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dimanche, 10 mai 2015

Nazarbaev rieletto Presidente del Kazakhstan: significato e reinterpretazioni

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Nazarbaev rieletto Presidente del Kazakhstan: significato e reinterpretazioni

Dal nostro corrispondente ad Astana Dario Citati, Direttore del Programma “Eurasia” dell’IsAG

Ex: http://www.geopolitica-rivista.org


Le quinte elezioni presidenziali nella storia del Kazakhstan indipendente, tenutesi domenica 26 aprile 2015, si sono concluse con l’ampiamente prevista vittoria del Presidente uscente Nursultan Nazarbaev, che guida lo Stato centroasiatico dal 1991, anno in cui il Paese ottenne la piena sovranità dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il verdetto delle urne è risultato un autentico plebiscito, con il 97,7% delle preferenze che hanno premiato Nazarbaev. I due avversari, il candidato “verde” Abelgazi Kussainov e Tunguz Syzdykov del Partito Comunista del Popolo, hanno raccolto rispettivamente l’1,6% e lo 0,7%.

Prima ancora delle valutazioni sul significato di tali percentuali – cioè nei briefing e nelle conferenze stampa tenutesi nella giornata del voto quando non si conoscevano i risultati definitivi – molti degli osservatori internazionali hanno tenuto a sottolineare la piena regolarità procedurale del voto. Per l’Italia erano presenti, in qualità di osservatori OSCE, il Sen. Sergio Divina e l’On. Riccardo Migliori, Presidente emerito dell’Assemblea Interparlamentare OSCE. Entrambi hanno affermato che le operazioni di voto si sono svolte con trasparenza, in un clima di elevata partecipazione ai seggi e quasi di “festa nazionale”. Il Segretario Generale dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, Sergej Mezencev, ha parimenti confermato la regolarità delle operazioni di voto in tutti i seggi visitati.

Per quanto attiene invece al significato politico della tornata elettorale, nonché al livello di democratizzazione del Paese, altri osservatori indipendenti hanno fornito elementi importanti di valutazione. Secondo Richard Weitz dello Hudson Institute di Washington, ad esempio, “le elezioni del 2015 confermano che in Kazakhstan gli istituti di rappresentanza si sviluppano positivamente”. Per comprendere l’enorme divario di percentuali tra il vincitore e gli sconfitti, ha quindi sostenuto che “la qualità intrinseca delle elezioni non può essere valutata in base ai criteri europeo-occidentali, perché simili paragoni indurrebbero a un giudizio sbagliato sugli sforzi del Paese nell’implementazione delle proprie riforme: queste ultime vanno invece valutate alla luce dell’eredità storica del Kazakhstan, nonché del suo livello di sviluppo sociale”.

Anche un altro osservatore occidentale, Daniel Witt, ha affermato che “il giudizio sulla qualità democratica delle elezioni non si può basare solo sulla descrizione di un singolo evento”, in quanto “gli appuntamenti elettorali sono un processo continuo di perfezionamento, da condurre attraverso la comparazione tra le elezioni di oggi e quelle del passato, per verificare il progresso raggiunto a ogni tornata elettorale”.

In base a questi giudizi si può affermare che il senso politico di queste elezioni presidenziali del 2015 sta soprattutto in un test di fiducia della popolazione verso lo stesso Nursultan Nazarbaev, l’uomo che incarna il destino stesso del Kazakhstan indipendente. Un test che avviene peraltro in un momento delicato di transizione, segnato da uno scenario geopolitico molto teso su cui influiscono la stessa crisi ucraina e le sanzioni in Russia che hanno avuto ripercussioni anche sul mercato kazako. D’altra parte, queste elezioni presidenziali avrebbero dovuto tenersi nel 2016, ma sono state anticipate al 2015 sia per evitare la sovrapposizione con le elezioni parlamentari, sia per consentire una programmazione più sistematica per iniziative di grande rilievo nel futuro prossimo come l’Expo2017.

Si è soliti affermare che per un Paese come il Kazakhstan, ventiquattro anni dopo l’ottenimento dell’indipendenza, la stabilità e la garanzia di uno sviluppo pacifico sono ancora oggi più importanti di una concezione della democrazia all’occidentale, segnata cioè dal multipartitismo e dall’assenza di una figura personale carismatica. Ciò è senz’altro plausibile: al momento dello scioglimento dell’URSS, il Kazakhstan era considerato fra i Paesi più a rischio implosione e caos. Il suo percorso di stabilizzazione interna, nonché l’apertura alle organizzazioni e alla cooperazione internazionale sono in genere unanimemente riconosciuti come positivi, se valutati in base alle condizioni di partenza, e restano un elemento imprescindibile per comprendere le ragioni di un consenso così vasto per Nazarbaev.

Ma c’è un fattore non meno rilevante per collocare in un’ottica più vasta il senso di queste elezioni. Forse più di qualsiasi altro Paese ex sovietico, il Kazakhstan è riuscito a diminuire significativamente la presenza nello Stato nell’economia e a favorire la libertà d’impresa privata (a livello di piccola e media imprenditoria e senza liberalizzazioni “traumatiche”), spesso in tempi rapidissimi. Vale la pena ricordare che solo tra il 2012 e il 2013 esso è passato dal 71° al 51° posto tra i Paesi a maggiore competitività economica nell’annuale classifica mondiale stilata dal World Economic Forum e ancora oggi è indicizzato come un Paese estremamente conveniente per esportazioni e investimenti.

È ben noto quanto, nelle società contemporanee, la concorrenza economica e la libertà d’impresa siano strettamente legate allo sviluppo della democrazia e della competizione politica. La modernizzazione di questa repubblica centroasiatica è cominciata soprattutto a partire dalla graduale concessione delle libertà economiche dopo settant’anni di monopolio di Stato. La riconferma di Nazarbaev può essere letta quindi anche come un riconoscimento per l’aumento di tali libertà, a cui la generazione nata e cresciuta nel Kazakhstan indipendente dovrà far seguire un consequenziale sviluppo politico e civile.

samedi, 09 mai 2015

Nigeria recibe ayuda de Putin, y no de Obama, contra Boko Haram

por Pedro González Barbadillo

Más vergüenza para Occidente, Europa, la OTAN, Estados Unidos… Para combatir a esos enemigos de la Humanidad que son los terroristas de Boko Haram, Nigeria recibe ayuda de otros países.

En el Congreso sobre los cristianos perseguidos en el mundo que organizaron la semana pasada las asociaciones MasLibres, HazteOir y CitizenGO, un obispo nigeriano dio una buena noticia.

El Ejército nigeriano está recuperando territorio en el norte del país a los terroristas de Boko Haram y en parte se debe a la ayuda militar que le están prestando los Gobiernos de Sudáfrica, que quiere ser la gran potencia africana, y ¡de Rusia!

Y bien puede ser cierto. El Gobierno nigeriano, abandonado por la OTAN, al igual que los cristianos árabes, o los libios, a los que Cameron, Sarkozy, Zapatero y Chacón liberaron de Gadafi, ha recurrido a la Rusia de Vladímir Putin.

Hace unos meses, Nigeria compró helicópteros y otro armamento a Rusia para combatir a esos terroristas que en nombre del islam matan a cristianos y a otros musulmanes. ¡Porque el presidente Obama no quiso vendérselo! Obama tampoco permitió el uso de drones para obtener información de los movimientos de los terroristas. Y además persuadió a los demás miembros de la OTAN para no colaborar con Lagos. Por último, canceló todas las compras de petróleo nigeriano.

En EEUU se dice que es un favor de Obama a un amiguete suyo que ha montado un chiringuito de campañas electorales y que tiene como cliente a un ex general musulmán del norte del país… y que ha ganado las elecciones

Los hechos son que Obama, paladín del mundo libre y de los derechos de los gays y los osos polares, se lava las manos frente a Boko Haram, mientras que el ex oficial del KGB Vladímir Putin presta ayuda para acabar con esos salvajes.

¡Qué difícil nos están poniendo a los europeos los Obama, Soros, Henri-Levy y demás panda hipócrita que dejemos de pensar en Rusia como protectora de Europa!

Los que hemos rezado por la conversión de Rusia, ¿tendremos que rezar ahora por la conversión de Europa y, también, por las intenciones de Putin, como cuenta el padre Jorge González Guadalix?

CODA: Por cierto, qué mal se han comportado los obispos españoles con sus hermanos pastores de comunidades que están siendo martirizadas. Al Congreso sólo acudieron monseñor Martínez Camino, uno de los obispos auxiliares de Madrid, y el portavoz de la Conferencia Episcopal Española, José María Gil Tamayo. Los dos arzobispos de Madrid, el titular, monseñor Carlos Osoro, y el emérito, cardenal Rouco, no acudieron ni a saludar ni a concelebrar la misa del domingo, en la parroquia de la Merced, que al menos estuvo llena de fieles que no entienden del “qué dirán”.

Fuente: Bokabulario

Aveuglement européen devant les offensives des pays du Golfe

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Aveuglement européen devant les offensives des pays du Golfe

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le pouvoir en France se réjouit du fait que François Hollande ait été l'«invité d'honneur» du sommet du Conseil de coopération du Golfe (CCG). Ce serait le premier chef d'Etat occidental à bénéficier de cet « honneur », ce dont Barack Obama, jusque là l'allié le plus fidèle des dits pays du Golfe, n'a jamais pu faire.
 
Pourquoi cette défaveur momentanée des Etats-Unis? Parce que ceux-ci négocient un accord avec l'Iran sur le nucléaire. Parce que, également, les intérêts américains dans le Golfe ne recoupent pas nécessairement ceux de certains des Etats du Conseil de Coopération. François Hollande ne souffre pas de ces handicaps. Il s'est montré l'héritier le plus fidèle de la politique américaine des années précédentes. Il a même à plusieurs occasions endossé les aspects les plus extrémistes de cette politique, contre Bashar al Assad notamment. Il peut par ailleurs jouer un rôle utile d'intermédiaire entre les pays du Golfe et l'Union européenne, notamment lorsque celle-ci manifeste des inquiétudes en matière de droits de l'Homme ou de liberté de la concurrence.

Bien évidemment, les services rendus par la France aux monarchies pétrolières justifient quelques contreparties. C'est le cas notamment du contrat Rafale au Qatar, qui pourrait être suivi d'un contrat du même ordre en provenance de l'Arabie saoudite. Pour que la France ne se fasse pas d'illusions cependant, le Qatar et ses alliées du Golfe n'ont pas tardé à présenter la contre-partie attendue de ce modeste avantage, notamment l'ouverture de lignes aériennes supplémentaires pour Qatar-Airways, au détriment immédiat du groupe Air-France/Lufthansa. Ce dernier vient de rappeler qu'il risque de ne pas s'en relever. Déjà en difficulté, il pourra ne pas résister à la concurrence des compagnies du Golfe. Concernant Air France, en s'installant dans des aéroports régionaux français, les avions qataris risquent de détourner le trafic vers le hub de Doha, au détriment de Paris. Air France sera sans doute obligé de revoir le nombre de ses vols, entrainant les pertes d'emplois en conséquence.

Les Émirats arabes unis, qui sont, eux aussi, intéressés par des avions de combat, pourraient faire la même demande auprès des autorités françaises pour leur compagnie aérienne Etihad. L'Etat, bien que participant au capital d'Air France, ne fera pas pourtant la moindre objection.

On ne fait pas les comptes

Cette affaire a mis en évidence une situation défavorable à l'Europe que nul gouvernement n'ignorait mais que tous acceptent car on ne discute pas avec des Etats arabes riches des milliards que nous leurs versons indirectement par notre insatiable appétit de pétrole, au lieu de rechercher avec plus de détermination des énergies de substitution. Aucune autorité ne fait le bilan de ce que rapportent aux Européens les cadeaux de certains Etats du Golfe, en contrepartie des coûts actuels et futurs des pertes de souveraineté qu'ils leur consentent. Concernant les compagnies aériennes, ainsi, l'Europe qui continue à afficher haut et fort sa volonté de faire régner en son sein une concurrence libre et non faussée, ferme les yeux sur la concurrence déloyale des compagnies du Golfe, qui touchent de la part de leur gouvernement des subventions estimées à plus de 40 milliards de dollars pour ces dernières années.

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Ces subventions permettent, entre autres, à ces compagnies d'acquérir les dernières générations d'avions, d'y offrir des services aux passagers sans égal et bien évidemment de travailler à perte aussi longtemps que nécessaire pour éliminer la concurrence. Elles peuvent aussi, plus directement acheter purement et simplement des compagnies européennes en difficulté, comme ce fut récemment le cas d'Alitalia rachetée agressivement par la compagnie d'Abou Dhabi Etihad. Si les Etats européens ne réagissent pas pour imposer, y compris au sein de la Commission européenne, un néo-protectionnismedans les secteurs stratégiques, ce sera bientôt aussi le sort d'Air France et de Lufhansa. Le passager européens naïf croira continuer à voler sous les couleurs européennes, sans s'apercevoir qu'il sert dorénavant les intérêts d'ennemis déterminés de l'Europe.

Les autres secteurs stratégiques

La cas des compagnies aériennes n'est que la façade aujourd'hui visible de l'entrée, concurrence libre et non faussée oblige, des capitaux pétro-arabes dans de nombreuses entreprises et services publics européens. Certains de ceux-ci ne sont pas considérés comme stratégiques (comme en ce qui concerne le Musée du Louvre...encore que...), mais d'autres le sont évidemment, comme en ce qui concerne les industries de technologies avancées, travaillant ou non pour la défense.

Or les capitaux du Golfe ne se bornent pas à rester dans le rôle de « sleeping partners » ou partenaires dormant, uniquement soucieux de récupérer quelques profits. Ils participent directement à une conquête de l'Europe, non seulement économique mais politique. Celle-ci se fait bien évidemment en premier lieu au détriment des travailleurs et des représentations politiques européennes. Le lobbying exercé par les représentants occultes de ces capitaux arabe s'exerce en permanence et influence dorénavant toutes les décisions, tant des Etats nationaux que de la Commission européenne. Mais personne n'en parle.

Qui connait dans nos démocraties l'influence sur les décisions diplomatiques et économiques du prince saoudien multi-milliardaire Al Waleed bin Talal bin Abdulaziz al Saud. Soyez certains qu'il ne se borne pas à investir dans les casinos. L'avenir de l'Europe repose dorénavant en partie entre ses mains et celles de ses semblables.

Jean Paul Baquiast

vendredi, 08 mai 2015

«L’Arabie saoudite a déjà perdu la partie» au Yémen

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«L’Arabie saoudite a déjà perdu la partie» au Yémen

Majed Nehmé, directeur du magazine « Afrique-Asie » et auteur de nombreux ouvrages autour des questions géopolitiques, fait le bilan après 3 semaines du début de « Tempête de la fermeté ».

Ex: http://www.lorientlejour.com

Trois semaines après le début de la campagne aérienne de la coalition constituée sous l'égide de l'Arabie saoudite, l'épreuve de force se poursuit au Yémen. Les raids aériens n'ont jusque-là pas permis une inversion du rapport de force sur le terrain. Après le refus, vendredi, du Pakistan d'envoyer des troupes et du matériel militaire en renfort à son allié saoudien, Riyad a confirmé, hier, la formation d'une commission avec l'Égypte pour tenir de « grandes » manœuvres militaires conjointes dans le royaume saoudien. Il semblerait ainsi que les bénéfices politiques de l'Arabie saoudite restent subordonnés aux gains militaires. En ce sens, la résolution adoptée mardi soir au Conseil de sécurité imposant en embargo sur les armes contre les rebelles houthis viserait à favoriser un changement dans la configuration du rapport de force sur le terrain. Néanmoins, le scepticisme demeure quant aux résultats escomptés. Majed Nehmé, directeur du magazine Afrique/Asie et auteur de nombreux ouvrages autour des questions géopolitiques, livre son analyse de la situation.


Revenant sur les épisodes des derniers jours, M. Nehmé estime que le refus du Pakistan « va amener Riyad à comprendre que tout n'est pas monnayable ». En effet, l'exigence saoudienne de la mise à disposition de troupes composées de militaires exclusivement sunnites aurait constitué une menace pour l'unité de l'armée pakistanaise et entraîné des conséquences graves sur le plan interne dans un pays où la situation intercommunautaire est extrêmement tendue. Selon lui, la position du Pakistan, allié historique de l'Arabie mais qui bénéficie aujourd'hui d'une plus grande marge de manœuvre, « va pousser les sages du royaume à faire entendre leur voix et à revoir la stratégie des ultras », portée par le tout nouveau ministre de la Défense Mohammad ben Salman et l'indéboulonable ministre des Affaires étrangères Saoud al-Fayçal. Il estime qu'« un changement dramatique au sein de la famille régnante n'est pas à exclure ». Selon lui, donc, le refus pakistanais semble fragiliser la position saoudienne en entamant la cohérence de la coalition.

Manœuvres conjointes sans effet sur le terrain


L'organisation de manœuvres conjointes s'apparente davantage, selon Majed Nehmé, à une démonstration de force sans conséquences sur le terrain. Elle ne vise pas à créer une offensive mais peut avoir un effet dissuasif en cas d'attaque sur le territoire saoudien, scénario qui semble néanmoins exclu. « Cette gesticulation est en fait destinée à améliorer les conditions d'une solution politique qui permettrait aux Saoudiens de sauver la face ». Selon lui, même la résolution adoptée par le Conseil de sécurité prévoyant un embargo sur l'équipement militaire livré aux rebelles ne bouleverserait pas la donne dans la mesure où les houthis disposent de stocks d'armements suffisamment importants pour tenir un conflit long de plusieurs mois.


Par ailleurs, la campagne aérienne menée contre un mouvement de guérilla disposant d'une base populaire a des effets limités et toute évolution dans le rapport de force sur le terrain impliquerait une campagne terrestre. Or M. Nehmé rappelle que « l'armée égyptienne n'en a ni les moyens ni la volonté. Elle a d'autres problèmes à gérer notamment dans le Sinaï où elle peine à venir à bout des groupes jihadistes. Une offensive serait suicidaire. Et à part quelques incursions terrestres, je ne vois pas comment une armée saoudienne, suréquipée certes, mais inexpérimentée, pourrait faire face à une guérilla qui a déjà infligé de lourdes pertes à cette armée en 2009 ». Cette année-là, les rebelles houthis avaient mené une incursion en Arabie.

Solution négociée


Le réalisme politique pourrait-il prendre la forme de la proposition turque de se poser en médiateur et du plan iranien de sortie de crise. Pour Majed Nehmé, la recherche d'un compromis permettrait de rééquilibrer le rapport de force et préserver l'influence saoudienne, mais elle n'en resterait pas moins une défaite pour Riyad. « L'Arabie saoudite a déjà perdu la partie. La dernière résolution du Conseil de sécurité lui permet de s'engager dans des négociations avec les houthis et l'armée de l'ex-président Ali Abdallah Saleh. Il y aura forcément un partage de pouvoir entre les différentes factions antagonistes, mais la part du lion reviendra au camp antisaoudien. Les Américains poussent dans ce sens car une poursuite du conflit va renforcer el-Qaëda, estime-t-il. Ce compromis devrait se traduire par une négociation globale avec l'Iran qui va freiner le soutien saoudien aux forces hostiles au régime syrien. »

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jeudi, 07 mai 2015

Signez la pétition de soutien à Robert Ménard !

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Signez la pétition de soutien à

Robert Ménard !

 

 

Paris, mai 2015

Madame, Monsieur,

Face au déchainement médiatique orchestré par le gouvernement de François Hollande et de Manuel Valls,

Au nom de la liberté d’expression,

Parce que le thème de l’immigration et ses conséquences ne doit plus être un tabou,

Apportez votre soutien à Robert Ménard et à la municipalité de Béziers en signant la pétition mise en ligne par Boulevard Voltaire.

Merci.

17:04 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (6) | Tags : actualité, france, béziers, robert ménard | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Se la politica si riduce ad una “Torre di Babele”…

Prendiamola alla lontana, ma non più di tanto. Ricordate la narrazione biblica sulla punizione divina dei costruttori della Torre di Babele ? Fu la superbia degli uomini – secondo la Tradizione – a condannarli, per volontà divina, alla confusione dei linguaggi e allo scompiglio.

La politica italiana non sembra essere immune da questa maledizione. A destra e a sinistra. Al Nord e al Sud. Le vicende della Lega, spaccatasi, nella sua roccaforte veneta, tra i fans di Tosi e quelli di Salvini; lo stato confusionale in cui versa il Pd ligure, uscito massacrato dalle “primarie” ed ora costretto a fare i conti con il dissenso interno dei “civattiani”, contrari alla candidata renziana Raffaella Paita; lo scontro tra “fittiani” e “berlusconiani”, nella Puglia del dopo Vendola, la dicono lunga sulla babelica confusione dei linguaggi nella politica italiana.

Addio appartenenze, identità, idealità. A dettare la linea sono le rispettive ambizioni. A fare da traino più che i programmi gli interni rapporti di forza. Tutto sembra essersi ridotto ad un’indistinta mucillagine, nella quale a restare invischiati sono soprattutto i cittadini-elettori, a dir poco frastornati in questa girandola di distinguo, di spaccature, di fughe, senza che poi, al fondo, appaiano ben chiare le ragioni e le rispettive distinzioni politiche tra quanti, fino ieri, si ritrovavano sotto il medesimo tetto di partito ed oggi sembrano invece impegnati a favorire l’avversario “esterno”.

La logica, a trovarne una, pare quella del derby strapaesano, dove la politica conta veramente poco e ad emergere sono le rispettive appartenenze “di contrada” ed il peggiore familismo, in grado di soffocare le ragioni del gruppo.

Senza, per questo, apparire nostalgici del vecchio monolitismo ideologico, un minimo di “linea”, se c’è, all’interno, dei rispettivi partiti, una condivisione di valori e di programmi, andrebbe tenuta. Non è solo una questione formale. Essa riguarda (dovrebbe riguardare) i processi di selezione interni, il rispetto di chiare regole di comportamento, il rapporto tra eletti e struttura-partito.

Al fondo dovrebbe esserci – e qui torniamo al discorso su Babele – un’omogeneità di linguaggio, espressione, a monte, di una chiara distinzione di valori, laddove invece, oggi, tutto appare indistinto, confuso e lontano dagli interessi reali della gente.

Tra tante discussioni sterili da qui bisognerebbe ripartire per cercare di ricucire non tanto gli sfilacciati brandelli dei partiti politici quanto il senso vero e profondo della Politica, recuperandone la dimensione culturale e spirituale, insieme al senso del nostro sistema democratico, su ciò che significa realmente partecipazione, su come ritrovare un destino comune e condiviso.

Anche per evitare – come ormai accade di elezione in elezione – di “stupirsi” ipocritamente, ma il giorno dopo, per l’astensionismo e per la lontananza dei cittadini dalle istituzioni rappresentative. Visti certi spettacoli indecorosi le ragioni per allargare questa lontananza ci sono tutte.

mercredi, 06 mai 2015

La “communauté internationale”, c’est quoi ce machin?

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La “communauté internationale”, c’est quoi ce machin?

Auteur : Philippe Duval
Ex: http://zejournal.mobi

Employé à tort et à travers par les dirigeants et les médias lors de conflits ou de catastrophes, le terme « communauté internationale » n’est bien souvent qu’une coquille vide sur laquelle les Etats s’appuient pour justifier leurs actions.

François Hollande « continue de regretter » que la communauté internationale ne soit pas intervenue militairement en Syrie… La communauté internationale devait « prendre ses responsabilités » en Libye…  Hollande et Obama ont souhaité  «une mobilisation accrue de la communauté internationale» pour lutter contre Ebola. Hollande demande à la communauté internationale d’agir en Centrafrique…  A Tunis, François Hollande appelle la communauté internationale à « unir ses forces » contre le terrorisme…  La France assure le Niger de sa solidarité et appelle la communauté internationale à poursuivre sa mobilisation dans la lutte contre Boko Haram. « Communauté internationale », Hollande fait un usage immodéré de cette locution qui culmine au sommet du hit-parade diplomatique en ce début de siècle et qui est reprise à tout bout de champ par le choeur médiatique. Sarkozy l’avait abondamment utilisée pour justifier ses interventions en Libye et en Côte d’Ivoire, Chirac, lui, en faisait un usage plus circonspect, tout comme Mitterrand.

Mais qu’est-ce que ça veut dire?

On imagine un sketch de Coluche sur le sujet. « Communauté », on voit ce que c’est, un groupe de personnes jouissant d’un patrimoine commun. Elle peut être d’agglomération, nationale, européenne, ou même mondiale, c’est à dire avec des frontières définies, la France, l’Europe, le monde. « International », ça définit les interactions entre plusieurs nations, mais lesquelles? Quand on accole les deux mots, on obtient donc une communauté dont les frontières ne sont pas précisées. On peut alors imaginer qu’elles sont infinies.  C’est là que naît la supercherie. Le concept peut alors flotter au dessus de nos têtes comme un ectoplasme, un gentil monstre destiné à effrayer les mauvais gouvernants. Mais qui a décidé qu’ils n’étaient pas bons? La « communauté internationale »! Ah bon!

La définition de Chomsky

Pour y voir plus clair, appelons au secours le linguiste et philosophe américain Noam Chomsky. Il n’y va pas par quatre chemins: «Ce qu’on appelle la communauté internationale aux Etats-Unis, c’est le gouvernement américain et tous ceux qui sont d’accord avec sa politique. » Et «l’Occident, c’est les Etats-Unis et tous les pays suiveurs», ajoute t-il.  « Dès que vous lisez quelque chose d’anonyme, écrivait-il en 2010, il faut se méfier. Si vous lisez dans la presse que l’Iran défie la communauté internationale, demandez-vous qui est la communauté internationale ? L’Inde est opposée aux sanctions. Le Brésil est opposé aux sanctions. Le Mouvement des pays Non-Alignés est opposé aux sanctions et l’a toujours été depuis des années. Alors qui est la communauté internationale ? »

Si on suit Chomsky, cette communauté n’a donc rien d’internationale. Elle désigne le plus souvent de façon approximative des états membres de l’ONU, qui siègent en permanence au Conseil de sécurité. Les Etats-Unis, bien sûr, mais aussi la France et la Grande-Bretagne. Quand la Chine ou la Russie s’opposent à eux, on parle alors de « division de la communauté internationale. » Dans le cas de l’intervention en Libye en 2011, ce sont Sarkozy et Cameron qui ont joué le rôle leader. En Côte d’Ivoire, en 2011, c’est la France, ex-puissance coloniale toujours  régnante dans son ex pré-carré de l’Afrique de l’Ouest, qui a agi seule, au nom de la communauté internationale; pour chasser Gbagbo.

Comment ça marche?

Pour être totalement  légitime, la « communauté internationale » a besoin de l’aval des Nations-Unies. Une formalité puisque ce sont les membres permanents qui y font la pluie et le beau temps. Elle peut actionner, si nécessaire, la Cour Pénale Internationale, son bras judiciaire, tellement international que la moitié de l’humanité (Chine, Inde, Russie, etc…) n’y adhère pas. Elle peut aussi invoquer les droits de l’homme et ses défenseurs autoproclamés. Quand toutes ces conditions sont réunies, le bon peuple n’a plus qu’à applaudir et le rouleau compresseur médiatique n’a plus qu’à se mettre en marche et se prosterner devant ladite « communauté internationale. »

Un exemple concret

Prenons la Côte d’Ivoire (il y en a d’autres). Un président, Laurent Gbagbo, élu par surprise en 2000, au grand dam de Jacques Chirac. Une rébellion, venue du Burkina-Faso en 2002. Comme par hasard! Le président de ce pays, Blaise Compaoré, est le gendarme de la France dans ce coin d’Afrique. On découvre alors des escadrons de la mort chez Gbagbo (dont on n’entend plus parler aujourd’hui). Chirac envoie l’armée française pour séparer les belligérants, attendant que le président ivoirien tombe comme un fruit mûr. Mais il résiste. Arrive alors Sarkozy et l’élection présidentielle de 2010. Gbagbo se proclame vainqueur mais la « communauté internationale » décide que Ouattara a gagné. Elle publie un résultat global, sans donner aucun détail (on attend toujours un décompte précis). Le battu demande un recomptage des voix qui ne lui est pas accordé. S’ensuit une crise post électorale qui fait au moins 3000 morts, dont la moitié est attribuée au camp de Ouattara. Seuls les partisans de Gbagbo sont jugés aujourd’hui. Qu’en disent la communauté et la justice internationales?


- Source : Philippe Duval

Pourquoi il faut se remettre à Sénèque (et aussi au latin !)

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Pourquoi il faut se remettre à Sénèque (et aussi au latin !)
 
Précepteur de Néron, Sénèque fut bien placé pour savoir que les bons conseils n'ont pas de bons suiveurs.
 
Ecrivain
Ex: http://www.bvoltaire.fr

Il est inepte et socialiste de se remettre au latin sans savoir pourquoi. Le latin, langue de Pétrone, de Virgile et d’une poignée de grands génies politiquement incorrects…

Précepteur de Néron, Sénèque fut bien placé pour savoir que les bons conseils n’ont pas de bons suiveurs. Pourtant, à vingt siècles de là, et dans les temps postmodernes désastreux et désabusés où nous vivons, nous ne pouvons que nous émerveiller de la justesse de ses analyses, comme si Sénèque faisait partie de ces penseurs qui cogitent dans ce que Debord appelait le présent éternel.

Et je lui laisse écrire à Lucilius :

Sur le quidam obsédé par l’argent et par la consommation : « Les riches sont plus malheureux que les mendiants ; car les mendiants ont peu de besoins, tandis que les riches en ont beaucoup. »

Sur l’obsession des comiques et de la dérision, si sensible depuis les années Coluche : « Certains maîtres achètent de jeunes esclaves effrontés et aiguisent leur impudence, afin de leur faire proférer bien à propos des paroles injurieuses que nous n’appelons pas insultes, mais bons mots. »

Sur la dépression, ou ce mal de vivre mis à la mode par les romantiques, Sénèque écrit ces lignes : « De là cet ennui, ce mécontentement de soi, ce va-et-vient d’une âme qui ne se fixe nulle part, cette résignation triste et maussade à l’inaction…, cette oisiveté mécontente. »

Sur le tourisme de masse et les croisières, Sénèque remarque : « On entreprend des voyages sans but ; on parcourt les rivages ; un jour sur mer, le lendemain, partout on manifeste la même instabilité, le même dégoût du présent. »

Extraordinaire, aussi, cette allusion au délire immobilier qui a détruit la terre : « Nous entreprendrons alors de construire des maisons, d’en démolir d’autres, de reculer les rives de la mer, d’amener l’eau malgré les difficultés du terrain… »

Une société comme la nôtre ne manque pas d’esquinter les gens, de les réduire à un état légumineux. Sénèque le sait, à son époque de pain et de jeux, de cirque et de sang : « Curius Dentatus disait qu’il aimerait mieux être mort que vivre mort » (Curius Dentatus aiebat malle esse se mortuum quam uiuere).

L’obsession du « people », amplifiée par Internet et ses milliers de portails imbéciles (parfois un million de commentaires par clip de Lady Gaga), est aussi décrite par le penseur stoïcien : « De la curiosité provient un vice affreux : celui d’écouter tout ce qui se raconte, de s’enquérir indiscrètement des petites nouvelles, tant intimes que publiques, et d’être toujours plein d’histoires (auscultatio et publicorum secretorumque inquisitio).

Je terminerai par l’obsession humanitaire de nos temps étiolés, dont Chesterton disait qu’ils étaient marqués par les idées chrétiennes devenues folles, voire idiotes : « C’est une torture sans fin que de se laisser tourmenter des maux d’autrui » (nam alienis malis torqueri aeterna miseria est).

Fort heureusement, on peut se remettre aux classiques grecs et romains grâce à remacle.org.

Immigration: Entretien de Alimuddin Usmani avec Petr Mach député européen tchèque

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Immigration: Entretien de Alimuddin Usmani avec Petr Mach député européen tchèque

Alimuddin Usmani
Journaliste indépendant, Genève
Ex: http://www.lesobservateurs.ch
Alimuddin Usmani : Le nombre de réfugiés en Méditerranée augmente à une vitesse phénoménale. Quelle en est selon-vous la principale raison?

Petr Mach : Les raisons principales sont évidemment les guerres civiles en Libye et en Syrie.

Alimuddin Usmani : Pensez-vous qu'il soit possible de stopper cet afflux de masse?

Petr Mach : Lorsque les guerres civiles et le chaos en Libye et en Syrie prendront fin alors cette vague de réfugiés s'arrêtera.

Alimuddin Usmani : De nombreux réfugiés possèdent un niveau d'instruction faible, ils ne s''intègrent pas facilement au marché du travail et dépendent des aides sociales. Ils préfèrent aller en Suède ou en Allemagne plutôt qu'en République tchèque qui a accueilli seulement 0,2% des réfugiés de l'UE. Comment expliquez-vous que la République tchèque parvienne pour l'instant à dissuader la plupart des demandeurs d'asile?

Petr Mach : Ils reçoivent une aide sociale généreuse en Suède. Certains réfugiés ont déjà de la famille installée sur place et il y a de larges communautés immigrées, notamment musulmanes en Suède. La République tchèque n'offre pas des aides sociales aussi élevées et sa minorité musulmane est quasiment inexistante, c'est pour cela qu'il y a peu de réfugiés qui cherchent à venir en République tchèque.

Alimuddin Usmani : Parmi les mesures annoncées par Bruxelles pour faire face à cet afflux de réfugiés figure un projet pilote qui stipule que 5000 personnes seront accueillies, réparties sur l’ensemble du territoire européen. Les demandes d'asile pour l'année 2014 en République tchèque se sont élevées à 1000 environ, essentiellement de la part de l'Ukraine, du Vietnam ou de la Syrie. La Suède, dont la population est moins élevée que la République tchèque, a recueilli environ 78000 demandes d'asile, surtout des Erythréens et des Syriens. Ne craignez-vous pas que l'UE contraigne la République tchèque à accueillir plus de réfugiés à l'avenir?

Petr Mach : En République tchèque vivent de nombreux ressortissants Ukrainiens, Vietnamiens, Moldaves et Russes. Il n'est pas nécessaire qu'ils demandent l'asile car ils peuvent recevoir un permis de séjour permanent. La République tchèque n'a pas de problème avec ces étrangers. Ils travaillent et leur intégration dans la société se passe bien. La société tchèque ne veut pas en revanche que l'Union européenne lui impose des quotas. Il ne serait également pas juste de réinstaller un réfugié en République tchèque alors qu'il cherchait à s'établir en Allemagne.

Alimuddin Usmani : L'Australie installe ses réfugiés dans des îles du Pacifique ou bien au Cambodge. Le Premier ministre Abott a conseillé l'Europe de suivre son exemple. Qu'en pensez-vous?

Petr Mach : L'Italie possède des camps de réfugiés à Lampedusa et en Sicile. Mais leur capacité d'accueil est insuffisante. L'Italie devrait avoir de la place pour les réfugiés clandestins en attendant qu'un pays membre puisse leur accorder l'asile. Un tel endroit pourrait être situé soit sur le territoire de l'UE, soit sur le territoire d'un pays avec lequel il serait conclu un accord.

Alimuddin Usmani : En 2011 vous avez exprimé votre opposition à l'égard de l'intervention militaire de l'OTAN en Libye. Les réfugiés partent essentiellement de la Libye car l'Etat ne fonctionne pas. Les dirigeants de l'UE étaient majoritairement favorable à cette intervention. Pensez-vous qu'ils s'attendaient à une telle situation?

Petr Mach : J'étais effectivement contre l'attaque en Libye. Il n'est pas possible de renverser un régime puis de laisser le pays s'installer dans le chaos. Je ne comprends pas à quoi s'attendaient des politiciens comme Sarkozy et Obama.

Alimuddin Usmani, le 23 avril 2015

Une coalition sino-russo-iranienne opposée à l’Otan débute-t-elle à Moscou?

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Une coalition sino-russo-iranienne opposée à l’Otan débute-t-elle à Moscou?

La Conférence de Moscou sur la sécurité internationale, en avril, a été une occasion de faire savoir aux Etats-Unis et à l’OTAN que d’autres puissances mondiales ne les laisseront pas faire comme ils l’entendent.

Le thème portait sur les efforts communs de la Chine, de l’Inde, de la Russie et de l’Iran contre l’expansion de l’OTAN, renforcés par des projets de pourparlers militaires tripartites entre Pékin, Moscou et Téhéran.

Des ministres de la Défense et des responsables militaires venus du monde entier se sont réunis le 16 avril au Radisson Royal ou Hotel Ukraina, l’une des plus belles réalisations de l’architecture soviétique à Moscou, connue comme l’une des Sept sœurs construites à l’époque de Joseph Staline.

L’événement de deux jours, organisé par le ministère russe de la Défense était la quatrième édition de la Conférence annuelle de Moscou sur la sécurité internationale (CMSI/MCIS).

Des civils et des militaires de plus de soixante-dix pays, y compris des membres de l’OTAN, y ont assisté. A part la Grèce, toutefois, les ministres de la Défense des pays de l’OTAN n’ont pas participé à la conférence.

Contrairement à l’année dernière, les organisateurs de la CMSI n’ont pas transmis d’invitation à l’Ukraine pour la conférence de 2015. Selon le vice-ministre russe de la Défense Anatoly Antonov, «à ce niveau d’antagonisme brutal dans l’information par rapport à la crise dans le sud-est de l’Ukraine, nous avons décidé de ne pas envenimer la situation à la conférence et, à ce stade, nous avons pris la décision de ne pas inviter nos collègues ukrainiens à l’événement.»

A titre personnel, le sujet m’intéresse, j’ai suivi ce genre de conférences pendant des années, parce qu’il en émane souvent des déclarations importantes sur les politiques étrangères et de sécurité. Cette année, j’étais désireux d’assister à l’ouverture de cette conférence particulière sur la sécurité. A part le fait qu’elle avait lieu à un moment où le paysage géopolitique du globe est en train de changer rapidement, depuis que l’ambassade russe au Canada m’avait demandé en 2014 si j’étais intéressé à assister à la CMSI IV, j’étais curieux de voir ce que cette conférence produirait.

Le reste du monde parle: à l’écoute des problèmes de sécurité non euro-atlantiques

La Conférence de Moscou est l’équivalent russe de la Conférence de Munich sur la sécurité qui se tient à l’hôtel Bayerischer Hof en Allemagne. Il y a cependant des différences essentielles entre les deux événements.

Alors que la Conférence sur la sécurité de Munich est organisée autour de la sécurité euro-atlantique et considère la sécurité globale du point de vue atlantiste de l’OTAN, la CMSI représente une perspective mondiale beaucoup plus large et diversifiée. Elle représente les problèmes de sécurité du reste du monde non euro-atlantique, en particulier le Moyen-Orient et l’Asie-Pacifique. Mais qui vont de l’Argentine, de l’Inde et du Vietnam à l’Egypte et à l’Afrique du Sud.  La conférence a réuni à l’hôtel Ukraina tout un éventail de grands et petits joueurs à la table, dont les voix et les intérêts en matière de sécurité, d’une manière ou d’une autre, sont par ailleurs sapés et ignorés à Munich par les dirigeants de l’OTAN et des Etats-Unis.

Le ministre russe de la Défense Sergey Shoigu, qui a un rang d’officier équivalent à celui d’un général quatre étoiles dans la plupart des pays de l’OTAN, a ouvert la conférence. Assis près de Shoigu, le ministre des Affaires étrangères Sergey Lavrov a aussi pris la parole, et d’autres responsables de haut rang. Tous ont parlé du bellicisme tous azimuts de Washington, qui a recouru aux révolutions de couleur, comme l’Euro-Maïdan à Kiev et la Révolution des roses en Géorgie pour obtenir un changement de régime. Shoigu a cité le Venezuela et la région administrative spéciale chinoise de Hong Kong comme exemples de révolutions de couleur qui ont échoué.

Le ministre des Affaires étrangères Lavrov a rappelé que les possibilités d’un dangereux conflit mondial allaient croissant en raison de l’absence de préoccupation, de la part des Etats-Unis et de l’OTAN, pour la sécurité des autres et l’absence de dialogue constructif. Dans son argumentation, Lavrov a cité le président américain Franklin Roosevelt, qui a dit:

«Il n’y a pas de juste milieu ici. Nous aurons à prendre la responsabilité de la collaboration mondiale, ou nous aurons à porter la responsabilité d’un autre conflit mondial «Je crois qu’ils ont formulé l’une des principales leçons du conflit mondial le plus dévastateur de l’Histoire: il est seulement possible de relever les défis communs et de préserver la paix par des efforts collectifs, basés sur le respect des intérêts légitimes de tous les partenaires » , a-t-il expliqué à propos de ce que les dirigeants mondiaux avaient appris de la Seconde Guerre mondiale.

Shoigu a eu plus de dix réunions bilatérales avec les différents ministres et responsables de la Défense qui sont venus à Moscou pour la CMSI. Lors d’une réunion avec le ministre serbe de la Défense Bratislav Gasic, Shoigu a dit que Moscou considère Belgrade comme un partenaire fiable en termes de coopération militaire.

Russie

De g. à dr.: Sergei Lavrov, ministre des Affaires étrangères, Sergei Shoigu, ministre de la Défense, Nikolai Patrushev, secrétaire au Conseil de sécurité et Valery Gerasimov, chef de l’état-major général, participant à la 4e Conférence de Moscou sur la sécurité (RIA Novosti / Iliya Pitalev)

Une coalition sino-russo-iranienne: le cauchemar de Washington

Le mythe que la Russie est isolée sur le plan international a de nouveau été démoli pendant la conférence, qui a aussi débouché sur quelques annonces importantes.

Le ministre kazakh de la Défense Imangali Tasmagambetov et Shoigu ont annoncé que la mise en œuvre d’un système de défense aérienne commun entre le Kazakhstan et la Russie a commencé. Cela n’indique pas seulement l’intégration de l’espace aérien de l’Organisation du traité de sécurité collective, cela définit aussi une tendance. Cela a été le prélude à d’autres annonces contre le bouclier de défense antimissile de l’OTAN.

La déclaration la plus vigoureuse est venue du ministre iranien de la Défense Hossein Dehghan. Le brigadier-général Dehghan a dit que l’Iran voulait que la Chine, l’Inde et la Russie s’unissent pour s’opposer conjointement à l’expansion à l’est de l’OTAN et à la menace à leur sécurité collective que constitue le projet de bouclier antimissile de l’Alliance.

Lors d’une réunion avec le ministre chinois des Affaires étrangères Chang Wanquan, Shoigu a souligné que les liens militaires de Moscou avec Beijing étaient sa «priorité absolue». Dans une autre rencontre bilatérale, les gros bonnets de la défense iraniens et russes ont confirmé que leur coopération sera une des pierres angulaires d’un nouvel ordre multipolaire et que Moscou et Téhéran étaient en harmonie quant à leur approche stratégique des Etats-Unis.

Après la rencontre de Hossein Dehghan et la délégation iranienne avec leurs homologues russes, il a été annoncé qu’un sommet tripartite se tiendrait entre Beijing, Moscou et Téhéran. L’idée a été avalisée ensuite par la délégation chinoise.

Le contexte géopolitique change et il n’est pas favorable aux intérêts états-uniens. Non seulement l’Union économique eurasienne a été formée par l’Arménie, la Biélorussie, le Kazakhstan et la Russie au cœur post-soviétique de l’Eurasie, mais Pékin, Moscou et Téhéran – la Triple entente eurasienne – sont entrés dans un long processus de rapprochement politique, stratégique, économique, diplomatique et militaire.

L’harmonie et l’intégration eurasiennes contestent la position des Etats-Unis sur leur perchoir occidental et leur statut de tête de pont en Europe, et même incitent les alliés des Etats-Unis à agir de manière plus indépendante. C’est l’un des thèmes centraux examinés dans mon livre The Globalization of NATO [La mondialisation de l’OTAN].

L’ancien grand ponte états-unien de la sécurité Zbigniew Brzezinski a mis en garde les élites américaines contre la formation d’une coalition eurasienne «qui pourrait éventuellement chercher à contester la primauté de l’Amérique». Selon Brzezinski, une telle alliance eurasienne pourrait naître d’une «coalition sino-russo-iranienne» avec Beijing pour centre.

«Pour les stratèges chinois, face à la coalition trilatérale de l’Amérique, de l’Europe et du Japon, la riposte géopolitique la plus efficace pourrait bien être de tenter et de façonner une triple alliance qui leur soit propre, liant la Chine à l’Iran dans la région golfe Persique/Moyen-Orient et avec la Russie dans la région de l’ancienne Union soviétique», avertit Brzezinski.

«Dans l’évaluation des futures options de la Chine, il faut aussi considérer la possibilité qu’une Chine florissante économiquement et confiante en elle politiquement – mais qui se sent exclue du système mondial et qui décide de devenir à la fois l’avocat et le leader des Etats démunis dans le monde –  décide d’opposer non seulement une doctrine claire mais aussi un puissant défi géopolitique au monde trilatéral dominant», explique-t-il.

C’est plus ou moins la piste que les Chinois sont en train de suivre. Le ministre Wanquan a carrément dit à la CMSI qu’un ordre mondial équitable était nécessaire.

La menace pour les Etats-Unis est qu’une coalition sino-russo-iranienne puisse, selon les propres mots de Brzezinski, «être un aimant puissant pour les autres Etats mécontents du statu quo».

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Un soldat pendant un exercice impliquant les systèmes de missiles sol-air S-300/SA sur le terrain d’entraînement d’Ashuluk, dans la région  d’Astrakhan (RIA Novosti / Pavel Lisitsyn)

Contrer le bouclier anti-missile des Etats-Unis et de l’OTAN en Eurasie

Washington érige un nouveau Rideau de fer autour de la Chine, de l’Iran, de la Russie et de leurs alliés au moyen de l’infrastructure de missiles des Etats-Unis et de l’OTAN.

L’objectif du Pentagone est de neutraliser toutes les ripostes défensives de la Russie et des autres puissances eurasiennes à une attaque de missiles balistiques US, qui pourrait inclure une première frappe nucléaire. Washington ne veut pas permettre à la Russie ou à d’autres d’être capables d’une seconde frappe ou, en d’autres termes, ne veut pas permettre à la Russie ou à d’autres d’être en mesure de riposter à une attaque par le Pentagone.

En 2011, il a été rapporté que le vice-Premier ministre Dmitri Rogozine, qui était alors envoyé de Moscou auprès de l’OTAN, se rendrait à Téhéran pour parler du projet de bouclier antimissile de l’OTAN. Divers articles ont été publiés, y compris par le Tehran Times, affirmant que les gouvernements de Russie, d’Iran et de Chine projetaient de créer un bouclier antimissile commun pour contrer les Etats-Unis et l’OTAN. Rogozine, toutefois, a réfuté ces articles. Il a dit que cette défense antimissile était discutée entre le Kremlin et ses alliés militaires dans le cadre de l’Organisation du traité de sécurité collective (OTSC).

L’idée de coopération dans la défense entre la Chine, l’Iran et la Russie, contre le bouclier antimissile de l’OTAN est restée d’actualité depuis 2011. Dès lors, l’Iran s’est rapproché pour devenir un observateur dans l’OTSC, comme l’Afghanistan et la Serbie. Beijing, Moscou et Téhéran se sont rapprochés aussi en raison de problèmes comme la Syrie, l’Euro-Maïdan et le pivot vers l’Asie du Pentagone. L’appel de Hossein Dehghan à une approche collective par la Chine, l’Inde, l’Iran et la Russie contre le bouclier antimissile et l’expansion de l’OTAN, couplé aux annonces faites à la CMSI sur des pourparlers militaires tripartites entre la Chine, l’Iran et la Russie, vont aussi dans ce sens.

Les systèmes de défense aérienne russes S-300 et S-400 sont en cours de déploiement dans toute l’Eurasie, depuis l’Arménie et la Biélorussie jusqu’au Kamchatka, dans le cadre d’une contre-manœuvre au nouveau Rideau de fer.  Ces systèmes de défense aérienne rendent beaucoup plus difficiles les objectifs de Washington de neutraliser toute possibilité de réaction ou de seconde frappe.

Même les responsables de l’OTAN et le Pentagone, qui se sont référés aux S-300 comme le système SA-20, l’admettent. « Nous l’avons étudié nous sommes formés pour le contrer depuis des années. Nous n’en avons pas peur, mais nous respectons le S-300 pour ce qu’il est: un système de missiles très mobile, précis et mortel », a écrit le colonel de l’US Air Force Clint Hinote pour le Conseil des relations étrangères basé à Washington.

Bien qu’il y ait eu des spéculations sur le fait que la vente des systèmes S-300 à l’Iran serait le point de départ d’un pactole provenant de Téhéran dû aux ventes internationales d’armes, résultat des négociations de Lausanne, et que Moscou cherche à avoir un avantage concurrentiel dans la réouverture du marché iranien, en réalité la situation et les motivations sont très différentes. Même si Téhéran achète différentes quantités de matériel militaire à la Russie et à d’autres sources étrangères, il a une politique d’autosuffisance militaire et fabrique principalement ses propres armes. Toute une série de matériel militaire – allant des chars d’assaut, missiles, avions de combat, détecteurs de radar, fusils et drones, hélicoptères, torpilles, obus de mortier, navires de guerre et sous-marins – est fabriqué à l’intérieur de l’Iran. L’armée iranienne soutient même que leur système de défense aérienne Bavar-373 est plus ou moins l’équivalent du S-300.

La livraison par Moscou du paquet de S-300 à Téhéran est plus qu’une simple affaire commerciale. Elle est destinée à sceller la coopération militaire russo-iranienne et à renforcer la coopération eurasienne contre l’encerclement du bouclier anti-missiles de Washington. C’est un pas de plus dans la création d’un réseau de défense aérienne eurasienne contre la menace que font peser les missiles des Etats-Unis et de l’OTAN sur des pays qui osent ne pas s’agenouiller devant Washington.

Par Mahdi Darius Nazemroaya –  23 avril 2015

Mahdi Darius Nazemroaya est sociologue, un auteur primé et un analyste géopolitique.

Article original : http://rt.com/op-edge/252469-moscow-conference-international-security-nato/

Traduit de l’anglais par Diane Gilliard

URL de cet article : http://arretsurinfo.ch/une-coalition-sino-russo-iranienne-opposee-a-lotan-debute-t-elle-a-moscou/

mardi, 05 mai 2015

Insécurité, islamisme : du déni de réalité à l’orchestration de la peur, la nouvelle stratégie de l'oligarchie

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Insécurité, islamisme: du déni de réalité à l’orchestration de la peur, la nouvelle stratégie de l'oligarchie

par Michel Geoffroy

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Michel Geoffroy, cueilli sur Polémia et consacré à l'utilisation de l'insécurité et de la peur par l'oligarchie pour consolider son pouvoir... Une analyse qui recoupe celle d'Eric Werner dans son essai L'avant-guerre civile récemment réédité chez Xénia.

La novlangue au service du déni d’insécurité

Face à l’augmentation de la délinquance, conséquence de l’idéologie laxiste qu’elle a mise en œuvre, l’oligarchie a d’abord inventé dans les années 1980 le fameux sentiment d’insécurité, une sorte de phobie d’extrême droite qui faisait, selon elle, voir la réalité sous un jour trop sombre. Elle a aussi inventé le concept d’incivilités qui permettait de banaliser la progression des délits, notamment ceux imputables aux jeunes issus de l’immigration.

On nous a ainsi expliqué, par exemple, qu’il était traditionnel de brûler des voitures à la Saint-Sylvestre. Car chaque fait divers se trouvait dépeint sous des couleurs les plus lénifiantes possibles : on nous présentait les délits voire les crimes comme incompréhensibles car intervenant toujours jusque-là dans des quartiers populaires mais tranquilles ou sans histoire (*). On ne comprenait donc pas le coup de folie qui avait pu saisir les auteurs de ces actes : sans doute parce qu’un banal vol de sac à main, une drague ou une bagarre par balles avait mal tourné. Bref, ce n’était pas vraiment la faute de ces individus bien connus des services de police, mais plutôt le fait de victimes de la malchance, du chômage et de la discrimination.

La novlangue au service du déni d’islamisme

L’apparition de délits commis par des personnes se réclamant de l’islam a subi le même traitement politico-médiatique. On a ainsi assisté à la négation systématique du caractère islamiste de ces agissements, comme par exemple lors des attaques commises en France à la Noël 2014.

L’oligarchie a donc mis l’accent sur le caractère isolé de ces loups solitaires, victimes d’une autoradicalisation pathologique. Même si ensuite on découvrait que leurs proches faisaient l’objet de poursuites ou que des filières avaient été démantelées !

Ou bien on les présentait comme des individus au comportement incompréhensible ou incohérent, comme par exemple dans le cas du profanateur du cimetière de Castres. Ou bien encore des individus dérangés, ce qui permettait d’ôter toute signification autre que médicale à leurs actes. On a même été jusqu’à nous présenter l’auteur musulman d’un attentat à l’arme automatique en Belgique comme un amateur d’armes !

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Pas d’amalgame

Dans le souci de ne pas faire d’amalgame avec l’islam on a aussi beaucoup insisté sur le fait que ces criminels n’étaient pas de vrais bons musulmans, ou bien des convertis de fraîche date, donc connaissant mal leur nouvelle religion. On nous a dit aussi que finalement les victimes étaient… les musulmans eux-mêmes dont l’image risquait de pâtir de ces agissements.

Ce type d’argumentaire est largement répandu en Europe. On se souvient, par exemple, de ce que déclarait le premier ministre anglais à la suite de l’assassinat horrible d’un militaire décapité en pleine rue : « Ce n’était pas seulement une attaque contre la Grande-Bretagne et le mode de vie britannique. C’était aussi une trahison de l’islam et des communautés musulmanes qui apportent tant à notre pays. Rien dans l’islam ne justifie un tel acte épouvantable » (**).

Le même discours a été entendu en France.

Le déni de la cathophobie

On a aussi systématiquement nié le caractère antichrétien de certains délits ou agressions.

Ainsi, pour nos médias les églises ou les cimetières chrétiens ne sont jamais profanés, à la différence des sépultures juives ou musulmanes. Ils sont seulement dégradés ou à la rigueur vandalisés.

Pour la même raison on n’a mis l’accent que sur les actes antimusulmans ou antijuifs : une façon de dénier toute réalité aux actes antichrétiens et à l’existence d’un racisme antifrançais ou antiblanc que, curieusement, la justice n’arrive jamais à identifier.

Enfin, les médias nous ont beaucoup parlé du fait religieux en général (cf. notamment la dernière enquête sur le fait religieux dans l’entreprise) : une manière de cacher la progression des revendications musulmanes.

Bref, l’oligarchie a mobilisé la novlangue et tout le puissant appareil médiatique au service du déni de réalité.

Une nouvelle stratégie

Cette stratégie a cependant fait long feu en 2015.

Certes, l’oligarchie reste attachée à la ligne pas d’amalgame, dans le souci de ne pas se couper de l’électorat musulman d’ici 2017. Les différents plans contre le racisme et l’islamophobie remplissent la même fonction séductrice.

Mais il n’empêche que la réalité est plus forte que la novlangue. La progression de la délinquance ne peut plus être cachée par les services de police et de gendarmerie, pas plus que celle de la violence islamiste.

L’oligarchie a donc progressivement décidé de changer de stratégie en 2015 : de passer du déni de réalité à l’orchestration de la peur. Pour plusieurs raisons.

Le déni n’est plus crédible

D’abord parce que la situation lui échappe de plus en plus.

Derrière les annonces périodiques relatives aux coups de filets, aux attentats miraculeusement déjoués, censés démontrer l’efficience de nos forces de l’ordre, ou relatives à l’inflexion prétendue des statistiques de délinquance, l’actualité migratoire ou criminelle, en France ou à l’étranger, rend de moins en moins crédible la stratégie du déni. Et l’EI se charge de son côté de la démentir.

Mais surtout l’oligarchie a compris qu’elle avait tout à gagner à orchestrer la peur.

Opération Je suis Charlie

L’opération Charlie Hebdo autour des attentats de janvier 2015 marque le coup d’envoi de la nouvelle stratégie du pouvoir.

Car du jour au lendemain on ne nous parle plus de loups solitaires ou d’actes incompréhensibles : désormais on ne nous parle plus que de filières djihadistes, d’attentats terroristes commandités de l’étranger, de caches d’armes et de complices. La langue officielle et médiatique se délie comme par enchantement. Et les incendiaires d’hier revêtent la tenue des pompiers.

Dans un premier temps l’opération Charlie Hebdo tente de rejouer la séquence du président de la République chef de guerre et de l’union nationale contre le terrorisme : ce sera la marche républicaine censée remettre en selle un pouvoir à l’impopularité abyssale et destinée aussi à créer un nouveau cordon sanitaire contre la progression du Front national, pour le plus grand profit de l’UMPS.

Cette tentative a cependant échoué : l’image de marque du gouvernement socialiste retombe aujourd’hui progressivement à son niveau d’avant le 11 janvier. Et le Front national est devenu en nombre de voix le premier parti de France lors des élections départementales.

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De nouveaux leviers d’action

Le déni de réalité avait l’inconvénient de priver l’oligarchie de prétextes : s’il n’y a pas de péril sécuritaire ou islamiste, il n’y a pas de raison d’agir contre. Reconnaître, au contraire, la réalité permet de réclamer de nouveaux moyens d’action.

Le prétexte de la lutte contre le terrorisme permet ainsi de faire passer la loi sur le renseignement qui a pour objectif réel de censurer Internet et de mettre en place une surveillance généralisée de la population. Comme partout ailleurs en Occident. Par ce biais, les dispositifs liberticides de surveillance mondiale des communications dénoncés par les lanceurs d’alerte américains se trouvent aussi légitimés. Coup double pour l’oligarchie !

Bien entendu, comme l’a indiqué ingénument le ministre de l’Intérieur lors du débat sur la loi sur le renseignement, cette surveillance portera sur la détection des discours de haine, également imputés aux milieux identitaires, par exemple.

La liberté de censurer désormais reconnue

L’effet « Je suis Charlie » a permis, en faisant croire que les islamistes visaient la liberté d’expression, de renforcer la chape du politiquement correct antiraciste et contre l’islamophobie en France.

La prétendue liberté d’expression sert à promouvoir la liberté de censurer en toute bonne conscience puisqu’il s’agit de garantir le vivre ensemble ou les valeurs de la République – et, par exemple dans le cadre du nouveau plan de lutte contre le racisme, de remettre en cause ouvertement les protections offertes par la loi sur la liberté de la presse de 1881.

Vive la peur !

L’oligarchie a finalement très bien compris le caractère contre-productif de la stratégie du déni de réalité. Elle sait maintenant que plus les citoyens ont peur pour leur sécurité, leur emploi ou leurs économies, moins ils peuvent se mobiliser sur d’autres causes, a fortiori s’agissant des autochtones vieillissants. D’ailleurs, il n’y a aujourd’hui que la communauté asiatique, identitaire et dynamique, qui manifeste contre l’insécurité en France ! Les vieux Européens n’osent rien dire.

Et il suffit de regarder les télévisions pour se rendre compte que l’on programme consciemment partout la mise en scène de la peur et de la violence : aux actualités sanglantes s’ajoutent les séries policières, les histoires de juges, de femmes-flics ou de femmes harcelées, les affaires criminelles, sans oublier les émissions édifiantes montrant nos forces de l’ordre en pleine action contre la délinquance. Sans parler des militaires qui patrouillent désormais dans les rues.

La peur soutenait déjà un fructueux commerce sécuritaire. Elle devient aujourd’hui un puissant moyen de sidération des autochtones à qui l’on apprend ainsi très tôt à raser les murs.

Rien de tel pour mâter le populisme en Europe et consolider le Système !

Michel Geoffroy (Polémia, 27 avril 2015)

Notes :

(*)     Ex. : « Sid Ahmed Ghlam, étudiant sans histoires et terroriste amateur », Le Monde du 24 avril 2015.
(**)   LeMonde.fr du 23 mai 2013.

BERNARD MARIS, « HOUELLEBECQ ÉCONOMISTE »

BERNARD MARIS, « HOUELLEBECQ ÉCONOMISTE »
 
Une satire acide de nos modes de vie

Pierre Le Vigan
Ex: http://metamag.fr

bmheco782081296077.jpgCe qu’a montré magistralement l’économiste et moraliste Bernard Maris dans son dernier livre, paru au même moment que son assassinat (on pense au roman Plateforme), c’est que le cœur des livres de Houellebecq c’est une protestation passionnée, vitale contre la domination de l’économie sur nos vies. 
La science économique libérale, c’est-à-dire la théorie classique est fausse. « Bien entendu,les hommes ne sont ni rationnels ni calculateurs, écrit Bernard Maris. C’est pourquoi ils sont surprenants, avec leurs passions, leurs peurs, leurs joies, leurs doutes, leurs naïfs désirs, leurs frustrations, et beaucoup de choses comme le mal au dos. » Mais Houellebecq ne se contente pas de critiquer la « science » économique, sa prétention, sa vacuité. Il voit la nocivité de la domination des préoccupations économiques. C’est ce que Viviane Forrester appelait « l’horreur économique ».

Le bilan du libéralisme c’est la lutte de tous contre tous, c’est l’exacerbation des besoins. C’est le développement de l’individualisme, véritable tumeur maladive. «La conséquence logique de l’individualisme c’est le meurtre et le malheur » indique Houellebecq. L’homme est rabaissé et soumis à la logique des désirs, avec comme seul idéal de « se goinfrer comme des enfants ». C’est l’homme infantilisé et l’homme malheureux car la loi tendancielle de baisse du taux de désir (en fait, le corollaire anthropologique de la baisse tendancielle du taux de profit) oblige à en mettre sans cesse de nouveaux sur le marché, toujours plus débiles, soumis à une obsolescence toujours plus rapide. On voit que toutes les leçons de Michel Clouscard sont comprises et reformulées. Le monde est devenu le résidu de la production d’argent. « Le libéralisme redessinait la géographie du monde en fonction des attentes de la clientèle ». Contrairement à l’extrême gauche qui critique le capitalisme sans mettre en cause l’individualisme absolu et libertaire, Houellebecq va à la racine : le règne du moi-je, le règne du « tout à l’ego », Ainsi « nous avançons vers le désastre, guidé par une image fausse du monde […].  Cela fait cinq siècles que l’idée du moi occupe le terrain ; il est temps de bifurquer ». Sur quoi est fondée l’économie ? Sur l’organisation de la rareté. S’il y a abondance il n’y a plus d’économie (justement, Marx voyait le communisme comme surmontant la rareté de l’accès aux biens essentiels). C’est pourquoi l’économie libérale est l’organisation de la frustration. En période d’abondance et notamment d’abondance de travail la domination de l’économie et des puissances d’argent ne disparaît pas mais elle s’affaiblit. C’est ce que remarque Houellebecq, dans la lignée de George Orwell : « En période de plein emploi, il y a une vraie dignité des classes prolétariennes. […] » Elles « vivent de leur travail, et n’ont jamais eu à tendre la main. » C’est évidemment pour cela que le capitalisme ne veut pas se donner pour objectif le plein emploi et pousse à la précarité, à l’immigration, à la flexibilité du travail, à un droit du travail réduit à des cendres. 


Le capitalisme pousse ainsi à l’homogénéisation du producteur-consommateur, à l’exception de différences illusoires qui constituent des niches de marché. Lucide sur le diagnostic, Michel Houellebecq n’y va pas par quatre chemins dans ses conclusions : « Nous refusons l’idéologie libérale parce qu’elle est incapable de fournir un sens, une voie à la réconciliation de l’individu avec son semblable dans une communauté que l’on pourrait qualifier d’humaine ». Il écrit encore : « Nous devons lutter pour la mise en tutelle de l’économie et pour sa soumission à certains critères  que j’oserai appeler éthiques ».


Bernard Maris, « Houellebecq économiste », Ed.Flammarion, 2014, 14€.

 

Les « avancées » idéologiques masquent les lâchetés politiques

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Les « avancées » idéologiques masquent les lâchetés politiques
 
La barbarie qui nous menace est intérieure. Elle est le fruit d’un recul effroyable de l’intelligence.
 
Homme politique
Ancien député UMP, Président du Rassemblement pour la France
Ex: http://www.bvoltaire.fr 

Le but essentiel des politiciens étant de prolonger leur carrière en se faisant réélire, les règles du métier pour celui qui détenait un pouvoir exécutif à quelque niveau que ce fût était de formuler des projets ou plus modestement de satisfaire les revendications de la clientèle électorale. Dans un pays qui détient un record de dépense publique et qui voit monter le chômage, dont les gouvernants n’ont pas eu le courage de procéder aux réformes indispensables et se contentent d’attendre la croissance du contexte international, l’État, contraint de diminuer ses déficits pour contenir sa dette, n’a plus de marge de manœuvre. L’État régalien chargé en tout premier lieu de sauvegarder l’indépendance nationale, l’intégrité du territoire et la protection de ses habitants en est réduit à lésiner sur le budget de la Défense alors même que celle-ci redevient la priorité. L’État-nounou doit lui aussi mesurer sa générosité en restreignant ses dotations aux collectivités territoriales. Celles-ci, à leur tour, doivent renoncer aux projets et au socialisme structurel de notre pays, à sa dépense publique asphyxiante. Pour fournir les moyens de ce « mal français », une fiscalité excessive contribue à ruiner l’économie, à décourager l’initiative et finit par se tuer elle-même. Nous sommes obligés de renoncer à ces mauvaises pratiques, mais sans avoir les moyens de leur en substituer de bonnes.

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Alors, on meuble le vide. Les « avancées » sociétales dont le mariage unisexe demeure l’exemple le plus frappant, qui aura occupé le devant de scène alors que le pays avait besoin d’un choc économique, ne coûtent rien à l’État. Elles ne pénalisent que la nation. La restriction de la politique familiale, qui génère des économies, consiste à sacrifier l’avenir au présent. On en est à présenter le vieillissement comme le gisement principal d’emplois à venir ! Les groupes de pression de la culture de mort, au premier rang desquels on perçoit toujours de façon paradoxale les prétendus écologistes, voient leurs attentes progressivement satisfaites, en matière d’avortement ou d’euthanasie.

Mais l’idéologie « progressiste » se double, comme toujours, d’une attitude répressive. Il ne s’agit pas, bien sûr, de sévir contre le crime. Les prisons coûtent trop cher. On justifiera l’absence de construction et la limitation des séjours en raison de l’inefficacité, voire de la nocivité du système, en omettant de rappeler combien le budget de la justice est scandaleusement insuffisant en France. Non, il s’agit de culpabiliser l’immense majorité de ceux dont le comportement normal et légal est brusquement épié, interdit, sanctionné, taxé. Le criminel en prison coûte. Le Français moyen qui se découvre tardivement déviant est rançonné : il rapporte ! Le fumeur, l’internaute, le militant du mariage traditionnel, le défenseur de l’identité nationale, et demain le diéseliste peut-être, avaient le tort de se croire dans un pays libre et chez eux. La loi, d’une manière quelque peu rétroactive, les a rendus coupables. Ils seront tenus de modifier leurs comportements dans un étonnant chassé-croisé avec d’autres. Français, vous êtes coupables, coupables de ne pas accueillir les étrangers avec générosité, coupables de racisme et d’antisémitisme, coupables de propos discriminants qu’il faudra réprimer avec sévérité. On formera les jeunes esprits en les arrachant à leurs déterminismes, c’est-à-dire à leur héritage et à leurs traditions. On leur apprendra davantage l’origine de l’islam plutôt que celle du christianisme afin d’extirper toute velléité identitaire et de rejeter toute discrimination, sinon positive. On veillera davantage à la taille des jupes qu’à entretenir l’esprit critique par une éducation nourrie aux racines grecques et latines. On dotera les associations de moyens encore plus importants pour leur permettre de poursuivre les délits de parole ou la remise en cause de l’histoire convenue. La liberté a, certes, ses inconvénients, mais le pire de tous est sa disparition.

La barbarie qui nous menace est intérieure. Elle est le fruit d’un recul effroyable de l’intelligence, et plus encore du courage de l’oligarchie qui occupe le pouvoir dans notre malheureux pays.

 

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La Turchia presidia il mar di Levante e costruisce una portaerei

A distanza di quarant’anni l’isola di Cipro rimane spezzata tra due mondi, quello greco del sud e quello turco del nord. Tra le due repubbliche (la prima riconosciuta dalla comunità internazionale, la seconda solo da Ankara) corre una zona cuscinetto lunga 180 chilometri che separa il territorio. Una separazione che non può colmare o risolvere decenni d’odio, diffidenza e rancori.

A Cipro tutto rimane sospeso. In una tregua precaria. Ciclicamente le due parti annunciano negoziati e incontri, ma regolarmente tutto finisce in baruffa e l’ingarbugliata situazione isolana resta ancor più intricata. A peggiorare, se possibile, vi è poi, da qualche anno, la questione degli immensi giacimenti offshore — subito dai greci ribattezzati Afrodite, mentre gli israeliani hanno preferito nomi più crudi come Leviathan e Karish (squalo)… — scoperti nel mar di Levante, tra l’isola e la costa asiatica. Una partita complicata quanto strategica che vede coinvolti più attori: Israele, l’Egitto, il Libano, la Siria, i palestinesi di Gaza e le due entità cipriote.

Lo scorso autunno Erdogan — grande protettore dei ciprioti del Nord — ha spedito una propria nave di ricerca davanti alle coste settentrionali dell’isola. Immediata la reazione di Atene — custode, ormai scalcinata ma attenta, dei diritti della repubblica ufficiale — che ha immediatamente protestato in tutte le sedi europee. Indifferente ai turbamenti ellenici, il governo neo ottomano di Ankara ha rilanciato inviando nelle acque contestate le proprie navi da guerra per un’esercitazione militare che ha sfiorato a più riprese la nave di perforazione italiana Saipem 10000.

Alcun risultato è sortito neppure dalla risoluzione di condanna dell’Unione Europea (effetto Mogherini?) dello scorso 13 novembre: la Turchia ha annunciato che proseguirà le sue ricerche e ha rivendicato per se e il satellite cipriota un ampliamento deciso delle reciproche zone economiche marine.

A confermare ulteriormente le ambizioni marittime di Ankara (e le mire energetiche), il consiglio di sicurezza nazionale turco ha deciso di trasformare radicalmente il progetto della nave anfibia in costruzione nei cantieri Sedef: l’unità diverrà una vera e propria portaerei (sviluppando il concetto dell’ammiraglia spagnola Juan Carlos, nella foto) e verrà equipaggiata per imbarcare velivoli F35b. La consegna è prevista per il 2019. Il mar di Levante si fa burrascoso.

lundi, 04 mai 2015

Presseschau - Mai 2015

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Presseschau
Mai 2015
 
 

De la grande pitié du latin (et du grec) dans les collèges de France

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De la grande pitié du latin (et du grec) dans les collèges de France

 
Francis Richard
Resp. Ressources humaines

Madame Najat Vallaud-Belkacem, Ministre de l'Éducation nationale, de l'Enseignement supérieur et de la Recherche vient de concocter une réforme du collège applicable en France dès 2016. Aux termes de cette réforme, l'enseignement du latin et du grec pourraient bien disparaître, contrairement à ce qu'affirme une ministre outragée par la seule pensée que l'on puisse en douter.

Pourquoi le latin et le grec pourraient-ils disparaître?

Parce que la théorie de leur maintien apparent et facultatif ne résistera vraisemblablement pas à la pratique.

Quelle est la situation actuelle?

Aujourd'hui quelque 20% des collégiens choisissent l'option latin à la fin de la sixième. Ils font son apprentissage à raison de deux heures par semaine en cinquième et de trois heures par semaine en quatrième et troisième. Au-delà, pendant les trois années de lycée, ils ne sont plus qu'environ 5% à poursuivre cet apprentissage - ce qui est bien regrettable. Quant à l'option grec, elle n'est possible qu'à partir de la troisième et seuls 2% des collégiens la prennent. Ne parlons pas de ceux qui continuent cette option au lycée.

Que prévoit la réforme des collèges?

Premier volet: la réforme prévoit que, pendant les cours de français, il soit fait place aux "éléments fondamentaux des apports du latin et du grec à la langue française", une initiation tout au plus suivant les propres termes de la ministre...

Deuxième volet: la réforme prévoit que soient créés huit EPI, enseignements pratiques interdisciplinaires, dont six d'entre eux seront choisis et proposés aux élèves par le chef d'établissement:

- Monde économique et professionnel

- Culture et création artistique

- Information, communication, citoyenneté

- Corps, santé, sécurité

- Sciences et société

- Développement durable

- Langues et cultures étrangères/régionales

- Langues et cultures de l'Antiquité

C'est dans ce dernier EPI que le latin et le grec se nicheraient, mais, comme le nom l'indique déjà, ils ne seraient pas à proprement parler enseignés... si cet EPI existe seulement dans l'établissement fréquenté.

Troisième volet: pour les irréductibles qui voudraient absolument faire du latin et du grec, un "enseignement de complément" pourrait leur être dispensé à raison d'une heure en cinquième et de deux heures en quatrième et troisième, si le chef d'établissement le veut bien, ou, plutôt, le peut, puisqu'il n'est pas prévu de grille horaire ni de financement pour cet enseignement... Et pour cause: la ministre n'a ajouté ce troisième volet qu'à la dernière minute, devant la levée de boucliers suscitée par sa réforme...

En résumé, l'intention proclamée est de donner accès à tous au latin et au grec, le latin et le grec pour tous en quelque sorte. Mais, comme ce n'est pas possible, on n'en donnera à tous que des miettes et on donnera, en réalité, à ceux qui, aujourd'hui, optent pour le latin (et le grec), moins de temps, voire pas du tout.

Il est indéniable pourtant:

- que la maîtrise de la langue française passe par la connaissance des langues qui l'ont précédée et fondée, le latin et le grec, pour une grande part;

- que, jadis, lorsqu'on apprenait le français, le latin et le grec, on disait que l'on faisait ses humanités, c'est-à-dire que l'on se formait à l'esprit critique et à l'esprit humaniste, qui sont souvent aujourd'hui portés disparus dans la France contemporaine;

- que ces enseignements du grec et du latin sont, à l'heure actuelle, déjà mal en point, parce que le réflexe formaté est de les considérer comme des langues mortes, donc inutiles; et l'on se trompe lourdement, comme le disait naguère Jacqueline de Romilly.

Prenons mon modeste cas personnel: naturellement inapte aux sciences et techniques, c'est à la formation intellectuelle et la logique que m'a données le latin pendant sept ans, de la sixième à la terminale, dans un collège religieux puis au Lycée Henri IV de Paris, que je dois d'être devenu ingénieur diplômé de l'École Polytechnique Fédérale de Lausanne...

Francis Richard, 29 avril 2015

Publication commune Lesobservateurs.ch et Le blog de Francis Richard

The Saudi 9/11 Cover-Up

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The Saudi 9/11 Cover-Up

By

Ora.Tv

Ex: http://www.lewrockwell.com

The Bill Hillary and Chelsea Clinton Foundation has taken millions of dollars from foreign governments attempting to buy influence with a woman who might be the next president.

The $2 million contribution from Saudi Arabia, however, is the most troubling.  Putting aside that the Saudi’s oppress women, denying them the most basic human rights, the self styled “women’s advocate’ should still return that cash.  Money from foreign nationals and foreign governments is illegal in US political campaigns.  So the Saudis are using their petro-dollars to buy future influence.

It is worth taking a moment to examine how the Saudi’s have used their vast wealth to effect US foreign policy and have used their influence to hide the facts about the Saudi’s actual role in the events of 9/11 from the American people.  In fact, the Saudis have used their power and influence to cover-up their involvement in the greatest terrorist attack in US history and continue to do so today.

In fact, the Saudis have used their power and influence to cover-up their involvement in the greatest terrorist attack in US history and continue to do so today.

As many American’s know, at least 11 members of the Bin Laden Family were spirited out the country in 24 hours after the 9/11 attacks with the assistance of the George W. Bush Administration.  The FBI still denies knowing about the seven airplanes used to move the Bin Ladens out of the country when all private, commercial and military air-travel was grounded.

Prince Bandar bin Sultan bin Abdul Aziz, the Saudi Arabian ambassador to the United States, orchestrated the exodus of more than 140 Saudis scattered throughout the United States,  They included members of two families: one was the royal House of Saud, the family that ruled the kingdom of Saudi Arabia, perhaps the richest family in the world.  The other family was the Saud’s close allies, the Bin Ladens, who in addition to owning a multibillion-dollar construction company had produced the notorious terrorist Osama Bin Laden.

Yet none of those spirited out of the country were questioned nor was a list of those leaving supplied.  Dan Grossi, a former police officer recruited by the Tampa Police to escort the departing Saudis said he did not get the names of the Saudi he was escorting.  “It happened so fast,” Grossi says.  “I just knew they were Saudis.  They were well connected.  One of them told me his father or his uncle was good friends with George Bush Senior.”

The White House denied the flights even took place.  Officially, the FBI says it had nothing to do with the repatriation of the Saudis.  “I can say unequivocally that the FBI had no role in facilitating these flights one way or another,” said FBI Special Agent John Iannerelli.”  Bandar, however, characterized the role of the FBI very differently.  “With coordination with the FBI,” he said on CNN, “we got them all out.”

Among those hustled out of the country were Osama’s brother-in-law Mohammed Jamal Khalifa, thought by US Intelligence to be an important figure in Al Qaeda and connected to the men behind the 1993 World Trade Center bombing and to the October 2000 bombing of the USSCole.  Also in the traveling party was Khalil Bin Ladin, who boarded a plane in Orlando to leave the United States and was suspected by Brazilian Intelligence for possible terrorist connections.  According to the German wire service Deutsche Presse-Agentur, he had visited Belo Horizonte, Brazil which was a known center for training terrorists.  Neither was questioned before leaving the US.

The erudite, Western-educated and Saville Row tailored Prince Bandar was a influential figure in the world of Islam and the power circles of Washington.  His father, Defense Minister Prince Sultan, was second in line to the Saudi crown.  Bandar was the nephew of King Fahd, the aging Saudi monarch, and the grandson of the late king Abdul Aziz, the founder of modern Saudi Arabia.  So close to the Bush family was the Saudi Ambassador that Barbara Bush dubbed him “Bandar Bush.”

So close to the Bush family was the Saudi Ambassador that Barbara Bush dubbed him “Bandar Bush.”

The Bush and bin Laden families have long-standing business dealings.  These began in the late 1970’s when Sheik Mohammed bin Laden, the family patriarch and Osama’s father, had, through a friend of the Bush family named James R. Bath, invested $50,000 in Arbusto, the oil exploration company founded by George W. Bush with his father’s help.  The “investment” was arranged by James R. Bath, an aircraft broker who had emerged as an agent for the House of Saud in political and business circles.

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In 1997, Prince Bandar gave $1 Million to the George Bush Presidential Library and Museum in College Station, Texas.  In 1989, King Fahd gave $1 Million to Barbara Bush’s campaign against illiteracy.  In 2002 Prince Alwaleed bin Talal gave $500,000 to Andover to fund a George Herbert Walker Bush scholarship.  In 2003, Prince Bandar gave a $1-Million oil painting of an American Buffalo hunt to President Bush for use in his presidential library after he leaves the White House.

On September 11, 2001, Shafiq Bin Laden, an “estranged” half-brother of Osama, invested an initial $38 million in the Carlyle Group in Washington, D.C. Carlyle is a $16 billion private equity firm that pays huge fees to “advisors” George H.W. Bush and former Secretary of State James Baker.

On September 11, 2001, Shafiq Bin Laden, an “estranged” half-brother of Osama, invested an initial $38 million in the Carlyle Group in Washington, D.C. Carlyle is a $16 billion private equity firm that pays huge fees to “advisors” George H.W. Bush and former Secretary of State James Baker.

After former president George H.W. Bush, James Baker, and former prime minister John Major of Great Britain visited Saudi Arabia on behalf of Carlyle, the Saudis increased their investment in the Carlyle Group to at least $80 million.

It’s therefore not surprising that the BBC reported that FBI agents in London were pulled off an investigation of Bin Laden family and Saudi royals soon after George W. Bush took office.  In addition to Osama Bin Laden, other members of the family had terrorists connections and were under investigation by FBI.

Of the 19 9/11hijackers, 14 were Saudi yet after the attack on American soil FBI Agent John O’Neill stated publicly he was blocked from investigating the Saudi connection for “political reasons.”  What political reasons are more important thanthe investigation of the World Trade Center destruction and the murder of 2000 Americans?

More recently, the New York Times and others have reported on an aborted investigation into Saudis who fled Florida two weeks before the 9/11 attack.  The investigation into the prominent Saudi family’s ties to the hijackers started on Sept. 19, 2001, and remained active for several years.  It was led by the FBI’s Tampa field office but included the bureau’s field offices in New York and Washington.

Incredibly, the FBI identified persons of interest, established their ties to other terrorists, sympathies with Osama bin Laden and anti-American remarks.  They examined their bank accounts, colleges and places of employment.  They tracked at least one suspect’s re-entry into the US.  Yet none of this was never shared with Congress or the 9/11 Commission.

Now it’s being whitewashed again, in a newly released report by the 9/11 Review Commission, set up last year by Congress to assess “any evidence now known to the FBI that was not considered by the 9/11 Commission.”  Though the FBI acknowledges the Saudi family in Florida was investigated, it maintains the probe was a ‘dead end.”

The9/11 review panel included one local FBI report from the Florida investigation that said Abdulaziz and Anoud al-Hijji, the prominent Saudi couple who “fled” their home, had “many connections” to “individuals associated with the terrorist attacks on 9/11/2001.”  The panel’s report also doesn’t explain why visitor security logs for the gated Sarasota community and photos of license tags matched vehicles driven by the hijackers, including 9/11 ringleader Mohamed Atta.

Former Florida Senator Bob Graham, former Chairman of the US Senate Intelligence Committee has publicly accused the FBI of a ‘cover-up” in the Florida case.  Graham said there was no evidence that the Bureau had ever disclosed the Florida investigation to his Committee or the 9/11 Commission, which delivered their report in 2004.

There are still 28 pages of the 9/11 report regarding the Saudis that remain classified and were redacted, wholesale, by President George W. Bush.  After reading it, Congressman Thomas Massie described the experience as “disturbing” and said, “I had to stop every two or three pages and rearrange my perception of history…it’s that fundamental.”  Intelligence officials say the claims in the secret 28 pages were explored and found to be “unsubstantiated” in a later review by the national commission.  If that is the case, why not release them?  The Saudis have covered their trail.

Intelligence officials say the claims in the secret 28 pages were explored and found to be “unsubstantiated” in a later review by the national commission.If that is the case, why not release them?The Saudis have covered their trail.

Both the Florida Investigation and the hidden 28 pages of the 9/11 report received more attention this year when an Al Qaeda operative in custody described prominent members of Saudi Arabia’s royal family as major donors to the terrorist network in the late 1990s.  The claim by terrorist Zacarias Moussaoui, prompted a quick statement from the Saudi Embassy saying 9/11 commission rejected allegations that Saudi officials had funded Al Qaeda.

But Senator Graham who has seen the classified material spilled the beans “The 28 pages primarily relate to who financed 9/11, and they point a very strong finger at Saudi Arabia as being the principal financier,” he said, adding, “I am speaking of the kingdom,” or government, of Saudi Arabia, not just wealthy individual Saudi donors…“  This is a pervasive pattern of covering up the role of Saudi Arabia in 9/11 by all of the agencies of the federal government which have access to information that might illuminate Saudi Arabia’s role in 9/11.”

US Intelligence has sought to undermine the credibility of both Graham and Moussaoui, labeling Graham as a past-his-prime publicity seeker and Moussaoui as mentally unstable.

Yet the New York Post reported, “sources who have seen the censored 28 pages say it cites CIA and FBI case files that directly implicate officials of the Saudi Embassy in Washington and its consulate in Los Angeles in the attacks” — which, if true, would make 9/11 not just an act of terrorism, but an act of war by a foreign government.  The section allegedly identifies high-level Saudi officials and intelligence agents by name, and details their financial transactions and other dealings with the San Diego hijackers. It zeroes in on the Islamic Affairs Department of the Saudi Embassy, among other Saudi entities.”

If true, [it] would make 9/11 not just an act of terrorism, but an act of war by a foreign government.

In fact the Saudi’s are playing a dangerous double game, claiming to be US allies in the war on terror at the same time funding terrorist groups that espouse a violent Wahhabi Islamic ideology that is particular to Saudi Arabia.  At the same time, they have used their money and influence to shield the truth from the American people.  With their huge contributions to the Clintons, they hope to do it again.

dimanche, 03 mai 2015

Cette France américaine qui se renie et nous détruit

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Cette France américaine qui se renie et nous détruit

Auteur : Karine Bechet-Golovko
Ex: http://zejournal.mobi

Président de la République et ministres de droite ou de gauche issus des programmes franco-américains, franc-maçonnerie dans les rang de l'Assemblée et du Gouvernement qui défend "sa" conception républicaine, d'autant plus fortement que la "mondialisation républicaine" se trouve, par hasard et par accident ralentie ... On se croirait dans un mauvais film d'espionnage. L'on est simplement dans la France moderne et contemporaine. Cette France qui n'est plus française, qui en a même semble-t-il honte, comme d'un parent pauvre que l'on veut cacher. Et l'on comprend beaucoup mieux pourquoi la politique menée par les élites, de droite comme de gauche, ne défend pas les intérêts de notre pays.

Comme le processus de destruction de ce qui reste de l'identité française allait bien, la construction européenne aidant, l'on n'entendait pas trop les membres de la franc-maçonnerie française, il n'était pas nécessaire de faire du bruit. La multiplication des conflits au Moyen Orient, la crise économique et financière importée en Europe de celle des subprimes aux Etats Unis, les printemps arabes sanglants et destructurant, ont jeté vers les pays européens une foule de population aux aboies. Une foule que les pays européens ne peuvent assumer, surtout en période de crise et parce que de toute manière il n'est pas possible pour l'Europe, sauf à se détruire, d'ingérer tout le malheur du monde. C'est une politique irresponsable et inefficace, notamment pour les pays en conflits concernés. Or, maintenant que la tension monte, l'on voit se réactiver les réseaux. Cela est d'autant plus facile lorsqu'ils sont au Gouvernement, dans le sens direct du terme. Comme l'écrit le Figaro, sans en être pour le moins choqué :

"En mai 2012, le GODF, traditionnellement orienté à gauche, a vu d'un bon œil la victoire de François Hollande et l'arrivée de frères au gouvernement, qu'il s'agisse de Manuel Valls, qui a fréquenté les loges durant huit ans, de Jean-Yves Le Drian, Victorin Lurel, Frédéric Cuvillier ou Jérôme Cahuzac - ce dernier étant finalement suspendu du GODF après le mensonge avoué sur son compte bancaire à l'étranger. De plus, la charte de la laïcité et les projets d'enseignement de « morale laïque » mis en avant par le ministre de l'Education nationale Vincent Peillon, qui n'est pas initié, ont séduit les frères du GODF."

Et si l'on se demandait pourquoi des lois impopulaires passaient, sans qu'un réel débat social ait eu lieu sur des questions aussi importantes que le mariage pour tous ou la laïcité, c'est parce que, en plus du Gouvernement, les rangs de l'Assemblée sont également pris d'assaut. Volonté affichée ouvertement par le Grand Maître José Gulino dès 2012. Et ça marche.

"Le GODF a aussi repris fin 2012 le contrôle de la Fraternelle parlementaire (Frapar), en faisant élire l'un des siens, le député socialiste du Nord Christian Bataille à la tête de cette amicale des francs-maçons de l'Assemblée nationale et du Sénat. Celle-ci compte plus de 400 membres, dont 150 élus, soit 15 % du total des parlementaires. Christian Bataille sait s'y prendre pour pousser ses pions : il a déjà présidé la Frapar et il professe une foi de charbonnier dans les valeurs maçonniques. Celles-ci le conduisent à se transformer en avocat de causes aussi controversées que la lutte contre les langues régionales, au nom du jacobinisme, et en faveur de l'exploration des gaz de schiste, au nom de la science. Cette première offensive liée au retour de la gauche au pouvoir a produit quelques résultats, que ce soit pour promouvoir le mariage pour tous, défendre les réformes fiscales ou contrer la récupération du thème de la laïcité par l'extrême droite."

Ainsi, la Fraternelle parlementaire, qui rassemble des députés et des sénateurs s'est largement emparée du thème de prédilection de la laïcité. L'on comprend mieux pourquoi aujourd'hui elle se traduit en montée de la haine pure et simple contre le christianisme, cette religion qui a le malheur d'avoir posé les bases de la société française.

 

tpe.jpgPour compléter le tableau, en restant dans la même ligne idéologique, l'on voit également l'affermissement des intérêts américains dans la gouvernance française. En 1981, la French American Foundation créé le programme Young Leader, financé par AIG, Lazard et Footprint consultants. Sorte de version moderne, plus neutre, moins marquée et connue dans la société que la franc-maçonnerie. Aujourd'hui, il comprend plus de 400 dirigeants issus de la haute fonction publique, du monde de l'entreprise, des médias, de la recherche et même de l'armée. Chaque année 20 français et américains sont sélectionnés. En 2014, Alain Juppé, lui même ancien Young leader, a organisé le séminaire à Bordeaux pour la promotion 2014 avec des anciens comme le directeur général d'Alcatel Lucent Michel Combes, par exemple.

La formation 2014 comprend :

French Young Leaders

Gwenhaël Le Boulay, Partner and Managing Director au Boston Consulting Group
Nicolas Escoulan, Directeur de la Rédaction d'Europe 1
Frank Gervais, Président-Directeur Général de Thalys International Dr Pierre-Antoine Gourraud, PhD MPH, Professeur Assistant en charge de la médecine digitale translationnelle, Faculté de Médecine, Département de Neurologie de l'Université de Californie à San Francisco
Fatima Hadj, Associate Director à Standard & Poor's
Cyril Kammoun, Managing Partner and CEO d'Aforge Degroof Finance
Julia Minkowski, Associée du Cabinet Temime et Associés
Le Lieutenant-Colonel Jean de Monicault, Rédacteur du Chef d'Etat-Major des Armées en charge des affaires stratégiques au Ministère de la Défense
Alexis Morel, Directeur de la Stratégie de Thales
Abdel Malek Riad, Conseiller économique du Président de l'Assemblée Nationale
Lubomira Rochet, Chief Digital Officer et membre du Comité Exécutif de L'Oréal
Alexandre Zapolsky, Fondateur et Président de Linagora

American Young Leaders

Elizabeth Askren, Freelance Conductor (Théâtre du Châtelet, Théâtre de St Quentin), Cultural Attaché, Fondation des Etats-Unis
Major Jordan Baker, Defense Policy Advisor, United States Mission to NATO
Emma Fuerst Frelinghuysen, Senior Director, Private Brands, FreshDirect
Guy Mounier, Chief Executive Officer, CustomerMatrix
Anna « Anya » Neistat, Associate Director, Program/Emergencies, Human Rights Watch
Reshma Saujani, Chief Executive Officer and Founder, Girls Who Code
Dana Stroul, Senior Professional Staff member, Middle East and North Africa, U.S. Senate Foreign Relations Committee
Joseph « Jay » Truesdale, Chief of Staff, U.S. Embassy, Islamabad

Dans cette France américaine, on retrouve des hommes et des femmes, de droite comme de gauche, cela n'a plus strictement aucune importance, formés à composer avec l'intérêt national. Car il y a semble-t-il plus important. Et ils détiennent les rênes du pouvoir. Comme l'écrit très justement Atlantico :

"Exit Alain Juppé, Valérie Pécresse, Nathalie Kosciusko-Morizet, Laurent Wauquiez, Jeannette Bougrab... Place à François Hollande, Pierre Moscovici, Arnaud Montebourg, Marisol Touraine, Najat Vallaud-Belkacem, Aquilino Morelle (plume du Président), etc. « Enfin des têtes nouvelles ! » entend-t-on ici ou là. Nouvelles ? Tout est relatif, quand on sait décrypter la liste ci-dessus : en fait, tous ces « Young Leaders » de l'UMP ont laissé la place à des « Young Leaders » du Parti socialiste.

Car François Hollande et Pierre Moscovici depuis 1996, Marisol Touraine et Aquilino Morelle depuis 1998, Arnaud Montebourg depuis 2000 et Najat Vallaud-Belkacem depuis 2006, sont tous des « Young Leaders »."

Et la notion de clan joue directement lors de la composition des équipes gouvernantes, même si l'information n'est manifestement pas trop diffusée en France :

"sur les 8 socialistes sélectionnés comme Young Leaders depuis François Hollande en 1996, 6 sont rentrés dans son gouvernement.

(Ne restent sur la touche, pour le moment, que Bruno Le Roux, qualifié par beaucoup de « ministrable », et Olivier Ferrand, l'ambitieux président du think-tank Terra Nova ayant permis l'élection de François Hollande aux élections primaires ; deux candidats impatients de rejoindre leurs camarades Young Leaders au gouvernement). Beau tir groupé, comme s'en enorgueillit à juste titre le site américain (« The French-American Foundation is proud to have five Young Leader in the cabinet of President François Hollande, himself a Young Leader in 1996”), tandis que le site français n'en dit pas un mot. "

Comme le souligne très justement A. Latsa, même si quelques hommes politiques de droite sont favorables à de bons rapports avec la Russie, la plupart sont focalisés sur un axe exclusivement américano-centré :

"En effet, environ 25% de nos députés sont membres du groupe d'amitié France-Amérique. Dans ce groupe relativement discret qui est dirigé, c'est tout un symbole, par Louis Giscard d'Estaing, fils de l'ancien président français Valery Giscard d'Estaing, on trouve un bon nombre de députés de droite, en compagnie de députés socialistes."

Trois conclusions principales en découlent toutes seules, logiquement.

Sur le plan de la politique intérieure, on comprend mieux les sources de cette dissociation croissante entre les élites et la population. Fossé qui oblige à une radicalisation des élites, d'une minorité dirigeante, qui doit, pour faire imposer ses points de vues, discréditer ceux des autres. Autrement dit, il ne peut plus y avoir de pluralisme d'idées, car il n'y a plus de respect de l'autre. Par exemple, celui qui défend la famille traditionnelle est un extrémiste, et l'on ne parle pas avec les extrémistes.

Lorsque le pluralisme d'idées est mis à bas, il ne peut y avoir de pluralisme politique, car les différents partis politiques doivent justement représenter et défendre des visions différentes de la société. Ce qui est inconcevable aujourd'hui. "L'autre politique" est hors du champ démocratique, donc hors du champ du débat politique. Pour autant, il est tout autant inconcevable de déclarer l'instauration du parti unique, car la politique serait morte. La France ne peut pas encore l'accepter, s'enterrer vivante tant qu'il reste un souffle, donc il faut maintenir les apparences. Et pour maintenir les apparences, il faut maintenir une alternance entre des personnes, qui ont été plus ou moins canalisées et formatées au préalables pour ne pas prendre de risques. Le changement de visage, s'interroger sur Cécilia et ensuite passer à Valérie, permet de donner l'impression d'un changement politique. Et l'essentiel est préservé : le cap, lui, est gardé.

Enfin, il en découle que la politique étrangère française ne peut être, dans ce contexte, autre chose que ce qu'elle est. La France ne peut que soutenir, contre toute logique, contre ses valeurs et son histoire, les sanctions contre la Russie parce qu'un Gouvernement d'extrême droite massacre sa propre population civile sur les terres d'Ukraine. Parce que la France et l'UE se moquent de l'Ukraine et de sa population comme de leur première liquette. La France ne peut qu'aller vers une ratification du traité transatlantique TTIP qui lui retire sa souveraineté économique, notamment. La France ne peut que se dissoudre dans une Union européenne qui détruit ce qui reste de culture européenne. La France ne peut avoir de politique étrangère, elle ne peut qu'être un pays aligné ou satellite, selon la terminologie préférée.

Dans ce contexte, la France américaine ne peut que trahir la France.

Loi sur le renseignement: surveiller et punir de Fouché à Cazeneuve

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Loi sur le renseignement: surveiller et punir de Fouché à Cazeneuve

La loi sur le renseignement voulue par le gouvernement suscite la méfiance d’une partie de la société civile qui craint une atteinte grave aux libertés du citoyen. Elle relance l’éternel et légitime débat sur l’équilibre, souvent menacé, entre sécurité nationale et libertés publiques. Ce projet législatif s’inscrit dans une longue tradition de contrôle et de surveillance administrative du pouvoir sur la société. Ce processus répressif a commencé, sous sa forme moderne, il y a deux siècles, par la volonté d’un homme : Joseph Fouché, le sombre génie policier du Consulat et de l’Empire.

Après les attentats terroristes du mois de janvier à Paris, le gouvernement souhaite répondre avec la plus grande fermeté à la menace djihadiste et à ses réseaux. Pour satisfaire une opinion publique avide de fermeté, le gouvernement de Manuel Valls prépare une loi qui pose question à bien des égards. Le pouvoir socialiste, dont la communication est pleine de diatribes contre les ennemis de la République, brise son idéal démocratique au nom d’une menace diffuse, bien que réelle, contre la nation et les intérêts de l’État. La décision du président de la République de faire appel au Conseil Constitutionnel ne semble pas calmer les opposants à ce projet. L’inquiétude de certaines associations, de juristes et des professionnels du web est grande, comme en témoigne l’opérateur internet Mozilla Firefox : « Cette disposition oblige les entreprises à permettre une surveillance gouvernementale de l’activité en ligne de tous leurs utilisateurs à la recherche d’un ensemble obscur de motifs comportementaux suspects. » Certains hébergeurs d’internet évoquent même l’idée d’exiler leurs activités hors de France contre cette mesure qu’ils jugent liberticide.

La République is watching you

Ainsi, le gouvernement, au nom de « l’indépendance nationale, de l’intégrité du territoire et de la défense nationale » et de « la prévention du terrorisme » mais également des « intérêts majeurs de la politique étrangère », souhaite mettre en place un système de surveillance étroite d’internet. Techniquement, cette mesure se concrétiserait par la mise en place de « boîtes noires » surveillant les métadonnées capables de repérer les projets terroristes. Pour adoucir ce que beaucoup considèrent comme un abus d’autorité, la loi met en place certains contre-pouvoirs et crée ainsi une Commission de contrôle. Ce contrôle sera confié à une nouvelle autorité administrative censée être indépendante, la Commission nationale de contrôle des techniques de renseignement (CNCTR), composée de magistrats, de députés et d’experts techniques.

Pour le politologue Thomas Guénolé, vigie républicaine du moment et instigateur d’une pétition qui a déjà recueilli plus de cent mille signatures, ces mesures de protection des libertés fondamentales ne sont qu’illusoires : « Nous dénonçons les contre-vérités du gouvernement sur la fameuse « commission de contrôle » censée protéger les citoyens des abus de surveillance. D’une part, en amont, l’avis de cette commission est consultatif : seul le Premier ministre est décideur. D’autre part, si cette commission n’a pas le temps de se prononcer sous trois jours, elle est automatiquement réputée être d’accord. Enfin, en aval, un citoyen aura besoin de prouver « un intérêt direct et personnel » pour saisir cette commission (ou ensuite, le Conseil d’État) : comment diable le pourrait-il, concernant des opérations secrètes ? Bref, en fait de garde-fous, ce sont des chimères. »

Face à l’hydre terroriste, la balance entre les partisans du tout répressif et les trop angéliques associations de défense des droits de l’homme semble pencher du côté de l’autoritarisme. Ce projet de loi ranime le vieux débat des limites de l’autorité de l’État sur les libertés publiques, un débat au cœur de le politique française depuis près de deux siècles. C’est lors de la naissance de l’État moderne que s’est forgée la capacité du pouvoir à assurer son autorité et son contrôle sur l’ensemble du territoire et des citoyens. Joseph Fouché, ministre de Napoléon Bonaparte, et père de la police moderne, a tenu un rôle fondateur dans cette évolution du pouvoir. D’une police encore embryonnaire issue de l’Ancien Régime et des premières années de la Révolution, il a tissé au début du XIXe siècle une toile de surveillance et de répression sur la société française.

Le contrôle des citoyens

À cette époque, l’ennemi du pouvoir bonapartiste n’a pas l’apparence du djihadiste cagoulé mais celle de l’activiste royaliste et de l’ancien jacobin, acteurs des principaux réseaux factieux du pays. Pour les combattre, Fouché, tout nouveau ministre du Premier Consul Bonaparte, s’appuie alors sur la loi du 17 février 1800 qui crée les préfets et les commissaires de police dans les villes de moins de cinq mille habitants. Il rationalise la police et le contrôle des citoyens par la collecte de données brutes sur les sujets les plus variés : population carcérale, vagabondage, réfractaires au service militaire, revenus des citoyens… Il rend obligatoire l’utilisation du passeport et contrôle ainsi les déplacements sur l’ensemble du territoire. Son ministère n’est pas qu’un outil de répression, il est également une agence de collecte de renseignements statistiques sur la société française.

Fouché_Joseph_Duke_of_Otranto.jpgPour Fouché, pas de bonne police et de régime stable sans une connaissance approfondie de la société permettant de renseigner l’État sur les atteintes sécuritaires à ses intérêts. Mais pour le ministre de la police de Napoléon Bonaparte, de telles pratiques n’entrent pas en contradiction avec l’idéal démocratique, au contraire : « Il ne faut pas croire qu’une police établie par ces vues puisse inspirer des alarmes à la liberté individuelle, au contraire, elle lui donnerait une nouvelle garantie et une puissance plus pure et plus sûre d’elle-même. » La surveillance administrative du pays devient une des attributions du gouvernement et sera au cœur des attributions de l’État moderne ; une surveillance et un contrôle de l’État qui seront les futurs outils des régimes totalitaires du XXe siècle.

La question du juste équilibre entre autorité et liberté est donc essentielle pour toute forme de pouvoir. Benjamin Constant, esprit libéral et opposant à Napoléon, mettait déjà en garde les gouvernements contre tous risques d’abus de pouvoir : « Toutes les fois que vous donnez à un homme une vocation spéciale, il aime mieux faire plus que moins. Ceux qui sont chargés d’arrêter les vagabonds sur les grandes routes sont tentés de chercher querelle à tous les voyageurs. Quand les espions n’ont rien découvert, ils inventent. Il suffit de créer dans un pays un ministère qui surveille les conspirateurs, pour qu’on entende parler sans cesse de conspirations. » Une mise en garde qui conserve toute sa force aujourd’hui.

De JFK au 9/11, 50 ans de manipulations?

De JFK au 9/11, 50 ans de manipulations?

Méridien Zéro a proposé une émission en deux parties. Dans la première, nous recevons Grégoire Gambier et Frédéric Durand, tous les deux membres de l'Institut Illiade, pour évoquer la première année d'existence de l'institut et le colloque organisé le 25 avril prochain à la Maison de la Chimie à Paris et consacré à l'univers esthétique des Européens. Dans la deuxième, Laurent Guyénot vient évoquer les travaux qu'il a consacré aux manipulations politiques états-uniennes depuis 50 ans.

A la barre et à la technique, Wilsdorf et JLR.

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Pour écouter:

http://www.meridien-zero.com/archive/2015/04/17/emission-n-230-de-jfk-au-9-11-50-ans-de-manipulations-5605236.html

Sommet de l'ASEAN: Washington n'obtiendra pas de mobilisation contre Pékin

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Sommet de l'ASEAN: Washington n'obtiendra pas de mobilisation contre Pékin

par Jean Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le 26e Sommet de l'ASEAN ayant pour thème "Notre peuple, notre communauté, notre vision" a été inauguré le 27 avril dans la capitale malaisienne Kuala Lumpur.
 
Lors de ce sommet, les dirigeants des dix pays membres de l'ASEAN discuteront des orientations et des mesures destinées à continuer d'impulser l'édification de la Communauté de l'ASEAN en 2015. Il s'agira aussi de discuter de l'élaboration de la Vision de l'ASEAN pour l'après 2015, de l'amélioration de l'appareil et du mode de travail, du renforcement des relations extérieures du bloc régional et de son rôle central, de ses défis et de leur traitement. Enfin, ils échangeront des considérations à propos de la situation régionale et internationale. , a-t-il poursuivi.

Devant les dirigeants de l'ASEAN, le Premier ministre malaisien Najib Razak a insisté à plusieurs reprises sur l'objectif de l'ASEAN centré sur le peuple, qui demande aux pays membres une bonne gouvernance pour améliorer les conditions de vie de leurs citoyens, accélérer le développement durable, promouvoir l'autonomisation des femmes, et créer davantage d'opportunités pour tous. Il a également insisté sur la nécessité de régler de façon pacifique les désaccords dans la région, y compris les revendications de souveraineté dans les zones maritimes dite de la Mer orientale en évitant d'aggraver les tensions. Selon lui, les dernières évolutions ont accru les préoccupations concernant la question de la Mer Orientale et témoignent de l'importance des lignes de transport international pour le commerce international. Il est nécessaire que l'ASEAN règle ces évolutions de façon constructive et positive.

Derrière ces considérations officielles, que nous reprenons sans commentaire, se trouve un affrontement grandissant entre les Etats-Unis et la Chine. Celui-ci résulte de la volonté américaine de renforcer sa présence militaire et diplomatique dans la zone. Elle est contrée par une volonté chinoise d'affirmer sa propre présence. Les pays membres de l' ASEAN sont très sensibles aux interventions américaines. Beaucoup se considèrent comme des alliés des Etats-Unis. Néanmoins, ils ne veulent pas affronter, même dans les propos, le grand voisin chinois.

Un Otan asiatique?

Washington ne manque pas une occasion permettant de renforcer les antagonismes avec la Chine. Dans le cadre du « pivot vers l'Asie », il avait paru à beaucoup d'observateurs que Barack Obama rêvait de mettre en place un Otan asiatique composé sous le leadership américain d'un certain nombre des pays de l'ASEAN. Pour cela il compte beaucoup sur la volonté du Vietnam, des Philippines, de la Malaisie et de Brunei, notamment, de conserver des positions stratégiques en Mer de Chine.

Les jours précédents le sommet, la CIA a fait circuler des photos satellites montrant une flottille de bateau chinois draguant du sable autour du Mischief Reef, atoll corallien proche des Philippines et réclamé par Manille. L'objectif serait d'y construire une ile artificielle dotée d'un aéroport dont la Chine se réserverait l'usage.

Le président des Philippines Benigno Aquino a de son côté relayé des protestations de Manille concernant des menaces exercées par des garde-côtes chinois à l'encontre de flottilles de pèche. Il a laissé entendre que la Chine voulait se donner les bases d'une présence permanente en Mer de Chine.

Les Philippines et Manille, fortement incitées par Washington, souhaitaient que le Sommet soit l'occasion d'une forte réaction à l'égard de la Chine, pouvant éventuellement prendre la forme de menaces d'affrontements navals. Mais les autres membres de l'ASEAN sont très attachés à conserver de bonnes relations avec Pékin, diplomatiques mais aussi commerciales. Par ailleurs ils s'intéressent moins que les Philippines et la Malaisie aux questions de souveraineté en Mer de Chine

Il semble donc, au soir du premier jour du sommet, que celui-ci se bornera à recommander la mise en place d'un code de bonne conduite visant à protéger la paix en Mer de Chine. Les discussions sur les termes de celui-ci avaient commencé en 2013. Elles risqueront de se poursuivre encore un certain temps, au grand déplaisir des Etats-Unis.

En marge du Sommet, il faut noter que plusieurs islamistes soupçonnés de préparer des attentats à Manille et se réclamant d'Al Qaida en Asie ont été arrêtes. Le risque n'est pas mineur, vu que la Malaisie est en majorité musulmane. Des centaines de djihadistes malais et indonésiens auraient déjà rejoint l'Etat islamique en Syrie.

PS. Voir un compte rendu du sommet à la date du 28 avril, publié par le World Socialist Web Site. Il nous parait très objectif

http://www.wsws.org/en/articles/2015/04/28/asea-a28.html

Note

Wikipedia Asean http://fr.wikipedia.org/wiki/Association_des_nations_de_l%27Asie_du_Sud-Est

Jean Paul Baquiast

samedi, 02 mai 2015

7ème SOMMET DES AMÉRIQUES

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7ème SOMMET DES AMÉRIQUES
Cuba retrouve la famille et le Venezuela reste la brebis galeuse

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Le 7ème Sommet des Amériques s’est déroulé les 10 et 11 avril au Panama. C'est déjà en soi un sommet historique car il est le premier sommet des Amériques à accueillir Cuba. C'est donc le premier signe visible sur le plan international du  rapprochement cubano-étasunien dont on parle depuis des mois et qui fut annoncé en décembre. 


Une rencontre directe entre les présidents Raul Castro et Barack Obama a été réalisée. Le duel idéologique entre les deux pays est cependant loin d'être clos. Cuba est donc toujours sur la sellette mais moins que le Venezuela, en pleine crise économique. Des antigouvernementaux vénézuéliens ont été judicieusement invités, entre autres Mitzy Capriles et Lilian Tintori, les épouses respectives des opposants Antonio Ledezma, le maire de Caracas, et Leopoldo Lopez, tous deux actuellement incarcérés. 28 organisations internationales vont demander au Venezuela présidé par Nicolas Maduro de cesser « d’intimider et de harceler » les défenseurs des droits de l’homme et 19 ex-présidents latino-américains réclament la libération des « prisonniers politiques » vénézuéliens. De son côté le professeur d’université panaméen, Olmedo Beluche, l’un des organisateurs d’un autre événement parallèle, le Sommet des Peuples, estime que le Forum de la société civile est « manipulé » par les États-Unis.


En fait, le 9 mars, Barack Obama a signé un décret que l'on a très peu commenté en Europe mais qui a fait beaucoup de bruit en Amérique latine. Ce décret déclare que le Venezuela constitue une « menace extraordinaire et inhabituelle pour la sécurité nationale et la politique extérieure des États-Unis ». Le décret a été signé dans un double contexte : les accusations officielles du gouvernement vénézuélien d'un coup d'état organisé par les Etats-Unis avec de jeunes officiers vénézuéliens qui auraient été déjoué en janvier mais aussi dans celui de la politique intérieure américaine, Obama cherchant par ce décret à endiguer l’opposition de la majorité parlementaire républicaine au rétablissement des pleines relations diplomatiques avec La Havane.


Ce qui est certain c'est que le département d'Etat a conféré cette année toute son importance au 7ème Sommet des Amériques. Obama semble vouloir donner cette année un relief particulier et une impulsion nouvelle grâce à ce sommet. Avec les années, elle était devenue une institution endormie. 


Le Sommet des Amériques, avait été fondée à l’initiative des États-Unis sous la présidence de Bill Clinton, en 1994 à Miami. Lors du premier sommet, Cuba était exclu, 34 chefs d’État latino-américains y avaient participé puis lancé ce qui fait toujours partie du grand objectif stratégique pour les Etats-Unis dans le sous-continent, la création progressive d'une vaste zone de libre-échange des Amériques (ZLEA ou, ALCA selon son sigle espagnol). 


De l’Alaska à la Terre de Feu, cette zone devait constituer un marché de 850 millions d’habitants. Avec le traité Trans-Pacifique et le prochain traité Trans-Atlantique, la ZLEA constitue un maillon clef de la pax americana mondialiste en préparation.


Or, cette ambition d'une vaste zone de libre-échange regroupant toute l'Amérique du Sud fut torpillée au 4ème Sommet des Amériques, de Mar del Plata, en 2005 en Argentine.  Ce fut l’opposition féroce et le résultat de l’influence alors des présidents vénézuélien et argentin, Hugo Chavez et Nestor Kirchner, mais aussi les conséquences des ambitions régionales du Brésil qui signifièrent la fin du grand rêve américain et du projet de la ZLEA, défendu alors par un président étasunien George W. Bush, très isolé et critiqué sur la scène internationale. Aux deux Sommets des Amériques suivants, le 5ème en 2009 à Puerto España (Trinité-et-Tobago) et le 6ème en 2012 à Carthagène (Colombie), les États-Unis étaient déjà représentés par Barack Obama mais mus de divisions internes très fortes (Venezuela, Argentine et Brésil). Aucun de ces deux sommets ne put émettre un communiqué final, le principal obstacle ayant été l’exclusion de Cuba exigée par les États-Unis et l’embargo imposé à l’île par Washington depuis 1962. Ce fut la cause principale de l’absence de consensus et ce sont ces deux échecs successifs des Sommets des Amériques qui expliquent en grande partie la volonté d'Obama de détendre l'atmosphère avec La Havane. De plus, le Venezuela de l'après Chavez est très affaibli et n'a plus aucun charisme mais Dilma Roussef malgré sa victoire électorale de 2014 vient aussi de subir des manifestations populaires anti-gouvernementales très violentes. L'Argentine ne va pas non plus très bien : récession interne et problèmes de corruption endémique de ses ministres. 


Le revirement des Etats-Unis sur Cuba a modifié les rapports de force à l'intérieur du sommet même si indéniablement l’influence régionale des États-Unis a rétréci et limité les marges de manœuvre étatsunienne dans la région. En revanche les Etats-Unis veulent en tout cas la peau du Venezuela. Or, pour l'instant, l’Amérique latine continue d'appuyer le Venezuela même si la Colombie souhaite un changement de régime à Caracas et que le Pérou ou le Chili le font du bout des lèvres. En levant son interdit à l’intégration de Cuba à la plus haute instance de concertation interaméricaine, Washington a rouvert sur le continent des voies de dialogue politiques et économiques possibles qu’une solidarité latino-américaine inattendue, renforcée l'année dernière par le scandale des écoutes de Roussef lui fermait graduellement.

 
Toute la vision du leadership étasunien a été illustrée par le thème de ce 7ème Sommet des Amériques, « Prospérité avec équité », manière en fait de refourguer le projet du libre-échangisme total à l'échelle continental, en somme  qu’on reparle encore de la ZLEA, qu'on remette une fois de plus sur le tapis les ambitions du premier sommet de Miami, d'un grand marché continental, fût-ce sous un autre nom alors que de l'autre côté de l'Atlantique, le traité transatlantique se négocie toujours dans le plus grand secret.

Hillary Clinton, avenir du système?

Hillary Clinton, avenir du système?

suivi d'un entretien avec les Antigones

Méridien Zéro a proposé une soirée très féminine puisque la 1ère partie revient avec notre invité Patrick Gofman, secondé par Maurice Gendre, sur l'itinéraire de celle qui devrait sans doute être la championne du parti démocrate aux prochaines élections présidentielles des Etats-Unis et peut-être la première présidente de ce pays. DAns une deuxième partie, nous revenons avec deux membres des Antigones sur le bilan et les perspectives d'action de ce groupe de militantes.

A la barre et à la technique, Gérard Vaudan et Wilsdorf.

Comme d'habitude, cette émission est retransmise par nos mis de RBN et Kebeka Liberata (quoique le serveur de RBN semble moyennement opérationnel...).

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Pour écouter:

http://www.meridien-zero.com/archive/2015/03/20/emission-n-226-hillary-clinton-avenir-du-systeme-5586983.html

vendredi, 01 mai 2015

12 Unanswered Questions About The Baltimore Riots That They Don’t Want Us To Ask

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12 Unanswered Questions About The Baltimore Riots That They Don’t Want Us To Ask

Why did the Baltimore riots seem like they were perfectly staged to be a television event?  Images of police vehicles burning made for great television all over the planet, but why were there abandoned police vehicles sitting right in the middle of the riot zones without any police officers around them in the first place?  Why was the decision made ahead of time to set a curfew for Tuesday night and not for Monday night?  And why are Baltimore police officers claiming that they were ordered to “stand down” and not intervene as dozens of shops, businesses and homes went up in flames?  Yes, the anger over the death of Freddie Gray is very real.  Police brutality has been a major problem in Baltimore and much of the rest of the nation for many years.  But could it be possible that the anger that the people of Baltimore are feeling is being channeled and manipulated for other purposes?  The following are 12 unanswered questions about the Baltimore riots that they don’t want us to ask…

#1 Why are dozens of social media accounts that were linked to violence in Ferguson now trying to stir up violence in Baltimore?…

The data mining firm that found between 20 and 50 social media accounts in Baltimore linked to the violence in Ferguson, Mo. is now reporting a spike in message traffic in Washington D.C., Philadelphia and New York City, with “protesters” trying to get rides to Baltimore for Tuesday night.

The firm, which asked to remain anonymous because it does government work, said some of the suspect social media accounts in Baltimore are sending messages to incite violence. While it is possible to spoof an account, to make it look like someone is one place and really is in another, that does not fully explain the high numbers.

#2 Who was behind the aggressive social media campaign to organize a “purge” that would start at the Mondawmin Mall at precisely 3 PM on Monday afternoon?…

The spark that ignited Monday’s pandemonium probably started with high school students on social media, who were discussing a “purge” — a reference to a film in which laws are suspended.

Many people knew “very early on” that there was “a lot of energy behind this purge movement,” Baltimore City Councilman Nick Mosby told CNN on Tuesday. “It was a metaphor for, ‘Let’s go out and make trouble.'”

#3 Even though authorities had “credible intelligence” that gangs would be specifically targeting police officers on Monday, why weren’t they more prepared?  On Tuesday, the captain of the Baltimore police tried to make us believe that they weren’t prepared because they were only anticipating a confrontation with “high schoolers”

Police Capt. John Kowalczyk said the relatively light initial police presence was because authorities were preparing for a protest of high schoolers. A heavy police presence and automatic weapons would not have been appropriate, he said. Kowalczyk said police made more than 200 arrests — only 34 of them juveniles.

#4 Where were the Baltimore police on Monday afternoon when the riots exploded?  During the rioting, CNN legal analyst Jeffrey Toobin said that the “disappearance of the police for hours this afternoon is something that is going to haunt this city for decades”.

#5 Why are police officers in Baltimore claiming that they were instructed to “stand down” during the rioting on Monday afternoon?…

Police officers in Baltimore reportedly told journalists that they were ordered by Mayor Stephanie Rawlings-Blake not to stop looters during yesterday’s riots.

Rawlings-Blake, who waited 5 hours before even making a statement on the unrest, was already under intense critcism for saying that violent mobs were provided with “space” to “destroy” during riots which took place on Saturday.

One Baltimore shopkeeper said that he actually called the police 50 times asking for help and never got any assistance at all.  Other business owners reported similar results.  This is so similar to what we saw back during the Ferguson riots.

 

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#6 Why was the decision made ahead of time to set a curfew on Tuesday night but not on Monday night?

#7 Why were so many police vehicles conveniently parked along the street in areas where the worst violence happened?  After the destruction of a number of police vehicles on Saturday night, the Baltimore police had to know that they were prime targets.  So why were there even more police vehicles available for rioters to destroy on Monday?  And where were the cops that should have been protecting those vehicles?

#8 Why is an organization funded by George Soros stirring up emotions against the police in Baltimore?

#9 Why is CNN bringing on “commentators” that are promoting violence in Baltimore?…

Marc Lamont Hill, a Morehouse College professor and regular CNN commentator, embraced radical violence in the streets during an interview Monday on CNN.

“There shouldn’t be calm tonight,” Hill told CNN host Don Lemon as riots raged in the streets of Baltimore.

“Black people are dying in the streets. We’ve been dying in the streets for months, years, decades, centuries. I think there can be resistance to oppression.”

#10 Why did Baltimore Mayor Stephanie Rawlings-Blake initially tell reporters that a decision was made on Saturday to give “those who wished to destroy space to do that”?

#11 Why were rioters given hours to cause mayhem before a state of emergency was finally declared on Monday?  Maryland Governor Larry Hogan seems to think that Mayor Rawlings-Blake waited far too long to declare a state of emergency.  Just check out what he told one reporter

I‘ve been in daily communication with the mayor and others in the city and our entire team has been involved from day one. Frankly, this was a Baltimore city situation. Baltimore city was in charge. When the mayor called me, which quite frankly we were glad that she finally did, instantly we signed the executive order. We already had our entire team prepared.

We were all in a command center and second floor of the state house in constant communication and we were trying to get in touch with the mayor for quite some time. She finally made that call and we immediately took action. 

#12 Does the fact that the mayor of Baltimore has very close ties to the Obama administration have anything to do with how events unfolded during the riots?  The following is from Infowars.com

Rawlings-Blake was one of three mayors who provided broad input into President Obama’s Task Force on 21st Century Policing, which advocates the federalization of police departments across the country by forcing them to adhere to stricter federal requirements when they receive funding.

“The federal government can be a strong partner in our efforts in build better relationships between the police and community,” she said in written testimony before the task force.

That would explain her inaction to stop the rioting when it began: by allowing it to spiral out of control, the mayor and her friends at the Justice Dept. could use the unrest to justify the expansion of federal power into local law enforcement, which would also allow her to receive more funding.

And why did it take Barack Obama several days to publicly condemn the violence in Baltimore?  Why didn’t he stand up and say something on Monday when the riots were at their peak?

Something doesn’t smell right about all of this.  Much of the violence could have been prevented if things had been handled differently.

 

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In the end, who is going to get hurt the most by all of this?  It will be the African-American communities in the heart of Baltimore that are already suffering with extremely high levels of unemployment and poverty.

I wish that we could all just learn to come together and love one another.  Over the past few days, I have seen a whole lot of “us vs. them” talk coming from all quarters.  This kind of talk is only going to reinforce the cycle of mistrust and violence.

Sadly, I believe that this is just the beginning of what is coming to America.  The following are some tweets that show the mayhem and destruction that we have been witnessing in Baltimore the past few days…

10:31 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : baltimore, états-unis, actualité, émeutes | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Baltimore et le krach multiracial américain

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Baltimore et le krach multiracial américain
 
Il y a 400 ans que les Noirs vivent en Amérique, et on ne peut pas dire que ce gros pays donné en modèle à tout le monde ait su les intégrer.
 
Ecrivain
Ex: http://www.bvoltaire.fr

Il y a 400 ans que les Noirs vivent en Amérique, et on ne peut pas dire que ce gros pays donné en modèle à tout le monde ait su les intégrer. Ce sont les mêmes qui, après, viennent nous expliquer que nous n’aurons aucun problème, en République, pour intégrer toute l’Afrique et tout l’islam. Il n’y a qu’à faire partir les Français qui restent, on s’y emploie avec ferveur.

Pour savoir ce qui s’est passé à Baltimore, je déconseille bien sûr la télé et je conseille PrisonPlanet.com qui explique et montre dans un anglais très simple la situation apocalyptique du pays de l’Oncle Tom (et non plus Sam). On y trouve les analyses de Paul Craig Roberts, de Paul Watson, de l’excellent Michael Snyder dont le blog (TheEconomicCollapseBlog.com) recense scrupuleusement la catastrophe économique en cours. Population remplacée et consentante, économie en ruine, destruction non créatrice, destruction des villes par le cancer des banlieues, le suburban sprawl (lisez Dean Kunstler) : on assiste là-bas à un écroulement synthétique, peut-être encore plus frappant qu’en France et en Europe.

À Baltimore, donc, un Noir a été tabassé et tué par la police. La police est folle en Amérique, elle y a tous les pouvoirs et elle tue cent fois plus que les terroristes : on y tue 1.400 Américains par an (chiffres donnés par Paul Craig Roberts sur son blog) et on a emprisonné 2,4 millions d’Américains, car il faut rentabiliser les prisons privatisées – et les méchants détenus vieillissent !

La suite était facile à prévoir ; à Los Angeles, on avait tué des Blancs et des Coréens, mais les commerçants coréens étaient armés et ils avaient riposté (ils n’avaient pas nos bonnes manières !) ; on lynche les Blancs, femmes et gosses y compris, on saccage les vitrines, on pille les magasins, on détruit les voitures qui circulent, on passe tout le monde à tabac.

La police Bisounours tout d’un coup, sur ordre d’Obama, se met à rappeler que la Constitution permet de manifester ! Et de brûler, et de tuer, et de démolir tout le reste. Tout semble normal, et les Blancs encore vivants rasent le trottoir, comme dans les rues de Paris.

On rappelle aussi sur PrisonPlanet.com que les démocrates ukrainiens ne prennent plus de gants : grimés en nazis, avec casques et croix gammées, ils brûlent vif leurs victimes dans le Donbass. Vous avez les films de ces barbecues humains. L’Occident d’Obama, Hollande et Merkel joue aujourd’hui son rôle : il aide les islamistes partout, il aide les nazillons partout, il aide les racailles partout. Mais il va s’écrouler, monnaies d’abord.

On espère toutefois que l’incapable et impassible Obama ne sortira pas blanc comme neige de cette histoire de fous. Dans un monde occidental transformé en terrifiante dystopie, qui n’attend que le prochain krach monétaire et boursier pour plonger dans la barbarie préhistorique qu’annonçaient Freud et Einstein, on ne peut que se féliciter d’avoir de tels politiciens, de tels démographes et de tels journalistes.