obama-von-altona-tief-gefallen-ex-buergerschaftsabgeordneter-buelent-ciftlik-verhaftet

Konstanz
Brutaler Überfall auf SPD-Politikerin
http://www.suedkurier.de/region/kreis-konstanz/konstanz/landtagswahl-konstanz./Brutaler-Ueberfall-auf-SPD-Politikerin%3Bart372448,4779057

(hier wird mal wieder die Nationalität verschwiegen. Nur von „jungen Männern“ ist die Rede)
Nach Attacke iPhone geklaut
http://www.familien-blickpunkt.de/aktuelles/nach-attacke-iphone-geklaut.html

Drei Männer in Hanau schlugen Prostituierte und zwangen sie zum Sex / Geständnis vor Gericht
Brutale Vergewaltiger
http://www.op-online.de/nachrichten/hanau/brutale-vergewaltiger-prozess-gestaendnis-1157414.html

Türkischer Fußballer zu Haftstrafe verurteilt
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5ff20ee825e.0.html

Libanesen verletzen Polizisten
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b6ab2ba547.0.html

(wenn in einem dpa-Artikel ungewöhnlicherweise die Herkunft der Täter betont wird, dann nur, um die „deutsche“ Herkunft zu betonen. Wie „deutsch“ diese dann in Wirklichkeit ist, könnte ja mal recherchiert werden…)
Obdachlosen erschlagen: Drei Jugendliche unter Mordverdacht
Vermutlich aus Langeweile haben drei Jugendliche im Wiesbadener Kurpark auf einen Obdachlosen eingeschlagen. Die Polizei sucht nach Indizien.
http://www.abendblatt.de/vermischtes/article1823164/Obdachlosen-erschlagen-Drei-Jugendliche-unter-Mordverdacht.html

Busfahrer attackiert - Offenbach
http://www.presseportal.de/polizeipresse/pm/43561/2010501/polizeipraesidium_suedosthessen_offenbach

Berlin
Türken und Araber prügeln jungen Mann bewusstlos
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5abddd60f53.0.html

Ausländerkriminalität: Drei „Südländer“ überfallen Rentnerin in ihrem Haus
http://www.blauenarzisse.de/index.php/aktuelles/2402-auslaenderkriminalitaet-drei-suedlaender-ueberfallen-rentnerin-in-ihrem-haus

Brutaler Überfall im U-Bahnhof Kurfürstendamm
http://www.morgenpost.de/printarchiv/titelseite/article1589170/Brutaler-Ueberfall-im-U-Bahnhof-Kurfuerstendamm.html

Fehlgeburt nach Tritten in den Unterleib
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5ee755aa130.0.html

KULTUR / UMWELT / ZEITGEIST / SONSTIGES

Städtebau
Die Sehnsucht der Deutschen nach der alten Zeit
http://www.welt.de/reise/staedtereisen/article12904672/Die-Sehnsucht-der-Deutschen-nach-der-alten-Zeit.html

Stadt Hannover lehnt Brückenhäuschen ab
Die Rekonstruktion des historischen Originals am Hohen Ufer in Hannover ist unerwünscht: Die Verwaltung hat eine entsprechende Bauvoranfrage abgelehnt – vor allem mit Verweis auf den Denkmalschutz.
http://www.haz.de/Hannover/Aus-der-Stadt/Uebersicht/Stadt-Hannover-lehnt-Brueckenhaeuschen-ab

Finanz-Krise um Schloss Herrenhausen
Dezernentin verwechselt brutto mit netto!
http://www.bild.de/regional/hannover/hannover/finanz-krise-um-schloss-herrenhausen-16887782.bild.html

Herrenhausen liegt voll im Plan
Schloss wird wieder aufgebaut
http://www.n-tv.de/reise/Schloss-wird-wieder-aufgebaut-article2672896.html

(Infantiler Größenwahn)
Der “Sky Tree” in Japan: Tokio hat jetzt den höchsten Fernsehturm der Welt
http://www.reisenews-online.de/2011/03/03/der-sky-tree-in-japan-tokio-hat-jetzt-den-hoechsten-fernsehturm-der-welt/

Verbindungshäuser
Wo Studenten billig wohnen und Vollwichs tragen
http://www.welt.de/wirtschaft/karriere/article13020213/Wo-Studenten-billig-wohnen-und-Vollwichs-tragen.html

Samenbomben
http://www.kuenstlerohnenamen.de/samenbomben/index2.html

Jeder kann Guerilla Gärtner werden! So leicht geht’s:
http://www.guerillagaertner.com/tipps/

Zum geistigen Eigentum
Fremdzündung
http://www.sueddeutsche.de/kultur/zum-geistigen-eigentum-fremdzuendung-1.23420

„Tatort“
Kein Klischee zu kitschig
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M506b966eac8.0.html

FamilieTrendforscher: Medienkonsum prägt Arbeitswelt
http://www.n-tv.de/ticker/Beruf/Trendforscher-Medienkonsum-praegt-Arbeitswelt-article2957181.html

Sport: Fußball
DFB will DDR-Fußball aufarbeiten
http://www.rheinpfalz.de/cgi-bin/cms2/cms.pl?cmd=showMsg&tpl=rhpMsg_thickbox.html&path=/rhp/sport/fuba&id=sid71d25bf7ea6d3791629013b94b0509ae.171

USA
Star-Staatsanwalt beim Koks-Shopping erwischt
http://www.bild.de/BILD/unterhaltung/leute/2011/03/22/paris-hilton-bruno-mars/star-staatsanwalt-david-charles-schubert-drogen-kauf-koks-shopping-erwischt.html

(Das Tierreich ist voll von unterschiedlichen sexuellen und Partnerschaftsmodellen…)
Ausstellung in London
Animalische Triebe
http://www.sueddeutsche.de/wissen/ausstellung-in-london-animalische-triebe-1.1072701
(danach auf Seite 2 weiterklicken…)

Biologieunterricht mal anders
Ausstellung "Sexual Nature" in London eröffnet
http://www.shz.de/nachrichten/deutschland-welt/leute/artikeldetail/article/2158/ausstellung-sexual-nature-in-london-eroeffnet.html

Anthropologie
Unser träges Erbgut
Viele menschliche Genvarianten sind erheblich älter als vermutet
http://www.spektrumverlag.de/artikel/1064538

Rituale
Was unser Leben zusammenhält
http://www.spektrumverlag.de/artikel/1058310

Chris Dercon
„Das Künstlerprekariat sitzt in der Falle“
http://www.monopol-magazin.de/artikel/20101584/-chris-dercon-kuenstlerprekariat.html

SOTTOFASCIASEMPLICE _ COME MAI _ (ascoltare, tutto vero!!!)
http://www.youtube.com/watch?v=JfKJ2feC0PA&feature=player_embedded#at=216

Das tragische Scheitern des "Postkommunismus" in Osteuropa

Das tragische Scheitern des »Postkommunismus« in Osteuropa

Dr. Rossen Vassilev

Im vergangenen Jahr stürzte sich kurz vor Heiligabend ein Ingenieur des öffentlich-rechtlichen Fernsehens aus Protest gegen die umstrittene Wirtschaftspolitik von einer Balustrade im rumänischen Parlament, als der Ministerpräsident des Landes dort gerade eine Rede hielt. Der Mann überlebte den Selbstmordversuch und soll vor seinem Sprung gerufen haben: »Sie nehmen unseren Kindern das Brot aus dem Mund! Sie haben uns um unsere Zukunft gebracht!« Der Demonstrant, der in ein Krankenhaus gebracht wurde, trug ein T-Shirt mit der Aufschrift »Sie haben uns um unsere Zukunft gebracht« und wurde später als der 41-jährige Adrian Sobaru identifiziert. Seiner Familie war vor Kurzem im Rahmen der letzten Haushaltskürzungen die staatliche Hilfe für seinen autistischen Sohn im Teenageralter gestrichen worden…

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/dr-...

Un texte prophétique de 1925

Un texte prophétique de 1925

 

ROMIER.jpg« Pour son idéal comme pour son bien-être, c’est donc en soi que l’Europe doit chercher le salut.

 

Voudra-t-elle se sauver ? Une telle volonté exigerait de sa part de grands redressements. Car l’Europe glisse  aujourd’hui avec complaisance sur la pente d’un général abandon.

 

Elle y glisse, entrainée par la double loi de l’égoïsme individuel et du moindre effort. Elle y glisse, croyant poursuivre un idéal nouveau qu’elle appelle « démocratique ». En réalité, elle vit de ses restes, aussi incapable d’adopter les dures lois de la morale païenne et naturelle que de revenir à la morale chrétienne. Rien de plus frappant que son égale impuissance à pratiquer la solidarité ou la fraternité entre les hommes et à y substituer une véritable lutte des classes. L’Européen est aujourd’hui trop détaché de la charité chrétienne pour faire du bien à son semblable, mais il n’a pas atteint ce degré de logique naturelle qui commande la suppression de l’individu dangereux ou des bouches inutiles. Par quoi il laisse périr le faible ou le juste, il supporte le méchant et il entretient le paresseux. L’ancienne Europe avait fait un compromis de  la morale de l’amour et de la morale du glaive. L’Europe actuelle a perdu l’amour et n’ose se servir du glaive.

 

Or les peuples nouveaux auxquels nous avons fourni les moyens techniques de  devenir forts et, partant, de propager ou d’imposer leurs façons de vivre, n’ont jamais connu, eux, la morale de l’amour telle que nous l’avons connue. Ils n’ont donc pas les timidités que nous avons gardées. Ils ne connaissent, sous  des inspirations diverses, que la morale de la force ou du glaive. Quelle leçon nous donne, à cet égard, le mépris des Russes, mi-Européens mi-Asiatiques, pour la Démocratie ! Chez eux, la Révolution ne fut pas une revanche d’individus, mais une revanche de classes. Ailleurs, par exemple au Japon, les techniques  modernes servent une féodalité. Les seigneurs de l’Atlas marocain  voyagent en automobile, mais assistés d’esclaves… Quelque estime que nous portions aux Américains, nous devons bien constater qu’ils lynchent les noirs.

 

Voilà qui procurerait à l’Europe d’étranges surprises si, demain ou après-demain, la vie de ses habitants dépendait du gré d’un autre continent ».

 

Lucien ROMIER.

(extrait du livre : Explication de notre temps, Grasset, Les Cahiers Verts (sous la direction de Daniel Halévy), n°48, Paris, 1925).

 

00:05 Publié dans Histoire, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, histoire, idée européenne, europe, france | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 03 avril 2011

Le camp nationaliste en pleine confusion

Le camp nationaliste en pleine confusion

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/ 

 

entonnoir.jpgLa confusion est actuellement grande dans le camp nationaliste en Europe. Il y a ceux qui, disons-le franchement, par antisémitisme ou par fascination femelle pour la puissance, se jettent dans les bras de l’islam. Il y a ceux qui, par haine de l’islam, se couchent devant Israël. Aucune de ces deux attitudes n’est digne d’un combattant nationaliste français et européen.

CEUX QUI SE COUCHENT DEVANT L’ISLAM

Nous avons déjà évoqué le cas du Père Lelong (dans le dernier numéro de Rivarol), qui tient des propos hallucinants de complaisance vis-à-vis du message du Coran. Les lignes qui suivent, concernant les collabos de l’islam s’inspirent largement de l’excellent texte de Pierre Vial, “Islamophiles”, paru dans la nouvelle livraison de sa revue Terre et Peuple (Terre et Peuple, BP 46, 69380 Lozanne, 7euros).

Que dit-il? «Une certaine extrême droite (qui, en général, n’aime pas qu’on l’appelle ainsi… on a ses pudeurs…) a les yeux de Chimène pour l’islam et ses adeptes.[…] Alain Soral, s’exprime ainsi au sujet des Afro-musulmans de la seconde (ou troisième) génération, désignés souvent dans la presse comme “Franco-Africains”: “C’est une chance pour eux d’être nés en France. Il faut que ces jeunes deviennent ces chances pour la France”». Propos qui rejoignent ceux que Jean-Marie Le Pen tenait à la tribune de l’Assemblée nationale, en 1958: «Il ne faut pas dire que l’Algérie a besoin de la France. Il faut dire que la France a besoin de l’Algérie. Nous avons besoin d’une jeunesse vigoureuse… etc.». Et Pierre Vial de relever cependant que certains réussissent le grand écart: leur sympathie à l’égard du monde musulman va de pair avec leur participation au FN mariniste, dont le fonds de commerce est l’hostilité à l’islam (attention, pas aux musulmans, qui peuvent devenir de bons Français s’ils adoptent «les valeurs de la République»…). Une figure de proue de l’intellectualisme, celui qui fut le pape de la Nouvelle Droite, Alain de Benoist (qui fréquente allègrement l’ambassade d’Iran), a marqué clairement son choix en ouvrant les colonnes de la revue Eléments (n°138, janvier 2011) à Franco Cardini.

Cardini déclare son «admiration pour la civilisation musulmane» et son «amour pour l’islam». Il se dit aujourd’hui «catholique traditionaliste» et affirme mépriser «la petite bourgeoisie italienne, conservatrice et philo fasciste». Après avoir porté la chemise noire lorsqu’il était membre du MSI, au temps où dans chaque permanence du MSI présidait un grand portrait du Duce, il a choisi, aujourd’hui, de s’intégrer dans le camp du politiquement correct, ce qui est certainement plus confortable. C’est, évidemment, son droit. A chacun ses goûts.

Mais ce qui est gênant, précise Pierre Vial, c’est qu’il se couvre d’un manteau académique pour justifier son islamophilie. Et, là, le bât blesse. Car, comme il l’écrit excellemment, celui qui nous est présenté dans Eléments comme «un des plus grands médiévistes contemporains»(sic) profère quelques énormités dont rougirait un étudiant en Histoire de première année. En utilisant au passage des termes déshonorants (pour leur auteur) pour s’attaquer, sans le citer (mais Alain de Benoist répare en note cet “oubli”), à Sylvain Gouguenheim, auteur d’Aristote au Mont Saint-Michel, qui a le tort, impardonnable aux yeux de Cardini, de rendre ridicule ce dernier qui déclare: «Sans la culture musulmane, la grande époque de la culture scolastique, des universités et des cathédrales serait impensable». Bref, sans l’islam l’Europe serait barbare… On pourrait se contenter de hausser les épaules. Mais on ne peut en rester là devant le caractère misérable des attaques de Cardini contre Gouguenheim «que, déclare Cardini, l’on a l’évidence convaincu de s’asseoir sur son honnêteté intellectuelle». Ce Gouguenheim qui ose ne pas partager l’admiration inconditionnelle de Cardini pour l’islam est, en conséquence, un malhonnête, un tricheur et un vendu.

Mais Pierre Vial nous propose de nous intéresser aux propos du «grand médiéviste» Cardini, histoire de rire un peu.

Nous allons prendre, dans l’ordre où elles apparaissent dans le cadre de son entretien publié par Eléments, quelques unes de ses assertions les plus fantaisistes.

Alain de Benoist lui rappelle sa définition des croisades: «Elles ont été selon toi un “pèlerinage armé” visant à soumettre la Terre sainte à l’autorité d’un certain nombre d’Etats chrétiens».

La réponse de Pierre Vial: «Pèlerinage armé»? Oui, mais pas seulement, comme l’écrit Jean Flori dans son plus récent ouvrage (La croix, la tiare et l’épée, Payot, 2010): «La croisade n’est pas seulement une guerre de reconquête entreprise contre les envahisseurs musulmans. C’est une guerre sainte». Par ailleurs il n’a jamais été question de «soumettre la Terre sainte» à l’autorité d’un certain nombre d’Etats chrétiens. Faut-il rappeler qu’aucun chef d’Etat européen ne participait à la première croisade? Quand certains souverains prirent la croix pour les croisades suivantes, ce n’était évidemment pas pour soumettre la Terre Sainte à leur autorité (ce que ni les autres souverains européens, ni la papauté… et ni le roi de Jérusalem n’auraient accepté!).

Qui sont les croisés? Des «guerriers voués à combattre comme mercenaires au service de l’empereur de Byzance» dit Cardini.

Pierre Vial réplique: c’est faux. Le canon2 du concile de Clermont (où le pape UrbainII a lancé son appel à la croisade) est sans ambiguïté: «Quiconque, mû par sa seule piété— et non pour gagner honneur ou argent— sera parti à Jérusalem pour libérer l’Eglise de Dieu, que ce voyage lui soit compté pour toute pénitence»; Il s’agit donc, écrit Jean Flori (op.cit.), «de libérer les chrétiens (l’Eglise de Dieu) de la domination musulmane.»

On sait quelle place tient Saladin, encore aujourd’hui, dans l’imaginaire musulman, en tant que conquérant champion de l’islam. Pour nous convaincre des bons rapports qui pouvaient exister au Moyen Age entre Européens et musulmans, Cardini déclare: «Dans la tradition du XIe-XIIesiècle, Saladin est devenu[…] le paradigme idéal de la magnanimité chevaleresque».

Pierre Vial exécute le pompeux personnage qu’est Cardini: tout d’abord, faire référence au XIesiècle pour parler de la réputation de Saladin soulève une légère difficulté, puisque celui-ci est né en 1137 et mort en 1193. Notre «grand médiéviste» semble quelque peu brouillé avec la chronologie, ce qui est toujours gênant pour quelqu’un qui veut être historien… Et la «magnanimité chevaleresque» de Saladin s’est peu manifestée à l’issue de la bataille de Hattin, désastreuse défaite de l’armée chrétienne en 1187, à l’issue de laquelle Saladin a fait égorger devant lui tous les Templiers survivants (sauf le maître Gérard deRidefort, renégat pour sauver sa peau).

Cardini fait appel, pour illustrer la compréhension entre islam et chrétienté au Moyen Age, au travail de traduction du Coran commandité par l’abbé de Cluny Pierre le Vénérable.

Réponse: il oublie— ou veut oublier… ou ne connaît pas— des textes de Pierre, comme le Contra Sectam Saracinorum et le De translatione Alcorani, où l’abbé désigne l’islam comme «cette erreur, supérieure à toutes les erreurs» et «cette secte impie et la vie exécrable de son fondateur».

Cardini: «Il n’existe aucune guerre, ni pour les chrétiens, ni pour les musulmans, dont les combattants sont sanctifiés pour la seule raison qu’ils y prennent part».

Réponse: appel à la croisade du pape UrbainII à Clermont (1095): «Tous ceux qui iront là-bas et qui viendraient à perdre la vie, que ce soit au cours de leur voyage par voie de terre ou de mer, ou bien en combattant les païens, obtiendront à cette heure la rémission de leurs péchés[…] Ils vont maintenant gagner des récompenses éternelles». Traité De laude novae militiae de Bernard deClairvaux, sur la mission du Templier: «La mort des païens fait sa gloire, parce qu’elle est la gloire du Christ; sa mort est triomphante».

Cardini: «La bataille de Poitiers fut une modeste escarmouche».

Affirmation absurde: «Qu’on le veuille ou non la victoire de Poitiers eut un grand retentissement dans tout l’Occident» (Pierre Riché, Les Carolingiens, Hachette, 1983). Riché, ancien professeur d’histoire médiévale à l’université de ParisX et directeur du Centre de recherches sur l’Antiquité tardive et le Haut Moyen Age, cite le témoignage d’un chrétien de Cordoue qui voit dans la bataille de Poitiers l’affrontement entre les Sarrasins et «les gens d’Europe». Riché commente: «Il a pris conscience de l’opposition qui existe entre deux mondes et deux civilisations».

Pour faire bonne mesure, Cardini passe du Moyen Age à aujourd’hui: «Les immigrés sont une ressource pour une Europe en pleine crise démographique». Pour ceux qui n’auraient pas compris dans quel camp, lui et Benoist se rangent…

En conclusion de son article, Pierre Vial signale un ouvrage récent qui est la meilleure réponse aux élucubrations d’un Cardini: Jacques Heers, L’islam cet inconnu, Ed. de Paris, 2011. Dans ce livre Heers, qui fut professeur à la Sorbonne, où il dirigeait le département d’études médiévales, règle son compte à l’image complaisamment véhiculée aujourd’hui par des islamophiles du type Cardini, à savoir celle d’un islam qui, avec sa “tolérance”, aurait apporté un «âge d’or» qui est, en fait un pur fantasme destiné à faire tomber les défenses immunitaires des Européens.

Il y a 65 ans, le grand Mufti de Jérusalem, haute autorité morale de l’islam, se rendait à Berlin faire allégeance à Adolf Hitler et encourageait la constitution des divisions de Waffen-ϟϟ musulmanes, bosniaques notamment. Les divisions Handschar et Skankerberg furent créées. La division Handschar faillit d’ailleurs d’être dissoute par Himmler, tant elle se signalait par la cruauté de ses comportements. Quand j’évoquais la fascination pour la puissance, qui entraîne avec perversité toutes les trahisons, tous les reniements, toutes les soumissions… Autres temps, même mœurs…

CEUX QUI SE COUCHENT DEVANT ISRAËL

Dans un récent article paru dans Rivarol, nous avions évoqué le pèlerinage de mouvements nationalistes européens en Israël. Des Flamands du Vlaams Belang, des Autrichiens du Fpoe, des Allemands… Ils y rencontrèrent les plus extrémistes des extrémistes sionistes, visitèrent des colonies et se rendirent à Vad Yashem. Leur objectif était d’acquérir, enfin, dans leurs pays respectifs, une respectabilité qui leur ouvrirait la porte des médias et qui leur offrirait le sésame de l’intégration au Système. Devenir des partis de gouvernement! Le rêve ! Il est assez fascinant d’analyser leur raisonnement. Ouvrir la porte des media? Est-ce à dire que les médias européens sont entre les mains des lobbys juifs? Est-ce à dire que c’est en Israël que se décide qui peut être un parti de gouvernement en Europe, et qui ne saurait l’être? Nous l’ignorions… Marine LePen cherche, elle aussi à se rendre en Israël. Elle aussi… Le Bloc Identitaire s’était déjà signalé, lors d’une réunion à Orange, par des propos particulièrement indignes, déclarant notamment qu’«ils rompaient avec l’antisémitisme du Front national»… Passons…

Le 7 mai, une grande manifestation contre l’islamisation de l’Europe aura lieu à Cologne, en Allemagne, en présence de représentants de nombreux mouvements nationalistes européens. J’ai déjà eu l’occasion d’évoquer ici l’action que mènent des agents israéliens, conscients ou inconscients, auprès des mouvements nationalistes en Europe. Certains tenteraient, d’après mes informations, de faire participer à cette manifestation une délégation israélienne, au nom d’une sorte de front commun “occidental” contre l’islamisation. Il va sans dire qu’il est absolument hors de question pour moi, et pour nombre de mes camarades européens, de défiler sous le drapeau israélien, avec une délégation israélienne… Notre combat pour la délivrance de la France et de l’Europe est ici, en France et en Europe. Il n’est ni en Afghanistan, ni en Iran, ni en Irak, et pas davantage en Palestine ou en Israël.

Robert Spieler, Rivarol, 25 mars 2011, n°2992.

 

Obama et la guerre

 

Obama et la guerre

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

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