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vendredi, 11 juillet 2014

La seconda guerra fredda

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LA SECONDA GUERRA FREDDA

Claudio Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

“Guerra fredda” è la formula giornalistica che diventò d’uso corrente nel 1948, con l’inizio del blocco di Berlino, per definire lo stato di guerra non guerreggiata, ovvero di pace armata, fra i due grandi blocchi antagonisti e simultaneamente solidali nella spartizione del potere mondiale: il blocco occidentale facente capo agli USA e quello eurasiatico facente capo all’URSS. Pare che la fortuna di tale termine, impiegato per indicare un’intera fase storica, sia dovuta, se non a George Orwell che lo coniò, al giornalista statunitense Walter Lippmann, il quale lo diffuse tramite una serie di articoli pubblicati nel luglio 1947 sul “New York Herald Tribune” e poi raccolti nel volume The Cold War. A Study in U.S. Foreign Policy.

L’atto ufficiale di nascita della Guerra fredda può essere individuato nel discorso pronunciato il 5 marzo 1946 a Fulton (Missouri) da Sir Winston Churchill, che in quella circostanza usò per la prima volta un’altra espressione destinata ad incontrare analogo successo: “cortina di ferro”.

Caratterizzata da continui atti ostili, la guerra fredda fu combattuta con un’intensa attività propagandistica affidata alla stampa ed alle emittenti radiofoniche (“guerra delle onde”) e con la divulgazione di notizie ora incoraggianti ora deprimenti (“guerra dei nervi”).

Iniziata nello scenario successivo alla seconda guerra mondiale e finita nel 1989-1991, la guerra fredda può essere considerata, se è lecito continuare ad usare il termine “guerra” in maniera estensiva, una terza guerra mondiale. Se non altro, l’uso arbitrario del termine può servire a rappresentare la realtà di un conflitto che è terminato con la vittoria di un antagonista e la sconfitta dell’altro. Come sostiene Brzezinski, “siccome la guerra fredda è stata vinta pacificamente, sia i vincitori sia i vinti hanno condiviso l’interesse a nascondere il fatto che essa è terminata con una vittoria ed a mascherare sotto le parvenze di una riconciliazione tra Est ed Ovest quella che è stata una vittoria geopolitica e ideologica dell’Occidente”(1).

Infatti la guerra fredda o terza guerra mondiale “è stata un novum della storia, non tanto perché in passato non siano state condotte guerre in cui l’elemento religioso e l’elemento economico-territoriale non fossero già presenti (…) quanto perché siamo qui di fronte ad un intreccio fra elemento geopolitico (il confronto USA-URSS) ed elemento ideologico (il confronto fra capitalismo e comunismo) talmente potente ed invasivo da non tollerare vere e proprie analogie con eventi del passato”(2).

Nella fase attuale dei rapporti tra il blocco occidentale e la Russia, fase inaugurata dal putsch di Kiev sostenuto dall’Occidente, l’intreccio dell’elemento geopolitico con quello ideologico non è certamente così stretto come nel periodo della (prima) guerra fredda. La stessa formula di “guerra fredda”, secondo quanto ha dichiarato il 26 marzo 2014 Barack Obama, non sarebbe riproponibile, proprio per il fatto che, “a differenza dell’URSS, la Russia non guida un blocco di nazioni o un’ideologia globale”(3).

Va però osservato che il medesimo Obama, contraddicendosi in parte, ha tuttavia attribuito alla Russia postsovietica una visione ideologica, la quale sosterrebbe “che gli uomini e le donne comuni siano di vedute troppo corte per poter badare ai propri affari, e che ordine e progresso possano esserci soltanto quando i singoli rinunciano ai propri diritti a vantaggio di una potente sovranità collettiva”.

Per quanto riguarda il blocco occidentale, il presidente statunitense ha ribadito in maniera chiarissima la connessione tra l’aspetto geopolitico e quello ideologico. “Da un lato all’altro dell’Atlantico – egli ha detto – abbiamo abbracciato una visione condivisa di Europa; una visione che si basa sulla democrazia rappresentativa, i diritti dell’individuo, e il principio che le nazioni possano soddisfare gli interessi dei loro cittadini con il commercio e il libero mercato; una rete di sicurezza sociale e il rispetto per chi professa una religione diversa o ha origini diverse”. O caratteri antropologici diversi, come nel caso dei “nostri fratelli gay e [del]le nostre sorelle lesbiche”.

Obama non ha mancato di proclamare la validità universale di quelli che ha definito, parlando a nome dell’Occidente globale, “i nostri ideali”. “Gli ideali che ci uniscono – ha detto – hanno la medesima importanza per i giovani di Boston e di Bruxelles, di Giacarta e di Nairobi, di Cracovia e di Kiev”. E a proposito di Kiev ha dichiarato che “è proprio questa la posta in gioco oggi in Ucraina”: ossia l’imposizione degl’interessi geopolitici atlantici e della visione ideologica occidentale.

È vero che la radice della guerra fredda – intesa non come “un segmento di storia ma [come] una curvatura permanente della geopolitica contemporanea”(4) – è geopolitica prima che ideologica. Come dichiara in maniera franca e realistica il recente editoriale di una rivista di ispirazione occidentalista, “per l’America si tratta di garantirsi contro l’emergere di una potenza rivale in Eurasia. Poco importa se comunista, buddhista o vegana”(5).

Resta tuttavia il fatto che, se la Russia ha una sua visione geopolitica, essa non dispone però di una sua ideologia da contrapporre a quella occidentale. Eppure, come reclama Aleksandr Dugin, “la Russia, intesa come civiltà, non può, ma deve avere valori propri, diversi da quelli delle altre civiltà”.

L’esigenza di richiamarsi ai princìpi ispiratori della propria civiltà non riguarda soltanto la Russia, ma tutte le aree in cui si articola il continente eurasiatico e quindi tutte quelle forze che condividono la prospettiva di un’Eurasia sovrana. Gábor Vona ha espresso chiaramente tale esigenza: “Non ci può bastare – afferma il politico ungherese – un’alternativa semplicemente geografica e geopolitica, ma avvertiamo la necessità di un eurasiatismo spirituale. Se non siamo in grado di assicurarlo, allora la nostra visione rimane soltanto una diversa concezione politica, economica, militare o amministrativa, capace sì di rappresentare una diversità strutturale, ma non una rottura di livello qualitativa di fronte alla globalizzazione occidentale. Ci sarà un polo politico opposto, ma non una superiorità qualitativa. Tutto ciò può creare le basi per una nuova guerra fredda o mondiale, nella quale si affronteranno due forze antitradizionali, come è avvenuto nel caso dell’URSS e degli USA, ma certamente non sarà possibile contrastare il processo storico della diffusione dell’antitradizione. Per noi invece sarebbe proprio questo l’essenziale. Dal nostro punto di vista, è inconcepibile uno scontro in cui una globalizzazione si contrapponga ad un’altra globalizzazione”(6).

Claudio Mutti è Direttore di “Eurasia”.

NOTE

1. Zbigniew Brzezinski, The Consequences of the End of the Cold War for International Security, in The New Dimensions of International Security, “Adelphi Papers”, 265, inverno 1991-1992, p. 3.
2. Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, p. 104.
3. Barack Obama, Usa ed Europa difenderanno il diritto, ma non è una nuova Guerra fredda, “La Stampa”, 27 marzo 2014, pp. 20-21.
4. Lo specchio ucraino, “Limes”, n. 4, aprile 2014, p. 18.
5. Lo specchio ucraino, cit., p. 17.
6. Vona Gábor, Néhány bevezető gondolat a szellemi eurázsianizmus megteremtéséhez, “Magyar Hüperión”, I, 3, nov. 2013 – genn. 2014, p. 294.

Amerika drijft Duitsland en Frankrijk in armen van Rusland

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Amerika drijft Duitsland en Frankrijk in armen van Rusland

Putin: ‘Duitsland onze belangrijkste partner op gebied vrede en veiligheid’

Franse Centrale Bank en Total: Dollar moet worden losgelaten

De traditionele alliantie tussen de Verenigde Staten en Europa begint grote barsten te vertonen. Zo ontploften de Duitsers van woede toen bleek dat de NSA op grote schaal invloedrijke Duitsers afluisterde, inclusief kanselier Merkel. Eerder ontstond er grote onrust over berichten dat het Duitse goud in de kluizen van de Federal Reserve niet meer bestaat. Pogingen van Berlijn om dit goud gedeeltelijk terug te krijgen, liepen op niets uit.

De Franse buren hebben zo hun eigen redenen om de VS nog meer te wantrouwen dan ze al deden. De Russen zijn de lachende derde, want zij zien dat de twee belangrijkste continentale Europese machten zich in snel tempo van Washington beginnen los te maken, en toenadering zoeken tot Moskou. En het Kremlin gaat daar maar al te graag op in.

Putin: Duitsland belangrijkste partner vrede en veiligheid’

‘Wij waarderen het opgetelde potentieel van Russisch-Duitse banden en het hoge niveau van samenwerking op het gebied van handel en economie. Duitsland, een van de leiders van de EU, is onze belangrijkste partner bij het bevorderen van de vrede en wereldwijde- en regionale veiligheid,’ verklaarde de Russische president Vladimir Putin afgelopen week.

‘Amerika speelt met onze vriendschap’

Putin zal met genoegen naar de ontwikkelingen in Duitsland kijken, waar president Joachim Gauck in een interview waarschuwt dat Amerika door zijn spionageactiviteiten ‘speelt met de vriendschap en verbondenheid’ tussen beide landen. Zelfs het wegsturen van de Amerikaanse ambassadeur wordt niet langer uitgesloten. Al 40% van de Duitsers zou voorstander zijn van nauwere banden met Rusland (4).

De combinatie van Duitse industriële- en technologische macht en Russische natuurlijke hulpbronnen en militaire kracht is altijd een grote angst geweest voor de Fransen, reden waarom Parijs er doorgaans toe geneigd is zich achter Rusland op te stellen, in de hoop daarmee een Duits-Russische as te voorkomen. Zo weigerde Frankrijk ondanks de sancties die Europa tegen het Kremlin instelde vanwege de crisis in Oekraïne zijn geplande wapenleveranties aan Rusland te stoppen. (1)

Parijs: ‘Handel Europa-China in euro’s en renminbi’

Parijs zou zijn historische bezwaren tegen een pact tussen Berlijn en Moskou echter wel eens kunnen inslikken, en zich er mogelijk zelfs bij aansluiten. De Fransen zijn namelijk witheet vanwege de miljardenboete die de Franse megabank BNP kreeg opgelegd door de Amerikanen. De gouverneur van de Franse Centrale Bank, Christian Noyer, tevens bestuurslid van de ECB, zei als reactie dat het ‘onvermijdelijk’ is dat de wereld de dollar als reservemunt begint los te laten.

‘Bij de handel tussen Europa en China hoeft de dollar niet te worden gebruikt. Deze kan volledig in euro’s of renminbi worden betaald... China heeft besloten de renminbi als reservemunt te ontwikkelen.’ De Fransen hebben daarom in Parijs een verrekenkantoor voor de handel met China in renminbi opgezet. Noyer voegde eraan toe dat dit soort veranderingen normaal gesproken veel tijd kosten, maar dat de Amerikaanse strafmaatregelen het loslaten van de dollar kunnen versnellen. (2)

Total: Olie hoeft niet in dollars te worden betaald

Ook de CEO van het Franse Total, de op één na grootste oliemaatschappij van Europa, sprak gisteren letterlijk over het loslaten van de dollar. Christophe de Margerie pleitte er voor om de euro een grotere rol te geven in de internationale handel, en stelde dat ‘er geen reden is om olie in dollars te betalen.’ Het feit dat de olieprijs in dollars is, hoeft wat hem betreft geen bezwaar te zijn om in euro’s af te rekenen.

Afgelopen donderdag had de Franse minister van Financiën Michel Sapin al meer afstand tussen Europa en de Amerika geopperd. Als de internationale handel voortaan vaker in euro’s wordt afgehandeld, dan ‘is dat een manier om de handel buiten Amerikaans territorium te beschermen.’ (3)

Anti-dollar alliantie serieus en in uitvoering

Op 19 juni berichtten we dat Sergey Glazyev, een belangrijke adviseur van de Russische president Vladimir Putin die als het brein achter de in de maak zijnde Euraziatische Unie wordt gezien, een wereldwijde anti-dollar alliantie voorstelde. In het Westen werd zijn dreigement lacherig weggewuifd, maar nu heeft ook de gouverneur van de Russische Centrale Bank, Elivar Nabiullina, iets vergelijkbaars gesuggereerd.

‘We hebben veel werk verricht aan de roebel-yuan (/renminbi) omwisseldeal,’ zei ze in het kader van haar aanstaande bezoek aan Beijing. ‘We overleggen met China en onze andere BRICS-partners (Brazilië, India en Zuid Afrika) over een systeem met multilaterale omwisselingen waarmee we goederen van het ene naar het andere land kunnen brengen. Een deel van de valutareserves kunnen daarvoor worden ingezet.’

Met andere woorden: het voorstel voor een anti-dollaralliantie is niet alleen bloedserieus, maar reeds in uitvoering. De samenwerking tussen de Centrale Banken van de BRICS-landen is tevens een grote bedreiging voor het IMF, dat door Amerika en Europa wordt gecontroleerd. Als deze trend zich doorzet, dan zal het niet lang meer duren voordat de meeste belangrijke economieën afscheid nemen van de dollar.

‘Omslagpunt dollar mogelijk al geweest’

Gezien de felle reactie van de Amerikanen op zelfs maar de suggestie dat de dollar zal worden losgelaten –dit was namelijk de werkelijke reden voor de invasie van Irak en de aanval op Libië- is de verwachting dat Washington harde strafmaatregelen zal instellen tegen ieder land dat zich bij de anti-dollaralliantie wil aansluiten – met hoogstwaarschijnlijke hetzelfde averechtse effect.

‘Het ‘point of no return’ voor de dollar kan wel eens veel dichterbij zijn dan algemeen wordt gedacht,’ schrijft Tyler Durden van Zero Hedge. ‘Feitelijk zou het Amerikaanse bankbiljet dit omslagpunt naar irrelevantie al voorbij kunnen zijn.’ (5)

Het lijkt er dan ook sterk op dat ook in Berlijn en Parijs het besef doordringt dat het Amerikaanse dollarimperium op zijn einde begint te lopen. De toenadering tussen continentaal Europa en Rusland zal de dreigende breuk met het toch al EU-kritische Groot Brittannië, traditioneel de belangrijkste bondgenoot van de VS, hoogstwaarschijnlijk versnellen.

‘VS dreigt belangrijkste bondgenoot, Europa, te verliezen’

Charles Gave (Gavekal Dragonomics Research, wereldwijde financiële adviseurs en analisten): ‘In het oude systeem was Europa een soort protectoraat van het Amerikaanse maritieme imperium, een constructie die behoorlijk goed werkte. De uitdaging van deze status quo komt uit het oosten, waar het duidelijke doel van Vladimir Putin een nieuwe Russisch-Duitse alliantie is. Als hij daarin slaagt, dan zal dat in enorm verlies zijn voor het (Amerikaanse-Britse) maritieme imperium, vooral als het Verenigd Koninkrijk zichzelf heeft verwijderd uit de EU.’

‘Zo’n politieke verdeling zal enorme gevolgen hebben voor de VS,’ vervolgt hij. ‘Dan zal de vraag niet alleen zijn hoe ‘wij’ Azië en het Midden Oosten konden verliezen, maar ook ‘onze’ betrouwbaarste en volgzaamste bondgenoot: Europa.’ (5)

Xander

(1) Zero Hedge
(2) Zero Hedge
(3) Zero Hedge
(4) NU
(5) Zero Hedge

Zie ook o.a.:

19-06: Kremlin wil wereldwijde anti-dollar alliantie om agressie VS te stoppen (/ ‘Gigantische verliezen voor Europa als EU kant van Amerika blijft kiezen’)
15-06: Grote man achter Putin beschouwt VS als rijk van de Antichrist
08-06: Bijna alle klanten Gazprom ruilen dollar in voor euro
15-05: Rusland dumpt 20% staatsobligaties VS; België koopt juist $ 200 miljard
14-05: Gazprom: Europa moet Russisch gas in roebels gaan betalen
07-04: Adviseur Putin waarschuwt EU voor € 1 biljoen verlies en wereldoorlog
29-03: Obama drijft mensheid naar laatste wereldoorlog

samedi, 28 juin 2014

Les Américains de retour en Irak...Pour rebattre les cartes...

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LES AMERICAINS DE RETOUR EN IRAK

Pour rebattre les cartes..

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Obama a finalement décidé d'envoyer des conseillers militaires à Bagdad. C’est une intervention à minima ajoutée à l’utilisation de drones armés. Pouvait-il faire autrement ? L'annonce a été faite quelques heures seulement après que le secrétaire d'État John Kerry ait déclaré que Washington envisageait de négocier avec l’Iran pour mettre au point les conditions d’une éventuelle coopération militaire avec ce pays. L'annonce d'Obama est d’autant plus surprenante que le 13 juin dernier, le président américain avait déclaré que les Etats-Unis n’avaient pas l’intention d’envoyer des troupes en Irak. « Nous n'enverrons pas de troupes américaines pour combattre en Irak, mais nous préparons des options pour soutenir les forces irakiennes », avait-il dit. Dans une lettre au Congrès américain, Obama écrit que 275 soldats sont déjà partis dimanche. Leur mission est limitée à la protection du personnel des États-Unis à l'ambassade de Bagdad ( 5 500 personnes travaillant pour cette ambassade ). En outre, l'US Navy a envoyé un porte-hélicoptères dans le Golfe Persique.
 
Les extrémistes musulmans de l'Etat islamique en Irak et au Levant ( EIIL ) ont conquis la ville de Tal Afar, ville de 200.000 habitants dans le nord du pays. L’EIIL contrôle désormais plusieurs villes irakiennes et à chaque fois, ils imposent immédiatement une forme médiévale de charia. La progression de l'EILL n’aurait pas cessé ces derniers jours tandis que 1 700 soldats irakiens de confession chiite auraient été exécutés dans un massacre à Tikrit ( information confirmée par le Département d'Etat ). Des images du massacre ont été diffusées par la télévision iranienne.
 
L'EIIL est dirigé par le prince Abdul Rahman et commandé par Abu Bakr el-Bagdadi, ancien membre d'Al Qaida, libéré en 2010 de manière assez curieuse. Il y a donc derrière ce groupe, l'Arabie Saoudite et le groupe djihadiste disposerait d'un encadrement étranger. Ce qui semble être en cours, c'est bien la partition tant attendue dans les plans du Pentagone et des stratèges américains de l'Irak. Un Irak divisé en trois Etats : un état chiite, un état kurde ( ce qui est un affront pour la Turquie dont une centaine de citoyens ont été pris en otage à Mossoul ) et un état sunnite.
 
Enfin, et cela se rapprochera de nos frontières, l’État islamique en Iraq et au Levant chercherait à créer une filiale au Maghreb. Le patronyme même aurait déjà été choisi ( « Dameth » ) et ce, dans l'objectif clair de prendre pour cible l'Algérie. Ce patronyme signifie « État islamique au Maghreb islamique » ou « État islamique en Égypte et au Soudan », le Maghreb arabe coiffant les cinq États situés au nord et au nord-ouest de l'Afrique soit l'Algérie, la Libye, la Mauritanie, le Maroc et le Sahara occidental. Le général Ahmad Bousatila, chef de la garde nationale algérienne, a donné l'ordre de mobilisation des unités de la garde nationale, des unités d'investigation et d'intervention ainsi que l'aviation algérienne pour contrôler les frontières face au danger qui s'approche du nord de l'Afrique en provenance du Moyen-Orient et ce d'autant plus que l'armée tunisienne a de plus en plus de mal à contrôler ses frontières avec l'Algérie et la Libye. L'Algérie est de plus particulièrement exposée aux infiltrations des djihadistes en provenance du nord du Mali et du sud-est de la Libye.
 
Quant à l'autre groupe concurrent, Al-Qaïda au Maghreb islamique, il a menacé de mener de nouvelles attaques en Tunisie et a même dernièrement revendiqué être l'auteur de l'attentat contre le domicile du ministre tunisien de l'Intérieur, le 28 mai dernier. Dans un communiqué, AQMI a aussi reconnu que des combattants armés pourchassés depuis un an et demi, au mont Chaambi font parties de ses troupes.

La déstabilisation se rapproche de nos frontières.

Conférence à Marseille

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vendredi, 27 juin 2014

US vs Syria: How to Lose a War in 3 Years

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Author: Tony Cartalucci

US vs Syria: How to Lose a War in 3 Years

Ex: http://journal-neo.org

The government in Damascus and the Syrian Arab Army have begun restoring order across the country after over 3 years of devastating fighting. The so-called “capital of the revolution,” the city of Homs, has been reclaimed by government forces and people have begun returning home. A recent election carried out across Syria and throughout expatriated Syrian communities around the world portrayed widespread support for the government in Damascus and more over, the idea of Syria as a nation itself.

It is becoming increasingly difficult for the West to prolong recognizing the obvious, that the Syrian government has prevailed. In a recent TIME Magazine article titled, “In Syria, Victory is Written in Ruin,” it admits:

Defying expectations that he would be the next domino to fall in the Arab Spring’s chute of regional dictators, Assad stands stronger than ever. His military, augmented by fighters from the Lebanon-based Shi’ite militia Hizballah, funded in part by Iran and armed with Russian weapons and ammunition, has consolidated control over a strategic corridor connecting the capital, Damascus, to the coast. 

TIME then attempts to make excuses as to why Syrians support the government. The article claims:

…the war’s toll has more and more Syrians turning, reluctantly, toward the regime. Not because they support Assad but because they are desperate to return to some semblance of normal life. 

But perhaps the most deliberate distortion TIME makes is its revision of how the war unfolded in the first place. It claims:

For the rebel brigades and exiled opposition leaders, the involvement of extremist groups was an unfortunate stain on an otherwise pure uprising against tyranny. To the regime, it was proof of a foreign-funded scheme to destabilize Syria. 

The narrative, repeated across the Western media, illustrates how the US finishes up a lost war. First, it makes excuses as to why deviations from the West’s original narrative have manifested themselves in demonstrable and undeniable events, like Syria’s elections and the overwhelming support Damascus visibly commands across the country. Next it revises history to account for how and why events unfolded differently than expected. In Syria, the protracted warfare that eventually revealed Syria’s “freedom fighters” to be armies of foreign-funded terrorists flowing over the nation’s borders is explained as extremists “hijacking” or “derailing” the “revolution.”

To see just how far from reality TIME Magazine and others still perpetuating this myth have departed, readers should recall Pulitzer Prize-winning journalist Seymour Hersh’s 2007 New Yorker article, “The Redirection” which prophetically stated (emphasis added):

To undermine Iran, which is predominantly Shiite, the Bush Administration has decided, in effect, to reconfigure its priorities in the Middle East. In Lebanon, the Administration has coöperated with Saudi Arabia’s government, which is Sunni, in clandestine operations that are intended to weaken Hezbollah, the Shiite organization that is backed by Iran. The U.S. has also taken part in clandestine operations aimed at Iran and its ally Syria. A by-product of these activities has been the bolstering of Sunni extremist groups that espouse a militant vision of Islam and are hostile to America and sympathetic to Al Qaeda.

Throughout the rest of Hersh’s nine-page report, which came out 4 years before the so-called “Arab Spring” unfolded, is outlined in specific detail how the West and its regional allies including Israel and Saudi Arabia, were already funneling in cash and arraying armed sectarian extremists against Hezbollah inside of Lebanon and against the government of Syria. Hersh’s report even included a retired CIA agent who portended the sectarian nature of the impending, regional conflict.

syr153930707edited-300x201.jpgThe third and final step the US must take upon losing a war is to leave chaos where victory was denied, and attach responsibility for the conflict to a disposable elected politician – in this case US President Barack Obama. While the war was clearly conceived during the administration of George Bush as early as 2007, it was executed under the watch of Obama. By attaching responsibility for the conflict to Obama, when his term is up and he passes into the hindsight of history, corporate-financier funded policy makers will have before them a clean slate upon which to begin carrying out the next leg of their continuous agenda.

Before the Syrian conflict is fully forgotten, however, the US will ensure that the process of reconciliation and reconstruction is made as problematic as possible for Damascus. Despite for all intents and purposes, losing the war, the West has continued supplying weapons and aid to militants within and along Syria’s borders. TIME Magazine appears to almost revel in the fact that despite the “rebels” losing, it will be years before Syria is able to recover to pre-war conditions. TIME states:

For all his swaggering claims of victory, Assad presides over a country in a profound state of destruction and distress. The U.N. Relief and Works Agency estimates that even if the war were to end immediately, it would take 30 years for the economy to recover to pre-2010 levels — and then only if GDP grew at a steady 5% a year. According to government statistics, prices of basic consumer goods like food and fuel have tripled. Half the workforce is jobless, and more than half the population is living in poverty.

With the US and its regional partners still pumping in weapons and fighters, it plans to ensure recovery is as slow and as painful as possible. In fact, US policy makers within the corporate-funded Brookings Institution in a 2012 Middle East Memo titled “Assessing Options for Regime Change,” stated (emphasis added):

The United States might still arm the opposition even knowing they will probably never have sufficient power, on their own, to dislodge the Asad network. Washington might choose to do so simply in the belief that at least providing an oppressed people with some ability to resist their oppressors is better than doing nothing at all, even if the support provided has little chance of turning defeat into victory. Alternatively, the United States might calculate that it is still worthwhile to pin down the Asad regime and bleed it, keeping a regional adversary weak, while avoiding the costs of direct intervention.

While in 2012 it was still too early to be sure, it is now without a shadow of a doubt this policy that the US and its regional partners have pursued in the last, losing stages of this conflict. TIME Magazine’s sobering assessment of the destruction this policy wrought is the price Syrians have paid for Washington’s desire to keep a “regional adversary weak.”

The insidious, premeditated nature of Syria’s destabilization and destruction is a hard lesson learned for the Syrian people, and a lesson other nations around the world must learn from in order to prevent a similar scenario from unfolding within their borders. While the US may have lost its proxy war with Syria, the Syrian people’s victory has come at a great cost. Ensuring those who paid in full for this victory did not die in vain, Syrians living today must work together to dash Washington’s hopes that the West’s parting shots will leave it “weak” for years to come.

Tony Cartalucci, Bangkok-based geopolitical researcher and writer, especially for the online magazine New Eastern Outlook”.

Putin steunt Maliki


Putin steunt Maliki: Rusland en VS nu ook in Irak tegenover elkaar

Chaos in het Midden Oosten steeds groter

Irak beschuldigt Saudi Arabië van genocide

Irak dreigt in drie delen uiteen te vallen

Om te voorkomen dat Irak opnieuw in vlammen opgaat is de Russische premier Putin achter premier Al-Maliki (inzet) gaan staan, die gisteren gedumpt werd door Amerika (2).

Nadat Amerika gisteren Maliki –niet langer een gehoorzame pion van Washington- openlijk liet vallen, bevestigde Putin per telefoon snel zijn ‘volledige steun voor de Iraakse acties om het grondgebied snel te bevrijden van terroristen.’ Het Kremlin voegde daaraan toe dat beide leiders bilaterale samenwerking hebben besproken.

De complexe, chaotische situatie in het Midden Oosten is nauwelijks meer te ontrafelen. De belangrijkste situaties en ontwikkelingen in en rond Irak op een rijtje:

* ISIS in Irak bestaat feitelijk uit twee legers, waarvan één wordt gedomineerd door Al-Qaeda. Bij dat leger hebben diverse Soefistische groeperingen, Saddam Husseins oude Baath Partij en door Amerika getrainde stammen van de ‘Soenitische Ontwaking Raad’ zich aangesloten. Inmiddels lijkt ook de hoofdstad Baghdad aan hen te prooi te kunnen gaan vallen. (4)

* Amerika stuurt geen troepen, maar slechts 300 ‘militaire adviseurs’ naar Irak (4), en steunt nu stilzwijgend de Iraanse militaire interventie. Tegelijkertijd wordt Teheran onder druk gezet om concessies te doen aangaande het omstreden nucleaire programma van het land.

* Saudi Arabië wil op goede voet blijven staan met de VS, maar staat vijandig tegenover het Iraakse regime en steunt ISIS met onder andere wapenleveranties. In tegenstelling tot Amerika zijn de Saudi’s mordicus tegen Iraanse inmenging in Irak. Vanwege de Saudische steun voor ISIS beschuldigde de Iraakse regering de Saudiërs van ‘genocide’ en ‘de vernietiging van de Iraakse staatsinstellingen en historische en religieuze locaties.’

* Iran stelt zich wat Irak betreft plotseling op als Amerika’s beste vriend in de regio, en lijkt bereid meer troepen te sturen om te voorkomen dat het land compleet ten prooi valt aan ISIS.

* In Syrië kan president Bashar Assad kan rustig achterover leunen en glimlachend constateren dat het de regering Obama ondanks diens steun voor de Al-Nusra/Al-Qaeda rebellen niet is gelukt om hem te verdrijven. Zijn eigen leger blijft het echter heel moeilijk hebben met deze rebellen, die nog lang niet verslagen zijn.

* Qatar steunt de Syrische rebellen, maar stelt zich vooralsnog terughoudend op over Irak. Vermoed wordt dat het land direct of indirect ISIS steunt.

* Jordanië, een goede vriend van de VS, heeft op een geheime basis ISIS-terroristen laten trainen door Amerikaanse instructeurs. Amerikaanse troepen en vliegtuigen moeten Jordanië beschermen tegen eventuele vergeldingsaanvallen uit Syrië.

* In Turkije, NAVO-lid, is met Turkse militaire steun op een basis bij de luchtmachtbasis Incirlik hetzelfde gebeurd. De Turken steunen openlijk de Syrische rebellen en heimelijk ISIS, maar zouden die steun kunnen loslaten vanwege de politieke en ideologische toenadering tussen de regering Erdogan en de Iraanse president Hassan Rouhani.

* De Koerden lijken daardoor meer speelruimte te hebben in Noord Irak. Volgens Veysel Ayhan, directeur van het International Middel East Peace Research Center (IMPR) in Ankara, begint premier Erdogan te accepteren dat Irak in drie delen uiteen zou kunnen vallen: een Shi’itische deel in het Oosten en Zuiden, een Soennitische deel in het Westen, en een Koerdisch deel in het Noorden. (5)

* Rusland, dat in Syrië van meet af aan bondgenoot Assad is blijven steunen, heeft nu ook in Irak partij gekozen tegen Amerika. Tegelijkertijd profiteert het Kremlin van de stijgende olieprijzen. Het Russische Lukoil investeert fors in het enorme Iraakse West-Qurna-2 olieveld, dat in handen van ISIS zou kunnen vallen. Dat wil Putin ten koste van alles voorkomen.

* Israël, waar de massale zoektocht naar de drie door Hamas ontvoerde tieners nog altijd voortduurt, kijkt met gemengde gevoelens naar de almaar groter wordende chaos over de grenzen. Aan de ene kant leidt het de moslimlanden af van hun haat tegen de Joodse staat; aan de andere kant dreigen veel landen in handen te vallen van extremistische islamisten, die zich later zouden kunnen verenigen in een nieuwe oorlog tegen Israël.

En dan hebben we ook nog Libanon (Hezbollah, het Iraanse proxy-leger dat Assad steunt), Egypte, waar het leger probeert de Moslim Broederschap te verpletteren, Libië, dat nog altijd wordt verscheurd door islamistische krachten zoals Al-Qaeda, Afghanistan, waar de Taliban nog steeds niet is verslagen en 1,5 miljoen mensen op de vlucht zijn geslagen, en natuurlijk Pakistan, dat eveneens moet blijven vechten tegen terroristen. Ook in Soedan, Somalië en Nigeria zaaien moslimgroepen dood en verderf.

Niet voor niets waarschuwde de VN eerder deze week voor een nieuwe regionale oorlog. Gezien de talloze brandhaarden lijkt slechts een klein vonkje al voldoende.

Xander

(1) Zero Hedge
(2) Zero Hedge
(3) Zero Hedge
(4) DEBKA
(5) Shoebat

U.S. Embassy in Ankara Headquarter for ISIS War on Iraq

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U.S. Embassy in Ankara Headquarter for ISIS War on Iraq – Hariri Insider

Christof Lehmann (nsnbc)
 
 
The green light for the use of ISIS brigades to carve up Iraq, widen the Syria conflict into a greater Middle East war and to throw Iran off-balance was given behind closed doors at the Atlantic Council meeting in Turkey, in November 2013, told a source close to Saudi – Lebanese billionaire Saad Hariri, adding that the U.S. Embassy in Ankara is the operation’s headquarter.

A “trusted source” close to the Saudi – Lebanese multi-billionaire and former Lebanese P.M. Saad Hariri told on condition of anonymity, that the final green light for the war on Iraq with ISIS or ISIL brigades was given behind closed doors, at the sidelines of the Atlantic Council’s Energy Summit in Istanbul, Turkey, on November 22 – 23, 2013.

The Atlantic Council is one of the most influential U.S. think tanks with regard to U.S. and NATO foreign policy and geopolitics. Atlantic Council President Frederick Kempe stressed the importance of the Energy Summit and the situation in the Middle East before the summit in November, saying:

“We view the current period as a turning point, just like 1918 and 1945. Turkey is in every way a central country, as a creator of regional stability. However much the USA and Turkey can work in unison, that is how effective they will be.”

The summit was, among others, attended by Turkey’s President Abdullah Gül, U.S. Energy Secretary Ernst Monitz, Atlantic Council President Frederick Kempe, former U.S. Secretary of State Madeleine Albright, former U.S. National Security Adviser Brent Scowcroft.

It is noteworthy that Scowcroft has long-standing ties to Henry Kissinger and to the Minister of Natural Resources of the Kurdish Administrated Region of Northern Iraq.

“Had Baghdad been more cooperative about the Syrian oil fields at Deir-Ez-Zor in early 2013 and about autonomy for the North [Iraq's northern, predominantly Kurdish region] they would possibly not have turned against al-Maliki; Or he would have been given more time”, said the Hariri insider during the almost two-hour-long conversation.

In April 2013 the EU lifted its ban on the import of Syrian oil from "rebel held territory to finance the opposition".

In April 2013 the EU lifted its ban on the import of Syrian oil from “rebel held territory to finance the opposition”.

In March 2013, U.S. Secretary of State John Kerry demanded that Iraq “stops the arms flow to Syria”, while U.S. weapons were flowing to ISIS via Saudi Arabia into Iraq and Jordan.

On Monday, April 22, 2013, 27 of the 28 E.U. foreign ministers agreed to lift the ban on the import of Syrian oil from opposition-held territories to allow the “opposition” to finance part of its campaign.

“ISIS that was supposed to control [the region around] Deir Ez-Zor. [Turkish Energy Minister Taner] Yildiz and [Kurdish] Energy Minister Ashti] Hawrami were to make sure the oil could flow via the Kirkuk – Ceyhan [pipeline];… Ankara put al-Maliki under a lot of pressure about the Kurdish autonomy and oil, too much pressure, too early, if you’d ask me”, the source said. He added that the pressure backfired.

Plotting: Red, by Maj.(r) Agha H.Amin. Blue, by Christof Lehmann

Plotting: Red, by Maj.(r) Agha H.Amin. Blue, by Christof Lehmann

Previous reports confirmed that Baghdad started intercepting weapons and insurgents along the Saudi – Iraqi border, cutting off important supply lines for ISIS brigades around Deir Ez-Zor, and that Al-Maliki began complaining about a Saudi – Qatari-backed attempt to subvert the Iraqi State since late 2012. Noting my remark he replied:

“That is right, but the heavy increase in attacks came in May – June 2013, after al-Maliki ordered the military to al-Anbar “.

A previous article in nsnbc explains how Baghdad’s blockade caused problems in Jordan, because many of the transports of weapons, fighters and munitions had to be rerouted via Jordan.

The Hariri insider added that the oil fields should have been under ISIS control by August 2013, but that the plan failed for two reasons. The UK withdrew its support for the bombing of Syria. That in turn enabled the Syrian army to dislodge both ISIS and Jabhat al-Nusrah from Deir Ez-Zor in August.

“The situation was a disaster because in June Hariri, Yidiz, Hawrami, Scowcroft, and everybody was ready to talk about how to share the oil between the U.S., Turkey and E.U.. The Summit in November should have dealt with a fait accompli”, the Hariri source stressed, adding that Washington put a gun to al-Maliki’s head when he was invited to the White House.

Both the President of the Kurdish region of Iraq, Masoud Barzani and Iraqi PM Nouri al-Maliki were invited to Washington in early November 2013.

“Certain circles in Washington put a hell of a lot of pressure on Obama to put a gun to al-Maliki’s head”, said the Hariri source, adding that “time was running out and Obama was hesitant”. Asked what he meant with “time was running out” and if he could specify who it was that pushed Obama, he said:

“Barzani was losing his grip in the North (Kurdish Iraq); the election [in September] was a setback. All plans for distributing Iraqi oil via Turkey and for sidelining Baghdad were set between Kirkuk and Ankara in early November…

“Who exactly pressured Obama? I don’t know who delivered the message to Obama. I suspect Kerry had a word. It’s more important from where the message came, Kissinger, Scowcroft, Nuland and the Keagan clan, Stavridis, Petreaus, Riccardione, and the neo-con crowd at the [Atlantic] Council. … As far as I know ´someone` told Obama that he’d better pressure al-Maliki to go along with Kurdish autonomy by November or else. Who exactly ´advised` Obama is not as important as the fact that those people let him know that they would go ahead, with, or without him”.

Asked whether he knew details, how the final green light for the ISIS campaign was given, he said:

” Behind closed doors, in the presence of both Scowcroft, Hariri, and a couple of other people”. To my question “if he could be more specific” he replied “I could; I want to stay alive you know; Riccardione was tasked with the operation that day”.

Noting that a prominent member of Saudi Arabia’s royal family, Prince Abdul Rachman al-Faisalhas been named as the one being “in command” of the ISIS brigades, and if he could either confirm or deny, he nodded, adding that “the Prince” is responsible for financing the operation and for part of the command structure, but that the operations headquarter is the U.S. Embassy in Ankara Turkey. “As far as I know, nothing moves without Ambassador Riccardione”, he added.

Ch/L – nsnbc 22.06.2014

ISIS Unveiled: The Identity of The Insurgency in Syria and Iraq

jeudi, 26 juin 2014

De la prétendue intangibilité des frontières

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IRAK, AFGHANISTAN : MOURIR POUR RIEN
De la prétendue intangibilité des frontières

Laurent Mercoire
Ex: http://metamag.fr
 
« Etre mort pour rien » en Irak ? Cette interrogation a été soulevée par des commentateurs américains après la prise de contrôle du Nord de ce pays par le groupe « Etat islamique en Irak et au Levant » ( EIIL ). L’objectif initial des USA, lors de la troisième guerre du Golfe persique ( 2003 ), était de trouver des armes de destruction massive. En leur absence, l’établissement en Mésopotamie d’un régime démocratique était devenu un nouvel enjeu, lequel semble à son tour pour le moins compromis… Il faut cependant raison garder : on n’a encore jamais vu le succès d’une rébellion minoritaire contre un gouvernement, dès lors que celui-ci était soutenu par une identité de conviction ( ici le Chiisme ) et par l’essentiel de la communauté internationale. 

Le succès apparent de l’EILL d’Abu Bakr « al-Baghdadi », connu aussi sous l’acronyme ISIS (Islamic State in Iraq and Syria – or al-Sham ) attend donc d’être confirmé dans la durée, car pour l’instant la capitale, symbole du pouvoir, reste aux mains de l’Etat irakien. La problématique est ailleurs, puisque bien des analystes commencent à envisager sérieusement une partition de l’Irak, avis qui est loin d’être partagé par les Occidentaux. Or le principe de l’intangibilité des frontières relève du Droit international ( utipossidetis ). L’Occident, que ce soit sous les auspices de l’OTAN ou de l’Organisation des Nations Unies  ( ONU ), doit-il accepter le sacrifice de ses soldats au nom de ce principe, dès lors qu’il s’avère inopérant ?

Le constat de la défaillance des Etats

Les USA souhaitaient faire disparaître des « Etats-voyous » ( Rogue States ) ; aujourd’hui quelques-uns d’entre eux sont devenus des Etats en faillite ( Failed States ), tout aussi dangereux. D’autres Etats, plus favorablement connus, sont dans une situation fragile, à l’exemple du Liban ou du Soudan du Sud. Apparemment, là où a été engagée une armée américaine, sans que la doctrine Powell soit respectée, les dégâts sont immenses. En 1975, le régime de Saigon tombait face à l’offensive des communistes vietnamiens ; demain peut-être tomberont les régimes en place à Kaboul et à Bagdad, face aux Talibans et aux Djihadistes…

Le contraste est saisissant sur les rives du Tigre et de l’Euphrate, entre ce qu’était l’Etat irakien, lors de la toute première guerre du Golfe, et ce qu’il est devenu aujourd’hui. L’Iran s’est défendu contre l’armée irakienne pendant une décennie ( 1980-1988 ) ; le gouvernement de Saddam Hussein maintenait une cohérence nationale, en ayant recours à une forte contrainte, à l’emploi d’armes chimiques ( notamment contre les Kurdes à Halabja ), et grâce au large soutien des pays arabes et occidentaux. Trente ans après, la République islamique d’Iran envisage de venir au secours de l’Etat irakien, aujourd’hui plus chiite que national, face à une menace au sein de laquelle il est difficile d’identifier les parts respectives du fondamentalisme wahhabite et du nationalisme sunnite. L’Iran des ayatollahs est toujours là, l’Irak du parti Baas a disparu. Le cadre régional reste cependant identique, avec l’affrontement entre Chiites et Sunnites, le désir du peuple kurde de disposer d’un territoire, et le regard attentif de la Turquie sur les confins du plateau anatolien... Israël, au cœur de l’orage, ne sait pas encore quelle attitude adopter bien que le maintien d’un axe avec l’Arabie Saoudite et les USA, dirigé contre l’Iran, soit encore sur la table.

Si la guerre contre le terrorisme n’a pas été un succès, peut-être est-ce dû pour partie à l’affaiblissement des Etats qualifiés de « nationaux », déstabilisés par des forces religieuses, ou ethniques, sources d’une plus forte, et plus proche, identité. Il est temps de changer d’optique ; l’intangibilité des frontières devrait être remise en question, dès lors qu’elle apporte plus d’inconvénients que d’avantages. Certes, toucher aux Etats pose quelques difficultés ; il suffit de constater les réactions, soit en France, face au projet des nouvelles régions, soit dans les nations d’Europe confrontées aux désirs d’autonomie, voire d’indépendance, de la Catalogne, de l’Ecosse ou du Donbass.

Une intangibilité de principe peu conforme aux réalités

Le principe de l’utipossidetis définit, pour une nouvelle entité souveraine, des frontières superposables aux limites ( souvent administratives ) du territoire dont elle provient. Il a été appliqué lors des décolonisations : l’Afrique, avec la déclaration du Caire du 22 juillet 1964, l’a privilégié en sacrifiant ainsi l’autodétermination des peuples. C’est sur ce principe, plus connu sous le terme d’intangibilité des frontières, que les sécessions biafraise ( 1967-1970 ) et katangaise ( 1960-1963 ) ont été respectivement réduites par le Nigeria et le Congo. A l’inverse, c’est aussi sur celui-ci, que la république autonome de Crimée a conservé ses limites en se séparant de l’Ukraine pour rejoindre la Fédération de Russie.

De manière sanglante ou non, légale ou illégale, de facto ou de jure, bien des frontières ont été modifiées, au-delà des simples rectifications compatibles avec le principe d’intangibilité. Il suffit de citer la Jordanie ( qui a perdu l’Ouest du Jourdain ), l’Erythrée qui s’est séparée de l’Ethiopie, et le Soudan où un nouvel Etat a été créé, trois situations créées ou résolues par la guerre. L’Europe n’y a pas échappé ; si elle restée longtemps en paix, c’est pour éviter un affrontement Est-Ouest au lendemain de la Seconde guerre mondiale. Les accords de Yalta, par le «  nettoyage ethnique » qui en a résulté en Pologne et en Bohême, ont sans doute prévenu certains antagonismes. Depuis la chute du Rideau de fer, seule la Tchécoslovaquie s’est scindée librement, respectant les principes de l’utipossidetis. Là où les frontières n’ont pas été modifiées et où les peuples sont restés, les conflits ont perduré et les organisations étatiques ont été en échec, comme en Bosnie, pays où les populations croates et serbes n’ont pas été autorisés à se fédérer avec la Croatie ou la Serbie. Quant à la Crimée, elle vient d’être perdue par l’Ukraine en se rattachant à la Fédération de Russie, même si la communauté internationale ne l’a pas encore reconnu. Si ce détachement n’a pas été sanglant, il n’en est pas de même dans le Donbass…  Il n’est pas certain que le prix Nobel de la Paix reçu par l’Union européenne en 2012 soit tout à fait mérité.

Ce principe d’intangibilité est tellement présent dans les esprits qu’une tribune récente et brillante ( 13 juin 2014 ) d’un homme politique français, auteur en février 2003 d’un célèbre discours aux Nations-Unies, ne mentionne à aucun moment des solutions impliquant une modification des frontières. L’actuel ministre français des Affaires étrangères, par principe hostile à tout renforcement de l’Iran, vient de déclarer ( 18 juin ) que l’unité de l’Irak devrait être préservée à tout prix… Il ne manque plus que l’avis d’un ex-nouveau philosophe, dont les interventions se sont jusqu’ici traduites par la poussée d’une herbe toujours plus « verte », faisant presque regretter le cheval d’Attila…

Chacun chez soi ?

En fait, demander à un Etat de disparaître ou de se transformer en abandonnant une partie de lui-même revient à lui faire accepter une sécession. La volonté de séparation doit-elle être encouragée ou combattue ? La Russie ( face aux Tchétchènes ) et la Chine ( face aux Tibétains ou aux Ouïghours ) ont clairement choisi leur voie. On peut comprendre aussi que les USA y soient réticents, à la fois pour des raisons relevant des relations internationales, mais aussi parce que leur nation s’est construite sur une guerre civile ( 1861-1865 ), la plus coûteuse de leur histoire en vies humaines, visant au maintien de l’Union face à la sécession des Etats du Sud.

La reconnaissance, sous la forme d’un Etat souverain, d’un territoire lié à un peuple a au moins deux avantages, l’un à usage interne, et l’autre à usage externe. D’abord l’acceptation d’une appartenance, laquelle se décline de l’élémentaire vers le complexe ( et non pas l’inverse ) : l’individu est d’abord proche de son village, de son terroir avant d’accepter d’être rattaché à une province, un Etat, une Union ou une Alliance. Ensuite, une territorialisation réduit les sources de conflit avec l’extérieur, ce qui est bien pour le voisinage, et, en cas de problème, on sait à quel responsable reconnu s’adresser… Au contraire, la non-prise en compte de l’identité individuelle ou collective induit le terrorisme ( ce qui l’explique, mais ne l’excuse pas ), dont les cibles vont être ceux qui sont responsables de la situation, soit en étant parties prenantes, soit en étant juges. Supprimer un motif de revendication, et donc de ressentiment, est une méthode de prévention ou de traitement bien plus efficace que l’affrontement, ou pire le pourrissement. La sortie d’une crise passerait donc par l’éclatement d’un Etat incapable d’assurer sa souveraineté sur son territoire.

Pour en revenir à l’Irak, la dissociation entre trois entités sunnite, chiite et kurde satisferait certains acteurs, mais en inquièterait beaucoup d’autres. Elle a été défendue par le président de l’Irak, le Kurde Jalal Talabani,( aujourd’hui en retrait pour des raisons de santé ),  mais n’était pas plus recevable autrefois qu’elle ne le serait aujourd’hui par les autres partenaires. Par sa constitution, l’Irak est déjà un Etat unique, souverain, indépendant et fédéral ( Art. 1 ) ; les Kurdes y trouvent de nombreux avantages, ce qui explique leur soutien au gouvernement actuel. Ni la Turquie, ni l’Iran ne sont très favorables à la notion de «  Kurdistan » ( la majorité du peuple kurde vit dans ces deux pays ) ; quant aux pays arabes du Golfe, ils ne veulent à aucun prix d’une extension du chiisme iranien sur la Mésopotamie. En résumé, le désordre, créé par l’intervention américaine n’est pas prêt de disparaître. Pour être juste, la politique revancharde envers les Sunnites du premier ministre chiite Nouri al-Maliki n’a pas amélioré les choses, au point que ce dernier est peut-être devenu un obstacle à tout règlement négocié. Oui, le monde devient bien dangereux, et on comprend qu’il est plus aisé de maintenir que de rompre l’intangibilité des frontières… Quelle que soit l’option choisie, le risque de mourir, pour rien ou non, sera présent ; autant que ce soit contre des barbares...

Les actions menées depuis des décennies par l’Occident, la Turquie et les pays arabes du Golfe persique ont concouru, en Irak et en Syrie, à la disparition des régimes issus des anciens partis Baas. Ces partis avaient à l’origine une triple caractéristique : socialiste, laïque, et nationaliste. Aujourd’hui les groupes islamistes fondamentalistes qui veulent les remplacer échappent à ceux qui les ont soutenus, lesquels s’inquiètent enfin d’un potentiel « Djihadistan ». Bien que la faiblesse de l’Etat irakien, mal gouverné par Nouri al-Maliki, soit apparente depuis de longs mois, l’Occident semble aujourd’hui découvrir ce qu’il a contribué à enfanter. Les forces qui séparent s’affrontent à celles qui réunissent ; combien de temps faut-il pour construire, détruire et reconstruire ? Emotion et morale court-circuitent la raison et le bon sens ; une guerre doit d’abord être pensée avec la tête. Idéalisme et raison ne sont pourtant pas incompatibles chez un dirigeant, comme le montrent les paroles d’Abraham Lincoln en janvier 1838, un quart de siècle avant la guerre de Sécession américaine. « La passion nous a aidé, mais elle ne peut faire davantage. Elle sera notre ennemi dans l’avenir. La raison, froide, calculatrice, sans passion, doit apporter demain tous les éléments de notre existence et de notre défense ».

Eurosibérie ou Eurasie ? Ou comment penser l’organisation du « Cœur de la Terre »…

 

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Eurosibérie ou Eurasie ? Ou comment penser l’organisation du « Cœur de la Terre »…

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

 

Europe Maxima met en ligne la conférence de Georges Feltin-Tracol prononcée le 17 mai 2014 à Lyon dans le cadre du colloque « Réflexions à l’Est » à l’invitation de l’association Terre & Peuple.

 

Mesdames, Mesdemoiselles, Messieurs, Chers Amis,

 

Avec les développements inquiétants de la crise ukrainienne, la presse officielle de l’Hexagone insiste lourdement sur l’influence, réelle ou supposée, d’Alexandre Douguine, le théoricien russe du néo-eurasisme, sur les gouvernants russes. Ainsi, Bruno Tertrais l’évoque-t-il dans Le Figaro du 25 avril 2014. Puis c’est au tour du quotidien Libération du 28 avril d’y faire référence. Toujours dans Le Figaro, mais du 20 avril, c’est la philosophe catholique, libérale et néo-conservatrice Chantal Delsol de le citer… mal. Mieux, Le Nouvel Observateur du 1er mai lui consacre quatre pages sous la signature de Vincent Jauvert qui le qualifie de « Raspoutine de Poutine ». Même la livraison mensuelle de mai du Monde diplomatique en vient à traiter de l’eurasisme (1).

 

Cette notoriété médiatique tranche avec leur discrétion habituelle sur le sujet. Jusqu’à ces dernières semaines, et à part les périodiques de notre large mouvance rebelle, Alexandre Douguine était parfois évoqué par les correspondants permanents du journal Le Monde à Moscou (2). Certes, si ses œuvres complètes ne sont pas accessibles aux lecteurs francophones, ceux-ci disposent néanmoins de quelques ouvrages et textes essentiels traduits (3).

 

L’engouement des plumitifs du Système altantique-occidental pour le penseur polyglotte du néo-eurasisme témoigne en tout cas de l’intérêt qu’on porte à ses idées. Plus largement, la question de l’Eurasie suscite une réelle curiosité. Outre le n° 59 du magazine Terre et Peuple de ce printemps 2014, signalons que le dossier du nouveau trimestriel de géopolitique animé par Pascal Gauchon, Conflits, concerne « L’Eurasie. Le grand dessein de Poutine ».

 

Fins connaisseurs des thèses eurasistes, les rédacteurs du Terre et Peuple n° 59 préfèrent pour leur part se rallier à la thèse de l’Eurosibérie. De quoi s’agit-il donc ? C’est en 1998, soit plus d’une dizaine d’années après avoir quitté la métapolitique, que Guillaume Faye y revient avec un essai magistral, L’archéofuturisme. Cet ouvrage qui fit date dans nos milieux, bouscule maintes certitudes tenaces et balance quelques bombes idéologiques dont le fameux concept d’Eurosibérie. Guillaume Faye écrivait qu’« il faudra bien un jour intégrer la Russie et envisager l’avenir sous les traits de l’Eurosibérie. Les déboires actuels de la Russie ne sont que d’ordre transitoire et conjoncturel. Il s’agit simplement de contrer la (naturelle et explicable) volonté des États-Unis de contrôler l’Eurosibérie et de placer la Russie sous un protectorat et une assistance financière, prélude à sa vassalisation stratégique et économique (4) ».

 

Le concept d’Eurosibérie se réfère explicitement à la « Maison commune » du Soviétique Mikhaïl Gorbatchev exprimée en juillet 1989, et de la « Confédération européenne » esquissée le 31 décembre 1989 par François Mitterrand (5) avant que ces deux projets soient torpillés par les nouveaux agents de l’atlantisme en Europe centrale et orientale parmi lesquels le déplorable théâtreux tchèque Vaclav Havel.

 

L’Eurosibérie correspond à un espace géographique déterminé. « Notre frontière est sur l’Amour. Face à la Chine. Sur l’Atlantique et le Pacifique, face à la république impériale américaine, unique super-puissance mais dont le déclin géostratégique et culturel est déjà “ viralement ” programmé pour le premier quart du XXIe siècle – dixit Zbigniew Brzezinski, pourtant apologiste de la puissance américaine. Et, sur la Méditerranée et le Caucase, face au bloc musulman (moins divisé qu’on ne le pense) qui ne nous fera surtout jamais de cadeaux et peut constituer la première source de menaces mais aussi, si nous sommes forts, un excellent partenaire… (6) » Alors, éventuellement, « demain, poursuit Faye : de la rade de Brest à celle de Port-Arthur, de nos îles gelées de l’Arctique au soleil victorieux de la Crète, de la lande à la steppe et des fjords au maquis, cent nations libres et unies, regroupées en Empire, pourront peut-être s’octroyer ce que Tacite nommait le Règne de la Terre, Orbis Terræ Regnum (7) ».

 

En lisant L’archéofuturisme, on remarque que Guillaume Faye écarte la notion même d’Occident. Rappelons qu’il fut l’un des premiers en 1980 à dissocier et à opposer l’Occident – dominé par Washington -, de l’Europe dont nous sommes les paladins (8). Préoccupé par la montée démographique rapide des peuples du Sud, Faye imagine l’Eurosibérie intégrer une « solidarité globale – ethnique, fondamentalement – du Nord face à la menace du Sud. Quoi qu’il en soit, la notion d’Occident disparaît pour céder la place à celle du Monde du Nord, ou Septentrion (9) ». Après l’avoir combattu (10), il se rallie en fin de compte à l’avis de Jean Cau. Parce que « nous ne pouvons pas compter sur les États-Unis pour s’opposer à un mondialisme dont le monde-race blanc ferait seul les frais (11) », son célèbre Discours de la décadence n’excluait pas « ce qui me paraît essentiel pour notre salut : un nationalisme (et donc par là même un refus du mondialisme) qui, quelles que soient les rigueurs qu’il implique et les répugnances qu’il peut inspirer aux décadents que nous sommes (et qui ont lié les idées de liberté à la réalisation de ce mondialisme en lequel elles n’auront plus de contenu et de sens) est notre seul possible Destin (12) ». En effet, « par son action, continue Jean Cau, la Russie a plus le souci de défendre son empire que de “ libérer ” les peuples. C’est en vertu d’une vocation impériale, afin de rester intacte et non par idéalisme moralisant et mondialiste qu’elle agit (13) ». « Telle est, en ces années 70 – et bientôt 80 – ma “ vue de l’esprit ”, poursuit-il. Ô paradoxe n’est-ce pas, que de déclarer qu’une Russie nationale, de par sa résistance à l’Américanisme mondialiste, est peut-être la seule chance de nos nations et de notre monde-race blanc ? Paradoxe apparent, je le crains. Et vérité d’Histoire, je le crois (14). »

 

Dans Pourquoi nous combattons, publié en 2001, Guillaume Faye revient sur l’Eurosibérie qu’il définit comme un exemple d’« ethnosphère (15) ». Bloc continental à l’économie auto-centrée, c’« est l’espace destinal des peuples européens enfin regroupés, de l’Atlantique au Pacifique, scellant l’alliance historique de l’Europe péninsulaire, de l’Europe centrale et de la Russie (16) ». Il s’agit, dans son esprit, d’une « forteresse commune, la maison commune, l’extension maximale et l’expression naturelle de la notion d’« Empire européen ». Elle serait véritablement la “ Troisième Rome ”, ce que ne fut jamais la Russie (17) ».

 

Relevons en revanche l’absence dans ce manifeste du Septentrion. Est-ce parce qu’en 1989, on évoquait déjà une communauté euro-atlantique de Vancouver à Vladivostok ? Le 25 septembre 2001, Vladimir Poutine s’adressa en allemand au Bundestag. Il voyait alors la Russie comme un pays européen et occidental. C’était le temps où Moscou tentât d’adhérer à l’Alliance Atlantique. Aux États-Unis, certains cénacles de pensée stratégique proches des paléo-conservateurs, ces adversaires farouches du néo-conservatisme, approuvaient cette démarche destinée in fine à contrer l’ascension chinoise. L’auteur de thriller-fictions, Tom Clancy, en fit un roman, L’Ours et le Dragon (18). Une approche assez similaire se retrouve chez l’écrivain Maurice G. Dantec dans les trois volumes de son Journal métaphysique et polémique. Ainsi écrit-il dans Laboratoire de catastrophe générale que « l’O.T.A.N. doit donc non seulement intégrer au plus vite toutes les anciennes républiques populaires de l’Est européen, mais prévoir à moyen terme une organisation tripartite unifiant les trois grandes puissances boréales : Amérique du Nord, Europe Unie (quel que soit son état, malheureusement) et Russie, plus le Japon, au sein d’un nouveau traité Atlantique – Pacifique Nord, qui puisse faire contrepoids à l’abomination onuzie et aux menaces sino-wahhabites. […] La seule issue pour l’Occident est donc bien de définir un nouvel arc stratégique panocéanique, trinitaire, avec l’Amérique au centre, l’Europe du côté atlantique, et la Fédération de Russie, assistée du Japon, pour l’espace pacifique – sibérien (19) ».

 

Dénoncé par le national-républicain Régis Debray (20), l’option pan-occidentaliste a trouvé en Maurice G. Dantec son chantre décomplexé. Toutefois, à part l’implication du Japon, le cadre pan-occidental (ou Hyper-Occident) correspond déjà à l’O.C.D.E. (Organisation de coopération et de développement économique) et à l’O.S.C.E. (Organisation pour la sécurité et la coopération en Europe). « Issue en 1994 de la transformation de la Conférence sur la sécurité et la coopération en Europe d’Helsinki (1975), note Jean-Sylvestre Mongrenier, l’O.S.C.E. est une organisation régionale de sécurité juridiquement reliée à l’O.N.U. Ce forum regroupe les États d’Europe (Russie comprise), d’Asie centrale (les anciennes républiques musulmanes d’U.R.S.S.) et d’Amérique du Nord, soit 51 États membres. L’O.S.C.E. est tournée vers la maîtrise des armements et la diplomatie préventive (21). » Aujourd’hui, l’O.S.C.E. compte 57 membres ainsi que six partenaires méditerranéens pour la coopération (Algérie, Égypte, Israël, Jordanie, Maroc, Tunisie), et cinq partenaires asiatiques (Japon, Corée du Sud, Thaïlande, Afghanistan et Australie). Par ailleurs, l’orientation nord-hémisphérique que préfigure imparfaitement l’O.S.C.E., ne se confine pas au seul cénacle littéraire. « J’ai aussi été l’un des tout premiers, à l’époque de l’effondrement soviétique, à lancer l’idée de la construction politique d’un “ continent boréal ”, de Brest à Vladivostok, affirme Jean-Marie Le Pen (22). » En 2007, son programme présidentiel mentionnait de manière explicite une « sphère boréale » de Brest à Vladivostok.

 

Dans son dernier tome du Journal métaphysique et polémique, Maurice G. Dantec, converti, suite à ses lectures patristiques et philosophiques, au catholicisme traditionaliste, vomit l’Union européenne, l’O.N.U., le multiculturalisme, et en appelle à l’avènement d’« États continentaux – fédéraux, vagues souvenirs des empires d’autrefois (23) ». Exigeant une « Grande Politique » pour le pâle mécanisme européen qu’il surnomme « Zéropa-Land », il croit toutefois que « véritable fondation politique du continent, car seule capable historiquement de fonder quelque chose, l’O.T.A.N., ce vénérable Anneau de Pouvoir, est seule habilitée à le refondre. Elle va s’auto-organiser dans le développement tri-polaire de l’Occident futur : Russie/Europe de l’Est – Grande-Bretagne + Commonwealth – Amérique hémisphérique (24) ». Enthousiasmé par l’American way of life, l’auteur de Babylon Babies prétend que « les Américains, sous peu, auront encore plus besoin des Russes que ceux-ci des Américains; un peu comme avec la Deuxième Guerre mondiale, la Quatrième Guerre mondiale, qui est le régime international – pacifié de la guerre comme continuation du terrorisme par d’autres moyens, va fournir le décor pour un basculement d’alliance stratégique comme jamais il n’y eut dans l’histoire des hommes. Le dollar U.S. intronisé monnaie en Sibérie. Les ressources humaines et naturelles de la Russie, les ressources humaines et financières des États-Unis. À elles deux, ces deux nations l’ont montré, elles seraient capables de mettre en place un véritable condominium planétaire, basé sur les technologies de la conquête spatiale et un partage des responsabilités qui équivaudraient à une win-win situation, comme aiment le dire ces salauds de capitalistes yankees (25) ». Acquis à l’Occident génétiquement survitaminé, Dantec balaie sans aucune hésitation toute Eurosibérie possible. « Poutine devrait y réfléchir à deux fois avant de s’engager avec les Franco-boches, contre le Nouvel Occident, avertit Dantec. Malgré les délires de certains “ penseurs ” de la “ droite révolutionnaire ”, les Sibériens n’ont strictement rien à battre des pantins qui s’agitent à Strasbourg ou à Bruxelles, c’est-à-dire à leurs antipodes sur tous les plans. Quand je lis, de-ci de-là, de telles avanies sur une sorte de bloc euro-continental qui s’étendrait de Paris – Ville lumière jusqu’à Vladivostok, et sous le nom d’Europe, rien ne peut retenir mon rire d’éclater à la face de ces bidules prophétologiques dérisoires, et même pas vraiment criminels. Imaginent-ils donc qu’un marin russe qui pêche dans les eaux du Kamtchatka puisse se sentir en quelque façon “ européen ”, à quelques encablures du Japon? Anchorage sera toujours plus près d’Irkoutsk que n’importe laquelle des capitales de l’union franco-boche (26). »

 

Bien que réfractaire au concept eurosibérien, Dantec n’en demeure pas moins le défenseur d’un monde – race blanc, d’un Septentrion sous une forme déviante et identitairement inacceptable. D’autres font le même constat mais en lui donnant une formulation plus convaincante. Co-fondateur du site Europe Maxima, mon camarade et vieux complice Rodolphe Badinand promeut un Saint-Empire européen arctique. « La maîtrise du pôle Nord est une nécessité géopolitique et mythique, note-t-il. Outre qu’il est impératif que l’Empire s’assure du foyer originel de nos ancêtres hyperboréens, le contrôle du cercle polaire revêt une grande valeur stratégique. Si le réchauffement planétaire se poursuit et s’accentue, dans quelques centaines d’années, la banquise aura peut-être presque disparu, faisant de l’océan polaire, un domaine maritime de toute première importance. En s’étendant sur les littoraux des trois continents qui la bordent, le Saint-Empire européen arctique, dans sa superficie idéale qui comprendrait […] l’Eurosibérie et les territoires septentrionaux de l’Amérique du Nord (Alaska, Yukon, Territoire du Nord-Ouest, Nunavut, Québec, Labrador, Terre-Neuve, Acadie, Provinces maritimes de l’Atlantique), le Groenland et l’Islande, détiendrait un atout appréciable dans le jeu des puissances mondiales. C’est enfin la transposition tangible dans l’espace du symbole polaire. Comme l’Empereur est la référence de l’Empire, notre Empire redeviendra le pôle du monde, le référent des renaissances spirituelles et identitaires de tous les peuples, loin de tout universalisme et de tout mondialisme (27). »

 

Guillaume Faye, Jean Cau, Maurice G. Dantec, Rodolphe Badinand réfléchissent au fait politique à partir du critère géographique de grand espace. Ils poursuivent, consciemment ou non, les travaux du philosophe euro-américain Francis Parker Yockey (28), du géopoliticien allemand Karl Haushofer et du théoricien géopolitique belge Jean Thiriart (29). Dès la décennie 1960, ce dernier pense à un État-nation continental grand-européen qui s’étendrait de Brest à Vladivostok. Puis, au fil du temps et en fonction des soubresauts propres aux relations internationales, il en vient à soutenir dans les années 1980 un empire euro-soviétique. La fin de l’U.R.S.S. en 1991 ne l’empêche pas d’envisager une nouvelle orientation géopolitique paneuropéenne totale. Influencé, au soir de sa vie, par son compatriote Luc Michel, Jean Thiriart suggère « une République impériale allant de Dublin à Vladivostok dans les structures d’un État unitaire, centralisé (30) ». Le fondement juridique de cet État grand-européen reposerait sur l’« omnicitoyenneté ». « Né à Malaga, diplômé à Paris, médecin à Kiev, plus tard bourgmestre à Athènes le seul et même homme jouira de tous les droits politiques à n’importe quel endroit de la République unitaire (31). » Mais quelles frontières pour cet espace politique commun ? « Les limites territoriales vitales de l’Europe “ Grande Nation ”, écrit Thiriart, vont ou passent à l’Ouest de l’Islande jusqu’à Vladivostok, de Stockholm jusqu’au Sahara-Sud, des Canaries au Kamtchaka, de l’Écosse au Béloutchistan. […] L’Europe sans le contrôle des deux rives à Gibraltar et à Istanbul traduirait un concept aussi risible et dangereux que les États-Unis sans le contrôle de Panama et des Malouines. Il nous faut des rivages faciles à défendre : Océan glacial Arctique, Atlantique, Sahara (rivage terrestre), accès aux détroits indispensables, Gibraltar, Suez, Istanbul, Aden – Djibouti, Ormuz (32). » La Grande Europe selon Thiriart intègre non seulement l’Afrique du Nord, mais aussi la Turquie, le Proche-Orient et l’Asie Centrale, Pakistan inclus ! La capitale de cette Méga-Europe serait… Istanbul !

 

On doit reconnaître que les thèses exposées ici dépassent largement ce que François Thual et Aymeric Chauprade désignent comme des « panismes ». « On appelle panisme, ou pan-idée, une représentation géopolitique fondée sur une communauté d’ordre ethnique, religieuse, régionale ou continentale. Le “ ou ” ici n’étant pas exclusif. Le concept forgé dès les années 1930 par la géopolitique allemande de Karl Haushofer sous le vocable Pan-Idee, est repris et développé par François Thual dans les années 1990 (33). »

 

Nonobstant l’inclusion de l’Afrique du Nord dans l’aire politique grande-européenne, l’ultime vision de Jean Thiriart correspond imparfaitement à l’eurasisme dont Alexandre Douguine est l’une des figures les plus connues. Or la réflexion eurasiste ne se réduit pas à cette seule personnalité.

 

Pour faire simple et court, car il ne s’agit pas de retracer ici la généalogie et le développement tant historique qu’actuel de l’eurasisme (34), ce courant novateur résulte, d’une part, du panslavisme, et, d’autre part, du slavophilisme. Inventé à la Renaissance par un Croate, Vinko Pribojevitch, le panslavisme entend restaurer l’unité politique des peuples slaves à partir de leur héritage historique et linguistique commun retracé par des philologues et des poètes. Le panslavisme se politise vite. En 1823 – 1825 existe en Russie une Société des Slaves unis liée au mouvement libéral décabriste. Contrairement à ses prolongements ultérieurs, le premier panslavisme est plutôt libéral, voire révolutionnaire – l’anarchiste Michel Bakounine participe en 1848 au Ire Congrès panslave à Prague. Cette réunion internationale en plein « Printemps des Peuples » est un échec du fait de son éclatement en trois tendances antagonistes :

 

— un courant libéral et démocratique représenté par la Société démocratique polonaise, fondée en 1832, qui s’oppose surtout aux menées russes et veut rassembler les Slaves de l’Ouest catholiques romains ou réformés;

 

— une tendance plus attachée à la foi orthodoxe et donc plus alignée sur la Russie impériale, qui agite les Slaves du Sud (Monténégrins, Serbes, Macédoniens, Bulgares) vivant dans des Balkans soumis au joug ottoman et qui rêve d’une libération nationale grâce à l’intervention de Saint-Pétersbourg, le seul État slave-orthodoxe indépendant (c’est le « russo-slavisme »);

 

— une faction austro-slaviste prônée par des Tchèques, des Polonais de Galicie, des Slovaques et des Croates qui essaye de fédérer des Slaves de l’Ouest, des Balkans et de l’espace danubien sous l’autorité des Habsbourg.

 

La postérité du panslavisme dans la seconde moitié du XIXe siècle suit des prolongements inattendus. Le « russo-slavisme » vire en un « pan-orthodoxisme » impérialiste qui n’hésite pas à exclure Polonais et Tchèques jugés trop occidentaux et « romano-germains » quand il ne les russifie pas. Encouragé par de brillants publicistes dont le Russe Nicolas Danilevski, ces panslavistes pro-russes approuvent la guerre russo-turque de 1877 – 1878 dont la victoire militaire russe se solde au Congrès de Berlin en défaite diplomatique à l’initiative des puissances occidentales.

 

 

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Opposé à la présence russe, les panslavistes polonais évoluent vers des positions nationalistes plus ou moins affirmées. La Démocratie nationale de Dmovski œuvre avant 1914 pour un royaume de Pologne en union personnelle avec le tsar tandis que le militant socialiste et futur maréchal polonais, Joseph Pilsudski, récuse toute collaboration avec la Russie. Ayant en tête l’âge d’or de l’Union de Pologne – Lituanie entre les XIVe et XVIIIe siècles, ce Polonais natif de la ville lituanienne de Vilnius envisage un glacis anti-russe de la Baltique à la Mer Noire, soit la Pologne, la Lituanie, la Biélorussie et l’Ukraine : la Fédération Intermarum ou Fédération Entre Mers. Cette aspiration fédéraliste demeurera le cœur nucléaire du prométhéisme de Pilsudski. Ce projet de Fédération Entre Mers (avec les États baltes) vient de réapparaître dans le programme électoral présidentiel du mouvement ultra-nationaliste ukrainien Pravyï Sektor (Secteur droit) de Dmytro Yaroch (35).

 

Le conservatisme de la Double-Monarchie déçoit l’austro-slavisme qui laisse bientôt la place à des panismes partiels (ou panslavismes régionaux). En 1914, la Serbie encourage l’irrédentisme des Serbes de Bosnie au nom du yougoslavisme. Mais ce yougoslavisme, orthodoxe et russophile, à forte tonalité panserbe, diffère tant du yougoslavisme de l’archevêque croate Joseph Strossmayer qui souhaite rassembler autour des Habsbourg les peuples slaves du Sud que du yougoslavisme libertaire et socialiste favorable à une large fédération balkanique, concrétisé en août 1903 par l’éphémère république socialiste macédonienne de Kroutchevo. On sait que l’archiduc François-Ferdinand, époux d’une aristocrate tchèque, préconisait une Triple-Monarchie avec un pilier slave, ce que ne voulaient pas les Hongrois d’où peut-être une connivence objective entre certains services serbes et quelques milieux républicains magyars…

 

Faut-il pour autant parler du naufrage du panslavisme ? Sûrement pas quand on examine la politique étrangère de l’excellent président du Bélarus, Alexandre Loukachenko. Depuis 1994, date de l’arrivée au pouvoir de cet authentique homme d’État dont l’action contraste avec la nullité des Cameron, Merkel, l’« Écouté de Neuilly » ou notre Flamby hexagonal !, le président bélarussien a à plusieurs reprises encouragé le renouveau panslaviste. Permettez-moi par conséquent de m’inscrire ici en faux avec l’affirmation d’Alain Cagnat qui qualifie le Bélarus de « musée du stalinisme. [… Cet État] n’a aucune existence internationale. Quant au pseudo-particularisme linguistique ou culturel biélorusse, cela tient au folklore. On peut logiquement penser que, une fois refermée la parenthèse Loukachenko, les Biélorussiens se hâteront de rejoindre le giron russe (36) ». Que le russe soit depuis 1995 la langue co-officielle du Bélarus à côté du bélarussien n’implique pas nécessairement une intégration future dans la Russie sinon les Irlandais, tous anglophones, demanderaient à rejoindre non pas la Grande-Bretagne (ils ont largement donné), mais plutôt les États-Unis, ou bien les Jurassiens suisses la République française. La présidence d’Alexandre Loukachenko a consolidé l’identité nationale bélarussienne qui s’enracine à la fois dans les traditions polythéistes slaves et  l’héritage chrétien. Lors du solstice d’été, le Bélarus célèbre la fête de Yanka Koupali. Ce rite très ancien témoigne de l’attachement de la population à ses racines ainsi qu’à la nature. Il s’agit d’invoquer les éléments naturels pour que les récoltes soient bonnes. De nombreuses danses folkloriques sont alors exécutées par des jeunes femmes aux têtes couronnées de fleurs.

 

Par ailleurs, membre du Mouvement des non-alignés et allié du Venezuela de feu le Commandante Hugo Chavez, le Bélarus se trouve à l’avant-garde de la résistance au Nouveau désordre mondial propagé par l’Occident américanomorphe. Les projets d’union Russie – Bélarus sont pour l’heure gelés. Pour s’unir, il faut un consentement mutuel. Or le peuple bélarussien se sent autre par rapport à ses cousins russes. La revue en ligne, Le Courrier de la Russie, rapporte une certaine méfiance générale envers le grand voisin oriental. Une esthéticienne de Minsk déclare au journaliste russe : « Si la Russie et la Biélorussie se réunissent, ce sera du grand n’importe quoi. En Biélorussie, il y a de la discipline et de l’ordre, mais en Russie, il y a trop d’injustice, c’est le désordre (37). » Quelques peu dépités par les témoignages recueillis, les auteurs de l’article soulignent finalement que « pour les Biélorusses, la langue russe n’est pas associée directement avec la Russie », que « la Russie est perçue plutôt comme une force politique, du reste à l’esprit impérial assez désagréable » et quand « nous avons proposé à des étudiants de passer une sorte de test projectif – dessiner leur pays sur la carte du monde en s’orientant non sur les connaissances géographiques mais sur les associations personnelles, la majorité des Biélorusses ont fourni une image très semblable. Leur pays au centre et, autour, comme des pétales de marguerite et avec une importance équivalente, la Russie, la Pologne, la Lituanie, le Venezuela… (38) »

 

Sur la crise ukrainienne, le Président Loukachenko rejette toute fédéralisation du pays. Il a aussi reconnu et reçu le gouvernement provisoire de Kyiv et condamne les tentatives de sécession. Déjà en 2008, ce fidèle allié de Moscou n’a jamais reconnu l’indépendance de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud. Mieux, il n’hésite pas à contrarier les intérêts russes. Le 26 août 2013, un proche de Poutine, Vladislav Baumgertner, directeur général d’Uralkali, une importante firme russe spécialisée dans la potasse, est arrêté à Minsk et incarcéré. « Quels que soient les sentiments qu’il inspire, le président biélorusse Alexandre Loukachenko entretient avec le Kremlin des relations qui sont plus d’égal à égal que celles des Grecs avec Merkel : imaginez ce qui se passerait si le patron d’une grosse entreprise allemande était arrêté en Grèce (39). » Minsk peut donc se montrer indocile envers Moscou qui respecte bien plus que les donneurs de leçons occidentaux la souveraineté étatique. En outre, contrairement encore à l’État-continent, le Bélarus n’appartient pas à l’O.M.C. et applique encore la peine de mort.

 

À la fin des années 1830 apparaissent en Russie les slavophiles (Alexis Khomiakov, Constantin Léontiev, Ivan Kireïevski, Constantin Aksakov, Fiodor Dostoïevski, etc.) dont la dénomination était à l’origine un sobriquet donné par leurs adversaires. Si ces romantiques particuliers ne sont pas toujours panslavistes, ils s’accordent volontiers sur l’exaltation des idiosyncrasies de leur civilisation, en particulier sa foi orthodoxe, sa paysannerie et son autocratie. Hostiles aux occidentalistes qui célèbrent un monde occidental romano-germanique hérétique en constante modification, les slavophiles s’associent trop au pouvoir tsariste et s’étiolent à l’orée de la Grande Guerre.

 

On a pu dire que leur dernier représentant fut Alexandre Soljénitsyne. Quand sombre l’Union Soviétique, l’ancien dissident envisage une « Union des peuples slaves » avec la Russie, l’Ukraine, le Bélarus et les marches septentrionales du Kazakhstan fortement russophones. Cependant, Soljénitsyne ne nie pas la réalité des langues, cultures et identités bélarussienne et ukrainienne. Il les admet et veut même les valoriser ! Il prévient néanmoins que « si le peuple ukrainien désirait effectivement se détacher de nous, nul n’aurait le droit de le retenir de force. Mais divers sont ces vastes espaces et seule la population locale peut déterminer le destin de son petit pays, le sort de sa région (40) ».

 

eura2148253926.jpgLa Première Guerre mondiale, les révolutions russes de 1917, le renversement du tsarisme et la guerre civile jusqu’en 1921  bouleversent les héritiers du slavophilisme. C’est au sein de l’émigration russe blanche qu’émerge alors l’eurasisme. Exilés à Prague et à Paris, les premiers eurasistes, Nicolas Troubetskoï, Pierre Savitsky, Georges Vernadsky, Pierre Suvchinskiy, redécouvrent le caractère asiatique de leur histoire et réhabilitent les deux cent cinquante ans d’occupation tataro-mongole. Saluant l’œuvre des khan de Karakorum, ils conçoivent l’espace russe comme un troisième monde particulier. S’ils proclament le caractère eurasien des régions actuellement ukrainiennes de la Galicie, de la Volhynie et de la Podolie, ils se désintéressent superbement des Balkans, du Caucase et de la Crimée. Parfois précurseurs d’une troisième voie, certains d’entre-eux approuvent le renouveau soviétique sous la férule de Staline si bien que quelques-uns retournent en U.R.S.S. pour se retrouver envoyés au Goulag ou exécutés.

 

Pensée « géographiste », voire géopolitiste, parce qu’elle prend en compte l’espace steppique, l’eurasisme ne dure qu’une dizaine d’années et semble disparu en 1945. Remarquons que le numéro-culte d’Éléments consacré à la Russie en 1986 ignore l’eurasisme pourtant présent en filigrane dans certains milieux restreints du P.C.U.S. (41). Cependant, la transmission entre le premier eurasisme et l’eurasisme actuel revient à Lev Goumilev qui sut élaborer un nouvel eurasisme à portée ethno-biologico-naturaliste. Le néo-eurasisme resurgit dans les années 1990 et prend rapidement un ascendant certain au sein du gouvernement. Dès 1996, un eurasiste connu, l’arabophone Evgueni Primakov, devient ministre des Affaires étrangères avant d’être nommé président du gouvernement russe entre 1998 et 1999.

 

Aujourd’hui, le néo-eurasisme russe se structure autour de trois principaux pôles. Activiste métapolitique de grand talent, Alexandre Douguine ajoute aux travaux des précurseurs et de Goumilev divers apports d’origine ouest-européenne comme l’école de la Tradition primordiale (Guénon et Evola), de la « Révolution conservatrice » allemande, des « Nouvelles Droites » françaises, thioises et italiennes, et des approches marxistes hétérodoxes d’ultra-gauche (42). Un autre « courant, autour de la revue Evrazija (Eurasie) d’Édouard Bagramov, est plus culturel et folkloriste, explique Marlène Laruelle. Son thème central est la mixité, l’alliance slavo-turcique, qu’il illustre par la réhabilitation de l’Empire mongol et des minorités turco-musulmanes dans l’histoire russe, par une comparaison entre religiosité orthodoxe et mysticisme soufi : la fidélité à la Russie serait ainsi le meilleur mode de protection de l’identité nationale des petits peuples eurasiens. Sur le plan politique, Evrazija appelle à la reconstitution d’une unité politique et économique de l’espace post-soviétique autour du projet du président Nazarbaev, qui finance en partie la revue. Le troisième et dernier grand courant eurasiste, celui d’Alexandre Panarine et de Boris Erassov, est le plus théorique puisqu’il tente de réhabiliter la notion d’« empire » : l’empire ne serait ni un nationalisme étroit ni un impérialisme agressif mais une nouvelle forme de citoyenneté, d’« étaticité » reposant sur des valeurs et des principes et non sur le culte d’une nation. Il incarnerait sur le plan politique la diversité nationale de l’Eurasie et annoncerait au plan international l’arrivée d’un monde dit “ post-moderne ” où les valeurs conservatrices, religieuses et ascétiques gagneraient sur les idéaux de progrès de l’Occident (43) ». Treize ans plus tard, en dépit du décès de Goumilev et de Panarine, cette répartition théorique persiste avec l’apparition d’« un courant néo-eurasiste sinophile, incarné par Mikhaïl Titarenko, le directeur de l’Institut d’Extrême-Orient de l’Académie des Sciences (44) ». Quoique balbutiante, cette orientation tend à s’affirmer progressivement. « Les cinq cents ans de domination de l’Occident sur le monde sont en train de s’achever, assurait en 2007 Anatoli Outkine, historien à l’Institut des États-Unis et du Canada de l’Académie des Sciences, et, in extremis, la Russie a réussi à prendre le train des nouveaux pays qui montent, aux côtés de la Chine, de l’Inde et du Brésil. […] L’Europe aurait pu être le centre du monde si seulement la Russie avait été acceptée dans l’O.T.A.N. et l’Union européenne. […] En 2025, c’est Shanghai qui sera le centre du monde, et la Russie sera dans le camp de l’Orient. Aujourd’hui, nous n’attendons plus rien de l’Occident (45). » « L’Extrême-Orient est systématiquement valorisé dans les discours officiels russes comme une région d’avenir, signale Marlène Laruelle. Son évocation participe en effet de l’idée que la Russie est une puissance asiatique ayant un accès direct à la région la plus dynamique du monde, l’Asie – Pacifique dont elle est partie intégrante. Si tel est le cas sur le plan géographique – bien que l’Asie du Nord soit marginale, économiquement, comparée à l’Asie du Sud, qui concentre le dynamisme actuel -, il n’en est rien au niveau économique. Le commerce transfrontalier avec la Chine est bel et bien en pleine expansion, et des projets de zone de libre-échange entre la Russie, la Chine et la Corée du Sud sont à l’ordre du jour. Mais, globalement, l’économie russe est encore peu tournée vers l’Asie et peu intégrée à ses mécanismes régionaux (46). »

 

ad1609207631.pngL’eurasisme n’est pas propre à la Russie. Le Kazakhstan de Nursultan Nazarbaïev assume, lui aussi, cette idéologie. Inquiet des revendications territoriales de Soljénitsyne, il a transféré la capitale d’Almaty à une ville créée ex-nihilo, Astana, dont l’université d’État s’appelle officiellement Lev-Goumilev… Dans le n° 1 de Conflits, Tancrède Josserand traite avec brio de l’eurasisme turc (47). L’eurasisme est aussi présent en Hongrie via le pantouranisme dont le Jobbik se veut le continuateur. Mais, dans ce dernier cas, l’idéocratie eurasiste exprimée en Mitteleuropa apparaît surtout comme un cheval de Troie pro-turc. Le Jobbik souhaiterait que l’Union européenne s’ouvre à Ankara. Avec lucidité, Jean-Sylvestre Mongrenier estime que « lorsque ce type de production n’est pas destiné à promouvoir la candidature turque à l’Union européenne, l’« eurasisme » européen accorde une place centrale à l’alliance russe, la mission historique de la “ Troisième Rome ” consistant faire de l’Asie du Nord le prolongement géopolitique de l’Europe. Aussi serait-il plus adéquat de parler d’« Eurosibérie »  (48) ».

 

Existe-t-il en Chine une pensée eurasiste ? Impossible en l’état de répondre à cette question. Ces derniers jours, les médiats ont rapporté que Pékin aimerait construire une ligne à grande vitesse de 13 000 km qui relierait le Nord-Ouest de la Chine aux États-Unis en deux jours par un train roulant à 350 km/h. Cette hypothétique L.G.V. traverserait la Sibérie, l’Alaska et le Canada et franchirait le détroit de Béring par un tunnel de 200 km (49). En revanche existe au Japon jusqu’en 1941 une mouvance eurasiste. Entre 1905 et 1940, les milieux cultivés de l’archipel débattent avec vigueur de deux orientations géopolitiques contradictoires : le Nanshin-ron ou « Doctrine d’expansion vers le Sud » (l’Asie du Sud-Est et les îles du Pacifique, ce qui implique d’affronter les puissances européennes et étasunienne) et le Hokushin-ron ou « Doctrine d’expansion vers le  Nord » (à savoir combattre l’U.R.S.S. – Russie afin de s’emparer de la partie Nord de Sakhaline, de la Mongolie, de Vladivostok, du lac Baïkal et de la Sibérie centrale). Adversaire de la Faction du contrôle (Toseiha) de Tojo, le Kodoha (ou Faction de la voie impériale) du général Sadao Araki a en partie défendu l’Hokushin-ron. La synthèse revient à Tokutomi Sohô qui se prononce en faveur d’une invasion simultanée du Nord et du Sud, d’où l’affirmation dans un second temps d’une visée pan-asiatique. On sait cependant que la poussée vers le Nord est brisée lors de la défaite nippone de Khalkin-Gol en 1939 (50). Cette digression extrême-orientale n’est pas superflue. Robert Steuckers rappelle que le Kontinentalblock de Karl Haushofer a été « très probablement repris des hommes d’État japonais du début du XXe siècle, tels le prince Ito, le comte Goto et le Premier ministre Katsura, avocats d’une alliance grande-continentale germano-russo-japonaise (51) ».

 

Éclectique au Japon, en Turquie, en Hongrie, l’eurasisme l’est aussi en Russie. « L’idéologie néo-eurasiste, précise Marlène Laruelle, peut ainsi se présenter comme une science naturelle (Goumilev), une géopolitique et un spiritisme (Douguine), une intégration économique (Nazarbaev, organes de la C.E.I.), un mode de gestion des problèmes internes de la Fédération (eurasisme turcique), une philosophie de l’histoire (Panarine), une “ culturologie ” (Bagramov), un nouveau terrain scientifique (Vestnik Evrazii) (52) », d’où une multiplicité de contentieux internes : Panarine et Bagramov ont par exemple critiqué les approches biologisantes, ethnicisantes et métapolitiques de Goumilev et de Douguine.

 

L’eurasisme reste un pragmatisme géopolitique qui, à rebours de l’idée eurosibérienne, prend en compte la diversité ethno-spirituelle des peuples autochtones de Sibérie. Quid en effet dans l’Eurosibérie ethnosphérique de leur existence ? Le territoire sibérien n’est pas un désert humain. Y vivent des peuples minoritaires autochtones tels les Samoyèdes, les Bouriates, les Yakoutes, etc. Il ne faut pas avoir à ce sujet une volonté assimilatrice comme l’appliquèrent les Russes tsaristes et les Soviétiques. La nature de la Russie est d’être multinationale. Entre ici les notions complémentaires d’ethnopolitique et de psychologie des peuples. « Il convient d’attacher la plus grande importance à l’étude de ces unités secondaires qu’en France on appelle régions et pays, déclare Abel Miroglio […]. Une bonne psychologie nationale ne peut se dispenser de s’appuyer sur la connaissance des diverses régions; bien sûr, elle la domine, elle ne s’y réduit pas; et pareillement la psychologie de la région exige, pour être bien conduite, l’étude de ses divers terroirs (53). » Par conséquent, si la société russe adopte une solution nationaliste telle que la défendent des « nationaux-démocrates » anti-Poutine à la mode Alexeï Navalny, elle perdra inévitablement les territoires sibériens. Or ce vaste espace participe pleinement à la civilisation russe. « La civilisation est un ensemble plus large qui peut contenir plusieurs cultures, juge Gaston Bouthoul. Car la civilisation est un complexe très général dont les dominantes sont les connaissances scientifiques et techniques et les principales doctrines philosophiques. Les cultures, tout en participant de la civilisation à laquelle elles appartiennent, présentent surtout des différences de traditions esthétiques, historiques et mythiques (54). » La civilisation russe est polyculturaliste qui est l’exact contraire radical du multiculturalisme marchand.

 

Voilà pourquoi Douguine assigne à l’Orthodoxie, au judaïsme, à l’islam et au chamanisme – animisme le rang de religions traditionnelles, ce que n’ont pas le catholicisme et les protestantismes représentés dans l’étranger proche par une multitude de sectes évangéliques d’origine étatsunienne. C’est ainsi qu’il faut comprendre son fameux propos : « Le rejet du chauvinisme, du racisme et de la xénophobie procède d’abord chez moi d’une fidélité à la philosophie des premiers Eurasistes, qui soulignaient de façon positive le mélange de races et d’ethnies dans la formation et le développement de l’identité russe et surtout grand-russe. Il est par ailleurs une conséquence logique des principes de la géopolitique, selon lesquels le territoire détermine en quelque sorte le destin de ceux qui y vivent (le Boden vaut plus que le Blut) (55) ». Rien de surprenant de la part d’Alexandre Douguine, traditionaliste de confession orthodoxe vieux-croyants. Il ajoute même que, pour lui, « le traditionalisme est la source de l’inspiration, le point de départ. Mais il faut le développer plus avant, le vivre, le penser et repenser (56) ».

 

Alexandre Douguine, en lecteur attentif de Carl Schmitt, systématise l’opposition entre la Terre et la Mer (57), entre les puissances telluriques et les puissances thalassocratiques. Alors que triomphe une « vie liquide » décrite par Zygmunt Bauman (58), sa démarche nettement tellurocratique est cohérente puisqu’elle s’appuie sur le Sol et non sur le Sang dont la nature constitue, en dernière analyse, un liquide. Et puis, en authentique homme de Tradition, Douguine insiste sur le fait, primordial à ses yeux, qu’ « un Eurasiste n’est donc nullement un “ habitant du continent eurasiatique ”. Il est bien plutôt l’homme qui assume volontairement la position d’une lutte existentielle, idéologique et métaphysique, contre l’américanisme, la globalisation et l’impérialisme des valeurs occidentales (la “ société ouverte ”, les “ droits de l’homme ”, la société de marché). Vous pouvez donc très bien être eurasiste en vivant en Amérique latine, au Canada, en Australie ou en Afrique (59) ». Marlène Laruelle considère néanmoins que « si l’eurasisme est bien un nationalisme, il se différencie des courants ethnonationalistes plus classiques par sa mise en valeur de l’État et non de l’ethnie, par son assimilation entre Russie et Eurasie, entre nation et Empire, et emprunte beaucoup au discours soviétique (60) ». Il est évident que les eurasistes pensent en terme d’empire et non en nation pourvue de « frontières naturelles » établies et reconnues. Guère suspect de cosmopolitisme, l’écrivain Vladimir Volkoff fait dire dans son roman uchronique, Alexandra, à Ivan Barsoff, l’un des personnages principaux qui emprunte pas mal des traits de l’auteur, qui est le Premier ministre de cette tsarine, que son empire russe « n’a pas de limites naturelles (à moins que ce soient les océans Arctique et Indien, Pacifique et Atlantique), il n’a pas d’unité linguistique, ni raciale, ni même religieuse : il est tissu autour d’une triple colonne torsadée constituée par l’orthodoxie, la monarchie et l’idéalisme du peuple russe servant de noyau aux autres (61) ». 

 

Par-delà les écrits de Guillaume Faye, de Jean Thiriart, de Maurice G. Dantec, des eurasistes ou des officiers nippons, tous veulent maîtriser le Heartland, ce « Cœur de la Terre ». Correspondant à l’ensemble Oural – Sibérie occidentale, cette notion revient au Britannique Halford Mackinder qui l’écrit en 1904 dans « Le pivot géographique de  l’Histoire ». Pour Mackinder, le Heartland est un espace inaccessible à la navigation depuis l’Océan. Pour Jean-Sylvestre Mongrenier, « le concept de Heartland et celui d’Eurasie […] se recoupent partiellement (62) ». Il entérine ce qu’avance Zbignew Brzezinski à propos de cette zone-pivot : « Passant de l’échelle régionale à l’approche planétaire, la géopolitique postule que la prééminence sur le continent eurasien sert de point d’ancrage à la domination globale (63) ». Le grand géopolitologue étatsunien se réfère implicitement à la thèse de Mackinder pour qui contrôler le Heartland revient à dominer l’Île mondiale formée de l’Europe, de l’Asie et de l’Afrique, et donc à maîtriser le monde entier. Cette célèbre formulation ne lui appartient pas. L’historien François Bluche rapporte qu’en novembre 1626, le chevalier de Razilly adresse à Richelieu un mémoire dans lequel est affirmé que « “ Quiconque est maître de la mer, a un grand pouvoir sur terre ”. [Cette trouvaille] poursuivra le Cardinal, l’obsédera, inspirera directement le Testament politique (64) ». « L’Eurasie demeure, en conséquence, l’échiquier sur lequel se déroule le combat pour la primauté globale (65). » Il faut toutefois se garder des leurres propres au « géopolitisme ». Ce dernier « est venu combler le vide provoqué par les basses pressions idéologiques. Il ne s’agit pas de recourir à la géographie fondamentale – comme savoir scientifique et méthode d’analyse – pour démêler l’écheveau des conflits et tenter d’apporter des réponses aux défis des temps présents, mais d’une vision idéologique qui se limite à quelques pauvres axiomes : la Russie est située au cœur du Heartland et elle est appelée à dominer (66) ».

 

Attention cependant à ne pas verser dans le manichéisme géopolitique ! Toute véritable puissance doit d’abord se penser amphibie, car, à la Terre et à la Mer, une stratégie complète s’assure maintenant de la projection des forces tout en couvrant les dimensions aérienne, sous-marine, spatiale ainsi que le cyberespace et la guerre de l’information. C’est ainsi qu’il faut saisir qu’à la suite de Robert Steuckers, « l’eurasisme, dans notre optique, relève bien plutôt d’un concept géographique et stratégique (67) ».

 

appel_eurasie_cov_500.jpgDe nouvelles études sur les écrits de Mackinder démontrent en fait qu’il attachait une importance cruciale au Centreland, la « Terre centrale arabe », qui coïncide avec le Moyen-Orient. Et puis, que se soit l’Eurosibérie ou l’Eurasie, l’autorité organisatrice de l’espace politique ainsi créé doit se préoccuper de la gestion des immenses frontières terrestres et maritimes. Actuellement, les États-Unis ont beau avoir fortifié leur mur en face du Mexique, ils n’arrivent pas à contenir les flux migratoires clandestins des Latinos. L’Union pseudo-européenne est incapable de ralentir la submersion migratoire à travers la Méditerranée. Même si toutes les frontières eurosibériennes étaient sous surveillance électronique permanente et si était appliquée une préférence européenne, à la rigueur nationale, voire ethno-régionale, il est probable que cela freinerait l’immigration, mais ne l’arrêterait pas, à moins d’accepter la décroissance pour soi, une économie de puissance pour la communauté géopolitique et la fin de la libre circulation pour tous en assignant à chacun un territoire de vie précis.

 

Vu leur superficie, l’Eurosibérie ou l’Eurasie n’incarnent-elles pas de véritables démesures géopolitiques ? Si oui, elles portent en leur sein des germes inévitables de schisme civilisationnel comme l’a bien vu en poète-visionnaire le romancier Jean-Claude Albert-Weill. Dans Sibéria, le troisième et dernier volume de L’Altermonde, magnifique fresque uchronique qui dépeint une Eurosibérie fière d’elle-même et rare roman vraiment néo-droitiste de langue française (68), on perçoit les premières divergences entre une vieille Europe, adepte du Chat, et une nouvelle, installée en Sibérie, qui vénère le Rat.

 

Le risque d’éclatement demeure sous-jacent en Russie,  particulièrement en Sibérie. Dès les années 1860 se manifestait un mouvement indépendantiste sibérien de Grigori Potanine, chantre de « La Sibérie aux Sibériens ! ». Libéral nationalitaire, ce mouvement fomenta vers 1865 une insurrection qui aurait bénéficié de l’appui de citoyens américains et d’exilés polonais. Quelques années plus tôt, vers 1856 – 1857, des entreprises étatsuniennes se proposaient de financer l’entière réalisation de voies ferrées entre Irkoutsk et Tchita. La Russie déclina bien sûr la proposition. Pendant la guerre civile russe, Potanine présida un gouvernement provisoire sibérien hostile à la fois aux « Rouges » et aux « Blancs ». Ce séparatisme continue encore. En octobre 1993, en pleine crise politique, Sverdlovsk adopta une constitution pour la « République ouralienne ». Plus récemment, en 2010, le F.S.B. s’inquiéta de l’activisme du groupuscule Solution nationale pour la Sibérie qui célèbre Potanine… Il est à parier que des officines occidentales couvent d’un grand intérêt d’éventuelles séditions sibériennes qui, si elles réussissaient, briseraient définitivement tout projet d’eurasisme ou d’Eurosibérie.

 

L’Eurosibérie « est un “ paradigme ”, c’est-à-dire un idéal, un modèle, un objectif qui comporte la dimension d’un mythe concret, agissant et mobilisateur, annonce Guillaume Faye (69) ». Il s’agit d’un mythe au sens sorélien du terme qui comporte le risque de remettre à plus tard l’action décisive. Pour y remédier, faisons nôtre le slogan du penseur écologiste Bernard Charbonneau : « Penser global, agir local ». Si le global est ici l’idéal eurosibérien, voire eurasiste, l’action locale suppose en amont un lent et patient travail fractionnaire d’édification d’une contre-société identitaire en sécession croissante de la présente société multiculturaliste marchande avariée. Par la constitution informelle mais tangibles de B.A.D. (bases autonomes durables), « il faut, en lisière du Système, construire un espace où incuber d’autres structures sociales et mentales. À l’intérieur de cet espace autonomisé, il sera possible de reconstituer les structures de l’enracinement (70) ».

 

Les zélotes du métissage planétaire se trompent. L’enracinement n’est ni l’enfermement ou le repli sur soi. Soutenir un enracinement multiple ou plus exactement un enracinement multiscalaire – à plusieurs échelles d’espace différencié – paraît le meilleur moyen de concilier l’amour de sa petite patrie, la fidélité envers sa patrie historique et l’ardent désir d’œuvrer en faveur de sa grande patrie continentale quelque que soit sa désignation, car « l’enracinement est peut-être le besoin le plus important et le plus méconnu de l’âme humaine. C’est un des plus difficiles à définir. Un être humain a une racine par sa participation réelle, active et naturelle à l’existence d’une collectivité qui conserve vivants certains trésors du passé et certains pressentiments d’avenir. Participation naturelle, c’est-à-dire amenée automatiquement par le lieu, la naissance, la profession, l’entourage. Chaque être humain a besoin d’avoir de multiples racines. Il a besoin de recevoir la presque totalité de sa vie morale, intellectuelle, spirituelle, par l’intermédiaire des milieux dont il fait naturellement partie (71) ». N’oublions jamais qu’au-delà des enjeux géopolitiques, notre combat essentiel demeure la persistance de notre intégrité d’Albo-Européen.

 

Je vous remercie.

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Cf. la tribune délirante, summum de politiquement correct, de Thimothy Snyder, « La Russie contre Maïdan », in Le Monde, 23 et 24 février 2014; « Poutine doit écraser le virus de Maïdan… Entretien avec Lilia Chevtsova par Vincent Jauvert », in Le Nouvel Observateur, 27 février 2014; Bruno Tertrais, « La rupture ukrainienne », in Le Figaro, 25 avril 2014; Chantal Delsol, « Occident – Russie : modernité contre tradition ? », in Le Figaro, 30 avril 2014; Jean-Marie Chauvier, « Eurasie, le “ choc des civilisations ” version russe », in Le Monde diplomatique, mai 2014; Vincent Jauvert, « Le Raspoutine de Poutine », in Le Nouvel Observateur, 1er mai 2014; Isabelle Lasserre, « Grande serbie, Grande Russie, une idéologie commune », in Le Figaro, 6 mai 2014, etc.

 

2 : Ainsi, dans Le Monde du 18 janvier 2001, Marie Jégo évoquait-elle le projet poutinien de restauration d’un ensemble néo-soviétique en se référant aux Fondements de géopolitique (non traduit) de Douguine.

 

3 : Sur les œuvres de Douguine disponibles en français, se reporter à Georges Feltin-Tracol, « Rencontre avec Alexandre Douguine », in Réflexions à l’Est, Alexipharmaque, coll. « Les Réflexives », Billère, 2012, note 5 p. 220. On rajoutera depuis la parution de cet ouvrage : Alexandre Douguine, L’appel de l’Eurasie. Conversation avec Alain de Benoist, Avatar, coll. « Heartland », Étampes, 2013; Alexandre Douguine, La Quatrième théorie politique. La Russie et les idées politiques du XXIe siècle, Ars Magna Éditions, Nantes, 2012; Alexandre Douguine, Pour une théorie du monde multipolaire, Ars Magna Éditions, Nantes, 2013.

 

4 : Guillaume Faye, L’archéofuturisme, L’Æncre, Paris, 1998, p. 192.

 

5 : Sur ce projet mitterrandien méconnu, cf. Roland Dumas, « Un projet mort-né : la Confédération européenne », in Politique étrangère, volume 66, n° 3, 2001, pp. 687 – 703.

 

6 : Guillaume Faye, L’archéofuturisme, op. cit., p. 192.

 

7 : Idem, p. 194.

 

8 : cf. Guillaume Faye, « Pour en finir avec la civilisation occidentale », in Éléments, n° 34, avril – mai 1980, pp. 5 – 11.

 

9 : Guillaume Faye, L’archéofuturisme, op. cit., p. 75, souligné par l’auteur.

 

10 : cf. Guillaume Faye, « Il n’y a pas de “ monde blanc ” », in Éléments, n° 34, avril – mai 1980, p. 6.

 

11 : Jean Cau, Discours de la décadence, Copernic, coll. « Cartouche », Paris, 1978 pp. 164 – 165.

 

12 : Idem, p. 175, souligné par l’auteur.

 

13 : Id., p. 182, souligné par l’auteur.

 

14 : Id., p. 183, souligné par l’auteur.

 

15 : Guillaume Faye, Pourquoi nous combattons. Manifeste de la résistance européenne, L’Æncre, Paris, 2001, p. 119.

 

16 : Id., p. 123, souligné par l’auteur.

 

17 : Id., p. 124.

 

18 : Tom Clancy, L’Ours et le Dragon, Albin Michel, Paris, 2001 (1re édition originale en 2000), deux tomes.

 

19 : Maurice G. Dantec, Le théâtre des opérations 2000 – 2001. Laboratoire de catastrophe générale, Gallimard, Paris, 2001, pp. 594 – 595.

 

20 : L’Édit de Caracalla ou Plaidoyer pour des États-Unis d’Occident, par Xavier de C***, traduit de l’anglais (américain), et suivi d’une épitaphe par Régis Debray, Fayard, Paris, 2002.

 

21 : Jean-Sylvestre Mongrenier, Dictionnaire géopolitique de la défense européenne. Du traité de Bruxelles à la Constitution européenne, Éditions Unicomm, coll. « Abécédaire Société – Défense européenne », Paris, 2005, p. 235.

 

22 : « Contre le communisme ou l’islamisation, je me suis toujours battu pour préserver notre identité. Entretien avec Jean-Marie Le Pen », in Minute, 28 décembre 2011, p. 5.

 

23 : Maurice G. Dantec, American Black Box. Le théâtre des opérations 2002 – 2006, Albin Michel, Paris, 2007, p. 174.

 

24 : Idem, p. 119.

 

25 : Id., p. 66.

 

26 : Id., p. 122.

 

27 : Rodolphe Badinand, Requiem pour la Contre-Révolution. Et autres essais impérieux, Alexipharmaque, coll. « Les Réflexives », Billère, 2009, pp. 123 – 124.

 

28 : Cf. Francis Parker Yockey, Le prophète de l’Imperium, Avatar, coll. « Heartland », Paris -  Dun Carraig, 2004; Francis Parker Yockey, Imperium. La philosophie de l’histoire et de la politique, Avatar, coll. « Heartland », Paris -  Dun Carraig, 2008 (1re édition originale en 1948); Francis Parker Yockey, L’Ennemi de l’Europe, Ars Magna Éditions, Nantes, 2011 (1re édition originale en 1956).

 

29 : cf. Jean Thiriart, Un Empire de quatre cents millions d’hommes, l’Europe. La naissance d’une nation, au départ d’un parti historique, Avatar, coll. « Heartland », Paris -  Dublin, 2007 (1re édition originale en 1964).

 

30 : Jean Thiriart, « Europe : l’État-nation politique », in Nationalisme et République, n° 8, 1er juin 1992, p. 3.

 

31 : Jean Thiriart, art. cit., p. 5.

 

32 : Idem, p. 6, souligné par l’auteur.

 

33 : Aymeric Chauprade, Géopolitique. Constantes et changements dans l’histoire, Ellipses, Paris, 2003, p. 475.

 

34 : Sur l’histoire et les principales lignes de force de l’eurasisme, on  consultera avec un très grand profit de Marlène Laruelle, L’idéologie eurasiste russe. Ou comment penser l’empire, L’Harmattan, coll. « Essais historiques », Paris, 1999; Mythe aryen et rêve impérial dans la Russie du XXIe siècle, C.N.R.S. – Éditions, coll. « Mondes russes. États, sociétés, nations », Paris, 2005; La quête d’une identité impériale. Le néo-eurasisme dans la Russie contemporaine, Petra Éditions, 2007; Le nouveau nationalisme russe. Des repères pour comprendre, L’Œuvre Éditions, Paris, 2010; de Lorraine de Meaux, La Russie et la tentation de l’Orient, Fayard, Paris, 2010; de Georges Nivat, Vers la fin du mythe russe. Essais sur la culture russe de Gogol à nos jours, L’Âge d’Homme, coll. « Slavica », Lausanne, 1982, en particulier « Du “ panmongolisme ” au “ mouvement eurasien ” », pp. 138 – 155; Vivre en russe, L’Âge d’Homme, coll. « Slavica », Lausanne, 2007, en particulier « Les paradoxes de l’« affirmation eurasienne » », pp. 81 – 102.

 

35 : Cf. sur le blogue de Lionel Baland, « Secteur droit entre en   politique », mis en ligne le 6 mars 2014.

 

36 : Alain Cagnat, « Europe, Eurasie, Eurosibérie, l’éclairage géopolitique », in Terre et Peuple, n° 59, Équinoxe de Printemps 2014, p. 18.

 

37 : « La Russie vue par les Biélorusses », mis en ligne sur Le Courrier de la Russie, le 13 décembre 2013, cf. http://www.lecourrierderussie.com/2013/12/la-russie-vue-par-les-bielorusses/

 

38 : « La Russie vue par les Biélorusses. En coulisses… », mis en ligne sur Le Courrier de la Russie, le 13 décembre 2013, cf. http://www.lecourrierderussie.com/2013/12/la-russie-vue-par-les-bielorusses/2/

 

39 : Alexandre Baounov, « Entre Kiev et Moscou », in La Russie d’aujourd’hui, supplément du Figaro, le 18 décembre 2013.

 

40 : Alexandre Soljénitsyne, Comment réaménager notre Russie ? Réflexions dans la mesure de mes forces, Fayard, Paris, 1990, traduit par Geneviève et José Johannet, p. 23, souligné par l’auteur.

 

41 : cf. Éléments, « La Russie : le dernier empire ? », n° 57 – 58, printemps 1986, pp. 19 – 41.

 

42 : cf. Alexandre Douguine, « Evola entre la droite et la gauche », collectif, Evola envers et contre tous !, Avatar, coll. «Orientation», Étampes -  Dun Carraig, 2010.

 

43 : Marlène Laruelle, « Le renouveau des courants eurasistes en Russie : socle idéologique commun et diversité d’approches », in Slavica occitania, n° 11, 2000, p. 156.

 

44 : Marlène Laruelle, « De l’eurasisme au néo-eurasisme : à la recherche du Troisième Continent », in sous la direction de Hervé Coutau-Bégarie et Martin Motte, Approches de la géopolitique. De l’Antiquité au XXIe siècle, Économica, coll. « Bibliothèque Stratégique », Paris, 2013, p. 664.

 

45 : in Libération, 15 août 2007.

 

46 : Marlène Laruelle, « L’Extrême-Orient russe : la carte asiatique », in Questions Internationales, n° 57, septembre – octobre 2012, pp. 67 – 68.

 

47 : Tancrède Josserand, « L’eurasisme turc. La steppe comme ligne d’horizon », in Conflits, n° 1, avril – mai 2014, pp. 62 – 64.

 

48 : Jean-Sylvestre Mongrenier, Dictionnaire géopolitique de la défense européenne, op. cit., pp. 135 – 136.

 

49 : cf. Cécile de La Guérivière, « La Chine veut faire rouler un T.G.V. jusqu’aux États-Unis », in Le Figaro, 10 et 11 mai 2014.

 

50 : Jacques Sapir, La Mandchourie oubliée. Grandeur et démesure de l’art de la guerre soviétique, Éditions du Rocher, coll. « L’art de la guerre », Monaco, 1996.

 

51 : Robert Steuckers, La Révolution conservatrice allemande. Biographies de ses principaux acteurs et textes choisis, Les Éditions du Lore, Chevaigné, 2014, p. 131.

 

52 : Marlène Laruelle, « Le renouveau des courants eurasistes en Russie », art. cit., p. 159.

 

53 : Abel Miroglio, La psychologie des peuples, P.U.F., coll. « Que sais-je ? », n° 798, Paris, 1971, p. 7, souligné par l’auteur.

 

54 : Gaston Bouthoul, Les mentalités, P.U.F., coll. « Que sais-je ? », n° 545, Paris, 1952, p. 76, souligné par l’auteur.

 

55 : « Qu’est-ce que l’eurasisme ? Une conversation avec Alexandre Douguine », in Krisis, n° 32, juin 2009, p. 153.

 

56 : « La quatrième théorie politique d’Alexandre Douguine. Entretien », in Rébellion, n° 15, mars – avril 2012, p. 16.

 

57 : cf. Carl Schmitt, Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, Le Labyrinthe, coll. « Les cahiers de la nouvelle droite », 1985, introduction et postface de Julien Freund, traduit par Jean-Louis Pesteil.

 

58 : cf. Zygmunt Bauman, La vie liquide, Éditions du Rouergue / Chambon, coll. « Les incorrects », Arles, 2006.

 

59 : « Qu’est-ce que l’eurasisme ? », art. cit., p. 127.

 

60 : Marlène Laruelle, « De l’eurasisme au néo-eurasisme : à la recherche du Troisième Continent », op. cit., p. 681.

 

61 : Jacqueline Dauxois et Vladimir Volkoff, Alexandra, Albin Michel, Paris, 1994, p. 444.

 

62 : Jean-Sylvestre Mongrenier, La Russie menace-t-elle l’Occident ?, Choiseul, Paris, 2009, p. 100.

 

63 : Zbignew Brzezinski, Le grand échiquier. L’Amérique et le reste du monde, Fayard, coll. « Pluriel », Paris, 2010 (1re édition originale en 1997), traduction de Michel Bessière et Michelle Herpe-Voslinsky, pp. 66 – 67.

 

64 : François Bluche, Richelieu, Perrin, Paris, 2003, p. 136.

 

65 : Zbignew Brzezinski, op. cit., pp. 59 et 61.

 

66 : Jean-Sylvestre Mongrenier, La Russie menace-t-elle l’Occident ?, op. cit., pp. 97 – 98.

 

67 : Robert Steuckers, « Eurasisme et atlantisme : quelques réflexions intemporelles et impertinentes », mis en ligne sur Euro-Synergies, le 20 mars 2009.

 

68 : Jean-Claude Albert-Weill, L’Altermonde, Éditions Gills Club La Panfoulia, Paris, 2004.

 

69 : Guillaume Faye, Pourquoi nous combattons, op. cit., p. 124, souligné par l’auteur.

 

70 : Serge Ayoub, Michel Drac, Marion Thibaud, G5G. Une déclaration de guerre, Les Éditions du Pont d’Arcole, Paris, 2012, p. 18.

 

71 : Simone Weil, L’enracinement, Gallimard, coll. « Folio – Essais », Paris, 1949, p. 61.


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mercredi, 25 juin 2014

Irak: Alliance USA-Iran ou accord ponctuel contre un ennemi commun?

Irak: Alliance USA-Iran ou accord ponctuel contre un ennemi commun?

Auteur : Nasser KanDil
 
La scène irakienne occupe « la une » de tous nos médias locaux, mais l'évènement le plus marquant de ces trois derniers jours est venu des médias occidentaux ; lesquels, après maintes tergiversations sur la complexité des négociations entre l'Iran et le groupe 5+1 [les cinq membres permanents du Conseil de sécurité de l'ONU et l'Allemagne], nous ont surpris par la nouvelle disant que les parties se sont entendues sur la rédaction d'un accord final concernant le dossier nucléaire iranien. Les choses progresseraient donc rapidement. […].

Que signifie cet accord ? Est-il, d'une façon ou d'une autre, en relation avec ce qui se passe en Irak ? En est-il la conséquence ou le prélude ? Autrement dit, est-ce la conscience du danger devant la situation irakienne qui a poussé les États-Unis à éliminer rapidement les obstacles qui bloquaient les négociations, ou bien y a-t-il eu entente secrète préalable avec l'Iran et, par conséquent, ce qui se passe en Irak vient opportunément concrétiser l'énorme danger que représente Al-Qaïda contrôlant plusieurs provinces irakiennes, pour servir de prétexte à deux voies possibles : réoccuper l'Irak comme le voudraient nombre de Sénateurs américains ; ou déléguer à une puissance régionale, de la taille de l'Iran, la charge de superviser le grand nettoyage de l'Irak des restes d'Al-QaÏda ? […].

Je ne soutiens pas l'hypothèse d'une entente américano-iranienne préalable qui aurait produit ce qui se passe en Irak, et ceci parce que l'Iran ne prendrait jamais le risque de laisser Al-Qaïda occuper trois provinces irakiennes situées entre sa frontière et la frontière syrienne, abstraction faite du coût élevé politique et moral en centaines de martyrs et de blessés comme nous le constatons depuis quelques jours, pour ensuite les récupérer dans le cadre d'un accord passé avec les États-Unis. Cette explication relayée par certaines plumes à la solde de l'Arabie saoudite, du Qatar et d'autres États du Golfe vise à ternir l'image de l'Iran en suggérant qu'il est désormais « le gérant » des politiques américaines au Moyen-Orient, et qu'il aurait renoncé à ses constantes invariables. Et les voilà, qui commencent à parler d'une « alliance américano-chiite contre les sunnites » et de bien d'autres balivernes, pour brouiller les cartes et nourrir la haine derrière une façade sectaire, alors que les vraies motivations sont strictement politiques […].

En réalité, ce à quoi nous avons assisté en Irak mérite une analyse rationnelle éloignée de toute émotion, classification, et même de toute définition. Nous sommes évidemment d'accord avec ceux qui considèrent qu'Al-Qaïda, y inclus sa branche au Moyen-Orient [Daech], est une organisation terroriste […], lequel terrorisme est défini comme « un système de violences systématiques auquel certains mouvements politiques extrémistes ont recours pour créer un climat d'insécurité favorisant leurs desseins » […]. Mais avec Daech, nous sommes devant un phénomène inhabituel, car la façon dont il s'est comporté au Liban, en Syrie et en Irak est sans précédent dans l'Histoire du terrorisme […] :

1. La première caractéristique qui distingue cette organisation, de toutes les autres, est d'avoir non seulement inversé les règles du jeu, mais aussi d'en avoir établi de nouvelles. C'est pour la première fois que nous sommes face à une organisation dont les frontières sont illimitées, du moins entre la Jordanie, le Liban, la Syrie, la Palestine, et l'Irak, et qui considère cet espace comme une structure géographique et politique unique ; tous ses fronts étant soumis à un commandement unique et à un plan d'action unique.

2. La deuxième caractéristique est que c'est une organisation dont le plan financier est tout aussi inhabituel, au sens où le cerveau économique qui a choisi de dresser la citadelle de Daech à Deir ez-zor en Syrie, et non à Idleb ou dans la Ghouta de Damas, avait misé d'avance sur ses 100 000 barils de pétrole par jour, sur la possibilité de les écouler via la mafia turque, et aussi sur l'hostilité et la haine du gouvernement turc qui, sous la couverture des prétendus opposants syriens du Conseil puis de la « Coalition d'Istanbul » [CNS], lui permettrait de récupérer la moitié des revenus de la vente au minimum. Maintenant, comme l'affirment les Services de renseignement américains, et d'autres, Daech a pu amasser 500 millions de dollars pour sa guerre en Irak et le recrutement de 50 000 combattants.

De même en Irak, si la bataille suprême a été dirigée contre Baïji -la plus grande raffinerie du pays produisant 300 000 barils de pétrole par jour et sans laquelle la crise de produits pétroliers dans la région est assurée- c'est bien parce que là aussi le marché est garanti d'avance, étant donné que les mafias en Jordanie, au Liban, en Syrie, voire dans certaines régions de l'Iran et autour de l'Irak, pèseraient de tout leur poids pour en payer le prix, quand bien même Beïji serait aux mains d'Al-Qaïda ! Nous savons tous que lorsque les États-Unis ont interdit le pétrole irakien à l'exportation, les Américains, les Britanniques, et tous porteurs de valises du marché noir logeaient dans les hôtels de Bagdad et affrétaient leurs bateaux, en pleine nuit, au nez de la prétendue surveillance. Nous savons aussi que d'autres se servaient de bateaux de pêche et d'embarcations « made in Dubaï » dont les réservoirs avaient une contenance de 1000, 5000, ou 10 000 litres pour échapper à toute surveillance […].

3. La troisième caractéristique est le cerveau tacticien qui fait que Daech sélectionne toujours une position centrale qu'il attaque, puis occupe, et à partir de laquelle il contrôle la zone géographique environnante délimitée d'avance. C'est ainsi que nous avons vu des centaines et des milliers de véhicules chargés d'hommes armés de mitrailleuses lourdes et moyennes entrer à Alep via la frontière turque, à Al-Raqqa, à Deir ez-zor, à Tikrit, puis à Mossoul. Il ne mène pas vingt batailles à la fois mais ouvre un front après l'autre […].

Nous sommes donc confrontés à des méthodes de travail inédites, alors que les autres organisations terroristes, telles celles d'Al-Nosra, du groupe d'Abdullah al-Azzam et d'autres, mènent des actions que l'on pourrait qualifier d'« actes gratuits ou suicidaires » vu que leurs combattants sont envoyés sur des opérations hasardeuses qui pourraient réussir ou ne pas réussir. Que l'objectif soit atteint ou pas, s'ils ne sont pas tués, ils tuent ! Tandis que Daech est entré dans Mossoul et Tikrit sans mener une seule opération suicide. Il a neutralisé les barrages de sécurité et a occupé les casernes en un temps record grâce à la complicité de Azzat al-Douri et de son « armée naqchbandie », composée d'anciens officiers baasistes irakiens et majoritairement de confession sunnite, après lui avoir fait miroiter le poste de gouverneur intérimaire de la région centre […]. Mais si Daech a quitté la Syrie pour se concentrer sur l'Irak, c'est bien parce qu'il a réalisé qu'il allait dans le mur devant une armée syrienne qui remportait victoire après victoire et un peuple syrien, notamment les sunnites, qui l'avait rejeté en refusant son idéologie et son mode de vie et avait décidé de rester dans le giron de l'État. Il a vu les foules de citoyens syriens se précipitant en masse pour élire leur Président, au Liban ; en Jordanie, puis en Syrie, et en a vite tiré les conséquences. Il n'a pas perdu son temps à se frapper la tête contre le mur et raconter des bobards. Réaliste, il a plié bagages et s'est contenté de garder les positions pouvant lui servir de couverture pour l'étape suivante en Irak. Reliant les fronts irakien et syrien, il a gardé Deir ez-Zor dont les puits de pétrole forment l'épine dorsale de son projet futur […].
Le nouveau Daech « né de l'échec en Syrie » est une organisation politiquement mature, financièrement nantie, géographiquement audacieuse par sa remise en question des règles du jeu et des frontières de Sikes-Picot ; ce qui signifie que sa défaite ne sera pas chose facile et certainement pas par une réaction sectaire !

Mettre en échec le projet de Daech n'est possible que par un esprit politique et moral supérieur qui démantèlerait les sources de son pouvoir, maintenant qu'il a réussi à exploiter la position turque à travers Izzat al-Douri, aujourd'hui disparu de la circulation, et qu'il dispose de plusieurs camps d'entrainement pour des milliers de combattants en territoire turc, grâce au financement du Qatar et de l'Arabie saoudite qui lui ont permis d'occuper cette première place.

Sinon, Daech va devenir une « force populaire » soutenue par 8 millions d'habitants du centre de l'Irak et donc aux frontières de l'Iran, de la Syrie, et du Kurdistan ; les kurdes ayant des velléités séparatistes, la situation irakienne est raisonnablement d'autant plus dangereuse pour L'Irak et perturbante pour la Syrie et l'Iran. Mais l'avancée de Daech ne se limitera pas aux frontières de ces deux pays. À la moindre occasion, son objectif suivant est en Turquie car c'est le passage qui lui permettra d'avancer vers l'Ouest, et en Jordanie car c'est le « flanc mou » du monde arabe et non l'Irak […]. Une fois en Jordanie, qui ne pourra lui résister plus que quelques heures, Daech ne retournera pas en Syrie, mais se dirigera vers l'Arabie saoudite où il dispose de forces combattantes, de cellules dormantes prêtes, d'autres sources de financement et d'extensions. À partir de là, il partagera le « jeu de la sécurité régionale » avec Israël, lequel paraîtra nécessairement menacé vu ses 680 Kms de frontières avec la Jordanie […].

D'où les inquiétudes de l'Arabie saoudite, et aussi de l'Égypte qui se trouve face à un dilemme : soit il admet que la priorité des priorités est la lutte contre la menace terroriste, non l'acharnement contre M. Al-Maliki ; soit il s'abstient d'embarrasser l'Arabie saoudite qui a mis dix milliards de dollars sur la table pour que l'Égypte adopte ses prises de position publiques contre la Syrie […]. Personnellement, je ne parierai pas dans un sens ou l'autre, car je ne dispose pas d'éléments indiquant combien de temps ce pays pourrait encore résister dans ces conditions […].

Par conséquent, L'Egypte, les États-Unis et l'Europe sont fatigués parce que leur guerre est dans une impasse et qu'ils ne disposent plus de cartes susceptibles de les sortir d'affaire. À M. François Hollande qui déclare que ce qui se passe en Irak est le résultat tragique de « la guerre qu'al-Assad poursuit contre son propre peuple », j'ai déjà répondu par un article bref pour lui dire : « Vous avez raison, car ce qui se passe en Syrie est le résultat de l'hypocrisie de ce que vous appelez la communauté internationale qui prétend lutter contre le terrorisme pendant qu'elle le soutient sans limites en Syrie ». Ce qui se passe en Syrie est le résultat du rassemblement de tout ce que le monde compte comme serpents venimeux dans le seul objectif de détruire l'État syrien sous prétexte d'une politique justifiée par la seule « sécurité d'Israël ». Mais la Syrie ayant triomphé, où voulez-vous que cette colonie virale hautement infectieuse se dirige, sinon vers l'Irak affaibli ?

Les Services du renseignement français ont livré à l'opposition armée des missiles antichars, dont une partie s'est retrouvée au Mali, ce qui prouve que Daech était déjà en train de s'organiser ; si bien que désormais toute cette prétendue communauté internationale est face à ses responsabilités. Les États-Unis savent parfaitement qui a utilisé les armes chimiques, qui a tenté de s'en servir comme prétexte pour intervenir en Syrie, qui les fabrique, qui sait les utiliser ; mais, lorsque les enquêteurs de l'ONU ont demandé à voir les images de leurs satellites braqués sur la Syrie, 24 heures sur 24, pour visualiser le missile tombé sur al-Ghouta, ils ont refusé de les leur remettre !

Les États-Unis savent aussi qui est Daech, comment il s'est procuré du gaz sarin, et comment il a tenté de se doter de l'arme nucléaire auprès des réseaux d'Abdul Qader Khan, le « père » de la bombe atomique pakistanaise… Ils en savent beaucoup, ce qui fait qu'ils sont encore plus inquiets que beaucoup d'autres. Ainsi, lorsqu'ils ont suggéré au premier ministre irakien, Al-Maliki, de se lancer dans une opération politique c'est parce qu'ils étaient conscients que le seul moyen de gérer politiquement et militairement cette situation complexe en Irak, passe par un État tranquille possédant les cartes nécessaires pour mener à bien cette entreprise ; ce qui est le cas de l'Iran dont il vaudrait mieux ne plus retarder les nouvelles fonctions au Moyen-Orient […].

C'est une situation comparable à ce qui s'est passé à La « Conférence de Yalta » entre les USA et l'URSS au lendemain de la deuxième Guerre Mondiale. Mais, comme l'après Yalta, il ne s'agit nullement d'une alliance, mais d'un accord ponctuel face à un ennemi commun, l'Iran étant la puissance régionale montante capable de gérer le processus politique en Irak et avec Al-Maliki […]


- Source : Nasser KanDil

Poolse minister BuZa: Alliantie met VS is waardeloos en schadelijk


Minister van BuZa Sikorski, in het openbaar pro-VS, maar achter de schermen bepaald niet.

 
Poolse minister BuZa: Alliantie met VS is waardeloos en schadelijk

Een Pools magazine is in het bezit gekomen van een geluidsopname waarop te horen is hoe minister van Buitenlandse Zaken Radek Sikorski de alliantie met de VS waardeloos noemt, en ‘zelfs schadelijk, omdat deze een vals gevoel van veiligheid creëert. We zijn sukkels, absolute sukkels. Het probleem in Polen is dat we amper trots en een laag zelfbeeld hebben.’ Het Poolse ministerie van BuZa weigerde commentaar te geven, maar ontkende niet dat Sikorski dit had gezegd.

Het magazine Wprost publiceerde enkel een gedeeltelijk transcript van Sikorski’s gesprek met de voormalige minister van Financiën, dat in het voorjaar zou hebben plaatsgevonden. De geluidsopname zelf wordt vandaag of morgen vrijgegeven. Het in het geheim opnemen van een persoonlijk gesprek is in Polen overigens een misdrijf.

Sikorski gebruikte platte taal bij zijn stelling dat de alliantie met de VS de relatie met de twee belangrijkste buurlanden, Rusland en Duitsland, zou kunnen beschadigen. Zijn standpunt is des te opmerkelijker als bedacht wordt dat hij eerder forse kritiek uitte op de bemoeienissen van het Kremlin in Oekraïne, en in het verleden doorgaans een grote voorstander van sterke banden met de VS was.

Kandidaat om Ashton op te volgen

De Poolse regering schoof Sikorski onlangs naar voren als kandidaat om EU-buitenlandchef Catherine Ashton op te volgen. Door de opname zal niet alleen zijn kandidatuur in gevaar komen, maar ook zijn positie in de regering. Politiek analist Rafal Chwedoruk denkt dan ook dat er sprake is van een intern machtsspelletje. Sommige Polen vermoeden dat Rusland daar een rol bij heeft gespeeld, omdat het Kremlin gebaat zou zijn bij het destabiliseren van het land.

Centrale Bank zweert samen met regering

Vorige week veroorzaakte Wprost ook al een politieke storm met een geluidsopname van een gesprek tussen Marek Belka, hoofd van de Centrale Bank, en minister van Binnenlandse Zaken Bartlomiej Sienkiewicz. Te horen was hoe beide heren overlegden hoe de bank de regerende partij in 2015 aan een nieuwe verkiezingsoverwinning kan helpen, wat een schending is van de onafhankelijkheid van de Centrale Bank. Critici eisten onmiddellijk het aftreden van de pro-EU regering van premier Donald Tusk.

‘Obama catastrofaal voor Europa’

In 2008 waarschuwde de bekende Bush-criticus Webster Tarpley dat de toen zojuist gekozen president Barack Obama ‘catastrofaal’ zou zijn voor de wereld, maar vooral voor Europa. Hij voorspelde dat Obama zou aansturen op een politiek en uiteindelijk ook militair conflict met Rusland, en daarbij geen seconde zou aarzelen om Europa op te offeren.

Xander

(1) Breitbart

mardi, 24 juin 2014

Takfirismo, el Frankenstein saudí

Por Rodney Shakespeare

Los EE.UU. y el Reino Unido están creando un monstruo. Estas criaturas se supone que deben morder a otras personas, pero tienen una tendencia desconcertante a morder la mano que les da de comer.

Sin embargo, los EE.UU. y el Reino Unido siguen alimentando al monstruo, en parte porque les gustan y, en parte, porque justifican las acciones para más espionaje, más armas y más guerras.

La creación del monstruo del 11S fue particularmente exitosa, ya que les permitió tener una excusa para atacar a las naciones islámicas (de hecho, al general Wesley Clark se le informó que atacarían a siete).

El monstruo de hoy es el takfirí/wahabí que está recibiendo una gran alimentación, especialmente porque los EE.UU. quieren nutrir cualquier cosa que sea fundamental para el Eje del Mal (es decir, los EE.UU., Israel y Arabia Saudita). Después de todo, los amigos se ayudan entre sí, ¿no es cierto?

Sin embargo, en Europa, e incluso en los EE.UU., cada vez hay más conciencia de que el monstruo takfirí/wahabí pronto podría irrumpir por la puerta trasera. Así que los gobiernos occidentales, ahora, comienzan a quejarse de los jóvenes que van a Siria a unirse a los carniceros, degolladores, que asfixian con gas y golpean con el garrote a chicas jóvenes. Esos hombres podrían regresar y emplear su garrote en territorio nacional.

Sin embargo, incluso mientras se quejan, los EE.UU., el Reino Unido y otros más están animando, financiando y armando a los takfiríes y wahabíes! Esto, por supuesto, es contradictorio, incluso demencial, pero ¿qué más da un poco de esquizofrenia cuando estás entre amigos?

No obstante, sus andanzas desagradables están empezando a afectar incluso a las mentes esquizofrénicas entre otras cosas porque el monstruo está apareciendo en más y más lugares. Un ejemplo es Irak, donde los asesinos del Estado Islámico de Irak y el Levante son la manifestación más horripilante que pudiera producirse del monstruo. Otro es el norte de Nigeria, donde cientos de niñas nigerianas están siendo secuestradas, violadas y vendidas como esclavas por Boko Haram.

Entonces, ¿quién está detrás de la última atrocidad cometida por Boko Haram? ¿Quién los crea? ¿Quién los financia? A pesar de la pobreza en la zona (donde más del 60 % de la población vive con menos de 2 dólares al día), ¿cómo es posible que hayan tomado videos de Boko Haram con vehículos blindados y armas pesadas? ¿De dónde sacaron el dinero para comprar esas cosas? ¿Quién suministra el armamento?

No provenía de las hadas (ni los rusos, los chinos o los iraníes, para el caso). Era, y es, el Eje del Mal. Y la clave para entender el monstruo takfirí/wahabí es preguntar, ¿de quién proviene la motivación psicológica que les dice a los jóvenes que es legítimo matar a cualquiera, menos a sí mismos?

De hecho, ¿quién está estimulando a los jóvenes a cometer atrocidades de esa naturaleza, algo que era impensable hace muy poco tiempo? ¿Quién consagra esta conducta incalificable? ¿Quién le dice al monstruo que todo lo que hace no sólo no es aceptable, sino también santificado por Alá?

Todo el mundo sabe la respuesta - son los saudíes. O mejor dicho, el vicioso régimen saudí. Más que cualquier otra cosa (y, en comparación, los israelíes y los americanos son socios menores) es el régimen saudita quien está promoviendo un mundo de atrocidad y destrucción del que incluso los bárbaros invasores del antiguo imperio Romano se habrían avergonzado.

En Baréin, por otra parte, los saudíes están detrás de las tortura y muertes que lleva a cabo el régimen asesino de Al Jalifa (otro lote de totalitarios viciosos que utiliza escuadrones de la muerte para aterrorizar a una población muy valiente y que sólo quiera un poco de democracia). El Gobierno del Reino Unido, por supuesto, sigue siendo fiel a estos asesinos, destruyendo así cualquier ápice de respeto que el resto del mundo podría tener hacia él, pero hay conciencia de la quiebra de la política exterior británica y, algún día, tendrán que pagar un precio por ello.

Esa conciencia es cada vez mayor. Los EE.UU. y el Reino Unido están teniendo que enfrentarse al hecho de que millones de sirios fueran a votar con frenesí y, con el mismo entusiasmo, votaron a favor de mantener el presidente Assad.

Luego está Hezbolá, que, de manera significativa, ya no es catalogado como una organización terrorista por el secretario de Estado norteamericano, John Kerry, un político tan carente de principios como nunca lo ha habido (y eso es mucho decir), pero incluso él está empezando a dormir intranquilo, dado que su mente subconsciente comienza a reconocer que su política exterior es ahora completamente contradictoria y que no tiene ninguna sustancia lógica, y mucho menos moral.

Además, incluso Kerry puede reconocer lo que ahora es un monstruo fuera de control.

Entonces, ¿qué se puede hacer?

A primera vista, nada, porque el takfirí/wahabismo es parte integral de la continua existencia del Estado saudí y el régimen mantiene despiadadamente su control.

Pero, mirando con mayor profundidad, la solución salta a la vista - el derrocamiento del régimen saudí, y luego la realización del deseo más profundo de la mayor parte de la población que anhela una sociedad verdaderamente democrática y moderna (con la que EE.UU. y el Reino Unido podrían intercambiar de manera normal).

Todo esto puede parecer poco probable, salvo que los EE.UU. y el Reino Unido estén descubriendo que el monstruo que han ayudado a crear, realmente, se está acercando por la puerta de atrás y, por eso, a menos que hagan algo inmediato y muy grande, van a recibir una gran mordida.

El derrocamiento del régimen saudita se podía conseguir y, muy pronto, podría convertirse en una necesidad. Esperemos que, por una vez, los EE.UU. y el Reino Unido logren liberarse de las garras del Eje del Mal.

Quand les États-Unis proposent 20.000 dollars aux “pro-TTIP”

Quand les États-Unis proposent 20.000 dollars aux “pro-TTIP”

Ex: http://fortune.fdesouche.com

L’ambassade des États-Unis à Berlin propose aux défenseurs d’un partenariat transatlantique qui souhaiteraient mettre en place un débat “positif” sur le sujet, de soutenir leur projet financièrement.

Voilà de quoi irriter un peu plus les détracteurs du projet de partenariat transatlantique pour le commerce et l’investissement (TTIP), à l’heure où l’opacité des négociations est plus que jamais montrée du doigt. Outre-Rhin, il a suffit d’un tweet pour mettre le feu aux poudres.

Il faut dire que celui-ci (en allemand) est plutôt surprenant:

[NDLR traduction : Vous souhaitez faire connaître le TTIP ? Nous aussi ! Nous finançons vos projets à hauteur de 20.000 dollars. Ambassade des États-Unis à Berlin. 17 juin 2014]

De la propagande ?

L’ambassade américaine propose en effet aux partisans d’un vaste accord de libre-échange américano-européen qui seraient insatisfaits de la couverture médiatique négative dont il fait l’objet d’envoyer leurs idées et projets afin d’organiser un débat “positif” sur le sujet.

“Nous vous soutiendrons !”, assure l’ambassade américaine de Berlin qui promet une aide financière pouvant aller jusqu’à…20.000 dollars.

Il faut pour cela de remplir un formulaire en ligne et de le retourner par voie postale, ou par mail à l’ambassade berlinoise.

De quoi faire sortir de leurs gonds les “anti-TTIP”. Viralité des réseaux sociaux oblige, les internautes n’ont pas tardé à déplorer une telle démarche de la part des Américains, que certains associent à une certaine forme de propagande.

“Relever le niveau du débat”

Pour se défendre, l’ambassade américaine a expliqué que sa démarche visait à “relever le niveau” des discussions sur le sujet. Déplorant les sempiternelles et réductrices craintes de l’importation de poulet au chlore et de bœuf aux hormones, cité par Euractiv, le diplomate américain Peter Claussen explique :

“Nous cherchions des moyens pour encourager les gens à confronter différents points de vue en leur ouvrant un espace et en leur posant la question suivante: le monde entier est-il contre le projet ou existe-t-il certaines personnes qui ont un point de vue différent sur la question ? Nous voulions ouvrir le dialogue, ce qui est la raison d’être des médias”.

“Écouter la voix des opposants”

Mais cette démarche, aussi “citoyenne” soit-elle, n’a pas à être celle d’une administration publique, selon Corporate Europe Observatory (CEO). Cité par le même site, Pia Eberhardt, porte-parole du CEO, un groupe militant contre le lobby des multinationales, explique ainsi:

“Ce serait une initiative acceptable si elle venait de l’industrie. Le gouvernement américain a toutefois le devoir de négocier au nom de tous ses citoyens et non juste pour la grande industrie. Si de larges pans de la population se révèlent contre l’accord, l’attitude appropriée serait de reconsidérer [le projet] et d’écouter les voix de ses opposants”.

Pour l’heure, le sixième cycle des négociations doit commencer le 14 juillet à Bruxelles, dans l’opacité la plus complète.

La Tribune

lundi, 23 juin 2014

ISIS-terroristen werden getraind door Amerika en Turkije

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Onthutsend: ISIS-terroristen werden getraind door Amerika en Turkije

Ex: http://xandernieuws.punt.nl

Nog meer bewijs voor steun Westen aan moslimextremisten

‘Turkije trainde al duizenden moslimterroristen voor oprichting Sharia-Kalifaat’

ISIS-Sharia-terroristen, getraind door Amerika en Turkije, bewapend door Saudi Arabië

De schandalen stapelen zich op voor de regering Obama. Nu blijken moslimterroristen van ISIS, dat grote delen van Syrië en Irak heeft bezet, in 2012 op een geheime basis in Jordanië getraind te zijn door Amerikanen en Turken, die hen tegen de Syrische president Bashar Assad wilden inzetten. Het was natuurlijk nooit de bedoeling (?) dat ze tegen de Amerikaanse belangen in Irak zouden vechten. Eerder voltrok eenzelfde rampscenario zich in Afghanistan, waar de Taliban in de jaren ’80 werden getraind door de CIA om te vechten tegen de Russen. Ook daar keerden de moslimextremisten zich later tegen hun ‘weldoeners’.

Getraind in Jordanië en Turkije

Jordaanse officials hebben bevestigd dat er in Safawi, in de noordelijke woestijnregio van Jordanië, al in 2012 een basis was waar Amerika en Turkije tientallen ISIS-strijders trainden om te vechten tegen Assad. Wel zou eerst onderzocht zijn of de strijders geen banden hadden met Al-Qaeda. Ook op bases in Turkije worden terroristen klaargestoomd voor de burgeroorlog in Syrië. Eén van deze kampen bevindt zich vlakbij de NAVO-luchtmachtbasis Incirlik, bij Adana.

Ook het Duitse Der Spiegel berichtte in maart dat Syrische rebellen in Jordanië door Amerikanen worden getraind in onder andere het gebruik van anti-tankwapens. Hoewel niet helemaal duidelijk is of de Amerikanen tot het leger behoren of tot private firma’s zoals het beruchte Academi / Blackwater, dragen sommige instructeurs Amerikaanse legeruniformen.

De Britse Guardian schreef in dezelfde maand dat naast Amerikaanse ook Franse en Duitse instructeurs hulp geven aan de Syrische rebellen. Frankrijk en Duitsland weigerden hierover commentaar te geven aan journalisten van het internationale persbureau Reuters.

‘Nieuwe regionale oorlog’

Gisteren waarschuwde de VN dat het geweld in Syrië en Irak kan overslaan op de buurlanden, met een nieuwe Midden-Oostenoorlog als gevolg. Ook de Jordaanse officials zeiden daar bang voor te zijn. ISIS plaatste onlangs een video op YouTube waarin werd gedreigd dat Koning Abdullah, die als een vijand van de islam wordt gezien omdat hij samenwerkt met het Westen, zal worden ‘afgeslacht’. In een andere video is te zien hoe tiener-jihadstrijders van ISIS zich rond een Iraakse gevangene opstellen en feest vieren als hij wordt geëxecuteerd. (4)

Ook Saudi Arabië speelt een grote rol in het Syrische en Iraakse conflict. De Saudi’s leveren wapens aan ISIS en worden algemeen gezien als één van de belangrijkste drijvende krachten achter de aan Al-Qaeda verbonden terreurbeweging.

‘Obama medeplichtig’

Een geïnformeerde bron met contacten met een hoge official binnen de Shi’itische Iraakse regering van premier Nouri Al-Maliki noemt de Amerikaanse president Obama ‘medeplichtig’ aan de oorlog die ISIS voert tegen de regering in Baghdad. Tevens bevestigt hij dat duizenden in Turkije getrainde moslimterroristen via Syrië naar Irak zijn gereisd, met als doel daar het Islamitische Sharia-Kalifaat op te richten. (1)

Xander

(1) World Net Daily
(2) The Guardian
(3) Spiegel via Reuters
(4) Breitbart

Zie ook o.a.:
15-06: Grote man achter Putin beschouwt VS als rijk van de Antichrist (Obama steunt Al-Nusra/Al-Qaeda in Syrië en Irak)
03-06: Op video: Obama glimlacht bij horen oorlogskreet Allah
01-06: Turkije blokkeert Eufraat, drinkwater miljoenen Syriërs en Irakezen in gevaar
10-05: Syrië: Regering Obama wil alle macht overdragen aan Moslim Broederschap
06-05: 3000 door Amerika getrainde soldaten gaan werken voor Hamas
18-04: Turkije, Iran en Al-Qaeda vormen Free Egyptian Army voor nieuwe burgeroorlog
08-04: Pulitzerprijs journalist: Turkije achter gifgasaanval Syrië, werkt samen met Al-Qaeda
30-03: VS steunt Erdogans misbruik van NAVO voor herstel Ottomaans Rijk (/ Vanuit Turkije zal het nieuwe islamitische Kalifaat worden opgericht)
29-03: Ingrijpen Syrië nabij? Turkije geeft Al-Qaeda militaire- en luchtsteun
27-03: Gelekt gesprek op YouTube: Turken plannen false-flag aanslag om Syrië aan te vallen
07-03: De sleutelrol van Rusland en Turkije in de eindtijd (2)
28-02: De sleutelrol van Rusland en Turkije in de eindtijd (deel 1)

El retorno de la geopolítica y sus razones

por Atilio A. Boron

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Una ojeada a las novedades editoriales producidas en el estudio de las relaciones internacionales -o, si se quiere utilizar un lenguaje “políticamente incorrecto” pero más diáfano y accesible: el imperialismo- revela la creciente presencia de obras y autores que apelan a la problemática geopolítica. La súbita irrupción de esta temática nos mueve a compartir una breve reflexión, y esto por dos razones. Primero, porque el tema, y la palabra hacía tiempo que habían sido expulsadas, aparentemente para siempre, del campo de los estudios internacionales y ahora están de vuelta. Proponemos la hipótesis, en segundo lugar, de que su reincorporación no tiene nada de casual o accidental sino que es un síntoma de un fenómeno que trasciende el plano de la teoría y la semiología: la decadencia del imperio norteamericano.

géopolitique,politique internationaleEn relación a lo primero digamos que el abandono de la perspectiva geopolítica no sólo se verificó en las elaboraciones de los mandarines de la academia, lo cual no es motivo alguno de preocupación, sino que también se hizo sentir en las obras de los pensadores de la izquierda, lo cual sí era motivo de inquietud. Tanto era así, y tanto ha cambiado en muy poco tiempo, que al terminar la redacción de mi libro América Latina en la Geopolítica del Imperialismo, a mediados del 2012, y proceder a la última revisión del texto antes de enviarlo a la imprenta creí necesario introducir un largo párrafo, que reproduciré parcialmente a continuación, para responder a los muchos amigos y camaradas que, sabedores de la problemática que estaba investigando me hicieron conocer su sorpresa, y en algunos casos desacuerdos, por dirigir mi atención hacia un tema, la geopolítica, asociada a los planteamientos de la derecha más reaccionaria y racista. De ahí que en sintiera la necesidad de decir lo siguiente en las mismas páginas iniciales del libro:

“Unas palabras, precisamente, sobre la problemática geopolítica. Se trata de una cuestión que en general la izquierda ha demorado más de lo conveniente en estudiar por una serie de razones que no podemos sino apenas enunciar aquí: concentración en el examen de temas “nacionales”; visión economicista del sistema internacional y del imperialismo; menosprecio de la geopolítica por la génesis reaccionaria de este pensamiento y por la utilización que de ella hicieron las dictaduras militares latinoamericanas de los años setenta y ochenta del siglo pasado. La generalización del concepto y las teorías de la geopolítica se encuentra en la obra de un geógrafo y general alemán, Karl Ernst Haushofer, quien propuso una visión fuertemente determinista de las relaciones entre espacio y política, y la inevitabilidad de la lucha internacional entre los diferentes Estados para asegurarse lo que, en un concepto de su autoría, calificó como “espacio vital” (Lebensraum). El desprestigio de esa teorización se relaciona con el hecho de que fue este concepto de Lebensraum el empleado por Hitler para justificar el expansionismo alemán que a la postre culminó con la tragedia de la Segunda Guerra Mundial. Haushofer tuvo como fuente de inspiración la obra de un geógrafo y político británico, Halfor John Mackinder, quien en 1904 había escrito un muy influyente artículo sobre “El pivote geográfico de la historia” [1].

En todo caso el nacimiento de esta perspectiva tuvo lugar en un momento histórico signado por el predominio de las concepciones colonialistas, imperialistas y racistas de finales del siglo XIX y comienzos del XX. Si hoy reaparece, completamente resignificada en el pensamiento contestatario, es porque aporta una perspectiva imprescindible para elaborar una visión crítica del capitalismo en una fase como la actual, signada por el carácter ya global de ese modo de producción, su afiebrada depredación del medio ambiente y las prácticas salvajes de desposesión territorial padecidas por los pueblos en las últimas décadas. No debería sorprendernos entonces que dos de los principales pensadores de nuestro tiempo sean geógrafos marxistas: David Harvey y Milton Santos. Es que la política y la lucha de clases, tanto en lo nacional como en lo internacional, no se desenvuelven en el plano de las ideas o la retórica, sino sobre bases territoriales, y el entrelazamiento entre territorio (con los “bienes públicos o comunes” que los caracterizan), proyectos imperialistas de explotación y desposesión y resistencias populares al despojo requieren inevitablemente un tratamiento en donde el análisis de la geografía y el espacio se articulen con la consideración de los factores económicos, sociales, políticos y militares. En tiempos como los actuales, en los que la devastación capitalista del medio ambiente ha llegado a niveles desconocidos en la historia, una reflexión sistemática sobre la geopolítica del imperialismo es más urgente y necesaria que nunca. Tal como lo recordara el Comandante Fidel Castro en su profética intervención en la Cumbre de la Tierra –en Río de Janeiro, junio de 1992–, ‘una importante especie biológica está en riesgo de desaparecer por la rápida y progresiva liquidación de sus condiciones naturales de vida: el hombre’.”

Creo que las razones por las cuales desde la izquierda tenemos que recuperar la problemática geopolítica -¡que sí estaba presente, si bien expresadas con otro lenguaje, en el marxismo clásico!- son por demás convincentes. Pero, ¿a qué se debe que el pensamiento de la derecha haya hecho lo propio y que la obra de los intelectuales orgánicos del imperio (Zbigniew Brzezinski y Henry Kissinger, para tan sólo nombrar a los de mayor gravitación) y de los académicos del mainstream norteamericano deban recurrir cada vez con más frecuencia a consideraciones geopolíticas en sus estudios e investigaciones? ¿Se trata de una superficial y efímera moda intelectual, para reemplazar al ya difunto concepto de “globalización”, cuya muerte fue anunciada simultáneamente a su advenimiento o hay algo más?

Efectivamente hay algo más. No es un tema de modas intelectuales o escolásticas, y esta es la segunda cuestión que queríamos plantear. La reflexión geopolítica en el campo del pensamiento imperial es hija de una dolorosa (para algunos) comprobación: el imperio norteamericano ha superado su cenit y ha comenzado a recorrer el camino de su lento pero irreversible ocaso. Para los gobernantes y las clases dominantes de Estados Unidos de lo que se trata entonces es de tomar los recaudos necesarios para evitar dos desenlaces inaceptables: (a) que el crepúsculo imperial precipite una incontrolable reacción anárquica en cadena en el sistema internacional, en donde un  buen número de estados y una cantidad desconocida pero significativa de actores privados disponen de un arsenal atómico capaz de eliminar de raíz toda forma de vida en el planeta y, (b), que producto de la irreversible redistribución del poder mundial la seguridad nacional y el modo de vida de Estados Unidos puedan verse irremediablemente menoscabados. Esta es la razón de fondo por la cual los estrategas militares estadounidenses llevan más de diez años refiriéndose oblicuamente al tema y alertando, en sus escenarios bélicos prospectivos de largo plazo, que ese país deberá estar preparado para librar guerras, en los más diversos rincones de este planeta, durante los próximos veinte o treinta años. Doctrina de la “guerra infinita” cuyo objetivo no será acrecentar su primacía mundial mediante la incorporación de nuevas áreas de influencia o control sino apenas preservar las ya existentes, o evitar un catastrófico derrumbe de los parámetros geopolíticos globales.

Estos pronósticos tardaron más de diez años en incorporarse a los análisis del mandarinato académico y de los publicistas del imperio, profundamente enquistados en los grandes medios de comunicación. Pero ya no más. La terca realidad les ha obligado a hablar de lo que hasta hace poco era impensable, cuando una pandilla de reaccionarios nucleada en el Proyecto para el Nuevo Siglo Americano fundado por Dick Cheney en 1997 se ilusionó al creer que el mundo que aparecía ante sus ojos tras el derrumbe del Muro de Berlín y la implosión de la Unión Soviética había llegado para quedarse, para siempre, en una típica reiteración de la incapacidad del pensamiento burgués para comprender la historicidad de los fenómenos sociales [2]. Se trató de una ilusión infantil, así la juzgó ese viejo lobo del imperio que es Zbigniew Brzezinski, que la realidad desbarató en pocos años. Los atentados del 11-S derrumbaron no sólo las Torres Gemelas sino también los tranquilizadores espejismos con los cuales se entretenían los dizque expertos del Proyecto para el Nuevo Siglo Americano. No es casual que en su más reciente libro Brzezinski  dedique unas sorpresivas páginas introductorias al tema de la declinante longevidad de los imperios, y si bien no lo dice explícitamente está claro que para él, como para tantos otros, Estados Unidos es un imperio [3]. Claro está que se trataría de un imperio de nuevo tipo, movido por el idealismo Wilsoniano, como lo asegura Henry Kissinger en sus diversos escritos, idealismo que lo lleva a convertirse según esta autocomplaciente visión, en un abanderado de las mejores causas de la humanidad: democracia, derechos humanos, libertad, pluralismo, etcétera. En una palabra, el país a quien Dios presuntamente le habría encomendado la realización de un “Destino Manifiesto” y en virtud del cual sembraría aquellos nobles valores e instituciones a lo largo y ancho del planeta.  Un razonamiento muy parecido había sido formulado por Henry Kissinger en un libro publicado en 1994 y traducido al castellano al año siguiente: La Diplomacia. En él el ex Secretario de Estado de Richard Nixon advertía sobre la precariedad de los ordenamientos internacionales al observar que “con cada siglo ha ido encogiéndose la duración de los sistemas internacionales. El orden que surgió de la Paz de Westfalia duró 150 años … el del Congreso de Viena se mantuvo durante 100 años … el de la Guerra Fría terminó después de 40 años.” Y concluye: “Nunca antes los componentes del orden mundial, su capacidad de interactuar y sus objetivos han cambiado con tanta rapidez, tanta profundidad o tan globalmente.” [4]

Dado todo lo anterior no sorprende la nota que días atrás publicara David Brooks en el New York Times y que fuera reproducida en Buenos Aires por La Nación y, con seguridad, en otros diarios de América Latina y el Caribe. Brooks, un hombre de clara persuasión conservadora, cita en su nota la opinión de Charles Hill, uno de los mayores expertos del Departamento de Estado, ya retirado de su cargo, quien dice textualmente que: “La gran lección que enseña la historia de la alta estrategia es que cuando un sistema internacional establecido entra en fase de deterioro, muchos líderes actúan con indolencia y despreocupación, y felicitándose a sí mismos. Cuando los lobos del mundo huelen esto, por supuesto que empiezan a moverse para sondear las ambigüedades del sistema que envejece y así arrebatar de un tarascón los bocados más preciados.” Brooks refleja, con desazón, la literatura que cada vez con mayor frecuencia examina el proceso de decadencia imperial, esa “fase de deterioro” a la que aludía Hill, si bien no todos los autores se atreven a abandonar los eufemismos tranquilizadores. El último número de la revista Foreign Affairs, el conservador órgano del establishment diplomático estadounidense, presenta un par de artículos de dos de los mayores especialistas en el análisis de las relaciones internacionales y en los cuales, más allá de sus diferencias, concuerdan en el hecho de que “la geopolítica está de vuelta” [5]. Y si lo está es precisamente porque la correlación de fuerzas que en el plano internacional se cristalizara después de la Segunda Guerra Mundial y, sobre todo, las fantasías que anunciaban el advenimiento de “un nuevo siglo americano” se derrumbaron estrepitosamente. Ejemplos: Estados Unidos es derrotado inapelablemente (29 a 3) en una votación en la OEA que pretendía decretar la intervención de ese organismo en la crisis que afecta a la  República Bolivariana de Venezuela; asiste impotente a la reincorporación de Crimea a Rusia, pese a que en una actitud insólita y provocativa su Secretaria de Estado Adjunta para Asuntos Euroasiáticos, Victoria Nuland, estuvo en la Plaza Maidan de Kiev repartiendo panecillos y galletitas a las bandas de neonazis que luego tomarían por asalto los edificios gubernamentales y constituirían un nuevo gobierno, mismo que fue rápidamente reconocido por las corruptas y decrépitas democracias capitalistas; y sus bravuconadas y amenazas en contra de Siria se derrumbaron como un castillo de naipes en cuanto Rusia -y de modo más cauteloso, China- le hicieron saber a Washington que no permanecerían de brazos cruzados si la Casa Blanca lanzaba una nueva aventura bélica en la región. Cambios inesperados, muy profundos y sucedidos en muy corto tiempo y que nos obligan a reflexionar sobre -y a actuar en- una transición geopolítica global que difícilmente podrá llevarse a cabo de manera pacífica. Si atendemos a las lecciones de la historia, todas las transiciones geopolíticas precedentes fueron violentas. Nada permite suponer que hoy la historia será más benigna para nuestros contemporáneos, especialmente si se repara en la fenomenal desproporción de recursos militares que retiene el centro imperial, superior a la de la totalidad de los demás países del planeta.

[1] Mackinder (1861-1947) sostenía que en el planeta hay una “Isla Mundial” que es el sitio donde se concentran las mayores riquezas naturales y que está conformada por la gran masa euroasiática y africana. Al interior de este enorme espacio se recorta, según este autor, un pivote que se extiende desde el Volga hacia el Este, hasta el río YangTse en la China, y desde los Himalayas hasta el Océano Ártico y Siberia. Quien controle ese pivote, sostiene Mackinder, controlará la Isla Mundial y quien ejerza ese control podrá extenderlo a todo el mundo. Tiempo después, el geopolítico norteamericano Nicholas Spykman (1893-1943) re-elaboró las concepciones de Mackinder y acentuó la importancia del anillo de tierras y mares que rodean al pivote central. Si ese cerco es exitoso, asegura Spykman, la potencia que lo consiga dominará Eurasia, y quien controle Eurasia regirá los destinos del mundo. Zbigniew Brzezinski es el más encumbrado continuador de esta tradición que le asigna al pivote central de la masa euroasiática un papel crucial en el dominio del planeta. La obsesión por cercar ese pivote con toda suerte de alianzas político-militares alimentó la política exterior de los Estados Unidos desde el triunfo de la Revolución Rusa en 1917 hasta nuestros días, como lo prueban los mapas utilizados por Brzezinski en su ya referida obra.

[2] Recordar que Cheney luego se convertiría, bajo la presidencia de George W. Bush, en Vicepresidente de los Estados Unidos durante sus dos mandatos y uno de los personajes de mayor influencia en el proceso decisional de la Casa Blanca, algo poco común si se recuerda el carácter eminentemente protocolar, casi decorativo, de los vicepresidentes en la república imperial norteamericana.

[3] Puede consultarse este tema de la declinante longevidad de los imperios en Zbigniew Brzezinski, Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power (New York: Basic Books, 2012), pp. 21-26.

[4] Henry Kissinger, La Diplomacia (México: Fondo de Cultura Económica, 1995), p. 803.

[5] Ver John Ikenberry, “The Illusion of Geopolitics. The Enduring Power of the Liberal Order” y  Walter Russell Mead, “The Return of Geopolitics. The Revenge of the Revisionist Powers”, ambos en Foreign Affairs, Mayo-Junio de 2014.

Fuente: Atilo Borón

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dimanche, 22 juin 2014

Les USA « nettoient » le marché de l’UE pour y vendre leur gaz de schiste

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Les USA « nettoient » le marché de l’UE pour y vendre leur gaz de schiste

Ex: http://www.blogapares.com

Vu sur Ria Novosti

Les Etats-Unis cherchent à affaiblir l’Europe et à « nettoyer » le marché européen pour y vendre du gaz de schiste américain, a déclaré mardi à Moscou le conseiller du président russe Sergueï Glaziev.

 

« Les Américains ont pour but d’affaiblir l’Union européenne, de provoquer la faillite de toute une série de banques européennes pour obtenir l’annulation de leurs dettes envers la Russie et l’Europe. Ils souhaitent affaiblir l’Europe et nettoyer le marché du gaz pour y vendre du gaz de schiste américain », a indiqué M.Glaziev lors d’une conférence de presse à RIA Novosti.

Selon le conseiller, les sanctions économiques que les Etats-Unis cherchent à faire adopter contre la Russie, serviront à affaiblir l’Europe ce qui permettra aux Etats-Unis d’imposer des conditions économiques désavantageuses à l’UE.

Fin mars dernier, le président américain Barack Obama a déclaré à Bruxelles que les Etats-Unis pourraient fournir plus de gaz à l’Europe qu’il ne lui en faut pour remplacer le gaz russe. En juin, les importations de gaz de schiste américain en Europe ont été évoquées lors du sommet du G7. Washington commencera à fournir du gaz de schiste à l’Europe à la fin de 2015, mais cela implique des investissements de plusieurs milliards de dollars.

« Les Etats-Unis incitent le premier ministre ukrainien Arseni Iatseniouk et le président Piotr Porochenko à cesser d’importer du gaz russe, à rompre le contrat, à arrêter le transit de gaz russe vers l’Europe. L’Ukraine pose des exigences irréalisables et refuse de payer sa dette gazière. Elle provoque la rupture des fournitures de gaz russe vers l’Europe », a ajouté M.Glaziev.

Le président Obama a appelé M.Porochenko à diversifier les importations ukrainiennes de produits énergétiques pour réduire sa dépendance vis-à-vis de la Russie. Kiev recherche des sources de gaz alternatives, mais M.Iatseniouk a déjà reconnu que l’Ukraine ne pouvait pas encore renoncer au gaz russe. A l’heure actuelle, Kiev mène des négociations avec Moscou sur la réduction du prix du gaz.

 
Source: Ria Novosti
 
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Le monde arabe déstabilisé par les erreurs américaines

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Irak : l’Iran allié des Usa… cherchez l’erreur
 
Le monde arabe déstabilisé par les erreurs américaines

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
 
L’Iran, pays que les Usa envisageaient de bombarder hier aux cotés des israéliens se porte en Irak au secours des protégés des américains en grave difficultés militaires. On ne peut mieux illustrer une situation ubuesque et terrifiante qui a complètement échappé aux scénarios élaborés par les stratèges de l'impérialisme démocratique.

Les américains n’ont jamais eu la bonne lecture. Derrière le terrorisme du 11 septembre, derrière la guerre de l’islamisme radical mené par la haine de la « civilisation occidentale » , il y a une guerre mondiale entre musulmans, entre chiites et sunnites. Les américains, en détruisant l’Irak de Saddam Hussein dominé par les sunnites, ont donné le pays à des chiites incapables de maintenir une unité entre les composantes irakiennes. Allié des chiites en Irak, Washington a tenté de les chasser du pouvoir en s’appuyant un  temps sur les islamistes sunnites en Syrie. Ces islamistes tentent aujourd’hui de reconstruire un califat sur les deux pays pour effacer les frontières tracées par les européens en fonctions de leurs intérêts de l'époque. C’est une menace que l'Iran ne peut accepter.

Quant à la démocratie qui devait tout régler, inutile de la chercher, elle n’est nulle part. L’Iran des gardiens de la révolution islamique aux cotés des Usa contre l’armée islamique du levant, difficile tout de même d’expliquer cela aux opinions publiques. L’incohérence politique et l’aveuglement idéologique est en train de présenter la note, elle sera lourde pour tout le monde.

Le président américain, qui ne cesse de proclamer que la page des guerres est tournée, s'est une nouvelle fois retrouvé brusquement confronté aux conséquences des interventions passées. Personne n'imaginerait revoir des soldats américains à Fallouja ou à Tikrit, sauf dans une mission de guidage de drones. Le vice-président Joe Biden, qui est chargé de la gestion des relations avec le gouvernement chiite de Bagdad, a appelé Nouri Al-Maliki pour lui faire savoir que les Etats-Unis sont « prêts à accélérer et intensifier leur soutien ». Lorsqu'il était candidat à la Maison Blanche, M. Biden avait été critiqué pour avoir suggéré la partition de l'Irak en décembre 2006. Depuis la prise de Kirkouk par les Kurdes, dans le nord du pays, l'idée est réapparue dans les médias américains. Les « faucons » sont persuadés que tout cela aurait pu être évité, avec une petite force résiduelle et que Barack Obama a choisi le retrait complet pour des raisons électorales. John McCain a « supplié » son ancien rival de revoir sa décision sur le retrait d'Afghanistan. « Les Afghans n'ont pas de capacités aériennes. S'il vous plaît, conservez une petite force en Afghanistan ! ». Les spécialistes de politique étrangère ont reproché au président d'avoir, par son inaction en Syrie, créé un vide qui a profité à l'EIIL.

En attendant une décision de Barack Obama, le secrétaire américain à la Défense Chuck Hagel a ordonné l'envoi d'un porte-avions dans le Golfe au cas où une intervention militaire serait nécessaire en Irak, où les djihadistes de l'Etat islamique en Irak et au Levant menacent Bagdad. Barack Obama doit désormais faire face à trois défis en Irak. Le premier est de prendre des mesures rapides pour stopper l'avancée des djihadistes sunnites de l'EIIL afin de les empêcher de s'emparer de l'Irak et d'en faire une base arrière d'où partiront des attaques vers l'extérieur qui pourraient cibler des intérêts américains. De telles mesures s'inscriraient dans la ligne définie le mois dernier par le président américain à l'académie militaire de West Point où il a expliqué que les Etats-Unis emploieraient la force lorsque leurs intérêts seront menacés.

A moyen-terme, les Etats-Unis doivent également s'assurer que l'Irak ne replonge pas dans une guerre civile opposant chiites et sunnites. A plus long terme, ils doivent enfin convaincre les alliés de l'Irak de s'inscrire dans un processus visant à maintenir l'unité du pays et persuader le Congrès de voter en faveur d'un plan de 5 milliards de dollars pour financer la lutte contre le terrorisme.

L'ancien émissaire international pour la Syrie, Lakhdar Brahimi, a estimé dans un entretien à l'AFP que l'offensive djihadiste en Irak résultait de l'inertie de la communauté internationale face au conflit qui fait rage en Syrie voisine depuis 2011. « C'est une règle bien connue : un conflit de ce genre ( en Syrie ) ne peut pas rester enfermé dans les frontières d'un seul pays. Malheureusement on a négligé le problème syrien et on n'a pas aidé à le résoudre. Voilà le résultat ». « Une personnalité irakienne m'a dit en novembre que l'EIIL était dix fois plus actif en Irak qu'en Syrie. J'ai mentionné cela au Conseil de sécurité et dans mes entretiens », raconte ce diplomate chevronné. Voisin de la Syrie, avec laquelle il partage une longue et poreuse frontière, « l'Irak a été comme une grosse blessure qui s'est infectée » avec le conflit syrien, souligne-t-il. 

Mais qui a créé la blessure et n’a jamais été capable de la soigner ?

El G77 y la descolonización de la geopolítica

por Rafael Bautista S.

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Las recientes crisis en Ucrania y Siria manifiestan la compleja transición hacia un mundo sin centro hegemónico único; lo que se está denominando el “incipiente mundo multipolar” (las áreas en disputa manifiestan esta tónica). El siglo XXI amanece con un nuevo mundo emergente que ya no presupone, ni cultural ni civilizatoriamente, la hegemonía occidental.

El “gran relato” neoliberal del “fin de la historia” se hizo pedazos el 11 de septiembre de 2001 y su última cruzada, llamada el “choque de civilizaciones”, es derrotada en Siria y Ucrania. Es decir, el fenómeno de la colonización, consustancial al mundo moderno, empieza a desmoronarse en el nuevo siglo. Incluso las nuevas potencias emergentes, si optaran por asegurarse áreas de influencia, ya no podrían hacerlo según las prerrogativas que adoptaron las potencias occidentales cuando se repartieron el África y el Oriente. La sobrevivencia de un mundo multipolar pende del siguiente detalle: los términos en que se expresen las alianzas geopolíticas sólo podrían cimentarse en una cooperación mutua y estratégica y ya no en exclusivas relaciones de dominación.

Las últimas bravuconadas que Occidente despliega bélicamente no hacen sino mostrarnos su decadencia profunda. Ya no pudo invadir Siria, y eso le está costando, no sólo credibilidad sino, sobre todo, la desconfianza en su capacidad militar. Incluso podría decirse que el 3 de septiembre de 2013 se evitó la tercera guerra mundial, cuando el sistema de defensa aéreo ruso S300-PS, desde la base de Tartus, en Siria, intercepta y destruye misiles tomahowks (lanzados desde la base gringa de Rota, en la bahía de Cádiz), que tenían como destino Damasco. Desde entonces queda demostrado que los rusos han recuperado su importancia militar; lo cual equilibra un mundo que había sido capturado por USA (según Ehud Barack, exministro de asuntos militares de Israel, eso debilita a USA en todo el mundo). Desde el triunfo de Rusia ante Georgia, por Osetia del Sur, el 2008, puede decirse que la geopolítica del siglo XX ha sido dislocada en favor de una nueva reconfiguración planetaria.

En Ucrania termina de rematarse la cosa, puesto que la injerencia occidental, comandada por USA, no hace sino, para su propia desgracia, acercar aún más a China y Rusia, lo cual significa, en lo venidero, el viraje definitivo de la economía mundial hacia el Oriente. El último acuerdo monumental entre Rusia y China (cuyo comercio bilateral alcanzará, para el 2020, los 200.000 millones de dólares), no sólo ratifica la hegemonía de una Eurasia oriental, en torno a la restauración comercial de la “ruta de la seda”, sino hasta posibilita que China se expanda hacia Occidente (los más que probables ejercicios militares conjuntos entre Rusia y China en pleno Mar Negro). Ni USA ni Europa tienen la musculatura, ni económica ni militar, para hacer valer sus sanciones económicas a una Rusia que, aliada de China, ya no tiene necesidad de supeditarse a un Occidente en plena decadencia.

El mundo y su cartografía geopolítica, tal cual había sido concebida por las potencias occidentales, desde el siglo XIX, está feneciendo. Esto quiere decir que la disposición centro-periferia, pertinente al mundo moderno, ya no tiene sentido. Como tampoco tiene sentido, frente a la crisis climática y energética, un sistema económico que sólo sabe administrar el despojo sistemático de vida (humanidad y naturaleza) en favor de los fetiches del mundo moderno: el capital y el mercado. La crisis es civilizatoria y sólo puede ser comprendida, en su verdadera magnitud, desde una perspectiva multidimensional.

Esto quiere decir que, tampoco las ciencias modernas, en su crisis epistemológica, estarían a la altura de dar razón de la crisis. Si todas parten de los mitos y prejuicios modernos, ¿cómo podrían auscultar una crisis que la originan estos mismos mitos y prejuicios? La crisis actual manifiesta una rebelión de los límites mismos de un mundo que es finito; pero la ciencia moderna, la economía capitalista y el mismo paradigma del desarrollo, suponen recursos de aprovechamiento infinitos como presupuesto de un progreso también infinito.

Este presupuesto da origen a la sociedad moderna. Pero es un presupuesto falso, porque los recursos no son infinitos. Ni la naturaleza ni el trabajo humano pueden garantizar un progreso sin fin. Un crecimiento sin límites es una pura ilusión trascendental. Por eso el mundo moderno se halla en la peor de sus encrucijadas; pues si su economía se basa en el crecimiento económico, este crecimiento supone el aprovechamiento desmedido de energía fósil. Sin energía se hace imposible crecer. Crecer para el primer mundo significa aumentar su consumo de energía; pero si añadimos a esto que el mito moderno de los países ricos es crecer indefinidamente, fieles al modelo de desarrollo y progreso infinito, resulta que su propia forma de vida, basada en el crecimiento infinito, ya no puede sostenerse. Entonces, lo que se vislumbra, como consecuencia de esta crisis, es el colapso cultural y civilizatorio de la modernidad occidental. No siendo ya el primer mundo dueño de la energía del planeta (desde el 2003, cuando British Petroleum confirma el fracaso de la guerra de Irak), ya no puede subvencionar su desarrollo con la miseria que genera su economía en el resto del planeta.

La crisis financiera se vincula también a la crisis energética, que es la otra cara de la rebelión de los límites ante las pretensiones ilimitadas de un crecimiento sin fin. Este crecimiento es ya insostenible ante la evidencia del agotamiento paulatino de los recursos energéticos. Lo cual hace más vulnerable la estabilidad a futuro de un dólar que, sin petróleo, no tiene nada que lo sostenga (a no ser sus bombas nucleares). El primer mundo requiere cada vez más energía para crecer económicamente, pero si ya no dispone de energía barata y abundante, todo su complejo industrial y tecnológico se estanca. Entra en crisis. Tanto su producción como su consumo ya no pueden sostenerse. La crisis manifiesta aquello. La crisis climática es la rebelión de los límites: el mundo es finito.

Por eso el mito de la globalización encierra una aporía insoluble: si el mundo es uno, entonces no es infinito. El sistema-mundo-moderno-occidental choca entonces con la fuente de donde emana todo lo que hace posible la vida: la naturaleza es única, lo cual no quiere decir que sea infinita. Única quiere decir vulnerable. Su finitud es constatación de su condición de sujeto. Por eso no puede no tener derechos. Si la vida procede de ella es porque es Madre. Por eso le decimos PachaMama. La extracción indiscriminada que se hace de sus componentes vitales, en torno a una acumulación excesiva de ganancias, hace imposible que pueda reponer lo que se le ha quitado: la sobre-explotación de un recurso conduce a la destrucción paulatina de todo su contexto vital. A esto llamamos extractivismo, prototípico del capitalismo.

La curva geofísica de Hubbert fue diseñada para mostrarnos que todo elemento depletable, como el petróleo, alcanza una cúspide en su explotación, para nunca más superar aquello. Según el World Energy Outlook (informe anual de la Agencia Internacional de Energía del 2010) esta cúspide a nivel mundial ya se habría alcanzado el 2006. Y, si es cierto que la cúspide de todos los hidrocarburos, además del uranio, se daría el 2018, entonces se hace imprescindible una transformación en la base energética; pero los países ricos no responden de modo sensato a esta realidad sino que apuestan por un peligro aún mayor: los agrocombustibles.

Pareciera que los países ricos, al no encontrar salida a su crisis, optan por meterse más en ella. Pues esta supuesta solución a la crisis energética supondría un holocausto alimenticio a nivel global (la subida de los precios de granos y alimentos corrobora una tendencia de carácter especulativo que aprovecha ufano el capital financiero).

La pelea energética es ahorita la tónica de los dislocamientos geopolíticos. Para el imperio es imprescindible la combinación dólar-petróleo. Sin petróleo no puede sostener su infraestructura bélica planetaria. Si tiene el petróleo tiene el control. Entonces la situación en Ucrania y Siria nos lleva también a reflexionar acerca de la amenaza sistemática que ejercen los poderes fácticos en Venezuela. Necesitan del petróleo venezolano para equilibrar su poder ante estas nuevas derrotas en Ucrania y Siria.

USA persigue su soberanía energética recapturando a Latinoamérica. Por eso el TLCAN con México reaviva la “Doctrina Monroe”, por eso lo que sucede en Venezuela forma parte de su estrategia geopolítica ante el ascenso de China y Rusia; las bases militares gringas de Colombia y Perú ya no apuntan sólo a Venezuela sino también a Brasil. No sólo el Orinoco sino el Amazonas son áreas geoestratégicas para restaurar un mundo unipolar (parece que Brasil, aun siendo parte de los BRICS, no se ha anoticiado de esto).

Esta lectura nos sirve para diagnosticar, establecer y determinar el contexto epocal que subyace a la celebración de la “50 reunión cumbre del G77”. Esta cumbre que se realizará en Bolivia es inédita, pues si en sus inicios el G77 sólo coordinaba programas de cooperación en materia de comercio y desarrollo para una mejor integración en el mercado mundial, la nueva reconfiguración geopolítica y geoeconómica actual, sienta las bases para hacer de este grupo un contrapeso a la hegemonía –en decadencia– de los países ricos.

No sólo Bolivia, sino el ALBA y hasta el MERCOSUR, tienen la mejor oportunidad de liderar una transición con perspectiva mundial. Por eso la necesidad de contar, en la actualidad, con una perspectiva geopolítica ya no sólo coyuntural sino acorde con este proceso de transición planetaria. Politizar la cumbre G77 es fundamental para que nuestros países sitúen a nuestra región en el nuevo centro de gravedad de la transición civilizatoria del siglo XXI. Por eso el “vivir bien” y la “descolonización” ya no pueden diluirse en la pura retórica sino consolidarse como el discurso pertinente a un mundo en transición civilizatoria.

El G77 nace dentro del paradigma del desarrollo y en un mundo repartido entre dos potencias. Con la imposición de un mundo unipolar, el grupo no tenía más carácter que el exclusivamente declarativo. Pero con la decadencia del mundo unipolar y el ascenso de los BRICS, nuevos márgenes de acción se presentan para este tipo de grupos (también es el caso de los “no alineados”), pues los mismos organismos internacionales (pertinentes a la hegemonía gringa) se hallan seriamente cuestionados; entonces, ante el declive de unos y el ascenso de otros, el G77 se halla en condiciones nunca antes experimentadas, pues el mundo moderno atraviesa, por vez primera, la ausencia del poder hegemónico occidental, pero a su vez, también se encuentra en medio de una crisis civilizatoria que amenaza a la supervivencia propia del planeta.

En ese contexto, la reunión en Bolivia podría despertar una conciencia global de un necesario cambio de paradigma frente a la decadencia del capitalismo. Sólo una mancomunidad de esfuerzos de los países pobres podría augurar nuevas vías que puedan apostar las economías periféricas, con el fin de desprenderse definitivamente de las prerrogativas de los países ricos (ahora en crisis profundas) y proponerse despegues económicos que ya no busquen una integración subordinada al capital y al mercado globales sino de una reconstrucción de sus propias economías. Este periodo de transición hacia un nuevo sistema económico mundial durará por lo menos un siglo; no se sabe qué adviene pero la economía no puede continuar con las prerrogativas propias del modelo de producción, consumo y acumulación actual.

El ascenso de las potencias emergentes no sólo reequilibran el poder global sino que hace posible descentrar la economía y la política globales. La disposición centro-periferia es lo que ya no puede mantenerse; con el ascenso de los BRICS se reivindican culturas y civilizaciones que el mundo moderno las consideró arcaicas y superadas del todo. India y China vuelven a tener la importancia global anterior a la modernidad. Por eso no es raro que una buena parte de la literatura gringa hable del “choque de civilizaciones”. Occidente se siente amenazada por el despertar de las civilizaciones que supuso atrasadas, lo cual no hace sino desmentir su presunta superioridad civilizatoria.

Para este año China será la primera economía mundial y para el 2020 China superará en lo tecnológico, económico, científico, educativo, etc., a la suma conjunta de Europa y USA. Solo en el índice PISA, que mide el nivel educativo en el mundo, de los 10 primeros puestos, 7 son países asiáticos (hasta Vietnam está por encima de USA). Es decir, la decadencia del primer mundo es ya una cuestión de hecho.

En ese contexto, el primer mundo ya no es más modelo civilizatorio. Y la economía que patrocinó por cinco siglos ya no es más sostenible. Energéticamente el mundo ya no puede seguir el modelo de consumo occidental; a lo cual hay que añadir que las potencias emergentes no son autosuficientes y ya no pueden hablar en los términos colonialistas que lo hacían Europa y USA. La colonización ya no sería posible de reeditarse en el siglo XXI.

Esto quiere decir que, un mundo multipolar, permite pensar una situación mucho más rica y compleja: la ceropolaridad. Este concepto es novedoso en la geopolítica y quiere describir un mundo sin hegemonías concentradas. Pues tampoco las nuevas potencias emergentes, pueden decidir todo sin contar con los afectados; esto significa que ninguna potencia puede ejercer, de modo único, su influencia sobre todos los acontecimientos.

Cuando los poderes hegemónicos retroceden en algo, las soberanías nacionales, aunque mínimas, despiertan a nuevas apuestas; y si estas apuestas se generalizan, entonces tenemos una coyuntura como la actual: un “cambio de época”. Una nueva disposición geopolítica planetaria con ya no un solo centro abre márgenes de acción para los países pobres. Pero estos, de modo aislado, no podrían superar su situación. Sólo la cooperación y las alianzas estratégicas podrían enfrentar, de modo más plausible, la arremetida de los países ricos.

Estas alianzas no pueden prescindir de los BRICS. China recupera el pacífico como centro de la economía global y eso supone también que los flujos comerciales se des-occidentalicen. Junto a la India establecen una nueva geografía de la economía mundial. Por primera vez, después de 500 años, América aparece otra vez al extremo oriente del oriente, mostrando el verdadero sentido y dirección de la civilización humana. Occidente nunca fue la culminación del desarrollo de la civilización humana. Las implicaciones de este tipo de recambios van a tener sus repercusiones hasta en lo cultural.

Aliarse a los BRICS no tendría que significar avalar, o peor, remedar su modelo de crecimiento económico. Pero en una nueva cartografía geopolítica y un nuevo mapa institucional global, nuestros países podrían demandar, en condiciones más favorables, una transformación del modelo productivo y de consumo que ha originado el capitalismo. Por eso necesitamos reafirmar la creación de una nueva arquitectura financiera global. Se dice que nadie, en el contexto global, es independiente del todo; se es independiente en la medida en que se conoce y se aprovecha, en beneficio propio, el grado de dependencia que se tiene.

Una transformación del modelo productivo supone una nueva arquitectura financiera y ésta presupone un nuevo marco jurídico del derecho, nacional e internacional, que le devuelva la soberanía a los pueblos. Cuestionar todo aquello supone también advertir que no es un modelo de desarrollo lo que ha entrado en crisis sino el propio desarrollo; el afán de control y dominio de la naturaleza, reducida a objeto a disposición, es lo que ya no puede sostenerse. La propia concepción que de naturaleza tiene el capitalismo y la modernidad, es lo que hace insostenible todo sistema económico. Por eso, la defensa de “derechos de la Madre tierra”, el “vivir bien”, la “descolonización”, se constituyen en criterios epocales que sostienen una toma de conciencia global; esto es lo que establece, en nuestro caso, un liderazgo nunca antes imaginado y que nos abriría la posibilidad de establecer una agenda mundial.

Los desafíos son grandes, por ejemplo, desafiar al mismo mercado global supone la promoción de sistemas de producción locales y tecnologías ancestrales o la recuperación de economías campesinas comunitarias como base de la soberanía alimentaria. Sólo aquello podría remediar, en un 50%, la emisión de gases de efecto invernadero (que provoca las gran agroindustria). La autosuficiencia alimentaria es parte de la consolidación de alternativas en la economía e, inevitablemente, de la revalorización de las culturas antes despreciadas.

El nivel de agresión y destrucción del proceso de producción capitalista, destaca una invariable en su propia lógica: destruir para producir. En ese sentido, la decadencia del capitalismo arrastra al mundo y a la vida en su conjunto. Las implicancias a futuro de esta decadencia es la que obliga al mundo a proponerse nuevas alternativas. Por eso la respuesta no puede provenir del primer mundo, pues la apuesta de éste es únicamente alterar el rumbo que está adquiriendo el mundo multipolar e impedir definitivamente su consolidación.

En Ucrania, la opción occidental consiste en restaurar el orden hegemónico unipolar; pues la sobrevivencia de Europa misma se encuentra en entredicho. La dependencia del gas ruso le aleja de la esfera gringa y le convierte en una semi-colonia energética de una economía cuyo centro se hace cada vez más oriental. Los dislocamientos geopolíticos de este nuevo siglo hacen resurgir a la región euroasiática como lugar estratégico para controlar y dominar al mundo. Para Occidente es vital recuperar esa zona, pues sus estrategas consideran que Ucrania es la entrada a Eurasia, donde vive el 75% de la población mundial y donde se hallan ¾ partes de toda la energía conocida. Capturando a Ucrania se trata de impedir que la economía se orientalice, pues si Rusia se acerca a China (y a India), Occidente deja de tener la importancia que una vez tuvo y su economía no podría ya reponer su predominio (por eso hasta Alemania juega doble, pues también se acerca a China y Rusia, aunque no renuncia a su pertenencia occidental).

El G77 no puede desatender este nuevo contexto que está alterando por completo el tablero geopolítico mundial. En medio de un incipiente mundo multipolar, la visión que se tenga no puede reducirse a lo meramente local. En un mismo mundo compartido, todo tiene relación con todo. Una nueva lectura del relacionamiento internacional pasa por una actualización geopolítica de un mundo en transición. La narrativa actual es geopolítica, pero no una geopolítica provinciano-imperial sino una geopolítica verdaderamente mundial.

Esto nos posibilita advertir también el carácter ideológico, unilateral y hasta plagado de un provincianismo cultural de los marcos teórico-conceptuales de las relaciones internacionales y la diplomacia, como disciplinas sociales. Estas disciplinas tienen una reducida perspectiva europeo-norteamericana, que justifica un excepcionalismo inadmisible hoy en día. La decisiva dependencia que tienen estas disciplinas de la política exterior norteamericana, delata también una profunda ignorancia de otros mundos culturales y civilizatorios que no pueden ser reducidos a la mirada occidental.

Esto nos lleva a advertir que, si el mundo que viene será multipolar, nuestra geopolítica deberá también, acorde con ese nuevo mundo, tener una visión multidimensional de implicancias globales, o sea, deberemos aprender a ver el mundo desde una perspectiva propia. Si los chinos, hindúes, iraníes y rusos, propician think tanks propios, con perspectivas geopolíticas radicalmente distintas a las de europeos y gringos, no menos debemos realizar en este lado del mundo. El asunto, en definitiva es, o producimos una perspectiva propia de lo que sucede en el mundo o nos contentamos con la perspectiva usual, que es la occidental. De una determinada narración se deduce una determinada posición. Si la narración es la decadente, la moderno-occidental, entonces lo que se deduce es la defensa de los intereses y los valores moderno-occidentales.

El mundo es lo que se interpreta de éste. O descubres el mundo o te lo encubren. La política exterior de nuestros países ha estado siempre constituida a partir de los marcos teórico-conceptuales de la narración geopolítica imperial. Desprenderse de aquello supone producir una nueva narración geopolítica que de nacimiento a un nuevo tipo de relaciones internacionales. Lo usual en teoría de las relaciones internacionales ha sido siempre la lectura abstracta, descontextualizada, sin historia, usando conceptos meramente formales, que ordenaban un pasivo reacomodo a las situaciones impuestas. La geopolítica parecía patrimonio del centro, por eso hasta la izquierda ingenua entendía ésta como una disciplina imperial (sumidos en la lectura hacia adentro olvidaban a menudo el mundo real en el cual se encontraban).

Las lecturas hegemónico-imperiales están en crisis, develando el provincianismo de la visión del centro ante un mundo de ascensos civilizatorios que no logran comprender. Occidente nunca conoció al mundo, por eso mira atónito el ascenso de las potencias emergentes y descubre que no tiene otra cosa que la fuerza bruta para imponerse. El afamado historiador de la Universidad de Yale, Paul Kennedy, sostiene que los asuntos internacionales no andan bien en el mundo político y social y que incluso estarían comenzando a desmoronarse, tanto institucional como discursivamente. Pero este desmoronamiento lo ve como un atentado al “mundo libre”, es decir, no es capaz de ver que se trata del desmoronamiento cultural-civilizatorio de la propia hegemonía occidental, es decir, el llamado “mundo libre”.

La conclusión que este tipo de personajes –muy influyentes en ámbitos de poder– presenta, es que el mundo está desquiciado. Esa visión delata a un centro que ya no sabe leer un nuevo mundo emergente. Para Charles Hill, legendario funcionario del Departamento de Estado, el antiguo orden conocido como el siglo norteamericano, que era parte de la era moderna, parece estar apagándose. Su diagnóstico es revelador, pues señala que la era que viene “ya no será moderna”; pero lo que constituiría una esperanza para el resto del mundo pobre, él lo ve como “nada agradable”.

Por supuesto, desde el imperio no es nada agradable perder su preeminencia; por eso hace bien David Brooks (columnista del New York Times) en señalar que el orden moderno al cual se refiere Hill, es un sistema de Estados que encarnan los dos grandes vicios de las relaciones internacionales: el deseo de dominio expansivo y de eliminación de la diversidad. De ello se puede colegir que las mismas relaciones internacionales no fueron nunca concebidas para un mundo multipolar no occidental. Para el imperio, la geopolítica ha sido la defensa exclusiva de sus intereses, a los cuales llama sus valores. Un mundo multipolar y policéntrico es algo inconcebible para la geopolítica imperial, pero una necesidad a ser pensada en la geopolítica de nuestros países. Por eso tiene sentido hablar de una descolonización de la geopolítica.

La transición civilizatoria no puede ser ciega. Advertir el sentido potencial de una nueva reconfiguración planetaria, sin hegemonía única, permite diseñar una nueva fisonomía global más acorde a una realidad diversa y plural. Por eso la visión provinciana de la geopolítica imperial ya no sirve para interpretar el sentido de la transición. La narrativa geopolítica deberá recuperar las historias negadas y los horizontes culturales olvidados. Si el G77, y Bolivia y los países del ALBA, están a la altura de liderar la transición civilizatoria, lo que lógicamente debería acontecer es la posibilidad de fundar, en el mediano plazo, una nueva “Liga de las Naciones” (como reconocimiento además a sus verdaderos inspiradores: la liga indígena Iroquesa).

Si todas las instituciones mundiales ya no cuentan con legitimidad, pues todas ellas responden a la disposición centro-periferia, prototípica de la hegemonía moderno-occidental, la propia ONU debería desaparecer y dar lugar a una nueva y más democrática organización. El G77 contiene la mayor concentración de países miembros de la ONU, por tanto, su legitimidad es considerable. Un nuevo mundo en ciernes no puede amanecer con instituciones arcaicas.

Fuente: Suramericapress

samedi, 21 juin 2014

Landmarks of the “Asian Course” USA and Russia

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Author: Konstantin Penzev

Landmarks of the “Asian Course” USA and Russia

Not so long, U.S. President Barack Obama made ​​a decision to “return to Asia”. The essence of this political program is the cobbling together of a military and political bloc consisting of the United States, Japan, Australia (in addition to other countries able to pull in such dubious enterprises) against China. Washington declared universal cause for action for similar events and were made in order to “address the challenges and threats”.

It should be recognized that although Russia has no need to return to Asia (she has always been there), but as it turns out, Russia has its own “Asian Deal” and it is being actively discussed in the Asian as well as in the Chinese media. It differs greatly from a pronounced military-strategic “course” of Washington.

China Daily claims that the agreement between the Russian Federation and China for the supply of natural gas is a peaceful, creative direction of Russia’s cooperation with countries in Asia and will have significant long-term consequences for the entire Asia-Pacific region. Meanwhile, the current agreement covers only until the eastern branch of the main gas pipeline with a design capacity of 38 billion cubic meters of gas. Under the terms of this project, a pipeline will be constructed “Strength of Siberia” based on the resources of Chayandinskoye and Kovykta fields (total reserves 2.7 trillion cubic meters). In the region of ​​Blagoveshchensk and Dalnerechensk the plans include making allocations for China and the pipeline ending near Vladivostok. Here Gazprom and a consortium of Japanese companies plan on constructing a large LNG (Liquefied Natural Gas) factory. The end market would be countries in the Asia-Pacific region. Thus, the project will not depend solely on Chinese conjuncture. The commissioning of the first stage of the pipeline is planned for late 2017.

It is also expected that the pipeline gas (via the western route) to China will be delivered through the pipeline “Altai” from the compressor station “Chuy”. The planned volume of supply will be 30 billion cubic meters. Starting gas is expected at the end of 2015.

The second landmark for the Russian Federation East Asia is the Republic of Korea, which Gazprom would not refuse to supply with pipeline gas. On the road to this project initiative is North Korea, which has some economic problems; however nothing prevents them from making a decision. According to China Daily, over the last two years, Russia has settled all commercial issues with the North Koreans, including trade debt and unpaid loans. As a result, Russia and North Korea have set the base for a significant improvement in economic relations. Thus, Gasprom and the Ministry of Energy of North Korea reached agreements for the construction of a pipeline that will pass through the territory of North Korea to supply gas to South Korea. In addition, there is an accompanying project to build a modern railway line from Kazakhstan through Russia to North Korea, with connection to the Trans-Siberian Railway. The later will allow for high-speed rail from Kazakhstan to the European markets.

The third landmark in East Asian markets for Russia is Japan, whose demand for natural gas is very high. The Government of the Rising Sun’s policy views on this question is quite reasonable, aiming for the maximum diversification of imports. Its pricing policy, in contrast to the pricing policies of the Chinese government, is not so rigid. The Japanese are most interested in guarantees and the security of supply. Meanwhile, Russia can supply only LNG to Japan, since the laying of pipeline Sakhalin-Hokkaido inefficient both economically and technically, as per the head of Gasprom, Alexey Miller.

Russia’s economic interests towards East Asia are entangled with political and military-strategic interests of other countries; and foremost is China. China would like to see Russia as a friendly country, in so much as that would allow it to reduce the cost of the land contingent of armed forces and give more attention to its navy and missile defense. Why is that?

It is quite clear that China has significant political influence in East Asia, and it aims to maintain it and even strengthen it. But it is impossible without a strong aircraft carrier fleet to solve strategic problems in the region and confront the U.S. Navy. Only in this manner can China ensure the safety of its maritime trade routes. Japan doesn’t possess such a possibility, because after World War II Japan was forbidden to have a strong navy and she will always be dependent on the U.S. Navy.

Naturally, Chinese attempts at increasing its influence in the region warrants from Washington a sharp, negative reaction and works to rally its allies in East Asia, for example, the very same Vietnam, which recently held massive anti-Chinese riots over oil shelves in the South China Sea. China does not think retreat, but carries itself boldly. Thus, recently, a Chinese ship deliberately collided with a Vietnamese fishing boat 30 kilometers south of the established Chinese oil drilling platform. The Vietnamese fishing vessel as a result of the collision sank.

Literally within a few days, a Russian-made Chinese Su-27 flew within a dangerous distance, 30-50 meters from a Japanese YS-11 aircraft in an area where the two countries declared air-defense zones intersect.

On the 30th of May, Japanese Prime Minister, Abe communicated Japan’s willingness to assist countries having grievances with China, particularly Vietnam. He is prepared to provide patrol ships, military personnel and weapons.

China, in its turn, relies on North Korea. The North Koreans have a very powerful army and some nuclear missile potential. Pyongyang traditionally holds Tokyo with a high degree of hostility and is never against heightening tensions in northeast Asia.

Russia must be very careful in conducting its relations with countries of East Asia and try every possible way to emphasize the primacy of economic interests over political and military, strategic ones. Particularly important in this case, is good-neighborly relations with China. To contrive some kind of special relationship with Japan hardly makes any sense, in as much as it is controlled by Washington’s foreign policy.

A Moscow- Beijing relationship is not rules by the formula “the enemy of my friend is my enemy”. Even if the very same Vietnam intends to arrange Vietnam dispute with China because of oil drilling in the region of the Paracel Islands, it should be their strict private issues that should neither affect the Russian-Vietnamese relations or Sino-Russian relations.

The main problem in the region is the behavior of the White House, concerned about their exclusive right for world domination and the belief that they alone are entitled to the uncontrolled use of force anywhere in the world. Whether gypsies fought with Caucasian traders in the market in the Belarusian city of Zhdanovichi, or masked men captured an administrative building in a Ukrainian bank, or if a hurricane swept over Jamaica, and if some madman kidnapped a girl in Zimbabwe, everywhere there should be the American soldier, ready to restore order.

However, if were so!

Realpolitik of Washington is grazing together of peoples and of nations, Japanese and Vietnamese against Chinese, Ukrainians against Russians, Albanians against Serbs, Pakistanis against Indians and hired terrorists against the Syrians, etc. etc. etc.

It is precisely in this circumstance that Russia fits into its “Asian course”, hoping to trade effectively in the markets of East Asia and to promote peace in the region.

Konstantin Penzev, an author, historian and columnist for the online magazine “The New Eastern Outlook”.

L’Algérie sera-t-elle la prochaine victime du Printemps Arabe?

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L’Algérie sera-t-elle la prochaine victime du Printemps Arabe?

 

Depuis près d’un mois de nombreux journaux algériens et tunisiens parlent de risques terroristes grandissants et de complots extérieurs  tournés contre l’Algérie sans toutefois fournir d’analyse claire et fiable de la situation (1). Cela a pour effet d’attiser les tentions et les inquiétudes d’une population déjà en proie a de graves troubles sociaux et considérée par l’EIU (Economist Intelligence Unit) comme étant à « très haut risque », le risque étant ici une révolte populaire massive et le chaos qui l’accompagne (2). La situation s’est aggravée lorsque après l’annonce de la candidature d’Abdelaziz Bouteflika, les défiances envers l’État et les mouvements protestataires se sont répandus au sein de la population (3). Quelles sont les menaces qui pèsent sur l’Algérie aujourd’hui ? Est-il possible que ce pays sombre dans la guerre civile qui a enflammé le Maghreb et le Moyen-orient il y a quatre ans? C’est la question qu’on peut légitimement se poser lorsqu’on observe des troubles grandissants autours des élections présidentielles ces derniers jours.

Souvenez-vous, décembre 2010 : le printemps arabe. Une succession sans fin de soulèvements et de guerres civiles qui frappent vingt pays, deux continents, faisant chuter pas moins de six gouvernements, et dont le nombre de victimes totales s’élève à plus de 230.000 personnes (4) (5). Ces révolutions qualifiées a l’époque de populaires ont en réalité été pilotées à distance par les États-Unis, comme le prouve « Arabesque Américaines », l’excellent livre du physicien et journaliste Québécois de renommée internationale Ahmed Bensaada (6): « Il est clair que ce ne sont pas les Etats-Unis qui ont fait cette révolution, mais il n’en demeure pas moins que ce sont eux qui ont accompagné et encadré les principaux activistes que ce soit en Tunisie, en Egypte et  dans les autres  pays arabes à travers leur formation et ce bien avant le début de la contestation».

Dans cet autre document, Canal+ décortique les méthodes qu’utilisent les Américains pour renverser des pays lors des révolutions colorées. Gardons en tête que si les théâtres d’opérations changent, les méthodes elles, restent les mêmes.

 

En Algérie actuellement des éléments essentiels a l’émergence d’une guerre civile se mettent en place a la façon d’un gigantesque puzzle :

Premièrement, on assiste à une déferlante de propagande anti-Bouteflika de plus en plus puissante dans les médias audiovisuels (7): tous les maux du pays lui sont attribués ! Et son maintien au pouvoir est décrit comme intolérable pour l’ensemble (oui, l’ensemble) de la population. En réalité, une partie non négligeable du peuple le soutient. Selon le Point, malgré une politique sociale mitigée, son bilan en tant que président est globalement positif (8). Sa popularité est élevée particulièrement auprès de l’ancienne génération car il est l’homme qui, en 2000, a su arrêter la guerre civile Algérienne qui avait fait 150.000 morts et durée dix ans (9). Précisons qu’il n’est pas question ici de vanter un président sûrement trop vieux et trop usé pour diriger un pays, et dont la durée du mandat, de plus en plus indécente, suscite d’énormes critiques (Bouteflika a du modifier la constitution pour briguer ce nouveau mandat) ; mais de discerner ce qui est vrai et ce qui ne l’est pas. Ceci afin d’éviter à l’Algérie le destin Ukrainien ou Libyen.

Les attaques médiatiques que nous voyons aujourd’hui ressemblent fortement a une attaque occidentale en règle contre l’Algérie par médias interposés. Cette hypothétique agression a été prédite et expliquée par Michel Collon en Janvier 2013 dans un article intitulé: « L’Algérie est clairement la suivante sur la liste ». Il est possible que cette déferlante de propagande soit une tentative de manipulation de l’opinion publique afin de préparer un changement de régime ou d’augmenter la tolérance du peuple à la mise en œuvre d’actions agressives (diplomatiques, économiques ou militaires) de la part de pays occidentaux. Dans ce cas, l’extrême polarisation de la presse pourrait être considérée comme le fameux média-mensonge que Michel Collon décrit avant le début de chaque guerre menée par l’occident (10).

Deuxièmement, le contexte dans lequel se produit ces tensions est particulièrement délicat. Le président Bouteflika entame en effet son quatrième mandat après une victoire marquée par 48% d’abstention et 81% des voix en sa faveur. La contestation est forte  et Bouteflika doit faire face à une opposition insistante et à de violents mouvements populaires. Rappelons que sur les cinq révolutions colorées qui ont eu lieu au milieu des années 2000 en Europe, toutes se sont déclenchées dans les deux mois suivants les élections (11). Le contexte actuel est donc l’un des plus sensibles qu’il puisse y avoir avec les acteurs en présence.

 

En Algérie, une grande part du gouvernement et de l’appareil d’État de Bouteflika sont corrompus (12). L’état de santé du président fait de lui un homme diminué, aux capacités et à l’intégrité incertaines. Des spécialistes décrivent même Said Bouteflika, le frère de Abdelaziz Bouteflika comme le réel détenteur du pouvoir (13). Pour ceux qui défendent le changement de gouvernement tout azimuts, il faut savoir que, dans ce cas de figure, le pouvoir émergent pourrait provenir de démocrates convaincus aussi bien que de tenants d’un Islam radical : On se souvient du très wahhabite FIS (Front Islamique du Salut), que personne ne veux voir réapparaître ou d’AQMI, bien implanté dans la région. Des politiciens à la solde des occidentaux pourraient aussi en profiter à la manière d’un Yatseniouk.

Il est important de noter l’apparition d’une organisation d’opposition : le Barakat! (Ça suffit! en Arabe) qui n’appartient à aucun parti politique particulier. Elle se veut spontanée mais son financement reste a ce jour obscur. Des rumeurs hostiles la disent aussi proche (à tort ou à raison?) de Bernard Henri-Lévy et des sionistes (14). Ce qui est sûr, c’est que cette organisation est la réplique exacte d’OTPOR (« Résistance » en Serbe) créée en 1998, financée par le gouvernement fédéral Américain. Celle-ci fut très impliquée dans le printemps arabe et fut à l’origine de toutes les révolutions colorées (15). Ces nombreux points communs peuvent laisser penser que le gouvernement américain mène une politique secrète de déstabilisation à Alger. En effet, le Barakat! et OTPOR utilisent toutes deux les mêmes techniques de déstabilisation non violentes (sittings, grèves, blocages de bureaux de vote, contrôle des scrutins etc…etc…) issues du livre Américain « De la dictature à la démocratie » disponible ici. Amazon décrit ce livre comme : « un cadre conceptuel pour la libération ». Plus concrètement, il s’agit d’un manuel tactique et stratégique expliquant comment renverser un gouvernement quel qu’il soit sans avoir recours aux  armes.

En conclusion, Bouteflika est dans une position délicate : il doit faire face à la critique médiatique internationale, à son peuple qui menace de se soulever et à une Amérique belliqueuse et prédatrice qui a augmenté son effectif militaire dans le région le mois dernier (16) et pourrait bien se décider a agir.  En effet, l’Algérie est a la fois une grande détentrice de pétrole, une puissance influente et indépendante dans sa région (17). Elle n’est pas endettée et entretient d’importantes relations commerciales avec la Russie (18)(19). Elle a donc tous les attributs pour intéresser les technocrates de Washington. Dans les faits, l’occident ne peut pas intervenir en Algérie sans bonne raison. À part si, bien sûr, des civils sont violemment réprimés par l’armée. Tout peut donc dépendre de l’activité du Barakat!

Nous voyons donc que toutes les pièces du puzzle sont réunies pour engendrer une crise explosive et la situation peut s’embraser. Mais en l’absence d’actes déstabilisateurs provenant du peuple, la probabilité d’une accalmie augmentera avec le temps. Par contre si la situation dégénère, comme cela s’est produit en Syrie, en Ukraine, en Égypte et ailleurs, l’Algérie serait-elle assez stable et réactive pour résister à de telles menaces ? Le pays pourrait-il éviter la guerre civile ou un conflit a plus grande échelle ? Ou deviendrait-t-il une nouvelle Libye trois ans plus tard ? Et quelle serait alors la réaction de la Russie? Une chose est sure : nous le saurons dans les mois à venir.

Théo Canova

 

Sources:

(1) La presse américaine confirme la présence des marines au sud de la Tunisie, Moscou alerte Alger. (L’Expression)

(2) L’Algérie confrontée aux troubles sociaux en 2014 (L’Econews)

(3) Bouteflika: je suis venu déposer officiellement ma candidature (France 24)

(4) Printemps arabe (Wikipedia)

(5) Guerre civile syrienne (Wikipedia)

(6)« Arabesque Américaine: le rôle des Etats-unis dans les révoltes de la rue arabe » Par  Ahmed Bensaada (PolitiqueActu)

(7) Actualité: Algérie (LeNouvelObservateur)

(8) Algérie – Présidentielle : autopsie du bilan Bouteflika (LePoint)

(9) En Algérie, la candidature Bouteflika continue de faire des vagues (RFI)

(10) Guerres de l’Occident / Médiamensonges, Michel Collon, Ce soir ou jamais (21 Mars 2011) (YouTube)

(11) Révolutions de couleur: Etats poste-communistes (Wikipedia)

(12) L’entourage de Bouteflika éclaboussé par les affaires (LeFigaro)

(13) Élection en Algérie: qui dirige vraiment le pays? (HuffingtonPost)

(14) Barakat Algerie: Qui sont ces profanateurs qui veulent mettre le pays a feu et a sang?(AlainJules)

(15) Note D’actualité N°247: Des révolutions arabes spontanées? (CF2R)

(16) Des Marines et des avions de combat US en Espagne, en prévision d’une chute du régime en Algérie (MagrhebObservateur)

(17) Algérie chapitre 5.2: Politique extérieur (Wikipedia)

(18) La Russie et l’Algérie ont conclu six accords de coopération (LaVoixDeLaRussie)

(19) La bombe algéro-russe!! (AlterInfo)

Le grand match du mondial va commencer en Ukraine

RUSSIE - OTAN
 
Le grand match du mondial va commencer en Ukraine

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Premier point : des tanks russes pénètrent en Ukraine. Des tanks venus de la Fédération de Russie auraient pénétré sur le territoire ukrainien par les postes-frontières tombés aux mains de rebelles pro-russes dans l’est de l’Ukraine, selon la BBC. Les forces armées ukrainiennes leur auraient alors ouvert le feu. Rappelons qu'en Ukraine, les séparatistes ont proclamé deux «  Républiques indépendantes », à Donetsk et à Lougansk, après des référendums tenus le 11 mai. Les forces ukrainiennes ont lancé de leur côté, il y a deux mois, une offensive, qualifiée par Kiev d’ « opération antiterroriste », pour mater l’insurrection pro-russe qui agite l’Est de l’Ukraine. Une question se pose : après les J.O et la révolte de Maîdan fomentée par l'Occident qui avait profité de la fenêtre de tir de Sotchi, Poutine ne profiterait-il pas de l'effet « coupe du monde », de sa fenêtre de tir à lui ?


Jolie revanche des Russes dans ce cas ! De plus, les USA qui sont derrière Porochenko, président Ukrainien depuis le 7 juin 2014, sont en ce moment préoccupés par la percée de l’EIIL en Irak. Poutine le sait aussi : Mondial de football puis crises (Syrie, Irak, Nigeria ), il y a une incapacité reconnue pour l'hyperpuissance de gérer plusieurs crises simultanément. On raconte d'ailleurs, dans les milieux diplomatiques une anecdote. Ce sont des fonctionnaires du Département d’Etat qui font visiter les lieux de leur Ministère aux membres de l'Association des Historiens de la Politique étrangère américaine. En pleine visite, les membres de l'association s'étonnent de ne voir que deux « salles de crise ». A la question de savoir de ce qui adviendrait si trois crises se pointaient en même temps, la réponse du guide fut tout à fait éloquente mi-blague, mi-sérieuse  : « On requalifierait l’une d’elles de non-crise » ! L'Ukraine sera-t-elle la non-crise ? La partition n'est-elle pas déjà dessinée d'ailleurs dans un accord secret entre Obama et Poutine comme le sous-entendait il y a peu Michel Charasse?

Deuxième point : la Russie amorce sa reconversion financière. Les Russes n’agissent pas seulement sur le plan militaire. Ils réagissent aux sanctions économiques imposées par l'Otan en attaquant le pétrodollar. Cela pourrait être le coup fatal comme un pénalty rédhibitoire d'autant qu'il semble avoir été discuté avec les Chinois. La Chine et la Russie - et sans doute aussi l'Inde - semblent s'être mis d'accord sur une stratégie à long terme de dé-dollarisation. Le plus gros producteur de gaz naturel de la planète, Gazprom, vient, en effet, de signer des accords commerciaux avec quelques uns de ses plus gros clients en faisant passer les paiements pour leurs commandes de gaz en euros et non en dollars. Il l'avait fait déjà récemment avec la Chine. En fait, depuis la Libye et la Syrie, les Etats-Unis ont perdu une grande partie de leur crédibilité internationale. Russes et Chinois envisagent de tourner le dos monétairement aux Etats-Unis. C'est une révolution. L'hyperpuissance ne s'en remettra pas ni d'ailleurs le paysage financier mondial d'où cette impression à la fois inquiétante et étrange depuis quelques mois que le système provoquera de lui-même sa propre implosion, comme le dernier coup de queue du crocodile avant de mourir. Neuf clients sur dix de Gazprom sont ainsi passés du dollar à l’Euro dans leurs contrats d'approvisionnement et d'autres grandes entreprises russes utilisent le yuan chinois comme monnaie d'échange. C'est le résultat concret des sanctions occidentales décidées par le Congrès américain contre le bon sens économique. Aux Etats-Unis, à trois mois des élections de mi-mandat américaines, les Républicains n'ont pas cessé de faire monter les enchères contre Obama. La décision irréaliste de geler des fonds et des avoirs russes en représailles d'une «  invasion russe » en Ukraine va à l'encontre des intérêts américains. Ainsi, de multiples comptes russes de grosses entreprises ont été ouverts ces dernières semaines dans les banques d'Asie. C'est ce qu'a affirmé Pavel Teploukine, patron de la Deutsche Bank en Russie, dans un article du dimanche 8 juin du Financial Times. Dans le même temps, le quotidien nous apprenait que les Russes ont retiré leur argent des banques américaines à une vitesse jamais égalée et ce depuis mars, sans même attendre la spirale des sanctions occidentales. Les dépôts russes dans les banques US ont chuté d’un coup de 21,6 milliards de dollars à juste 8 milliards. Ils ont retiré 61% de leurs dépôts en juste un mois ! 

Le système économique américain peut-il sans dommages résister à cette contre attaque légitime des Russes ? La valeur du dollar est élevée artificiellement car le monde commerce en dollar. Cela permet aux Etats-Unis de maintenir des coûts d’emprunt artificiellement bas mais si ce n'était plus le cas, le dollar ne vaudrait plus rien. Le pire, c'est que la cécité de l'Europe est telle qu'elle amorce une sorte de dollarisation par le traité transatlantique. En fait, depuis septembre 2008, nous vivons dans une bulle financière de fausse stabilité monétaire et d'argent garanti. Or les comptes toxiques des banques sont réels. Toutes les bases financières de l'économie n'ont cessé de se détériorer et de se dégrader.

vendredi, 20 juin 2014

Que devrait faire l'Europe face à un “Djihadistan” au Moyen-Orient?

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Que devrait faire l'Europe face à un “Djihadistan” au Moyen-Orient?

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.dedefensa.org

Appelons “Djihadistan” un nouvel Etat qui s'installerait, à cheval sur la Syrie (dans le nord-est du pays) et sur l'Irak (dans l'Ouest et le Nord). Il résulterait des succès que rencontre actuellement le groupe djihadiste dirigé par l'Irakien Abou Bakr Al-Baghdadi, nommé l'Etat islamique en Irak et au Levant (EIIL). L'ambition de ces combattants est de mettre en place un véritable nouvel Etat dans ces régions, contrôlant les populations, les ressources (pétrolières) et les territoires. Il s'agirait d'un Etat appliquant une charia rigoureuse capable de lui donner une puissance offensive idéologique bien au delà de ses frontières. Or l'Europe ne peut rester indifférente : l'EIIL séduit des centaines, peut-être des milliers, de jeunes musulmans européens, venus se battre dans ses rangs, essentiellement en Syrie.

Que pourrions nous conseiller, si nous étions en charge d'une encore improbable diplomatie européenne ?

• Prier instamment les Américains de ne pas intervenir militairement. C'est pourtant semble-t-il ce qu'ils se préparent à faire, en se limitant d'ailleurs à des frappes aériennes, envois d'armes et autres mesures aux retombées plus catastrophiques les unes que les autres. Il faut rappeler aux Américains que si la situation est ce qu'elle est aujourd'hui, c'est dans la continuité des politiques belliqueuses inaugurées par Bush. La chute de Saddam Hussein, qu'ils avaient provoquée, principalement pour s'emparer de ses ressources en pétrole, a contribué à soulever le couvercle d'une marmite qui depuis ne s'est jamais refermée. Qu'ils se limitent dorénavant à défendre leurs intérêts directs, par exemple les voies de communication à travers les détroits.

• Consulter les principaux Etats directement menacés par le futur Djihadistan, afin de définir avec eux des politiques de prévention, à moduler au cas par cas, et que l'Europe pourrait appuyer. Ces Etats, concernés à des titres différents sont la Russie, l'Iran, la Turquie, l'Egypte et, un peu plus loin, les pays du Maghreb, notamment l'Algérie. Il conviendra par contre de déployer la plus grande prudence à l'égard des pays du Golfe, notamment l'Arabie saoudite et le Qatar. Ceux-ci jouent simultanément plusieurs jeu, dont ils se servent pour abuser le monde entier: le jeu de leurs intérêts pétroliers et de leurs investissements économiques dans le monde, le jeu de l'Amérique, le jeu des multiples djihadistes qu'ils financent partout. Des contacts devront évidemment aussi être pris avec le Pakistan, sans oublier cependant que celui-ci pourrait prochainement se radicaliser sous l'effet des groupes djihadistes qui l'attaqueront de plus en plus et pourraient y prendre le pouvoir un jour.

• Cesser de tenter, à la suite des Américains, de renverser Bashar al Assad. La politique de la Russie, récemment rappelée par Vladimir Poutine, est la bonne: sans approuver ses excès considérer qu'il est seul à pouvoir empêcher une extension de l'EIIL à toute la Syrie

• Pratiquer une politique de non-intervention active à l'égard des différentes composantes du Djihadistan. Celles-ci sont trop diverses pour s'entendre longtemps. On verra ressurgir les oppositions entre tribus, entre sunnites, chiites et Kurdes, entre émirs et combattants d'origines différentes voulant exploiter à leur seul profit les conquêtes pétrolières faites. Il y a tout lieu de penser qu'en quelques mois, la belle union espérée par l'EIIL se sera désagrégée, et que des modus vivendi redeviendront possibles avec les voisins et avec les Européens eux-mêmes. Il suffirait sans doute d'attendre un peu. Malheureusement l'attente n'est pas une vertu que pratiquent les excités et néo-cons occidentaux de tous bords.

• Renforcer sur le territoire européen les politiques et de contrôle et de défense à l'égard des djihadistes, extérieurs ou provenant de l'Europe elle-même, qui tenteraient de la déstabiliser. Sur ce plan, que nous n'aborderons pas ici, les Européens auront fort à faire. Ils ne pourront compter que sur eux-mêmes à cette fin.

A partir de cela, un point très difficile restera à résoudre: comment l'Europe devrait-elle se comporter pour tenter de limiter les aventures de toutes sortes auxquelles pousse actuellement Israël, fort de l'appui américain - tout en assurant le cas échéant à l'Etat juif la nécessaire protection qu'il serait en droit d'attendre de l'Europe en cas d'embrasement de la région ?

Il semble que, pour Vladimir Poutine, se pose une question de même nature. Ce serait une raison de plus pour que les Européens se concertent avec les Russes afin de définir des politiques communes au Moyen Orient.

Jean-Paul Baquiast

US in Iraq: Geopolitical Arsonists Seek to Burn Region

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Tony Cartalucci

US in Iraq: Geopolitical Arsonists Seek to Burn Region

Ex: http://journal-neo.org

When a fire is raging, firefighters are called – not the arsonist who started it, especially if they return to the scene of the crime dragging a barrel of gasoline behind them. Yet, this is precisely what the US proposes – that they – the geopolitical arsonists – be allowed to return to Iraq to extinguish the threat of heavily armed sectarian militants streaming from NATO territory in Turkey and edging ever closer to Baghdad.

ISIS: Made in USA

The Islamic State in Iraq and Syria (ISIS) is a creation of the United States and its Persian Gulf allies, namely Saudi Arabia, Qatar, and recently added to the list, Kuwait. The Daily Beast in an article titled, “America’s Allies Are Funding ISIS,” states:

The Islamic State of Iraq and Syria (ISIS), now threatening Baghdad, was funded for years by wealthy donors in Kuwait, Qatar, and Saudi Arabia, three U.S. allies that have dual agendas in the war on terror.

Despite the candor of the opening sentence, the article would unravel into a myriad of lies laid to obfuscate America’s role in the creation of ISIS. The article would claim:

The extremist group that is threatening the existence of the Iraqi state was built and grown for years with the help of elite donors from American supposed allies in the Persian Gulf region. There, the threat of Iran, Assad, and the Sunni-Shiite sectarian war trumps the U.S. goal of stability and moderation in the region.

However, the US goal in the region was never “stability” and surely not “moderation.” As early as 2007, sources within the Pentagon and across the US intelligence community revealed a conspiracy to drown the Middle East in sectarian war, and to do so by arming and funding extremist groups including the Muslim Brotherhood and Al Qaeda itself. Published in 2007 – a full 4 years before the 2011 “Arab Spring” would begin – Pulitzer Prize-winning journalist Seymour Hersh’s New Yorker article titled, “”The Redirection: Is the Administration’s new policy benefiting our enemies in the war on terrorism?” stated specifically (emphasis added):

To undermine Iran, which is predominantly Shiite, the Bush Administration has decided, in effect, to reconfigure its priorities in the Middle East. In Lebanon, the Administration has coöperated with Saudi Arabia’s government, which is Sunni, in clandestine operations that are intended to weaken Hezbollah, the Shiite organization that is backed by Iran. The U.S. has also taken part in clandestine operations aimed at Iran and its ally Syria. A by-product of these activities has been the bolstering of Sunni extremist groups that espouse a militant vision of Islam and are hostile to America and sympathetic to Al Qaeda.

The 9 page, extensive report has since been vindicated many times over with revelations of US, NATO, and Persian Gulf complicity in raising armies of extremists within Libya and along Syria’s borders. ISIS itself, which is claimed to occupy a region stretching from northeastern Syria and across northern and western Iraq, has operated all along Turkey’s border with Syria, “coincidentally” where the US CIA has conducted years of “monitoring” and arming of “moderate” groups.

In fact, the US admits it has armed, funded, and equipped “moderates” to the tune of hundreds of millions of dollars. In a March 2013 Telegraph article titled, “US and Europe in ‘major airlift of arms to Syrian rebels through Zagreb’,” it was reported that a single program included 3,000 tons of weapons sent in 75 planeloads paid for by Saudi Arabia at the bidding of the United States. The New York Times in its article, “Arms Airlift to Syria Rebels Expands, With C.I.A. Aid,” admits that the CIA assisted Arab governments and Turkey with military aid to terrorists fighting in Syria constituting hundreds of airlifts landing in both Jordan and Turkey.

The vast scale of US, NATO, and Arab aid to terrorists fighting in Syria leaves no doubt that the conspiracy described by Hersh in 2007 was carried out in earnest, and that the reason Al Qaeda groups such as Al Nusra and ISIS displaced so-called “moderates,” was because such “moderates” never existed in any significant manner to begin with. While articles like the Daily Beast’s “America’s Allies Are Funding ISIS” now try to portray a divide between US and Persian Gulf foreign policy, from Hersh’s 2007 article and all throughout the past 3 years in Libya and Syria, the goal of raising an army in the name of Al Qaeda has been clearly shared and demonstrably pursued by both the US and its regional partners.

The plan, from the beginning, was to raise an extremist expeditionary force to trigger a regional sectarian bloodbath – a bloodbath now raging across multiple borders and set to expand further if decisive action is not taken.

Iran Must Avoid America’s “Touch of Death” and Sectarian War at All Costs

Despite an open conspiracy to drown the region in sectarian strife, the US now poses as a stakeholder in Iraq’s stability. Having armed, funded, and assisted ISIS into existence and into northern Iraq itself, the idea of America “intervening” to stop ISIS is comparable to an arsonist extinguishing his fire with more gasoline. Reviled across the region, any government – be it in Baghdad, Tehran, or Damascus – that allies itself with the US will be immediately tainted in the minds of forces forming along both sides of this artificially created but growing sectarian divide. Iran’s mere consideration of joint-operations with the US can strategically hobble any meaningful attempts on the ground to stop ISIS from establishing itself in Iraq and using Iraqi territory to launch attacks against both Tehran and Damascus.

Any Iranian assistance to Iraq should be given only under the condition that the US not intervene in any manner. Iran’s main concern should be portraying the true foreign-funded nature of ISIS, while uniting genuine Sunni and Shia’a groups together to purge what is a foreign invasion of Iraqi territory. Iran must also begin allaying fears among Iraq’s Sunni population that Tehran may try to use the current crisis to gain further influence over Baghdad.

While the US downplays the sectarian aspects of ISIS’ invasion of Iraq before global audiences, its propaganda machine across the Middle East, assisted by Doha and Riyadh, is stoking sectarian tensions. The ISIS has committed itself to a campaign of over-the-top sectarian vitriol and atrocities solely designed to trigger a wider Sunni-Shia’a conflict. That the US created ISIS and it is now in Iraq attempting to stoke a greater bloodbath with its already abhorrent invasion, is precisely why Tehran and Baghdad should take a cue from Damascus, and disassociate itself from the West, dealing with ISIS themselves.

Tony Cartalucci, Bangkok-based geopolitical researcher and writer, especially for the online magazine New Eastern Outlook”.

jeudi, 19 juin 2014

L’Iran divise sévèrement Washington

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L’Iran divise sévèrement Washington

Ex: http://www.dedefensa.org

Manifestement, la perspective d’une coopération entre les USA et l’Iran en Irak, contre l’attaque du groupe islamiste ISIS, a la vertu de diviser fortement le pouvoir et la direction politiques washingtoniennes. L’intérêt de cette situation est de montrer des divisions à l’intérieur de “groupes” en général très unis, ne serait-ce que par une discipline hiérarchique ou par une proximité très grande de l’activisme. Ainsi peut-on voir et entendre Kerry sévèrement “taclé”, en terme de Coupe du Monde, par le Pentagone, à peine trois heures après la connaissance (dans une interview) d’une déclaration publique et pourtant prudente du premier. Il n’est pas extraordinaire de voir deux ministères de l’administration US laisser voir des nuances contradictoires, surtout le département d’État et le Pentagone qui sont “concurrents” sur les affaires de sécurité nationale, mais la chronologie et la vigueur de la réaction du second après une intervention du secrétaire d’État est, elle, assez peu ordinaire.

Encore plus significatif à notre sens, en raison de la proximité constante des deux compères, à la fois idéologique et “professionnelle” (siégeant tous deux au Sénat), leur coordination habituelle, l’absence de lourdeurs bureaucratiques pour les séparer, etc. : un jour après la déclaration tonitruante de Graham en faveur d’une coopération active avec l’Iran (voir le 16 juin 2014), McCain prend position avec force et emportement contre cette coopération (alors qu’il est partisan de l’envoi de troupes US en Irak). La paire Graham-McCain est un des monuments de communication du courant belliciste et de la politique-Système à Washington. Jusqu’ici, cette paire a toujours “travaillé” en parfaite symbiose et coordination de ses deux membres. On mesure à cette séquence le trouble et le désarroi que la situation en Irak et par rapport à l’Iran provoque à Washington, dans le contexte de la complexité contradictoire et antagoniste de la politique washingtonienne vis-à-vis de ces deux pays, au moins depuis 2003.

... Et, trônant au-dessus de ce désordre, la direction centrale qu’est la Maison-Blanche, qui a montré jusqu’ici lenteur, indécision et incertitude, marque de l’“American fatigue” dont nous parlons dans le texte référencé. Jusqu’ici, Obama et sa bande n’ont pas jugé bon d’intervenir dans le désordre qu’impliquent les deux mésententes documentées ici, pour préciser quelle est la politique officielle des USA ... On verra s’il y a effectivement une réaction directe (pas sûr du tout), et s’il y a effectivement une “politique officielle”. Tout cela, bien entendu, comme illustration de l’état de l’énorme usine à gaz, du Titanic sans barreur ni gouvernail, qu’est aujourd’hui Washington. Ci-dessous, des extraits d’un texte du 17 juin 2014 du Guardian sur ces passes d’arme.

«Earlier, in an indication of how sensitive in Washington any cooperation with Tehran would be, officials moved quickly to clarify remarks by Kerry, who went further than his administration colleagues in entertaining military cooperation with Iran against a common adversary. “We're open to discussions if there is something constructive that can be contributed by Iran, if Iran is prepared to do something that is going to respect the integrity and sovereignty of Iraq and ability of the government to reform,” Kerry told Yahoo News. Pressed by interviewer Katie Couric over whether that would include military cooperation, Kerry replied: “At this moment I think we need to go step by step and see what in fact might be a reality. But I wouldn't rule out anything that would be constructive to providing real stability.”

»Less than three hours later, the Pentagon released a series of public statements that firmly ruled out military coordination. “There has been no contact, nor are there plans for contact, between [the Department of Defense] and the Iranian military on the security situation in Iraq,” lieutenant commander Bill Speaks, a Pentagon spokesman, told the Guardian.

»Notwithstanding the denials of military collaboration, the advent of joint diplomatic efforts between Washington and Tehran over the chaos in Iraq represents a dramatic turnaround for the two rival powers, whose relations, frozen for several decades, have only begun to thaw over the past year. Military experts say any US air strikes in Iraq would will be impeded by the lack of intelligence from the the ground. An Iranian offensive, by contrast, would be expected to involve elite forces of ground troops that would engage in direct combat with Isis fighters, gaining a detailed knowledge of the battle lines.

»Yet the notion of a partnership between the longtime foes prompted intense resistance in some quarters of Washington and Tehran on Monday. “It would be the height of folly to believe that the Iranian regime can be our partner in managing the deteriorating security situation in Iraq,” senator John McCain said in a statement. McCain's remarks contrasted with those of another Republican hawk, Lindsey Graham, who on Sunday expressed support for cooperating with Iran. McCain and Graham are usually in lockstep over foreign policy issues and their dispute revealed the divisions uncovered by the prospect of a collaboration with Iran.»

The ISIS Crisis

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The ISIS Crisis: Have The Sunnis Unleashed an Uncontrollable Genie?

by Gwenyth Todd

Ex: http://journal-neo.org

The sudden, successful attack by the Islamic State Of Iraq and Syria (ISIS) caught many states off-guard.  While international attention has been diverted by the situation in the Ukraine, and to a lesser extent by the internal conflict in Syria, the wealthy Sunni states have been acting quickly and effectively to build a Sunni army made up of extremists militants from around the globe.

ISIS has been growing for the past decade.  Initially, Turkish Prime Minister Erdogan seemed to welcome the support of the Islamic State of Iraq (ISI) into the fray of the Syrian civil war.  ISI was originally a group composed of dispossessed Iraqi Sunnis, bolstered by extremist Sunnis from other countries, to seek redress for those have lost family, influence and property as a result of the US invasion of Iraq in 2003.  Many Iraqi Sunnis were forced to flee into Eastern Syria.  There they became increasingly radicalized against both the West and the Shi’a branch of Islam, represented in national form by the Government of Iran and, more recently, in the Government of post-2003 Iraq.

When Turkish Prime Minister Erdogan decided to try to unseat the Syrian political regime led by President Bashar Al-Assad, Turkey and others offered full support to ISI and other Sunni Muslim rebel groups with varying agendas.  In the process, an untold amount of arms and funds were provided to shadowy extremists.

It was only early in 2014 that Turkish Prime Minister Erdogan seemed to realize that the ISI fighters would not make good allies in Syria, as it became clear that they included violent extremists.  By then, it was too late.  ISI now added another letter “S” for “Sham (meaning “Levant” or “Greater Syria”).  ISIS thus became officially a militia-style, angry, Islamic fundamentalist group,with a transnational,agenda.  A monster was maturing.

While Turkey pulled its support for ISIS in 2014, Gulf Arab states appear to have allowed their citizens to step into the breach and arm and fund ISIS.  The goal seems to be to accomplish what the US and the West refused to do: force the Shi’a from power in Syria and Iran while creating a new, credible threat to Israeli expansion into the occupied territories.  Members of ISIS are ready to die for their fundamentalist Sunni beliefs, something that most wealthy Gulf Arab states appreciate but want someone else to actually carry out.

The result is becoming increasingly clear.  ISIS militants, armed to the teeth with US military hardware, have mounted a thus successful, brutally violent and cruel attack on the Iraqi city of Mosul and beyond.  Iraqi Prime Minister Nuri Al-Maliki is begging the US for military assistance which Obama is loath to provide.  Iranian military units are reportedly already deployed within Iraq and may be all that stands between Baghdad surviving or falling to ISIS forces.

Meanwhile, the Gulf Arab states do not appear to comprehend just how existential a threat ISIS could pose to the monarchies of the Gulf, whom ISIS views as completely corrupt.  ISIS will accept Gulf Sunni money for now but will turn on them as soon as practical.  ISIS first wants to take back Iraq, topple the Iranian regime, topple the Syrian regime and then focus on bringing a more Islamic lifestyle to those Sunni states left standing. This lifestyle would be unacceptable to most Gulf businessmen and leaders, even in conservative countries like Saudi Arabia, but the Gulf states do not seem to understand the danger ISIS may pose in the long-term.

This is one conflict where both Israel and the US can sit back and observe, at least for now.  It is flushing out extremists on all sides and, in the short term, this is not seen as a bad thing by outsiders.  Similarly, the Gulf Arabs are basking in the glow of victory emanating from the fall of Mosul and the reported massacre of Shi’a residents, and are not looking ahead.

What can be done to avert further disaster?

The first step is to convince the Gulf Sunnis that ISIS is dangerous to them as well as everyone else.  This will not be easy.  The Gulf Sunnis have lived in fear since the toppling of Saddam in 2003 brought Iran to their borders.  The perceived betrayal by the US suggests that the Gulf Sunnis are not going to trust the US to advise them objectively.  Still, as more footage is released of the atrocities committed by ISIS, the Gulf Sunnis may become more open to dialogue.

The second step is to find out precisely how much support has already been provided to ISIS by regional actors so the international community can assess the scope of the military threat.  This is a delicate task.  Ensuring the Arabs do not “lose face” for having backed the extremists in ISIS since its inception may be impossible, but unless the Gulf Sunnis address the matter, the supply chain to ISIS of funds and armaments will continue unchecked.

Thirdly, if the Gulf Sunnis can accept that this ISIS monster must be destroyed, the reality that Iran is likely to be part of the effort will be very painful for them to accept.  It is a dangerous proposition for Sunni monarchies to cooperate with Shi’a groups when the Sunnis continue to treat their own Shi’a populations as second-class, unwelcome heretics.  That said, cooperation between Sunni and Shi’a will likely be critical in stopping the spread of the ISIS militia’s campaign.

For once, this is truly a regional war that the West, East and even Israel can likely watch play out as Sunnis and Shi’a fight each other to the death.  Yet from a Western and Israeli perspective ISIS cannot be allowed to actually win, any more than Iran can be allowed to win. Still, as long as oil continues to flow, it is unlikely the West will intervene in a meaningful, military manner, even though the civilian casualties are mounting exponentially.  The West would prefer to let Iran bear the burden of fighting ISIS, trusting that eventually the Gulf Sunni states will panic and stop supporting ISIS.  Until then, there will likely be a lot of sitting back and observing the conflict unfold.

Clearly, the ISIS genie is out of its bottle and its masters have yet to order it back inside. The question is, do its masters still have the authority to contain it if the situation worsens? At this point, it seems highly doubtful that the key Sunni players in the region are thinking that far ahead.

Gwenyth Todd a former Adviser to President Clinton, expert in international security policy, she hold M.A from Georgetown University, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook“