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samedi, 16 octobre 2010

Italo Svevo

Italo Svevo, un uomo caduto in piedi, così tanto borghese,così tanto italiano

di Graziella Balestrieri

Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

"Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso". (M.Proust)

 
italosvevo_big.jpgN.S.

In ogni opera di Svevo vidi me stessa.
Non nacqui in una famiglia borghese. Mio padre lavorava tutto il giorno e lo vedevo poco, però aveva l’attenzione giusta e capì subito che i libri mi piacevano e ogni settimana sin da piccolina mi comprava un volume nuovo, che io puntualmente leggevo sottolineavo e poi capivo dopo. A quei tempi, prima del Liceo, in casa c'erano solo libri politici, destra e sinistra, tanto è vero che ebbi una confusione mentale che dura sino ad oggi. Ovvio, mia mamma berlingueriana e mio padre un fascistone. E vabbè, non tutti i mali vengono per nuocere. Leggevo pure quelli, ma non mi entusiasmavano, sì la storia era interessante, ma quel modo di scrivere non mi esaltava. A 17 anni mi accorsi di un libro che stava lì. Una vita, Italo Svevo. 
Non so di preciso cosa mi incuriosì, ma iniziai a leggere e poco tempo dopo in classe capii il perché. Nei temi andavo sempre fuori traccia, è vero, ma perché mi annoiavo e le trovavo stupide, per cui scrivevo quello che mi andava. Dopo aver letto Una Vita, iniziai ancora di più a fare di testa mia, seguivo solo il flusso della mia coscienza, e quando in un tema in classe pensai di aver scritto un qualcosa di magnifico la prof ai colloqui disse a mio padre "Sua figlia scrive in modo strano, mette virgole e punti dove vuole, e cambia le tracce, argomenti interessanti, ma ha qualche problema?". Mio padre disse “bu, legge sempre, se questo è un problema non lo so”. Io sorrisi ed ero pienamente soddisfatta, una prof che io consideravo la quinta essenza della borghesuccia messa lì a insegnare non capiva come scrivevo. Io che la lingua tagliente non l’ho mai riposta, le dissi “si vede che lei non ha mai letto Svevo o Joyce”. Lei non rispose e da allora i miei voti in italiano aumentarono in maniera indescrivibile. Il quinto anno cambiò insegnante, arrivò e quando fu il tempo di “spiegare” Svevo disse testuali parole “Svevo era pazzo, un fissato con la malattia, facciamo poco”. Io andai su tutte le furie e le testuali mie parole non credo di ricordarle, ma la prof diceva di non agitarmi e disse “se ti piace tanto spiegalo tu”. Io mi alzai e spiegai, ma questo episodio lo legai al dito. Agli esami di stato, quando lei voleva farsi bella con me su Svevo dinnanzi alla commissione esterna, mi alzai con la sedia e passai a Filosofia. Un libro non ti cambia la vita, ma te la stravolge. Una vita fu per me, e poi più tardi La coscienza di Zeno, una catastrofe positiva che avrebbe fatto di Svevo un mio “padre letterario”.
Per la prima volta mi trovavo davanti a due vocaboli che mi giravano intorno, ma che non sapevo definire: inetto e borghese. Iniziare a guardare le cose di “sbieco”….la vita, prenderla di sbieco. Così dove tutti guardavano dritto per dritto iniziai ad inclinare la testa, per avere una prospettiva diversa. I personaggi, a me cari, da Alfonso Nitti a Zeno Cosini avevano tutti un filo conduttore: non nasci borghese ma qualcuno ti costringe a diventarlo, ma una soluzione esiste: l’ironia. In Italia non è stato molto amato, capirai il piccolo borghese qui domina e la fa da padrone. Vivere: un impiego statale, una famiglia, i figli, i pranzi con i parenti. L’amante. Tutto regolare. Troppo regolare. Così Svevo che poi è in Una Vita e ancor di più in Zeno Cosini e Senilità si ritrovava ai tempi a vivere in maniera parallela la “malattia” della scrittura e la “salute” dell’impiegato di banca con la famigliola perfetta. La differenza tra salute e malattia. Cosa è sano, cosa è malato?

L’inetto sveviano si trova in un mondo che non ha voluto, costretto a vivere “una vita” che non è la sua ma è quella che gli altri vorrebbero che fosse. Matrimoni per convenienza, bei vestiti, un’amante. Un torpore borghese che uccide ogni apertura mentale. Così in Svevo la malattia è la cosa più “sana”, quella che può sconfiggere la salute borghese. La rinuncia a essere sani nei suoi racconti è l’unico modo di affrontare il buio: “Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture stato di rinunzia e quiete. Non aveva più neppure l’agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare. Non gli veniva offerto più nulla; con la sua ultima rinunzia egli s’era salvato, per sempre , credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere”(Una vita).

Ettore Schimtz , il vero nome dell’austro-italiano Italo, nasce a Trieste nel 1861, quando l’Italia diventa Italia. Per quanto mi riguarda, nonostante ai licei la vita degli scrittori si riduce al “nasce, vive muore e queste sono le opere”, la cosa importante che viene tralasciata è: il vissuto, l’ambiente che lo ha portato a scrivere. Ed è fondamentale in Svevo perché per seguire quel flusso di coscienza che Proust ritrova nel passato, Joyce ritroverà e perderà nel raccontare le mille vicissitudini della sua terra, nonostante l’esilio volontario, nel raccontare il proprio vivere si riesce a capire se stessi e a scavare nell’animo della gente che ti circonda. Non venne mai considerato un esteta della scrittura, alcuni addirittura arrivarono a dire "che non sapeva scrivere", un dilettante. Ma Svevo per uscire dai canoni della perfezione dell’ideologia naturalista in un qualche modo ha dovuto cercare la via migliore per raccontare e capire se stesso: la normalità. Scrivere in maniera normale, come farebbe una persona normale. Non fu mai “un esaltato” della vita al pari di D’Annunzio, nemmeno alla ricerca della bellezza, non ha mai voluto trovare altro che il significato stesso della vita. E come si fa a trovare l’essenza della vita se non si ricerca prima il proprio essere?

svevocouv.jpgCosì, nel sembrare un pessimista di natura, cerca nei suoi personaggi la chiave per descrivere l’uomo che cade in piedi. Che non è semplice, perché se cadi il segno di un livido ti rimane, cadendo e rimanendo in piedi il dolore lo senti solo dentro. Non è fisico, è solo mentale. Alfonso Nitti, bancario che lascia la mamma e si ritrova in una città che non sembra appartenergli, a cui non vuole appartenere, il personaggio di Una vita ricalca l’archetipo del debole, di colui che si arrende all’amore perché non è amato dalla donna che vorrebbe, che si arrende alla perfezione e alla cura estetica del collega che lo snerva nel suo essere borghese e arrivista, si arrende alla distanza inevitabile del suo capo, il Maller. Solo la morte per quanto crudele e distante, riuscirà ad avvicinarlo alla perfezione della vita, ma questo nemmeno servirà ad sentire più vicini quelli che lui considerava mal volentieri “colleghi”."La Banca Maller, in puro stile burocratico, annuncia un funerale che avviene con l’intervento dei colleghi e della direzione" (Una vita). Alfonso, che si dà colpe non sue, scriverà alla mamma: “Non credere, mamma, che qui si stia tanto male; sono io che ci sto male”. Non faceva nulla e quel nulla lo portava ad avere un’inerzia totale dinnanzi alle cose. Non era stanco, era solo annoiato. Tutti i giorni lì su quella sedia, tutti i giorni a subire e non capire, tutti i giorni un pezzo di vita che si vedeva portar via, ma la cosa assurda è che mentre gli altri “sembravano” contenti di vivere così, Alfonso era contento di non vivere. Avrà ragione Joyce a dire che nella penna di un uomo c’è un solo romanzo e che quando se ne scrivono diversi si tratta sempre del medesimo più o meno trasformato. Così da Una Vita si passa alla Coscienza di Zeno, che nel 1924 Svevo spedisce al suo ormai amico Joyce, trasferitosi a Trieste e suo professore di inglese che Livia Veneziani Svevo descriverà così: “Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori dal comune”. Joyce, entusiasta del suo “allievo”, fa conoscere il manoscritto in Francia dove verrà pubblicato. In Italia sarà per merito di Eugenio Montale, sulle pagine della rivista L’Esame, che Svevo riuscirà ad avere la prima notorietà. Zeno Cosini che cerca di guarire da una malattia non ancora ben definita ed inizia il percorso psicoanalitico presso il Dottor S. Dottore che, per quanto poco si sforzi di capire il problema, non riuscirà a farlo e nel momento dell’abbandono della terapia da parte di Zeno si vendicherà pubblicando le memorie del suo paziente con la speranza che questo gli procuri dolore. Ma Zeno, che è più impegnato ad amare la sua sigaretta non farà altro che ridere e deridere il suo analista.

Come poteva credere di guarirlo se la cura consisteva nel dovergli togliere l’unica cosa che lo faceva stare bene: la scrittura. Zeno sapeva benissimo che ciò che lui imputava al fumo, "il veleno che mi scorre nelle vene, questo mi procura nevrosi", non era la causa principale del suo malessere. Un mondo popolato da borghesi, alla ricerca del vivere bene, della salute, di tutto ciò che deve apparire, di tutto ciò che è importante per gli altri. Mai qualcuno a chiedersi se quello che vedi è quello che senti, mai nessuno a chiedere se quello che vivi ti appartiene. Zeno sposerà Augusta, brutta ma dolcissima, sorella di Ada di cui lui era innamorato ma che preferì il borghese e mondano Guido. Così dopo la delusione si autoconvincerà che Augusta è la donna della sua vita. Non più gli altri che ti convincono. Lo spazio vitale è talmente ristretto che ti autoconvinci. Non starò qui a elencare e descrivere pezzo per pezzo i capitoli della Coscienza di Zeno. Solo il fumo. Si iniziai a fumare per colpa di Zeno. Non riuscivo a capire perché quel modo ossessivo di parlare di un qualcosa che io avevo sempre cercato di evitare a mio padre. Iniziai a fumare Davidoff, marca tedesca, perché Zeno iniziò con quelle di marca tedesca.

svevosenil.jpgStupida come cosa, ma immediatamente riuscii a capire il veleno che ti attraversa le vene, riuscii a capire quanto sia debole un uomo dinnanzi ad un vizio, che non ti serve, che non è utile, che è dannoso, ma diventa vitale. E più di tutto mi impressionò in Zeno il tentativo di voler smettere e la volontà certa di non farlo mai. Il medico della casa di cura dove venne “rinchiuso” per smettere di fumare gli dice:"Non capisco perché lei, invece di cessare di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma". Il non averci mai pensato di Zeno risulta l’immagine migliore del romanzo, il dolore che vivi dallo stacco brutale da un qualcosa a cui sei morbosamente legato ti ripaga dell’amore per cui morbosamente sei legato a quella cosa. Così o si rinuncia in maniera totale o non si rinuncia. Così Zeno passerà ogni sera ad annotare una U.S, un’ultima sigaretta mai spenta.

La morte del padre, che avrà la forza di dare un ultimo schiaffo al figlio, agli occhi di Zeno risulta non minaccioso e imperioso, solo un ultimo gesto per rimanere attaccato alla vita. In fondo lo schiaffo sarebbe stato solo la continuazione del loro rapporto. L’incomprensione non avrebbe avuto vita in una carezza. Sposando Augusta, Zeno non aveva scelto, era uno che si lasciava scegliere. Le alternative erano poche. Così un’amante che non dà problemi ricalca perfettamente lo stile borghese. La famiglia perfetta e il marito con l’amante. Capitolo a parte è Senilità, che fu un insuccesso per l’ormai famoso Svevo. Emilio Brentani e Amalia, sua sorella, sono l’immagine della sconfitta e a loro fanno da contraltare Stefano Balli, rude e senza coscienza, e Angiolina, che secondo Svevo vive in un eccesso di illusioni. Emilio perderà letteralmente la testa per Angiolina, convinto dall’inizio che ella sarà solo un giocattolo che poi lui non sarà più in grado di far funzionare. Più aumenta la passione, più svanisce ogni cosa. Senilità è il romanzo della distruzione, dell’uomo che conosce il passaggio del piacere piccolo borghese e si avvicina alle idee proletarie. In tutto questo va detto che il romanzo è molto più fluido e ben scritto rispetto agli altri, ma forse per questo è distruttivo, descrive un piccolo borghese Emilio che ha vissuto in maniera mediocre e riesce a vivere il romanzo che non saprà scrivere mai. Scrivere è una cosa, l’aver vissuto è un’altra. Così lo stesso Svevo scriverà: "Io a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura". L’immagine che ho sempre avuto attraverso gli occhi di Svevo è come dire: provate a immaginare un uomo che cammina lentamente in mezzo al traffico, la gente corre, spintona, cade, si rialza, fa finta di niente, se ti osservano è solo per un motivo, per vedere quello che indossi, se cercano conversazione è solo per sapere i fatti tuoi. Così chi non corre passa in mezzo alle macchine e tutti a suonare con i clacson. "Spostati idiota, qui si corre". Ho sempre pensato che i romanzi di Svevo fossero quel momento in cui tu ti fermi, ma non perché gli altri lo vogliono. Lo decidi tu e se sai fermarti bene, se trovi la chiave, l’ironia, fai si che le macchine degli altri vadano a sbattere una contro l’altra e tu rimani lì: con il sogghigno arguto, con la testa inclinata, a guardare la vita di sbieco. Se cammini correndo, non osservi. Se rimani fermo lo fai. L’inetto sveviano non subisce alla fine, sceglie di subire: è diverso. Non sarà stato uno scrittore eccelso, banale a tratti, ma è stato l’unico a saper descrivere il flusso della vita nell’uomo: esiste qualcosa di più banale e complicato dell’uomo?
Svevo riuscì a descrivere l’epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni”(Eugenio Montale)

N.S

 

 


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jeudi, 14 octobre 2010

Voorzitter CSU pleit voor immigratiestop

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Voorzitter CSU pleit voor immigratiestop

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Wanneer politici die niet tot de gevestigde partijen uitspraken doen m.b.t. immigratiestops op basis van etnische afkomst, dan schreeuwen de traditionele politici moord en brand. Processen volgen en men wordt, in voorbereiding van de juridische lynching, alvast op journalistiek vlak afgemaakt. Maar in Duitsland heeft nu een “onaangebrand” iemand net gepleit voor een immigratiestop voor mensen uit landen “met een andere cultuur” (lees: moslims). Dit deed hij in het magazine Focus, net wanneer de Turkse premier Erdogan Duitsland bezoekt. Dit bezoek is in het kader van een onderzoek naar mogelijkheden om de naar schatting twee miljoen Turken beter te doen integreren in de Duitse maatschappij.

Wie is deze man vraagt u? Het gaat over Horst Seehofer, voorzitter van de CSU (de Beierse christen-democraten die 46 jaar lang de absolute meerderheid in Beieren hadden), minister-president van Beieren, voormalig minister van volksgezondheid en voormalig minister van landbouw.

Uiteraard schreeuwt links ondertussen moord en brand. Zo hebben twee Groenen, Claudio Roth en Renate Künast, reeds gezegd dat Seehofer zich moet excuseren bij alle Turkse en Arabische migranten. En ook de minister van justitie van de FDP (de liberalen), Sabine Leutheusser, verwerpt zijn uitspraken. Een peiling van de krant Bild am Sonntag toont echter aan dat de meerderheid van Duitsers ook van mening is dat de moslims niet willen integreren en dat Seehofer gelijk heeft. Het zou dan ook logisch zijn dat politici een logische verdere stap nemen: pleiten voor remigratie.

Wordt vervolgd?

Ludwig Woltmann: la obsesion por la hegemonia germanica

 
Sebastian J. Lorenz
Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/

ludwig-woltmann.jpgComenzamos por señalar la corriente darwinista que reinterpretó la lucha de clases como una lucha de razas, en la que destaca la obra de Ludwig Gumplowicz (Der Rassenkampf), judío de origen polaco que, casualmente, sería considerado como maestro sociológico por el germanista radical Ludwig Woltmann. Precisamente, increpado Gumplowicz por su discípulo Woltmann al haber abandonado el concepto de raza, el sociólogo nostálgico respondió en los siguientes términos: «Me sorprendía … ya en mi patria de origen el hecho de que las diferentes clases sociales representasen razas totalmente heterogéneas; veía allí a la nobleza polaca, que se consideraba con razón como procedente de un tronco completamente distinto del de los campesinos; veía la clase media alemana y, junto a ella, a los judíos; tantas clases como razas … pero, en los países del occidente de Europa sobre todo, las distintas clases de la sociedad hace ya mucho tiempo que no representan otras tantas razas antropológicas y, sin embargo, se enfrentan las unas a las otras como razas distintas …».
Woltmann, sin embargo, representa ya un modelo racista más avanzado en el tránsito hacia el racismo biológico, apropiándose, al mismo tiempo, de ciertas elucubraciones de Gobineau y De Lapouge. Ludwig Woltmann, un ex-marxista que abandonó la lucha de clases y se convirtió a la lucha de razas, representa, en definitiva, un racismo que aparece ahora revestido como una ciencia de la antropología que se dirige a establecer los caracteres de los pueblos superiores y dominadores, capaces de asegurar la primacía y la potencia de las civilizaciones. Curiosamente, en su famoso “manual”, Armin Mohler incluye a Woltmann entre los autores völkischen (rama del “campesinado”) de la Revolución Conservadora alemana.
Para ello, Woltmann define un tipo biológico, puramente antropológico y morfológico en sus descripciones, y después, lo asocia a una serie de cualidades espirituales: «el hombre de alta estatura, de cráneo desarrollado, con dolicocefalia frontal y de pigmentación clara –la raza nord-europea- representa el tipo más perfecto del género humano y el producto más alto de la evolución orgánica». Otto Hauser, su discípulo, definía a los pueblos indoeuropeos como «pueblos rubios, bien definidos, que llegaron por sí mismos a una cultura cuyo nivel será admirado siempre, mientras circule en un pueblo, en un individuo, sangre nórdica afín».
Insiste Woltmann en que, mientras a las razas nórdicas les corresponde mayores cualidades intelectuales y facultades creativas, a las razas inferiores les resulta imposible acoger elementos de las civilizaciones que, como la nórdico-mediterránea tan próxima a sus áreas geográficas, pudieron adoptar para su propio beneficio, pero no lo hicieron, sumiéndose finalmente en la barbarie. Sin embargo, las razas germánicas se adueñaron rápidamente de las culturas griega y romana, mientras que, ni griegos ni romanos asimilaron la hebraica. «La transmisión de una civilización superior a razas inferiores no es posible sin una mezcla de sangre, a través de la cual los elementos de la raza más dotada se fundan con los de las razas menos dotadas». Pero el cruce de razas no es un factor de progreso duradero, sino cuando se trata de dos razas afines y del mismo valor biológico y espiritual: «es así como los germanos y los romanos se sintieron recíprocamente como de igual valor».
A pesar de reiterar la tradicional advertencia sobre los peligros de la mezcla de razas, Woltmann se aparta del pesimismo gobiniano para abrazar el difuso concepto de la “desmezcla de razas” que luego reinterpretarían Rosenberg y Darré para el nacionalsocialismo. Según esta teoría, debía atribuirse una importancia capital al fomento artificial de la raza a través de cruzamientos endogámicos (esto es, entre individuos supuestamente pertenecientes a la misma raza), con «la modesta esperanza de poder conservar y salvaguardar la sana y noble existencia de la raza actual por medio de medidas higiénicas y políticas encaminadas a protegerla».
291208_152955_PEEL_QZBZNe.jpgLas tesis iniciales de Woltmann, no obstante lo anterior, irían cobrando un intenso matiz germanista, hasta el extremo de no tolerar la unión de los alemanes con otras ramas de la familia nord-europea. Es más, una posible asimilación de los otros pueblos germánicos –daneses, holandeses, etc- la condicionaba a su dominio por parte de una gran Alemania. La extravagancia de Woltmann, que partía de la idea según la cual el valor de una civilización depende de la cantidad de raza rubia germana que contenga, le hizo asegurar que los grandes hombres (nobles, políticos, artistas, filósofos, etc) más representativos de la cultura y la sociedad italiana, francesa y española eran, sin duda alguna, de ascendencia germánica, pensando que sus cualidades anímicas y espirituales revelarían siempre los caracteres antropológicos del germano, dolicocéfalo y rubio, aun cuando su apariencia física externa fuera la de un alpino braquicéfalo o la de un oscuro mediterráneo.
Poseído por la obsesión del “racismo rubio”, veía en las élites intelectuales y artísticas de las naciones europeas a hombres de cabello rubio y ojos azules. Hasta un teórico racista de la talla de Hermann Wirth llegaría a decir que «por un error singular de observación, Woltmann y sus partidarios descubrieron en tantos genios y talentos europeos rasgos germánicos. Para ojos imparciales, los retratos que Woltmann agregó como explicación muestran precisamente lo contrario: tipos baskiros, mediterráneos y negros».
Evidentemente, ningún historiador serio pondrá en duda que en todos los países europeos, en mayor o menor medida, existen elementos raciales –o más exactamente antropológicos- del tipo germánico o, en general, indoeuropeo, debidos a las continuas y sucesivas invasiones de estos pueblos. Así, Max van Gruber podrá decir que «cuando examinamos las características físicas de nuestros más grandes hombres en cuanto a su pertenencia, encontramos, es verdad, caracteres nórdicos, pero en ninguno exclusivamente nórdicos … pero a las cualidades de los nórdicos han tenido que agregarse ingredientes de otras razas para producir tan feliz composición de cualidades».
El sueño de una hegemonía germánica mundial de Woltmann tenía, sin embargo, un obstáculo históricamente reiterado y constatado: el hombre germánico es el gran enemigo –y el más peligroso- del hombre germánico. Alemania necesitaba “una regeneración espiritual y una purificación racial internas” destinadas a la lucha final y definitiva, para lograr un grado de civilización superior a todos los precedentes, contra todas las familias de raza germánica.
Unas décadas más tarde, la Gross Deutschland conseguiría la anhelada “unidad racial germánica” (Germanische Blutseinheit) sometiendo, no sólo a los baltos y eslavos parcialmente germanizados (lituanos, letonios, checos, polacos, ucranios), sino también a otros pueblos germanos, como daneses, noruegos, holandeses, flamencos, y enfrentándose, especialmente, con los anglosajones –británicos y norteamericanos- por la conquista del mundo, pero el resultado final fue muy distinto al de la premonición de Woltmann.

mercredi, 13 octobre 2010

Nietzsche contra Wagner - Etica contra estética

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NIETZSCHE CONTRA WAGNER

ÉTICA CONTRA ESTÉTICA

Sebastian J. Lorenz
 
Con sus concepciones sobre la “voluntad de poder”, su visceral anti-cristianismo –que consideraba una creación del judaísmo-, sus anuncios sobre el advenimiento del “super-hombre” (Übermensch) y la formación de una casta aristocrática superior, Nietzsche es, sin lugar a dudas, el filósofo más determinante en la construcción ideológica del nazismo y, desde luego, un pilar fundamental en la formación intelectual de Hitler, el cual, según la opinión mayoritaria, se apropió de la doctrina nietzscheana para legitimar su nueva concepción del mundo, si bien podemos adelantar que, colocado en la disyuntiva entre Nietzsche y Wagner, el Führer nunca ocultó su admiración por la Weltanschaung de este último, mucho más acorde con sus ideales estéticos.
La importancia de la filosofía de Nietzsche en la formación de la ideología nazi no es un tema pacífico. César Vidal, que no alberga dudas sobre la conexión nietzscheana con el nazismo, examina la exposición que efectúa Nietzsche sobre la antítesis entre una “moral de señores”, aristocrática, y una “moral de esclavos”, de resentimiento, correspondiendo la primera a los valores superiores de las razas germánicas, y la segunda a la moral judeo-cristiana (Judea contra Roma). Otros, como Ferrán Gallego, consideran que la manipulación del filósofo sólo pudo realizarse ejerciendo una profunda violencia sobre el sentido de la obra de Nietzsche. «A sabiendas de que nunca conseguirían ponerse a la altura de Nietzsche, se resignaron a falsificar la de Zaratustra».
El “mensajero del nihilismo” fue, desde luego, un predicador militante contra el orden caduco y la moral convencional, pero lo hacía desde un profundo individualismo que se oponía a las distintas formas de dominio ejercidas sobre las masas con el oscuro objetivo de anular toda personalidad. «Los buenos conocedores de la cultura alemana rechazaron la caricatura de un Nietzsche pangermanista, oponiendo su feroz individualismo a las tesis nacionalistas raciales que desembocarían en el nazismo». De hecho, Nietzsche sentía un auténtico desprecio por la cultura alemana de su tiempo, admirando en cambio la rusa, la francesa, la italiana, la española y, especialmente, la cultura clásica grecolatina, pero las alabanzas dedicadas a las bestias rubias germánicas de los vándalos y los godos fueron finalmente manipuladas por los teóricos nacional-racistas.
Desde luego, no cabe duda alguna de que Nietzsche identificaba al hombre ario y a la bestia rubia con la nobleza y la aristocracia, con la moral de señores propia de los conquistadores, si bien resultaría desproporcionado identificar a los arios rubios con su prototipo de hombre superior. Sin embargo, el filósofo utiliza comparativamente a las razas oscuras y a las razas rubias para distinguir lo malo y lo vulgar de los hombres de rasgos oscuros –los pre-arios en Europa- de lo noble y lo aristocrático que define, según él, al hombre ario. «Resulta imposible no reconocer, en la base de todas estas razas nobles, al animal de rapiña, la magnífica bestia rubia que vagabundea codiciosa de botín y victoria», escribirá Niezstche, reconociendo además «el derecho a no librarse del temor a la bestia rubia que habita en el fondo de todas las razas nobles …». Pues es “la bestia rubia”, una horda de hombres depredadores y conquistadores, el sinónimo de grandeza y nobleza.
Nietzsche utiliza su “bestia rubia” para enfatizar y ejemplarizar la antítesis entre la «humanidad aria, totalmente pura, totalmente originaria» y el «cristianismo, brotado de la raíz judía, que representa el movimiento opuesto a toda moral de la cría, de la raza, del privilegio: es la religión antiaria per excellence …», para finalizar con una inquietante duda sobre el futuro de la supuesta raza aria: «¿Quién nos garantiza … que la raza de los conquistadores y señores, la de los arios, no está sucumbiendo incluso fisiológicamente?». El filósofo alemán se remonta, obviamente, a la civilización indo-aria para ejemplarizar su sistema jerárquico racial, en cuya cúspide sitúa a la “bestia rubia” germánica, antítesis de los representantes degenerados del judeo-cristianismo, dividiendo su sociedad ideal en “brahmanes”, guerreros y sirvientes, además de los “chandalas”.
En definitiva, una sociedad elitista y aristocrática basada en la desigualdad que debe asumir la raza germánica frente a la mediocridad impuesta por el cristianismo, “hijo espiritual del judaísmo”. Nietzsche anuncia el “nuevo hombre” aristocrático, anticristiano, antijudío, que sólo responde a su “voluntad de poder”, el hombre sobrehumano que es, en realidad, el hombre superado en una evolución ascendente. Por eso, Hitler dirá tiempo después que el nacionalsocialismo no es un movimiento político, ni siquiera una religión, sino “la voluntad de crear un nuevo hombre”.
Nietzsche no fue propiamente un antisemita, si bien su inicial relación-admiración por Wagner le hizo alabar su visión espiritual de la vida, de la que los alemanes corrientes habían sido arrebatados por la mísera y agresiva política del judaísmo. Desde luego, el filósofo consideraba la ética judía como una “moral de esclavos” (Sklaven-Moral), el pueblo del que Tácito pensaba que había nacido para la esclavitud, siendo manifestaciones de la misma el cristianismo y el socialismo que propugnan la igualdad. Por eso, el judío se rebela contra las razas aristocráticas: «Roma vio en el Judío la encarnación de lo antinatural, como una monstruosidad diametralmente opuesta a ella, y en Roma fue hallado convicto de odio a toda la raza humana y con toda la razón para ello, por cuanto es correcto enlazar el bienestar y el futuro de la raza humana a la incondicional supremacía de los valores aristocráticos, de los valores romanos». Los judíos, según Nietzsche, habían falseado de tal forma la historia universal y los valores de la humanidad, que incluso resultaba inconcebible que el cristiano albergase sentimientos antijudíos: “Dios mismo se ha hecho judío!”.
El pensamiento aristocrático se confunde, en numerosas ocasiones, con el determinismo biológico que clasifica jerárquicamente a las razas según unos supuestos cánones creativos. La nueva raza de los super-hombres, la raza superior procedería –mediante el dominio de la voluntad- a la transmutación de los valores, creando otros nuevos que regirían para sí mismos y para las razas destinadas a la esclavitud. Nietzsche estaba de acuerdo con Gobineau, Wagner y Chamberlain, cuando calificaba la raza aria como “raza genuina, fisiológicamente superior a las otras razas y hecha para gobernarlas”. «Toda elevación del tipo “hombre” ha sido siempre obra de una sociedad aristocrática y así será siempre … una sociedad creyente en una larga escala de graduaciones de rango y diferencias en una forma u otra».
Como se ha apuntado, Nietzsche y Wagner, una vez superado su idilio artístico inicial, mantuvieron un crudo enfrentamiento ideológico, controversia que luego se reproduciría, en el seno del nacionalsocialismo, entre los seguidores del filósofo y del compositor, aunque sería la doctrina nietzscheana la que obtendría la mayoría de adhesiones, puesto que la concepción del mundo wagneriana se refugió en restringidos círculos intelectuales y artísticos que le restaron popularidad en la Alemania nazi, pese a contar con el apoyo incondicional del propio Hitler. Mientras Rosenberg, Darré o Himmler rechazaban la visión ética y mística del compositor y utilizaban el “superhombre” de Nietzsche para justificar el sometimiento de los más débiles –cruel filosofía que tuvo nefastas consecuencias en las generaciones de la época- los minoritarios círculos wagnerianos hacían de la compasión de los fuertes hacia los menos dotados una virtud ennoblecedora.

mardi, 12 octobre 2010

Carl Schmitt: A Dangerous Man

Carl Schmitt (part IV)

 A Dangerous Man

by Keith PRESTON
 
 
Carl Schmitt (part IV)
 

When Hitler first came to power, Carl Schmitt hoped that President von Hindenburg would be able to control him, and dismiss him from the chancellor’s position if necessary. But within days of becoming chancellor, Hitler invoked Article 48 and began imposing restrictions on the freedoms of speech, press, and assembly. Within a month, all civil liberties had essentially been suspended. Within two months, a Reichstag dominated by the Nazis and their allies (with the communists having been purged and subject to repression under Hitler’s emergency measures) passed the Enabling Act, which, more or less, gave Hitler the legal right to rule by decree. The Enabling Act granted Hitler actual legislative powers, beyond the emergency powers previously provided for by Article 48. Schmitt regarded the Enabling Act as amounting to the overthrow of the constitution itself and the creation of a new constitution and a new political and legal order.

The subsequent turn of events in Schmitt’s life remains the principal, though certainly not exclusive, source of controversy regarding Schmitt’s ideas and career as a public figure and intellectual. Schmitt remained true to his Hobbesian view of political obligation that it is the responsibility of the individual to defer to whatever political and legal authority that becomes officially constituted. On May 1, 1933, Carl Schmitt officially joined the Nazi Party.

Despite his past as an anti-Nazi, Schmitt’s prestigious reputation as a jurist and legal scholar heightened his value to the party. Herman Goering appointed Schmitt to the position of Prussian state councilor in July, 1933. He then became leader of the Nazi league of jurists and was appointed to the chair of public law at the University of Berlin. While occasionally including a racist or anti-Semitic comment in his writings and lectures during this time, Schmitt also hoped to strike a balance between Nazi ideology and his own more traditionally conservative outlook.

Schmitt’s hopes for such a balance were dashed by the Night of the Long Knives purge on June 30, 1934. Not only were hundreds of Hitler’s potential rivals within the party killed, but so were a number of prominent conservatives, including Schmitt’s former associate, General Kurt von Schleicher. Even Papen, who had initially been vice-chancellor under the Hitler regime, was placed under house arrest.

In response to the purge, Schmitt published the most controversial article of his career, “The Fuhrer Protects the Law.” On the surface, the article was merely a sycophantic and opportunistic effort at defending Hitler’s brutality and lawlessness. While Schmitt likely regarded the killing of rival Nazis as little more than a dishonorable falling out among thugs, he also included within the article subtle references to unjust murders that had been committed during the course of the purge, meaning the killing of his friend General Schleicher and others outside Nazi circles, and urged justice for the victims. The wording of the article pretended to absolve Hitler of responsibility while dropping very discreet and coded hints to the contrary.

Though Schmitt enjoyed the protection afforded to him by his associations with Goering and Hans Frank, he never exerted any influence over the regime itself. The purge of the SA leadership had the effect of empowering within the Nazi movement one of its most extreme elements, the SS. The SS soon concerned itself with the presence of “opportunists” and the ideologically impure elements, which had joined the party only after the party had seized power for the sake of being on the winning side. These elements included many middle-class persons and ordinary conservatives whose actual commitment to the party’s ideology and value system were questionable.

Schmitt was a prime example of these. His efforts to revise his theories to make them somewhat compatible with Nazi ideology were subject to attacks from jurists committed to the Nazi worldview. Further, former friends, professional associates, and students of Schmitt who had emigrated from the Third Reich were incensed by his collaboration with the regime and began publishing articles attacking him from abroad, pointing out his anti-Nazi past during his association with Schleicher, his prior associations with Jews, his Catholic background, and the fact that he had once referred to Nazism as “organized mass insanity.”

Schmitt attempted to defend himself against these attacks by becoming ever more virulent in his anti-Semitic rhetoric. When the Nuremberg Laws were enacted in September of 1935, he defended these laws publicly. His biographer Bendersky described the political, ethical, and professional predicaments Schmitt found himself in during this time:

No doubt at the time he tried to convince himself that he was obligated to obey and that as a jurist he was also compelled to work within the confines of these laws. He could easily rationalize his behavior with the same Hobbesian precepts he had used to explain his previous compromises. For he always adhered to the principle Autoritas, non veritas facit legem (Authority, not virtue makes the law), and he never tired of repeating that phrase. Authority was in the hands of the Nazis, their racial ideology became law, and he was bound by these laws.

Schmitt further attempted to counter the attacks hurled at him by both party ideologues and foreign critics by organizing a “Conference on Judaism in Jurisprudence” that was held in Berlin during October of 1936. At the conference, he gave a lecture titled “German Jurisprudence in the Struggle against the Jewish Intellect.” Two months later, Schmitt wrote a letter to Heinrich Himmler discussing his efforts to eradicate Jewish influence from German law.

Yet, the attacks on Schmitt by his party rivals and the guardians of Nazi ideology within the SS continued. Schmitt’s public relations campaign had been unsuccessful against the charges of opportunism, and Goering had become embarrassed by his appointee. Goering ordered that public attacks on Schmitt cease, and worked out an arrangement with Heinrich Himmler whereby Schmitt would no longer be involved with the activities of the Nazi party itself, but would simply retain his position as a law professor at the University of Berlin. Essentially, Schmitt had been politically and ideologically purged, but was fortunate enough to retain not only his physical safety but his professional position.

For the remaining years of the Third Reich, Schmitt made every effort to remain silent concerning matters of political controversy and limited his formal scholarly work and professorial lectures to discussions of routine aspects of international law or vague and generalized theoretical abstractions concerning German foreign policy, for which he always expressed outward support.

Even though he was no longer active in Nazi party affairs, held no position of significance in the Nazi state, and exercised no genuine ideological influence over the Nazi leadership, Schmitt’s reputation as a leading theoretician of Nazism continued to persist in foreign intellectual circles. In 1941, one Swiss journal even made the extravagant claim that Schmitt had been to the Nazi revolution in Germany what Rousseau had been to the French Revolution. Schmitt once again became fearful for his safety under the regime when his close friend Johannes Popitz was implicated and later executed for his role in the July 20, 1944, assassination plot against Hitler (though, in fact, Schmitt himself was never in any actual danger.)

When Berlin fell to the Russians in April 1945, Schmitt was detained and interrogated for several hours and then released. In November, Schmitt was arrested again, this time by American soldiers. He was considered a potential defendant in the war crimes trials to be held in Nuremberg and was transferred there in March 1947. In response to questions from interrogators and in written statements, Schmitt gave a detailed explanation and defense of his activities during the Third Reich that has been shown to be honest and accurate. He pointed out that he had no involvement with the Nazi party after 1936, and had only very limited contact with the party elite previously. Schmitt provided a very detailed analysis and description of the differences between his own theories and those of the Nazis. He argued that while his own ideas may have at times been plagiarized or misused by Nazi ideologists, this was no more his responsibility than Rousseau had been responsible for the Reign of Terror. The leading investigator in Schmitt’s case, the German lawyer Robert Kempner, eventually concluded that while Schmitt may have had a certain moral culpability for his activities under the Nazi regime, none of his actions could properly be considered crimes warranting prosecution at Nuremberg.

Schmitt’s reputation as a Nazi, and even as a war criminal, made it impossible for him to return to academic life, and so he simply retired on his university pension. He continued to write on political and legal topics for another three decades after his release from confinement at Nuremberg, and remained one of Germany’s most controversial intellectual figures. For some time, his pre-Nazi works were either ignored or severely misinterpreted. A number of prominent left-wing intellectuals, including those who had been directly influenced by Schmitt, engaged in efforts at vilification.

An objective scholarly interest in Schmitt began to emerge in the late 1960s and 1970s, even though Schmitt’s reputation as a Nazi apologist was hard to shake. Interestingly, the framers of the present constitution of the German Federal Republic actually incorporated some of Schmitt’s ideas from the Weimar period into the document. For instance, constitutional amendments that alter the basic democratic nature of the government or which undermine basic rights and liberties as outlined in the constitution are forbidden. Likewise, the German Supreme Court may outlaw parties it declares to be anti-constitutional, and both communist and neo-Nazi parties have at times been banned.

Schmitt himself returned to these themes in his last article published in 1978. In the article, Schmitt once again argued against allowing anti-constitutional parties the “equal chance” to achieve power through legal and constitutional means, and expressed concern over the rise of the formally democratic Eurocommunist parties in Europe, such as those in Italy and Spain, which hoped to gain control of the state through ordinary political channels.

 

Schmitt’s Contemporary Relevance

 

The legacy of Schmitt’s thought remains exceedingly relevant to 21st-century Western political and legal theory. His works from the Weimar period offer the deepest insights into the inherent weaknesses and limitations of modern liberal democracy yet to be discussed by any thinker. This is particularly significant given that belief in liberal democracy as the only “true” form of political organization has become a de facto religion among Western political, cultural, and intellectual elites. Schmitt’s writings demonstrate the essentially contradictory nature of the foundations of liberal democratic ideology. The core foundation of “democracy” is the view that the state can somehow be a reflection of an abstract “peoples’ will,” which, somehow, rises out of a mass society of heterogeneous individuals, cultural subgroups, and political interest groups with irreconcilable differences.

This is clearly an absurd myth, perhaps one ultimately holding no more substance than ancient beliefs about emperors having descended from sun-gods. Further, the antagonistic relationship between liberalism and democracy recognized by Schmitt provides a theoretical understanding of the obvious practical truth that as democracy has expanded in the West, liberalism has actually declined. The classical liberal rights of property, exchange, and association, for instance, have been severely comprised in the name of creating “democratic rights” for a long list of social groups believed to have been excluded or oppressed by the wider society. The liberal rights of speech and religion have likewise been curbed for the ostensible purpose of eradicating real or alleged “bigotry” or “bias” towards former out-groups favored by proponents of democratic ideology.

The contradictions between liberalism and democracy aside, Schmitt’s work likewise demonstrates the ultimately self-defeating nature of liberalism taken to its logical conclusion. A corollary of liberalism is universalism, yet liberal universalism likewise contradicts itself. Liberalism, as Westerners have come to understand it, is a particular value system rooted in historic traditions and which evolved within a particular civilization and was affected by historical contingencies (the Protestant Reformation, the Enlightenment, and Modernism being only the most obvious.)

Schmitt’s definition of the essence of the political as the friend/enemy dichotomy simultaneously exposes the limitations of liberalism’s ability to sustain itself. Robert Frost’s quip about a liberal being someone who is unable to take his own side in a fight would seem to apply here. The principal weakness of liberalism is its inability to recognize its own enemies. Even in the final months of the Weimar republic, liberals, socialists, and even Catholic centrists held so steadfastly to the formalities of liberalism that they were unable to perceive the imminent destruction of liberalism that lurked a short distance ahead.

This insight of Schmitt would seem to go a long way towards explaining the behavior of many present day zealots of Liberal Democratic Fundamentalism. It is currently the norm for liberals to react with a grossly exaggerated, almost phobic, sense of urgency concerning the supposed presence of elements espousing “racism,” “fascism,” “homophobia,” and other illiberal or ostensibly illiberal ideas in their own societies. In virtually all Western countries, elements espousing the various taboo “isms” and “phobias” with any degree of seriousness are marginal in nature, often merely eccentric individuals, tiny cult-like groups, or politically irrelevant subcultures.

And yet, liberals who become hysterical over “fascism,” typically express absolutely no concern about the importation of unlimited numbers of persons from profoundly illiberal cultures into their own nations. Indeed, criticizing such things has itself become a serious taboo among liberals, who somehow believe that such values as secularism, feminism, and homosexual rights can never be threatened by the mass immigration of those from cultures with no liberal tradition, where theocratic rule is the norm, or where the political and social status of women has not changed in centuries or even millennia, where there is no tradition of free speech, where capital punishment is regularly imposed for petty offenses, and where homosexuality is often considered to be a capital crime.

A related irony is that liberals have embraced “Green” consciousness in a way comparable to the enthusiasm and adulation shown to pop music stars by teenagers, while remaining oblivious to the demographic and ecological consequences of unlimited population growth fueled by uncontrolled immigration.

Schmitt’s steadfast opposition to legal formalism as a method of constitutional interpretation and as an approach to legal theory in general is also interesting when measured against the standard complaints about “judicial activism” found among “mainstream” American conservatives. Schmitt’s view that laws, even constitutional law itself, should be interpreted according to the wider essence or deeper substance of the laws and constitutions in question and according to the concrete realities of specific political situations would no doubt make a lot of American conservatives uncomfortable. Of course, an important distinction has to be made between Schmitt’s seemingly open-ended approach to legal theory and the standard ideas about a “living constitution” found among American liberal jurists. Schmitt was concerned with the very real and urgent question of the need to preserve civil order and political stability in the face of severe social and economic crisis, civil unrest, and threats of revolution, whether through direct violence or cynical manipulation of ordinary political and legal processes. The various legal theories involving a supposed “living constitution” or “evolving standards” advanced by American liberals represents the far more dubious project of simply replacing the traditional Montesquieu-influenced American constitution with an ostensibly more “progressive” democratic socialist one.

That said, one has to wonder if it would not be appropriate for American anti-liberals to initiate an ideological move away from advocating strict adherence to the principle of legal or judicial neutrality towards a perspective that might be called “defensive judicial activism,” e.g. the advocacy of the use of the courts at every level to resist the encroachments of the present therapeutic-managerial-multiculturalist-welfare state in the same manner that liberals have used the courts to impose their own extra-legislative agenda. This would be an approach that is more easily discussed than implemented, of course, but perhaps it is still worthy of discussion nevertheless.

The political theory of Carl Schmitt likewise aids the development of a more thorough understanding of the nature of the state itself. Contrary to the prevailing view that political rule can be rooted objectively in sets of formal legal rules and institutional procedures, or that the state can be a mere reflection of the idealized abstraction of “the people,” Schmitt recognized that ultimately political rule is based on the question of “Who decides?” Ideological pretenses to the contrary, there will be a “sovereign” (whether an individual or a group) who possesses final authority as to what the rules will be and how they will be interpreted or applied.

Schmitt’s friend/enemy thesis likewise contains the recognition that the prospect of lethal violence defines the essence of politics. Political rule is about force, and about possessing the ability to exercise the necessary amount of physical violence to maintain a system of rule. The truth of these observations and of Schmitt’s broader critique of liberalism and democracy do not by themselves eliminate the problematical nature of Schmitt’s own Hobbesian outlook. Clearly, Schmitt’s own life and career illustrate the limitations of such a view. Indeed, after his purge by the Nazis, Schmitt reflected on Hobbes more extensively and modified his views on political obligation somewhat. He concluded that political obligation must be reciprocal in nature. Hobbes taught that the individual was obligated to obey political authority for the sake of his own protection. Schmitt argued in light of the Nazi experience that the individual’s obligation of obedience is negated when the state withdraws its protection. Schmitt’s concern with the primacy of order and stability could well be summarized by the Jeffersonian principle that “prudence, indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light and transient causes.”

Yet, there is the wider question of the matter whereby the malignant nature of a particular state is such that the state not only fails to provide protection for the individual but threatens the wider culture and civilization itself, a situation for which Dr. Samuel Francis coined the term “anarcho-tyranny.” Clearly, in such a scenario, it will seem that the obligation of political obedience, individually or collectively, becomes abrogated.

Keith Preston

 

lundi, 11 octobre 2010

Gustav Kossina: una arqueo-filo-logia indoeuropea

GUSTAV KOSSINA: UNA ARQUEO-FILO-LOGÍA INDOEUROPEA


Sebastian J. Lorenz
Según Alain de Benoist existen actualmente dos tesis mayoritarias sobre el origen de los indoeuropeos: la germano-nórdica y la ruso-meridional. La primera de ellas tuvo gran aceptación, obviamente, en el ámbito alemán. Así lo entendió Karl Penka, a quien debemos la ecuación “indoeuropeo = dolicocéfalo rubio de ojos azules”, afirmando que «los arios puros sólo están representados por alemanes del norte y los escandinavos». Otro afecto a esta tesis, representante de un germanismo más académico y relativamente –o ingenuamente- desideologizado fue Gustav Kossinna, filólogo y arqueólogo alemán, autor de numerosas obras sobre el origen, la prehistoria, la civilización y la expansión de los germanos (Urgermanen), que hizo de la arqueología alemana una ciencia nacional, si bien su instrumentalización política posterior por el nacionalsocialismo tuvo fatales consecuencias.
Kossinna afirmaba que «el carácter y la civilización alemana, en su vigorosa supremacía, no tienen ninguna necesidad para sostener su expansión futura, o incluso para la seguridad de su existencia, de referirse a títulos de propiedad de pasados milenios, como han hecho otras naciones, no sin violentar los hechos históricos. Nosotros los alemanes, y con nosotros todos los otros miembros de la familia germánica, no podemos dejar de estar orgullosos y de admirar la fuerza del pequeño pueblo nórdico, viendo cómo sus hijos conquistaron en la prehistoria y en la antigüedad, toda Escandinavia, se propagaron durante la Edad Media por toda Europa y, en nuestra época, en las regiones más lejanas del globo».
En el texto precedente encontramos todos los ingredientes de la ideología pangermanista: alusión a la “vigorosa supremacía” germana, referencia a la “expansión futura”, demostración de orgullo y admiración por el “pueblo nórdico” y solidaridad pangermanista (la “familia germánica”). Por si fuera poco, Kossinna subrayó, en numerosas ocasiones, la “fuerza imponente de las razas en el pasado”, afirmando que a las regiones cultural y arqueológicamente delimitadas –como la germánica- les corresponden también pueblos y tribus muy definidos étnicamente. Asimismo, se opuso siempre a la supuesta barbarie de los antiguos germanos, y frente a la creencia “ex oriente lux” (la luz viene de Oriente) como punto de partida de toda irradiación cultural, él señalaba el Norte de Europa como fuente de inspiración de toda civilización superior.
Kossinna quiso “sacar del anonimato” a los pueblos indoeuropeos y, especialmente, a los germanos que habían habitado antiguamente territorio alemán, de los que estaba convencido que eran racial e intelectualmente superiores, siempre desde su perspectiva esencialista de la etnicidad: la historia de una etnia germánica podía ser reconstruida a través de su cultura material arqueológica, interpretando la existencia de rupturas o vacíos arqueológicos en términos de migración y difusión cultural (Methode Kossinna). «Kossinna asumía que la continuidad cultural en un área determinada significaba invariablemente continuidad étnica y que las culturas arqueológicas eran inevitablemente un reflejo de la etnicidad». De ahí el uso constante de la relación entre Kultur y Volk a través de las expresiones Kulturgruppe (grupo cultural o étnico) y Kulturgebiete (área cultural), para rastrear complejos culturales más extensos, como lo correspondientes a germanos, celtas o eslavos, hasta retrotraerlos a períodos tan remotos históricamente que no permitiera diferenciarlos entre sí, esto es, que sólo fuera posible distinguir entre indoeuropeos y no indoeuropeos.
Gustav Kossinna situaba la patria ancestral entre el norte de Alemania y el sur de Escandinavia, y como el último pueblo migratorio de los indoeuropeos era precisamente el germano, concluyó que también era aquélla la cuna de los primeros indoeuropeos, lo que le llevó, asimismo, a considerar que los germanos habían sido los menos “contaminados” por otros pueblos al haber permanecido en su solar originario. Así, el pueblo bárbaro por excelencia a ojos de los civilizados romanos podía afirmar ya su preeminencia sobre todos los pueblos arios, ya que todos ellos, incluidos los helenos, los latinos, los celtas y los eslavos habían salido de su tierra ancestral.
Gustav Kossinna pensaba que «la raza nórdica dolicocéfala ha debido desarrollarse a partir de estas dos razas del Paleolítico superior, la de Cromagnon y la de Aurignac-Chancelade, durante el primer Neolítico o el Mesolítico que sigue a la glaciación y se considera el inicio de la Edad de Piedra». De hecho, la arqueología documenta un desplazamiento del elemento cromañoide desde Europa occidental hacia el Báltico. El reconocimiento del mundo hacia los métodos arqueo-filo-lógicos de Kossinna se vió empañado, no obstante, por la tensión ideológica originada en el seno de los teóricos afectos al nacionalsocialismo como Rosenberg, Darré, Wirth y Günther. En el ámbito científico alemán de la primera mitad del siglo XX, sin embargo, se fueron imponiendo las tesis de Gustav Kossinna sobre la arqueología nórdica, que hacía provenir del norte de Europa las sucesivas migraciones de pueblos indoeuropeos –en dos troncos principales, indogermano e indoiranio- que fundarán la India Védica, el Irán Zoroástrico, la Civilización Griega, el Imperio Romano y la Europa Germánica medieval.
No obstante la diversidad de ubicaciones de la urheimat de los indoeuropeos, y una vez olvidados los excesos nazis sobre la patria originaria, durante la segunda mitad del siglo XX, se volvió a recuperar la tesis nord-europea propuesta por autores como Penka y Kossinna. Romualdi subrayaba que, de hecho, «los nombres de árboles y de animales comunes a la mayor parte de los lenguajes indoeuropeos, como también los términos que aluden al clima y a la división del año, nos hablan de regiones nórdicas. Los indoeuropeos conocieron la primavera, el verano y el invierno, pero no el otoño (…)».
Adriano Romualdi señaló posteriormente «el estrecho parentesco entre las lenguas indoeuropeas obligaba a deducir que todas ellas derivan de una única lengua originaria (Ursprache), que había sido hablada por un único pueblo (Urvolk) en una antiquísima patria de origen (Urheimat), para ser difundida posteriormente en el curso de una serie de migraciones por el inmenso espacio que se extiende entre el Atlántico y el Ganges (…). La difusión de las lenguas indoeuropeas representa la expresión de un pueblo que vive en una misma área geográfica, en una cerrada comunidad de cultura y civilización y que permite compartir expresiones referidas a la flora, la fauna, la economía y la religión». En esta área de clima frío y húmedo, con nieblas y hielos permanentes y largas estaciones de tenue luz solar, se habría formado –según Romualdi- el tipo nórdico de pigmentación, cabello y ojos claros, a partir del elemento Cromagnon y de su hibridación con el hombre de Aurignac, dando lugar a las subrazas dálica y nórdica (las razas rubias por excelencia) con unos duros criterios selectivos.
De esta forma, se pasó del conocido aforismo indoeuropeo, acuñado con fines propagandísticos de remisión a una originaria “unidad étnica”, «urvolk, urheimat, ursprache» (un pueblo, una patria, una lengua), al temible e imperial «herrenvolk» alemán (pueblo señorial), lo que ya hace prever una manipulación de la identificación con todo lo “indogermano”. Pero el “problema indoeuropeo” fue realmente una cuestión de identidad estrictamente europeo. Cuando todavía se creía que la luz civilizadora vino de Oriente (ex oriente lux), aparecieron los “arios” como pueblo originario y primigenio (ariervolk), cuyas posteriores migraciones hacia Occidente habrían colonizado toda Europa.
Entonces se adoptó el nombre de “indogermanos” (y posteriormente, el de “indoeuropeos”), uniendo las dos ramificaciones extremas de aquel pueblo misterioso (indoiranios al este, germanos al oeste) que, posteriormente, fundamentándose en las descripciones físicas que los autores clásicos hacían de sus individuos (altos, fuertes, rubios y de ojos azules), confirmadas por las pruebas arqueológicas y antropológicas halladas en Escandinavia, Alemania septentrional y el Báltico, entonces los nazis acuñaron la denominación exclusiva de “nórdicos” …, aprovechando que el Rin pasa por la Germania, como hubiera escrito un Tácito latino ofuscado por la decadencia de los romanos frente a la vitalidad de los bárbaros germanos.

samedi, 09 octobre 2010

Presseschau / Oktober 2010 (1)

PRESSESCHAU

Oktober 2010 (1)

Liebe Angemailte, großer Kreis. Da die infokreis-Presseschau derzeit wohl nicht erscheint, sie aber offenbar so beliebt ist und ich ja auch im September eifrig Links gesammelt habe, heute ein kleines Trostpflaster. Ich habe mir mal die Mühe gemacht, sämtliche meiner September-Links zusammenzustellen und zu ordnen. So geht diese (ehrenamtliche) Arbeit wenigstens nicht völlig verloren. Ich hoffe, daß alle Links noch funktionieren. Sollte die infokreis-Presseschau dennoch in den nächsten Tagen mal wieder erscheinen, könnte es sein, daß einige Links doppelt sind, aber das ist ja kein Beinbruch.
Bei Weiterleitungen bitte Absender löschen.
Viel Spaß bei der Lektüre.
C.W.

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zeitungen.jpgBayern spricht sich für Verbleib amerikanischer Truppen aus
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

(Skurrile Kollaboration im Jahr 2010)
Schweinfurt
Höchste Pentagon-Ehren für die Ex-OB
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Lieberman glaubt nicht an einen Frieden
Der israelische Außenminister nennt Nahost-Gespräche gefährlich / Nächstes Treffen in Ägypten
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Grüne: Nach Höhenflug droht harte Landung
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(Castro mittlerweile senil?...)
Castro ungewohnt selbstkritisch
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(Erstaunlich wie viele Freunde auf einmal die Zigeuner in der ganzen Welt haben...)
Fidel Castro wirft Paris wegen Roma-Politik "Rassen-Holocaust" vor
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„Versailles mit friedlichen Mitteln“
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Greuelmord an afghanischen Zivilisten: US-Soldaten vor Militärgericht
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Afghanistan
US-Soldaten sollen Finger abgeschnitten haben
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Afghanistan-Prozess
US-Soldat: Mord an Zivilisten von Offizier befohlen
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Computerattacke im Iran
Ein Hauch von Cyber-Krieg
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(Zur Abschiedsfeier von Roland Koch...)
Flipsig, flapsig, Militärmusik
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Hier ein Filmausschnitt von Kochs Abschied
http://www.youtube.com/watch?v=1W1C67t7eTg

Steinbach bescheinigt Bartoszewski „schlechten Charakter”
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

(Der Pfälzer sondert mal wieder Altbekanntes ab...)
Kurt Beck rückt Steinbach in die Nähe von Rechtsradikalen
http://www.pnp.de/nachrichten/artikel.php?cid=29-29519239...

Erika Steinbach ist schlicht revanchistisch
Mut zur Lücke
http://www.taz.de/1/debatte/kommentar/artikel/1/mut-zur-l...

Erika Steinbach entschuldigt sich
http://www.bz-berlin.de/archiv/erika-steinbach-entschuldi...

(Merkel verarscht mal wieder...)
Merkel: Konservative haben politische Heimat in der CDU
http://de.reuters.com/article/domesticNews/idDEBEE68I06F2...

Wulff übt sich in Geographie...
http://nibelungen-kurier.de/?t=news&s=Aus%20aller%20W...

Begriffsmanscherei
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Nacktschnecken und Rosenkränze
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Hannelore Kraft überzieht das Konto
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Nation24.de - unabhängiges Magazin Pro Deutschland
http://nation24.de/

NPD sorgt für Eklat bei Wulff-Besuch im sächsischen Landtag
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Volkmar Weiss: Rezension: Thilo Sarrazin: Deutschland schafft sich ab.Die bisher unveröffentliche öffentliche Meinung?
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Sarrazin
„Er fühlt sich wie Hitler“
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Die Bielefelder Heitmeyerei...
Forscher: Hohe Zustimmung zu Sarrazin-Thesen
Berlin - Jeder zweite Bundesbürger stimmt der Aussage von Thilo Sarrazin zu, dass es zu viele Ausländer in Deutschland gebe. Das ergab eine Langzeitstudie zu “Gruppenbezogener Menschenfeindlichkeit“.
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Sozialforscher Zick
„Da kommt Hass zum Vorschein“
Der Sozialforscher Zick spricht im FR-Interview über Sarrazins Fangemeinde und die bedrohte Norm vom gleichen Wert der Menschen.
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Zukunft gewinnen statt abschaffen! - Das ARD-"Wort zum Sonntag" zur Sarrazin-Debatte
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Die Verfemung und Entlassung Dr. Sarrazins ist die hilflose Rache der Realitätsverweigerer
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Baal Müller zu Sarrazin und parteipolitischen Konsequenzen...
Sarrazin und die Zyklopen
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Deutsche Perestroika
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Sarrazin und die Parteien
Kommentar: Politisches Gespenst
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(Dani gibt sich mal wieder ganz großzügig...)
Fall Sarrazin
Cohn-Bendit: „Ich war dagegen, dass er rausfliegt“
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Ein im Vergleich zu zahlreichen Kollegen, u.a. der HNA, differenzierter Kommentar zum Fall Sarrazin vom Politikredaktionschef der Offenbach-Post
In schiefem Licht
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Theater, Theater (nach Sarrazin)
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Volksverhetzung
Landesausländerbeirat Hessen zeigt Sarrazin an
http://rhein-main.business-on.de/sarrazin-menschen-debatt...

(Statt Sarrazin "Aktionsprogramm gegen Ausländerfeindlichkeit und Antisemitismus")
Ausländerbeirat nimmt Regierung in die Pflicht
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Im Antinazikonsensland
In Mecklenburg-Vorpommern müssen Erzieherinnen und Tagesmütter Verfassungstreue erklären. Mit Gesinnungstests Rechtsradikalismus bekämpfen, ist das eine gute Idee?
http://www.freitag.de/politik/1034-im-antinazikonsensland

DFB zeichnet Engagement im „Kampf gegen Rechts“ aus
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Demokratieland Mecklenburg-Vorpommern
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Die totalitäre Gesellschaft und ihre Feinde
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

(Weniger das Outfit als die politischen Ziele - "sich für gerechtere Verhältnisse einsetzen" - lassen diesen Herrn als pädagogisch suspekt erscheinen)
Lübecker Punk-Schulleiter löst Medien-Hype aus
http://www.focus.de/panorama/welt/leute-luebecker-punk-sc...

Straßenfest in Hamburg
Wieder Krawalle beim Schanzenfest
http://www.fr-online.de/politik/wieder-krawalle-beim-scha...

Torten-Attacke
Trittin verzichtet auf Anzeige
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,719238,0...

Ehrenmal "Panzergraben" in Memprechtshofen geschändet!
http://www.regiotrends.de/de/polizeiberichte/index.news.1...
http://s144731316.online.de/wp-land/ov-kehl/?p=244 (scheinheiliges Pack!)
http://www.regiotrends.de/de/polizeiberichte/index.news.1...
http://www.news-aus-baden.de/?id=42357

Zur Geschichte der Gedenkstätte "Panzergraben" in Rheinau - Memprechtshofen:
http://de.wikipedia.org/wiki/Ehrenmal_Panzergraben
http://www.lexikon-der-wehrmacht.de/Kasernen/Wehrkreis05/...

Dortmunder gegen RechtsTausende protestieren gegen Nazi-Aufmarsch - 160 Demonstranten festgenommen
http://www.welt.de/die-welt/regionales/article9426199/Dor...

Dortmund weist Neonazis in die Schranken
http://www.fr-online.de/politik/dortmund-weist-neonazis-i...

Neonazi-Aufmarsch und Gegenproteste in Dortmund
http://nachrichten.rp-online.de/politik/neonazi-aufmarsch...

Frankfurt
Autonome greifen NPD an
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/autonome-greifen-npd...

Frankfurt
Linksextremisten verletzen NPD-Mitglieder
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

„Neofaschismus“-Ausstellung in Weimar: Stadt kooperiert mit Linksextremisten 
http://www.blauenarzisse.de/v3/index.php/anstoss/1913-neo...

Innenministerium geht gegen Gefangenenhilfsorganisation vor
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Österreich verbietet Minarett-Ballerspiel
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/oesterreich-v...

Imam will Wilders köpfen
http://diepresse.com/home/politik/aussenpolitik/592237/in...

(Landesausländerbeirat: Sarrazin hat schuld)
Kirchhain: Männer greifen Autofahrerin an, weil sie Türkin ist
http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article94991...

Schleuserjagd an der Kabinentür
Dokumentensichtung: 33 000 Flugzeuge wurden im vergangenen Jagd in Frankfurt kontrolliert
Dank der EU fehlen Grenzkontrollen in Deutschland fast überall. Doch die Flughäfen bleiben Einfallstore für Schleuser und Geschleuste. In Frankfurt machen Polizisten alle 15 Minuten an einer Flugzeugtür Jagd auf Illegale. Total übertrieben, meint der Flüchtlingsrat.
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/schleuserjagd-an-der...

Hessen
Großrazzia
Polizei verhaftet Schleuser
http://www.hr-online.de/website/rubriken/nachrichten/inde...

Sachsens Ministerpräsident Tillich fordert mehr Einwanderung
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Migration als Erziehungsinstrument
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Integration ist machbar
Das SOS-Team als Chance
http://www.derwesten.de/nachrichten/politik/Das-SOS-Team-...

Im Gespräch: Wolfgang Hübner
„Integration ist die Pflicht jedes einzelnen Zuwanderers“
http://www.faz.net/s/RubFAE83B7DDEFD4F2882ED5B3C15AC43E2/...

(wie viele Freunde die Roma auf einmal bei unseren Eliten haben, deren Vertreter sicherlich noch nie neben einer Sippe gewohnt haben...)
Kommentare: Frankreich steht wegen seiner Abschiebungen in der Kritik
http://www.welt.de/die-welt/debatte/article9692580/Die-Ro...

Bibel in Deutschland verbrannt: Der große Protest blieb aus
http://www.ovb-online.de/nachrichten/deutschland/bibel-de...

Obamas Doppelzüngigkeit: Amerikanische Soldaten müssen christliche Bibeln verbrennen
Udo Ulfkotte
http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/enthuellungen/ud...

Neue Studie: Migranten-Jungen haben mehr Sex als gleichaltrige Deutsche
http://www.blauenarzisse.de/v3/index.php/aktuelles/1907-n...

Der neue Mann - brutaler Macho?
Debatte auf ARTE mit
-Malika Sorel, französische Autorin, Mitglied im nationalen Haut Conseil à
l'intégration ("Integrationsrat") der französischen Regierung
-Serap Çileli, deutsche Autorin und Menschenrechtlerin türkisch-alevitischer
Abstammung
http://videos.arte.tv/de/videos/debatte-3393752.html

Gewalt in Berlin-Schöneberg
"Die Deutschen sind Verlierer"
http://www.spiegel.de/schulspiegel/0,1518,415547,00.html

Wächtersbach
Kopftücher und Großfamilien in Arztpraxis verboten
http://www.focus.de/politik/deutschland/migration-kopftue...
http://newsticker.sueddeutsche.de/list/id/1034999

Kritik an Kopftuchverbot in Arztpraxis
http://www.heilpraxisnet.de/naturheilpraxis/kritik-an-kop...
http://www.faz.net/s/Rub8D05117E1AC946F5BB438374CCC294CC/...

Frankfurt
Streit am Imbiss - Serben vs. Türken
Pommesdiebe schlagen Gäste zusammen
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,717278,00.html

Offenbach: 23-Jähriger muss sich für Unfall verantworten, bei dem zwei Mädchen im Main ertranken
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/prozess-tod...

Im Prozess um Unfall am Offenbacher Mainufer zeigt Angeklagter weiter keinerlei Schuldbewusstsein
Autorennen in den Tod
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/autorennen-...

Material DDR III: Unrechtsstaat
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Bundeswehr: Totalverweigerung: Aus Überzeugung in die Zelle http://www.spiegel.de/schulspiegel/leben/0,1518,710895,00...

Germanisten fürchten keine Anglizismen
http://www.focus.de/kultur/diverses/wissenschaft-germanis...

Die Lieblingsbücher der Deutschen im Dritten Reich
http://www.welt.de/kultur/article9090884/Die-Lieblingsbue...

Leseland Drittes Reich: Bestseller in Nazideutschland
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article9101583/Leselan...

Auf dem Planeten nur beurlaubt
Zwölf Jahre nach Ernst Jünger starb seine zweite Ehefrau Liselotte. Heimo
Schwilk besuchte die Trauerfeier in Wilflingen
Von Heimo Schwilk
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article9427030/Auf-dem...

Frankfurt
Entkrampfung für die Altstadtdebatte
http://www.faz.net/s/RubFAE83B7DDEFD4F2882ED5B3C15AC43E2/...

Mecklenburg-Vorpommern
Herrenhäuser vor dem Verfall
http://www.svz.de/nachrichten/mecklenburg-u-vorpommern/ar...
Hunderte Herrenhäuser verfallen
http://www.ostsee-zeitung.de/nachrichten/kultur/index_art...

Immer noch ist man in Deutschland schnell mit der Abrissbirne dabei, wenn´s um historische "Schandflecke" geht...)
Reutlingen
Schandfleck war ein Juwel
http://www.gea.de/region+reutlingen/reutlingen/schandflec...

Reutlingen
Eine bauhistorische Sensation
Mit der Metzgerstraße 24 wurde eines der ältesten Fachwerkhäuser abgerissen
http://www.tagblatt.de/Home/nachrichten/reutlingen_artike...

Geschichte
Todesstreifen interaktiv mit neuem Computerspiel
http://www.focus.de/digital/computer/geschichte-todesstre...

Die Römerschlacht an der Autobahn
http://www.tagesspiegel.de/politik/geschichte/die-roemers...

Spielzeugfreier Kindergarten
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Erschreckend: Antifeministische Grimm-Märchen
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

UEFA verhängt ein Vuvuzela-Verbot
Die Trompeten sollen aus den Stadien verbannt werden, um die "europäische Fußballkultur" zu schützen.
http://kurier.at/sport/fussball/2028384.php
http://www.goal.com/de/news/954/europa/2010/09/01/2098120...
http://www.11freunde.de/bundesligen/132279/ein_appell_an_...


vendredi, 08 octobre 2010

Hurra, der Erste Weltkriege ist jetzt auch für uns Deutsche zu Ende

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Hurra, der Erste Weltkrieg ist jetzt auch für uns Deutsche zu Ende

Michael Grandt - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Bis zum 3. Oktober 2010 musste der deutsche Steuerzahler für einen Krieg bezahlen, der vor fast 100 Jahren begann und für den das deutsche Volk die alleinige Verantwortung übernehmen musste, obwohl dies historisch nachweislich falsch ist.

 

 

 

 

Am Sonntag, den 3. Oktober 2010 war es soweit: Der Erste Weltkrieg war, 96 Jahre nach seinem Ausbruch, auch für Deutschland zu Ende. Bis zu diesem Zeitpunkt musste der deutsche Steuerzahler als »Verursacher« des Ersten Weltkrieges Reparationen sprich Wiedergutmachung an die Alliierten bezahlen.

Die letzte Rate betrug 69,9 Millionen Euro. Im Bundeshaushalt 2010 wird dieser Betrag unter Punkt 2.1.1.6 als »Bereinigte Auslandsschulden (Londoner Schuldenabkommen)« verklausuliert.

Die Reparationszahlungen nach dem Ersten Weltkrieg wurden im Versailler Vertrag im Jahr 1919 festgelegt. Adolf Hitler hatte die Zahlungen einst gestoppt, doch nach 1945 übernahm die Bundesrepublik Deutschland dann die »Schulden« und zahlte bis zum Jahr 1983.

Die Restzahlung von 125 Millionen Euro für Zinsen auf Auslandsanleihen war erst nach der deutschen Wiedervereinigung fällig. Seit 1996 stottert der deutsche Steuerzahler die Schuld aus dem vor knapp 100 Jahren ausgebrochenen Krieg ab. Die letzte Rate war 20 Jahre nach der Wiedervereinigung fällig. Mit dessen Zahlung ist der Erste Weltkrieg nun auch für Deutschland finanziell beendet.

Über die Ursachen des Ersten Weltkrieges, die tatsächliche Kriegsschuld, die Folgen und den Aufstieg Adolf Hitlers werde ich in den nächsten Wochen eine umfangreiche Contentserie hier auf KOPP-Online starten.

Anmerkung: Vielen Dank für den Hinweis an den Leser, dessen Namen ich leider nicht mehr eruieren kann.

 

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Quelle:

http://www.express.de/news/politik-wirtschaft/sonntag-ist...

 

Ernst Jüngers Lieblingspsalm

Ernst Jüngers Lieblingspsalm

Von Georg Oblinger

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

junger2.jpgDer 26. September 1996 war ein bedeutender Tag – auch wenn dies die Öffentlichkeit erst mehr als ein Jahr später erfahren sollte. An diesem Tag wurde Ernst Jünger in die katholische Kirche aufgenommen. Beim Gottesdienst zu diesem Anlaß wurde nach Jüngers Wunsch der Psalm 73 gebetet, in dem er die oft verschlungenen Pfade seines Lebens widergespiegelt sah:

„Lauter Güte ist Gott für Israel, für alle Menschen mit reinem Herzen. Ich aber – fast wären meine Füße gestrauchelt, beinahe wäre ich gefallen. Denn ich habe mich über die Prahler ereifert, als ich sah, daß es diesen Frevlern so gut ging. Sie leiden ja keine Qualen, ihr Leib ist gesund und wohlgenährt. (…) Sie sehen kaum aus den Augen vor Fett, ihr Herz läuft über von bösen Plänen (…) Sie reißen ihr Maul bis zum Himmel auf und lassen auf Erden ihrer Zunge freien Lauf. Darum wendet sich das Volk ihnen zu und schlürft ihre Worte in vollen Zügen. (…) Also hielt ich umsonst mein Herz rein und wusch meine Hände in Unschuld.

Und doch war ich alle Tage geplagt und wurde jeden Morgen gezüchtigt. Mein Herz war verbittert, mir bohrte der Schmerz in den Nieren. (…) Da sann ich nach, um das zu begreifen; es war eine Qual für mich, bis ich dann eintrat ins Heiligtum Gottes und begriff, wie sie enden. (…) Sie werden plötzlich zunichte, werden dahingerafft und nehmen ein schreckliches Ende. (…) Ich aber – Gott nahe zu sein ist mein Glück. Ich setze auf Gott, den Herrn, mein Vertrauen. Ich will all deine Taten verkünden.“

„Sie reißen ihr Maul bis zum Himmel auf“

Jünger konnte diesen Bibeltext auf seine lange religiöse Suche beziehen. Die Nationalsozialisten haben oftmals versucht, ihn für ihre Ideologie zu gewinnen und so wäre Jünger beinahe gestrauchelt. Doch Jünger erkannte ihre „bösen Pläne“ immer deutlicher, was schließlich 1933 zu seinem Ausschluss aus der Dichterakademie führte.

Wer vor dem Hintergrund der Biographie Ernst Jüngers den Psalm 73 liest, sieht vor seinem geistigen Auge Hermann Göring und Joseph Goebbels, wenn die Frevler beschrieben werden „sie sehen kaum aus ihren Augen vor Fett“ und „sie reißen ihr Maul bis zum Himmel auf.“

Wenn im Psalm von der Verbitterung des Herzens die Rede ist, denkt der Jünger-Freund unwillkürlich an die letzten Kriegsjahre in Paris, wo Jünger die „Pariser Tagebücher“ verfaßte, die später in seine „Strahlungen“ aufgenommen wurden.

Das Unsichtbare läßt sich für Jünger nur in Gleichnissen fassen

Doch der Psalm endet mit der Hinwendung zu Gott – ganz so wie das lange Leben Ernst Jüngers selbst. In seinem Alterswerk „Die Schere“ schreibt Jünger von der „Welt, die außerhalb unserer Erfahrung liegt.“ Er unterscheidet „zwischen dem Sichtbaren, dem Unsichtbaren und dem Nicht-Vorhandenen.“ Dieses Unsichtbare läßt sich für Jünger nur in Gleichnissen fassen.

Daher schreibt er „Gott“ immer in Anführungszeichen. Seine Begründung: „Die Wirklichkeit des Göttlichen ist für mich unleugbar, aber sie ist auch schwer zu definieren und zu benennen.“ Wie seine Konversion zeigt, war er allerdings der Meinung, daß der katholische Glaube der unfassbaren göttlichen Wahrheit wohl am nächsten kommt.

Werner Lass et Karl-Otto Paetel, deux nationaux-bolcheviques allemands

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Werner Lass et Karl-Otto Paetel, deux nationaux-bolcheviques allemands

Moins connus qu’Ernst Niekisch, Werner Lass et Karl-Otto Paetel  sont deux figures atypiques du national-bolchevisme, décrit par Louis Dupeux comme le courant le plus fascinant  de la Révolution Conservatrice.

Au coeur de la jeunesse bundisch

Né à Berlin le 20 mai 1902, Werner Lass appartient aux Wanderwogel de 1916 à 1920. En 1923, il est élu chef du Bund Sturmvolk dont une partie s’unit, en 1926, avec la Schilljugend du célèbre chef de corps-francs Gehrardt Rossbach (1). En 1927, Lass  fait scission pour fonder la Freischar Schill, groupe bündisch dont Ernst Jünger devient rapidement le mentor (« Schirmherr ») et qui place au cœur de ses activités le « combat pour les frontières », les randonnées à l’étranger et la formation militaire (2).

D’octobre 1927 à mars 1928, Lass et Jünger s’associent pour éditer la revue Der Vormarsch (« L’Offensive »), créée en juin 1927 par un autre célèbre chef de corps-francs, le capitaine Ehrhardt. Désireux de dépasser les limites étroites du simple mouvement de jeunesse, il fonde le Wehrjugendbewegung ou Mouvement de jeunesse de défense. Il s’agit pour lui de lier la « dureté de l’engagement du soldat du front avec la force de réalisation et la profondeur du mouvement de jeunesse » afin de créer un nouveau type d’homme.

En août 1928, la Freischar Schill participe au Congrès mondial des organisations de jeunesse, à Ommen, en Hollande. Lass fait un coup éclat en protestant contre la « colonisation » de l’Allemagne et la non attribution d’un visa aux délégués russes. La même année il est emprisonné, accusé d’avoir participé à la révolte paysanne de Claus Heim qui secoue alors le Schlewig-Holstein, et son mouvement sera interdit dans plusieurs villes.

En 1929, la Freischar Schill entreprend des négociations avec le NSDAP, qui échouent du fait des prétentions exorbitantes de la Hitlerjugend. En septembre 1929, Lass fonde une ligue regroupant les membres les plus âgés, le Bund der Eidgenossen ou Ligue des Conjurés, qui adopte très vite des positions nationales-bolcheviques.

Die Kommenden et les nationalistes sociaux-révolutionnaires

Quelques mois plus tard, en janvier 1930, Werner Lass et Jünger prennent la direction de l’hebdomadaire Die Kommenden, qui exerce alors une grande influence auprès de toute la jeunesse bündisch. Lass y écrira de rares articles.

C’est à la rédaction de Die Kommenden qu’il croise la route d’une autre figure du national-bolchevisme des années 30 : Karl-Otto Paetel. Celui-ci est également né à Berlin, le 23 novembre 1906. Tout comme Lass, il a commencé à militer dans les rangs de la jeunesse bündisch, à la Deutsche Freishar et au Bund der Köngener. Issu d’un milieu très modeste, il a dû arrêter ses études quand la bourse dont il bénéficiait lui a été retirée après qu’il ai manifesté contre le plan Young. Esprit décidemment rebelle, il sera aussi exclu de la Deutsche Freishar, en 1930, à la suite d’un article jugé insultant envers le maréchal Hindenburg.

Animateur, de 1928 à 1930, du mensuel Das Junge Volk, Karl-Otto Paetel lie dans ses écrits, dès 1929, combat de libération nationale et lutte des classes : « Tout pour la nation !… Le mot d’August Winning, d’après lequel la lutte libératrice de la nation doit être le lutte du travailleur allemand mène ici à la seule conséquence possible : approuver la lutte des classes comme un fait, la pousser dans l’intérêt du peuple tout entier (…) l’emprunter comme une voie pour la victoire du nationalisme ».

En 1930, Paetel se voit proposer par Lass et Jünger la direction de Die Kommenden. Dans un article paru dans le premier numéro de l’année 1930, il appelle à « en faire un porte-parole de toutes les nouvelles impulsions et pensées qui partout sont à l’œuvre dans la jeune Allemagne, pour toutes les tentatives révolutionnaires de renouvellement » et à rejeter les « aboiements du libéralisme et de la réaction, en qui nous reconnaissons nos ennemis mortels » (3). Et d’assigner au journal une ligne résolument révolutionnaire : « Nous reprendrons à l’intérieur et à l’extérieur de l’espace allemand le combat contre le système de l’exploitation capitaliste, qui a toujours empêché l’intégration du prolétariat dans l’ensemble du destin allemand » (4).

Quelques mois plus tard, fin mai 1930, il crée le Gruppe sozialrevolutionarër nationalisten (Groupe des nationalistes sociaux-révolutionnaires). Une série d’articles, publiés dans le numéro du 27 juin 1930 présente la déclaration-programme du GSRN.  Pour Paetel, « le sens de toute économie est uniquement la couverture des besoins de la nation et non pas la richesse et le gain » (5). Il en appelle à une « révolution mondiale »,  considère le bolchevisme comme un mouvement de libération nationale et souhaite  l’alliance avec l’URSS pour faire pièce à l’esclavage exercé par les nations occidentales : « Nous nationalistes sociaux-révolutionnaires, nous en exigeons l’alliance avec l’Union soviétique . Nous voyons dans tous les peuples opprimés, à quelques races qu’ils appartiennent, nos alliés naturels »(6).

National-bolchevisme et national-socialisme

Pendant l’été 1930, Paetel est débarqué de Die Kommenden par les tenants d’un nationalisme plus classique. En janvier 1931, il lance le mensuel Die sozialistische Nation, qui se réclame du national-bolchevisme, prône la lutte des classes, la collaboration avec le PC et l’instauration de « l’Allemagne des conseils », et entend alors représenter « le secteur non marxiste, non matérialiste du front socialiste ». De son côté, Lass publie, en septembre 1932, une nouvelle revue, Der Umsturz (La Subversion), qui se veux l’organe « des nationalistes radicaux, des socialistes radicaux, des activistes révolutionnaires de toutes tendances » et se réclame ouvertement du national-bolchevisme. « Bolchevisme est présenté comme la quintessence de tout ce qui est destructeur et décomposant. Alors, c’est vrai, nous sommes nationaux-bolcheviks, car précisément, la voie de la nation ne passe que par cette destruction créatrice » (7) peut-on y lire.

L’orientation NB semble corroborée par les évènements des années 1930-1931, scission de l’aile gauche du NSDAP d’une part, politique « nationale » du KPD d’autre part. En ce qui concerne le NSDAP d’Hitler, les NB estiment qu’il s’est embourgeoisé. En 1931, Lass écrit ainsi : « Aujourd’hui au nationaliste convaincu du NSDAP peut seulement être accordé la tâche de radicaliser la large masse de la bourgeoisie et de contribuer au délitement national »(8). Rien de plus. Le 4 juillet 1930, Otto Strasser quitte le parti pour fonder la Communauté nationale-socialiste révolutionnaire. Mais très vite les NB se montrent critiques vis à vis des thèses strassériennes, stigmatisant son «  socialisme à 49 % »  et ses hésitations sur la question de l’alliance russe.

Le fossé entre NB et NS de gauche s’élargit encore du fait de l’espoir mis dans l’évolution du KPD. Le 24 août 1930, l’organe central, Die Rote Fahne, publie une « Déclaration programme pour la libération nationale et sociale du peuple allemand », qui accorde une large place à la question nationale. Il s’agit pour les communistes d’enrayer la radicalisation des classes moyennes, en développant une argumentation nationaliste appuyée sur un appel à une « alliance de classes » de tous les travailleurs contre le petit groupe de possédants capitalistes. Cette stratégie parvient à faire passer dans le camp communiste des nationalistes (9). Croyant naïvement qu’une ligne NB est à l’œuvre au KPD, Paetel multiplie les débats avec les communistes, prenant même la parole lors de leurs meetings. En 1932, il appelle même à voter pour le candidat communiste à l’élection présidentielle, Thaelmann . Début 1933, il publie un Manifeste national-bolchevik, dont les premiers exemplaires, imprimés le 29 janvier, sont distribués le soir même de l’arrivée au pouvoir d’Hitler.

Werner Lass sera arrêté, en mars 1933, pour détention d’explosifs et mis en prison. Après une instruction interrompue, la Freischar Schill et le Bund der Eidgenossen ayant été interdits, il intègre la Hitlerjugend, ce qui représente un cas unique parmi tous les chefs NB. Il en sera d’ailleurs exclu en 1934. De son côté, Paetel sera emprisonné à plusieurs reprises après l’arrivée au pouvoir d’Hitler, avant de parvenir à gagner Prague en 1935, puis la Scandinavie.

Edouard Rix

NOTES

 

(1)  Son nom perpétue le souvenir du major Schill, tombé au cours de la lutte de libération contre l’occupation napoléonienne.

(2) Ses jeunes membres subissent une formation paramilitaire selon le « Reibert », manuel de l’infanterie allemande.

(3) K.O. Paetel, « Unser Weg », Die Kommenden, 1930, n°1, p. 2.

(4) Idem.

(5) T. Münzen « Gwendsätzeiches zum sozialistischen Wirtschaftsarfbau », Die Kommenden, 1930, n°26, p. 307.

(6) K. Baumann, « Sozialistische Revolution », Die Kommenden, 1930, n°26, p. 301.

(7) « Wir Nationalbolchewisten », Der Umsturz, n°6-7.

(8) W. Lass, « Vom vormarsch des Nationalismus », Die Kommenden, 1931, n°7, p. 76.

(9) C’est le cas du capitaine Beppo Romer, chef du bund Oberland, du sous-lieutenant Richard Scheringer, directeur de la revue Aufbruch, de Bruno von Salomon, frère d’Ernst et dirigeant du Landvolkbewegung, ou encore d’Harro Schulze-Boyser, animateur du journal Der Gegner.

Source : Réfléchir & Agir, été 2008, n°29, pp. 48-49.

 

jeudi, 07 octobre 2010

Les thèmes de la géopolitique et de l'espace russe dans la vie culturelle berlinoise de 1918 à 1945

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2002

Les thèmes de la géopolitique et de l'espace russe dans la vie culturelle berlinoise de 1918 à 1945

Karl Haushofer, Oskar von Niedermayer & Otto Hoetzsch

Intervention de Robert Steuckers à la 10ième Université d'été de «Synergies Européennes», Basse-Saxe, août 2002

Analyse : Karl SCHLÖGEL, Berlin Ostbahnhof Europas - Russen und Deutsche in ihrem Jarhhundert, Siedler, Berlin, 368 S., DM 68, 1998, ISBN 3-88680-600-6. 

En 1922, après l'effervescence spartakiste qui venait de secouer Berlin et Munich, un an avant l'occupation franco-belge de la Ruhr, le Général d'artillerie bavarois Karl Haushofer, devenu diplômé en géographie, est considéré, à l'unanimité et à juste titre, comme un spécialiste du Japon et de l'espace océanique du Pacifique. Son expérience d'attaché militaire dans l'Empire du Soleil Levant, avant 1914, et sa thèse universitaire, présentée après 1918, lui permettent de revendiquer cette qualité. Haushofer entre ainsi en contact avec deux personnalités soviétiques de premier plan: l'homme du Komintern à Berlin, Karl Radek, et le Commissaire aux affaires étrangères, Georgi Tchitchérine (qui signera les accords de Rapallo avec Rathenau). Dans quel contexte cette rencontre a-t-elle eu lieu? Le Japon et l'URSS cherchaient à aplanir leurs différends en entamant une série de négociations où les Allemands ont joué le rôle d'arbitres. Ces négociations portent essentiellement sur le contrôle de l'île de Sakhaline. Les Japonais réclament la présence de Haushofer, afin d'avoir, à leurs côtés "une personnalité objective et informée des faits". Les Soviétiques acceptent que cet arbitre soit Karl Haushofer, car ses écrits sur l'espace pacifique —négligés en Allemagne depuis que celle-ci  a perdu la Micronésie à la suite du Traité de Versailles—  sont lus avec une attention soutenue par la jeune école diplomatique soviétique. Qui plus est, avec la manie hagiographique des révolutionnaires bolcheviques, Haushofer a connu les frères Oulianov (Lénine) à Munich avant la première guerre mondiale; il aimait en parler et relatera plus tard ce fait dans ses souvenirs. L'intérêt soviétique pour la personne du Général Haushofer durera jusqu'en 1938, où, changement brusque d'attitude lors des grandes procès de Moscou, le Procureur réclame la condamnation de Sergueï Bessonov, qu'il accuse d'être un espion allemand, en contact, prétend-il,  avec Haushofer, Hess et Niedermayer (cf. infra). Les mêmes accusations avaient été portées contre Radek, qui finira exécuté, lors des grandes purges staliniennes.

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Ces trois faits d'histoire —la présence de Haushofer lors des négociations entre Japonais et Soviétiques, le contact, sans doute fort bref et parfaitement anodin, entre Haushofer et Lénine, les condamnations et exécutions de Radek et de Bessonov—  indiquent qu'indépendamment des étiquettes idéologiques de "gauche" ou de "droite", la géopolitique, telle qu'elle est théorisée par Haushofer à Munich et à Berlin dans les années 20, ne s'occupe que du rapport existant entre la géographie et l'histoire; elle est donc considérée comme une démarche scientifique, comme un savoir pratique et non pas comme une spéculation idéologique ou occultiste, véhiculant des fantasmes ou des intérêts. A l'époque, on peut parler d'une véritable "Internationale de la géopolitique", transcendant largement les étiquettes idéologiques, tout comme aujourd'hui, un savoir d'ordre géopolitique, éparpillé dans une multitude d'instituts, commence à se profiler partout dans un monde où les grands enjeux géopolitiques sont revenus à l'ordre du jour : la question des Balkans, celle de l'Afghanistan, remettent à l'avant-plan de l'actualité toutes les grandes thématiques de la géopolitique, notamment celles qu'avaient soulignées Mackinder et Haushofer.

 

Une démarche factuelle et matérielle, sans dérive occultiste

 

A partir de 1924, Haushofer publie sa Zeitschrift für Geopolitik (ZfG; "Revue pour la géopolitique"), où il met surtout l'accent sur l'espace du Pacifique, comme l'attestent ses articles et sa chronique, rédigée notamment grâce à des rapports envoyés par des correspondants japonais. La teneur de cette revue est donc politique et géographique pour l'essentiel, contrairement aux bruits qui ont couru pendant des décennies après 1945, et qui commencent heureusement à s'atténuer; ces "bruits" évoquaient une fantasmagorique dimension "ésotérique" de la Zeitschrift für Geopolitik (ZfG);  on a raconté que Haushofer appartenait à toutes sortes de sectes ésotériques ou occultes (voire occultistes). Ces allégations sont bien sûr complètement fausses. De plus, l'intérêt porté à Haushofer et à ses thèses sur l'espace du Pacifique par la jeune diplomatie soviétique, par Radek et Tchitchérine, est un indice complémentaire  —et de taille!—  pour attester de la nature factuelle et matérielle de ses écrits; les sectes étant par définition irrationnelles, comment un homme, que l'on dit plongé dans cet univers en marge de toute rationalité scientifique, aurait pu susciter l'intérêt et la collaboration active de marxistes matérialistes et historicistes? De marxistes qui tentent d'expurger toute irrationalité de leurs démarches intellectuelles?  L'accusation d'occultisme portée à l'encontre de Haushofer est donc une contre-vérité propagandiste, répandue par les services et les puissances qui ont intérêt à ce que son œuvre demeure inconnue, ne soit plus consultée dans les chancelleries et les états-majors. Il va de soi qu'il s'agit des puissances qui ont intérêt à ce que le grand continent eurasien ne soit pas organisé ni aménagé territorialement jusqu'en ses régions les plus éloignées de la mer.

 

Le principal ouvrage géopolitique et scientifique de Haushofer est donc sa Geopolitik des Pazifischen Raumes ("Géopolitique de l'espace pacifique"), livre de référence méticuleux qui se trouvait en permanence sur le bureau de Radek, à Berlin comme à Moscou. Karl Radek jouait le rôle du diplomate du PCUS ("Parti communiste d'Union Soviétique"). Il a cependant plaidé, au moment où les Français condamnent à mort et font fusiller l'activiste nationaliste allemand Albert Leo Schlageter, pour un front commun entre nationaux et communistes contre la puissance occidentale occupante. Plus tard, Radek sera nommé Recteur de l'Université Sun-Yat-Sen à Moscou, centre névralgique de la nouvelle culture politique internationale que les Soviets entendent généraliser sur toute la planète. Radek organisera, au départ de cette université d'un genre nouveau, un échange permanent entre universitaires, dont le savoir est en mesure de forger cette nouvelle culture diplomatique internationale.

 

Trois figures emblématiques

 

Dans le cadre de cette Université Sun-Yat-Sen , trois figures emblématiques méritent de capter aujourd'hui encore notre attention, tant leurs démarches peuvent encore avoir une réelle incidence sur toute réflexion actuelle quant au destin de la Russie, de l'Europe, de l'Asie centrale et quant aux théories générales de la géopolitique: Mylius Dostoïevski, Richard Sorge et Alexander Radós.

 

Mylius Dostoïevski est le petit-fils du grand écrivain russe. Qui, rappelons-le, a jeté les bases d'une révolution conservatrice en Russie, au-delà des limites de la slavophilie du début du 19ième siècle, et a consolidé, par ricochet, la dimension russophile de la révolution conservatrice allemande, par le biais de ses réflexions consignées dans son Journal d'un écrivain, ouvrage capital qui sera traduit en allemand par Arthur Moeller van den Bruck. Mylius Dostoïevski s'était spécialisé en histoire et en géographie du Japon, de la Chine et de l'espace maritime du Pacifique. Il appartiendra à la jeune garde de la diplomatie soviétique et sera un lecteur attentif de la ZfG; pour rendre la politesse à ces jeunes géographes soviétiques, selon sa courtoisie habituelle, Karl Haushofer rendra toujours compte, avec précision, des évolutions diverses de la nouvelle géopolitique soviétique. Il estimait que les Allemands de son temps devaient en connaître les grandes lignes et la dynamique.

 

Richard Sorge, autre lecteur de la ZfG, était un espion soviétique en Extrême-Orient. On connaît son rôle pendant la seconde guerre mondiale. En 1933, au moment où Hitler prend le pouvoir en Allemagne, Sorge était en contact avec l'école géopolitique de Haushofer. Il le restera, en dépit du changement de régime et en dépit des options anti-communistes officielles, preuve supplémentaire que la géopolitique se situe bien au-delà des clivages idéologiques et politiciens. Au cours des années qui suivirent la "Machtübernahme" de Hitler, il écrivit de nombreux articles substantiels dans la ZfG. Sa connaissance du monde extrême-oriental  —et elle seule—  justifiait cette collaboration.

 

Alexander Radós et "Pressgeo"

 

Indubitablement, le principal disciple soviétique de Karl Haushofer a été l'Israélite hongrois Alexander Radós, un géographe de formation, qui a servi d'espion au profit de la jeune URSS, notamment en Suisse, plaque tournante de nombreux contacts officieux. Radós est l'homme qui a forgé tous les nouveaux concepts de la géographie politique soviétique. Il est, entre autres, celui qui forgea la dénomination même d'«Union des Républiques Socialistes Soviétiques». Radós fut principalement un cartographe, qui a commencé sa carrière en établissant des cartes du trafic aérien, lesquelles constituaient évidemment une innovation à son époque. Il enseignait à l'«Ecole marxiste de formation des Travailleurs» ("Marxistische Arbeiterschulung"). Il fonde ensuite la toute première agence de presse cartographique du monde, qu'il baptise "Pressgeo", où travaillera notamment une future célébrité comme Arthur Koestler. La fondation de cette agence correspond parfaitement aux aspirations de Haushofer, qui voulait vulgariser  —et diffuser au maximum au sein de la population—  un savoir pragmatique d'ordre géographique, historique et économique, assorti d'un esprit de défense. La carte, esquisse succincte, instrument didactique de premier ordre, sert l'objectif d'instruire rapidement les esprits décisionnaires des armées et de la diplomatie, ainsi que les enseignants en histoire et en science politique qui doivent communiquer vite un savoir essentiel et vital à leurs ouailles.

 

Haushofer parlait aussi, en ce sens, de "Wehrgeographie", de "géographie défensive", soit de "géographie militaire". L'objectif de cette science pragmatique était de synthétiser en un simple coup d'œil cartographique toute une problématique de nature stratégique, récurrente dans l'histoire. Pédagogie et cartographie formant les deux piliers majeurs de la formation politique des élites et des masses. Yves Lacoste, en France aujourd'hui, suit une même logique, en se référant à Elisée Reclus, géographe dynamique, réclamant une pédagogie de l'espace, dans une perspective qu'il voulait révolutionnaire et "anarchique". Lacoste, comme Haushofer, a parfaitement conscience de la dimension militaire de la géographie (et, a fortiori, de la "Wehrgeographie"), quand il écrit, en faisant référence aux premiers cartographes militaires de la Chine antique: «La géographie, ça sert à faire la guerre!».

 

De l'utilité pédagogique de la cartographie

 

Michel Foucher, professeur à Lyon, dirige aujourd'hui un institut géographique et cartographique, dont les cartes, très didactiques, illustrent la majeure partie des organes de presse français, quand ceux-ci évoquent les points chauds de la planète. Dans ce même esprit pluridisciplinaire,  à volonté clairement pédagogique,  —qui, en France et en Allemagne, va de Haushofer à Lacoste et à Foucher—  Alexander Radós, leur précurseur soviétique, publie, en URSS et en Allemagne, en 1930, un Atlas für Politik, Wirtschaft und Arbeiterbewegung  ("Atlas de la politique, de l'économie et du mouvement ouvrier"). Radós est ainsi le précurseur d'une manière innovante et intéressante de pratiquer la géographie politique, de mêler, en d'audacieuses synthèses, un éventail de savoirs économiques, géographiques, militaires, topographiques, géologiques, hydrographiques, historiques. Les synthèses, que sont les cartes, doivent servir à saisir d'un seul coup d'œil des problématiques hautement complexes, que le simple texte écrit, trop long à assimiler, ne permet pas de saisir aussi vite, d'exprimer sans détours inutiles. Ce fut là un grand pas en avant dans la pédagogie scientifique et politique, dans le sens inauguré, un siècle auparavant, par le géographe Carl Ritter.

 

Cette cartographie facilite le travail du militaire, du géographe et de l'homme politique; elle permet, comme le soulignait Karl August Wittfogel, de sortir d'une impasse de la vieille science géographique traditionnelle (et "réactionnaire" pour les marxistes), où, systématiquement, on avait négligé les macro-processus enclenchés par le travail de l'homme et, ainsi, le caractère "historique-plastique" de ce que l'on croyait être des "faits éternels de nature". C'est dans cette position épistémologique fondamentale,  qu'au-delà des clivages idéologiques, fruits d'"éthiques de la conviction" aux répercussions calamiteuses, se rejoignent Elisée Reclus, Haushofer, Radós, Wittfogel, Lacoste et Foucher. Wittfogel , qui se pose comme révolutionnaire, reconnaît cette "plasticité historique" dans l'œuvre du "géopolitologue bourgeois" Karl Haushofer. Les deux écoles, l'haushoférienne et la marxiste, veulent inaugurer une géographie dynamique, où l'espace n'est plus posé comme un bloc inerte et immobile, mais s'appréhende comme un réseau dense de relations, de rapports, de mouvements, en perpétuelle effervescence (on songe tout naturellement au "rhizome" de Gilles Deleuze, qui inspire les "géophilosophes" italiens actuels). Au sein de ce réseau toujours agité, le temps peut apporter des époques de repos, de plus grande quiétude, comme il peut injecter du dynamisme, de la violence, des bouleversements, qui contraignent les personnalités politiques de valeur à œuvrer à des redistributions de cartes. Le travail de l'homme, qui domestique certains espaces en les aménageant et en créant des moyens de communication plus rapides, est un travail proprement "révolutionnaire"; les hommes politiques qui refusent d'aménager l'espace, dans un esprit de défense territoriale ou dans l'esprit d'assurer aux générations futures communications et ressources, sont des "réactionnaires", des lâches qui préfèrent de lents pourrissements à la dynamique de transformation. Des capitulards qui font ainsi le jeu pervers des thalassocraties.

 

Par conséquent, évoquer des hommes comme Mylius Dostoïevski, Richard Sorge, Alexander Radós ou Karl August Wittfogel,  nous apparaît très utile, intellectuellement et méthodologiquement, car cela prouve:

◊ que l'intérêt général pour la géopolitique aujourd'hui ne peut plus être mis en équation avec un intérêt malsain pour le passé national-socialiste (contexte dans lequel Haushofer a dû œuvrer);

◊ qu'aucune morbidité d'ordre ésotérique ou occultiste ne se repère dans l'œuvre de Haushofer et de ses disciples allemands ou soviétiques;

◊ que ces écoles ont posé d'important jalons dans le développement de la science politique, de la géographie et de la cartographie;

◊ qu'elles ont laissé en héritage un bagage scientifique de la plus haute importance;

◊ que nous devrions davantage nous intéresser aux développements de la géopolitique soviétique des années 20 et 30 (et analyser l'œuvre de Radós, par exemple).

 

Oskar von Niedermayer, le "Lawrence allemand"

 

Niedermayer.jpgOutre Haushofer, une approche du savoir géopolitique, tel qu'il sera déployé à Berlin dans les années 20, 30 et 40, ne peut omettre d'étudier la figure du Chevalier Oskar von Niedermayer, celui que l'on avait surnommé, le "Lawrence d'Arabie" allemand. Né en 1885, Oskar von Niedermayer embrasse la carrière d'officier, mais ne se contente pas des simples servitudes militaires. Il étudie à l'université les sciences naturelles physiques, la géographie et les langues iraniennes (ce qui lui permettra d'avoir des contacts suivis avec la Communauté religieuse Ba'hai, qui, à l'époque, était quasiment la seule porte ouverte de l'Iran sur l'Occident). De 1912 à 1914, il effectue un long voyage en Perse et en Inde. Il sera ainsi le premier Européen à traverser de part en part le désert de sable du Lout (Dacht-i-Lout). En 1914, quand éclate la première guerre mondiale, Oskar von Niedermayer, accompagné par Werner Otto von Henting, sillonne les montagnes d'Afghanistan pour inciter les tribus afghanes à se soulever contre les Anglais et les Russes, afin de créer un "abcès de fixation", obligeant les deux puissances ennemies de l'Allemagne à dégarnir partiellement  leurs fronts en Europe, dans le Caucase et en Mésopotamie. Cette mission sera un échec. En 1919, Niedermayer se retrouve dans les rangs du Corps Franc du Colonel Chevalier Franz von Epp qui écrase la République des Conseils de Munich. En dépit de son rôle dans l'aventure de ce Corps Franc anti-communiste, Niedermayer est nommé dans la foulée officier de liaison de la Reichswehr auprès de la nouvelle Armée Rouge à Moscou. Dans ce contexte, il est intéressant de noter qu'il était, avant toutes choses, un expert de l'Afghanistan, des idiomes persans et de toute cette zone-clef de la géostratégie mondiale qui va de la rive sud de la Caspienne à l'Indus. C'est donc Niedermayer  qui négociera avec Trotski et qui visitera, pour le compte de la Reichswehr, dans la perspective de la future coopération militaire entre les deux pays, les usines d'armement et les chantiers navals de Petrograd (devenue "Leningrad"). Oskar von Niedermayer a donc été l'une des chevilles ouvrières de la coopération militaire et militaro-industrielle germano-russe des années 20. En 1930, il devient professeur de "Wehrgeographie" à Berlin.

 

Le "marais" et ses éthiques de conviction

 

La principale leçon qu'il tire de ses activités politiques et diplomatiques est une méfiance à l'endroit des politiciens du "centre", du "marais", incapables de comprendre les grands ressorts de la politique internationale, du "Grand Jeu". Ses critiques s'adressaient surtout aux sociaux-démocrates et aux centristes de tous plumages idéologiques; avec de tels personnages, il est impossible, constate von Niedermayer dans un rapport où il ne cache pas son amertume, d'articuler sur le long terme une politique étrangère durable, rationnelle et constante. Il les accuse de tout critiquer publiquement, par voie de presse; de cette façon, aucune diplomatie secrète n'est encore possible. Pire, estime-t-il, par le comportement délétère de ces bateleurs sans épine dorsale politique solide, aucun ressort habituel de la diplomatie inter-étatique  ne fonctionne encore de manière optimale. Car les éthiques de conviction (terminologie de Max Weber: "Gesinnungsethik") qui animent toutes les vaines agitations politiciennes de ces gens-là, altèrent l'esprit de retenue, de sérieux et de service, qui est nécessaire pour faire fonctionner une telle diplomatie traditionnelle. La priorité accordée aux convictions revient à trahir les intérêts fondamentaux de l'Etat et de la nation. L'amertume de Niedermayer est née à la suite d'un incident au Reichstag, où le socialiste Scheidemann, animé par un pacifisme irréaliste et de mauvais aloi, avait dénoncé un accord militaire secret entre l'URSS et le Reich, sous prétexte que le commerce et l'échange d'armements ne sont pas "moraux". Le lendemain, comme par hasard, la presse londonienne à l'unisson, reprend l'information et amorce une propagande contre les deux puissances continentales, qui avaient contourné les clauses de Versailles relatives aux embargos. Cet incident montre aussi que bon nombre de journalistes servent des intérêts étrangers à leur pays. En cela, rien n'a changé aujourd'hui: les Etats-Unis bénéficient de l'appui inconditionnel de la plupart des ténors de la presse parisienne.

 

Youri Semionov, spécialiste de la Sibérie

 

Dans les années 30, Niedermayer rencontre Youri Semionov, Russe blanc en exil et spécialiste de l'économie, de la géographie, de la géologie et de l'hydrographie sibériennes. Semionov est l'auteur d'un ouvrage, toujours d'actualité, toujours compulsé en haut lieu, sur les trésors de la géologie sibérienne. Egalement spécialiste de l'empire colonial français, Semionov a compilé ses réflexions successives dans un volume dont la dernière édition allemande date de 1975 (cf. Juri Semjonow, Erdöl aus dem Osten - Die Geschichte der Erdöl- und Erdgasindustrie in der UdSSR, Econ Verlag, Wien/Düsseldorf, 1973 & Sibirien - Schatzkammer des Ostens, Econ Verlag, Wien/Düsseldorf, 1975). Né en 1894 à Vladikavkaz dans le Caucase, Youri Semionov a étudié à l'Université de Moscou, avant d'émigrer en 1922 à Berlin, où il enseignera l'histoire et la géographie de la Russie, et plus particulièrement celles des territoires sibériens. Après la chute du IIIe Reich, il émigre en 1947 en Suède, où il enseignera à Uppsala et finira ses jours. Dans Sibirien - Schatzkammer des Ostens, il retrace toutes les étapes de l'histoire de la conquête russe des territoires situés au-delà de l'ex-capitale des Tatars, Kazan. Il démontre que la conquête de tout le cours de la Volga, de Kazan à Astrakhan, permet à la Russie de spéculer sur une éventuelle conquête des Indes. Semionov replace tous ces faits d'histoire dans une perspective géopolitique, celle de l'organisation du Grand Continent, de la Mer Blanche au Pacifique. Les chapitres sur le 19ième siècle sont particulièrement intéressants, notamment quand il décrit la situation globale après la décision du Tsar Alexandre III de faire financer la construction d'un chemin de fer transsibérien.

 

Cet extrait du livre de Semionov (pp. 356-357) résume parfaitement  cette situation : «Nous savons que toute la politique de "concentration des forces sur le continent", telle celle que l'on avait envisagée en Russie, provoquait une inquiétude faite de jalousie en Angleterre. Tout mouvement de la Russie en Asie y était considéré comme une menace pesant sur l'Inde. L'Amiral Sterling a vu cette menace se concrétiser dès l'installation de la présence russe le long du fleuve Amour. L'écrivain anglais, oublié aujourd'hui, mais très connu à l'époque, Th. T. Meadows, évoquait en 1856, dans un de ses écrits, un "futur Alexandre le Grand" russe, qui s'en irait conquérir la Chine, puis, sans difficulté aucune, détruirait l'empire britannique et soumettrait le monde entier. Ce cri d'alarme pathétique, répercuté par la presse anglaise, est apparu soudain très réaliste, lorsque, dans les années 80 du 19ième siècle, les Russes avancent en Asie centrale et s'approchent de la frontière afghane. En 1884, se déroule le fameux "incident afghan"; un détachement russe s'empare d'un point contesté sur la frontière; ensuite, les Afghans, qui agissaient sur ordre des Anglais, attaquent ce poste, mais sont battus et dispersés par les Russes. Le premier ministre britannique Gladstone déclare, face au Parlement de Londres, que la guerre avec la Russie est désormais inévitable. Seul le refus de Bismarck, de soutenir les Anglais, empêcha, à l'époque, le déclenchement d'une guerre anglo-russe». Toute l'actualité récente semble résumée dans ce bref extrait.

 

Les chapitres consacrés à l'œuvre de Witte, père du Transsibérien, sont également lumineux. Semionov rappelle que Witte est un disciple de l'économiste Friedrich List, théoricien de l'aménagement des grands espaces. Il existait, avant la première guerre mondiale et avant la guerre russo-japonaise, une véritable idée grande continentale. Elle était partagée en France (Henri de Grossouvre nous a rappelé l'œuvre de Gabriel Hanotaux), en Allemagne (avec le souvenir de Bismarck) et en Chine, avec Li Hung-Tchang, qui négociera avec Witte. L'Angleterre réussira à briser cette unité, ce qui entraînera le cortège sanglant de toutes les guerres du 20ième siècle.

 

Oskar von Niedermayer  rencontre également le Professeur Otto Hoetzsch, dont nous allons retracer l'itinéraire dans la suite de cette intervention. En dépit de leurs itinéraires bien différents et de leurs options idéologiques divergentes, Haushofer, Niedermayer, Semionov et Hoetzsch se complètent utilement et la lecture simultanée de leurs œuvres nous permet de saisir toute la problématique eurasienne, sans la mutiler, sans rien omettre de sa complexité.

 

Du professorat à la 162ième Division

 

En 1937, Hitler ordonne la fondation d'un "Institut für allgemeine Wehrlehre" (= "Institut pour les doctrines générales de défense"). Niedermayer, bien que sceptique, servira loyalement cette nouvelle institution d'Etat, dont l'objectif, recentré sur l'ethnologie vu l'intérêt des nationaux-socialistes pour les questions raciales, est d'étudier les rapports mutuels entre peuple(s) et espace(s). Hostile à la "Gesinnungsethik" des nationaux socialistes, comme il avait été hostile à celles des sociaux démocrates ou des centristes, Niedermayer proteste contre les campagnes de diffamation orchestrées contre des professeurs que l'on décrit comme des "intellectuels  apolitiques", comportement hitlérien qui trouve parfaitement son pendant dans les campagnes de diffamation orchestrées par un certain journalisme contemporain contre ceux qui demeurent sceptiques face aux projets d'éradiquer l'Irak, la Libye ou la Serbie et d'appuyer des bandes mafieuses comme celles de l'UÇK ou du complexe militaro-mafieux turc. Aujourd'hui, on ne traite pas ceux qui entendent raison garder d'"intellectuels apolitiques", mais d'"anti-démocrates". 

 

De la prison de Torgau à la Loubianka

 

Comme la plupart des experts ès-questions russes de son temps, Niedermayer déplore la guerre germano-soviétique, déclenchée en juin 1941. En 1942, sur la suggestion de Claus von Stauffenberg, futur auteur de l'attentat du 20 juillet 1944 contre Hitler, Niedermayer est nommé chef de la 162ième Division d'Infanterie de la Wehrmacht, où servent des volontaires et des légionnaires de souche turque (issus des peuples turcophones d'Asie centrale). Cette unité connaît des fortunes diverses, mais l'échec de la politique nationale-socialiste à l'Est, accentue considérablement le scepticisme de Niedermayer. Stationné en Italie avec les restes de sa division, il critique ouvertement la politique menée par Hitler sur le territoire de l'Union Soviétique. Ce qui conduit à son arrestation; il est interné à Torgau sur l'Elbe. Quand les troupes américaines entrent dans la ville, il quitte la prison et est arrêté par des soldats soviétiques qui le font conduire immédiatement à Moscou, où il séjourne dans la fameuse prison de la Loubianka. Il y mourra de tuberculose en 1948.

 

La mort de Niedermayer ne clôt pas son "dossier", dans l'ex-URSS. En 1964, les autorités soviétiques utilisent les textes de ses dépositions à Moscou en 1945 pour réhabiliter le Maréchal Toukhatchevski. Il faudra attendra 1997 pour que Niedermayer soit lui-même totalement réhabilité. Donc lavé de toutes les accusations incongrues dont on l'avait chargé.

 

Le pivot indien de l'histoire et la nécessité du "Kontinentalblock"

 

Nous avons énuméré bon nombre de faits biographiques de Niedermayer, pour faire mieux comprendre le noyau essentiel de sa démarche d'iranologue, d'explorateur du Dacht-i-Lout, d'agitateur allemand en Afghanistan et de commandeur de la Division turcophone de la Wehrmacht. Deux idées de base animaient l'action de Niedermayer: 1) l'idée que l'Inde était le pivot de l'histoire mondiale; 2) la conscience de la nécessité impérieuse de construire un bloc continental (eurasien), le fameux "Kontinentalblock" de Karl Haushofer (projet qu'il a très probablement repris des hommes d'Etats japonais du début du 20ième siècle, tels le Prince Ito, le Comte Goto et le Premier Ministre Katsura, avocats d'une alliance grande continentale germano-russo-japonaise). Si Niedermayer reprend sans doute cette idée de "bloc continental" directement de l'œuvre de Haushofer, sans remonter aux sources japonaises —qu'il devait sûrement ignorer—  l'idée de l'Inde comme "pivot de l'histoire" lui vient très probablement du Général Andreï Snessarev, officier tsariste passé aux ordres de Trotski, pour devenir le chef d'état-major de l'Armée Rouge. Ce général, hostile aux thalassocraties anglo-saxonnes, représentant d'un idéal géopolitique grand continental transcendant le clivage blancs/rouges, se plaisait à répéter: «Si nous voulons abattre la tyrannie capitaliste qui pèse sur le monde, alors nous devons chasser les Anglais d'Inde».

 

Principes thalassocratiques, libéralisme à l'occidentale, permissivité politique et morale, capitalisme dont les ressorts annihilent systématiquement  les traditions historiques et culturelles (cf. Dostoïevski et Moeller van den Bruck), logique marchande, étaient synonymes d'abjection pour cet officier traditionnel: peu importe qu'on les combatte sous une étiquette blanche/traditionaliste ou sous une étiquette rouge/révolutionnaire. Les étiquettes sont des "convictions" sans substance: seule importe une action constante visant à réduire et à détruire les forces dissolvantes de la modernité marchande, car elles conduisent le monde au chaos et les peuples à une misère sans issue. Comme nous le constatons encore plus aujourd'hui qu'à l'époque, l'industriel, le négociant  et le banquier, avec leur logique d'accumulation monstrueuse, apparaissent comme des êtres aussi abjects qu'inférieurs, foncièrement malfaisants, pour cet officier supérieur russe et  soviétique qui ne respecte que les hommes de qualité: les historiens, les prêtres, les soldats et les révolutionnaires. Les impératifs de la géopolitique sont des constantes de l'histoire auquel l'homme de longue mémoire, seul homme valable, seul homme pourvu de qualités indépassables, se doit d'obéir. A la suite de ce Snessarev, qu'il a sans doute rencontré au temps où il servait d'officier de liaison auprès de l'Armée Rouge, Niedermayer, fort également de ses expériences d'iranologue, d'explorateur du Dacht-i-Lout et de spécialiste de l'Afghanistan, clef d'accès aux Indes depuis Alexandre le Grand, savait que le destin de l'Europe en général, de l'Allemagne, son cœur géographique, en particulier, se jouait en Inde (et, partant, en Perse et en Afghanistan). Une leçon que l'actualité a rendue plus vraie que jamais.

 

Exporter la révolution et absorber le "rimland"

 

Pour Niedermayer, officier allemand, ce rôle essentiel du territoire indien pose problème car son pays ne possède aucun point d'appui dans la région, ni dans son environnement immédiat. La Russie tsariste, oui, et, à sa suite, l'URSS, aussi. Par conséquent, les positions militaires soviétiques au Tadjikistan et le long de la frontière afghane, sont des atouts absolument nécessaires à l'Europe dans son ensemble, à toute la communauté des peuples de souche européenne. C'est la possession de cet atout stratégique en Asie centrale qui doit justifier, aux yeux de Niedermayer, l'indéfectible alliance germano-russe, seule garante de la survie de la culture européenne dans son ensemble. Pour les tenants du bolchevisme révolutionnaire autour de Trotski et Lénine, la solution, pour faire tomber le capitalisme, c'est-à-dire la puissance planétaire des thalassocraties libérales, réside dans la politique d'"exporter la révolution", d'agiter les populations colonisées et assujetties par un bon dosage de nationalisme et de révolution sociale. Ainsi, les puissances continentales de la "Terre du Milieu" pourront porter leurs énergies en direction du "rimland" indien, persan et arabe, réalisant du même coup les craintes formulées par Mackinder dans son discours de 1904 sur le "pivot" sibérien et centre-asiatique de l'histoire. Propos qu'il réitèrera dans son livre Democratic Ideals and Reality  de 1919. Cependant, pour pouvoir libérer l'Inde et y exporter la révolution, il faut déjà un bloc continental bien soudé par l'alliance germano-soviétique, prélude à la libération de toute la masse continentale eurasiatique.

 

Pour structurer l'Europe: un chemin de fer à voies larges

 

Pour parfaire l'organisation de cette gigantesque masse continentale, il faut se rappeler et appliquer les recettes préconisées par le Ministre du Tsar, Sergueï Witte, père du Transsibérien. Dans le Berlin des années 20, un projet circule déjà et prendra corps pendant la seconde guerre mondiale: celui de réaliser un chemin de fer à voie large ("Breitspurbahn"), permettant de transporter un maximum de personnes et de marchandises, en un minimum de temps. Cette idée, venue de Witte, n'est pas entièrement morte, constitue toujours un impératif majeur pour qui veut véritablement travailler à la construction  européenne: le Plan Delors, esquissé dans les coulisses de l'UE, préconisait naguère des grands travaux publics d'aménagement territorial, y compris un système ferroviaire rapide, désormais inspiré par le TGV français. En 1942, Hitler, en évoquant le Transsibérien de Witte, donne l'ordre à Fritz Todt d'étudier les possibilités de construire une "Breitspurbahn", avec des trains roulant entre 150 et 180 km/h pour le transport des marchandises et entre 200 et 250 km/h pour le transport des personnes. Le projet, confié à Todt, ne concerne pas seulement l'Europe, au sens restreint du terme, n'entend pas seulement relier entre elles les grandes métropoles européennes, mais aussi, via l'Ukraine et le Caucase, les villes d'Europe à celles de la Perse. Ces projets, qui apparaissaient à l'époque comme un peu fantasmagoriques, n'étaient nullement une manie du seul Hitler (et de son ingénieur Todt); en Union Soviétique aussi, via des romans populaires, comme ceux d'Ilf et de Petrov, on envisage la création de chemins de fer ultra-rapides, reliant la Russie à l'Extrême-Orient.

 

Le destin tragique du Professeur Otto Hoetzsch

 

ottohoetzsc.jpgLe volet purement scientifique de cet engouement pour le Grand Est sera incarné à Berlin, de 1913 à 1946 par un professeur génial, autant que modeste: Otto Hoetzsch. Il a connu un destin particulièrement tragique. Après avoir accumulé dans son institut personnel une masse de documents et de travaux sur la Russie, pendant des décennies, les bombardements sur Berlin en 1945, à la veille de l'entrée des troupes soviétiques dans la capitale allemande, ont réduit sa colossale bibliothèque à néant. Cette tragédie explique partiellement le sort misérable de tout le savoir sur la Russie et l'Union Soviétique à l'Ouest. La majeure partie des documents les plus intéressants avait été accumulée à Berlin. La misère de la soviétologie occidentale est partiellement  le résultat navrant de la destruction de la bibliothèque du Prof. Hoetzsch. En 1945 et en 1946, celui-ci, âgé de 70 ans, erre seul dans Berlin, privé de sa documentation; cet homme, brisé, trouve néanmoins le courage ultime de rédiger une conférence, la dernière qu'il donnera, où il nous lègue un véritable testament politique (titre de cette conférence : "Die Eingliederung des osteuropäischen Geschichte in die Gesamtgeschichte"; = L'inclusion de l'histoire est-européenne dans l'histoire générale).

 

Slaviste et historien de la Russie, Otto Hoetzsch s'était aperçu très tôt que les Européens de l'Ouest, les Occidentaux en général, ne comprenaient rien de la dynamique de l'histoire et de l'espace russes; ce que les Russes repèrent tout de suite, ce qui les navrent et les fâchent. Cette ignorance, assortie d'une prétention mal placée et d'une irrépressible et agaçante propension à donner des leçons, vaut également pour l'espace balkanique (sauf en Autriche où les instituts spécialisés dans le Sud-Est européen ont réalisé des travaux remarquables, dont les chancelleries occidentales ne tiennent jamais compte). Hoetzsch constate, dès le début de sa brillante carrière, que la presse ne produit que des articles lamentables, quand il s'agit de commenter ou de décrire les situations existantes en Russie ou en Sibérie. Il va vouloir remédier à cette lacune. A partir de 1913, il se met à rassembler une documentation, à étudier et à lire les grands classiques de la pensée politique russe, à lire les historiens russes, ce qui le conduira à fonder en 1925, quelques mois après la sortie du premier numéro de la ZfG de Haushofer, une revue spécialisée dans les questions russes et centre-asiatiques, Osteuropa. Captivé par la figure du Tsar Alexandre II, sur lequel il rédigera un maître-ouvrage, dont le manuscrit sera sauvé in extremis de la destruction à Berlin en 1945; Hoetzsch le transportait dans sa valise en fuyant Berlin en flammes. Pourquoi Alexandre II? Ce Tsar est un réformateur social, il lance la Russie sur la voie de l'industrialisation et de la modernisation, ce que ne peuvent tolérer les thalassocraties. Il périra d'ailleurs assassiné. En dépit du ressac de la Russie sous Nicolas II, de sa lourde défaite subie en 1905 face au Japon, armé par l'Angleterre et les Etats-Unis, en dépit du terrible ressac que constitue la prise du pouvoir par les Bolcheviques, l'œuvre d'Alexandre II doit, aux yeux de Hoetzsch, demeurer le modèle pour tout homme d'Etat russe digne de ce nom.

 

Ami des Russes blancs et "Républicain de Raison"

 

Hoetzsch est un libéral de gauche, proche de la sociale démocratie, mais il déteste les Bolcheviques, car, pour lui, ce sont des agents du capitalisme anglais, dans la mesure où ils détruisent l'œuvre des Tsars émancipateurs et modernistes; ils ont comploté contre ceux-ci et contre d'excellents hommes d'Etat comme Witte et Stolypine (qui sera également assassiné). Hoetzsch fréquente l'émigration blanche de Berlin, consolide son institut grâce aux collaborations des savants chassés par les Bolcheviques, mais reste ce que l'on appelait à l'époque, dans l'Allemagne de Weimar, un «Républicain de Raison» ("Vernunftrepublikaner"), ce qui le différencie évidemment d'un Oskar von Niedermayer. Son institut et sa revue connaissent un essor bien mérité au cours des années 20; ce sont des havres de savoir et d'intelligence, où coopèrent Russes et Allemands en toute fraternité. En 1933, avec l'avènement au pouvoir des nationaux socialistes, Hoetzsch cumule les malchances. Pour le nouveau pouvoir, les "Vernunftrepublikaner" sont des émanations du "marais centriste" ou, pire, des "traîtres de novembre" ("Novemberverräter") ou des "bolchevistes de salon" ("Salonbolschewisten"). L'institut de Hoetzsch est dissous. Hoetzsch est "invité" à prendre sa retraite anticipée. La fermeture de cet institut est une tragédie de premier ordre. Le destin de Hoetzsch est pire que celui de l'activiste politique et éditeur de revues nationales révolutionnaires, Ernst Niekisch. Car on peut évidemment, avec le recul, reprocher à Niekisch d'avoir été un passionné et un polémiste outrancier. Ce n'était évidemment pas le cas de Hoetzsch, qui est resté un scientifique sourcilleux.

 

Pour une approche grande-européenne de l'histoire

 

Dans la conférence qu'il prépare dès août 1945, et qu'il prononcera peu avant de mourir en 1946, dans sa chère ville de Berlin en ruines, Otto Hoetzsch nous a laissé un message qui reste parfaitement d'actualité. L'objectif de cette conférence-testament est de faire comprendre la nécessité impérieuse, après deux guerres mondiales désastreuses, de développer une vision de l'histoire, valable pour l'Europe entière, celle de l'Ouest, celle de l'Est et la Russie ("gesamteuropäische Geschichte"). Personnellement, nous estimons que les prémisses pratiques d'une telle vision grande européenne de l'histoire se situent déjà toutes en germe dans l'œuvre politique et militaire du Prince Eugène de Savoie, qui parvient à mobiliser et unir les puissances européennes devant le danger ottoman et à faire reculer la Sublime Porte sur tous les fronts, au point qu'elle perdra le contrôle de 400.000 km2 de terres européennes et russes. Le Prince Eugène a définitivement éloigné le danger turc de l'Europe centrale et a préparé la reconquête de la Crimée par Catherine la Grande. Plus jamais, après les coups portés par Eugène de Savoie, les Ottomans n'ont été victorieux en Europe et leurs alliés français n'ont plus été vraiment en mesure de grignoter le territoire impérial des Pays-Bas espagnols puis autrichiens; les Ottomans n'ont même plus été capables de servir de supplétifs à cette autre puissance anti-impériale et anti-européenne qu'était la France avant Louis XVI.

 

Le testament de Hoetzsch nous interpelle !

 

Mais le propos de Hoetzsch, dans sa dernière conférence, n'était pas d'évoquer la figure du Prince Eugène, mais de jeter les bases d'une méthodologie historique et sociologique pour l'avenir; elle devait reposer sur les acquis théoriques de Karl Lamprecht, de Gustav Schmoller (inspirateur du gaullisme dans les années 60 du 20ième siècle) et d'Otto Hintze. Il faut, disait Hoetzsch, développer une histoire intégrante et comparative pour les décennies à venir. En affirmant cela, il n'avait aucune chance de se voir exaucer en 1946, encore moins en 1948 quand, après le Coup de Prague, le Rideau de Fer s'abat sur l'Europe pour quatre décennies. En 1989, immédiatement après l'élimination du Mur de Berlin et l'ouverture des frontières austro-hongroises et inter-allemandes, l'Europe et la Russie auraient eu intérêt à remettre les propositions de Hoetzsch sur le tapis. Au niveau scientifique, des études remarquables ont été réalisées effectivement, mais rien ne semble transparaître dans la presse, faute de journalistes professionnels capables d'appliquer les leçons pédagogiques de Haushofer et de Radós. Les journalistes ne sont plus des hommes et des femmes en quête de sujets intéressants, innovateurs, mais bel et bien ceux que Serge Halimi nomme avec grande pertinence les "chiens de garde" du système. Les journaux et les revues constituaient la voie de pénétration vers le grand public dont disposaient jadis les instituts de sciences humaines et les universités; pour tout ce qui est véritablement innovateur, pour tout ce qui va à l'encontre des poncifs répétés ad nauseam, cette voie est désormais bien verrouillée, dans la mesure où les journalistes ne sont plus des hommes libres, animés par la volonté de consolider le Bien public, mais d'ignobles et méprisables mercenaires à la solde du système et des puissances dominantes.  Toutefois, le défi que nous a lancé Brzezinski en 1996, en publiant son fameux livre, The Grand Chessboard, où sont étalées sans vergogne toutes les recettes thalassocratiques pour neutraliser l'Europe et la Russie, avec l'aide de cet instrument qu'est le complexe militaro-mafieux turc,  —potentiellement étendu à toute la turcophonie d'Asie centrale—  montre une nouvelle fois qu'une riposte européenne et russe doit nécessairement passer par une vision claire de l'histoire, vulgarisable pour les masses. Le destin tragique de Hoetzsch, son courage opiniâtre qui force l'admiration, sa modestie de grand savant, nous interpellent directement: notre amicale paneuropéenne a pour devoir de travailler, modestement, dans son créneau, à l'avènement de cette historiographie grande européenne que Hoetzsch a voulu. Au travail!

 

Robert STEUCKERS.

(Forest-Flotzenberg, Vlotho im Weserbergland, août 2002).

mardi, 05 octobre 2010

Schopenhauer, philosophe de la volonté

arthur_shopenhauer.jpg

Schopenhauer, philosophe de la volonté et archétype du solitaire méprisant la politique

 

 Baal MÜLLER :

 

 

Il y a 150 ans mourrait Arthur Schopenhauer

 

« L’absence d’esprit prend toutes les formes pour se dissimuler : elle se camoufle en pathos, en emphase ; elle prend le ton de la supériorité et se donne des grands airs et tout cela de cent autres façons »

 

Arthur Schopenhauer (1788-1860).

 

La philosophie allemande classique du 19ème siècle peut se subdiviser, grosso modo, en deux courants majeurs qui, tous deux, commencent avec Kant. Celui-ci avait accompli dans sa « Critique de la raison pure » une « révolution copernicienne » passant ainsi de l’ontologie à la théorie de la connaissance ; il avait aussi affirmé que la capacité humaine de connaître était intrinsèquement liée aux formes de la représentation que sont le temps et l’espace, d’une part, les douze catégories de la raison, d’autre part, parmi lesquelles le principe de causalité. Pour faire en sorte que la raison ne produise pas elle-même ces propres objets, Kant s’était vu contraint d’accepter une « chose en soi » transcendantale, qui, pour le sujet connaissant, n’était pas connaissable au-delà de cet appareil fonctionnel.

 

Côté subjectif de ce monde coupé en deux par Kant, nous trouvons vers 1800 la philosophie idéaliste, qui culminera dans les grands systèmes de Hegel et de Schelling, puis, sous le signe du matérialisme, sera poursuivie par Marx et Engels. L’autre courant est moins visible, il est plutôt souterrain et cherche à saisir la face objective, en dépit de la césure kantienne. Ce courant-là commence avec Arthur Schopenhauer et nous amène, au-delà de Nietzsche, vers la modernité, une modernité qui n’est pas seulement philosophique.

 

Schopenhauer, né le 22 février 1788 à Danzig dans le foyer d’un négociant, est un penseur et une personnalité de la transition. Selon la tradition philosophique allemande, et surtout selon cet idéalisme allemand contre lequel il engage la polémique, Schopenhauer participe lui aussi à cette volonté de systématiser, c’est-à-dire de chercher à expliquer les principes métaphysiques du monde en un seul ouvrage : en effet, c’est ce qu’il tentera de faire dans son ouvrage principal, « Die Welt als Wille und Vorstellung » (= « Le monde comme volonté et comme représentation »), dont le premier volume paraît dès 1819 et dont le second ne paraitra qu’en 1844. Il amorce ses réflexions au départ du principe fondamental de Kant, celui de la subjectivité de la faculté de connaître, et le soumet à une métaphysique volontariste, dans la mesure où il identifie la « chose en soi » avec la volonté, qu’il interprète comme une pulsion d’existence, agissant derrière tous les phénomènes. Contrairement à l’usage habituel, il entend la volonté comme un principe irrationnel, que l’on n’expérimente pas seulement lorsque l’on procède à une analyse introspective de soi et, partant, comme une pulsion vitale et sexuelle, mais qui se manifeste, compénétrante, à travers la nature toute entière voire aussi dans le déroulement causal non vivant.

 

En dépit du caractère universel de la volonté qui se combat elle-même éternellement par le truchement des phénomènes qu’elle génère et qui détermine ainsi tout élan individuel de volonté, comme l’explique Schopenhauer dans un écrit de 1839, qui lui vaut un prix de la Société Royale Norvégienne des Sciences, et qui a pour titre « Über die Freiheit des menschlichen Willens » (= « De la liberté de la volonté humaine »), eh bien, en dépit de cela, il existe tout de même deux portes dérobées par lesquelles l’homme peut se dégager de la souffrance que lui inflige le monde : l’une est constituée par la morale, l’autre par l’esthétique. Par empathie avec les autres créatures souffrantes, l’homme peut dépasser son isolement apparent et reconnaître la même volonté de vivre (et en fin de compte se reconnaître lui-même) en tous les autres êtres, ce que Schopenhauer exprime par les mots « tat twam asi » (« cela, tu es »), empruntés aux Upanishads de l’Inde ancienne. Dans son éthique de la compassion, qu’il explicite dans « Über das Fundament der Moral » (= « Du fondement de la morale »), il se tourne, de manière radicale, contre l’impératif catégorique de son maître Kant, dont il mésinterprète l’appel à toujours penser aux conséquences de sa propre action pour l’universalité (pour la chose publique), comme une obligation à se soumettre à une pensée obéissante à l’autorité. Tout anti-étatiste pourrait, en se soumettant à une telle pensée, considérer que les lois ne sont que contraintes et non par autant de formules dont la validité est universelle.

 

L’autre échappatoire vers le paradis (toutefois sans Dieu) est la « contemplation détachée de tout intérêt » qu’offre la contemplation esthétique : en jouissant d’une œuvre d’art, surtout une œuvre musicale, l’homme peut aussi dépasser le « principium individuationis » et s’unir au fond cosmique de l’univers.

 

Schopenhauer comme précurseur de la psychanalyse freudienne

 

Aujourd’hui on ne juge pas tant l’importance de Schopenhauer à la teneur de ses principales idées philosophiques qu’à ses multiples influences postérieures. De son vivant, son ouvrage principal n’a quasiment pas été pris en considération. Il a fallu attendre le dernier tiers du 19ème siècle, donc après la mort de Schopenhauer, pour assister à une réception de son œuvre d’une rare intensité. Schopenhauer a amorcé ses réflexions philosophiques à l’époque dite des « Biedermeier » en Allemagne ; dans sa jeunesse, il a encore connu Goethe. Sa mère, Johanna Schopenhauer, écrivait des romans et tenait un salon littéraire à Weimar. Sa célébrité posthume, Schopenhauer la doit au fait qu’il fut un contemporain de Richard Wagner, dont « L’Anneau des Nibelungen » avait été fortement imprégné par la pensée de notre philosophe. Il la doit également à Friedrich Nietzsche qui, dans ses « Considérations inactuelles », évoque « Schopenhauer comme éducateur » et fait l’éloge de sa « volonté de vérité » et de son pessimisme héroïque. C’est justement au départ de cette réflexion nietzschéenne sur Schopenhauer qu’un filon s’amorce en direction de la critique révolutionnaire/conservatrice du vingtième siècle. En effet, l’archétype du solitaire et du précepteur oisif, méprisant la politique, se repère dans le philosophe grognon des « Considération d’un apolitique » de Thomas Mann. Celui-ci reconnaît encore sa dette à l’endroit de Schopenhauer dans quelques-uns de ces récits, dont la nouvelle « Tobias Mindernickel », où il traite de l’éthique de notre philosophe.

 

L’œuvre de Schopenhauer a eu un impact considérable sur des écrivains aussi importants que Hermann Hesse, Samuel Beckett et Thomas Bernhard. Dans l’univers des philosophes, l’impact a d’abord été moindre et ce sont, dans un premier temps, des figures marginales du monde universitaire du début du 20ème siècle qui se sont intéressées à lui : songeons à Georg Simmel et à Max Scheler qui, tous deux, font démarrer leurs réflexions à la suite de Schopenhauer. La plupart du temps, les philosophes universitaires l’ont considéré d’abord, et souvent à raison, comme un disciple original de Kant ou comme un précurseur de Nietzsche. Certes, il fut l’un des principaux précurseurs de Nietzsche mais il fut surtout l’une des principales figures anticipatrices de la psychanalyse. La réduction freudienne de la vie sentimentale à la pulsion sexuelle se retrouve, bien avant Freud, dans l’œuvre de Schopenhauer, et sans la moindre ambiguïté. Dans la conception schopenhauerienne de la volonté comme une puissance irrationnelle dépassant la conscience individuelle, nous trouvons les prémisses essentielles de l’inconscient collectif de Carl Gustav Jung.

 

Schopenhauer nous a transmis aussi la sagesse indienne, ce qui ne fut pas le moindre de ses mérites. Le premier contact qu’il a eu avec l’univers mental indien date de 1813, lorsqu’il séjournait à Weimar et qu’il y rencontra pour la première fois l’orientaliste Friedrich Majer, disciple de Herder. Sous l’influence des études de Majer, Schopenhauer finit par se considérer comme « le premier bouddhiste d’Europe ». Ainsi débuta l’histoire d’une méprise créatrice, comparable à l’interprétation quiétiste de l’antiquité classique, dont on vantait « la noble simplicité et la grandeur tranquille ». Les conséquences de cette méprise résident surtout dans une interprétation fausse du bouddhisme comme nihilisme, un nihilisme qui reposerait sur une rétention vis-à-vis de tout agir et verrait le but le plus élevé de l’existence dans une immersion dans le « néant ». On a vu l’effet de cette mésinterprétation du bouddhisme sévir dans la décennie qui suivit la Grande Guerre, où régnait une ambiance de déclin, comme, plus tard, dans la vogue bouddhiste qui se retrouve en Occident jusque aujourd’hui.

 

Petit bourgeois réactionnaire et ennemi des bourgeois étriqués

 

Schopenhauer_mit_Pudel.jpgSchopenhauer est lié à son temps quand il exprime son système philosophique basé sur la volonté ; il l’est également dans l’insouciance relative dont il fait montre à l’endroit de toute recherche empirique, ainsi que dans sa prétention à pouvoir présenter une interprétation générale du monde qui sera à jamais irréfutable. Mais les impulsions qui partent de son œuvre pour aboutir à notre temps sont fort nombreuses. Parmi elles : son « habitus » non académique de philosophe artiste et de littérateur. Il y a aussi son attitude ambivalente face à la classe bourgeoise : d’une part, Schopenhauer est très nettement un petit bourgeois réactionnaire qui méprise la période prérévolutionnaire d’avant 1848, le « Vormärz » ; d’autre part, en tant que demi bohémien, il est un ennemi de la mentalité bourgeoise étriquée (le « Spiessertum »), qui se manifeste surtout dans l’institution du mariage, cible de sarcasmes perpétuels pour ce misogyne grognon et animé par ses pulsions. Pour s’assurer un certain équilibre émotionnel, notre célibataire endurci s’est flanqué pendant toute sa vie d’un compagnon canin, un caniche : dès que l’un de ces animaux favoris mourrait, il s’en procurait un nouveau qu’il baptisait invariablement « Atman », comme tous ses prédécesseurs. Ce nom signifiait en sanskrit « souffle de vie » ou « âme individuelle », car, croyait-il, il y avait, actif, dans chaque caniche un seul et même principe de vie, le « Pudels Kern », le « noyau du caniche ».

Arthur Schopenhauer meurt le 21 septembre 1860, comme un vieil original, peu célèbre et bizarre, à Francfort sur le Main, ville où, après ses années de pérégrination et d’études, il s’était fixé pour y passer la seconde moitié de sa vie. Quelques années après son passage de vie à trépas, Léon Tolstoï le nomme « le plus génial de tous les hommes ».

 

Baal MÜLLER.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°38/2010 ; http://www.jungefreiheit.de/ ).

 

 

lundi, 04 octobre 2010

L'ex-Chancelier Helmut Schmidt sur l'affaire Sarrazin

L’ex-Chancelier Helmut Schmidt sur l’affaire Sarrazin

 

Extraits d’un entretien avec Helmut Schmidt à « Zeit Magazin », supplément illustré de l’hebdomadaire « Die Zeit » (Hamburg)

Propos recueillis par Giovanni di Lorenzo

 

schmidt.jpgQ. : Quel est le nerf que Sarrazin a effectivement touché ?

 

HS : Apparemment, il en a touché plusieurs en même temps. Parmi ces nerfs, il y a ceux d’un certain groupe de personnes. Par exemple, parmi nos concitoyens juifs, il y en a quelques-uns qui se sentent visés par une remarque, tout à fait en marge d’ailleurs du discours de Sarrazin, sur le « gène juif ». Toutefois, l’intérêt général pour les thèses de Sarrazin a au moins deux racines. Premièrement : la situation, qu’il décrit, sur laquelle il prend son point de départ et pour laquelle il propose une thérapie et énonce des conclusions, eh bien, cette situation est ressentie de manière identique par beaucoup de gens en Allemagne.

 

Q. : Vous voulez dire le déficit d’intégration…

 

HS : Oui. Car les autres affirmations de Sarrazin ne sont pas partagées par tous. Deuxièmement : ces autres affirmations ont provoqué beaucoup de gens, surtout ceux de la presse et de la classe politique. Ces gens-là ont commencé par prendre une attitude très prononcée de mépris à l’égard de Sarrazin et ont jugé négativement ce qu’il disait. Jusqu’au jour où ils ont remarqué, journalistes en tête, qu’une bonne part de l’opinion publique pensaient très différemment d’eux. Alors ils se sont mis à réfléchir. Il faut ensuite ajouter un troisième point : le parti de Sarrazin, auquel il appartient depuis trente ou quarante ans, je veux dire celui des sociaux-démocrates, pense aujourd’hui à le jeter hors de ses rangs. Beaucoup de gens estiment que ce n’est pas correct.

 

Q. : Et vous-même ?

 

HS : Je pense aussi que ce n’est pas correct.

 

Q. : Et pourquoi n’est-ce pas correct ?

 

HS : Il faut d’abord écouter, poser des questions, discuter. Jadis, nous avons eu toutes sortes de déviants au sein de la sociale démocratie allemande et Sarrazin n’est pas le premier qui se voit menacer d’une exclusion. Mais, dans le temps, nous les avons supportés, ces esprits rebelles. Au-delà de la cuisine interne de la SPD, ce qui est important, c’est le fait que la liberté de proclamer son opinion haut et fort pour que l’entende toute l’opinion publique, est désormais perçue comme mise en danger dans l’affaire Sarrazin. En réalité, elle n’est pas mise en danger. Mais lorsque quelqu’un dit quelque chose, qui ne me plait pas, et qu’alors je lui dis tout de go, que je ne lui serrerai plus la main, que je ne veux plus le voir, une telle attitude est perçue comme un mépris à l’endroit de l’opinion que l’autre a formulée. La constitution fédérale allemande autorise les bonnes politiques comme les fausses. La liberté d’opinion, garantie par l’article 5, est valable pour les opinions justes comme pour les opinions fausses. Alors si le social-démocrate Sarrazin, ancien sénateur de Berlin pour les finances, connaît le succès en formulant des assertions provocatrices  —et il n’y a aucun doute qu’elles sont provocatrices—  je lui aurais dit, moi, s’il me l’avait demandé, de modérer ses propos.

 

(…)

 

Q. : Considérez-vous que l’identité allemande et que l’existence même de l’Allemagne sont en danger vu le taux de naissance beaucoup plus élevé que l’on constate dans les couches les plus défavorisées de la population, surtout chez les immigrés ?

 

HS : Non, je ne perçois pas ce danger pour le moment. Mais je dois vous avouer qu’au début des années 70, j’ai demandé à ce que l’on freine l’immigration en provenance d’aires civilisationnelles trop étrangères à l’Allemagne, que j’ai considéré une telle mesure comme nécessaire et que je l’ai favorisée. Lorsque j’ai pris les fonctions de chef de gouvernement, nous avions 3,5 millions de travailleurs étrangers, ici en Allemagne ; quand j’ai quitté les affaires, nous en avions encore 3,5 millions. Aujourd’hui, nous avons à peu près 7 millions d’étrangers en Allemagne.

 

Q. : Mais, vous, vous n’avez pas réclamé un frein à l’immigration au nom de principes tirés de la génétique…

 

HS : C’est juste. Tout cela n’a rien à voir avec l’hérédité et la génétique. Si vous prenez par exemple une personne issue d’une culture ouest-européenne, comme celles de l’Espagne ou du Portugal, et que vous la transplantez à Hambourg Eimsbüttel, et que ses enfants vont là à l’école, en règle générale, tout va bien, tout se passe dans le bon ordre.  Avec ceux qui nous arrivent de Pologne, tout se passe même fort bien. Mais si vous transplantez une personne qui nous arrive d’Afghanistan ou du Kirghizistan pour s’installer au même endroit, sans que ses enfants ne comprennent le moindre mot d’allemand, alors vous récolterez tôt ou tard de sérieux problèmes à l’école.

 

Q. : Depuis peu, nous avons une jeune collègue, que vous verrez souvent assise en face de vous lors des conférences politiques du vendredi. Ses parents sont arrivés de Turquie il y a près de quarante ans. Ils étaient ouvriers d’usine ; la mère ne connaissait quasiment pas un mot d’allemand et elle devait imiter le caquètement des poules chez le boucher pour signifier qu’elle voulait du poulet. Mais leur fille est devenue journaliste à « Die Zeit »…

 

HS : Je n’ai pas dit que cela devait irrémédiablement mal se passer. Bien au contraire. Il y a beaucoup de cas où l’intégration réussit. Mais il y a aussi beaucoup d’autres cas, où elle ne réussit pas du tout. C’était la raison pour laquelle j’avais fait en sorte qu’on mette un terme au recrutement des « travailleurs-hôtes », comme on disait alors, et qu’on leur offre davantage de possibilités de retour au pays. Il est vrai que ces travailleurs avaient été recrutés dans l’idée qu’ils étaient effectivement des « hôtes » et que tout hôte, un jour ou l’autre, rentrerait chez lui. Mais beaucoup d’entre eux, de fait, ne le désiraient pas.

 

Q. : Pourquoi personne n’a envisagé, à l’époque, que ces travailleurs resteraient ?

 

HS : Parce que tous les Espagnols ne sont pas restés ; beaucoup d’Italiens et de Portugais les ont imités. Dans la plupart des cas, ne sont restés que les gens qui provenaient de pays où, sur les plans économique et social, tout allait beaucoup plus mal qu’ici en Allemagne.

 

Q. : Vous voulez dire des Musulmans issus de Turquie…

 

HS : Par exemple, mais pas seulement de Turquie, aussi des anciennes républiques de l’ex-Union Soviétique, de l’actuelle Fédération de Russie ou de pays du Proche Orient, comme le Liban notamment. De tous ceux qui sont venus de ces pays, beaucoup ont aimé demeurer en Allemagne. Or on aurait parfaitement pu prévoir que leur intégration allait s’avérer difficile. En réalité, le problème fondamental est le suivant, et il est juste que l’on en discute dorénavant sur la place publique : nous, les Allemands, n’avons pas été capables d’assimiler ou d’intégrer sept millions d’immigrés. Nous n’avons pas réussi car nous n’avons pas fait suffisamment d’efforts et nous n’avons pas entrepris les démarches qu’il fallait entreprendre. Nous avons intégré une grande partie de ces travailleurs, certes, mais une autre partie d’entre eux, et une partie considérable, nous ne l’avons pas intégrée. Malheureusement. Ce n’est pas tant la faute de ces immigrés, comme on dit aujourd’hui. La faute principale incombe aux Allemands eux-mêmes. Et cette faute vient du fait que nous n’avons pas discuté de la chose. On peut dire de Sarrazin ce que l’on veut, il a fait mouche et a osé aborder un sujet qui était quasiment tabou jusqu’ici.

 

(extrait d’un entretien paru dans « Zeit Magazin », n°38/2010).

dimanche, 03 octobre 2010

Gli intellettuali tedeschi e la crisi di Weimar

Gli intellettuali tedeschi e la crisi di Weimar

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

In tempo di crisi – economica, politica, sociale e culturale -, gli intellettuali possono costituire un faro nella nebbia per i cittadini “comuni”? E, se lo possono, lo devono anche?

Qual è il loro ruolo, esattamente, nel contesto della società? È giusto aspettarsi da loro che siano la nostra coscienza critica? O forse non commettiamo l’errore, quando essi – specialmente in tempi di crisi – ci additano la Luna, di guardare il dito anziché la Luna, ossia di prendere troppo alla lettere ciò che essi dicono, invece di cogliere lo spirito che li muove e l’orizzonte cui aspirano e che cercano di dischiudere, per sé e per noi?

È facile fraintenderli, quando li si prende alla lettera: come nel caso dei surrealisti. Tutto essi volevano, tranne che fondare una scuola; il loro credo fondamentale era la rivolta contro ogni sistema, quindi anche contro il surrealismo. E invece che cosa fa il pubblico, davanti agli intellettuali che contestano un sistema ormai agonizzante? Li innalza sugli altari di un nuovo sistema; li promuove a profeti di una nuova religione – che essi lo vogliano o no. E, anche se lo vorrebbero – come nel caso di Spengler, di cui tra poco parleremo – non è detto che noi rendiamo loro un buon servizio, accontentandoli; certamente non lo rendiamo a noi stessi.

Tutte queste domande e queste considerazioni ci sono venute alla mente rileggendo un famoso brano del libro di H. Kohn (I Tedeschi, traduzione italiana Edizioni di Comunità, Milano, 1963), dedicato agli intellettuali tedeschi di fronte al nazismo.

Non è un brano molto breve, tuttavia ci sembra indispensabile riportarlo integralmente, per non correre il rischio di falsare, semplificandolo, il pensiero dell’Autore; dopo di che svilupperemo le nostre riflessioni, portandole dal piano storico contingente (la crisi della Repubblica di Weimar e l’avvicinarsi del nazismo al potere) a quello della riflessione storico-filosofica generale, per cercar di trarne qualche utile insegnamento per il presente.

«In poco più di un decennio gli intellettuali furono in grado di condurre il popolo tedesco nell’abisso. Non ci sarebbero riusciti se non fossero stati preceduti da generazioni di preparazione, in cui germanofilismo e antioccidentalismo erano divenuti sempre più caratteristici del pensiero nazionale. Nell’ultimo stadio il nazionalismo tedesco respinse non solo la civiltà occidentale, ma anche la validità della vita civile. «Il nuovo nazionalismo – ammonì Ernest Robert Curtius nel 1931 – vuole buttar via non solo il diciannovesimo secolo, attualmente tanto calunniato, bensì addirittura tutte le tradizioni storiche». I pensatori nazionalisti francesi – Charles Maurras,o Maurice Barrès – non si spinsero mai fino al punto di rivoltarsi contro la civiltà. In Germania gli antintellettuali non erano plebaglia, ma intellettuali di primo piano, uomini spesso di gusti raffinati e di grande erudizione.

Mettendosi a considerare ogni cosa dall’angolo visuale tedesco, essi si convinsero che la civiltà occidentale fosse dappertutto profondamente minata come in Germania. Partendo da osservazioni parziali arrivarono alle conclusioni più estreme. Identificarono la situazione tedesca, com’era peraltro da essi interpretata, con quella dell’umanità, addirittura con quella dell’universo. Gottfried Benn non dubitava che il periodo quaternario dell’evoluzione geologica stessa approssimandosi alla fine, che l’homo sapiens stesse diventando sorpassato. Nessuna espressione era tanto forte da riuscire a manifestare tutto l’odio nutrito per la civiltà occidentale, il liberalismo, l’umanitarismo. La filosofia di Martin Heidegger, la dottrina politica di Carl Schmitt, la teologia di Karl Barth contribuirono per parte loro a convincere gli intellettuali che l’umanità aveva raggiunto una svolta decisiva, una crisi senza precedenti causata dal liberalismo. Questi intellettuali guardavano dall’alto in basso l’Occidente con lo stesso disprezzo più tardi manifestato dai capi nazisti. Allo stesso tempo si mostravano arrogantemente sicuri che il pensiero tedesco, proprio per la sua consapevolezza della crisi, fosse l’unico degno della nuova epoca storica. […]

“La comprensione classica della tradizione, così viva in Goethe, fu perduta negli anni trenta in Germania come in Russia. L’arte divenne ‘popolare’, ‘nuova’ e ‘utilitaria’; la forma non contò più. Nadler si sentì autorizzato a criticare Goethe perché «un uomo come lui non poteva trasformare un popolo». Ora il popolo si stava «trasformando»; perlomeno i suoi portavoce se ne vantavano. Un periodico molto stimato, Hochschule und Ausland, dedicato al mantenimento dei contatti fra le università tedesche e quelle straniere, nell’aprile del 1937 cambiò testata assumendo il nuovo nome di Geist der Zeit (Spirito dei tempi). Il suo editoriale dichiarò con appropriata modestia: «Non c’è alcuna nazione in Europa, e non ce n’è mai stata alcuna al di fuori della Grecia, in cui lo spirito è così vivo come nell’odierna Germania». Ma gli intellettuali tedeschi sbagliavano scambiando il loro spirito dei tempi con l’effettivo spirito del tempo. Nella loro cieca antipatia per l’Occidente essi interpretavano erroneamente la storia. […]

Moeller, Spengler e Jünger ritenevano che la guerra perduta si sarebbe trasformata in vittoria, se i tedeschi si fossero resi conto di rappresentare lo spirito dei tempi – Moeller aveva iniziato la sua attività come critico letterario e principale traduttore tedesco di Dostoevskij. La guerra comunque lo trasformò da uomo di cultura in pensatore politico. Nel Diritto dei popoli giovani, apparso all’inizio del 1919, egli chiedeva che fosse riconosciuto il diritto all’espansione delle giovani nazioni, che avevano idee nuove, mentre il decrepito Occidente non era altro che una continuazione del sorpassato diciottesimo secolo. Fra i popoli giovani era la Prussia che avrebbe assunto la funzione di guida. «Verrà il momento in cui tutti i popoli giovani, in cui tutti coloro che si sentono giovani, riconosceranno nella storia prussiana la più bella, la più nobile, la più virile storia politica dei popoli europei». […]

“Nel 1923, due anni prima di suicidarsi, Moeller pubblicò il suo libro più autorevole, Das Dritte Reich. Il titolo non può essere tradotto con ‘Terzo Impero’. Il Reich è nella sua essenza molto più di un impero. Ci sono più imperi, c’è un unico Reich. «Il nazionalismo tedesco – scriveva Moeller – è un campione del Reich finale: sempre ricco di promesse, mai concluso… C’è un unico Reich, come c’è un’unica Chiesa. Gli altri pretendenti al titolo non possono essere altro che uno stato, una comunità o una setta. Esiste solo Il Reich». Creando il Reich, i tedeschi non agivano per se stessi, ma per l’Europa. Il loro Reich era urgentemente necessario perché la civiltà occidentale aveva non elevato, bensì degradato l’umanità. «Circondato dal mondo in sfacelo che è il mondo vittorioso di oggi, il tedesco cerca la sua salvezza. Cerca di preservare quei valori imperituri, che sono tali per propria natura. Cerca di assicurare la loro permanenza nel mondo riconquistando il rango a cui hanno diritto i loro difensori. Allo stesso tempo combatte per la causa dell’Europa, per ogni influenza europea che si irradia dalla Germania in quanto centro dell’Europa… L’ombra dell’Africa si proietta sull’Europa. È nostro compito fare da sentinella sulla soglia dei valori».

Moeller definiva il Reich «una vecchia bella idea tedesca che risale al Medioevo, ed è associata all’attesa di un regno millenario». Esso sarebbe stato genuinamente socialista e antiliberale. Il terzo capitolo del libro portava come motto le significative parole «Col liberalismo il popolo perisce».Il socialismo tedesco non aveva nulla in comune col materialismo storico marxista e con la lotta di classe internazionale. Era la solidarietà nazionale di un popolo sfruttato dalla plutocrazia straniera; era l’idea dell’altruismo al servizio del bene comune anziché del perseguimento del profitto personale. «Dove finisce il marxismo – scriveva Moeller – lì comincia il socialismo: un socialismo tedesco, la cui missione è quella di soppiantare nella storia intellettuale dell’umanità ogni specie di liberalismo. Il socialismo tedesco non è compito di un Terzo Reich. È piuttosto la sua base». Moeller accettava la rivoluzione antiliberale e antiplutocratica di Lenin come un tipo di socialismo nazionale peculiarmente adatto alla Russia e si dichiarava propenso a collaborare con essa purché dirigesse la sua espansione verso l’Asia e ammettesse la legittimità della missione della Germania nelle terre di confine russo-tedesche.[…]

Oswald Spengler in Preussentum und Sozialismus [Prussianesimo e Socialismo] (1919) fece un altro passo avanti: «Solo quello tedesco è vero socialismo! Il vecchio spirito prussiano e il socialismo, benché oggi sembrino contrari l’uno all’altro, sono in realtà tutt’uno». Questo libro relativamente beve di Spengler rimase sconosciuto al pubblico inglese, ma attrasse molti più lettori tedeschi dei due grossi volumi della sua opera principale. Le idee esposte in Preussentum und Sozialismus furono, come egli stesso confessò, il nucleo (Kern) da cui si sviluppò tutta la sua filosofia. Il libro è basilare non solo per la conoscenza dell’autore, ma anche per la conoscenza del periodo weimariano. Naturalmente Spengler contrapponeva i suoi prussiani socialisti agli individualisti inglesi attaccati al denaro, che facevano ognuno per conto proprio, mentre i primi erano legati l’uno all’altro. Quando gli inglesi lavoravano, lo facevano per smania di successo; i prussiani lavoravano invece per amore del dovere da compiere. In Inghilterra era la ricchezza che contava, in Prussia l’azione. Il socialismo marxista era profondamente influenzato dalle idee inglesi. Marx infatti, al pari degli inglesi, non ragionava dal punto di vista dello stato, bensì da quello della società. Per lui, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità. A detta di Spengler, Federico Guglielmo I, il re-soldato prussiano del diciottesimo secolo, e non Marx, era stato «il primo socialista cosciente». Soltanto la Prussia era uno stato reale, e quindi uno stato socialista. «Qui, nel senso stretto del termine, non esistevano individui isolati. Chiunque viveva nell’ambito del sistema, che funzionava con la precisione di una buona macchina, faceva parte della macchina».

Spengler andava a ritroso nella storia per spiegare la differenza fra inglesi e prussiani; il carattere inglese derivava dai saccheggiatori vichinghi, quello prussiano dai devoti Cavalieri Teutonici. Malgrado lo storicismo, ora brillante, ora falso, gli scritti di Spengler intendevano essere non distaccate opere di studio, bensì littérature engagée [letteratura impegnata]. Il suo Preussentum und Sozialismus era infatti un fervido appello alla gioventù tedesca, lanciato nell’ora della disfatta e dello sconforto. «Nella nostra lotta – egli scriveva nell’introduzione – conto su quella parte della nostra gioventù che sente profondamente, al di là di tutti gli oziosi discorsi quotidiani, […] l’invincibile forza che continua a marciare in avanti malgrado tutto, una gioventù […] romana nell’orgoglio di servire, nella umiltà di comandare, preoccupata di chiedere non diritti dagli altri, bensì doveri da se stessa, senza eccezione, senza distinzione, per realizzare il destino che sente nel suo intimo. In questa gioventù vive una tacita coscienza che integra l’individuo nel tutto, nella nostra cosa più sacra e profonda, un patrimonio di duri secoli, che distingue noi fra tutti i popoli, noi, i più giovani, gli ultimi della nostra civiltà. A questa gioventù io mi rivolgo. Possa essa comprendere quello che ora diventa il suo compito futuro. Possa essere fiera di aver l’onore di affrontarlo.»

L’appello di Spengler alla gioventù si faceva ancora più fervido alla fine del libro: «Chiamo a raccolta coloro che hanno midollo nelle ossa e sangue nelle vene… Diventate uomini! Non vogliamo più discorsi sulla cultura, sulla cittadinanza mondiale, sulla missione spirituale della Germania. Abbiamo bisogno di durezza, di ardito scetticismo, di una classe di dominatori socialisti. Ancora una volta: socialismo significa potenza, potenza, ancora e sempre potenza. La via verso la potenza è chiaramente segnata: i più valenti lavoratori tedeschi devono unirsi ai migliori rappresentanti del vecchio spirito politico prussiano, gli uni e gli altri decisi a creare uno stato rigidamente socialista, una democrazia nel senso prussiano, gli uni e gli altri legati da un comune senso del dovere, dalla coscienza di un grande compito, dalla volontà di obbedire per dominare, di morire per vincere, dalla forza di compiere tremendi sacrifici per realizzare il nostro destino, per essere quel che siamo e quel che senza di noi non esisterebbe. Noi siamo socialisti. Noi non intendiamo esser stati socialisti invano».

La filosofia spengleriana della storia era concisamente esposta in un brano di Preussentum und Sozialismus: «La guerra è eternamente la più alta forma di esistenza umana, e gli stati esistono per la guerra; essi manifestano per la guerra essi manifestano la loro preparazione alla guerra. Anche se un’umanità stanca e smorta desiderasse rinunciare alla guerra, essa diventerebbe, anziché il soggetto, l’oggetto della guerra per cui e con cui gli altri guerreggerebbero».

Lo stesso tema viene ripetuto nel secondo volume del Tramonto dell’Occidente, apparso nel 1922: «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace.» E nell’ultimo libro pubblicato, undici anni dopo, Anni della decisione, egli affermava con ripetitività quasi hitleriana: «La lotta è il fatto fondamentale della vita, è la vita stessa. La noiosa processione di riformatori, capaci di lasciare come loro unico monumento montagne di carta stampata, è ora finita… La storia umana in un periodo di civiltà altamente evoluta è storia di potenze politiche. La forma di questa storia è la guerra. La pace è soltanto […] una continuazione della guerra con altri mezzi […] Lo stato è l’essere in forma di un popolo, che è da esso costituito e rappresentato, per guerre attuali e possibili». Questa filosofia della storia ultrasemplificata portava la priorità della politica estera su quella interna, tipica di Ranke, a un estremo palesemente assurdo. Civiltà e religioni, istituzioni e costituzioni, economia e benessere nazionale non contavano più nella storia; non rimaneva che la politica estera, ridotta essa stessa alla guerra e alla preparazione della guerra. Le guerre non erano più eccezioni o incidenti, erano il fatto centrale della vita e della storia, il loro significato e coronamento. La prima nazione moderna che l’aveva compreso era, secondo Spengler, la Prussia, che su questa consapevolezza basava la sua pretesa di supremazia nella nuova era. «La Prussia – egli scriveva – è soprattutto priorità incondizionata della politica estera su quella interna, la cui sola funzione è quella di mantenere la nazione in forma per quel compito.»[…]

Le teorie politiche proclamate da Spengler col tono di un veggente furono esposte, in veste più erudita, da Carl Schmitt, professore di diritto internazionale e costituzionale all’università di Bonn, per due decenni il più autorevole maestro di diritto pubblico in Germania. I suoi scritti, legati a quelli di Spengler, introdussero una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale. […]

La guerra era un momento importante della vita politica e della vita in genere; l’inevitabile relazione amico-nemico dominava ogni settore. «I punti culminanti della grande politica – sosteneva Schmitt – sono quelli in cui si discerne il nemico con estrema concreta chiarezza come nemico». Questa teoria politica corrispondeva al presunto primordiale istinto combattivo dell’uomo che tendeva a considerare chiunque si frapponesse all’appagamento dei suoi desideri come un avversario da toglier di mezzo. La tradizionale arte di governo dell’Occidente, invece, consisteva nel trovare e vie e i mezzi per superare l’istinto primitivo col negoziato paziente, col compromesso, con uno sforzo di reciprocità, soprattutto con l’osservanza di leggi universalmente vincolanti.

La totalitaria filosofia di guerra fu così riassunta da Schmitt: «La guerra è l’essenza di ogni cosa. La natura della guerra totale determina la forma naturale dello stato totale». Comprensibilmente, egli nutriva un profondo disprezzo per il diciannovesimo secolo, «un secolo pieno d’illusione e frode.» Nel suo stato ideale di quest’epoca, ovviamente immune da illusioni e frode, la vita nella sua interezza era subordinata al conflitto armato. in tale ordine d’idee Karl Alexander von Müller, direttore della Historische Zeitschrift [Rivista storica], l’organo ufficiale degli storici tedeschi, concluse, nel numero di settembre del 1939, un editoriale sulla guerra con le parole: «In questa battaglia d’animi troviamo il settore delle trincee che è affidato alla scienza storica della Germania. Essa monterà la guardia. La parola d’ordine è stata data da Hegel: lo spirito dell’universo ha dato l’ordine di avanzare; tale ordine sarà ciecamente obbedito».

In questo brano di riflessione storica emergono, a nostro avviso, alcuni tipici difetti della storiografia d’impostazione liberal-democratica, primo fra tutti quello di presentarsi (e percepirsi essa stessa) come la storiografia, immune da passioni e pregiudizi, e perciò titolata a giudicare, davanti al tribunale della storia, tutte le altre ideologie. Intendiamoci: molti giudizi sono pertinenti e perfettamente condivisibili. Giusto porre l’accento sulle responsabilità politiche ed etiche degli intellettuali tedeschi dell’epoca di Weimar nell’aver spianato la strada al nazismo; giusto evidenziare la rozzezza e le eccessive semplificazioni della filosofia della storia di Moeller, Spengler, Schmitt; e giusto anche aver richiamato il fatto che il successo di quella impostazione dei problemi politici, nella cultura e nella società, non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata una lunga preparazione, da parte di generazioni e generazioni di intellettuali che li avevano preceduti.

In che cosa verte, dunque, la nostra perplessità, davanti all’approccio storiografico di Kohn? Essenzialmente nel fatto che egli, tutto preso dal suo pathos moralistico, sembra essersi scordato che il compito primo e fondamentale del mestiere di storico (e anche dello storico del pensiero) non è quello di giudicare, ma di sforzarsi di capire. Il che, naturalmente – giova ripeterlo, onde evitare il solito malinteso tanto caro ai moralisti in male fede – non significa giustificare alcunché. Nel caso specifico, a Kohn è sfuggita la comprensione di quanto di originale poteva esservi nella “rivoluzione conservatrice” che ha coinvolto, oltre a Moeller, Spengler e Schmitt, anche personalità della statura di Heidegger, Jünger, Frobenius, Gogarten e, per certi versi, anche Jung; per non parlare, fuori della Germania, di Hamsun, Pound, Evola, Gentile, Ungaretti, Pirandello, Unamuno, Barrés, Eliade, … dobbiamo continuare? E occorre ricordare che alcuni di questi intellettuali, anche fra quelli particolarmente presi di mira da Kohn, ebbero il coraggio di opporsi al nazismo, o ad aspetti significativi della sua politica, esponendosi in prima persona? Il tanto vituperato Spengler rifiutò di aderire al fanatico antisemitismo nazista e avrebbe subito gravi rappresaglie, se la morte non fosse giunta in buon punto, nel 1936, per metterlo al riparo da esse. Jünger, col romanzo Sulle scogliere di marmo, presentò apertamente Hitler come un malvagio e dissennato timoniere che porta la nave della Germania verso la catastrofe; e suo figlio venne ucciso dai nazisti. Heidegger, come è noto, si dissociò al regime e si chiuse in un cupo silenzio, pur non schierandosi esplicitamente contro di esso.

Ma, si dirà, Kohn non accusa costoro di essere stati dei cripto-nazisti, bensì di avere oggettivamente spianato il terreno della cultura tedesca all’influsso nefasto del nazismo. Senonché, è proprio quell’avverbio, oggettivamente (che ricorda, guarda caso, altri climi politici e altre condanne spicciole), che ci sembra ingeneroso e poco corretto dal punto di vista del metodo. In un’epoca di crisi, morale non meno che materiale, gli intellettuali vanno anch’essi a tentoni e non li si può accusare con troppa disinvoltura di aver preparato le catastrofi a venire, istituendo per loro una sorta di retroattività morale. Lungi da noi voler minimizzare le responsabilità degli intellettuali; senz’altro alcuni di essi sono stati dei cattivi maestri, e ne portano tutta intera la responsabilità. Occorre, però, distinguere bene i due piani della riflessione: quello storico e quello etico. Se il libro di Kohn, I Tedeschi, vuol essere un libro di storia, è necessario che del metodo storico accetti le premesse e l’impostazione generale: la priorità rivolta allo sforzo di comprendere, innanzitutto. E non ci pare che egli abbia fatto molto in tal senso. Non ha tenuto conto del punto di vista interno della società tedesca nel periodo della Repubblica di Weimar; e non ha tenuto conto della frustrazione e del risentimento, in parte comprensibili, con i quali il popolo tedesco visse quel periodo, dopo che a Versailles Clemenceau era riuscito a far prevalere la logica della pace “punitiva” e dopo che l’inflazione aveva polverizzato non solo i risparmi e i frutti del lavoro di una intera generazione, ma anche – apparentemente – le speranze di rinascita del popolo tedesco.

Se la famosa pugnalata alla schiena è, infatti, un mito bello e buono, inventato dalla cricca militare prussiana per scaricare sulla società civile, e specialmente sulla socialdemocrazia, la responsabilità della sconfitta in quella guerra che essa aveva fortemente voluto, considerandola – a torto o a ragione – necessaria e inevitabile per la sopravvivenza della Germania come grande potenza, vi sono pochi dubbi – a nostro parere – che il popolo tedesco, al termine della prima guerra mondiale (e, di nuovo, con la crisi della Ruhr del 1923), fu vittima di una grossa ingiustizia storica. Se si fa astrazione da ciò, si rischia di non capire come le parole e gli slogan degli intellettuali conservatori tedeschi ebbero tanta risonanza e tanto successo, specialmente fra la gioventù, negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Lo storico, invece – anche e, per certi aspetti, soprattutto lo storico del pensiero – deve sempre e rigorosamente contestualizzare. Non si può comprendere Lutero fuori del proprio tempo e della propria situazione storica; non si può comprendere Kant; non si può comprendere Hegel o Nietzsche o Heidegger. In verità, non si può comprendere niente; a meno che si immagini che il pensiero non vada in nulla debitore della società che lo esprime.

Un’altra riflessine di carattere generale che ci sembra opportuno fare è che la sconfitta, così nella vita del singolo individuo come in quella dei popoli, è portatrice di una crisi che può anche essere salutare, perché costringe, letteralmente, a prendere atto di una inadeguatezza e a elaborare delle strategie per superare le presenti difficoltà. La società tedesca non era stata certo l’unica responsabile della tragedia del 1914-1918; ma, alla fine della guerra, si trovò dalla parte del perdente e quindi, automaticamente, dalla parte del torto (cosa che si sarebbe ripetuta di lì a ventisette anni). Una clausola del trattato di pace imponeva ai rappresentanti della Germania di firmare una dichiarazione in cui la loro patria si assumeva, tutta intera, la responsabilità di quanto era accaduto: e questo sotto la minaccia di una ripresa immediata della guerra. Mai si era vista una simile prepotenza giuridica, per giunta sotto l’ipocrita bandiera del democraticismo wilsoniano; ma Erzberger dovette trangugiare, a nome del suo popolo, l’amaro boccone (cosa che ne provocò la condanna a morte da parte dell’estremismo nazionalista: condanna che fu eseguita, pochi anni dopo, da un giovane assassino).

Né basta. Per tre volte – nel 1919, nel 1923 e nel 1929 – l’economia tedesca fu travolta dalla terribile bufera della crisi economica, che spazzò il risparmio e creò milioni e milioni di disoccupati. Ogni volta la società tedesca riusciva a rimettersi in piedi, compiendo degli sforzi veramente titanici, un intervento esterno la rigettava a terra. Nel 1919 la pace punitiva – con le mutilazioni territoriali, la perdita delle colonie e della marina, l’enorme indennità di guerra da pagare agli Alleati; nel 1923 l’occupazione francese e belga del bacino minerario della Ruhr, che rendeva ancor più impossibile soddisfare quei pagamenti; nel 1929 il crollo della borsa di Wall Street, cui gli speculatori della finanza ebraica newyorkese non furono certo estranei: e la terza volta spianò la strada a Hitler. C’è da chiedersi, semmai, come poté resistere tanto a lungo la società tedesca alle sirene del nazismo, con la comunità internazionale ben decisa a distruggerne la volontà di ripresa e la Lega delle Nazioni, comodo paravento giuridico-morale delle plutocrazie britannica e francese, a fare da cane da guardia alle assurde decisioni politiche e territoriali della Conferenza di Versailles.

Tale il contesto del decennio preso in esame da Kohn (1923-33), e che egli chiama “la marcia verso l’abisso”, attribuendone tutta la responsabilità morale agli intellettuali tedeschi, che avrebbero dissennatamente predicato la violenza e l’esasperazione del darwinismo sociale e del machiavellismo politico. Egli conclude affermando che, per opera di Schmitt e di Spengler, penetrò nella cultura tedesca “una nuova concezione della politica, che riceveva il suo significato non più da quella che era considerata la vita normale della società, bensì da situazioni estreme. Il normale non tendeva più a controllare l’anormale”. Omette però di precisare che la Germania, a causa della miopia e dell’egoismo delle classi dirigenti britanniche, francesi e americane, da oltre un decennio non viveva affatto in una situazione “normale”; che potenti forze economico-finanziarie internazionali facevano di tutto per tenerla in una condizione di cronica e disperata anormalità.

Così pure, quando Spengler afferma che «La vita è dura. Essa lascia un’unica scelta, quella tra vittoria e sconfitta, non quella fra guerra e pace», Kohn omette di precisare che questa visione cinica e brutale della vita umana era stata ampiamente diffusa (anche se non “inventata”) dall’egoismo e dalla cecità dei vincitori di Versailles. Era stata la loro politica ad insegnare agli sconfitti la dura legge del vae victis, la legge inumana secondo la quale la pace è un lusso degli oziosi e degli imbelli o un’utopia dei sognatori, e che la sola cosa che conta è la forza. Per giunta, i brutali vincitori avevano ammantato tale machiavellismo con le vesti rispettabili dell’umanitarismo wilsoniano e della democrazia liberale, sanzionando a posteriori, con una capillare opera di propaganda e di diplomazia internazionale, il puro e semplice trionfo della forza. Come avrebbero fatto col processo di Norimberga (e con quello di Tokyo) alla fine della seconda guerra mondiale. Un processo ove i crimini tedeschi (e giapponesi) vennero giudicati dagli stessi vincitori, ragion per cui nessun fiatò sui crimini anglo-americani e sovietici.

Ma veniamo allo specifico, e cioè alle caratteristiche fondamentali della cultura tedesca nel decennio 1923-33, in cui Kohn vede solo e unicamente una marcia verso l’abisso, una preparazione del diluvio nazista, mentre gli sfuggono completamente le esigenze autentiche e legittime di rinnovamento che si esprimevano in quel contesto e con quella tradizione storica: elementi dai quali non è lecito prescindere, a meno di fare un’operazione culturale altamente anti-storica. Non entriamo ora nel merito della filosofia di Mueller, Spengler, Schmitt, e neanche di Jünger, Wittgenstein o Gogarten, perché ciò esulerebbe, e di molto, dai limiti che ci siamo prefissi. Desideriamo piuttosto far notare che questi autori (che, fra l’altro, non vanno arbitrariamente omologati, pena il perdere di vista la specificità intellettuale di ciascuno d’essi) testimoniano uno sforzo del pensiero per trovare nuove certezze dopo le tremende delusioni e i traumi del periodo precedente e, al tempo stesso, un tentativo di ridefinire lo spazio culturale della Mitteleuropa, e anche dell’Europa in generale, nei confronti di un “Occidente” sentito ormai come una realtà socio-culturale al tempo stesso obsoleta e artificiale. In questo senso, furono i promotori di un’autocritica del pensiero europeo: autocritica, ripetiamo, nata dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale; mentre nulla di simile fu neanche immaginato dalla cultura delle nazioni vincitrici, tutte intente a godersi il bottino di Versailles e, semmai, a giocare cinicamente sulle rivalità dei nuovi, piccoli Stati dell’Europa centrale (Cecoslovacchia, Jugoslavia, ecc.) sorti dallo sfacelo del vecchio ordine europeo.

È vero, gli intellettuali inglesi e francesi degli anni Venti non hanno seminato idee ultranazionaliste e guerrafondaie. Non ve n’era bisogno: la cultura di quei Paesi si godeva la meravigliosa sensazione di aver affrontato e superato una dura prova e, alla fine, di aver contribuito al trionfo della giustizia, della libertà, della democrazia. Gli intellettuali tedeschi – e, a maggior ragione, quelli austriaci o dell’area ex asburgica: Musil, Roth, Kafka, von Rezzori, Cioran – erano costretti a interrogarsi non solo sulla sconfitta e sulla disintegrazione della vecchia Mitteleuropa, ma anche sull’incipiente disintegrazione dello spirito europeo, sulla stessa disintegrazione dell’Io come soggetto unitario della coscienza. Avevano a che fare con una situazione estrema, e fecero del loro meglio per trovare un raggio di luce, una indicazione che li guidasse fuori dalla crisi, verso il futuro. Possiamo discutere la saggezza della via da essi battuta e dissentire da alcuni aspetti della loro polemica; tuttavia, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che non tutte le ragioni della loro polemica erano infondate.

Quando Spengler, ad esempio, affermava che “per Marx, come per gli inglesi, il lavoro era qualcosa da comprare e vendere, una merce dell’economia di mercato, mentre per i prussiani ogni lavoro, da quello del più alto funzionario a quello del più umile manovale, era un dovere, compiuto come un servizio reso alla comunità”, non ci sembra che dicesse cosa molto lontana dal vero. Anche l’osservazione che nel vecchio sistema prussiano erano impliciti elementi di socialismo e che, ad ogni modo, in Germania il senso dei valori collettivi prevaleva sull’individualismo, non era peregrina; come non era infondata la convinzione di Moeller che il regime bolscevico, per le sue istanze profonde antiplutocratiche, fosse – nonostante le apparenze – ideologicamente più vicino agli interessi e al sentire del popolo tedesco di quanto non lo fossero i sistemi liberal-democratici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. La polemica degli intellettuali tedeschi contro l’umanitarismo era sicuramente riprovevole, così come pericoloso il loro continuo soffiare sul fuoco del nazionalismo esasperato. Però bisogna rendersi conto di una cosa: essi sentivano il dovere di ricorrere a ogni mezzo per rimettere in piedi un popolo che era stato ridotto in ginocchio e che era tuttora vittima di una ingiustizia storica. La spettacolare crescita economica, culturale e sociale tedesca del Secondo Reich, fra il 1871 e il 1918 (sì, anche sociale: con una delle legislazioni del lavoro fra le più avanzate al mondo) era stata letteralmente strangolata da una coalizione mondiale che adesso era ben decisa a impedire che la Germania si rialzasse e tornasse a mettere in pericolo i privilegi acquisiti dalle potenze mondiali più vecchie.

Gli storici come H. Kohn, implicitamente o esplicitamente, rimproverano agli intellettuali tedeschi di quel periodo di non aver fatto nulla per convogliare le simpatie dei loro compatrioti verso gli istituti della democrazia. Così facendo, sembrano dimenticare un elemento fondamentale, che oggi si ripete in Iraq e in varie altre parti del mondo: la democrazia era stata, per la Germania, non il punto d’arrivo di un processo interno e naturale, ma la conseguenza della sconfitta e, in un certo senso, una imposizione dei vincitori. Quantomeno, gli Alleati si erano serviti della Repubblica democratica di Weimar per presentare al popolo tedesco il conto salatissimo della Conferenza di Versailles e della pace-capestro. Portata al potere dal doppio trauma della disfatta militare e del diktat dei vincitori, la Repubblica non era amata e, soprattutto, non era sentita come parte della tradizione storica nazionale.

Si può, naturalmente, chiamare in causa la scarsa maturità politica della classe dirigente tedesca e, più in generale, la tradizione filistea del ceto medio, sempre pronto – in particolare dal 1870 – ad applaudire il vincitore di turno, ossia qualunque governo capace di portare al successo l’affermazione dello Stato con la forza materiale. Questo, certamente, era il peccatum originalis del Secondo Reich: il “patto col diavolo” della borghesia tedesca che, nel 1866 e nel 1870, si era inchinata davanti alla politica di Bismarck solo perché, sul piano della pura forza, si era dimostrata vincente. Ma sarebbe antistorico e ingeneroso addossare tutte le colpe agli intellettuali che, negli anni Venti, dovettero procedere alla liquidazione del vecchio mondo e delle vecchie certezze a prezzi fallimentari; e che, contemporaneamente, dovettero cercare in tutta fretta di fornire nuovi orientamenti al loro popolo traumatizzato e demoralizzato.

Più in generale, ci sembra che la vicenda della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” segni l’ultimo sprazzo di vitalità della cultura europea, l’ultima sua reazione davanti alle forze inumane e omologanti che oggi chiamiamo della globalizzazione, ma che già allora venivano percepite come una americanizzazione del vecchio continente, capace di fare piazza pulita, in nome della borsa, del profitto e dei metodi tayloristici di organizzazione scientifica del lavoro, dell’anima stessa del vecchio continente. Si può interpretare l’opera filosofica di Mueller, Spengler, Schmitt e Jünger come una reazione, aristocratica e popolare al tempo stesso, contro gli aspetti più minaccioso della modernità, primo fra tutti il prevalere delle logiche del mercato su quelle della società civile, della quantità sulla qualità, dell’egoismo privato sull’interesse collettivo. In breve, si può interpretare il pensiero di quegli autori come un tentativo disperato, nostalgico e anti-moderno, di ripristinare i valori tramontati dell’aristocrazia davanti al trionfo degli aspetti più massificanti ed egoistici dello spirito borghese.

Certo, vi furono molte, troppe scorie all’interno di un tale tentativo; vi fu un uso irresponsabile di slogan aggressivi e razzisti; vi fu un disprezzo esagerato e irragionevole per tutto quanto, a torto o a ragione, era considerato parte di quello spirito borghese e, pertanto, parte di quel quadro internazionale che aveva penalizzato così duramente la patria tedesca. Vi furono molte semplificazioni assurde, molti facili luoghi comuni e un uso troppo disinvolto di formule dall’intrinseco potere distruttivo, che avrebbero sospinto alla catastrofe la società tedesca per la seconda volta nel volgere di una sola generazione. Però, lo ripetiamo, occorre tener conto della particolare situazione tedesca, anche sul piano internazionale. Da una parte la Russia staliniana, dall’altra i vincitori di Versailles, chiusi e sordi a ogni senso di equità e di saggezza, protesi unicamente a sfruttare al massimo i loro immensi imperi coloniali e i profitti giganteschi che la guerra stessa, come nel caso degli Stati Uniti, aveva portato loro.

La Germania, pertanto, si sentiva come una cittadella assediata e abbandonata alle sue risorse; o trovava in se stessa la forza di reagire, o sarebbe perita, forse per sempre. Questo videro i Mueller, gli Spengler e gli Schmitt. Bisognerebbe tener conto del dramma che stava vivendo il loro popolo, prima di giudicarli con una severità dettata dal senno di poi e da una serie di pregiudizi ideologici che derivano proprio dal fatto che la storia, una volta di più, l’hanno fatta e continuano a farla i vincitori. Basti pensare al destino riservato, circa vent’anni dopo, al cuore della Germania, la vecchia Prussia: smembrata, svuotata dei suoi abitanti con una spietata pulizia etnica, cancellata totalmente dalla carta geografica. Vae victis, appunto: gli Alleati, nel 1945 come nel 1918, non amavano i toni rozzi e aggressivi alla Spengler, ma agivano esattamente in base a quei criteri, brutali e machiavellici, che tanto li disgustavano quando a teorizzarli erano i Tedeschi.

Atlantis, Kush & Turan: Prehistoric Matrices of Ancient Civilizations in the Posthumous Work of Spengler

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Atlantis, Kush, & Turan:
Prehistoric Matrices of Ancient Civilizations in the Posthumous Work of Spengler

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Editor’s Note:

In this brief review essay, Robert Steuckers provides an introduction to Spengler’s writings on prehistory and early world history, which contain surprising theses, stunning metaphors, and quite interesting departures from The Decline of the West. These writings are almost unknown because they were never finished and were only published in incomplete form decades after Spengler’s death.

Oswald Spengler’s morphologies of cultures and civilizations in his most famous work, The Decline of the West, are widely known. However, Spengler’s positions changed after the publication of Decline. So claims the Italian Germanist Domenico Conte in his recent work on Spengler, Catene di civiltà: Studi su Spengler (Napoli: Ed. Scientifiche Italiane, 1994), which is a thorough study of the posthumous texts published by Anton Mirko Koktanek, especially Frühzeit der Weltgeschichte [The Early Period of World History], which gathers the fragments of a projected but never completed work The Epic of Man.

In his reflections immediately following the publication of The Decline of the West, Spengler distinguished four stages of human history which he designates simply as A, B, C, and D. Stage “A” lasted a hundred thousand years, from the first phases of hominization up to the lower Paleolithic. It is during this stage that the importance of the “hand” for man appears. It is, for Spengler, the age of Granite.

Stage “B” lasted ten thousand years and lay in the lower Paleolithic, between 20,000 and 7,000–6,000 BCE. During this age the concept of interior life was born: “then appeared the true soul, as unknown to men of stage ‘A’ as it is to a newborn baby.” In this stage in our history man was first “able to produce traces/memories” and to understand the phenomenon of death. For Spengler, it is the age of the Crystal. Stages “A” and “B” are inorganic.

Stage “C” lasted 3,500 years: it starts with the Neolithic era, running from the sixth millennium BCE to the third. It is the stage when thought started to be articulated in language and the most complex technological achievements became possible. In this stage are born “cultures” whose structures are “amoebic.”

Stage “D” is that of “world history” in the conventional sense of the term. It is the stage of “great civilizations,” each of which lasts approximately 1,000 years. These civilizations have structures of the “vegetable” type. Stages “C” and “D” are organic.

Spengler preferred this psychological-morphological classification to the classifications imposed by the directors of museums who subdivided the prehistoric and historical eras according to materials used for the manufacture of tools (stone, bronze, iron). In keeping with this psychological-morphological classification, Spengler also rejected the idea of the “slow, phlegmatic transformation” or continuous development, rooted in the progressivist ideas of the 18th century.

Evolution, for Spengler, is a matter of catastrophic blows, sudden irruptions, unexpected changes. “The history of the world proceeds from catastrophe to catastrophe, without any concern with whether we are able to understand them. Today, following H. de Vries, we call them ‘mutations.’ It is an internal transformation, which affects without warning all the members of a species, without ‘cause,’ naturally, like everything else in reality. Such is the mysterious rhythm of the world” (Man and Technics). There is thus no slow evolution but abrupt “epochal” transformations. Natura facit saltus [Nature makes leaps—Ed.].

Three Culture-Amoebas

In stage “C,” where the matrices of human civilization actually emerge, Spengler distinguishes three “culture-amoebas”: Atlantis, Kush, and Turan. This terminology appears only in his posthumous writings and letters. The civilizational matrices are “amoebas” and not “plants” because amoebas are mobile, not anchored to a particular place. The amoeba is an organism that continuously pulsates along an ever-shifting periphery. Then the amoeba subdivides itself as amoebas do, producing new individualities that move away from the amoeba-mother. This analogy implies that one cannot delimit with precision the territory of a civilization of stage “C,” because its amoebic emanations can be widely dispersed in space, extremely far away from the amoeba-mother.

“Atlantis” is the “West” and extends from Ireland to Egypt. “Kush” is the “South-east,” an area ranging between India and the Red Sea. “Turan” is the “North,” extending from Central Europe to China. Spengler, explains Conte, chose this terminology recalling “old mythological names” in order not to confuse them with later historical regions of the “vegetable” type, which are geographically rooted and circumscribed, whereas they are dispersed and not precisely localized.

Spengler does not believe in the Platonic myth of Atlantis, the sunken continent, but notes that an ensemble of civilizational remnants are locatable in the West, from Ireland to Egypt. “Kush” is a name that one finds in the Old Testament to indicate the territory of the ancient Nubians, the area inhabited by the Kushites. But Spengler places the culture-amoeba “Kush” more to the East, in an area between Turkestan, Persia, and India, undoubtedly inspired by the anthropologist Frobenius. As for “Turan,” it is “North,” the Turanic high-plateau, which he thought was the cradle of the Indo-European and Ural-Altaic languages. It is from there that the migrations of “Nordic” peoples departed (Spengler is not without racial connotations) to descend on Europe, India, and China.

Atlantis: Hot and Mobile; Kush: Tropical and Content

Atlantis, Kush, and Turan are cultures bearing morphological principles emerging mainly in the spheres of religion and the arts. The religiosity of Atlantis “hot and mobile,” is centered on the worship of the dead and the preeminence of the ultra-telluric sphere. The forms of burials, notes Conte, testify to the intense relationship with the world of the dead: The tombs always have a high profile, or are monumental; the dead are embalmed and mummified; food is left or brought for them. This obsessional relationship with the chain of ancestors leads Spengler to theorize the presence of a “genealogical” principle. The artistic expressions of Atlantis, adds Conte, are centered on stone constructions, as gigantic as possible, made for eternity, signs of a feeling of life which is not turned towards a heroic surpassing of limits, but towards a kind of “inert complacency.”

Kush developed a “tropical” and “content” religion. The problem of ultra-telluric life is regarded with far less anxiety than in Atlantis, because in the culture-amoeba of Kush a mathematics of the cosmos dominates (of which Babylon will be the most imposing expression), where things are “rigidly given in advance.” Life after death is a matter of indifference. If Atlantis is a “culture of the tombs,” in Kush tombs have no significance. One lives and procreates but forgets the dead. The central symbol of Kush is the temple, from which priests scrutinize celestial mathematics. If in Atlantis, the genealogical principle dominates, if the gods and goddesses of Atlantis are father, mother, son, daughter, in Kush, the divinities are stars. A cosmological principle dominates.

Turan: The Civilization of Heroes

Turan is the civilization of heroes, animated by a “cold” religiosity, centered on the mysterious meaning of existence. Nature is filled with impersonal powers. For the culture-amoeba of Turan, life is a battlefield: “for the man of the North (Achilles, Siegfried),” Spengler writes, “only life before death, the fight against destiny, counts.” The divine-human relationship is no longer one of dependence: “prostration ceases, the head remains high; there is ‘I’ (man) and you (gods).”

Sons guard the memory of their fathers but do not leave food for their corpses. There is no embalming or mummification in this culture, but cremation. The bodies disappear, are hidden in underground burials without monuments, or are dispersed to the four winds. All that remains of the dead is their blood in the veins of their descendants. Turan is thus a culture without architecture, where temples and burials have no importance and where only the terrestrial meaning of existence matters. Man lived alone, confronted with himself, in his house of wood or in his nomad’s tent.

The War Chariot

Spengler reserved his sympathy for the culture-amoeba of Turan, whose bearers were characterized by the love of adventure, implacable will power, a taste for violence, and freedom from vain sentimentality. They are “men of facts.” The various peoples of Turan were not bound by blood ties or a common language. Spengler does not utilize archaeological and linguistic research aiming to find the original fatherland of the Indo-Europeans or at reconstituting the source language of all the current Indo-European idioms: the bond which links the people of Turan is technical; it is the use of the war chariot.

In a lecture given in Munich on February 6th, 1934 entitled “Der Streitwagen und the Seine Bedeutung für den Gang der Weltgeschichte” (“The War Chariot and its Significance for the Course of World History”), Spengler explains why this weapon constitutes the key to understanding the history of the second millennium BCE It is, he says, the first complex weapon: One needs a war chariot (with 2 wheels and not a less mobile carriage with 4 wheels), a domesticated and harnessed animal, a meticulously trained warrior who will henceforth strike his enemies from above. With the war chariot is born a type of new man. The chariot is a revolutionary invention on the military plane, but also the formative principle of a new humanity. The warriors became professional because the techniques they had to handle were complex, and they came together as a caste of those who love risk and adventure; they made war the meaning of their life.

The arrival of these castes of impetuous “charioteers” upset very ancient orders: the Achaeans invaded Greece and settled in Mycenae; the Hyksos burst into Egypt. To the East, the Kassites descended on Babylon. In India, the Aryans bore down on the subcontinent, “destroyed the cities,” and settled on the ruins of the civilization of Mohenjo Daro and Harappa. In China, the Zhou arrived from the north, mounted on their chariots, like the Hyksos and their Greek counterparts.

From 1,200 BCE, warlike princes reigned in China, in India, and in the ancient world of the Mediterranean. The Hyksos and Kassites conquered two older civilizations of the South. Then three new civilizations carried by “dominating charioteers” emerged: the Greco-Roman, the Aryan civilization of India, and the Chinese civilization resulting from Zhou. These new civilizations, whose princes came from North, Turan, are “more virile and energetic that those born on banks of the Nile and Euphrates.” According to Spengler, however, these warlike charioteers sadly succumbed to the seductions of the softening South.

A Common Heroic Substrate

The theory of the rough simultaneity of the invasions of Greece, Egypt, India, and China was shared by Spengler and the sinologist Gustav Haloun. Both held that there is a common substrate, warlike and chariot-borne, of Mediterranean, Indian, and Chinese civilizations. It is a “heroic” civilization, as shown by the weapons of Turan. They are different from those of Atlantis. In addition to the chariot, they are the sword and the axe, which imply duels between combatants, whereas in Atlantis, the weapons are the bow and arrow, that Spengler judges “vile” because they make it possible to avoid direct physical confrontation with the adversary, “to look him right in the eyes.”

In Greek mythology, Spengler claims, the bow and arrows are remnants of earlier, pre-Hellenic influences: Apollo the archer originated in Asia Minor; Artemis is Libyan, as is Hercules. The javelin is also “telamon” [= Atlantid] while the jousting lance is “Turanic.” To understand these distant times, the study of the weapons is more instructive than that of kitchen utensils or jewels, Spengler concludes.

The Turanic soul also derives from a particular climate and a hostile landscape. Man must fight unceasingly against the elements, thus becomes harder, colder, more wintry. Man is not only the product of a “genealogical chain,” but equally of a “landscape.” Climatic rigor develops “moral strength.” The tropics soften the character, bringing us closer to a nature perceived as more matriarchal, supporting female values.

Spengler’s  late writings and correspondence thus show that his views changed after the publication of The Decline of the West, where he valorized Faustian civilization to the detriment primarily of ancient civilization. His focus on the “chariot” gives a new dimension to his vision of history: the Greeks, the Romans, the Indo-Aryans, and the Chinese found favor in his eyes.

In The Decline of the West the mummification of the Pharaohs was considered as the Egyptian expression of a will to duration, which he opposed to the oblivion implied by Indian cremation. Later, he disdained “telamon” mummification as an obsession with the beyond, indicating an incapacity to face terrestrial life. “Turanic” cremation, on the other hand, indicates a will to focus one’s powers on real life.

A Change of Optics Dictated by Circumstances?

Spengler’s polycentric, relativistic, non-Eurocentric, non-evolutionist conception of history in The Decline of the West fascinated researchers and anthropologists outside the circles of the German right, particularly Alfred Kroeber and Ruth Benedict. His emphasis on the major historical role of castes of charioteers gives his late work a more warlike, violent, mobile dimension than revealed in Decline.

Can one attribute this change of perspective to the situation of a vanquished Germany, which sought to ally itself with the young USSR (from a Eurasian-Turanian perspective?), with India in revolt against Great Britain (that he formerly included in “Faustian civilization,” to which he then gave much less importance), with China of the “great warlords,” sometimes armed and aided by German officers?

Did Spengler, by the means of his lecture on the charioteers, seek to give a common mythology to German, Russian, Chinese, Mongolian, and Indian officers or revolutionaries in order to forge a forthcoming brotherhood of arms, just as the Russian “Eurasianists” tried to give the newborn Soviet Russia a similar mythology, implying the reconciliation of Turco-Turanians and Slavs? Is the radical valorization of the “Turanic” chariot charge is an echo of the worship of “the assault” found in “soldatic nationalism,” especially of the Jünger brothers and Schauwecker?

Lastly, why didn’t Spengler write anything on the Scythians, a people of intrepid warriors, masters of equestrian techniques, who fascinated the Russians and undoubtedly, among them, the theorists of the Eurasiansm? Finally, is the de-emphasis on racial factors in late Spengler due to a rancorous feeling toward the English cousins who had betrayed Germanic solidarity? Was it to promote a new mythology, in which the equestrian people of the continent, which include all ethnic groups (Mongolian Turco-Turanians, descendants of the Scythians, Cossacks and Germanic Uhlans), were to combine their efforts against the corrupt civilizations of the West and the South and against the Anglo-Saxon thalassocracies?

Don’t the obvious parallels between the emphasis on the war chariot and certain theses in Man and Technics amount to a concession to the reigning futuristic ideology, insofar as Spengler gives a technical rather than a religious explanation of the Turanian culture-amoeba? These are topics that the history of ideas will have to clarify in-depth.

Source: Nouvelles de Synergies européennes, no. 21, 1996.

vendredi, 01 octobre 2010

Financièrement, la Première Guerre mondiale se termine dimanche

Financièrement, la Première Guerre mondiale se termine dimanche

Ce dimanche 3 octobre 2010, les Allemands pourront enterrer officiellement la Première Guerre mondiale. C’est en effet ce jour-là que l’Allemagne soldera définitivement sa dette héritée de la Grande Guerre, près d’un siècle après le début de celle-ci, rapporte le journal allemand Bild.

«Le montant restant à payer est de 69,9 millions d’euros, une somme prévue au point 2.1.1.6 du budget fédéral 2010, intitulé « Dettes réglées à l’étranger »», précise le quotidien. «La plupart de l’argent ira à des particuliers, des fonds de pensions et des sociétés d’emprunts obligataires, comme convenu dans le cadre du traité de Versailles», ajoute The Daily Telegraph.

Une dépêche AFP relayée par Cyberpresse.ca expliquait l’année dernière pourquoi, 92 ans après la fin du conflit, l’Allemagne continue à payer. En 1919, le traité de Versailles imposait aux Allemands le paiement de 132 milliards de marks-or. Ruiné et frappé par une grave crise économique au début des années 1920, puis par la Grande Dépression, le pays était cependant incapable de s’acquitter de ces colossales réparations. L’Allemagne avait alors emprunté pour satisfaire aux exigences du traité.

En 1932, le moratoire Hoover annulait finalement ces réparations, mais il restait encore à l’Allemagne à rembourser les emprunts contractés pour leur paiement avant cette date.

 

L’Allemagne nazie avait cessé les remboursements pendant la Seconde Guerre mondiale. A l’issue de celle-ci, l’Accord de Londres signé en 1953 entre la RFA et une vingtaine d’autres pays renvoyait à l’après-réunification la question des remboursements. La charge des intérêts incombant encore à l’Allemagne devait être réglée sur une période de vingt ans après la réunification, qui n’était alors qu’une hypothèse.

Le 3 octobre 1990, la RFA et la RDA se sont réunifiées, et le paiement des intérêts a repris. Ainsi, «entre 1990 et 2010, presque 200 millions d’euros ont été payés» par l’Allemagne à ses créanciers, affirmait fin 2009 Boris Knapp, le porte-parole de l’Agence financière allemande, en charge de la dette. Dimanche, pour le vingtième anniversaire de sa réunification, l’Allemagne tournera donc une nouvelle page de son histoire.

Slate

(Merci à Erwinn)

lundi, 27 septembre 2010

Evola & Spengler

Evola & Spengler

by Robert STEUCKERS

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

evola.jpg“I translated from German, at the request of the publisher Longanesi . . . Oswald Spengler’s vast and celebrated work The Decline of the West. That gave the opportunity to me to specify, in an introduction, the meaning and the limits of this work which, in its time, had been world-famous.” These words begin a series of critical paragraphs on Spengler in Julius Evola’s The Way of Cinnabar (p. 177).

Evola pays homage to the German philosopher for casting aside “progressivist and historicist fancies” by showing that the stage reached by our civilization shortly after the First World War was not an apex, but, on the contrary, a “twilight.” From this Evola recognized that Spengler, especially thanks to the success of his book, made it possible to go beyond the linear and evolutionary conception of history. Spengler describes the opposition between Kultur and Zivilisation, “the former term indicating, for him, the forms or phases of a civilization that is qualitative, organic, differentiated, and vital, the latter indicating the forms of a civilization that is rationalist, urban, mechanical, shapeless, soulless” (p. 178).

Evola admired the negative description that Spengler gives of Zivilisation but is critical of the absence of a coherent definition of Kultur, because, he says, the German philosopher remained the prisoner of certain intellectual schemes proper to modernity. “A sense of the metaphysical dimension or of transcendence, which represents the essence of all true Kultur, was completely lacking in him” (p. 179).

Evola also reproaches Spengler’s pluralism; for the author of The Decline of the West, civilizations are many, distinct, and discontinuous compared to one another, each one constituting a closed unit. For Evola, this conception is valid only for the exterior and episodic aspects of various civilizations. On the contrary, he continues, it is necessary to recognize, beyond the plurality of the forms of civilization, civilizations (or phases of civilization) of the “modern” type, as opposed to civilizations (or phases of civilization) of the “Traditional” type. There is plurality only on the surface; at bottom, there is a fundamental opposition between modernity and Tradition.

Then Evola reproaches Spengler for being influenced by German post-romantic vitalist and “irrationalist” strains of thought, which received their most comprehensive and radical expression in the work of Ludwig Klages. The valorization of life is vain, explains Evola, if life is not illuminated by an authentic comprehension of the world of origins. Thus the plunge into existentiality, into Life, required by Klages, Bäumler, or Krieck, can appear dangerous and initiate a regressive process (one will note that the Evolian critique distinguishes itself from German interpretations, according exactly to the same criteria that we put forward while speaking about the reception of the work of Bachofen).

Evola thinks this vitalism leads Spengler to say “things that make one blush” about Buddhism, Taoism, Stoicism, and Greco-Roman civilization (which, for Spengler, is merely a civilization of “corporeity”). Lastly, Evola does not accept Spengler’s valorization of “Faustian man,” a figure born in the Age of Discovery, the Renaissance and humanism; by this temporal determination, Faustian man is carried towards horizontality rather than towards verticality. Regarding Caesarism, a political phenomenon of the era of the masses, Evola shares the same negative judgment as Spengler.

spengler_oswald.jpgThe pages devoted to Spengler in The Path of Cinnabar are thus quite critical; Evola even concludes that the influence of Spengler on his thought was null. Such is not the opinion of an analyst of Spengler and Evola, Attilio Cucchi (in “Evola, Tradizione e Spengler,” Orion no. 89, 1992). For Cucchi, Spengler influenced Evola, particularly in his criticism of the concept of the “West”: by affirming that Western civilization is not the civilization, the only civilization there is, Spengler relativizes it, as Guénon charges. Evola, an attentive reader of Spengler and Guénon, would combine elements of the the Spenglerian and Guénonian critiques. Spengler affirms that Faustian Western culture, which began in the tenth century, has declined and fallen into Zivilisation, which has frozen, drained, and killed its inner energy. America is already at this final stage of de-ruralized and technological Zivilisation.

It is on the basis of the Spenglerian critique of Zivilisation that Evola later developed his critique of Bolshevism and Americanism: If Zivilisation is twilight for Spengler, America is the extreme-West for Guénon, i.e., irreligion pushed to its ultimate consequences. In Evola, undoubtedly, Spenglerian and Guénonian arguments combine, even if, at the end of the day, the Guénonian elements dominate, especially in 1957, when the edition of The Decline of the West was published by Longanesi with a Foreword by Evola. On the other hand, the Spenglerian criticism of political Caesarism is found, sometimes word for word, in Evola’s books Fascism Seen from the Right and the Men Among the Ruins.

Dr. H. T. Hansen, the author of the Introduction to the German edition of Men Among the Ruins (Menschen inmitten von Ruinen [Tübingen: Hohenrain, 1991]), confirms the sights of Cucchi: several Spenglerian ideas are found in outline in Men Among the Ruins, notably the idea that the state is the inner form, the “being-in-form” of the nation; the idea that decline is measured to the extent that Faustian man has become a slave of his creations; the machine forces him down a path from which he can never turn back, and which will never allow him any rest. Feverishness and flight into the future are characteristics of the modern world (“Faustian” for Spengler) which Guénon and Evola condemn with equal strength.

In The Hour of Decision (1933), Spengler criticizes the Caesarism (in truth, Hitlerian National Socialism) as a product of democratic titanism. Evola wrote the Preface of the Italian translation of this work, after a very attentive reading. Finally, the “Prussian style” exalted by Spengler corresponds, according to Hansen, with the Evolian idea of the “aristocratic order of life, arranged hierarchically according to service.” As for the necessary preeminence of Grand Politics over economics, the idea is found in both authors. Thus the influence of Spengler on Evola was not null, despite what Evola says in The Path of Cinnabar.

Source: Nouvelles de Synergies européennes no. 21, 1996.

Note: Evola’s The Path of Cinnabar is now available in English translation from Arktos Media.

dimanche, 26 septembre 2010

Carl Schmitt: The End of the Weimar Republic

Carl Schmitt (part III)

The End of the Weimar Republic

Ex: http://www.alternativeright.com/

Carl Schmitt (part III)  
 
 Adolf Hitler Accepts the Weimar Chancellorship From President Paul von Hindenburg, January 30, 1933

Carl Schmitt accepted a professorship at the University of Berlin in 1928, having left his previous position at the University of Bonn. At this point, he was still only a law professor and legal scholar, and while highly regarded in his fields of endeavor, he was not an actual participant in the affairs of state. In 1929, Schmitt became personally acquainted with an official in the finance ministry named Johannes Popitz, and with General Kurt von Schleicher, an advisor to President Paul von Hindenburg.

Schleicher shared Schmitt’s concerns that the lack of a stable government would lead to civil war or seizure of power by the Nazis or communists. These fears accelerated after the economic catastrophe of 1929 demonstrated once again the ineptness of Germany’s parliamentary system. Schleicher devised a plan for a presidential government comprised of a chancellor and cabinet ministers that combined with the power of the army and the provisions of Article 48 would be able to essentially bypass the incompetent parliament and more effectively address Germany’s severe economic distress and prevent civil disorder or overthrow of the republic by extremists.

Heinrich Bruning of the Catholic Center Party was appointed chancellor by Hindenburg. The Reichstag subsequently rejected Bruning’s proposed economic reforms so Bruning set about to implement them as an emergency measure under Article 48. The Reichstag then exercised its own powers under Article 48 and rescinded Bruning’s decrees, and Bruning then dissolved the parliament on the grounds that the Reichstag had been unable to form a majority government. Such was the prerogative of the executive under the Weimar constitution.

In the years between 1930 and 1933, Carl Schmitt’s legal writings expressed concern with two primary issues. The first of these dealt with legal matters pertaining to constitutional questions raised by the presidential government Schleicher had formulated. The latter focused on the question of constitutional issues raised by the existence of anti-constitutional parties functioning within the context of the constitutional system.

Schmitt’s subsequent reputation as a conservative revolutionary has been enhanced by his personal friendship or association with prominent radical nationalists like Ernst Jünger and the “National Bolshevist” Ernst Niekisch, as well as the publication of Schmitt’s articles in journals associated with the conservative revolutionary movement during the late Weimar period. However, Schmitt himself was never any kind of revolutionary. Indeed, he spoke out against changes in the constitution of Weimar during its final years, believing that tampering with the constitution during a time of crisis would undermine the legitimacy of the entire system and invite opportunistic exploitation of the constitutional processes by radicals. His continued defense of the presidential powers granted by Article 48 was always intended as an effort to preserve the existing constitutional order.

The 1930 election produced major victories for the extremist parties. The communists increased their representation in the Reichstag from 54 to 77 seats, and the Nazis from 12 to 107 seats. The left-of-center Social Democrats (SPD) retained 143 seats, meaning that avowedly revolutionary parties were now the second and third largest parties in terms of parliamentary representation. The extremist parties never took their parliamentary roles seriously, but instead engaged in endless obstructionist tactics designed to de-legitimize the republic itself with hopes of seizing power once it finally collapsed. Meanwhile, violent street fighting between Nazi and communist paramilitary groups emerged as the numbers of unemployed Germans soared well into the millions.

In the April 1932 presidential election, Hitler stood against Hindenburg, and while Hindenburg was the winner, Hitler received an impressive thirty-seven percent of the vote. Meanwhile, the Nazis had become the dominant party in several regional governments, and their private army, the SA, had grown to the point where it was four times larger than the German army itself.

Schmitt published Legality and Legitimacy in 1932 in response to the rise of the extremist parties. This work dealt with matters of constitutional interpretation, specifically the means by which the constitutional order itself might be overthrown through the abuse of ordinary legal and constitutional processes. Schmitt argued that political constitutions represent specific sets of political values. These might include republicanism, provisions for an electoral process, church/state separation, property rights, freedom of the press, and so forth. Schmitt warned against interpreting the constitution in ways that allowed laws to be passed through formalistic means whose essence contradicted the wider set of values represented by the constitution.

Most important, Schmitt opposed methods of constitutional interpretation that would serve to create the political conditions under which the constitution itself could be overthrown. The core issue raised by Schmitt was the question of whether or not anti-constitutional parties such as the NSDAP or KPD should have what he called the “equal chance” to assume power legally. If such a party were to be allowed to gain control of the apparatus of the state itself, it could then use its position to destroy the constitutional order.

Schmitt argued that a political constitution should be interpreted according to its internal essence rather than strict formalistic adherence to its technical provisions, and applied according to the conditions imposed by the “concrete situation” at hand. On July 19, 1932, Schmitt published an editorial in a conservative journal concerning the election that was to be held on July 31. The editorial read in part:

Whoever provides the National Socialists with the majority on July 31, acts foolishly. … He gives this still immature ideological and political movement the possibility to change the constitution, to establish a state church, to dissolve the labor unions, etc. He surrenders Germany completely to this group….It would be extremely dangerous … because 51% gives the NSDAP a “political premium of incalculable significance.”

The subsequent election was an extremely successful one for the NSDAP, as they gained 37.8 percent of the seats in the parliament, while the KPD achieved 14.6 percent. The effect of the election results was that the anti-constitutional parties were in control of a majority of the Reichstag seats.

On the advice of General Schleicher, President Hindenburg had replaced Bruning as chancellor with Franz von Papen on May 30. Papen subsequently took an action that would lead to Schmitt’s participation in a dramatic trial of genuine historic significance before the supreme court of Germany.

Invoking Article 48, the Papen government suspended the state government of Prussia and placed the state under martial law. The justification for this was the Prussian regional government’s inability to maintain order in the face of civil unrest. Prussia was the largest of the German states, containing two-thirds of Germany’s land mass and three-fifths of its population. Though the state government had been controlled by the Social Democrats, the Nazis had made significant gains in the April 1932 election. Along the way, the Social Democrats had made considerable effort to block the rise of the Nazis with legal restrictions on their activities and various parliamentary maneuvers. There was also much violent conflict in Prussia between the Nazis and the Communists.

Papen, himself an anti-Nazi rightist, regarded the imposition of martial law as having the multiple purposes of breaking the power of the Social Democrats in Prussia, controlling the Communists, placating the Nazis by removing their Social Democratic rivals, and simultaneously preventing the Nazis from becoming embedded in regional institutions, particularly Prussia’s huge police force.

The Prussian state government appealed Papen’s decision to the supreme court and a trial was held in October of 1932. Schmitt was among three jurists who defended the Papen government’s policy before the court. Schmitt’s arguments reflected the method of constitutional interpretation he had been developing since the time martial law had been imposed during the Great War by the Wilhelmine government. Schmitt likewise applied the approach to political theory he had presented in his previous writings to the situation in Prussia. He argued that the Prussian state government had failed in its foremost constitutional duty to preserve public order. He further argued that because Papen had acted under the authority of President Hindenburg, Papen’s actions had been legitimate under Article 48.

Schmitt regarded the conflict in Prussia as a conflict between rival political parties. The Social Democrats who controlled the state government were attempting to repress the Nazis by imposing legal restrictions on them. However, the Social Democrats had also been impotent in their efforts to control violence by the Nazis and the communists. Schmitt rejected the argument that the Social Democrats were constitutionally legitimate in their legal efforts against the Nazis, as this simply amounted to one political party attempting to repress another. While the “equal chance” may be constitutionally denied to an anti-constitutional party, such a decision must be made by a neutral force, such as the president.

As a crucial part of his argument, Schmitt insisted that the office of the President was sovereign over the political parties and was responsible for preserving the constitution, public order, and the security of the state itself. Schmitt argued that with the Prussian state’s failure to maintain basic order, the situation in Prussia had essentially become a civil war between the political parties. Therefore, imposition of martial law by the chancellor, as an agent of the president, was necessary for the restoration of order.

Schmitt further argued that it was the president rather than the court that possessed the ultimate authority and responsibility for upholding the constitution, as the court possessed no means of politically enforcing its decisions. Ultimately, the court decided that while it rather than the president held responsibility for legal defense of the constitution, the situation in Prussia was severe enough to justify the appointment of a commissarial government by Papen, though Papen had not been justified in outright suspension of the Prussian state government. Essentially, the Papen government had won, as martial law remained in Prussia, and the state government continued to exist in name only.

During the winter months of 1932-33, Germany entered into an increasingly perilous situation. Papen, who had pushed for altering the constitution along fairly strident reactionary conservative lines, proved to be an extraordinarily unpopular chancellor and was replaced by Schleicher on December 3, 1932. But by this time, Papen had achieved the confidence of President von Hindenburg, if not that of the German public, while Hindenburg’s faith in Schleicher had diminished considerably. Papen began talks with Hitler, and the possibility emerged that Hitler might ascend to the chancellorship.

Joseph Bendersky summarized the events that followed:

By late January, when it appeared that either Papen or Hitler might become chancellor, Schleicher concluded that exceptional measures were required as a last resort. He requested that the president declare a state of emergency, ban the Nazi and Communist parties, and dissolve the Reichstag until stability could be restored. During the interim Schleicher would govern by emergency decrees. …

This was preferable to the potentially calamitous return of Papen, with his dangerous reform plans and unpopularity. It would also preclude the possibility that as chancellor Hitler would eventually usurp all power and completely destroy the constitution, even the nature of the German state, in favor of the proclaimed Third Reich. Had Hindenburg complied with Schleicher’s request, the president would have denied the equal chance to an anti-constitutional party and thus, in Schmitt’s estimate, truly acted as the defender of the constitution. … Having lost faith in Schleicher, fearing civil war, and trying to avoid violating his oath to uphold the constitution, Hindenburg refused. At this point, Schleicher was the only leader in a position to prevent the Nazi acquisition of power, if the president had only granted him the authorization. Consequently, Hitler acquired power not through the use of Article 48, but because it was not used against him.

[emphasis added]

The Schleicher plan had the full support of Schmitt, and was based in part on Schmitt’s view that “a constitutional system could not remain neutral towards its own basic principles, nor provide the legal means for its own destruction.” Yet the liberal, Catholic, and socialist press received word of the plan and mercilessly attacked Schleicher’s plan specifically and Schmitt’s ideas generally as creating the foundation for a presidential dictatorship, while remaining myopically oblivious to the immediate danger posed by Nazi and Communist control over the Reichstag and the possibility of Hitler’s achievement of executive power.

On January 30, 1933, Hitler became chancellor. That evening, Schmitt received the conservative revolutionary Wilhelm Stapel as a guest in his home while the Nazis staged a torchlight parade in Berlin’s Brandenburg Gate in celebration of Hitler’s appointment. Schmitt and Stapel discussed their alarm at the prospect of an imminent Nazi dictatorship and Schmitt felt the Weimar Republic had essentially committed suicide. If President von Hindenburg had heeded the advice of Schleicher and Schmitt, the Hitler regime would likely have never come into existence.

Carl Schmitt: The Concept of the Political

Carl Schmitt (Part II)

The Concept of the Political

 
 
Carl Schmitt (Part II) Carl Schmitt, circa 1928

It was in the context of the extraordinarily difficult times of the Weimar period that Carl Schmitt produced what are widely regarded as his two most influential books. The first of these examined the failures of liberal democracy as it was being practiced in Germany at the time. Schmitt regarded these failures as rooted in the weaknesses of liberal democratic theory itself. In the second work, Schmitt attempted to define the very essence of politics.

Schmitt's The Crisis of Parliamentary Democracy was first published in 1923.* In this work, Schmitt described the dysfunctional workings of the Weimar parliamentary system. He regarded this dysfunction as symptomatic of the inadequacies of the classical liberal theory of government. According to this theory as Schmitt interpreted it, the affairs of states are to be conducted on the basis of open discussion between proponents of competing ideas as a kind of empirical process. Schmitt contrasted this idealized view of parliamentarianism with the realities of its actual practice, such as cynical appeals by politicians to narrow self-interests on the part of constituents, bickering among narrow partisan forces, the use of propaganda and symbolism rather than rational discourse as a means of influencing public opinion, the binding of parliamentarians by party discipline, decisions made by means of backroom deals, rule by committee and so forth.

Schmitt recognized a fundamental distinction between liberalism, or "parliamentarianism," and democracy. Liberal theory advances the concept of a state where all retain equal political rights. Schmitt contrasted this with actual democratic practice as it has existed historically. Historic democracy rests on an "equality of equals," for instance, those holding a particular social position (as in ancient Greece), subscribing to particular religious beliefs or belonging to a specific national entity. Schmitt observed that democratic states have traditionally included a great deal of political and social inequality, from slavery to religious exclusionism to a stratified class hierarchy. Even modern democracies ostensibly organized on the principle of universal suffrage do not extend such democratic rights to residents of their colonial possessions. Beyond this level, states, even officially "democratic" ones, distinguish between their own citizens and those of other states.

At a fundamental level, there is an innate tension between liberalism and democracy. Liberalism is individualistic, whereas democracy sanctions the "general will" as the principle of political legitimacy. However, a consistent or coherent "general will" necessitates a level of homogeneity that by its very nature goes against the individualistic ethos of liberalism. This is the source of the "crisis of parliamentarianism" that Schmitt suggested. According to the democratic theory, rooted as it is in the ideas of Jean Jacques Rousseau, a legitimate state must reflect the "general will," but no general will can be discerned in a regime that simultaneously espouses liberalism. Lacking the homogeneity necessary for a democratic "general will," the state becomes fragmented into competing interests. Indeed, a liberal parliamentary state can actually act against the "peoples' will" and become undemocratic. By this same principle, anti-liberal states such as those organized according to the principles of fascism or Bolshevism can be democratic in so far as they reflect the "general will."

The Concept of the Political appeared in 1927. According to Schmitt, the irreducible minimum on which human political life is based.

The political must therefore rest on its own ultimate distinctions, to which all action with a specifically political meaning can be traced. Let us assume that in the realm of morality the final distinctions are between good and evil, in aesthetics beautiful and ugly, in economics profitable and unprofitable. […]

The specific political distinction to which political actions and motives can be reduced is that between friend and enemy. … In so far as it is not derived from other criteria, the antithesis of friend and enemy corresponds to the relatively independent criteria of other antitheses: good and evil in the moral sphere, beautiful and ugly in the aesthetic sphere, and so on. 

These categories need not be inclusive of one another. For instance, a political enemy need not be morally evil or aesthetically ugly. What is significant is that the enemy is the "other" and therefore a source of possible conflict.

The friend/enemy distinction is not dependent on the specific nature of the "enemy." It is merely enough that the enemy is a threat. The political enemy is also distinctive from personal enemies. Whatever one's personal thoughts about the political enemy, it remains true that the enemy is hostile to the collective to which one belongs. The first purpose of the state is to maintain its own existence as an organized collective prepared if necessary to do battle to the death with other organized collectives that pose an existential threat. This is the essential core of what is meant by the "political." Organized collectives within a particular state can also engage in such conflicts (i.e. civil war). Internal conflicts within a collective can threaten the survival of the collective as a whole. As long as existential threats to a collective remain, the friend/enemy concept that Schmitt considered to be the heart of politics will remain valid.

Schmitt has been accused by critics of attempting to drive a wedge between liberalism and democracy thereby contributing to the undermining of the Weimar regime's claims to legitimacy and helping to pave the way for a more overtly authoritarian or even totalitarian system of the kind that eventually emerged in the form of the Hitler dictatorship. He has also been accused of arguing for a more exclusionary form of the state, for instance, one that might practice exclusivity or even supremacy on ethnic or national grounds, and of attempting to sanction the use of war as a mere political instrument, independent of any normative considerations, perhaps even as an ideal unto itself. Implicit in these accusations is the idea that Schmitt’s works created a kind of intellectual framework that could later be used to justify at least some of the ideas of Nazism and even lead to an embrace of Nazism by Schmitt himself.

The expression "context is everything" becomes a quite relevant when examining these accusations regarding the work of Carl Schmitt. This important passage from the preface to the second edition of The Crisis of Parliamentary Democracy sheds light on Schmitt’s actual motivations:

That the parliamentary enterprise today is the lesser evil, that it will continue to be preferable to Bolshevism and dictatorship, that it would have unforeseen consequences were it to be discarded, that it is 'socially and technically' a very practical thing-all these are interesting and in part also correct observations. But they do not constitute the intellectual foundations of a specifically intended institution. Parliamentarianism exists today as a method of government and a political system. Just as everything else that exists and functions tolerably, it is useful-no more and no less. It counts for a great deal that even today it functions better than other untried methods, and that a minimum of order that is today actually at hand would be endangered by frivolous experiments. Every reasonable person would concede such arguments. But they do not carry weight in an argument about principles. Certainly no one would be so un-demanding that he regarded an intellectual foundation or a moral truth as proven by the question, “What else?”

This passage indicates that Schmitt was in fact wary of undermining the authority of the republic for its own sake or for the sake of implementing a revolutionary regime. Clearly, it would be rather difficult to reconcile such an outlook with the political millenarianism of either Marxism or National Socialism. The "crisis of parliamentary democracy" that Schmitt was addressing was a crisis of legitimacy. On what political or ethical principles does a liberal democratic state of the type Weimar establish its own legitimacy? This was an immensely important question, given the gulf between liberal theory and parliamentary democracy as it was actually being practiced in Weimar, the conflicts between liberal practice and democratic theories of legitimacy as they had previously been laid out by Rousseau and others and, perhaps most importantly, the challenges to liberalism and claims to "democratic" legitimacy being made at the time by proponents of revolutionary ideologies of both the Left and the Right.

Schmitt observed that democracy, broadly defined, had triumphed over older systems, such as monarchy, aristocracy and theocracy, by trumpeting its principle of "popular sovereignty." However, the advent of democracy had also undermined older theories on the foundations of political legitimacy, such as those rooted in religion ("divine right of kings"), dynastic lineages or mere appeals to tradition. Further, the triumphs of both liberalism and democracy had brought into fuller view the innate conflicts between the two. There is also the additional matter of the gap between the practice of politics (such as parliamentary procedures) and the ends of politics (such as the "will of the people").

Schmitt observed how parliamentarianism as a procedural methodology had a wide assortment of critics, including those representing the forces of reaction (royalists and clerics, for instance) and radicalism (from Marxists to anarchists). Schmitt also pointed out that he was by no means the first thinker to recognize these issues, citing Mosca, Jacob Burckhardt, Hilaire Belloc, G. K. Chesterton, and Michels, among others.

A fundamental question that concerned Schmitt is the matter of what the democratic "will of the people" actually means, and he observed that an ostensibly democratic state could adopt virtually any set of policy positions, "whether militarist or pacifist, absolutist or liberal, centralized or decentralized, progressive or reactionary, and again at different times without ceasing to be a democracy." He also raised the question of the fate of democracy in a society where "the people" cease to favor democracy. Can democracy be formally renounced in the name of democracy? For instance, can "the people" embrace Bolshevism or a fascist dictatorship as an expression of their democratic "general will"?

The flip side of this question asks whether a political class committed in theory to democracy can act undemocratically (against "the will of the people"), if the people display an insufficient level of education in the ways of democracy. How is the will of the people to be identified in the first place? Is it not possible for rulers to construct a "will of the people" of their own through the use of propaganda?

For Schmitt, these questions were not simply a matter of intellectual hair-splitting but were of vital importance in a weak, politically paralyzed liberal democratic state where the commitment of significant sectors of both the political class and the public at large to the preservation of liberal democracy was questionable, and where the overthrow of liberal democracy by proponents of other ideologies was a very real possibility.

Schmitt examined the claims of parliamentarianism to democratic legitimacy. He describes the liberal ideology that underlies parliamentarianism as follows:

It is essential that liberalism be understood as a consistent, comprehensive metaphysical system. Normally one only discusses the economic line of reasoning that social harmony and the maximization of wealth follow from the free economic competition of individuals. ... But all this is only an application of a general liberal principle...: That truth can be found through an unrestrained clash of opinion and that competition will produce harmony.

For Schmitt, this view reduces truth to "a mere function of the eternal competition of opinions." After pointing out the startling contrast between the theory and practice of liberalism, Schmitt suggested that liberal parliamentarian claims to legitimacy are rather weak and examined the claims of rival ideologies. Marxism replaces the liberal emphasis on the competition between opinions with a focus on competition between economic classes and, more generally, differing modes of production that rise and fall as history unfolds. Marxism is the inverse of liberalism, in that it replaces the intellectual with the material. The competition of economic classes is also much more intensified than the competition between opinions and commercial interests under liberalism. The Marxist class struggle is violent and bloody. Belief in parliamentary debate is replaced with belief in "direct action." Drawing from the same rationalist intellectual tradition as the radical democrats, Marxism rejects parliamentarianism as a sham covering the dictatorship of a particular class, i.e. the bourgeoisie. “True” democracy is achieved through the reversal of class relations under a proletarian state that rules in the interest of the laboring majority. Such a state need not utilize formal democratic procedures, but may exist as an "educational dictatorship" that functions to enlighten the proletariat regarding its true class interests.

Schmitt contrasted the rationalism of both liberalism and Marxism with irrationalism. Central to irrationalism is the idea of a political myth, comparable to the religious mythology of previous belief systems, and originally developed by the radical left-wing but having since been appropriated in Schmitt’s time by revolutionary nationalists. It is myth that motivates people to action, whether individually or collectively. It matters less whether a particular myth is true than if people are inspired by it.

At the close of Crisis, Schmitt quotes from a speech by Benito Mussolini from October 1922, shortly before the March on Rome. Said the Duce:

 

We have created a myth, this myth is a belief, a noble enthusiasm; it does not need to be reality, it is a striving and a hope, a belief and courage. Our myth is the nation, the great nation which we want to make into a concrete reality for ourselves.

Whatever Schmitt might have thought of movements of the radical Right in the 1920s, it is clear enough that his criticisms of liberalism were intended not so much as an effort to undermine democratic legitimacy so much as an effort to confront its inherent weaknesses with candor and intellectual rigor.

Schmitt also had no illusions about the need for strong and decisive political authority capable of acting in the interests of the nation during perilous times. As he remarks,

If democratic identity is taken seriously, then in an emergency no other constitutional institution can withstand the sole criterion of the peoples' will, however it is expressed.

In other words, the state must first act to preserve itself and the general welfare and well-being of the people at large. If necessary, the state may override narrow partisan interests, parliamentary procedure or, presumably, routine electoral processes. Such actions by political leadership may be illiberal, but they are not necessarily undemocratic, as the democratic general will does not include national suicide. Schmitt outlined this theory of the survival of the state as the first priority of politics in The Concept of the Political. The essence of the "political" is the existence of organized collectives prepared to meet existential threats to themselves with lethal force if necessary. The "political" is different from the moral, the aesthetic, the economic, or the religious as it involves, first and foremost, the possibility of groups of human beings killing other human beings.

This does not mean that war is necessarily "good" or something to be desired or agitated for. Indeed, it may often be in the political interests of a state to avoid war. However, any state that wishes to survive must be prepared to meet challenges to its existence, whether from conquest or domination by external forces or revolution and chaos from internal forces. Additionally, a state must be capable of recognizing its own interests and assume sole responsibility for doing so. A state that cannot identify its enemies and counter enemy forces effectively is threatened existentially.

Schmitt's political ideas are, of course, more easily understood in the context of Weimar's political situation. He was considering the position of a defeated and demoralized German nation that was unable to defend itself against external threats, and threatened internally by weak, chaotic and unpopular political leadership, economic hardship, political and ideological polarization and growing revolutionary movements, sometimes exhibiting terrorist or fanatical characteristics.

Schmitt regarded Germany as desperately in need of some sort of foundation for the establishment of a recognized, legitimate political authority capable of upholding the interests and advancing the well-being of the nation in the face of foreign enemies and above domestic factional interests. This view is far removed from the Nazi ideas of revolution, crude racial determinism, the cult of the leader, and war as a value unto itself. Schmitt is clearly a much different thinker than the adherents of the quasi-mystical nationalism common to the radical right-wing of the era. Weimar's failure was due in part to the failure of the political leadership to effectively address the questions raised by Schmitt. 

______________

 

 

*The German title -- Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus -- literally means “the historical-spiritual condition of contemporary parliamentarianism.” The common rendering, “The Crisis of Parliamentary Democracy,” is certainly more euphonious, though it is problematic since one of Schmitt’s central points in the book is that parliamentarianism is not democratic.   

Carl Schmitt - Weimar: State of Exception

Carl Schmitt (Part I)

Weimar: State of Exception

 
 
 
Carl Schmitt (Part I) Carl Schmitt, the Return of the German Army Following World War I (photo: BBC)

Among the many fascinating figures that emerged from the intellectual culture of Germany’s interwar Weimar Republic, perhaps none is quite as significant or unique as Carl Schmitt. An eminent jurist and law professor during the Weimar era, Schmitt was arguably the greatest political theorist of the 20th century. He is also among the most widely misinterpreted or misunderstood.

The misconceptions regarding Schmitt are essentially traceable to two issues. The first of these is obvious enough: Schmitt’s collaboration with the Nazi regime during the early years of the Third Reich. The other reason why Schmitt’s ideas are so frequently misrepresented, if not reviled, in contemporary liberal intellectual circles may ultimately be the most important. Schmitt’s works in political and legal theory provide what is by far the most penetrating critique of the ideological and moral presumptions of modern liberal democracy and its institutional workings.

Like his friend and contemporary Ernst Junger, Schmitt lived to a very old age. His extraordinarily long life allowed him to witness many changes in the surrounding world that were as rapid as they were radical. He was born in 1888, the same year that Wilhelm II became the emperor of Germany, and died in 1985, the year Mikhail Gorbachev became the final General Secretary of the Communist Party of the Soviet Union. Schmitt wrote on legal and political matters for nearly seven decades. His earliest published works appeared in 1910 and his last article was published in 1978. Yet it is his writings from the Weimar period that are by far the most well known and, aside from his works during his brief association with the Nazis, his works during the Weimar era are also his most controversial.

Not only is it grossly inaccurate to regard Schmitt merely as a theoretician of Nazism, but it is also problematical even to characterize him as a German nationalist. For one thing, Schmitt originated from the Rhineland and his religious upbringing was Catholic, which automatically set him at odds both regionally and religiously with Germany’s Protestant and Prussian-born elites. As his biographer Joseph Bendersky noted, Schmitt’s physical appearance was “far more Latin than Germanic” and he had French-speaking relatives. Schmitt once said to the National-Bolshevik leader Ernst Niekisch, “I am Roman by origin, tradition, and right.”

At age nineteen, Schmitt entered the prestigious University of Berlin, which was exceedingly rare for someone with his lower middle-class origins, and on the advice of his uncle chose law as his area of specialization. This choice seems to have initially been the result of ambition rather than specificity of interest. Schmitt received his law degree in 1910 and subsequently worked as a law clerk in the Prussian civil service before passing the German equivalent of the bar examination in 1915. By this time, he had already published three books and four articles, thereby foreshadowing a lifetime as a highly prolific writer.

Even in his earliest writings, Schmitt demonstrated himself as an anti-liberal thinker. Some of this may be attributable to his precarious position as a member of Germany’s Catholic religious minority. As Catholics were distrusted by the Protestant elites, they faced discrimination with regards to professional advancement. Schmitt may therefore have recognized the need for someone in his situation to indicate strong loyalty and deference to the authority of the state. As a Catholic, Schmitt originated from a religious tradition that emphasized hierarchical authority and obedience to institutional norms.

Additionally, the prevailing political culture of Wilhelmine Germany was one where the individualism of classical liberalism and its emphasis on natural law and “natural rights” was in retreat in favor of a more positivist conception of law as the product of the sovereign state. To be sure, German legal philosophers of the period did not necessarily accept the view that anything decreed by the state was “right” by definition. For instance, neo-Kantians argued that just law preceded rather than originated from the state with the state having the moral purpose of upholding just law. Yet German legal theory of the time clearly placed its emphasis on authority rather than liberty.

Schmitt’s most influential writings have as their principal focus the role of the state in society and his view of the state as the essential caretaker of civilization. Like Hobbes before him, Schmitt regarded order and security to be the primary political values and Schmitt has not without good reason been referred to as the Hobbes of the 20th century. His earliest writings indicate an acceptance of the neo-Kantian view regarding the moral purpose of the state. Yet these neo-Kantian influences diminished as Schmitt struggled to come to terms with the events of the Great War and the Weimar Republic that emerged at the war’s conclusion.

Schmitt himself did not actually experience combat during the First World War. He had initially volunteered for a reserve unit but an injury sustained during training rendered him unfit for battle; Schmitt spent much of the war in Munich in a non-combatant capacity. Additionally, Schmitt was granted an extended leave of absence to serve as a lecturer at the University of Strassburg.

As martial law had been imposed in Germany during the course of the war, Schmitt’s articles on legal questions during this time dealt with the implications of this for legal theory and constitutional matters. Schmitt argued that the assumption of extraordinary powers by military commanders was justified when necessary for the preservation of order and the security of the state. However, Schmitt took the carefully nuanced view that such powers are themselves limited and temporary in nature. For instance, ordinary constitutional laws may be temporarily suspended and temporary emergency decrees enacted in the face of crisis, but only until the crisis is resolved. Nor can the administrators of martial law legitimately replace the legislature or the legal system, and by no means can the constitutional order itself be suspended.

Carl Schmitt was thirty years old in November of 1918 when Kaiser Wilhelm II abdicated and a republic was established. To understand the impact of these events on Schmitt’s life and the subsequent development of his thought, it is necessary to first understand the German political culture from which Schmitt originated and the profoundly destabilizing effect that the events of 1918 had on German political life.

Contemporary Westerners, particularly those in the English-speaking countries, are accustomed to thinking of politics in terms of elections and electoral cycles, parliamentary debates over controversial issues, judicial rulings, and so forth. Such was the habit of German thinkers in the Wilhelmine era as well, but with the key difference that politics was not specifically identified with the state apparatus itself.

German intellectuals customarily identified “politics” with the activities surrounding the German Reichstag, or parliament, which was subordinated to the wider institutional structures of German statecraft. These were the monarchy, the military, and the famous civil service bureaucracy, with the latter headed up primarily by appointees from the aristocracy. This machinery of state stood over and above the popular interests represented in the Reichstag, and pre-Weimar Germans had no tradition of parliamentary supremacy of the kind on which contemporary systems of liberal democracy are ostensibly based.

The state was regarded as a unifying force that provided stability and authority while upholding the interests of the German nation and keeping in check the fragmentation generated by quarrelling internal interests. This stability was eradicated by Germany’s military defeat, the imposition of the Treaty of Versailles, and the emergence of the republic.

The Weimar Republic was unstable from the beginning. The republican revolution that had culminated in the creation of a parliamentary democracy had been led by the more moderate social democrats, which were vigorously opposed by the more radical communists from the left and the monarchists from the right.

The Bolshevik Revolution had taken place in Russia in 1917, a short-lived communist regime took power in Hungary in 1919, and a series of communist uprisings in Germany naturally made upwardly mobile middle-class persons such as Schmitt fearful for their political and economic futures as well as their physical safety. During this time Schmitt published Political Romanticism where he attacked what he labeled as “subjective occasionalism.” This was a term Schmitt coined to describe the common outlook of German intellectuals who sought to remain apolitical in the pursuit of private interests or self-fulfillment. This perspective regarded politics as merely the prerogative of the state, and not as something the individual need directly engage himself with. Schmitt had come to regard this as an inadequate and outmoded outlook given the unavoidable challenges that Germany’s political situation had provided.

Schmitt published Dictatorship in 1921. This remains a highly controversial work and subsequent critics of Schmitt who dismiss him as an apologist for totalitarianism or who attack him for having created an intellectual framework conducive to the absolute rule of the Fuhrer during the Nazi period have often cited this particular work as evidence. However, Schmitt’s conception of “dictatorship” dealt with something considerably more expansive and abstract than what is implied by the term in present day popular (or often academic) discourse.

For Schmitt, a “dictatorship” is a situation where a particular constitutional order has either been abrogated or has fallen into what Schmitt referred to as a “state of exception.” As examples of the first kind of situation, Schmitt offered both the Leninist model of revolution and the National Assembly that had constructed the constitutional framework of Weimar. In both instances, a previously existing constitutional order had been dismissed as illegitimate, yet a new constitutional order had yet to be established. A sovereign dictatorship of this type functions to

represent the will of these formless and disorganized people, and to create the external conditions which permit the realization of the popular will in the form of a new political or constitutional system. Theoretically, a sovereign dictatorship is merely a transition, lasting only until the new order has been established.

By this definition, a “sovereign dictatorship” could include political forces as diverse as the Continental Congresses of the period of the American Revolution to the anarchist militias and workers councils that emerged in Catalonia during the Spanish civil war to guerrilla armies holding power in a particular region where the previously established government has retreated or collapsed during the course of an armed insurgency. Schmitt also advanced the concept of a “commissarial dictatorship” as opposed to a “sovereign dictatorship.”

Schmitt used as an illustration of this idea Article 48 from the Weimar constitution. This article allowed the German president to rule by decree in states of emergency where threats to the immediate security of the state or public order were involved. As he had initially suggested in his wartime articles concerning the administration of martial law, Schmitt regarded such powers as limited and temporary in nature and as rescinded by the wider constitutional order once the emergency situation has passed. Contrary to the image of Schmitt as a totalitarian apologist, Schmitt warned of the inherent dangers represented by the powers granted to the president under Article 48, noting that such powers could be used to attack and destroy the constitutional order itself.

The following year, in 1922, Schmitt published Political Theology. This work advanced two core arguments. The first of these was a challenge to the legal formalism represented by German jurists of the era such as Hans Kelsen. Kelsen’s outlook was not unlike that of contemporary American critics of “judicial activism” who regard law as normative unto itself and insist legal interpretation should be restricted to pure law as derived from constitutional texts and statutory legislation, irrespective of wider or related political, sociological or moral concerns. Schmitt considered this to be a naïve outlook that failed to consider two crucial and unavoidable matters: the reality and inevitability of political and social change, and exceptional cases. It was the latter of these that Schmitt was especially concerned with. It was the question of the “state of exception” that continued to be a preoccupation of Schmitt.

Exceptional cases involved situations where emergencies threatened the state itself. For Schmitt, the maintenance of basic order preceded constitutional norms and legal formalities. There is no constitution or law if there is chaos. The important question regarding exceptional cases was the matter of who decides when an emergency situation exists. Schmitt regarded this decision-making power as the prerogative of the sovereign. Within the constitutional framework of Weimar, sovereignty was held jointly by the Reich president and the Reichstag, meaning that the president could legitimately declare a state of emergency and temporarily rule by decree if the Reichstag agreed to grant him such powers.

While Schmitt was certainly a thinker of the Right, it is a mistake to group him together with proponents of the “conservative revolution” such as Moeller van den Bruck, Oswald Spengler, Edgar Jung, or Hugo von Hofmannsthal. There is no evidence of him having expressed affinity for the views of these thinkers or joining any of the organizations that emerged to promote their ideas. Schmitt’s conservatism was squarely within the Machiavellian tradition, and he counted Machiavelli, Hobbes, Jean Bodin and conservative counterrevolutionaries such as Joseph De Maistre and Juan Donoso Cortes as his influences.

During the Weimar era, Schmitt expressed no sympathy for the mystical nationalism of the radical Right, much less the vulgar racism and anti-Semitism of the Nazi movement. He was closer to the anti-liberal thinkers that James Burnham and others subsequently labeled as “the neo-Machiavellians.” These included Vilfredo Pareto, Robert Michels, Gaetano Mosca, and Georges Sorel along with aristocratic conservatives like Max Weber. These thinkers expressed skepticism regarding the prospects of liberalism and democracy and emphasized the role of elites, the irrational, and the power of myth with regards to the political. Though Schmitt never joined a political party during the Weimar era, within the spectrum of German politics of the time he can reasonably be categorized as something of a moderate. He had admirers on both the far Right and far Left, including sympathizers with the Conservative Revolution as well as prominent intellectuals associated with the Marxist Frankfurt School, such as Walter Benjamin, Franz Neumann, and Otto Kirchheimer.

Schmitt’s own natural affinities were mostly likely closest to the Catholic Center Party, which along with the Social Democrats who had led the revolution of 1918 were the most consistently supportive of the republic and the constitutional order, and which represented the broadest cross-section of economic, class, regional, and institutional interests of any of the major parties during Weimar.

Like Hobbes before him, Schmitt was intensely focused on how order might be maintained in a society prone to chaos. Both economic turmoil and political instability continually plagued the republic. Successive political coalitions failed in their efforts to create a durable government and chancellors came and went. The Reichstag was immobilized by the intractable nature of political parties representing narrow class, ideological, or economic interests and possessing irreconcilable differences with one another. Additionally, many of the political parties that formed during the Weimar era, including those with substantial representation in the Reichstag, possessed little or no genuine commitment to the preservation of the republican order itself. Extremist parties, most notably the German Communist Party (KPD) and the National Socialist German Workers Party (NSDAP), or the Nazis, as they came to be called, openly advocated its overthrow. Terrorism was practiced by extremists from both the right and left. Crisis after crisis appeared during the Weimar period, and the parliament was each time unable to deal with the latest emergency situation effectively. The preservation of order subsequently fell to the president. Article 48 of the constitution stated in part:

If a state does not fulfill the duties imposed by the Reich constitution or the laws of the Reich, the Reich president may enforce such duties with the aid of the armed forces. In the event that public order and security are seriously disturbed or endangered, the Reich president may take the necessary measures in order to restore public security and order, intervening, if necessary, with the aid of the armed forces. To achieve this goal, he may temporarily suspend entirely or in part, the stipulated basic rights in articles 114, 115, 117, 118, 123, 124, and 153. All measures undertaken in accordance with sections 1 or 2 of this article must be immediately reported to the Reichstag by the Reich president. These measures are to be suspended if the Reichstag so demands.

As an indication of the unstable nature of the Weimar republic, Article 48 was invoked more than two hundred and fifty times by successive presidents during the republic’s fifteen years of existence.

samedi, 25 septembre 2010

Sonderheft "Sezession": Sarrazin lesen

Sonderheft Sezession: Sarrazin lesen

Sarrazin Titel 121x200 Sonderheft Sezession: Sarrazin lesenMan möchte in der seltsamerweise noch immer unentschiedenen Schlacht um Sarrazin wahrlich nicht zum Jubelperser verkommen und alles abklatschen, was zugunsten des mutigen Bundesbänkers vorgebracht wird. Wer solches beim Blick in unser Netz-Tagebuch befürchtete (nur Kositza und Wolfschlag entziehen sich mit ihren Beiträgen dem Sog) sei hiermit beruhigt: Wir haben viel Kritik an Sarrazin auf Lager – er geht einfach nicht weit genug in seinen Schlußfolgerungen.

Um das behaupten zu können, muß man die 460 Seiten seines Buchs zunächst lesen. Acht unserer Autoren haben das getan (oder sind noch dabei) und eine vorläufige Bestandsaufnahme legte uns die kurzfristige Erarbeitung eines Sezession-Sonderhefts nahe. Sarrazin lesen – Was steckt in Deutschland schafft sich ab heißen die 44 Seiten, die wir Anfang Oktober ausliefern können. Der Inhalt:

Redaktion: Chronik der Ereignisse – Abfolge der Stellungnahmen
Thorsten Hinz: Sarrazin lesen – eine Buchkritik
Markus Abt: Debatten vor und nach Sarrazin
Redaktion: „Dies alles ist nicht neu“ – wovor wer wo wann warnte
Karlheinz Weißmann: Öffentliche, veröffentlichte und verborgene Meinung
Andreas Vonderach: Die Sache mit den Genen
Martin Lichtmesz: Die Faschismuskeule bleibt im Sack …
Johannes Ludwig: Die Chancen einer „Liste Sarrazin“
Redaktion: Lektüreempfehlungen um Sarrazin

Das Heft kostet 9 Euro, bestellen kann man es hier.

Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?

Un nouveau destin pour le port et la ville de Hambourg? La métropole allemande deviendra-t-elle l'avant-poste de l'Extrême-Orient en Europe? Une "nouvelle Hanse" est-elle en gestation? Comment cela se réalisera-t-il? Un groupe d'architectes, rassemblés autour des époux VOLKENBORN, projettent, avec l'aide officielle du Sénat de la ville, de construire sur les rives de l'Elbe, dans le faubourg d'Altona, un nouveau port qui sera simultanément gare terminale du Transsibérien.

 

Le port de Hambourg connaît de sérieuses difficultés économiques: sur une longueur de 6 km, site envisagé pour la gare terminale du Transsibérien, les grues rouillent et les quais s'effritent. Les forces vives doivent émigrer et le chômage guette ceux qui restent. Hambourg est en cela une sorte de microcosme de l'Europe industrielle. Deux projets existent à l'heure actuelle pour effacer du paysage nord-allemand ce site déshérité: le premier envisage d'y installer un gigantesque lunapark; le second, nous venons de le révéler, c'est d'y construire une installation portuaire et ferroviaire telle, qu'elle révolutionnera le trafic international comme jadis le creusement des canaux de Suez et de Panama.

 

Le Groupe des VOLKENBORN envisage de construire une île artificielle face au vieux port désaffecté, d'où partiraient des voies larges de chemin de fer (identiques à celles du Transsib') qui conduiraient à Lübeck, le port baltique. De là, un ferry transporterait les trains jusqu'à Klaipeda (Memel) en Lituanie soviétique. Dès leur débarquement à Klaipeda, les trains retrouveraient la voie la plus longue du monde, le Transsibérien, qui pourra les conduire jusqu'au rives du Pacifique, en face du Japon.

 

Hambourg deviendrait ainsi la plaque tour-nante d'un circuit d'échanges eurasiens: les marchandises d'Extrême-Orient y seraient débarquées à destination de l'Europe et de l'Afrique tandis que les marchandises européennes et africaines y seraient embarquées à destination des marchés soviétique, chinois et japonais. A plus grande échelle, Hambourg et Lübeck retrouveraient leur rôle du temps de la Hanse: échanger des fourrures russes contre du drap anglais ou flamand.

 

De leur côté, les Soviétiques, qui ont en-tamé des négociations avec les Allemands, veillent à terminer le BAM (Baïkal-Amour-Magistral), une ligne de chemin de fer ultra-moderne, tracée au nord du Transsibérien terminé en 1902 et raccourcissant de 500 à 600 km le trajet Klaipeda-Vladivostock. Ces trains rouleront à 250 km/h et diminueront de manière conséquente la durée et la lon-gueur du trajet maritime usuel. Tandis que les navires à conteneurs les plus modernes mettent, via Suez, trente jours pour arriver en Extrême-Orient et parcourir les 22.000 km qui nous en séparent, le BAM mettra 16 jours pour relier Londres à Yokohama (13.000 km). En outre les coûts de transport seront de 10 à 15% inférieurs à ceux que demandent aujourd'hui les armateurs. La quantité transportable de marchandises sera, quant à elle, multipliée par quatre.

 

Ce projet est appuyé par le bourgmestre de Hambourg, Klaus von DOHNANYI, grand spécialiste du commerce avec l'Extrême-Orient. En 1969 déjà, il avait rédigé un ou-vrage sur les stratégies économiques japo-naises. Entretemps, plus de 150 firmes nippones ont installé leur siège à Hambourg, même si la majorité d'entre elles préfèrent toujours Düsseldorf. Depuis peu, ce sont les Chinois qui se mettent à considérer la cité hanséatique comme la ville d'Europe la plus importante. Les Chinois veulent importer une brasserie complète et prévoient la construction d'un mini-Airbus germano-chinois. Les nouvelles relations commericales sino-germaniques contribuent, indirectement, à apaiser le contentieux sino-soviétique. En ef-fet, les Chinois, pour le transport de leurs marchandises, préfèrent de loin le fer à la mer et conçoivent l'importance du Transsib' et du BAM. Leur intérêt premier sera donc de négocier avec les Soviétiques une utili-sation commune de ces voies ferrées.

 

Autre problème politique qui se verrait ré-glé: les Soviétiques et les Allemands pour-raient éviter, grâce au ferry baltique, de passer par la Pologne, perpétuellement en crise et dangereusement manipulée par les forces rétrogrades de l'Eglise de Rome. Mais, ces forces calamiteuses ne sévissent pas qu'en Pologne: en Allemagne Fédérale, tous les politiciens n'ont pas la clairvoyance de von DOHNANYI et de ses architectes. A Bonn, les armateurs (qui se verraient ruinés), les clowns militaires otanesques, les profes-sionnels de l'anti-communisme à la Fola-mour, ont tout entrepris pour saboter le projet et pour retarder les négociations (Cf. VOULOIR no.14). A Moscou, les dirigeants soviétiques, las de toutes ces tergiversations puériles, n'insistent plus et les autorités est-allemandes entreprennent la construction de ports de ferries à Mukran (Ile de Rügen) et à Wismar.

 

Le projet hambourgeois est-il définitivement mort? Les réalisations est-allemandes à Rügen et à Wismar parviendront-elles à remplacer la fenêtre sur la Mer du Nord qu'est Hambourg? On en doute... Ce projet représente finalement le plus grand défi géopolitique du siècle. S'il se réalise, nos maîtres à penser Karl HAUSHOFER et Hallford John MACKINDER auront eu raison à titre post-hume. La grande unité eurasienne, avec collaboration étroite entre Allemands, Russes, Chinois et Japonais se réalisera. Les mar-chandises africaines pourront atteindre aisément les profondeurs continentales de Sibérie et d'Asie Centrale. La qualité de vie en bénéficiera et les immensités sibériennes pourront s'avérer plus attrayantes. Dans la lutte entre le Léviathan et Béhémoth (Carl SCHMITT), la Terre aura enfin vaincu...

 

En revanche, la non-réalisation du projet, à cause des pressions atlantistes et des intérêts sectoriels des armateurs, condamnera Hambourg à devenir un lunapark ou une cité touristique balnéaire. Où est l'utopie? Certes pas dans le cerveau des époux VOLKENBORN. Le choix entre Orient et Occident, entre le réalisme et les chimères trahit ici un choix de civilisation: ou bien le bon sens de la survie économique à très long terme ou bien les attractions du Cirque Gros-Occidental... Au fond, nous pourrions envoyer pas mal d'"artistes" à Hambourg, si le projet VOLKENBORN est expédié à la poubelle au profit du lunapark: les parlementaires belges, le gouvernement Martens, les Jeunesses Atlantistes, le Général Close Badaboum, les Moonistes et les disciples de LaRouche, les Le Pen Boys, la fine équipe du PTB, Marchais, le couple de pitres paléo-communistes "Rosine Lewine et Louis Van Geyt", l'ex-gouvernement Mitterand, Yves Montand, BHL, une masse impressionnante de prêtres et de pasteurs privés de paroissiens,...

 

Vincent GOETHALS.

 

Source: "Der Spiegel" 1986/No.29 (14-VII); article intitulé "Für China die wichtigste Stadt Europas" (pp. 60 à 67).   

 

mardi, 21 septembre 2010

"Rechtsvölker sind immer im Recht!" - Im Gespräch mit Dr. R. Oberlercher

»Rechtsvölker sind immer im Recht!«

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Hegel, die NPD und die Arbeiterklasse: Die Deutsche Stimme im Gespräch mit Dr. Reinhold Oberlercher

Oberlercher.jpgFrage: Herr Dr. Oberlercher, Sie haben vor Jahren den Begriff der »Wortergreifung« geprägt, die immer der Machtergreifung vorangehen müsse. Wie beurteilen Sie Art und Inhalt der Wortergreifungen der NPD, und was wäre zu verbessern?

Oberlercher: Die Wortergreifungen der NPD sind nicht immer systemsprengend. Übernimmt man gar die Zuschreibungen des BRD-Systems und verortet sich selbst z.B. als rechten Rand, dann ist man nicht mehr die politische Befreiungsorganisation der Gesamtnation. Geht das System schließlich unter, wird sein rechter Rand dann natürlicherweise mit ihm verschwinden.

Frage: Demnach ist es aber genauso wenig zielführend, sich als links zu bezeichnen. Eine systemüberwindende Opposition müßte sich also als gesamtdeutsche Volksbewegung verstehen?

Oberlercher: Ja, das allein ist der richtige Weg. Das deutsche Volk umfaßt nämlich viele politische Richtungen: Fortschrittliche und Traditionalisten, Konservative und Liberale und Sozialisten, Anarchisten und Etatisten. Und alle auch noch in rechter und in linker Ausführung.

Frage: Fälschlicherweise wird »rechts« ja oft gleichgesetzt mit national. Welche Bedeutung haben die Begriffe links und rechts in einer Zeit, in der die festen Abgrenzungen zunehmend verschwinden?

Oberlercher: Ach, wissen Sie, die Abgrenzungen waren eigentlich noch nie wirklich fest, sondern immer sehr beweglich, weswegen sie auch nicht totzukriegen sind. In der politischen Theorie, die das Deutsche Kolleg vertritt, ist der Begriff des Politischen das Recht und das Rechtssubjekt und nicht, wie bei Carl Schmitt, die Unterscheidung von Freund und Feind. Politik dreht sich unserer Auffassung nach um Rechte, die man hat und die man verteidigen muß, oder um solche Rechte, die man nicht hat und die man fordern muß. Die Recht-Inhaber sind politisch die Rechten, die Recht-Forderer sind politisch die Linken. Da es den Kampf um das Recht auch in Zukunft geben muß und geben wird, dürfte auch der Rechts-Links-Gegensatz fortbestehen.

Frage: Aufgrund der wirtschaftlichen Konzentrationen der vergangenen Jahre wird die These vertreten, daß man von Kapitalismus nicht mehr sprechen könne. Vielmehr habe eine Veränderung hin zum Monopolismus stattgefunden. Was halten Sie von dieser These?

Oberlercher: Nichts. Denn Monopol ist ein Gegenbegriff zu Konkurrenz oder auch zu Oligopol, aber nicht zu Kapital, folglich kann der Kapitalismus auch nicht in einen Monopolismus übergehen. Die ganze Entwicklung des kapitalistischen Systems ist eine seiner Einführung und Durchsetzung in vorkapitalistischen sozialen Bereichen. Solange es solche Bereiche gibt, hat der Kapitalismus noch zu erobernde soziale Räume und damit eine geschichtliche Aufgabe vor sich. Das Gewaltmonopol des Staates z.B. wie der gesamte Staatsapparat überhaupt ist solch eine Sphäre, die dem Kapital noch nicht zur Gänze formell und reell unterworfen ist, aber daran wird eifrig gearbeitet.
Ebensowenig sind Universitäten und allgemeinbildendes Schulsystem dem Kapital schon gänzlich reell subsumiert. Nach der bis zur Vollautomation der materiellen Produktion geführten kapitalistischen Revolution in der Wirtschaft wäre es durchaus ein noch kapitalimmanenter revolutionärer Fortschritt, die pädagogische Produktion, die die Arbeitskräfte herstellt, zu privatisieren, zu automatisieren und der kapitalistischen Entwertung aller (Arbeits-) Werte, also der Aldisierung ihrer Preise, zu unterwerfen. Der Deutsche Nationalmarxismus hat diese revolutionäre Seite des kapitalistischen Systems immer befürwortet.

Frage: Sie sprachen davon, daß die anhaltende Vorknechtschaft Bedingung und Voraussetzung für eine kommende Vorherrschaft Deutschlands sei. Trauen Sie sich eine Prognose zu, wie lange die Vorknechtschaft noch andauern und was sie beenden wird?

Oberlercher: Nachdem ich im Jahre 1995 den Staatsuntergang der BRD und der übrigen Reichszerteilungsregimes für das Jahr 2000 prognostiziert hatte, wage ich im Jahre 2010 nicht, eine weitere von der Geschichte falsifizierbare Vorhersage über einen Zusammenbruchstermin abzugeben. Soweit es nun aber die Vorknechtschaft der BRD gegen ihre europäischen Mitknechte angeht, hat sich nichts geändert, aber beim Verhältnis gegenüber ihrem Herrn und Besatzer USA ist auffällig, daß trotz rapiden Verfalls die BRD immer häufiger als Anführer einer Fronde gegen das israelhörige US-Imperium auftritt, dessen Machtverfall relativ größer ist als der seiner Knechte. Die Residuen des rheinischen Produktivkapitals generieren noch immer Gegenkonzepte zum global nomadisierenden Spekulanten-Kapital des Imperiums.

Frage: Das Schicksals Ihres ehemaligen Mitstreiters Horst Mahler bewegt nicht nur das nationale Lager. Wie weit kann die nationale Opposition in ihrem Widerstand gegen das antinationale System gehen, ohne ihrem Anliegen zu schaden?

Oberlercher: Horst Mahler hat dem nationalen Anliegen nicht geschadet. Er hat aus eigenem Entschluß die Märtyrerschaft für Volk und Reich der Deutschen auf sich genommen. Seit das System Horst Mahler für das Festhalten an seiner Meinung zu 12 Jahren Gefängnis verurteilt hat, können alle deutschen Kollaborateure der Besatzungsmächte wissen, welche Mindeststrafe ihrer harrt.

Frage: Um das Deutsche Kolleg ist es etwas ruhig geworden, obwohl Sie Ihren
Ehrenplatz im jüngsten Hamburger Verfassungsschutzbericht erneut erfolgreich verteidigt haben. Sind die Repressionen des Systems der Grund, daß man so wenig hört?

Oberlercher: Der Grund ist einfach darin zu sehen, daß das Deutsche Kolleg im wesentlichen alles gesagt hat, das in Theorie und Programm gesagt werden mußte. Die Arbeit der Theoretiker und Programmatiker in der Neuen Deutschen National-Bewegung ist im großen und ganzen beendet, die geistige Gewalt hat
zugeschlagen, nun ist die materielle Gewalt geschichtlich am Zuge. Das System ist geistig bereits enthauptet, jetzt ist es nur noch physisch zu enthaupten. Also: Arbeiter der Faust an die Front!

Frage: Könnten Sie uns bitte Ihr Konzept der Deutschland AG erläutern?

Oberlercher: Die Deutschland AG ist die Herstellung einer nachkapitalistischen Wirtschaftsordnung. Sie ist die Vergesellschaftung aller Produktionsmittel und die Vermeidung ihrer Verstaatlichung. Denn die Verstaatlichung der kapitalistischen Produktionsmittel wäre ihre Absonderung von der bürgerlichen Gesellschaft insgesamt, somit also weder die klassenlose Vergesellschaftung in ihr noch ihre wirkliche Vergemeinschaftung durch den alle Bürger und ihren Staat umfassenden staatsbürgerlichen Verband.
Das Kapital wird also bürgerlich vergesellschaftet und zugleich national vergemeinschaftet, aber nicht verstaatlicht. Konkret wird folgendes durchgeführt: Das auf deutschem Boden angelegte Gesamtkapital wird in eine Aktiengesellschaft der deutschen Volkswirtschaft überführt. Die Aktien dieser Deutschen Volkswirtschafts-AG werden gleichmäßig auf alle Reichsdeutschen verteilt. Sie sind unveräußerlich und jeder erhält ein gleichgroßes Aktienpaket mit gleichem Stimmrecht, aus dem er die von der Aktionärsversammlung genehmigte Dividende als Einkommen aus Kapital bezieht. Ich verweise auf die DK-Erklärung „Die liberalistische Volksrevolution“ vom 30.11.2008.

Frage: In Ihrem jüngsten Werk beschäftigen Sie sich mit dem in der ganzen europäischen Geistesgeschichte nicht verstandenen Unterschied zwischen Recht und Gesetz. Worin besteht dieser entscheidende Unterschied?

Oberlercher: Recht, der substantielle Begriff des Politischen, ist Besitz, der Eigentum ist. Gesetz hingegen ist eine bloße Besitznorm, und ein Normbesitz ist ein Muster. Gesetz ist also etwas Technisches und nichts Rechtliches. Folglich erreicht man mit keiner Betrachtung, Beachtung oder Brechung eines Gesetzes
die Sphäre des Rechts. Nun gibt es in der Weltgeschichte ganze Völker, deren Geist entweder vom Gesetz oder vom Recht geleitet wird. Also sind Gesetzesvölker wie z.B. die Juden und die Araber niemals im Recht, hingegen Rechtsvölker wie z.B. die Deutschen und die Dänen sind immer im Recht.

Frage: Angesichts so vieler Karrieristen, Opportunisten und Geschichtsfälscher, die uns ihre Deutungen über die 68er Bewegung mit Hilfe der Massenmedien liefern: was ist die Bedeutung dieser Bewegung, was ihr geistiger Kern aus Ihrer Sicht? War 68 so anti-national, wie uns die Katheder-Sozialisten heute lehren?

Oberlercher: Die 68er Bewegung war nationalrevolutionär. Ihr Hauptidentifikationspunkt war der Wiedervereinigungskrieg der Vietnamesen gegen die amerikanische Besatzungsmacht im Süden und die pro-kapitalistischen Kollaborateure des Saigoner Regimes. Das wurde als Inspiration für den deutschen Befreiungskampf aufgenommen und führte zur Erfindung der Neuen Linken durch Hans-Jürgen Krahl und Rudi Dutschkes mitteldeutsche SDS-Fraktion. Für die Neue Linke war das Volk, die ganze Nation, das Subjekt aller nationalen und sozialen Befreiungskämpfe einschließlich der Revolutionen, nicht nur eine Klasse. Die Klasse der Industriearbeiter wurde als letzte ausreichend starke soziale Stütze des kapitalistischen Systems erkannt, die aber schon damals
eine schrumpfende Klasse war wie vordem schon das Besitzbürgertum.
Die Alte Linke (Gewerkschaften, SPD, KPD) blieb dagegen auf ihre Klassenbasis beschränkt und wurde damals bereits als tendenziell absteigend erkannt, weil der Prozeß der Automatisierung der Produktion an ihrem Ast sägte. Dutschke ging in seinen strategischen Überlegungen von der Arbeitslosigkeit der Mehrheit im Volke aus. Folglich galt das Hauptaugenmerk den Problemen des Reiches der Freiheit.

Frage: Woran arbeiten Sie, was sind Ihre politischen Zukunftspläne?

Oberlercher: Ich arbeite an einer Broschüre, die »Hegels System in Formeln« darstellt. Selbstverständlich ist darin auch eine komprimierte Verbalfassung enthalten. Außerdem schreibe ich an einer hegelianischen »Philosophie der Mathematik«. Politische Wirkungsmöglichkeiten im engeren Sinne sehe ich für mich gegenwärtig nicht.

Herr Dr. Oberlercher, wir danken Ihnen für das Gespräch.

Das Gespräch mit Dr. Reinhold Oberlercher führte Uwe Meenen.

samedi, 18 septembre 2010

Les réformes proposées par Thilo Sarrazin en Allemagne

thilo-sarrazin.jpg

 

Les réformes proposées par Thilo Sarrazin en Allemagne

 

EN POLITIQUE SOCIALE :

 

« Tous les bénéficiaires du SMIG/Minimex doivent pouvoir être contraints, le cas échéant, à des prestations compensatoires. Celui qui n’accomplit pas ses devoirs, ou les accomplit sans ponctualité aucune, ou en montrant de la négligence, doit voir ses revenus minimaux d’insertion réduits ou supprimés ».

 

EN MATIERE D’IMMIGRATION :

 

« Il faut renforcer les exigences linguistiques pour ceux qui veulent acquérir la citoyenneté de l’Etat-hôte. Il faut également  renforcer les exigences postulées par les examens linguistiques en cas d’immigration du nouvel époux ou de la nouvelle épouse… Cette immigration matrimoniale ne devrait être possible que si l’époux/l’épouse vivant en Allemagne, dans les années précédent le mariage projeté, a pu gagner sa vie sans faire appel à des revenus minimaux d’insertion. Le nouvel époux/la nouvelle épouse, qui veut immigrer, ne devrait pas pouvoir bénéficier de revenus minimaux d’insertion sociale pendant dix ans ».

 

« Pour toute immigration complémentaire, il faut appliquer des conditions extrêmement restrictives, lesquelles, en principe, ne satisferont plus que les seuls spécialistes situés tout au sommet de l’échelle des qualifications professionnelles… Ceux qui accueillent ou hébergent des illégaux devront payer des amendes considérables, levées selon leurs revenus, amendes qui contribueront aussi à diminuer les montants payés par l’Etat pour les revenus minimaux d’insertion sociale ».

 

EN MATIERE DE DEMOGRAPHIE :

 

« On pourrait prévoir de verser une prime d’Etat d’un montant de 50.000 euro pour tout enfant né avant le trentième anniversaire de sa mère, au moment où cet enfant aura terminé ses études ».

 

EN MATIERE D’EDUCATION :

 

« Dans chaque école et dans chaque classe, il faudrait, en fin d’année scolaire, procéder à un examen unique pour jauger le niveau atteint en compétences de lecture et en connaissances mathématiques de base… Pour rendre possible toute comparaison fiable, il faudrait compléter ces tests de compétences linguistique et mathématique par un test d’intelligence anonymisé ».

 

« Il faudrait accorder beaucoup d’importance à l’acquisition et à l’intériorisation de vertus secondaires comme la ponctualité, l’assiduité au travail, la fiabilité personnelle et l’honnêteté. Les virtuoses de l’école buissonnière ne doivent pas être tolérés… Les parents doivent se voir imposer de solides amendes pour tout retard non motivé de leurs enfants à l’école. Ces amendes seront comptabilisées avec les paiements de transfert, lorsque le minimum existentiel n’est pas atteint ».

 

« Pour les enfants issus de familles immigrées, il faut imposer la fréquentation des jardins d’enfants dès l’âge de trois ans… Le travail principal des puériculteurs/puéricultrices sera de converser et de procéder à des lectures. Si l’enfant manque l’école sans motif valable, les allocations de l’enfant seront réduites, selon une règle qui fixera le montant alimentaire minimal, duquel sera déduit le montant des repas pris dans le jardin d’enfants… Les mêmes règles devront s’appliquer dans les écoles. Il faut que la règle générale dans le pays soit une journée d’école complète. La participation de tous les écoliers à des heures d’études complémentaires, afin de faire leurs devoirs, devrait être obligatoire, du moins pour les élèves qui n’atteignent pas un certain niveau. Il ne pourra plus y avoir de dispense de certains cours pour motifs religieux… ».  

 

(sélection proposée par « Junge Freiheit », Berlin, n°36/2010 ; http://www.jungefreiheit.de/ ).

jeudi, 16 septembre 2010

L'influence atlantiste en Allemagne et en Russie

L'influence atlantiste en Allemagne et en Russie

Par Michel Drac

 Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Par commodité, nous réputerons ici que l’ensemble USA/Grande-Bretagne/Israël constitue une entité capable d’agir de façon coordonnée sur le plan géopolitique. Nous appellerons cette entité : l’Empire.

Cet Empire est confronté à son déclin. Sa réaction est maintenant visible. Confronté à un défi géostratégique qu’il ne parvient pas à relever, celui de la Chine ; confronté encore à la volonté manifeste de la Russie de se poser en acteur géostratégique de premier plan, à nouveau ; confronté, enfin, au risque de voir l’Europe échapper à son assujettissement, l’Empire a choisi de combattre, pour l’instant, en usant de stratégies d’influence. L’attaque sur l’Iran, pour l’instant toujours, n’a pas eu lieu. La guerre ouverte n’est pas, à ce stade, l’option choisie par les dirigeants de l’Anglosphère (et de son annexe israélienne).

Cela peut changer du jour au lendemain, bien sûr.

Mais jusqu’ici, l’influence semble bel et bien la stratégie privilégiée. Elle prend la forme d’une entreprise de cooptation sélective des élites des puissances que l’Empire doit ou conserver en sujétion (l’Allemagne et la France, pour faire court), ou tenir en respect (la Russie).

Le point sur la question.

*

En France, la promotion de Dominique Strauss-Kahn par les médias dominants est si grossière qu’elle risque de devenir franchement contre-productive. DSK (qui, rappelons-le, a explicitement avoué qu’il était entré en politique « pour défendre Israël ») est par exemple promu via des sondages de commande par Libération (quotidien désormais possédé par la famille Rothschild). Le plan apparaît cousu de fil blanc : il s’agit de remplacer un atlantiste « de droite » (Sarkozy) par un atlantiste « de gauche » (DSK). Plan si cousu de fil blanc, au demeurant, que la probabilité de le voir échouer semble désormais assez grande. La présidentielle 2012 s’avère risquée pour les atlantistes…

Bref, on n’épiloguera pas.

Intéressons-nous plutôt à l’Allemagne. Inutile de disserter longuement sur la situation française, elle est bien connue de nos lecteurs. Il n’en va pas de même de l’évolution outre-Rhin, qui pourtant, elle aussi, révèle une très nette accentuation de l’emprise atlantiste sur les élites.

Quelques points de repère pour commencer.

Angela Merkel a été propulsée à la chancellerie par les milieux atlantistes. Cela s’est fait en deux temps.

Tout d’abord, à la fin des années 1990, avec l’affaire de la « caisse noire » de la CDU. Walther Leisler Kiep (WLK), trésorier de la CDU et accessoirement homme fort de la fondation Atlantik Brücke (en gros, l’équivalent allemand de notre French American Foundation) avait reçu une forte somme d’argent d’un marchand d’armes. Ce fut l’occasion d’entraîner Helmut Kohl, et surtout ses hommes liges, dans un vaste scandale, où fut mis à jour le système de financement occulte de la droite d’affaire allemande. Wolfgang Schaüble (WS), jusque là pressenti comme le successeur naturel de Kohl, en paya le prix – et c’est ainsi que Merkel se retrouva à la tête de la CDU. Il est probable que sous les remous provoqués à la surface par cette opération mains propres, une lutte d’influence féroce se joua à ce moment-là, au sein de la droite d’affaires allemande. On ignore, à ce stade, les détails de cette lutte, mais on sait en tout cas qu’avec Merkel, les milieux atlantistes sauvaient au moins l’essentiel : leur capacité d’influence décisive au sommet de l’appareil.

En 2002, le leader de la campagne CDU/CSU était Edmund Stoiber, homme politique bavarois (le détail a son importance, la CSU bavaroise étant traditionnellement moins atlantiste que la CDU de l’Allemagne du nord). Il perdit de justesse les élections, après une campagne où les choix de la grande presse, pour une fois, ne fut pas particulièrement net en faveur de la droite d’affaires (un choix de la grande presse à peu près aussi clair, à vrai dire, que les positions alambiquées de Stoiber sur la guerre d’Irak…).

La route était désormais dégagée pour Merkel, qui bénéficia, elle, en 2005, d’un soutien total de la part des médias – et remporta donc les élections. Ainsi alla la carrière de celle que les médias présentent comme « la femme la plus puissante d’Europe », et que les esprits mal intentionnés voient plutôt comme la soubrette du capital germano-américain.

Cependant, comme toujours, rien n’est simple. La très forte culture du consensus qui caractérise les élites allemandes fait qu’il pratiquement impossible de rattacher un politicien quelconque à un « camp » stable et bien défini, au regard d’un problème donné. En fait, si l’on excepte les situations où ils s’organisent collectivement pour incuber deux lignes le temps que l’histoire décide à leur place laquelle était la bonne, les politiciens allemands ont pour habitude de prendre des positions molles et flexibles, et de gérer en interne leurs débats, portes closes. La population s’en accommode majoritairement, l’ambiguïté consensuelle étant, là-bas, un mode de fonctionnement collectif très prisé.

Bref, on ne peut pas présenter Merkel comme une atlantiste inflexible, même si elle a, en 2003, pris position plutôt en faveur de la guerre d’Irak. Disons qu’elle est plus atlantiste que la moyenne des politiciens de son camp, eux-mêmes très atlantistes – mais cela peut changer, tout dépend des circonstances.

Or, justement, depuis quelques temps, cela a tendance à changer. Depuis la crise de 2007, Merkel semble, d’une manière générale, agir comme un poids mort, qui retarde et affaiblit la remise en cause du lien transatlantique – mais qui ne fait plus grand-chose pour le promouvoir franchement. La nuance n’a pas échappé aux observateurs attentifs.

Fondamentalement, Merkel est une opportuniste. Elle incarne au fond les qualités et les défauts des femmes en politique : elle sait remarquablement bien naviguer en fonction du vent – mais justement, quand il faut faire vent contraire, elle n’est pas à son aise. Et aujourd’hui, pour être atlantiste, au sein de la droite d’affaires allemande, il faut affronter un vent de face modéré, mais bien présent. Cette physicienne de formation, auteur d’un mémoire sur l’effet des hautes pressions dans la combinaison des molécules, est sans doute plus prompte à tenir un rôle de coordinatrice qu’à imposer ses vues brutalement. Dans le contexte actuel, il n’est donc pas certain qu’elle soit encore « l’homme » de la situation, pour ses sponsors atlantistes eux-mêmes confrontés à une situation très tendue, où le temps leur manque, et où chaque erreur peut se payer cash.

En 2007, Merkel s’est rendue en Chine, et a pris position pour un renforcement des relations commerciales sino-allemandes. Elle y a, certes, souligné que la Chine devait « jouer le jeu » du commerce international, mais concrètement, il s’agissait bel et bien de poursuivre l’ancrage de l’économie allemande dans la sphère de croissance constituée par l’Asie émergente, avec laquelle le patronat d’Outre-Rhin a trouvé un modus vivendi original (intégration logistique, l’Allemagne se réservant les activités à forte intensité technologique et capitalistique).

La suite l’a d’ailleurs très bien montré :


(source)

Commentaire : alors qu’entre 2007 et 2010, le commerce extérieur allemand régressait fortement (comme l’ensemble du commerce international), les relations germano-chinoises sont restées pratiquement constantes. Bien entendu, s’agissant de l’année 2010, le chiffre est une projection.

On remarquera qu’entre 2005 et 2010, les exportations allemandes vers les USA ont, quant à elles, baissé de 25 % environ (estimation).

Toute atlantiste qu’elle soit, Merkel ne peut tout simplement rien contre une dynamique économique de fond – le recul des USA, la montée en puissance de la Chine. Pour l’instant, les USA ont réussi à limiter leur décrochage – le financement d’une fausse reprise, en trompe l’œil et par le déficit budgétaire, ayant temporairement maintenu à flots le marché US. Mais on voit bien que si cette « reprise » craque (ce qu’elle fera certainement), l’Allemagne pourrait assez vite se retrouver avec la Chine comme premier client et premier fournisseur – ce qui imposera sans doute de revoir fondamentalement l’orientation économique globale du pays, et donc sa géostratégie.

Moins cruciales sur le strict plan économique, les relations germano-russes sont peut-être encore plus sensibles que les relations sino-allemandes en termes stratégiques. Et là encore, Merkel, tout en conservant un parfait atlantisme de façade, n’a finalement rien fait pour endiguer sérieusement le développement des relations commerciales bilatérales (peut-elle, d’ailleurs, faire quoi que ce soit ?).

Evolution en millions d’euros du commerce germano-russe (document allemand)

L’analyse de l’Ost Europa-Institut précise : « Le commerce extérieur germano-russe se développe indépendamment des changements politiques intérieurs ».

Non seulement le commerce allemand en Russie n’a pas régressé sous Merkel (en fait, il a progressé plus vite que sous Schröder !), mais en outre, les investissements allemands en Russie, il est vrai initialement fort modestes, ont littéralement explosé :

(Investissements directs allemands en Russie, en millions d’euros, même source – la progression est impressionnante, de sorte que, même si en 2007 les investissements allemands en Russie ne représentaient encore que 5 % des investissements allemands à l’étranger, la Russie commence à devenir un moteur de développement très significatif pour l’Allemagne).

Ces trois dernières années, l’évolution s’est poursuivie si l’on ramène le commerce germano-russe à l’évolution globale du commerce extérieur allemand (marquée, comme partout sur la planète, par une très forte chute). Pour les dernières données disponibles sur le web (2008 et une partie de 2009), le poids de la Russie dans le commerce extérieur allemand continue de croître, à un rythme de l’ordre de +10% par an. La crise russe a sans doute endigué momentanément cette tendance, mais la dynamique d’ensemble n’est pas brisée.

Nul doute dans ces conditions que dans les cercles atlantistes, la cote de popularité de Frau Merkel est aujourd’hui assez loin du zénith atteint en 2003. Si le développement des relations germano-russes s’accompagnait d’une « démocratisation » de la Russie (c’est-à-dire de son occidentalisation), la démarche aurait probablement l’appui des USA. Mais ce n’est pas ici de cela qu’il s’agit ; on dirait plutôt que l’Allemagne a de moins en moins d’intérêts communs avec l’Ouest, et de plus en plus avec l’Eurasie. Et cela, ça ne doit pas plaire à Washington.

On relèvera donc avec intérêt que, depuis quelques temps, les milieux atlantistes semblent investir beaucoup sur un politicien totalement inconnu en France, mais doté en Allemagne d’une influence certaine : Friedrich Merz.

Un personnage haut en couleur, dont le portrait mérite le détour, tant il est révélateur. C’est lui qui va nous servir de « fil rouge » pour analyser, à travers un exemple assez croustillant, les stratégies d’influence de l’Empire en Allemagne.

Merz est avocat d’affaires. Sa notice Wikipédia nous apprend qu’il fut membre de l’association des étudiants catholiques, qu’il a été employé au début de sa carrière par l’industrie chimique, comme juriste, et qu’il fut tour à tour député européen et député au Bundestag (la CDU/CSU le positionna très bien au sein du comité des finances). Plutôt dans le sillage de Schaüble au début des années 2000, il survécut à la victoire de Merkel, et conserva l’essentiel de ses attributions au parlement. Il en profita pour enfourcher deux principaux chevaux de bataille : la libéralisation tous azimuts (réforme fiscale) et la critique du « passéisme » des musulmans immigrés en Allemagne. Bref, un politicien libéral néoconservateur bon teint.

Mais il y a aussi ce que Wikipédia ne dit pas. Par exemple, que depuis 2004, tout en poursuivant une carrière politique, Merz a travaillé pour « Mayer, Brown, Rove & Maw », une firme américano-britanico-mondialisée, en charge, entre autres, de la défense juridique de la compagnie « Hudson Advisors ». C’est intéressant, parce que cette compagnie racheta la banque IKB, après sa faillite en 2007, dans des conditions plus que douteuses (achat pour 150 millions d’euros, en échange d’une garantie gouvernementale de 600 millions d’euros). L’affaire a fait grand bruit Outre-Rhin, où un collectif des investisseurs spoliés s’est même constitué.

Plus croustillant encore, Merz, dont l’agenda semble indéfiniment extensible, a trouvé le temps, en 2005, de conseiller la banque Rothschild en Allemagne, au moment où un de ses fonds d’investissement, TCI (« the children investment ») attaquait la bourse allemande (pour dissuader le président de la Deutsche Börse de prendre le contrôle du London Stock Exchange). On remarquera ici, toujours pour le côté croustillant de l’affaire, que TCI fut officiellement constitué pour aider au développement des pays du tiers-monde via le microcrédit (comme si un hedge fund pouvait être une œuvre caritative !). Et que ce fonds spéculatif est en réalité connu pour pratiquer fréquemment de très agressives spéculations à la baisse, pratiquement assimilables à des manipulations de cours. TCI peut compter, pour appuyer sa démarche, sur la complicité des agences de notation, d’où sa forte profitabilité. Voilà pour les œuvres caritatives de monsieur Merz.

Sans doute parce qu’après ces affaires successives, un véritable concert de casseroles se faisait entendre derrière lui dans les couloirs du Bundestag, Merz ne s’est pas présenté aux élections de 2009, se mettant en quelque sorte « en retrait » de la vie politique officielle. Cela ne l’a pas empêché de continuer à faire avancer les affaires de ses mandants.

Merz, en quittant le Bundestag, devint président de la fondation Atlantik Brücke. Or, ces dernières semaines, on a assisté, au sommet de l’organigramme de cette fondation, à un curieux ballet. Friedrich Merz a été violemment attaqué par WLK (voir ci-dessus), au motif que Merz entraînait la fondation dans un conflit avec Merkel. Merz a en effet rédigé récemment un livre avec une figure du SPD (1), et ce serait la raison de l’ire de WLK – même si on subodore que ce n’est là qu’un prétexte, et qu’il s’agit ici de bien autre chose que d’un vulgaire bouquin.

WLK est président d’honneur de la fondation Atlantik Brücke depuis sa condamnation suite à l’affaire de la caisse noire de la CDU (une sorte de récompense pour avoir porté le chapeau, probablement). Président d’honneur, mais doté d’une influence plus qu’honorifique, il est parvenu, dans un premier temps, à obtenir l’éviction de Merz.

Mais dans un deuxième temps, celui-ci a regroupé ses soutiens, et finalement triomphé. Et cela n’est pas tout à fait anodin.

Un journaliste d’investigation allemand, Jürgen Elsässer, a eu la curiosité de regarder qui, au sein de la fondation Atlantik Brücke, avait soutenu WLK ou Merz. Et il s’est aperçu de quelque chose d’assez révélateur (2) : en substance, ce sont les représentants de la partie allemande de l’axe germano-américain qui ont soutenu WLK (la grande industrie), tandis que les représentants de la partie sous dominance capitalistique américaine (par exemple le rédacteur en chef de Bild Zeitung) appuyèrent Merz, lequel bénéficia dans l’ensemble du soutien de la grande presse (3). A l’intérieur de la fondation Atlantik Brücke, il y a donc eu reprise en main par les agents d’influence américains, au détriment de leurs associés plus soucieux des intérêts proprement allemands.

En somme, il se pourrait bien qu’avec l’affaire Merz, les milieux atlantistes aient envoyé un message à Merkel : n’oublie pas qui t’a fait roi. Une épée de Damoclès surmonte désormais la tête de Frau Merkel. A elle de ne pas se tromper à l’avenir. Le sacrifice de WLK et le sauvetage de Merz ressemblent bigrement à un avertissement adressé, par les milieux atlantistes, à des élites allemandes de moins en moins enclines à coupler leur économie à une Amérique qui leur a certes beaucoup rapporté par le passé, tant que les USA s’endettaient, mais qui risque maintenant de se transformer en fardeau, puisqu’ils sont ruinés.

*

Nous sommes moins bien renseignés sur la Russie que sur l’Allemagne. Il faut bien dire que le Kremlin n’est pas précisément réputé pour sa transparence…

Décidément, la Russie restera toujours la Russie. Pour qui voit les choses de loin, aujourd’hui, il y a, à Moscou, un Grand Tsar (Poutine), un héritier ambitieux (Medvedev) et des boyards comploteurs (les oligarques). Le Tsar a le soutien du peuple, l’héritier est obligé de s’appuyer sur les boyards pour acquérir de l’influence, et les agents étrangers naviguent entre les factions rivales dans une ambiance de cour byzantine. Le Grand Souverain parviendra-t-il à déjouer les complots des boyards pour sauver la Sainte Russie ? – Telle est la question. Il ne manque plus qu’un moine mystique dans la pénombre, et on se croirait dans un roman historique !

Bref, trêve de plaisanteries.

Essayons, armés du peu d’informations dont nous disposons, de démêler l’écheveau de la vie politique russe (la vraie, celle qui se joue dans les coulisses). Nous verrons que la Russie reste la Russie, mais que les choses sont, tout de même, un peu plus compliquées que dans un film d’Eisenstein.

Petit rappel du paysage russe, pour commencer.

Dans les années 1990, après l’écroulement de l’URSS, quelques dizaines d’oligarques se sont littéralement partagé les dépouilles de l’économie russe. C’est probablement le plus grand pillage de tous les temps, en tout cas la plus formidable disparition de valeurs jamais vue en temps de paix. De véritables colosses industriels ou miniers ont été bradés par Eltsine à ses « amis », c’est-à-dire, en fait, ses financiers.

En reprenant le pays, en 2000, Poutine fit preuve de pragmatisme. Conscient des rapports de force, il n’a pas attaqué frontalement les oligarques. Il s’est contenté de leur fixer les règles du jeu : ils eurent le droit de conserver leurs propriétés, même mal acquises, à une condition, les mettre au service de la grandeur et de la puissance de la Russie. L’officialisation de cette position s’est faite en deux temps : d’abord, dès son entrée en fonction, Poutine signa un décret qui exemptait Eltsine et son entourage de toute enquête sur leurs malversations (sans doute était-ce le prix à payer pour entrer en fonction) ; ensuite, ayant rassuré, il punit. Il disposait pour cela d’une force d’appoint décisive : le soutien des réseaux ex-KGB, bien décidés à restaurer la « verticale du pouvoir » (en d’autres termes : en finir avec l’anarchie destructrice des années Eltsine).

Mikhaïl Khodorkovski est alors le président du géant pétrolier Ioukos, qu’il a acquis pour une somme dérisoire par rapport à sa valeur réelle (à peu près 1,25 % d’après des estimations sérieuses). Il envisage de revendre l’entreprise à un groupe occidental. Poutine s’y oppose, mais Khodorkovski persiste – il vient de transmettre ses parts au financier britannique Jacob Rothschild. Cette fois, l’oligarque a passé une ligne rouge : il est arrêté et condamné à huit ans de prison. Le message est simple : tant que vous obéissez à Poutine, on ne vous demande pas de compte sur la période Eltsine. Mais si vous désobéissez, vous aurez l’insigne honneur de participer avec enthousiasme à la colonisation de la Sibérie (Khodorkovski est, aux dernières nouvelles, à l’isolement dans une colonie pénitentiaire située sur un gisement d’uranium à ciel ouvert – Elie Wiesel a d’ailleurs lancé une campagne pour essayer de le sortir de là – on lui souhaite bonne chance).

La plupart des oligarques se sont accommodés de la méthode Poutine. D’abord parce qu’ils n’avaient pas envie de finir à l’isolement sur un gisement d’uranium, ensuite parce qu’au fond, ils savent bien que la « verticale du pouvoir » est indispensable en Russie.

Parmi les oligarques qui se rallièrent à Poutine (Roman Abramovitch, Pavel Fedoulev, Vladimir Potanine…), le plus important était sans doute Anatoli Tchoubaïs. Retenons ce nom, ce sera notre « fil rouge » pour décoder l’influence atlantiste en Russie.

Les milieux d’affaires occidentaux ont toléré mise en place du système Poutine parce qu’ils n’avaient tout simplement pas le choix. Ils ont bien tenté de financer des partis libéraux, avec Gary Kasparov en figure de proue, mais le libéralisme est, en Russie, assimilé à l’ère Eltsine, de sorte qu’il culmine à 5 % des votes. En réalité, il est complètement impossible de réaliser, en Russie, une « révolution colorée » à la Soros (comme celle qui fut tentée et, provisoirement, réussie en Ukraine), parce qu’à part Moscou et Saint-Pétersbourg (et encore), le pays est totalement imperméable au projet libéral anglo-saxon. Comme il n’est pas non plus envisageable d’attaquer militairement la Russie, dès lors que le Kremlin est unifié et déterminé, les acteurs sous influence occidentale ne peuvent jouer qu’un rôle subalterne.

Mais les données du problème changent dès lors que le Kremlin n’est plus unifié. La rupture apparente du tandem Poutine-Medvedev offre donc, depuis quelques mois, de nouvelles possibilités d’action aux « occidentaux ».

L’homme à suivre en premier lieu est, sans doute, notre « fil rouge » : Anatoli Tchoubaïs. Surnommé « le père de tous les oligarques », c’est de toute manière un personnage-clef. C’est lui qui organisa, en grande partie, la privatisation-pillage des années 90. C’est encore lui, aujourd’hui, dont l’influence grandit au sein du cercle Medvedev – du moins dans la mesure où nous sommes informés correctement des évolutions au sein d’une direction moscovite fort peu transparente.

Tchoubaïs fait partie des milieux économiques qui souhaitent orienter la Russie vers les technologies de pointe, en particulier l’informatique civile et les nanotechnologies, pour diversifier une économie trop dépendantes des exportations de matières premières – ce en quoi il n’a pas forcément tort. Il est surprenant qu’un pays à la pointe de la recherche militaire (développement des systèmes laser anti-détection sur les avions de chasse, sous-marins nucléaires ultra-furtifs de quatrième génération, chasseur T-50 de cinquième génération, comparable au F-22 américain) ne soit capable d’exporter que des matières premières… et des armes.

Or, on a pu constater, ces dernières semaines, que Medvedev semblait s’approprier le projet « high tech » de Tchoubaïs. En mai 2010, dans un discours au comité pour la modernisation de l’économie russe, il a pris position en faveur du développement accéléré des technologies de l’information et de la communication. On remarquera ici, au passage, que ce choix impliquerait le développement d’une plus forte intégration entre l’économie russe et le leader dans ce domaine, leader qui reste (au moins pour ce qui relève du software) les Etats-Unis – et impliquerait, en contrepoids, un moindre investissement dans le projet industriel classique qui sous-tend évidemment le commerce germano-russe.

En filigrane, on doit peut-être ici discerner un axe Tchoubaïs-Medvedev, le premier « vendant » au second l’intégration de la Russie dans l’économie occidentale, sur un pied d’égalité, le second s’empressant de croire à la promesse (pourtant bien nébuleuse) du premier, afin de se doter d’un soutien de poids, dans la perspective d’un face-à-face avec Poutine aux élections prochaines. La communication très « occidentalisante » adoptée par Medvedev ces derniers temps (rencontre avec Bono, le leader de U2, etc.) laisse penser que c’est le cas.

Si cette analyse est correcte, alors il semble bien que Tchoubaïs ait décidé de miser sur Medvedev en vue d’accroître le pouvoir des oligarques – une intrigue de palais, au sein des tout petits milieux pétersbourgeois qui trustent les postes de responsabilité à Moscou, depuis dix ans (Tchoubaïs, Poutine et Medvedev sont tous trois issus de la « suite » d’Anatoli Sobtchak, ex-maire de Saint-Pétersbourg). Mais peut-être est-ce, aussi, un peu plus qu’une intrigue de palais… Dans quelle mesure Tchoubaïs agit-il ici sur ordre des occidentaux ? Bien malin qui pourrait répondre à cette question. Ce qui est sûr, en tout cas, c’est que son influence joue en faveur d’un retour de l’Occident en Russie.

Poutine, l’homme de l’alliance chinoise, contre Medvedev, l’homme de l’OTAN ? Sans aller jusque là, force est de constater que les lignes de communication respectives des deux hommes, à ce stade, laissent penser qu’un véritable affrontement se prépare. D’un côté, Medvedev, l’ex-fan de hard rock, partisan de l’inscription de la Russie dans l’univers occidental (virtualisme, nouvelles technologies). En face, Poutine, l’homme de la Russie profonde, partisan d’une politique de puissance et champion de la lutte anti-corruption (récent discours très dur, sur ce sujet, pour dénoncer les dérives de la bureaucratie au niveau local – purges en perspective ?).

Poutine est fort de son bilan (la gestion de la crise financière de 2008 a été remarquable, la dévaluation du rouble a permis une relance rapide). Medvedev, lui, entend communiquer sur un retour du rêve occidental.

Medvedev propose implicitement à la Russie de capitaliser sur son statut de puissance retrouvé (symbole fort : pour la première fois, en 2009, les ventes d’armes russes ont dépassé celles des USA en Amérique Latine). Dans la logique Medvedev, il s’agit, à présent que le siège semble brisé (axe économique germano-russe en construction, Ukraine à nouveau sous contrôle, présence marquée en Asie Centrale, abandon du projet antimissiles US en Europe de l’est) d’encaisser les dividendes : principalement, obtenir le soutien de l’Occident pour une intégration accélérée dans l’OMC (4), et de manière plus générale une place honorable dans l’ordre économique international. Le président russe peut compter, pour déployer cette communication, sur le soutien d’une partie des médias. Et il dispose, il ne faut pas s’y tromper, d’arguments réels : pour diversifier son économie, la Russie a besoin d’importer du savoir-faire occidental, comme la Chine l’a fait ces dernières décennies – et cela, c’est un fait.

Poutine, de son côté, a déjà fait donner ses propres réseaux (l’appareil d’Etat, principalement) pour contrebattre la ligne de communication Medvedev. En filigrane, derrière ces discours pro-Poutine, on devine une mise en garde : le « rêve occidental » n’est qu’un leurre. Le siège n’est pas définitivement brisé, il est trop tôt pour encaisser les dividendes. L’influence anglo-saxonne continue, partout où elle le peut, de contrecarrer le retour de la Russie (en Asie centrale, en Europe de l’est, mais aussi, désormais, en Amérique Latine). Les livraisons d’armements OTAN à la Géorgie se poursuivent. Comment attendre quoi que ce soit de l’Occident, dans ces conditions ?

Ce qui rend ce heurt apparent très difficile à analyser, c’est qu’il est impossible, en Russie, de séparer les prises de position des deux hommes du consensus latent des élites qui les soutiennent. Or, ces élites sont caractérisées par une opacité extrême, et une stabilité sous-jacente qu’on n’imagine pas en Occident. Détail révélateur, c’est la même plume qui rédige aujourd’hui les discours de Medvedev, rédigeait hier ceux de Poutine, et avant-hier ceux de Eltsine. En fait, il faut bien garder en tête, ici, que nous pouvons avoir l’impression d’un clivage Poutine / Medvedev, et que cependant, dans la réalité, dans la coulisse, il y a consensus pour négocier un accord avant la prochaine élection présidentielle. Tout ce qu’on peut dire à ce stade de solide et sérieux, c’est que la marge de manoeuvre de Medvedev, jusque là presque nulle, semble croître, et que des influences pro-US très fortes se manifestent désormais au niveau des classes dirigeantes russes.

Medvedev n’est pas l’homme qui fera basculer la Russie dans l’atlantisme, c’est plus compliqué que cela. Il faut toujours se souvenir que Poutine voulait initialement se lier avec les USA, et que c’est Washington, au départ, qui a refusé sa proposition de partenariat, il y a dix ans. En Russie, rien n’est simple, tout est possible.

*

Derrière l’affaire Merz en Allemagne et le cas Tchoubaïs en Russie, une isomorphie : un Empire en train de perdre la maîtrise de la mondialisation qu’il impulse, et qui, pour retarder et si possible annuler les conséquences de son déclin dans l’économie réelle, pour contrôler les élites rivales et maîtriser leurs choix, mise sur la cooptation sélective au sein de ces élites.

Plutôt que la « révolution colorée » méthode Soros, et (pour l’instant) aux antipodes de la brutalité néoconservatrice, on retrouve là le schéma d’influence proposé par Z. Brzezinski, l’éminence grise de Barack Obama.

Quelques citations de son ouvrage principal, « Le Grand Echiquier » (5) :

« Par définition, les empires sont des entités politiques instables, parce que les unités subordonnées préfèrent, presque toujours, acquérir une plus grande autonomie. Et presque toujours, les contre-élites gérant ces unités s’emploient à accroître leur autonomie. » (citation que Z.B. tire de l’universitaire Donald Puchala.)

« Pour l’Amérique, l’enjeu géopolitique principal est l’Eurasie. Depuis cinq siècles, les puissances et les peuples de ce continent ont dominé les relations internationales. Aujourd’hui, c’est une puissance extérieure [l’Amérique] qui prévaut en Eurasie. Et sa primauté globale dépend étroitement de sa capacité à conserver cette position. »

« Tous les rivaux politiques et/ou économiques des Etats-Unis sont situés en Eurasie. Leur puissance cumulée dépasse de loin celle de l’Amérique. Heureusement pour cette dernière, le continent est trop vaste pour réaliser son unité politique. »

« Si l’espace central de l’Eurasie [la Russie] peut être attiré dans l’orbite de l’ouest [l’Europe], où les Etats-Unis sont prépondérants, […] et si l’Est [Chine-Japon] ne réalise pas son unité de sorte que l’Amérique se trouve expulsée de ses bases insulaires, cette dernière conservera une position prépondérante. »

« L’arme nucléaire a réduit, dans des proportions fantastiques, l’usage de la guerre comme prolongement de la politique. […] Ainsi les manœuvres, la diplomatie, la formation de coalitions, la cooptation et l’utilisation de tous les avantages politiques sont désormais les clefs du succès dans l’exercice du pouvoir géostratégique. »

« Dans la terminologie abrupte des empires du passé, les trois grands impératifs géostratégiques se résumeraient ainsi : éviter les collusions entre vassaux et les tenir dans l’état de dépendance que justifie leur sécurité ; cultiver la docilité des sujets protégés ; empêcher les barbares de former des alliances offensives. »

« La France et l’Allemagne sont assez puissantes pour avoir une influence régionale au-delà de leur voisinage immédiat. […] De plus en plus, l’Allemagne prend conscience des atouts qu’elle a en propre. […] Du fait de sa situation géographique, l’Allemagne n’exclut pas la possibilité d’accords bilatéraux avec la Russie. »

« La Russie a de hautes ambitions géopolitiques qu’elle exprime de plus en plus ouvertement. Dès qu’elle aura recouvré ses forces, l’ensemble de ses voisins, à l’est et à l’ouest, devront compter avec son influence. »

« Un scénario présenterait un grand danger potentiel : la naissance d’une grande coalition entre la Chine, la Russie et peut-être l’Iran. »

« On peut s’inquiéter d’un échec du processus [d’unification européenne] et de ses conséquences […] pour la place de l’Amérique sur le continent. […] La Russie et l’Allemagne pourraient tirer parti de cette nouvelle situation et se lancer dans des initiatives visant à satisfaire leurs propres aspirations géopolitiques. »

Ce paragraphe, très important dans le contexte actuel, signifie que Brzezinski souhaite dans une certaine mesure le développement des liens germano-russes, mais seulement si l’Allemagne est, via l’Union Européenne codirigée avec une France capable de maintenir une forme de parité, ancrée dans un monde atlantique lui-même sous leadership américain. Brzezinski parle, pour décrire l’Europe qu’il souhaite, de « tête de pont de la démocratie » (en clair : de l’Amérique). Et donc, une situation, où la France serait trop faible pour maintenir cette parité, modifierait fondamentalement l’attitude des USA à l’égard de la question germano-russe – surtout si, dans le même temps, l’Amérique est si affaiblie qu’elle n’a plus les moyens de faire clairement percevoir son leadership global.

Nous avons confirmation de cette lecture plus loin : « A long terme, la France est un partenaire indispensable pour arrimer définitivement l’Allemagne à l’Europe. […] Voilà pourquoi, encore, l’Amérique ne saurait choisir entre la France et l’Allemagne. »

En clair : aussi longtemps que l’Europe s’unifie sous la tutelle américaine, l’Allemagne doit être poussée à étendre sa zone d’influence vers l’est. Mais si ce nouveau Drang nach Osten devait déboucher sur la définition d’un axe Berlin-Moscou émancipé de la tutelle US, alors il faudrait que les USA donnent les moyens à la France de rééquilibrer l’Europe. Ce point est, évidemment, pour nous, Français, d’une grande importance. Nous allons peut-être avoir, enfin, la possibilité de desserrer l’étau de l’alliance germano-américaine.

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De tout ceci, en attendant, on peut tirer une conclusion simple s’agissant de l’Empire : nous assistons probablement, derrière l’affaire Merz et le cas Tchoubaïs, au déploiement d’une vaste stratégie US, dont la finalité est d’empêcher que la « tête de pont de la démocratie » se mue, en éclatant, en tête de pont de l’économie eurasiatique.

Profondément affaiblie par la crise économique, l’Amérique perd la maîtrise de la mondialisation. Si, comme on peut le penser, sa « reprise » en trompe-l’œil, financée par le déficit budgétaire, implose dans les deux ans qui viennent, la balance pourrait commencer à peser de plus en plus nettement en faveur de la Chine, y compris au sein des classes dirigeantes européennes – et allemandes en premier lieu. Une situation qui pourrait entraîner, à long terme, la constitution d’une économie eurasiatique dynamique et partiellement intégrée, dont l’Amérique, déclassée, ne serait plus qu’une périphérie.

Le troisième impératif de Brzezinski, « empêcher les barbares de former des alliances offensives », ne serait alors plus garanti, puisque le premier, « éviter les collusions entre vassaux », aurait volé en éclat. Il y a treize ans, dans « Le Grand Echiquier », Brzezinski écrivait, en substance, que pour conduire à terme le projet mondialiste dans de bonnes conditions, il fallait que l’hégémonie US soit maintenue encore pendant une génération – il est de plus en plus évident que cette condition sera peu aisée à remplir. Le fond du problème est évident, il suffit de relire « Le Grand Echiquier » pour le comprendre : la montée en puissance de la Chine va beaucoup plus vite que ce qui avait été anticipé par Brzezinski.

Peu capables de s’opposer à cette dynamique économique de fond, les milieux atlantistes ont, de toute évidence, choisi pour l’instant de jouer sur les armes d’influence recommandées par Brzezinski : « les manœuvres, la diplomatie, la cooptation ».

Sur ce dernier point, il écrit, dans « Le Grand Echiquier » : « Deux étapes fondamentales sont donc nécessaires. Premièrement, identifier les Etats géopolitiquement dynamiques qui ont le potentiel de créer un basculement important en terme de distribution internationale du pouvoir, et décrypter les objectifs poursuivis par leurs élites politiques, et les conséquences éventuelles. Deuxièmement, mettre en oeuvre des politiques US pour les compenser, coopter, et/ou contrôler. »

Compenser : Medvedev contre Poutine, la fondation Atlantik Brücke contre une partie du haut patronat allemand. Coopter : Merz. Contrôler : Tchoubaïs.

Si la démarche échoue, il ne restera plus à l’Empire qu’à choisir entre la défaite et la guerre.

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Notes :

(1) « Ce qu’il faut faire maintenant : l’Allemagne 2.0 », coécrit avec un ancien politicien SPD, « de gauche », Wolfgang Clement. L’étiquette « gauche » ne doit pas ici abuser le lecteur. Ce monsieur Clement, maintenant retiré de la vie politique, siège à de nombreux conseils de surveillance – sans doute une récompense pour avoir conduit une bonne partie des réformes social-libérales de l’ère Schröder.

(2) Source : « Est-ce que les cercles anglo-américains préparent une rocade du pouvoir en Allemagne ? », Jürgen Elsässer Blog

(3) Par exemple, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ, l’équivalent allemand du Figaro) a publié, en mai 2010, un article présentant les critiques de WLK comme « peut-être » infondées, et « peut-être » motivées par de vulgaires considérations financières : « Bataille boueuse ».

Cet article a été écrit par un monsieur Majid Sattar, d’origine irakienne, qui a fait ses études aux USA.

(4) Il est utile, pour comprendre le positionnement de Medvedev, de se souvenir que lorsqu’il discute avec les Américains de l’Iran, par exemple, c’est entre deux séances de travail sur l’admission de la Russie à l’OMC.

(5) Le texte de Brzezinski est entouré de circonlocutions et formules obligées visant à nous présenter son projet comme l’expression d’une hégémonie américaine « bienveillante », destinée à conduire le monde vers la paix universelle et la démocratie. J’épargnerai au lecteur de subir ici ces formules hypocrites, pour mettre plutôt en exergue les passages qui traduisent, selon toute probabilité, la pensée profonde de l’auteur : défendre un Empire inégalitaire et prédateur, pour les meilleurs intérêts de ses classes dirigeantes corrompues.

(6) Ce texte a été rédigé avec l’aide bénévole de l’ami Fritz et d’oncle Vania, que l’auteur tient à remercier tout en respectant leur anonymat.

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