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jeudi, 06 janvier 2011

Wandervogel

 

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mercredi, 05 janvier 2011

Prof. BerndRabehl - Die 68er Revolution

 

Prof. Bernd Rabehl - Die 68er Revolution

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mardi, 04 janvier 2011

Ex-68er Günter Maschke im Gespräch

 

 

Ex-68er Günter Maschke

im Gespräch

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Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey

Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Sarebbe difficile sopravalutare l’importanza del padre dello storicismo, Wilhelm Dilthey, nel panorama della filosofia del Novecento. Il suo influsso, diretto o indiretto, si propaga in almeno quattro direzioni principali: quella dello storicismo tedesco, i cui massimi esponenti sono stati Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke; quella della sociologia, rappresentata da Max Weber e Karl Mannheim; quella della fenomenologia, con Edmund Husserl e Max Scheler; e infine quella dell’esistenzialismo, con Martin Heidegger e Karl Jaspers.

Nato a Biebrich, in Renania, nel 1833, e morto a Siusi, presso Bolzano, nel 1911, fu docente a Basilea, Kiel e Breslavia, prima di occupare, per quasi un trentennio (dal 1882 alla morte) la cattedra all’Università di Berlino che era già stata, prima di lui, di Rudolph Hermann Lotze e, prima ancora, di G. F. W. Hegel. Nella sua lunga e operosa attività di ricerca e di insegnamento (formò pensatori come Georg Misch e Bernard Groethuysen) fu uno dei massimi rappresentanti di quel prodigioso rigoglio intellettuale che caratterizzò il mondo di lingua tedesca negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento; quel periodo che, più tardi, gli storici hanno chiamato della belle époque, ma di cui gli Europei del tempo, come osserva giustamente Philippe Daverio, non avevano consapevolezza, perché “bella” sarebbe apparsa poi, nella nostalgia del ricordo: dopo i massacri insensati della prima guerra mondiale.

Le sue opere maggiori sono: Introduzione alle scienze dello spirito (1883); Idee di una psicologia descrittiva e analitica (1894); Storia della giovinezza di Hegel (1905); L’esperienza sensibile e la poesia (1905); L’essenza della filosofia (1907); La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910); L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII, una raccolta di studi pubblicati fra il 1891 e il 1904.

Con Wilhelm Dilthey, la filosofia si stacca decisamente sia dalla categorizzazione astratta di stampo idealista, sia dall’ingenuo e ottimistico razionalismo positivista, per tornare verso la vita, verso i suoi fatti concreti e immediati, verso la centralità dell’esperienza. La parola chiave della filosofia di Dilthey, infatti, è proprio l’Erlebnis, che si può tradurre con “esperienza”, “vissuto” o “esperienza vissuta”. L’Erlebnis è un’esperienza interiore, che consente all’individuo di conoscere gli oggetti e gli eventi storici, secondo una esplicita finalità. Non si tratta, comunque, di un atto conoscitivo isolato e, per così dire, frammentario; bensì di una componente della vita psichica individuale che rimanda alla totalità, collegandosi organicamente con tutti gli altri atti e gli altri vissuti, in un rapporto di tipo dinamico.

Non intendiamo esporre qui le linee dettagliate del pensiero diltheyano, cosa che richiederebbe uno spazio molto più ampio; ci limiteremo a una sintesi estremamente rapida, per poi focalizzare la nostra attenzione sull’ultima fase di esso, quella esposta nel libro L’essenza della filosofia, in cui si insiste sulla coscienza della propria storicità che la filosofia matura nel corso degli ultimi secoli della storia occidentale, particolarmente dal Rinascimento e dalla Riforma in poi.

Il pensiero di Dilthey prende le mosse da una critica al movimento neocriticista, che tende a concepire l’uomo come un essere pensante, isolato e avulso da ogni contesto. Già in Kant, massimo esponente dell’illuminismo, tali aspetti erano presenti e sottesi a tutta la sua concezione antropologica. Ma, per Dilthey, l’uomo non è affatto isolato, è anzi l’essere storico per eccellenza; e la sua interiorità non si risolve nella sola dimensione razionale, poiché volontà e sentimento sono le sue caratteristiche concrete più importanti; mentre la ragione è la facoltà che, essendo universale, accomuna gli uomini in una generalità astratta.

In questo senso, la battaglia di Dilthey a favore di una fondazione rigorosa delle «scienze dello spirito» è, in fondo, una battaglia neoromantica per valorizzare quanto, nell’essere umano, è individuale e irripetibile, oltre che una battaglia anti-positivistica per affermare, di contro alle tanto esaltate «scienze della natura», la superiorità del fatto umano, colto nella sua concretezza esperienziale; e qui una analogia può essere fatta in direzione dell’illustre precedente di Giambattista Vico, ma anche con il Bruno degli heroici furori (e al Bruno, infatti, sono dedicate alcune delle pagine più belle del già citato L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII).

Il compito della filosofia, per Dilthey, non è quello di costruire metafisiche, ma di comprendere i vari momenti storici attraverso i quali l’uomo è giunto a realizzarsi; e, al tempo stesso, di cogliere i sottili ma numerosi e vitali legami che collegano il singolo individuo con la sua società e il suo tempo. In questo senso, la sua filosofia può essere anche definita come una sorta di relativismo storico, perché intende storicizzare ogni prodotto del pensiero e ogni attività pratica, mostrando il legame necessario che esiste fra l’uomo e il suo tempo, fra la parte e il tutto; e quanto le concrete condizioni storiche abbiano influenzato le manifestazioni individuali del pensiero.

Ecco come Dilthey, nello scritto Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, compreso nella Critica della ragione storica (traduzione italiana Einaudi, Torino, 1982, pp. 383-384), chiarisce con esemplare limpidezza questo concetto:

La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni situazione umana e sociale, la coscienza della relatività di ogni forma di fede è l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di attribuire a ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a esso completamente, con franchezza, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso. La vita si libera dalla conoscenza concettuale, e lo spirito diventa sovrano dinanzi alle ragnatele del pensiero dogmatico. Ogni bellezza, ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpretati, schiudono delle prospettive che rivelano una realtà. E così pure attribuiamo a tutto ciò che c’è di malvagio, di temibile e di brutto in noi, un posto nel mondo, una realtà sua propria, che deve essere giustificata nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può illudere. E di fronte alla relatività si fa valere la continuità della forza creatrice come l’elemento storico essenziale.

Così dall’Erleben, dall’intendere, dalla poesia e dalla storia deriva un’intuizione della vita, la quale esiste sempre in e con questa. La riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza concettuale. La considerazione teleologica del mondo e della vita viene riconosciuta come una metafisica che poggia su una visione unilaterale, non arbitraria cioè ma parziale della vita, e la dottrina di un valore oggettivo della vita come una metafisica che va oltre ogni possibile esperienza. Ma noi abbiamo esperienza di una connessione della vita e della storia, in cui ogni parte ha un significato. Come le lettere di una parola, la vita e la storia hanno un senso, e come una particella o una coniugazione, nella vita e nella storia vi sono momenti sintattici che hanno un significato. Ogni uomo procede alla sua ricerca. Nel passato si è cercato di penetrare la vita in base al mondo; ma c’è solo la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo, e la vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che il senso e il significato sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico. Poiché l’uomo è un essere storico…

In altri termini, se nelle scienze naturali il rigore del metodo consiste nella rigida separazione di soggetto e oggetto, il mondo della storia vive nella ripresa operata dal soggetto storico, operazione che è resa possibile – come bene aveva visto il Vico – nella essenziale unità di soggetto e oggetto, in quella unità della vita che scaturisce dall’Erlebnis, l’esperienza del mondo vissuta direttamente dall’individuo, in tutta la complessità e la ricchezza di quella data situazione storica. In questo senso, anti-intelletualismo, storicismo e vitalismo sono i poli di una filosofia della vita vissuta, che si sforza di comprendere in sé, valorizzandoli al massimo, ogni atto, ogni pensiero, ogni esperienza come fili di una vastissima tela che abbraccia l’intero mondo della realtà storica.

Riassumendo, pertanto, possiamo dire che la filosofia di Dilthey poggia sui seguenti aspetti fondamentali:

1) la valorizzazione dell’individuo, contro ogni generalizzazione di tipo idealistico (facendo sue, ma con diversi presupposti e diverse prospettive, le “rivolte” antihegeliane di Schopnehauer, Kierkegaard e Nietzsche);

2) la centralità della nozione di “esperienza”, contro ogni astrattezza metafisica; riabilitando la dimensione a-razionale dell’uomo e le sue connessioni con le diverse forme del conoscere e del sapere;

3) la volontà di tradurre il mondo “soggettivo” della storia nei termini, scientifici e “oggettivi”, di un vero e proprio sistema di scienze dello spirito;

4) la centralità delle categoria del comprendere (diversa da quella dello spiegare), come elemento indispensabile per la conoscenza dell’oggetto storico da parte del soggetto.

Circa quest’ultimo punto, ci sembra opportuno riportare quanto scrive Sergio Moravia in Educazione e pensiero (Le Monnier, Firenze, 1983, vol. 3, p. 275):

Vertice ed emblema stesso della gnoseologia diltheyana è il principio del «comprendere» (Verstehen), un concetto destinato ad alimentare importanti dibattiti epistemologici anche in anni a noi vicini. In linea generale, il comprendere consiste nell’assunzione di un certo atteggiamento nei confronti della vita, e ciò mediante “sue” categorie «che sono estranee alla conoscenza naturale come tale». Solo grazie al comprendere il soggetto si innalza e distanzia dalla troppo immediata dimensione esistenziale dell’Erleben. Per quanto produca anch’esso un determinato tipo di conoscenza, il comprendere non ha nulla a che fare con lo spiegare: mentre questo tende all’analisi dei fenomeni oggettivi in quanto tali e all’enucleazione delle leggi generali che li governano, quello si sofferma e si applica sull’individuo, sul soggettivo e su tutto ciò che eccede dai quadri oggettivo-nomologici dello spiegare.

La categoria dello spiegare (in tedesco: Erklären), infatti, è la modalità conoscitiva tipica delle scienze della natura, la quale non modifica l’essenza dell’oggetto conosciuto, non genera valori né realizza scopi di sorta. Al contrario, il comprendere (Verstehen) è la modalità conoscitiva tipica dello spirito, nella quale l’atto del conoscere non è diverso da ciò che viene conosciuto, e, inoltre, l’oggetto viene modificato dal comprendere stesso, che si serve delle categorie del fine e del valore e ne crea il significato per l’individuo storico (cfr. Francesco Donadio, voce Dilthey nella Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1996, pp. 219-220).

Per Dilthey, il mondo non può essere veramente compreso nel modo indicato da Hegel, né alla luce dell’immagine iper-razionalistica dell’uomo postulata da Kant. Le tre componenti dell’uomo diltheyano, che è una essere integralmente storico, sono la ragione, il senso e l’intuito.

D’altra parte, specialmente nell’ultima fase del suo percorso speculativo, Dilthey si rese conto che, se il linguaggio e i concetti portano con sé i caratteri della storicità, allora essi non possono essere universali e non possono dare accesso a una verità definitiva. Sentimenti, valori, scienza e verità non sarebbero, dunque, che prodotti dell’evoluzione storica della società, destinati a mutare continuamente nel tempo?

Il filosofo tedesco si rese conto, specie nelle sue ultime opere, che lo spettro del relativismo veniva, così, ad incombere minaccioso sulla intera costruzione del suo pensiero; relativismo che, in seguito, sarebbe stato portato molto più innanzi da Heidegger e, soprattutto, da Feyerabend (cfr. il nostro recentissimo saggio: L’«anarchismo metodologico » di Feyerabend per spezzare la funesta alleanza tra stato e scienza, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Dilthey, comunque, si era reso conto del pericolo e aveva tentato di superare la minaccia del relativismo, che incombeva sulla sua filosofia, proponendo da un lato una “accettazione integrale della vita”, con tutta la sua relatività ineliminabile; dall’altro riconoscendo all’uomo la sola capacità di costituire sensi di natura storica, adeguati alle sue necessità e non eccedenti la misura della sua finitudine.

Questa problematica è specificamente trattata dal filosofo tedesco nel suo libro L’essenza della filosofia (titolo originale: Das Wesen der Philosophie, 1907; traduzione di Giancarlo Penati, Editrice La Scuola, Brescia, 1971, pp. 149-154), nel cui capitolo conclusivo si esprime in questi termini:

La filosofia si manifestò come un’implicanza di funzioni molto diverse che vengono connesse tramite la prospettiva unitaria con un vincolo normativo nell’essenza della filosofia. Una funzione si riferisce sempre a un complesso totale teleologico e descrive un ambito di utilizzazioni attinenti ad esso, che vengono portate a compimento all’interno di questa totalità. Il concetto non è assunto analogicamente dalla vita organica, né indica una facoltà od un potere originario: le funzioni della filosofia si riportano alla struttura teleologica del soggetto filosofante e a quella della società: nell’esplicarle la persona agisce su di sé e insieme al di fuori e in ciò esse sono affini a quelle della religione e della poesia. Così la filosofia è un’attività che sgorga dal bisogno del singolo spirito di riflettere sul suo agire, di dar forma e saldezza al suo operare, di consolidare il suo rapporto con il tutto della società umana, e contemporaneamente essa è una funzione fondata sulla struttura della società e perseguibile per la perfezione della vita stessa: pertanto una funzione che ha luogo similmente in molti uomini e li lega in un tutto sociale e storico. In quest’ultimo senso è un sistema di cultura, poiché le note distintive di questo sono l’eguaglianza della funzione in ogni individuo che appartiene al sistema di cultura e la comunicazione reciproca degli individui in cui ha luogo questa funzione. Questa comunanza prende forme ben definite, che costituiscono le organizzazioni del sistema di cultura. Al di sotto di tutte le connessioni teleologiche arte e filosofia legano gli individui fra loro in modo minimo, poiché la funzione esplicata dall’artista e dal filosofo non é condizionata da alcuna speciale articolazione di vita: la loro religione è quella della massima libertà spirituale. Ed anche quando l’appartenenza del filosofo alle organizzazioni universitarie ed accademiche incrementa la sua funzione sociale, il suo elemento vitale è e rimane la libertà del pensiero, che non deve in alcun modo essere intralciata e dalla quale dipendono non soltanto il suo carattere filosofico, ma anche la fiducia nella sua incondizionata sincerità e con ciò la sua efficacia.

La proprietà più generale che si estende a tutte le funzioni della filosofia è fondata sulla natura della conoscenza oggettiva e del pensiero concettuale. Così considerata la filosofia si presenta semplicemente come il pensiero più conseguente, più solido e comprensivo, e non è distinta dalla coscienza empirica da alcun limite fisso. Deriva dalla forma del pensiero concettuale che il giudicare si avanzi alle più alte generalizzazioni, alla formazione e divisione dei concetti e sino da una loro architettonica che ha per vetta più alta la relazione a un complesso totale onnicomprensivo e la fondazione in un principio ultimo. In questa sua opera il pensiero si riferisce all’oggetto comune di tutti gli atti di pensiero delle varie individualità, all’insieme totale dell’esperienza sensibile, in cui la molteplicità delle cose si ordina spazialmente e la varietà delle loro mutazioni e dislocazioni si dispone temporalmente. A questo mondo sono ordinati tutti i sentimenti e le azioni volontarie tramite la determinazione locale della materia corporea loro attinente e le parti rappresentative in essi implicate. A tal mondo sono organicamente connessi tutti i valori, fini, beni posti in questi sentimenti o azioni volontarie; la vita umana è coinvolta in esso. Ed in quanto aspira ad esprimere e a collegare l’intero contenuto di intuizioni, eventi vissuti, valori, fini come è vissuto e dato nella coscienza empirica all’esperienza e alle scienze empiriche, esso avanza dalla concatenazione delle cose e dai mutamenti nel mondo sino al concetto del mondo, e lo va fondando retrospettivamente in un principio del mondo, in una sua causa prima, cerca di determinare valore, senso e significato del mondo e si interroga circa un suo fine. Ovunque questo processo di universalizzazione, di ordinamento rispetto al tutto, di autofondazione, portato innanzi dal moto del sapere, sganciato dal bisogno particolare, dall’interesse limitato, si tramuta in filosofia. E dovunque il soggetto, riferendosi nel suo operare al mondo, si elevi nello stesso senso alla riflessione sopra questo suo operare, questa riflessione è filosofica. La proprietà fondamentale in tutte le funzioni della filosofia è pertanto il moto dello spirito oltrepassante il vincolo con l’interesse determinato, finito, limitato e aspirante a indirizzare ogni teoria sorta da un bisogno limitato ad un’idea definitiva. Questo moto di pensiero è fondato in un suo proprio insieme di regole, risponde a bisogni propri della natura umana, che a mala pena permettono un’analisi sicura, cioè alla gioia del sapere, al bisogno di una fissazione ultima del posto dell’uomo nel mondo, all’aspirazione di superare il vincolo della vita alle condizioni che la limita. Ogni atteggiamento psichico è in cerca di un punto fermo, al riparo dalla relatività.

Questa funzione generale della filosofia si estrinseca sotto le varie condizioni della vita storica in tutte quelle sue utilizzazioni che abbiamo passato in rassegna. Particolari funzioni di notevole importanza prendono rilievo dalle varie condizioni della vita: la formazione della Weltanschauung in modo universalmente valido, l’autoriflessione del sapere su di sé, la connessione delle teorie che si formano nei vari complessi finalisticamente ordinati, sino al complesso di tutto il sapere, uno spirito critico che pervade tutta la cultura, e conduce al collegamento universale ed alla sua fondazione. Queste si manifestano come funzioni particolari fondate nell’essenza unitaria della filosofia; essa si attaglia infatti ad ogni posizione nello sviluppo della cultura e a tutte le condizioni delle sue tappe storiche. In tal modo si spiega la costante differenziazione delle utilizzazioni filosofiche, la flessibilità e mobilità con cui subito essa si esplica nella gamma dei sistemi, subito fa valere la sua intera forza su di un particolare problema e applica l’efficacia del suo lavoro a sempre nuovi compiti.

Giungiamo così al limite in cui dalla rappresentazione dell’essenza della filosofia viene retrospettivamente chiarita la sua storia e anticipata la spiegazione della sua complessità sistematica. La sua storia verrebbe compresa, se fosse formulabile dall’insieme delle sue funzioni l’ordine in cui, secondo le condizioni della cultura, si presentano i problemi uno accanto all’altro e uno dopo l’altro, e vengono considerate le possibilità della loro soluzione; se si tratteggiasse la riflessione progressiva del sapere su di sé nelle sue tappe principali; se la storia seguisse il modo in cui le teorie nate nelle connessioni finalistiche della cultura vengono riferite al complesso totale del conoscere tramite lo spirito filosofico che le unisce, e così pure ampliate, il modo in cui la filosofia foggia nuove discipline nel campo delle scienze dello spirito e le assegna all’opera delle scienze particolari. E se essa mostrasse in qual modo dalle posizioni coscienziali di un’epoca e dal carattere delle nazioni si possa scorgere il particolare schema strutturale che assumono le Weltanschauungen filosofiche, ed insieme pure il costante progresso dei grandi tipi di esse.

La storia della filosofia lascia al lavoro filosofico sistematico la soluzione dei tre problemi della fondazione, giustificazione e sistemazione unitaria delle scienze particolari ed il compito di soddisfare al bisogno, non riducibile al silenzio, di un’ultima riflessione circa essere, fondamento, valore, fine e circa il loro collegarsi nella Weltanschauung, come pure di determinare in quale forma e direzione questo soddisfacimento possa aver luogo.

Così Dilthey, ne L’essenza della filosofia, ha affrontato il problema delle condizioni e della realtà della filosofia; che, nella nostra epoca – e a differenza delle epoche precedenti – è stata decisamente modificata dalla coscienza della propria storicità e, quindi, dalla relatività delle sue costruzioni spirituali.

In quest’opera Dilthey punta a superare il relativismo storicistico insito nelle premesse del suo stesso pensiero, mediante la teorizzazione di una «filosofia della filosofia» che renda ragione del formarsi delle diverse Weltanschauungen o visioni del mondo. Quella rinascimentale, ad esempio, è diversa da quella medioevale, come pure da quella dell’illuminismo; e tali diversità sono in relazione con il costante mutamento e con la trasformazione delle condizioni storiche e sociali, proprie a ciascuna epoca.

Possiamo tuttavia domandarci se il relativismo diltheyano sia stato davvero superato in questa tensione speculativa degli ultimi anni di attività del filosofo; e rimaniamo con il dubbio che proprio la consapevolezza che ciò non sia compiutamente avvenuto ha costituito il fertile stimolo per tutti i pensatori che, prendendo le mosse dalla filosofia di Dilthey, ne hanno sviluppato le premesse nelle diverse direzioni, di cui parlavamo all’inizio del presente lavoro.

Il filosofo italiano Luigi Stefanini, uno dei massimi esponenti del personalismo, acutamente mette a fuoco la contraddizione intrinseca del suo assunto di partenza: quella di voler evitare la metafisica, pur dichiarando la vita come sufficiente a spiegare se stessa, che è già un modo di fare della metafisica; se la metafisica è, come voleva Aristotele, la filosofia prima che ha in sé la giustificazione di se stessa. Dire che la vita come totalità è unità, significa aver già creato una metafisica della vita. Ma Dilthey, dichiaratamente, non vuol fare della metafisica; pertanto egli è costretto a riconoscere che l’infinito della storia, rivelatrice della vita, è un falso infinito; meglio, un incompiuto, che non potrà mai rendere ragione né di se stesso, né della vita.

D’altra parte, Dilthey vuole restare fedele al suo assunto iniziale, di non voler spiegare la storia e la vita con qualche cosa di esterno all’una e all’altra; e ciò lo costringe ad assumere questo falso-infinito come l’assoluto.

Strana contraddizione, e tuttavia inevitabile per un pensiero che voglia evitare di scivolare nelle aporie inestricabili del relativismo. Stefanini ne parla in una pagina notevole del suo libro Il dramma filosofico della Germania, Cedam, Padova, 1948, p.p. 194-195:

Mettere l’assoluto nel finito della vita e della storia vuol dire corrompere il finito e renderlo inintelligibile. Invece, recidere il nodo che stringe due coimpossibili, vuol dire salvare la stria e la vita e renderle intelligibili. (…) La connessione strutturale che ci salda a noi stessi nel processo delle nostre esperienze storiche, non esaurisce tutto l’essere e tutta la realtà: non esaurisce nemmeno l’essere che noi siamo. La vita non può mantenersi unitaria e coerente senza includere in sé il riconoscimento ch’essa non è il Tutto. È questo riconoscimento l’atto di sincerità iniziale, di vero valore metafisico anche se espresso dalla coscienza ingenua d’un fanciullo o d’un indotto, che salva (…) la coesione vitale dell’io con se stesso, dando all’identità che noi siamo e che noi faticosamente ricostruiamo il valore di simbolo, positivo, reale, ma inadeguato, della totalità nella quale siamo contenuti, anzi dell’assoluta unità vitale, infinitamente trascendente, che contiene tutta se stessa e la totalità dell’essere creato.

In fondo, si torna sempre al problema dibattuto dai filosofi del Settecento e del primo Ottocento, se l’essere umano sia interamente storico, o se vi sia una parte di esso che non si lascia circoscrivere entro le categorie della storia, ma rinvia a una essenza più profonda, imperitura, di origine extra-temporale. È il problema dibattuto, fra l’atro, dagli ideologues parigini che, dopo la scoperta di un ragazzo selvaggio nelle campagne francesi, si interessarono al caso, proprio per le sue evidenti implicazioni di carattere non solo pedagogico (sarebbe stato possibile rieducarlo?), ma anche filosofico (esistono nella mente delle idee innate, o soltanto acquisite?). Ce ne siamo occupati, di recente, nel saggio Il conflitto tra « natura » e « cultura» nel caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice.

Non vi sono dubbi sulla posizione che avrebbe preso Dilthey, se fosse vissuto all’epoca dei memoriali del medico Itard, ai primi del 1800. L’uomo, per lui, non è che il prodotto della storia.

Ma siamo poi certi che avesse ragione?

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lundi, 03 janvier 2011

Gottfried Benn und sein Denken

Gottfried Benn und sein Denken

Bewährungsprobe des Nationalismus

Arno Bogenhausen

Ex: http://www.hier-und-jetzt-magazine.de/

benn.jpgEine neuerschienene Biographie des Dichterphilosophen gibt uns Anlaß, über das Verhältnis von nationalem Bekenntnis und geistigem Solitär nachzudenken. Gunnar Decker, der mit seiner Arbeit weit mehr bietet als Raddatz („Gottfried Benn, Leben – niederer Wahn“) und auch gegenüber Helmut Lethens gelungenem Werk („Der Sound der Väter“) einen Zugewinn erbringt, ist als Angehöriger des Jahrgangs 1965 eindeutiger Nachachtundsechziger, damit weniger befangen und im Blick getrübt als die Vorgänger. Bei ihm finden sich Unkorrektheiten wie die beiläufige Bemerkung: „Es gehört zur Natur der Politik, daß sie jeden, egal wie gearteten, Gedanken konstant unter Niveau verwirklicht.“ Dennoch sind auch für ihn Benns Berührungen mit dem Nationalsozialismus und die folgende „aristokratische Form der Emigration“ im Offizierskorps der Deutschen Wehrmacht ein Grund zu längerer Reflexion; allein drei der sechs Kapitel sind den Jahren des Dritten Reiches gewidmet.

Benns Hinwendung zum NS, die 1933 in Rundfunkreden, Aufsätzen und dem Amt des Vizepräsidenten der „Union nationaler Schriftsteller“ zum Ausdruck kam, ist unbestritten. Sie war nicht äußerer Anpassung geschuldet, sondern beruhte auf der Überzeugung, an einer historisch folgerichtigen Wende zu stehen. Der Verächter des Fortschrittsgedankens und jeder programmatischen Erniedrigung des Menschen hoffte, „daß ein letztes Mal im Nachklang ferner dorischer Welten Staat und Kunst zu einer großen, einander begeisternden Form fänden“ (Eberhard Straub). Am 23. 9. 1933 schrieb er einer Freundin in die Vereinigten Staaten, „daß ich und die Mehrzahl aller Deutschen … vor allem vollkommen sicher sind, daß es für Deutschland keine andere Möglichkeit gab. Das alles ist ja auch nur ein Anfang, die übrigen Länder werden folgen, es beginnt eine neue Welt; die Welt, in der Sie und ich jung waren und groß wurden, hat ausgespielt und ist zu Ende.“
Diese Haltung wird ihm bis heute zum Vorwurf gemacht. Es beginnt 1953 mit Peter de Mendelssohns Buch „Der Geist der Despotie“, in dem zugleich Hamsun und Jünger in Moralin getaucht werden. Sehr schön liest sich bei Decker, warum die Vorwürfe ihr Thema verfehlen: „Auf immerhin fast fünfzig Seiten wird Benns Versagen behandelt, das letztlich in seinem Unwillen gegen ein moralisches Schuldeingeständnis gründet. Das überzeugt den Leser nur halb, denn de Mendelssohn argumentiert fast ausschließlich moralisch – und da fühlt Benn sich immer am wenigsten gemeint. In diesem Buch klingt einem ein Ton entgegen, wie später bei den 68ern mit ihrer ebenso ekstatischen wie pauschalen Anklage der Vätergeneration. Oder auch – auf anderer Ebene – wie bei manchem DDR-Bürgerrechtler, dem die DDR abhanden gekommen ist und der darum aus seinem Bürgerrechtssinn eine Ikone macht, die er pflegt.“
Benn hat seinen zahllosen Interpreten, die nach Erklärungen suchten, ihre Arbeit kaum erleichtert. Tatsächlich sind weder gewundene Rechtfertigungsversuche noch tiefenpsychologische Studien, wie sie Theweleit betrieb, vonnöten, um das angeblich „Unverständliche“ zu deuten. Der Denker selbst hat 1950 in öffentlicher Ansprache eine ganz schlichte, in ihrer Einfachheit allen Theorienebel beiseite fegende Aussage getroffen: „Es war eine legale Regierung am Ruder; ihrer Aufforderung zur Mitarbeit sich entgegenzustellen, lag zunächst keine Veranlassung vor.“

Das eigentliche Problem liegt somit nicht in Benns Entscheidung, mit der er – auch unter Intellektuellen – nun wirklich nicht alleine stand, sondern in der Unfähigkeit der Verantwortlichen, mit ihr umzugehen. Klaus Mann stellte als inzwischen ausländischer Beobachter nicht ohne Befriedigung fest: „seine Angebote stießen auf taube bzw. halbtaube Ohren … Benn hört vor allem deshalb auf, Ende 1934, Faschist zu sein oder zu werden, weil es keine passende Funktion für ihn gibt im nationalsozialistischen Züchtungsstaat.“
Vom NS-Ärztebund, der diskriminierende Anordnungen erließ, über fanatische Zeitungsschreiber, die ihm ungenügende völkische Gesinnung attestierten, bis zu Funktionären, denen der Expressionismus insgesamt undeutsch vorkam, schlug ihm Ablehnung entgegen. Seine virile Unbefangenheit in sexuellen Angelegenheiten wurde ihm 1936 von einem Anonymus im „Schwarzen Korps“ verübelt: „er macht auch in Erotik, und wie er das macht, das befähigt ihn glatt zum Nachfolger jener, die man wegen ihrer widernatürlichen Schweinereien aus dem Hause jagte.“ Benn sah sich danach zu der ehrenwörtlichen Erklärung gezwungen, nicht homophil zu sein. Die Parteiamtliche Prüfungskommission zum Schutze des nationalsozialistischen Schrifttums hielt der Deutschen Verlags-Anstalt vor, „völlig überholte Arbeiten“ zu publizieren und übermittelte der Geheimen Staatspolizei, Gedichte Benns zeugten von „pathologischer Selbstbefleckung“, weshalb zu bedenken sei, „ob der Verleger nicht zur Rechenschaft gezogen werden soll“. Ein mit der „Säuberung“ der Kunst befaßter Maler-Autor warf ihm „Perversitäten“ vor, die an „Bordellgraphik und Obszönitätenmalerei“ erinnerten; es sei angebracht, seine Aufnahme in das Offizierskorps „rückgängig zu machen“. Boshafte Unterstellungen gipfelten darin, seinen Familiennamen auf das semitische „ben“ zurückzuführen und ihm eine jüdische Herkunft anzudichten. Lediglich seinem Fürsprecher Hanns Johst, der bei Himmler intervenierte, verdankte Benn, nicht mit weiterreichenden Maßnahmen überzogen zu werden.

Worum es hier geht, ist nicht die Beweinung eines „dunklen Kapitels deutscher Geschichte“. Benn selbst schrieb 1930 an Gertrud Hindemith: „Vergessen Sie nie, der menschliche Geist ist als Totschläger entstanden und als ein ungeheures Instrument der Rache, nicht als Phlegma der Demokraten, er galt dem Kampf gegen die Krokodile der Frühmeere und die Schuppentiere in den Höhlen – nicht als Puderquaste“. Die Agonalität des Lebens war ihm vertraut, und angesichts der Praxis heutiger Bürokratien, die mißliebige Geister einer durchaus größeren Drangsal überantworten, als sie ihm widerfuhr, soll auch nicht leichthin der Stab über eine „offene Diktatur“ gebrochen werden. Daß aber die einmalige Gelegenheit vertan wurde, eine Persönlichkeit dieses Grades für den neuen Staat zu gewinnen, war kaum verzeihlich. Jene Nationalsozialisten, die Benn schlechthin verwarfen, begaben sich – man muß es so hart sagen – auf das Niveau des Bolschewismus herab. In kleinbürgerlich-egalitären Horizonten und ideologisch miniaturisierten Maßstäben befangen, erkannten sie nicht, daß ihnen ein Großer gegenüberstand, dessen Werk – was immer man im einzelnen ablehnen mag – den Deutschen zur Ehre gereichte. (Dasselbe gilt für eine Reihe weiterer, die alles andere als vaterlandslose Gesellen waren, aber ins Abseits gerieten; man denke nur an George, Jünger, Niekisch, Schmitt und Spengler, von dem übrigens Benn schon 1946 schrieb, er „wäre heute genauso unerwünscht und schwarzbelistet wie er es bei den Nazis war“.)
Das traurige Bild, das der Nationalsozialismus in diesem Punkte abgab, wird besonders deutlich im Vergleich mit dem faschistischen Italien, das es verstand, die vitalen Impulse des Futurismus aufzunehmen und in seine vorbildliche Pluralität zu integrieren. Benn versuchte in mehreren Aufsätzen, die futuristische Idee auch den Berliner Staatsmännern schmackhaft zu machen. Als Marinetti, der Verfasser des Futuristischen Manifestes, in seiner Eigenschaft als Präsident des italienischen Schriftstellerverbandes Berlin besuchte und ihm zu Ehren ein Bankett gegeben wurde, hielt Benn in Vertretung für Hanns Johst die Laudatio. Doch sein Mühen blieb vergeblich. Unterlagen doch selbst die weit weniger buntscheckigen Expressionisten, um deren Bewertung zunächst noch ein innernationalsozialistischer Richtungsstreit tobte, den Dogmatikern des Volkstümlichen.
Nach der sog. „Niederschlagung des Röhm-Putsches“ schreibt Benn seinem Lebensfreund Friedrich Wilhelm Oelze: „Ein deutscher Traum, wieder einmal zu Ende.“ Später wird er die Gebrechen des nationalsozialistischen Staates so beschreiben: „Ein Volk will Weltpolitik machen, aber kann keinen Vertrag halten, kolonisieren, aber beherrscht keine Sprachen, Mittlerrollen übernehmen, aber faustisch suchend – jeder glaubt, er habe etwas zu sagen, aber keiner kann reden, – keine Distanz, keine Rhetorik, – elegante Erscheinungen nennen sie einen Fatzke, – überall setzen sie sich massiv ein, ihre Ansichten kommen mit dicken Hintern, – in keiner Society können sie sich einpassen, in jedem Club fielen sie auf“.
Dennoch schließt sich Benn nach 1945 nicht den Bewältigern an. Seine Rückschau bleibt auf wenige Anmerkungen beschränkt und verfällt zu keiner Zeit in Hyperbeln. „Der Nationalsozialismus liegt am Boden, ich schleife die Leiche Hektors nicht.“ Die von den Siegern geschaffene Nachkriegsordnung analysiert er nicht weniger beißend: „Ich spreche von unserem Kontinent und seinen Renovatoren, die überall schreiben, das Geheimnis des Wiederaufbaus beruhe auf ‚einer tiefen, innerlichen Änderung des Prinzips der menschlichen Persönlichkeit’ – kein Morgen ohne dieses Druckgewinsel! –, aber wo sich Ansätze für diese Änderung zeigen wollen, setzt ihre Ausrottungsmethodik ein: Schnüffeln im Privat- und Vorleben, Denunziation wegen Staatsgefährlichkeit … diese ganze bereits klassische Systematik der Bonzen-, Trottel- und Lizenzträgerideologie, der gegenüber die Scholastik hypermodern und die Hexenprozesse universalhistorisch wirken“.
Anwürfe seiner „jüngsten Vergangenheit“ wegen lassen ihn kalt. Einem denunzierenden Journalisten teilt er mit: „Über mich können Sie schreiben, daß ich Kommandant von Dachau war oder mit Stubenfliegen Geschlechtsverkehr ausübe, von mir werden Sie keine Entgegnung vernehmen“. Und entschuldigt hat er sich nie.

Völlig falsch wäre es, Benns Haltung gegenüber dem NS als die eines Linksstehenden begreifen zu wollen. Was ihn von parteiförmigen Nationalsozialisten unterschied, läßt sich in derselben Weise von seinem Verhältnis zu den linksgerichteten Elementen sagen: eine erhabene Position gegenüber geistiger Konfektionsware und ein Bestehen auf der ehernen Reinheit des Wortes, das nicht im trüben Redefluß der Gasse untergehen soll. Im Todesjahr schreibt er: „Im Anfang war das Wort und nicht das Geschwätz, und am Ende wird nicht die Propaganda sein, sondern wieder das Wort. Das Wort, das bindet und schließt, das Wort der Genesis, das die Feste absondert von den Nebeln und den Wassern, das Wort, das die Schöpfung trägt.“
Bereits 1929 erregte Max Hermann-Neiße mit einer Rezension in der linksgerichteten „Neuen Bücherschau“ Aufsehen, in der er Benn anläßlich des Erscheinens seiner „Gesammelten Prosa“ so charakterisierte: „Es gibt auch in dieser Zeit des vielseitigen, wandlungsfähigen Machers, des literarischen Lieferanten politischer Propagandamaterialien, des schnellfertigen Gebrauchspoeten, in ein paar seltenen Exemplaren das Beispiel des unabhängigen und überlegenen Welt-Dichters, des Schöpfers eines nicht umfangreichen, aber desto schwerer wiegenden Werkes, das mit keinem anderen zu verwechseln ist.“ In dieser Distanz zur politischen Reklame liege aber nicht – und dies ist der entscheidende Punkt – ein Mindermaß an Radikalität, sondern vielmehr eine Größe, die weit über das kleinliche Tagesgeschehen hinausgehe: „Er macht den Schwindel nicht mit. Den hurtige, auf billigen Erfolg versessene Schreiber dieser niveaulosen Epoche schuldig zu sein glauben, sich dümmer stellen, als sie sind, und mit biederer Miene volkstümlich zu reden, wenn einem der Schnabel ganz anders und viel komplizierter wuchs. Und bleibt mit einem Stil, der das Gegenteil von populär ist, zuverlässiger, weiter gehend und weiter wirkend Revolutionär, als die wohlfeilen, marktschreierischen Funktionäre und Salontiroler des Propagandabuntdrucks. Statt des gewohnten ‚kleinen Formats’ der Sekretäre eines politischen Geplänkels um Macht- und Krippenvorteile spricht hier ein Rebell des Geistes, ein Aufruhrphilosoph, der in Kulturkreisen denkt und mit Jahrhundertputschen rechnet.“ Hermann-Neißes Darstellung rief bei den Kollegen des Redaktionskollegiums, den KPD-Funktionären Kisch und Becher, Empörung hervor. Beide traten unter verbalen Kanonaden aus der Schriftleitung aus, womit sie nachträglich bewiesen, zu eben jenen zu gehören, die kritisiert worden waren.
Zu einem gleichartigen Vorfall kam es zwei Jahre später, als Benn eine Rede zum sechzigsten Geburtstag Heinrich Manns auf einem Bankett des Schutzverbandes Deutscher Schriftsteller hielt und wenig später einen Essay über den Literaten veröffentlichte. Obgleich er viel Lobenswertes an ihm fand, bewies er erneut seinen klaren Blick, indem er feststellte, „daß harmlose junge Leute bei ihm den Begriff des nützlichen Schriftstellers ausliehen, mit dem sie sich etwas Rouge auflegten, in dem sie ganz vergehen vor Opportunismus und Soziabilität. Beides, was für Verdunkelungen!“ Nun war es so weit: beginnend mit dem schriftstellernden Architekten Werner Hegemann wurde das Etikett des „Faschisten“ an Benns tadellosen Anzug geklebt.
Der so Entlarvte antwortete mit einem Artikel in der „Vossischen Zeitung“ und mokierte sich, ob es ein Verbrechen sei, den Dichter als Dichter und nicht als Politiker zu feiern. „Und wenn man das in Deutschland und auf einem Fest der schriftstellerischen Welt nicht mehr tun kann, ohne von den Kollektivliteraten in dieser ungemein dreisten Weise öffentlich angerempelt zu werden, so stehen wir allerdings in einer neuen Metternichperiode, aber in diesem Fall nicht von seiten der Reaktion, sondern von einer anderen Seite her.“
Noch Jahre später, als Benn im Reich schon auf verlorenem Posten stand, versäumten es marxistische Ideologen nicht, ihn zu attackieren. 1937 brachte Alfred Kurella, der es einmal zum DDR-Kulturfunktionär bringen sollte, im Emigrantenblatt „Das Wort“ seine „Entrüstung“ über Benn zum Ausdruck und stellte fest, der Expressionismus sei „Gräßlich Altes“ und führe „in den Faschismus“.
Benn hatte seine weltanschauliche Verortung schon im Januar 1933 auf den Punkt gebracht, als eine linkstotalitäre Phalanx unter Führung Franz Werfels in der Deutschen Akademie den Antrag stellte, man müsse gegen Paul Fechters „Dichtung der Deutschen“ mit einem Manifest vorgehen. (Decker hierzu: „Nimmt man heute Paul Fechters Buch zur Hand, schüttelt man erstaunt den Kopf … Das große Skandalon, den Haß, die Geistfeindschaft, den Rassismus, gegen die eine ganze Dichterakademie glaubte protestieren zu müssen, sucht man in dem Buch vergeblich.“) Damals schrieb Benn in einer eigenen Manifestation: „Wer es also unternimmt, den denkenden, den forschenden, den gestaltenden Geist von irgendeinem machtpolitisch beschränkenden Gesichtswinkel aus einzuengen, in dem werden wir unseren Gegner sehen. Wer es gar wagen sollte, sich offen zu solcher Gegnerschaft zu bekennen und Geisteswerte wie etwas Nebensächliches oder gar Unnützes abzutun, oder sie als reine Tendenzwerte den aufgebauschten und nebelhaften Begriffen der Nationalität, allerdings nicht weniger der Internationalität, unterzuordnen, dem werden wir geschlossen unsere Vorstellung von vaterländischer Gesinnung entgegensetzen, die davon ausgeht, daß ein Volk sich … trägt … durch die immanente geistige Kraft, durch die produktive seelische Substanz, deren durch Freiheit wie Notwendigkeit gleichermaßen geprägte Werke … die Arbeit und den Besitz, die Fülle und die Zucht eines Volkes in die weiten Räume der menschlichen Geschichte tragen.“
In dieser Formulierung ist Benns Verständnis der Nation als eines geistig begründeten Raumes fokussiert. Unter Berufung auf die Großen der Vergangenheit (Schiller und Herder werden namentlich genannt) plädiert er schließlich für „unser drittes Reich“, weit oberhalb der von Klassen-, Massen- und Rassenpolitik durchfurchten Ebene.
Benn dachte nach 1933 nicht daran, Deutschland zu verlassen, und seine Meinung von denen, die es taten, war nie eine gute. 1949 schrieb er an Oelze: „Wer heutzutage die Emigranten noch ernst nimmt, der soll ruhig dabei bleiben … Sie hatten vier Jahre lang Zeit; alles lag ihnen zu Füßen, die Verlage, die Theater, die Zeitungen hofierten sie … aber per saldo ist doch gar nichts dabei zutage gekommen, kein Vers, kein Stück, kein Bild, das wirklich von Rang wäre“. Noch gegen Ende seines Lebens konstatierte er in Gegenwart von Freunden, die über die Grenzen gegangen waren, Emigration sei eine ganz und gar nutzlose Sache.
1948, als alle versuchen, sich als gute Schüler der Demokratie zu erweisen, wagt er es, im „Berliner Brief“ ebendieser „Vermittelmäßigungsmaschinerie“ für die künstlerische Existenz eine Absage zu erteilen: sie sei „zum Produktiven gewendet absurd. Ausdruck entsteht nicht durch Plenarbeschlüsse, sondern im Gegenteil durch Sichabsetzen von Abstimmungsergebnissen, er entsteht durch Gewaltakt in Isolation.“ Decker kommentiert lakonisch, es handle sich um „eine feine Unterscheidung, die ihm bis heute noch keiner widerlegt hat“, und: „Da ist er wieder, der Barbar, ohne den das Genie nicht vorkommt“.
Benns Geistesverwandtschaft mit Ernst Jünger ist hier unverkennbar, wenngleich vieles in Perspektive und Stilistik (im weitesten Wortsinne) die beiden trennt. Sie korrespondieren sparsam, doch bemerkt Benn 1950, „wie sehr sich seine und meine Gedankengänge z. T. berühren“, und berichtet über einen Besuch Jüngers – den wohl längsten, den er je zuhause gestattete: „Wir tranken ganz reichlich, und dabei kamen wir uns näher und wurden offen miteinander.“ So hat Decker recht, wenn er resummiert: „Sie haben gemeinsame Themen und im Alter eine ähnlich stoische Haltung zur Welt. Sie sehen in der Parteien-Demokratie einen untauglichen Versuch, das Überleben der Menschheit an der Schwelle zum 21. Jahrhundert zu sichern, verachten die Politik und kultivieren den Mythos als Erneuerung der Menschheit. Jüngers ‚Waldgänger’ und erst recht sein ‚Anarch’ sind Benns ‚Ptolemäer’ und dem ‚Radardenker’ verwandt.“
Der „Ptolemäer“, ein 1949 publizierter Essay, bekennt sich schon im Titel zu einem „erdzentrierten“, statischen Weltbild, dem jede Aufwärtsbewegung fremd ist. Diese treffliche Erkenntnis ist gleichwohl nicht mit Resignation zu verwechseln, sondern ruft zum Dasein nach eigenem Gesetz: „halte auch du dich in dem Land, in das dich deine Träume ziehen und in dem du da bist, die dir auferlegten Dinge schweigend zu vollenden“. Während die Masse im Strudel der Nichtigkeiten taumelt, ist es das Amt weniger, sich zu bewähren. In einer Vision des monologisierenden Sprechers findet sich das schöne Bild: „Die Orden, die Brüder werden vor dem Erlöschen noch einmal auferstehen. Ich sehe an Wassern und auf Bergen neue Athos und neue Monte Cassinos wachsen, – schwarze Kutten wandeln in stillem, in sich gekehrtem Gang.“

Als Exponent autonomen Künstlertums steht Benn beispielhaft gegen jede Art von Unterwerfung des Geistes unter politische Zwecke (was die Symbiose auf gleicher Höhe nicht ausschließt, also keineswegs eine apolitische Geistigkeit fordert). Damit ist er von der Ochlokratie unserer Tage ebenso weit entfernt wie von totalitären Systemen. „Was er nicht erträgt, ist eine falsche Gläubigkeit, die das Wesen der Kunst verkennt und diese auf ihre Nebenzwecke reduziert … Und eben inmitten von Konsum und Unterhaltung, den großen Verdurchschnittlichungsmächten, die aus der Verbindung von Kapitalismus und parlamentarischem System hervorgehen, schwindet das Wissen um diese elementare Gewalt der Kunst, die eine geistige Gegenwelt behauptet“ (Decker).
Heute ist der deutsche Nationalismus Äonen davon entfernt, die Hebel der Macht zu bedienen. Insofern stellt sich die Frage, ob er mit der Erfahrung der letzten siebzig Jahre gelernt habe, dem großen Einzelnen bedingungslose Freiheit zuzugestehen, nicht als praktische. Gegebenenfalls wird man einer geschichtlichen Verantwortung nur dann gerecht werden können, wenn nicht allein die „Banalität des Guten“ zugunsten einer „neuen deutschen Härte“ überwunden ist, sondern auch fatale Dummheiten nicht wiederholt werden – von denen Talleyrand bekanntlich gesagt hat, sie seien schlimmer als Verbrechen.

Decker, Gunnar: Gottfried Benn. Genie und Barbar, Aufbau-Verlag, Berlin 2006, 544 S., 26,90 €

dimanche, 02 janvier 2011

Archives sur Weimar - Le national-bolchevisme allemand (1918-1932)

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Archives sur Weimar

Présentation: Nous donnons ici un des rares articles de Karl Otto Paetel publié en français (on connait notamment de lui l’article « Typologie de l’Ordre Noir» paru dans la revue Diogène, n°3, en 1953).

Ex: http://etpuisapres.hautetfort.com/

Pourquoi reproduire cet article sur un site consacré à Hans Fallada ? Parce qu’il traite d’un aspect peu connu du foisonnement politique de l’Allemagne de Weimar et que ce contexte politique a servi de toile de fond aux romans de Hans Fallada. L’article de K.O. Paetel évoque notamment le mouvement paysan du Schleswig-Holstein, auquel Hans Fallada fut mêlé de près en suivant le procès de Neumünster pour le compte d’un journal local le General-Anzeiger (en automne 1929) puis en en tirant deux romans. L’un directement inspiré de la « révolte » (Levée de Fourches) et un autre inspiré également de ses expériences de régisseur (Loup parmi les loups I ; Loup parmi les loups II – La campagne en feu).

Quant à l’article de K.O. Paetel, il est très certainement incomplet comme il le signale lui-même, mais a le mérite de présenter les grandes lignes de ce courant politique. Le seul léger reproche que l’on pourrait faire c’est d’élargir le mouvement national-bolcheviste stricto sensu (Fritz Wolffheim, Heinrich Laufenberg, Ernst Niekisch) aux nationaux-révolutionnaires. Tous les nationaux-révolutionnaires ne furent pas nécessairement des « nationaux-bolcheviques » loin s’en faut, même si nombre d’entre eux flirtèrent avec les idées de « gauche », de « socialisme », de « communisme » voire de « bolchevisme ».

Mais tout ceci appartient à l’histoire désormais et cet article est comme un trait de lumière nouveau apporté sur une époque hautement complexe.

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nb : toutes les notes (1 à 7) sont de la rédaction du weblog "Et puis après ?"

 

LE NATIONAL-BOLCHEVISME ALLEMAND DE 1918 A 1932

 

par Karl O. PAETEL [i]

 

A l’heure actuelle, lorsqu’en Allemagne occidentale on qualifie de « nationales-bolchevistes » des tendances politiques, des groupes ou des particuliers (avec l’intention de faire de la polémique et une nuance péjorative, comme pour « trotzkyste » ou « titiste »), on entend par là que ces tendances, ces groupes ou ces personnes sont orientés vers l’Est et pro-russes, ou du moins sympathisants. Mais cette définition ne suffit pas à caractériser le mouvement qui, entre la fin de la première guerre mondiale et la prise du pouvoir par Hitler, attira l’attention des sphères théorético-politiques, à l’« extrême-droite » comme à l’« extrême-gauche », de bien des façons et sous le même nom.

niekisch.jpgDe deux côtés, le mouvement était, au fond, basé sur des motifs de politique intérieure : les socialistes révolutionnaires se ralliaient à l’idée de nation, parce qu’ils y voyaient le seul moyen de mettre le socialisme en pratique. Les nationalistes convaincus tendaient vers la « gauche », parce qu’à leur avis, les destinées de la nation ne pouvaient être remises en toute confiance qu’à une classe dirigeante nouvelle. Gauche et droite se rapprochaient dans la haine commune de tout ce qu’elles appelaient l’impérialisme occidental, dont le principal symbole était le traité de Versailles et le garant, le « système de Weimar ». Aussi était-il presque inévitable qu’on se tournât, en politique extérieure, vers la Russie, qui n’avait pas pris part au traité de Versailles. Les milieux « nationaux » le firent avec l’intention de poursuivre la politique du baron von Stein, de la convention de Tauroggen, et enfin celle « réassurance » de Bismarck ; la gauche dissidente, elle, en dépit des critiques souvent violentes qu’elle formulait contre la politique communiste internationale de l’Union Soviétique, restait convaincue du caractère socialiste, donc apparenté à elle, de l’URSS, et en attendait la formation d’un front commun contre l’Ouest bourgeois et capitaliste.

Le national-bolchevisme comptait donc dans ses rangs des nationalistes et des socialistes allemands qui, introduisant dans la politique allemande une intransigeance sociale-révolutionnaire croissante, tablaient sur l’aide de la Russie pour parvenir à leurs fins.

 

Le « national-communisme » de Hambourg

Le national-bolchevisme allemand apparaît pour la première fois dans une discussion entre certaines fractions du mouvement ouvrier révolutionnaire. La chance lui a souri pour la première fois le 6 novembre 1918 et le 28 juin 1919. C’est le 6 novembre 1918 que, dans le « Champ du Saint-Esprit » près de Hambourg, Fritz Wolffheim appela le peuple à la « révolution allemande » qui, sous l’égide du drapeau rouge, continuerait la lutte contre l’« impérialisme occidental ». Le 28 juin 1919 fut signé le traité de Versailles que Scheidemann et Brockdorff-Rantzau avaient refusé de parapher.

Fritz Wolffheim et Heinrich Laufenberg, président du Conseil d’ouvriers et de soldats de Hambourg, menaient la lutte contre les mots d’ordre défaitistes du Groupe Spartacus et prêchaient la guerre « jacobine » de l’Allemagne socialiste contre le Diktat de paix. En sa qualité de chef de la délégation de paix, le ministre allemand des Affaires étrangères, le comte Brockdorff-Rantzau, avait eu l’intention de prononcer devant l’Assemblée Nationale allemande un discours d’avertissement, soulignant qu’une « paix injuste » renforcerait l’opposition révolutionnaire au capitalisme et à l’impérialisme, et préparerait ainsi une explosion sociale-révolutionnaire. Le discours ne fut pas prononcé, et sa teneur ne fut publiée que plus tard.

Lorsque le corps-franc du général von Lettow-Vorbeck fit son entrée à Hambourg, on adressa au chef du corps-franc un appel lui demandant de se joindre aux ouvriers révolutionnaires pour participer à cette lutte contre une « paix injuste ». Une Association libre pour l’étude du communisme allemand, fondée par des communistes et de jeunes patriotes – les frères Günther y prenaient une part active – essaya de démontrer aux socialistes et aux nationalistes la nécessité de cette lutte commune, menée dans l’intérêt de la nation et du socialisme. Bien que des contacts locaux aient eu lieu dans quelques villes, le mouvement n’eut jamais d’influence réelle sur les masses.

Lors des « Journées du Parti » à Heidelberg en 1919, le parti communiste récemment fondé prononça l’exclusion des « gauches » de Hambourg, groupés autour de Wolffheim et de Laufenberg, et celle du Groupe Spartacus et de quelques autres (les deux mouvements s’étaient joints au Parti communiste). Cette mesure avait pour cause les déviations anti-parlementaires et « syndicalistes » (dans la question des syndicats) des intéressés. Wolffheim et Laufenberg se rallièrent alors au Parti communiste ouvrier allemand, qui était en train de se former. Mais on manque total de cohésion et son absence d’unité idéologique amenèrent bientôt la dislocation du parti. Les fidèles de Wolffheim restèrent groupés dans la Ligue communiste, qui portait comme sous-titre officieux Ligue nationale-communiste. Lénine et Radek avaient jeté tout leur prestige dans la balance (la mise en garde de Lénine contre le « radicalisme » visait surtout les Hambourgeois[ii]) pour soutenir Paul Levi, adversaire de Wolffheim au sein du Parti communiste allemand. Les Hambourgeois furent isolés et leur rayon d’action se réduisit à une fraction de gauche.

Il était également impossible de rallier un nombre suffisant d’activistes de droite. Le comte Ulrich von Brockdorff-Rantzau partit en 1922 pour Moscou, en qualité d’ambassadeur d’Allemagne. Il avait l’intention de « réparer de là-bas le malheur de Versailles ». C’est à ses efforts que nous devons le traité de Rapallo du 16 avril 1922 (dont son ami Maltzan avait fait le plan) et le traité de Berlin d’avril 1926.

La variante révolutionnaire d’un national-bolchevisme allemand avait échoué. Après Rapallo, la forme évolutive de ce national-bolchevisme se poursuivit sous forme de multiples contacts entre les chefs de la Reichswehr (Seeckt et ses successeurs) et l’Union Soviétique. Nous ne pouvons entrer ici dans les détails de cette collaboration.

Les idées de Wolfheim et du « comte rouge » poursuivaient leur route souterraine.

 

L’« Union peupliste-communiste »

Les communistes firent le second pas dans la voie d’un front commun, patriotique et socialiste, contre l’Occident. Le 20 juin 1923, lors de la session du Comité exécutif élargi de l’Internationale Communiste, Karl Radek prononça son célèbre discours sur « Leo Schlageter, voyageur du néant », où il s’inclinait devant le sacrifice du saboteur nationaliste et encourageait ses camarades à poursuivre, aux côtés de la classe ouvrière révolutionnaire, la lutte commune pour la liberté nationale de l’Allemagne.

Des discussions s’ensuivirent dans Die rote Fahne et la revue allemande-peupliste Der Reichswart : Moeller van den Bruck, le comte Reventlow, Karl Radek et d’autres encore prirent la parole sur le thème : « Un bout de chemin ensemble ? ». Des rencontres eurent lieu à l’occasion. Le « mouvement national », où Adolf Hitler, le capitaine Ehrhardt et les peuplistes du Groupe Wulle-Gräfe faisaient de plus en plus parler d’eux, resta à l’écart.

Le mot d’ordre « national » du Parti communiste sonnait faux. Au fond, il a toujours sonné faux pour la majorité des activistes nationaux. En août-septembre 1930, le parti communiste allemand avait encore annoncé un programme de « libération nationale et sociale du peuple allemand »[iii]. Il avait, en outre, sous le nom de l’ex-lieutenant de la Reichswehr et nazi Richard Scheringer[iv], rassemblé quelques centaines d’ex-nazis, officiers et hommes des corps-francs, dans les milieux de « brèche » (Aufbruch), autour de la revue du même nom. Pourtant, le « national-bolchevisme » contrôlé par le Parti communiste, c’est-à-dire « dérivé », n’est jamais devenu, ni au sein du mouvement communiste ni en dehors, un facteur susceptible de déterminer la stratégie et la tactique du mouvement de masse. Il ne fut jamais qu’un instrument en marge de la NSDAP, chargé des besognes de désagrégation. Les tendances national-bolchevistes authentiques reparurent dans une direction toute différente.

 

Le « troisième parti »

Sous la République de Weimar, il a existé en Allemagne un mouvement de rébellion « jeune-national ». Ce mouvement se situait à l’« extrême-droite », à côté des partis conservateurs-nationaux, du national-socialisme, des différents groupes « peuplistes » parfois en concurrence avec lui, et des associations nationales de défense. De 1929 à 1932, il prit des formes concrètes, et son étiquette de « droite » n’eut bientôt plus rien de commun avec celle en usage dans la géographie parlementaire. On s’appelait « national-révolutionnaire », on formait ses propres groupes, on éditait ses propres journaux ou revues, ou bien on essayait d’exercer une influence morale sur des associations de défense, des groupes politiques, des mouvements de jeunesse, et de les entraîner à une révolution complète de l’état, de l’économie et de la société.

Après comme avant on restait nationaliste, mais on inclinait de plus en plus aux revendications anticapitalistes et socialistes, voire partiellement marxistes.

Ces « gauches de la droite », comme les a appelés Kurt Hiller, essayèrent d’abord d’établir, « par-dessus les associations », des relations entre radicaux de gauche et de droite, en prenant pour base leur « attitude commune anti-bourgeoise et sociale-révolutionnaire ». Lorsque le poids de l’appareil du parti eut fait, aux deux pôles, échouer ces efforts, les intéressés décidèrent de se créer leur propre plate-forme révolutionnaire dans les groupes et journaux nationaux-révolutionnaires. Le ralliement, en 1930, du Groupe Wolffheim au Groupe des nationalistes sociaux-révolutionnaires qui, dans les revues Die Kommenden et Das Junge Volk, avait commencé à construire une plate-forme de ce genre, et la fusion, dans la « résistance », des jeunes-socialiste de Hofgeismar avec le Groupe Oberland, donnèrent une vigueur nouvelle, sur un plan supérieur, aux thèses des nationaux-communistes de Hambourg. Ce fut également le cas pour certaines tendances pro-socialistes qui se manifestaient dans quelques groupes de radicaux de droite ayant joué un rôle actif en Haute-Silésie ou dans la résistance de la Ruhr.

Les groupes nationaux-révolutionnaires sont toujours restés numériquement insignifiants (depuis longtemps, l’opinion publique ne les désignait plus que du terme bien clair de « nationaux-bolchevistes » !) ; mais, sur le plan idéologique, il y avait là une sorte d’amalgame authentique entre conceptions de « droite » et conceptions de « gauche ». Le national-bolchevisme ne voulait être ni de droite ni de gauche. D’une part, il proclamait la nation « valeur absolue », et, de l’autre, voyait dans le socialisme le moyen de réaliser cette notion dans la vie du peuple.

Moeller van den Bruck fut le premier théoricien jeune-conservateur à professer de semblables idées. C’est pour des raisons uniquement publicitaires qu’il a intitulé son œuvre principale Le Troisième Reich, formule que devait usurper par la suite le mouvement hitlérien. Moeller lui-même voulait appeler son livre Le Troisième Parti. Son idée directrice était l’inverse des théories hitlériennes. Moeller van den Bruck donnait un fondement idéologique aux théories politiques du national-bolchevisme. Partant du principe que « chaque peuple a son propre socialisme », il essayait de développer les lignes principales d’un « socialisme allemand » exempt de tout schématisme internationaliste. Le « style prussien » lui paraissait l’attitude la meilleure ; aussi la position de Moeller, se tournant vers l’Est, même sur le plan politique, n’était-elle que la conséquence logique de cette parenté spirituelle. Il voulait être « conservateur » par opposition à « réactionnaire », « socialiste » par opposition à « marxiste », « démocratique » par opposition à « libéral ». C’est ici qu’apparurent pour la première fois des formules qui, par la suite, radicalisées, simplifiées et en partie utilisées de façon sommaire, formèrent une sorte de base commune pour tous les groupes nationaux-bolchevistes.

En dehors d’Oswald Spengler et de son livre Prussianisme et socialisme[v], qui cessa très vite de fasciner lorsqu’on en reconnut le caractère purement tactique, deux intellectuels venus de la social-démocratie ont contribué à la pénétration des idées socialistes dans les rangs de la bourgeoisie jeune-nationale : August Winnig et Hermann Heller. Comme l’avait fait jusqu’à un certain point le poète ouvrier Karl Broeger, Winnig et Heller avaient noué des relations, à l’époque de la résistance dans la Ruhr, avec le mouvement national de sécession dit de Hofgeismar, issu du mouvement jeune-socialiste du SPD. Foi dans le prolétariat de Winnig et Nation et socialisme de Heller furent le point de départ de rencontres fécondes entre socialistes (qui avaient reconnu la valeur du nationalisme) et nationalistes (qui avaient reconnu la nécessité du socialisme).

 

Le « nouveau nationalisme »

En outre, même dans le camp national de la « génération du front » s’élevèrent des voix rebelles. D’abord dans le cadre du Casque d’Acier, puis en marge, enfin avec la malédiction de ce mouvement, elles s’exprimèrent dans des revues comme Standarte, Arminius, Vormarsch, Das Reich, opposant un « nouveau nationalisme » au mouvement national patriotico-bourgeois, et surtout à la NSDAP. Lorsque tout espoir fut perdu d’exercer une influence au sein des grandes associations, des groupes et des partis, ils s’opposèrent résolument à tous les mots d’ordre de « communauté populaire ». « Nous en avons assez d’entendre parler de nation et de ne voir que les revenus réguliers du bourgeois. Nous en avons assez de voir mélanger ce qui est bourgeois et ce qui est allemand. Nous ne nous battrons pas une seconde fois pour que les grandes banques et les trusts administrent ’’dans l’ordre et le calme’’ l’état allemand. Nous autres nationalistes ne voulons pas, une seconde fois, faire front commun avec le capital. Les fronts commencent à se séparer ! » Pour la première fois dans le mouvement social-révolutionnaire, la frontière est franchie entre le « nouveau nationalisme » purement soldatique et le véritable national-bolchevisme. Les mots d’ordre anti-impérialistes en politique extérieure n’en étaient que la conséquence logique.

Le chef spirituel du « nouveau nationalisme » était Ernst Jünger. D’abord connu pour ses romans de guerre réalistes, il a ensuite tiré des résultats de la première guerre mondiale, sa philosophie du « réalisme héroïque », qui supprime le vieil antagonisme entre idéalisme et matérialisme. Par sa vision du Travailleur, le Jünger « première manière » encourageait les jeunes rebelles qui se tournaient vers le monde où sont en marche « la domination et la forme » du prolétariat – bien qu’il ait expressément élaboré la figure de ce travailleur en dehors des données sociologiques –, après avoir, dans La mobilisation totale, analysé et déclarée inévitable la venue d’un nouvel ordre social collectiviste. Jünger ne faisait partie d’aucun groupe, était reconnu par tous, et publia jusqu’en 1932 des articles dans beaucoup de revues représentant ces courants.

 

La plate-forme sociale-révolutionnaire

Les théories professées dans ces milieux étaient loin d’être toujours rationnelles. Franz Schauwecker déclarait : « Il fallait que nous perdions la guerre, pour gagner la nation ». On évoquait « le Reich », soit-disant caractérisé par « la puissance et l’intériorité ». Mais le programme comportait , à côté de la métaphysique , des points forts réalistes. On approuvait la lutte des classes, certains – s’inspirant d’ailleurs davantage des modèles d’auto-administration offerts par l’histoire d’Allemagne que de l’exemple russe – prônaient le système des « conseils ». On essayait de prendre contact avec les mouvements anti-occidentaux extra-allemands : mouvement d’indépendance irlandais, milieux arabes, indiens, chinois (une Ligue des peuples opprimés fut opposée à la SDN !). On défendait énergiquement l’idée d’une alliance germano-russe, on proclamait la nécessité d’une révolution allemande, d’un front commun avec le prolétariat révolutionnaire. Toutes les revendications radicales sociales-révolutionnaires avaient le même point de départ : l’opposition au traité de Versailles. Ernst Niekisch déclara un jour : « La minorité est décidée à renoncer à tout en faveur de l’indépendance nationale, et même, s’il est impossible de l’obtenir autrement, à lui sacrifier l’ordre social, économique et politique actuel ».

Ces milieux considéraient le national-socialisme comme « appartenant à l’Ouest ». Le prussianisme, le socialisme, le protestantisme – et même, jusqu’à un certain point, le néo-paganisme – furent utilisés contre le national-socialisme et ses visées « à tendances catholiques et Contre-Réforme », prétendait-on, visées qui faussaient le mot d’ordre tant socialiste que national et l’infléchissaient dans le sens du fascisme.  Bien que, dans les dernières années avant 1933, la lutte contre le mouvement hitlérien soit de plus en plus devenue l’objectif principal des nationaux-révolutionnaires, l’opinion publique a considéré à cette époque, précisément pour les raisons que nous venons de dire, les tendances nationales-bolchevistes comme un danger réel pour la République.

Le mouvement n’a jamais été centralisé. Les différents groupes et journaux n’ont jamais réussi à acquérir une cohésion réelle ; ils se sont cantonnés dans un individualisme farouche, jusqu’au moment où Hitler les élimina tous en les interdisant, et en faisant arrêter, exiler ou tuer leurs leaders. Si l’« Action de la Jeunesse » contre le Plan Young eut du moins un certain succès de presse, les groupes ne réussirent pas à se mettre d’accord sur le choix de Claus Heim comme candidat commun aux élections à la présidence du Reich. Il en fut de même, fin 1932, pour les efforts en vue de créer un parti national-communiste unique.

 

L’intelligentzia anticapitaliste

En 1932, régnait pourtant une inquiétude générale, et on se demandait – surtout dans la presse bourgeoise – si les paroles d’Albrecht Erich Guenther ne contenaient pas un peu de vrai : « La force du national-bolchevisme ne peut pas être évaluée en fonction du nombre de membres d’un parti ou d’un groupe, ni en fonction du tirage des revues. Il faut sentir combien la jeunesse radicale est prête à se rallier sans réserves au national-bolchevisme, pour comprendre avec quelle soudaineté un tel mouvement peu déborder des cercles restreints pour se répandre dans le peuple. » La formule menaçante de Gregor Strasser sur « la nostalgie anticapitaliste du peuple allemand » continuait à tinter désagréablement aux oreilles de certains, surtout à droite. 1932 était devenu l’année décisive. La NSDAP et le parti communiste faisaient marcher leurs colonnes contre l’état. Alors surgit brusquement du no man’s land sociologique un troisième mouvement qui non seulement faisait appel à la passion nationale, mais encore brandissait la menace d’une révolution sociale complète – et tout cela avec un fanatisme paraissant plus sérieux que celui du national-socialisme, dont les formules semblaient identiques aux yeux d’un observateur superficiel.

Dans les milieux qui n’avaient pourtant rien à voir avec les activistes des cercles nationaux-révolutionnaires, apparurent brusquement des thèses semblables, même si le langage en paraissait plus mesuré, plus objectif et plus réaliste. La jeune intelligentzia de tous les partis, menacée de n’avoir jamais de profession, risquait de plus en plus de devenir la proie des mots d’ordre radicalisateurs, anticapitalistes et en partie anti-bourgeois. Ces tendances se manifestèrent par la célébrité soudaine du groupe Die Tat, réuni autour de la revue mensuelle du même nom. Cette revue, issue de l’ancien mouvement jeunesse allemand-libre, était dirigée par Hans Zehrer, ancien rédacteur chargé de la politique étrangère à la Vossische Zeitung. Elle mettait en garde contre le dogmatisme stérile des radicaux de gauche et de droite, et reprenait à son compte les revendications essentielles des nationaux-révolutionnaires. La revue soutenait les attaques de Ferdinand Fried contre l’ordre capitaliste, et prenait parti, avec lui, pour une économie planifiée et une souveraineté nationale garantie – l’autarcie –, s’appropriant ainsi les mots d’ordre du mouvement hitlérien.

niekisch-titel-rgb-60mm.jpgCe « national-bolchevisme modéré », s’il est permis de s’exprimer ainsi, faillit devenir un facteur réel. Le tirage de Die Tat atteignit des chiffres jusqu’alors inconnu en Allemagne ; l’influence de ses analyses pondérées et scientifiques dépassa de loin celle des groupes nationaux-bolchevistes traditionnels.

A un certain moment, le général Schleicher commença à prendre contact avec les syndicats et avec Gregor Strasser qui, depuis la disparition des « nationaux-socialistes révolutionnaires » de son frère Otto, représentait les tendances « de gauche » au sein de la NSDAP ; il voulait asseoir dans la masse le « socialisme de général » pour lequel il avait fait une propagande assez habile et dont le slogan sensationnel était celui-ci : « La Reichswehr n’est pas là pour protéger un régime de propriété suranné. » Die Tat s’appuya alors sur cette doctrine. Zehrer prit la direction de l’ancien quotidien chrétien-social Tägliche Rundschau et se fit le défenseur d’un Troisième Front axé sur Schleicher. Après avoir, quelque temps auparavant, lancé comme mot d’ordre à l’égard des partis existants le slogan : « Le Jeune Front reste en dehors ! », ce « Troisième Front » s’avéra une simple variante « réformiste » du Front anticapitaliste des jeunes de la droite jusqu’à la gauche, représenté par les milieux nationaux-révolutionnaires. Le renvoi brutal de Schleicher par le Président Hindenburg mit également fin  cette campagne.

 

Sous l’égide du drapeau noir

Les nationaux-révolutionnaires n’avaient jamais travaillé la masse. Quelques milliers de jeunes idéalistes s’étaient rassemblés autour d’une douzaine et demi de revues et des chefs de quelques petits groupes. Lorsqu’Otto Strasser fonda en 1930 son propre groupe, appelé par la suite le Front Noir, les nationaux-révolutionnaires essayèrent de prendre contact avec lui, mais y renoncèrent bientôt. Pas plus que le Groupe Scheringer, le Groupe Strassser n’a jamais été vraiment national-révolutionnaire. Mais le mouvement que Strasser déclencha indirectement en quittant la NSDAP, provoqua beaucoup d’adhésions au national-bolchevisme. Dès avant 1933, des groupes de SA et de Jeunesse Hitlériennes ont été formés, dans quelques villes, sous l’égide – illégale – des nationaux-révolutionnaires. Mais il s’agissait là de cas isolés, et non de travail de masse.

Une seule fois, le symbole des nationaux-révolutionnaires, le drapeau noir (Moeller van den Bruck l’avait proposé comme emblème et tous les groupes nationaux-bolchevistes l’avaient accepté) a joué un rôle historique sous le régime de Weimar : dans le mouvement rural de Schleswig-Holstein (qui avait des ramifications dans le Wurtemberg, le Mecklembourg, la Poméranie, la Silésie, etc.). Claus Heim, un riche paysan plein d’expérience, devint le centre de la défense des paysans contre le « système » de Weimar. Alors des intellectuels nationaux-révolutionnaires ont eu en mains l’éducation idéologique de masses paysannes qui, naturellement, n’étaient pas du tout « nationales-bolchevistes ». Bruno et Ernst von Salomon, et bien d’autres encore, ont essayé, surtout dans les organes du mouvement rural, de donner un sens « allemand-révolutionnaire » et dépassant les intérêts locaux, aux bombes lancées contre les Landratsämter, aux expulsions des fonctionnaires du fisc venus percevoir l’impôt dans les fermes, à l’interdiction par la force des enchères.

Lorsqu’au cours du « procès des dynamiteurs », Claus Heim et ses collaborateurs les plus proches furent mis en prison, le mouvement perdit de sa force, mais la police prussienne n’était pas très loin de la vérité lorsqu’au début de l’enquête, méfiante, elle arrêta provisoirement tous ceux qui se rendaient au « Salon Salinger » à Berlin, très nationaliste. Les hommes qui y venaient n’étaient pas au courant des différents attentats, mais ils étaient les instigateurs spirituels du mouvement.

 

Les groupes de combat nationaux-révolutionnaires

Alors que le Casque d’Acier ne subissait pour ainsi dire pas l’influence des mots d’ordre nationaux-bolchevistes, et que l’Ordre jeune-allemand, axé en principe sur une politique d’alliance franco-allemande, manifestait à l’égard de ces groupes une hostilité sans équivoque, deux associations moins importantes de soldats du front, appartenant à la droite, se ralliaient assez nettement à eux : le Groupe Oberland et le Werwolf. Le Groupe Oberland avait fait partie au début du Groupe de combat allemand qui, avec les SA de Goering, était l’armature militaire du putsch de novembre 1923. Mais, dès le début, il n’y avait pas été à sa place. Ernst Röhm raconte dans ses mémoires qu’il avait eu l’intention, à une des premières « Journées allemandes », de saisir cette occasion pour proposer au prince Rupprecht la couronne de Bavière. Mais les chefs du Groupe Oberland, à qui il fit part de ses projets, lui déclarèrent nettement qu’ils viendraient avec des mitrailleuses et tireraient sur les « séparatistes » au premier cri de « Vive le roi » ; sur quoi l’ancien chef de la Reichskriegsflagge dut, en grinçant des dents, renoncer à son projet. Un autre exemple tiré de l’histoire des corps-francs montre que l’Oberland était un groupe à part : lorsqu’après le célèbre assaut d’Annaberg en 1921, le Groupe Oberland, sur le chemin du retour, traversa Beuthen, des ouvriers y étaient en grève. Comme, en général, les corps-francs étaient toujours prêts à tirer sur les ouvriers, les chefs du Groupe Oberland furent priés de briser la grève par la force des armes. Ils refusèrent.

Le corps-franc fut ensuite dissout et remplacé par le Groupe Oberland, qui édita plus tard la revue Das Dritte Reich. Très vite, les membres les plus importants du groupe se rapprochèrent, sur le plan idéologique, des nationaux-bolchevistes ; Beppo Römer, le véritable instigateur de l’assaut d’Annaberg, adhéra même au groupe communiste de Scheringer. En 1931, les sections autrichiennes du groupe, relativement fortes, élurent comme chef du groupe le prince Ernst Rüdiger von Starhemberg, chef fasciste de la Heimwehr : les nationaux-révolutionnaires quittèrent alors le groupe et, sous l’étiquette de Oberlandkameradschaft, passèrent au groupe de résistance de Ernst Niekisch, dont ils formèrent bientôt le noyau.

Un deuxième groupe de défense reprit à son compte certaines théories du mouvement national-révolutionnaire : le Werwolf (dans le Groupe de Tannenberg de Ludendorff, des voix de ce genre étaient l’exception). Le Werwolf modifia sa position pour deux raisons : premièrement, ce groupe comptait dans ses rangs un nombre relativement grand d’ouvriers, qui exerçaient une pression très nette en faveur d’un nationalisme « non-bourgeois » ; deuxièmement, son chef, le Studienrat Kloppe, éprouvait le besoin constant de se différencier des groupes plus importants. Comme les « nouveaux nationalistes » étaient tombés en disgrâce auprès du Casque d’Acier, de la NSDAP et du DNVP, le Werwolf se rapprocha d’eux de façon spectaculaire. Lorsqu’Otto Strasser, après avoir lancé son appel « Les socialistes quittent le Parti », fonda en 1930 le groupe du « véritable national-socialisme », Kloppe, dont les idées coïncidaient pourtant parfaitement avec celles de Strasser, ne se rallia pas à lui : il fonda un groupe dissident, appelé « possédisme [vi]». Les membres du groupe, en majorité plus radicaux, ne prirent pas trop au sérieux cette nouvelle doctrine, mais obtinrent que le bulletin du groupe représentât en général, pour le problème russe comme sur le plan social, le point de vue qu’avaient adoptés, en dehors des organes déjà mentionnés, Der junge Kämpfer, Der Umsturz (organe des « confédérés »), Der Vorkämpfer, (organe du Jungnationaler Bund, Deutsche Jungenschaft), et d’autres encore. En 1932, le Werwolf décida brusquement, de son propre chef, de présenter des candidats aux élections communales, renonçant ainsi à son antiparlementarisme de principe.

 

Typologie du national-bolchevisme

La plupart des membres des groupes nationaux-révolutionnaires étaient des jeunes ou des hommes mûrs. On y comptait aussi un nombre relativement élevé d’anciens membres ou de militants appartenant aux associations de la Jugendbewegung.

Aucun groupe important de l’Association de la Jeunesse n’était en totalité national-bolcheviste. Mais presque chaque groupe comptait des sympathisants ou des adhérents des mouvements nationaux-révolutionnaires. Les organes nationaux-révolutionnaires ont exercé une action indirecte relativement grande sur les groupes et, inversement, le monde romantique de la Jugendbewegung a influencé la pensée et le style des nationaux-révolutionnaires.

Si l’on fait abstraction du mouvement rural révolutionnaire, du Groupe Oberland et du Werwolf, presque tous les groupes nationaux-bolchevistes ont intégré certains éléments de la Jugendbewegung dans la structure de leurs groupes : groupes d’élites basés sur le principe du service volontaire. La minorité – mais très active – était composée d’anciens membres de la jeunesse prolétarienne, d’anciens communistes ou sociaux-démocrates, presque tous autodidactes ; la majorité comprenait des membres de l’Association de la Jeunesse, d’anciens membres des corps-francs et des associations de soldats, des étudiants – et des nationaux-socialistes déçus à tendance « socialistes ». Seul le groupe Die Tat a recruté des membres dans le « centre » politique.

Au fond, tous ces jeunes étaient plus ou moins en révolte contre leur classe : jeunesse bourgeoise désireuse de s’évader de l’étroitesse du point de vue bourgeois et possédant, jeunes ouvriers décidés à passer de la classe au peuple, jeunes aristocrates qui, dégoûtés des conceptions sclérosées et surannées sur le « droit au commandement » de leur classe, cherchaient à prendre contact avec les forces de l’avenir. Sous forme de communautés d’avant-garde analogues à des ordres religieux, des outsiders sans classe de l’« ordre bourgeois » cherchaient dans le mouvement national-révolutionnaire une base nouvelle qui, d’une part, fasse fructifier certains points essentiels de leur ancienne position (éléments sociaux-révolutionnaires et nationaux-révolutionnaires de « gauche » ou de « droite »), et, d’autre part, développe certaines tendances séparatistes d’une « jeunesse nouvelle » dotée d’une conscience souvent exacerbée de sa mission.

Les hommes qui se rassemblaient là avaient un point commun : non pas l’origine sociale, mais l’expérience sociale. Nous ne songeons pas ici uniquement au chômage, à la prolétarisation des classes moyennes et des intellectuels, avec toutes ses conséquences. Tous ces faits auraient dû, au cours de la radicalisation générale des masses, mener au national-socialisme ou au communisme. Mais, à côté de cette expérience négative, il y en avait une positive : celle d’une autre réalité sociale – l’expérience de la communauté dans le milieu sélectionné que représentaient les « associations » de toutes sortes. En outre – il s’agissait, à quelques exceptions près, des générations nées entre 1900 et 1910 – ces groupes se heurtaient au mutisme des partis politiques existants, lorsqu’ils leur posaient certaines questions.

Aussi le mouvement national-révolutionnaire fut-il, pour tous ceux qui ne se rallièrent pas aveuglément au drapeau hitlérien, une sorte de lieu de rassemblement, un forum pour les éléments de droite et de gauche éliminés à cause de leur sens gênant de l’absolu : collecteur de tous les activistes « pensants » qui essayaient, souvent de façon confuse mais du moins en toute loyauté, de combler l’abîme entre la droite et la gauche.

Tout cela a parfois conduit à des excès de toutes sortes, à un certain romantisme révolutionnaire, à un super-radicalisme trop souvent exacerbé (surtout parce qu’il manquait le correctif d’un mouvement démocratique de masse). Il n’en reste pas moins vrai qu’un certain nombre de jeunes intellectuels de la bourgeoisie « nationale » ont été, grâce à cela, immunisés contre les mots d’ordre contradictoires de la NSDAP. Même dans les organismes militants du national-socialisme, le mouvement national-révolutionnaire a rappelé à l’objectivité et suscité des germes de révolte.

Cette vague de national-bolchevisme allemand n’eut pas d’influence politique. La prise du pouvoir par les nazis mit fin à ses illusions – et à ses chances.

 

Conclusion

Le national-bolchevisme appartient aujourd’hui à l’histoire. Même ses derniers adhérents, la résistance, si lourde de sacrifices, qu’ont menée, dans la clandestinité, beaucoup de ses membres contre le régime hitlérien, la brève flambée de tactique « nationale-bolcheviste » inspirée par les communistes et dirigée par Moscou, tout cela n’est plus que de l’histoire. Quelques-uns des nationaux-révolutionnaires les plus connus ont capitulé devant le national-socialisme. Rappelons ici, à la place de certains autres, le nom de Franz Schauwecker. Exécution, réclusion, camp de concentration, expatriation, furent le lot des résistants appartenant au mouvement national-révolutionnaire – et celui de tous les adversaires de Hitler.

Comme exemple de lutte active et clandestine sous le régime hitlérien, citons Harro Schulze-Boysen, chef du Groupe des adversaires (de Hitler), et Ernst Niekisch, l’un des rares qui, après 1945, « suivirent le chemin jusqu’au bout », c’est-à-dire se rallièrent au SED. La plupart de ceux qui représentèrent autrefois les tendances nationales-révolutionnaires ont adopté des idées nouvelles : c’est le cas de Friedrich Hielscher et du Ernst Jünger « seconde manière ». Ils ont continués à bâtir sur des bases consolidées.

Lorsque le Front National d’Allemagne orientale (pâle copie de la ligne « nationale » du Parti communiste allemand représentée pendant la guerre par le Comité National de l’Allemagne Libre de Moscou et l’Union des officiers allemands du général von Seydlitz), le Mouvement des sans-moi[vii] et la propagande en faveur de « conversations entre représentants de toute l’Allemagne » cherchent à mettre en garde contre le mouvement national-bolcheviste d’autrefois, ou au contraire se réfèrent à lui, ils sont dans l’erreur la plus totale. D’autres réalités en matière de politique mondiale ont créé des problèmes nouveaux – et des buts nouveaux –.

Le compte-rendu – incomplet – que nous avons essayé de faire ici ne tend ni à défendre ni à démolir certaines prises de position de naguère. Les faits parlent d’eux-mêmes.

Le national-bolchevisme allemand de 1918 à 1932 a été une tentative légitime pour former la volonté politique des Allemands. Personne ne peut dire avec certitude si, arrivé à son apogée, il aurait été une variante positive et heureuse, ou au contraire haïssable, de la révolte imminente (inspirée par l’idée collectiviste) des générations intermédiaires contre l’état bourgeois. Il s’est limité à des déclarations grandiloquentes, en fin de compte pré-politiques : la chance de faire ses preuves dans la réalité quotidienne lui a été refusée.

La majorité de ses représentants ont été des hommes intègres, désintéressés et loyaux, ce qui facilite peut-être aujourd’hui, même à ses adversaires de naguère, la tâche de le considérer uniquement, en toute objectivité et sans ressentiment, comme un phénomène historique.

(Aussenpolitik d’avril 1952)

 

 

 

Annexes

Le texte complet du Traité de Versailles (1919) peut être consulté sur le site :
http://mjp.univ-perp.fr/traites/1919versailles.htm

Sur Karl Otto Paetel, on lira l’intéressant article de Luc Nannens, intitulé « K.O. Paetel, national-bolcheviste » et paru dans le N° 5 de la Revue VOULOIR, désormais disponible sur le site suivant : http://vouloir.hautetfort.com/archive/2010/10/10/paetel.html (augmenté de références bibliographiques et de renvois à des articles complémentaires sur le thème).

Nos lecteurs anglophones pourront également consulter, les « Karl M. Otto Paetel Papers » sur http://library.albany.edu/speccoll/findaids/ger072.htm#history. On peut y mesurer la « masse » des écrits de K.O. Paetel non traduits en français à ce jour.

 

Sur Claus Heim et le Landvolkbewegung, on consultera avec profit la thèse de Michèle Le Bars, Le mouvement paysan dans le Schleswig-Holstein 1928-1932. Peter Lang, Francfort sur Main / Berne / New-York, 1986 (une brève biographie de Claus Heim fait partie des documents en annexe) mais aussi Michèle Le Bars, Le « général-paysan » Claus Heim : tentative de portrait, in Barbara Koehn (dir.) La Révolution conservatrice et les élites intellectuelles. Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2003. Bien évidemment pour des versions romancées, mais faisant revivre les événements de façon saisissante, on lire La Ville, d’Ernst von Salomon et Levée de fourches, de Hans Fallada.

 

Sur le Groupe Die Tat : on peut lire l’article d’Alex[andre] M[arc] Lipiansky, paru dans La revue d’Allemagne et des Pays de langue allemande, N°60, du 15 octobre 1932, Paris, intitulé : « Pour un communisme national. La revue Die Tat. ». Cet article a été republié intégralement par le bulletin privé C’est un rêve, N°11, automne-hiver 1996, Marseille. Il est également disponible sur le site de la BNF : http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5405292f.r=%22die+t.... D’autre part, Edmond Vermeil, dans son ouvrage Doctrinaires de la révolution allemande 1918-1932, (Fernand Sorlot, Paris, 1938) consacre le chapitre IV au Groupe de la « Tat » (aperçus disponibles sur Google Livres).

 

Sur le groupe des Adversaires (Gegner) on peut lire l’article d’Alexandre Marc paru dans La revue d’Allemagne et des Pays de langue allemande, N°66, du 15 avril 1933, Paris, intitulé : « Les Adversaires (Gegner) ». Cet article a été republié intégralement par le bulletin privé C’est un rêve, N°12, automne-hiver 1996, Marseille. On peut aussi le retrouver sur Gallica (en cherchant bien !)

 

 

NOTES



[i] Source : Documents - Revue mensuelle des questions allemandes - no 6/7 - juin-juillet 1952, pp.648-663 : Karl  A Otto Paetel "Le national-bolchevisme allemand de 1918 à 1932". Il s’agit de la traduction de l’article "Der deutsche Nationalbolschewismus 1918/1932. Ein Bericht," paru dans Außenpolitik, No. 4 (April 1952). [NDLR]

[ii] Karl Otto Paetel fait bien évidemment référence ici au livre de Lénine Le gauchisme, maladie infantile du Communisme : « Mais en arriver sous ce prétexte à opposer en général la dictature des masses à la dictature des chefs, c'est une absurdité ridicule, une sottise. Le plaisant, surtout, c'est qu'aux anciens chefs qui s'en tenaient à des idées humaines sur les choses simples, on substitue en fait (sous le couvert du mot d'ordre "à bas les chefs!") des chefs nouveaux qui débitent des choses prodigieusement stupides et embrouillées. Tels sont en Allemagne Laufenberg, Wolfheim, Horner, Karl Schroeder, Friedrich Wendel, Karl Erler. » et plus loin : « Enfin, une des erreurs incontestables des "gauchistes" d'Allemagne, c'est qu'ils persistent dans leur refus de reconnaître le traité de Versailles. Plus ce point d e vue est formulé avec "poids" et "sérieux", avec "résolution" et sans appel, comme le fait par exemple K. Horner, et moins cela paraît sensé. Il ne suffit pas de renier les absurdités criantes du "bolchevisme national" (Laufenberg et autres), qui en vient à préconiser un bloc avec la bourgeoisie allemande pour reprendre la guerre contre l'Entente, dans le cadre actuel de la révolution prolétarienne internationale. Il faut comprendre qu'elle est radicalement fausse, la tactique qui n'admet pas l'obligation pour l'Allemagne soviétique (si une République soviétique allemande surgissait à bref délai) de reconnaître pour un temps la paix de Versailles et de s'y plier. » (in Lénine, Œuvres complètes, Vol 31, p.37 et p. 70) [NDLR]

[iii] Le texte complet du « Programme » a été traduit par Louis Dupeux et joint aux documents accompagnant sa thèse Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression « National-bolchevisme » en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933), 2 volumes, Honoré Champion, Paris, 1976. [NDLR]

[iv] Sur Richard Scheringer, on consultera à profit l’article (en anglais) de Thimoty S. Brown, Richard Scheringer, the KPD and the Politics of Class and Nation in Germany: 1922-1969, in Contemporary European History, August 2005, Volume 14, Number 1

disponible sur le net :

http://www.history.neu.edu/faculty/timothy_brown/1/docume....

[v] Il existe une traduction française de ce livre : Oswald Spengler, Prussianisme et socialisme, Actes Sud, Arles, 1986.

[vi] Cf. Fritz KLOPPE, Der possedismus. Die neue deutsche wirtschaftsordnung. Gegen kapitalismus und marxistischen sozialismus; gegen reaktion und liberalismus., Wehrwolf-verlag, Halle, 1931

 

[vii] « Ohne mich-Bewegung » mené par Kurt Schumacher et dont les protestations seront portées par les syndicats, les intellectuels, les groupes chrétiens et les groupes féministes (en particulier la Westdeutsche Frauenfriedensbewegung).

vendredi, 31 décembre 2010

Die Furie des Bösen in der modernen Gesellschaft

Die Furie des Bösen in der modernen Gesellschaft

von Bernd Rabehl

Ex: http://www.hier-und-jetzt-magazine.de/

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Gesellschaften, vor allem in der Formation ihrer erweiterten ökonomischen und technologischen Reproduktion vollziehen als kulturelle und historische Gemeinschaften nach Konrad Lorenz permanente ,,Pendelschläge“. Sie erleiden Mutationen und Pathologien und finden trotzdem, erfolgt nicht der Kollaps, zurück zu einer inneren, allerdings relativen Stabilität und Ordnung. Allen diesen unterschiedlichen Pendelbewegungen entsprechen ,,kulturelle Werte“. Sie tragen auf der ,,linken Seite“ den Anspruch der Individualität und ihrer freien Entfaltung. Auf der ,,rechten Seite“ fordern sie die soziale und kulturelle ,,Gesundheit“. Erst ihre Überspitzungen als soziale Gleichheit oder organische Ordnung führen zu den Prozessen der nationalsozialistischen oder kommunistischen Diktaturen. Deren militärische Zerschlagung oder innerer Zusammenbruch erreichten schließlich eine ausgewogene Mitte, etwa die westliche Demokratie, ehe das Pendel sich weiter bewegte und neue Instabilitäten schuf.

Historisch und persönlich sind Konrad Lorenz und die einzelnen Vertreter der ,,Kritischen Theorie“, etwa Erich Fromm, Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Franz Neumann u. a. durch diese Pendelbewegungen hindurchgegangen und waren Zeuge der sozialen Exzesse. Der Naturwissenschaftler und Verhaltensforscher, Konrad Lorenz, hatte allein durch seine Forschung und wissenschaftliche Tätigkeit Berührungen mit der rassistischen Weltanschauung des Nationalsozialismus, die ab 1933 eine allgegenwärtige staatliche Macht verkörperte. Sie trumpfte ähnlich wie ihr Gegenpart, der stalinistische Kommunismus, wissenschaftlich auf und schien eine vermeintliche Rassenhierarchie in Europa und der Welt naturwissenschaftlich zu begründen. Dieser wissenschaftliche Anspruch verdeckte allerdings nur oberflächlich die ideologische Zielsetzung. Biologen und Verhaltensforscher, die in Deutschland zu diesem Zeitpunkt arbeiteten, gerieten über ihre Arbeiten und Forschungsinstitute in die Nähe zur NS-Ideologie.

Diese Korrespondenzen waren objektiv gegeben, reichten heute jedoch nicht zum Vorwurf gegen Konrad Lorenz aus, mit dieser Diktatur kollaboriert zu haben. Solange eine langwierige Trennung von diesem „Rassismus“ über die wissenschaftliche Arbeit erfolgte und er selbst nicht Anteil hatte an der „sozialen Pathologie“ von rassistisch begründetem Massenmord, konnte ein derartiger Vorwurf nicht erhoben werden. Die Mitgliedschaft in der NSDAP, in einer fast 10 Millionen starken Transformations- und Massenpartei, die die Bedingung und Voraussetzung sozialer Kontrollen der Bürger in der Diktatur war, bot nicht das Material für eine Anklage, selbst wenn Lorenz sich dem damaligen politischen Jargon verschrieb. Kollaborationen bezogen sich nie auf einen Punkt oder einen Augenblick, sondern mußten über lange Zeitspannen beobachtet werden. Seine wissenschaftlichen Erfolge und Differenzierungen vor und nach 1945 begründeten den Freispruch. Dem immanenten Kreislauf eines sozialen Systems konnte er sowieso nicht entfliehen, es sei denn, daß seine Tätigkeit in der Wehrmacht nach 1942 als eine derartige Flucht angesehen wurde.

Die Vertreter der sogenannten ,,Frankfurter Schule“ verließen Deutschland kurz nach 1933, weil sie keinerlei Illusionen hatten, daß diese Diktatur eine aus den Fugen geratene Welt stabilisieren könnte. Im Gegenteil war diese Macht Auslöser und Faktor wachsender Kriegsgefahr. Sie gingen als deutsche Juden nach Frankreich und danach sehr schnell in die USA, denn die deutsche Unruhe schien Europa zu erfassen und mit Krieg und Gewalt zu überziehen. Hier in den USA blieben sie theoretisch mit der deutschen Kultur verbunden. Sie dachten weiterhin ,,deutsch“ und bemühten die Philosophien von Georg Wilhelm Friedrich Hegel und Karl Marx, aber vor allem von Arthur Schopenhauer und Friedrich Nietzsche, um diesen Umschlag sozialer Entwicklung in Diktatur und Haß zu verstehen. Allein weil ihre Fragen sich auf Aggression, Angst, Entfremdung, Psychologie und Moral bezogen, nahmen sie die Arbeiten von Sigmund Freud und C.G. Jung auf. Ein historischer Optimismus war ihnen so fremd wie die Illusionen über das historische Zeitmaß. Deshalb trennten sie sich vom Kommunismus und der politischen Arbeiterbewegung und standen dem amerikanischen Liberalismus und Konservatismus äußerst skeptisch gegenüber. Letztlich blieben sie deutsche Denker in einem fremden Land. Aber auch sie wurden von dem Pendelschlag gesellschaftlicher Mutationen erreicht. Die USA machten militärisch mobil gegen Japan und das Deutsche Reich und Herbert Marcuse und Franz Neumann stellten sich der Organisation of Strategic Services (OSS), dem Vorläufer der CIA, zur Verfügung.

Gefangen im Labyrinth

Sie bereiteten die militärische Besetzung Deutschlands und Europas vor, indem sie Untersuchungen über den sozialen und ideologischen Zustand der deutschen Gesellschaft vornahmen. Sie schrieben dabei gegen Pläne des amerikanischen Finanzministers Morgenthau an, Deutschland durch einen Bombenkrieg militärisch zu zerstören, politisch zu zerstückeln und zu deindustrialisieren. Nach ihrer Überzeugung hatte das ,,deutsche Volk“ nur bedingt Anteil an dem totalen Krieg gegen die Juden und andere europäische Völker. Ein hochindustrialisiertes Land mit seinen Facharbeitern, Ingenieuren, Wissenschaftlern und Spezialisten durfte weder zerschlagen, bestraft oder erniedrigt werden, sondern mußte zurückgeführt werden in eine westliche Friedensordnung. Die deutschen Kulturleistungen durften nicht ignoriert oder gar zerstört werden. Es wäre heute vollkommen abwegig, Marcuse oder Neumann die Mitarbeit in OSS und CIA vorzuwerfen, zumal sie im Sinne der deutschen Kultur dort positive Arbeit verrichteten. Die politischen Verstrickungen von Konrad Lorenz und den Repräsentanten der ,,Kritischen Theorie“ mit Diktatur oder Geheimdienst waren die Voraussetzungen und die Bedingungen ihrer wissenschaftlichen Arbeit. Niemand konnte dem Labyrinth gesellschaftlicher Zusammenhänge entfliehen. Bedeutsam blieb, inwieweit sie ,,Schuld“ auf sich nahmen und Anteil hatten an den sozialen Exzessen von Diktatur oder ,,Kriegsmaschine“. Es ist deshalb verständlich, daß Konrad Lorenz Herbert Marcuse verteidigte, dem von Seiten der französischen Studentenrevolte nach 1968 vorgeworfen wurde, CIA-Agent gewesen zu sein.

Bei allen methodischen und gedanklichen Unterschieden zwischen dem Naturwissenschaftler und Ethologen Konrad Lorenz und den Philosophen, Psychologen, Rechtswissenschaftlern und Soziologen der ,,Kritischen Theorie“ bestand eine erstaunliche Übereinstimmung in der Einschätzung der ,,sozialen Krankheiten“ der modernen Gesellschaft, deren Inkarnation die USA waren. Lorenz hatte hier vor 1933 studiert und besuchte nach 1948 immer wieder die nordamerikanischen Forschungseinrichtungen, Kongresse und Universitäten. Neumann und Marcuse wurden US-Bürger, andere wie Adorno und Horkheimer kehrten nach 1945 nach Frankfurt/Main zurück, wo sie das Institut für Sozialforschung neu einrichteten. Alle kannten sie die Größe und die Absurditäten dieser Gesellschaft. Was hier passierte, würde sehr bald den ,,Rest“ der Welt erreichen.

Für Lorenz und die kritischen Kritiker waren die USA Ausdruck sozialer Pathologien oder Neurosen, die die soziale Stabilität auflösten und in ein Extrem von ,,Wahnsinn“ und Brutalität trieben. Nach Lorenz wurden hier ökologische Katastrophen vorbereitet und entstanden Menschenkrüppel, die durch ihre Gefühlskälte, durch ihren Konsumtrieb, Arbeitshetze und die wachsende Gleichgültigkeit parasitäre und asoziale Verhaltensweisen vorbereiteten, die jede Lebensgemeinschaft oder Soziität zerfetzen mußten. Die menschliche Gattung bewegte sich in die Selbstzerstörung durch Atomkrieg oder durch ökologische Katastrophen.

Soziale Pathologien

Für die ,,Frankfurter“ waren die USA Beleg für eine ,,negative Dialektik“. Nicht der technologische und soziale Fortschritt wurde durch die gesellschaftliche Entwicklung vorbereitet, sondern der allgemeine Niedergang, Dekadenz und Zerfall zeigten sich in dieser entwickelten Gesellschaft des modernen Kapitalismus. Die NS-Diktatur, der Stalinismus oder der Realsozialismus waren jeweils nur Durchgangspunkte zu einem modernen Totalitarismus, der in den USA seine ,,weiche“ Heimstatt gefunden hatte. Die Auflösung der Klassen und die Formierung von Massen als Objekte politischer oder marktmäßiger Inszenierungen schufen einen konvertiblen Massenmenschen, der mit seiner ,,Persönlichkeit“ den Charakter verloren hatte und der durch die unbewußten Ängste und Aggressionen beliebig manipulierbar war. Er war ein Bündel aus Haß und Wut, der den Fremden als permanente Bedrohung sah und deshalb empfänglich war für rassistische Ideologien oder für eine autoritäre Ordnung. Der Nationalsozialismus feierte in den USA als ,,alltäglicher Faschismus“ seine subtile Auferstehung.

Der Mensch wurde zu einem psychopathologischen Reaktionswesen erklärt, das jeweils auf Reize, Farben, Töne, Versprechungen, Wünsche und Bilder reagierte und von außen geformt wurde und keinerlei Gewissen oder Verantwortung mehr besaß. Der Tod war ihm so egal wie die Liebe. Der Tod wurde verdrängt oder zum Medienspiel verdünnt und die Liebe auf pure Sexualität, Besitz und Macht beschränkt. Der ,,eindimensionale“ Mensch hatte keinerlei Moral und war ein Aggregat aus Reizen und Emotionen, eine Freß-, Sauf- und Konsummaschine, ein Machwerk aus Funktionen und Frustrationen, ein außermenschlicher Mensch, der von Diktatoren oder Manipulatoren beliebig einsetzbar war. Soziale Widersprüche fanden ihren Endpunkt. Das Ende der Geschichte war erreicht. Die Menschen würden sich selbst zerstören und ihre organischen Systeme als Familien, Staaten und Gesellschaften austilgen. Der Planet würde die Gattung Mensch durch die Machenschaften der Menschen verlieren.

Konrad Lorenz würde die Aussagen dieser Kritiker verstehen, aber ihre Begründungen nicht nachvollziehen können, waren sie doch philosophisch, religiös und moralisch angelegt. Umgekehrt würden diese Philosophen Zweifel anmelden, ob soziale Verhaltensweisen, die bei Tieren beobachtet wurden, auf die menschliche Gattung übertragbar waren und ob über Mutationen und Selektionen neue Instinkte beim Menschen entstanden, die alle Kulturleistungen überdeckten bzw. diese umformten. Für diese kritischen Philosophen und Soziologen gab es eine Barriere zwischen Mensch und Tier. Der Mensch als ,,soziales Tier“ distanzierte sich über Sprache, Moral, Religion, Gesellschaft von den Tieren und verlor weitgehend die Instinkte bzw. ersetzte sie durch Denken, Arbeit, Arbeitsteilung, Kultur, Erziehung, Institutionen, Technologie, Maschinen, Religion und Ideologie. Umgekehrt würde Lorenz diese Grenze nicht akzeptieren und deutlich machen, daß sie aus ideologischen und religiösen Gründen gezogen wurde, um das ,,Tier“ im Menschen nicht zu benennen, den ,,Urmenschen“, der aus dem Tierreich gekommen war und viele seine Verhaltensweisen und Instinkte in die entstehenden Gesellschaften hinübergerettet hatte.

Soziales Tier oder „Black Box“?

Konrad Lorenz wußte von den unterschiedlichen Vereinnahmungen der Naturwissenschaften und der Ethologie durch die totalitären Ideologien, bei denen der Marxisrnus-Leninismus viel konsequenter auftrat als der oberflächlich „improvisierte“ Rassismus im Nationalsozialismus. Lorenz war deshalb bestrebt, die Grenzen und Übergänge von Naturwissenschaft, Soziologie und Psychologie zu benennen. Die Denker der Frankfurter Schule würden eher der Logik Hegels folgen und den Widerspruch zwischen Natur- und Sozialwissenschaften herausstellen. Beide Wissenschaftsformen hatten unterschiedliche Objekte ihrer Forschung zur Grundlage und ließen sich nur bedingt übertragen und diese Übersetzung benötigte eine grundlegende Reflektion, um banale und gefährliche Analogieschlüsse zu vermeiden. Bei Lorenz dominierte das Interesse, die Konditionierung von Verhaltensweisen bei Tieren und Menschen, die Instinktbildung und die fortlaufende Pathologisierung bei schnellen Veränderungen der äußeren Bedingungen nachzuweisen. Bei den Frankfurtern interessierten philosophische Fragestellungen, die Trieb und Aggressionslehre der Psychoanalyse, die Fetischisierung von Markt und Marketing.

Die amerikanische Verhaltenswissenschaft stand den Forschungsansätzen der Ethologie von Lorenz konträr entgegen, denn sie ignorierte die natürliche, verhaltensmäßige und soziale Vorgeschichte und Tradition des Menschen und behauptete, daß er als eine ,,black box“ zu behandeln sei, eine ,,tabula rasa“ darstellte, und daß nur interessant war, was er unmittelbar aussagte, vorstellte und welchen Reizen er folgte. Eine derartige ,,Freisetzung“ des Menschen von allen natürlichen und sozialen Bindungen entsprach der amerikanischen Ideologie von Freiheit, Raum und Bewegung und diente dem amerikanischen Traum, alles zu erreichen. Eine derartige Sichtweise akzeptierte, daß der ,,traditionslose“ Mensch Objekt der Manipulationen, Indoktrinationen und Inszenierungen wird.

1 Konrad Lorenz: Die acht Todsünden der zivilisierten Menschheit, München 1973, S. 819, S. 27, S. 33 ff.; Konrad Lorenz in: Enceklopaedia Britannica, 1994 – 2001; Herbert Marcuse: Antidemokratische Volksbewegungen, in. Ders.: Nachgelassene Schriften: Das Schicksal der bürgerlichen Demokratie, Peter Erwin Jansen (Hg.), Lüneburg 1999, s.29 ff;

Ders. Der eindimensionale Mensch, Studien zur Ideologie der fortgeschrittenen Industriegesellschaft, Neuwied 1985, 5.
15,3.18; Alfons SölIner. Zur Archäologie der Demokratie in Deutschland – eine Forschungshypothese zur theoretischen Praxis der kritischen Theorie im amerikanischen Geheimdienst‘ Frankfurt 1987, S. 7ff.;

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jeudi, 30 décembre 2010

Bernd Rabehl: American Democratic Dictatorship is Merely Another Form of Fascism

Bernd Rabehl: American Democratic Dictatorship is Merely Another Form of Fascism

Ex: http://de-construct.net/

rabehl.jpgHow was Germany Occupied, Subjugated and Colonized Under the Guise of “Denazification”

Berlin University Professor Dr. Bernd Rabehl, closest associate of Rudi Dutschke (leader and spokesman of the left-wing German student movement of the 1960s), is regarded by the followers and critics alike as the “most important theoretician of the 1968 student movement in Germany”. One of the first genuine dissidents in the West who fought against both left and right-wing dictatorship, Rabehl asserts the U.S. hegemony has destroyed freedom and culture in Europe, under the pretext of spreading democracy and “American way of life”.

“American war against Serbia was first and foremost directed against Russia. What I don’t understand is why did the German government allow itself to be drawn in the war against Serbia. Because, one of the most important tasks for Germany should be precisely building good relations with Russia. Germany has missed a historical opportunity — we already fought the blood soaked wars with Russia, it is the last minute to finally start a long-term policy of peace with Kremlin,” Rabehl told Nikola Živković, Belgrade journalist.

Q: Together with Dutschke, you have created the concept of the Green Party. What do you think about that political party today?

A: Present-day Greens are indistinguishable from the liberals. They defend the interests of lawyers, judges, architects… They were active in the student movement in 1968, but today they too enjoy the highest standard of living, immersed in materialism. At the world stage, they became the chief advocates of an imperial idea. I’m including here the former German Minister of Foreign Affairs Joschka Fischer, although he didn’t play a significant role in the 1968 student movement.

Present-day Greens unconditionally support the U.S. and Israel policy. They are in no way disturbed by the fact they protested against the American imperial policy in Vietnam in 1968, while today they support the United States imperial policies everywhere. I assume some of them were bought and some were blackmailed.

Q: Rudi Dutschke would say: “If we don’t provoke, no one will pay attention to us”. Today too, it doesn’t do without provocations…?

A: There is no other way, we must provoke, but only within the bounds of law and constitution. There are so many taboos today, especially in Germany, subjects one is prohibited to even think about! Veritable crusades are lead against those who dare to violate those taboos.

Dutschke and I always spoke about the need to liberate Germany on a national level. We were against the American policy. We never lost sight of the fact Germany is not free, it is an occupied country.

Q: How would you define present-day Germany?

A: As a democratic dictatorship. The proof is the widespread corruption and affairs only shreds of which are allowed to reach the media. The power is in the hands of a clique which is slowly but surely extinguishing the last benefits of democracy. There are no real disagreements between the political parties — there is only a ritual and circus staged for the wide population, where the TV carries a Bundestag “debate” about the social problems, for example. The voters go to elections, but they really do not decide about anything. Two leading political parties are being sold to the voters in the same way the best known TV or car brands are sold. The voters are asked: “Sony” or “Philips”, “Volkswagen” or “Peugeot”?

“Democratization” as Leveling all the Cultural and National Differences

Q: Jürgen Habermas [German sociologist adhering to American pragmatism] called you and Dutschke the “left fascists”…

A: Neither Dutschke nor I are in any shape or form the “left fascists” — we could perhaps say that for Goebbels.

Habermas attacked Dutscke in 1967, but not as a professor who uses arguments, but as a denunciator. He wasted no time to declare Dutschke a state enemy number one. In such a situation, critical thinking becomes useless. Habermas simply asserts that everyone who criticizes United States is a “left fascist”. Habermas supported the bombardment of both Serbia and Iraq, he is an ideologist of the ruling socio-liberal clique and, as such, he was given countless awards by the establishment in Germany and West in general.

Q: You say the European countries have no sovereignty, that they are in a vassal relationship with Washington. Does that include Germany?

A: Even Brzezinski has admitted this. In addition to the economic, monetary, military and technological superiority, United States are striving to impose some sort of civilizational, ideological hegemony — an “American way of life”. This term involves not only the way of life, which boils down to consumerism, but also the “industry of culture”. The main goal of American “culture” is destruction of the traditional European culture. The US is striving to destroy the old Asian cultures too, mainly the culture of China, India and Japan. United States are “democratizing” — leveling all the cultural forms. When Washington speaks about the “end of history”, it wants to say it plans to ensure and secure American hegemony for all the time.

Q: That, of course, is impossible…

A: Of course. American ruling establishment is no longer maintaining the culture of dialogue and critique. There are only phrases, commercials, pictures offering new products. What dominates is the neutral, non-political tone. Over ten American aircraft carriers are cruising the world seas at all times, in the state of readiness 24/7. Only United States can afford such a pricey luxury. Their superiority and riches have a fascinating appearance. But our European or Chinese memory is much longer than Washington itself and we know very well from the history that no superpower can last forever.

Q: Where does the danger lie for Washington?

A: Not in the outside enemies, but on the inside. In the past half a century the non-European immigrants have flooded United States, so the white, European population will soon become a minority. The most numerous workers will be from Latin America, and the economic and scientific elite will consist of the Asians, primarily Chinese. Brzezinski is also expressing fear that in the near future “American” elite will become Asian. The only question is when. Some say in 20 years or so, the others are convinced this will happen sooner.

Debt to American Banks Made European States Easy Prey to American Imperialism

Q: Let’s go back to our Europe. After 1945 it has lost sovereignty…

mein-freund-rudi-dutschke-21016595.jpgA: United States even today have the right to intervene in the internal affairs of every European Union member state, and especially in Germany. It is not necessary to use military force for this. How was that achieved? After 1945, German elite went through the process of re-education. US was also exerting influence over the policies of German syndicates and political parties.

Q: When did the decisive American influence on Europe take place?

A: This influence started with the First World War. England and France were buying war supplies, wheat, machines in United States. American banks approved credits for purchase of these goods. England, France and the other Entente powers were indebted by the American banks and American government. After 1918, these debts represented the basis for American influence in Europe. After 1918, a defeated Germany was also given credits by the American banks. This was felt already in 1919, during the Versailles Conference, where the new European order was being created.

The U.S. Dictatorship — Reducing Collective to a Mass of Impotent Consumers

Q: Tell us more about the “re-education” of Germany…

A: After Germany was militarily defeated in 1945, American occupation forces organized consultations and meetings with American sociologists, psychologists, economy experts and anthropologists. A number of German Jews were involved in the project, as well as German emigrants (mostly social-democrats), who spent the war years in United States. The main subject was how to solve the “German question”. Some 2,000 scientists were involved in this project, which was headed by the Organization of Strategic Services [OSS], controlled by the American military leadership stationed in Germany.

The OSS had a task to describe, as precisely as possible, the economic, cultural and social situation in conquered Germany. Still, there were disagreements among the scientists.

Q: Who were the prominent critics of this project?

A: Two philosophers gained prominence among the critics of the blind copying of American model: Max Horkheimer and Theodor Adorno. They started from the premise that totalitarian dictatorship which existed in Nazi Germany does not represent some specifically German case. There is a democratic dictatorship in United States, which managed to prevent the conflicts between the social organizations and classes, simply because all of them became a part of the regime. Instead of confronted classes, in U.S. there are only consumers. There is no collective, only individuals who buy and spend. The entire industry is involved in satisfying the needs of consumers: media, commercials, advertising, market, sports and show business. In that way the individual is more thoroughly encompassed and controlled then it was ever possible in the authoritarian society of the Nazi Germany or Soviet Union under Stalin. The mobilization of the masses in American society is carried out far more efficiently, because there, as opposed to the Nazi regime, there is no need to ever reach for the enforcement of the state apparatus. The “values” promoted by the advertising agencies represent an ideal of every American citizen.

Q: This was also the position of Herbert Marcuse, the main ideologue of the 1968 student movement?

A: Marcuse fascinated us with the radical ideas. According to him, the Nazi movement wasn’t a specifically German product, but a logical consequence of a developed industrial society. The Nazi dictatorship and American hegemony are not two opposed social systems, they are rather the two forms of the authoritarian power system. Hitler was mobilizing masses with immense military parades, American type of democracy achieves this mobilization much more completely and less expensively with TV commercials, sport competitions and spectacles, where the people are reduced to the faceless mass, the audience.

Scientists as Controllers and Denunciators

Q: Who were the advocates of the concept which opposed Horkheimer, Adorno and Marcuse?

A: This group was headed by [American sociologist] Talcott Parsons. He advocated the view according to which the American society was a result of “productive symbiosis of democratic ideas and institutions”. He claimed that, unlike Germany, American society has succeeded to successfully repress the “reactionary forces”. According to Parsons, that is why the US managed to develop democratic dynamics in politics, economy and in culture, and that is why this type of democracy should serve as a blueprint for Europe.

This line of thinking sees the main task of sociologists, politicologists, communication experts and psychologists in pedantically analyzing the state of society, in order to give a timely warning to the political and economic leaders in case of a national discontent.

Therefore, the scientists become the carriers of the covert control and the hegemony of the system. They believe they can forecast the crisis, so the ruling elite shouldn’t worry. Scientists are also employed in state services, in the ministries, police force, political parties, army, secret services… The scientist’s job is to find and expose the opponents of the system, and then to persuade them every struggle is predestined to fail. In short, every resistance to the existing American system is futile. If they do not succeed to persuade them, the state scientists utilize threats and denunciations. In Germany after 1968, this role was given to Jurgen Habermas.

Q: What tasks have these American experts set before themselves back in 1945?

A: The aim of the project was to replace the Nazi elite, to reshape the people’s psyche and destroy the German national tradition. They mostly succeed.

Power-Hungry Establishment Served by Dishonorable NGOs

Q: Some of your buddies from 1968 are today ministers…

rudi_dutschke.jpgA: I was shocked when I saw how quickly people can discard their ideals, literally overnight, and step in the roles of “important politicians”. I’m horrified by the barefaced hatred of these people towards their own German nation. Tossed in the garbage bin are the great achievements of the German workers’ movement, German conservatism and liberalism. I, on the other hand, believe the European culture can only exist as the sum of different, national cultures, and not some amorphous mass drowned in the common cauldron as a unified “Coca-Cola culture”.

Q: In today’s Germany, each opposition party which calls for national tradition is labeled “extremist” or “neo-Nazi”. How does one defend oneself from the rampant branding?

A: With the clear and precise language, with the force of arguments. The ruling parties and non-governmental organizations which serve them are showing that the danger of a new totalitarian society is coming from themselves.

After the fall of the Berlin wall, we have more and more obvious concentration of power in the West. The capital, media and politics represent the “holy trinity” of the unchecked power not only in United States, but also in Europe. The most influential Westerners are most often resembling the Warsaw Pact leaders. In order to preserve privileges, establishment is using manipulations and denunciations, exerting efforts to criminalize every attempt at true opposition. “Political correctness” also serves this purpose. In this, the non-governmental sector plays a very important, dishonorable role. This particular maneuver discourages every attempt to think for oneself and suffocates a desire for national freedom. The very recalling of national history is instantly stigmatized as the “right-wing radicalism”.

History as a Tool in Demonizing the Enemy of the Day

Q: Germany took part in the NATO aggression against Serbia. It did not take part in the war against Iraq, but today German troops are present both in Afghanistan and now even in Lebanon…

A: In 1966 Washington was forced to give up on the idea of sending German soldiers to Vietnam. Today the slogans “Germans to the front!” are becoming ever louder. German soldiers, of course, are not taking part in the interventions as an independent factor which would take care of its own national interests, but as the cannon fodder — the more Germans get killed, the more American lives will be spared. This is regarded as the Germans still paying off the WWII debts. After 1945, Germans were reared to become the “nation without tradition and culture”. It is easy to manipulate such nation. German political elite feels no responsibility whatsoever for their own country.

Q: Do you view NATO bombardment in the same context?

A: Yes, quite. German media also took part in the propaganda war against Serbia. Together with German politicians, our media outlets were actively involved in demonization of the Serbian state. They simply compared it with Nazi Germany. It seems that for such people history exists only to allow drawing of the cheap parallels, in order to be able to successfully demonize the enemy of the day.

For example, German television showed the mound of corpses from Auschwitz as an illustration of what Serbia allegedly could do… And all of it, of course, in the name of “human rights, protection of minorities and justice”. Therein lies the cynicism of the “leader of the free world” and the alleged advocate of the freedom of media.

Q: How was it possible to bomb a capital of a European state at the end of 20th century?

A: In this case Germany must have resisted American requests. After all, it violated its own constitution, which prohibits Germany to conduct wars, and this bombardment didn’t even have a UN mandate.

Secret Services Blocking Movements for Reaffirming Cultural Identity

Q: Your political engagement hasn’t been unnoticed. What is the goal of your political activism?

A: I am fighting to finally have a dialogue opened. The process of European unification shouldn’t have only economic but, most of all, a cultural dimension. This cannot be achieved with the European political elite and its bureaucracy. I am fighting for the European cultural identity in which the main role will belong to the European nations. Of course, I’m perfectly aware this cannot be achieved by an individual. Foreign secret services operating in Germany and other EU states are doing all in their power to block this process. This is especially true for the secret services from allegedly friendly states, the most active of which in Germany are the American and Israeli secret service — CIA and Mossad.

Arno Breker & the Pursuit of Perfection

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Zeus Hangs Hera at the World’s Edge:
Arno Breker & the Pursuit of Perfection

Jonathan BOWDEN

Ex: http://www.counter-currents.com/

Arno Breker (1900–1991) was the leading proponent of the neo-classical school in the twentieth century, but he was not alone by any stretch of the imagination. If we gaze upon a great retinue of his figurines, which can be seen assembled in the Studio at Jackesbruch (1941), then we can observe images such as Torso with Raised Arms (1929), the Judgment of Paris, St. Mathew (1927), and La Force (1939). All of these are taken from the on-line museum and linkage which is available at:

http://ilovefiguresculpture.com/masters/german/breker/bre...

The real point to make is that these are dynamic pieces which accord with over three thousand years of Western effort. They are not old-fashioned, Reactionary, bombastic, “facsimiles of previous glories,” mere copies or the pseudo-classicism of authoritarian governments in the twentieth century (as is usually declared to be the case). Joseph Stalin approached Breker after the Second European Civil War (1939–1945) in order to explore the possibility for commissions, but insisted that they involved castings which were fully clothed. At first sight, this was an odd piece of Soviet prudery — but, in fact, politicians as diverse as John Ashcroft (Bush’s top legal officer) and Tony Blair refused to be photographed anywhere near classical statuary for fear that any proximity to nudity (without Naturism) might lead to their tabloid down-fall.

breker2.jpgAll of Breker’s pieces have precedents in the ancient world, but this has to be understood in an active rather than a passive or re-directed way. If we think of the Hellenism which Alexander’s all-conquering armies inspired deep into Asia Minor (and beyond), then pieces like the Laocoön at the Vatican or the full-nude portrait of Demetrius the First of Syria, whose modelling recalls Lysippus’ handling, are definite precursors. (This latter piece is in the National Museum in Rome.) Yet Breker’s work is quite varied, in that it contains archaic, semi-brutalist, unshorn, martial relief and post-Cycladic material. There is also the resolution of an inner tension leading to a Stoic calm, or a heroic and semi-religious rest, that recalls the Mannerist art of the sixteenth century. Certain commentators, desperate for some sort of affiliation to modernism in order to “save” Breker, speak loosely of Expressionist sub-plots. This is quite clearly going too far — but it does draw attention to one thing . . . namely, that many of these sculptures indicate an achievement of power, a rest or beatitude after turmoil. They are indicative of Hemingway’s definition of athletic beauty — that is to say, grace under pressure or a form of same.

This is quite clearly missed by the well-known interview between Breker and Andre Muller in 1979 in which a Rottweiler of the German press (of his era) attempts to spear Breker with post-war guilt. Indeed, at one dramatic moment in the dialogue between them, Muller almost breaks down and accuses Breker of producing necrophile masterpieces or anti-art (sic). What he means by this is that Breker is artistically glorifying in war, slaughter, and death. As a Roman Catholic teacher of acting once remarked to me, concerning the poetry of Gottfried Benn, it begins with poetry and ends in slaughter. Yet the answer to this ethical ‘plaint is that it was ever so. Artistic works have always celebrated the soldierly virtues, the martial side of the state and its prowess, and all of the triumphalist sculpture on the Allied side (American, Soviet, Resistance-oriented in France, etc. . . .) does just that. As Wyndham Lewis once remarked in The Art of Being Ruled, the price of civility in a cultivated dictatorship (he was thinking of Mussolini’s Italy) might well be the provision of an occasional Gladiator in pastel . . . so that one could be free from communist turmoil, on the one hand, and able to continue one’s work in serenity, on the other. Doesn’t Hermann Broch’s great post-modern work, The Death of Virgil, which dips in and out of Virgil’s consciousness as he dies, rather like music, not speculate on his subservience to the Caesars and his pained confusion about whether the Aeneid should be destroyed? It survived intact.

Nonetheless, the interview provides a fascinating crucible for the clash of twentieth century ideas in more ways than one. At one point Muller’s diction resembles a piece of dialogue from a play by Samuel Beckett (say End-Game or Fin de Partie); maybe the stream-of-consciousness of the two tramps in Waiting for Godot. For, whether it’s Vladimir or Estragon, they might well sound like Muller in this following exchange. Muller indicates that his view of Man is broken, crepuscular, defeated, incomplete and misapplied — he congenitally distrusts all idealism, in other words. Mankind is dung — according to Muller — and coprophagy the only viable option. Breker, however, is of a fundamentally optimistic bent. He avers that the future is still before us, his Idealism in relation to Man remains unbroken and that a stratospheric take-off into the future remains a possibility (albeit a distant one at the present juncture).

brekerhumilite.jpgAnother interesting exchange between Muller and Breker in this interview concerns the Shoah. (It is important to realise that this highly-charged chat is not an exercise in reminiscence. It concerns the morality of revolutionary events in Europe and their aftermath.) By any stretch, Breker declares himself to be a believer and that the criminal death through a priori malice of anyone, particularly due to their ethnicity, is wrong. At first sight this appears to be an unremarkable statement. A bland summation would infer that the neo-classicist was a believer in Christian ethics, et cetera. . . . Yet, viewed again through a different premise, something much more revolutionary emerges. Breker declares himself to be a “believer” (that is to say, an “exterminationist” to use the vocabulary of Alexander Baron); yet even to affirm this is to admit the possibility of negation or revision (itself a criminal offense in the new Germany). For the most part contemporary opinion mongers don’t declare that they believe in Global warming, the moon shot, or the link between HIV and AIDS — they merely affirm that no “sane” person doubts it.

Similarly, even Muller raises the differentiation in Breker’s work over time. This is particularly so after the twin crises of 1945 and 1918 and the fact that these were the twin Golgothas in the European sensibility — both of them taking place, almost as threnodies, after the end of European Civil Wars. Germany and its allies taking the role of the Confederacy on both occasions, as it were. Immediately after the War — and amid the kaos of defeat and “Peace” — Breker produced St. Sebastien in 1948, St. George (as a partial relief) in 1952, and the more reconstituted St. Christopher in 1957. (One takes on board — for all sculptors — the fact that the Church is a valuable source of commissions in stone during troubled times.) All of this led to a celebration of re-birth and the German economic miracle of recovery in his unrealized Resurrection (1969) which was a sketch or maquette to the post-war Chancellor Adenauer. Saint Sebastien is interesting in its semi-relief quality which is the nearest that Breker ever comes to a defeated hero or — quite possibly — the mortality which lurks in victory’s strife. Interestingly enough, a large number of aesthetic crucifixions were produced around the middle of the twentieth century. One thinks (in particular) of Buffet’s post-Christian and existential Pieta, Minton’s painting in the ‘fifties about the Roman soldiery, post-Golgotha, playing dice for Christ’s robes, or Bacon’s screaming triptych in 1947; never mind Graham Sutherland’s reconstitution of Coventry Cathedral (completely gutted by German bombing); and an interesting example of an East German crucifixion.

This is a fascinating addendum to Breker’s career — the continuation of neo-classicism, albeit filtered through socialist realism, in East Germany from 1946–1987. An interesting range of statuary was produced in a lower key — a significant amount of it not just keyed to Party or bureaucratic purposes. In the main, it strikes one as a slightly crabbed, cramped, more restricted, mildly cruder and more “proletarianized” version of Breker and Kolbe. But some decisive and significant work (completely devalued by contemporary critics) was done by Gustav Seitz, Walter Arnold, Heinrich Apel, Bernd Gobel, Werner Stotzer, Siegfried Schreiber, and Fritz Cremer. His crucifixion in the late ‘forties has a kinship (to my mind) with some of Elisabeth Frink’s pieces — it remains a neo-classic form whilst edging close to elements of modernist sculpture in its chthonian power and deliberate primitivism. A part of the post-maquette or stages of building up the Form remains in the final physiology, just like Frink’s Christian Martyrs for public display. Perhaps this was the nearest a three-dimensional artist could get to the realization of religious sacrifice (tragedy) in a communist state.

Anyway, and to bring this essay to a close, one of the greatest mistakes made today is the belief that the Modern and the Classic are counterposed, alienated from one another, counter-propositional and antagonistic. The Art of the last century and a half is an enormous subject (it’s true) yet Arno Breker is one of the great Modern artists. One can — as the anti-humanist art collector Bill Hopkins once remarked — be steeped both in the Classic and the Modern. Living neo-classicism is a genuine contemporary tradition (post Malliol and Rodin) because photography can never replace three-dimensionality in form or focus. Above all, perhaps it’s important to make clear that Breker’s work represents extreme heroic Idealism . . . it is the fantastication of Man as he begins to transcend the Human state. In some respects, his work is a way-station towards the Superman or Ultra-humanite. This remains one of the many reasons why it sticks in the gullet of so many liberal critics!

One will not necessarily reassure them by stating that Breker’s monumental sculptures during his phase of Nazi Art were modeled (amongst other things) on the Athena Parthenos. The original was over forty feet high, came constructed in ivory and gold, and was made during the years 447–439 approximately. (The years relate to Before the Common Era, of course.) The Goddess is fully armoured — having been born whole as a warrior-woman from Zeus’ head. There may be Justice but no pity. A winged figure of Victory alights on her right-hand; while the left grasps a shield around which a serpent (knowledge) writhes aplenty. A re-working can be seen in John Barron’s Greek Sculpture (1965), but perhaps the best thing to say is that the heroic sculptor of Man’s form, Steven Mallory, in Ayn Rand’s Romance The Fountainhead is clearly based on Thorak: Breker’s great rival. Yet the “gold in the furnace” producer of a Young Woman with Cloth (1977) remains to be discovered by those tens of thousands of Western art students who have never heard of him . . . or are discouraged from finding out.

lundi, 27 décembre 2010

?Existio una Konservative Revolution en Espana?

¿EXISTIÓ UNA KONSERVATIVE REVOLUTION EN ESPAÑA?
 
Ortega y Gasset y las generaciones de combate
Sebastian J. Lorenz
 
Si en algo están de acuerdo los cronistas que han escrito sobre la Konservative Revolution –como Mohler, Locchi, Steuckers, Pauwels o Romualdi, entre otros- es que aquel movimiento espiritual e intelectual manifestado a través de las ideas-imágenes (Leitbild) y expresado por el oxímoron “revolución - conservación” (fórmula poco afortunada pero con arraigo) no fue exclusivamente un fenómeno alemán, sino que también registrará diversos ritmos e impulsos –siempre de forma individual, nunca organizada- por todo el viejo continente europeo.
Así que, a poco que estemos dispuestos a escarbar en el frágil tejido europeo de entreguerras, siempre encontraremos algún nuevo autor que encaja con los parámetros generales que han sido descritos para los “revolucionario conservadores”: nunca llegará a ser como la lista de integrantes del movimiento alemán estudiada por Mohler, pero esta labor de investigación nos trasladaría a países como Francia, Italia, Bélgica, Holanda, Suecia, Rumanía e, incluso, Rusia.
En su famoso “manual” sobre la Konservative Revolution en Alemania (inédito en español), Armin Mohler avala la tesis según la cual la “revolución conservadora” no habría sido un movimiento exclusivamente alemán, sino un fenómeno político que abarca a toda Europa. En un breve recorrido por los países europeos apunta varios nombres (Dostoyevski, Sorel, Barrés, Pareto, Lawrence, por citar algunos de ellos). ¿Y en España? Al filósofo, político y escritor Miguel de Unamuno y, una generación después, a Ortega y Gasset. Unamuno se movía en un terreno ideológico que fue compartido, por ejemplo, por otros intelectuales de la época como Ganivet, Baroja, Azorín o Maeztu: el rechazo espiritual (irracionalista) de las corrientes materialistas decimonónicas, esto es, el nacionalismo centralizador e imperialista, el socialismo deshumanizante, la democracia, el liberalismo, el progresismo, el cientifismo y la industrialización.
Transversalizando las ideas y las imágenes de este grupo de pensadores, con la recepción global –pero nunca homogénea ni uniforme- de la filosofía nietzscheana, comprobamos cómo triunfa en todos ellos el recurso a una palangenesis de renacimiento o “regeneración española y europea” que tenía como precursor a Donoso Cortés y, posteriormente a esta generación, a Ortega y Gasset como pensador y propagador. Y precisamente por él comenzaremos este estudio, después de unas consideraciones generales para situacionar el contexto histórico y político del fenómeno “revolucionario-conservador” y “euro-regeneracionista” español.
Si hubo algo parecido en España a la Konservative Revolution alemana, este movimiento/pensamiento de lo ideo-imaginario” –por el valor otorgado a las imágenes- debió surgir necesariamente a partir de la crisis generacional de 1898. Pensemos que 1900 es el año de la muerte de Nietzsche y unos diez años antes de esta fecha es el momento que puede tomarse como punto de partida en la recepción de su pensamiento por una corriente filosófica espiritualista y culturalista que transversaliza toda Europa (también en 1900 se traduce el primer libro de Nietzsche al español). En palabras de Julián Marías, el mejor conocedor de la obra de Ortega, “una época intelectual de espléndida y admirable porosidad”.
No hay que esperar, pues, a 1918 –fin del primer acto de la guerra civil europea- como hace Armin Mohler, para encajarla en la catástrofe weimariana, ni tampoco a la implementación nietzscheana de Heidegger. Volviendo a España, los representantes más interesantes de esta corriente, como ya se podido intuir, son Unamuno, Baroja, y Maeztu, con la continuidad otorgada por Ortega y la radicalidad estética de Giménez Caballero.
El libro de Marcigiliano I Figli di Don Chisciotte realiza un aceptable estudio sobre las referencias ideológicas de la Revolución Conservadora española: de Ortega y Gasset, Menéndez Pelayo, Unamuno, junto a otros ideólogos más politizados como Giménez Caballero o Ledesma Ramos, o los historiadores Menéndez Pidal, Américo Castro y Sánchez Albornoz. En cualquier caso, los únicos estudios sobre la influencia europea en estos autores españoles apuntan, especialmente, al protagonismo, por ejemplo, de Maurras y Barrès, más que a los “revolucionario-conservadores” alemanes.
Y, desde luego, este “singular” conservadurismo revolucionario ibérico tendrá, como es lógico, unas notas definitorias que lo separan del resto de fenómenos europeos: la ausencia del sentimiento de catástrofe tras la primera guerra mundial (sustituido por el desastre de 1898 por la pérdida del imperio colonial tras la guerra contra los norteamericanos), la trascendencia otorgada al catolicismo tradicionalista, si bien en forma de agonismo como Unamuno o de agnosticismo como Ortega (frente al luteranismo, el paganismo o el retorno a la religión indoeuropea, incluso frente a ciertas desviaciones del misticismo y del esoterismo, tan extendido en centroeuropa) y, finalmente, el pan-hispanismo iberoamericano (junto al europeismo como retorno español al continente).
Resulta, por otra parte, muy significativo que Alain de Benoist , líder intelectual de la Nouvelle Droite francesa y asiduo visitante de los autores y lugares comunes de la Konservative Revolution alemana (efectuando una necesaria revisión, reinterpretación y actualización), no haya prestado especial atención al pensamiento revolucionario-conservador español , excepto –eso sí, en una posición relevante- a Ortega y Gasset, del que publicó la versión francesa de La rebelión de las masas, a Bosch Gimpera por sus estudios sobre El problema indoeuropeo, y a Donoso Cortés (Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo), seguramente por su crítica del liberalismo y la modernidad desde una contrarrevolucionaria perspectiva teológico-política y su interpretación europea efectuada por Carl Schmitt, cuya obra fue introducida en España por Eugenio D´Ors.
En opinión de Carlos Martínez-Cava, nuestra “generación del 98” fue una avanzada en el tiempo a lo que en la Europa de entreguerras, en el período 1919-1933, significaron las conocidas "Revoluciones Conservadoras" europeas en sus distintas y variadas manifestaciones culturales. Se pueden encontrar puntos en común, incluso de origen. Tanto en España, como en la “Revolución Conservadora” alemana, se parte de un desastre militar y de una situación sociopolítica interna caótica. Y en ambos casos, los regímenes y conflictos posteriores llegaron incluso a dar con la cárcel o muerte de sus componentes. Recordemos en España a Maeztu o a Machado, y en Alemania a Niekisch o Jünger.
Martínez-Cava formula un análisis comparativo entre la filosofía de la “generación del 98” y la RC alemana, afirmando que, del mismo modo que dentro de ambas corrientes no existió la homogeneidad, al existir diversas tendencias, la comparación entre ambas tampoco es unívoca, pero sí permite establecer puntos de conexión en común que las une para el proyecto colectivo de la resurrección de Europa como potencia y rectora de la civilización. A saber:
En primer lugar, el eterno retorno y el mito. En ambas corrientes se percibe la historia desde una perspectiva cíclica (Evola, Spengler) o esférica (Nietzsche, Jünger, Mohler), por oposición a la concepción lineal común propia del cristianismo y el liberalismo.
En segundo lugar, el nihilismo y la regeneración. Se tiene la consideración de vivir en un interregno, de que el viejo orden se ha hundido con todos sus caducos valores, pero los principios del nuevo todavía no son visibles y se hace necesaria una elaboración doctrinal que los ponga de relieve.
En tercer lugar, la creencia en el individuo, si bien como parte indisoluble de una comunidad popular y no en el sentido igualitario de la revolución francesa, que lleva a propugnar un sobrehumanismo aristocrático y una concepción jerárquica de la sociedad humana e, incluso, de las civilizaciones.
En cuarto lugar, la renovación religiosa. La “Revolución Conservadora” alemana tuvo un carácter marcadamente pagano (espiritualismo contra el igualitarismo cristiano). Esta religiosidad no fue ajena a España, como pueden ser los casos de Azorín y Baroja. Y de signo diferente, agónicamente católica, en los casos de Unamuno y Maeztu, o agnóstica en el de Ortega. En cualquier caso, representaban una “salida de la religión”, es decir, la incapacidad de las confesiones para estructurar la sociedad.
En quinto lugar, la lucha contra el decadente espíritu burgués. Las adversas condiciones bélicas, el frío mercantilismo y la gran corrupción administrativa provocaron, como reacción, el nacimiento de un espíritu aguerrido y combativo para barrer las caducas morales.
En sexto lugar, el comunitarismo orgánico. Se buscaba una referencia en la historia popular para dar vida a nuevas formas de convivencia. Esa comunidad del pueblo no obedecería a principios constitucionales clásicos, ni mecanicistas, ni de competitividad, sino a leyes orgánicas naturales.
En séptimo lugar, la búsqueda de nuevas formas de Estado. Alemanes y españoles, igual que el resto de europeos, con diferencias en el tiempo, rechazaron las formas políticas al uso y propugnaron un decisionismo y el establecimiento de la soberanía económica en grandes espacios autocentrados o autárquicos como garantía de la efectiva libertad nacional.
Y en último lugar, el reencuentro con un europeísmo enraizado en las tradiciones de nuestros antepasados (los indoeuropeos), no enfrentado a los nacionalismos de los países históricos ni a las regiones étnicas, y planteado como una aspiración ideal de convivencia futura, con independencia de la forma institucional que pudiese adquirir.

dimanche, 26 décembre 2010

La cultura accademica e il nazionalsocialismo

La cultura accademica e il nazionalsocialismo

Luca Lionello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Segnaliamo volentieri ai nostri lettori la recente uscita del libro curato da Pier Giorgio Zunino, Università e Accademie negli anni del fascismo e del nazismo, pubblicato dall’Editore Olschki di Firenze: si tratta degli atti di un convegno internazionale tenuto a Torino nel 2005, che si è occupato dei rapporti tra i regimi italiano e tedesco e filosofi, storici, scienziati e accademici di ogni ramo. È una pubblicazione di grande importanza – se pure a tratti pesantemente orientata – per lo studio in profondità di un argomento troppo spesso affrontato per luoghi comuni. Per brevità, faremo qui solo poche osservazioni relativamente al caso tedesco, forse meno noto e comunque in Italia più che altrove sottoposto a poco scientifiche generalizzazioni.

L’argomento dell’apporto della classe filosofica al potenziamento dell’ideologia nazionalsocialista è indagato da Hans Jörg Sandkühler che, dopo aver ricordato l’adesione alla Dichiarazione a favore di Adolf Hitler, sottoscritta nel 1933 da circa mille professori tedeschi (tra cui luminari come Heidegger, Gadamer, Gehlen, Rothacker, Freyer), ricorda che nel Terzo Reich non c’era l’obbligo di iscrizione al Partito: cionondimeno i summenzionati accademici furono Parteigenossen. Dal loro impegno risultò la volontà di creare una «scienza nuova» che partecipasse alla «costruzione di una visione del mondo nazionalsocialista»… si trattava insomma di un sapere in progress, come si dice, non dogmatico, ma in divenire… tanto che un altro degli autori, Gereon Wolters, nel capitolo intitolato Il “Führer” e i suoi pensatori, scrive: «Sostengo inoltre che alla filosofia coltivata nelle università restava, nel Terzo Reich, uno spazio abbastanza ampio in cui muoversi…». Del resto, come ricorda Sandkühler, la macchina burocratica di quel Regime non solo permise tra gli altri al filosofo Joachim Ritter – in passato simpatizzante della “sinistra” – di iscriversi alla NSDAP, ma anche respinse varie denunce di zelanti colleghi, con la motivazione che a quel professore, se espulso, si sarebbe recato danno: «sarebbe per lui una cosa estremamente complessa, dal punto di vista umano, doversi cercare un nuovo lavoro». Tanta sensibilità non fu riservata a molti filosofi nazisti nel dopoguerra “democratico”, quando, ad esempio Alfred Baeumler, cacciato dall’Università, dovette scontare ben tre anni di prigione per aver diffuso le sue idee, mentre a molti altri – tra cui Heidegger – venne per lungo tempo oppure per sempre proibito l’insegnamento…

 

Per converso, singolare per la sua ottusità, se non proprio esilarante, appare l’affermazione di Wolters sul prestigio filosofico che a suo dire avrebbero avuto i capi del comunismo… in confronto con l’incolta mediocrità che invece connoterebbe quelli nazionalsocialisti. Questa l’argomentazione: «Gli ideatori del comunismo avevano un’affinità più o meno grande con la filosofia. Karl Marx, ad esempio… Engels e Lenin erano menti filosofiche… si può dire la stessa cosa persino di Stalin… Non è lo stesso per i gerarchi nazisti». Questi ultimi vengono definiti, a cominciare da Hitler, Goering e Himmler, come una serie di ignoranti falliti… tra i quali il solo Goebbels sarebbe stato «l’istruito del governo». Anche se lo stesso Wolters scrive – certo senza accorgersi della contraddizione – che Hitler, nella sua teoria politico-razziale, venne anticipato – «in maniera molto simile», si precisa – niente meno che da Fichte, uno dei maggiori filosofi della cultura mondiale: non male per un “analfabeta”, come è stato definito Hitler da Viktor Klemperer e da altri. E questo, nonostante che svariati studi – come il recente La biblioteca di Hitler di Timothy W. Ryback (Mondadori) – abbiano dimostrato invece la vastità degli interessi culturali di Hitler. Che, se non fu laureato, egualmente non lo furono personaggi del rango di uno Spengler, di un Croce, di un Papini, di un Prezzolini… Ora, per parlar male del Nazionalsocialismo, a nostro giudizio non occorrerebbe dire sciocchezze o affermare rozzamente dei falsi facilmente verificabili. Innanzi tutto, si noterà che Wolters contrappone gli “ideatori” del comunismo ai “gerarchi” del Nazionalsocialismo: cioè paragona due specie diverse, i filosofi e i politici.

Per fare un raffronto equivalente, bisognerebbe infatti che anche nel caso nazista fossero chiamati in causa gli “ideatori” filosofici della sua ideologia: e allora ci si potrebbe rifare al marxista György Lukàcs, che nel suo famoso libro La distruzione della ragione del 1959 provò, in centinaia di fitte pagine, che la Weltanschauung nazista aveva come diretti ascendenti i protagonisti dell’intera cultura dell’idealismo tedesco, da Hegel, Fichte e Schelling fino a Schopenhauer e oltre: cosa che certo non può vantare il comunismo, ristretto ad alcuni e pochi studiosi di economia, spesso autodidatti (a cominciare da Engels, che non terminò nemmeno il liceo). Quanto poi a definire Stalin “filosofo”, beh… neppure i più servili “socialisti reali” si azzardarono mai a tanto. È del resto noto che Stalin come massima frequentazione culturale poté vantare solo un breve soggiorno presso un seminario ortodosso georgiano e non varcò mai la soglia di un’accademia…

In proposito, attiriamo l’attenzione sul fatto che il nostro “democratico” autore trascura – per ignoranza? – l’evidenza da tutti conosciuta, e cioè che proprio tra i gerarchi del Terzo Reich figurava un numero singolarmente alto di laureati: non il solo Goebbels (in filosofia), ma ad esempio – per limitarci ai più in vista – lo erano anche Hans Frank, Arthur Seyss-Inquart, Wilhelm Frick, Hans Kerrl (tutti e quattro in giurisprudenza), Baldur von Schirach (germanistica), Albert Speer e Alfred Rosenberg (architettura), Walter Funk (economia), Bernard Rust e Robert Ley (filosofia), eccetera eccetera. A scorrere il libro di Michael Grüttner Biografische Lexicon zur nationalsozialistischen Wissenschaftspolitik, recentemente pubblicato in Germania dalle Edizioni Synchron di Heidelberg, si constata inoltre che le centinaia di intellettuali biografati, professori, scienziati, rettori di università, presidenti di istituti scientifici, membri di accademie e alte scuole, studiosi di ogni disciplina, costituirono l’ossatura del partito nazista e delle sue organizzazioni politico-culturali, ma non di rado anche di istituzioni ad ancora più elevato tasso ideologico che non la NSDAP, come ad esempio la Ahnenerbe, il SD o le SS.

In questa rapida analisi, ci soccorre il testo di Max Weinreich I professori di Hitler (Il Saggiatore), che letteralmente pullula di nomi di meno noti, famosi e spesso eminenti intellettuali che aderirono al Nazionalsocialismo, non solo passivamente o per convenienza, ma in modo attivo, militante, prendendo parte a nuove istituzioni, scuole, corsi di studio, sovente ricoprendo al contempo cariche politiche e sempre condividendo le scelte del Regime, dall’imperialismo all’antiebraismo.

Ne è un esempio tra i tanti l’Istituto del Reich per la Storia della Nuova Germania, fondato nel 1935. Di esso, tanto per fare solo un cenno, fecero parte personaggi come Wilhelm Stapel (uno dei maggiori esponenti della “Rivoluzione Conservatrice”), il professore di sociologia all’Università di Lipsia Hans Freyer, lo storico della filosofia Max Wundt dell’Università di Tubinga, il filologo germanista Otto Höfler (collaboratore dell’Ahnenerbe, professore a Vienna e ancora nel dopoguerra riconfermato come membro dell’Accademia Austriaca delle Scienze), il fisico Philipp Lenard (premio Nobel, che ebbe tra i suoi allievi Einstein), lo storico Karl Alexander von Müller, presidente della sezione bavarese della Deutsche Akademie (di cui fece parte anche il filosofo e psicologo Ludwig Klages), lo storico dell’Università di Jena Johann von Leers (tre lauree, cinque lingue parlate correntemente: lo stesso che nel dopoguerra troverà rifugio prima in Argentina, poi nell’Egitto di Nasser), nonché ad esempio lo storico austriaco Heinrich von Srbik o studiosi più noti al grande pubblico, come i filosofi Alfred Baeumler ed Ernst Krieck o l’antropologo Hans F. K. Günther… e così via: tutti costoro erano iscritti alla NSDAP o alle sue diramazioni e attivi promotori di iniziative di divulgazione politica ufficialmente riconosciute.

A questi casi – che assommano non a decine, ma a centinaia di intellettuali di rilievo, molti dei quali ancora oggi ricordati nelle storie delle rispettive discipline – non possiamo non aggiungere i nomi celebri di Heidegger, Schmitt, Strauss, Hauptmann, Weinheber… ai quali affianchiamo casi di chiara fama, come quelli dei filosofi Arnold Gehlen, Friedrich Gogarten, Hans-Georg Gadamer, Oskar Becker, Nicolai Hartmann, Joachim Ritter, Erich Rothacker (il fondatore dell’antropologia filosofica e maestro del giovane Habermas)… e ci fermiamo qui per non annoiare il lettore con un elenco che potrebbe durare parecchio… Ad ogni buon conto, anche questi ultimi erano tutti membri del Partito o delle sue leghe professionali e aperti sostenitori del Regime, e nel dopoguerra – opportunamente mimetizzatisi, secondo una pratica ben conosciuta anche in Italia – assursero al rango di autorità internazionali. Ma anche quei pochi cattedratici che non furono nazionalsocialisti, ma solo “fiancheggiatori”, svolsero una funzione intellettuale di impegno pubblico in aperto appoggio al Regime: e si cita il caso tipico del grande storico Gerhard Ritter – cui è dedicato nel libro della Olschki un intero capitolo -, il cui nazionalconservatorismo finì col diventare, specialmente dal 1936 e fino alla fine del 1944, del tutto indistinguibile dall’ideologia nazista, conferendole ulteriore prestigio culturale.

Di fronte a questi dati, sembra impallidire non poco l’abituale refrain secondo cui l’avvento del Terzo Reich avrebbe significato la persecuzione della cultura, l’esilio degli intellettuali (tra i quali solo Thomas Mann e Einstein erano di primo piano) oppure il rogo dei libri: che non fu evidentemente un rogo “dei libri”, ma più esattamente un rogo “di certi libri”, a torto o a ragione giudicati incongrui alla propria visione del mondo. Secondo una liturgia simbolica popolare, del resto, direttamente attinta da deplorevoli pratiche per secoli largamente in uso presso la Chiesa cristiana…

Dalla mole documentale portata da studiosi di ogni tendenza siamo dunque forzati a concludere che il Terzo Reich fu un regime massicciamente sostenuto dalla classe degli intellettuali, tra i quali figurarono nomi tra i maggiori della cultura europea del Novecento. Si tratta di una realtà che non trova paragoni – se non in Italia – con gli altri coevi governi, totalitari o democratici che fossero. È questa la conclusione cui giunge per l’appunto lo storico Pier Giorgio Zunino nella premessa al libro di Olschki da noi segnalato, quando, parlando del «corale consenso» da cui furono circondati il Fascismo e il Nazionalsocialismo, scrive che «furono loro, gli intellettuali… ad aprire per primi il catalogo delle presenze sociali che più largamente avevano aderito a quei regimi».

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Tratto da Linea del 23 gennaio 2009.

vendredi, 24 décembre 2010

Die ungewöhnliche Beziehung von Ernst Jünger und Erich Mühsam

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Kreuzweiser Austausch
Die ungewöhnliche Beziehung von Ernst Jünger und Erich Mühsam

Von Lars-Broder Keil (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


"Mühsam lernte ich bei Ernst Niekisch kennen, den ich häufig aufsuchte. Ich glaube, auch Toller war an jenem Abend dabei. Sie kannten sich aus der Zeit der Münchener Räterepublik, mit der sich die Linke eine ähnliche Absurdität wie später die Rechte mit dem Kapp-Putsch leistete. Wir kamen in ein angeregtes Gespräch, Mühsam begleitete mich auf dem Heimwege. Er war Bohemien vom Schlage Peter Hilles, weltfremder Anarchist, verworren, kindlich-gutmütig. (...) Er redete in flatterndem Mantel wild, beinahe schreiend auf mich ein, so daß sich die Passanten nach der seltsamen Erscheinung umwandten, die an einen großen unbeholfenen Vogel erinnerte. Wir tauschten einige Briefe, bis kurz vor seiner Verhaftung; schreckliche Gerüchte sickerten bald über sein Schicksal durch." (1)
Diese Schilderung seiner ersten Begegnung mit Erich Mühsam (1878-1934), die um 1930 herum stattfand, hielt Ernst Jünger (1895-1998) am 24. August 1945 in seinem Tagebuch fest. Glaubt man Jüngers Eintrag, blieb es nicht bei dieser Begegnung. Es ist eine Beziehung, die ungewöhnlich, fast unwahrscheinlich anmutet: der linke Anarchist Erich Mühsam und der bis heute umstrittene konserverative Schriftsteller und Käferforscher Ernst Jünger.

Schwierige Spurensuche

Erich Mühsam wurde 1878 in Berlin geboren, wuchs aber in Lübeck auf. Nachdem er dort eine Glosse über den Direktor seiner Schule in einer SPD-Zeitung veröffentlicht hatte, flog er wegen "sozialistischer Umtriebe" von der Schule und begann eine Apothekerlehre. 1900 zog er nach Berlin, fand Anschluss an die Neue Gemeinschaft der Gebrüder Heinrich und Julius Hart sowie an die Literatur-Bohemeszene und freundete sich mit Gustav Landauer an. In Friedrichshagen arbeitete er ab 1902 für die anarchistische Zeitung "Armer Teufel", bis er 1904 zu seinen Wanderjahren durch Europa aufbrach. Diese führten ihn schließlich nach München, wo sich Mühsam ab 1909 niederließ. 1918 beteiligte er sich führend an der Gründung der Münchener Räterepublik und musste nach deren Niederschlagung ins Gefängnis, wo er bis Ende 1924 einsaß. Anschließend zog Mühsam wieder nach Berlin und gab dort die Monatzeitschrift "Fanal" heraus. 1933 von der SA verhaftet, wurde er nach schweren Misshandlungen 1934 im KZ Oranienburg ermordet.
Ernst Jünger wurde 1895 in Heidelberg geboren. Wie ein Großteil seiner Generation meldete er sich 1914 als Kriegsfreiwilliger. Er wurde mehrfach verwundet und ausgezeichnet. Mehr als das prägte ihn die Materialschlacht an der Front, die er in Büchern, wie "In Stahlgewittern" (1920), verarbeitete. Auffallend dabei: zum einen die nüchternen Schilderungen des Grauens, andererseits die Begeisterung für den militärischen Kampf. Dieser Stil sowie die Mitarbeit in nationalistischen und militanten Gruppierungen wie Zeitschriften brachten ihm den Ruf des demokratiefeindlichen Reaktionärs und Kriegsverherrlichers ein. Dabei war auch der junge Jünger, wie viele seiner Generation, jemand, der sich erst durch den Krieg verändert hatte und der auch ein Suchender war: "Mein Weltbild besitzt durchaus nicht mehr jene Sicherheit, wie sollte das auch möglich sein bei der Unsicherheit, die uns seit Jahren umgibt", schrieb er über seine Kriegserlebnisse im Buch "Der Kampf als inneres Erlebnis" (1922). Mitte der 20er-Jahre begann er Philosophie und Zoologie zu studieren, brach das Studium aber 1926 ab und lebte seitdem als Schriftsteller - unterbrochen durch seinen Militäreinsatz im zweiten Weltkrieg, den er unter anderem im Stab des Militärbefehlshabers in Paris verbrachte. 1944, nach dem missglückten Attentat auf Hitler, wurde Jünger aus der Armee entlassen. Der Autor zahlreicher Bücher, Tagebücher und Essays starb 1998 im Alter von 103 Jahren.
Leider sind die Briefe Mühsams an Jünger vernichtet - unter welchen Bedingungen dies geschah, soll zu einem späteren Zeitpunkt beschrieben werden. Daher lässt sich auch nichts über den Inhalt sagen. Neben dem etwas ausführlicheren Eintrag von 1945 tauchen nur wenige kurze Hinweise auf Mühsam in Jüngers Tagebüchern auf. Im Eintrag vom 10. September 1943 schrieb er über Mühsam, dass dieser "eine kindliche Neigung zu mir gefasst hatte" und dass man ihn "auf so schauerliche Weise ermordete". Am Ende findet sich die Einschätzung: "Er war einer der besten und gutmütigsten Menschen, denen ich begegnet bin." (2). Kurz erwähnte Jünger ihn noch am 20. Oktober 1972 und 20. Mai 1980 (3). Am 19. November 1989 notierte Jünger: "Hans Jürgen Frh. von der Wense (1894-1955). Ich lese in seinen Tagebüchern Notizen über die Novemberrevolution von 1918 und deren Folgen bis zur Niederschlagung der Münchner Räterepublik; sie erinnern mich an Gespräche mit Beteiligten wie Niekisch, Toller und Mühsam." (4)
Mühsam wiederum erwähnte weder in seinen Erinnerungen noch in Briefen seine Beziehung zu Jünger. Von der Bekanntschaft kündet lediglich der Eintrag im Notizkalender von 1930: "15.1. Begegnung mit Ernst Jünger bei Rudolf Schlichter" (5). Das Aussparen der Beziehung zu Jünger mag daran liegen, dass sie nur lose war und er ihr keine so große Bedeutung beigemesssen hat - was angesichts der verschiedenen Weltbilder der beiden nicht verwunderlich sein dürfte. Doch offenbar hinderte sie das nicht, Gespräche zu führen. Mehr Aufschluss könnte Mühsams Nachlass geben, doch der ist zu einem großen Teil zerstört. Chris Hirte, ein Mühsam-Biograf und -kenner, wundert sich über die Beziehung nicht. Zum einen habe sich Mühsam in seiner Zeitschrift "Fanal" ausführlich mit Kriegsliteratur befasst, und Jünger war einer der wichtigsten Vertreter. Zum anderen habe Mühsam viel Wert auf Kontakte quer durch alle Gruppierungen gelegt und mit diesen ausführlich kommuniziert, besonders gern mit prominenten Zeitgenossen, zu denen Jünger damals schon gehörte. Unter Mühsams Bekannten stammten laut Hirte viele aus dem bürgerlichen Lager. Ideologische Barriere gab es für den Anarchisten Mühsam hier offenbar nicht.
Auffallend an Jüngers knappen Überlieferungen der Kontakte ist der wohlwollende Ton, mit dem er über den "Friedrichshagener" Mühsam spricht. Daher scheint es interessant, das Klima zu beschreiben, das damals Treffen zwischen linken und rechten Intellektuellen möglich machte. Verzichtet wird, vor allem aus Platzgründen, auf eine Analyse der relevanten Werke Jüngers, die aber genannt werden sowie auf eine tiefere Analyse der nationalistischen Strömungen, die in der Beziehung eine Rolle spielen. Zu diesen gibt es eine erschöpfende Literatur.

Niekisch als Bindeglied der Beziehung

Wie in Jüngers Tagebuch angedeutet, war Ernst Niekisch (1889-1967) das Bindeglied in dieser ungewöhnlichen Beziehung. Niekisch, Sohn eines Feilenhauermeisters und in Schlesien geboren, las in seiner Jugendzeit neben Klassikern auch die Werke der Moderne von Gerhart Hauptmann, Henrik Ibsen, Frank Wedekind und Max Halbe, die zum Teil prägend für die "Friedrichshagener" waren. Er lernte Erich Mühsam zusammen mit Gustav Landauer 1918 während der Zeit der Räterepublik in München kennen, an der sich alle drei aktiv mitwirkten. Niekisch beschreibt Mühsam in dieser Zeit als sprudelnden, witzigen Geist, "ein guter Mensch, aber so ausgesprochen literarischer Bohemien, daß sich niemand ihn in einer würdigen Amtsposition vorstellen konnte" (6). Letztere Bemerkung zielt auf einen Versuch von Mühsam, sich selber als Volksbeauftragter für das Auswärtige im Kabinett der Räterepublik vorzuschlagen. Landauer war für Niekisch eine "geistig überlegene Persönlichkeit" (7), ein außerordentlicher und gedankenvoller Redner (8).
Die Zusammenarbeit lockerte sich mit dem Rücktritt von Niekisch vom Posten des Präsidenten des Zentralrats der Arbeiter-, Bauern- und Soldatenräte Bayerns. Trotzdem unterzeichnete er einen Aufruf zugunsten des seit 1919 inhaftierten Mühsam, der ärztliche Hilfe brauchte. Kurze Zeit später trafen sich beide wieder - in der Festungshaft. Dort zettelte Mühsam unter den Häftlingen einen Streik an, bei dem Essenreste auf die Gänge geworfen wurden. Niekisch, der angesichts der Lebensmittelknappheit dieser Zeit eine "schlechte Presse" für diese Aktion befürchtete, brach den Streik und säuberte am dritten Tag mit Hilfe anderer Häftlinge die Flure (9). Mühsam zeigte sich verbittert über die Streikbrecher und nannte Niekisch und dessen Umfeld in seinen Tagebüchern verächtlich die "Intellektuellen" (10).

Niekisch trat nach seiner Entlassung in den Schuldienst ein, war Landtagsabgeordneter der USPD und folgte im November 1922 dem Ruf in den Hauptvorstand des Deutschen Textilarbeiterverbandes nach Berlin, schied aber 1926 im Streit mit der SPD aus dem gewerkschaftlichen Verband aus und ging nach Dresden. Dort schloss er sich der Alten Sozialdemokratischen Partei (ASP) an und gab die Zeitschrift "Widerstand. Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik" heraus.
Über diese Herausgeberschaft und die ASP bekam er zunehmend Kontakt zu bündischen Kreisen, zu reaktionären Gruppierungen, beispielsweise zum Jungdeutschen Orden, zu Konservativen, wie den ehemaligen Korpsstudenten Friedrich Hielscher, der zum Thema "Nietzsche und der Rechtsgedanke" promoviert hatte und sich später diffusen sozialrevolutionär-nationalistischen Tendenzen näherte, sowie zu bürgerlichen Intellektuellen, etwa zu Friedrich Georg Jünger, ein Bruder von Ernst Jünger (11).
Auf die Jünger-Brüder war Niekisch durch den Philosophen Alfred Baeumler gestoßen, der zugleich Mitglied des Kampfbundes für deutsche Kultur von Alfred Rosenberg war. Baeumler lobte Ernst Jünger als einen Mann, "der die technischen Tendenzen der Zeit in vollem Umfange begriffen habe" und nicht mehr in rückständiger Bürgerlichkeit stecke (12). Dies war wohl der Anlass, Jünger 1926 zur Mitarbeit am "Widerstand" aufzufordern, wie aus einem Brief Ernst Jüngers an seinen Bruder hervorgeht (13). 1927 erschien der erste Artikel.
Im Herbst des gleichen Jahres, so berichtet Niekisch in seinen Erinnerungen, sei er mit Baeumler nach Berlin gereist, der dann einen Besuch bei Jünger angeregt habe. Jünger habe beide freundlich in seiner Wohnung in der Nähe der Warschauer Brücke empfangen. "Wir tranken Kaffee und unterhielten uns über politische Vorgänge jener Tage", erinnert sich Niekisch (14).

Allerdings scheint er sich im Jahr geirrt zu haben, da Baeumler die Jüngers erst 1928 kennenlernte und auch die Briefe erst aus diesem Jahr stammen (15). Ob nun 1927 oder 1928, nach dem ersten Treffen entwickelte sich jedenfalls ein, laut Niekisch, freundschaftlicher Verkehr, gelegentlich schrieb Jünger für den "Widerstand" Aufsätze, und als Niekisch wieder nach Berlin zog, trafen sich beide, etwa bei einer Besprechung des Kreises "Neuer Nationalisten" mit dem Verleger Ernst Rowohlt oder bei Niekisch zu Hause. Bei einem dieser Besuche kam es dann zum Kontakt zwischen Mühsam und Jünger.
Jünger in Berlin

Rund sechs Jahre, von 1927 bis 1933, lebte Ernst Jünger in Berlin. Nach seinen Büchern über den Ersten Weltkrieg war er zum Hoffnungsträger und Wortführer der Gegner der Weimarer Republik im rechten Spektrum geworden.
Die unter dem Begriff "Neuer Nationalismus" zusammengefassten Gruppierungen bekannten sich einmütig zur Nation und einem wehrhaften Staat. Doch Jünger begann schnell, sich von den radikal-militanten Kreisen zu lösen. Wie schon die jungen Intellektuellen zur Jahrhundertwende zog Jünger das Geschehen der pulsierenden Hauptstadt an. Jünger versuchte sich in bohemhaftem Lebensstil, wohnte in möblierten Zimmern, wanderte nachts durch die Straßen, hielt seine Beobachtungen fest, nahm gelegentlich an Trinkfesten teil. Er suchte Kontakt zu Vertretern aller Couleur, zu Nationalisten und Rechten, beispielsweise zu Friedrich Hielscher und Otto Strasser, zu Linken, wie Bertolt Brecht, Erich Mühsam, Ernst Toller und zu Rudolf Schlichter, der Jünger 1929 und noch einmal 1937 porträtierte (16).
Der Maler, Zeichner und Schriftsteller Rudolf Schlichter (1890-1955), bei dem Mühsam laut seinem Notizkalender auch Jünger traf, erregte Anfang der 20er-Jahre mit seiner Plastik des an der Decke schwebenden "Preußischen Erzengels" in Uniform und Schweinskopf Aufsehen. Etwa 1927 wurde der kommunistische Künstler als genauer Zeichner der Berliner Halbwelt bekannt, war unter anderem mit George Grosz und Bert Brecht befreundet. Durch die Begegnung mit seiner späteren Frau Speedy wandte sich Schlichter jedoch dem Katholizismus und Nationalismus zu. In dieser Phase lernte er auch Ernst Jünger kennen, der den Maler sehr schätzte. Die erste Begegnung fand wahrscheinlich beim Verleger Rowohlt statt, der, wie Jünger notierte, "sich ein Vergnügen daraus machte, pyrotechnische Mischungen auszutüfteln, besonders an seinen Geburtstagen" (17).

Links-Rechts-Dialoge

Für die Weimarer Jahre war ein Wirrwarr von rechten und linken Gruppen, Bünden, intellektuellen Zirkeln und Sammlungsbewegungen kennzeichnend, die weniger in festen Organisationsformen oder gar Ortsverbänden agierten. Meist handelte es sich um Mitarbeiter einer Zeitschrift, die sich um den Herausgebe scharrten. Die Akteure waren oft junge, unzufriedene Kriegsteilnehmer, die nach einer Neuorientierung, einem "neuen politischen Leitbild eines nationalen Selbstbewusstseins" suchten - und zwar jenseits vom Parteiengezänk. (18). Die Frontgeneration der 1890-1905 Geborenen kritisierte und bekämpfte die Ideen des Liberalismus und des Parteiensystems. Sie stellten die Bindung an eine fast mystisch anmutende Nation in den Mittelpunkt, grenzten sich aber vom Nationenbegriff patriotischer Prägung ab.
Was bewegte die "rechten" Strömungen, die unter Begriffen wie Nationalrevolutionäre zusammengefasst wurden, zum gemeinsamen Vorgehen? Jürgen Danyel nannte auf einer Tagung der Evangelischen Akademie Berlin 1990 über den so genannten "Gegner"-Kreis drei wesentliche Handlungsanreize: Zum einen werden die Aktivitäten als Reaktion auf die Modernisierungprozesse der 20er-Jahre verstanden und auf die Erkenntnis, Anschluss an politische Massenbewegungen gewinnnen zu müssen. Allerdings waren die Vertreter des Nationalismus zumeist Einzelgänger und stolz auf ihre Isolierung. Geradezu mit Verachtung wiesen sie die Möglichkeit ab, sich von den großen politischen Strömungen tragen zu lassen. Sie sahen sich in Opposition, als Individualisten und auf dem Weg, für sich den Begriff Konservatismus neu zu definieren. Zweitens prägten die Strömungen das "Gemeinschaftserlebnis Krieg" und die revolutionären Nachkriegsauseinandersetzungen sowie das "Unvermögen zur sozialen Integration in eine ihnen fremde bürgerliche Welt". Drittens schließlich führte die nationale und soziale Problemlage Deutschlands nach 1918 zu einer Politisierung, verbunden mit dem Aufbegehren gegen die eigene bürgerliche Herkunft - gerade im letzten Punkt finden sich verblüffende Parallelen zu den "Friedrichshagener Dichtern" und den Motiven ihres Handelns um die Jahrhundertwende.
Die nationale Problematik bildete das Dach der oft gegensätzlichen Strömungen. Betont wurde der Charakter der "Bewegung", favorisiert eine "Verbindung von Nationalismus und Sozialismus", in der die Arbeiterschaft eine historische Trumpfkarte im Rahmen einer umfassenden Gesellschaftsveränderung werden sollte. "Rechte" wie "Linke" fanden auch eine gemeiname Basis in der Ablehnung des westlichen Imperialismus, dessen Hauptsymbol für sie der Versailler Vertrag war (19). Im Unterschied zum Marxismus bekannten sich die Nationalrevolutionäre, und besonders deren nationalbolschewistische Strömung, zu Nation und Staat (20).
In der außenpolitischen Betrachtung sympathisierten die Strömungen mit der nicht am Versailler Vertragswerk beteiligten Sowjetunion - mit einer häufig diffusen Zuneigung und Verklärung. So nutzte auch Jünger die Einladungen der "Gesellschaft zum Studium der russischen Planwirtschaft". Im Ergebnis entstand seine 1932 erscheinende theoretische Schrift "Der Arbeiter", die Unverständnis im rechten Lager und heftige Kontroversen auslöste.
Wechsel zwischen den Lagern und Kontakte waren nicht selten. In Gesprächszirkeln aller Art trafen sich offizielle und oppositionelle Kommunisten, sozialistische und konservative Intellektuelle, parteitreue bis parteifeindliche Nationalsozialisten. Bei allen Unterschieden, ja Hass zwischen den Flügeln, zog die gemeinsame Radikalität des Gefühls und des Denkens an.
Vor diesem Hintergrund sind auch die Kontakte zwischen Jünger und Mühsam zu sehen. Nach Ansicht des Jünger-Biographen Heimo Schwilk fühlte sich der nationalrevolutionäre Autor zu Personen hingezogen, die die herrschende Verhältnisse in Frage stellten, zu einem Radikalismus der Tat neigten, um aus der beengten Sphäre des Bürgerlichen auszubrechen. Auch Jünger verspürte früh diesen Drang, meldete sich als Jugendlicher in der Fremdenlegion, "ein früher, instiktiver Protest gegen die Mechanik der Zeit", nannte er diesen Schritt später. Eine mehr selbst-analytische Verarbeitung des ersten Ausbrechens lag jahrelang als unveröffentlichtes Manuskript in seinem Schreibtisch. Es trug den bezeichnenden Titel "Die letzte sentimentale Reise oder die Schule der Anarchie" (21) und wurde 1936 als "Afrikanische Spiele" veröffentlicht.
Mühsam wiederum suchte in seiner Vorstellung, die Regierung durch eine Revolution abzulösen, nach tatbereiten Leuten, um sie gegen die Weimarer Republik zu mobilisieren. Die meinte er offenbar auch unter den Vertretern der Nationalrevolutionäre zu finden, deren Wille zu Aktionen ihm näher lag, als das abwartende Verhalten der Funktionäre von SPD und KPD, die auf Parlamentarismus setzten, schätzt Mühsam-Forscher Hirte ein. Jünger zählte sich selbst zu den Nationalrevolutionären, bezeichnete sich öffentlich aber erst Anfang der 80er-Jahre so.
Das mag daran liegen, dass Jünger, der sich auf besondere Weise als elitärer Einzelkämpfer verstand, Distanz zu den Gruppen gewahrt hatte, weil er Zuordnung als Vereinnahmung verstand. Bereits als der "Arbeiter" erschien, hatte er sich aus dem aktiven Geschehen zurückgezogen, "in die Innerlichkeit", wie Niekisch das bezeichnete.
Trotzdem hielt er weiter Kontakt. Als das NS-Regime an die Macht kam, nahm Jünger beispielsweise Niekisch kurzzeitig bei sich auf und kümmerte sich nach dessen Verhaftung um die Niekisch-Familie.

Vernichtung der Mühsam-Briefe

Die Beschreibung der Kontakte zwischen Ernst Jünger und Ernst Niekisch hätte ergiebiger ausfallen können, wenn Jünger nicht so vorsichtig gewesen wäre. Als die Nationalsozialisten die Macht in Deutschland ergriffen und ihre Gegner zu verhaften begannen, vernichtete er in einer hektischen Aktion einen Teil seiner umfangreichen Briefsammlung und Tagebuchaufzeichnungen. Darunter auch die wenigen Briefe von Mühsam, die laut Jünger "harmlos waren wie der Mann selbst" und später die Briefe von Ernst Niekisch, bei dem Jünger Mühsam kennengelernt hatte. Mehrfach bedauerte er die Lücken, "die vor allem dadurch entstanden sind, daß ich in Anfällen von Nervosität Papiere verbrannt habe". Aber Jünger wusste um die Sprengwirkung, wenn sie bei ihm gefunden worden wären. "Wenn meine Bekannten durch mich Schwierigkeiten hatten, so galt das auch umgekehrt, es fand kreuzweis ein Austausch statt. Der Umgang mit Niekisch, Mühsam, Otto Strasser, Hofacker, Schulenburg, Heinrich von Stülpnagel und anderen warf ein ungünstiges Licht auf mich", schrieb er rückblickend in seinem Tagebuch am 24. August 1945. Wie recht er mit dieser Annahme hatte, musste Jünger kurze Zeit nach dem Vernichten der Briefe erfahren. Eines Abends, er saß in seiner Steglitzer Wohnung und las Beardsleys "Venus und Tannhäuser", klingelte es an der Tür. Zwei Gestapo-Beamte traten ein, überhörten Jüngers Frage nach den Ausweisen und begannen in den Zimmern nach Waffen und verbotenen Papieren zu wühlen. Jüngers Buch "Der Arbeiter" im Regal schien ihr Misstrauen zu fördern. Dann kamen sie zu ihrem Anliegen und fragten nach den Briefen von Erich Mühsam. Jünger reichte ihnen seine Briefmappe "H-M", in denen die Briefe Mühsams fehlten, aber nicht die von Hitler und Hess, und hielt die Reaktion der Beamten in seinem Tagebuch fest: "Sie begannen zu blättern, stießen dabei gleich auf einige Namen, die hoch im Kurs standen, und brachen ihr Unternehmen ab." (22)

Im nächsten Heft: Jünger und der Individualanarchismus von John Henry Mackay und Max Stirner

Quellen:

  1. Ernst Jünger: Die Hütte im Weinberg, Jahre der Okkupation, In: Strahlungen II., Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 1979, S. 516 f.)
  2. Ernst Jünger: Das zweite Pariser Tagebuch, In: Strahlungen II..., S. 146
  3. Ernst Jünger: Siebzig verweht II, Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 1981, S. 97 und S. 610ff.
  4. Ernst Jünger: Siebzig Verweht IV, Verlag, Stuttgart, 1981, S. 383
  5. Chris Hirte: "Erich Mühsam", Verlag Neues Leben Berlin, 1985, S. 419
  6. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben, Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin, S. 43
  7. ebenda, S.68
  8. ebenda, S.78
  9. ebenda, S.96
  10. Erich Mühsam: Tagebücher 1910-1924, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1994, S.240f.
  11. Ernst Jünger in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt Verlag, S.41
  12. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben, S. 187
  13. Friedrich Georg Jünger: Briefwechsel mit Rudolf Schlichter, Ernst Niekisch und Gerhard Nebel, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart, 2001, S. 59
  14. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben..., S.187
  15. F.G. Jünger, S.59f.
  16. Horst Mühleisen: Ernst Jünger in Berlin, Frankfurter Buntbücher 20, S. 5
  17. Ernst Jünger und Rudolf Schlichter, Briefe 1935-1955, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart, 1997, S. 307f.
  18. Jürgen Danyel: Alternativen nationalen Denkens vor 1933, In: Der "Gegner"-Kreis im Jahre 1992/33, Evangelische Akademie Berlin, 1990, S. 76
  19. ebenda, S.69
  20. Das Projekt Ernst Jünger, In: Forum Wissenschaft, I/95, S. I ff.
  21. Ernst Jünger in Selbstzeugnissen..., S. 12
  22. Ernst Jünger: Die Hütte im Weinberg..., S. 516 f.

 

mardi, 21 décembre 2010

Der Monismus und Bruno Wille

Der Monismus und Bruno Wille


von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www;friedrichshagener-dichterkreis.de/

Monismus%2.jpgMan muß es so hart sagen: Bruno Wille war weder ein originärer Denker noch ein Philosoph. Damit könnten seine Veröffentlichungen beiseite gelegt und die Person den Lokalhistorikern überlassen werden. Aber die Beschäftigung mit dem Denken Willes ist trotz alledem aufschlußreich. Was seine Schriften erinnernswert macht, ist die Tatsache, daß sie an den weltanschaulichen Auseinandersetzungen der Zeit teilgenommen und so den Zeitgeist gleichzeitig reflektiert, mitgeformt und bekämpft haben. Dabei war Wille Teil einer zeitbedingten Denkströmung, die sich, trotz "fortschrittlicher" Gesinnung, dem Materialismus der Zeit entgegenstellte, wenn auch oft mit zweifelhaften Positionen und Erfolgen. Wille läßt sich aber in einen ewigen Zusammenhang der Philosophie bringen. Er gehört, wenn auch lediglich rezipierend, zu den Bemühungen um eine einheitliche Weltanschauung, die das Denken von Anfang an begleiteten.

Der Monismus ist eines von jenen Schlagwörtern, denen keine eindeutige Definition mehr zukommt, die im Laufe ihrer Begriffsgeschichte manigfaltige Umdeutungen ertragen haben, die sie heute nicht mehr ohne weiteres anwendbar machen. Das griechische "monon", das Eine, ist die Wurzel des Monismus, das durch die Erweiterung zu einem "Ismus" den Charakter einer Lehre von der Einheit bekommt. Bei vielen "primitiven Kulturen" ist die Wahrnehmung monistisch: die Welt ist von Kräften regiert, denen alles unterworfen ist. Auch der Brahmanismus und der Taoismus sind von einem metaphysischen Monismus bestimmt. Das philosophische Ringen um eine solche Weltanschauung ist als Gegenstück und Ergänzung zum Dualismus ebenso alt wie die Philosophie selbst, der Begriff hingegen ist ein Kind der Aufklärung. Beide kommen menschlichen Grundbedürfnissen nach: Der Leib/Seele und Gott/Welt Dualismus ist die Folge des menschlichen Erwachsens aus seinem unbewußten Einssein mit Gott und der Welt (Sokrates). Seit dieser Erkenntnis ist das Gebot und Bestreben in der Welt, hinter der Vielheit die Einheit zu erkennnen (Platon). Der Monismus trägt der Tatsache Rechnung, daß das im Dualismus getrennte von einem einheitlichen verbindenden Prinzip regiert wird, das überhaupt erst die Wahrnehmung der Gegensätze begründet. "Der Dualismus ist eine psychologische Tatsache, aber der Monismus ist sein zureichender Grund. Der Dualismus ist nach alledem nur das vorletzte, der Monismus aber ist das letzte Wort der Philosophie." (Ludwig Stein) Der Begriff "Monismus" ist nicht zuletzt deshalb so belastet, weil seine erste Verwendung (in der Schulphilosophie Chr. Wolffs) in ablehnender Form erfolgte. Monisten sind danach Anhänger der Lehre, die besagt, daß nur eine Grundsubstanz, beispielsweise die Materie, existiert und die restlichen Erscheinungen bedingt. Als Monismus werden deshalb vereinfachend so unterschiedliche Anschauungen wie Materialismus und Idealismus bezeichnet, da beide die Welt aus einem Prinzip erklären. Eine weitere Abwertung erfuhr der philosophische Begriff durch die Verwendung bei Ernst Häckel, der ihn zu einem einseitigen Kampfbegriff popularisierte, um seine diesseitige, materialistisch-naturwissenschaftliche Weltanschauung zu verbreiten. Im "Deutschen Monistenbund" versammelten sich diejenigen, die die Materie oder die Energie (bzw. die Kraft) als die eine grundlegende Substanz ansahen. Seitdem ist der Begriff nicht mehr ohne umständliche Erläuterungen zu gebrauchen. Aber er zeigt beispielhaft ein menschliches Grundbedürfnis: die Gegensätze durch einen oftmals fragwürdigen, und nur selten "goldenen" Mittelweg zu überwinden. Insbesondere über die Problemlage der Jahrhundertwende im weitesten Sinne kann er uns Auskunft geben. Es gab ja nicht nur den Häckelschen Monismus, d.h. den wissenschaftlichen Materialismus. Der Begriff wurde in zahlreichen Ausdeutungen und Neudefinitionen zum Gegenstand des denkerischen Diskurses des Kaiserreichs. Es erschienen unzählige Bücher zum Thema: von Rosenthal "Die monistische Philosophie" (1880) bis Seidel "Das Wesen des Monismus" (1920). Einen Höhepunkt an wissenschaftlicher Intensität wie auch übler Polemik erlebte die Diskussion allerdings erst, nachdem Häckel den Begriff für sich entdeckt hatte - nun wurde die Geschichte des Monismus erforscht und seine zeitgenössischen Vertreter zu Wort gebeten, so daß sich scheinbar mehr als 16 verschiedene Arten des Monismus unterscheiden ließen. In der 1892 erstmals veröffentlichten und bis 1929 in 42 Auflagen verbreiteten "Einleitung in die Philosophie" von dem Berliner Philosophie-Professor Friedrich Paulsen heißt es: "Die Anschauung, der nach meiner Ansicht die Entwicklung des philosophischen Denkens zustrebt, die Richtung, in der die Wahrheit liegt, bezeichne ich mit dem Namen des idealistischen Monismus." Dieser soll die religiöse Weltanschauung (supranaturalistischen Dualismus) und die wissenschaftliche Naturerklärung (atomistischer Materialismus) einander verträglich machen.

Diesem Bemühen hat sich auch Bruno Wille angeschlossen, der dieses Modewort wohl zunächst, durch seinen Freund Bölsche vermittelt, von Häckel übernahm, es aber anders verwendete. Zuvor jedoch promovierte sich Wille nach einem Studium der Philosophie und Theologie 1888 über den "Phänomenalismus des Thomas Hobbes", einer besseren Hauptseminararbeit, und war seitdem als freier Schriftsteller tätig, dessen lyrisches und belletristisches Schaffen nicht ohne Grund vergessen ist. Sein organisatorisches Talent auf kulturellem und sozialpolitischem Gebiet ist hingegen unbestritten. Philosophie im akademischen Sinne hat Wille nicht betrieben, ihm ging es um Moral und Ethik, um eine Weltanschauung für den Menschen des Fortschrittzeitalters. Die Ansichten und Themen Willes variieren deshalb im Laufe seiner Publikationstätigkeit nur wenig. Die Situation seiner Zeit hatte Wille, wie im Grunde auch Häckel (dessen Schluß allerdings darin bestand, den Glauben an etwas Transzendentes ganz abzulehnen), erkannt: die Fortschritte auf dem Gebiet der Naturwissenschaften machten die christliche Religion scheinbar überflüssig, die Religion durfte keine eigene Geltungsebene mehr beanspruchen - es schien, als könne der Mensch sich selbst erlösen. Damit ging ein geistig-moralischer Verfall einher, die christliche Religion wurde als Heuchelei um der Konventionen Willen aufrechterhalten: man gab vor, an Erlösung und die zehn Gebote zu glauben und fand (und findet) doch im täglichen Leben genügend spitzfindige Ausreden. Die Religion befand sich also im Umbruch. Die Kirche konnte den Kampf gegen diesen Atheismus in den Augen der sozialreformerisch orientierten Vordenker nicht wirkungsvoll genug führen, so daß sich eine außerkirchliche Religiösität organisierte, zu der sich auch Wille zählte. Seine Beschäftigung mit religiösen Themen fand u.a. Ausdruck in seiner Tätigkeit als Lehrer und Sprecher der freireligiösen Gemeinde in Berlin. (Da wundert es einen auch nicht mehr, daß Wille Bruder der Loge "Zur aufgehenden Sonne" und Haupt einer "Allgemeinde" war.) Der theoretische Schluß aus der aktuellen Situation heraus war für Wille, da eine Ethik/Moral naturalistisch schwer zu begründen ist, vor allem die christliche Religion ihrer Besonderheit, der Erlöser und Herr Jesus Christus, zu berauben, um so einen vernüftigen Glauben zu erhalten: eine für jedermann verständliche Universalreligion, die die scheinbaren Unterschiede der Religionen überwindet und so das Menschengeschlecht beglückt. Vorbild hierfür ist indirekt der "Positivistische Katechismus" Auguste Comtes aus dem Jahre 1852 (und natürlich der Kult des "Höchsten Wesens" in der französischen Revolution). In Anlehnung an D.F. Strauß erklärt Wille die Evangelienberichte über Jesus zu Mythendichtungen. Jesus ist nur noch ein Gleichnis für das sittliche Streben des Menschen. In der monistischen Neulektüre der Bibel wird das Christentum zur Tradition, christliche Rituale und Symbole zu allgemein-menschheitlichen Mythen und Ideen. Auch aus der deutschen Mystik, insbesondere von Jakob Böhme, nimmt Wille das Material für seine Bemühungen. Man fühlt sich dabei zuweilen an die moderne Esoterik erinnert, die Mystik als eine esoterische Disziplin versteht, und dabei vergißt, daß das Ablegen der Selbstvergottung, durch das der Mensch erst in der Lage ist, Gott zu erkennen, das Wesen der Mystik ist ("Cogitor, ergo sum." Ich werde -von Gott- erkannt, deshalb bin ich. Franz v. Baader), und nicht eine Selbsterkenntnis oder ein sich Gehenlassen und "Einsfühlen" mit den Elementen. (Auch nicht "Teetrinken", wie es in unserem letzten Heft hieß.) Jesus hatte gesagt: "Ihr werdet die Wahrheit erkennen, und die Wahrheit wird euch frei machen." (Joh 8,32) In der "Philosophie der Befreiung durch das reine Mittel", Willes Auseinandersetzung mit Nietzsche und Stirner, heißt es programmatisch: "ein Jeder erarbeite mit Eifer seine eigene Erlösung". Der Übermensch Nietzsches wird zum freien Vernunftmenschen und Stirners Solipsismus hält Wille die "Menschheit" als moralische Kategorie entgegen. Eine merkwürdige Nähe Willes zu den nordamerikanischen "pragmatischen Idealisten" Emerson und Trine, bei denen insbesondere letztgenannter den Pantheismus als Universalreligion zur Selbsterlösung des Menschen predigte, zeichnet sich dort ab. Mit der Feststellung, daß "unsere Erlösung durch den Stellvertreter ... eigentlich unsere Selbsterlösung, wenn diese auch durch Christus bedingt wird" bedeute, kann Wille seine Nähe zum Buddhismus, der ja keine Erlösung in unserem christlichen Sinne kennt, nicht verleugnen. Ebenso ist Willes Abneigung gegen die Geheimlehre Helena Blavatskys, nur aus seiner unbewußten Nähe zu dieser zu verstehen. Sie propagierte eine innere Einheit der Religionen und ein monistisches Gott-Welt-Verständnis, konnte aber die Berechtigung der Naturwissenschaften nicht anerkennen. Willes Motto für seine Spielart des Monismus lautet im postum veröffentlichten Spätwerk "Der Ewige und seine Masken": "Im Ewigen verschmelzen alle Besonderheiten, Bestimmungen und Gegensätze zum Ganzen." Also eher ein Monopluralismus. Zunächst aber erhob Wille die Forderung Goethes "Materie nie ohne Geist" zum Programm, das als Selbstverständnis seiner Weltanschauung im "faustischen Monismus" gipfelt, um sich von den materialistischen Monisten zu unterscheiden, die auch Wille sehr schön als metaphysische Nihilisten entlarvt. "Faustischer Monismus" bedeutet praktisch, in Vorwegnahme der "faustischen Kultur" Spenglers, daß sich "dieser Gottmensch durch die Hingabe des männlichen Tatendranges...an das Reich der ewigen Werte" zeugt. Ein weiterer geistiger Vater, auf den sich Wille offen bezieht, ist Fechner, der als Begründer der Psychophysik, einer exakten Lehre der Abhängigkeiten zwischen Körper und Seele, den Weg für einen zumindest relativen Dualismus und damit relativen Monismus ebnete. "Ich sehe keinen andern Ausweg...als die ausnahmslos psycho-physische Deutung der Natur", sagt Wille deshalb gegen Häckel und dessen Verehrer. Wille hatte erkannt: um Monist sein zu können, muß man Metaphysiker sein, der "Materialismus ist philosophische Gedankenschwäche" (O. Spann). Vorbild wird deshalb auch die Philosophie Brunos, der einen monistischen Pantheismus lehrte, aber an der Transzendenz Gottes festhielt. Der "Giordano-Bruno-Bund" (1900-1908) war das Organisationsforum der idealistischen Monisten, die, um Einigung bemüht, "Naturwissenschaft, Philosophie, Kunst und Andacht harmonisch zusammmenschließen" wollten.

Die monistisch-pantheistische Frömmigkeit die Wille uns zeigt, ist ein ästhetisch geprägter Synkretismus, der Basis für eine einheitliche Ethik sein soll. Das ist problematisch und hat sich nicht in der Lage gezeigt, den Siegeszug des Materialismus aufzuhalten. Man wollte Religion, ohne konservativ oder gar reaktionär zu sein, das war das eigentliche Dilemma. Die Beweggründe, zu solch einer Weltanschauung zu gelangen, sind edler Natur. Es ist das Bestreben, die Entfremdung zwischen Religion und Kultur zu überwinden. Dabei fällt die alte Weisheit, daß der Mensch die Rolle eines "Mitstreiters, ja Mitwirkers Gottes" (Scheler) übernehmen muß, neu auf. Die Einheit ist also noch nicht da, sie muß erst errungen werden. Hegel: "Erst das Christentum hat durch die Lehre von der Menschwerdung Gottes und von der Gegenwart des Heiligen Geistes in der gläubigen Gemeinde dem menschlichen Bewußtsein eine vollkommen freie Beziehung zum Unendlichen gegeben und dadurch die begreifende Erkenntnis des Geistes in seiner absoluten Unendlichkeit möglich gemacht. Nur eine solche Erkenntnis verdient fortan den Namen einer philosophischen Betrachtung." Kierkegaard: "1800 Jahre ist es her, daß Christus lebte, er ist also vergessen / nur seine Lehre besteht: ja das heißt, man hat das Christentum abgeschafft."

Anmerkung: Das hier aus Platzgründen nur angerissene Thema soll in einem Vortrag im "Kulturhistorischen Verein Friedrichshagen" voraussichtlich im Oktober 1999 ausführlicher besprochen werden.

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lundi, 20 décembre 2010

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung*

von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


Bruno-Wille-WDR-3.jpgDas Freidenkertum entstand im 17. Jahrhundert in England und gelangte im Laufe des 18. Jahrhunderts auf den europäischen Kontinent, v. a. nach Frankreich. Das ursprüngliche Ziel der Bewegung war die Religionsfreiheit. Das "freie Denken" sollte die Evidenz aller Gegenstände aus der Sache ableiten, nicht aus der Autorität. Erst im "eigentümlichen Freiheitsraum des 19. Jahrhunderts" (Friedrich Heer) vollzog sich innerhalb der Freidenkerbewegung ein Wandel: man organisierte sich, versuchte die ursprünglich elitäre Idee zu popularisieren und so politischen Einfluß auszuüben - man wollte das Denken allgemein von religiösen Vorstellungen befreien. Ein Resultat war, daß die Bezeichnung Freidenker, jetzt zu Recht, synonym für Atheisten gebraucht werden konnte. 1881 wurde der Deutsche Freidenker-Bund (DFB) durch Ludwig Büchner gegründet. 1905 bzw. 1908 folgten sozialdemokratische bzw. proletarische Abspaltungen, die sich 1927 vereinigten. Ihren Höhepunkt hatte die Bewegung am Anfang der 30er Jahre. Am Zweiten Weltkrieg zerbrach der Fortschrittsglaube, mit dem Einflußverlust (und der blutigen Unterdrückung) der Kirchen kam der Hauptfeind abhanden und die Naturwissenschaft stieß v. a. in der Atom- und Astrophysik an Grenzen, die einen weltanschaulichen Materialismus unglaubwürdig machen.

Nietzsche, ein ganz anders gearteter "freier Geist" (Im Nachlaß finden sich sogar "Die zehn Gebote des Freigeistes", von denen das zweite lautet: "Du sollst keine Politik treiben."), war bemüht, sich gegen die organisierten Freidenker abzugrenzen: "Sie gehören, kurz und schlimm, unter die Nivellierer, diese fälschlich genannten 'freien Geister' - als beredte und schreibfingrige Sklaven des demokratischen Geschmacks und seiner 'modernen Ideen'; allesamt Menschen ohne Einsamkeit, ohne eigne Einsamkeit, plumpe brave Burschen, welchen weder Mut noch achtbare Sitte abgesprochen werden soll, nur daß sie eben unfrei und zum Lachen oberflächlich sind, vor allem mit ihrem Grundhange, in den Formen der bisherigen alten Gesellschaft ungefähr die Ursache für alles menschliche Elend und Mißraten zu sehn: wobei die Wahrheit glücklich auf dem Kopf zu stehn kommt!" (Jenseits von Gut und Böse II, 44) Nicht die Umstände sondern die Unvollkommenheit des Menschen ist die Ursache. Ein "freier Geist" wie Nietzsche glaubt nicht einmal an die Wahrheit und demzufolge auch nicht an die Wissenschaft, die natürlich ebenfalls metaphysische Voraussetzungen hat. (Zur Genealogie der Moral III, 24)

Wille tritt erstmals im Oktober 1892 öffentlich im Zusammenhang mit dem DFB in Erscheinung. Er schreibt im Correspondenzblatt des Bundes: "was mich bisher vom Freidenker-Bunde zurückhielt, war die Meinung, hier werde das soziale Problem mit seinen bedeutsamen Konsequenzen für unsere Taktik, Moral und Pädagogik ungenügend oder unrichtig betrachtet und angefaßt." (1. Jg.,1892/93, S. 31) Bereits ein Jahr später übernimmt Wille die Redaktion des "Freidenkers" (bekommt dafür eine Aufwandsentschädigung von 300 Mark jährlich) und wird Vorstandsmitglied des DFB. Ab dem 1. März 1916 ist Wille Herausgeber der Zeitschrift und bleibt dies bis zur Einstellung des Erscheinens 1921. Rückblickend schreibt er 1920: "Zu den Geistesbewegungen, die ich mit besonderer Arbeitsamkeit fördere, gehört neben der Freireligiosität das Freidenkertum. Seit Anfang der neunziger Jahre gehöre ich zur Leitung des Deutschen Freidenkerbundes, redigiere dessen Blatt ("Der Freidenker") und habe auf vielen Kongressen des Bundes gewirkt, auch auf internationalen (Rom und München). Die anfangs im deutschen Freidenkertum vorherrschende Richtung des Materialisten Ludwig Büchner habe ich durch meine idealistische Weltanschauung ergänzt, damit das Freidenkertum sich nicht beschränke auf rationalistischen Volksaufkläricht."

Die Geschichte der Zeitschrift soll hier nicht das Thema sein. Obwohl diese sehr interessante Aufschlüsse über die Organisationstrukturen der freigeistigen Bewegungen etc. geben könnte, da der "Freidenker" im Laufe seines Bestehens zahlreiche Wandlungen vollzog, die sich u. a. in Zusammenschlüssen mit anderen Bünden und deren Zeitschriften zeigen. Die Zeitschrift erschien am 1. Juli 1892 erstmals als "Correspondenzblatt des Deutschen Freidenker-Bundes" und wurde mit der Ausgabe vom 1. Juli 1893 umbenannt in "Der Freidenker. Correspondenzblatt und Organ des Deutschen Freidenker-Bundes". Die Erscheinungsweise war bis zum 1. Juli 1894 vierwöchentlich, danach zweiwöchentlich. Die Verlagsorte wechselten oft, je nachdem welcher Ortsverband mit der Herausgabe betraut war. Von Mitte 1895 an war es für kurze Zeit Friedrichshagen (Berlin). In der Juniausgabe 1906, die rückblickend das 25jährige Jubiläum des Freidenkerbundes feiert, wird ein Ansteigen der Auflage der Bundeszeitschrift von 800 (1892) auf 3600 (1906) Exemplare verzeichnet.(14. Jg., 1906, S. 84-86).

In der September-Ausgabe des "Correspondenzblattes" erschien 1892 ein anonymer Beitrag: "Die Scheidung der Geister". (1. Jg., 1892/93, S. 19-22). Darin versucht der Autor den Idealismus vom Materialismus, der seiner Meinung nach einzig richtigen Weltanschauung, zu scheiden: "Hie Materialismus, dort Idealismus: es giebt keine Ueberbrückung." Die materialistische Position wird auf den Einzelnen und die Gesellschaft angwandt. Der bekannte Schluß lautet, daß alles Geschehen "dem Zwang äußerer und innerer Verhältnisse" unterliegt. Jede Handlung eines Menschen sei, durch seine soziale Lage oder weil ihm der freie Wille fehlt, determiniert. Dieser Beitrag löste eine interessante Debatte aus, die dem Verfasser Widersprüche in seiner Argumentation aufzeigte, insbesondere wie man politisch oder kulturell wertsetzend wirken wolle, wenn man keinen freien Willen hat. Wille beteiligt sich an dieser Diskussion und hebt lobend hervor, daß "die materialistische Geschichtsauffassung [...] den gebührenden Einzug" bei den Freidenkern gehalten hat. (1. Jg., 1892/93, S. 31f.). Wille ist der Auffassung, daß der Determinismus keinen Einschränkungen unterworfen ist und begründet das mit der Definition von Freiheit, als Möglichkeit, zu können was man will. Das Wollen ist allerdings motiviert, d. h. von einer oder mehreren auslösenden Ursachen abhängig bzw. determiniert. So artet die Diskussion in Wortklaubereien aus.
Wille stieß in einer Zeit zur Freidenkerbewegung, als diese an Einfluß verlor. Seit 1890 war den Arbeiterparteien die Versammlungsfreiheit wieder gewährt worden, so daß die Arbeiterschaft ihre eigenen Versammlungen besuchte. Der Gegensatz zwischen der Führung der Freidenker, die aus dem liberalen Bürgertum hervorging, und der Masse der Arbeiter trat jetzt deutlich zu Tage. Eine vermutlich von Wille auf dem Kölner Freidenkerkongreß 1894 eingebrachte Resolution sah zwar die Lösung der sozialen Frage als dringendes Problem, stellte die Wahl der Mittel jedoch dem Einzelnen frei. Der Gegensatz zur marxistischen Sozialdemokratie war offensichtlich. Hinzu kam der beginnende Einfluß Nietzsches und der verschiedener Ersatzreligionen, der nach und nach weite Teile der Bevölkerung erfaßte. Erst die Bestseller Haeckels, ermöglicht durch den "'pathologischen Zwischenzustand' einer philosopischen Anarchie" der Jahrhundertwende (Oswald Külpe), und die internationalen Freidenkerkongresse in Rom und Paris (1904/05) brachten einen neuen Aufschwung der Bewegung. Die Macht der Orthodoxie in der Arbeiterbewegung, die das Freidenkertum als bürgerliche Ideologie ablehnte, ging zunächst zurück. Später jedoch folgte die Auseinandersetzung mit dem 1908 in Eisenach gegründeten "Zentralverband Deutscher Freidenker", einer proletarischen Abspaltung. (Vgl. 16. Jg., 1908, S. 153-156). Wille versuchte sich insbesondere des Vorwurfs, der DFB sei unter seiner Federführung zunehmend sozialliberal und damit (in den Augen der Abspaltung) reaktionär geworden, zu erwehren. Anlaß war eine Äußerung von Wille, in der er ein Zusammengehen von Sozialdemokraten und linksliberalen Freisinnigen ("Linker Block" als sozialliberaler Übergang) in der Kulturpolitik gefordert hatte. (16. Jg., 1908, S. 21). Die Person Willes war oft Ziel solcher Art von Vorwürfen. (Vgl. 3. Jg., 1894/95, S. 3-5, 58-62). Wohl auch weil er kategorisch feststellte: "Parteifanatismus ist nicht minder wie religiöser Fanatismus ein Erbfeind des Freidenkertums." (Ebd. S. 58). Das sollte sich im Laufe der Geschichte bewahrheiten.

Was Freidenkertum seiner Meinung nach sei, schreibt Wille in einer Ausgabe der Zeitschrift "ohne Verbindlichkeit für unseren Bund". (15.Jg.,1907, S. 41f). Dem Namen nach (also bloß oberflächlich?) tritt Freidenkertum für "grundsätzlich freies Denken" und "für schrankenlose Entwicklung der höchsten Geisteskräfte in Persönlichkeit und Volksleben ein". Unterdrückung im geistigen Kampf wird abgelehnt, da die Wahrheit durch "ungehemmten Wettbewerb" (natürliche Zuchtwahl) hervortreten soll. Die Wahrheit müßte demzufolge stärker als die Lüge sein. Heißt es noch sehr frei, der Einzelne ist für die Bildung seiner Überzeugungen selbst verantwortlich, werden wenige Zeilen später letztlich dogmatisch "gewisse Weltanschauungen" abgelehnt: "Wer an ein höchstes Wesen glaubt, das als ein persönlicher Herrscher das Weltall regiert und den Menschen absolut gültige Vorschriften gegeben hat, kann kein Freidenker sein, da ihn seine Unterordnung unter die geglaubte Autorität zur Intoleranz verführt." Gemeint ist hier natürlich v.a. das Christentum, das durch eine "natürliche Weltanschauung" ersetzt werden soll. Damit meint Wille in jedem Fall einen Monismus, sei er nun "idealistisch, materialistisch oder mechanistisch". Der Freidenker kann nach Wille ruhig einer "religiösen Stimmung" nachgeben, da dies auch die alten Ägypter, Babylonier etc. getan hätten. Scheinbar fallen deren Ansichten nicht unter "gewisse" sondern unter "natürliche Weltanschauungen". Eine Unterscheidung, die Wille nicht erläutert. Religion sei nicht das "Glauben an übernatürliche Dinge" sondern: "Hingabe an das Höchste, das ein Mensch erlebt, gleichviel welche Begriffe er damit verbindet." Um den Einfluß der Bewegung zu erhöhen, schlägt Wille die Gründung eines Kartells aller mit den Freidenkern gleichgesinnten Geistesrichtungen vor. 1909 kam es dann tatsächlich zur Gründung des "Weimarer Kartells", in dem Monistenbund, "Bund freireligiöser Gemeinden" und DFB zusammenarbeiteten. Der DFB und der Bund bildeteten 1921 den "Volksbund für Geistesfreiheit" mit der monatlich erscheinenden Zeitschrift "Geistesfreiheit" statt des "Freidenkers" als Organ. Im Nachruf dieser Zeitschrift auf Willes Tod heißt es u. a., daß Wille sich "mit der Richtung des Volksbundes für Geistesfreiheit nicht befreunden" konnte. Aber: "In der Geschichte des Freidenkertums nimmt er eine hervorragende Stelle ein." (37. Jg.,1928, S. 147)
Wie oben angedeutet, sieht Wille die Entwicklung der Wahrheit (für ihn gleichbedeutend mit Wissenschaft) in Analogie zur Entwicklung der Wirtschaft. In beiden solle "freies Spiel der Kräfte" herrschen. Der positive Lauf, den die Wirtschaft seit dem Liberalismus genommen habe, zeige die Möglichkeiten, die in der Wissenschaft ruhen. Durch gleiche Bedingungen für alle soll brachliegendes geistiges Potential freigesetzt werden. (17. Jg.,1909, S. 17-19). Der Wirtschaftsliberalismus setzte tatsächlich ungeheure Energien frei, den notwendigen Konkurrenzkampf gewinnen jedoch die Stärkeren wie in der Natur auf Kosten der Schwachen (Monopolbildung). Eine andere interessante Frage schließt sich daran an: Gehören Darwinismus und Sozialismus zusammen? Bebel sagte ja, Haeckel nein. (2. Jg.,1893/94, S. 65-68) Also: Befördert die Selektionstheorie den Sozialismus oder widerspricht sie ihm? Haeckel bezog das darwinistische Prinzip auf den Einzelnen, Bebel auf die Gesellschaftsform. Auf den ersten Blick scheint eher der Liberalismus dem Darwinismus zu entsprechen, in dem sich der Tüchtigste o.ä. durch setzt. Wille führt dagegen an, daß es in der Natur Schutzbündnisse gebe. Ob aber, wie er behauptet, "gerade der Kampf ums Dasein [...] solche Solidarität" auch in der Menschheit herbeiführen wird, ist zweifelhaft, da Wille nur den Zusammenhalt innerhalb einer Klasse meint. Der Sozialismus nach seiner Definition "sucht die Existenz-Bedingungen nicht etwa durch Abtragung ihrer sonnigen Höhen, sondern durch Zuschüttung ihrer grauenvollen Schluchten zu nivellieren." Er ist davon überzeugt, daß sich die unzweckmäßigen Einrichtungen der Gesellschaft zurückbilden und sich die Volkswirtschaft den Bedürfnissen des Volkes anpaßt. Also kommt der Sozialismus zwangsläufig? Wozu braucht man dann den "Umstürzler" Wille? Die Widersprüche sind dem darwinistischen Dogmatismus geschuldet.

Mit seiner Kritik an Haeckels nationalökonomischer Einstellung zeigt Wille nur einen Teil der unterschiedlichen politischen Auffassungen, die im Freidenkertum nebeneinander existierten. Generell kann man für die Beiträge Willes im "Freidenker" sagen, daß er im wesentlichen die Themen seiner Bücher behandelt und teilweise wörtlich daraus zitiert. Weiterhin nahm er zu aktuellen Fragen in der Regel kurz Stellung und redigierte die Zeitschrift mit einem m. E. erstaunlich hohen Maß an Meinungsfreiheit - getreu dem idealistischen Motto: "Das Freidenkertum ist eine Methode, eine Art zu denken, weniger ein bestimmter Inhalt des Denkens; es betont weniger das Was, als das Wie." (3. Jg.,1894/95, S. 5)

* Anmerkung: Der Text stellt einen Auszug aus einem Vortrag dar, den der Autor am 26. März 2001 auf Einladung des Berliner Landesverbandes der Deutschen Freidenker im Rahmen der philosophisch-weltanschaulichen Gespräche zur 120jährigen Geschichte der Freidenker in Deutschland gehalten hat.

samedi, 18 décembre 2010

Actualidad de Werner Sombart

Archives- 1968

Actualidad de Werner Sombart

 

AEI/ Un gran financiero norteamerica­na, batió su propio “record” conclu­yendo en cinco minutos, por teléfo­no, cinco grandes contratos que le proporcionaron una ganancia supe­rior al millón de dolores.

(De los periódicos) 

Werner_Sombart_vor_1930.jpgLa noticia del apresurado y dichoso financiero yanqui, nos trae al re­cuerdo la figura del gran economis­ta alemán profesor Werner Sombart, que ejerció docencia, justamente sonada, como profesor de Economía Política, en la Uni­versidad de Berlín, y cuya obra es una ver­dadera pena que aun no haya sido tra­ducida —que sepamos— al castellano.

Para Werner Sombart, el alma del bur­gués capitalista moderno recuerda el alma del niño a través de un singularísimo pa­recido. El niño, dice, posee cuatro valores fundamentales, que inspiran y dominan su vida toda. 

a) El tamaño, que se manifiesta en su admiración hacia el hombre adulto y más aun hacia el gigante. El burgués moderno —nos referimos siempre a la gran burgue­sía capitalista, especie tal vez a extinguir en este mundo supersónico que ha heredado la tragedia de la economía liberal— estima asimismo el tamaño en cifras o en es­fuerzo. Tener “éxito” en su lenguaje sig­nifica sobrepasar siempre a los demás, aunque en su vida interior, si es que la tiene, no se diferencia en nada de ellos. ¿Ha visto usted en casa de mister X, el Rembrandt que vale 200.000 dólares? ¿Ha contemplado el yate del presidente, que se encuentra desde esta mañana en el puerto, y cuyo valor sobrepasa el millón?…

b) La rapidez de movimientos, tradu­cida en el niño en el juego, en el carrusel, en no saber estarse quieto. Rodar a 120 por hora, tomar el avión más rápido, con­cluir un negocio por teléfono, no reposar, batir “records” financieros de ganancia constituye para el burgués moderno ilu­sión idéntica.

c) La novedad. El niño deja un juguete por otro, comienza un trabajo y lo aban­dona también, por otro, a su vez aban­donado. El hombre de empresa moderno hace lo mismo llamando a esto “sensa­ción”. Si los bailes, en los negocios, en la moda, en los inventos, lo que hoy es “sensacional” mañana se transforma en antigualla, como sucede con los modelos de los coches. Se vive angustiosamente al día, hasta que el corazón falle…

d) El sentimiento de “su poderío”. El niño arranca las patas a las moscas, des­troza nidos, destruye todos sus juguetes… El empresario que “manda” sobre 10.000 trabajadores se encuentra orgulloso de su poder, como el niño que ve a su perro obedecerle a una señal. El especulador afortunado en bolsa o enriquecido por el estraperlo se siente orgulloso de su safio poderío mirando por encima del hombro al prójimo. No existe en él caridad, como generalmente no existe caridad en el niño. Si analizamos este sentimiento veremos que en el fondo es una confesión invo­luntaria e inconsciente de debilidad: “Om­ina crudelitas ex infrimitate”, supo decir nuestro Séneca. 

EL CAPITALISMO MODERNO

Para el genial autor de “El capitalismo moderno”, un hombre grande, natural e interiormente, no concedería nunca un particular valor al poderío externo. El poder no presenta ningún atractivo sin­gular para Sigfrido, pero resulta irresisti­ble para Mimo. Una generación verdade­ramente grande, a la que preocupan los problemas fundamentales del alma huma­na, no se sentirá “engrandecida” ante unos inventos técnicos y no les concederá más que una relativa importancia, la impor­tancia que merecen como elementos del poder externo. En nuestra época resulta tristemente sintomático el que algunos po­líticos, que sólo han sabido sumir al mun­do en el estupor y en la sangre, se deno­minen asimismo como “grandes”.

Para Sombart, el capitalismo burgués que tiene como objetivo la acumulación indefinida e ilimitada de la ganancia, se ha visto hasta nuestros días, pues hoy el concepto se halla en plena crisis aunque su derrumbamiento no sea tal vez inmediato, favorecido por las circunstancias siguien­tes:

1) Por el desenvolvimiento de la téc­nica.

2) Por la bolsa moderna, creación del espíritu sionista, por medio de la cual se rea­bra a través de sus formas exteriores la tendencia hacia el infinito, que caracteriza al capitalismo burgués en su incesante ca­rrera tras el beneficio. 

Estos procesos encuentran apoyo en los siguientes aspectos: 

a) La influencia que los sionistas comen­zaron a ejercer sobre la vida económica europea, con su tendencia hacia la ganan­cia ilimitada, animados por el resentimien­to que, como sabemos, juega tan gran pa­pel en la vida moderna, según Max Scheler nos ha magníficamente demostrado, y por las enseñanzas de su propia religión, que los hace actuar en el capitalismo mo­derno como catalizadores.

b) En el relajamiento de las restric­ciones que la moral y las costumbres im­ponían en sus comienzos al espíritu capi­talista de indudable tinte puritano en la aguda y profunda tesis de Weber. Relaja­miento consecutivo a la debilitación de los principios religiosos y a las normas de ho­nor entre tos pueblos cristianos.

c) La inmigración o expatriamiento de sujetos económicos activos y bien dotados, que en el suelo extraño no se consideran ya ligados con ninguna obligación y es­crúpulo. Nos hallamos así, de nuevo ante el interrogante que se plantea el maestro.

¿Qué nos reserva el porvenir? Los que ven que el gigante desencadenado que lla­mamos capitalismo es un destructor de la naturaleza de los hombres, esperan que llegará un día en que pueda ser de nuevo encadenado, rechazándole hasta los lími­tes franqueados. Para obtener este resul­tado se ha creído encontrar un medio en la persuasión moral. Para Sombart, las tendencias de este género se encuentran aproadas hacia un lamentable fracaso. Para el autor de “El burgués”, el capita­lismo que ha roto las cadenas de hierro de las más antiguas religiones hará saltar en un instante los hilos que le tiendan es­tos optimistas. Todo lo que se pueda hacer en tanto que las fuerzas del gigante que­den intactas, consiste en tomar medidas susceptibles de proteger a los hombres, a su vida y a sus bienes, a fin de extinguir como en un servicio de incendios las brasas que caigan sobre las chozas de nuestra civili­zación. El mismo Sombart señala como sintomático el declive del espíritu capita­lista en uno de sus feudos más intocables: Inglaterra, y esto lo decía en 1924…

El saber lo que sucederá el día en que el espíritu capitalista pierda la fuerza que todavía presenta no interesa particular­mente a Sombart. El gigante, transforma­do en ciego, será quizá condenado, y cual nuevo Sisifó arrastra el carro de la civi­lización democrática. Quizá, escribe, asis­tamos nosotros al crepúsculo de los dio­ses, y el oro sea arrojado a las aguas del Rhin, erigiéndose en trueque valores más altos.

¿Quién podrá decirlo? El mañana, esa cosa que llamamos Historia, quizá. Por ello, más que Juicios, “a priori”, preferimos aquí dar testimonios. Lo que pasa, y lo que pue­da pasar en la ex dulce Francia, funda­mentalmente burguesa y con sentido de la proporción hasta ahora, podrá ser un gran indicio histórico. 

José Mª. CASTROVIEJO

ABC, 19 de junio de 1968.

vendredi, 10 décembre 2010

"Wir sind nicht das Weltsozialamt" - Interview mit Udo Ulfkotte

»Wir sind nicht das Weltsozialamt«

Exklusiv-Interview mit Udo Ulfkotte

Michael Grandt / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Noch immer schlagen die Wellen in Sachen Migration hoch. Der Publizist Udo Ulfkotte hat schon vor Jahren vor Missständen gewarnt, aber niemand wollte auf ihn hören. In seinem neuen Buch präsentiert er dort Fakten, wo Sarrazin nur Aussagen macht.

Zur Person:

Dr. Udo Ulfkotte ist Jahrgang 1960. Er studierte Kriminologie, Islamkunde und Politik. Von 1986 bis 2003 arbeitete er für die Frankfurter Allgemeine Zeitung – zumeist im Nahen Osten. Er ist Sicherheitsfachmann und wendet sich gegen die schleichende Islamisierung. In zahlreichen Büchern, die Bestsellerauflagen erreichten, hat der Autor über die von den Medien verschwiegene Entwicklung aufgeklärt. Der Schweizer Journalist Beat Stauffer nannte Ulfkotte 2007 einen der »härtesten deutschen Islamismus-Kritiker« und berichtete: »(…) auch erklärte Gegner anerkennen, dass sich Ulfkotte auf der Ebene der Fakten nicht so leicht widerlegen lässt.« Viele muslimische Mitbürger haben zur Ermordung von Ulfkotte und seiner Familie aufgerufen, die nun an einem geheimen Ort lebt. Zuletzt erschien im Kopp Verlag sein Buch Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold., über das in der Mainstreampresse bereits kontrovers diskutiert wird.

Michael Grandt: Warum sind Sie überhaupt zu einem der hartnäckigsten Islam-Kritiker in Deutschland geworden?

Udo Ulfkotte: Ich bin mit einem ziemlich naiven Weltbild nach einem Studium von Jura, Politik und Islamkunde zur Frankfurter Allgemeinen Zeitung gekommen, wo ich 17 Jahre aus der islamischen Welt berichtet habe. Zwischen dem, was mir deutsche Universitäten über die islamische Welt und Muslime vermittelten, und der Realität bestand ein Unterschied wie zwischen Tag und Nacht. Der aus unserer westlichen Sicht so friedfertige Islam begegnete mir überall in der islamischen Welt absolut unfriedlich. Überall dort, wo Muslime und Christen oder Muslime und Nicht-Muslime zusammenleben, gibt es irgendwann Bürgerkrieg oder Krieg. Nach 17 Jahren Realitätserfahrung vor Ort habe ich feststellen müssen, dass auch meine europäische Heimat durch die Zuwanderung von immer mehr Muslimen in genau das abgleitet, worüber ich viele Jahre aus fernen Ländern berichtet habe: Parallelgesellschaften, der Vormachtanspruch und das Überlegenheitsgefühl der Muslime, die Beanspruchung von Sonderrechten, wie Migrantenbonus vor Gericht, die Behandlung von Nicht-Muslimen, also ethnischen Europäern als Menschen zweiter Klasse, und vor allem: horrende Kosten, die wir für vergebliche Integrationsversuche ausgeben. Jegliche Kritik an diesen Zuständen wird oder besser gesagt wurde in Europa über Jahre brutal mit der Nazi-Keule unterdrückt.

Zum Islam-Kritiker hat mich die Bundesregierung gemacht. Ich habe viele Sachbücher geschrieben und wäre nie Islam-Kritiker geworden, hätte mir dieser Staat nicht sechs Hausdurchsuchungen verordnet. In den Durchsuchungsbeschlüssen stand jedes Mal, ich hätte möglicherweise »Dienstgeheimnisse« verraten. Ich hatte ganz normal über das Verhalten von Muslimen berichtet – allerdings über das Verhalten jener Muslime, die von der Bundesregierung hofiert und zu Islam-Gipfeln eingeladen werden. Ich hatte von Sicherheitsbehörden Unterlagen zugespielt bekommen, die das wahre Gesicht einiger dieser Menschen deutlich zeigten. Und dann kam die Rache dieses Staates – die Hausdurchsuchungen. Der Überbringer der Botschaft wurde geköpft, die Wahrheit galt als »Dienstgeheimnis«. Seither interessiert mich politische Korrektheit nicht mehr. Lange vor Sarrazin habe ich die Dinge beim Namen genannt und auch belegt. Ich habe bei den Durchsuchungen gemerkt, dass wir Bürger für die Herrschenden nur Stimmvieh sind, das alle paar Jahre ein Kreuzchen machen darf. Und ich habe erfahren müssen, dass die Regierenden die schleichende Islamisierung Europas schlicht nicht interessiert. Die Parteien interessiert nur das nächste Kreuzchen des Stimmviehs. Und ob das Stimmvieh in ein paar Jahren in einem islamischen oder aber einem anderen Staatswesen lebt, das interessiert die da oben ganz bestimmt nicht. Auf dem Gebiet, auf dem ich mich auskenne – dem Islam und der Islamisierung Europas – mache ich also den Mund auf, damit unsere Kinder einmal später sehen, dass nicht alle geschwiegen haben.

Michael Grandt: Ihre Gegner werfen Ihnen eine »Islamophobie« und ein eingeengtes Weltbild vor, was sagen Sie dazu?

Udo Ulfkotte: Islamophobie ist nach der Wortbedeutung eine an Wahn grenzende Angst vor dem Islam. Islamophobie ist heute vor allem unter Muslimen verbreitet, etwa unter Sunniten, die Schiiten hassen, oder unter Schiiten, die Sunniten hassen. Überall in der islamischen Welt werden täglich Muslime Opfer dieser hasserfüllten islamophoben Wahnvorstellungen. Die weisen Politiker der westlichen Welt haben keine Erklärung dafür, warum es Islamophobie unter Muslimen gibt. Sie nennen es vielmehr nur Islamophobie, wenn Europäer nicht freudig erregt ihre eigene Verdrängung durch Muslime in Europa begrüßen. Wenn Hunderttausende Türken im Frühjahr 2007 in ihrer Heimat gegen die Islamisierung ihres Landes demonstrieren, dann ist das aus westlicher Sicht keine Islamophobie, sondern ein friedlicher Massenprotest. Zeitgleich wird jegliche Kritik am Islam in westlichen Staaten von Muslimen unter dem Beifall von Intellektuellen als »Islamophobie« bezeichnet. Das ist schizophren. Das zeigt, wie krank unsere Politiker und Intellektuellen sind. Der Begriff »Islamophobie« stammt übrigens von der terroristischen islamischen Gruppe Hizb ut-Tahrir, die in Deutschland verboten ist. Wenn mir also jemand »Islamophobie« vorwirft, dann ist das bei näherer Betrachtung so, als ob mir ein Nazi vorwirft, dass ich seine Ideologie nicht teile. Ich habe tiefstes Mitleid mit jenen, die so dumm sind und Kampfbegriffe wie »Islamophobie«, die von islamischen Terrorgruppen kreiert worden sind, unkritisch nachplappern.

Michael Grandt: Was unterscheidet Ihre neue Publikation Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold. von dem Buch Sarrazins?

Udo Ulfkotte: Zu jeder Aussage des Buches gibt es die Originalquellen. Insgesamt rund tausend Quellen, die man im Internet mühelos anklicken kann. Wenn man also schlicht nicht glauben will, dass Migranten aus den deutschen Sozialversicherungssystemen schon bis 2007 mehr als eine Billion (!) Euro mehr herausgenommen als in diese einbezahlt haben, dann klickt man auf der zum Buch gehörenden Website die Fundstelle an und kann sich vom Wahrheitsgehalt dieser Aussage überzeugen. Wer nicht glaubt, dass wir Steuerzahler gewalttätigen Migranten Boxkurse finanzieren, anatolischen Frauen Kurse, in denen sie lernen, einen Tampon zu benutzen oder wie man ein Hemd bügelt, dann schlägt man die Originalquelle nach. Und dann wird einem schnell klar, dass ethnische Europäer längst schon Menschen zweiter Klasse sind, die immer öfter nur noch dafür arbeiten, die unglaublichen Leistungen für Migranten zu finanzieren. Wussten Sie, dass wir seit Jahrzehnten Türken und Mitglieder von Balkan-Großfamilien, die noch nie in Europa gewesen sind, kostenlos und ohne einen Cent Zuzahlung, in der gesetzlichen deutschen Krankenversicherung mitfinanzieren? Davon können ethnische Deutsche, deren Krankenkassenbeiträge ständig erhöht werden, nur träumen. Wussten Sie, dass die Bundesregierung seit 2003 versprochen hat, diese Benachteiligung ethnischer Deutscher endlich zu beenden, es aber bis heute nicht getan hat? Wussten Sie, dass schon mehr als 40 Prozent der Sozialhilfebezieher in Deutschland Ausländer sind und die von ihnen verursachten Kosten für die Steuerzahler pro Jahr (!) höher sind als die Kosten der Finanzkrise? Der Unterschied zum Sarrazin-Buch besteht in der Dichte der Fakten und den direkt präsentierten Belegen. Tausend unglaubliche Fakten – und tausend Quellen. Da kann man nicht mehr sagen, dies oder das ist »rechtsextrem«, denn es sind Fakten. Sarrazin trifft Aussagen, ich präsentiere Fakten. Die Resonanz der Medien ist aufschlussreich: All jene, die über Sarrazin diskutiert und sich aufgeregt haben, schweigen zu meinem Buch. Ist doch klar: Sie kommen an den Fakten nicht vorbei. Wie wollen Journalisten denn den Bürgern da draußen erklären, dass es gut für uns ist, wenn Türken, die noch nie in Deutschland gewesen sind, in Anatolien in der deutschen Gesetzlichen Krankenversicherung versichert sind? Während wir Deutsche ständig neue Zusatzzahlungen für die Krankenversicherung leisten müssen, sind türkische Familienangehörige in der Türkei kostenlos mitversichert. Das erklären Sie mal einem deutschen Beitragszahler …

Michael Grandt: Wie lautet die zentrale Aussage Ihres Buches?

Udo Ulfkotte: Migranten aus islamischen Staaten sind Wohlstandsvernichter. Weil wir nicht das Weltsozialamt sind, müssen wir unsere Gastarbeitslosen wieder zum Gehen auffordern. Sonst bricht der Sozialstaat in weniger als 48 Monaten zusammen. Denn wir finanzieren das gerade schon mit den Steuergeldern unserer noch nicht einmal gezeugten Kinder.

Michael Grandt: Sehen Sie Unterschiede in der Wahrnehmung Ihrer kritischen Publikationen zwischen der intellektuellen Elite, dem medialen Establishment und dem Normalbürger?

Udo Ulfkotte: Da gibt es ganz gewaltige Unterschiede. Wenn man sich vor Augen hält, dass ein normales Sachbuch zu dieser Thematik von mir in kurzer Zeit irgendwo zwischen 60.000 und 100.000 Mal verkauft wird, meine Bücher allerdings in Medien fast nie erwähnt werden, dann zeigt das den volkspädagogischen Charakter unserer Medien und intellektuellen Eliten. Bücher, die kaum 2.000 Mal verkauft werden, werden überall besprochen, wenn sie nur politisch korrekt sind. Mich stört das allerdings nicht. Denn jene, die meine Bücher kaufen, bestellen die Zeitungen, die sich so verhalten, irgendwann ganz einfach ab. Die Qualitätsmedien schaufeln sich ihr eigenes Grab, indem sie ihre Kunden vergraulen. Eigentlich schade, aber wenn sie so dumm sind, kann ich es auch nicht ändern.

Michael Grandt: Haben Sie Drohungen erhalten?

Udo Ulfkotte: Ich kann die nicht mehr zählen. Von 2002 bis Ende 2003 hatte meine Familie wegen der vielen Morddrohungen Polizeischutz. Wir sind nach Angriffen mehrfach umgezogen. Wir haben heute zum Schutz scharfe Wachhunde. Ein Angreifer wäre in Sekundenbruchteilen Hackfleisch. Die letzte Morddrohung stammt übrigens von einem Produzenten von Xavier Naidoo. Der hatte vor wenigen Wochen öffentlich einen Preis für denjenigen ausgesetzt, der mir den Kopf abschneidet. Das Verfahren ist derzeit bei der Staatsanwaltschaft Hamburg anhängig. Es gibt leider immer mehr von diesem Bodensatz unserer Gesellschaft, der sich selbst dabei auch noch witzig findet, um den sich die Staatsanwaltschaften kümmern müssen.

Michael Grandt: Sie sind ebenfalls sehr kritisch, wenn es um die Politik islamischer Staaten geht. Wie verhält es sich im Falle Israels, das immer wieder Menschenrechte bricht und sich um keine UN-Resolutionen schert?

Udo Ulfkotte: Ich habe nicht das geringste Problem damit, den Staat Israel zu kritisieren. Wo Kritik angebracht ist, da muss man sie auch offen äußern.

Michael Grandt: Ich danke Ihnen für dieses Gespräch.

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Publikationen von Udo Ulfkotte:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

dimanche, 05 décembre 2010

Otto Dix, un regard sur le siècle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Otto Dix, un regard sur le siècle

Guillaume HIEMET

Le centième anniversaire de la naissance d'Otto Dix a été l'occasion pour le public allemand de découvrir la richesse de la production d'un peintre largement méconnu. Plus de 350 œuvres ont en effet été exposées jusqu'au 3 novembre 1991, dans la galerie de la ville de Stuttgart, puis, à partir du 29 novembre, à la Nationalgalerie de Berlin. Peu connu en France, classé par les critiques d'art parmi les représentants de la Nouvelle Objectivité (Neue Sachlichkeit), catalogué comme il se doit, Otto Dix a toujours bénéficié de l'indulgence de la critique pour un peintre qui avait dénoncé les horreurs de la première guerre mondiale, figure de proue de l'art nouveau dans l'entre-deux guerres, et ce, en dépit de son incapacité à suivre la mode de l'abstraction à tout crin dans l'après-guerre. Quelques tableaux servent de support à des reproductions indéfiniment répétées et à des jugements qui ont pris valeur de dogmes pour la compréhension de l'œuvre. A l'encontre de ces parti-pris, les expositions de 1991 permettent aux spectateurs de se faire une idée infiniment plus large et plus juste des thèmes que développent la production de Dix.

 

Dix est né le décembre 1891 à Untermhaus, à proximité de Gera, d'un père, ouvrier de fonderie. Un milieu modeste, ouvert cependant aux préoccupations de l'art; sa mère rédigeait des poèmes et c'est auprès de son cousin peintre Fritz Amann que se dessina sa vocation artistique. De 1909 à 1914, il étudie à l'école des Arts Décoratifs de Dresde. Ses premiers autoportraits, à l'exemple de l'Autoportrait avec oeillet  de 1913, sont clairement inspirés de la peinture allemande du seizième siècle à laquelle il vouera toujours une sincère admiration. Ces tableaux de jeunesse témoignent déjà d'un pluralisme de styles, caractérisé par la volonté d'intégrer des approches diverses, par la curiosité de l'essai qui restera une constante dans son œuvre.

 

La guerre: un nouveau départ

 

otto.jpgEn 1914, Dix s'engageait en tant que volontaire dans l'armée. L'expérience devait, comme toute sa génération, profondément le marquer. S'il est une habitude de dépeindre Dix comme un pacifiste, son journal de guerre et sa correspondance montrent un caractère sensiblement différent. La guerre fut perçue par Dix, comme par beaucoup d'autres jeunes gens en Allemagne, comme l'offre d'un nouveau départ, d'une coupure radicale avec ce qui était ressenti comme la pesanteur de l'époque wilhelminienne, sa mesquinerie, son étroitesse, sa provincialité qu'une certaine littérature a si bien décrites. Elle annonçait la fin inévitable d'une époque. Les premiers combats, l'ampleur des destructions devaient, bien sûr, limiter l'enthousiasme des départs, mais le gigantisme des cataclysmes que réservait la guerre, n'en présentait pas moins quelque chose de fascinant. Le pacifiste Dix se rapproche par bien des aspects du Jünger des journaux de guerre. L'épreuve de la guerre pour Ernst Jünger trempe de nouveaux types d'hommes dans le monde d'orages et d'acier qu'offrent les combats dans les tranchées.

 

Avec nietzsche: “oui” aux phénomènes

 

Une philosophie nietzschéenne se dégage, “la seule et véritable philosophie” selon Dix, qui, en 1912, avait notamment élaboré un buste en platre en l'honneur du philosophe de la volonté de puissance. Des écrits de Nietzsche, Dix retient l'idée d'une affirmation totale de la vie en vertu de laquelle l'homme aurait la possibilité de se forger des expériences à sa propre mesure. Ainsi, il note: «Il faut pouvoir dire “oui” aux phénomènes humains qui existeront toujours. C'est dans les situations exceptionnelles que l'homme se montre dans toute sa grandeur, mais aussi dans toute sa soumission, son animalité». C'est cette même réflexion qui l'incite à scruter le champ de bataille, qui le pousse à observer de ses propres yeux, si importants pour le peintre, les feux des explosions, les couleurs des abris, des tranchées, le visage de la mort, les corps déchiquetés.

 

De 1915 à 1918, il tient une chronique des événements: ce sont des croquis dessinés sur des cartes postales, visibles aujourd'hui à Stuttgart, qui ramassent de façon simple et particulièrement intense l'univers du front. Le regard du sous-officier Dix a choisi de tout enregistrer, de ne jamais détourner le regard puis de tout montrer dans sa violence, sa nudité. Les notes du journal de guerre montrent crûment sa volonté de considérer froidement, insatiablement le monde autour de lui. Ainsi, en marche vers les premières lignes: «Tout à fait devant, arrivé devant, on n'avait plus peur du tout. Tout ça, ce sont des phénomènes que je voulais vivre à tout prix. Je voulais voir aussi un type tomber tout à côté de moi, et fini, la balle le touche au milieu. C'est tout ça que je voulais vivre de près. C'est ça que je voulais». Dans cette perception de la réalite, Dix souligne le jeu des forces de destruction, les peintures ne semblent plus obéir à aucune règle de composition si ce n'est les repères que forment les puissances de feu, les balles traçantes, les grenades. Tout dans la technique du dessin sert, contribue vivement à cette impression d'éclatement, les traits lourds brusquement interrompus, hachures des couleurs, parfois plaquées. Le regard est obnubilé par la perception d'ensemble, la brutalité des attaques, vision cauchemardesque qui emporte tout.

 

La dissolution de toute référence stable

 

Le réalisme de ces années 1917-1918 qui caractérise ces dessins et gouaches est dominé par cette absence d'unité, l'artiste a jeté sur la toile tel un forcené la violence de l'époque, la dissolution de toute reférence stable. L'abstraction dit assez cette incapacité de se détourner des éclairs de feu et de se rapprocher du détail. Cette peinture permettra pareillement à Dix de conjurer peu à peu les souvenirs de tranchées. Ce rôle de catharsis, cette lente maturation s'est faite dans son esprit pendant les années qui suivent la guerre. L'évolution est sensible. Ce sont en premier, le cycles des gravures intitulé la Guerre qu'il réalise en 1924 puis les grandes compositions des années 1929-1936. Les gravures presentent un nouveau visage de la guerre, Dix s'attarde à représenter le corps des blessés, les détails de leurs souffrances. Ici, le terme d'objectivité est peut-être le plus approprié, il n'est pas sans évoquer toutefois les descriptions anatomiques du poète et médecin Gottfried Benn. Le soin ici de l'extrême précision, de la netteté du rendu prend chez ces guerriers mourants, mutilés ou dans la description de la décomposition des corps une force incroyable.

 

Les souvenirs de guerre ne se laissaient pas oublier aisément, il avouait lui-même: «pendant de longues années, j'ai rêvé sans cesse que j'étais obligé de ramper pour traverser des maisons détruites, et des couloirs où je pouvais à peine avancer». Dans les grandes toiles qu'il a peintes après 1929, il semble que Dix soit venu à bout des stigmates, entaillés dans sa mémoire, que lui avaient laissées la guerre, ou tout du moins que l'unité ait pu se faire dans son esprit. La manière dont l'art offre une issue aux troubles des passions, ce rôle pacificateur, il l'évoque à plusieurs moments dans des entretiens à la fin de sa vie. Dans ces toiles grands-formats qui exposent maintenant, l'univers de la guerre, se conjuguent une extrême précision et l'entrée dans le mythe que renforce encore la référence aux peintres allemands du Moyen-Age. Dix a choisi pour la plus importante de ces oeuvres, un tryptique, La Guerre, la forme du retable. Le renvoi au retable d'Isenheim de Mathias Grünewald, étrange et impressionnant polyptique qui dans la succession de ses volets propose une ascension vers la clarté, l'aura de la Nativité et de la Résurrection, est explicite. En comparaison, le triptyque de Dix semble une tragique redite du premier volet de Grünewald, La tentation de Saint Antoine. Ici, l'univers apocalyptique de la guerre, la mêlée de corps sanglants, les dévastations de villages minés par les obus, correspondent aux visions délirantes de monstres horribles et déchainés, aux corps repoussants, aux gueules immondes mues par la bestialité de la destruction chez Grünewald.

 

des tranchées aux marges de la société

 

L'impossibilité de s'élever vers la clarté, l'éternel recommencement du cycle de destructions est accentué par l'anéantissement du pont qui ferme toute axe de fuite et le dérisoire cadavre du soldat planté sur l'arche de ce pont qui forme une courbe dont l'index tendu pointe en direction du sol. Le cycle du jour est rythmé par la marche d'une colonne dans les brouillards de l'aube, le paroxysme des combats du jour, et le calme, la torpeur du sommeil, les corps allongés dans leur abris que montre la predelle (le socle du tableau). L'effet mythique est encore accentué par la technique qu'utilise Dix pour ces toiles: la superposition de plusieurs couches de glacis transparents, technique empruntée aux primitifs allemands, qui nécessite de nombreuses esquisses et qui confère une perfection, une exactitude extraordinaire aux scènes représentées. Ainsi dans le tableau de 1936, la mort semble être de tout temps, la destinée des terres dévastées de Flandre  —“en Flandre, la mort chevauche...”, selon les paroles d'un air de 1917—,  et le combat dans son immensité parvient à une dimension cosmique.

 

Sous la République de Weimar, Dix conserve en grande partie le style éclaté des peintures de guerre. Il demeure successivement à Dresde, Düsseldorf, Berlin puis à nouveau Dresde jusqu'en 1933. Les thèmes que traite Dix se laissent difficilement résumer: le regard froid des tranchées se tourne vers la société, une société caractérisée, disons-le, par ces marges. Dix est fasciné par le mauvais goût, la laideur, les situations macabres, grotesques. L'esprit du temps n'est pas étranger à cet envoûtement pour la sordidité, et souvent ses personnages tiennent la main aux héroïnes de l'opéra d'Alban Berg Lulu:  thèmes des bas-fonds de la littérature, aquarelles illustrants les amours vénales des marins, accumulation de crimes sadiques décrits avec la plus grande exactitude. Le cynisme hésite entre le sarcasme et l'ironie la moins voilée. L'atmosphère incite aux voluptés sommaires, comme disait un écrivain français. Une des figures qui apparaît le plus souvent et qui nous semble des plus caractéristiques, est celle du mutilé. La société weimarienne ne connaît pour Dix qu'estropiés, éclopés, que des bouts d'humanité, et tout donne à penser que ce qui est valable pour le physique l'est aussi pour le mental. Ainsi les cervelets découpés et asservis aux passions les plus vulgaires et les plus automatiques.

 

Déshumanisation, désarticulation, pessimisme

 

Otto_Dix.jpgUne des peintures les plus justement célèbres de Dix, la Rue de Prague  en 1920, fournit un parfait résumé des thèmes de l'époque. D'une manière particulièrement féroce, Dix place les corps désarticulés de deux infirmes à proximité des brillantes vitrines de cette rue commerçante de Dresde, dans lesquelles sont exposés les mannequins et autres bustes sans pattes. Le processus de déshumanisation est complet, les infirmes détraqués, derniers restes de l'humain trouvent leur exact répondant dans la vie des marionnettes. La composition du tableau  —huile et collage—  accentue d'autant plus la désarticulation des corps, la régression des mouvements et pensées humains à des processus mécaniques dont l'aboutissement symbolique est la prothèse. Nihilisme, pessimisme complet, dégoût et aversion affichée pour la société, il y a sans doute un peu de tout cela.

 

Bien des toiles de cette époque pourraient être interprétées comme une allégorie méchante et sarcastique de la phrase de Leibniz selon laquelle “nous sommes automates dans la plus grande partie de nos actions”. L'absence de plan fixe, de point d'appui suggère cette dégringolade vers l'inhumain. Le rapprochement de certains tableaux de cette époque  —Les invalides de guerre, 1920—  avec les caricatures de George Grosz est évident, mais celui-ci trouve bientôt ses limites, car très vite il apparaît que si la source de tout mal pour Grosz se situe dans la rivalité entre classes, pour Dix, le mal est beaucoup plus profond. La société tout entière se vend, tel est le thème du grand triptyque de 1927-1928, La grande ville, misère et concupiscence d'une part, apparence de richesse, faste et vénalité de l'autre. Rien ne rachète rien. On a souvent reproché à Dix son attirance pour la laideur, la déchéance physique et la violence avec laquelle il traite ses sujets. La volonté de provocation rentre directement en ligne de compte, mais plus profondément, ces thèmes se présentaient comme un renouvellement de la peinture. Il avouait d'ailleurs: “j'ai eu le sentiment, en voyant les tableaux peints jusque là, qu'un côté de la réalité n'était pas encore représenté, à savoir la laideur”.

 

Haut-le-cœur, immuables laideurs

 

Si l'impressionnisme a porté le réalisme jusqu'à son accomplissement ce qui n'était pas sans signifier l'épuisement de ces ressources, les tentatives des années vingt restent exemplaires. Le beau classique s'était mû en un affadissement de la réalité, la perte de la force inhérente à la peinture ne pouvait être contrecarrée d'une part, que par une abstraction de plus en plus poussée à laquelle tend toute la peinture moderne, de l'autre, par la confrontation avec un réel non encore édulcoré. Naturellement, de la façon dont Dix, animé d'une sourde révolte, tire sur les conformismes du temps, on comprend le haut-le-cœur des contemporains devant ces corps qui semblent jouir du seul privilège de leur immuable laideur. Aujourd'hui cependant, le spectateur n'est pas sans sourire à cette atmosphère encanaillée des pièces de Brecht, aux voix légèrement discordantes, le parler-peuple de l'Opéra de Quatre-sous. Il en est de même de la caricature de la société de Weimar, attaque frontale contre les vices et vertus de l'époque à laquelle procède méthodiquement Dix, époque de vieux, de nus grossiers, de mères maquerelles, de promenades dominicales pour employés de commerce.

 

La toile Les Amants inégaux  de 1925, dont il existe également une étude à l'aquarelle, condense particulièrement les obsessions chères à Dix. Un vieillard essaie péniblement d'étreindre une jeune femme aux formes imposantes qui se tient sur ses genoux. Le caractère vain du désir, l'intrusion de la mort dans les jeux de l'amour que symbolisent les longues mains décharnées du vieillard forment une danse étonnante de l'aplomb et de la lassitude, de la force charnelle et de sa disparition.

 

les révélations des autoportraits

 

Dix a tout au long de sa vie produit un grand nombre de portraits. L'exposition de Stuttgart en 1991 a montré le fabuleux coloriste qu'il fut. Il affectionne les rouges sang, le fard blanc qui donne aux visages quelque chose du masque, de tendu et de crispé, et les variations de noir et de marron que fournit la fourrure de Martha Dix dans le magnifique portrait de 1923. Selon l'aveu même du peintre, l'accentuation des traits jusqu'à la caricature ne peut que dévoiler l'âme du personnage et la résume d'une façon à peu près infaillible. Il n'est pas interdit de retourner cette remarque à Dix lui même, car il n'est pas sans se projetter dans sa peinture et tout d'abord, dans les nombreux autoportraits que nous disposons de lui. L'esprit qui anime les peintures de l'entre-deux guerres se retrouvent ici aisément: l'Autoportrait avec cigarettes de 1922, une gravure, partage la brutalité des personnages qu'il met en scène. Dix se présente les cheveux gominés, les sourcils froncés, le front décidément obtus, la machoire carrée, bref, une aimable silhouette de brute épaisse dont seul la finesse du nez trahit des instincts plus fins que viennent encore démentir la clope posée entre les lèvres serrées. Qui pourrait nier que ces autoportraits fournissent des équivalences assez exactes de la rudesse et de la brutalite de la peinture de Dix?

 

Art dégénéré ou retour du primitivisme allemand?

 

A partir de 1927, Dix fut nomme professeur à 1'Académie des Beaux-Arts de Dresde. En 1933, quelques temps après 1'arrivée au pouvoir du nouveau régime, il est licencié. Dix représentait pour le régime nazi le prototype de l'art au service de la décadence, et des œuvres tels que Tranchées, Invalides de guerre, eurent l'honneur de figurer dans l'exposition itinérante ”d'art dégenéré” organisée par la Propagande du Reich en 1937, plaçant Dix dans une situation délicate. Il est clair que Dix n'a jamais temoigné un grand intérêt pour la chose politique, refusant toute adhésion partisane avec force sarcasmes. Mais, rétrospectivement, ces jugements apparaissent d'autant plus absurdes que la manière de Dix depuis la fin des années vingt avait déjà considérablement évoluée et témoignait d'un très grand intérêt pour la technique des primitifs allemands que le régime vantait d'autre part. Situation ô combien absurde, mais qui devait grever toute la production des années trente.

 

En 1936, 1'insécurité présente en Saxe l'incite à s'installer avec sa famille sur les bords du lac de Constance dans la bourgade de Hemmenofen. A l'exil intérieur dans lequel il vit, correspond une production toute entière consacrée aux paysages et aux thèmes religieux. Tous ces tableaux montrent une maîtrise peu commune, l'utilisation des couches de glacis superposés, fidèle aux primitifs allemands du seizième, permet une extraordinaire précision et la description du moindre détail. Si Dix a pu dire qu'il avait été condamné au paysage qui, certes, ne correspondait pas au premier mouvement de son âme, on reste néanmoins émerveillé par certaines de ses compositions. Randegg sous la neige avec vol de corbeaux  de 1935: la nuit de 1'hiver enclot le village recouvert d'une épaisse couche de neige, les arbres qui se dressent dénudés évoquent les tableaux de Caspar David Friedrich, unité que seule perçoit le regard du peintre. Loin de se contenter d'un plat réalisme, cet ensemble n'a jamais rendu aussi finement la présence du peintre, léger recul et participation tout à la fois à l'univers qui l'entoure.

 

Devant les gribouilleurs et autres tâcherons copieurs de la manière ancienne aux ordres des nouveaux impératifs, et dans une période où l'humour est si absent des œuvres de Dix, celui-ci semble dire magistral: “Tas de boeufs, vous voulez du primitif, en voilà!”. Art de plus en plus contraint à mesure que passaient les années, mais au moyen duquel Dix exposait une facette majeure de sa personnalité. Dès 1944, il éprouvait le besoin d'en finir avec cette technique minutieuse, exigeante qui bridait son besoin de créativité. La dynamique formelle reprend vivement le dessus dans ses Arbres en Automne de 1945 où les couleurs explosent à nouveau triomphantes. Les peintures de la fin de sa vie renouent avec la grossièreté des traits des œuvres des années vingt.

 

Peu reconnu par la critique alors que le combat pour l'art abstrait battait son plein, Dix est resté, dans ces années, en marge des nouveaux courants artistiques auxquels il n'éprouvait aucunement le besoin d'adhérer. Les thèmes religieux, ou plutôt une imagerie de la bible qu'il essaie étrangement de concilier avec la philosophie de Nietzsche, tiennent dans cette période un rôle fondamental. Sa peinture semble parvenir à une économie de moyens qui rend très émouvantes certaines de ses toiles  —Enfant assis, Enfant de réfugiés, 1952—, la prédisposition de Dix pour les couleurs n'a jamais été aussi présente, l'Autoportrait en prisonnier de guerre  de 1947 est organisé autour des taches de couleur, plaquées sur un personnage muet, vieilli, dont les traits se sont encore creusés. Après plusieurs années de vaches maigres, les honneurs des deux Allemagnes se succédèrent  —il resta toujours attaché à Dresde où il se déplaçait régulièrement . Atteint d'une première attaque en 1967 qui le laissa amoindri, il devait néanmoins poursuivre son travail jusqu'à sa mort deux ans plus tard. Un des ces derniers autoportraits, l'Artiste en tête de mort, montre le crâne du peintre ricanant ceint de la couronne de laurier, image troublante qui rejette au loin les nullissimes querelles entre art figuratif et art abstrait.

 

Guillaume HIEMET.

 

Les citations sont tirées de : Eva KARCHNER, Otto Dix 1891-1969, Sa vie, son œuvre, Benedikt Taschen, 1989.

samedi, 04 décembre 2010

Presseschau (Dezember 2010/1)

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Presseschau

Dezember 2010 (1)

Liebe Angemailte, großer Kreis. Da die infokreis-Presseschau derzeit nicht erscheint, meine selber gesammelten Links für eine Presseschau spezial November. Umfangreich. Viel Spaß und manche Anregung beim Lesen.
C.W.

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Standpunkt. Das paßt den führenden deutschen Medien in den Kram: Mit Thilo Sarrazins demagogischen Thesen läßt sich die Bevölkerung bestens von ihrer weiteren Ausplünderung ablenken
Von Kurt Pätzold
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Wulff ehrt mutmaßliche Rechtsextreme
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Vlotho - Zwangsversteigerung des Collegium Humanum - Expose - 12.11.2010

[http://www.vlothoer-anzeiger.de/lokales/vlotho/3948970_Bu...]

[http://www.westfalen-blatt.de/nachrichten/regional/herfor...]

[http://www.mt-online.de/lokales/nachbarschaft/vlotho/3954...]

Fragen bei www.abgeordnetenwatch.de...
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Zensur Aigner:
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Hartz IV geht doppelt so häufig an Ausländer
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Interview mit Volker Bouffier
"Lebenslüge Einwanderungsland"
http://www.rp-online.de/politik/deutschland/Lebensluege-E...

Das Dschihad-System: Manfred Kleine-Hartlage
http://www.youtube.com/watch?v=eBCtdId15tk

Brandrede über Kadri Ecvet Tezcan von Mag. Ewald Stadler - BZÖ
http://www.youtube.com/watch?v=j0BOKGDSo7o&feature=pl...

Zentralrat der Juden
Knobloch verurteilt Anschlag auf Sehitlik-Moschee
Die Präsidentin des Zentralrates der Juden in Deutschland sieht in dem mutmaßlichen Brandanschlag "ein weiteres alarmierendes Indiz für ein Erstarken rechtsradikalen Gedankenguts in Deutschland".
http://www.morgenpost.de/berlin-aktuell/article1457296/Kn...

Die dänische Pest
Das kleine skandinavische Land rühmt sich seiner Fremdenfeindlichkeit. Und das Schlimmste daran ist: Dieses abschreckende Beispiel könnte sich ausbreiten über Europa.
http://www.fr-online.de/politik/meinung/die-daenische-pes...

Familienministerin kritisiert muslimische „Machokultur“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Kommentar zur Integrationsdebatte
Falscher Ansatz
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/falscher-ansa...

Deutschsprachige Länder
Staatsoberhäupter in Lübeck: Brauchen Zuwanderung
http://www.abendblatt.de/politik/deutschland/article16817...

Christian Wulff
Bundespräsident Wulff trommelt für die Integration
http://www.focus.de/politik/weitere-meldungen/christian-w...

Wulff würdigt vielfältige Kulturen in Berlin
http://www.ad-hoc-news.de/wulff-wuerdigt-vielfaeltige-kul...

Sächsischer Innenminister will Einwanderungskriterien senken
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Böhmer gegen Abschiebung von gut integrierten Kindern
http://www.saarbruecker-zeitung.de/sz-berichte/politik/Bo...

Frankfurter Asyl
Mehr Bewerber in Hessen
http://www.welt.de/print/welt_kompakt/vermischtes/article...

Sportlichkeit von Ausländern angemahnt...
Hessen will Integration genauer unter die Lupe nehmen
http://www.epd.de/hessen/hessen_index_82595.html

(Einwanderungslobbyisten sind nun mal wieder "Experten"...)
Experten fordern Abschiebestopp für junge Flüchtlinge
http://www.nh24.de/index.php?option=com_content&view=...

Kriminalität
Gewalt gegen Polizei nimmt zu – GdP fordert schärfere Strafen
http://www.focus.de/politik/weitere-meldungen/kriminalita...

(Artikel des Berliner Tagesspiegel zu sogenannten "Intensivtätern". Das ist das perfideste, das seit langem aus linker Feder bei einer großen Tageszeitung zu lesen war. Letztlich eine Rechtfertigung von Faustrecht und Sozialdarwinismus...)
Mentales Altersheim - Jugendbanden und Demographie
In Berlin gibt es ausländische Jugendbanden. Das ist ein Problem. Noch größer wäre das Problem, wenn es sie nicht gäbe.
http://www.tagesspiegel.de/meinung/mentales-altersheim-ju...

Generalverdacht
http://www.sezession.de/21513/generalverdacht.html#more-2...

Ein Diener für die Hausaufgaben
http://www.berlinonline.de/berliner-zeitung/berlin/318447...

(Es wird nicht nur das Opfer "Hassan" heißen...)
Frankfurt. Justiz im Kriechgang
Zwei Jahre nach schwerer Schlägerei stehen zehn Jugendliche vor Gericht
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/justiz-im-kriechgang...
(...wenn das Opfer überhaupt so heißt, denn bei der Frankfurter Rundschau hat es plötzlich gar keinen Namen mehr)
http://www.fr-online.de/frankfurt/zehn-gegen-elf/-/147279...

Wortkarger Fahrgast zieht Messer - Offenbach
(iz) Mit einem Messer bedrohte am Dienstag kurz vor Mitternacht ein junger Mann einen Taxifahrer, zu dem er am Wilhelmsplatz ins Auto gestiegen war. Nachdem der Fahrer den Wunsch seines Gastes erfüllt und ihn in die Taunusstraße gefahren hatte, zog der Unbekannte in Höhe des Hauses Nummer 28 plötzlich wortlos ein Messer und bedrohte den Chauffeur. Der löste aber sofort Alarm aus und stoppte abrupt seinen Wagen; das beeindruckte den unliebsamen Fahrgast offensichtlich derart, dass er - ohne überhaupt ein Wort gesagt zu haben - aus dem Wagen sprang und flüchtete. Somit bleibt rätselhaft, ob der "Messermann" den Taxifahrer berauben oder nur den Fahrpreis nicht bezahlen wollte. Der Ausländer, der als 18 bis 25 Jahre alt und etwa 1,70 Meter groß beschrieben wurde, hatte ein auffälliges Palästinenser-Tuch um den Hals geschwungen. Vielleicht kann sich jemand an diesen Mann am Wilhelmsplatz oder später in der Taunusstraße erinnern. Hinweise bitte an die Kripo, Telefon 069/8098-1234.
http://www.presseportal.de/polizeipresse/pm/43561/1719148...
Hier ohne Nennung der Herkunft (es ist nur noch ein "junger Mann")
http://www.primavera24.de/lokalnachrichten/rhein-main-geb...

Junger Mann pinkelt Mädchen in Rüsselsheim an, tritt sie und klaut ihr Handy
(hier ohne Täterherkunft)
http://www.main-spitze.de/region/ruesselsheim/9654469.htm
(hier mit Täterherkunft)
http://www.mopo.de/2010/20101120/deutschland-welt/panoram...
http://www.wiesbadener-tagblatt.de/nachrichten/polizei/96...

Offenbach
Zuzügler aus Bulgarien und Rumänien werden für die Stadt zunehmend zum Problem
Kehrseite der Freizügigkeit
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/zuzuegler-r...

Genossen werfen Bülent Ciftlik raus
http://www.mopo.de/2010/20101106/hamburg/politik/genossen...

Flughafen-Bande
Dreiste Diebe rauben Touristen in Frankfurt aus
http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article10796...

Mitschuldig im Sinne der Anklage
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Katholische Kirche wirbt fünf anglikanische Bischöfe ab
http://diepresse.com/home/panorama/religion/608958/Kathol...

RCQT-Designer Rodrigo Diaz: „Die Adressaten unserer Botschaft sind nicht Angehörige fremder Völkerschaften sondern eingeborene Multikulti-Volksverräter“ 
http://www.blauenarzisse.de/v3/index.php/aktuelles/2078-r...

(unfassbar originell...)
„Mein Kampf“
Schweigen im Schlachthaus
Amélie Niermeyer hat George Taboris „Mein Kampf“ am Schauspiel Frankfurt als fulminante Farce inszeniert – mit Hitler als grotesker Witzfigur.
http://www.faz.net/s/RubFBF93A39DCA8403FB78B7625AD0646C5/...

TV-Kritik: Liebe deinen Feind
Heillos überfrachtet
http://www.morgenpost.de/printarchiv/kultur/article144328...
http://www.evangelisch.de/themen/medien/tv-tipp-des-tages...

Jüngers Jünger
Der Nachlass des Kriegsschriftstellers Ernst Jünger
http://www.3sat.de/page/?source=/kulturzeit/tips/149356/i...

Martin Walser berauscht sich am Ruhm Ernst Jüngers
http://diepresse.com/home/kultur/literatur/608667/Martin-...

... nach der Wiener "Die Presse" hetzt jetzt die "Wienerzeitung" gegen die Jünger-Austellung in Marbach
http://www.wienerzeitung.at/DesktopDefault.aspx?TabID=390...

Hans-Jürgen Syberberg
Landnahme eines Mythomanen
http://www.welt.de/print/die_welt/kultur/article10884797/...

Ausstellung zu den Nürnberger Prozessen
Verbrechen und Strafe
http://www.taz.de/1/zukunft/wissen/artikel/1/verbrechen-u...

NS-Vergangenheit
Auswärtiges Amt lässt Bilder aus Ahnengalerien entfernen
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,730780,0...

Ein Anti-Sarrazin: Der Bestseller "Das Amt" zeigt, dass Deutschland sein Heil nicht mehr in Eliten suchen darf / Von Alan Posener
http://www.welt.de/print/die_welt/kultur/article10796370/...

(Nach dem Auswärtigen Amt ist nun das Reichsfinanzministerium dran. Studien, deren Ergebnis bereits am Anfang feststeht...)
Reichsfinanzministerium
NS-Beamte plünderten Juden aus
http://www.fr-online.de/politik/ns-beamte-pluenderten-jud...

Reichsfinanzministerium
Amt zur materiellen Vernichtung der Juden
http://www.faz.net/s/Rub0E9EEF84AC1E4A389A8DC6C23161FE44/...

NS-Finanzministerium
Raub für die Volksgemeinschaft
http://www.taz.de/1/politik/deutschland/artikel/1/raub-fu...

Bewältigungs-Perestroika?
http://www.sezession.de/21378/bewaeltigungs-perestroika.h...

"Der kleine Nazi" gewinnt Deutschen Kurzfilm-Wettbewerb
http://derstandard.at/1289608444936/Der-kleine-Nazi-gewin...

Die Passion der Anne Frank erscheint als Comic
http://www.welt.de/kultur/literarischewelt/article1082921...

Brennende Kinder
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Frankreich: "Musikkarte" soll Jugendliche vom illegalen Herunterladen abhalten
http://www.gulli.com/news/frankreich-musikkarte-soll-juge...

Pilotenvereinigung "Cockpit":
Verbietet die Laser-Pointer!
Immer neue Blend-Attacken. Allein in diesem Jahr gab es laut Flugsicherung schon 330 Licht-Attacken
http://www.berlinonline.de/berliner-kurier/print/nachrich...

Remarque-Villa im Tessin droht der Abbruch
http://www.swissinfo.ch/ger/kultur/Remarque-Villa_im_Tess...

Haus im alten Pompeji eingestürzt
http://www.nzz.ch/nachrichten/international/haus_im_alten...

Abriss scheint unausweichlich
Wenn sich nicht bis Dienstag wider Erwarten ein Kaufinteressent für das Rosenzweighaus am Mühlhausener Marktplatz findet, wird es dem Erdboden gleich gemacht.
http://www.infranken.de/nachrichten/lokales/erlangenhoech...

Rosenzweighaus findet keine Gnade mehr
Bei drei Gegenstimmen beschloss der Mühlhausener Gemeinderat den Abriss des Rosenzweighauses. Ein junger Architekt aus Miami hatte vergebens um Aufschub gebeten.
http://www.infranken.de/nachrichten/lokales/erlangenhoech...

Streit um den Nürnberger Neptunbrunnen!
Ein Symbol für die wechselvolle Geschichte der Stadt
http://www.neptunbrunnen.info/pageID_10334657.html

Wiederauferstehung des Königsberger Schlosses?
Kaliningrad. Die Kaliningrader sollen über den Wiederaufbau des Königsberger Schlosses entscheiden.
http://www.kaliningrad.aktuell.ru/kaliningrad/stadtnews/w...

Leben ohne Partner
"Singles wandern auf schmalem Grat"
http://www.spiegel.de/panorama/gesellschaft/0,1518,728112...

Vorteile des Single-Lebens
Jung, ledig, gesund sucht...
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,727929,0...

Seltsamer Vorfall
Frau bringt Sohn und Enkel zur Welt
http://www.bz-berlin.de/aktuell/welt/frau-bringt-sohn-und...

68er-Ikone Langhans:
"Das Dschungelcamp - die Urszene der Kommune"
http://www.stern.de/kultur/tv/68er-ikone-langhans-das-dsc...

Rainer Langhans geht ins Dschungel-Camp
„Auch in seltsamen Hüllen steckt immer ein lieber Mensch “
http://www.faz.net/s/Rub501F42F1AA064C4CB17DF1C38AC00196/...

Handy am Steuer
Die Jugend kann nicht ohne
http://www.focus.de/auto/news/handy-am-steuer-die-jugend-...

61 Prozent der Deutschen ziehen Ökostrom vor
http://www.welt.de/newsticker/dpa_nt/regioline_nt/hamburg...

Klebriges auf Kosten der Schüler
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

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Text: Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, 28.11.2010, Nr. 47 / Seite 2

BROETCHE
Die antifaschistische Altenfront kämpft im Netz Und: Wie viele Frauen
braucht ein Mann?

Die Berliner Landeszentrale für politische Bildung mobilisiert unermüdlich
gegen rechts. Zum antifaschistischen Kampf kann jetzt auch die "Generation
50plus" beitragen. Deren "lebenserfahrene Meinungen und Ideen" sollen gegen
Neonazis in Stellung gebracht werden. Angesichts der Verfassung der
50plus-Antifaschisten ist an einen körperlichen Einsatz aber nicht zu
denken. Deswegen bietet die Berliner Landeszentrale für politische Bildung
gemeinsam mit der Amadeu Antonio Stiftung, dem Generali Zukunftsfonds und
dem Bundesverband der Arbeiterwohlfahrt "für Menschen der Generation 50plus"
einen Kurs zur Bekämpfung der Neonazis "im interaktiven Teil der virtuellen
Welt" an. Schirmherr des Unterfangens "Generation 50plus aktiv im Netz gegen
Nazis" ist der 72 Jahre alte ehemalige Bremer SPD-Bürgermeister Henning
Scherf. "Engagierte Interessierte aus der Generation 50plus" erhalten in dem
in Mecklenburg-Vorpommern und Nordrhein-Westfalen erprobten Bildungsprogramm
von erfahrenen Antifaschisten eine Unterweisung darin, "wie man im Internet
gegen Rechtsextremismus aktiv werden kann" und was 50plus tun muss, um "die
interaktiven Seiten des Internets zu erobern". Die Leitfragen für die
Antifa-Kursteilnehmer lauten: "Wie erkennt man und wie begegnet man
neonazistischen Argumentationen? Wie kann man seine Lebenserfahrung für
Demokratie einsetzen und Jugendliche erreichen?" Im dreigeteilten "Workshop"
geht es in "Part I" um die "modernen Nazis", um "ihre Ideologie, ihre
Strategien und ihre Erkennungsmerkmale" sowie "um Gegenstrategien in der
realen und in der virtuellen Welt". In "Part II" lernt 50plus "die
Grundlagen für die Nutzung des Internets und seiner interaktiven Angebote
kennen", und in "Part III" werden die aktiven Alten auf den "Einsatz als
Moderator oder Moderatorin bei netz-gegen-nazis.de oder ähnlichen
Communities vorbereitet." Der Lehrgang ist gebührenfrei. jos.

vendredi, 03 décembre 2010

Fauves français, expressionnistes allemands: "la peinture n'est pas un soulagement"

Fauves français, expressionnistes allemands : « la peinture n’est pas un soulagement »

par Pierre LE VIGAN

Ex: http://www.europemaxima.com/

fauv.jpgQuand deux mouvements artistiques se rencontrent, cela enrichit souvent les deux. C’est ce que démontre le Musée Monet-Marmottan avec l’exposition « Fauves et expressionnistes ». D’un côté, on trouve les « Fauves » français, de l’autre les expressionnistes allemands. Les œuvres exposées viennent du musée von der Heydt de Wuppertal, en Rhénanie du Nord. Les « Fauves », c’est Raoul Dufy (Le Port du Havre, 1906), Georges Braque, Auguste Herbin (Portrait de jeune fille, 1907), Maurice de Vlaminck (Trois maisons, 1910), Kees van Dongen, néerlandais d’origine (Nu couché, 1910), André Derain, Robert Delaunay… Du côté allemand, on trouve principalement deux groupes. Ils furent tous deux annoncés par la révolution artistique du Norvégien Edvard Munch (Jeune fille au chapeau rouge, 1905). L’un de ces groupes est Le Pont (Die Brücke). C’est une école artistique fondée à Dresde en 1905. Erich Heckel dira à propos du choix du nom, Le Pont , « parce que c’était un mot à double sens, et qui ne désignerait pas un programme précis, mais conduirait dans un certain sens d’une rive à l’autre ».

Avec Le Pont, ce qui était à l’ordre du jour, c’était de se dégager des pesanteurs, de retourner à l’origine. Des nus sont peints en plein air, exprimant le bonheur et la liberté des corps. C’est d’abord la période berlinoise vers 1911 puis, très vite, l’éclatement du groupe à partir de 1913. Chacun trace alors son propre sillon. C’est la montée en maîtrise artistique de Karl Schmidt-Rottluff (Deux femmes, 1914), Ernst Ludwig Kirchner, un des plus grands (Quatre baigneuses, 1910; Femmes dans la rue, 1914), Otto Müller (Deux filles se baignant, 1921, Autoportrait avec pentagramme, 1922), Emil Nolde (Crépuscule, 1916), Erich Heckel (Portrait d’Otto Müller, 1925, aquarelle), Max Pechstein (Portrait masculin, auto-portrait, 1917)…

Il se crée à côté des artistes de Die Brücke le N.K.V.M. (la Nouvelle association des artistes de Munich). Elle est fondée en 1909. L’ambition est peut-être plus grande encore qu’avec Le Pont, il s’agit de déterminer une nouvelle orientation spirituelle. L’état d’esprit est « un retour à l’homme primitif, proche de la nature et sans faute ». C’est la recherche d’un monde sans péché. L’influence de l’art nègre est sensible même si l’enracinement dans les influences européennes reste prépondérant. Le mouvement est plein de vitalité mais disparate : Alexej von Jawlensky, peu convaincant, côtoie le très remarquable Adolf Erbslöh (Maison dans le jardin, 1912, Jardin des parents de l’artiste à Barmen, 1912), le Russe Vassily Kandinsky avec sa formidable Église villageoise sur les bords du lac de Rieg (1908), Wladimir von Bechtejeff, qui atteint souvent au chef d’œuvre comme avec Rencontre sur un bord de rivière (sans date), et encore Gabriele Münter, une des rares femmes (Paysage sous le givre, 1911), Wilhem Morgner, plus inégal… Forces des couleurs et expression du mouvement sont les principes.

b540a.jpgEn 1911, par scission du N.K.V.M. est fondé le mouvement Le Cavalier Bleu (Der Blaue Reiter) avec August Macke, Franz Marc, Paul Klee (le moins doué) et Vassily Kandinsky. L’idée du nom vient du Cavalier Bleu de Kandinsky (1903) tout autant que de la prédilection de Franz Marc pour les dessins et peintures de chevaux (Cheval bleu, 1911). Kandinsky déclare : « Le cheval porte son cavalier avec vigueur et rapidité, mais c’est le cavalier qui conduit le cheval. Le talent conduit l’artiste à de hauts sommets, mais c’est l’artiste qui maîtrise son talent ». August Macke, qui fut une des figures du N.K.V.M. illustre superbement la vitalité du Cavalier Bleu à ses débuts (Paysage avec trois jeunes filles, 1911). Il meurt sur le front de Champagne à 27 ans. Franz Marc est un artiste majeur lui aussi, c’est sans doute un des plus doués, des plus nets et affirmés du groupe (Renard d’un bleu noir, 1911). Il meurt en 1916 près de Verdun.

D’autres artistes se rattachent aussi à cette sensibilité : le grand Max Beckmann (Autoportrait en infirmier, 1915; Vue à Berlin du quartier de la gare de Gesundbrunnen, 1914), Otto Dix, créatif mais un peu désarticulé, Georg Grosz, baroque et tourmenté, Conrad Felixmüller (Autoportrait avec femme, 1920), au projet artistique très cohérent et sûr, Christian Rohlfs (Jouvencelles, 1915)… C’est le courant de la Nouvelle Objectivité (Neue Sachlichkeit).

On y trouve aussi le puissant Franz Radziwill (Sombre paysage, 1923), Karl Hubbuch, jubilatoire et inspiré, Otto Griebel, peintre se voulant « prolétarien » et à vrai dire inégal… La Nouvelle Objectivité se scinda en deux : une aile « droite », qui fait parfois penser à Giorgio de Chirico, en moins apprêté, et une aile « gauche », proche des bolchéviques russes et allemands, à vrai dire fort loin du néo-classicisme stalinien vers lequel évoluera le bolchévisme culturel. Comme quoi la modernité est toujours ambivalente.

La notion d’authenticité sera toujours importante chez les expressionnistes. Emil Nolde le montrera sans cesse. De son côté, Max Pechstein, chassé de Poméranie par les Russes en 1945, écrira alors : « Mais qu’est-ce [que mes plaisirs actuels de création] en comparaison avec ma frénésie créative dans ma Poméranie bien aimée ? La vie authentique dans une nature authentique me manque. Je brûle d’y retourner et suis constamment nostalgique. J’espère pouvoir avoir encore une fois l’occasion d’y séjourner ». Cela ne se fera pas.

C’est Otto Dix qui constitue le point d’aboutissement de l’exposition. Il fut un exilé intérieur sous Hitler, même si en 1933 Goebbels avait salué « les saines conceptions de ce mouvement » (l’expressionnisme). Otto Dix avait marqué un tournant. À propos de son tableau À la beauté (1922), Lionel Richard a écrit : « L’Hommage à la Beauté d’Otto Dix, tableau de 1922, met en spectacle avec ironie cette défaite et cet effacement de l’expressionnisme. Le peintre en personne est au centre. Costume élégant, toilette soignée. Ce dandy tient dans une main l’écouteur d’un téléphone. Arrière-fond, un décor artificiel de style néo-classique, avec un salon de danse où un musicien noir rythme du jazz à la batterie. »

On a reproché aux expressionnistes allemands de se complaire dans la peinture des médiocrités du monde moderne voire des horreurs de la guerre. Pourtant, Otto Dix affirmait : « Je ne suis pas obsédé par le fait de montrer des choses horribles. Tout ce que j’ai vu était beau ». Il disait encore : « La peinture n’est pas un soulagement. La raison pour laquelle je peins est le désir de créer. Je dois le faire ! J’ai vu ça, je peux encore m’en souvenir, je dois le peindre ».

Pierre Le Vigan

Exposition Fauves et expressionnistes. De Van Dongen à Otto Dix. Chefs d’œuvres du musée Von der Heydt, jusqu’au 20 février 2010. Musée Marmottan Monet, 2 rue Louis-Boilly 75016 Paris, Tél : 01.44.96.50.33. Catalogue Éditions Hazan.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=920

mercredi, 01 décembre 2010

Un grand catholique: Carl Schmitt

Un grand catholique : Carl Schmitt

par Rémi Soulié

Ex: http://stalker.hautetfort.com/ 

Série: (Infréquentables, 6) - Tous les infréquentables.

Le texte de Rémi Soulié, ci-dessous légèrement amendé, a paru dans le numéro spécial de La Presse littéraire consacré aux écrivains infréquentables.

«Je tiens Carl Schmitt pour un profond penseur catholique…»
Jacob Taubes.


carl_schmitt9999.jpgAucun bricolage néo-kantien ne pourra longtemps masquer le nihilisme démocratique et la vacuité moderne – d’autant moins d’ailleurs que cet excellent lecteur de Kant que fut Jacobi diagnostiqua parmi les premiers la maladie nihiliste que les trois Critiques incubèrent fort peu de temps avant qu’elle ne se déclare. L’Europe, c’est-à-dire très exactement la chrétienté selon Novalis, ne pourra réagir qu’en opposant son antidote souverain : le catholicisme. On peut prendre la question dans tous les sens, ce n’est qu’en réactivant l’interrogation théologico-politique, comme l’ont compris Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt, mais aussi Leo Strauss et Jacob Taubes d’un point de vue juif, donc, en dernière analyse, chrétien, que l’on pourra faire rendre gorge au néant. L’adhésion très temporaire de Carl Schmitt au NSDAP (après d’ailleurs qu’il a mis tout Weimar en garde, dès 1932, sur le danger national-socialiste et l’urgence à interdire, par l’article 48 de la Constitution, les partis communiste et nazi) ne s’explique là encore que par la mystique au sens de Péguy – et non la politique: le catholique conséquent croyant en l’existence de l’univers invisible et donc des mauvais anges peut être abusé par les ruses et les séductions de l’Ennemi (au sens schmittien, d’une certaine façon, nous y reviendrons) jusqu’à prendre des vessies pour des lanternes et le point culminant du nihilisme actif (et non passif, celui-ci relevant de la juridiction démocratique) pour le paroxysme de la vérité. À la lettre oxymorique, il côtoie toujours les cimes des abîmes, comme un abbé Donissan ou un curé d’Ambricourt et à la différence de n’importe quel démocrate-chrétien. Les enfileurs de perles et les analystes du rien, hommes du ni oui ni non, font aujourd’hui écran au théologien politique, homme des affirmations absolues et des négations souveraines fidèle à l’Évangile («Que votre oui soit oui, que votre non soit non», Mt 5, 37) alors que ce dernier est évidemment requis par la tiédeur infernale. Le libéralisme, hostile à toute forme de vision, ne voit bien entendu se profiler aucune eschatologie à l’horizon de sa myopie : il rassemble l’alpha et l’oméga de l’Histoire – formule inadéquate quoique révélatrice de la parodie – dans l’alternance, le marché, l’hédonisme, le sentimentalisme et l’humanitarisme (ce que Schmitt appellera, non sans mépris, «la décision morale et politique dans l’ici-bas paradisiaque d’une vie immédiate, naturelle, et d’une «corporéité» sans problèmes» ou «les faits sociaux purs de toute politique»). Qui décidera de l’état d’exception en cas de guerre civile ? Le souverain, soit, personne (l’anti-personne démoniaque – en ceci, le désespoir demeure en politique une sottise absolue, puisque aussi bien le diable porte pierre).

Né en 1888 dans une famille catholique de Rhénanie lointainement originaire de Lorraine, le jeune Carl Schmitt se définit ainsi : «J’étais un jeune homme obscur, d’ascendance modeste […]. Je n’appartenais ni aux couches dirigeantes, ni à l’opposition […]. La pauvreté et la modestie sociale étaient les anges gardiens qui me tenaient dans l’ombre. C’était un peu comme si, me tenant dans un noir total […] j’avais depuis mon poste observé une pièce vivement éclairée […]. La tristesse qui me remplissait me rendait plus distant et suscitait chez les autres distance et antipathie. Pour les couches dirigeantes, quiconque ne vibrait pas à l’idée de les côtoyer était un corps étranger. Il s’agissait de s’adapter ou de se retirer. Je demeurai donc à l’extérieur.» Il poursuit : «Pour moi, la foi catholique est la religion de mes ancêtres. Je suis catholique non pas seulement par confession, mais par origine historique, et si j’ose dire, par la race» (où l’on notera, avec ce dernier terme, l’influence de Péguy).
Lecteur de L’Action Française, francophile, classique, latin, Carl Schmitt s’inscrit également dans la lignée des penseurs qui refusèrent l’absolutisation de la raison trop humaine aux côtés du Karl Barth commentateur de l’Épître aux Romains dans le domaine protestant ou de Martin Buber dans les études juives, fussent-elles hétérodoxes. Si, comme il l’affirme, tous les concepts fondamentaux de la théorie moderne de l’État sont des concepts théologiques sécularisés – ainsi, par exemple, de l’état d’urgence pensé en analogie avec le miracle puisque dans l’un et l’autre cas, la législation naturelle ou politique est rompue par ceux-là mêmes qui l’ont instituée –, seule la théologie permettra de cerner la vérité des sociétés qui croient s’être affranchies de l’une et de l’autre. Le libéralisme nie l’essence de la haute politique qui suppose, en termes schmittiens, un ennemi c’est-à-dire un conflit (chez les pères de l’Église et saint Augustin en particulier, l’Ennemi, c’est le Mauvais, ce qui peut être également le cas chez Schmitt dès lors que la dramaturgie historique oppose in fine le Christ et l’Antéchrist). En niant l’immortalité de l’âme ou en renvoyant cette croyance dans la sphère privée – ce qui revient au même –, le libéral tente de remplacer la tragédie par le vaudeville. La haute politique présuppose la croyance dans le péché originel, la discrimination de l’ami et de l’ennemi qu’elle induit, la dénonciation des leurres de l’Antéchrist – paix perpétuelle, harmonie universelle, gouvernement mondial («Vous savez vous-mêmes que le Jour du Seigneur arrive comme un voleur en pleine nuit. Quand les hommes se diront : Paix et Sécurité ! c’est alors que tout d’un coup fondra sur eux la perdition, comme les douleurs sur la femme enceinte, et ils ne pourront y échapper» (I Thessaloniciens, 5, 2-3) -, l’acceptation de notre condition de créature, donc d’être limité voué à la mort voire au «sérieux» du sacrifice, la décision, enfin, dont l’infaillibilité pontificale pourrait être l’un des modèles. Avec Donoso Cortès, Carl Schmitt considère que le libéralisme et la démocratie consistent soit à ne pas répondre à la question «le Christ ou Barrabas ?» en multipliant les motions de renvoi en commission ou, mieux, en créant une commission d’enquête, soit à y répondre nécessairement par la libération de Barabbas, comme Hans Kelsen en convient d’ailleurs mais pour s’en féliciter, c’est-à-dire par la mise à mort de Dieu – ou, dirait Benny Lévy d’un point de vue juif donc chrétien, par le «meurtre du Pasteur». (L’établissement de la République, en France, releva encore partiellement du domaine politique et donc non libéral puisque les républicains avaient désigné en l’Église catholique l’ennemi «schmittien», et c’était de bonne guerre cela va de soi; la «lutte millénaire entre le christianisme et l’islam» (La Notion de politique ) en est un autre exemple).
Comme aucun discours véridique ne peut être proféré sans que son auteur ne subisse d’une manière ou d’une autre la persécution de ceux-là mêmes à qui il s’adresse ou qu’il défend – toute l’histoire biblique l’atteste –, Schmitt, à l’instar de Maurras, souffrit par l’Église catholique. Sur un coup de tête, il épouse à Munich, pendant la Grande Guerre, une affreuse mythomane originaire de Bohême, Paula Dorotic, qui s’enfuit peu de temps après avec, comble de l’horreur, une partie de sa bibliothèque. Le mariage est annulé civilement le 18 janvier 1924 mais la «bureaucratie de célibataires» que peut être aussi la sainte Église catholique, apostolique et romaine refuse par deux fois d’annuler cette union malencontreuse. Schmitt se résout à se remarier et fut ainsi privé des sacrements jusqu’en 1950, date de la mort de sa seconde épouse. Voilà un signe supplémentaire attestant de son élection.
Excellent papiste, il prend la défense de l’Inquisition, même s’il déplore qu’elle ait été hélas pervertie par l’usage de la torture : «Ce fut une mesure terriblement humaine que la création du «droit inquisitorial» par le pape Innocent III. L’Inquisition fut sans doute l’institution la plus humaine qu’on puisse imaginer, puisqu’elle partait de l’idée qu’aucun accusé ne pouvait être condamné sans aveux […]. En termes d’histoire du droit, l’idée d’Inquisition ne peut guère être contestée, même aujourd’hui» (1).
(On ne s’étonnera pas qu’il argumente une fois encore dans des termes voisins de ceux de Péguy, dans un ordre comparable : «La politique de frapper les têtes (les mauvaises têtes) est une politique d’économie, et même la seule politique d’économie […]. Rien n’est humain comme la fermeté. C’est Richelieu qui est humain – et c’est Robespierre qui est humain. C’est la Convention nationale qui est en temps de guerre le régime de douceur et de tendresse. Et c’est l’Assemblée de Bordeaux et le gouvernement de Versailles qui est la brutalité de la brute et l’horreur et la cruauté. [… ] Tout mon vieux sang révolutionnaire me remonte et […] je ne mets rien au- dessus de ces excellentes institutions d’ancien régime, qui se nomment le Tribunal Révolutionnaire et le Comité de Salut Public et même je pense le Comité de Sûreté Générale… […] et je ne mets rien au-dessus de Robespierre dans l’ancien régime»).

Car Schmitt défendra bien entendu le Grand Inquisiteur contre l’orthodoxe Dostoïevski. En ces temps qui sont les derniers, autrement dit en régime apocalyptique, il écoute les derniers prophètes : «Remarquez-le bien, il n’y a déjà plus de résistances ni morales ni matérielles. Il n’y a plus de résistances matérielles : les bateaux à vapeur et les chemins de fer ont supprimé les frontières, et le télégraphe électrique a supprimé les distances. Il n’y a plus de résistances morales : tous les esprits sont divisés, tous les patriotismes sont morts […]. Il s’agit de choisir entre la dictature qui vient d’en bas et la dictature qui vient d’en haut : je choisis celle qui vient d’en haut, parce qu’elle vient de régions plus pures et plus sereines. Il s’agit de choisir, enfin, entre la dictature du poignard et la dictature du sabre : je choisis la dictature du sabre, parce qu’elle est plus noble».
Une chose est sûre : «Le monde avance à grands pas vers l’établissement du despotisme le plus violent et le plus destructeur que les hommes aient jamais connu […]. Je tiens pour assurer et évident que, jusqu’à la fin, le mal triomphera du bien et que le triomphe sur le mal sera, en quelque sorte, réservé à Notre Seigneur. Il n’est donc aucune période historique qui ne soit destinée à s’achever en catastrophe.»
Ainsi s’exprimait Donoso Cortès au parlement espagnol le 4 janvier 1849 dans son Discours sur la dictature. À Ernst Jünger, Schmitt confiera qu’il considère ce texte comme «le plus extraordinaire discours de la littérature mondiale sans excepter ni Périclès et Démosthène, ni Cicéron ou Mirabeau ou Burke».
Carl Schmitt continue de lire Dostoïevski, Sorel, Bloy, pour qui il a de la «vénération» – c’est lui qui introduit d’ailleurs Jünger à la lecture du Belluaire. Il saluera plus tard «la magnifique confrontation d’un Allemand avec Léon Bloy» dans le Journal de Jünger, qui est «le plus grand document de la spiritualité européenne contemporaine.» Comme tout homme bien né, Schmitt attend donc les Cosaques et le Saint-Esprit, soit, la Rédemption – d’où son influence sur Benjamin, qui lui envoie ses Origines du drame baroque allemand et l’assure de l’influence méthodologique de La Dictature sur ses propres réflexions esthétiques mais aussi de sa dette à l’endroit de sa «présentation de la doctrine de la souveraineté au XVIIe siècle», sur Leo Strauss également ou sur l’«archijuif» – comme il se définissait lui-même – Jacob Taubes. Une étude sérieuse des relations entre Carl Schmitt, les Juifs et le judaïsme, que l’on attend toujours (2), devrait également intégrer la notion cardinale de Nomos : si Schmitt se refuse de la traduire par «loi», ce qui pourrait être hâtivement interprété comme une oblitération du judaïsme, il la comprend à partir des trois catégories fondamentales qui y sont incluses – prendre, partager et paître – ce dernier terme engageant certes le Bon Pasteur christique mais également… David ou Moïse (3). Sans mythe structurant, les agnostiques modernes, eux, collaborent pendant ce temps à la damnation du monde tout en jacassant.
Mais c’est surtout par l’analyse de la figure essentielle du katékhon que Carl Schmitt manifeste une hauteur de vue et un sens aigu de l’Histoire toujours sainte dont la pertinence demeure bouleversante. Pour la comprendre, il faut se reporter à un passage particulièrement difficile de la deuxième Épître aux Thessaloniens de saint Paul concernant ce qui précèdera la parousie : «Il faut que vienne d’abord l’apostasie et que se révèle l’Homme de l’impiété, le Fils de la perdition […]. Et maintenant, vous savez ce qui le retient [tò katékhon], pour qu’il ne soit révélé qu’en son temps. Car le mystère de l’impiété est déjà à l’œuvre; il suffit que soit écarté celui qui le retient [ho katékhon] à présent. Alors se révèlera l’Impie, que le Seigneur Jésus détruira du souffle de sa bouche» (2, 3-9). Qui est ce Katékhon, ce «Rétenteur» ou «Retardateur» dont le rôle est ambigu puisqu’à la fois il empêche la survenue des catastrophes finales mais en même temps retarde d’autant la seconde venue du Christ en gloire et donc de la fin de l’histoire puis du Jugement ? Est-il personnel ? Impersonnel ? Saint Jérôme et saint Jean Chrysostome l’identifièrent avec l’Empire romain; dans la terminologie schmitienne, ce rôle semble tenu successivement par le dictateur commis ou souverain, le défenseur de la Constitution ou le Léviathan, ceci étant révélateur de sa propre hésitation entre la nécessité de conserver partiellement ce qui est et sa non moins nécessaire liquidation partielle ou totale (où Bloy s’impatiente, Schmitt temporise). Voilà pour l’interprétation positive. Sur un plan mystique, ce thème manifeste la nécessité de maintenir ouverte la brèche qui déchire la terre, monte au ciel et plonge en enfer, pendant le règne vermineux du dernier homme (règne possiblement antéchristisque, ce qui infirmerait la pérennité de l’action katékhontique). En elle est serti le roc de Pierre, le Corps visible de Jésus-Christ que cette tension ne parvient pas à écarteler. La mission katékhontique relève peut-être de l’Église catholique, et en particulier de l’ordre jésuite, comme Schmitt le suggère dans son Glossarium : elle seule détiendrait le pouvoir mystérieux de prononcer en même temps le «Marana Tha» de l’Apocalypse – «Viens, Seigneur Jésus !» – et la demande d’un délai de grâce (Schmitt sait que le temps n’est pensable qu’en terme de délai, comme tous les Juifs conséquents). D’une manière énigmatique, comme il convient d’évoquer ces questions, il écrit à Pierre Linn en 1932 : «Vous connaissez ma théorie du katékhon. Je crois qu’il y a en chaque siècle un porteur concret de cette force et qu’il s’agit de le trouver. Je me garderai d’en parler aux théologiens, car je connais le sort déplorable du grand et pauvre Donoso Cortès. Il s’agit d’une présence totale cachée sous les voiles de l’histoire». Jacob Taubes, grand interlocuteur de Schmitt, comprend simplement le katékhon, dans sa Théologie politique de Paul, comme une tentative de dominer le chaos par la forme.
À ceux qui prétendent que l’Église catholique a désamorcé la charge évangélique, Schmitt répond que la juridisation est la réalisation : «Car qu’est-ce que le droit ? La réponse de Hegel est : le droit est l’Esprit se rendant effectif. […] L’Église romaine est réalité historique». Théodore Paléologue a donc raison de considérer que «la politisation schmittienne du katékhon répond à la conviction que l’Esprit doit se rendre effectif et que toute idée chrétienne est une idée incarnée».
«Homme de contemplation», comme il se définissait lui-même, dont «le centre inoccupable» de la pensée «n’est pas une idée, mais un événement historique, l’Incarnation du Fils de Dieu», grand démystificateur des impuissances libérales et de leur juridisme – lequel ne serait que ridicule s’il n’était enclin au totalitarisme – Carl Schmitt a dénoncé le misérable «affect anti-romain» sous la domination duquel nous survivons. Comme Heidegger, dit Jacob Taubes, il a posé des questions fondamentales, en ceci précisément intolérables au libéralisme (qui ne tolère que les insignifiantes), d’où son éviction et la «récitation» obligatoire, dit toujours Taubes, de «l’ABC démocratique» qui doit s’en suivre. Schmitt définit «la clé secrète de toute [son] existence spirituelle et de toute [son] activité d’auteur» comme «le combat pour la radicalisation authentiquement catholique», laquelle constitue sans doute aussi le «savoir intègre» qu’il appelait de ses vœux, au service de la «pensée concrète de l’ordre». Une certitude néanmoins : «Jusqu’au retour du Christ, le monde ne connaîtra pas l’ordre».

Carl Schmitt est mort le dimanche de Pâques 7 avril 1985.

Notes
(1) En 1936 (N.d.a.), Schmitt s’inscrit ici dans la lignée de Joseph de Maistre pour qui «L’inquisition est, de sa nature, bonne, douce, conservatrice».
(2) Je ne méconnais pas l’étude de Raphaël Gross, Carl Schmitt et les Juifs (PUF, 2005, préface d’Yves-Charles Zarka, traduction de Denis Trierweiler) mais elle est hélas exclusivement à charge.
(3) Voir, à nouveau, le très beau livre de Benny Lévy, Le Meurtre du Pasteur (Grasset, 2002) mais, également, Rémi Soulié, Avec Benny Lévy (Le Cerf, 2009).

Bibliographie succincte
- Carl Schmitt, Théologie politique (Gallimard, 1988).
- Heinrich Meier, Carl Schmitt, Leo Strauss et la notion de politique. Un dialogue entre absents (Julliard, 1990).
- Sous la direction de Carlos-Miguel Herrera, Le droit, le politique. Autour de Max Weber, Hans Kelsen, Carl Schmitt (L’Harmattan, 1995).
- Jacob Taubes, La Théologie politique de Paul. Schmitt, Benjamin, Nietzsche et Freud, Seuil, 1999 et En divergent accord. À propos de Carl Schmitt (Payot, 2003).
- Théodore Paléologue, Sous l’œil du Grand Inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique (Cerf, 2004).
- David Cumin, Carl Schmitt. Biographie politique et intellectuelle (Cerf, 2005).
- Gopal Balakrishnan, L’Ennemi. Un portrait intellectuel de Carl Schmitt (Éditions Amsterdam, 2006).

L'auteur
Rémi Soulié, né en 1968 en Rouergue. Essayiste, critique littéraire au Figaro Magazine, il a récemment consacré un essai à Benny Lévy (Le Cerf, 2009) et prépare une étude, De l'Histoire sainte : Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt.

lundi, 29 novembre 2010

Warum kriminelle Migranten unsere Rettung sind

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Warum kriminelle Migranten unsere Rettung sind
Ellen KOSITZA - Ex: http://www.sezession.de/

Sich über Namen, für die einer im Normalfall wenig kann, auszulassen, gilt als ähnlich unfein wie öffentliches Lästern über Äußerlichkeiten. Sei’s drum, ich gehe davon aus, daß Malte Lehming ein Problem mit seinem Namen hat. Psychologen wissen, daß Leute, die etwa „Klein“ und Maus“ heißen – zweifellos anständige Namen! –, im Schnitt stärker nach Rebellion streben und gewissermaßen aufsässiger auftreten als solche, die „Groß“ oder „Hund(t)“ heißen.

Mein Verdacht ist, daß sich jemand mit Namen Lehming eventuell sowohl von den bekannten Gerüchten, die mit Lemmingen verbunden werden, mit aller Kraft absetzen will als auch von Eigenschaften, die man mit „Lehm, lehmig“ assoziiert, einem trägen, amorphen, schwerfälligen Stoff.

Zu dieser These würde passen, daß Malte Lehming ausgerechnet als „Meinungschef“ beim Tagesspiegel reüssiert und in dieser Funktion hauptsächlich „klare Kante“ zeigen will, und zwar auf Teufel-komm-raus. Hauptsache, mal was „Widerborstiges“ sagen, Sinn, Zweck und Verstand spielen da selten eine Rolle. In seinem „Kontrapunkt“ vom 16.11. hat sich der Profilierungswütige einmal mehr selbst übertroffen.

Man lese:

In Berlin gibt es ausländische Jugendbanden. Das ist ein Problem. Noch größer wäre das Problem, wenn es sie nicht gäbe.

Sie sind jung, mutig, mobil, hungrig, risikobereit, initiativ. Solche Menschen braucht das Land. Natürlich ist es nicht schön, wenn Jugendliche – ob mit türkischem oder libanesischem Hintergrund – in den Straßen von Berlin Banden bilden, Reviere verteidigen und mit Messern hantieren. Aber hinter der Kritik an ihrem Verhalten verbirgt sich oft bloß der Neid derer, die Vitalität als Bedrohung empfinden, weil sich die eigene Mobilität auf den Wechsel vom Einfamilienreihenhaus in die Seniorenresidenz beschränkt. Lieber ein paar junge, ausländische Intensivtäter als ein Heer von alten, intensiv passiven Eingeborenen.

Nebenbei soll es solche „jungen, mutigen, initiativen…“  Jugendbanden ja auch außerhalb Berlins geben. Man hörte davon aus östlichen Bundesländern. Dürfte man wohl entsprechend umformulieren: „Natürlich ist es nicht schön, wenn Jugendliche – ob mit Glatzen und Springerstiefeln oder in unauffälligen Klamotten wie Kapuzenpullis und Palästinensertüchern – in den Dörfen und Kleinstädten Vorpommerns Banden bilden, mit Messern hantieren, Reviere verteidigen; aber: “?

Weiter Lehming, nun mit absurden Vorstellungen bürgerlicher Bildungswelten:

Jugendbanden? Igitt! So tönt es voll Abscheu und Empörung just aus jenen bürgerlichen Wohnzimmern, wo das Video des Musicals „West Side Story“ in keiner Sammlung fehlt und „Maria“, „Tonight“ und „America“ in Originalsprache auswendig mitgesungen werden können. In dem Tanzfilm befehden sich zwei Banden, die amerikanischen „Jets“ und die „Sharks“, die aus Puerto Rico zugewandert sind. (…) Gerade das Wilde und Gesetzlose der beiden Gangs, plus der sich auf die Ethnie gründende Zusammenhalt ihrer Mitglieder, machen den Charme des Stückes aus. (…) Demographisch, das weiß man, steht Deutschland vor dem Super-Gau.

Hier fügte ein Kommentator, an Lehming gerichtet, ein:

„Intellektuell auch.“

Lehming ist nun keineswegs ein linker Vogel, der nicht anders kann. Er ist nur immer sehr durcheinander. Zuletzt hatte er die USA um ihre attraktive, erfolgreiche, „vitale“ und „mobile“ Tea-party-Bewegung (die er eigentlich genauso gut als dicke, weiße „Altersheimer“ mit Verlustängsten bezeichnen hätte können) beneidet. Möglicherweise stellen die „mobilen, intiativen“ Türkenbanden für ihn einfach das gültige deutsche Pendant zur ähnlich (wenn auch anders) „initaitven“ Tea-Party- dar?

Jedenfalls, für Deutschland findet Lehming:

Eine solche Gesellschaft braucht vor allem junge, tatkräftige, durchsetzungsfähige, agile Menschen, um das psychologische Gesamtgefüge auszugleichen. Ein Volk, das schnurstracks in die Seniorenrepublik der Schneeköpfe tapst, schafft sich in der Tat selbst ab. Zu Recht beklagen wir die Kriminalität vieler ausländischer Jugendgangs. Aber das Maß an Phantasie, Mut und Vitalität, was deren Mitglieder oft aufbringen, zeigt auch: In diesen Menschen steckt, im Gegensatz zu den mentalen Altersheimern, noch ein Wille, ein Drang. Das sollten wir zu würdigen lernen – und uns fragen, wie wir die positiven Eigenschaften der Jugendlichen trennen können von den negativen Zielen, auf die sie sich richten. Wenn Deutschland nicht einmal mehr Jugendbanden hat, ist alles zu spät.

Wie es um das „psychologische Gesamtgefüge“ des Herrn Lehming bestellt ist, will ich gar nicht wissen. „Ein Wille, ein Drang“ scheinen irgendwie vorhanden zu sein, ein klitzekleiner Dachschaden möglicherweise auch. Da ich mich nun schon auf seinen Namen kapriziert habe  möchte ich (Kositza, slaw., heißt übrigens Ziege) dem doch auch noch ein Gesicht geben. Dieser Mann macht mir Angst.

dimanche, 28 novembre 2010

Josef Schüsslburner: Konsensdemokratie

Josef Schüßlburner: Konsensdemokratie
Felix MENZEL - http://www.sezession.de/

In der aktuellen Staffel der Reihe kaplaken hat der Jurist Josef Schüßlburner die „Konsensdemokratie“ hinterfragt. Sezession hat ihm drei Fragen dazu gestellt. Schüßlburner erklärt in diesem kurzen Gespräch, warum Deutschland ein Korrektiv zur linken Mitte braucht und wie es um die Erfolgsaussichten einer rechten Partei steht.

Herr Schüßlburner, wie wirkt es sich auf unseren Staat aus, wenn die großen Volksparteien kaum noch Unterschiede aufweisen?

18615_0.jpgDie ideologische Konvergenz der sich über die „Mitte“-Verortung für das Volk setzenden Volks-Parteien belegt, daß sich das „eherne Gesetz der Oligarchie“ (Robert Michels) durchgesetzt hat. Es hat sich eine politische Klasse mit einer einheitlichen Weltsicht gebildet, die sich gegenüber maßgeblichen Forderungen aus dem Wahlvolk, das die Oligarchie über eine „Konsensdemokratie“ zu vertreten beansprucht, immunisiert. Die Tendenz zur Oligarchie bestätigt an sich die rechte Weltsicht gegenüber linken „demokratischen“ Wunschvorstellungen, jedoch ist es zum Zwecke der Wahrung des demokratischen Charakters der parlamentarischen Demokratie erforderlich, diesem „ehernen Gesetz“ entgegenzuwirken. Die Linke hat kein Interesse, da sie ja die Ideologie der oligarchischen Mitte bestimmt.

Warum braucht eine funktionierende Demokratie eine starke Linke und eine starke Rechte?

Der offene Links-Rechts-Antagonismus wirkt dem „ehernen Gesetz der Oligarchie“ entgegen und garantiert den repräsentativen Charakter der parlamentarischen Demokratie. Die Tatsache, daß diese repräsentative Situation in der Bundesrepublik Deutschland nicht gegeben ist, ergibt sich auch aus offiziösen Verlautbarungen, wonach 30 Prozent der Bevölkerung etwa ein „geschlossenes rechtes Weltbild“ und dergleichen haben würden, was ja gerade bei einem Verhältniswahlrecht dazu führen müßte, daß etwa ein Drittel der Bundestagsabgeordneten ein solches Weltbild haben sollten.

Diese Divergenz von Volk und Repräsentanten zeigt auch, daß die Demokratie in der Bundesrepublik ihren klassischen Anspruch nicht einlöst, die Freiheit des Volkes zu garantieren. Diese Freiheit zeigt sich neben der Tatsache, daß man sich etwa als „rechts“ einstufen darf, ohne durch Antidiskriminierungsgesetze diskriminiert zu werden, nicht zuletzt daran, daß dem Wahlvolk klare Alternativoptionen zur Verfügung stehen, welche sich dann auch in politischen Entscheidungen niederschlagen.

Aufgrund der aktuellen Debatte um eine „Sarrazin-Partei“ muß natürlich noch eine Frage folgen: Glauben Sie, daß sich in den nächsten Jahren eine erfolgreiche Rechtspartei bilden könnte?

Der Verwirklichung einer normalen westlichen Demokratie mit einem freien und offenen Links-Rechts-Antagonismus stehen in der Bundesrepublik Deutschland starke Hindernisse entgegen. So sorgt das Konzept eines post-demokratischen „Europa“, das die Oligarchisierung beschleunigt, ohnehin dafür, daß die Wahlentscheidungen und damit das eigentlich demokratische Element immer weniger relevant werden, was allerdings mit einer ideologischen Aufwertung von Demokratie zu einer Zivilreligion einhergeht. Man muß auch einräumen, daß diese Zivilreligion der Oligarchie, die insbesondere in der „Bewältigung“ besteht, ihre Untertanen doch sehr im Griff hat. Vereinfacht: Ohne einen deutschen Berlusconi wird es nicht möglich sein, die nur freiheitliche Demokratie der linken Mitte in eine freie Demokratie des offenen Links-Rechts-Antagonismus zu überführen.

Vielen Dank für das Gespräch!

samedi, 27 novembre 2010

Quel "Terzo Regno" del socialismo nazionale europeo

Quel “Terzo Regno” del socialismo nazionale europeo

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Ex : http://www.centrostudilaruna.it/

moeller.jpgArthur Moeller van den Bruck fu uno dei più alti risultati ideologici conseguiti dallo sforzo europeo di uscire dalle contraddizioni e dai disastri della modernità: fu uno dei primi a politicizzare il disagio della nostra civiltà di fronte all’affermazione mondiale del liberalismo e all’ascesa della nuova anti-Europa, come fin da subito fu giudicata l’America dai nostri migliori osservatori. Di qui una netta separazione del concetto di Occidente da quello di Europa. Il rifiuto dell’Occidente capitalista e della sua violenta deriva antipopolare doveva condurre in linea retta ad una rivoluzione dei popoli europei, ad un loro ringiovanimento, al loro rilancio come vere democrazie organiche di popolo. Come tanti altri ingegni dei primi decenni del Novecento, anche Moeller vide subito chiaro ciò che ancora oggi molti nostri contemporanei non riescono a distinguere: la perniciosità del liberalismo, la mortifera distruttività delle tecnocrazie capitaliste, l’inganno di fondo che dava e dà sostanza a quel centro di decomposizione mondiale, che già allora erano gli USA: falsa democrazia, impero della Borsa, libertà sì, ma unicamente per il dominio delle sette affaristiche.

In una parola, per chiunque avesse occhi per vedere, era evidente che un trucco liberale stava per gettare sui popoli del mondo la sua rete di potere, gestita da minoranze snazionalizzate e apolidi: “L’appello al popolo – scrisse Moeller ne Il terzo Reich, il suo libro più famoso, pubblicato nel 1923 – serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse”. Chiaro come il sole! Ottant’anni fa, e con tanta maggiore profondità di analisi politica degli odierni cosiddetti no-global, ci fu qualcuno che centrò in pieno l’obiettivo politico, segnalando con forza quale razza di tarlo stesse corrodendo dall’interno la nostra civiltà … ben più lucidamente di tante “sinistre” – ma anche di tante “destre”… – di allora come di oggi, antagoniste di nome ma complici di fatto.

Il disegno politico di Moeller era preciso: instaurazione di un socialismo conservatore; edificazione di una comunità solidale fortemente connotata dai valori nazionali; avvento di una “democrazia elitaria e organicista”: il tutto, inserito in un quadro di ripresa del ruolo mondiale dell’Europa, gettando uno sguardo di simpatia verso la Russia, il cui bolscevismo Moeller – che fin da giovane fu ammiratore della cultura russa e di Dostoewskij in particolare – giudicava passibile di volgersi prima o poi in un sano socialismo nazionale. Era, questa, l’impostazione generale di quel movimento degli Jungkonservativen che faceva parte della più vasta galassia della Rivoluzione Conservatrice, la dinamica risposta tedesca alla sconfitta del 1918 e alle insidie della moderna tecnocrazia cosmopolita, da cui prese corpo infine il rovesciamento nazionalsocialista.

Il senso ultimo del messaggio ideologico di Moeller è dunque duplice: da un lato, denuncia del dominio dell’economia sulla politica, per cui in Occidente, come egli scrisse, “il rivolgere l’attenzione alla fluttuazione del denaro ha sostituito la preghiera quotidiana”; dall’altro lato, fortissimo impulso alla ripresa della nazione, da incardinarsi su quel moderno corporativismo antiparlamentare in cui lo scrittore tedesco vedeva la vera rappresentanza del popolo, la vera partecipazione alla “comunità di lavoro”. L’occasione di una rinnovata riflessione sul pensiero antagonista di Moeller viene adesso offerta dal libro di A. Giuseppe Balistreri, Filosofia della konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck (edizione Lampi di Stampa, Milano 2004). Un testo da cui si ricava, ancora una volta e supportata da una preziosa mole di riferimenti scientifici, l’importanza di un progetto politico che non si estingue nella circostanza storica in cui l’autore visse – la Germania guglielmina e poi quella weimariana – ma si presenta a tutt’oggi con la freschezza di un referente politico attualissimo, reso anzi ancora più immediato dal crescente tracollo che negli ultimi decenni ha investito il concetto europeo di nazione sociale.

Moeller ebbe la capacità di risvegliare un sistema ideologico – il socialismo antimarxista – e di collocarlo a fianco del valore-nazione, così da presentare alle masse, stordite dalla doppia aggressione del bolscevismo e del liberalismo capitalista, un modello politico che, se da un lato intendeva rinnovare la società, dall’altro mostrava di volerlo fare senza distruggere i patrimoni di cultura, di socialità e di tradizione comunitaria che l’Europa aveva costruito in secoli di lotte. Tutto questo venne racchiuso dal termine terzo Reich: un’evocazione politica che portava in sé anche una volontà di rigenerazione morale, di rivincita religiosa sul materialismo, e che nascondeva l’antico sogno del millenarismo. Da Gioacchino da Fiore in poi, il “terzo regno” significò aspettativa, non solo religiosa ma anche politica, di un mondo finalmente giusto. Era dunque un mito. E Moeller reinterpretò questo mito in chiave ideologica, mettendolo a disposizione delle masse. Come scrive Balistreri, “il terzo Reich è un mito soreliano”. Questo mito soreliano di attivizzazione del popolo fu infine organizzato politicamente dal Nazionalsocialismo il quale, se non coincise con l’elitarismo e l’impoliticità della Rivoluzione Conservatrice, ne tradusse le istanze teoriche in decisioni politiche, trasformando l’ideologia culturale in politica quotidiana di massa.

Certo, il conservatorismo di Moeller, il suo disegno di una società “dei ceti”, secondo una concezione corporativa conservatrice, rientrava in una tradizione tedesca – quella della Körperschaft, la “comunità dei ranghi sociali” – che esisteva fin dal prussianesimo ottocentesco. E tuttavia la novità del terzo Reich moelleriano consiste nell’abbinare questa tradizione con le esigenze della moderna società di massa. E’ su questo punto che il vecchio conservatorismo doveva diventare il nuovo socialismo. Questo socialismo, come scrive Balistreri riassumendo la concezione moelleriana, “ristabilirà la democrazia nazionale di stampo tedesco, bandendo il liberalismo, il parlamentarismo e il sistema dei partiti, creerà la Volksgemeischaft che si costituirà secondo l’idea dell’articolazione per ceti e corporazioni, e si reggerà in base al Führergedanke“. Moeller aveva compreso che al tentativo di una piccola minoranza di internazionalisti liberali di condurre le nazioni alla sparizione nella “globalità”, si risponde con la nascita di un socialismo dei popoli.

* * *

Tratto da Linea del 12 settembre 2004.

Giuseppe A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck

vendredi, 26 novembre 2010

Ernst Jünger - La civiltà come maschera

Ernst Jünger. La civiltà come maschera

Autore: Marco Iacona

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

La prima figura in ordine cronologico estrapolabile dai lavori giovanili di Ernst Jünger, (ma probabilmente prima anche per importanza) è quella del soldato. Il combattente nella terra di nessuno, il giovane che in solitudine affronta con invidiabile coraggio le truppe e che osserva con lungimiranza l’affermarsi della guerra dei materiali, è già in grado di assumere una propria posizione ideologica che influenzerà parte della cultura tedesca negli anni a venire. Le azioni e le idee del giovane Ernst (qualunque significato assumano) costituiscono, in questi primi anni, un esempio che verrà trasmesso per mezzo delle opere scritte, alla gioventù tedesca e in particolare alle migliaia di reduci insoddisfatti. Tuttavia nello stesso periodo, agli scritti di guerra Jünger alternerà opere di carattere più marcatamente psicologico, e ciò fino agli inizi degli anni ‘30 quando dando alle stampe Der Arbeiter, concluderà oltre un decennio di studi e riflessioni. Nei paragrafi che seguono ci occuperemo di approfondire l’attività del grande scrittore negli anni del primo dopoguerra.

A diciannove anni i sogni africani di Ernst Jünger sono arrivati dinanzi ad un bivio. «Il tempo dell’infanzia era finito» afferma il giovane Berger, alla fine dell’avventura nella Legione Straniera, si può rimanere, cominciare una vita borghese, fatta di agi, piccole e vecchie corruzioni, o si può continuare non fuggendo ma agendo, per soddisfare una incancellabile voglia di protagonismo e scacciare l’horror vacui della crisi. Forte di queste convinzioni, soltanto un cuore avventuroso avrà il coraggio di raggiungere il fronte, poiché è alla ricerca di uno stile di vita maledettamente non-borghese, di un antidoto alla insoddisfazione, di un ideale per cui battersi fino all’estinzione. Accadrà che nel corso della guerra, il fuoco causerà quattordici ferite al corpo del giovane Ernst, ma il pericolo stesso finirà col correggere l’acerba vitalità della recluta: la Grande guerra trasformerà il giovane tenente in un uomo, ne scolpirà il carattere, permetterà lo sviluppo di un pensiero audace.

Nel dopoguerra Ernst Jünger, «soffre la pace» e l’inattività, decide di chiudersi in se stesso, e dopo l’elaborazione dei diari di guerra, «butta giù» numerose riflessioni in forma di schizzo che più tardi comporrà in volume, ama leggere gli scrittori «maledetti», autori dallo spirito fortemente irrequieto, poeti e narratori che sente «propri», è alla ricerca di qualcosa e «crede alla fine di trovarla nell’ascesa della politica tedesca a cui prenderà parte». Le riviste nazionaliste lo attraggono, sceglie l’opposizione alla borghesia e al liberalismo e agli inizi degli anni ‘30 pubblica due fra le più importanti opere del primo periodo: Die totale Mobilmachung e Der Arbeiter ove sviluppa le proprie idee frutto degli anni di riflessione e studio. Si tratta di opere che indagano la realtà con sguardo fermo, a volte spinto agli eccessi, ma guidato dall’onestà intransigente dell’ex combattente.

In tutto il primo periodo, Jünger dimostra di poter abbracciare, grazie ad una scrittura facile e dal contenuto sempre «a fuoco», vari temi: è passato, via via, dai resoconti di guerra, alle riflessioni psicologiche e biografiche per approdare infine, negli anni ‘30, al saggio teorico «impersonale». È agevole notare una natura di scrittore «poco regolata», desiderosa di espressione continua per mezzo di forme diverse e in grado di soddisfare una varietà di esigenze mai fissate a priori. Se la guerra lo ha costruito come uomo, il dopoguerra lo costruisce come scrittore, la scrittura viene utilizzata (secondo alcuni critici, in modo assolutamente inconscio) per superare le crisi del combattente e del reduce e le conseguenze psicologiche ad esse legate. Tuttavia se volessimo tentare una lettura organica degli scritti di cui si è detto, si rende opportuna la ricerca di un leitmotiv che percorra tutta l’opera jüngeriana, costituendone, per così dire, una spina dorsale ideale. Date le premesse, questo tentativo facilita la costruzione di basi idonee a liberare il pensiero di Ernst Jünger da quell’indeterminatezza che alcuni hanno evidenziato, accostandolo ad un tempo ad un ben individuato filone intellettuale e politico.

Per Marcel Decombis la ricerca di un solido punto di vista ha, in Ernst Jünger (malgrado la mancanza di uno specifico metodo) «principi assolutamente fissi», postulati da una forza eminentemente rivoluzionaria; vale a dire lo scrittore manifesta nelle proprie opere una volontà di rottura dello status quo coerentemente sostenuta da un atteggiamento negazionista. D’altro canto, Jünger non può essere annoverato tra i pensatori nihilisti: egli manterrebbe infatti un atteggiamento perennemente (anche se simbolicamente) positivo. Affrontando ogni difficoltà ma mai certo della propria sopravvivenza egli ha dimostrato di intendere l’esistenza, descritta prevalentemente nelle forme del diario-romanzo, nei termini di una vita che nasce dalla morte. Questo capovolgimento dottrinario della natura, già utilizzato da Hölderlin ma presente anche in Wagner e Nietzsche, rappresenta un omaggio sia alla viva forza come sostantivo imperituro, sia alla mortalità generatrice come presupposto di un’idea di immortalità. «Penetrato da questa convinzione, Jünger, chiede [...]che si faccia tabula rasa del passato, prima di porre le basi del futuro». Pertanto le durissime, tragiche prove contenute in ogni esistenza, servono soltanto da prologo al compiersi di uno spirito rigeneratore: guerra, caos, anarchia, non possono che rafforzare la volontà di ciò che è già forte, «la distruzione [non può che avere] un effetto creativo». Riassumendo: le crisi degli anni ‘20 conducono all’elaborazione di opere distruttive, prima di crudo realismo, poi di opposizione interiore, la rigenerazione si rivela nell’opera politica degli anni ‘30, quando tutte le difficoltà precedenti assumono la forma di una nuova dottrina.

Sulla scorta di quanto ha scritto Langenbucher, si può operare un’importante distinzione tra i grandi artisti che presero parte alla guerra nel 1914. Alcuni come George, al momento dello scoppio del conflitto erano adulti, con una personalità formata in pieno e dunque «già carichi di pregiudizi»; altri, Jünger fra questi, erano giovanissimi e molto più adatti a descrivere la nuova esperienza di cui erano così intensamente partecipi; questi ultimi saranno pronti a narrare i trascorsi avvenimenti con una «purezza di intenzioni» che caratterizzerà in modo netto l’intreccio narrativo di numerosissime opere.

Sebbene di diari di guerra, dotati di crudo e visibile realismo, la letteratura del primo dopoguerra abbondi, l’opera di Jünger «è unica nel suo spirito». Decombis individua in essa uno spirito ricco di certezze; i diari jüngeriani sono memorie «spogliate di ogni carattere soggettivo al punto da apparire come dei semplici documenti». In Stahlgewittern è un libro contenente un’elencazione di fatti, spesso identici, che si susseguono nella loro concreta monotonia, è un’opera senza censure, o convenienti omissioni che presenta pagina dopo pagina, un freddo spettacolo di estinzione ed un dietro le quinte fatto di snervante attesa. È il libro che riassume quattro anni di guerra. Das Wäldchen 125 mostra invece un particolare essenziale della lunga esperienza del fronte: la difesa di una postazione di prima linea, è un episodio che in sé riassume la violenza degli attacchi e dei contrattacchi. Feuer und Blut è la narrazione di un giorno al fronte: la controffensiva tedesca del 21 marzo 1918 (evento che Jünger non dimenticherà mai); il soggetto è, dunque, ancora una volta la Grande guerra.

Der Kampf als inneres Erlebnis, può essere considerato un ponte tra le opere narrative di cui si è testé detto ed i lavori successivi. Si apre con essa il periodo di grande riflessione ed elaborazione intellettuale dell’esperienza vissuta. In quest’opera lo scrittore di Heidelberg riflette sul bisogno psicologico di uccidere e sulla distruzione come legge «essenziale» della natura; ma le azioni dell’uomo qui assumono il valore di «flagello necessario» che alimenta un salutare spirito di rinascita. La guerra è «il più potente incontro tra i popoli», ogni principio tra le genti si è affermato attraverso la guerra, essa viene accettata (così come non viene rimosso il ricordo di quattro anni di trincea) perché inevitabile, ed anzi l’accettazione è legata intimamente allo studio delle tecniche di offesa. Una procedura indispensabile per «non rimanere vittima dell’evento», affrontarlo senza soccombere, e dare un’idea di cosa la guerra sia e quale sforzo straordinario il combatterla comporti.

Dunque, a ben vedere, la scelta dello scrittore è di non cantare le lodi della guerra in modo dissennato, bensì di rappresentarla con totalizzante realismo, tentando di ricercarne «un’anima» che possa superare l’emergere delle contraddizioni che la ragione stenta a spiegare. Così egli ha registrato la Materialschlacht, ha convissuto per anni con l’assoluta impotenza del soldato in trincea, ed andando alla ricerca di un proprio «ruolo da protagonista», ha inteso dare alla materialità proprie regole e confini. Jünger accetta la guerra tecnologica («il regno della macchina dinnanzi alla quale il soldato deve annullarsi [...]»), non c’è rimpianto per un passato fatto di eroismi, non c’è insoddisfazione per un presente ove le virtù eroiche non trovano posto; egli ricerca un ordine, un equilibrio tra uomo e macchina, consapevole del ruolo di assoluta importanza che la tecnica occupa, anzi rivolgendo la massima attenzione a quest’ultima, prevedendo già che nuovi comportamenti e nuove mansioni attenderanno l’uomo «prigioniero» della tecnica. Scopriamo cosi uno Jünger materialista che si «sforza di respingere tutte le illusioni dello spirito al fine di ritrovare il linguaggio dei fatti». Tuttavia l’uomo vuole restare «superiore» alla forza potenzialmente distruttiva della tecnica, egli può allora utilizzare quest’ultima come medium per «riaffermare la potenza dell’essere»; così il materialismo, che allontana dalla volontà dello scrittore qualunque superstizione idealista, diviene materia per operare personalissimi adattamenti: la realtà bellica si tramuta in evento estetico ove l’eroismo del singolo convive, in una continua ricerca d’armonia, con lo «strapotere» delle macchine. E poiché Die Maschine ist die in Stahl gegossene Intelligenz eines Volkes, le diverse forze della modernità amano procedere parallelamente.

In Stahlgewittern è un diario-romanzo pubblicato due anni dopo la fine della grande guerra. Come si è detto, costituisce la non breve ouverture di oltre ottant’anni di continua produzione letteraria; per anni la critica, a causa dei contenuti e delle intenzioni del giovane autore, la etichetterà come l’opera principe dell’anti-Remarque della cultura europea. Protagonista unico del libro è il Soldato-Jünger che sconosce le decisioni prese dai superiori e soprattutto le motivazioni di largo respiro strategico delle azioni intraprese. La guerra viene rappresentata in modo parziale attraverso gli occhi del protagonista, l’opera descrive dunque soltanto l’evento in quanto evento e non fatto storico che porta con sé, innumerevoli risvolti e significati. Kaempfer vi ha scorto una lettura degli eventi bellici di comodo, data cioè una tesi aprioristica, l’intreccio narrativo si svilupperebbe con l’intento unico di confermarla, omettendo i dati che con essa contrasterebbero. D’altra parte Prümm ha visto in questo approccio un filo conduttore dell’opera jüngeriana: l’accettazione della realtà in quanto oggetto «che si sviluppa indipendentemente dal singolo individuo». Di conseguenza secondo alcune tesi abbastanza diffuse, vero protagonista dell’opera non si rivelerebbe il soggetto scrivente, bensì un oggetto:

-L’immagine dei corpi straziati, vale a dire la cruda realtà dei morti giacenti sulla superficie delle campagne.

Ovvero uno spirito-guida:

-Il respiro della battaglia che aleggia intorno alle truppe.

In proposito, scrive Jünger:

«Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli [...] la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini [...]» Accenti forti, espressi anni prima in terra francese anche da F.T. Marinetti, accenti forti ma così poco inusuali nella storia delle moderne nazioni. Pertanto In Stahlgewittern, concesse al lettore poche battute iniziali, mostra senza perifrasi, le vere conseguenze dei conflitti moderni: primo inverno di guerra, Champagne, villaggio di Orainville, un bombardamento, tredici vittime, una strada arrossata da larghe chiazze di sangue e la morte violenta che rimescola i colori della natura. Segue il terribile resoconto di una forzata convivenza con la morte e con le azioni di belliche, ove «l’orrore della guerra viene estetizzato in incantesimo demonico e trasfigurato in veicolo estetico di accesso ad una sfera superiore [...]».

La vita comincia al crepuscolo in trincea e continua nelle buche scavate nel calcare e coperte di sterco. Si combatte una guerra di posizione che richiede un davvero difficile eroismo tanto da lasciare poco spazio alle illusioni: l’importante non è la potenza o la solidità delle trincee, ma il coraggio e l’efficienza degli uomini che le occupano. Bohrer sostiene che la rappresentazione dell’orrore in Ernst Jünger, serve a fornire della guerra una «immagine critica», vale a dire l’estetizzazione della stessa sarebbe il solo metodo in grado di darne un’idea reale. D’altro canto, la realtà medesima della guerra diviene realtà «superiore» poiché ogni valore e modello tradizionale è stato da lungo tempo dimenticato.

La scoperta della battaglia dei materiali è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane: il valore individuale è annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, sono comprese dal Soldato in tutta la loro forza epocale. È la controffensiva inglese sulla Somme a segnare la fine di un primo periodo di guerra e l’esordio di un nuovo tipo. Questo registra le battaglie dei materiali e subentra col suo gigantesco spiegamento di mezzi, al «tentativo di vincere la guerra con battaglie condotte alla vecchia maniera, tentativo inesorabilmente finito nella snervante guerra di posizione». Già Spengler aveva capito come il valore e il ruolo dell’individuo sarebbero stati ridotti dall’andamento della guerra moderna; ma dalla sua prospettiva Jünger continua ad insistere sulle capacità del soldato, sforzandosi di dare ai compiti del combattente un accento da molti considerato irresponsabile. Tuttavia l’ideale eroico prussiano che Jünger manifesta nel suo diario, sconta anch’esso una lettura di tipo “psicanalitico”. Si tratterebbe, a parere di alcuni, di un tentativo di fuga dal mondo reale, ove il Soldato è costretto ad affrontare gli echi del destino simboleggiati dal Trommelfeuer. L’eroismo diviene la necessità o il calcolo razionale di chi ha pochissimo spazio per combattere una propria guerra, e finisce col dissimulare azioni e comportamenti necessari dettati da tempi meccanici fuori da ogni controllo.

In tutto il resoconto c’è un’impronta magico-fiabesca, una coincidenza degli opposti, che unisce all’esplosione di forze elementari una continua ricerca della quiete cosmica: la battaglia viene sovente destorizzata e calata in una superficie mitica, al di sotto della quale la scrittura jüngeriana edifica possenti colonne, così si legge infatti: «La guerra aveva dato a questo paesaggio [davanti al canale di Saint Quentin] un’impronta eroica e malinconica». In mezzo ai colori della natura «anche un’anima semplice sente che la sua vita assume una profonda sicurezza e che la sua morte non è la fine».

Il tentativo di esorcizzare la guerra, minimizzando gli eventi tragici e costruendo a propria difesa un mondo magico, condurrebbe in tal modo Jünger alla creazione di figure irreali, è questo il caso dell’immagine classica dell’eroe immortale, immerso nella contemplazione di una natura amica. D’altra parte anche l’amatissima letteratura apparirebbe, e non di rado, come incredibile via di fuga. Scrive Jünger, durante un assalto:

«L’elmetto calato sulla fronte, mordevo il cannello della pipa, fissando la strada, dove le pietre lanciavano scintille all’urto con le schegge di ferro; tentai con successo di farmi filosoficamente coraggio. Stranissimi pensieri mi venivano alla mente. Mi preoccupai di un romanzo francese da quattro soldi, Le vautour de la Sierra, che mi era capitato fra le mani a Cambrai. Mormorai più volte una frase dell’Ariosto: “Una grande anima non ha timore della morte, in qualunque istante arrivi, purché sia gloriosa!” Ciò mi dava una specie di gradevole ebbrezza, simile a quella che si prova volando sull’altalena al luna park. Quando gli scoppi lasciarono un po’ in pace i nostri orecchi, udii accanto a me risuonare le note di una bella canzone: la Balena nera ad Ascalona; pensai tra me che il mio amico Kius era impazzito. A ciascuno il suo spleen».

La guerra diventa strumento di intima e eterna vittoria, epifania dell’arte. L’uomo Jünger, traghetta il guerriero in un kunstwald: i pensieri fanno da sfondo ad una tragedia che conosce un’eroica, ma mai sinistra, tristezza. Repentinamente lo sguardo indagatore si affaccia a scrutare gli abissi della guerra ove la passione umana trascolora all’urto di invincibili forze ctonie, leggiamo: «È una sensazione terribile quella che vi si insinua nell’animo quando vi trovate ad attraversare, in piena notte, una posizione sconosciuta, anche se il fuoco non è particolarmente nutrito; l’occhio e l’orecchio del soldato tra le pareti minacciose della trincea sono messe in allarme dai fatti più insignificanti: tutto è freddo e repellente come in un mondo maledetto». Il mondo maledetto è forse soltanto l’arena della tecnica e delle tecniche di guerra? Osservato dalla trincea, il Welt jüngeriano assume i contorni della fabbrica. Compiuto da schiavi-stregoni, l’apprendistato diventa giorno dopo giorno, utilizzo produttivo della paura: la fusione dei materiali in forze onnipotenti.

Lo spirito-guida, la battaglia che non concede vere soste, non cessa di essere protagonista: quando nei primi mesi del 1918, si parla di una immensa offensiva sull’intero fronte occidentale, annota Jünger: «La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati, lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo». La micro-storia di alcuni villaggi di confine, assurge a Macro-storia, la tragedia a Schicksal di un’epoca. Decisione e azione si trasmutano nel faro ideologico degli anni a venire. La guerra indagata con sguardo lungimirante sarà prologo e continuazione di una ventennale politica europea. In definitiva: le aspre reazioni emotive (i «lati oscuri» jüngeriani) emerse dall’animo umano quali effetti avranno sulla ripresa della quotidianità nel dopoguerra? La «rivincita del brutale sul sentimentale» come ha scritto Decombis, quali effetti avrà sugli anni a venire? L’idea che rimane è che la guerra abbia riscoperto ciò che persiste immutabile nell’animo umano: gli istinti primitivi, allo stesso modo il fuoco ha rimosso quella sottile vernice che ricopriva il fondo della natura umana. Nel corso di quattro indimenticabili anni essa ha strappato la maschera della civiltà permettendo all’uomo di apparire nella sua armonica totalità.

El Reich neoconservador de Edgar J. Jung

EL REICH NEOCONSERVADOR DE EDGAR J. JUNG

Alexander Jacob
 
 
El movimiento neo-conservador en la República de Weimar fue una empresa política elitista que pretendía devolver a Alemania a su mundo espiritual original y posición como líder del Sacro Imperio Romano-Germánico medieval de la nación alemana. Constituido por intelectuales como Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck, y Edgar Julius Jung, los neo-conservadores estaban destinados a destruir la situación socio-política y ética de la República de Weimar liberal que se había impuesto a Alemania por sus enemigos. La mayoría de los neo-conservadores eran miembros de los clubes de élite de la época, el Juniklub, fundada por Moeller van den Bruck, y su sucesor, el Herrenklub, y se oponían tanto a todos los populistas de los sistemas democráticos liberales.
De los neo-conservadores, tal vez el más influyente teórico y activista político fue, sin duda, el abogado de Munich, Edgar Julio Jung. Jung no era solamente un pensador y propagandista, sino también un político activo en la República de Weimar, después de haber comenzado su carrera política al mismo tiempo que su práctica jurídica poco después de la primera Guerra Mundial. Jung nació en 1894 en el Palatinado bávaro y sirvió como voluntario en la guerra. Después de la guerra, se unió a una unidad del Cuerpo Libre y participó en la liberación de Munich de la República Soviética de Baviera en la primavera de 1919. Antes de la ocupación franco-belga del Ruhr (1923-25), Jung había terminado su doctorado en Derecho y comenzó la práctica en Zweibrücken. Sus actividades políticas durante este tiempo incluyen la organización de la resistencia y de las actividades terroristas contra la ocupación del Ruhr, formando parte del directorio del Deutsche Volkspartei.
Después de la crisis del Ruhr, Jung se estableció como abogado en Munich, donde vivió hasta su muerte. Jung adquirió fama a través de su política de varios escritos en el Deutsche Rundschau, y su tratado político más importante, Die Herrschaft der Minderwertigen (segunda edición, 1929, 30), que, según Jean Neuhrohr, fue considerado como una especie de "biblia del neo- conservadurismo".
En enero de 1930, Jung se unió a la Volkskonservative Vereinigung, un partido de extrema derecha formado inicialmente por doce diputados del Reichstag, que se habían separado de la Volkspartei Deutschnationale dirigido por Alfred Hugenberg. La actitud de Jung frente al Partido Socialista Nacional de Hitler era tibia, a pesar de su admiración por las "energías positivas" del movimiento. Hitler se había postulado a la nación como un ídolo para hipnotizar a las masas ignorantes, mientras que un cierto movimiento conservador trataba de elevar a las masas mediante la invocación de la santificación de su liderazgo. Los partidos de extrema derecha sin embargo estaban demasiado divididos para formar una alternativa sólida a las fuerzas nacionalistas, especialmente después de una segunda secesión de la DNV, que creó otro partido escindido, el Volkspartei Konservative.
El intento de Jung para imponer su propia marca de 'conservadurismo revolucionario' en la VKV se reunió con poco éxito, y cuando la DNV y KVP unieron fuerzas en diciembre de 1930 la dirección de la nueva coalición fue entregada no a Jung, pero sí a Pablo Lejeune-Jung. En enero del año siguiente, Jung y algunos de los conservadores de Baviera formaron la «Bewegung zu Volkskonservative Bewegung deutscher 'como una política de origen"para todos aquellos que, al margen de las consignas y las fórmulas mágicas de la vida política partidaria, estaban dispuestos a mirar los problemas políticos contemporáneos desde la perspectiva exclusiva de la misión histórica del pueblo alemán".
Sin embargo, la negativa de Jung a cooperar con los conservadores más moderados como Heinrich Brüning y los recursos de Treviranus, a fin de promover su propia marca de conservadurismo revolucionario, no ayudó a su movimiento, que había perdido casi toda la fuerza política en la primavera de 1931. La carencia de entusiasmo de Jung por el canciller Brüning fue explicada por él en un borrador de una carta a Pechel de fecha 14 de agosto 1931:
"Sólo cuando el gobierno está en camino de volver al concepto de autoridad y se libera de la esterilidad del parlamentarismo alemán, puede que estas fuerzas se pongan al servicio de la nación en su conjunto. En la reorganización del gabinete, el objetivo debe ser el abandono total de su base del partido. No es la aprobación de las partes, pero la práctica y la competencia profesional deben determinar la selección de aquellos a quienes usted, canciller respetado, tendrán que ayudarle en el dominio de estas tareas difíciles."
Cuando Hitler y el Partido Nacional Socialista obtuveron las victorias masivas en la región y las elecciones estatales del 24 de abril de 1932, Jung dio la bienvenida a la realidad jurídica de la adhesión de los nazis al poder. Porque, aunque Jung estaba temeroso de las tendencias extremistas de los nazis, esperaba que con este proceso legal, se evitaría la debacle de un ataque forzoso a la voluntad política mayoritaria. Además, la marea de entusiasmo nazi en el país era imparable y la alianza conservadora se vió impotente cuando el NSDAP obtuvo una resonante victoria en las elecciones del Reichstag de noviembre de 1932. Jung quedó naturalmente sorprendido cuando Hitler astutamente unió fuerzas con el conservador Von Papen para formar un gobierno de coalición en enero de 1933. Jung siempre mantuvo una actitud de superioridad con el populismo de Hitler, y creía que, puesto que los conservadores eran "responsables de que este hombre llegase al poder, ahora tenemos que deshacernos de él".
Así que, cuando Franz von Papen fue nombrado vicecanciller de Brüning, en 1933, Jung escribió a Papen que ofrecía sus servicios como escritor de discursos y asesor intelectual. Por consejo de su estrecho colaborador, Hans Haumann, Papen invitó a Jung a unirse con su gobierno en una organización con capacidad de asesoramiento. La intención de Jung en el servicio a la administración de Papen fue "para proteger [a Papen] con una pared de los conservadores" que proporcionaría el rector un enriquecimiento moral necesario frente a un rápido ascenso de Hitler al poder. Con la esperanza de frenar el extremismo de Hitler con su ideología conservadora, Jung se destacó como redactor de los discursos para Papen, cuando éste, Hugenberg y Seldte Franz de la Stalhelm se unieron para formar el conservador Kampfront Schwarz-Rot-Weiss. Sus discursos fueron diseñados para impresionar a la nueva coalición de fuerzas de extrema derecha con un sello conservador en lugar del extremista nazi. Jung defendió el gobierno de Papen contra los nazis "de las acusaciones de reaccionarios”, haciendo hincapié en el carácter revolucionario de la nueva derecha y poniendo de relieve lo espiritual y los defectos ideológicos de Hitler y su partido.
Mientras Papen trataba de luchar contra el movimiento nazi desde un punto de vista conservador, Jung escribió una crítica del fenómeno nazi en su Sinndeutung der deutschen Revolución (1933), en el que reiteró sus acusaciones de neoliberalismo y democratismo, al tiempo que destacaba que "el objetivo de la nacional-revolución tiene que ser la despolitización de las masas y su exclusión de la dirección del Estado".
Jung llama a un nuevo estado basado en la religión y en el mundo visto universalmente. No las masas, sino una nueva nobleza, o una élite auto-consciente, debe informar al nuevo gobierno, y el cristianismo debe ser la fuerza moral en el estado. La propia sociedad debe ser organizada jerárquicamente y más allá de los límites del nacionalismo, a pesar de que debe basarse en "una base völkisch indestructible”. La referencia a ir más allá de los límites del nacionalismo fue, por supuesto, motivada por su deseo de restituir un Reich federalista europeo. El conservadurismo de Jung se distinguió también por su llamamiento para la creación de una monarquía electiva y el nombramiento de un regente imperial como el director espiritual del nuevo Reich europeo-germánico. Sin embargo, tanto el proyecto de Reich como el énfasis puesto en las asociaciones völkisch, se llevaron a cabo de forma más dramática y temeraria por Hitler que por cualquiera de los líderes conservadores.
La oposición de Jung a Hitler tomó una forma más concreta a principios de 1934, cuando emprendió numerosos viajes por toda Alemania para desarrollar una red de simpatizantes conservadores que ayudasen a derrocar el régimen de Hitler. El propio Papen no estaba al tanto de los esfuerzos de Jung en esta dirección y la asistencia de Jung vino de Herbert von Bose, Günther von Tschirschky y Ketteler. Jung incluso contemplaba personalmente asesinar a Hitler, a pesar de los temores de que esta acción drástica podría descalificarlo para asumir un papel protagonista en la nueva dirección. Después adoptó la alternativa académica de escribir otro discurso para Papen, última entrega que se desarrolló en la Universidad de Marburg el 17 de junio de 1934. Los repetidos ataques sobre la ilegitimidad del régimen de Hitler y los fracasos políticos de este régimen en este discurso, obligaron a Hitler, bajo el consejo de Goering, Himmler y Heydrich, su asistente, para deshacerse de la amenaza planteada por Jung. Así, junto con Röhm y los oficiales SA, que se había convertido en rebeldes para los nazis, Jung perdió la vida en la "Noche de los cuchillos largos", el 30 de junio de 1934.
Retrospectivamente, podemos considerar la carrera política de Jung como ambivalente. Motivado por un lado, por su filosofía y la visión de un Reich alemán neo-medieval que debía destruir el sistema parlamentario nocivo de los liberales, la oposición de Jung a Hitler y su negativa a comprometerse con sus compañeros conservadores de la derecha fueron, claramente, impulsados por su ambición personal y, tal vez incluso, por la envidia de los éxitos políticos de Hitler. De hecho, el proyecto conservador propuesto por Jung difería de un extremista como Hitler sólo en grado y no en especie. La comunidad en que Jung deseaba convertir al pueblo alemán, en realidad se presentaba, de una forma similar a la diseñada por de Hitler, como un gigantesco movimiento de masas. Por supuesto, este populismo carecía de la sustancia espiritual que Jung había estipulado para la comunidad, pero los nazis, al menos, podían argumentar que fueron ellos los que sentaron las bases völkisch necesarias para una cultura espiritual uniforme. Además, la dramática política extranjera de Hitler, después de la muerte de Jung, en realidad se parecía demasiado al imperialismo cultural propuesto por Jung para el Reich alemán que debía liderar al resto de Europa.