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dimanche, 03 octobre 2010

Gli intellettuali tedeschi e la crisi di Weimar

Gli intellettuali tedeschi e la crisi di Weimar

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

In tempo di crisi – economica, politica, sociale e culturale -, gli intellettuali possono costituire un faro nella nebbia per i cittadini “comuni”? E, se lo possono, lo devono anche?

Qual è il loro ruolo, esattamente, nel contesto della società? È giusto aspettarsi da loro che siano la nostra coscienza critica? O forse non commettiamo l’errore, quando essi – specialmente in tempi di crisi – ci additano la Luna, di guardare il dito anziché la Luna, ossia di prendere troppo alla lettere ciò che essi dicono, invece di cogliere lo spirito che li muove e l’orizzonte cui aspirano e che cercano di dischiudere, per sé e per noi?

È facile fraintenderli, quando li si prende alla lettera: come nel caso dei surrealisti. Tutto essi volevano, tranne che fondare una scuola; il loro credo fondamentale era la rivolta contro ogni sistema, quindi anche contro il surrealismo. E invece che cosa fa il pubblico, davanti agli intellettuali che contestano un sistema ormai agonizzante? Li innalza sugli altari di un nuovo sistema; li promuove a profeti di una nuova religione – che essi lo vogliano o no. E, anche se lo vorrebbero – come nel caso di Spengler, di cui tra poco parleremo – non è detto che noi rendiamo loro un buon servizio, accontentandoli; certamente non lo rendiamo a noi stessi.

Tutte queste domande e queste considerazioni ci sono venute alla mente rileggendo un famoso brano del libro di H. Kohn (I Tedeschi, traduzione italiana Edizioni di Comunità, Milano, 1963), dedicato agli intellettuali tedeschi di fronte al nazismo.

Non è un brano molto breve, tuttavia ci sembra indispensabile riportarlo integralmente, per non correre il rischio di falsare, semplificandolo, il pensiero dell’Autore; dopo di che svilupperemo le nostre riflessioni, portandole dal piano storico contingente (la crisi della Repubblica di Weimar e l’avvicinarsi del nazismo al potere) a quello della riflessione storico-filosofica generale, per cercar di trarne qualche utile insegnamento per il presente.

«In poco più di un decennio gli intellettuali furono in grado di condurre il popolo tedesco nell’abisso. Non ci sarebbero riusciti se non fossero stati preceduti da generazioni di preparazione, in cui germanofilismo e antioccidentalismo erano divenuti sempre più caratteristici del pensiero nazionale. Nell’ultimo stadio il nazionalismo tedesco respinse non solo la civiltà occidentale, ma anche la validità della vita civile. «Il nuovo nazionalismo – ammonì Ernest Robert Curtius nel 1931 – vuole buttar via non solo il diciannovesimo secolo, attualmente tanto calunniato, bensì addirittura tutte le tradizioni storiche». I pensatori nazionalisti francesi – Charles Maurras,o Maurice Barrès – non si spinsero mai fino al punto di rivoltarsi contro la civiltà. In Germania gli antintellettuali non erano plebaglia, ma intellettuali di primo piano, uomini spesso di gusti raffinati e di grande erudizione.

Mettendosi a considerare ogni cosa dall’angolo visuale tedesco, essi si convinsero che la civiltà occidentale fosse dappertutto profondamente minata come in Germania. Partendo da osservazioni parziali arrivarono alle conclusioni più estreme. Identificarono la situazione tedesca, com’era peraltro da essi interpretata, con quella dell’umanità, addirittura con quella dell’universo. Gottfried Benn non dubitava che il periodo quaternario dell’evoluzione geologica stessa approssimandosi alla fine, che l’homo sapiens stesse diventando sorpassato. Nessuna espressione era tanto forte da riuscire a manifestare tutto l’odio nutrito per la civiltà occidentale, il liberalismo, l’umanitarismo. La filosofia di Martin Heidegger, la dottrina politica di Carl Schmitt, la teologia di Karl Barth contribuirono per parte loro a convincere gli intellettuali che l’umanità aveva raggiunto una svolta decisiva, una crisi senza precedenti causata dal liberalismo. Questi intellettuali guardavano dall’alto in basso l’Occidente con lo stesso disprezzo più tardi manifestato dai capi nazisti. Allo stesso tempo si mostravano arrogantemente sicuri che il pensiero tedesco, proprio per la sua consapevolezza della crisi, fosse l’unico degno della nuova epoca storica. […]

“La comprensione classica della tradizione, così viva in Goethe, fu perduta negli anni trenta in Germania come in Russia. L’arte divenne ‘popolare’, ‘nuova’ e ‘utilitaria’; la forma non contò più. Nadler si sentì autorizzato a criticare Goethe perché «un uomo come lui non poteva trasformare un popolo». Ora il popolo si stava «trasformando»; perlomeno i suoi portavoce se ne vantavano. Un periodico molto stimato, Hochschule und Ausland, dedicato al mantenimento dei contatti fra le università tedesche e quelle straniere, nell’aprile del 1937 cambiò testata assumendo il nuovo nome di Geist der Zeit (Spirito dei tempi). Il suo editoriale dichiarò con appropriata modestia: «Non c’è alcuna nazione in Europa, e non ce n’è mai stata alcuna al di fuori della Grecia, in cui lo spirito è così vivo come nell’odierna Germania». Ma gli intellettuali tedeschi sbagliavano scambiando il loro spirito dei tempi con l’effettivo spirito del tempo. Nella loro cieca antipatia per l’Occidente essi interpretavano erroneamente la storia. […]

Moeller, Spengler e Jünger ritenevano che la guerra perduta si sarebbe trasformata in vittoria, se i tedeschi si fossero resi conto di rappresentare lo spirito dei tempi – Moeller aveva iniziato la sua attività come critico letterario e principale traduttore tedesco di Dostoevskij. La guerra comunque lo trasformò da uomo di cultura in pensatore politico. Nel Diritto dei popoli giovani, apparso all’inizio del 1919, egli chiedeva che fosse riconosciuto il diritto all’espansione delle giovani nazioni, che avevano idee nuove, mentre il decrepito Occidente non era altro che una continuazione del sorpassato diciottesimo secolo. Fra i popoli giovani era la Prussia che avrebbe assunto la funzione di guida. «Verrà il momento in cui tutti i popoli giovani, in cui tutti coloro che si sentono giovani, riconosceranno nella storia prussiana la più bella, la più nobile, la più virile storia politica dei popoli europei». […]

“Nel 1923, due anni prima di suicidarsi, Moeller pubblicò il suo libro più autorevole, Das Dritte Reich. Il titolo non può essere tradotto con ‘Terzo Impero’. Il Reich è nella sua essenza molto più di un impero. Ci sono più imperi, c’è un unico Reich. «Il nazionalismo tedesco – scriveva Moeller – è un campione del Reich finale: sempre ricco di promesse, mai concluso… C’è un unico Reich, come c’è un’unica Chiesa. Gli altri pretendenti al titolo non possono essere altro che uno stato, una comunità o una setta. Esiste solo Il Reich». Creando il Reich, i tedeschi non agivano per se stessi, ma per l’Europa. Il loro Reich era urgentemente necessario perché la civiltà occidentale aveva non elevato, bensì degradato l’umanità. «Circondato dal mondo in sfacelo che è il mondo vittorioso di oggi, il tedesco cerca la sua salvezza. Cerca di preservare quei valori imperituri, che sono tali per propria natura. Cerca di assicurare la loro permanenza nel mondo riconquistando il rango a cui hanno diritto i loro difensori. Allo stesso tempo combatte per la causa dell’Europa, per ogni influenza europea che si irradia dalla Germania in quanto centro dell’Europa… L’ombra dell’Africa si proietta sull’Europa. È nostro compito fare da sentinella sulla soglia dei valori».

Moeller definiva il Reich «una vecchia bella idea tedesca che risale al Medioevo, ed è associata all’attesa di un regno millenario». Esso sarebbe stato genuinamente socialista e antiliberale. Il terzo capitolo del libro portava come motto le significative parole «Col liberalismo il popolo perisce».Il socialismo tedesco non aveva nulla in comune col materialismo storico marxista e con la lotta di classe internazionale. Era la solidarietà nazionale di un popolo sfruttato dalla plutocrazia straniera; era l’idea dell’altruismo al servizio del bene comune anziché del perseguimento del profitto personale. «Dove finisce il marxismo – scriveva Moeller – lì comincia il socialismo: un socialismo tedesco, la cui missione è quella di soppiantare nella storia intellettuale dell’umanità ogni specie di liberalismo. Il socialismo tedesco non è compito di un Terzo Reich. È piuttosto la sua base». Moeller accettava la rivoluzione antiliberale e antiplutocratica di Lenin come un tipo di socialismo nazionale peculiarmente adatto alla Russia e si dichiarava propenso a collaborare con essa purché dirigesse la sua espansione verso l’Asia e ammettesse la legittimità della missione della Germania nelle terre di confine russo-tedesche.[…]

Oswald Spengler in Preussentum und Sozialismus [Prussianesimo e Socialismo] (1919) fece un altro passo avanti: «Solo quello tedesco è vero socialismo! Il vecchio spirito prussiano e il socialismo, benché oggi sembrino contrari l’uno all’altro, sono in realtà tutt’uno». Questo libro relativamente beve di Spengler rimase sconosciuto al pubblico inglese, ma attrasse molti più lettori tedeschi dei due grossi volumi della sua opera principale. Le idee esposte in Preussentum und Sozialismus furono, come egli stesso confessò, il nucleo (Kern) da cui si sviluppò tutta la sua filosofia. Il libro è basilare non solo per la conoscenza dell’autore, ma anche per la conoscenza del periodo weimariano. Naturalmente Spengler contrapponeva i suoi prussiani socialisti agli individualisti inglesi attaccati al denaro, che facevano ognuno per conto proprio, mentre i primi erano legati l’uno all’altro. Quando gli inglesi lavoravano, lo facevano per smania di successo; i prussiani lavoravano invece per amore del dovere da compiere. In Inghilterra era la ricchezza che contava, in Prussia l’azione. Il socialismo marxista era profondamente influenzato dalle idee inglesi. Marx infatti, al pari degli inglesi, non ragionava dal punto di vista dello stato, bensì da quello della società. Per lui, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità. A detta di Spengler, Federico Guglielmo I, il re-soldato prussiano del diciottesimo secolo, e non Marx, era stato «il primo socialista cosciente». Soltanto la Prussia era uno stato reale, e quindi uno stato socialista. «Qui, nel senso stretto del termine, non esistevano individui isolati. Chiunque viveva nell’ambito del sistema, che funzionava con la precisione di una buona macchina, faceva parte della macchina».

Spengler andava a ritroso nella storia per spiegare la differenza fra inglesi e prussiani; il carattere inglese derivava dai saccheggiatori vichinghi, quello prussiano dai devoti Cavalieri Teutonici. Malgrado lo storicismo, ora brillante, ora falso, gli scritti di Spengler intendevano essere non distaccate opere di studio, bensì littérature engagée [letteratura impegnata]. Il suo Preussentum und Sozialismus era infatti un fervido appello alla gioventù tedesca, lanciato nell’ora della disfatta e dello sconforto. «Nella nostra lotta – egli scriveva nell’introduzione – conto su quella parte della nostra gioventù che sente profondamente, al di là di tutti gli oziosi discorsi quotidiani, […] l’invincibile forza che continua a marciare in avanti malgrado tutto, una gioventù […] romana nell’orgoglio di servire, nella umiltà di comandare, preoccupata di chiedere non diritti dagli altri, bensì doveri da se stessa, senza eccezione, senza distinzione, per realizzare il destino che sente nel suo intimo. In questa gioventù vive una tacita coscienza che integra l’individuo nel tutto, nella nostra cosa più sacra e profonda, un patrimonio di duri secoli, che distingue noi fra tutti i popoli, noi, i più giovani, gli ultimi della nostra civiltà. A questa gioventù io mi rivolgo. Possa essa comprendere quello che ora diventa il suo compito futuro. Possa essere fiera di aver l’onore di affrontarlo.»

L’appello di Spengler alla gioventù si faceva ancora più fervido alla fine del libro: «Chiamo a raccolta coloro che hanno midollo nelle ossa e sangue nelle vene… Diventate uomini! Non vogliamo più discorsi sulla cultura, sulla cittadinanza mondiale, sulla missione spirituale della Germania. Abbiamo bisogno di durezza, di ardito scetticismo, di una classe di dominatori socialisti. Ancora una volta: socialismo significa potenza, potenza, ancora e sempre potenza. La via verso la potenza è chiaramente segnata: i più valenti lavoratori tedeschi devono unirsi ai migliori rappresentanti del vecchio spirito politico prussiano, gli uni e gli altri decisi a creare uno stato rigidamente socialista, una democrazia nel senso prussiano, gli uni e gli altri legati da un comune senso del dovere, dalla coscienza di un grande compito, dalla volontà di obbedire per dominare, di morire per vincere, dalla forza di compiere tremendi sacrifici per realizzare il nostro destino, per essere quel che siamo e quel che senza di noi non esisterebbe. Noi siamo socialisti. Noi non intendiamo esser stati socialisti invano».

La filosofia spengleriana della storia era concisamente esposta in un brano di Preussentum und Sozialismus: «La guerra è eternamente la più alta forma di esistenza umana, e gli stati esistono per la guerra; essi manifestano per la guerra essi manifestano la loro preparazione alla guerra. Anche se un’umanità stanca e smorta desiderasse rinunciare alla guerra, essa diventerebbe, anziché il soggetto, l’oggetto della guerra per cui e con cui gli altri guerreggerebbero».

Lo stesso tema viene ripetuto nel secondo volume del Tramonto dell’Occidente, apparso nel 1922: «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace.» E nell’ultimo libro pubblicato, undici anni dopo, Anni della decisione, egli affermava con ripetitività quasi hitleriana: «La lotta è il fatto fondamentale della vita, è la vita stessa. La noiosa processione di riformatori, capaci di lasciare come loro unico monumento montagne di carta stampata, è ora finita… La storia umana in un periodo di civiltà altamente evoluta è storia di potenze politiche. La forma di questa storia è la guerra. La pace è soltanto […] una continuazione della guerra con altri mezzi […] Lo stato è l’essere in forma di un popolo, che è da esso costituito e rappresentato, per guerre attuali e possibili». Questa filosofia della storia ultrasemplificata portava la priorità della politica estera su quella interna, tipica di Ranke, a un estremo palesemente assurdo. Civiltà e religioni, istituzioni e costituzioni, economia e benessere nazionale non contavano più nella storia; non rimaneva che la politica estera, ridotta essa stessa alla guerra e alla preparazione della guerra. Le guerre non erano più eccezioni o incidenti, erano il fatto centrale della vita e della storia, il loro significato e coronamento. La prima nazione moderna che l’aveva compreso era, secondo Spengler, la Prussia, che su questa consapevolezza basava la sua pretesa di supremazia nella nuova era. «La Prussia – egli scriveva – è soprattutto priorità incondizionata della politica estera su quella interna, la cui sola funzione è quella di mantenere la nazione in forma per quel compito.»[…]

Le teorie politiche proclamate da Spengler col tono di un veggente furono esposte, in veste più erudita, da Carl Schmitt, professore di diritto internazionale e costituzionale all’università di Bonn, per due decenni il più autorevole maestro di diritto pubblico in Germania. I suoi scritti, legati a quelli di Spengler, introdussero una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale. […]

La guerra era un momento importante della vita politica e della vita in genere; l’inevitabile relazione amico-nemico dominava ogni settore. «I punti culminanti della grande politica – sosteneva Schmitt – sono quelli in cui si discerne il nemico con estrema concreta chiarezza come nemico». Questa teoria politica corrispondeva al presunto primordiale istinto combattivo dell’uomo che tendeva a considerare chiunque si frapponesse all’appagamento dei suoi desideri come un avversario da toglier di mezzo. La tradizionale arte di governo dell’Occidente, invece, consisteva nel trovare e vie e i mezzi per superare l’istinto primitivo col negoziato paziente, col compromesso, con uno sforzo di reciprocità, soprattutto con l’osservanza di leggi universalmente vincolanti.

La totalitaria filosofia di guerra fu così riassunta da Schmitt: «La guerra è l’essenza di ogni cosa. La natura della guerra totale determina la forma naturale dello stato totale». Comprensibilmente, egli nutriva un profondo disprezzo per il diciannovesimo secolo, «un secolo pieno d’illusione e frode.» Nel suo stato ideale di quest’epoca, ovviamente immune da illusioni e frode, la vita nella sua interezza era subordinata al conflitto armato. in tale ordine d’idee Karl Alexander von Müller, direttore della Historische Zeitschrift [Rivista storica], l’organo ufficiale degli storici tedeschi, concluse, nel numero di settembre del 1939, un editoriale sulla guerra con le parole: «In questa battaglia d’animi troviamo il settore delle trincee che è affidato alla scienza storica della Germania. Essa monterà la guardia. La parola d’ordine è stata data da Hegel: lo spirito dell’universo ha dato l’ordine di avanzare; tale ordine sarà ciecamente obbedito».

In questo brano di riflessione storica emergono, a nostro avviso, alcuni tipici difetti della storiografia d’impostazione liberal-democratica, primo fra tutti quello di presentarsi (e percepirsi essa stessa) come la storiografia, immune da passioni e pregiudizi, e perciò titolata a giudicare, davanti al tribunale della storia, tutte le altre ideologie. Intendiamoci: molti giudizi sono pertinenti e perfettamente condivisibili. Giusto porre l’accento sulle responsabilità politiche ed etiche degli intellettuali tedeschi dell’epoca di Weimar nell’aver spianato la strada al nazismo; giusto evidenziare la rozzezza e le eccessive semplificazioni della filosofia della storia di Moeller, Spengler, Schmitt; e giusto anche aver richiamato il fatto che il successo di quella impostazione dei problemi politici, nella cultura e nella società, non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata una lunga preparazione, da parte di generazioni e generazioni di intellettuali che li avevano preceduti.

In che cosa verte, dunque, la nostra perplessità, davanti all’approccio storiografico di Kohn? Essenzialmente nel fatto che egli, tutto preso dal suo pathos moralistico, sembra essersi scordato che il compito primo e fondamentale del mestiere di storico (e anche dello storico del pensiero) non è quello di giudicare, ma di sforzarsi di capire. Il che, naturalmente – giova ripeterlo, onde evitare il solito malinteso tanto caro ai moralisti in male fede – non significa giustificare alcunché. Nel caso specifico, a Kohn è sfuggita la comprensione di quanto di originale poteva esservi nella “rivoluzione conservatrice” che ha coinvolto, oltre a Moeller, Spengler e Schmitt, anche personalità della statura di Heidegger, Jünger, Frobenius, Gogarten e, per certi versi, anche Jung; per non parlare, fuori della Germania, di Hamsun, Pound, Evola, Gentile, Ungaretti, Pirandello, Unamuno, Barrés, Eliade, … dobbiamo continuare? E occorre ricordare che alcuni di questi intellettuali, anche fra quelli particolarmente presi di mira da Kohn, ebbero il coraggio di opporsi al nazismo, o ad aspetti significativi della sua politica, esponendosi in prima persona? Il tanto vituperato Spengler rifiutò di aderire al fanatico antisemitismo nazista e avrebbe subito gravi rappresaglie, se la morte non fosse giunta in buon punto, nel 1936, per metterlo al riparo da esse. Jünger, col romanzo Sulle scogliere di marmo, presentò apertamente Hitler come un malvagio e dissennato timoniere che porta la nave della Germania verso la catastrofe; e suo figlio venne ucciso dai nazisti. Heidegger, come è noto, si dissociò al regime e si chiuse in un cupo silenzio, pur non schierandosi esplicitamente contro di esso.

Ma, si dirà, Kohn non accusa costoro di essere stati dei cripto-nazisti, bensì di avere oggettivamente spianato il terreno della cultura tedesca all’influsso nefasto del nazismo. Senonché, è proprio quell’avverbio, oggettivamente (che ricorda, guarda caso, altri climi politici e altre condanne spicciole), che ci sembra ingeneroso e poco corretto dal punto di vista del metodo. In un’epoca di crisi, morale non meno che materiale, gli intellettuali vanno anch’essi a tentoni e non li si può accusare con troppa disinvoltura di aver preparato le catastrofi a venire, istituendo per loro una sorta di retroattività morale. Lungi da noi voler minimizzare le responsabilità degli intellettuali; senz’altro alcuni di essi sono stati dei cattivi maestri, e ne portano tutta intera la responsabilità. Occorre, però, distinguere bene i due piani della riflessione: quello storico e quello etico. Se il libro di Kohn, I Tedeschi, vuol essere un libro di storia, è necessario che del metodo storico accetti le premesse e l’impostazione generale: la priorità rivolta allo sforzo di comprendere, innanzitutto. E non ci pare che egli abbia fatto molto in tal senso. Non ha tenuto conto del punto di vista interno della società tedesca nel periodo della Repubblica di Weimar; e non ha tenuto conto della frustrazione e del risentimento, in parte comprensibili, con i quali il popolo tedesco visse quel periodo, dopo che a Versailles Clemenceau era riuscito a far prevalere la logica della pace “punitiva” e dopo che l’inflazione aveva polverizzato non solo i risparmi e i frutti del lavoro di una intera generazione, ma anche – apparentemente – le speranze di rinascita del popolo tedesco.

Se la famosa pugnalata alla schiena è, infatti, un mito bello e buono, inventato dalla cricca militare prussiana per scaricare sulla società civile, e specialmente sulla socialdemocrazia, la responsabilità della sconfitta in quella guerra che essa aveva fortemente voluto, considerandola – a torto o a ragione – necessaria e inevitabile per la sopravvivenza della Germania come grande potenza, vi sono pochi dubbi – a nostro parere – che il popolo tedesco, al termine della prima guerra mondiale (e, di nuovo, con la crisi della Ruhr del 1923), fu vittima di una grossa ingiustizia storica. Se si fa astrazione da ciò, si rischia di non capire come le parole e gli slogan degli intellettuali conservatori tedeschi ebbero tanta risonanza e tanto successo, specialmente fra la gioventù, negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Lo storico, invece – anche e, per certi aspetti, soprattutto lo storico del pensiero – deve sempre e rigorosamente contestualizzare. Non si può comprendere Lutero fuori del proprio tempo e della propria situazione storica; non si può comprendere Kant; non si può comprendere Hegel o Nietzsche o Heidegger. In verità, non si può comprendere niente; a meno che si immagini che il pensiero non vada in nulla debitore della società che lo esprime.

Un’altra riflessine di carattere generale che ci sembra opportuno fare è che la sconfitta, così nella vita del singolo individuo come in quella dei popoli, è portatrice di una crisi che può anche essere salutare, perché costringe, letteralmente, a prendere atto di una inadeguatezza e a elaborare delle strategie per superare le presenti difficoltà. La società tedesca non era stata certo l’unica responsabile della tragedia del 1914-1918; ma, alla fine della guerra, si trovò dalla parte del perdente e quindi, automaticamente, dalla parte del torto (cosa che si sarebbe ripetuta di lì a ventisette anni). Una clausola del trattato di pace imponeva ai rappresentanti della Germania di firmare una dichiarazione in cui la loro patria si assumeva, tutta intera, la responsabilità di quanto era accaduto: e questo sotto la minaccia di una ripresa immediata della guerra. Mai si era vista una simile prepotenza giuridica, per giunta sotto l’ipocrita bandiera del democraticismo wilsoniano; ma Erzberger dovette trangugiare, a nome del suo popolo, l’amaro boccone (cosa che ne provocò la condanna a morte da parte dell’estremismo nazionalista: condanna che fu eseguita, pochi anni dopo, da un giovane assassino).

Né basta. Per tre volte – nel 1919, nel 1923 e nel 1929 – l’economia tedesca fu travolta dalla terribile bufera della crisi economica, che spazzò il risparmio e creò milioni e milioni di disoccupati. Ogni volta la società tedesca riusciva a rimettersi in piedi, compiendo degli sforzi veramente titanici, un intervento esterno la rigettava a terra. Nel 1919 la pace punitiva – con le mutilazioni territoriali, la perdita delle colonie e della marina, l’enorme indennità di guerra da pagare agli Alleati; nel 1923 l’occupazione francese e belga del bacino minerario della Ruhr, che rendeva ancor più impossibile soddisfare quei pagamenti; nel 1929 il crollo della borsa di Wall Street, cui gli speculatori della finanza ebraica newyorkese non furono certo estranei: e la terza volta spianò la strada a Hitler. C’è da chiedersi, semmai, come poté resistere tanto a lungo la società tedesca alle sirene del nazismo, con la comunità internazionale ben decisa a distruggerne la volontà di ripresa e la Lega delle Nazioni, comodo paravento giuridico-morale delle plutocrazie britannica e francese, a fare da cane da guardia alle assurde decisioni politiche e territoriali della Conferenza di Versailles.

Tale il contesto del decennio preso in esame da Kohn (1923-33), e che egli chiama “la marcia verso l’abisso”, attribuendone tutta la responsabilità morale agli intellettuali tedeschi, che avrebbero dissennatamente predicato la violenza e l’esasperazione del darwinismo sociale e del machiavellismo politico. Egli conclude affermando che, per opera di Schmitt e di Spengler, penetrò nella cultura tedesca “una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale”. Omette però di precisare che la Germania, a causa della miopia e dell’egoismo delle classi dirigenti britanniche, francesi e americane, da oltre un decennio non viveva affatto in una situazione “normale”; che potenti forze economico-finanziarie internazionali facevano di tutto per tenerla in una condizione di cronica e disperata anormalità.

Così pure, quando Spengler afferma che «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace», Kohn omette di precisare che questa visione cinica e brutale della vita umana era stata ampiamente diffusa (anche se non “inventata”) dall’egoismo e dalla cecità dei vincitori di Versailles. Era stata la loro politica ad insegnare agli sconfitti la dura legge del vae victis, la legge inumana secondo la quale la pace è un lusso degli oziosi e degli imbelli o un’utopia dei sognatori, e che la sola cosa che conta è la forza. Per giunta, i brutali vincitori avevano ammantato tale machiavellismo con le vesti rispettabili dell’umanitarismo wilsoniano e della democrazia liberale, sanzionando a posteriori, con una capillare opera di propaganda e di diplomazia internazionale, il puro e semplice trionfo della forza. Come avrebbero fatto col processo di Norimberga (e con quello di Tokyo) alla fine della seconda guerra mondiale. Un processo ove i crimini tedeschi (e giapponesi) vennero giudicati dagli stessi vincitori, ragion per cui nessun fiatò sui crimini anglo-americani e sovietici.

Ma veniamo allo specifico, e cioè alle caratteristiche fondamentali della cultura tedesca nel decennio 1923-33, in cui Kohn vede solo e unicamente una marcia verso l’abisso, una preparazione del diluvio nazista, mentre gli sfuggono completamente le esigenze autentiche e legittime di rinnovamento che si esprimevano in quel contesto e con quella tradizione storica: elementi dai quali non è lecito prescindere, a meno di fare un’operazione culturale altamente anti-storica. Non entriamo ora nel merito della filosofia di Mueller, Spengler, Schmitt, e neanche di Jünger, Wittgenstein o Gogarten, perché ciò esulerebbe, e di molto, dai limiti che ci siamo prefissi. Desideriamo piuttosto far notare che questi autori (che, fra l’altro, non vanno arbitrariamente omologati, pena il perdere di vista la specificità intellettuale di ciascuno d’essi) testimoniano uno sforzo del pensiero per trovare nuove certezze dopo le tremende delusioni e i traumi del periodo precedente e, al tempo stesso, un tentativo di ridefinire lo spazio culturale della Mitteleuropa, e anche dell’Europa in generale, nei confronti di un “Occidente” sentito ormai come una realtà socio-culturale al tempo stesso obsoleta e artificiale. In questo senso, furono i promotori di un’autocritica del pensiero europeo: autocritica, ripetiamo, nata dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale; mentre nulla di simile fu neanche immaginato dalla cultura delle nazioni vincitrici, tutte intente a godersi il bottino di Versailles e, semmai, a giocare cinicamente sulle rivalità dei nuovi, piccoli Stati dell’Europa centrale (Cecoslovacchia, Jugoslavia, ecc.) sorti dallo sfacelo del vecchio ordine europeo.

È vero, gli intellettuali inglesi e francesi degli anni Venti non hanno seminato idee ultranazionaliste e guerrafondaie. Non ve n’era bisogno: la cultura di quei Paesi si godeva la meravigliosa sensazione di aver affrontato e superato una dura prova e, alla fine, di aver contribuito al trionfo della giustizia, della libertà, della democrazia. Gli intellettuali tedeschi – e, a maggior ragione, quelli austriaci o dell’area ex asburgica: Musil, Roth, Kafka, von Rezzori, Cioran – erano costretti a interrogarsi non solo sulla sconfitta e sulla disintegrazione della vecchia Mitteleuropa, ma anche sull’incipiente disintegrazione dello spirito europeo, sulla stessa disintegrazione dell’Io come soggetto unitario della coscienza. Avevano a che fare con una situazione estrema, e fecero del loro meglio per trovare un raggio di luce, una indicazione che li guidasse fuori dalla crisi, verso il futuro. Possiamo discutere la saggezza della via da essi battuta e dissentire da alcuni aspetti della loro polemica; tuttavia, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che non tutte le ragioni della loro polemica erano infondate.

Quando Spengler, ad esempio, affermava che “per Marx, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità”, non ci sembra che dicesse cosa molto lontana dal vero. Anche l’osservazione che nel vecchio sistema prussiano erano impliciti elementi di socialismo e che, ad ogni modo, in Germania il senso dei valori collettivi prevaleva sull’individualismo, non era peregrina; come non era infondata la convinzione di Moeller che il regime bolscevico, per le sue istanze profonde antiplutocratiche, fosse – nonostante le apparenze – ideologicamente più vicino agli interessi e al sentire del popolo tedesco di quanto non lo fossero i sistemi liberal-democratici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. La polemica degli intellettuali tedeschi contro l’umanitarismo era sicuramente riprovevole, così come pericoloso il loro continuo soffiare sul fuoco del nazionalismo esasperato. Però bisogna rendersi conto di una cosa: essi sentivano il dovere di ricorrere a ogni mezzo per rimettere in piedi un popolo che era stato ridotto in ginocchio e che era tuttora vittima di una ingiustizia storica. La spettacolare crescita economica, culturale e sociale tedesca del Secondo Reich, fra il 1871 e il 1918 (sì, anche sociale: con una delle legislazioni del lavoro fra le più avanzate al mondo) era stata letteralmente strangolata da una coalizione mondiale che adesso era ben decisa a impedire che la Germania si rialzasse e tornasse a mettere in pericolo i privilegi acquisiti dalle potenze mondiali più vecchie.

Gli storici come H. Kohn, implicitamente o esplicitamente, rimproverano agli intellettuali tedeschi di quel periodo di non aver fatto nulla per convogliare le simpatie dei loro compatrioti verso gli istituti della democrazia. Così facendo, sembrano dimenticare un elemento fondamentale, che oggi si ripete in Iraq e in varie altre parti del mondo: la democrazia era stata, per la Germania, non il punto d’arrivo di un processo interno e naturale, ma la conseguenza della sconfitta e, in un certo senso, una imposizione dei vincitori. Quantomeno, gli Alleati si erano serviti della Repubblica democratica di Weimar per presentare al popolo tedesco il conto salatissimo della Conferenza di Versailles e della pace-capestro. Portata al potere dal doppio trauma della disfatta militare e del diktat dei vincitori, la Repubblica non era amata e, soprattutto, non era sentita come parte della tradizione storica nazionale.

Si può, naturalmente, chiamare in causa la scarsa maturità politica della classe dirigente tedesca e, più in generale, la tradizione filistea del ceto medio, sempre pronto – in particolare dal 1870 – ad applaudire il vincitore di turno, ossia qualunque governo capace di portare al successo l’affermazione dello Stato con la forza materiale. Questo, certamente, era il peccatum originalis del Secondo Reich: il “patto col diavolo” della borghesia tedesca che, nel 1866 e nel 1870, si era inchinata davanti alla politica di Bismarck solo perché, sul piano della pura forza, si era dimostrata vincente. Ma sarebbe antistorico e ingeneroso addossare tutte le colpe agli intellettuali che, negli anni Venti, dovettero procedere alla liquidazione del vecchio mondo e delle vecchie certezze a prezzi fallimentari; e che, contemporaneamente, dovettero cercare in tutta fretta di fornire nuovi orientamenti al loro popolo traumatizzato e demoralizzato.

Più in generale, ci sembra che la vicenda della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” segni l’ultimo sprazzo di vitalità della cultura europea, l’ultima sua reazione davanti alle forze inumane e omologanti che oggi chiamiamo della globalizzazione, ma che già allora venivano percepite come una americanizzazione del vecchio continente, capace di fare piazza pulita, in nome della borsa, del profitto e dei metodi tayloristici di organizzazione scientifica del lavoro, dell’anima stessa del vecchio continente. Si può interpretare l’opera filosofica di Mueller, Spengler, Schmitt e Jünger come una reazione, aristocratica e popolare al tempo stesso, contro gli aspetti più minaccioso della modernità, primo fra tutti il prevalere delle logiche del mercato su quelle della società civile, della quantità sulla qualità, dell’egoismo privato sull’interesse collettivo. In breve, si può interpretare il pensiero di quegli autori come un tentativo disperato, nostalgico e anti-moderno, di ripristinare i valori tramontati dell’aristocrazia davanti al trionfo degli aspetti più massificanti ed egoistici dello spirito borghese.

Certo, vi furono molte, troppe scorie all’interno di un tale tentativo; vi fu un uso irresponsabile di slogan aggressivi e razzisti; vi fu un disprezzo esagerato e irragionevole per tutto quanto, a torto o a ragione, era considerato parte di quello spirito borghese e, pertanto, parte di quel quadro internazionale che aveva penalizzato così duramente la patria tedesca. Vi furono molte semplificazioni assurde, molti facili luoghi comuni e un uso troppo disinvolto di formule dall’intrinseco potere distruttivo, che avrebbero sospinto alla catastrofe la società tedesca per la seconda volta nel volgere di una sola generazione. Però, lo ripetiamo, occorre tener conto della particolare situazione tedesca, anche sul piano internazionale. Da una parte la Russia staliniana, dall’altra i vincitori di Versailles, chiusi e sordi a ogni senso di equità e di saggezza, protesi unicamente a sfruttare al massimo i loro immensi imperi coloniali e i profitti giganteschi che la guerra stessa, come nel caso degli Stati Uniti, aveva portato loro.

La Germania, pertanto, si sentiva come una cittadella assediata e abbandonata alle sue risorse; o trovava in se stessa la forza di reagire, o sarebbe perita, forse per sempre. Questo videro i Mueller, gli Spengler e gli Schmitt. Bisognerebbe tener conto del dramma che stava vivendo il loro popolo, prima di giudicarli con una severità dettata dal senno di poi e da una serie di pregiudizi ideologici che derivano proprio dal fatto che la storia, una volta di più, l’hanno fatta e continuano a farla i vincitori. Basti pensare al destino riservato, circa vent’anni dopo, al cuore della Germania, la vecchia Prussia: smembrata, svuotata dei suoi abitanti con una spietata pulizia etnica, cancellata totalmente dalla carta geografica. Vae victis, appunto: gli Alleati, nel 1945 come nel 1918, non amavano i toni rozzi e aggressivi alla Spengler, ma agivano esattamente in base a quei criteri, brutali e machiavellici, che tanto li disgustavano quando a teorizzarli erano i Tedeschi.

Atlantis, Kush & Turan: Prehistoric Matrices of Ancient Civilizations in the Posthumous Work of Spengler

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Atlantis, Kush, & Turan:
Prehistoric Matrices of Ancient Civilizations in the Posthumous Work of Spengler

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Editor’s Note:

In this brief review essay, Robert Steuckers provides an introduction to Spengler’s writings on prehistory and early world history, which contain surprising theses, stunning metaphors, and quite interesting departures from The Decline of the West. These writings are almost unknown because they were never finished and were only published in incomplete form decades after Spengler’s death.

Oswald Spengler’s morphologies of cultures and civilizations in his most famous work, The Decline of the West, are widely known. However, Spengler’s positions changed after the publication of Decline. So claims the Italian Germanist Domenico Conte in his recent work on Spengler, Catene di civiltà: Studi su Spengler (Napoli: Ed. Scientifiche Italiane, 1994), which is a thorough study of the posthumous texts published by Anton Mirko Koktanek, especially Frühzeit der Weltgeschichte [The Early Period of World History], which gathers the fragments of a projected but never completed work The Epic of Man.

In his reflections immediately following the publication of The Decline of the West, Spengler distinguished four stages of human history which he designates simply as A, B, C, and D. Stage “A” lasted a hundred thousand years, from the first phases of hominization up to the lower Paleolithic. It is during this stage that the importance of the “hand” for man appears. It is, for Spengler, the age of Granite.

Stage “B” lasted ten thousand years and lay in the lower Paleolithic, between 20,000 and 7,000–6,000 BCE. During this age the concept of interior life was born: “then appeared the true soul, as unknown to men of stage ‘A’ as it is to a newborn baby.” In this stage in our history man was first “able to produce traces/memories” and to understand the phenomenon of death. For Spengler, it is the age of the Crystal. Stages “A” and “B” are inorganic.

Stage “C” lasted 3,500 years: it starts with the Neolithic era, running from the sixth millennium BCE to the third. It is the stage when thought started to be articulated in language and the most complex technological achievements became possible. In this stage are born “cultures” whose structures are “amoebic.”

Stage “D” is that of “world history” in the conventional sense of the term. It is the stage of “great civilizations,” each of which lasts approximately 1,000 years. These civilizations have structures of the “vegetable” type. Stages “C” and “D” are organic.

Spengler preferred this psychological-morphological classification to the classifications imposed by the directors of museums who subdivided the prehistoric and historical eras according to materials used for the manufacture of tools (stone, bronze, iron). In keeping with this psychological-morphological classification, Spengler also rejected the idea of the “slow, phlegmatic transformation” or continuous development, rooted in the progressivist ideas of the 18th century.

Evolution, for Spengler, is a matter of catastrophic blows, sudden irruptions, unexpected changes. “The history of the world proceeds from catastrophe to catastrophe, without any concern with whether we are able to understand them. Today, following H. de Vries, we call them ‘mutations.’ It is an internal transformation, which affects without warning all the members of a species, without ‘cause,’ naturally, like everything else in reality. Such is the mysterious rhythm of the world” (Man and Technics). There is thus no slow evolution but abrupt “epochal” transformations. Natura facit saltus [Nature makes leaps—Ed.].

Three Culture-Amoebas

In stage “C,” where the matrices of human civilization actually emerge, Spengler distinguishes three “culture-amoebas”: Atlantis, Kush, and Turan. This terminology appears only in his posthumous writings and letters. The civilizational matrices are “amoebas” and not “plants” because amoebas are mobile, not anchored to a particular place. The amoeba is an organism that continuously pulsates along an ever-shifting periphery. Then the amoeba subdivides itself as amoebas do, producing new individualities that move away from the amoeba-mother. This analogy implies that one cannot delimit with precision the territory of a civilization of stage “C,” because its amoebic emanations can be widely dispersed in space, extremely far away from the amoeba-mother.

“Atlantis” is the “West” and extends from Ireland to Egypt. “Kush” is the “South-east,” an area ranging between India and the Red Sea. “Turan” is the “North,” extending from Central Europe to China. Spengler, explains Conte, chose this terminology recalling “old mythological names” in order not to confuse them with later historical regions of the “vegetable” type, which are geographically rooted and circumscribed, whereas they are dispersed and not precisely localized.

Spengler does not believe in the Platonic myth of Atlantis, the sunken continent, but notes that an ensemble of civilizational remnants are locatable in the West, from Ireland to Egypt. “Kush” is a name that one finds in the Old Testament to indicate the territory of the ancient Nubians, the area inhabited by the Kushites. But Spengler places the culture-amoeba “Kush” more to the East, in an area between Turkestan, Persia, and India, undoubtedly inspired by the anthropologist Frobenius. As for “Turan,” it is “North,” the Turanic high-plateau, which he thought was the cradle of the Indo-European and Ural-Altaic languages. It is from there that the migrations of “Nordic” peoples departed (Spengler is not without racial connotations) to descend on Europe, India, and China.

Atlantis: Hot and Mobile; Kush: Tropical and Content

Atlantis, Kush, and Turan are cultures bearing morphological principles emerging mainly in the spheres of religion and the arts. The religiosity of Atlantis “hot and mobile,” is centered on the worship of the dead and the preeminence of the ultra-telluric sphere. The forms of burials, notes Conte, testify to the intense relationship with the world of the dead: The tombs always have a high profile, or are monumental; the dead are embalmed and mummified; food is left or brought for them. This obsessional relationship with the chain of ancestors leads Spengler to theorize the presence of a “genealogical” principle. The artistic expressions of Atlantis, adds Conte, are centered on stone constructions, as gigantic as possible, made for eternity, signs of a feeling of life which is not turned towards a heroic surpassing of limits, but towards a kind of “inert complacency.”

Kush developed a “tropical” and “content” religion. The problem of ultra-telluric life is regarded with far less anxiety than in Atlantis, because in the culture-amoeba of Kush a mathematics of the cosmos dominates (of which Babylon will be the most imposing expression), where things are “rigidly given in advance.” Life after death is a matter of indifference. If Atlantis is a “culture of the tombs,” in Kush tombs have no significance. One lives and procreates but forgets the dead. The central symbol of Kush is the temple, from which priests scrutinize celestial mathematics. If in Atlantis, the genealogical principle dominates, if the gods and goddesses of Atlantis are father, mother, son, daughter, in Kush, the divinities are stars. A cosmological principle dominates.

Turan: The Civilization of Heroes

Turan is the civilization of heroes, animated by a “cold” religiosity, centered on the mysterious meaning of existence. Nature is filled with impersonal powers. For the culture-amoeba of Turan, life is a battlefield: “for the man of the North (Achilles, Siegfried),” Spengler writes, “only life before death, the fight against destiny, counts.” The divine-human relationship is no longer one of dependence: “prostration ceases, the head remains high; there is ‘I’ (man) and you (gods).”

Sons guard the memory of their fathers but do not leave food for their corpses. There is no embalming or mummification in this culture, but cremation. The bodies disappear, are hidden in underground burials without monuments, or are dispersed to the four winds. All that remains of the dead is their blood in the veins of their descendants. Turan is thus a culture without architecture, where temples and burials have no importance and where only the terrestrial meaning of existence matters. Man lived alone, confronted with himself, in his house of wood or in his nomad’s tent.

The War Chariot

Spengler reserved his sympathy for the culture-amoeba of Turan, whose bearers were characterized by the love of adventure, implacable will power, a taste for violence, and freedom from vain sentimentality. They are “men of facts.” The various peoples of Turan were not bound by blood ties or a common language. Spengler does not utilize archaeological and linguistic research aiming to find the original fatherland of the Indo-Europeans or at reconstituting the source language of all the current Indo-European idioms: the bond which links the people of Turan is technical; it is the use of the war chariot.

In a lecture given in Munich on February 6th, 1934 entitled “Der Streitwagen und the Seine Bedeutung für den Gang der Weltgeschichte” (“The War Chariot and its Significance for the Course of World History”), Spengler explains why this weapon constitutes the key to understanding the history of the second millennium BCE It is, he says, the first complex weapon: One needs a war chariot (with 2 wheels and not a less mobile carriage with 4 wheels), a domesticated and harnessed animal, a meticulously trained warrior who will henceforth strike his enemies from above. With the war chariot is born a type of new man. The chariot is a revolutionary invention on the military plane, but also the formative principle of a new humanity. The warriors became professional because the techniques they had to handle were complex, and they came together as a caste of those who love risk and adventure; they made war the meaning of their life.

The arrival of these castes of impetuous “charioteers” upset very ancient orders: the Achaeans invaded Greece and settled in Mycenae; the Hyksos burst into Egypt. To the East, the Kassites descended on Babylon. In India, the Aryans bore down on the subcontinent, “destroyed the cities,” and settled on the ruins of the civilization of Mohenjo Daro and Harappa. In China, the Zhou arrived from the north, mounted on their chariots, like the Hyksos and their Greek counterparts.

From 1,200 BCE, warlike princes reigned in China, in India, and in the ancient world of the Mediterranean. The Hyksos and Kassites conquered two older civilizations of the South. Then three new civilizations carried by “dominating charioteers” emerged: the Greco-Roman, the Aryan civilization of India, and the Chinese civilization resulting from Zhou. These new civilizations, whose princes came from North, Turan, are “more virile and energetic that those born on banks of the Nile and Euphrates.” According to Spengler, however, these warlike charioteers sadly succumbed to the seductions of the softening South.

A Common Heroic Substrate

The theory of the rough simultaneity of the invasions of Greece, Egypt, India, and China was shared by Spengler and the sinologist Gustav Haloun. Both held that there is a common substrate, warlike and chariot-borne, of Mediterranean, Indian, and Chinese civilizations. It is a “heroic” civilization, as shown by the weapons of Turan. They are different from those of Atlantis. In addition to the chariot, they are the sword and the axe, which imply duels between combatants, whereas in Atlantis, the weapons are the bow and arrow, that Spengler judges “vile” because they make it possible to avoid direct physical confrontation with the adversary, “to look him right in the eyes.”

In Greek mythology, Spengler claims, the bow and arrows are remnants of earlier, pre-Hellenic influences: Apollo the archer originated in Asia Minor; Artemis is Libyan, as is Hercules. The javelin is also “telamon” [= Atlantid] while the jousting lance is “Turanic.” To understand these distant times, the study of the weapons is more instructive than that of kitchen utensils or jewels, Spengler concludes.

The Turanic soul also derives from a particular climate and a hostile landscape. Man must fight unceasingly against the elements, thus becomes harder, colder, more wintry. Man is not only the product of a “genealogical chain,” but equally of a “landscape.” Climatic rigor develops “moral strength.” The tropics soften the character, bringing us closer to a nature perceived as more matriarchal, supporting female values.

Spengler’s  late writings and correspondence thus show that his views changed after the publication of The Decline of the West, where he valorized Faustian civilization to the detriment primarily of ancient civilization. His focus on the “chariot” gives a new dimension to his vision of history: the Greeks, the Romans, the Indo-Aryans, and the Chinese found favor in his eyes.

In The Decline of the West the mummification of the Pharaohs was considered as the Egyptian expression of a will to duration, which he opposed to the oblivion implied by Indian cremation. Later, he disdained “telamon” mummification as an obsession with the beyond, indicating an incapacity to face terrestrial life. “Turanic” cremation, on the other hand, indicates a will to focus one’s powers on real life.

A Change of Optics Dictated by Circumstances?

Spengler’s polycentric, relativistic, non-Eurocentric, non-evolutionist conception of history in The Decline of the West fascinated researchers and anthropologists outside the circles of the German right, particularly Alfred Kroeber and Ruth Benedict. His emphasis on the major historical role of castes of charioteers gives his late work a more warlike, violent, mobile dimension than revealed in Decline.

Can one attribute this change of perspective to the situation of a vanquished Germany, which sought to ally itself with the young USSR (from a Eurasian-Turanian perspective?), with India in revolt against Great Britain (that he formerly included in “Faustian civilization,” to which he then gave much less importance), with China of the “great warlords,” sometimes armed and aided by German officers?

Did Spengler, by the means of his lecture on the charioteers, seek to give a common mythology to German, Russian, Chinese, Mongolian, and Indian officers or revolutionaries in order to forge a forthcoming brotherhood of arms, just as the Russian “Eurasianists” tried to give the newborn Soviet Russia a similar mythology, implying the reconciliation of Turco-Turanians and Slavs? Is the radical valorization of the “Turanic” chariot charge is an echo of the worship of “the assault” found in “soldatic nationalism,” especially of the Jünger brothers and Schauwecker?

Lastly, why didn’t Spengler write anything on the Scythians, a people of intrepid warriors, masters of equestrian techniques, who fascinated the Russians and undoubtedly, among them, the theorists of the Eurasiansm? Finally, is the de-emphasis on racial factors in late Spengler due to a rancorous feeling toward the English cousins who had betrayed Germanic solidarity? Was it to promote a new mythology, in which the equestrian people of the continent, which include all ethnic groups (Mongolian Turco-Turanians, descendants of the Scythians, Cossacks and Germanic Uhlans), were to combine their efforts against the corrupt civilizations of the West and the South and against the Anglo-Saxon thalassocracies?

Don’t the obvious parallels between the emphasis on the war chariot and certain theses in Man and Technics amount to a concession to the reigning futuristic ideology, insofar as Spengler gives a technical rather than a religious explanation of the Turanian culture-amoeba? These are topics that the history of ideas will have to clarify in-depth.

Source: Nouvelles de Synergies européennes, no. 21, 1996.

vendredi, 01 octobre 2010

Financièrement, la Première Guerre mondiale se termine dimanche

Financièrement, la Première Guerre mondiale se termine dimanche

Ce dimanche 3 octobre 2010, les Allemands pourront enterrer officiellement la Première Guerre mondiale. C’est en effet ce jour-là que l’Allemagne soldera définitivement sa dette héritée de la Grande Guerre, près d’un siècle après le début de celle-ci, rapporte le journal allemand Bild.

«Le montant restant à payer est de 69,9 millions d’euros, une somme prévue au point 2.1.1.6 du budget fédéral 2010, intitulé « Dettes réglées à l’étranger »», précise le quotidien. «La plupart de l’argent ira à des particuliers, des fonds de pensions et des sociétés d’emprunts obligataires, comme convenu dans le cadre du traité de Versailles», ajoute The Daily Telegraph.

Une dépêche AFP relayée par Cyberpresse.ca expliquait l’année dernière pourquoi, 92 ans après la fin du conflit, l’Allemagne continue à payer. En 1919, le traité de Versailles imposait aux Allemands le paiement de 132 milliards de marks-or. Ruiné et frappé par une grave crise économique au début des années 1920, puis par la Grande Dépression, le pays était cependant incapable de s’acquitter de ces colossales réparations. L’Allemagne avait alors emprunté pour satisfaire aux exigences du traité.

En 1932, le moratoire Hoover annulait finalement ces réparations, mais il restait encore à l’Allemagne à rembourser les emprunts contractés pour leur paiement avant cette date.

 

L’Allemagne nazie avait cessé les remboursements pendant la Seconde Guerre mondiale. A l’issue de celle-ci, l’Accord de Londres signé en 1953 entre la RFA et une vingtaine d’autres pays renvoyait à l’après-réunification la question des remboursements. La charge des intérêts incombant encore à l’Allemagne devait être réglée sur une période de vingt ans après la réunification, qui n’était alors qu’une hypothèse.

Le 3 octobre 1990, la RFA et la RDA se sont réunifiées, et le paiement des intérêts a repris. Ainsi, «entre 1990 et 2010, presque 200 millions d’euros ont été payés» par l’Allemagne à ses créanciers, affirmait fin 2009 Boris Knapp, le porte-parole de l’Agence financière allemande, en charge de la dette. Dimanche, pour le vingtième anniversaire de sa réunification, l’Allemagne tournera donc une nouvelle page de son histoire.

Slate

(Merci à Erwinn)

lundi, 27 septembre 2010

Evola & Spengler

Evola & Spengler

by Robert STEUCKERS

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

evola.jpg“I translated from German, at the request of the publisher Longanesi . . . Oswald Spengler’s vast and celebrated work The Decline of the West. That gave the opportunity to me to specify, in an introduction, the meaning and the limits of this work which, in its time, had been world-famous.” These words begin a series of critical paragraphs on Spengler in Julius Evola’s The Way of Cinnabar (p. 177).

Evola pays homage to the German philosopher for casting aside “progressivist and historicist fancies” by showing that the stage reached by our civilization shortly after the First World War was not an apex, but, on the contrary, a “twilight.” From this Evola recognized that Spengler, especially thanks to the success of his book, made it possible to go beyond the linear and evolutionary conception of history. Spengler describes the opposition between Kultur and Zivilisation, “the former term indicating, for him, the forms or phases of a civilization that is qualitative, organic, differentiated, and vital, the latter indicating the forms of a civilization that is rationalist, urban, mechanical, shapeless, soulless” (p. 178).

Evola admired the negative description that Spengler gives of Zivilisation but is critical of the absence of a coherent definition of Kultur, because, he says, the German philosopher remained the prisoner of certain intellectual schemes proper to modernity. “A sense of the metaphysical dimension or of transcendence, which represents the essence of all true Kultur, was completely lacking in him” (p. 179).

Evola also reproaches Spengler’s pluralism; for the author of The Decline of the West, civilizations are many, distinct, and discontinuous compared to one another, each one constituting a closed unit. For Evola, this conception is valid only for the exterior and episodic aspects of various civilizations. On the contrary, he continues, it is necessary to recognize, beyond the plurality of the forms of civilization, civilizations (or phases of civilization) of the “modern” type, as opposed to civilizations (or phases of civilization) of the “Traditional” type. There is plurality only on the surface; at bottom, there is a fundamental opposition between modernity and Tradition.

Then Evola reproaches Spengler for being influenced by German post-romantic vitalist and “irrationalist” strains of thought, which received their most comprehensive and radical expression in the work of Ludwig Klages. The valorization of life is vain, explains Evola, if life is not illuminated by an authentic comprehension of the world of origins. Thus the plunge into existentiality, into Life, required by Klages, Bäumler, or Krieck, can appear dangerous and initiate a regressive process (one will note that the Evolian critique distinguishes itself from German interpretations, according exactly to the same criteria that we put forward while speaking about the reception of the work of Bachofen).

Evola thinks this vitalism leads Spengler to say “things that make one blush” about Buddhism, Taoism, Stoicism, and Greco-Roman civilization (which, for Spengler, is merely a civilization of “corporeity”). Lastly, Evola does not accept Spengler’s valorization of “Faustian man,” a figure born in the Age of Discovery, the Renaissance and humanism; by this temporal determination, Faustian man is carried towards horizontality rather than towards verticality. Regarding Caesarism, a political phenomenon of the era of the masses, Evola shares the same negative judgment as Spengler.

spengler_oswald.jpgThe pages devoted to Spengler in The Path of Cinnabar are thus quite critical; Evola even concludes that the influence of Spengler on his thought was null. Such is not the opinion of an analyst of Spengler and Evola, Attilio Cucchi (in “Evola, Tradizione e Spengler,” Orion no. 89, 1992). For Cucchi, Spengler influenced Evola, particularly in his criticism of the concept of the “West”: by affirming that Western civilization is not the civilization, the only civilization there is, Spengler relativizes it, as Guénon charges. Evola, an attentive reader of Spengler and Guénon, would combine elements of the the Spenglerian and Guénonian critiques. Spengler affirms that Faustian Western culture, which began in the tenth century, has declined and fallen into Zivilisation, which has frozen, drained, and killed its inner energy. America is already at this final stage of de-ruralized and technological Zivilisation.

It is on the basis of the Spenglerian critique of Zivilisation that Evola later developed his critique of Bolshevism and Americanism: If Zivilisation is twilight for Spengler, America is the extreme-West for Guénon, i.e., irreligion pushed to its ultimate consequences. In Evola, undoubtedly, Spenglerian and Guénonian arguments combine, even if, at the end of the day, the Guénonian elements dominate, especially in 1957, when the edition of The Decline of the West was published by Longanesi with a Foreword by Evola. On the other hand, the Spenglerian criticism of political Caesarism is found, sometimes word for word, in Evola’s books Fascism Seen from the Right and the Men Among the Ruins.

Dr. H. T. Hansen, the author of the Introduction to the German edition of Men Among the Ruins (Menschen inmitten von Ruinen [Tübingen: Hohenrain, 1991]), confirms the sights of Cucchi: several Spenglerian ideas are found in outline in Men Among the Ruins, notably the idea that the state is the inner form, the “being-in-form” of the nation; the idea that decline is measured to the extent that Faustian man has become a slave of his creations; the machine forces him down a path from which he can never turn back, and which will never allow him any rest. Feverishness and flight into the future are characteristics of the modern world (“Faustian” for Spengler) which Guénon and Evola condemn with equal strength.

In The Hour of Decision (1933), Spengler criticizes the Caesarism (in truth, Hitlerian National Socialism) as a product of democratic titanism. Evola wrote the Preface of the Italian translation of this work, after a very attentive reading. Finally, the “Prussian style” exalted by Spengler corresponds, according to Hansen, with the Evolian idea of the “aristocratic order of life, arranged hierarchically according to service.” As for the necessary preeminence of Grand Politics over economics, the idea is found in both authors. Thus the influence of Spengler on Evola was not null, despite what Evola says in The Path of Cinnabar.

Source: Nouvelles de Synergies européennes no. 21, 1996.

Note: Evola’s The Path of Cinnabar is now available in English translation from Arktos Media.

dimanche, 26 septembre 2010

Carl Schmitt: The End of the Weimar Republic

Carl Schmitt (part III)

The End of the Weimar Republic

Ex: http://www.alternativeright.com/

Carl Schmitt (part III)  
 
 Adolf Hitler Accepts the Weimar Chancellorship From President Paul von Hindenburg, January 30, 1933

Carl Schmitt accepted a professorship at the University of Berlin in 1928, having left his previous position at the University of Bonn. At this point, he was still only a law professor and legal scholar, and while highly regarded in his fields of endeavor, he was not an actual participant in the affairs of state. In 1929, Schmitt became personally acquainted with an official in the finance ministry named Johannes Popitz, and with General Kurt von Schleicher, an advisor to President Paul von Hindenburg.

Schleicher shared Schmitt’s concerns that the lack of a stable government would lead to civil war or seizure of power by the Nazis or communists. These fears accelerated after the economic catastrophe of 1929 demonstrated once again the ineptness of Germany’s parliamentary system. Schleicher devised a plan for a presidential government comprised of a chancellor and cabinet ministers that combined with the power of the army and the provisions of Article 48 would be able to essentially bypass the incompetent parliament and more effectively address Germany’s severe economic distress and prevent civil disorder or overthrow of the republic by extremists.

Heinrich Bruning of the Catholic Center Party was appointed chancellor by Hindenburg. The Reichstag subsequently rejected Bruning’s proposed economic reforms so Bruning set about to implement them as an emergency measure under Article 48. The Reichstag then exercised its own powers under Article 48 and rescinded Bruning’s decrees, and Bruning then dissolved the parliament on the grounds that the Reichstag had been unable to form a majority government. Such was the prerogative of the executive under the Weimar constitution.

In the years between 1930 and 1933, Carl Schmitt’s legal writings expressed concern with two primary issues. The first of these dealt with legal matters pertaining to constitutional questions raised by the presidential government Schleicher had formulated. The latter focused on the question of constitutional issues raised by the existence of anti-constitutional parties functioning within the context of the constitutional system.

Schmitt’s subsequent reputation as a conservative revolutionary has been enhanced by his personal friendship or association with prominent radical nationalists like Ernst Jünger and the “National Bolshevist” Ernst Niekisch, as well as the publication of Schmitt’s articles in journals associated with the conservative revolutionary movement during the late Weimar period. However, Schmitt himself was never any kind of revolutionary. Indeed, he spoke out against changes in the constitution of Weimar during its final years, believing that tampering with the constitution during a time of crisis would undermine the legitimacy of the entire system and invite opportunistic exploitation of the constitutional processes by radicals. His continued defense of the presidential powers granted by Article 48 was always intended as an effort to preserve the existing constitutional order.

The 1930 election produced major victories for the extremist parties. The communists increased their representation in the Reichstag from 54 to 77 seats, and the Nazis from 12 to 107 seats. The left-of-center Social Democrats (SPD) retained 143 seats, meaning that avowedly revolutionary parties were now the second and third largest parties in terms of parliamentary representation. The extremist parties never took their parliamentary roles seriously, but instead engaged in endless obstructionist tactics designed to de-legitimize the republic itself with hopes of seizing power once it finally collapsed. Meanwhile, violent street fighting between Nazi and communist paramilitary groups emerged as the numbers of unemployed Germans soared well into the millions.

In the April 1932 presidential election, Hitler stood against Hindenburg, and while Hindenburg was the winner, Hitler received an impressive thirty-seven percent of the vote. Meanwhile, the Nazis had become the dominant party in several regional governments, and their private army, the SA, had grown to the point where it was four times larger than the German army itself.

Schmitt published Legality and Legitimacy in 1932 in response to the rise of the extremist parties. This work dealt with matters of constitutional interpretation, specifically the means by which the constitutional order itself might be overthrown through the abuse of ordinary legal and constitutional processes. Schmitt argued that political constitutions represent specific sets of political values. These might include republicanism, provisions for an electoral process, church/state separation, property rights, freedom of the press, and so forth. Schmitt warned against interpreting the constitution in ways that allowed laws to be passed through formalistic means whose essence contradicted the wider set of values represented by the constitution.

Most important, Schmitt opposed methods of constitutional interpretation that would serve to create the political conditions under which the constitution itself could be overthrown. The core issue raised by Schmitt was the question of whether or not anti-constitutional parties such as the NSDAP or KPD should have what he called the “equal chance” to assume power legally. If such a party were to be allowed to gain control of the apparatus of the state itself, it could then use its position to destroy the constitutional order.

Schmitt argued that a political constitution should be interpreted according to its internal essence rather than strict formalistic adherence to its technical provisions, and applied according to the conditions imposed by the “concrete situation” at hand. On July 19, 1932, Schmitt published an editorial in a conservative journal concerning the election that was to be held on July 31. The editorial read in part:

Whoever provides the National Socialists with the majority on July 31, acts foolishly. … He gives this still immature ideological and political movement the possibility to change the constitution, to establish a state church, to dissolve the labor unions, etc. He surrenders Germany completely to this group….It would be extremely dangerous … because 51% gives the NSDAP a “political premium of incalculable significance.”

The subsequent election was an extremely successful one for the NSDAP, as they gained 37.8 percent of the seats in the parliament, while the KPD achieved 14.6 percent. The effect of the election results was that the anti-constitutional parties were in control of a majority of the Reichstag seats.

On the advice of General Schleicher, President Hindenburg had replaced Bruning as chancellor with Franz von Papen on May 30. Papen subsequently took an action that would lead to Schmitt’s participation in a dramatic trial of genuine historic significance before the supreme court of Germany.

Invoking Article 48, the Papen government suspended the state government of Prussia and placed the state under martial law. The justification for this was the Prussian regional government’s inability to maintain order in the face of civil unrest. Prussia was the largest of the German states, containing two-thirds of Germany’s land mass and three-fifths of its population. Though the state government had been controlled by the Social Democrats, the Nazis had made significant gains in the April 1932 election. Along the way, the Social Democrats had made considerable effort to block the rise of the Nazis with legal restrictions on their activities and various parliamentary maneuvers. There was also much violent conflict in Prussia between the Nazis and the Communists.

Papen, himself an anti-Nazi rightist, regarded the imposition of martial law as having the multiple purposes of breaking the power of the Social Democrats in Prussia, controlling the Communists, placating the Nazis by removing their Social Democratic rivals, and simultaneously preventing the Nazis from becoming embedded in regional institutions, particularly Prussia’s huge police force.

The Prussian state government appealed Papen’s decision to the supreme court and a trial was held in October of 1932. Schmitt was among three jurists who defended the Papen government’s policy before the court. Schmitt’s arguments reflected the method of constitutional interpretation he had been developing since the time martial law had been imposed during the Great War by the Wilhelmine government. Schmitt likewise applied the approach to political theory he had presented in his previous writings to the situation in Prussia. He argued that the Prussian state government had failed in its foremost constitutional duty to preserve public order. He further argued that because Papen had acted under the authority of President Hindenburg, Papen’s actions had been legitimate under Article 48.

Schmitt regarded the conflict in Prussia as a conflict between rival political parties. The Social Democrats who controlled the state government were attempting to repress the Nazis by imposing legal restrictions on them. However, the Social Democrats had also been impotent in their efforts to control violence by the Nazis and the communists. Schmitt rejected the argument that the Social Democrats were constitutionally legitimate in their legal efforts against the Nazis, as this simply amounted to one political party attempting to repress another. While the “equal chance” may be constitutionally denied to an anti-constitutional party, such a decision must be made by a neutral force, such as the president.

As a crucial part of his argument, Schmitt insisted that the office of the President was sovereign over the political parties and was responsible for preserving the constitution, public order, and the security of the state itself. Schmitt argued that with the Prussian state’s failure to maintain basic order, the situation in Prussia had essentially become a civil war between the political parties. Therefore, imposition of martial law by the chancellor, as an agent of the president, was necessary for the restoration of order.

Schmitt further argued that it was the president rather than the court that possessed the ultimate authority and responsibility for upholding the constitution, as the court possessed no means of politically enforcing its decisions. Ultimately, the court decided that while it rather than the president held responsibility for legal defense of the constitution, the situation in Prussia was severe enough to justify the appointment of a commissarial government by Papen, though Papen had not been justified in outright suspension of the Prussian state government. Essentially, the Papen government had won, as martial law remained in Prussia, and the state government continued to exist in name only.

During the winter months of 1932-33, Germany entered into an increasingly perilous situation. Papen, who had pushed for altering the constitution along fairly strident reactionary conservative lines, proved to be an extraordinarily unpopular chancellor and was replaced by Schleicher on December 3, 1932. But by this time, Papen had achieved the confidence of President von Hindenburg, if not that of the German public, while Hindenburg’s faith in Schleicher had diminished considerably. Papen began talks with Hitler, and the possibility emerged that Hitler might ascend to the chancellorship.

Joseph Bendersky summarized the events that followed:

By late January, when it appeared that either Papen or Hitler might become chancellor, Schleicher concluded that exceptional measures were required as a last resort. He requested that the president declare a state of emergency, ban the Nazi and Communist parties, and dissolve the Reichstag until stability could be restored. During the interim Schleicher would govern by emergency decrees. …

This was preferable to the potentially calamitous return of Papen, with his dangerous reform plans and unpopularity. It would also preclude the possibility that as chancellor Hitler would eventually usurp all power and completely destroy the constitution, even the nature of the German state, in favor of the proclaimed Third Reich. Had Hindenburg complied with Schleicher’s request, the president would have denied the equal chance to an anti-constitutional party and thus, in Schmitt’s estimate, truly acted as the defender of the constitution. … Having lost faith in Schleicher, fearing civil war, and trying to avoid violating his oath to uphold the constitution, Hindenburg refused. At this point, Schleicher was the only leader in a position to prevent the Nazi acquisition of power, if the president had only granted him the authorization. Consequently, Hitler acquired power not through the use of Article 48, but because it was not used against him.

[emphasis added]

The Schleicher plan had the full support of Schmitt, and was based in part on Schmitt’s view that “a constitutional system could not remain neutral towards its own basic principles, nor provide the legal means for its own destruction.” Yet the liberal, Catholic, and socialist press received word of the plan and mercilessly attacked Schleicher’s plan specifically and Schmitt’s ideas generally as creating the foundation for a presidential dictatorship, while remaining myopically oblivious to the immediate danger posed by Nazi and Communist control over the Reichstag and the possibility of Hitler’s achievement of executive power.

On January 30, 1933, Hitler became chancellor. That evening, Schmitt received the conservative revolutionary Wilhelm Stapel as a guest in his home while the Nazis staged a torchlight parade in Berlin’s Brandenburg Gate in celebration of Hitler’s appointment. Schmitt and Stapel discussed their alarm at the prospect of an imminent Nazi dictatorship and Schmitt felt the Weimar Republic had essentially committed suicide. If President von Hindenburg had heeded the advice of Schleicher and Schmitt, the Hitler regime would likely have never come into existence.

Carl Schmitt: The Concept of the Political

Carl Schmitt (Part II)

The Concept of the Political

 
 
Carl Schmitt (Part II) Carl Schmitt, circa 1928

It was in the context of the extraordinarily difficult times of the Weimar period that Carl Schmitt produced what are widely regarded as his two most influential books. The first of these examined the failures of liberal democracy as it was being practiced in Germany at the time. Schmitt regarded these failures as rooted in the weaknesses of liberal democratic theory itself. In the second work, Schmitt attempted to define the very essence of politics.

Schmitt's The Crisis of Parliamentary Democracy was first published in 1923.* In this work, Schmitt described the dysfunctional workings of the Weimar parliamentary system. He regarded this dysfunction as symptomatic of the inadequacies of the classical liberal theory of government. According to this theory as Schmitt interpreted it, the affairs of states are to be conducted on the basis of open discussion between proponents of competing ideas as a kind of empirical process. Schmitt contrasted this idealized view of parliamentarianism with the realities of its actual practice, such as cynical appeals by politicians to narrow self-interests on the part of constituents, bickering among narrow partisan forces, the use of propaganda and symbolism rather than rational discourse as a means of influencing public opinion, the binding of parliamentarians by party discipline, decisions made by means of backroom deals, rule by committee and so forth.

Schmitt recognized a fundamental distinction between liberalism, or "parliamentarianism," and democracy. Liberal theory advances the concept of a state where all retain equal political rights. Schmitt contrasted this with actual democratic practice as it has existed historically. Historic democracy rests on an "equality of equals," for instance, those holding a particular social position (as in ancient Greece), subscribing to particular religious beliefs or belonging to a specific national entity. Schmitt observed that democratic states have traditionally included a great deal of political and social inequality, from slavery to religious exclusionism to a stratified class hierarchy. Even modern democracies ostensibly organized on the principle of universal suffrage do not extend such democratic rights to residents of their colonial possessions. Beyond this level, states, even officially "democratic" ones, distinguish between their own citizens and those of other states.

At a fundamental level, there is an innate tension between liberalism and democracy. Liberalism is individualistic, whereas democracy sanctions the "general will" as the principle of political legitimacy. However, a consistent or coherent "general will" necessitates a level of homogeneity that by its very nature goes against the individualistic ethos of liberalism. This is the source of the "crisis of parliamentarianism" that Schmitt suggested. According to the democratic theory, rooted as it is in the ideas of Jean Jacques Rousseau, a legitimate state must reflect the "general will," but no general will can be discerned in a regime that simultaneously espouses liberalism. Lacking the homogeneity necessary for a democratic "general will," the state becomes fragmented into competing interests. Indeed, a liberal parliamentary state can actually act against the "peoples' will" and become undemocratic. By this same principle, anti-liberal states such as those organized according to the principles of fascism or Bolshevism can be democratic in so far as they reflect the "general will."

The Concept of the Political appeared in 1927. According to Schmitt, the irreducible minimum on which human political life is based.

The political must therefore rest on its own ultimate distinctions, to which all action with a specifically political meaning can be traced. Let us assume that in the realm of morality the final distinctions are between good and evil, in aesthetics beautiful and ugly, in economics profitable and unprofitable. […]

The specific political distinction to which political actions and motives can be reduced is that between friend and enemy. … In so far as it is not derived from other criteria, the antithesis of friend and enemy corresponds to the relatively independent criteria of other antitheses: good and evil in the moral sphere, beautiful and ugly in the aesthetic sphere, and so on. 

These categories need not be inclusive of one another. For instance, a political enemy need not be morally evil or aesthetically ugly. What is significant is that the enemy is the "other" and therefore a source of possible conflict.

The friend/enemy distinction is not dependent on the specific nature of the "enemy." It is merely enough that the enemy is a threat. The political enemy is also distinctive from personal enemies. Whatever one's personal thoughts about the political enemy, it remains true that the enemy is hostile to the collective to which one belongs. The first purpose of the state is to maintain its own existence as an organized collective prepared if necessary to do battle to the death with other organized collectives that pose an existential threat. This is the essential core of what is meant by the "political." Organized collectives within a particular state can also engage in such conflicts (i.e. civil war). Internal conflicts within a collective can threaten the survival of the collective as a whole. As long as existential threats to a collective remain, the friend/enemy concept that Schmitt considered to be the heart of politics will remain valid.

Schmitt has been accused by critics of attempting to drive a wedge between liberalism and democracy thereby contributing to the undermining of the Weimar regime's claims to legitimacy and helping to pave the way for a more overtly authoritarian or even totalitarian system of the kind that eventually emerged in the form of the Hitler dictatorship. He has also been accused of arguing for a more exclusionary form of the state, for instance, one that might practice exclusivity or even supremacy on ethnic or national grounds, and of attempting to sanction the use of war as a mere political instrument, independent of any normative considerations, perhaps even as an ideal unto itself. Implicit in these accusations is the idea that Schmitt’s works created a kind of intellectual framework that could later be used to justify at least some of the ideas of Nazism and even lead to an embrace of Nazism by Schmitt himself.

The expression "context is everything" becomes a quite relevant when examining these accusations regarding the work of Carl Schmitt. This important passage from the preface to the second edition of The Crisis of Parliamentary Democracy sheds light on Schmitt’s actual motivations:

That the parliamentary enterprise today is the lesser evil, that it will continue to be preferable to Bolshevism and dictatorship, that it would have unforeseen consequences were it to be discarded, that it is 'socially and technically' a very practical thing-all these are interesting and in part also correct observations. But they do not constitute the intellectual foundations of a specifically intended institution. Parliamentarianism exists today as a method of government and a political system. Just as everything else that exists and functions tolerably, it is useful-no more and no less. It counts for a great deal that even today it functions better than other untried methods, and that a minimum of order that is today actually at hand would be endangered by frivolous experiments. Every reasonable person would concede such arguments. But they do not carry weight in an argument about principles. Certainly no one would be so un-demanding that he regarded an intellectual foundation or a moral truth as proven by the question, “What else?”

This passage indicates that Schmitt was in fact wary of undermining the authority of the republic for its own sake or for the sake of implementing a revolutionary regime. Clearly, it would be rather difficult to reconcile such an outlook with the political millenarianism of either Marxism or National Socialism. The "crisis of parliamentary democracy" that Schmitt was addressing was a crisis of legitimacy. On what political or ethical principles does a liberal democratic state of the type Weimar establish its own legitimacy? This was an immensely important question, given the gulf between liberal theory and parliamentary democracy as it was actually being practiced in Weimar, the conflicts between liberal practice and democratic theories of legitimacy as they had previously been laid out by Rousseau and others and, perhaps most importantly, the challenges to liberalism and claims to "democratic" legitimacy being made at the time by proponents of revolutionary ideologies of both the Left and the Right.

Schmitt observed that democracy, broadly defined, had triumphed over older systems, such as monarchy, aristocracy and theocracy, by trumpeting its principle of "popular sovereignty." However, the advent of democracy had also undermined older theories on the foundations of political legitimacy, such as those rooted in religion ("divine right of kings"), dynastic lineages or mere appeals to tradition. Further, the triumphs of both liberalism and democracy had brought into fuller view the innate conflicts between the two. There is also the additional matter of the gap between the practice of politics (such as parliamentary procedures) and the ends of politics (such as the "will of the people").

Schmitt observed how parliamentarianism as a procedural methodology had a wide assortment of critics, including those representing the forces of reaction (royalists and clerics, for instance) and radicalism (from Marxists to anarchists). Schmitt also pointed out that he was by no means the first thinker to recognize these issues, citing Mosca, Jacob Burckhardt, Hilaire Belloc, G. K. Chesterton, and Michels, among others.

A fundamental question that concerned Schmitt is the matter of what the democratic "will of the people" actually means, and he observed that an ostensibly democratic state could adopt virtually any set of policy positions, "whether militarist or pacifist, absolutist or liberal, centralized or decentralized, progressive or reactionary, and again at different times without ceasing to be a democracy." He also raised the question of the fate of democracy in a society where "the people" cease to favor democracy. Can democracy be formally renounced in the name of democracy? For instance, can "the people" embrace Bolshevism or a fascist dictatorship as an expression of their democratic "general will"?

The flip side of this question asks whether a political class committed in theory to democracy can act undemocratically (against "the will of the people"), if the people display an insufficient level of education in the ways of democracy. How is the will of the people to be identified in the first place? Is it not possible for rulers to construct a "will of the people" of their own through the use of propaganda?

For Schmitt, these questions were not simply a matter of intellectual hair-splitting but were of vital importance in a weak, politically paralyzed liberal democratic state where the commitment of significant sectors of both the political class and the public at large to the preservation of liberal democracy was questionable, and where the overthrow of liberal democracy by proponents of other ideologies was a very real possibility.

Schmitt examined the claims of parliamentarianism to democratic legitimacy. He describes the liberal ideology that underlies parliamentarianism as follows:

It is essential that liberalism be understood as a consistent, comprehensive metaphysical system. Normally one only discusses the economic line of reasoning that social harmony and the maximization of wealth follow from the free economic competition of individuals. ... But all this is only an application of a general liberal principle...: That truth can be found through an unrestrained clash of opinion and that competition will produce harmony.

For Schmitt, this view reduces truth to "a mere function of the eternal competition of opinions." After pointing out the startling contrast between the theory and practice of liberalism, Schmitt suggested that liberal parliamentarian claims to legitimacy are rather weak and examined the claims of rival ideologies. Marxism replaces the liberal emphasis on the competition between opinions with a focus on competition between economic classes and, more generally, differing modes of production that rise and fall as history unfolds. Marxism is the inverse of liberalism, in that it replaces the intellectual with the material. The competition of economic classes is also much more intensified than the competition between opinions and commercial interests under liberalism. The Marxist class struggle is violent and bloody. Belief in parliamentary debate is replaced with belief in "direct action." Drawing from the same rationalist intellectual tradition as the radical democrats, Marxism rejects parliamentarianism as a sham covering the dictatorship of a particular class, i.e. the bourgeoisie. “True” democracy is achieved through the reversal of class relations under a proletarian state that rules in the interest of the laboring majority. Such a state need not utilize formal democratic procedures, but may exist as an "educational dictatorship" that functions to enlighten the proletariat regarding its true class interests.

Schmitt contrasted the rationalism of both liberalism and Marxism with irrationalism. Central to irrationalism is the idea of a political myth, comparable to the religious mythology of previous belief systems, and originally developed by the radical left-wing but having since been appropriated in Schmitt’s time by revolutionary nationalists. It is myth that motivates people to action, whether individually or collectively. It matters less whether a particular myth is true than if people are inspired by it.

At the close of Crisis, Schmitt quotes from a speech by Benito Mussolini from October 1922, shortly before the March on Rome. Said the Duce:

 

We have created a myth, this myth is a belief, a noble enthusiasm; it does not need to be reality, it is a striving and a hope, a belief and courage. Our myth is the nation, the great nation which we want to make into a concrete reality for ourselves.

Whatever Schmitt might have thought of movements of the radical Right in the 1920s, it is clear enough that his criticisms of liberalism were intended not so much as an effort to undermine democratic legitimacy so much as an effort to confront its inherent weaknesses with candor and intellectual rigor.

Schmitt also had no illusions about the need for strong and decisive political authority capable of acting in the interests of the nation during perilous times. As he remarks,

If democratic identity is taken seriously, then in an emergency no other constitutional institution can withstand the sole criterion of the peoples' will, however it is expressed.

In other words, the state must first act to preserve itself and the general welfare and well-being of the people at large. If necessary, the state may override narrow partisan interests, parliamentary procedure or, presumably, routine electoral processes. Such actions by political leadership may be illiberal, but they are not necessarily undemocratic, as the democratic general will does not include national suicide. Schmitt outlined this theory of the survival of the state as the first priority of politics in The Concept of the Political. The essence of the "political" is the existence of organized collectives prepared to meet existential threats to themselves with lethal force if necessary. The "political" is different from the moral, the aesthetic, the economic, or the religious as it involves, first and foremost, the possibility of groups of human beings killing other human beings.

This does not mean that war is necessarily "good" or something to be desired or agitated for. Indeed, it may often be in the political interests of a state to avoid war. However, any state that wishes to survive must be prepared to meet challenges to its existence, whether from conquest or domination by external forces or revolution and chaos from internal forces. Additionally, a state must be capable of recognizing its own interests and assume sole responsibility for doing so. A state that cannot identify its enemies and counter enemy forces effectively is threatened existentially.

Schmitt's political ideas are, of course, more easily understood in the context of Weimar's political situation. He was considering the position of a defeated and demoralized German nation that was unable to defend itself against external threats, and threatened internally by weak, chaotic and unpopular political leadership, economic hardship, political and ideological polarization and growing revolutionary movements, sometimes exhibiting terrorist or fanatical characteristics.

Schmitt regarded Germany as desperately in need of some sort of foundation for the establishment of a recognized, legitimate political authority capable of upholding the interests and advancing the well-being of the nation in the face of foreign enemies and above domestic factional interests. This view is far removed from the Nazi ideas of revolution, crude racial determinism, the cult of the leader, and war as a value unto itself. Schmitt is clearly a much different thinker than the adherents of the quasi-mystical nationalism common to the radical right-wing of the era. Weimar's failure was due in part to the failure of the political leadership to effectively address the questions raised by Schmitt. 

______________

 

 

*The German title -- Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus -- literally means “the historical-spiritual condition of contemporary parliamentarianism.” The common rendering, “The Crisis of Parliamentary Democracy,” is certainly more euphonious, though it is problematic since one of Schmitt’s central points in the book is that parliamentarianism is not democratic.   

Carl Schmitt - Weimar: State of Exception

Carl Schmitt (Part I)

Weimar: State of Exception

 
 
 
Carl Schmitt (Part I) Carl Schmitt, the Return of the German Army Following World War I (photo: BBC)

Among the many fascinating figures that emerged from the intellectual culture of Germany’s interwar Weimar Republic, perhaps none is quite as significant or unique as Carl Schmitt. An eminent jurist and law professor during the Weimar era, Schmitt was arguably the greatest political theorist of the 20th century. He is also among the most widely misinterpreted or misunderstood.

The misconceptions regarding Schmitt are essentially traceable to two issues. The first of these is obvious enough: Schmitt’s collaboration with the Nazi regime during the early years of the Third Reich. The other reason why Schmitt’s ideas are so frequently misrepresented, if not reviled, in contemporary liberal intellectual circles may ultimately be the most important. Schmitt’s works in political and legal theory provide what is by far the most penetrating critique of the ideological and moral presumptions of modern liberal democracy and its institutional workings.

Like his friend and contemporary Ernst Junger, Schmitt lived to a very old age. His extraordinarily long life allowed him to witness many changes in the surrounding world that were as rapid as they were radical. He was born in 1888, the same year that Wilhelm II became the emperor of Germany, and died in 1985, the year Mikhail Gorbachev became the final General Secretary of the Communist Party of the Soviet Union. Schmitt wrote on legal and political matters for nearly seven decades. His earliest published works appeared in 1910 and his last article was published in 1978. Yet it is his writings from the Weimar period that are by far the most well known and, aside from his works during his brief association with the Nazis, his works during the Weimar era are also his most controversial.

Not only is it grossly inaccurate to regard Schmitt merely as a theoretician of Nazism, but it is also problematical even to characterize him as a German nationalist. For one thing, Schmitt originated from the Rhineland and his religious upbringing was Catholic, which automatically set him at odds both regionally and religiously with Germany’s Protestant and Prussian-born elites. As his biographer Joseph Bendersky noted, Schmitt’s physical appearance was “far more Latin than Germanic” and he had French-speaking relatives. Schmitt once said to the National-Bolshevik leader Ernst Niekisch, “I am Roman by origin, tradition, and right.”

At age nineteen, Schmitt entered the prestigious University of Berlin, which was exceedingly rare for someone with his lower middle-class origins, and on the advice of his uncle chose law as his area of specialization. This choice seems to have initially been the result of ambition rather than specificity of interest. Schmitt received his law degree in 1910 and subsequently worked as a law clerk in the Prussian civil service before passing the German equivalent of the bar examination in 1915. By this time, he had already published three books and four articles, thereby foreshadowing a lifetime as a highly prolific writer.

Even in his earliest writings, Schmitt demonstrated himself as an anti-liberal thinker. Some of this may be attributable to his precarious position as a member of Germany’s Catholic religious minority. As Catholics were distrusted by the Protestant elites, they faced discrimination with regards to professional advancement. Schmitt may therefore have recognized the need for someone in his situation to indicate strong loyalty and deference to the authority of the state. As a Catholic, Schmitt originated from a religious tradition that emphasized hierarchical authority and obedience to institutional norms.

Additionally, the prevailing political culture of Wilhelmine Germany was one where the individualism of classical liberalism and its emphasis on natural law and “natural rights” was in retreat in favor of a more positivist conception of law as the product of the sovereign state. To be sure, German legal philosophers of the period did not necessarily accept the view that anything decreed by the state was “right” by definition. For instance, neo-Kantians argued that just law preceded rather than originated from the state with the state having the moral purpose of upholding just law. Yet German legal theory of the time clearly placed its emphasis on authority rather than liberty.

Schmitt’s most influential writings have as their principal focus the role of the state in society and his view of the state as the essential caretaker of civilization. Like Hobbes before him, Schmitt regarded order and security to be the primary political values and Schmitt has not without good reason been referred to as the Hobbes of the 20th century. His earliest writings indicate an acceptance of the neo-Kantian view regarding the moral purpose of the state. Yet these neo-Kantian influences diminished as Schmitt struggled to come to terms with the events of the Great War and the Weimar Republic that emerged at the war’s conclusion.

Schmitt himself did not actually experience combat during the First World War. He had initially volunteered for a reserve unit but an injury sustained during training rendered him unfit for battle; Schmitt spent much of the war in Munich in a non-combatant capacity. Additionally, Schmitt was granted an extended leave of absence to serve as a lecturer at the University of Strassburg.

As martial law had been imposed in Germany during the course of the war, Schmitt’s articles on legal questions during this time dealt with the implications of this for legal theory and constitutional matters. Schmitt argued that the assumption of extraordinary powers by military commanders was justified when necessary for the preservation of order and the security of the state. However, Schmitt took the carefully nuanced view that such powers are themselves limited and temporary in nature. For instance, ordinary constitutional laws may be temporarily suspended and temporary emergency decrees enacted in the face of crisis, but only until the crisis is resolved. Nor can the administrators of martial law legitimately replace the legislature or the legal system, and by no means can the constitutional order itself be suspended.

Carl Schmitt was thirty years old in November of 1918 when Kaiser Wilhelm II abdicated and a republic was established. To understand the impact of these events on Schmitt’s life and the subsequent development of his thought, it is necessary to first understand the German political culture from which Schmitt originated and the profoundly destabilizing effect that the events of 1918 had on German political life.

Contemporary Westerners, particularly those in the English-speaking countries, are accustomed to thinking of politics in terms of elections and electoral cycles, parliamentary debates over controversial issues, judicial rulings, and so forth. Such was the habit of German thinkers in the Wilhelmine era as well, but with the key difference that politics was not specifically identified with the state apparatus itself.

German intellectuals customarily identified “politics” with the activities surrounding the German Reichstag, or parliament, which was subordinated to the wider institutional structures of German statecraft. These were the monarchy, the military, and the famous civil service bureaucracy, with the latter headed up primarily by appointees from the aristocracy. This machinery of state stood over and above the popular interests represented in the Reichstag, and pre-Weimar Germans had no tradition of parliamentary supremacy of the kind on which contemporary systems of liberal democracy are ostensibly based.

The state was regarded as a unifying force that provided stability and authority while upholding the interests of the German nation and keeping in check the fragmentation generated by quarrelling internal interests. This stability was eradicated by Germany’s military defeat, the imposition of the Treaty of Versailles, and the emergence of the republic.

The Weimar Republic was unstable from the beginning. The republican revolution that had culminated in the creation of a parliamentary democracy had been led by the more moderate social democrats, which were vigorously opposed by the more radical communists from the left and the monarchists from the right.

The Bolshevik Revolution had taken place in Russia in 1917, a short-lived communist regime took power in Hungary in 1919, and a series of communist uprisings in Germany naturally made upwardly mobile middle-class persons such as Schmitt fearful for their political and economic futures as well as their physical safety. During this time Schmitt published Political Romanticism where he attacked what he labeled as “subjective occasionalism.” This was a term Schmitt coined to describe the common outlook of German intellectuals who sought to remain apolitical in the pursuit of private interests or self-fulfillment. This perspective regarded politics as merely the prerogative of the state, and not as something the individual need directly engage himself with. Schmitt had come to regard this as an inadequate and outmoded outlook given the unavoidable challenges that Germany’s political situation had provided.

Schmitt published Dictatorship in 1921. This remains a highly controversial work and subsequent critics of Schmitt who dismiss him as an apologist for totalitarianism or who attack him for having created an intellectual framework conducive to the absolute rule of the Fuhrer during the Nazi period have often cited this particular work as evidence. However, Schmitt’s conception of “dictatorship” dealt with something considerably more expansive and abstract than what is implied by the term in present day popular (or often academic) discourse.

For Schmitt, a “dictatorship” is a situation where a particular constitutional order has either been abrogated or has fallen into what Schmitt referred to as a “state of exception.” As examples of the first kind of situation, Schmitt offered both the Leninist model of revolution and the National Assembly that had constructed the constitutional framework of Weimar. In both instances, a previously existing constitutional order had been dismissed as illegitimate, yet a new constitutional order had yet to be established. A sovereign dictatorship of this type functions to

represent the will of these formless and disorganized people, and to create the external conditions which permit the realization of the popular will in the form of a new political or constitutional system. Theoretically, a sovereign dictatorship is merely a transition, lasting only until the new order has been established.

By this definition, a “sovereign dictatorship” could include political forces as diverse as the Continental Congresses of the period of the American Revolution to the anarchist militias and workers councils that emerged in Catalonia during the Spanish civil war to guerrilla armies holding power in a particular region where the previously established government has retreated or collapsed during the course of an armed insurgency. Schmitt also advanced the concept of a “commissarial dictatorship” as opposed to a “sovereign dictatorship.”

Schmitt used as an illustration of this idea Article 48 from the Weimar constitution. This article allowed the German president to rule by decree in states of emergency where threats to the immediate security of the state or public order were involved. As he had initially suggested in his wartime articles concerning the administration of martial law, Schmitt regarded such powers as limited and temporary in nature and as rescinded by the wider constitutional order once the emergency situation has passed. Contrary to the image of Schmitt as a totalitarian apologist, Schmitt warned of the inherent dangers represented by the powers granted to the president under Article 48, noting that such powers could be used to attack and destroy the constitutional order itself.

The following year, in 1922, Schmitt published Political Theology. This work advanced two core arguments. The first of these was a challenge to the legal formalism represented by German jurists of the era such as Hans Kelsen. Kelsen’s outlook was not unlike that of contemporary American critics of “judicial activism” who regard law as normative unto itself and insist legal interpretation should be restricted to pure law as derived from constitutional texts and statutory legislation, irrespective of wider or related political, sociological or moral concerns. Schmitt considered this to be a naïve outlook that failed to consider two crucial and unavoidable matters: the reality and inevitability of political and social change, and exceptional cases. It was the latter of these that Schmitt was especially concerned with. It was the question of the “state of exception” that continued to be a preoccupation of Schmitt.

Exceptional cases involved situations where emergencies threatened the state itself. For Schmitt, the maintenance of basic order preceded constitutional norms and legal formalities. There is no constitution or law if there is chaos. The important question regarding exceptional cases was the matter of who decides when an emergency situation exists. Schmitt regarded this decision-making power as the prerogative of the sovereign. Within the constitutional framework of Weimar, sovereignty was held jointly by the Reich president and the Reichstag, meaning that the president could legitimately declare a state of emergency and temporarily rule by decree if the Reichstag agreed to grant him such powers.

While Schmitt was certainly a thinker of the Right, it is a mistake to group him together with proponents of the “conservative revolution” such as Moeller van den Bruck, Oswald Spengler, Edgar Jung, or Hugo von Hofmannsthal. There is no evidence of him having expressed affinity for the views of these thinkers or joining any of the organizations that emerged to promote their ideas. Schmitt’s conservatism was squarely within the Machiavellian tradition, and he counted Machiavelli, Hobbes, Jean Bodin and conservative counterrevolutionaries such as Joseph De Maistre and Juan Donoso Cortes as his influences.

During the Weimar era, Schmitt expressed no sympathy for the mystical nationalism of the radical Right, much less the vulgar racism and anti-Semitism of the Nazi movement. He was closer to the anti-liberal thinkers that James Burnham and others subsequently labeled as “the neo-Machiavellians.” These included Vilfredo Pareto, Robert Michels, Gaetano Mosca, and Georges Sorel along with aristocratic conservatives like Max Weber. These thinkers expressed skepticism regarding the prospects of liberalism and democracy and emphasized the role of elites, the irrational, and the power of myth with regards to the political. Though Schmitt never joined a political party during the Weimar era, within the spectrum of German politics of the time he can reasonably be categorized as something of a moderate. He had admirers on both the far Right and far Left, including sympathizers with the Conservative Revolution as well as prominent intellectuals associated with the Marxist Frankfurt School, such as Walter Benjamin, Franz Neumann, and Otto Kirchheimer.

Schmitt’s own natural affinities were mostly likely closest to the Catholic Center Party, which along with the Social Democrats who had led the revolution of 1918 were the most consistently supportive of the republic and the constitutional order, and which represented the broadest cross-section of economic, class, regional, and institutional interests of any of the major parties during Weimar.

Like Hobbes before him, Schmitt was intensely focused on how order might be maintained in a society prone to chaos. Both economic turmoil and political instability continually plagued the republic. Successive political coalitions failed in their efforts to create a durable government and chancellors came and went. The Reichstag was immobilized by the intractable nature of political parties representing narrow class, ideological, or economic interests and possessing irreconcilable differences with one another. Additionally, many of the political parties that formed during the Weimar era, including those with substantial representation in the Reichstag, possessed little or no genuine commitment to the preservation of the republican order itself. Extremist parties, most notably the German Communist Party (KPD) and the National Socialist German Workers Party (NSDAP), or the Nazis, as they came to be called, openly advocated its overthrow. Terrorism was practiced by extremists from both the right and left. Crisis after crisis appeared during the Weimar period, and the parliament was each time unable to deal with the latest emergency situation effectively. The preservation of order subsequently fell to the president. Article 48 of the constitution stated in part:

If a state does not fulfill the duties imposed by the Reich constitution or the laws of the Reich, the Reich president may enforce such duties with the aid of the armed forces. In the event that public order and security are seriously disturbed or endangered, the Reich president may take the necessary measures in order to restore public security and order, intervening, if necessary, with the aid of the armed forces. To achieve this goal, he may temporarily suspend entirely or in part, the stipulated basic rights in articles 114, 115, 117, 118, 123, 124, and 153. All measures undertaken in accordance with sections 1 or 2 of this article must be immediately reported to the Reichstag by the Reich president. These measures are to be suspended if the Reichstag so demands.

As an indication of the unstable nature of the Weimar republic, Article 48 was invoked more than two hundred and fifty times by successive presidents during the republic’s fifteen years of existence.

samedi, 25 septembre 2010

Sonderheft "Sezession": Sarrazin lesen

Sonderheft Sezession: Sarrazin lesen

Sarrazin Titel 121x200 Sonderheft Sezession: Sarrazin lesenMan möchte in der seltsamerweise noch immer unentschiedenen Schlacht um Sarrazin wahrlich nicht zum Jubelperser verkommen und alles abklatschen, was zugunsten des mutigen Bundesbänkers vorgebracht wird. Wer solches beim Blick in unser Netz-Tagebuch befürchtete (nur Kositza und Wolfschlag entziehen sich mit ihren Beiträgen dem Sog) sei hiermit beruhigt: Wir haben viel Kritik an Sarrazin auf Lager – er geht einfach nicht weit genug in seinen Schlußfolgerungen.

Um das behaupten zu können, muß man die 460 Seiten seines Buchs zunächst lesen. Acht unserer Autoren haben das getan (oder sind noch dabei) und eine vorläufige Bestandsaufnahme legte uns die kurzfristige Erarbeitung eines Sezession-Sonderhefts nahe. Sarrazin lesen – Was steckt in Deutschland schafft sich ab heißen die 44 Seiten, die wir Anfang Oktober ausliefern können. Der Inhalt:

Redaktion: Chronik der Ereignisse – Abfolge der Stellungnahmen
Thorsten Hinz: Sarrazin lesen – eine Buchkritik
Markus Abt: Debatten vor und nach Sarrazin
Redaktion: „Dies alles ist nicht neu“ – wovor wer wo wann warnte
Karlheinz Weißmann: Öffentliche, veröffentlichte und verborgene Meinung
Andreas Vonderach: Die Sache mit den Genen
Martin Lichtmesz: Die Faschismuskeule bleibt im Sack …
Johannes Ludwig: Die Chancen einer „Liste Sarrazin“
Redaktion: Lektüreempfehlungen um Sarrazin

Das Heft kostet 9 Euro, bestellen kann man es hier.

Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?

Un nouveau destin pour le port et la ville de Hambourg? La métropole allemande deviendra-t-elle l'avant-poste de l'Extrême-Orient en Europe? Une "nouvelle Hanse" est-elle en gestation? Comment cela se réalisera-t-il? Un groupe d'architectes, rassemblés autour des époux VOLKENBORN, projettent, avec l'aide officielle du Sénat de la ville, de construire sur les rives de l'Elbe, dans le faubourg d'Altona, un nouveau port qui sera simultanément gare terminale du Transsibérien.

 

Le port de Hambourg connaît de sérieuses difficultés économiques: sur une longueur de 6 km, site envisagé pour la gare terminale du Transsibérien, les grues rouillent et les quais s'effritent. Les forces vives doivent émigrer et le chômage guette ceux qui restent. Hambourg est en cela une sorte de microcosme de l'Europe industrielle. Deux projets existent à l'heure actuelle pour effacer du paysage nord-allemand ce site déshérité: le premier envisage d'y installer un gigantesque lunapark; le second, nous venons de le révéler, c'est d'y construire une installation portuaire et ferroviaire telle, qu'elle révolutionnera le trafic international comme jadis le creusement des canaux de Suez et de Panama.

 

Le Groupe des VOLKENBORN envisage de construire une île artificielle face au vieux port désaffecté, d'où partiraient des voies larges de chemin de fer (identiques à celles du Transsib') qui conduiraient à Lübeck, le port baltique. De là, un ferry transporterait les trains jusqu'à Klaipeda (Memel) en Lituanie soviétique. Dès leur débarquement à Klaipeda, les trains retrouveraient la voie la plus longue du monde, le Transsibérien, qui pourra les conduire jusqu'au rives du Pacifique, en face du Japon.

 

Hambourg deviendrait ainsi la plaque tour-nante d'un circuit d'échanges eurasiens: les marchandises d'Extrême-Orient y seraient débarquées à destination de l'Europe et de l'Afrique tandis que les marchandises européennes et africaines y seraient embarquées à destination des marchés soviétique, chinois et japonais. A plus grande échelle, Hambourg et Lübeck retrouveraient leur rôle du temps de la Hanse: échanger des fourrures russes contre du drap anglais ou flamand.

 

De leur côté, les Soviétiques, qui ont en-tamé des négociations avec les Allemands, veillent à terminer le BAM (Baïkal-Amour-Magistral), une ligne de chemin de fer ultra-moderne, tracée au nord du Transsibérien terminé en 1902 et raccourcissant de 500 à 600 km le trajet Klaipeda-Vladivostock. Ces trains rouleront à 250 km/h et diminueront de manière conséquente la durée et la lon-gueur du trajet maritime usuel. Tandis que les navires à conteneurs les plus modernes mettent, via Suez, trente jours pour arriver en Extrême-Orient et parcourir les 22.000 km qui nous en séparent, le BAM mettra 16 jours pour relier Londres à Yokohama (13.000 km). En outre les coûts de transport seront de 10 à 15% inférieurs à ceux que demandent aujourd'hui les armateurs. La quantité transportable de marchandises sera, quant à elle, multipliée par quatre.

 

Ce projet est appuyé par le bourgmestre de Hambourg, Klaus von DOHNANYI, grand spécialiste du commerce avec l'Extrême-Orient. En 1969 déjà, il avait rédigé un ou-vrage sur les stratégies économiques japo-naises. Entretemps, plus de 150 firmes nippones ont installé leur siège à Hambourg, même si la majorité d'entre elles préfèrent toujours Düsseldorf. Depuis peu, ce sont les Chinois qui se mettent à considérer la cité hanséatique comme la ville d'Europe la plus importante. Les Chinois veulent importer une brasserie complète et prévoient la construction d'un mini-Airbus germano-chinois. Les nouvelles relations commericales sino-germaniques contribuent, indirectement, à apaiser le contentieux sino-soviétique. En ef-fet, les Chinois, pour le transport de leurs marchandises, préfèrent de loin le fer à la mer et conçoivent l'importance du Transsib' et du BAM. Leur intérêt premier sera donc de négocier avec les Soviétiques une utili-sation commune de ces voies ferrées.

 

Autre problème politique qui se verrait ré-glé: les Soviétiques et les Allemands pour-raient éviter, grâce au ferry baltique, de passer par la Pologne, perpétuellement en crise et dangereusement manipulée par les forces rétrogrades de l'Eglise de Rome. Mais, ces forces calamiteuses ne sévissent pas qu'en Pologne: en Allemagne Fédérale, tous les politiciens n'ont pas la clairvoyance de von DOHNANYI et de ses architectes. A Bonn, les armateurs (qui se verraient ruinés), les clowns militaires otanesques, les profes-sionnels de l'anti-communisme à la Fola-mour, ont tout entrepris pour saboter le projet et pour retarder les négociations (Cf. VOULOIR no.14). A Moscou, les dirigeants soviétiques, las de toutes ces tergiversations puériles, n'insistent plus et les autorités est-allemandes entreprennent la construction de ports de ferries à Mukran (Ile de Rügen) et à Wismar.

 

Le projet hambourgeois est-il définitivement mort? Les réalisations est-allemandes à Rügen et à Wismar parviendront-elles à remplacer la fenêtre sur la Mer du Nord qu'est Hambourg? On en doute... Ce projet représente finalement le plus grand défi géopolitique du siècle. S'il se réalise, nos maîtres à penser Karl HAUSHOFER et Hallford John MACKINDER auront eu raison à titre post-hume. La grande unité eurasienne, avec collaboration étroite entre Allemands, Russes, Chinois et Japonais se réalisera. Les mar-chandises africaines pourront atteindre aisément les profondeurs continentales de Sibérie et d'Asie Centrale. La qualité de vie en bénéficiera et les immensités sibériennes pourront s'avérer plus attrayantes. Dans la lutte entre le Léviathan et Béhémoth (Carl SCHMITT), la Terre aura enfin vaincu...

 

En revanche, la non-réalisation du projet, à cause des pressions atlantistes et des intérêts sectoriels des armateurs, condamnera Hambourg à devenir un lunapark ou une cité touristique balnéaire. Où est l'utopie? Certes pas dans le cerveau des époux VOLKENBORN. Le choix entre Orient et Occident, entre le réalisme et les chimères trahit ici un choix de civilisation: ou bien le bon sens de la survie économique à très long terme ou bien les attractions du Cirque Gros-Occidental... Au fond, nous pourrions envoyer pas mal d'"artistes" à Hambourg, si le projet VOLKENBORN est expédié à la poubelle au profit du lunapark: les parlementaires belges, le gouvernement Martens, les Jeunesses Atlantistes, le Général Close Badaboum, les Moonistes et les disciples de LaRouche, les Le Pen Boys, la fine équipe du PTB, Marchais, le couple de pitres paléo-communistes "Rosine Lewine et Louis Van Geyt", l'ex-gouvernement Mitterand, Yves Montand, BHL, une masse impressionnante de prêtres et de pasteurs privés de paroissiens,...

 

Vincent GOETHALS.

 

Source: "Der Spiegel" 1986/No.29 (14-VII); article intitulé "Für China die wichtigste Stadt Europas" (pp. 60 à 67).   

 

mardi, 21 septembre 2010

"Rechtsvölker sind immer im Recht!" - Im Gespräch mit Dr. R. Oberlercher

»Rechtsvölker sind immer im Recht!«

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Hegel, die NPD und die Arbeiterklasse: Die Deutsche Stimme im Gespräch mit Dr. Reinhold Oberlercher

Oberlercher.jpgFrage: Herr Dr. Oberlercher, Sie haben vor Jahren den Begriff der »Wortergreifung« geprägt, die immer der Machtergreifung vorangehen müsse. Wie beurteilen Sie Art und Inhalt der Wortergreifungen der NPD, und was wäre zu verbessern?

Oberlercher: Die Wortergreifungen der NPD sind nicht immer systemsprengend. Übernimmt man gar die Zuschreibungen des BRD-Systems und verortet sich selbst z.B. als rechten Rand, dann ist man nicht mehr die politische Befreiungsorganisation der Gesamtnation. Geht das System schließlich unter, wird sein rechter Rand dann natürlicherweise mit ihm verschwinden.

Frage: Demnach ist es aber genauso wenig zielführend, sich als links zu bezeichnen. Eine systemüberwindende Opposition müßte sich also als gesamtdeutsche Volksbewegung verstehen?

Oberlercher: Ja, das allein ist der richtige Weg. Das deutsche Volk umfaßt nämlich viele politische Richtungen: Fortschrittliche und Traditionalisten, Konservative und Liberale und Sozialisten, Anarchisten und Etatisten. Und alle auch noch in rechter und in linker Ausführung.

Frage: Fälschlicherweise wird »rechts« ja oft gleichgesetzt mit national. Welche Bedeutung haben die Begriffe links und rechts in einer Zeit, in der die festen Abgrenzungen zunehmend verschwinden?

Oberlercher: Ach, wissen Sie, die Abgrenzungen waren eigentlich noch nie wirklich fest, sondern immer sehr beweglich, weswegen sie auch nicht totzukriegen sind. In der politischen Theorie, die das Deutsche Kolleg vertritt, ist der Begriff des Politischen das Recht und das Rechtssubjekt und nicht, wie bei Carl Schmitt, die Unterscheidung von Freund und Feind. Politik dreht sich unserer Auffassung nach um Rechte, die man hat und die man verteidigen muß, oder um solche Rechte, die man nicht hat und die man fordern muß. Die Recht-Inhaber sind politisch die Rechten, die Recht-Forderer sind politisch die Linken. Da es den Kampf um das Recht auch in Zukunft geben muß und geben wird, dürfte auch der Rechts-Links-Gegensatz fortbestehen.

Frage: Aufgrund der wirtschaftlichen Konzentrationen der vergangenen Jahre wird die These vertreten, daß man von Kapitalismus nicht mehr sprechen könne. Vielmehr habe eine Veränderung hin zum Monopolismus stattgefunden. Was halten Sie von dieser These?

Oberlercher: Nichts. Denn Monopol ist ein Gegenbegriff zu Konkurrenz oder auch zu Oligopol, aber nicht zu Kapital, folglich kann der Kapitalismus auch nicht in einen Monopolismus übergehen. Die ganze Entwicklung des kapitalistischen Systems ist eine seiner Einführung und Durchsetzung in vorkapitalistischen sozialen Bereichen. Solange es solche Bereiche gibt, hat der Kapitalismus noch zu erobernde soziale Räume und damit eine geschichtliche Aufgabe vor sich. Das Gewaltmonopol des Staates z.B. wie der gesamte Staatsapparat überhaupt ist solch eine Sphäre, die dem Kapital noch nicht zur Gänze formell und reell unterworfen ist, aber daran wird eifrig gearbeitet.
Ebensowenig sind Universitäten und allgemeinbildendes Schulsystem dem Kapital schon gänzlich reell subsumiert. Nach der bis zur Vollautomation der materiellen Produktion geführten kapitalistischen Revolution in der Wirtschaft wäre es durchaus ein noch kapitalimmanenter revolutionärer Fortschritt, die pädagogische Produktion, die die Arbeitskräfte herstellt, zu privatisieren, zu automatisieren und der kapitalistischen Entwertung aller (Arbeits-) Werte, also der Aldisierung ihrer Preise, zu unterwerfen. Der Deutsche Nationalmarxismus hat diese revolutionäre Seite des kapitalistischen Systems immer befürwortet.

Frage: Sie sprachen davon, daß die anhaltende Vorknechtschaft Bedingung und Voraussetzung für eine kommende Vorherrschaft Deutschlands sei. Trauen Sie sich eine Prognose zu, wie lange die Vorknechtschaft noch andauern und was sie beenden wird?

Oberlercher: Nachdem ich im Jahre 1995 den Staatsuntergang der BRD und der übrigen Reichszerteilungsregimes für das Jahr 2000 prognostiziert hatte, wage ich im Jahre 2010 nicht, eine weitere von der Geschichte falsifizierbare Vorhersage über einen Zusammenbruchstermin abzugeben. Soweit es nun aber die Vorknechtschaft der BRD gegen ihre europäischen Mitknechte angeht, hat sich nichts geändert, aber beim Verhältnis gegenüber ihrem Herrn und Besatzer USA ist auffällig, daß trotz rapiden Verfalls die BRD immer häufiger als Anführer einer Fronde gegen das israelhörige US-Imperium auftritt, dessen Machtverfall relativ größer ist als der seiner Knechte. Die Residuen des rheinischen Produktivkapitals generieren noch immer Gegenkonzepte zum global nomadisierenden Spekulanten-Kapital des Imperiums.

Frage: Das Schicksals Ihres ehemaligen Mitstreiters Horst Mahler bewegt nicht nur das nationale Lager. Wie weit kann die nationale Opposition in ihrem Widerstand gegen das antinationale System gehen, ohne ihrem Anliegen zu schaden?

Oberlercher: Horst Mahler hat dem nationalen Anliegen nicht geschadet. Er hat aus eigenem Entschluß die Märtyrerschaft für Volk und Reich der Deutschen auf sich genommen. Seit das System Horst Mahler für das Festhalten an seiner Meinung zu 12 Jahren Gefängnis verurteilt hat, können alle deutschen Kollaborateure der Besatzungsmächte wissen, welche Mindeststrafe ihrer harrt.

Frage: Um das Deutsche Kolleg ist es etwas ruhig geworden, obwohl Sie Ihren
Ehrenplatz im jüngsten Hamburger Verfassungsschutzbericht erneut erfolgreich verteidigt haben. Sind die Repressionen des Systems der Grund, daß man so wenig hört?

Oberlercher: Der Grund ist einfach darin zu sehen, daß das Deutsche Kolleg im wesentlichen alles gesagt hat, das in Theorie und Programm gesagt werden mußte. Die Arbeit der Theoretiker und Programmatiker in der Neuen Deutschen National-Bewegung ist im großen und ganzen beendet, die geistige Gewalt hat
zugeschlagen, nun ist die materielle Gewalt geschichtlich am Zuge. Das System ist geistig bereits enthauptet, jetzt ist es nur noch physisch zu enthaupten. Also: Arbeiter der Faust an die Front!

Frage: Könnten Sie uns bitte Ihr Konzept der Deutschland AG erläutern?

Oberlercher: Die Deutschland AG ist die Herstellung einer nachkapitalistischen Wirtschaftsordnung. Sie ist die Vergesellschaftung aller Produktionsmittel und die Vermeidung ihrer Verstaatlichung. Denn die Verstaatlichung der kapitalistischen Produktionsmittel wäre ihre Absonderung von der bürgerlichen Gesellschaft insgesamt, somit also weder die klassenlose Vergesellschaftung in ihr noch ihre wirkliche Vergemeinschaftung durch den alle Bürger und ihren Staat umfassenden staatsbürgerlichen Verband.
Das Kapital wird also bürgerlich vergesellschaftet und zugleich national vergemeinschaftet, aber nicht verstaatlicht. Konkret wird folgendes durchgeführt: Das auf deutschem Boden angelegte Gesamtkapital wird in eine Aktiengesellschaft der deutschen Volkswirtschaft überführt. Die Aktien dieser Deutschen Volkswirtschafts-AG werden gleichmäßig auf alle Reichsdeutschen verteilt. Sie sind unveräußerlich und jeder erhält ein gleichgroßes Aktienpaket mit gleichem Stimmrecht, aus dem er die von der Aktionärsversammlung genehmigte Dividende als Einkommen aus Kapital bezieht. Ich verweise auf die DK-Erklärung „Die liberalistische Volksrevolution“ vom 30.11.2008.

Frage: In Ihrem jüngsten Werk beschäftigen Sie sich mit dem in der ganzen europäischen Geistesgeschichte nicht verstandenen Unterschied zwischen Recht und Gesetz. Worin besteht dieser entscheidende Unterschied?

Oberlercher: Recht, der substantielle Begriff des Politischen, ist Besitz, der Eigentum ist. Gesetz hingegen ist eine bloße Besitznorm, und ein Normbesitz ist ein Muster. Gesetz ist also etwas Technisches und nichts Rechtliches. Folglich erreicht man mit keiner Betrachtung, Beachtung oder Brechung eines Gesetzes
die Sphäre des Rechts. Nun gibt es in der Weltgeschichte ganze Völker, deren Geist entweder vom Gesetz oder vom Recht geleitet wird. Also sind Gesetzesvölker wie z.B. die Juden und die Araber niemals im Recht, hingegen Rechtsvölker wie z.B. die Deutschen und die Dänen sind immer im Recht.

Frage: Angesichts so vieler Karrieristen, Opportunisten und Geschichtsfälscher, die uns ihre Deutungen über die 68er Bewegung mit Hilfe der Massenmedien liefern: was ist die Bedeutung dieser Bewegung, was ihr geistiger Kern aus Ihrer Sicht? War 68 so anti-national, wie uns die Katheder-Sozialisten heute lehren?

Oberlercher: Die 68er Bewegung war nationalrevolutionär. Ihr Hauptidentifikationspunkt war der Wiedervereinigungskrieg der Vietnamesen gegen die amerikanische Besatzungsmacht im Süden und die pro-kapitalistischen Kollaborateure des Saigoner Regimes. Das wurde als Inspiration für den deutschen Befreiungskampf aufgenommen und führte zur Erfindung der Neuen Linken durch Hans-Jürgen Krahl und Rudi Dutschkes mitteldeutsche SDS-Fraktion. Für die Neue Linke war das Volk, die ganze Nation, das Subjekt aller nationalen und sozialen Befreiungskämpfe einschließlich der Revolutionen, nicht nur eine Klasse. Die Klasse der Industriearbeiter wurde als letzte ausreichend starke soziale Stütze des kapitalistischen Systems erkannt, die aber schon damals
eine schrumpfende Klasse war wie vordem schon das Besitzbürgertum.
Die Alte Linke (Gewerkschaften, SPD, KPD) blieb dagegen auf ihre Klassenbasis beschränkt und wurde damals bereits als tendenziell absteigend erkannt, weil der Prozeß der Automatisierung der Produktion an ihrem Ast sägte. Dutschke ging in seinen strategischen Überlegungen von der Arbeitslosigkeit der Mehrheit im Volke aus. Folglich galt das Hauptaugenmerk den Problemen des Reiches der Freiheit.

Frage: Woran arbeiten Sie, was sind Ihre politischen Zukunftspläne?

Oberlercher: Ich arbeite an einer Broschüre, die »Hegels System in Formeln« darstellt. Selbstverständlich ist darin auch eine komprimierte Verbalfassung enthalten. Außerdem schreibe ich an einer hegelianischen »Philosophie der Mathematik«. Politische Wirkungsmöglichkeiten im engeren Sinne sehe ich für mich gegenwärtig nicht.

Herr Dr. Oberlercher, wir danken Ihnen für das Gespräch.

Das Gespräch mit Dr. Reinhold Oberlercher führte Uwe Meenen.

samedi, 18 septembre 2010

Les réformes proposées par Thilo Sarrazin en Allemagne

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Les réformes proposées par Thilo Sarrazin en Allemagne

 

EN POLITIQUE SOCIALE :

 

« Tous les bénéficiaires du SMIG/Minimex doivent pouvoir être contraints, le cas échéant, à des prestations compensatoires. Celui qui n’accomplit pas ses devoirs, ou les accomplit sans ponctualité aucune, ou en montrant de la négligence, doit voir ses revenus minimaux d’insertion réduits ou supprimés ».

 

EN MATIERE D’IMMIGRATION :

 

« Il faut renforcer les exigences linguistiques pour ceux qui veulent acquérir la citoyenneté de l’Etat-hôte. Il faut également  renforcer les exigences postulées par les examens linguistiques en cas d’immigration du nouvel époux ou de la nouvelle épouse… Cette immigration matrimoniale ne devrait être possible que si l’époux/l’épouse vivant en Allemagne, dans les années précédent le mariage projeté, a pu gagner sa vie sans faire appel à des revenus minimaux d’insertion. Le nouvel époux/la nouvelle épouse, qui veut immigrer, ne devrait pas pouvoir bénéficier de revenus minimaux d’insertion sociale pendant dix ans ».

 

« Pour toute immigration complémentaire, il faut appliquer des conditions extrêmement restrictives, lesquelles, en principe, ne satisferont plus que les seuls spécialistes situés tout au sommet de l’échelle des qualifications professionnelles… Ceux qui accueillent ou hébergent des illégaux devront payer des amendes considérables, levées selon leurs revenus, amendes qui contribueront aussi à diminuer les montants payés par l’Etat pour les revenus minimaux d’insertion sociale ».

 

EN MATIERE DE DEMOGRAPHIE :

 

« On pourrait prévoir de verser une prime d’Etat d’un montant de 50.000 euro pour tout enfant né avant le trentième anniversaire de sa mère, au moment où cet enfant aura terminé ses études ».

 

EN MATIERE D’EDUCATION :

 

« Dans chaque école et dans chaque classe, il faudrait, en fin d’année scolaire, procéder à un examen unique pour jauger le niveau atteint en compétences de lecture et en connaissances mathématiques de base… Pour rendre possible toute comparaison fiable, il faudrait compléter ces tests de compétences linguistique et mathématique par un test d’intelligence anonymisé ».

 

« Il faudrait accorder beaucoup d’importance à l’acquisition et à l’intériorisation de vertus secondaires comme la ponctualité, l’assiduité au travail, la fiabilité personnelle et l’honnêteté. Les virtuoses de l’école buissonnière ne doivent pas être tolérés… Les parents doivent se voir imposer de solides amendes pour tout retard non motivé de leurs enfants à l’école. Ces amendes seront comptabilisées avec les paiements de transfert, lorsque le minimum existentiel n’est pas atteint ».

 

« Pour les enfants issus de familles immigrées, il faut imposer la fréquentation des jardins d’enfants dès l’âge de trois ans… Le travail principal des puériculteurs/puéricultrices sera de converser et de procéder à des lectures. Si l’enfant manque l’école sans motif valable, les allocations de l’enfant seront réduites, selon une règle qui fixera le montant alimentaire minimal, duquel sera déduit le montant des repas pris dans le jardin d’enfants… Les mêmes règles devront s’appliquer dans les écoles. Il faut que la règle générale dans le pays soit une journée d’école complète. La participation de tous les écoliers à des heures d’études complémentaires, afin de faire leurs devoirs, devrait être obligatoire, du moins pour les élèves qui n’atteignent pas un certain niveau. Il ne pourra plus y avoir de dispense de certains cours pour motifs religieux… ».  

 

(sélection proposée par « Junge Freiheit », Berlin, n°36/2010 ; http://www.jungefreiheit.de/ ).

jeudi, 16 septembre 2010

L'influence atlantiste en Allemagne et en Russie

L'influence atlantiste en Allemagne et en Russie

Par Michel Drac

 Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Par commodité, nous réputerons ici que l’ensemble USA/Grande-Bretagne/Israël constitue une entité capable d’agir de façon coordonnée sur le plan géopolitique. Nous appellerons cette entité : l’Empire.

Cet Empire est confronté à son déclin. Sa réaction est maintenant visible. Confronté à un défi géostratégique qu’il ne parvient pas à relever, celui de la Chine ; confronté encore à la volonté manifeste de la Russie de se poser en acteur géostratégique de premier plan, à nouveau ; confronté, enfin, au risque de voir l’Europe échapper à son assujettissement, l’Empire a choisi de combattre, pour l’instant, en usant de stratégies d’influence. L’attaque sur l’Iran, pour l’instant toujours, n’a pas eu lieu. La guerre ouverte n’est pas, à ce stade, l’option choisie par les dirigeants de l’Anglosphère (et de son annexe israélienne).

Cela peut changer du jour au lendemain, bien sûr.

Mais jusqu’ici, l’influence semble bel et bien la stratégie privilégiée. Elle prend la forme d’une entreprise de cooptation sélective des élites des puissances que l’Empire doit ou conserver en sujétion (l’Allemagne et la France, pour faire court), ou tenir en respect (la Russie).

Le point sur la question.

*

En France, la promotion de Dominique Strauss-Kahn par les médias dominants est si grossière qu’elle risque de devenir franchement contre-productive. DSK (qui, rappelons-le, a explicitement avoué qu’il était entré en politique « pour défendre Israël ») est par exemple promu via des sondages de commande par Libération (quotidien désormais possédé par la famille Rothschild). Le plan apparaît cousu de fil blanc : il s’agit de remplacer un atlantiste « de droite » (Sarkozy) par un atlantiste « de gauche » (DSK). Plan si cousu de fil blanc, au demeurant, que la probabilité de le voir échouer semble désormais assez grande. La présidentielle 2012 s’avère risquée pour les atlantistes…

Bref, on n’épiloguera pas.

Intéressons-nous plutôt à l’Allemagne. Inutile de disserter longuement sur la situation française, elle est bien connue de nos lecteurs. Il n’en va pas de même de l’évolution outre-Rhin, qui pourtant, elle aussi, révèle une très nette accentuation de l’emprise atlantiste sur les élites.

Quelques points de repère pour commencer.

Angela Merkel a été propulsée à la chancellerie par les milieux atlantistes. Cela s’est fait en deux temps.

Tout d’abord, à la fin des années 1990, avec l’affaire de la « caisse noire » de la CDU. Walther Leisler Kiep (WLK), trésorier de la CDU et accessoirement homme fort de la fondation Atlantik Brücke (en gros, l’équivalent allemand de notre French American Foundation) avait reçu une forte somme d’argent d’un marchand d’armes. Ce fut l’occasion d’entraîner Helmut Kohl, et surtout ses hommes liges, dans un vaste scandale, où fut mis à jour le système de financement occulte de la droite d’affaire allemande. Wolfgang Schaüble (WS), jusque là pressenti comme le successeur naturel de Kohl, en paya le prix – et c’est ainsi que Merkel se retrouva à la tête de la CDU. Il est probable que sous les remous provoqués à la surface par cette opération mains propres, une lutte d’influence féroce se joua à ce moment-là, au sein de la droite d’affaires allemande. On ignore, à ce stade, les détails de cette lutte, mais on sait en tout cas qu’avec Merkel, les milieux atlantistes sauvaient au moins l’essentiel : leur capacité d’influence décisive au sommet de l’appareil.

En 2002, le leader de la campagne CDU/CSU était Edmund Stoiber, homme politique bavarois (le détail a son importance, la CSU bavaroise étant traditionnellement moins atlantiste que la CDU de l’Allemagne du nord). Il perdit de justesse les élections, après une campagne où les choix de la grande presse, pour une fois, ne fut pas particulièrement net en faveur de la droite d’affaires (un choix de la grande presse à peu près aussi clair, à vrai dire, que les positions alambiquées de Stoiber sur la guerre d’Irak…).

La route était désormais dégagée pour Merkel, qui bénéficia, elle, en 2005, d’un soutien total de la part des médias – et remporta donc les élections. Ainsi alla la carrière de celle que les médias présentent comme « la femme la plus puissante d’Europe », et que les esprits mal intentionnés voient plutôt comme la soubrette du capital germano-américain.

Cependant, comme toujours, rien n’est simple. La très forte culture du consensus qui caractérise les élites allemandes fait qu’il pratiquement impossible de rattacher un politicien quelconque à un « camp » stable et bien défini, au regard d’un problème donné. En fait, si l’on excepte les situations où ils s’organisent collectivement pour incuber deux lignes le temps que l’histoire décide à leur place laquelle était la bonne, les politiciens allemands ont pour habitude de prendre des positions molles et flexibles, et de gérer en interne leurs débats, portes closes. La population s’en accommode majoritairement, l’ambiguïté consensuelle étant, là-bas, un mode de fonctionnement collectif très prisé.

Bref, on ne peut pas présenter Merkel comme une atlantiste inflexible, même si elle a, en 2003, pris position plutôt en faveur de la guerre d’Irak. Disons qu’elle est plus atlantiste que la moyenne des politiciens de son camp, eux-mêmes très atlantistes – mais cela peut changer, tout dépend des circonstances.

Or, justement, depuis quelques temps, cela a tendance à changer. Depuis la crise de 2007, Merkel semble, d’une manière générale, agir comme un poids mort, qui retarde et affaiblit la remise en cause du lien transatlantique – mais qui ne fait plus grand-chose pour le promouvoir franchement. La nuance n’a pas échappé aux observateurs attentifs.

Fondamentalement, Merkel est une opportuniste. Elle incarne au fond les qualités et les défauts des femmes en politique : elle sait remarquablement bien naviguer en fonction du vent – mais justement, quand il faut faire vent contraire, elle n’est pas à son aise. Et aujourd’hui, pour être atlantiste, au sein de la droite d’affaires allemande, il faut affronter un vent de face modéré, mais bien présent. Cette physicienne de formation, auteur d’un mémoire sur l’effet des hautes pressions dans la combinaison des molécules, est sans doute plus prompte à tenir un rôle de coordinatrice qu’à imposer ses vues brutalement. Dans le contexte actuel, il n’est donc pas certain qu’elle soit encore « l’homme » de la situation, pour ses sponsors atlantistes eux-mêmes confrontés à une situation très tendue, où le temps leur manque, et où chaque erreur peut se payer cash.

En 2007, Merkel s’est rendue en Chine, et a pris position pour un renforcement des relations commerciales sino-allemandes. Elle y a, certes, souligné que la Chine devait « jouer le jeu » du commerce international, mais concrètement, il s’agissait bel et bien de poursuivre l’ancrage de l’économie allemande dans la sphère de croissance constituée par l’Asie émergente, avec laquelle le patronat d’Outre-Rhin a trouvé un modus vivendi original (intégration logistique, l’Allemagne se réservant les activités à forte intensité technologique et capitalistique).

La suite l’a d’ailleurs très bien montré :


(source)

Commentaire : alors qu’entre 2007 et 2010, le commerce extérieur allemand régressait fortement (comme l’ensemble du commerce international), les relations germano-chinoises sont restées pratiquement constantes. Bien entendu, s’agissant de l’année 2010, le chiffre est une projection.

On remarquera qu’entre 2005 et 2010, les exportations allemandes vers les USA ont, quant à elles, baissé de 25 % environ (estimation).

Toute atlantiste qu’elle soit, Merkel ne peut tout simplement rien contre une dynamique économique de fond – le recul des USA, la montée en puissance de la Chine. Pour l’instant, les USA ont réussi à limiter leur décrochage – le financement d’une fausse reprise, en trompe l’œil et par le déficit budgétaire, ayant temporairement maintenu à flots le marché US. Mais on voit bien que si cette « reprise » craque (ce qu’elle fera certainement), l’Allemagne pourrait assez vite se retrouver avec la Chine comme premier client et premier fournisseur – ce qui imposera sans doute de revoir fondamentalement l’orientation économique globale du pays, et donc sa géostratégie.

Moins cruciales sur le strict plan économique, les relations germano-russes sont peut-être encore plus sensibles que les relations sino-allemandes en termes stratégiques. Et là encore, Merkel, tout en conservant un parfait atlantisme de façade, n’a finalement rien fait pour endiguer sérieusement le développement des relations commerciales bilatérales (peut-elle, d’ailleurs, faire quoi que ce soit ?).

Evolution en millions d’euros du commerce germano-russe (document allemand)

L’analyse de l’Ost Europa-Institut précise : « Le commerce extérieur germano-russe se développe indépendamment des changements politiques intérieurs ».

Non seulement le commerce allemand en Russie n’a pas régressé sous Merkel (en fait, il a progressé plus vite que sous Schröder !), mais en outre, les investissements allemands en Russie, il est vrai initialement fort modestes, ont littéralement explosé :

(Investissements directs allemands en Russie, en millions d’euros, même source – la progression est impressionnante, de sorte que, même si en 2007 les investissements allemands en Russie ne représentaient encore que 5 % des investissements allemands à l’étranger, la Russie commence à devenir un moteur de développement très significatif pour l’Allemagne).

Ces trois dernières années, l’évolution s’est poursuivie si l’on ramène le commerce germano-russe à l’évolution globale du commerce extérieur allemand (marquée, comme partout sur la planète, par une très forte chute). Pour les dernières données disponibles sur le web (2008 et une partie de 2009), le poids de la Russie dans le commerce extérieur allemand continue de croître, à un rythme de l’ordre de +10% par an. La crise russe a sans doute endigué momentanément cette tendance, mais la dynamique d’ensemble n’est pas brisée.

Nul doute dans ces conditions que dans les cercles atlantistes, la cote de popularité de Frau Merkel est aujourd’hui assez loin du zénith atteint en 2003. Si le développement des relations germano-russes s’accompagnait d’une « démocratisation » de la Russie (c’est-à-dire de son occidentalisation), la démarche aurait probablement l’appui des USA. Mais ce n’est pas ici de cela qu’il s’agit ; on dirait plutôt que l’Allemagne a de moins en moins d’intérêts communs avec l’Ouest, et de plus en plus avec l’Eurasie. Et cela, ça ne doit pas plaire à Washington.

On relèvera donc avec intérêt que, depuis quelques temps, les milieux atlantistes semblent investir beaucoup sur un politicien totalement inconnu en France, mais doté en Allemagne d’une influence certaine : Friedrich Merz.

Un personnage haut en couleur, dont le portrait mérite le détour, tant il est révélateur. C’est lui qui va nous servir de « fil rouge » pour analyser, à travers un exemple assez croustillant, les stratégies d’influence de l’Empire en Allemagne.

Merz est avocat d’affaires. Sa notice Wikipédia nous apprend qu’il fut membre de l’association des étudiants catholiques, qu’il a été employé au début de sa carrière par l’industrie chimique, comme juriste, et qu’il fut tour à tour député européen et député au Bundestag (la CDU/CSU le positionna très bien au sein du comité des finances). Plutôt dans le sillage de Schaüble au début des années 2000, il survécut à la victoire de Merkel, et conserva l’essentiel de ses attributions au parlement. Il en profita pour enfourcher deux principaux chevaux de bataille : la libéralisation tous azimuts (réforme fiscale) et la critique du « passéisme » des musulmans immigrés en Allemagne. Bref, un politicien libéral néoconservateur bon teint.

Mais il y a aussi ce que Wikipédia ne dit pas. Par exemple, que depuis 2004, tout en poursuivant une carrière politique, Merz a travaillé pour « Mayer, Brown, Rove & Maw », une firme américano-britanico-mondialisée, en charge, entre autres, de la défense juridique de la compagnie « Hudson Advisors ». C’est intéressant, parce que cette compagnie racheta la banque IKB, après sa faillite en 2007, dans des conditions plus que douteuses (achat pour 150 millions d’euros, en échange d’une garantie gouvernementale de 600 millions d’euros). L’affaire a fait grand bruit Outre-Rhin, où un collectif des investisseurs spoliés s’est même constitué.

Plus croustillant encore, Merz, dont l’agenda semble indéfiniment extensible, a trouvé le temps, en 2005, de conseiller la banque Rothschild en Allemagne, au moment où un de ses fonds d’investissement, TCI (« the children investment ») attaquait la bourse allemande (pour dissuader le président de la Deutsche Börse de prendre le contrôle du London Stock Exchange). On remarquera ici, toujours pour le côté croustillant de l’affaire, que TCI fut officiellement constitué pour aider au développement des pays du tiers-monde via le microcrédit (comme si un hedge fund pouvait être une œuvre caritative !). Et que ce fonds spéculatif est en réalité connu pour pratiquer fréquemment de très agressives spéculations à la baisse, pratiquement assimilables à des manipulations de cours. TCI peut compter, pour appuyer sa démarche, sur la complicité des agences de notation, d’où sa forte profitabilité. Voilà pour les œuvres caritatives de monsieur Merz.

Sans doute parce qu’après ces affaires successives, un véritable concert de casseroles se faisait entendre derrière lui dans les couloirs du Bundestag, Merz ne s’est pas présenté aux élections de 2009, se mettant en quelque sorte « en retrait » de la vie politique officielle. Cela ne l’a pas empêché de continuer à faire avancer les affaires de ses mandants.

Merz, en quittant le Bundestag, devint président de la fondation Atlantik Brücke. Or, ces dernières semaines, on a assisté, au sommet de l’organigramme de cette fondation, à un curieux ballet. Friedrich Merz a été violemment attaqué par WLK (voir ci-dessus), au motif que Merz entraînait la fondation dans un conflit avec Merkel. Merz a en effet rédigé récemment un livre avec une figure du SPD (1), et ce serait la raison de l’ire de WLK – même si on subodore que ce n’est là qu’un prétexte, et qu’il s’agit ici de bien autre chose que d’un vulgaire bouquin.

WLK est président d’honneur de la fondation Atlantik Brücke depuis sa condamnation suite à l’affaire de la caisse noire de la CDU (une sorte de récompense pour avoir porté le chapeau, probablement). Président d’honneur, mais doté d’une influence plus qu’honorifique, il est parvenu, dans un premier temps, à obtenir l’éviction de Merz.

Mais dans un deuxième temps, celui-ci a regroupé ses soutiens, et finalement triomphé. Et cela n’est pas tout à fait anodin.

Un journaliste d’investigation allemand, Jürgen Elsässer, a eu la curiosité de regarder qui, au sein de la fondation Atlantik Brücke, avait soutenu WLK ou Merz. Et il s’est aperçu de quelque chose d’assez révélateur (2) : en substance, ce sont les représentants de la partie allemande de l’axe germano-américain qui ont soutenu WLK (la grande industrie), tandis que les représentants de la partie sous dominance capitalistique américaine (par exemple le rédacteur en chef de Bild Zeitung) appuyèrent Merz, lequel bénéficia dans l’ensemble du soutien de la grande presse (3). A l’intérieur de la fondation Atlantik Brücke, il y a donc eu reprise en main par les agents d’influence américains, au détriment de leurs associés plus soucieux des intérêts proprement allemands.

En somme, il se pourrait bien qu’avec l’affaire Merz, les milieux atlantistes aient envoyé un message à Merkel : n’oublie pas qui t’a fait roi. Une épée de Damoclès surmonte désormais la tête de Frau Merkel. A elle de ne pas se tromper à l’avenir. Le sacrifice de WLK et le sauvetage de Merz ressemblent bigrement à un avertissement adressé, par les milieux atlantistes, à des élites allemandes de moins en moins enclines à coupler leur économie à une Amérique qui leur a certes beaucoup rapporté par le passé, tant que les USA s’endettaient, mais qui risque maintenant de se transformer en fardeau, puisqu’ils sont ruinés.

*

Nous sommes moins bien renseignés sur la Russie que sur l’Allemagne. Il faut bien dire que le Kremlin n’est pas précisément réputé pour sa transparence…

Décidément, la Russie restera toujours la Russie. Pour qui voit les choses de loin, aujourd’hui, il y a, à Moscou, un Grand Tsar (Poutine), un héritier ambitieux (Medvedev) et des boyards comploteurs (les oligarques). Le Tsar a le soutien du peuple, l’héritier est obligé de s’appuyer sur les boyards pour acquérir de l’influence, et les agents étrangers naviguent entre les factions rivales dans une ambiance de cour byzantine. Le Grand Souverain parviendra-t-il à déjouer les complots des boyards pour sauver la Sainte Russie ? – Telle est la question. Il ne manque plus qu’un moine mystique dans la pénombre, et on se croirait dans un roman historique !

Bref, trêve de plaisanteries.

Essayons, armés du peu d’informations dont nous disposons, de démêler l’écheveau de la vie politique russe (la vraie, celle qui se joue dans les coulisses). Nous verrons que la Russie reste la Russie, mais que les choses sont, tout de même, un peu plus compliquées que dans un film d’Eisenstein.

Petit rappel du paysage russe, pour commencer.

Dans les années 1990, après l’écroulement de l’URSS, quelques dizaines d’oligarques se sont littéralement partagé les dépouilles de l’économie russe. C’est probablement le plus grand pillage de tous les temps, en tout cas la plus formidable disparition de valeurs jamais vue en temps de paix. De véritables colosses industriels ou miniers ont été bradés par Eltsine à ses « amis », c’est-à-dire, en fait, ses financiers.

En reprenant le pays, en 2000, Poutine fit preuve de pragmatisme. Conscient des rapports de force, il n’a pas attaqué frontalement les oligarques. Il s’est contenté de leur fixer les règles du jeu : ils eurent le droit de conserver leurs propriétés, même mal acquises, à une condition, les mettre au service de la grandeur et de la puissance de la Russie. L’officialisation de cette position s’est faite en deux temps : d’abord, dès son entrée en fonction, Poutine signa un décret qui exemptait Eltsine et son entourage de toute enquête sur leurs malversations (sans doute était-ce le prix à payer pour entrer en fonction) ; ensuite, ayant rassuré, il punit. Il disposait pour cela d’une force d’appoint décisive : le soutien des réseaux ex-KGB, bien décidés à restaurer la « verticale du pouvoir » (en d’autres termes : en finir avec l’anarchie destructrice des années Eltsine).

Mikhaïl Khodorkovski est alors le président du géant pétrolier Ioukos, qu’il a acquis pour une somme dérisoire par rapport à sa valeur réelle (à peu près 1,25 % d’après des estimations sérieuses). Il envisage de revendre l’entreprise à un groupe occidental. Poutine s’y oppose, mais Khodorkovski persiste – il vient de transmettre ses parts au financier britannique Jacob Rothschild. Cette fois, l’oligarque a passé une ligne rouge : il est arrêté et condamné à huit ans de prison. Le message est simple : tant que vous obéissez à Poutine, on ne vous demande pas de compte sur la période Eltsine. Mais si vous désobéissez, vous aurez l’insigne honneur de participer avec enthousiasme à la colonisation de la Sibérie (Khodorkovski est, aux dernières nouvelles, à l’isolement dans une colonie pénitentiaire située sur un gisement d’uranium à ciel ouvert – Elie Wiesel a d’ailleurs lancé une campagne pour essayer de le sortir de là – on lui souhaite bonne chance).

La plupart des oligarques se sont accommodés de la méthode Poutine. D’abord parce qu’ils n’avaient pas envie de finir à l’isolement sur un gisement d’uranium, ensuite parce qu’au fond, ils savent bien que la « verticale du pouvoir » est indispensable en Russie.

Parmi les oligarques qui se rallièrent à Poutine (Roman Abramovitch, Pavel Fedoulev, Vladimir Potanine…), le plus important était sans doute Anatoli Tchoubaïs. Retenons ce nom, ce sera notre « fil rouge » pour décoder l’influence atlantiste en Russie.

Les milieux d’affaires occidentaux ont toléré mise en place du système Poutine parce qu’ils n’avaient tout simplement pas le choix. Ils ont bien tenté de financer des partis libéraux, avec Gary Kasparov en figure de proue, mais le libéralisme est, en Russie, assimilé à l’ère Eltsine, de sorte qu’il culmine à 5 % des votes. En réalité, il est complètement impossible de réaliser, en Russie, une « révolution colorée » à la Soros (comme celle qui fut tentée et, provisoirement, réussie en Ukraine), parce qu’à part Moscou et Saint-Pétersbourg (et encore), le pays est totalement imperméable au projet libéral anglo-saxon. Comme il n’est pas non plus envisageable d’attaquer militairement la Russie, dès lors que le Kremlin est unifié et déterminé, les acteurs sous influence occidentale ne peuvent jouer qu’un rôle subalterne.

Mais les données du problème changent dès lors que le Kremlin n’est plus unifié. La rupture apparente du tandem Poutine-Medvedev offre donc, depuis quelques mois, de nouvelles possibilités d’action aux « occidentaux ».

L’homme à suivre en premier lieu est, sans doute, notre « fil rouge » : Anatoli Tchoubaïs. Surnommé « le père de tous les oligarques », c’est de toute manière un personnage-clef. C’est lui qui organisa, en grande partie, la privatisation-pillage des années 90. C’est encore lui, aujourd’hui, dont l’influence grandit au sein du cercle Medvedev – du moins dans la mesure où nous sommes informés correctement des évolutions au sein d’une direction moscovite fort peu transparente.

Tchoubaïs fait partie des milieux économiques qui souhaitent orienter la Russie vers les technologies de pointe, en particulier l’informatique civile et les nanotechnologies, pour diversifier une économie trop dépendantes des exportations de matières premières – ce en quoi il n’a pas forcément tort. Il est surprenant qu’un pays à la pointe de la recherche militaire (développement des systèmes laser anti-détection sur les avions de chasse, sous-marins nucléaires ultra-furtifs de quatrième génération, chasseur T-50 de cinquième génération, comparable au F-22 américain) ne soit capable d’exporter que des matières premières… et des armes.

Or, on a pu constater, ces dernières semaines, que Medvedev semblait s’approprier le projet « high tech » de Tchoubaïs. En mai 2010, dans un discours au comité pour la modernisation de l’économie russe, il a pris position en faveur du développement accéléré des technologies de l’information et de la communication. On remarquera ici, au passage, que ce choix impliquerait le développement d’une plus forte intégration entre l’économie russe et le leader dans ce domaine, leader qui reste (au moins pour ce qui relève du software) les Etats-Unis – et impliquerait, en contrepoids, un moindre investissement dans le projet industriel classique qui sous-tend évidemment le commerce germano-russe.

En filigrane, on doit peut-être ici discerner un axe Tchoubaïs-Medvedev, le premier « vendant » au second l’intégration de la Russie dans l’économie occidentale, sur un pied d’égalité, le second s’empressant de croire à la promesse (pourtant bien nébuleuse) du premier, afin de se doter d’un soutien de poids, dans la perspective d’un face-à-face avec Poutine aux élections prochaines. La communication très « occidentalisante » adoptée par Medvedev ces derniers temps (rencontre avec Bono, le leader de U2, etc.) laisse penser que c’est le cas.

Si cette analyse est correcte, alors il semble bien que Tchoubaïs ait décidé de miser sur Medvedev en vue d’accroître le pouvoir des oligarques – une intrigue de palais, au sein des tout petits milieux pétersbourgeois qui trustent les postes de responsabilité à Moscou, depuis dix ans (Tchoubaïs, Poutine et Medvedev sont tous trois issus de la « suite » d’Anatoli Sobtchak, ex-maire de Saint-Pétersbourg). Mais peut-être est-ce, aussi, un peu plus qu’une intrigue de palais… Dans quelle mesure Tchoubaïs agit-il ici sur ordre des occidentaux ? Bien malin qui pourrait répondre à cette question. Ce qui est sûr, en tout cas, c’est que son influence joue en faveur d’un retour de l’Occident en Russie.

Poutine, l’homme de l’alliance chinoise, contre Medvedev, l’homme de l’OTAN ? Sans aller jusque là, force est de constater que les lignes de communication respectives des deux hommes, à ce stade, laissent penser qu’un véritable affrontement se prépare. D’un côté, Medvedev, l’ex-fan de hard rock, partisan de l’inscription de la Russie dans l’univers occidental (virtualisme, nouvelles technologies). En face, Poutine, l’homme de la Russie profonde, partisan d’une politique de puissance et champion de la lutte anti-corruption (récent discours très dur, sur ce sujet, pour dénoncer les dérives de la bureaucratie au niveau local – purges en perspective ?).

Poutine est fort de son bilan (la gestion de la crise financière de 2008 a été remarquable, la dévaluation du rouble a permis une relance rapide). Medvedev, lui, entend communiquer sur un retour du rêve occidental.

Medvedev propose implicitement à la Russie de capitaliser sur son statut de puissance retrouvé (symbole fort : pour la première fois, en 2009, les ventes d’armes russes ont dépassé celles des USA en Amérique Latine). Dans la logique Medvedev, il s’agit, à présent que le siège semble brisé (axe économique germano-russe en construction, Ukraine à nouveau sous contrôle, présence marquée en Asie Centrale, abandon du projet antimissiles US en Europe de l’est) d’encaisser les dividendes : principalement, obtenir le soutien de l’Occident pour une intégration accélérée dans l’OMC (4), et de manière plus générale une place honorable dans l’ordre économique international. Le président russe peut compter, pour déployer cette communication, sur le soutien d’une partie des médias. Et il dispose, il ne faut pas s’y tromper, d’arguments réels : pour diversifier son économie, la Russie a besoin d’importer du savoir-faire occidental, comme la Chine l’a fait ces dernières décennies – et cela, c’est un fait.

Poutine, de son côté, a déjà fait donner ses propres réseaux (l’appareil d’Etat, principalement) pour contrebattre la ligne de communication Medvedev. En filigrane, derrière ces discours pro-Poutine, on devine une mise en garde : le « rêve occidental » n’est qu’un leurre. Le siège n’est pas définitivement brisé, il est trop tôt pour encaisser les dividendes. L’influence anglo-saxonne continue, partout où elle le peut, de contrecarrer le retour de la Russie (en Asie centrale, en Europe de l’est, mais aussi, désormais, en Amérique Latine). Les livraisons d’armements OTAN à la Géorgie se poursuivent. Comment attendre quoi que ce soit de l’Occident, dans ces conditions ?

Ce qui rend ce heurt apparent très difficile à analyser, c’est qu’il est impossible, en Russie, de séparer les prises de position des deux hommes du consensus latent des élites qui les soutiennent. Or, ces élites sont caractérisées par une opacité extrême, et une stabilité sous-jacente qu’on n’imagine pas en Occident. Détail révélateur, c’est la même plume qui rédige aujourd’hui les discours de Medvedev, rédigeait hier ceux de Poutine, et avant-hier ceux de Eltsine. En fait, il faut bien garder en tête, ici, que nous pouvons avoir l’impression d’un clivage Poutine / Medvedev, et que cependant, dans la réalité, dans la coulisse, il y a consensus pour négocier un accord avant la prochaine élection présidentielle. Tout ce qu’on peut dire à ce stade de solide et sérieux, c’est que la marge de manoeuvre de Medvedev, jusque là presque nulle, semble croître, et que des influences pro-US très fortes se manifestent désormais au niveau des classes dirigeantes russes.

Medvedev n’est pas l’homme qui fera basculer la Russie dans l’atlantisme, c’est plus compliqué que cela. Il faut toujours se souvenir que Poutine voulait initialement se lier avec les USA, et que c’est Washington, au départ, qui a refusé sa proposition de partenariat, il y a dix ans. En Russie, rien n’est simple, tout est possible.

*

Derrière l’affaire Merz en Allemagne et le cas Tchoubaïs en Russie, une isomorphie : un Empire en train de perdre la maîtrise de la mondialisation qu’il impulse, et qui, pour retarder et si possible annuler les conséquences de son déclin dans l’économie réelle, pour contrôler les élites rivales et maîtriser leurs choix, mise sur la cooptation sélective au sein de ces élites.

Plutôt que la « révolution colorée » méthode Soros, et (pour l’instant) aux antipodes de la brutalité néoconservatrice, on retrouve là le schéma d’influence proposé par Z. Brzezinski, l’éminence grise de Barack Obama.

Quelques citations de son ouvrage principal, « Le Grand Echiquier » (5) :

« Par définition, les empires sont des entités politiques instables, parce que les unités subordonnées préfèrent, presque toujours, acquérir une plus grande autonomie. Et presque toujours, les contre-élites gérant ces unités s’emploient à accroître leur autonomie. » (citation que Z.B. tire de l’universitaire Donald Puchala.)

« Pour l’Amérique, l’enjeu géopolitique principal est l’Eurasie. Depuis cinq siècles, les puissances et les peuples de ce continent ont dominé les relations internationales. Aujourd’hui, c’est une puissance extérieure [l’Amérique] qui prévaut en Eurasie. Et sa primauté globale dépend étroitement de sa capacité à conserver cette position. »

« Tous les rivaux politiques et/ou économiques des Etats-Unis sont situés en Eurasie. Leur puissance cumulée dépasse de loin celle de l’Amérique. Heureusement pour cette dernière, le continent est trop vaste pour réaliser son unité politique. »

« Si l’espace central de l’Eurasie [la Russie] peut être attiré dans l’orbite de l’ouest [l’Europe], où les Etats-Unis sont prépondérants, […] et si l’Est [Chine-Japon] ne réalise pas son unité de sorte que l’Amérique se trouve expulsée de ses bases insulaires, cette dernière conservera une position prépondérante. »

« L’arme nucléaire a réduit, dans des proportions fantastiques, l’usage de la guerre comme prolongement de la politique. […] Ainsi les manœuvres, la diplomatie, la formation de coalitions, la cooptation et l’utilisation de tous les avantages politiques sont désormais les clefs du succès dans l’exercice du pouvoir géostratégique. »

« Dans la terminologie abrupte des empires du passé, les trois grands impératifs géostratégiques se résumeraient ainsi : éviter les collusions entre vassaux et les tenir dans l’état de dépendance que justifie leur sécurité ; cultiver la docilité des sujets protégés ; empêcher les barbares de former des alliances offensives. »

« La France et l’Allemagne sont assez puissantes pour avoir une influence régionale au-delà de leur voisinage immédiat. […] De plus en plus, l’Allemagne prend conscience des atouts qu’elle a en propre. […] Du fait de sa situation géographique, l’Allemagne n’exclut pas la possibilité d’accords bilatéraux avec la Russie. »

« La Russie a de hautes ambitions géopolitiques qu’elle exprime de plus en plus ouvertement. Dès qu’elle aura recouvré ses forces, l’ensemble de ses voisins, à l’est et à l’ouest, devront compter avec son influence. »

« Un scénario présenterait un grand danger potentiel : la naissance d’une grande coalition entre la Chine, la Russie et peut-être l’Iran. »

« On peut s’inquiéter d’un échec du processus [d’unification européenne] et de ses conséquences […] pour la place de l’Amérique sur le continent. […] La Russie et l’Allemagne pourraient tirer parti de cette nouvelle situation et se lancer dans des initiatives visant à satisfaire leurs propres aspirations géopolitiques. »

Ce paragraphe, très important dans le contexte actuel, signifie que Brzezinski souhaite dans une certaine mesure le développement des liens germano-russes, mais seulement si l’Allemagne est, via l’Union Européenne codirigée avec une France capable de maintenir une forme de parité, ancrée dans un monde atlantique lui-même sous leadership américain. Brzezinski parle, pour décrire l’Europe qu’il souhaite, de « tête de pont de la démocratie » (en clair : de l’Amérique). Et donc, une situation, où la France serait trop faible pour maintenir cette parité, modifierait fondamentalement l’attitude des USA à l’égard de la question germano-russe – surtout si, dans le même temps, l’Amérique est si affaiblie qu’elle n’a plus les moyens de faire clairement percevoir son leadership global.

Nous avons confirmation de cette lecture plus loin : « A long terme, la France est un partenaire indispensable pour arrimer définitivement l’Allemagne à l’Europe. […] Voilà pourquoi, encore, l’Amérique ne saurait choisir entre la France et l’Allemagne. »

En clair : aussi longtemps que l’Europe s’unifie sous la tutelle américaine, l’Allemagne doit être poussée à étendre sa zone d’influence vers l’est. Mais si ce nouveau Drang nach Osten devait déboucher sur la définition d’un axe Berlin-Moscou émancipé de la tutelle US, alors il faudrait que les USA donnent les moyens à la France de rééquilibrer l’Europe. Ce point est, évidemment, pour nous, Français, d’une grande importance. Nous allons peut-être avoir, enfin, la possibilité de desserrer l’étau de l’alliance germano-américaine.

*

De tout ceci, en attendant, on peut tirer une conclusion simple s’agissant de l’Empire : nous assistons probablement, derrière l’affaire Merz et le cas Tchoubaïs, au déploiement d’une vaste stratégie US, dont la finalité est d’empêcher que la « tête de pont de la démocratie » se mue, en éclatant, en tête de pont de l’économie eurasiatique.

Profondément affaiblie par la crise économique, l’Amérique perd la maîtrise de la mondialisation. Si, comme on peut le penser, sa « reprise » en trompe-l’œil, financée par le déficit budgétaire, implose dans les deux ans qui viennent, la balance pourrait commencer à peser de plus en plus nettement en faveur de la Chine, y compris au sein des classes dirigeantes européennes – et allemandes en premier lieu. Une situation qui pourrait entraîner, à long terme, la constitution d’une économie eurasiatique dynamique et partiellement intégrée, dont l’Amérique, déclassée, ne serait plus qu’une périphérie.

Le troisième impératif de Brzezinski, « empêcher les barbares de former des alliances offensives », ne serait alors plus garanti, puisque le premier, « éviter les collusions entre vassaux », aurait volé en éclat. Il y a treize ans, dans « Le Grand Echiquier », Brzezinski écrivait, en substance, que pour conduire à terme le projet mondialiste dans de bonnes conditions, il fallait que l’hégémonie US soit maintenue encore pendant une génération – il est de plus en plus évident que cette condition sera peu aisée à remplir. Le fond du problème est évident, il suffit de relire « Le Grand Echiquier » pour le comprendre : la montée en puissance de la Chine va beaucoup plus vite que ce qui avait été anticipé par Brzezinski.

Peu capables de s’opposer à cette dynamique économique de fond, les milieux atlantistes ont, de toute évidence, choisi pour l’instant de jouer sur les armes d’influence recommandées par Brzezinski : « les manœuvres, la diplomatie, la cooptation ».

Sur ce dernier point, il écrit, dans « Le Grand Echiquier » : « Deux étapes fondamentales sont donc nécessaires. Premièrement, identifier les Etats géopolitiquement dynamiques qui ont le potentiel de créer un basculement important en terme de distribution internationale du pouvoir, et décrypter les objectifs poursuivis par leurs élites politiques, et les conséquences éventuelles. Deuxièmement, mettre en oeuvre des politiques US pour les compenser, coopter, et/ou contrôler. »

Compenser : Medvedev contre Poutine, la fondation Atlantik Brücke contre une partie du haut patronat allemand. Coopter : Merz. Contrôler : Tchoubaïs.

Si la démarche échoue, il ne restera plus à l’Empire qu’à choisir entre la défaite et la guerre.

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Notes :

(1) « Ce qu’il faut faire maintenant : l’Allemagne 2.0 », coécrit avec un ancien politicien SPD, « de gauche », Wolfgang Clement. L’étiquette « gauche » ne doit pas ici abuser le lecteur. Ce monsieur Clement, maintenant retiré de la vie politique, siège à de nombreux conseils de surveillance – sans doute une récompense pour avoir conduit une bonne partie des réformes social-libérales de l’ère Schröder.

(2) Source : « Est-ce que les cercles anglo-américains préparent une rocade du pouvoir en Allemagne ? », Jürgen Elsässer Blog

(3) Par exemple, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ, l’équivalent allemand du Figaro) a publié, en mai 2010, un article présentant les critiques de WLK comme « peut-être » infondées, et « peut-être » motivées par de vulgaires considérations financières : « Bataille boueuse ».

Cet article a été écrit par un monsieur Majid Sattar, d’origine irakienne, qui a fait ses études aux USA.

(4) Il est utile, pour comprendre le positionnement de Medvedev, de se souvenir que lorsqu’il discute avec les Américains de l’Iran, par exemple, c’est entre deux séances de travail sur l’admission de la Russie à l’OMC.

(5) Le texte de Brzezinski est entouré de circonlocutions et formules obligées visant à nous présenter son projet comme l’expression d’une hégémonie américaine « bienveillante », destinée à conduire le monde vers la paix universelle et la démocratie. J’épargnerai au lecteur de subir ici ces formules hypocrites, pour mettre plutôt en exergue les passages qui traduisent, selon toute probabilité, la pensée profonde de l’auteur : défendre un Empire inégalitaire et prédateur, pour les meilleurs intérêts de ses classes dirigeantes corrompues.

(6) Ce texte a été rédigé avec l’aide bénévole de l’ami Fritz et d’oncle Vania, que l’auteur tient à remercier tout en respectant leur anonymat.

Scriptoblog

mardi, 14 septembre 2010

Sarrazin en het gen

Sarrazin en het gen

Thilo-Sarrazin-2.jpgErgens in de slotjaren van vorige eeuw dacht de voorzitter van een Vlaams-conservatieve vormingsorganisatie, de Delta-Stichting, er luidop aan om Horst Mahler uit te nodigen als spreker op een volgend Delta-congres. Mahler, ooit advocaat van de extreemlinkse Rote Armee Fraktion, was geëvolueerd tot criticus van extreemlinks in zijn nieuwe gedaante, de multikulti staatsideologie. Kortom, net het soort ongebonden vrijdenker wiens observaties de Vlaming nodig eens moest vernemen. Echter, tegen dat het tijd werd om sprekers voor dat congres uit te nodigen, was Mahler alweer van de kandidatenlijst afgevoerd. Het bleek immers dat hij in rechtse richting was blijven doorevolueren en inmiddels een ongezouten neonazisme omhelsd had. Het thema waarop hij nu hamerde, was niet meer de vrijheid of een aanverwante waarde die door het multiculsysteem bedreigd wordt, maar wel das Reich. Als Duitsers daarover beginnen, gaan niet-Duitsers enig wantrouwen koesteren.

Om dezelfde reden was ik niet enthousiast toen ik de titel hoorde van het boek waarmee SPD-politicus en Bundesbank-bestuurder Thilo Sarrazin het nieuws haalde: Deutschland schafft sich ab. Waarom inzoomen op Duitsland wanneer de daarin behandelde migratie-, integratie- en demografische problematiek juist typisch Europees is? Landen die in WO2 tot het winnende, het verliezende of het neutrale kamp behoorden, worden er gelijkelijk mee geconfronteerd. Wanneer onze media dan nog berichtten dat hij tegelijk Joden en moslimmigranten affronteerde, leek het alsof we hier met een nostalgicus naar damals te maken hadden.

Vergelijkt men de beeldvorming naar het grote publiek echter met een nauwkeuriger feitenweergave, dan komt een gevoelig andere toedracht van de Sarrazin-rel naar voren. De multiculpropaganda probeert bij gebrek aan argumenten haar critici met het nazisme te vereenzelvigen, en daartoe is Jodenhaat een toch wel essentieel criterium. Dat wordt echter moeilijk bij uitgesproken jodenvrienden als wijlen Pim Fortuyn of Geert Wilders, en eigenlijk ook bij Sarrazin, maar men blijft proberen. In dit geval moet een flou artistique in de nieuwsformulering ervoor zorgen dat de lezer de indruk krijgt als zou Sarrazin Joden en immigranten over één kam scheren. Het tegendeel is waar.

Sarrazin behandelt uitvoerig de nefaste rol van de islam in de haperende integratie van immigranten, en daarover kan geen zinnig mens hem nog tegenspreken. Maar hij verwekt opschudding met zijn behandeling van de genetische dimensie van de bevolkingsevolutie. Als leek terzake drukt hij zich schromelijk onnauwkeurig uit door te zeggen dat ondermeer de Joden en de Basken zich door “een gen” onderscheiden. Maar hij baseert zich op populair-wetenschappelijke artikels uit gerespecteerde bron en sluit wel degelijk aan bij de huidige stand van de wetenschap wanneer hij de (zeer complexe, niet uniforme doch statistisch onmiskenbare) genetische component van bevolkingsgroepen erkent. Zo verwijst hij naar de recente ontdekking dat de diverse takken van het Joodse volk, spijts hoopvolle speculaties in tegengestelde zin vanuit pro-Palestijnse hoek, genetisch wel degelijk nauwer verwant zijn met elkaar dan met hun respectieve buurvolkeren.

Tegelijk zou uit grootschalige vergelijking van IQ-testresultaten blijken dat sommige etnische groepen gemiddeld significant intelligenter zijn dan andere. Asjkenazische Joden zouden bovenaan de intelligentieladder staan, gevolgd door Oost-Aziaten en niet-Joodse Europeanen. Toevallig spelen Joden vandaag een prominente rol in deze theorievorming, ondermeer Michael Levin (Why Race Matters, 1997) en Michael H. Hart, die in zijn boek Understanding Human History (2007) de totstandkoming en effecten van collectieve intelligentieverschillen schetst. Bijvoorbeeld, de politiek bevoorrechte uitleg voor de technologische achterstand van Afrika luidt dat deze uit omgevingsfactoren voortkomt, maar Hart wijst erop dat de Maya’s in dezelfde klimaatgordel leefden als de Afrikanen doch wél het schrift, hoogbouw, sterrenkunde en andere beschavingselementen ontwikkeld hebben. Hart verklaart dit door de millennia die de voorouders van de Maya’s in Noordoost-Azië doorgebracht hebben, waar het barre klimaat op vernuft (organisatie, vooruitzien) selecteert.

Bovenop dit overlevingsvoordeel hebben sommige volkeren aan hun goochemste leden nog een extra voortplantingsvoordeel gegeven. Het Chinese examensysteem verleende de schranderste deelnemers het alleenrecht op de ambtelijke loopbaan, met daaraan verbonden een hoog en vast inkomen, dus meerdere vrouwen en bescherming tegen hoge kindersterfte. Rijke Joden, die hun kleinkinderen diezelfde materiële zekerheid konden waarborgen, huwelijkten hun dochters uit aan jongemannen die in de economisch overigens nutteloze Talmoedstudie door geleerdheid en spitsvondigheid uitmuntten. Door dat soort selectie kan de gemiddelde intelligentie van een groep langzaam evolueren.

Sarrazin leidt daaruit af dat “Duitsland dommer wordt” door de invoer van mensen met erfelijk een gemiddeld lagere intelligentie. De Turken zouden gemiddeld al wat minder intelligent zijn, en bij Arabieren en Pakistani’s wordt het verschil met het Duitse gemiddelde echt aanzienlijk. Zelfs de bekering uit de scholingvijandige islam zou hun leerachterstand niet helemaal wegwerken.

Dat standpunt wetenschappelijk beoordelen ligt buiten mijn competentie. Politiek is het te karakteriseren als subversief, en als extra gevoelig wanneer een Duitser het formuleert. Voorspelbaar genoeg is Sarrazin bij zijn partij en bank buitengezet. Gelijk krijgen zou hij uiteraard nooit, maar zijn critici blijven zitten met de last om te bewijzen dat hij geen gelijk heeft.

 

lundi, 13 septembre 2010

Presseschau - Sept. 2010 (1)

kiosque-journaux.jpgPresseschau

September 2010/01

Eine Stange Links. Zum Anklicken bei Interesse...

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Kriegertum

Kriegertum ist eine Uraufgabe des ehrliebenden Mannes gegenüber seinem Volk, woraus sich eine besondere Auslese ergibt, die – geburtsständisch verfestigt – als Adel in Erscheinung treten kann. In der modernen Wehrverfassung, die den zeitweiligen Militärdienst jedes wehrhaften und wehrberechtigten Mannes mit der berufskriegerischen Einrichtung eines militärischen Führerkorps (Offizierskorps) verbindet, äußert sich die Urtatsache, daß die Aufgabe der Vaterlandsverteidigung über den Umkreis des „geborenen Kriegers“ hinausgreift, wobei diesem jedoch eine besondere Vorzugsaufgabe und Entfaltungsmöglichkeit im Volksganzen vorbehalten bleibt. Der sogenannte Militarismus, der dem Vorkriegsdeutschland preußischen Stiles vorgeworfen wurde, hatte nichts mit Kriegslust und Welteroberungsplänen zu tun, wohl aber lag ihm die richtige Witterung zugrunde, daß Heeres- und Staatsführung in einem urtümlichen Zusammenhang stehen, der freilich durch die technische Spezialisierung von Kriegs- und Verwaltungskunst in unserem Spätalter verdunkelt wird. (...)

(Max Hildebert Boehm: ABC der Volkstumskunde. Der Begriffsschatz der deutschen Volkslehre für jedermann, Potsdam 1936, S. 44)

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Rohstoffknappheit
Bundeswehr-Studie warnt vor dramatischer Ölkrise
Märkte versagen, Demokratien wanken, Deutschland verliert global an Macht: In einer Studie hat ein Think Tank der Bundeswehr analysiert, wie die sinkende Ölförderung die Weltwirtschaft verändert. Das interne Dokument zeigt erstmals, wie sehr eine drohende Energiekrise die Militärs sorgt.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,714878,0...

Wehrpflicht-Debatte
Minister will Heimatschutzpflicht für junge Männer
Niedersachsens Innenminister Schüneman (CDU) will die Wehrpflicht zur Heimatschutzpflicht umbauen. Dies erlaube das Grundgesetz.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9237133/Min...

Oberst Klein entgeht einem Disziplinarverfahren
Bundeswehr sieht im Befehl zum Luftschlag kein Dienstvergehen
http://www.abendblatt.de/politik/deutschland/article16053...

Deutsches „Know-how“ wird verscherbelt....
Den zivilen HDW-Bereich übernimmt die Werftengruppe nun Ende September
Abu Dhabi Mar soll in den U-Boot-Bau einsteigen
Kiel – Der Teilverkauf der Kieler Werft HDW verzögert sich erneut. Doch bis Ende September soll der zivile Schiffbaubereich endgültig von Abu Dhabi MarGruppe (ADM) übernommen werden. Und anschließend wird der Einstieg der arabischen Gruppe in den U-Boot-Bau vorbereitet.
http://www.segeberger-zeitung.de/schleswig_holstein/wirts...

Dazu eine ältere Meldung:
http://www.welt.de/die-welt/wirtschaft/article5523029/U-B...

Der Iran eröffnet sein erstes Atomkraftwerk
Trotz der jüngsten Sanktionen gegen Teheran wird das erste Atomkraftwerk des Iran mit Brennelementen bestückt.
http://www.welt.de/politik/ausland/article9121866/Der-Ira...

Aus einem Geheimbericht der britischen Regierung geht hervor, daß etablierte islamische Organisationen die Ideologie der Al Kaida teilen.
http://www.liveleak.com/view?i=297_1281133764

Dokument zu US-Dschihadisten
WikiLeaks veröffentlicht CIA-Memo
Sie haben es wieder getan. Die Webseite WikiLeaks, spezialisiert auf die Veröffentlichung geheimer Unterlagen, hat ein internes Memo des Geheimdienstes CIA publiziert – diesmal das Thema: Gedankenspiele rund um Terroristen mit US-Pässen.
„Die Red Cell ist eine Einheit innerhalb der CIA, die nach dem 11. September 2001 eingerichtet wurde und deren Auftrag es ist, außerhalb gängiger Schemata zu denken. Die CIA selbst schreibt auf ihrer öffentlich zugänglichen Webseite, daß die Red Cell Gedanken provozieren und alternative Blickwinkel aufzeigen soll.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,713823,00.html

Dobrindt: EU-Gelder für Türkei stoppen
http://www.merkur-online.de/nachrichten/politik/dobrindt-...

Taliban steinigen Paar nahe Bundeswehrlager
Eine grausame Strafaktion der Taliban zeigt, wie wenig Einfluß Bundeswehr und lokale Polizei rund um Kunduz nur noch haben.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,712051,00.html

Flutkatastrophe
Politiker fordern mehr Einsatz für Pakistan
„Das Land hat ein Imageproblem“ – trotz der verheerenden Flutkatastrophe knausern die Deutschen bei Spendenzahlungen für Pakistan, ARD und ZDF verzichten auf die sonst üblichen Spendengalas.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,711986,0...

Pakistans Regierung will das Geld für sich
Spenden an unabhängige Hilfswerke „versickern zu 80 Prozent“
http://www.nzz.ch/nachrichten/international/pakistan_regi...

Premier Nečas: „Keine neuen Diskussionen über Temelín und Beneš-Dekrete“
http://www.radio.cz/de/nachrichten/131082#1

Band 1 des Staatspolitischen Handbuchs seit kurzem online ...
Metapolitik online
Leitbegriffe
Teil 1 des Staatspolitischen Handbuchs
http://www.staatspolitik.de/Band-1/Leitbegriffe/

Wer die Leitbegriffe des IfS in gedruckter Form haben möchte, kann das schön gesetzte und zu häufigem Gebrauch haltbar ausgestattete Staatspolitische Handbuch, Band 1, Leitbegriffe hier erwerben:
http://www.shop.edition-antaios.de/product_info.php?info=...

Oder auch hier:
http://www.amazon.de/Leitbegriffe-Erik-Lehnert/dp/3935063...

Thilo Sarrazins drastische Thesen über unsere Zukunft
Deutschland wird immer ärmer und dümmer!
Deutschland schafft sich ab!
Geburtenrückgang, Bildungs-Misere, wachsende Unterschicht und mangelnde Integration – wenn nicht bald etwas passiert, schaffen sich die Deutschen selbst ab. So lautet die provokante These, die der streitbare SPD-Politiker Thilo Sarrazin (65) in seinem neuen Buch vertritt.
http://www.bild.de/BILD/politik/2010/08/23/thilo-sarrazin...

Populismus-Debatte
Volksparteien graut vor deutschem Geert Wilders
SPD-Mitglieder bombardieren ihre Führung mit Protestschreiben, CDU-Anhänger hadern mit ihrer Spitze: Der Fall Sarrazin fordert die etablierten Parteien heraus. Populisten könnten den Unmut ausnutzen, warnen Demoskopen – denn rechts von der Union gibt es ein großes Wählerpotential.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,715490,0...

Ein Sommermärchen ...
„Freiheitliche Volkspartei“ mit Sarrazin, Merz, Koch und vielen anderen
http://ef-magazin.de/2010/08/26/2472-aktuelle-nachricht--...

Dammbruch: „Das wird man ja wohl sagen dürfen“
Schwarzes Loch rechts außen
KOMMENTAR VON ALBRECHT VON LUCKE
Was wir gegenwärtig in der öffentlichen Debatte erleben, ist ein diskursiver Dammbruch. Ganz egal, ob es tatsächlich zu einer neuen Rechtspartei kommen wird, potentiell und mental ist diese Rechtskonstellation schon vorhanden. Daß jeder fünfte heute eine Sarrazin-Partei wählen würde, hat die politische Landschaft bereits jetzt massiv verändert. Das Vakuum auf der Rechten wirkt anziehend wie ein schwarzes Loch auf die Parteien und verschiebt ihre Positionen sukzessive nach rechts.
http://www.taz.de/1/debatte/kommentar/artikel/1/schwarzes...

Neue Ausgabe der Schülerzeitschrift BOCK in Hannover erschienen
http://de.altermedia.info/general/neue-ausgabe-der-schule...
http://de.altermedia.info/general/hannoversche-grune-vom-...
http://www.besseres-hannover.info/

DIW-Chef fordert 500.000 Zuwanderer pro Jahr
Laut einer Statistik aus Brüssel hat kein EU-Land mehr Ausländer als Deutschland. Im Jahre 2009 waren es über sieben Millionen Menschen, was einem Bevölkerungsanteil von 8,8 Prozent entspricht. Für Klaus F. Zimmermann (Foto), Chef des Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung, nicht genug: Er fordert mindestens netto 500.000 mehr Zuwanderer pro Jahr.
http://www.pi-news.net/2010/09/diw-chef-fordert-500-000-z...

Häme, Spott und Mißtrauen
Von Michael Wiesberg
Um das Image von Politikern sei es in Deutschland schlecht bestellt, klagte Bundespräsident Christian Wulff vor einigen Tagen im ARD-Morgenmagazin: Früher sei man dafür gelobt worden, wenn man sich engagiert und ein öffentliches Amt übernommen hat. Heute hingegen begleite auch Politiker „Häme, Spott und Mißtrauen“.
Demokratie funktioniere aber nur, wenn Menschen Verantwortung übernähmen und nicht jeder Politiker als „Karrierist verhöhnt“ werde. Die Aufgabe vor der er, Wulff, stehe, sei „viel größer“, als er befürchtet habe.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Gesinnungs- oder Rechtsstaat?
http://www.civitas-institut.de/index.php?option=com_conte...

Rettungsschirm
Der Zahltag für die Eurozone rückt näher
Für Irland und Portugal wird es immer schwieriger, Kredite am Kapitalmarkt zu bekommen. Bald dürfte der 750-Milliarden-Rettungsschirm gefragt sein.
http://www.welt.de/finanzen/geldanlage/article9219330/Der...

Marsch in die Billionen-Miese
Schuldenjunkie Deutschland
http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,711347,0...

Interessante Statistik
Wofür gibt der Staat das ganze Geld aus
http://www.spiegel.de/fotostrecke/fotostrecke-58352.html

Kriminalität
Gangster stürmen Luxushotel in Rio de Janeiro
http://www.morgenpost.de/printarchiv/panorama/article1380...

Wenn in der Union mal jemand die Wahrheit sagt (und alle anderen borniert, opportunistisch oder schlicht unwissend sind) ...
Vertriebenen-Chefin
Steinbach sorgt für Eklat in Unionsfraktion
Erika Steinbach hat einen heftigen Streit in der Union ausgelöst. Sie behauptete, Polen habe zu Beginn des Zweiten Weltkriegs zuerst mobil gemacht.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9489105/Ste...

Steinbach beklagt mangelnde Unterstützung
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Vertriebenen-Präsidentin
Steinbach sorgt für Eklat in Unionsfraktion
http://www.faz.net/s/Rub594835B672714A1DB1A121534F010EE1/...

Umstrittene Weltkriegsbemerkung
Steinbach provoziert Eklat in Union
In der Union wächst die Empörung über die Vorsitzende des Bundes der Vertriebenen (BdV), Erika Steinbach. Sie hatte die Vertriebenen-Funktionäre Arnold Tölg und Hartmut Saenger gegen die Kritik von Kulturstaatsminister Bernd Neumann in Schutz genommen. Zudem kündigte sie an, beide auf der nächsten BdV-Sitzung für ihre Äußerungen verteidigen zu wollen.
http://www.tagesschau.de/inland/steinbach246.html

Umstrittene Weltkriegsbemerkung
Steinbach provoziert Eklat in der Union
Erika Steinbach hat bei der Union für einen Eklat gesorgt: Die Vorsitzende des Bundes der Vertriebenen verteidigte bei der Vorstandssitzung umstrittene Weltkriegsbemerkungen von zwei Vertriebenen-Funktionären. Kulturminister Bernd Neumann distanzierte sich, Steinbach fühlte sich „mißinterpretiert“.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,716491,0...

Deutschland: Eklat um „Kriegsthese“ in der CDU
http://diepresse.com/home/politik/aussenpolitik/593297/in...

Steinbach, Merkel und die Causa Sarrazin ... und dann die Polen und der Zweite Weltkrieg
Während Kanzlerin Merkel ihre Kritik bekräftigt, verteidigt Vertriebenen-Präsidentin Steinbach Bundesbanker Sarrazin – und äußert sich zum Kriegsbeginn.
Die Thesen von Bundesbank-Vorstand Thilo Sarrazin zur Migrationspolitik haben im Vorstand der Unionsfraktion zu einem heftigen Konflikt zwischen Bundeskanzlerin Angela Merkel und der Präsidentin des Bundes der Vertriebenen, Erika Steinbach, geführt. Merkel verteidigte in der Sitzung ihre öffentliche Kritik an Sarrazin. Sie hätten besonders die Vererbungstheorien Sarrazins geärgert, sagte die Kanzlerin. „Da war's bei mir vorbei. Schluß, Aus, Ende“, wurde Merkel zitiert. http://www.sueddeutsche.de/politik/steinbach-vs-merkel-un...

SPD fordert Distanzierung der Union von Steinbach
Die Vertriebenen-Präsidentin habe sich mit der Aussage, Polen habe 1939 zuerst mobil gemacht, außerhalb des demokratischen Konsenses gestellt.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9497021/SPD...

Rückzug aus Parteivorstand
Steinbach will CDU-Spitze verlassen
Erika Steinbach kehrt der Unionsspitze den Rücken: Die umstrittene Präsidentin des Bundes der Vertriebenen hat in einem Interview angekündigt, sich aus der CDU-Führung zurückzuziehen. Sie übe dort nur noch eine „Alibifunktion“ aus und fühle sich im konservativen Flügel alleingelassen.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,716649,0...
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Sven Felix Kellerhoff von der WELT verteidigt verbissen das herrschende Geschichtsbild ...
Steinbach-These
Hitler-Deutschland trieb die Polen zur Mobilmachung
Erika Steinbach hat recht: Die polnische Armee machte im März 1939 mobil. Doch Hitler hatte die Polen monatelang provoziert, weil er den Krieg wollte.
Von Sven Felix Kellerhoff
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9501550/Hit...

Hier ein Bild von dem Schreiberling:
http://www.bundestag.de/blickpunkt/bilderInhalte/0803_spe...

Historiker Scheil: „Steinbach hat recht“
Herr Scheil, Frau Steinbach hat mit ihrer Aussage, Polen habe bereits im März 1939 mobil gemacht,für Empörung in den Reihen der Union gesorgt. Können Sie die Aufregung verstehen?
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Seite von Gerd Schultze-Rhonhof
http://www.vorkriegsgeschichte.de/

Die letze Woche vor dem Kriegsausbruch
http://www.vorkriegsgeschichte.de/content/view/31/47/

Gerd Schultze-Rhonhof: 1939 – Der Krieg, der viele Väter hatte: Der lange Anlauf zum Zweiten Weltkrieg
http://www.amazon.de/1939-Krieg-Anlauf-Zweiten-Weltkrieg/...

Zur Vor- und Nachgeschichte ...
Der Tod sprach polnisch: Dokumente polnischer Grausamkeiten an Deutschen 1919–1949
http://www.amazon.de/Tod-sprach-polnisch-polnischer-Graus...

Schafft zwei, drei, viele Sarrazins!
Von Michael Paulwitz
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Merkel erklärt Fall Steinbach für erledigt
Die Kanzlerin sieht im Fall Steinbach keinen Handlungsbedarf. Unions-Fraktionschef Kauder betonte, keine „rote Linie“ sei überschritten worden.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9527807/Mer...

„Ton linker Schickeria“ – Steinbach sauer auf CDU
Erika Steinbach vermisst in ihrer Partei die Kommunikation konservativer Werte. Das sei eine „gefährliche Entwicklung“.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9535827/Ton...

Konservative
Steinbach hält Gründung neuer Partei für denkbar
Nach dem angekündigten Rückzug Erika Steinbachs aus der CDU-Spitze ist die Diskussion um die Neugründung einer konservativen Partei entbrannt.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9549208/Ste...

Steinbach attackiert die CDU
Erika Steinbach hat auf einem Vertriebenentreffen in Berlin wütend Vorwürfe zurückgewiesen, sie betreibe Geschichtsklitterung. Zuvor hatte sie ihre Partei scharf angegriffen. In der CDU hätten Konservative nur noch eine Alibifunktion, sie sehe gute Chancen für eine Partei rechts von der Union.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,716949,0...

So sprachen Unionspolitiker vor 20 Jahren
Von Felix Menzel
http://www.blauenarzisse.de/blog/1789/so-sprachen-unionsp...

Soldat in Deutschland
Bei Anruf Krieg
Mit einem Bein im Gasthaus, mit dem anderen im Gefecht: Als US-Soldat führt Tim Wright in den achtziger Jahren in Deutschland ein seltsames Leben. An den meisten Tagen scheint es harmlos. Dann aber kommt der Anruf, den alle erwarten – und fürchten.
[Bis auf den letzten Absatz lesenswert ...]
http://einestages.spiegel.de/static/authoralbumbackground...

Lothar de Maizière: DDR war kein Unrechtsstaat
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Rote Hilfe setzt Angeklagte unter Druck
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Gerichtspräsidentin wirft Thierse mangelndes Verständnis für Rechtsstaatlichkeit vor
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Bayern zieht Autokennzeichen mit „AH“ und „HH“ aus dem Verkehr
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Rechte Rattenfänger im Netz
Zahl der rechtsextremistischen Webseiten erreicht Höchststand – Massenhafte Verbreitung von Haßmaterial über Facebook & Co.
http://www.welt.de/die-welt/politik/article9183052/Rechte...

Nicht mehr ganz taufrisch, aber doch aufschlußreich ...
Harald Schmidts antisemitische „Witze“
http://clemensheni.wordpress.com/2009/09/25/harald-schmid...

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Wieder mal Provinztheater der bekannten Art ...
Echzell wehrt sich gegen rechte Nachbarn
http://www.bild.de/BILD/regional/frankfurt/dpa/2010/08/26...

Die „Frankfurter Rundschau“ wird wieder ganz pathetisch und zitiert die berüchtigte „Anti-Nazi-Koordination“ des Frankfurter Pfarrers Stooth ...
Echzell-Festival
Aufstand der Demokraten
http://www.fr-online.de/rhein-main/bad-vilbel/aufstand-de...

Bürgerinitiative gewinnt prominente Unterstützer
http://www.kreis-anzeiger.de/lokales/wetteraukreis/echzel...

Hunderte Menschen setzen Zeichen gegen Rechts in der Wetterau
http://www.nh24.de/index.php?option=com_content&view=...

Und soviel zum wahren Hintergrund ...
Echzell
Polizei sieht keine rechtsextreme Tat
http://www.fr-online.de/rhein-main/polizei-sieht-keine-re...

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Klartext-Politiker Thilo Sarrazin
„Will ich den Muezzin hören, dann reise ich ins Morgenland“
Naiv, gutmenschelnd, verlogen: So beschreibt SPD-Politiker Thilo Sarrazin (65) in „Deutschland schafft sich ab“ die deutsche Zuwanderungspolitik. BILD dokumentiert das Buch vorab in Auszügen.
http://www.bild.de/BILD/politik/2010/08/24/thilo-sarrazin...

„ENORME FRUCHTBARKEIT“
Thilo Sarrazin will Deutschland vor Muslimen retten
Bundesbank-Vorstand Sarrazin hat ein Buch über Deutschland geschrieben. Er sieht das Land von Muslimen bedroht.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9142989/Thi...

„Sarrazins Thesen sind absurde Ergüsse“
SPD-Landeschef Michael Müller kritisiert das Buch „Deutschland schafft sich ab“ des Ex-Senators Thilo Sarrazin. Genossen fordern seinen Austritt aus der SPD.
http://blog.zeit.de/stoerungsmelder/2010/08/24/sarrazins-...

Das hier ist noch besser ...
Rufe nach Abberufung und SPD-Rauswurf Sarrazins
http://www.greenpeace-magazin.de/index.php?id=55&tx_t...

SPD-Problem Sarrazin
Der Thesenritter
Ein Genosse entsetzt die SPD - und die CDU-Chefin greift an. Wegen seiner deutschtümelnden Ausländerthesen knöpft sich jetzt Angela Merkel den Bundesbank-Vorstand Thilo Sarrazin vor. Die Sozialdemokraten haben in ihm ein Problem, das sie so schnell nicht loswerden.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,713730,0...

Umstrittene Thesen zu Migration
Merkel entrüstet über Sarrazin
Thilo Sarrazin provoziert – jetzt auch die Kanzlerin. Angela Merkel findet die Äußerungen des umstrittenen Bundesbankers zu Ausländern in Deutschland „äußerst verletzend und diffamierend“. Der Zentralrat der Juden empfiehlt dem Sozialdemokraten den Eintritt in die NPD.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,713752,0...

„Unerträgliche Thesen“
Die SPD prügelt geschlossen auf Sarrazin ein
Immer mehr Sozialdemokraten fordern Bundesbanker Sarrazin auf, die Partei zu verlassen. Seine Thesen seien „unerträglich“.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9235214/Die...

SPD-Chef auf Reisen
Gabriel im roten Märchenland
Berlin ist ganz weit weg: Sigmar Gabriel tourt durch Rheinland-Pfalz, das gemütliche Reich von Kurt Beck. Nur Entspannung will beim SPD-Chef nicht so recht aufkommen – Thilo Sarrazin und eine Gruppe aufmüpfiger Schüler bescheren ihm auf der Sommerreise ein paar Turbulenzen.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,713759,0...

Äußerungen über Ausländer
Gabriel legt Sarrazin SPD-Austritt nahe
Sigmar Gabriel hat ein Problem – es heißt Thilo Sarrazin. Der SPD-Chef hält die jüngsten Migrationsthesen seines Genossen für „sprachlich gewalttätig“ und fordert ihn indirekt zum Parteiaustritt auf. Das neue Buch des Bundesbank-Vorstands soll einer Rassismusprüfung unterzogen werden.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,713605,0...

Käßmann findet Sarrazin „menschenverachtend“
Als Deutscher müsse Sarrazin wissen, was er mit der Diffamierung einer Bevölkerungsgruppe anrichten könne, erklärte sie.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9227889/Kae...

Ex-BDI-Chef Henkel: „Die Mehrheit der Deutschen unterstützt Sarrazins Thesen“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Türkische Gemeinde fordert Schritte gegen Sarrazin
Frankfurt/Main — Die türkische Gemeinde in Deutschland erwartet von Bundeskanzlerin Angela Merkel (CDU) entschiedene Schritte gegen Bundesbank-Vorstand Thilo Sarrazin, der mit seinen Äußerungen zu Ausländern für Empörung gesorgt hat. „Ich fordere die Bundesregierung auf, ein Verfahren zur Absetzung von Thilo Sarrazin als Bundesbank-Vorstand einzuleiten“, sagte Kenan Kolat, Chef der türkischen Gemeinde in Deutschland, der „Frankfurter Rundschau“.
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5hp1zMa...

Strafanzeige gegen Sarrazin
http://www.tagesspiegel.de/politik/strafanzeige-gegen-sar...

Türkische Medien zu Sarrazin
Er ist nur eine Stimme unter vielen
An türkischen Medien geht die Debatte über Thilo Sarrazins Buch nicht vorbei. „Hürriyet“ und andere nehmen es meist gelassen. Auch wenn es um ein aus dem Kontext gerissenes Zitat von Vural Öger geht.
http://www.faz.net/s/Rub9B4326FE2669456BAC0CF17E0C7E9105/...

Lesenswert in dem Zusammenhang ...
Offener Brief an Merkel zur Überfremdungsproblematik
http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2009/08/Offene...
http://www.sezession.de/6464/ein-offener-brief-an-merkel....

Die IfS-Studie zur Sarrazin-Debatte liefert sich derzeit ein Kopf-an-Kopf-Rennen mit dem neuen Buch von Stephen Hawking (momentan liegt die Studie auf Rang 9; beste Plazierung war zwischenzeitlich Rang 5!) ...
Amazon: Bücher-Bestseller
http://www.amazon.de/gp/bestsellers/books/ref=pd_dp_ts_b_1

Debatte um Thilo Sarrazin
Im Windschatten
Bislang fristete der kleine Buchverlag Antaios ein eher beschauliches Dasein – bekannt nur bei frustrierten CDU-Mitgliedern und dem einen oder anderen Verfassungsschützer. Bis Thilo Sarrazin auftrat.
http://www.sueddeutsche.de/kultur/thilo-sarrazin-im-winds...

Berliner Literaturfestival
Kulturveranstalter droht Sarrazin mit Ausladung
Thilo Sarrazin verweigert beim Internationalen Literaturfestival in Berlin eine Diskussion seiner umstrittenen Thesen - und soll deshalb ausgeladen werden. Nur mit einer kritischen Gegenstimme auf dem Podium dürfe das SPD-Mitglied auftreten, teilte der Veranstalter mit.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,713716,0...

Thilo Sarrazin
Alle Artikel, Hintergründe und Fakten
http://www.spiegel.de/thema/thilo_sarrazin/

Sarrazins Einwanderer-Schelte umstritten
http://www.zdf.de/ZDFmediathek/kanaluebersicht/aktuellste...

Sarrazin hat in der Sache recht
http://www.zdf.de/ZDFmediathek/beitrag/interaktiv/1123060...

Thilo Sarrazin steht nach provokanten Thesen erneut in der Kritik
http://www.tagesschau.de/multimedia/sendung/tt2500.html

„Mögen Sie keine Türken, Herr Sarrazin?“
Thilo Sarrazin löste mit seiner Kritik an muslimischen Migranten eine Welle der Empörung aus. Der „Welt am Sonntag“ sagte er: „Ich bin kein Rassist.“
http://www.welt.de/politik/deutschland/article9255898/Moe...

Buchvorstellung in Berlin
Sarrazin-Show bringt SPD in die Bredouille
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,714637,0...
http://www.pi-news.net/2010/08/jetzt-live-pressekonferenz...

NPD-Vorsitzender: „Sarrazin macht uns salonfähig“
Udo Voigt: Sarrazins Äußerungen erschweren Verurteilungen von NPD-Funktionären wegen Volksverhetzung. Berliner SPD-Abgeordnete werfen Parteispitze Versäumnisse bei Parteiausschlußverfahren vor.
http://www.ardmediathek.de/ard/servlet/content/3517136?do...

Nicht zu fassen, was Sarrazin da entgegengebracht wird:
http://www.livingscoop.com/watch.php?v=ODM0

Pi in Berlin: Sarrazin-Live-Bilder auf Phoenix
Antifant: „Warum mach‘ ich denn Sozialarbeit?“
http://www.livingscoop.com/watch.php?v=ODMz

LVZ: Islamkritiker Ulfkotte: Sarrazin hat recht – „Völlig absurde Migrationsindustrie entstanden“
http://www.presseportal.de/pm/6351/1671348/leipziger_volk...

Zur Debatte gestellt
Der Sarazene schlägt zurück
http://www.sezession.de/18768/der-sarazene-schlaegt-zurue...

Sarrazin als Antisemit
Anbei ein Artikel aus der „Jüdischen Allgemeinen“ über die Studie, auf die er sich beziehen dürfte. Man fragt sich, ob der Zentralrat seine eigenen Zeitungen nicht liest ...
http://www.juedische-allgemeine.de/article/view/id/7637

Gruselige Wahrheit: Raddatz im Interview
Von Christoph Rothämel
Der Orientalist Raddatz im Gespräch mit BPE.
http://www.blauenarzisse.de/blog/1793/gruselige-wahrheit-...

Hier kann man Deutschlands Zukunft betrachten:
Die Wunder von Duisburg Marxloh
http://www.youtube.com/watch?v=XhTnexy-6MM&feature=pl...
http://www.youtube.com/watch?v=6S0_amYQXZo&feature=pl...!

Offenbach
Beinah-Massenschlägerei bei Monstertruck-Show
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/massenschla...

Gottschalk empfiehlt Kirsten Heisig Buch
http://www.pi-news.net/2010/08/thomas-gottschalk-empfiehl...

Zu diesem Vorgang wüßte man gerne die Hintergründe. Kein Medium nennt sie ...
Bruchköbel
Randalierer greifen Besucher von Techno-Party an
http://www.fuldaerzeitung.de/newsroom/polizei/Polizei-Bru...
http://www.fnp.de/nnp/region/hessen/randalierer-greifen-b...

Frankfurt
Streit unter Indern endet blutig
http://www.fr-online.de/frankfurt/streit-unter-indern-end...

Taxifahrer verprügelt Fahrgast
Augsburg – Ein junger Mann ist in Augsburg von einem Taxifahrer und zwei Fahrgästen verprügelt worden. Der Grund für die Schläge: Er aß Fastfood.
http://www.merkur-online.de/nachrichten/bayern-lby/meta-t...

Warum mach‘ ich denn Sozialarbeit ?
http://www.livingscoop.com/watch.php?v=ODMz

Balkan-Mentalität ...
Vergewaltigungs-Opfer will Täter heiraten
http://www.op-online.de/nachrichten/hanau/vergewaltigungs...

Die Frankfurter Familie ist nicht blond
In ihren Fotos hält Dagmar Thiel das Leben in der Stadt so fest, wie sie es sieht: multikulturell
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/die-frankfurter-fami...

Segregation
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Umerziehung mit „sensibler Sprache“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Arbeitgeber sind Rassisten
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

„Das ist Berlin“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Wolfgang Schäuble kritisiert Geert Wilders
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Haben Völker eine genetische Identität? (Präzisierung zu Sarrazins Äußerung)
Von Andreas Vonderach
http://www.sezession.de/18900/haben-voelker-eine-genetisc...

Siehe hierzu auch diesen Diskussionsstrang:
http://forum.thiazi.net/showthread.php?t=179330

Sind Verhalten und Intelligenz genetisch begründbar? (Präzisierung zu Äußerungen Sarrazins)
Von Andreas Vonderach
http://www.sezession.de/18947/sind-verhalten-und-intellig...

Die „Zeit“ vor 12 Jahren zum Thema Intelligenz ...
Der Streit um Gene und Intelligenz ist entschieden. Erster Teil einer ZEIT-Serie
Das Erbe im Kopf
http://www.zeit.de/1998/17/iq.txt.19980416.xml

Aus der taz ...
Haben die aschkenasischen Juden ein Intelligenz-Gen?
Gibt es Naturgenies? Die moderne Humanbiologie wird uns mit einer Rassentheorie light noch einiges Kopfzerbrechen bringen
http://www.taz.de/1/archiv/archiv/?dig=2006/07/04/a0156

dimanche, 12 septembre 2010

Heidegger: la thématisation de l'être et ses énigmes

Archives de SYNERGIES EUROPENNES - 1996

 

HEIDEGGER : La thématisation de l'être et ses énigmes

 

 

Sens de la question

 

heidegger martin.jpgNous avons tous entendu un jour ou l'autre que Heidegger, le métaphysicien, avait reposé le problème de l'Etre. Très bien, mais que signifie cette phrase et dans quelle mesure nous perrnet-elle de nous orienter?

 

La culture contemporaine favorise les mystifications. La philosophie de Heidegger reste ainsi abandonnée aux associations prévisibles, à l'avidité des théologiens estampillés, aux apologies et aux dénonciations faciles. Les diatribes du jeune Carnap possèdent quelque chose d'aristocratique par comparaison avec les jugements sommaires de notre époque. L'inquisiteur Levinas, par exemple, a trouvé que les incursions étymologiques et les métaphores rupestres de Heidegger dénonceraient une pensée liée au Sol et au Sang, étrangère aux aspirations de ces tribus de nomades philanthropiques qui vaguaient, dépourvues de tout, par le désert. Expert en lamentations, Levinas déplore également que le philosophe s'inspire de la poésie de Holderlin et non pas, par exemple, des Lamentations de Job. Heidegger, par conséquent, un antisémite larvé. Admettons. Et alors?

D'autres esprits critiques proches de la Nouvelle Droite, comme par exemple Pierre Chassard dans son ~u-delà des choses (1992), nous avertissent que cet Etre heideggérien cohabite avec un universalisme suspect, que la distance de l'Etre par rapport aux choses réelles et sa parenté avec le Néant font de lui le pendant du Dieu de l'Exode, que les textes pertinents accusent l'influence de Maïmonide... Heidegger, donc, un philosémite subreptice. Admettons. Et alors?

Le caractère alternatif ou périphérique d'une culture ne nous dispense pas d'un minimum de sérieux. Il est temps que nous commencions à accéder à la pensée de Heidegger en tant que pensée philosophique, la jugeant de ce point de vue, et non selon ses affinités avec les idéologies des Systèmes dominants ou de leurs rivaux contestataires. C'est là la question générique.

Consentons à un usage ambigu de l'expression "I'Etre", puisque aussi bien il s'agira d'une ambiguïté nécessaire et provisoire. La Philosophie que nous pouvons qualifier de "classique", avec Parménide tout d'abord, puis Platon, Aristote et la Scolastique, a commis une thématisation de l'Etre qui disparait avec la Modernité: de Descartes à Fichte, nul philosophe (qu'il soit rationaliste, empiriste, criticiste ou idéaliste) ne croit que la solution des vrais problèmes philosophiques dépende de certaines précisions, intuitions ou thèses sur l'Etre... Si toutefois l'Etre réapparaît dans l'idéalisme de Hegel comme Leitmotiv de quelques philosophèmes, ce n'est qu'avec Heidegger qu'est rétablie une thématisation comparable aux précédentes, et qui leur est probablement supérieure, tant par son obstination que par son caractère problématique.

C'est dans la compréhension du sens de l'Etre que réside le destin de l'Occident et l'histoire de la Philosophie se déroule conformément à l'élucidation ou à l'occultation de l'Etre. Que peut bien signifier une telle assertion? Les difficultés interprétatives soulevées par les textes de Heidegger sont bien connues. Je vais tenter ici une reconstruction des idées qu'il paraît suggérer - reconstruction qui doit être jugée non pas pour sa fidélité à la lettre ni pour sa fidélité à un "esprit" insaisissable (nous laissons cela à la Heideggerphilologie) mais pour son degré de fécondité explicative. C'est là la question spécifique. Notre explanandum est constitué par les solutions persistantes ou par l'absence non moins persistante de solution dans le traitement classique des problèmes ontologiques. Le chercheur contemporain, s'il est honnête, éprouve une série de désarrois devant des énigmes qui lui paraissent plus suscitées que découvertes. Par exemple:

a) Comme peuvent l'attester les élèves du Kindergarten néothomiste le plus proche, c'est dans la Différence Ontologique Etre/Étant que réside la clef de la Philosophie; mais une telle différence s'articule sur un mode inintelligible et nous conduit parfois à identifier l'Etre et le Néant. Pourquoi devrions-nous accepter ce jargon?

b) La Métaphysique (par exemple dans la première douzaine de Disputationes de Suarez) établit de fastidieuses équations entre transcendantaux pour nous informer que l'étant est un, etc.; information qui ne nous paraît pas trop excitante. A quoi vise-t-elle?

c) Depuis Platon on se demande "Qu'est-ce que l'Etre?" et l'on répond par telle ou telle catégorie de prédilection (Substance, Esprit, Matière). Mais il paraît absurde et capricieux de définir le plus général par seulement l'un de ses genres.

d) Fréquemment, depuis Aristote, la Métaphysique oscille entre une Ontologie du plus universel et une Théologie du plus singulier; on ne voit pas pour quelle raison on a pu unir des disciplines aussi disparates.

e) A peine l'Ontologie, qui prétend être la science de l'être en tant qu'être, nous introduit-elle à lui qu'elle nous signale avec impatience la porte de sortie (avec un écriteau "analogia entis" pour les sorties de secours) et qu'elle nous propose de diviser et subdiviser des entités spécifiques.

f~ L'Etre, de par son degré de généralité, ne paraît pas apte à abriter des contenus spécifiqu~s de telle sorte qu'il puisse inclure dans sa compréhension "le destin d'un peuple", ou quelque chose d'une pareille importance.

 

Cette liste sélectionne quelques sujets de perplexité. Une explication doit venir mitiger l'impression d'absurdité crasse que la Métaphysique produit aujourd'hui et l'inventaire précédent offre certains critères pour juger de l'hypothèse proposée. L'explication, contrairement à ce que l'on pourrait croire à première vue, ne sera pas simplement linguistique: il s'agit de discerner des structures ontologiques différentes qui sont parfois unifiées par de vieilles habitudes verbales.

 

Homonymie Ontologique Tran~cntégorielle: un Trépied

 

L'expression "I'Etre" n'est pas utilisée normalement comme une description définie, à la manière de "I'auteur du Quichotte". Les acceptions les plus fréquentes paraissent hésiter entre trois catégories:

1. une propriété, que nous désignerons par S

2... Ia classe E des objets qui satisfont cette propriété

3. Ies éléments de E, spécialement cet élément qui possède la propriété S d'une façon nécessaire et éternelle.

 

Le langage de tous les jours adjuge des termes de propriété au moyen du verbe avoir et des termes de classe au moyen du verbe être. Nous disons que Socrate est un sage ou qu'il a de la sagesse, mais nous ne disons pas qu'il est de la sagesse ou qu'il a un sage. En revanche, ce test linguistique est défaillant avec l'Etre: on dit sans problème de cohérence qu'il est un être ou qu'il a un être, qu'il est un étant ou qu'il a une entité. Nous pouvons supposer qu'ici il y a une distinction qui s'est obscurcie.

Les propriétés, par exemple la blancheur, définissent une classe, celle du blanc. Si nous distinguons la classe de la propriété qui la définit, il paraît naturel d'interpréter dans l'usage philosophique l"Etant" comme un terme qui se réfère à la classe (2) et l"'Etre" comme la désignation de (1). La priorité de la propriété qui définit sur la classe définie rend évident de quelle manière l'Étant se fonde sur l'Etre. Quand on dit que l'Etre "fait" que l'étant soit, on ne doit pas considérer un tel "faire" comme l'exercice d'une causalité. Il ne s'agit pas non plus du problème de l'Unité versus la Multiplicité, mais de la dépendance d'une classe - qui pourrait bien être unitaire - à l'égard de la propriété qui la détermine.

S'il y a plusieurs éléments dans cette classe E, qu'on appelle les "étants", ils peuvent se trouver dans dif~érentes relations de dépendance (par exemple, causalité, inhérence, composition), mais cette dépendance horizontale n'affecte ni n'annule la dépendance verticale à l'égard de S. Par exemple, un étant suprême, cause totale de tous les autres, etc., ne pourrait de ce fait équivaloir à la propriété. Lorsque l'on dit "Deus est ipsum esse" on semble tomber dans une erreur catégorielle, qui fait d'un élément d'une classe l'équivalent de la propriété qui définit cette classe. Il pourrait arriver qu'un élément de cette classe possède la propriété de façon nécessaire, sempiternelle, éminente, infinie etc., mais il apparaît qu'il continuerait à être différent de la propriété. Une propriété est infinie en tant qu'elle peut être le prédicat d'un nombre illimité d'objets. L'erreur se produit quand on assimile l'Etre et l'Acte, de telle sorte que l'Acte est compris comme une sorte de pensée universelle; à la suite de quoi on interprète l'Acte - par opposition à la Puissance - comme une Perfection. De là surgit un Etre comme infinie perfection et actualité, qui va comme un gant àl certaines représentations de la déité (voir les trois premières des vingt-quatre Thèses Thomistes). On déambule d'une catégorie à l'autre. De toute manière, les hésitations relatives à ces catégories expliquent que l'on puisse penser à une Onto-Théologie, à laquelle on faisait allusion en (d). Cette affirmation sera confirmée plus loin.

On a l'habitude de caractériser l'Ontologie comme une discipline de l'Etre, assimilant S et E. La distinction précédente dissipe l'inquiétude (e), quant aux deux voies que peut adopter une Ontologie: ou bien tenter de discriminer des régions et des relations à l'intérieur de la classe E des étants (ce qui paraît superficiel) ou bien élucider cette propriété fondatrice, ses relations avec d'autres propriétés et avec les divers étants (ce qui paraît profond). Il y a cependant une perturbation dans la diffusion pacifique du travail. Gilson a déclaré, dans son galimatias: "on peut penser qu'etre, c'est être un etre - mais aussi qu'etre un etre, c'est simplement etre". C'est-à-dire: nous pouvons privilégier dans notre spéculation les sujets de la propriété ou la propriété elle-même. Ainsi le galimatias disparaît, et le chemin s'ouvre aux vraies difficultés.

Jusqu'à présent l'idée était très simple. Mais si S est la propriété et E la classe des étants (c'est-à-dire des individus qui possèdent cette propriété), alors l'Etre sera-t-il un étant (non pas la classe E mais un élément de E)? Considérons attentivement la question et le dilemme. Si l'Etre n'est pas un étant, alors c'est qu'il manque de la propriété qui définit les étants, ce qui signifie : I 'Etre n 'est pas. C'est pourquoi bien souvent l'être est perçu comme un Néant, soit absolu, soit qualifié ("Néantd'Étant" - mais, pourrait-il y avoir un autre Néant?). Si l'on admet l'existence d'une classe complémentaire de l'Étant, le Néant, remplie de tout ce qui manque d'Etre, alors l'Etre sera un élément du Néant. Il paraît très curieux que le Néant ne soit pas quelque chose de plus ou moins similaire à l'ensemble vide. Nous savons que Hegel s'est trouvé dans une perplexité semblable, mais celle de Heidegger mérite plus d'attention.

Prenons l'autre terme du dilemme: la possibilité que S soit un étant. Alors une classe comprendrait la propriété qui la définit parmi ses éléments. Ce n'est pas à première vue impossible. D'une part il y a des propriétés qui se distinguent de leurs sujets: la proprieté "être un nombre pair" n'est ni paire, ni un nombre - la propriété qui définit la liste 2, 4, 6, 8... n'est pas l'un des nombres qui apparaissent dans cette liste. Mais d'autre part il y a des propriétés plus exotiques. Par exemple, la propriété "être pensable" est elle-même quelque chose de pensable: la propriété détermine la totalité de ce qui est pensable et elle est elle-même membre de cette totalité. Est-ce que la relation entre l'Etre et la classe des étants est de cette nature? Et nous voyons déjà que la question de l'Onto-Théologie se présente d'une manière moins capricieuse.

Si nous admettons avec beaucoup de libéralité ce type de propriétés et de classes exotiques, nous pouvons nous embrouiller dans des problèmes. Par exemple, on peut présumer que la classe des étants E, non seulement comprendrait l'Etre comme élément, mais aussi posséderait elle-même l'être. Ainsi E serait élément d'elle-même, et la totalité d'une collection ferait partie d'elle-même.

Assurément l'astuce des logiciens permet d'endiguer ces libéralités au moyen de divers traitements: ce qui n'empêche pas la persistance d'un symptôme alarmant. L'intuition primordiale qui guidait ces réflexions imposait une hiérarchie entre individus, classes et propriétés. Les propriétés sont universelles, les individus non: par conséquent, si l'Etre était un étant, il serait un universel et un individu. Et si parmi les éléments on admet des individus et des propriétés universelles, l'ordre rêvé se désagrège.

Ici le dilemme dé~ouche sur une confusion, un balbutiement sur la différence ontologique, affection facilement explicable vue l'hypothèse que nous avons introduite sur la thématisation de l'être et la possibilité de voir en lui une propriété. Ce qui conduit Heidegger plus d'une fois à voir dans l'Etre un Néant. Et qu'il ne s'agit pas là d'une idée accidentelle de Heidegger, on peut le vérifier en étudiant le "parricide" de l'Étranger d'Élée (Platon, Sophiste 241 d) et la polémique d'Aristote contre Melissô et Parménide (spécialement le texte de Physique I c.3, 186 a: 2531). Ainsi est satisfaite la requête (a). Il ne s'agit pas toujours d'un verbiage arbitraire au sujet de la Différence Ontologique, mais aussi d'une série de difi~lcultés pressel1ties sans que l'on possède l'instrument conceptuel pour les mettre en ordre.

 

Homonymie Ontologique Catégorielle ~ ventail de propriétés

 

Tant chez Aristote que chez Heidegger on rencontre une préoccupation liée à la pluralité des propriétés visées par le terme "l'Etre" (ne pas confondre avec l'analogia entis). L'expression "l'Etre" ne désignerait pas, comme on l'a supposé, une propriété, mais un éventail de propriétes. Ce fait dénote une homonymie catégorielle (puisque l'on se restreint à la catégorie des propriétés). L'interrogation sur l'Etre peut être comprise comme l'examen desdites propriétés et des relations qu'il pourrait y avoir entre elles. Sans vouloir être exhaustifs, nous pourrions consigner une série de propriétés compatibles et (au moyen de quelques raccords) coextensives entre elles:

- l'existence dans le temps présent

chose

 

- I'existence en général

- la possibilité d'existence

- I'identité

- la prédication

- I'affirmation

- la possibilité d'être pensé la possibilité d'être estimé en termes de volonté le fait d'être en relation de fondement, de cause ou d'effet avec quelque

 

- le fait d'être déterminé par quelque propriété

- le fait de posséder, pour un couple quelconque de propriétés contradictoires, I'une d'entre elles.

Cette deuxième homonymie explique les diverses formes dans lesquelles s'est développée une bonne part de la spéculation métaphysique traditionnelle, que ce soit dans le traitement des "transcendantaux" (un, vrai, bon), ou dans les explications sur son "objet" (étant nominal, étant participial, le "Meinbare" de Meinong, etc.). Les équations fastidieuses sont un effort pour explorer les distinctes propriétés auxquelles il a été fait confusément allusion. Les catégories (prédicaments) s'imposent comme la seule manière d'étudier les diverses prédications. Une oeuvre aussi influente que méconnue, celle de Josef Maréchal Le Point de Départ de la Métaphysique, se nourrit de l'assimilation des termes prédication, affirmation et existence (interprétée comme acte infini): le fait que nous puissions énoncer des jugements assertoriques ne serait explicable, selon Maréchal, que parce que nous supposons une synthèse de la copule de la prédication avec un acte infini: ici se révèlent certains thèmes de Malebranche, Fichte et peut-être Bradley, mais ce n'est que grâce à l'homonymie catégorielle qu'ils peuvent apparaître dans ce contexte métaphysique de façon assez naturelle.

Si Heidegger insis~e sur sa démonstration que l'Etre est essentiel au Langage, c'est qu'il pense à l'Etre comme faisant référence à la propriété de déterminer la prédication; s'il établit une relation avec le Temps, c'est que l'actualité de l'existence réclame le présent. La préférence des métaphysiciens qui placent au premier plan un certain type d'étants et à l'arrière-plan la généralité, se comprend s'ils croient voir chez certains étants une exemplification plus juste des propriétés qui dans tel ou tel système sont considérées comme remarquables. De telle sorte que l'interrogation "qu'est-ce que l'être?" acquiert un autre sens, libérée de son absurdité. Et s'il existe plusieurs propriétés implicites dans l'Etre, l'objet de l'ontologie est loin d'être simple et le recours à des divisions et subdivisions s'impose. Ainsi sont satisfaits, selon moi, les critères (b), (c) et (e) de notre liste.

Mais nous arrivons ici à une thèse cruciale pour la pensée heideggérienne: I'expansion de l'Etre en éventail nous permet de passer à une compréhension dialectique de ces propriétés (ceci renvoie au passage de Platon dans le Sophiste, 254 b sqq.). Etre, comme propriété centrale s'oppose à Devenir (Werden), à Apparence (Schein), à Penser (Denken) et à Devoir-Etre (Sollen) comme à des propriétés périphériques constituant une trame de propriétés.

 

Chaque fac,on de saisir une propriété centrale conditionnerait de manière radicale la façon de saisir une propriété périphérique proche. Ces propriétés sont à leur tour centrales par rapport à d'autres propriétés, et ainsi de suite. Une propriété centrale peut se comporter ou non comme un genre (un déterminable); sa centralité ne dépend pas de cela, mais d'un système de positions, tensions et compléments étendu non seulement au sens de la propriété mais aussi aux représentations qui l'enveloppent. "Devenir" signifie une succession continue de situations, mais représentée par le cours d'un fleuve, le bourgeonnement d'un arbre, la vague qui croît sans être une chose mais le déploiement d'une force qui se manifeste dans l'euphorie de l'aube. L'Art et la Poésie, créant un lien entre représentation et sens, peuvent donner accès à ces dimensions et placer les choses sujettes à l'expérience dans une perspective métaphysique - si tant est que la Métaphysique nous engage dans cette trame de propriétés. Ceci nous foumit la raison de cette étrange affirmation sur le destin d'un peuple et sa compréhension de l'Etre, sa façon d'aborder la question de l'Etre. Cette compréhension est portée par un langage naturel, qui est nécessairement collectif, et elle s'étend à travers lui au peuple qui le parle, et qui, de par cette compréhension athématique de l'Etre, se situe dans-le-monde d'une façon ou de l'autre. Ceci satisfait le réquisit (f).

 

L"'Interrogation Fondamentale de la Métaphysique"

 

La question (d) au sujet de l'Onto-Théologie n'était pas encore suf~lsamment résolue. Ainsi donc, si l'Etre instaure un ordre de fondements et de raisons suff1santes, il paraît adéquat d'instaurer un tel ordre dans la contingence générale de l'étant, introduisant par là une entité nécessaire. Mais si Heidegger feint de répéter la question de Leibniz "pourquoi y a-t-il quelque chose plutôt que rien?" il le fait seulement pour la rejeter, bien que d'une manière très diplomatique. Et il fait bien, car une question qui ~ne peut avoir de réponse est nulle et non avenue. J'omets de faire la démonstration exacte de cette nullité, mais j'en suggérerai les grandes lignes.

Appliquant le principe de raison suffisante nous imaginons deux situations contradictoires, toutes les deux possibles prises séparément: un monde vide ou un monde non vide. Chacune des deux situations paraît logiquement contingente, peut se présenter ou non, et la question fondamentale devrait conduire à donner raison de la contingence en général. Mais si la réponse est également contingente, on aurait seulement ajourné la question: comme avec le monde soutenu par un éléphant, qui devrait être soutenu par une tortue... etc.

Mais si la réponse n'était pas logiquement contingente et impliquait, par exemple "il existe une entité nécessaire" alors cette conclusion devrait être nécessaire et sa négation impossible. Est-ce là un résultat admissible? Non. De là suivraient deux inconvénients: l'un, qu'on disposerait alors d'un argument ontologique, car rendant superflue toute preuve à partir de la contingence; dans le fameux débat radial de Russell et Copleston en 1948 ce problème reste sousjacent, dominant ce qu'on voit à la surface. L'autre inconvénient est que du nécessaire ne peut s'ensuivre le contingent: la réponse ne peut donc donner raison de la contingence. C'est pourquoi l'Onto-Théologie implose quand elle tente d'expliquer la création a parte dei, dans la mesure où elle fait de Dieu un Créateur. Cette création (ou le fait qu'il y ait un Dieu créateur plutôt qu'un Dieu qui ne l'est pas) est une question logiquement contingente, comme l'existence même du monde. Si l'on introduit ici la Liberté divine, en réalité on ne fait que hisser un drapeau blanc, et ce principe de raison suffisante qui avait rendu de si précieux services se rend pieds et poings liés Le théologien propose un armistice: "Bâillonnons le principe de raison suffisante et parlons d'autre chose, de Dieu qui est amour, ou de la dignité de la personne humaine. " Le philosophe fait observer : "Comment? Dieu s'était introduit pour rationaliser le scandale de la contingence et puis, pour la compréhension de cet être nécessaire, on réintroduit en lui la contingence, l'affiublant du nom de Liberté." Spinoza en son Ethica (Pars I, prop. 17, 29 et 32) est plus conséquent que les Onto-Théologiens: ayant admis l'argument ontologique il nie qu'il puisse y avoir au monde quelque chose de contingent... Du nécessaire ne peut découler que le nécessaire.

En résumé: une réponse sensée à ce qu'on appelle la Question Fondamentale de la Métaphysique ne peut être ni une proposition nécessaire ni une proposition contingente. Mais une question qui empêche en principe toute réponse est une pseudoquestion - le résultat vaut indépendamment de toute théorie de vérification du sens et des critères similaires. Rien ne peut donc constituer une réponse à la question, qui s'annule par ce fait même, ce qu'il fallait démontrer. La démonstration exacte exige plus de précisions.

Il est clair que le chemin indiqué par Heidegger est différent, plus conforme à son style, difficile à abréger. Disons: la question peut s'autoabolir dans le questionnement "pourquoi un Pourquoi?". Nous trouverons seulement la propriété de l'Etre comme exigence de fondements des étants, et donation de ces fondements. Remplaçons alors la question abolie par la question sur la propriété centrale, et ce faisant nous retomberons sur nos pieds.

 

~eidegger et la Kulturphilosophie

 

Si de ce qui pre!cède on peut inférer des conséquences agréables ou désagréables au judéochristianisme et à ses institutions, c'est là une question qui intéresse plus le propagandiste que le philosophe. Ce qui est certain, c'est que Heidegger (considéré comme l'archétype du métaphysicien par des épigones insignifiants) déplace le centre de gravité de l'Ontologie vers ce qu'on peut appeler Philosophie de la Culture. J'ai proposé au début d'aborder Heidegger sous un angle philosophique et de juger sa pensée dans ce sens. Je vais risquer un jugement: si nous le comparons en tant que philosophe de la culture à Nietzsche, à Spengler, à Evola, il n'occupe pas la première place, nous sommes gênés par ses détours excessifs et le manque d'évidence des faits qu'il allègue. Si nous le considérons comme un philosophe de la ligne classique et théorique, nous sommes déconcertés par le peu de sensibilité de Heidegger à l'égard des problèmes métaphysiques. Depuis la cime de sa propre position, qu'il ne se donne jamais la peine d'expliciter, il se met à historiciser, émettant des opinions sur les penseurs qui l'ont précédé. Ce qui alimente la plèbe de la Philosophie, les professeurs sans idées qui tournent comme des vautours autour des grands morts. Heidegger se prête bien à une justification de la phrase de Nietzsche sur l'Histoire qui se convertit en fossoyeuse du présent. Dans nos institutions académiques - et dans une bonne partie de celles d'Europe, avoir été un philosophe est un honneur - vouloir parvenir à l'être, un opprobre.

Mais la Philosophie, après deux millénaires de lutte avec les mythologies judéochrétiennes et leurs sécularisations, est pour la première fois une nouvelle possibilité. C'est ici qu'il y a une splendeur de Heidegger. Sa grandeur est dans ce mode du philosopher à la frontière de la Science et de la Weltanschauung, sur cette mince ligne qui peut fasciner et confondre, induire au vertige ou empêcher la pensée. Heidegger nous éveille à de nouvelles possibilités épurées de toute tradition supposée. C'est cela que nous pouvons apprendre de Heidegger, non pas son jargon ou son désordre, son hostilité à l'égard de la science ou ses mauvaises argumentations. Ce ne sont pas ses thèses qui nous importent, mais les voies qui s'ouvrent en elles. Ce n'est pas tant la thématisation de l~tre qui nous intéresse, mais un retour de ce qui survint dans l'Hellade, le penser entre Mythos et Logos.

 

Carlos Dufour. Traduit de l'espagnol (argentin) par Bruno Dietsch.

 

 

vendredi, 10 septembre 2010

Fin du pétrole: l'armée allemande sonne l'alarme

Fin du pétrole : l’armée allemande sonne l’alarme

Après le Pentagone, la Bundeswehr publie un rapport alarmiste quant aux conséquences, pour l’économie et la paix dans le monde, d’un pic pétrolier qui serait imminent.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

L’article paru cette semaine dans l’hebdomadaire allemand Der Spiegel n’a pas échappé à Matthieu Auzanneau, collaborateur de Terra eco, qui chronique « le début de la fin du pétrole » sur son blog Oil Man. Le magazine s’est en effet procuré un rapport du département d’analyse du futur de la Bundeswehr, l’armée allemande, qui estime qu’il est probable que que « Peak Oil se produise aux alentours de l’année 2010, et qu’il ait des conséquences sur la sécurité dans un délai de quinze à trente ans ».

Ce pic pétrolier, c’est à dire le jour à partir duquel la production mondiale de pétrole amorcera un déclin inéluctable, entraînera une flambée des prix, et « à moyen terme, le système économique global et chaque économie de marché nationale pourrait s’effondrer », estiment les analystes de l’armée allemande. « Des pénuries de biens vitaux », notamment de nourriture, pourraient apparaître, ajoutent-ils, conduisant à la mise en place de « politiques de rationnement ». Les auteurs du rapport s’inquiètent aussi des conséquences géopolitiques de la raréfaction du pétrole qui pourrait favoriser la montée des extrémismes. Dans ce contexte, « les États qui dépendent des importations de pétrole » seront obligés « de montrer plus de pragmatisme à l’égard des pays producteurs », estiment-ils, en se montant, dans le cas de l’Allemagne par exemple, plus souple à l’égard de la Russie ou plus dur vis-à-vis d’Israël.

Ce rapport de la Bundeswehr intervient dans la foulée de celui publié en mars dernier par l’état-major interarmées américain et qui prévoyait une « crise énergétique sévère » d’ici à 2015. « Du pétrole, il n’y en aura pas pour tout le monde » titrait alors Terra eco. Et comme toujours ce sont ceux qui sont déjà les plus démunis qui en feront d’abord les frais.

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Terra economica

jeudi, 09 septembre 2010

Johann Nepomuk Ringseis (1785-1880)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

 

Robert STEUCKERS:

RINGSEIS, Johann Nepomuk  1785-1880

 

ringseis.jpgNé le 16 mai 1785 à Schwarzhofen en Bavière, le jeune Ringseis, très tôt orphelin, fréquentera l'école abbatiale des Cisterciens à Walderbach, puis le séminaire d'Amberg, avant de commencer des études de médecine en 1805 à Landshut sous la direction d'Andreas Röschlaub, dont il deviendra l'assistant. Influencé par les Lumières lors de sa première année d'étude, Ringseis se dégage vite du rationalisme étroit sous l'influence des idées de Stolberg et des écrits de Baader et des romantiques (surtout Joh. Mich. Sailer). Les mesures de confiscation des biens d'église en Bavière, dues à l'influence française, le choquent, le révoltent et ancrent définitivement ses convictions anti-révolutionnaires . Ringseis entame une brillante carrière médicale; philosophes célèbres, membres de la famille royale bavaroise sont ses patients attitrés. Plusieurs séjours en Italie avec le Kronprinz  de Bavière contribuent à conforter son catholicisme. Quand le prince héritier, devenu Louis Ier, monte sur le trône en 1825, Ringseis est nommé Obermedicinalrath  (ce qui équivaut à Ministre de la santé), avec pour mission de réformer la médecine en Bavière. C'est dans le cadre de ces activités politico-médicales que paraît en 1841 son ouvrage le plus célèbre: System der Medizin.  Avec l'appui du roi Louis Ier, Ringseis devient en quelque sorte le promoteur de la nouvelle université de Munich, où se télescoperont et se fructifieront mutuellement les idées protestantes et catholiques de l'époque. Son engagement ultramontain se précise. Entre 1848 et 1850, période agitée dans toute l'Europe, Ringseis participe à la vie politique bavaroise. En 1852, il quitte l'université pour marquer son désaccord avec les réformes envisagées mais y revient en 1855 et prononce un discours sur la nécessité de l'autorité dans les hautes sphères de la science. En 1872, à 87 ans, il quitte ses fonctions ministérielles. Il meurt à Munich le 22 mai 1880.

 

System der Medizin. Ein Handbuch der allgemeinen und speziellen Pathologie und Therapie; zugleich ein Versuch zur Reformation und Restauration der medicinischen Theorie und Praxis (System de la médecine. Manuel de pathologie et thérapie générales et spéciales; en même temps tentative de réformer et de restaurer la théorie et la pratique médicales) 1841

 

Les thèses principales de cet ouvrage très contesté dans les milieux médicaux du XIXième siècle sont: a) chaque organisme est dominé par un principe vital unitaire et individuel; b) la santé est l'état dans lequel ce principe domine seul; c) la maladie est l'état dans lequel ce principe ne domine plus seul mais est troublé par un élément étranger qu'il ne peut pas assimiler ni dominer; d) la guérison survient quand la force vitale, éventuellement soutenue par des médications, soumet et assimile le principe étranger entré dans le corps, l'élimine ou le maintient inoffensif; elle est complète quand la force vitale spécifique règne à nouveau seule dans l'organisme. Ce qui est pertinent dans cet ouvrage de médecine, c'est que Ringseis perçoit nettement la faiblesse des rationalismes issus du "satanique Descartes": ceux-ci imposent une logique qui ne vaut que pour les phénomènes extérieurs, dispersés et juxtaposés dans l'espace, et rejettent toutes formes de logique qui vaudraient pour les phénomènes intérieurs, qui s'emboîtent les uns dans les autres et se compénètrent mutuellement. Cette idée d'un "imbriquement quasi infini" (ein fast unendliches Ineinander)  rejoint les critiques contemporaines des rationalités unilinéaires et unidimensionnelles, notamment les épistémologies philosophiques inspirées par les sciences physiques modernes de Heisenberg à Prigogine, de même que certaines audaces postmodernes.

(Robert Steuckers).

 

- Bibliographie complète, articles et discours universitaires et circonstantiels compris, dans E.R., "Johann Nepomuk Ringseis", Allgemeine Deutsche Biographie,  28. Band, Leipzig, Duncker & Humblot, 1889; comme textes principaux: Über den revolutionären Geist der deutschen Universitäten,  Rectoratsantrittsrede, Munich, 1833; Manifest der bayerischen Ultramontanen,  écrit anonyme, Munich, 1848; Über die Nothwendigkeit der Autorität in den höchsten Gebieten der Wissenschaft,  Rectoratsantrittsrede, Munich, 1855 (2ième et 3ième éd. complétées, 1856); Über die naturwissenschaftliche Auffassung des Wunders,  Munich, 1861; Über das Ineinander in den Naturdingen,  texte publié par les Dr. Schmauß et Geenen dans Beilage zum Tagblatt der 36. Versammlung deutscher Naturforscher und Aertze in Speyer,  1861.

- En français: références in Georges Gusdorf, L'Homme romantique,  Payot, 1984, pp. 273-277; Georges Gusdorf, Du néant à Dieu dans le savoir romantique,  Payot, 1983, pp. 242-245.  

 

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samedi, 04 septembre 2010

Sarrazin und die Meinungsfreiheit

ThSa.jpg

 

Sarrazin und die Meinungsfreiheit

Die Ausübung der Meinungsfreiheit soll unbequemer werden - laut  Kommentator Martin Krigar, Chefredakteur beim "Westfälischen Anzeiger" (http://www.hammwiki.de/wiki/Martin_Krigar)
(Krigar: "Auch in einer Demokratie kann niemand gezwungen werden, jeder noch so fragwürdigen „freien Meinungsäußerung“ eine wohlige Heimat zu geben.")
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/verlust-vertr...

Zwar nicht die Deutschen, aber die "ausländischen Mitbürger" werden zu ihrer Meinung über Sarrazin befragt...
Brückenbauer gesucht
http://www.op-online.de/nachrichten/blickpunkte/brueckenb...

Böhmer: Sarrazin hat rote Linie überschritten
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/maria-boehmer...

Zu gefährlich: Sarrazin-Lesung abgesagt
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/proteste-sarr...


Thilo Sarrazin und die Scheindemokratie

Wann beginnt die Bücherverbrennung? Thilo Sarrazin und die Scheindemokratie

Udo Ulfkotte

http://info.kopp-verlag.de/

 

Mehr als drei Viertel der Deutschen werden in diesen Tagen von Politik und Medien zu Irren erklärt, einem rechtslastigen Pöbel, der angeblich auf einen Schlag unter der Hypnose eines Thilo Sarrazin durchgeknallt ist. Es lohnt inmitten der Politiker- und Journalisten-Hysterie völlig ruhig zu bleiben und allen, die sich nun empört zu Worte melden, ins Archiv zu folgen. Für viele wäre es wohl besser, wenn sie den Mund halten und sich voller Scham in die Ecke stellen würden.

 

 

Das deutsche Wesen soll aus der Sicht von Politik und Medien an möglichst viel Einwanderung genesen – und deshalb sagt die Bundeskanzlerin, Thilo Sarrazin rede »dummes Zeug«. Schauen wir uns eine der Kernthesen Sarrazins einfach einmal näher an: Sarrazin prognostiziert, dass die Deutschen »auf natürlichem Wege durchschnittlich dümmer« werden und er hat dies in Zusammenhang mit der Zuwanderung »aus der Türkei, dem Nahen und Mittleren Osten und Afrika« gebracht. Weil diese Migranten mehr Kinder bekämen als Deutsche, werde »eine unterschiedliche Vermehrung von Bevölkerungsgruppen mit unterschiedlicher Intelligenz« das Bildungsniveau verschlechtern.

Die Aufregung von Journalisten und Politikern über solche Äußerungen ist merkwürdig. Denn erst wenige Wochen zuvor hatten im Sommer 2010 deutsche Politiker der Merkel-Partei, die des Rechtsextremismus unverdächtig sind, Intelligenztests für Zuwanderer gefordert. Zur Erinnerung ein Zitat aus der österreichischen Zeitung Der Standard vom Juni 2010:

Politiker von CDU und CSU haben neue Kriterien für die Einwanderungspolitik in Deutschland gefordert und dabei auch Intelligenztests für Zuwanderer befürwortet. Der innenpolitische Sprecher der Berliner CDU, Peter Trapp, sagte der »Bild«-Zeitung zufolge: »Wir müssen bei der Zuwanderung Kriterien festlegen, die unserem Staat wirklich nützen. Maßstab muss außer einer guten Berufsausbildung und fachlichen Qualifikation auch die Intelligenz sein. Ich bin für Intelligenztests bei Einwanderern.« Diese Frage dürfe nicht länger tabuisiert werden.

Acht Wochen später wird der aus den Reihen der Union gekommene Hinweis in Zusammenhang mit Thilo Sarrazin zum »dummen Zeug«.

Europa verblödet durch Zuwanderung. Besonders schlimm ist es in Deutschland. Die Deutschen mutieren rasend schnell zu einer Nation der Minderintelligenten, um es höflich zu formulieren. Intelligenzforscher der Universität Erlangen warnen seit Langem: Seit Ende der 1990er-Jahre werden die Deutschen immer dümmer – pro Jahr sinkt der Intelligenzquotient durchschnittlich um zwei Punkte. Weil wir Deutsche aber immer weniger Kinder zeugen und unsere Zuwanderer immer mehr, liegt die rapide sinkende Intelligenz in Deutschland – was ihre Ursachen angeht – an den Migranten – wir importieren die Dummheit.

Unsere Zukunft lautet: »Generation doof«. Den Doofen gehört die Zukunft. Schon in wenigen Jahren wird Deutschland international nur noch das »Land der Hilfsarbeiter« sein, denn in bestimmten Migrantenmilieus ist der Durchschnitts-IQ eben nachweislich niedriger als bei ethnischen Deutschen. Die Welt schrieb im Jahre 2005 in ihrem Artikel »Der Intelligenzquotient der Türken«, darüber zu berichten sei heikel, weil »… es mittlerweile unstrittig ist, dass Intelligenz sehr stark auch von Erbanlagen bestimmt wird – und deshalb einschlägige Aussagen über ethnische Gruppen allzu schnell mit dem Vorwurf des Rassismus beantwortet werden«.

Das, was Die Welt vor 5 Jahren geschrieben hat, darf man heute in der gleichen Zeitung offenkundig nicht mehr über die Intelligenz von Migranten schreiben. In diesen Tagen schreibt die Welt über Sarrazin bitterböse:

»Nach Erkenntnissen des Gehirnforschers Thilo Sarrazin werden die Deutschen immer dümmer. Schuld daran sind Ausländer, die Dummheit in großen Mengen unerlaubt einführen und unser einst so schlaues Volk verblöden. Sarrazin selber ist der Beweis für seine These, er wird in immer kürzeren Abständen von Dummheitsattacken heimgesucht, wodurch sein IQ bereits von 165 auf 124,3 sank, Tendenz fallend.«

Wissenschaftliche Studien, die man in Der Welt noch vor einem halben Jahrzehnt zitierte, gelten heute eben nicht mehr. Journalisten werden zu Volkserziehern, die anstelle von Wissenschaftlern darüber befinden, was gut und was schlecht für das dumme Volk ist.

Das alles gilt in Politik und Medien heute auch für eine andere Aussage Sarrazins, nach der Migranten deutsche Steuerzahler viel Geld kosten. Die Frankfurter Allgemeine Zeitung berichtete am 24. Juni 2010, Migranten hätten bis 2007 schon über eine Billion (!) Euro mehr aus unseren Sozialsystemen herausgenommen, als sie in diese einbezahlt hätten. Niemand hat sich daran gestört, dass die FAZ vor wenigen Wochen eine vernichtende Kosten-Nutzen-Analyse der Zuwanderung aufmachte. Heute aber erklärt der Sender n-tv Sarrazin, der ebenfalls eine Kosten-Nutzen-Rechnung der Zuwanderung aufmacht, zum »Störenfried«.

Wir haben eine neue Hexenjagd. Und es ist eine reine Frage der Zeit, wann jetzt wieder einmal Bücher in Deutschland verbrannt werden. Überall in Deutschland regt man sich in diesen Tagen darüber auf, dass eine kleine Kirche in den USA am 11. September 2010 einen Koran verbrennen will. Die gleichen Medien erheben nicht ihre Stimme dagegen, dass die kriminellen Unterstützer eines selbsternannten »Bündnisses gegen Rechts« nun im Internet offen mit einer Fotomontage aufrufen, Thilo Sarrazin wie einst den CDU-Politiker Peter Lorenz im Jahre 1975 zu behandeln, was juristisch eine Aufforderung zur Straftat bedeuten kann. Lorenz wurde von Links-Kriminelle entführt und misshandelt.

Jeder darf seine Meinung in Wort und Bild frei äußern, so steht es im Grundgesetz. Doch das gilt für die Mehrheit der Deutschen in diesem Land, die laut allen Umfragen klar hinter Sarrazin stehen, heute nicht mehr. Die Demokratie ist nur noch eine Scheindemokratie. Unsere Medien sind Systemmedien, die eben nur noch den VolksZertretern nach dem Munde reden. Wer sie unterstützt und ihre Produkte kauft (finanziert), der untergräbt und zerstört die Demokratie immer weiter. Denn genau diese Medien würden wohl mit viel Verständnis reagieren und jubeln, wenn die ersten Bücher von Sarrazin in Deutschland jetzt öffentlich verbrannt würden.

 

vendredi, 27 août 2010

Sarrazin geisselt unqualifizierten Familienzuzug

Sarrazin geißelt unqualifizierten Familienzuzug

Ex: http://www.welt.de/

Berlins Ex-Senator und Bundesbanker Thilo Sarrazin sieht Migranten in der Pflicht, sich zu integrieren – und auch ökonomisch nützlich zu sein.

Thilo Sarrazin

Das Vorstandsmitglied der Bundesbank, Thilo Sarrazin, hat einen höheren Integrationsdruck auf muslimische Migranten gefordert. Man dürfe nicht zulassen, dass 40 Prozent der muslimischen Migranten von Transferleistungen lebten und ihnen jede Form von Integration „erspart“ werde, sagte er im Deutschlandradio Kultur. Integration müsse eine Bringschuld von Migranten sein.

Sarrazins Sprüche


Der frühere Berliner Finanzsenator und heutige Bundesbanker Thilo Sarrazin macht regelmäßig mit deftigen Sprüchen zu Politik und Gesellschaft auf sich aufmerksam:

„Wir müssen den Menschen, die bei uns leben, alle Chancen geben, sich zu integrieren, wir müssen diese Chancen aber auch mit einem kräftigen Aufforderungscharakter verbinden“, sagte der frühere Berliner Finanzsenator (SPD), der ein Buch über seine Sicht von Deutschland und der Integrationsdebatte geschrieben hat. Wenn es um die Gestaltung der Zukunft Deutschlands gehe, müsse man auch darüber reden, welche Einwanderungsgruppen ökonomischen Nutzen oder ökonomische Belastungen mit sich bringen. „Für die Gesamtheit der muslimischen Einwanderung in Deutschland gilt die statistische Wahrheit: In der Summe haben sie uns sozial und auch finanziell wesentlich mehr gekostet, als sie uns wirtschaftlich gebracht haben“, erklärte das Bundesbank-Vorstandsmitglied.

Bei künftigen Migranten müsse man daher wesentlich schärfere Maßnahmen anlegen. Niemand habe etwas dagegen, dass etwa ein marokkanischer Ingenieur oder Arzt mit seiner Familie nach Deutschland ziehe. „Aber die unqualifizierte Migration, die wir gegenwärtig haben, und die Migration des ungebildeten, unqualifizierten Familiennachzugs, das kann in dieser Form nicht weitergehen“, betonte Sarrazin.

Deutschland sei dabei, sich abzuschaffen, indem jede Generation etwa ein Drittel kleiner sei als die vorhergehende. Muslimische Migranten bekämen im Durchschnitt doppelt so viele Kinder wie die übrige Bevölkerung. „Man kann ganz einfach eine Modellrechnung anstellen, wie eine maßvolle weitere Zuwanderung von 100.000 im Jahr plus die Fortsetzung dieses Trends dazu führt, dass die Mehrheit in einzelnen deutschen Städten oder Regionen, möglicherweise irgendwann aber auch in Deutschland insgesamt kippt“, warnte Sarrazin.

epd/zel

Right-Wing Anarchism

Right-Wing Anarchism

Ex: http://www.counter-currents.com/

d-Louis-Ferdinand-Celine.jpgThe concept of right-wing anarchism seems paradoxical, indeed oxymoronic, starting from the assumption that all “right-wing” political viewpoints include a particularly high evaluation of the principle of order. . . . In fact right-wing anarchism occurs only in exceptional circumstances, when the hitherto veiled affinity between anarchism and conservatism may become apparent.

Ernst Jünger has characterised this peculiar connection in his book Der Weltstaat (1960): “The anarchist in his purest form is he, whose memory goes back the farthest: to pre-historical, even pre-mythical times; and who believes, that man at that time fulfilled his true purpose . . . In this sense the anarchist is the Ur-conservative, who traces the health and the disease of society back to the root.” Jünger later called this kind of “Prussian” . . . or “conservative anarchist” the “Anarch,” and referred his own “désinvolture” as agreeing therewith: an extreme aloofness, which nourishes itself and risks itself in the borderline situations, but only stands in an observational relationship to the world, as all instances of true order are dissolving and an “organic construction” is not yet, or no longer, possible.

Even though Jünger himself was immediately influenced by the reading of Max Stirner, the affinity of such a thought-complex to dandyism is particularly clear. In the dandy, the culture of decadence at the end of the 19th century brought forth a character, which on the one hand was nihilistic and ennuyé, on the other hand offered the cult of the heroic and vitalism as an alternative to progressive ideals.

The refusal of current ethical hierarchies, the readiness to be “unfit, in the deepest sense of the word, to live” (Flaubert), reveal the dandy’s common points of reference with anarchism; his studied emotional coldness, his pride, and his appreciation of fine tailoring and manners, as well as the claim to constitute “a new kind of aristocracy” (Charles Baudelaire), represent the proximity of the dandy to the political right. To this add the tendency of politically inclined dandies to declare a partiality to the Conservative Revolution or to its forerunners, as for instance Maurice Barrès in France, Gabriele d’Annunzio in Italy, Stefan George or Arthur Moeller van den Bruck in Germany. The Japanese author Yukio Mishima belongs to the later followers of this tendency.

Besides this tradition of right-wing anarchism, there has existed another, older and largely independent tendency, connected with specifically French circumstances. Here, at the end of the 18th century, in the later stages of the ancien régime, formed an anarchisme de droite, whose protagonists claimed for themselves a position “beyond good and evil,” a will to live “like the gods,” and who recognized no moral values beyond personal honor and courage. The world-view of these libertines was intimately connected with an aggressive atheism and a pessimistic philosophy of history. Men like Brantôme, Montluc, Béroalde de Verville, and Vauquelin de La Fresnaye held absolutism to be a commodity that regrettably opposed the principles of the old feudal system, and that only served the people’s desire for welfare. Attitudes, which in the 19th century were again to be found with Arthur de Gobineau and Léon Bloy, and also in the 20th century with Georges Bernanos, Henry de Montherlant, and Louis-Ferdinand Céline. This position also appeared in a specifically “traditionalist” version with Julius Evola, whose thinking revolved around the “absolute individual.”

In whichever form right-wing anarchism appears, it is always driven by a feeling of decadence, by a distaste for the age of masses and for intellectual conformism. The relation to the political is not uniform; however, not rarely does the aloofness revolve into activism. Any further unity is negated already by the highly desired individualism of right-wing anarchists. Nota bene, the term is sometimes adopted by men–for instance George Orwell (Tory anarchist) or Philippe Ariès–who do not exhibit relevant signs of a right-wing anarchist ideology; while others, who objectively exhibit these criteria–for instance Nicolás Gómez Dávila or Günter Maschke–do not make use of the concept.

Bibliography

Gruenter, Rainer. “Formen des Dandysmus: Eine problemgeschichtliche Studie über Ernst Jünger.” Euphorion 46 (1952) 3, pp. 170-201.
Kaltenbrunner, Gerd-Klaus, ed. Antichristliche Konservative: Religionskritik von rechts. Freiburg: Herder, 1982.
Kunnas, Tarmo. “Literatur und Faschismus.” Criticón 3 (1972) 14, pp. 269-74.
Mann, Otto. “Dandysmus als konservative Lebensform.” In Gerd-Klaus Kaltenbrunner, ed., Konservatismus international, Stuttgart, 1973, pp. 156-70.
Mohler, Armin. “Autorenporträt in memoriam: Henry de Montherlant und Lucien Rebatet.” Criticón 3 (1972) 14, pp. 240-42.
Richard, François. L’anarchisme de droite dans la littérature contemporaine. Paris: PUF, 1988.
______. Les anarchistes de droite. Paris: Presses universitaires de France, 1997.
Schwarz, Hans Peter. Der konservative Anarchist: Politik und Zeitkritik Ernst Jüngers. Freiburg im Breisgan, 1962.
Sydow, Eckart von. Die Kultur der Dekadenz. Dresden, 1921.

Karlheinz Weißman, “Anarchismus von rechts,” Lexikon des Konservatismus, ed. Caspar von Schrenck-Notzing (Graz and Stuttgart: Leopold Stocker Verlag, 1996). Translator anonymous. From Attack the System, June 6, 2010, http://attackthesystem.com/2010/06/right-wing-anarchism/

jeudi, 26 août 2010

Leadership & the Vital Order

Leadership & the Vital Order:
Selected Aphorisms by Hans Prinzhorn, Ph.D., M.D.

Translated and edited by Joseph D. Pryce

370.jpgThe enduring fame of German psychotherapist Hans Prinzhorn (1886–1933) is based almost entirely upon one book, Bildnerei der Geisteskranken (Artistry of the mentally ill), that brilliant and quite unprecedented monograph on the artistic productions of the mentally ill, which appeared in 1922. Sadly, it is too often forgotten that Hans Prinzhorn was the most brilliant and independent disciple of Germany’s greatest 20th-Century philosopher, Ludwig Klages (1872–1956).

Although Prinzhorn himself would have protested against the oblivion into which his mentor’s life’s work has fallen, it is a fact that Prinzhorn is still a major presence in the technical literature, whilst his hero, paradoxically, has been “killed by silence.” One should be thankful for even the smallest mercies.

Prinzhorn is even now a not inconsiderable presence in the field that he made his own, and he will remain a major figure, albeit a controversial one, in the field of psychology, as long as his discoveries are cherished and his insights developed as a living heritage by those who recognize, and are willing to repay, at least some small portion of the debt that scholarship still owes to his memory.

Humanitarian Demagogues, Egalitarian Rabble. Whether today’s mechanistic and atomistic experiments with human beings originated in the Orient or in the Occident, the result is always the same: the tyranny of a clique in the name of the equality of all. And it is from this very tendency that the fantastic pipe dream of human individuals being reduced to the status of mere numbers arises. This wishful thinking is a symptom of the nihilistic Will to Power that conceals its true nature behind the cloak of such humanitarian ideals as humility, solicitude for the weak, the awakening of the oppressed masses, the plans for universal happiness, and the fever-swamp vision of perpetual progress. All of these lunatic projects invariably result in a demagogic assault on the part of the inferior rabble against the nobler type of human being. These mad projects, it need hardly be said, are always concocted in the name of “humanity,” in spite of the fact that decades earlier Nietzsche had conclusively demonstrated that it was the ressentiment, or “life-envy,” of those who feel themselves to be oppressed by fate that was at the root of all such tendencies. Indeed, it is even now quite difficult for the select few who have no wish to enroll themselves among the oppressed mob to understand the realities of their situation!

The Goals of Socialism. When we set our goals in the direction of socialism, whether in the sphere of politics, of welfare work, or of the ideal community, the fanaticism that inspires the socialist is customarily tinged with Christianity. Thus the socialist urges the citizen to progress from wicked egoism to a more social attitude. Even when we ignore the social, religious, or political nature of the ideologue’s desiderata, there is one positive aspect to this development, for socialism at least directs our attention away from the tyrannical ego and towards the world that surrounds us, thus calling upon the only one of socialism’s fundamental motives that we can regard as positive and biologically sensible.

Characterological Truth vs. Psychoanalytical Error. The most extensive, pleasant, and (one might even say) amusing effects wrought by the application of the psychoanalytic treatment depended on the fact that the most wretched and feeble blockhead was now able to convince himself that he was equal to Goethe in that the instincts that played so decisive a role in the cretin’s development were identical with those that were operative in the case of Goethe, and it was only a malicious practical joke on the part of Destiny that permitted Goethe to find in poetry a congenial sublimation of his sexuality.

The Psychopath and the Revolution. We can hold out no hope whatever for the successful creation of the sort of community that is constructed by ideologists on the basis of purely rational considerations, for the projects that are hatched out in the mind of the rationalist are most definitely not analogous to the development of living forms in nature, no matter how often the contrary position has been proclaimed by false prophets. Thus, the delusive hopes that are cherished for the successful implementation of the simple-minded schemes of our socialist and humanitarian ideologists must fail in the future as they have always failed in the past. The only tangible result of these schemes has been to intoxicate the isolated psychopath with an egalitarian frenzy, from which his tormented ego awakens, more desperate than ever, in order to plunge once again, with ever-increasing violence, into his political ecstasies, into bellowing his eulogies to those nameless “masses” who are so dear to the ideologue that he has appointed them to be the sole beneficiaries of his activism, now that he has been made sufficiently mad by a nebulous and insatiable longing for “liberation.” But the “sham” anonymity, which functions effectively as the cloak for politicians who pretend to act in the name of “the masses,” can only benefit clever, robust, and willful politicians, such as those who rule the Soviet Union; the real psychopath, on the other hand, who often possesses a taste for novel sensations and who, perhaps, may also be seeking personal publicity, will never be able to conform to the prescriptions of such an icy, strict self-discipline. As a result, he “breaks out,” and is soon overwhelmed by calamities from which he thinks he can only escape by resorting to even more violent attempts to achieve “liberation.” From the standpoint of psychology, the history of revolutions is very helpful to those who wish to increase their understanding of the “everyday” behavior—as well as the political actions—of his fellow human beings, not least to the physician who seeks enlightenment as to the nature of the motivations that drive men to perform violent deeds in situations to which they lend the halo of freedom, equality, and fraternity.

Heredity as Destiny (and Tabula Rasa as Sheer Nonsense). The life-curve of an individual’s development is a single event, which arrays itself along the lines of irrevocable changes. Strictly speaking, therefore, every occurrence, no matter how insignificant, involves an irrevocable change: in life nothing can be reversed, nothing repudiated, nothing ventured without an attendant responsibility, nothing can be annihilated: that formula constitutes the biological basis of destiny. Just as the individual must accept his biological heritage as a whole, whether he likes it or not, in precisely the same fashion must he accept the pre-ordained pattern of obscure rhythms transpiring within him.

Today we have become tragically unconcerned with our biological destiny, to say nothing of the fact that we refuse to feel the slightest reverence to the sphere of life, to which we owe everything. …That very attitude accounts for the success that has greeted the claims advanced by Alfred Adler and his followers, who advance the dogma that the hitherto customary views on heredity are fundamentally false, since man is born as a tabula rasa whereon his environment makes impressions that, by means of education, one can direct at will, and according to the capacity of that will, toward any desired goal. Adler compounds his felony by claiming that there is no such thing as inborn talent or traits of disposition. …

It would be impossible to reject the principles of biological theory more absolutely than Adler and his cohorts have done. Even that which we understand by the old, almost obsolescent name of “temperament”—that which represents the sum-total of the somatically connected, permanent tendencies of an individual—even this link between the purely psychological and the purely somatic view is repudiated by Adler in his grotesquely teleological and hyper-rationalist construction. … Since there is no biological basis whatsoever for his stupendous assertions, one must seek for such a basis in another sphere, viz., the author’s ideology. Sure enough, we learn that Adler is a fanatical believer in the coming Utopia of socialism, and, as we all recognize, no Utopia can prosper until a faceless equality of disposition has been forced upon every individual by the ideological zealots who will run the show. Therefore I denounce the politically tendentious World-View that Adler and his apostles put forward as “science,” for it is a perfect example of nihilism passing itself off as scholarship, and no cloak of pedantic and prudent caution can hide the fact.

Genetic Endowment and Environmental Conditioning. Upon his entry into individual existence, the human being’s development as a psychosomatic creature is determined as regards substance, capacity for expansion, and direction, in the first place by his genetic endowment as a whole; in the second place by his pre-natal environment; and lastly by the circumstances of his birth. That almost all the active factors rise and fall in varying phases, makes a rational interpretation and estimate of the state of things at any given moment impossible in the strictest sense of that word.

But the fact that such an admission of the difficulties that arise due to methodological limitations is exploited by false prophets in order to deceive the world as to the real nature of biological facts—usually in order to breathe some life into the defunct heresy of the infant born as a tabula rasa—is either a sad indication of their childish mentality or additional evidence that they are indulging their ideological proclivities in the wrong place. What Goethe described as “the law under which you entered the world,” what Kant, Schopenhauer, and others called the “intelligible character,” is the first unavoidable actuality that we must accept as the destiny of our being, and as the starting-point of all investigation and thinking that relates to the human being. All experience and all reasonable thinking drives us back to this basic fact.

The Occidental Observer, August 8, 2010, http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Pryce-Prinzhorn.html

Joseph Pryce (email him) is a writer and poet and translator from New York. He is author of the collection of mystical poems Mansions of Irkalla, reviewed here. His translation of the German philosopher Ludwig Klages’ work will be published shortly.

Günter Maschke : Le déclin de la pensée conservatrice et la renaissance de la nation

Archives de Synergies Européennes - 1987

Le déclin de la pensée conservatrice et la renaissance de la nation

 

par Günter MASCHKE

 

allemagne4.jpgToute mouvance politico-idéologique est la ré­sultante d'une situation politique donnée. Elle articule les aspirations d'une classe sociale iden­tifiable et développe ses concepts en opposition à l'univers mental d'un ennemi concret. La base sociale d'une mouvance politico-idéologique en est à la fois le récipient et le moule : si la forme meurt, ou si le contenant se brise, l'esprit peut-­être survivra mais il ne fera que virevolter sur les décombres d'un passé dont il se réclamera d'abord sur un ton tragique, puis sur le mode nostalgique, enfin de façon grotesque.

 

L'esprit alors sombre dans l'arbitraire, il devient la proie d'aspirations naguère encore étrangères, qui se servent de lui comme d'un paravent idéo­logique lorsqu'elles vont pêcher des âmes aux lisières de leur terrain de chasse. L'esprit devient une arme au service de forces nouvelles, tantôt celles-ci, tantôt celles-là, avec d'autant plus de facilité que sa forme même se défait, que ses contours deviennent flous, incertains. Il se transforme alors en auxiliaire utile de décisions qui lui sont étrangères, et lorsque ces dernières, s'étant servi de lui, parviennent à leurs fins, il lui arrive de croire que leur victoire est la sienne.

 

Le conservatisme allemand : un cadavre mercenaire

 

C'est précisément le destin de la pensée conser­vatrice en Allemagne que d'avoir fait un bout de chemin avec des orientations étrangères, voire adverses. Plus encore que les idéologies concurrentes, dont la base sociale s'est effritée plus lentement et plus tardivement (1), elle a succombé à l'érosion intellectuelle et au plon­geon dans le n'importe-quoi. En Allemagne, le conservatisme est mort en 1870-1871 (2), avec le déclin de l'aristocratie foncière, au plus tard lors de la fondation de l'empire bismarckien, mais les conservateurs, eux, ont survécu. Ils sont devenus les objets, souvent actifs certes, des processus politiques et de l'évolution de la société. Plus l'acte de décès du conservatisme était ancien, plus l'idéologie conservatrice deve­nait fortuite, improvisée et lacunaire, et plus s'imposait à l'esprit la question de savoir ce qui pouvait bien encore être «conservateur».

 

Déjà, sous la République de Weimar, les ré­ponses abondaient. Dans celle de Bonn, tout dé­bat sur le conservatisme s'ouvre encore par des tentatives de définition qui s'organisent chaque année, selon un rituel immuable, autour de son­dages pour des revues, de symposiums, d'anthologies, etc... ; la plupart du temps avec les mêmes orateurs qui ne font que répéter avec componction ce qu'ils disaient déjà trois, cinq ou dix ans auparavant.

 

Trois grandes étapes politiques jalonnent le dé­clin de la pensée conservatrice : la fondation du Reich allemand, la phase finale de la République de Weimar et la création de la République fédé­rale. À chaque fois, le conservatisme fut partie prenante et agissante : sous Bismarck comme force, avant et sous Hitler comme facteur, avec Adenauer comme climat intellectuel. En s'alliant au courant politique incarné tout à tour par ces dirigeants, le conservatisme essaya toujours de sauver la mise à court terme. Comment d'ailleurs eût-il pu faire autrement : ses principes s'étaient évaporés et n'étaient plus applicables au réel. À chaque fois, bien qu'avec toujours moins de conviction, il crut pouvoir décider du cours des événements, du moins en partie, et fut réguliè­rement victime délit force à laquelle il croyait s'unir alors qu'il se livrait à elle pieds et poings liés. Après chaque liaison, d'abord heureuse, puis malchanceuse, il retomba affaibli et dés­emparé, essayant en vain de faire un minimum de clarté sur ses propres structures et sur sa substance. C'est invariablement à lui que furent imputés les errements, réels ou supposés, d'un partenaire bien plus puissant qui l'avait entraîné dans sa course.

 

Le Reich bismarcko-wilhelminien, coupable – dit-on – de la Première Guerre mondiale, aurait été, selon la lecture contemporaine, un système « conservateur ». Le Reich hitlérien, dont le ca­ractère criminel et la fin sanglante étaient, dit-on encore, prévisibles dès le début, n'aurait été que l'exacerbation d'un conservatisme militant puisque, pour l'idéologie dominante, le « fascisme » est contenu en puissance dans l'idéologie conservatrice. Même le parti et le gouvernement du pauvre Helmut Kohl se voient aujourd'hui appelés par leurs adversaires poli­tiques, de façon volontairement diffamatoire mais qui fait mouche, les « conservateurs ». Comme souffre-douleur, le conservatisme a pour lui l'éternité. Mais cela ne prouve en rien son existence.

 

Le conservatisme à la remorque du libéralisme, de Weimar et du nazisme

 

L'alliance avec Bismarck, ci-devant conservateur ultra, amena le gros des conservateurs à accepter le césarisme, lequel paie toujours tribut à la dé­mocratie et à la souveraineté populaire (3), à hausser les épaules quand une couronne légitime (celle du Hanovre) fut mise à la trappe, à s'accommoder du socialisme d'État avec tous ses effets centralisateurs et bureaucratiques et à célébrer les fastes du nationalisme et de l'étatisme. En acceptant comme « moindre mal » la Révolution d'en haut contre la Révolution d'en bas (qui menaçait déjà), le conservatisme a perdu dès cette époque sa liberté d'action et sa capacité à mettre en œuvre une stratégie propre. C'est un pragmatisme instruit par sa propre mi­sère qui l’a poussé à la « trahison ». Avec la se­conde phase de l'Empire, c'est-à-dire le wilhelminisme, dont la façade militaro-junké­rienne arrive encore aujourd'hui à berner de nombreux observateurs, le conservatisme se mit à la remorque du libéralisme. C'est justement parce qu'il arborait un profil politique bas que le libéralisme put réaliser en Allemagne son pro­gramme avec toute la frénésie qui le caractérise : expansion économique, impérialisme, construc­tion d'une flotte de guerre. La politique d'encerclement de l'Allemagne fut la réponse de l'étranger à son ascension trop tardive, laquelle, à l'instar de celle, plus précoce, de l'Angleterre et de la France, ne fut guère qu'un déchaînement d'énergies libérales. Quant à l'« étatisme » de fa­çade de l'Allemagne, il était là pour donner bonne conscience aux réactions émotionnelles de l'étranger.

 

Après 1918, le conservatisme perdit assez rapi­dement ses illusions monarchistes et s'essaya à la critique du wilhelminisme, y compris à sa substance libérale. Confronté à la faiblesse de la démocratie et du libéralisme, il comprit que cette faiblesse était complice de l'oppression et de l'exploitation de la nation allemande par les puissances victorieuses. Ces dernières, grâce au diktat de Versailles et à la SDN de Genève, pratiquaient elles aussi le libéralisme et la démo­cratie, mais, à l'égard de l'Allemagne, dans un sens « machtpolitisch ». Du coup, il devenait im­possible de lutter contre Genève et contre Ver­sailles avec des méthodes libérales. Or, l'antilibéralisme de la Révolution conservatrice, désormais forcée de saper le statu quo, n'était pas logique avec lui-même : cet antilibéralisme-là a toujours été dirigé contre la structure politique interne de la République, jamais contre le libéra­lisme économique en tant que tel. Non seulement celui-ci devait être maintenu, mais il fallait en­core le renforcer : le grand capitaine d'industrie fut célébré au nom du darwinisme social. Hugo Stinnes devenait le Messie. Mieux : ce libéralisme autoritaire s'alliait, de façon plus ou moins dif­fuse, avec les idéologies corporatistes du « Ständestaat » (4). Il s'agissait, selon la formule de Moeller van den Bruck, de « créer des choses qui vaillent la peine d'être conservées » : Dinge schaffen, deren Erhaltung sich lohnt.Cette for­mule, qui renferme, paraît-il, la substantifique moelle de la Révolution conservatrice, pouvait être approuvée par n'importe quelle formation politique ! C'était une formule creuse, dépourvue de force mobilisatrice.

 

Les masses, puisqu'elles existaient, ne pou­vaient être mises en mouvement par une idée qui n'était qu'un mélange d'éléments obscurs em­pruntés à un passé romantisé et à une actualité grisâtre. Et le bavardage sur « la prise en compte du concret » dont les conservateurs avaient, pa­raît-il, l'apanage sur les autres, n'y changeait rien. Pour une révolution, de deux choses l'une : soit elle a des idées politiques simples (en parti­culier quant à l'ordre qu'elle veut instaurer) qui s'imposent d'elles-mêmes (les contradictions et la complexité du réel, cela se règle après la vic­toire). Soit elle arbore une idée floue, élastique, interprétable à volonté et s'adressant à une masse suffisamment nombreuse. L'idéal est la combi­naison des deux : illusion de la clarté et illusion de la défense des intérêts de chacun, lesquels se rejoignent harmonieusement dans la commu­nauté du peuple. Or, sur ces deux points, la Ré­volution conservatrice fut déficitaire. Elle se condamna donc à « suivre » passivement une révolution plus puissante qu'elle, mieux : une ré­volution réelle dont elle pensait naïvement qu'elle se laisserait contrôler et manipuler.

Après le nazisme, un conservatisme culpabilisé

 

Inutile d'expliquer ici que le national-socialisme fut une force anti-conservatrice, une force fondamentalement révolutionnaire, du « jacobi­nisme brun », si l'on veut, du « Rousseau appliqué », selon l'expression de Hans Freyer. Les conservateurs ont attendu jusqu'au lende­main du 20 juillet 1944 pour s'en apercevoir. Beaucoup même attendirent l'après-guerre ! Ils en conçurent un tel sentiment de culpabilité qu'ils mobilisèrent tout leur sens des antiquités historiques pour sortir du placard le conserva­tisme de papa, celui du XIXème siècle. Se mé­prenant totalement sur le caractère nécessaire, inéluctable, de ce qui leur arrivait, ils passèrent leur temps à commémorer le conservatisme ba­varois, prussien, autrichien, hanovrien, catho­lique, etc..., y trouvant d'ailleurs matière à po­lémiques internes : à qui incombait la faute, quand et comment tous leurs malheurs avaient commencé... Bref, un combat d'ombres chi­noises en petit comité. Les yeux fixés sur le na­tional-socialisme avec d'autant plus d'horreur qu'on leur reprochait leur collaboration (réelle), ils reconnurent en lui l'Ennemi, celui que déjà leurs ancêtres combattaient : l'État-Moloch, la Grande Machine, la Bête des Profondeurs, « un certain degré de misère avec promotions et uni­formes su roulement des tambours » (Burck­hardt), avec « le final en point d'orgue : le despotisme sur ses ruines » (Niebuhr).

 

Tout cela était certes fort plausible, mais les conservateurs n'en revenaient, tout compte fait, qu'aux idylles de leurs grands-pères : eux aussi n'avaient embrassé ces marottes que lorsqu'ils furent défaits. Idylles sur lesquelles venait d'ailleurs se greffer la « théorie du déclin » : de l'absolutisme à Hitler, ce n'était qu'une marche ininterrompue vers le malheur, dont l'aboutissement nécessaire est le communisme, déjà installé sur les bords de l'Elbe. On ne tarda pas, cependant, à s'apercevoir que la situation était à ce point désespérée qu'on ne pouvait faire retour ni au conservatisme du XIXème siècle (la séparation fut d'ailleurs pénible) ni à la Révolu­tion conservatrice, d'autant plus qu'entre-temps, celle-ci était devenue la nouvelle bête noire des conservateurs.

 

Le « réalisme » et Adenauer

 

On décida donc d'être « réaliste », ce qui, en l'occurrence, signifia choisir le moindre mal, c'est-à- dire Adenauer. Le communisme, que l'on combattait encore dans les années 50 avec tout le pathos d'une théologie politique vieille de plus d'un siècle, était désormais l'ennemi. Mieux : il était l'ennemi incarné, idéal au contraire de l'autre ennemi, défunt celui-là : le national-socialisme. S'appuyant sur Adenauer, les conservateurs purent ainsi caresser subrepti­cement leurs tendances anti-nationales et anti­-étatiques. Hitler n'avait-il pas été un représentant de l'idée nationale et étatique ? Les conservateurs ne virent pas qu'Hitler était tout autre chose qu'un nationaliste : c'était un impérialiste de la race pour qui le peuple allemand était de la ma­tière première et qui ne se soucia guère de son sort en 1945. En même temps, il avait été le fos­soyeur le plus sûr de l'idée d'État. Car de deux choses l'une : ou il existe une relation entre la protection et l'obéissance, ou il n'y a pas d'État. Prisonniers de leurs réactions émotionnelles, ja­mais totalement surmontées et désormais réacti­vées, les conservateurs se rallièrent à la thèse des rééducateurs : Hitler, c'était « l'État » et la « nation ». Du coup, tous les appels à une inter­vention ordonnatrice de l'État, à une politique efficace, à une administration sachant s'imposer, le cas échéant, de façon autoritaire, furent dé­noncés comme dangereux, fascistoïdes, totali­taires, etc... Dans ce concert, ce sont les conser­vateurs qui braillaient le plus fort, oubliant par là même de balayer devant leur porte.

 

Du libéralisme à la «permissive society »

 

Il reste que dans les années 1945-1949, il était difficile de prévoir les conséquences d'un libéralisme hostile à l'idée de nation, fait d'impuissance et de soumission empressée, qui n'était pas sans rappeler celui de la République de Weimar. Ces conséquences étaient bien en­tendu programmées avec Adenauer, cet ancien ennemi juré du Reich. Les impératifs de la re­construction, l'immense réservoir de discipline de l'Allemagne et le « principe de l'expérience » (Prinzip Erfahrung),cher à Schelsky, camouflèrent, quelque temps encore, la décom­position de la nation et de l'État. En outre, jusqu'aux années 60, les patriarches avaient les rênes du pouvoir bien en mains : Adenauer, Heuss, Schumacher, Kaisen, Ernst Reuter, etc... Nul ne s'avisa alors que ces politiciens étaient ceux de la phase déclinante de Weimar, des hommes prédestinés à inaugurer la grande restauration libérale, elle qui ne reconnaît aucune frontière dictée par l'État et par l'esprit national. C'est elle qui a préparé l'intégration de la ma­jeure partie de l'Allemagne à l'Occident et le remplacement de « Vaterland »(patrie) par « Abendland »(Occident), lequel dégénéra rapi­dement en « permissive society ».

 

On ouvrit toutes grandes les portes à un libéra­lisme économique échevelé, indifférent aux bar­rières nationales ou étatiques. Le tout avec la bé­nédiction plus ou moins avouée des conserva­teurs qui récolteront dans les années 60, avec ahurissement, ce qu'ils avaient contribué à se­mer. Bien entendu, ils étaient – et sont res­tés – parfaitement inconscients de leur part de responsabilité. Ils s'empressèrent de s'allier avec ceux qn'Armin Mohler appelle les « Kerenskis de la Révolution culturelle », de Topitsch à Lübbe. Leur seule devise était : « on ne va pas plus loin ! ». Ils voulaient bâtir sur les sables mou­vants de l'ordre existant les bunkers à partir desquels s'élancerait la contre-offensive. Ils s'imaginaient naïvement trouver un point d'appui quelconque dans cette réalité. Autrement dit, c'est dans l'économie de marché forcenée d'une masse à qui l'on avait extirpé la conscience nationale et inculqué le primat du « social », que devaient refleurir discipline, droi­ture, volonté de défense, éthique familiale, in­sensibilité aux sirènes de la décadence, re­foulement de l'égoïsme de masse, résistance aux facilités des ersatz d'existence. Or, quiconque plaide pour l'économie libérale de marché et le système des besoins à satisfaire sans songer à réguler ces forces, par définition expansives, au moyen d'une « idée incontestable », c'est-à-dire un principe supérieur, se condamne à des com­bats d'arrière-garde sans issue.

 

L'idéologie conservatrice du « moindre mal » a engendré le déclin actuel

 

En fin de compte, il s'imagine être « conser­vateur » et « national » alors qu'il  ne fait que renforcer la soumission aux États-Unis – et se retrouve du même coup intellectuellement en deçà du mouvement pacifiste. Car celui-ci, au moins, sait fort bien que la République fédérale est un pays occupé, qu'elle souffre d'un déficit de souveraineté aux effets potentiellement mor­tels, et que les États-Unis sont nos ennemis. Même si le mouvement pacifiste en arrive à des conclusions absurdes, il reste idéologiquement, pour ce qui concerne le diagnostic du mal, fort en avance sur les conservateurs.

 

Tout ce qui offusque les conservateurs n'est pas exclusivement certes, mais dans une large me­sure tout de même, le résultat de la dénationali­sation, de l'illusion européenne, de la foi dans le primat de l'économie et du bien-être, de l'abandon naïf à une Loi fondamentale qui n'est qu'un « cadeau » des vainqueurs et un esclavage accepté avec zèle par les vaincus. Ce n'est pas ici le lieu de critiquer la partitocratie et le parlemen­tarisme. Il reste qu'il n'y a pas de massification et de « déclin culturel » sans destruction de l'identité nationale. Il n'y a pas de disparition de l'éthique sociale sans dénigrement ni démantè­lement de l'État, lequel, finalement, ne peut fonctionner que dans une nation qui se veut elle-­même. Il n'y a pas de sous-culture de masse américaine sans destruction de la tradition, à la­quelle coopèrent avec zèle l'État en place et ses fonctionnaires puisque c'est la condition même de leur carrière et la garantie de leur pouvoir. Dans ce système de faiblesse confortable – je dirais presque : jouissive – aucune ligne de dé­fense n'existe plus. En effet, le «moindre mal» a toujours suffisamment mauvaise conscience pour capituler bientôt sous la pression du plus grand mal, alors même que celui-ci a été identi­fié.

 

Avec la CDU, plus rien à défendre ! Avec une optique national-révolutionnaire, un avenir à construire !

 

L'itinéraire de la CDU, qui incarne toujours, aux yeux de nombreux conservateurs, le « moindre mal », illustre parfaitement cette loi d'airain de la planche savonneuse : « on ne connaît que trop, écrit Ernst Jünger, le visage de la démocratie sur le tard, celle où la trahison et l'impuissance ont lissé leurs stigmates, où tous les ferments de dé­composition, tous les éléments morts, allogènes et ennemis ont magnifiquement prospéré ; assurer à tout prix la pérennité du système, voilà leur objectif secret » (5). Situation où il n'y a plus rien à défendre, à tenir, à conserver...

 

Si les conservateurs veulent encore sauver quelque chose de ce qui leur est cher, il ne leur reste qu'à renouveler le programme de la Révo­lution conservatrice en le précisant, en le concrétisant et en le radicalisant. Tout est dans le comparatif : pour transposer dans le concret le pays qu'ils recherchent dans leur âme meurtrie, ils devront, s'ils veulent le contempler, se muer en nationaux-révolutionnaires. Bien sûr, Bonn n'est pas Weimar, mais rien n'empêche de considérer ce nouveau Versailles et ce nouveau Genève (« l'Occident », « l'Europe », la « réédu­cation ») pour ce qu'ils sont : Bonn, c'est un Weimar à la puissance dix, un super-Versailles ! Or, la reconquête de la nation, seule possibilité de sauver ce qui reste du conservatisme, se heurte, outre aux blocages que nous connais­sons, au simple fait qu'avant 1933, cette re­conquête était relativement facile parce que les couches supérieures de la société d'alors étaient exploitées par leurs « sœurs de classe» des pays victorieux tandis qu'aujourd'hui, devenues par­tie prenante du système, elles sont elles aussi à la mangeoire. C'est la raison pour laquelle le combat doit s'amorcer « à la base » et non « par le haut ». L'anticapitalisme doit être authentique et non, comme avant 1933, mi-embarrassé mi-dé­magogique.

 

Il n'y a plus de nationalisme anti­communiste qui soit possible !

 

L'entreprise, cependant, apparaît insurmontable parce qu'en Allemagne, la nation est venue « d'en haut » et « de droite », espaces où, depuis l'équipée hitlérienne, d'ailleurs souvent mal in­terprétée, aucune mobilisation n'est plus pos­sible. Autre chose : il est de plus en plus question de « tentatives » de fonder un parti national. Mais ces projets commettent l'erreur de donner la priorité au combat anticommuniste, ce qui, tout compte fait, n'est qu'un retour à Adenauer et au premier Strauss. Or, ce genre de nationalisme ne mène strictement à rien : la clé de la réunification allemande se trouve au Kremlin, pas dans les orangeries californiennes ! La volonté et la force d'aller l'y chercher sont l'affaire des Allemands et pour cela, ces derniers doivent être prêts à passer des arrangements avec le super-grand de l'Est. Bien sûr, cette volonté, qui doit toujours rester attentive aux périls, n'est pas une panacée, mais sans elle, rien ne peut se faire.

 

L'actualité nous force à ajouter que toute exi­gence de réunification qui n'inclurait pas un tel arrangement et n'approuverait pas explicitement la neutralité d'une Allemagne restaurée dans son intégralité territoriale, sera bien évidemment re­jetée par les Russes. On l’a vu au printemps et à l'été 1987. Mais si l'on exige qu'il soit mis fin à la « division de l'Europe » (comme si l'Europe était une unité au même titre que l'ancienne Al­lemagne), moyennant la réunification allemande sous un chapiteau « européen », cette exigence, vue de Moscou, ne pourra être interprétée que comme une déclaration de guerre implicite, même si ce genre de fantasmes tient plutôt du discours d'arrière-salle de café. Ce genre de « propositions » sur la réunification allemande est anti-nationale, étant donné sa vision du passé de l'Allemagne.

 

La gauche a servi les intérêts américains !

 

La gauche, en fait, n'a toujours pas compris qu'elle s'est laissée utiliser comme appendice de la rééducation et donc comme servante des inté­rêts américains. Son pseudo-anti-américanisme consiste en réalité à reprocher aux vainqueurs de ne pas vivre leurs propres impératifs catégo­riques. Knut Nevermann et Hans-Jürgen Krahl sont tout aussi victimes de la « pédagogie so­ciale » que Volker Rühe ou Gerold Tandler. L'hypertrophie moralisatrice d'un côté, le nou­veau culte du « juste milieu » de l'autre, se com­plètent finalement, leur affrontement n'étant en fin de compte que le débat entre deux méthodes différentes de se mettre à plat ventre.

 

Pourtant, la tâche est aussi démesurée que la dé­faite est totale, comme est totale l'inconscience quant à la situation de l'Allemagne sous ce su­per-Versailles. Le premier pas doit être une rup­ture mentale, voire psychique et affective avec l'entreprise « République fédérale » ; le second un effort de réflexion sérieuse. Les craintes, les pa­linodies et les scrupules des conservateurs, ce prosaïsme terre-à-terre soit-disant « réaliste » sont parfaitement stériles. Comme toujours, les grandes choses ne viennent que du foisonnement de la vie qui, elle, n'a jamais réellement fécondé la pensée conservatrice et qui, aujourd'hui, se consume dans la mesquinerie de la gestion au quotidien. « Je crois et je soutiens, écrivait Clau­sewitz, qu'un peuple n'a rien de plus haut à res­pecter que la dignité et la liberté de son exis­tence..., que la souillure d'une lâche soumission est indélébile... et je tiens la fausse intelligence avec laquelle les petits esprits veulent échapper au danger pour la chose la plus funeste que puissent inspirer la crainte et la peur » (6).

 

L'acte de naissance d'une nation est souvent la guerre civile. Il y a fort à parier que l'acte de sa reconquête ne soit pas autre chose puisque le pire ennemi de la nation est une partie de celle-ci. Ce n'est pas là du romantisme de western, c'est une déduction plausible après reconnaissance du terrain de la crise. Inter faeces et urinam nasci­mur !Pendant plus d'un siècle, les conserva­teurs ont montré des dons pour la méta­morphose. Ils ont toujours été les dindons de la farce, qu'ils fussent aveugles, mal-voyants ou bien lucides. Pourquoi ne réussiraient-ils pas à se sacrifier en s'abolissant enfin comme conser­vateurs afin de ressusciter comme nationaux-ré­volutionnaires ? Après tout, ce sont eux, sans doute, qui perçoivent le mieux la dépravation de la société contemporaine, qui ont à son égard les réactions émotionnelles les plus fortes. Pour la première fois, une chance réelle s'offre à eux : être à l'avant-garde !

 

Günter MASCHKE.

(Traduction française de Jean-Louis Pesteil. Texte paru dans l'anthologie intitulée Der Pfahl I, publiée par les éditions Matthes & Sein de Munich en 1987. Adresse : Matthes & Seitz, Mauerkirchestrasse 10, Postfach 86 05 28, D-8000 Mûnchen 86. Cette anthologie, dora un second volume est paru en 1988, est une véritable mine d anti-conformisme. Sa lecture et sa méditation sont obligatoires pour qui veut échapper aux pesanteurs morales, étriquées, rationalistes, philistines).

Notes :

 

(1) II n'y a pas de socialisme sans un prolétariat qui a une conscience de classe ; il n'y a pas de croyance au progrès sans petite-bourgeoisie en progrès ; il n'y a pas de libéra­lisme sans une bourgeoisie active ; il n'y a pas de conservatisme sans une aristocratie détentrice des terres. Certes, l'histoire est bien plus complexe que ne l'affirment ces lieux communs du marxisme vulgaire. Mais ceux qui les écartent en viennent finalement à produire des idées bi­zarres : ils imaginent que ces idéologies de base peuvent être élargies à plaisir sans qu'elles ne perdent ni cohérence ni consistance. Pour comprendre comment s'est opérée la dissolution de la pensée conservatrice, dissolution qui est le résultat de la dissolution de sa classe porteuse, lire : Panajotis Kondylis, Konservativismus : Geschichtlicher Kampf und Untergang, Stuttgart, 1986.

(2) Les conservateurs de la vieille garde, en Prusse, étaient pleinement conscients de cet état de fait mais ils n'en voulaient pas moins demeurer crispés sur leurs posi­tions perdues. Lire : Hans Joachim Schoeps, Das andere Preussen : Konservative Gestalten und Probleme im Zeitalter Freidrich Wilhelms IV, Honnef/Rhein, 1957.

(3) C'est aussi la principale réticence des frères von Ger­lach à l'égard de Bismarck. De l'autre côté de la barrière, dans le monde de la gauche, la révérence du césarisme adressée à la démocratie est notée avec un sobre sentiment de triomphe. Voir: P.J. Proudhon, La Révolution sociale démontrée par le Coup d'État du 2 décembre, Bruxelles, 1852.

(4) À ce propos, il convient de se référer à une étude très sérieuse et pleine de sarcasmes, due à la plume du natio­nal-socialiste Justus Beyer : Die Ständeideologien der Systemzeit und ihre Überwindung, Darmstadt, 1942.

(5) Ernst Jünger, Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt, Hamburg,1932, S. 236.

(6) Carl v. Clausewitz, Bekenntnisdenkschrift (Februar 1812) ; je cite d'après une édition contemporaine, intitulée Schriften, Aufsätze, Briefe, Bd. 1,Hrsg. Hahlweg, Göttingen, 1966, pp. 688 et suivantes.

mercredi, 25 août 2010

Le message national du cinéma allemand

Archives de Synergies Européennes - 1988

 

Le message national du cinéma allemand

 

par Guy CLAES

 

LeMariageDeMaria_base.jpgJadis, le passé s'évanouissait dans les brumes des souvenirs, se voyait transformé et déformé par les imaginations. Aujourd'hui, le passé demeure, fixé sur les bobines de celluloïde, archivé dans les ciné­mathèques. Les films sont notre néo-mémoire ; ils ont démocratisé l'histoire qui, désormais, ne se stocke plus uniquement dans les crânes de quelques élites motrices, mais est directement accessible aux masses. La puissance de gérer, de dominer, de ma­nipuler l'histoire appartient dorénavant à ceux qui produisent les images et les lèguent aux générations futures. Dès lors, une lutte s'engage – et nous le constatons dans nos journaux et l'observons sur nos écrans – pour l'organisation de la mémoire publi­que et collective. Quel sens va-t-on lui donner ? Avec quels critères va-t-on l'imprégner ?

 

En Allemagne, pays vaincu et « rééduqué », le thème de l'histoire, et surtout de l'histoire mise en film, s'avère problématique, lancinant, omniprésent et ob­sessionnel. L'histoire y sera jugée de façon critique, par des intellectuels inquiets, soucieux de ne pas en­freindre les comportements imposés, les tabous dic­tés par les psychologues affectés auprès de la police militaire américaine. La psychologie de l'intellectuel allemand, du Ouest-allemand qui joue et crée avec les opinions pour matériaux, diffère radicalement de celle de son homologue français, plus assuré, plus affirmateur, qui, s'il est « patriote » comme un Pierre Chaunu, rayonne de bonne conscience et forge de beaux écrits apologétiques. Le Français a une « patrie facile », l'Allemand a une « patrie difficile » (Ein schwieriges Vaterland).Et cette « difficulté » se ré­percute, de façon fantastique et étonnante, chez les cinéastes allemands modernes et dans leurs belles productions.

 

De l'image au débat sur l'histoire

 

Comment cette angoissé face à l'histoire peut-elle, malgré les limites qu'elle impose à la pensée, se transfigurer de manière si captivante dans les films ? Parce que, écrit Anton Kaes, les images, couplées aux textes parlés et aux sons, relèvent d'une matéria­lité pluri-codée, génératrice d'une esthétique com­plexe, qui permettent de jouer sur les ambivalences et, simultanément, de suggérer au spectateur plu­sieurs significations à la fois. Le film de fiction, à connotations historiques, permet ainsi d'activer, chez le spectateur, des désirs et des angoisses ca­chés, de libérer des fantaisies, d'interpeller des sen­timents collectifs inconscients et de catalyser des o­pinions. En bref: de titiller le refoulé, de le ramener à la surface. Ainsi, le film de Syberberg sur Hitler, Die Patriotin d'Alexander Kluge, Die Ehe der Maria Braun de Fassbinder et Deutschland bleiche Mutter de Helma Sanders-Brahm, ont tous déclenché un dé­bat sur l'identité nationale à la fin des années 70. L'œuvre cinématographique donnait lieu et prétexte à un « événement » d'ordre discursif. Les critiques ne pouvaient plus se limiter à une simple analyse du film en tant que film mais devaient passer à un stade complémentaire et se plonger dans un débat sur l'histoire, imposé par la multiplicité des significa­tions, véhiculée par les images.

 

Les critiques de cinéma étaient donc plus ou moins contraints de se mettre à l'écoute de l'histoire et, en outre, de se récapituler l'histoire du cinéma alle­mand, marquée par l'autorité de Goebbels. Ce der­nier était parfaitement conscient de l'importance de la technique cinématographique, écrit Anton Kaes. Pendant l'hiver 1944/45, quand le IIIème Reich ago­nise, quand ses villes brûlent sous le phosphore des «soldats du Christ» et de son ayant-droit auto-pro­clamé, Roosevelt, quand ses dirigeants se réfugient dans leurs taupinières de béton, quand les meilleurs régiments sont saignés à mort, Veit Harlan, le ciné­aste-vedette de l'époque, reçoit l'ordre de tourner un film en couleurs sur l'épisode de la bataille de Kol­berg au XVIIIème siècle. Ce fut, malgré la disette et la ruine, le film le plus onéreux produit pendant l'ère hitlérienne. 187.000 soldats et 4.000 matelots sont détachés du front pour servir de figurants ! La pre­mière présentation publique a lieu le 30 janvier 1945, juste douze ans après la prise du pouvoir, dans la ville charentaise de La Rochelle, assiégée par les alliés. Quelques jours plus tard, les rares cinémas non détruits de Berlin passent le film sous les hurle­ments des sirènes, les vrombissements des bom­bardiers et l'explosion des bombes. Ce surréalisme fou et tragique témoigne de la foi aveugle qu'a cul­tivée le IIIème Reich à l'égard de la puissance déma­gogique des images mobiles.

 

Le IIIème Reich, c'est un film

 

Pour Goebbels, cette foi était calculée. Anton Kaes rappelle un de ses derniers discours, prononcé le 17 avril 1945, quelques jours avant son suicide. Devant un groupe d'officier, le Ministre de la Propagande prononce ces paroles si significatives : « Messieurs, dans cent ans on montrera un beau film en couleurs sur les jours terribles que nous vivons aujourd'hui. Voulez-vous jouer un rôle dans ce film ? Alors tenez bon maintenant pour que, dans cent ans, les specta­teurs ne vous huent et ne vous sifflent pas lorsque vous apparaîtrez sur l'écran ! ». Cette exhortation re­flète toute la prétention esthétisante du nazisme: jus­qu'au bout, ce régime et cette idéologie ont mis la si­mulation, le tragique, l'esthétisme, le geste à l'avant­-plan.

 

Pour Kaes, comme pour les jeunes cinéastes ouest­-allemands, le « IIIème Reich », c'est un film. La scè­ne de ce film, c'est l'Allemagne. Le producteur, c'est Hitler. Goebbels, c'est le metteur en scène. Al­bert Speer, c'est le décorateur. Le peuple, c'est l'en­semble des figurants. Et en effet, dès le premier jour du régime jusqu'à sa fin apocalyptique, la produc­tion d'images n'a pas cessé. Tous les films, les longs métrages comme les documentaires et les ac­tualités, étaient contrôlés par la « Reichsfilmkammer » et Goebbels participait souvent personnellement au découpage. Jamais un État ne s'est préoccupé de fa­çon aussi obsessionnelle de cinéma, reconnaissant par la même occasion sa fonction pédagogico-poli­tique. Grâce au film, expliquait Goebbels, on peut éduquer le peuple sans lui donner l'impression qu'il se fait éduquer, la meilleure propagande est celle qui demeure invisible.

 

Quant aux films de propagande proprement dits, ils devaient subjuguer les masses par leur monumen­talité. Mais la monumentalité n'est pas le seul atout de ce type de cinéma; dans Le Triomphe de la Vo­lonté de Leni Riefenstahl, classique du genre, la ca­méra perpétuellement mobile parvient à dynamiser tout : les espaces, les formations humaines, les mo­numents de pierre. La symbolique suggérée par les jeux de lumière s'ajoute à cette mouvance enivrante qu'un Robert Brasillach ou un Pierre Daye ont cons­taté de visu. Ces images de propagande, ce dyna­misme cinématographique légué par Leni Riefen­stahl, nous les avons intériorisés ; ils font partie de notre mémoire vive ou dormante.

 

Présence et jouvence du IIIème Reich dans les films

 

Le IIIème Reich, dont la politique cinématographi­que fut rigoureusement planifiée, semble avoir de ce fait trouvé le secret de l'éternelle jouvence, la force de rester, en dépit des vicissitudes tragiques de l'his­toire, pour toujours parmi nous. Goebbels nous a imposé et continue à nous imposer sa vision esthé­tique, son image du politique, son dynamisme total, comme nous l'indique son discours du 17 avril 1945. Les adversaires du régime n'existent plus par­ce qu'ils n'ont pas été filmés, si bien que leurs pro­blèmes disparaissent, semblent n'avoir pas été parce qu'aucune image ne témoigne d'eux. Les images ac­quièrent une réalité plus prégnante que le réel et pos­sèdent une dimension plus mobilisatrice, comme le prouvent aussi les innombrables albums illustrés sur le IIIème Reich qu'on trouve à profusion dans le commerce et comme l'attestent également les « con­tre-images » qui dévoilent l'univers concentrationnai­re.

 

Cette conquête du futur, partiellement réussie par Goebbels, a été possible par l'émigration forcée de cinéastes comme le génial Fritz Lang qui voulait s'affranchir des impératifs politiques et ne pas pas­ser sous les fourches caudines du parti au pouvoir. En dehors du cinéma nazi, il ne subsistait rien. Après la défaite, le public allemand et sa nouvelle in­telligentsia cultiveront une méfiance instinctive à l'é­gard du cinéma dont les productions les plus con­nues avaient été marquées du sceau goebbelsien. La tradition cinématographique allemande, dans laquelle s'inscrivait Fritz Lang, avait été brisée et la tradition de Goebbels n'était plus de mise. Les nouveaux pro­ducteurs durent dès lors imiter les modèles améri­cains ; Werner Herzog fut l'un des premiers à re­nouer avec la tradition des expressionnistes alle­mands des années 20. Schlöndorff s'inspira de ses collègues français. En 1962, vingt-six cinéastes et journalistes proclament le « Manifeste d'Oberhau­sen », où il est annoncé que le « cinéma de Papa » est mort. Les signataires envisagent l'avènement d'un cinéma « critique » qui doit remplacer la vogue des variétés dépolitisées et dépolitisantes, tout comme le « Groupe 47 » doit rénover la littérature. Suivant l'exemple des Français Godard, Truffaut et Chabrol, ils estiment que tout film doit porter la signature indélébile de son auteur.

 

Le souci « moral »

 

Le « Manifeste d'Oberhausen » trahit, comme les grands courants philosophiques contemporains en RFA ou comme les principes qui animent les tenants du « Groupe 47 » en littérature, un souci « moral », un souci de hisser la « morale » au-dessus du politique, de l'histoire et de l'instinct de conservation. Mais cette démarche « moralisatrice » va thématiser le rap­port troublé qu'entretiennent les Allemands avec leur histoire, criminalisée par les vainqueurs de 1945 et sans cesse houspillée hors des mémoires. Les pre­miers Spielfilme du « jeune cinéma allemand » con­cernent directement ce passé problématique. L'Alsa­cien Jean-Marie Straub, installé en RFA, et sa com­pagne Danielle Huillet créent un cinéma rigoureuse­ment détaché des variétés commerciales et calqué sur les œuvres littéraires de Heinrich Böll. Cette option se révèle clairement dans Machorka-Muff (1962), un court métrage inspiré par la satire de Böll, Hauptstädisches Journal (= Journal de la capitale). Le héros central du film est un ancien général de l'armée de Hitler, Erich von Machorka-Muff, qui réalise un fantasme : créer une « Académie des souve­nirs militaires » où les militaires, à partir du grade de major, peuvent se retirer pour y écrire leurs mémoi­res. La première conférence prononcée dans cette institution porte, très significativement, le titre de « Le souvenir comme mission historique ». Straub et Huillet voulaient souligner par là que l'important, ce n'était pas les nostalgies des vieux soldats mais la volonté de dépasser l'amnésie installée pendant le miracle économique.

 

Ce retour discret à l'histoire, grèvé de ce sentiment de lourde culpabilité, qui agace parfois les non­Allemands, Straub et Huillet l’ont opéré par le biais d'une technique cinématographique diamétralement contraire aux techniques de Leni Riefenstahl. Tout grandiose est évacué et on voit apparaître un véri­table ascétisme vis-à-vis des images. La caméra reste statique ; les acteurs déclament leur texte de façon un peu scolaire, afin que le caractère de fiction puisse bien apparaître, comme le préconisait Bertold Brecht. Ce genre de film est accueilli avec enthou­siasme à l'étranger, lors des festivals, mais ne sus­cite pas les faveurs des masses. Il reste donc un pur produit intellectuel, en marge des préoccupations de monsieur-tout-le-monde, plus friand de sensationnel et de narratif.

 

Le choc de la « Bande à Baader »

 

Ce divorce entre la réflexion sur l'histoire refoulée et les désirs immédiats de la population perdurera jus­qu'en 1977. Cette année-là est la grande année de la Rote Armee Fraktion (RAF) ou « Bande à Baader ». Ce groupe terroriste urbain assassine consécutive­ment le Procureur Buback, le banquier Ponto et le « patron des patrons » Schleyer. La tension culmine en octobre quand des camarades de Baader, empri­sonné à Stammheim, détournent un avion vers Mo­gadiscio en Somalie avant de se faire neutraliser par un commando spécial. Baader, Raspe et Gudrun Ensslin se « suicident » alors mystérieusement dans leurs cellules. Cette situation de crise provoque la naissance d'un néo-macchartysme, d'une censure à l'endroit de tout ce qui peut apparaître comme non conformiste.

 

Dans le monde des cinéastes, Margarethe von Trotta, dans son film Die bleierne Zeit (= Temps de plomb ; 1981), se penche sur la personnalité de Gudrun Ensslin, la suicidée de Stammheim. Ce qui a conduit la jeune Gudrun au terrorisme urbain, c'est la prise de conscience des horreurs du nazisme ; elle s'imagine, qu'en tant qu'Allemande, elle porte une « marque de Caïn » indélébile qu'il faut racheter en luttant contre les injustices d'aujourd'hui et les reli­quats du passé, portés par les « parents ». Moins sim­plificateur, le philosophe Norbert Elias estime que ce ne sont pas, en règle général, les « parents », en tant qu'êtres concrets et vivants, qui ont provoqué le déclic fatal mais les livres scolaires et l'école, mis au pas par la rééducation. Le lavage de cerveau condui­rait ainsi au paroxysme terroriste.

 

Oublier l'histoire ou s'y replonger

 

En triturant l'histoire, en la violentant, le système de la « rééducation » n'a pas apaisé les Allemands com­me l'auraient voulu les Alliés occidentaux, ne les a pas réinsérés dans cette vieille, traditionnelle et pai­sible acceptance romantique d'une réalité internatio­nale pré-bismarckienne qui leur assigne à perpétuité une place de seconde zone, dans cette douce et in­souciante Gemütlichkeit du « Bon Michel » sans in­dustrie et sans armée, mais, au contraire, les a jetés dans une angoisse atroce, dans un déchirement per­pétuel, générateur de terrorisme, producteur de des­perados à la Baader. Et la censure anti-terroriste, la chasse aux sorcières néo-macchartyste de l'automne 1977, n'a fait qu'amplifier cette angoisse, ce proces­sus de refoulement constant, où l'inquisiteur, en tra­quant le non-conformiste soupçonné de sympathiser avec les terroristes, traque aussi un pan entier de sa propre sensibilité, de son intériorité,

 

L'affaire Baader provoque finalement un désir géné­ral de renouer avec l'histoire. À la version officielle de l'événement, un collectif de cinéastes répond par un film critique Deutschland im Herbst (= L'Alle­magne en automne), où, par l'intermédiaire d'images d'archives, les spectateurs peuvent comparer l'as­sassinat de Rosa Luxemburg au « suicide » et à l'enterrement furtif et hyper-surveillé de Baader et de ses deux camarades, l'enterrement officiel du Maré­chal Rommel, présenté comme dissident, et l'enter­rement de Schleyer, victime de la RAF.

 

Le défi d'Holocauste

 

Cette timide amorce d'une réinvestigation de l'his­toire n'a pas atteint le grand public et est resté affaire d'intellectuels contestataires. Une année plus tard, la série américaine Holocauste, elle, replonge directe­ment les téléspectateurs dans l'histoire et interpelle sans détours les Allemands, détenteurs des mauvais rôles, comme il se doit à notre époque. Holocauste provoque un débat malgré la médiocrité stéréotypée de son intrigue, l'absence de tout goût dans sa réali­sation générale et son kitsch flagrant. Ce sera Élie Wiesel qui aura les mots les plus durs pour dénigrer la série ; dans un article du New York Times, en date du 16 avril 1978, le futur Prix Nobel ne mâche pas ses mots ; écoutons ses paroles : « En tant que pro­duction de télévision, le film constitue une injure à l'égard de ceux qui ont périt et de ceux qui ont sur­vécu. (...). Suis-je trop dur ? Trop sensible peut-être. (...) [Ce film] transforme un événement ontolo­gique en une opérette (soap-opera). Quelqu'aient été les intentions de ses réalisateurs, le résultat est choquant. Des situations imaginées, des épisodes sentimentaux, des hasards non crédibles : (...). Holocauste, c'est un spectacle télévisé. Holocauste, c'est un drame de télévision. Holocauste, mi-fait, mi-fiction. N'est-ce pas exactement ce que de nom­breux "experts" moralement égarés ont fait valoir partout dans le monde, ces derniers temps ? C'est-à-­dire ont affirmé que l'holocauste n'est rien de plus qu'une "invention" ? (...). L'holocauste doit rester gravé dans nos mémoires, mais pas comme un show ».

 

Sabina Lietzmann, collègue de Wiesel à la Frank­furter Allgemeine Zeitung, se place sur la même longueur d'onde dans un article paru le 20 avril 1978 ; pour elle, qui vient de visionner le film avant le public, Holocauste  transforme le martyr des Juifs en opérette. Le 28 septembre 1978, elle révise son jugement, expliquant que le film a son utilité, sa fonction, qui est de renforcer et dépasser en efficacité les arguments du purisme rationnel. Le niveau de la « story », qui est celui d'Holocauste, permet un accès immédiat à l'histoire de l'anéantissement des Juifs, lequel demeurerait sinon incompréhensible à la raison courante, selon Sabina Lietzmann. L'in­telligentsia juive a donc changé d'attitude à l'endroit de la production télévisée : hostile au départ, parce qu'elle trouvait la trame narrative trop grossière, son attitude s'est muée en enthousiasme devant le succès du film et l'étonnante naïveté du public européen

 

Die Patriotin d'Alexander Kluge

 

En Allemagne, le défi lancé par Holocauste, sa ré­ception mitigée chez les Juifs et hostile chez les Na­tionalistes, ouvrent l'écluse : l'histoire entre à gros flots dans une société qui avait voulu l'oublier pour toujours et l'avait refoulée sans merci. Les « nou­veaux » Allemands ont voulu prouver qu'ils ne cor­respondaient plus aux stéréotypes des nazis carica­turaux que donnaient d'eux les producteurs améri­cains. L'histoire allemande, disaient-ils, ne devait plus être traitée exclusivement par l'« esthétisme commercial » américain. L'histoire allemande doit être traitée sur les écrans par des cinéastes allemands ; ils ont le devoir de ne pas se la laisser arracher des mains.

 

Kaes estime que la meilleure réponse à Holocauste a été Die Patriotin (= La patriote) d'Alexander Kluge, primée en septembre 1979. Ce film, commencé deux ans plus tôt, s'oppose radicalement à la série holly­woodienne sur le plan du style. Kluge rejette tout fil conducteur narratif, toute fiction sans épaisseur, toute cette platitude d'historiette. Son œuvre, de portée philosophique, de teneur non propagandiste, indique la perte qu'ont subie les Allemands : leur histoire est désormais détachée de tout continuum ; elle est devenue un puzzle défait, un chaos de morceaux épars, d'où l'on ne retire que du désorientement. Comme l'écrivait Lyotard, l'ère post-moderne est l'ère qui a abandonné les grands récits idéologiques explicatifs pour morceler le réel au gré des options individuelles. L'Allemagne a renoncé à comprendre les lames de fonds de son histoire multi-millénaire – parce qu'on la lui a criminalisée – pour butiner, erratique, autour des feux follets occidentaux, consuméristes, ma­térialistes.

 

Une nouvelle conception de l'histoire

 

La figure centrale de Die Patriotin est une ensei­gnante, professeur d'histoire, Gabi Teichert. Cette femme cherche, au-delà de sa fonction, à renouer plus intimement avec le passé de son pays, l'Alle­magne. Symboliquement, on la voit se transformer en archéologue-amateur qui gratte le sol pour décou­vrir des restes dispersés d'une histoire deux fois millénaire qui ne peut plus être mise sous un déno­minateur commun. Fouiller ce vaste chantier, apporte au moins une conviction : l'histoire ne peut se réduire aux simplismes consignés hâtivement dans les ma­nuels scolaires. Il n'y a pas une histoire mais beau­coup d'histoires ; il n'y a pas un « grand récit » (pour paraphraser Lyotard) mais un tissu complexe de mil­liers de « petits récits » enchevêtrés.

 

La « nouvelle histoire », c'est précisément la méthode historique qui doit réhabiliter ces « petits récits », les­quels deviennent la chape sous-jacente d'un « nou­veau patriotisme ». Ce patriotisme n'exalte plus une construction politique, une machine étatique – l'i­déologie dominante de gauche ne l'aurait pas accep­té – mais chante un espace qui accouche perpé­tuellement d'une identité, un espace auquel on est lié par la naissance et l'enfance, la langue et les premières expériences de la vie. La gauche, après la faillite de la stratégie terroriste en 1977, se met à vouer un culte à la Heimat, socle incontournable, fait de monde plus durable que les gesticulations policières ou politiciennes, que les déclamations idéologiques ou l'agressivité terroriste. La « population » devient la nouvelle réalité centrale, les hommes et les femmes de chair et de sang, plutôt que les éphémères avant-gardes du prolétariat ou les porteurs de la « conscience de classe ». L'échec de la révolte urbaine de 68, l'enlisement de ses revendications dans le marais du libéral-­consumérisme occidental, induit quelques-uns de ses protagonistes à renoncer aux utopies grandilo­quentes, sur fond de stagnation, de croissance ralen­tie. Le réel le plus fort, puisque le plus stable, c'est cette dimension du « terroir » éternel, de cet oikos initial de la personnalité de chacun.

 

Le patriotisme de Gabi Teichert

 

Die Patriotin met symboliquement cette mutation du patriotisme en scène. D'entrée de jeu, la première image sur l'écran, c'est un mot : "DEUTSCH­LAND", thème qui va être placé sous la loupe. Très concrètement, la réalité allemande, c'est d'abord un paysage heimatlich, un terroir, un horizon bien cir­conscrit. Les premières images de Kluge semblent issues d'un documentaire touristique : des campagnes riantes, des champs, des prés, des arbres fruitiers en fleurs, les ruines d'un vieux château, des forêts. Ce survol s'opère sur un texte déclamé par un os de genou, découvert par Gabi Teichert, symbole d'un morceau du passé. Il dit : « On dit que je suis orienté historiquement. C'est juste, évidemment. L'histoire ne me quitte pas l'esprit car je suis partie d'un tout, comme mon ancien maître le caporal Wieland, était aussi partie d'un tout : une partie de notre belle Allemagne. (...). En tant que genou allemand, je m'intéresse tout naturellement à l'histoire allemande : à ses empereurs, à ses paysans, à ses récoltes, à ses arbres, à ses fermes, à ses prés, à sa flore... ».

 

Derrière l'ironie de ce discours prononcé par un ge­nou de caporal arraché, se profile ce glissement, ob­servable au cours des années 70, des utopies pro­gressistes aux utopies écolo-passéistes. Dans l'orbite de ce glissement idéologique majeur de notre temps, le nationalisme de vieille mouture en vient à signifier l'éloignement d'« hommes du peuple » dans des champs de bataille lointains. Le patriotisme nouveau signifie, au contraire, la proximité du terroir. Kluge symbolise cette opposition par des images de Stalingrad, avec des soldats affamés, défaits, hâves, aux membres gelés, ce qui constitue un contraste affreux entre une steppe enneigée, si lointaine, et une patrie charnelle chaleureuse et idyllique. L'histoire est ici instance ennemie ; elle procède d'une logique qui tue le camarade ressortissant du même peuple que le mien. Si le paysage du terroir est baigné de soleil, le champ de bataille russe où se joue l'histoire est gelé, glacé, frigorifié. De l'hiver de Stalingrad à la froidure de l'Allemagne de Bonn, sortie de l'his­toire, voilà l'itinéraire navrant d'une Allemagne qui ne peut plus renouer avec son passé romantique, musical et nationaliste.

 

Les Allemands victimes

 

Kluge truffe Die Patriotin de morceaux de films al­liés d'actualité : des pilotes américains bombardent une ville allemande tout en plaisantant grossièrement; de jeunes résistants allemands, des Wehrwölfe, sont fusillés par les Alliés en 1945 ; les commentaires en off qui accompagnent ces images tragiques sont sarcastiques : « Ces pilotes de bombardier reviennent de leur mission. De l'Allemagne, ils n'ont rien appris de précis. Ils ont simplement détruit le pays pendant dix-huit heures de façon professionnelle. Maintenant, ils rejoignent leurs quartiers ; ils vont dormir ». Ou : « Nous ne voulons pas oublier que 60.000 personnes sont mortes brûlées dans Ham­bourg ». De tels commentaires induisent les spec­tateurs à percevoir les Allemands comme victimes d'orgies destructrices, de la guerre, de bombarde­ments, de captivités et de fusillades. La personnalité de Gabi Teichert, professeur d'histoire en pays de Hesse, incarne dès lors le souvenir de tous ces morts issus du Reich, souvent victimes innocentes de la guerre totale.

 

Finalement, Kluge est très barrèsien : sa sentimenta­lité patriotique participe d'un culte doux de la Terre –réceptacle de gentillesse, de Gemütlichkeit, d'a­paisement – et des Morts, dont on ne peut perdre le souvenir, dont on ne peut oublier les souffrances in­dicibles. L'Allemagne, ce n'est pas seulement un système étatique né en 1871 et durement étrillé en 1918 et en 1945, c'est surtout un corps vivant, vieux de deux millénaires, un produit de l'histoire façonné par 87 générations, une fabrique d'expériences collectives, un réceptacle de souvenirs. L'Allemagne est une cuisine gigantesque où une force de travail collective n'a jamais cessé de produire des mutations historiques. L'Allemagne véritable est un magma toujours en fusion, jamais achevé. L'Allemagne véritable ne se laisse pas enfermer dans une structure étatique figée. Laboratoire fébrile, l'Allemagne de Kluge et de son ami le philosophe Oskar Negt, connaît ses bonnes et ses mauvaises saisons et, quand Gabi Teichert, à la fin du film, s'en va fêter la Saint-Sylvestre et récapitule l'année écoulée, elle sait que l'hiver présent finira et qu'un nouvel été adviendra, riche en innovations...

 

La révolte de Fassbinder

 

Célébrissime fut Rainer Maria Fassbinder, le cinéaste « gauchiste » mort à 37 ans en 1982 ; perçu à l'étran­ger comme l'incarnation du nouveau cinéma alle­mand, comme le fleuron de la conscience blessée des Allemands contemporains. Fassbinder, c'est la fou­gue et la colère d'une jeunesse à laquelle toute cons­cience politique est interdite et qui doit ingurgiter passivement les modèles de société les plus étrangers à son coeur profond. Souvent, l'on a dit que cette génération de l'« heure zéro » (Stunde Null), dont l'enfance s'est déroulée sous le signe du miracle économique, s'est rebellée contre la génération précédente, celle dite d'« Auschwitz », celle de l'ère hitlérienne. Mais davantage qu'une révolte des fils contre les pères, la révolte de Fassbinder et de ses contemporains est une révolte contre la parenthèse apolitique, anti-identitaire, économiste, inculte, du redressement allemand sous le règne d'Adenauer.

 

Dans cette optique, l'épisode de la révolte étudiante de 67-68 est une ré-irruption du politique, une ex­plosion de sur-conscience politique. Sur-conscience qui s'est pourtant bien vite enlisée dans l'utopisme stérile puis dans l'amertume des désillusions. Toute l'œuvre cinématographique de Fassbinder témoigne de cet échec complet de l'utopisme rousseauiste­marxisant.

 

Pour Fassbinder, le XXème siècle allemand est une suite ininterrompue d'échecs : l'échec du totalitarisme nazi, l'échec humain et psychologique de l'opulence économique, l'échec du romantisme utopiste de 67-­68, l'échec du recours à la terreur. Aucune formule n'a pu exprimer pleinement l'essence véritable de la germanité ; celle-ci reste refoulée dans les conscien­ces. Pour mettre en scène ce « manque » – Kluge parle lui aussi de « manque » – Fassbinder adoptera les techniques du cinéaste Douglas Sirk (alias Hans Detlef Sierck), exilé à Hollywood en 1937, après avoir servi la UFA allemande. Sirk/Sierck avait créé un cinéma inspiré des romans triviaux sans happy end, où les aspirations au bonheur sont contrecar­rées par les aléas de la vie. Autres techniques : éclai­rages contrastés, utilisation symbolique d'objets quotidiens (fleurs, miroirs, tableaux, meubles, vête­ments, etc.).

 

Le système « RFA » est un échec

 

Les premières œuvres de Fassbinder sont toutes marquées par le style de Sirk/Sierck. Quant aux œu­vres majeures, proprement fassbinderiennes, elles sont malgré tout impensables sans l'influence de Sirk. Les destins de Maria Braun, de Lola, de Vero­nika Voss sont des destins privés, indépendants de tout engagement politique/collectif, qui aboutissent tous à l'échec. Mais ces destins que la fiction pose comme privés parce que la technique cinématogra­phique l'impose, sont en fait symboles de l'Allema­gne, d'une histoire nationale ratée, et ne sont plus simplement des cas sociologiques qu'un militant politique met en scène pour induire le public et les gouvernants à trouver un remède politicien. De 1970-72 jusqu'à la période des grands films fass­bindériens, commencée en 1977, on constate un glissement progressif de l'engagement social critique à un engagement national également critique et farci d'une terrible amertume, celle qui conduira Fassbin­der au suicide par overdose.

 

Le recours à l'histoire ne résulte pas, chez Fass­binder, d'une nostalgie de l'Allemagne romantique, impériale ou nationale-socialiste mais d'une volonté de critiquer sans la moindre inhibition ou réticence, l'évolution subie par la patrie depuis 1945. Cette année-là, pense Fassbinder, tout était possible pour l'Allemagne, toutes les voies étaient ouvertes pour créer ce que les Wandervögel avaient nommé le Ju­gendreich, pour créer l'État idéal dont avaient rêvé les mouvements de jeunesse. « Nos pères – écrit Fassbinder – ont eu des chances de bâtir un État qui aurait pu être tellement humain et libre qu'il n'aurait jamais soutenu aucune comparaison historique... ».

 

Une démocratie importée...

 

Mais la RFA, secouée d'hystérie à l'automne 1977, n'est pas l'État idéal, la société parfaite, l'harmonie rêvée. L'entrée de l'histoire sur l'écran, c'est, chez Fassbinder, une rétrospective hyper-critique des an­nées 50 et 60, un refus implicite des institutions et des valeurs règnantes dans cette nouvelle république allemande. La démocratie ouest-allemande est une démocratie non spontanée, importée par des armées étrangères et non imposée par la propre volonté du peuple allemand. Il n'existe donc pas de la démo­cratie de mouture spécifiquement allemande. Ces sentiments politiques contestataires, la trilogie Die Ehe der Maria Braun, Lola, Die Sehnsucht der Veronika Voss, va les exprimer brillamment.

 

Sur le plan psychologique, ce démocratisme d'im­portation, cette misère allemande, procède d'une soumission des sentiments et des instincts à la logi­que du profit, à l'âpreté matérialiste, à la corruption, aux stratégies de l'opportunisme. Ce calcul mes­quin, les hommes, rescapés des campagnes hitlé­riennes (dans les années 50, il reste 100 hommes pour 160 femmes), ont tendance à le pratiquer plus spontanément que les femmes, symbolisées par les héroïnes de Fassbinder. Survivre, s'accomoder, re­chercher le nécessaire : voilà les activités qui ont donné lieu à un refoulement constant des souvenirs et des deuils. Comprendre les années 50, cela ne peut se faire qu'en répertoriant les « petits récits » qui forment le « texte », la texture (du latin, textum), de l'histoire. Cette texture est complexe, drue, serrée et Maria Braun en est un reflet, un symbole car plu­sieurs constantes s'entrecroisent et s'opposent en elle. Elle est un paradigme fictif incarnant divers « petits récits » réels. Examinons cet entrelas.

 

Le destin de Maria Braun

 

Maria Braun épouse quelques mois avant la fin de la guerre le fantassin Hermann Braun qui, après une nuit et un jour, retourne au front. Il est porté disparu et Maria, pour survivre, doit se mettre en ménage avec un gros et placide GI noir. Hermann revient, une querelle éclate, Maria frappe mortellement Bill le GI et Hermann, touché par la fidélité de sa compa­gne, prend la faute sur lui et purge une peine de pri­son. Maria lui promet que la vie réelle reprendra dès sa libération. Entre-temps, elle ne voit plus qu'une chose : le succès économique. Amour et sentiments sont remis à plus tard, postposés comme un rendez­-vous sans réelle importance. Elle cède ensuite à Os­wald, un fabricant de textile revenu d'émigration, et vit avec lui sans l'aimer tout en gravissant rapide­ment l'échelle hiérarchique de son entreprise. Cette cassure entre les sentiments humains et la vie quoti­dienne matérialiste, phénomène consubstantiel au démocratisme d'importation, à l'économisme libéral venu d'Outre-Atlantique, se résume dans un dialo­gue au parloir de la prison entre Hermann et Maria, à propos des relations humaines de l'après-nazisme : « C'est donc comme ça, dehors, entre les gens ? C'est si froid ? » demande Hermann, anxieux. Elle lui répond : « C'est un temps pas bon pour les senti­ments, j'crois ».

 

L'opulence acquise par Maria croît et quand Her­mann sort, il part d'abord en voyage et ne revient que lorsque meurt Oswald. Maria apprend alors que Hermann et Oswald avaient négocié derrière son dos: Oswald léguait la moitié de ses biens à Her­mann, si celui-ci lui laissait Maria jusqu'à sa mort. Maria, incarnation de l'Allemagne non politisée, de l'Allemagne victime de forces extérieures, comprend enfin qu'elle a été sans cesse manipulée... Après cette révélation, la superbe villa d'Oswald, désormais propriété du couple, explose. La morale de cette histoire, quand on sait que Maria incarne l'Allemagne éternelle et Hermann l'Allemagne combattante de ce siècle, c'est qu'il n'y a pas de bonheur possible au bout du libéralisme marchand, apporté par les GI noirs et les fabricants de tissus re­venus d'exil...

 

Le progressisme marchand est une fuite en avant

 

La leçon que veut inculquer Fassbinder à son public, c'est que nos vies privées sont déterminées par l'histoire politique, elle-même déterminée par les vicissitudes économiques. En Allemagne, ce para­marxisme fassbindérien se justifie quand on constate avec quelle insouciance les Allemands de l'Ouest ont accepté la partition du pays en 1949 ou oublié la ré­volte ouvrière de Berlin-Est de 1953. Seule la linéa­rité « progressiste/libérale » comptait : c'était finale­ment une fuite en avant, positivement sanctionnée par l'acquisition quantitative de bouffe, de fringues, de mobilier. Plus le temps d'une réflexion, d'une introspection. Cette société vit aussi la surabondance des messages : les personnages devisent sur fond de discours radiophoniques, sourds aux événements du monde et préoccupés seulement de leurs petits pro­blèmes personnels. C'est l'avènement, dans la non­-histoire, de l'égoïsme anthropologique ; Maria dissi­mule, feint, ment pour arriver à ses fins et dit, dans un moment d'honnêteté : « Je suis maîtresse dans l'art de la simulation. Je suis outil du capitalisme le jour et, la nuit, je suis agent des masses prolétariennes, la Mata Hari du miracle économique ».

 

Maria est tiraillée, comme l'Allemagne, entre les souvenirs et l'oubli (le refoulement volontaire). Cette dernière démarche, propre à l'établissement ouest-­allemand, est une impossibilité : les souvenirs se dif­fusent dans l'atmosphère comme un gaz toxique et explosif. Si on ne prête pas attention, si l'on persiste à vouloir refouler ce qui ne peut l'être, la moindre étincelle peut faire exploser le bâtiment (l'environne­ment)... Jean de Baroncelli dans Le Monde (19/01/80) explique de façon particulièrement limpide que Maria Braun, qui « est » l'Allemagne, est devenue un être vêtu de très riches vêtements, mais qui a perdu son âme, en se muant en « gagneuse ».

 

Antisémitisme ?

 

Vient ensuite la phase la plus contestée de l'œuvre de Fassbinder : celle qui aborde le problème délicat de l'antisémitisme. Deux films du cinéaste n'ont pu être tournés et sa fameuse pièce Der Müll, die Stadt und der Tod (= Les ordures, la ville et la mort) n'a pu être jouée ni en 1976, quand elle fut achevée, ni en 1985, quand un théâtre a tenté de braver l'interdit. L'intrigue de cette pièce si contestée provient d'un roman de Gerhard Zwerenz, Die Erde ist unbe­wohnbar wie der Mond (= La Terre est inhabitable comme la Lune), dont la figure centrale est un spé­culateur immobilier de confession israëlite, Abra­ham. C'est le stéréotype du « riche Juif » de la littéra­ture antisémite. Le récit de la pièce, c'est la mort d'une ville, en l'occurence Francfort, qui est systé­matiquement mise en coupe réglée par des spécu­lateurs immobiliers, dont certains sont juifs. La po­pulation, dans de telles circonstances, devient un en­semble désorganisé et pantelant de « cadavres vi­vants » (comme le dit une prostituée dans la pièce), expurgés de toute épaisseur humaine.

 

Le tollé, soulevé par la pièce, fut énorme. Fassbinder fut accusé de fabriquer un « antisémitisme de gau­che », un « fascisme de gauche ». Son éditeur, la Maison Suhrkamp, pourtant peu suspecte d'antisé­mitisme et fer de lance de la « nouvelle gauche », a dû retirer de la vente le texte de la pièce, sous la pres­sion des « rééducateurs » patentés. L'historien Joa­chim Fest avait rédigé l'une des plus violente philip­pique contre le cinéaste dans la FAZ (19/03/1976), ce qui peut sembler paradoxal, puisqu'il sera lui-même victime de ce genre d'hystérie, lors de la parution de son Hitler - Eine Karriere en 1977, sous prétexte que le problème juif sous le IIIème Reich n'y était traité qu'en deux minutes et demie dans un film de deux heures et demie.

 

Dans la foulée, deux films de Fassbinder, dérivés du célèbre roman de Gustav Freytag Soll und Haben, seront interdits ou sabotés, parce que le cinéaste avait traduit en images cinématographiques les descrip­tions du ghetto, émaillant ce classique littéraire. Représenter le ghetto ne signifie pas en vouloir aux Juifs et manifester de l'antisémitisme, écrivit Fass­binder pour sa défense, mais au contraire dévoiler les conditions objectives dans lesquelles vivaient les Juifs en butte à l'antisémitisme. Si dans de telles cir­constances, poursuit-il, des Juifs sont amenés à avoir un comportement vicié, c'est la conséquence de l'oppression qu'ils subissent. Ses adversaires rétor­quent que le danger de ses films vient du simple fait d'opérer une monstration des comportements viciés, laquelle pourrait conduire à des mésinterprétations dangereuses. À cela, Fassbinder répond qu'il est inepte de présenter les Juifs à la manière philosémite, c'est-à-dire comme des victimes pures et blanches, car une telle démarche est l'inverse exact du manichéisme antisémite.

 

Ces raisonnements hétérodoxes font de Fassbinder un « anarchiste romantique », dans le sens où le vo­cable « anarchisme » signifie une radicale indépen­dance à l'égard des partis, des Weltanschauungen de gauche et de droite, de tous liens personnels et po­litiques. Son pessimisme, qui se renforce sans cesse quand il observe l'involution ouest-allemande, dérive du constat que les énergies utopiques positives, potentiellement édificatrices d'un État parfait, se sont épuisées et qu'en conséquence, l'avenir n'offre plus rien de séduisant. « L'avenir est occupé négativement », déplore Fassbinder qui cultive dé­sormais le sentiment d'être assassiné en tant qu'« être créatif ». Conclusion qui sera suivie de son suicide : « Il n'y a pas de raison d'exister, lorsque l'on n'a pas de but ».

 

La vanité des espoirs de Fassbinder correspond à l'échec des gauches étudiantes qui avaient voulu « conscientiser » (horrible mot !) les masses en les dé­pouillant de tous leurs réflexes spontanés. L'impact en littérature et en cinéma de cet échec, c'est l'éclosion d'une « nouvelle subjectivité » qui vise à réhabi­liter les identités individuelles, les expériences per­sonnelles et les intériorités psychologiques, devant l'effondrement des « châteaux en Espagne » que fu­rent les utopies militantes, marquées par les philoso­phies rationalistes. Ce fut là un retour volontaire à l'« authenticité », à la concrétude existentielle, confir­mé par le flot de romans historiques, de biographies et de mémoires produits dans les années 70.

 

Le travail de Helma Sanders-Brahms

 

Ce retour, qui est aussi retour au passé, procède souvent d'une interrogation des parents, témoins de la « pré-histoire » du présent, à laquelle on retourne parce que les perspectives d'avenir sont réduites et que la nostalgie acquiert ainsi du poids. En cinéma, l'œuvre cardinale de la vogue « néo-subjectiviste » est, pour Kaes, Deutschland, bleiche Mutter (= Al­lemagne, mère blême), de Helma Sanders-Brahms. C'est le dialogue entre une fille et sa mère Lene, qui apparaît comme une victime souffrante de l'histoire allemande récente. Les stigmates de cette souffrance se lisent sur le visage ridé et ravagé de l'actrice prin­cipale, incarnation, comme Maria Braun, de l'Alle­magne mutilée.

 

La vie de Lene reflète l'histoire allemande, tout com­me le suggère la première image du film : une surface d'eau où se reflète un drapeau rouge frappé de la croix gammée. Lene rencontre Hans, son futur mari, en 1939 : une idylle amoureuse classique, suivie d'un mariage, puis le départ du jeune époux pour la campagne de Pologne. Anna, la fille, est conçue pendant un congé militaire et naît pendant une attaque aérienne, quand tout est sytématiquement détruit autour d'elle. Le retour des pères, aigris, vaincus, devenus étrangers à leurs familles, amène une nou­velle guerre au sein des foyers : les mères avaient quitté leurs cuisines, organisé des secours pendant les bombardements, parfois manipulé des canons de DCA, fait la chasse au ravitaillement, déblayé des ruines et participé à la reconstruction des villes. Le retour des pères leur ôte une intensité d'existence et certaines, comme Lene, se recroquevillent sur elles­mêmes, saisies par un sentiment d'inutilité, et som­brent dans l'alcoolisme. Lene, minée, tombe malade et une partie de ses muscles faciaux se paralysent. Elle est muette, folle, neurasthénique et repousse l'amour de sa fille de 9 ans. Puis se suicide au gaz.

 

La narration d'un destin privé est transformée par le génie artistique de Helma Sanders-Brahms en un miroir de l'histoire collective des Allemands. Se ré­férant à Heinrich Heine, qui avait, dans un poème, comparé l'Allemagne à une « mère blême » (eine blei­che Mutter), et à Bertold Brecht, le dramaturge anti­nazi qui, depuis son exil californien, n'avait cessé de militer contre toutes les volontés alliées de « punir » son pays (en cela, il prenait le radical contre-pied de Thomas Mann, partisan d'une punition sévère). Helma Sanders-Brahms reprend à son compte ce désir de Brecht : pour elle comme pour lui, l'Allemagne est une pauvre mère, victime de fils ingrats, les nazis. Victime ensuite d'un viol par une puissance étrangère, l'Amérique : sur l'écran, le viol de Lene par deux GI's ivres. Helma Sanders­Brahms donne là une image de son pays ravagé, éclaté, fractionné, dont les familles, jadis havres de bonheur, sont détruites et dont les enfants errent affolés à la recherche de leurs parents.

 

L'Allemagne d'Adenauer qui sort de cette tragédie est décrite comme hyper-conventionnelle, irréelle, « kitsch ». Le nazi rénégat réussit dans cette société, comme cet Oncle Bertrand de Berlin, un opportuniste devenu « Président d'Église  ». La cassure entre les discours officiels d'Adenauer, pleins de références grandiloquentes à l'éternité de l'Occident chrétien, est mise en exergue dans le film : tandis que la radio débite les belles paroles du Chancelier, des hommes ivres exécutent des cabrioles enfantines, titubent et tombent, grotesques, sur le sol. Cette scène veut nous montrer qu'il n'y a plus de vraie Allemagne, qu'il ne reste que des opportunistes méprisables, sans idéal autre que les hypocrites déclamations oc­cidentalistes à la sauce catholique, ou que des prolos saoûls, incapables de se hisser au-dessus de leur vi­ce.

 

Hans Jürgen Syberberg : marionnettes et irrationalisme

 

Tout autre est l'approche de Hans Jürgen Syberberg. La situation existentielle de l'Allemagne ne peut se symboliser par un récit, fût-il allégorique. Les reliquats épars de l'histoire allemande doivent être montrés comme les numéros d'un cirque : le film sur Hitler, qui rendit Syberberg si célèbre, est présenté par un « directeur de cirque » au visage maquillé de blanc vif. Le cinéaste a voulu par là provoquer une révolution dans l'art cinématographique. Et cette mutation doit se déclencher, pense Syberberg, par l'action de trois nouveautés qui bouleversent les ha­bitudes de l'art cinématographique. D'abord, une provocation délibérée : Hitler n'est pas le sujet d'une œuvre documentaire et éducative mais d'un film poétique et imaginaire ; ensuite, par la trame du film qui n'est pas une story mais une succession de ta­bleaux statiques (la juxtaposition de « numéros de cirque »), accompagnés de longs monologues de ré­flexions, selon les traditions inaugurées par Margue­rite Duras et Alain Robbe-Grillet. Enfin, une affir­mation philosophique qui postule que l'irrationalisme est le noyau profond de la plus authentique identité allemande, affirmation radicalement opposée à toute la philosophie officielle « rationaliste » (par anti­fascisme) de la RFA.

 

Syberberg, boycotté par les critiques allemands que son audace effrayait, voulait révolutionner les con­ventions du cinéma en exorcisant l'héritage de Hol­lywood. L'hollywoodisme « paraphrase » superficiellement le réel, pense Syberberg, et provoque ainsi une stagnation de l'art cinématographique. La tradition qu'il entend ressusciter est celle de Méliès et des cinémas muets russe et allemand, chez lesquels on découvre une tradition magique et non mimétique, qui crée un « espace réel de fiction », où, pour la durée du film, les lois de la logique sont mises entre parenthèses et où fantaisie, artifice et magie peuvent se mettre sans freins à nous fasciner. Faire présenter les « tableaux » par un maître de cérémonie en frac à basques, coiffé d'un haut-de-forme, permet une distanciation par rapport à la matière traitée. Le spectateur est ainsi toujours conscient de sa position de spectateur, comme dans le théâtre préconisé par Brecht. Les racines du cinéma doivent être recherchées dans le théâtre. L'accompagnement musical doit être présent, ce qui donne à l'art de Syberberg une connotation franchement wagnérienne. La combinaison des esthétiques de Wagner et de Brecht permet de saisir des éléments d'histoire par association de leitmotive répétés et non sur le mode « édificateur » et moralisant des conformistes. Les associations permettent à chaque spectateur de se façonner son propre jugement et d'extrapoler de manière créative, au-delà des slogans officiels préfabriqués.

 

Dénoncer un monde rigidifié

 

Les tableaux statiques, signaux de la post-histoire dans laquelle nous nous sommes enfoncés, cristalli­sent, gèlent et figent le réel pour symboliser un monde rigidifié, où l'histoire s'est arrêtée, où l'ave­nir est bouché (Syberberg est ici d'accord avec Fassbinder) et où les éléments morts et disloqués du passé sont (re)présentés par le maître de cérémonie. Rigidité et momification sont également exprimées par le masque pétrifié et sans vie des marionnettes qui jouent dans Hitter, ein Film aus Deutschland.

 

L'ostracisme pratiqué à l'encontre de Syberberg vient de sa défense de l'irrationalisme, fondement de l'identité allemande et matrice de toutes ses produc­tions artistiques, musicales et littéraires. Sans irra­tionalisme, pas de Mozart, de Runge, de Caspar David Friedrich, de Schiller ou de Nietzsche. Le rationalisme de notre après-guerre, conçu pour servir de rempart contre cet irrationalisme qui a donné aussi Hitler, ne conduit qu'au culte du veau d'or et au néant culturel.

 

Malgré des approches différentes, venues tantôt de la gauche, tantôt de la droite, les cinéastes allemands prononcent tous un plaidoyer pour un retour à l'his­toire et pour une transgression des tabous modernes et un réquisitoire impavide contre la RFA. Un souf­fle à la fois identitaire et révolutionnaire qui ne cadre pas du tout avec les discours sur la révolution que l'on entend dans les salons de l'Ouest...

 

Guy CLAES.

 

Anton KAES, Deutschlandbilder : Die Wiederkehr der Geschichte als Film, edition text + kritik, Mün­chen, 1987, 264 S., DM 36.

 

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Spengler: Criticism & Tribute

Spengler: Criticism & Tribute

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Editor’s Note:

Oswald Spengler’s Man and Technics and Revilo Oliver’s America’s Decline: The Education of a Conservative and The Origins of Christianity are available for purchase on this website.

RPO_63smism.jpgConceived before the First World War is Oswald Spengler’s magisterial work, Der Untergang des Abendlandes (Munich, 1918). Read in this country chiefly in the brilliantly faithful translation by Charles Francis Atkinson, The Decline of the West (New York, two volumes, 1926-28), Spengler’s morphology of history was the great intellectual achievement of our century. Whatever our opinion of his methods or conclusions, we cannot deny that he was the Copernicus of historionomy. All subsequent writings on the philosophy of history may fairly be described as criticism of the Decline of the West.

Spengler, having formulated a universal history, undertook an analysis of the forces operating in the immediately contemporary world. This he set forth in a masterly work, Die Jahre der Entscheidung, of which only the first volume could be published in Germany (Munich, 1933) and translated into English (The Hour of Decision, New York, 1934). One had only to read this brilliant work, with its lucid analysis of forces that even acute observers did not perceive until 25 or 30 years later, and with its prevision that subsequent events have now shown to have been absolutely correct, to recognize that its author was one of the great political and philosophical minds of the West. One should remember, however, that the amazing accuracy of his analysis of the contemporary situation does not necessarily prove the validity of his historical morphology.

The publication of Spengler’s first volume in 1918 released a spate of controversy that continues to the present day. Manfred Schroeter in Der Streit um Spengler (Munich, 1922) was able to give a précis of the critiques that had appeared in a little more than three years; today, a mere bibliography, if reasonably complete, would take years to compile and would probably run to eight hundred or a thousand printed pages.

Spengler naturally stirred up swarms of nit-wits, who were particularly incensed by his immoral and preposterous suggestion that there could be another war in Europe, when everybody knew that there just couldn’t be anything but World Peace after 1918, ’cause Santa had just brought a nice, new, shiny “League of Nations.” Such “liberal” chatterboxes are always making a noise, but no one with the slightest knowledge of human history pays any attention to them, except as symptoms.

Unfortunately, much more intelligent criticism of Spengler was motivated by emotional dissatisfaction with his conclusions. In an article in Antiquity for 1927, the learned R. G. Collingwood of Oxford went so far as to claim that Spengler’s two volumes had not given him “a single genuinely new idea,” and that he had “long ago carried out for himself” — and, of course, rejected — even Spengler’s detailed analyses of individual cultures. As a cursory glance at Spengler’s work will suffice to show, that assertion is less plausible than a claim to know everything contained in the Twelfth Edition of the Encyclopaedia Britannica. Collingwood, the author of the Speculum Mentis and other philosophical works, must have been bedeviled with emotional resentments so strong that he could not see how conceited, arrogant, and improbable his vaunt would seem to most readers.

It is now a truism that Spengler’s “pessimism” and “fatalism” was an unbearable shock to minds nurtured in the nineteenth-century illusion that everything would get better and better forever and ever. Spengler’s cyclic interpretation of history stated that a civilization was an organism having a definite and fixed life-span and moving from infancy to senescence and death by an internal necessity comparable to the biological necessity that decrees the development of the human organism from infantile imbecility to senile decrepitude. Napoleon, for example, was the counterpart of Alexander in the ancient world.

We were now, therefore, in a phase of civilizational life in which constitutional forms are supplanted by the prestige of individuals. By 2000, we shall be “contemporary” with the Rome of Sulla, the Egypt of the Eighteenth Dynasty, and China at the time when the “Contending States” were welded into an empire. That means that we face an age of world wars and what is worse, civil wars and proscriptions, and that around 2060 the West (if not destroyed by its alien enemies) will be united under the personal rule of a Caesar or Augustus. That is not a pleasant prospect.

Oswald Spengler, 1880 - 1936

The only question before us, however, is whether Spengler is correct in his analysis. Rational men will regard as irrelevant the fact that his conclusions are not charming. If a physician informs you that you have symptoms of arteriosclerosis, he may or may not be right in his diagnosis, but it is absolutely certain that you cannot rejuvenate yourself by slapping his face.

Every detached observer of our times, I think, will agree that Spengler’s “pessimism” aroused emotions that precluded rational consideration. I am inclined to believe that the moral level of his thinking was a greater obstacle. His “fatalism” was not the comforting kind that permits men to throw up their hands and eschew responsibilities. Consider, for example, the concluding lines of his Man and Technics (New York, 1932):

Already the danger is so great, for every individual, every class, every people, that to cherish any illusion whatever is deplorable. Time does not suffer itself to be halted; there is no question of prudent retreat or wise renunciation. Only dreamers believe that there is a way out. Optimism is cowardice.

We are born into this time and must bravely follow the path to the destined end. There is no other way. Our duty is to hold on to the lost position, without hope, without rescue, like that Roman soldier whose bones were found in front of a door in Pompeii, who, during the eruption of Vesuvius, died at his post because they forgot to relieve him. That is greatness. That is what it means to be a thoroughbred. The honorable end is the one thing that can not be taken from a man.

Now, whether or not the stern prognostication that lies back of that conclusion is correct, no man fit to live in the present can read those lines without feeling his heart lifted by the great ethos of a noble culture — the spiritual strength of the West that can know tragedy and be unafraid. And simultaneously, that pronouncement will affright to hysteria the epicene homunculi among us, the puling cowards who hope only to scuttle about safely in the darkness and to batten on the decay of a culture infinitely beyond their comprehension.

That contrast is in itself a very significant datum for an estimate of the present condition of our civilization …

Three Points of Criticism

Criticism of Spengler, therefore, if it is not to seem mere quibbling about details, must deal with major premises. Now, so far as I can see, Spengler’s thesis can be challenged at three really fundamental points, namely: (1) Spengler regards each civilization as a closed and isolated entity animated by a dominant idea, or Weltanschauung, that is its “soul.” Why should ideas, or concepts, the impalpable creations of the human mind, undergo an organic evolution as though they were living protoplasm, which, as a material substance, is understandably subject to chemical change and hence biological laws? This logical objection is not conclusive: Men may observe the tides, for example, and even predict them, without being able to explain what causes them. But when we must deduce historical laws from the four of five civilizations of which we have some fairly accurate knowledge, we do not have enough repetitions of a phenomenon to calculate its periodicity with assurance, if we do not know why it happens.

(2) A far graver difficulty arises from the historical fact that we have already mentioned. For five centuries, at least, the men of the West regarded modern civilization as a revival or prolongation of Graeco-Roman antiquity. Spengler, as the very basis of his hypothesis, regards the Classical world as a civilization distinct from, and alien to, our own — a civilization that, like the Egyptian, lived, died, and is now gone. It was dominated by an entirely different Weltanschauung, and consequently the educated men of Europe and America, who for five centuries believed in continuity, were merely suffering from an illusion or hallucination.

Even if we grant that, however, we are still confronted by a unique historical phenomenon. The Egyptian, Babylonian, Chinese, Hindu, and Arabian (“Magian”), civilizations are all regarded by Spengler (and other proponents of an organic structure of culture) as single and unrelated organisms: Each came into being without deriving its concepts from another civilization (or, alternatively, seeing its own concepts in the records of an earlier civilization), and each died leaving no offspring (or, alternatively, no subsequent civilization thought to see in them its own concepts). There is simply no parallel or precedent for the relationship (real or imaginary) which links Graeco-Roman culture to our own.

Since Spengler wrote, a great historical discovery has further complicated the question. We now know that the Mycenaean peoples were Greeks, and it is virtually certain that the essentials of their culture survived the disintegration caused by the Dorian invasion, and were the basis of later Greek culture. (For a good summary, see Leonard R. Palmer, Mycenaeans and Minoans, London, 1961). We therefore have a sequence that is, so far as we know, unique:

Mycenaean>Dark Ages>Graeco-Roman>Dark Ages>Modern.

If this is one civilization, it has had a creative life-span far longer than that of any other that has thus far appeared in the world. If it is more than one, the interrelations form an exception to Spengler’s general law, and suggest the possibility that a civilization, if it dies by some kind of quasi-biological process, may in some cases have a quasi-biological power of reproduction.

oswald_spengler_4.jpgThe exception becomes even more remarkable if we, unlike Spengler, regard as fundamentally important the concept of self-government, which may have been present even in Mycenaean times (see L. R. Palmer, Mycenaeans and Minoans, cited above, p. 97). Democracies and constitutional republics are found only in the Graeco-Roman world and our own; such institutions seem to have been incomprehensible to other cultures.

(3) For all practical purposes, Spengler ignores hereditary and racial differences. He even uses the word “race” to represent a qualitative difference between members of what we should call the same race, and he denies that that difference is to any significant extent caused by heredity. He regards biological races as plastic and mutable, even in their physical characteristics, under the influence of geographical factors (including the soil, which is said to affect the physical organism through food) and of what Spengler terms “a mysterious cosmic force” that has nothing to do with biology. The only real unity is cultural, that is, the fundamental ideas and beliefs shared by the peoples who form a civilization. Thus Spengler, who makes those ideas subject to quasi-biological growth and decay, oddly rejects as insignificant the findings of biological science concerning living organisms.

It is true, of course, that man is in part a spiritual being. Of that, persons who have a religious faith need no assurance. Others, unless they are determined blindly to deny the evidence before us, must admit the existence of phenomena of the kind described by Franz E. Winkler, M.D., in Man: The Bridge Between Two Worlds (New York, Harper, 1960), and, of course, by many other writers. And every historian knows that no one of the higher cultures could conceivably have come into being, if human beings are merely animals.

But it is also true that the science of genetics, founded by Father Mendel only a century ago and almost totally neglected down to the early years of the Twentieth Century, has ascertained biological laws that can be denied only by denying the reality of the physical world. Every educated person knows that the color of a man’s eyes, the shape of the lobes of his ears, and every one of his other physiological characteristics is determined by hereditary factors. It is virtually certain that intellectual capacity is likewise produced by inheritance, and there is a fair amount of evidence that indicated that even moral capacities are likewise innate.

Man’s power of intervention in the development of inherited qualities appears to be entirely negative, thus affording another melancholy proof that human ingenuity can easily destroy what it can never create. Any fool with a knife can in three minutes make the most beautiful woman forever hideous, and one of our “mental health experts,” even without using a knife, can as quickly and permanently destroy the finest intellect. And it appears that less drastic interventions, through education and other control of environment, may temporarily or even permanently pervert and deform, but are powerless to create capacities that an individual did not inherit from near or more remote ancestors.

The facts are beyond question, although the Secret Police in Soviet Russia and “liberal” spitting-squads in the United States have largely succeeded in keeping these facts from the general public in the areas they control. But no amount of terrorism can alter the laws of nature. For a readable exposition of genetics, see Garrett Hardin’s Nature and Man’s Fate (New York, Rinehart, 1959), which is subject only to the reservation that the laws of genetics, like the laws of chemistry, are verified by observation every day, whereas the doctrine of biological evolution is necessarily an hypothesis that cannot be verified by experiment.

The Race Factor

It is also beyond question that the races of mankind differ greatly in physical appearance, in susceptibility to specific diseases, and in average intellectual capacity. There are indications that they differ also in nervous organization, and possibly, in moral instincts. It would be a miracle if that were not so, for, as is well known, the three primary races were distinct and separate at the time that intelligent men first appeared on this planet, and have so remained ever since. The differences are so pronounced and stable that the proponents of biological evolution are finding it more and more necessary to postulate that the differences go back to species that preceded the appearance of the homo sapiens. (See the new and revised edition of Dr. Carleton S. Coon’s The Story of Man, New York, Knopf, 1962.)

That such differences exist is doubtless deplorable. It is certainly deplorable that all men must die, and there are persons who think it deplorable that there are differences, both anatomical and spiritual, between men and women. However, no amount of concerted lying by “liberals,” and no amount of decreeing by the Warren [Supreme Court] Gang, will in the least change the laws of nature.

Now there is a great deal that we do not know about genetics, both individual and racial, and these uncertainties permit widely differing estimates of the relative importance of biologically determined factors and cultural concepts in the development of a civilization. Our only point here is that it is highly improbable that biological factors have no influence at all on the origin and course of civilizations. And to the extent that they do have an influence, Spengler’s theory is defective and probably misleading.

Profound Insights

One could add a few minor points to the three objections stated above, but these will suffice to show that the Spenglerian historionomy cannot be accepted as a certainty. It is, however, a great philosophical formulation that poses questions of the utmost importance and deepens our perception of historical causality. No student of history needed Spengler to tell him that a decline of religious faith necessarily weakens the moral bonds that make civilized society possible. But Spengler’s showing that such a decline seems to have occurred at a definite point in the development of a number of fundamentally different civilizations with, of course, radically different religions provides us with data that we must take into account when we try to ascertain the true causes of the decline. And his further observation that the decline was eventually followed by a sweeping revival of religious belief is equally significant.

However wrong he may have been about some things, Spengler has given us profound insights into the nature of our own culture. But for him, we might have gone on believing that our great technology was merely a matter of economics — of trying to make more things more cheaply. But he has shown us, I think, that our technology has a deeper significance — that for us, the men of Western civilization, it answers a certain spiritual need inherent in us, and that we derive from its triumphs as satisfaction analogous to that which is derived from great music or great art.

And Spengler, above all, has forced us to inquire into the nature of civilization and to ask ourselves by what means — if any — we can repair and preserve the long and narrow dikes that alone protect us from the vast and turbulent ocean of eternal barbarism. For that, we must always honor him.

Journal of Historical Review, vol. 17, no. 2 (March-April 1998), 10-13.