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mardi, 25 mai 2010

Le correnti della tradizione pagana romana in Italia

Le correnti della tradizione pagana romana in Italia

di Renato Del Ponte

Ex: http://www.juliusevola.it/

romeantique.jpgNegli anni che vanno dai primi del secolo XX al secondo dopoguerra, con le significative riprese ai giorni nostri (su cui poi ci soffermeremo), ma con intensificazione nel periodo iniziale della presa del potere da parte del fascismo sino al "culmine" rappresentato dalla Conciliazione dell'11 febbraio 1929, si è manifestata in Italia l'azione culturale, di pressione politica e anche il travaglio esoterico di un insieme composito di personalità, gruppi, riviste e tendenze che il prof. Piero di Vona per primo nel 1985 riassumeva per esigenze di chiarezza sotto la denominazione di "corrente romana del tradizionalismo" e che, almeno fino a pochi anni fa, non ha costituito una linea di pensiero omogenea, ben organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche comuni, ideologicamente e politicamente parlando, ma una tendenza che poté assumere aspetti e sfaccettature differenti. Il significato dell'azione di questo insieme di personalità e gruppi, assai differente nell'impostazione e nei metodi, si è tradotto in pratica nella riproposizione del modello spirituale, religioso e rituale del paganesimo romano (che noi abbiamo proposto di definire meglio come "via romana agli déi"), che le autorità dello Stato italiano avrebbero daovuto fare proprio in contrapposizione alle ingerenze e allo strapotere politico e morale della Chiesa cattolica.

Non è questa la sede per tracciare la preistoria di tali correnti e neppure per riassumere i termini della questione circa eventuali trasmissioni della tradizione romana, su basi religiose e rituali (per questo rimandiamo al nostro Movimento Tradizionalista Romano nel Novecento, 1987), dall'epoca in cui le leggi liberticide di Graziano e Teodosio, fra il 382 e il 394 interruppero per sempre la Pax Deorum, sino ai giorni nostri. Il concetto di Pax Deorum è essenziale, dal momento che si tratta del "patto" o "contratto" stabilito alle origini fra gli déi dei primordi (fra essi soprattutto Giove, o il padre celeste, Giano, Marte, e Vesta) e il popolo di Roma: tale pax, voluta dal Re-augure Romolo, e perfezionata da Numa, fondò dall'inizio alla fine l'unione indissolubile di religione e di Stato Romano, dal tempo dei Re alla caduta dell'impero. Ora, le attuali correnti della tradizione romana pagana possono sì conservare privatamente il cultus deorum, ma non praticare il culto pubblico, perché questo presupporrebbe la vera restaurazione della Pax Deorum, coincidente con la stessa restaurazione dello Stato Romano tradizionale. Questo forse può spiegare come nel tempo vari esponenti di tale corrente cercassero di esercitare pressioni ai vertici più alti dello Stato italiano, sia pure con scarsi esiti.

Un illustre precedente (certamente di carattere prevalentemente culturale e ideale) della corrente tradizionalista romana può rintracciarsi in quella linea di pensiero di cui si fecero portatori, verso il termine dell'epoca napoleonica, Vincenzo Cuoco (col suo "romanzo archeologico" a chiave Platone in Italia ) e Ugo Foscolo: un atteggiamento, il loro, di rifiuto del cosmopolitismo dei philosophes francesi e, d'altra parte, del reazionarismo degli ideologi della Santa Alleanza, nella rivendicazione di una tradizione autoctona spirituale e civile che, partendo dall'Italia preromana, giunge a Roma e si prolunga sino al Rinascimento e perviene sino al De Antiquissima Italorum Sapientia di Giovanbattista Vico, ma trascorre ancora, come una vena feconda, lungo tutta la vicenda risorgimentale: le pagine ispirate del Mistero dell'amor platonico nel Medioevo (1840) di Gabriele Rossetti ne rappresentano un'altra continuazione. Nel corso del Novecento alcune delle figure più rilevanti della corrente romana traggono la loro linfa da talune tendenze anticlericali e massoniche del Risorgimento, mentre altre se ne discontano per seguire vie proprie e originali.

In un certo senso, tale diversificazione si è mantenuta sino ai giorni nostri. Il riferimento al Risorgimento non è casuale perché secondo gli attuali rappresentanti della corrente l'unità d'Italia è condizione indispensabile per la restaurazione della Pax Deorum: ciò per "ragioni metastoriche e matapolitiche, ovvero sacrali, basandosi ab origine sul rapporto tra suolo ed epifanie divine relative alle religiones degli antichi abitatori d'Italia, quindi sullo ius sacrum di Roma" (dal Manifesto del Movimento Tradizionalista Romano. Orientamenti per i tempi a venire, Messina 1993, pagg. II-III. D'ora in poi citato come Manifesto). Oltre a influenzare poeti come Giovanni Pascoli, la "via romana agli déi" si sarebbe conservata in nobili famiglie del Lazio, come i Colonna e i Caetani: sarebbe anzi un Caetani (secondo una discussa identificazione) quell'"Ekatlos" che riferiva di un rito celebrato negli anni della prima guerra mondiale "per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta" con la partecipazione di "forze di guerra e forze di vittoria... figure vetuste e auguste degli "Eroi" della razza nostra romana", dopo che era stato ritrovato in una tomba dell'Appia antica un antico scettro regale. Ma alla via romana non sarebbero stati insensibili un famoso archeologo come Giacomi Boni (scopritore nel 1899 del Lapis Niger nel Foro Romano e disegnatore del fascio littorio per Mussolini) e un ministro della Pubblica Istruzione come Guido Baccelli, per il quale (sino alla fine dell'800) "l'ideale del secolo è il cittadino-soldato, il modello Roma antica".

Tuttavia, fu con Arturo Reghini (1878-1946) che la "via romana" tende a farsi più esplicita, per quanto egli propriamente appartenga alla variante che può ben definirsi "orfico-pitagorica" e quindi solo perifericamente si situi rispetto al filone centrale della tradizione romana autentica, il cui nucleo è altra cosa. E fu proprio intorno alle riviste di Reghini "Atanòr" (1924), poi "Ignis" (1925), infine, dopo l'ordine del giorno Bodrero e le successive leggi sulle società segrete, "Ur" (1927-28), diretta formalmente da Julius Evola, che confluiranno quanti cercavano di dare al fascismo un carattere neopagano e romano, suscitando un certo interesse in Mussolini, se questi il 23 maggio 1923 ricevette da esponenti della "via romana" un'arcaica ascia etrusca legata a fascio secondo le prescrizioni rituali: con tale atto di sapore sacrale, come è evidente, si sarebbe voluto propiziare una restaurazione in senso "pagano" che, promossa dal fascismo, riportasse alla Pax Deorum. Lo stesso famoso libello di Julius Evola Imperialismo Pagano (1928), che fu l'ultimo, deciso, inequivocabile e tragico appello da parte di esponenti della "via romana" prima del compromesso del Concordato, affinchè il fascismo "cominciasse ad assumere" - così si esprimeva Evola - "la romanità integralmente e a permearne tutta la coscienza nazionale", così che il terreno fosse "pronto per comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della Tradizione (p. 162): anche questa chiara presa di posizione risulta oggi che non fu del tutto sgradita allo stesso Mussolini, ma su un piano esclusivamente privato.

Raccontava infatti il duce a Yvonne de Begnac (Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna 1990, p. 647): "Contrariamente a quanto generalmente si pensa, non fui affatto seccato per la presa di posizione del dottor Julius Evola pochi mesi innanzi la Conciliazione contro una qualsiasi modulazione di pace tra Santa Sede e l'Italia". Nei fatti l'11 febbraio 1929 il governo fascista firmava a nome del Re d'Italia il cosiddetto concordato con la Chiesa cattolica e nasceva il monstrum giuridico dello Stato della Città del Vaticano. Veniva con ciò eliminata ogni residua speranza di azione all'interno degli ambienti ufficiali, sia da parte di Evola sia di Reghini sia di altri autorevoli esponenti, restati per lo più nell'ombra, della "via romana". Restava il "programma minimo" che ancora Evola aveva indicato in Imperialismo Pagano, vale a dire: "Promuovere studi di critica e di storia, non partigiana, ma fredda, chirurgica, sull'essenza del cristianesimo (...), promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il lato spirituale della paganità, sopra la visione vera della vita" (p. 125).

Quel programma "minimo" cercherà Evola più tardi in parte di compiere organizzando il lavoro di alcuni suoi insigni collaboratori attorno al "Diorama Filosofico", una pagina speciale di cultura e filosofia uscita irregolarmente tra il 1934 e il 1943 all'interno del quotidiano cremonese "Il regime fascista" di Roberto Farinacci. La tematica della tradizione romana esaminata nei suoi simboli e miti e nella sua forza spirituale ritornerà qui di frequente negli scritti dello stesso Evola, di Giovanni Costa (autore, nel 1923, di un'Apologia del Paganesimo), di Massimo Scaligero, del giovane Angelo Brelich (nel dopoguerra ricoprirà la cattedra di Storia delle Religioni del mondo classico nell'Università di Roma) e di Guido de Giorgio, nonchè di collaboratori stranieri come Franz Altheim ed Edmund Dodsworth.

Ma il discorso si è fatto qui puramente di natura culturale, o al più, antropologica: manca, necessariamente, la controparte più intimamente spirituale o religiosa e nulla è l'attenzione per il lato ritualistico. Guido de Giorgio (1890-1957), che aveva tentato una difficile opera di mediazione fra "via romana" e cristianesimo intorno a una nozione "metafisica" di Roma (e che pertanto non può propriamente essere inserito tra gli autori della corrente oggetto dell'indagine) aveva ben previsto nel suo La Tradizione Romana (concepita fra il 1939 e 1943 e uscita postuma solo nel 1973) che l'esito della seconda guerra mondiale sarebbe stato "addirittura letale per lo spirito e il nome di Roma" (p. 296).

In effetti la "via romana" pare a lungo restare sommersa sino a che, verso la fine degli anni Sessanta, pare dare nuovi segni di vita ai margini dell'estrema destra politica, dapprima all'interno del Centro Studi "Ordine Nuovo", poi subito dopo (verso il 1970) distaccatosene col "Gruppo dei Dioscuri", che ebbe sede principale a Roma e diramazioni a Napoli e Messina. E' poco chiaro fino a che punto il lato ritualistico legato alla ripresa della tradizione romana andasse nel "Gruppo dei Dioscuri" distinto da tematiche e pratiche operative magiche già in uso nel "Gruppo di Ur" del 1927-29: certo si sa che Evola (scomparso nel 1974) era tenuto al corrente della sua attività. Tale organismo, che diede alle stampe quattro fascicoli dottrinari fra il 1969 e il 1974, i "Fascicoli dei Dioscuri" (uno di essi, Impeto della vera cultura, attribuibile ad un noto esoterista, pubblicato anche in francese nel 1979), era peraltro in via di dissoluzione verso la metà degli anni Settanta. Il "Gruppo dei Dioscuri" ebbe importanza per la cosciente riconnessione alle precedenti esperienze sapienziali e costituì da indicazione, per taluni elementi particolarmente sensibili provenienti dall'area della destra radicale (ma col tempo tale definizione ha perso buona parte del suo significato) verso possibili indirizzi e sbocchi futuri di quella che propriamente potremo ora definire "Tradizione pagana romana in Italia". Se il Gruppo si dissolse per la particolare via operativa scelta e soprattutto per la mancata qualificazione di molti suoi componenti, alcuni dei gruppi periferici ne continuarono in maniera diversa e rinnovata l'attività. Così è certamente dal gruppo di Messina che deriva, verso la fine degli anni Settanta e nella medesima città, il "Gruppo Arx", successivamente editore (dal marzo 1984) del trimestrale "La Cittadella" e degli omonimi quaderni. Con l'inizio degli anni Ottanta si è infine verificata una esplicita, cosciente ripresa della moderna corrente della "via romana".

Una sua prima manifestazione pubblica si tenne in un luogo e in una data alquanto significativi. Infatti nella cittadina di Cortona (sito donde sarebbe partito, secondo la tradizione mitica, in epoca primordiale Dardano, capostipite dei Troiani, verso l'Asia Minore) il 1° Marzo (giorno che segnava l'inizio dell'anno sacro dei Romani) del 1981 fu tenuto un importante convegno di studi dedicato alla Tradizione Italica e Romana. Se vi si manifestarono prese di posizione non omogenee da parte dei gruppi e movimenti presenti, esso ebbe il merito di riproporre il problema di come doversi connettere a quella che fu definita aurea catena Saturni della tradizione autoctona italica. Un secondo convegno fu poi tenuto poco dopo a Messina nel dicembre 1981, sul tema de Il Sacro in Virgilio. A partire da allora, la rielaborazione dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori difesi dagli attuali esponenti della "via romana" - di cui è parte cospicua anche l'apparire alle stampe di libri e di alcune collane specifiche (comprendenti classici antichi e moderni, nonché ricerche aggiornate di contemporanei) - si è spostata, da una parte, su un piano di affinamento interiore e, dall'altra, su un cauto lavorio organizzativo estendentesi attraverso varie regioni italiane. Così, tra il 1985 e il 1988, furono tenuti in Sicilia tre incontri (chiamati I, II e III Conventum Italicum) fra le tre principali componenti della "via romana", in cui il dibattito ha riguardato soprattutto la ritualità, il concetto di monoteismo/politeismo, la preferenza da accordarsi alla tradizione cosiddetta prisca, o più antica, o alla più tarda romanità "misterica" e neoplatonica, infine la comune linea di azione volta a valorizzare e diffondere la stampa che approfondisca i temi della visione romana del sacro.

Nasce così propriamente, come vera e propria organizzazione, il "Movimento tradizionalista romano", il quale si autodefinisce "non un movimento politico, bensì l'espressione, sul piano culturale della Nazione, di un Centro spirituale che alla fine del secondo millennio dell'Era Volgare testimonia della continuità e della viva presenza della Tradizione romano-italica in Italia" (Manifesto, p. I). E sul finire del 1988 viene pubblicato un volumetto anonimo, ma collettivamente firmato dal "Movimento Tradizionalista Romano" (d'ora in poi MTR), dal titolo: Sul problema di una tradizione romana nel tempo attuale. Sotto la specie di libro-intervista si rispondono alle principali e possibili obiezioni, dottrinali e culturali che potrebbero essere rivolte al MTR e viene fornita una prospettiva di orientamento preliminare per chi voglia liberamente partecipare alla vita di una costituenda ampia area tradizionalista romana. Nulla meglio che il riportare l'intero sommario può dare un'idea generale dei contenuti: 1)le varie componenti del MTR; 2)gli equivoci del "neo-paganesimo"; 3)spirito romano e mondo cristiano; 4)sulla "legittimità" della tradizione romana; 5)la pietas romana attuale; 6)il ruolo della donna; 7)le nuove "comunità di destino"; 8)obiettivi immediati; 9)sulla tolleranza religiosa; 10) la tradizione romana e la politica. Infine, nel corso del IV (e ultimo) Conventum Italicum, tenutosi il Solstizio d'Estate del 1992 presso la sede dell'Associazione Romània Quirites (una potente organizzazione entrata a far parte del MTR nel 1991 e strutturata comunitariamente, con aree agricole e attività artigianali in Romagna; pubblica il periodico "Saturnia Regna") nella città di Forlì, fu deciso che accanto al MTR, con la sua struttura di federazione di associazioni di fatto e di diritto, sorgesse la Curia Romana Patrum, cui fosse demandata ogni facoltà di determinazione quanto al mos e di decisione in quanto alle caratteristiche della pietas, cioè del rito e del culto, che, sulla base di quanto è stato detto all'inizio, mantiene necessariamente un carattere privato.

Cinque sono attualmente le gentes (raggruppanti una o più familiae) distribuite per l'Italia: due in Sicilia (Aurelia e Castoria); una al centro (Iulia Primigenia) e due al Nord (Pico-Martia e Apollinaris). Ha fatto seguito la stesura di un preciso Kalendarium che scandisse i ritmi "qualitativi" del tempo sacro e indicasse le date essenziali per le celebrazioni cultuali comunitarie personali. Su queste basi si sono pututi celebrare anche due matrimoni (uno in Sicilia nel 1989 e uno in Romagna nel 1992) secondo le linee dell'antico e sacro rito della confarreatio o "comunione del farro", cerimonia assolutamente facoltativa e non richiesta agli aderenti alle gentes e celebrata rite dal promagister gentium, che è eletto o confermato ogni anno dalla Curia Patrum sulla base della sua experientia religiosa. Per finire, accenneremo che ancora più di recente (1993) ha preso forma con un interessante Manifesto in quindici punti (che ci è già capitato di citare) una chiara intenzione del MTR di prendere direttamente posizione in una dimensione di risonanza pubblica. Ha scritto a questo proposito la rivista "Politica Romana": "Questa volontà di incidere in ambito pubblico, con una specifica attenzione al tema della Patria, della Nazione, dello Stato e della Religione mostra un risveglio d'interesse per quel dominio che fu il principale oggetto dell'attenzione e delle cure del Koku-rei, il Cerimoniale di Stato nipponico, peraltro oggi non più esistente come funzione istituzionale dello Stato".

Più precisamente, al punto 5 (Religione. Religioni) del Manifesto si può leggere che il MTR: "Non guarda a se stesso come espressione di una realtà in competizione o contrapposizione con qualsivoglia religione: fa infatti propria l'idea, già romana, dalla pluralità delle forme del Sacro". Tuttavia: "Considerando come "Stato tradizionale minimo" uno Stato "alla giapponese" nel quale il posto che ha lo Shintoismo nel Sol Levante sarebbe qui tenuto dal culto pubblico degli Déi di Roma, il MTR assicura fin da adesso che, nell'eventualità si addivenisse a un simile Stato, il pluralismo religioso sarebbe mantenuto...". Cionondimeno viene auspicato che "lo Stato del Vaticano venga meno, col trasferimento fuori dai confini d'Italia della sede papale, il che peraltro è nei voti di non pochi cattolici di tutto il mondo...". Come si vede, l'eredità di Imperialismo Pagano è ancora forte...

lundi, 15 mars 2010

Platon et les trois fonctions indo-européennes

Platon et les trois fonctions indo-européennes

platon.jpgEx: http://tpprovence.wordpress.com/ 

On trouve de tout chez Platon, comme au rayon bricolage du BHV (à ne pas confondre avec le BHL, où l’on ne trouve rien d’autre que le vide abyssal de la non-pensée nombriliste) : le mythe de la caverne, l’Atlantide et même … les trois fonctions indo-européennes.

LES TROIS FONCTIONS CHEZ LES INDO-EUROPÉENS

C’est Georges Dumézil qui a découvert, en 1938, l’existence d’une véritable « idéologie » indo-européenne, d’une structure mentale spécifique se manifestant par une même conception du monde. « Suivant cette conception, que la comparaison de documents pris dans la plupart des vieilles sociétés indo-européennes permet de reconstituer, écrira-t-il, tout organisme, du cosmos à n’importe quel groupe humain, a besoin pour subsister de trois types hiérarchisés d’action, que j’ai proposé d’appeler les trois fonctions fondamentales : la maîtrise du sacré et du savoir avec la forme du pouvoir temporel qu’elle fonde, la force physique et la valeur guerrière, la fécondité et l’abondance avec leurs conditions et leurs conséquences » (1).

Sur le plan social, l’on retrouve cette tripartition dans tout l’espace indo-européen, de l’Inde à l’Irlande, les trois fonctions correspondant schématiquement aux prêtres-rois, aux guerriers ainsi qu’aux producteurs, paysans et artisans. C’est ainsi que dans l’Inde traditionnelle les Brahmânes correspondent à la 1ère fonction, les Kshatriyâs à la 2 ème et les Vaishyâs à la 3 ème. A l’extrême ouest de l’aire couverte par les indo-européennes, chez les Celtes, César nous apprend que la société gauloise se composait des Druides, des Equites ou Chevaliers, et de la Plebs, le Peuple…

Reste le cas de la Grèce antique, qui a tendu très tôt à éliminer toute trace de l’idéologie trifonctionnelle. Si l’on en croit Dumézil, « la Grèce n’est pas généreuse envers nos dossiers. M. Bernard Sergent a fait un bilan critique des expressions de la structure des trois fonctions, la plupart du temps isolées, en voie de fossilisation, qu’on a proposé d’y reconnaître : c’est peu de chose, comparé aux richesses qu’offrent l’Inde et l’Italie » (2). Toutefois, un lecteur attentif de l’œuvre de Platon peut y découvrir la preuve d’une survivance de la tripartition fonctionnelle dans la Grèce classique.

LA CITÉ IDÉALE PLATONICIENNE

Dans La République, Platon, s’interrogeant sur la cité idéale, affirme que « les classes qui existent dans la Cité sont bien les mêmes que celles qui existent dans l’âme de chacun pris individuellement » (3). Au terme d’une analyse psychologique de la nature humaine, le philosophe grec reconnaît dans l’homme trois sortes d’âmes ou de dispositions à agir : la raison, située dans la tête, qui lui permet de penser ; le sentiment, situé dans le cœur, qui conduit à aimer ; et le désir, situé dans le ventre, qui le pousse à se reproduire. Elles impliquent trois vertus qui représentent l’excellence de chacune des âmes : la sagesse, le courage et la tempérance. Selon lui, la constitution de la cité n’est que la projection de la constitution de l’âme soumise à son exigence de justice, cette dernière étant à son tour, l’articulation harmonieuse des trois vertus.

Concrètement, le philosophe distingue au sein de la cité trois fonctions. D’abord, « ceux qui gardent entièrement la Cité, aussi bien des ennemis de l’extérieur que des amis de l’intérieur » (4), les Gardiens, qui correspondent à la tête, siège de l’intelligence et de la raison, le Logos. Ensuite,  « les auxiliaires et assistants des décisions des gouvernants » (5), qui correspondent au cœur, siège du courage, le Thymos. Enfin les Producteurs, artisans et paysans, qui correspondent au ventre, siège des appétits. « Vous qui faites partie de la Cité, précise Platon,vous êtes tous frères, mais le dieu, en modelant ceux d’entre vous qui sont aptes à gouverner, a mêlé de l’or à leur genèse ; c’est la raison pour laquelle ils sont les plus précieux. Pour ceux qui sont aptes à devenir auxiliaires, il a mêlé de l’argent, et pour ceux qui seront le reste des cultivateurs et des artisans, il a mêlé du fer et du bronze » (6).

« Une cité semble précisément être juste, souligne Platon, quand les trois groupes naturels présents en elle » exercent « chacun sa tâche propre » (7). Effectivement, de même que l’homme doit soumettre le ventre au cœur, puis le cœur à la raison, les arts qui sont au service du ventre doivent être soumis à l’art des guerriers, qui lui-même doit obéir à celui des magistrats, c’est à dire à la Politique – cette dernière étant inséparable de la philosophie, car les magistrats doivent être philosophes. Il distingue également trois sortes de régimes politiques, dont chacun est lié à l’une des fonctions de la cité et, par conséquent, à l’une des parties et des facultés de l’organisme humain : la monarchie, ou gouvernement d’un seul, et l’aristocratie, gouvernement des meilleurs, régimes commandés par la raison ; la timocratie, ou gouvernement des guerriers, est quant à elle commandée par les passions nobles, celles du cœur ; enfin la démocratie, ou gouvernement du plus grand nombre, régime caractérisé par les passions les plus basses de l’âme humaine et les appétits matériels…

Pas de doute : cette cité idéale platonicienne reposant sur trois classes strictement hiérarchisées, reproduit l’organisation traditionnelle de la société en trois fonctions propre aux indo-européens. En effet, dans une Grèce qui semble avoir totalement oublié la tripartition, Platon confie la vie politique de la cité à des philosophes-rois ,les Gardiens, assistés d’une caste militaire, les Auxiliaires, qui règnent sur les basses classes productives.

Platon est convaincu que seuls les Gardiens, c’est-à-dire les sages, ont la capacité d’user équitablement de la raison pour le bien commun, alors que les hommes ordinaires ne peuvent s’élever au-dessus de leurs passions et de leurs buts personnels. En contrepartie, les membres de ce qu’il faut bien appeler la caste dirigeante doivent mener une vie entièrement commune, sans propriété privée ni famille, autant d’éléments de tentation égoïste, de division et, au final, de corruption. « Nul bien ne sera la possession privée d’aucun d’entre eux, sauf ce qui est de première nécessité » décrète le philosophe, qui préconise en outre « qu’ils vivent en communauté, comme ceux qui sont en expédition militaire » , et que parmi les habitants de la cité « ils soient les seuls à n’avoir pas le droit de prendre une part, ou de toucher l’or et l’argent, les seuls à ne pouvoir entrer sous un toit qui en abrite, en porter sur eux comme ornement, ou boire dans un récipient d’or ou d’argent » (8).

« Car, ajoute-t-il, dès qu’ils possèderont privément de la terre, une habitation et de l’argent, ils deviendront administrateurs de leurs biens, cultivateurs au lieu d’être les gardiens de la cité, et au lieu d’être les compagnons défenseurs des autres citoyens,  ils en deviendront les tyrans et les ennemis, remplis de haine et eux-mêmes haïs, ils passeront leur vie conspirant contre les autres et deviendront objets de conspiration, et ils redouteront bien davantage et plus souvent les ennemis de l’intérieur que ceux de l’extérieur, se précipitant vers la ruine eux-mêmes et l’ensemble de la cité » (9). En outre, leurs enfants seront enlevés dès la naissance afin de recevoir une éducation collective de type militaire.

Ce « communisme platonicien », un communisme viril et ascétique sans rapport avec les cauchemars messianiques à la Marx et Trotsky, n’est pas sans rapport avec le national-communautarisme spartiate. D’ailleurs, Montesquieu ne soulignera-t-il pas avec justesse que « la politique de Platon n’est pas plus idéale que celle de Sparte ».

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, hiver 2009, n°31.

NOTES

(1) G. Dumézil, L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux et autres essais. Vingt-cinq esquisses de mythologies, Gallimard (Coll. « Bulletin des sciences humaines »), 1985, p.94.

(2) Ibid, p.13.

(3) Platon, La République, Flammarion (Coll. « Le monde de la philosophie »), 2008 p. 262.

(4) Ibid, p. 199.

(5) Ibid, p. 200.

(6) Ibid, p. 201.

(7) Ibid ,p. 245.

(8) Ibid,p. 205.

(9) Ibid, pp. 205-206.

mercredi, 10 mars 2010

Les Germains contre Rome: cinq siècles de lutte ininterrompue

Les Germains contre Rome: cinq siècles de lutte ininterrompue

 

par Konrad HÖFINGER

 

arminius.jpgLes sources écrites majeures du monde antique sont romaines, rédigées en latin. Les textes nous livrent donc une vision romaine des cinq siècles de lutte qui ont opposé le long du Rhin, des limes et du Danube, les tribus germaniques à Rome. Konrad Höfinger, archéologue de l'école de Kossina, interroge les vestiges archéologiques pour tenter de voir l'histoire avec l'oeil de ces Germains, qui ont fini par vaincre. Ses conclusions: les tribus germaniques connaissaient une forme d'unité confédérale et ont toutes participé à la lutte, en fournissant hommes ou matériel. La stratégie de guerilla, de guerre d'usure, le long des frontières était planifiée en bonne et due forme, au départ d'un centre, située au milieu de la partie septentrionale de la Germanie libre. Nous reproduisons ci-dessus une première traduction française des conclusions que tire Konrad Höfinger après son enquête minutieuse.

 

Si nous résumons tous les faits et gestes du temps des Völkerwanderungen (migrations des peuples), nous constatons l'existence, sous des formes spécifiques, d'un Etat germanique, d'une culture germanique, renforcée par une conscience populaire cohérente.

 

1. Dès l'époque de César, c'est-à-dire dès leur première manifestation dans l'histoire, les Germains ont représenté une unité cohérente, opposée aux Romains; ceux-ci connaissaient les frontières germaniques non seulement celles de l'Ouest, le long du Rhin, mais aussi celles de l'Est.

2. La défense organisée par les Germains contre les attaques romaines au temps d'Auguste s'est déployée selon des plans cohérents, demeurés identiques pendant deux générations.

3. Après avoir repoussé les attaques romaines, les Germains ont fortifié la rive droite du Rhin et la rive gauche du Danube selon une stratégie cohérente et une tactique identique en tous points. Les appuis logistiques pour les troupes appelées à défendre cette ligne provenaient de toutes les régions de la Germanie antique.

4. Quand les Daces, sous la conduite de Decebalus, attaquent les Romains en l'an 100 de notre ère, les Quades passent à l'offensive sur le cours moyen du Danube et les Chattes attaquent le long du Rhin.

5. L'assaut lancé par les Quades et la Marcomans vers 160 a été entrepris simultanément aux tentatives des Alamans sur les bords du Rhin et des Goths sur le cours inférieur du Danube. Les troupes qui ont participé à ses manœuvres venaient de l'ensemble des pays germaniques.

6. A l'époque où se déclenche l'invasion gothique dans la région du Danube inférieur vers 250, les Alamans passent également à l'attaque et s'emparent des bastions romains entre Rhin et Danube.

7. A partir des premières années du IVième siècle, Rome s'arme de l'intérieur en vue d'emporter la décision finale contre les Germains. A partir de 350, les fortifications le long du Rhin et du Danube sont remises à neuf et des troupes, venues de tout l'Empire, y sont installées. Simultanément, sur le front germanique, on renforce aussi ses fortifications en tous points: ravitaillement, appuis, matériel et troupes proviennent, une nouvelle fois, de toute la Germanie, ce qu'attestent les sources historiques.

8. Sur aucun point du front, on ne trouve qu'une et une seule «tribu» (Stamm) ou un et un seul peuple (Volk), mais partout des représentants de toutes les régions germaniques.

9. Les attaques lancées par les Germains en 375 et 376 ne se sont pas seulement déclenchées avec une parfaite synchronisation, mais constituaient un ensemble de manœuvres militaires tactiquement justifiées, qui se complétaient les unes les autres, en chaque point du front. Le succès des Alamans en Alsace a ainsi conditionné la victoire gothique en Bessarabie.

10. La grande attaque, le long d'un front de plusieurs milliers de kilomètres, ne s'est pas effectuée en un coup mais à la suite de combats rudes et constants, qui ont parfois duré des années, ce qui implique une logistique et un apport en hommes rigoureusement planifiés.

11. Les combats isolés n'étaient pas engagés sans plan préalable, mais étaient mené avec une grande précision stratégique et avec clairvoyance, tant en ce qui concerne l'avance des troupes, la sécurisation des points enlevés et la chronométrie des manœuvres. Les sources romaines confirment ces faits par ailleurs.

12. Les événements qui se sont déroulés après la bataille d'Andrinople, entre 378 et 400, ont obligé l'Empereur Théodose à accepter un compromis avec l'ensemble des Germains. Ce compromis permettait à toutes les tribus germaniques, et non pas à une seule de ces tribus, d'occuper des territoires ayant été soumis à Rome.

13. La campagne menée par le Roi Alaric en Italie et la prise de Rome en 410, contrairement à l'acception encore courante, ne sont pas pensables comme des entreprises de pillage, perpétrées au gré des circonstances par une horde de barbares, mais bien plutôt comme un mouvement planifié de l'armée d'une grande puissance en territoire ennemi.

14. Ce ne sont pas seulement des Wisigoths qui ont marché sur Rome, mais, sous les ordres du «Général» Alaric, des représentants de toutes les régions de la Germanie.

15. L'occupation de l'Empire d'Occident s'est déroulée selon un plan d'ensemble unitaire; les diverses armées se sont mutuellement aidées au cours de l'opération.

16. L'armement et les manières de combattre de tous les Germains, le long du Rhin à l'Ouest, sur les rives de la Mer Noire à l'extrémité orientale du front, en Bretagne au Nord, ont été similaires et sont demeurées quasi identiques pendant tous les siècles qu'a duré cette longue guerre. Ils sont d'ailleurs restés les mêmes au cours des siècles suivants.

17. Enfin, la guerre qui a opposé Rome aux Germains a duré pendant quatre siècles complets, ce qui ne peut être possible qu'entre deux grandes unités politiques, égales en puissance. Cette longue guerre n'a pas été une suite d'escarmouches fortuites mais a provoqué, lentement, de façon constante, un renversement du jeu des forces: un accroissement de la puissance germanique et un déclin de la puissance romaine. Cette constance n'a été possible que parce qu'il existait une ferme volonté d'emporter la victoire chez les Germains; et cette volonté indique la présence implicite d'une forme d'unité et de conscience politiques.

 

Après la victoire germanique, à la fin du IVième siècle, se créent partout en Europe et en Afrique des Etats germaniques, qui, tous, furent édifiés selon les mêmes principes. Que ce soit en Bretagne avec les Angles, en Espagne avec les Alains, en Afrique avec les Vandales, en Gaule avec les Francs, en Italie avec les Goths ou les Lombards, toutes ces constructions étaient, sur les plans politique, économique et militaire, avec leurs avantages et leurs faiblesses, leur destin heureux ou malheureux, le produit d'une identité qu'on ne saurait méconnaître. Il saute aux yeux qu'il existait une spécificité propre à tous les Germains, comme on en rencontre que chez les peuples qui ont reçu une éducation solide au sein d'une culture bien typée, aux assises fermes et homogènes, si bien que leurs formes d'éducation politique et éthique accèdent à l'état de conscience selon un même mode, ciselé par les siècles. Nous avons toujours admiré, à juste titre d'ailleurs, l'homogénéité intérieure de la spécificité romaine, laquelle, en l'espace d'un millénaire, en tous les points du monde connu de l'époque et malgré les vicissitudes politiques mouvantes, est demeurée inchangée et, même, est restée inébranlable dans le déclin. Le monde germanique n'est pas moins admirable pour ce qui concerne l'unité, l'homogénéité et le caractère inébranlable de sa constance: dès qu'il est apparu sur la scène de l'histoire romaine, au Ier siècle avant notre ère, il est resté fidèle à lui-même et constant jusqu'à la fin de la «longue guerre».

 

Konrad HÖFINGER.

 

Konrad HÖFINGER, Germanen gegen Rom. Ein europäischer Schicksalskampf, Grabert-Verlag, Tübingen, 1986, 352 S., 32 Abb., DM 45.

    

dimanche, 24 janvier 2010

Striptekenaar Jacques Martin overleden

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Striptekenaar Jacques Martin overleden

Ex: http://www.standaard.be/

De Franse striptekenaar Jacques Martin is op 88-jarige leeftijd overleden. Dat meldt zijn uitgeverij Casterman. Martin raakte vooral bekend als de bedenker van de Gallo-Romeinse held 'Alex'.

Martin was ook bekend van de stripreeks 'Lefranc' en van zijn medewerking aan diverse avonturen in het weekblad 'Kuifje'.

De striptekenaar werd op 25 september 1921 in Straatsburg geboren. Op 25-jarige leeftijd trok Martin naar België. Samen met Hergé en Edgar Pierre Jacobs ('Blake en Mortimer') vormden ze de drie grootste vertegenwoordigers van de zogenaamde "Brusselse school" en de geestelijke vaders van de 'klare lijn'.

In 1948 is Alex voor het eerst te bewonderen in het weekblad Kuifje (met het avontuur 'Alex de Onversaagde'). In datzelfde weekblad kan men in 1952 zijn nieuwe creatie Lefranc bekijken ('Het sein staat op rood').

In 1953 trad hij toe tot de studio Hergé, waar hij 19 jaar lang zal werken aan diverse avonturen van Kuifje. In 1984 schrijft hij de scenario's voor 'Xan/Tristan Madoc' en voor 'Arno'. Recente initiatieven van Martin, tijdens zijn laatste levensjaren nagenoeg blind en veroordeeld het tekenwerk aan anderen over te laten, waren 'Keos' en 'Orion', die zich afspelen in het antieke Griekenland en Egypte, en 'Lois', gesitueerd aan het hof van Lodewijk XIV.

Van de strip 'Alex', avonturen ten tijde van de ook herhaaldelijk in de strip opduikende Julius Caesar, zijn in heel Europa meer dan 20 miljoen exemplaren verkocht.

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samedi, 23 janvier 2010

In memoriam : Jacques Martin

In Memoriam : décès de Jacques Martin, créateur « d’Alix »

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22/01/10 – 11h55
PARIS(NOVOpress) – C’est un monument de la bande dessinée de qualité qui vient de disparaître. En effet, Jacques Martin, créateur d’Alix, vient de s’éteindre en Suisse à l’âge de 88 ans.

Né à Strasbourg (est de la France) en 1921, il avait fait des études aux Arts et Métiers en Belgique, pays où il avait rencontré sa femme Monique et eu leurs deux enfants, Frédérique et Bruno.

L’œuvre de ce passionné d’histoire est colossale et a participé à la découverte de l’Antiquité ou du Moyen-âge (la série « Jhen ») par de nombreux jeunes.
Au total, on comptabilise quelque 120 albums qui se sont vendus à 20 millions d’exemplaires, et ont été traduits en 15 langues.

Ancien collaborateur d’Hergé, il était l’un des derniers « grands classiques » de la bédé franco-belge.

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[
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vendredi, 01 janvier 2010

Le Who's who de la mythologie indo-européenne

olympians.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Le Who's who de la mythologie indo-européenne

 

Patrick CANAVAN

 

«Tous les peuples qui n'ont plus de légendes seront condamnés à mourir de froid»

Patrice de la Tour du Pin

 

L'Europe contemporaine a une dette immense à l'égard de la mythologie païenne, à commencer par son nom. Aimée de Zeus, la belle et blanche Europe, fille d'Agénor, roi de Phénicie, donna son nom à notre continent après avoir fait trois fils au roi des dieux: Minos, Rhadamante et Sarpédon. Le moindre de nos fleuves, la moindre de nos montagnes portent généralement le nom d'une divinité archaïque. Comme en Europe, toutes les renaissances sont toujours des recours au vieux fonds pré-chrétien (la Renaissance italienne, le Romantisme allemand, etc), on voit que la connaissance de cet héritage ancestral s'impose à quiconque entend construire quelque chose de durable.

 

Le mérite principal du beau Dictionnaire des mythologies indo-européennes  que les éditions “Faits et Documents” viennent de publier est justement d'offrir au lecteur non spécialiste, à l'homme cultivé d'aujourd'hui, un outil de travail permettant de “surfer” à travers les mythologies, de l'lnde à la Baltique, de l'Ecosse à la Mer Noire. C'est la première fois que cet exercice hautement excitant pour l'esprit est possible. Grâce à Jean Vertemont, indianiste et informaticien, collaborateur de la Revue d'Etudes Polythéistes Antaios, nous pouvons déambuler au milieu des mythes, des dieux et des héros de nos origines. La structure intelligente de son superbe livre permet, grâce aux renvois systématiques, de faire le lien avec les diverses correspondances. Prenons un exemple: Odhinn, Père de tous, Ase aux corbeaux, renvoie à Varuna, ce que savent les lecteurs de Dumézil, mais pas nécessairement les non spécialistes, les curieux. A lire le Dictionnaire  de Vertemont, on se prend vite au jeu fascinant des liens et des correspondances et, surtout, l'unité fondamentale de la Weltanschauung  indo-européenne apparaît de façon lumineuse. Le lecteur attentif ressentira rapidement une curiosité, une réelle solidarité pour les mythologies balte, scythe ou irlandaise généralement moins connues.

 

Ce dictionnaire est le premier du genre, d'où quelques menues imperfections (coquilles, imprécisions mineures), mais on n'oubliera pas que l'auteur a fait tout le travail en solitaire et qu'il a travaillé près de trente ans à cet ouvrage de référence, déjà incontournable. Dans une préface subtile, Jean Vertemont montre parfaitement l'importance du socle païen dans l'imaginaire européen. Son retour aux sources est une saine réaction contre toutes les monstrueuses idéologies de la table rase, qui sont à la base de tous les totalitarismes, dont l'utopie communiste, sans aucun doute le mythe le plus sanglant du XXème siècle avec ses cent millions de morts. Il est vrai que le libéralisme ploutocratique pratique lui aussi la table rase: en nous faisant oublier nos racines, grâce aux techniques de brouillage mental propres à la modernité (concerts de rock, vidéos irréelles, culte de la consommation et de la performance imbéciles, désinformation systématique, etc), il nous prive de tout avenir. L'abrutissement télévisuel, la censure des médias, la crétinisation de masse via les “loisirs”, tout cela concourt à noyer les identités dans un nouveau chaos, que l'apologie du métissage vient évidemment couronner: c'est la grande partouze planétaire annoncée par Guillaume Faye. Or, la souveraineté authentique, celle que nos ennemis tentent d'annihiler, a pour préalable obligé une claire conscience de son héritage: la Chine, le Japon, l'lnde en sont de bons exemples. Point de longue durée sans mémoire! Qu'attend l'Europe pour reconstituer son axe et pour affirmer sa volonté? La connaissance approfondie des structures des mythologies indo-européennes n'est donc pas un exercice gratuit réservé à quelques poètes ou à des rêveurs sans prise sur le réel.

 

Vertemont montre bien que les mythes archaïques nous enseignent l'essentiel, nous ouvrent des portes sur des domaines inconnus ou refoulés. Par exemple, au principe d'exclusion (un mot à la mode!) typique des religions monothéistes et dualistes, les paganismes indo-européens préfèrent le principe d'inclusion, nettement plus riche et harmonieux. Or, la multiplication des maladies dégénératives est clairement liée à une grave rupture avec les rythmes cosmiques, que la modernité, dans son désir fanatique de tout nier, de tout “démystifier”, a ignorés. Vertemont exprime bien une vérité très profonde, à savoir que le paganisme est bien plus qu'un stade primitif de notre conscience, mais bien le stade premier... et qui n'a rien de primaire. Ecoutons-le un instant: «Le Dieu unique, régnant sur le monde comme un banquier sur ses débiteurs, est devenu le moteur d'une pandémonie égalitaire de l'échange et de l'interchangeabilité, processus qui n'a pas encore atteint son terme. Que le résultat soit un totalitarisme dur ou un totalitarisme mou, il s'agit immanquablement d'une conséquence de la normalisation monothéiste, et de ses corrélats: l'expulsion de l'âme par le désenchantement du monde, l'universalisation par la raison, l'ethnocentrisme, l'homogénéisation par la domestication des âmes, des esprits, et bientôt des corps».

 

Ce somptueux dictionnaire n'est donc pas un livre de plus à ranger religieusement dans sa bibliothèque sans l'avoir réellement lu: il s'agit d'un instrument de travail, non pas un simple travail d'érudition, tout compte fait secondaire, mais bien d'un travail sur soi. Un travail, souvent douloureux, de redécouverte d'une identité première, antérieure à la coupure judéo-chrétienne (l'an “zéro” dont nous fêterons bientôt les deux millénaires: 2000 ans d'imposture et de malentendu). Telle est la quête païenne: être païen aujourd'hui ne consiste pas à arborer de volumineux marteaux de Thor! Mais bien à rentrer en soi, à se reconstruire, étape préalable à toute action sur le monde. Dans un entretien très dense accordé à la revue païenne Antaios  (n°12, solstice d'hiver 1997), Jean Vertemont nous propose sa définition des dieux du paganisme moderne: «Les Dieux sont des agencements de symboles qui acquièrent de ce fait la qualité de condensateurs de forces ou d'énergies primordiales. Ces forces sont opératives si l'on dispose des formes correctes pour les appréhender et les mettre en action». Son beau livre est fondamental pour la renaissance d'un courant païen qui ne se satisfait pas de pitreries ou d'idéologie: Vertemont convie les esprits libres à se retrouver et à créer.

 

Patrick CANAVAN.

 

Jean VERTEMONT, Dictionnaire des mythologies indo-européennes, Faits et Documents, BP 254-09, F-75424 Paris cedex 09, 365 FF. «Entretien avec J. Vertemont (Les Dieux des Indo-Européens)», cf. Antaios  n°12 (168 rue Washington, B-1050 Bruxelles, 110 FF ou 600 FB).

 

mercredi, 30 décembre 2009

De la religion des Romains

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

De la religion des Romains

 

Ivo RAMNES

 

Analyse: Renato dal Ponte, La religion des Romains.

La religion et le sacré dans la Rome ancienne.

Editions RUSCONI - Milan 1992 - 304 pages -12 illustrations - Lit. 34.000

 

Au cours de ces dernières années, on a assisté indubitablement à un intérêt accru pour le monde romain, grâce surtout à la nouvelle école archéologique italienne, qui a su «jeter les bases d'une confrontation entre les données de la tradition littéraire (reconsidérées systématiquement) et la situation topographique et archéologique, réexaminée pour obtenir des contextes chronologiquement et fonctionnellement homogènes» (F. Coarelli, Il Foro Romano, periodo arcaico, Rome, 1983, p. 9). Un effort analogue pour une coordination interdisciplinaire, peaufiné par la méthode traditionnelle, sollicité à plusieurs reprises par Julius Evola lui-même, imprègne le livre du Professeur Renato Del Ponte, paru il y a six ans chez Rusconi. Ce livre ranime l'intérêt parmi les spécialistes, les amateurs ou tout simplement parmi tous ceux qui ont le sentiment que leurs racines n'ont pas été définitivement coupées.

 

Après le considérable succès obtenu par Dei e miti italici (Dieux et mythes italiques, 1985, réédité une première fois en 1986, remis à jour et amplifié en 1988), où l'auteur sondait les origines du monde religieux italique; après la Relazione sull'altare della Vittoria di Simmaco (Essai sur l'autel de la Victoire de Symmaque, éditions Il Basilico, Gênes, 1986), où l'auteur se penchait sur une des périodes historiques les plus tourmentées et les plus riches en conséquences pour Rome, pour l'Italie et pour tout l'Occident, voici donc un livre qui nous parle de la «Ville des Dieux». Il est rare de découvrir une œuvre qui, comme celle-ci, est capable d'affronter le monde religieux romain de façon très rigoureuse, aussi bien pour ce qui est de la recherche documentaire que sur le plan déductif, libérée d'une certaine mentalité académique qui, aujourd'hui, du moins en Italie, paraît vide, approximative et même grevée de “déjà-vu”.

 

C'est un livre qui s'adresse à un public averti, pas tellement pour le style, toujours élégant et agréable, mais plutôt pour l'originalité de la thématique qui, comme l'auteur le suggère, implique un changement de mentalité, un “changement intérieur, une sensibilité spécifique pour pouvoir capter et comprendre les constantes du monde religieux romain”. Les sources classiques prédominent, car elles sont clairement incontestées, mais l'auteur consacre un espace important aux études les plus récentes, surtout dans le champ archéologique et philologique; il les confronte toujours ad fontes, n'épargnant pas les critiques, les distinctions subtiles et les précisions, même face à des savant de la taille d'un Georges Dumézil, mais amicus Plato, sed magis amica veritas!

 

Une intuition de Fustel de Coulanges

 

Le livre jouit d'une excellente présentation éditoriale (en jaquette, une photo inédite d'un des Dioscures de Pompei), garnie d'illustrations souvent très rares; il contient cinq chapitres, quatre tables et deux annexes (avec, par exemple, les listes des Souverains Pontifes connus), en plus d'une bibliographie générale et de cinq index de recherche aussi minutieux que précieux. Une indispensable introduction (“Les Origines”) sur la préhistoire des populations latines de souche romaine et sur les printemps sacrés, bien retracés dans le tableau récapitulatif en tant que mises en scène ritualisées des anciennes migrations des peuples indo-européens qui, par la suite, s'installèrent en Italie. Cette réminiscence des “printemps sacrés” nous emmène à envisager l'éventualité d'un printemps sacré primordial, où une tribu est partie de la mythique “Alba” pour aller former les premières implantations dans les sites où, plus tard, naîtra Rome. Quant à la formation de l'Urbs, l'auteur, très opportunément, insiste sur l'acte juridique religieux (La ville qui surgit en un jour);  cette option pour l'acte juridique-religieux constitue une polémique contre les tenants de l'école positiviste/évolutionniste, enfermés dans leur conservatisme obtus. Del Ponte se réfère ainsi partiellement aux heureuses intuitions d'un Fustel de Coulanges (1), qui sont confirmées par les toutes dernières découvertes archéologiques.

 

Del Ponte fait allusion à la découverte, dans l'aire sud-occidentale du mont Palatin, pendant les fouilles dirigées par le Prof. Pensabene, du lieu exact où la Tradition situait la casa Romuli  —la maison de Romulus—  qui, à l'époque historique, avait la forme d'un petit sanctuaire (probablement un sacellum)  près duquel on a trouvé les traces (Cass. Dio XLVIII, 43, 4) d'un sacrifice consommé par les pontifes en l'année 716 de Rome (38 av. J. C.), à la veille de la restauration d'Auguste. Le fait que la résidence d'Auguste fut toute proche de ce lieu vénérable n'est pas un hasard. Naturellement aucune publicité tapageuse n'a accompagné la nouvelle de cette découverte extraordinaire qui, paradoxalement, a été signalée en avant-première par le New York Times.  Plus tard seulement, et probablement de façon détournée, la presse nationale italienne a signalé l'événement sans tambours ni trompettes.

 

Evidemment, pour certains, il est plus rassurant de réduire tout ce qui se réfère à Rome à un simple mythe, au point de refuser même la réalité des données archéologiques et de leur préférer la position arbitraire d'un Momigliano (2), qui semble vouloir faire de l'archéologie romaine “anti-fasciste” dont anti-romaine puisque le fascisme s'est réclamé de Rome. Pourtant Momigliano est un archéologue patenté, il ne peut bénéficier de circonstances atténuantes. Il va jusqu'à définir comme “tristement notoire”  (sic !!!) l'inscription de Tor Tignosa en hommage à Enée (cfr. A. Momigliano, Essais d'histoire de la religion romaine, édit. Morcelliana, Brescia 1988, p. 173). Qu'y a-t-il de triste ou d'affligeant dans une trace archéologique antique, rendant hommage à Enée?

 

Une remarque au passage: alors que, dans le cas de Rome, nous possédons des certitudes substantielles quant à l'existance de son empire, même si elles sont parfois résolument ignorées par bon nombre de savants, dans le cas d'autres traditions  —par ailleurs tout à fait respectables, comme celles qui directement ou indirectement proviennent de la Bible—  on assiste à une démarche contraire: pensons seulement à l'Empire  de David et de Salomon, pour lequel il n'existe que très peu de documents archéologiques, d'aucune nature que ce soit, et qu'aucun des quarante rois, depuis Saul jusqu'à Sédécias, n'a laissé la moindre trace tangible (voir à ce sujet l'excellente et très digne de foi  —même pour le Vatican—  Histoire et idéologie dans l'ancien Israël, de Giovanni Gabrini, édit. Paideia, Brescia, 1986).

 

Lares et Penates

 

La connexion entre feu-ancêtres-Lares  et le culte public et privé constitue la thématique très intéressante du deuxième chapitre de l'ouvrage de Del Ponte, où l'auteur nous démontre qu'il est un détective sage et attentif, capable de recueillir des finesses qui ne sont pas toujours perceptibles de premier abord. Lares et Penates, que l'on a confondu dans le passé sur le plan conceptuel, y compris chez des auteurs éminents trouvent, dans l'analyse détaillée de Del Ponte, une définition meilleure et plus exacte, tant du point de vue rituel que théologique. L'auteur repère dans les dieux Lares  «l'essence spirituelle du foyer domestique», correspondant à la «mémoire religieuse des ancêtres», ces derniers étant perçus aussi comme «l'influence spirituelle» des habitants antérieurs d'un lieu et, par conséquent, comme les «gardiens de la Terre des Pères» (pp. 62-63); dans les Pénates, véritables divinités, il faut par contre reconnaître une nature essentiellement céleste  et propice à un groupe familial au cœur duquel on transmettait le culte de père en fils, tant et si bien qu'ils étaient considérés comme «les dieux vénérés par les pères ou les ancêtres».

 

Un autre chapitre extrêmement intéressant, qui nous aide à mieux comprendre la sensibilité religieuse des Romains et leur approche du domaine du surnaturel, est consacré aux indigitamenta:  il s'agit de listes consignées dans les livres pontificaux “contenant les noms des dieux et leurs explications”. Noms de dieux qui, comme l'observe à juste titre l'auteur, “se réfèrent aux grands moments, ou rites de passage  (...),  indispensables à tout homme et à toute femme au cours de la vie et qui, justement à cause de leur complexité, nécessitent un instrument divin particulier. Ces moments de la vie sont: a) la naissance, avec les moments critiques qui la précèdent et qui la suivent; b) la puberté, avec tout ce qui précède et qui suit; c) le mariage; d) la mort” (pp. 78-79).

 

Cette “sacralisation de chaque manifestation de la vie” est aussi une source de vie pour l'Etat romain et il est donc assez significatif de noter que le livre explicite deux idées-guide:

1) la pax deorum (c'est-à-dire le rapport qui s'est créé avec les dieux au moment précis de la fondation de Rome, avec le pacte conclu par Romulus et pleinement approuvé par Numa Pompilius, pacte impliquant un équilibre subtil, condition indispensable à la réalisation de l'imperium sine fine promis par Jupiter à Enée et ses successeurs) et

2) l'identification des constantes dans les vicissitudes millénaires et sacrées de Rome.

Ces deux idées-guide viennent inévitablement se fondre avec précision dans l'étude sur le Collège Pontifical, et en particulier sur la figure “antithétique” du Souverain Pontife.

 

Le rôle de Vettius Agorius Pretestatus

 

C'est vraiment très captivant de reparcourir l'histoire de ces prêtres qui voulaient, savamment et avec prévoyance, lire dans le futur en défendant et en gardant jalousement, depuis les temps immémoriaux de Numa à ceux extrêmes de Symmaque, les anciens rites, sans jamais les déformer et en adaptant, en l'occurrence, les nouveautés à travers l'intervention régulatrice du Collège des Quindecemvirs, afin qu'elles ne vinssent pas perturber la pax deorum,  en portant atteinte à l'Etat. Elles représentent donc des fonctions vitales, développées par le Collège, mais qui dérivent très probablement, affirme justement Del Ponte, “des stratégies religieuses et politiques qui débouchèrent sur des transformations radicales de l'Etat romain au Ier siècle de la République” (pp. 153-154); des stratégies conçues et mises en pratique par des groupes de l'ancienne aristocratie qui furent, plus tard, constamment présents (aussi parmi les Augustes) au fil des siècles, tant et si bien que même quand le grand pontificat fut assumé par un homme nouveau, issu de la plèbe (T. Coruncanius), la très haute qualification de cette éminente figure sacerdotale ne fit pas défaut.

 

Dans ce sens, nous nous permettons d'articuler l'hypothèse suivante: l'intervention du pontife et quindecemvir Vettius Agorius Pretestatus  —qui eut un rôle de modérateur lors des événements tragiques qui déterminèrent l'élection du Pape Damase I—  était dictée, outre les exigences d'ordre publique, par ses propres prérogatives, qui lui permettaient de réglementer un culte étranger (chrétien en l'occurrence) qui n'était plus considéré comme illicite. Très vraisemblablement, à cette époque (IVième-Vième siècle après JC) les bases furent jetées, qui acceptaient et organisait, sous une autre forme, la survie de l'antiqua pietas. Aujourd'hui nous ne pouvons plus percevoir le mode d'expression de cette antiqua pietas.  Les bases établies par Vettius Agorius Pretastatus remplissaient une fois de plus le devoir primordial, sacré et institutionnel, confié au pontificat par l'auctor  Numa Pompilius, dès l'aurore de l'histoire de Rome.

 

La fonte de la statue de la déesse Virtus, évoquée par Del Ponte dans la conclusion de son livre, nous conduit à une considération amère: Rome ne connaîtra plus ni courage ni honneurs; seul un visionnaire pourrait imaginer l'existence, encore aujourd'hui parmi ses contemporains, de la semence de ces hommes antiques, pratiquant au quotidien ces anciennes coutumes qui firent la grandeur de Rome. Mais à l'approche du 1600ième anniversaire de la funeste bataille du fleuve Frigidus (près d'Aquilée), à l'extrémité du limes  nord-oriental d'Italie, par laquelle se terminait l'histoire militaire de la Rome ancienne, et, où, pour la dernière fois, les images des dieux silencieux s'élevèrent sur le sommet des montagnes. Nous ne pouvons que retenir comme signe des temps,  le travail d'un homme d'aujourd'hui, qui écrit sur la vie de nos Pères, sur leurs Coutumes et sur leurs Dieux. Pères, Coutumes et Dieux qui furent les artisans de tant de puissance.

 

Ivo RAMNES.

(texte issu d'Orion, trad. franç.: LD).

 

Notes:

(1) FUSTEL dc COULANGES, Numa-Denis (Paris 1830, Massy, 1889) Historien français, professeur aux Universités de Strasbourg et de la Sorbonne. Il étudia les principes et les règles qui régissaient la société greco-romaine en les ramenant au culte originaire des ancêtres et du foyer familial. La ville ancienne (cf. La cité antique, 1864) est une sorte d'association sacrée, ouverte exclusivement aux membres des familles patriciennes. Parmi les autres œuvres de Fustel de Coulanges, rappelons l'Histoire des anciennes institutions politiques de l'ancienne France, 1875-79, et les Leçons à l'impératrice sur les origines de la civilisation française, posthume, 1930. Outre leur valeur historique, ces travaux ont assure à Fustel de Coulanges une place dans l'histoire de la littérature pour la clarté et la puissance du style (ndt).

 

(2) MOMIGLIANO Arnaldo (Caraglio, Cuneo, 1908), historien italien. Après avoir enseigné aux universités de Rome et Turin, il est, depuis 1951, titulalre de la chaire d'histoire ancienne à l'University College de Londres. Parmi ses plus importantes études citons: Philippe de Macédoine (1934), Le conflit entre paganisme et christianisme au IVièmùe siècle (1933), Introduction bibliographique à l'histoire grecque jusqu'à Socrate, les essais publiés après 1955 sous le titre de Contributions à l'histoire des études classiques, et le volume Sagesse étrangère, 1975 (ndt).

 

samedi, 26 décembre 2009

Renseignement et espionnage dans la Rome antique

22510100061800L.gifRenseignement et espionnage dans la Rome antique

Les activités de renseignement font partie intégrante de l’art de gouverner et, sans elles, les Romains n’auraient pas pu édifier et protéger leur empire.

Même s’ils ne séparaient pas les différentes fonctions du renseignement entre activités civiles et militaires, il n’en demeure pas moins qu’une grande partie de leurs activités de renseignement ressemblaient aux nôtres et qu’il est possible d’utiliser le concept moderne de cycle du renseignement pour les décrire. L’éventail des activités concernées est assez large : collecte de renseignements, contre-espionnage, infiltration, opérations clandestines, utilisation de codes et de chiffres, et diverses techniques d’espionnage. Toutes ont laissé des traces littéraires, épigraphiques et archéologiques qu’il est possible de suivre en partie.

Rose Mary Sheldon retrace le développement des méthodes de renseignement romaines des débuts de la République jusqu’au règne de Dioclétien (284-305 après J.-C.), d’une forme embryonnaire et souvent entachée d’amateurisme jusqu’au système très élaboré d’Auguste et de ses successeurs. L’ouvrage est rythmé tant par des chapitres consacrés à l’étude de certains des échecs romains que par l’examen des réseaux de communication, des signaux de transmission, des activités d’espionnage, des opérations militaires et de la politique frontalière.

C’est pourquoi les questions plus larges soulevées dans ce livre sont d’une pertinence immédiate pour le présent : bien que les méthodes de renseignement aient radicalement changé avec l’avènement de la technologie moderne, les principes restent étonnamment similaires. Les questions politiques essentielles portant sur la place des services de renseignement dans une démocratie et une république plongent leurs racines dans le monde gréco-romain.

Publication : novembre 2009, 528 pages,35

Via Theatrum Belli [1]

Disponible sur Amazon [2]


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vendredi, 20 novembre 2009

Pan

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Pan

Le dieu Pan n'est pas mort,
Chaque champ qui expose
Aux sourires d'Apollon
Les seins nus de Cérès -
Tôt ou tard vous verrez
En ces lieux se dresser
Le dieu Pan, l'immortel.

Non, il n'a pas tué de dieux,
Le triste dieu, le dieu chrétien.
Christ est un dieu en plus,
Un qui manquait, peut-être.
Pan continue à instiller
Les sons de sa syrinx
Dans le creux des oreilles
De Cérès par les champs cambrée.

Oui, les dieux sont les mêmes,
Calmes et clairs, toujours,
Gorgés d'éternité,
De mépris envers nous,
Et apportant le jour,
La nuit, les récoltes dorées,
Non point pour nous donner
Le jour et la nuit et les blés,
Mais selon un tout autre
Dessein divin fortuit.

(Ricardo Reis, Odes retrouvées)

Trouvé sur: http://lephoton.hautetfort.com/

mardi, 10 novembre 2009

L'ironie de Diogène à Michel Onfray

diogenes.pngArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Introduction au thème de l'ironie:

L'ironie de Diogène à Michel Onfray

 

Dans la philosophie grecque et européenne, toute démarche ironique trouve son point de départ dans l'ironie socratique. Celle-ci vise à aller au fond des choses, au-delà des habitudes, des conventions, des hypocrisies ou des vérités officielles. Les conventions et les vérités officielles sont bourrées de contradictions. L'ironie consiste d'abord à laisser discourir le défenseur des vérités officielles, un sourire aux lèvres. Ensuite, lui poser des questions gênantes là où il se contredit; faire voler en éclats son système de dogmes et d'idées fixes. Amener cet interlocuteur officiel à avouer la vanité et la vacuité de son discours. Telle est l'induction socratique. Son objectif: aller à l'essentiel, montrer que le sérieux affiché par les officiels est pure illusion. Nietzsche, pourtant, autre pourfendeur de conventions et d'habitudes, a raillé quelques illusions socratiques. Ce sont les suivantes: croire qu'une vertu est cachée au fond de chaque homme, ce qui conduit à la naïveté intellectuelle (a priori: nul n'est méchant); imaginer que la maïeutique et l'induction peuvent tout résoudre (=> intellectualisme); opter pour un cosmopolitisme de principe (Antisthène, qui était mi-Grec, mi-Thrace, donc non citoyen de la ville, disait, moqueur, que les seuls Athéniens purs, non mélangés, étaient les escargots et les sauterelles). Il n'empêche que ce qui est vérité ici, ne l'est pas nécessairement là-bas.

 

Pour nous, le recours à l'ironie socratique n'a pas pour objet d'opposer une doctrine intellectuelle à une autre, qui serait dominante mais sclérosée, ou de faire advenir une vertu qui se généraliserait ou s'universaliserait MAIS, premièrement, de dénoncer, démonter et déconstruire un système politique et un système de références politiques qui sont sclérosés et répétitifs; deuxièmement, d'échapper collectivement à toutes les entreprises de classification et, partant, d'homologation et de sérialisation; troisièmement, d'obliger les hommes et les femmes qui composent notre société à retrouver ce qu'ils sont au fond d'eux-mêmes.

 

Nietzsche critique Socrate

 

Mais comme Nietzsche l'avait vu, la pensée de Socrate peut subir un processus de fixation, à cause même des éléments d'eudémonisme qu'elle recèle et à cause des risques d'intellectualisation. Après Socrate viennent justement les Cyniques, qui échappent à ces écueils. Le terme de “Cyniques” vient de kuôn (= chien). Le chien est simple, ne s'encombre d'aucune convenance, aboie contre l'hypocrisie, mord à pleines dents dans les baudruches de la superstition et du conformisme.

 

Première élément intéressant dans la démarche des Cyniques: leur apologie de la frugalité. Pour eux, le luxe est un “bagage inutile”, tout comme les richesses, les honneurs, le plaisir et la science (le savoir inutile). La satisfaction, pour les Cyniques, c'est l'immédiateté et non un monde “meilleur” qui adviendra plus tard. Le Cynique refuse dès lors de “mettre sa sagesse au service des sots qui font de la politique”, car ces sots sont 1) esclaves de leurs passions, de leurs appétits; 2) esclaves des fadaises (idéologiques, morales, sociales, etc.) qui farcissent leurs âmes. Les Cyniques visent une vie authentiquement naturelle, libre, individualiste, frugale, ascétique.

 

La figure de proue des Cyniques grecs à été Diogène, surnommé quelquefois “le Chien”. On retient de sa personnalité quelques anecdotes, comme sa vie dans un tonneau et sa réplique lors du passage d'Alexandre, qui lui demandait ce qu'il pouvait faire pour lui: «Ote-toi de mon soleil!». Le Maître de Diogène a été Antisthène (445-365). Antisthène rejetait la vie mondaine, c'est-à-dire les artifices conventionnels et figés qui empêchent l'homme d'exprimer ce qu'il est vraiment. Le danger pour l'intégrité intellectuelle de l'homme, du point de vue d'Antisthène, c'est de suivre aveuglément et servilement les artifices, c'est de perdre son autonomie, donc le contrôle de son action. Si l'on vit en accord avec soi-même, on contrôle mieux son action. Le modèle mythologique d'Antisthène est Héraklès, qui mène son action en se dépouillant de toutes les résistances artificielles intérieures comme extérieures. L'eucratia, c'est l'autarkhia. Donc, avec Antisthène et Diogène, on passe d'une volonté (socratique) de gouverner les hommes en les améliorant par le discours maïeutique, à l'autarcie des personnes (à être soi-même sans contrainte). L'objectif d'Antisthène et de Diogène, c'est d'exercer totalement un empire sur soi-même.

 

Contre les imbéciles politisés, l'autarcie du sage

 

Diogène va toutefois relativiser les enseignements d'Antisthène. Il va prôner:

- le dénuement total;

- l'agressivité débridée;

- les inconvenances systématiques.

Le Prof. Lucien Jerphagnon nous livre un regard sur les Cyniques qui nous conduit à un philosophe français contemporains, Michel Onfray.

Première remarque: le terme “cynique” est péjoratif aujourd'hui. On ne dit pas, explique Jerphagnon: «Il a dit cyniquement qu'il consacrait le quart de ses revenus à une institution de charité»; en revanche, on dit: «Il a dit cyniquement qu'il détournait l'argent de son patron». Dans son ouvrage d'introduction à la philosophie, Jerphagnon nous restitue le sens réel du mot:

- être spontané et sans ambigüité comme un chien (pour le meilleur et pour le pire).

- voir l'objet tel qu'il est et ne pas le comparer ou le ramener à une idée (étrangère au monde).

Soit: voir un cheval et non la cabbalité; voir un homme et non l'humanité. Quand Diogène se promène en plein jour à Athènes, une lanterne à la main et dit aux passants: «Je cherche un homme», il ne dit pas, pour “homme”, anèr (c'est-à-dire un bonhomme concret, précis), mais anthropos, c'est-à-dire l'idée d'homme dans le discours platonicien. Diogène pourfend ainsi anticipativement tous les platonismes, toutes les fausses idées sublimes sur lesquelles vaniteux, solennels imbéciles, escrocs et criminels fondent leur pouvoir. Ainsi en va-t-il de l'idéal “démocratique” proclamé par la démocratie russe actuelle, qui n'est qu'un paravent de la mafia, ou des idéaux de démocratie ou d'Etat de droit, couvertures des mafiacraties belge, française et italienne. Dans les démocraties modernes, les avatars contemporains de Diogène peuvent se promener dans les rues et dire: «Je cherche un démocrate».

 

Jerphagnon: «La leçon de bonheur que délivrait Diogène (...): avoir un esprit sain, une raison droite, et plutôt que de se laisser aller aux mômeries des religions, plutôt que d'être confit en dévotion, mieux vaut assurément imiter les dieux, qui n'ont besoin de rien. Le Sage est autarkès, il vit en autarcie» (p. 192).

 

Panorama des impertinences d'Onfray

 

Cette référence au Cyniques nous conduit donc à rencontrer un philosophe irrévérencieux d'aujourd'hui, Michel Onfray. Dans Cynismes. Portrait d'un philosophe en chien (1990), celui-ci nous dévoile les bases de sa philosophie, qui repose sur:

- un souci hédoniste (en dépit de la frugalité prônée par Antisthène, car, à ses yeux, la frugalité procure le plaisir parce qu'elle dégage des conventions, procure la liberté et l'autarcie).

- un accès aristocratique à la jouissance;

- un athéisme radical que nous pourrions traduire aujourd'hui par un rejet de tous les poncifs idéologiques;

- une impiété subversive;

- une pratique politique libertaire.

 

Dans La sculpture de soi. La morale esthétique (1993), Onfray parie pour:

- la vitalité débordante (on peut tracer un parallèle avec le vitalisme!);

- la restauration de la “virtù” de la Renaissance contre la vertu chrétienne;

- l'ouverture à l'individualité forte, à l'héroïsme;

- une morale jubilatoire.

 

Dans L'Art de jouir. Pour un matérialisme hédoniste (1991), Onfray s'insurge, avec humour et sans véhémence, bien sûr, contre:

- la méfiance à l'égard du corps;

- l'invention par l'Occident des corps purs et séraphiques, mis en forme par des machines à faire des anges (=> techniques de l'idéal ascétique). Le parallèle est aisé à tracer avec le puritanisme ou avec l'idolâtrie du sujet ou avec la volonté de créer un homme nouveau qui ne correspond plus à aucune variété de l'homme réel.

Il démontre ensuite que ce fatras ne pourra durer en dépit de ses 2000 ans d'existence. Onfray veut dépasser la “lignée morale” qui va de Platon à nos modernes contempteurs des corps. Onfray entend également réhabiliter les traditions philosophiques refoulées: a) les Cyrénaïques; b) les frères du Libre-Esprit; c) les gnostiques licencieux; d) les libertins érudits; etc.

 

Dans La raison gourmande (1995), Onfray montre l'incomplétude des idéaux platoniciens et post-platoniciens de l'homme. Cet homme des platonismes n'a ni goût ni olfaction (cf. également L'Art de jouir, op. cit.). L'homme pense, certes, mais il renifle et goûte aussi (et surtout!). Onfray entend, au-delà des platonismes, réconcilier l'ensemble des sens et la totalité de la chair.

 

Conclusion: nous percevons bel et bien un filon qui part de Diogène à Onfray. Un étude voire une immersion dans ce filon nous permet à terme de détruire toutes les “corrections” imposées par des pouvoirs rigides, conventionnels ou criminels. Donc, il faut se frotter aux thématiques de ce filon pour apprendre des techniques de pensée qui permettent de dissoudre les idoles conceptuelles d'aujourd'hui. Et pour organiser un “pôle de rétivité”.

 

Robert STEUCKERS.

 

Bibliographie:

Sur Socrate et les Cyniques en général:

- Lucien JERPHAGNON, Histoire de la pensée. Antiquité et Moyen Age, Tallandier, 1989.

- Yvon BELAVAL, «Socrate», in: Brice PARAIN (éd.), Histoire de la philosophie 1. Orient - Antiquité - Moyen âge, Encyclopédie de la Pléiade, Gallimard, 1969.

- Jean BRUN, Socrate, PUF, 1960-1988.

- Jean BRUN, «Les Socratiques», in: Brice PARAIN (éd.), Histoire de la philosophie 1. Orient - Antiquité - Moyen âge, Encyclopédie de la Pléiade, Gallimard, 1969.

- Lambros COULOUBARITSIS, Aux origines de la philosophie européenne. De la pensée archaïque au néoplatonisme, De Boeck-Université, Bruxelles, 1994.

- Vladimir GRIGORIEFF, Philo de base. Le miracle grec. Les défis religieux. Réforme et révolution. Le 20° siècle, Marabout, Verviers, 1983.

 

Ouvrages de Michel Onfray:

- Michel ONFRAY, Cynismes. Portrait du philosophe en chien, Grasset, 1990.

- Michel ONFRAY, La sculpture de soi. La morale esthétique, Grasset, 1993.

 

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lundi, 12 octobre 2009

L'exemple du héros

131135_main.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

L'EXEMPLE DU HEROS

 

Dans la quatorzième livraison de la revue bimensuelle des Diipetes (Athènes, Grèce), un article de Thomas Mastakouri traite de la notion du Héros dans nos sociétés européennes antiques. Les idées développées par l'auteur, tout en étant discutables, ont cependant le mérite de nous interpeller et nous invitent à une profonde auto-réflexion critique.

 

Nous vivons à une époque de grande aliénation morale et il va de soi que de puissants intérêts économiques nous dirigent. Pour que ceux-ci puissent continuer à croître, ils n'ont besoin que d'une chose: transformer la masse des individus en troupeau, le citoyen devenant une unité docile, ne réagissant qu'en fonction de la volonté et des avantages des bergers. L'avilissement, la destruction de la personnalité sont à l'ordre du jour et la passivité a gagné la plupart des hommes. Qu'en est-il des réactions éventuelles? Qu'entend-t-on le plus souvent? “Laisse tomber”, “c'est un mauvais moment à passer”, “c'est nous qui allons sau­ver le monde?”, “il y a pire”, “on est bien comme ça”,  etc... Et ceux qui tentent de réagir? Des mots creux, quelques insultes de­vant l'image du politicien qui apparaît sur le petit écran en attendant le jeu télévisé habituel avec ses cadeaux et ses starlettes.

 

La voie suivie aujourd'hui par l'humanité est celle du martyr; celui qui baisse la tête, parce qu'il a été ainsi éduqué par sa reli­gion, ses gouvernants, son école, et ses parents. Mais est-ce que cela a toujours été ainsi et plus particulièrement dans nos contrées? Celui qui a quelques connaissances historiques et un peu d'esprit critique connaît la réponse. La civilisation qui, à une époque, a régné sur cette terre hellène ne se fondait pas sur l'exemple du martyr et de l'esclave mais sur celle du Héros qui, comme une flamme, se cache dans chacun d'entre nous et ne se transforme que rarement de nos jours en feu pour réchauf­fer, éclairer, brûler et se consumer.

 

L'hellénisme et la civilisation européenne en général ne se sont pas fondés sur la notion de masse comme d'autres civilisa­tions antiques pour bâtir le monde contemporain mais au contraire sur celle de la personne.

 

Nos ancêtres adoraient les Héros comme des Dieux. Pour eux, il n'y avait pas de gouffre entre l'Homme et le Dieu et chaque Cité hellène honorait certains de ses morts comme des Déités. Ainsi, Athènes honorait Thésée et Cecrops, Sparte Castor et Pollux, les frères jumeaux d'Hélène et Clytemnestre, Thèbes Kadmos, la Théssalie Jason, l'Etolie Méléagre, la Crête Minos, Corinthe Belléphoron. Les Héros, mythiques ou historiques représentaient des exemples moraux et chaque Cité-Etat avait les siens exactement comme les saints patrons par la suite. Les Héros se réveillaient de leur profond sommeil et apparaissaient dans des circonstances de crise pour sauver leur cité chérie d'un danger qui les menaçait. Ainsi, Thésée apparut aux Athéniens avant la bataille de Marathon et la légende dit que les Galates furent mis en déroute à Delphes par le fantôme de Néoptolème, le fils d'Achille. Cet article n'a pas pour but de dresser la liste de tous les Héros du passé mais de mettre en valeur les caractéristiques essentielles de leur comportement qui servait de modèle à nos aïeux et a profondément transformé et re­levé la civilisation hellène. Vivant, comme nous l'avons dit, à une époque de relachement et de dégénérescence des cons­ciences, la mise en relief de ces particularités pourra sûrement nous fournir des armes qui nous permettraient de lutter contre l'aliénation qui menace de toutes parts.

 

Ainsi, le premier caractère du Héros est son individualité absolue. Il n'est jamais intégré dans la masse et ne suit ni ses réac­tions ni ses désirs. Sa volonté est exclusivement la sienne et, s'il devait être influencé par une quelconque obligation morale, il le fait sciemment, conscient des limites qu'il s'impose. L'héroïsme ne peut se développer au sein d'une société despotique que celle-ci soit théocratique ou absolutiste.

 

En second lieu, le Héros aime le changement. Sans évolution, quelque chose dort en nous et ne se réveille que rarement. Bien qu'il contribue à l'instauration de l'ordre au sein d'une société chaotique, lui-même préfère le désordre et l'incertitude. L'héroisme tel un aiguillon s'oppose aux acquis, refuse le compromis, secoue les fondements pourris d'une collectivité. Tout est en perpé­tuel mouvement, disait le grand philosophe Héraclite, et toute société figée, sans Héros pour la sortir de son marasme est, à plus ou moins long terme, vouée à disparaître. C'est ce qui est arrivé aux anciens Egyptiens. Pendant des millénaires, ils ont bâti une civilisation dont les vestiges sont encore visibles aujourd'hui. Cependant, leur système despotique et théocratique étouffait toute individualité. Qui peut nous citer un grand Héros égyptien? Quelqu'un —à l'exception des pharaons— qui, dans un éclat d'individualité ait fait évoluer l'Histoire?... Qu'en est-il advenu de cette brillante civilisation? Elle est enterrée sous les sables de l'Histoire, faute de Héros.

 

Les re'igions étrangères se sont abattues sur un empire romain décadent dont l'absolutisme démentiel s'était attelé à supprimer toute forme d'individualité et à niveler les membres de la société. Dès le début, le modèle du Héros fut remplacé par celui du martyr. Celui de l'individu qui se donne à une collectivité souveraine, un Dieu, un Gouvernement, un Empereur. L'exemple de celui qui vit et meurt sans se poser de questions, ne remet pas en cause les Dogmes qui lui sont imposés, croyant aveuglé­ment et se remettant à d'autres pour son salut, sa protection et sa sécurité.

 

Certains confondent à tort Héros et martyr. Comme nous l'avons déjà dit, le Héros se bat jusqu'à son dernier souffle, ne rend ja­mais les armes, ne subit pas passivement son destin. Son principal souci consiste à valoriser l'immortalité de son âme, à la perfectionner au fil des luttes afin de gagner sa place parmi les Dieux et ce, sans l'aide de personne.

 

Il n'ignore pas que le combat est inhérent à la nature humaine, qu'il ne peut y avoir de progrès sans les contraires. Il ne s'avoue jamais vaincu même s'il sait que tout est perdu d'avance. Il place sa dignité et son honneur au-dessus des problèmes quoti­diens. Ainsi, Achille était conscient de son destin funeste s'il devait venger la mort de Patrocle mais cela ne l'a pas empêché de le faire. Cucchulainn, le plus grand des Héros irlandais n'a pas hésité à prendre les armes alors même que son druide-ins­tructeur lui avait prédit qu'il allait connaître la gloire et la grandeur mais qu'il allait en mourir avant que ne lui pousse un seul cheveu blanc sur la tête. Lorsque le dragon Fafnir, agonisant, menace Siegfried de sa malédiction, ce dernier lui répondit que bien que chacun voulut garder ses trésors pour toujours, l'heure de la mort arrivait pour tous. Ils sont tous Héros, c'est-à-dire des Hommes capables de défier leur destin et mêmes les Dieux s'ils pensent avoir raison où si une obligation morale le leur com­mande.

 

Il vient en aide aux faibles et aux veillards mais ne supporte ni les fainéants, ni les profiteurs et les voleurs. Il les considère comme des “fardeaux de la terre”, un poids pour la Terre-Mère. Il sait être courageux face au danger et patient devant les difflcul­tés de la vie quotidienne sans pour autant rechercher l'affliction et l'adversité. Il sait profiter des joies de la vie là où il les trouve, en écoutant une chanson, après un baiser, devant un endroit idyllique ou l'hilarité d'un enfant par ce qu'il sait que chaque instant est unique et qu'il ne se reproduira peut-être jamais. De plus, il n'est pas stupide. Il sait utiliser son intelligence chaque fois qu'il en a besoin. Il représente la supériorité de l'Homme face à l'animal. Il sait rire avec ses propres malheurs, car le rire est comme le vent qui chasse les nuages de la misère et du défaitisme. Il essaie de résoudre seul ses problèmes tout en respectant la Nature qu'il considère comme vivante et sacrée.

 

Les lectrices seront sans doute lasses d'entendre parler exclusivement de Héros masculins. En effet, les traditions euro­péennes ne sont pas exemptes d'Héroïnes. Ainsi, la Béotienne Atalante tua les deux centaures qui avaient tenté de la violer, participa à l'expédition des Argonautes et fut la première à toucher le sanglier de Calydon au cours d'une chasse. La reine Kathe initia Cuchulainn à l'art de la guerre. La reine des Iceni  de Grande-Bretagne, Boudicca (Bodicée), “la victorieuse” condui­sit son armée contre l'envahisseur romain, mettant hors de combat de nombreuses légions. Tacite racontait que les femmes germaniques combattaient aux côtés de leurs hommes. Les Déesses étaient, dans l'antiquité, aussi nombreuses que les Dieux et étaient honorées et adorées avec la même ferveur. Cependant, le fait de tenir.une épée et de combattre comme un homme ne suffisait pas pour faire d'une femme une Héroïne. Antigone représente le modèle le plus significatif de l'Héroine qui ne renonça ni à son dévouement ni à sa grandeur d'âme pour lutter contre le pouvoir en place tout en sachant qu'elle allait connaître une fin atroce. Mais avec l'avènement d'un système patriarcal étranger à l'Europe, la femme allait bientôt être transformée en simple ob­jet sexuel et de procréation.

 

Et aujourd'hui qui pourrait être considéré comme Héros? Citons quelques exemples: l'employé qui refuse de contribuer à s'enrichir sur le dos des autres tout en sachant qu'il risque de perdre son emploi, la mère qui élève seule son enfant et affronte avec fierté les ragots du voisinage, celui qui éteint sa télévision pour lire un livre ou écouter de la musique, la femme qui dé­cide d'entreprendre des études dans une école qui n'admettait auparavant que des hommes. L'héroïsme se reconnaît à des mil­liers de petites et grandes choses de la vie quotidienne.

 

Les modèles de références de nos ancêtres étaient leurs propres Dieux. Les Olympiens, les Dieux des Celtes et ceux des Scandinaves étaient eux-mêmes des Héros, c'est-à-dire des êtres qui luttaient contre leur propre destinée, se battant comme les Hommes, avec leurs défauts et leurs qualités, à la recherche de leur propre éveil.

 

Les anciens Dieux n'étaient pas invincibles ni savants ni des modèles de bonté et cela les rapprochait des humains par rapport au Démiurge souverain, sans visage et inapprochable. Que cela n'en déplaise à certains, les anciens Dieux ne prodiguaient pas que des faveurs, ils ne considéraient pas tous les individus de la même façon. Ce n'est que grâce à son propre degré d'éveil que l'Homme pouvait atteindre l'Olympe, le Valhalla ou les Iles des Bienheureux. Les autres entamaient la descente dans le monde d'en bas dans l'attente de leur prochaine réincarnation et tenter à nouveau de se détacher de ce cycle infernal en accédant à la divination. Avec l'avènement de la nouvelle religion, le serviteur fut mis au même pied d'égalité que le maître et, pire encore, le Héros fut considéré comme un Homme ordinaire. Le régime totalitaire de l'ancienne et de la nouvelle Rome ne pouvait fonctionner autrement. Tous devaient être égaux sous la férule du Régime, de l'Empereur et de Dieu. Les conséquences ne se sont pas faites attendre. Chaque science ou philosophie contraires au dogmes ambiants étaient éradiquées. Toute re­cherche de la Beauté était considérée comme un tabou. Toute liberté de pensée et de choix fut condamnée. Ceux qui s'exprimaient différemment des normes établies étaient considérés comme hérétiques, jetés dans des geôles et brûlés vifs.

 

Les guerres des anciens fondées sur les mises en valeur individuelles et qui pouvaient être comparées à des scènes théâ­trales ont cédé la place aux guerres d'intérêts ou de religions, inconnues jusqu'alors et qui ont tant fait couler de sang sur notre vieux continent. Le Héros guerrier a cédé la place au combattant sans volonté, simple pion au service d'un stratège qui, autre­fois, dirigeait les combats sur le terrain, aujourd'hui, du fond d'une salle, entouré de spécialistes en guerres de tous genres, dé­cide des batailles en se fondant sur des chiffres, des statistiques et des comparaisons. Le citoyen inconscient a, depuis fort longtemps, perdu son identité à l'exception d'un pseudo-droit ou obligation de voter de temps en temps pour ceux qui le domi­nent, sans pour autant qu'il puisse réellement s'exprimer sur la manière dont il est gouverné. L'agriculteur, l'artisan, le philo­sophe se sont mués en unités de consommation, qui doivent acheter de plus en plus en suivant les prescriptions de la publi­cité et du marché, indifférents à la catastrophe écologique qui se produit autour d'eux.

 

L'amour, ce cadeau des Dieux, cette communion des corps et des esprits, tel un feu ardent, a été transformé en péché, déprava­tion alors qu'au même moment il est utilisé de la façon la plus vile qui soit pour placer toutes sortes de produits auprès de ré­cepteurs décérébrés jusqu'à leur dicter des modes de comportements. L'Homme sain qui était en contact permanent avec ses Dieux a, aujourd'hui, besoin d'intermédiaires, de “représentants de Dieu” sur Terre auto-proclamés, sous la menace permanente d'une damnation éternelle s'il lui venait à l'idée de douter ou de contester les dogmes en place. L'acception même de la notion de Héros a été déformée de la façon la plus ignoble qui soit, lorsqu'elle est utilisée de nos jours pour décrire des individus qui ne savent pas placer correctement trois mots mais se contentent simplement de planter quelques ballons dans des filets ou des paniers, vêtus comme des publicités ambulantes aux couleurs des généreux sponsors qui les financent. Les anciens Olympiens concouraient pour la gloire et un rameau d'olivier, les “héros” d'aujourd'hui pour la belle voiture que leur offrira le Président ainsi que les nouveaux et juteux contrats qui les attendent.

 

Un Homme censé ne peut qu'être affligé devant une telle situation. La voie du martyr, de l'individu aveuglé et passif qui confie son destin entre les mains de tierces personnes a conduit la société au bord du précipice. Que peut faire celui qui veut résis­ter? Qui a la volonté de réagir différemment du bétail? La réponse est simple; il doit avoir du courage et continuer à être lui-même. S'il rencontre des compagnons qui partagent des points de vue identiques, entrer en contact avec eux sans pour autant abandonner son individualité. Le Héros n'a point besoin de maître ou de gourou car personne ne pourra le sauver à part lui-même.

 

Aussi, si vous ne craignez pas de vous promener dans des endroits sombres et affirmer que vous êtes dans le vrai; si vous croisez un enfant et que vous avez envie de jouer avec lui, de même que si vous rencontrez un vieillard et que vous voulez partager ses connaissances; si pour vous l'amour est un cadeau irremplaçable et non quelque chose dont vous avez honte; si chaque défi n'est pas pour vous ni trop difficile pour l'affronter ni trop facile pour l'ignorer; si vous permettez à chacun d'exprimer son opinion sans pour autant vous faire influencer; si vous voulez vider le verre de la vie jusqu'à la dernière goutte sans craindre les conséquences; si vous vous sentez ainsi, alors vous êtes sûrement sur le chemin du Héros. Et ceux qui regardent des cieux la destinée des Hommes doivent sûrement êtres fiers de vous.

 

Thomas MASTAKOURI.

(traduit en français par Nikiforos PERIKLIS).

 

mercredi, 12 août 2009

Une nouvelle approche de la tourmente du III° siècle

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Une nouvelle approche de la tourmente du III° siècle

« Dans les temps de crise que nous vivons, en ce début d’année 2009, il est agréable de se dire qu’à un moment de leur histoire des hommes ont été heureux… » Nous sommes au IIe siècle. Les Antonins ont fait de Rome une puissance insurpassable. La stabilité politique des institutions d’essence monarchique assure aux peuples de l’Empire, au moins jusqu’à Commode (180-192), sécurité et prospérité. La « Pax romana » règne partout. Elle dispose d’un instrument de fer : de 350.00 à 400.000 soldats, dont quelques 150.000 légionnaires postés pour l’essentiel aux frontières, face aux Barbares. Et c’est pourtant en pleine gloire, au faîte de sa puissance, que l’Empire romain va être touché au cœur.

Crise militaire, crise globale

La crise du monde romain au IIIe siècle est avant tout militaire. C’est l’affaiblissement de l’institution centrale de l’empire qui provoque en chaîne, et se nourrit par la même occasion, des crises politique, économique, financière, sociale et même religieuse – la « quête de sens » étant une constante des périodes troublées. Si tous les historiens s’accordent sur cet enchaînement des causes et des conséquences, rares sont les chercheurs à avoir tenté d’expliquer « comment un corps aussi solidement bâti que l’armée romaine a pu recevoir des coups aussi violents, être secoué dans d’aussi terribles difficultés ». C’est à ce choc initial, cette matrice de toutes les crises, que s’attache Yann Le Bohec avec le talent, l’érudition et l’humour qu’on lui connaît. Son ouvrage, pour être savant, est passionnant parce qu’il s’agit d’une véritable enquête dont la victime – l’Empire romain – et les auteurs – Germains et Iraniens pour l’essentiel – sont connus, mais les faits trop souvent ignorés à force d’être considérés comme acquis, et donc secondaires.

En s’attachant à proposer « une explication militaire pour une crise militaire », jusque dans les soubresauts des nombreuses « guerres civiles » induites, Le Bohec renouvelle en profondeur notre vision de cette époque, et n’hésite pas au passage à bousculer quelques certitudes historiographiques trop facilement admises.

Surtout, Le Bohec va à l’essentiel. Il ausculte, assume et revendique la gravité de la crise étudiée en réhabilitant « les trois conceptions du temps, court, moyen et long » de l’enseignement de Braudel, « ainsi que les liens qui unissent l’histoire à la géographie ». Son ouvrage est donc politique. Parce que l’essence même du politique réside finalement dans les questions de défense, comme l’ont bien compris depuis des générations les historiens anglo-saxons et l’illustre plus près de nous De Gaulle : « Quand on ne veut pas se défendre, ou bien on est conquis par certains, ou bien ou est protégés par d’autres. De toute manière, on perd sa responsabilité politique… ».  Et parce que l’essence même du politique, parfaitement illustrée par Carl Schmitt cette fois, réside dans la désignation – et donc la connaissance – de l’ennemi. Et c’est l’apport principal de cette « armée romaine dans la tourmente » que de s’attacher aux ennemis de celle-ci, en soulignant leur nombre, leur diversité, la nouvelle puissance issue de leur vitalité démographique, de leurs systèmes d’alliance (Quinquegentanei en Afrique, Pictes en Ecosse, Francs, Alamans et Goths en Europe continentale), et des progrès accomplis sur le plan militaire surtout, dans les domaines de l’armement et de la tactique face à des légions dont l’apogée capacitaire est définitivement atteint sous Septime Sévère (193-211).

Quand l’histoire éclaire le présent

L’ouvrage de Le Bohec est ainsi d’une criante actualité. Les analogies sont nombreuses avec les temps de confusions qui sont aussi les nôtres.

Il est certes tenant d’esquisser un parallèle entre les empires romain et étatsunien. Et il sera sans doute un jour daté que la fin de l’empire américain a débuté dans les villes d’Irak, comme autrefois l’empire romain dans les sables de Mésopotamie. « Rome ne s’interdisait jamais de passer à l’offensive, pour mener une guerre préventive ou de représailles, ou pour affaiblir un ennemi potentiel, ou encore tout simplement pour piller. Au cours du IIIe siècle, l’offensive n’eut jamais cours qu’en réaction contre une agression ; on ne connaît que des contre-offensives »…

Mais le choc du IIIe siècle reste, à l’image de l’Empire romain lui-même, une pièce maîtresse et indéfectible de l’histoire européenne. Il annonce les formidables mutations que vont affronter les peuples d’Europe, et les ruses dont l’Histoire aime à user : « Après avoir atteint le fond du gouffre, l’armée romaine a su s’en sortir. L’explication est sans doute double. Les ennemis sont devenus moins agressifs, parce qu’ils étaient fatigués de la guerre et parce que de nouveaux problèmes se posaient à eux, avec d’autres arrivées de barbares. L’armée romaine s’est mieux adaptée à la situation. Ce fut, si l’on en croit la critique, l’œuvre des empereurs illyriens ». La sortie de la crise est en effet attestée sous Dioclétien (284-305), mais l’Empire ne s’en remettra jamais. Au point de s’effondrer définitivement à peine un siècle et demi plus tard. La crise, aussi violente que profonde, apparaît dès lors comme une première alerte.

Une histoire à méditer. Parce que c’est la nôtre. Et que nous ne sommes qu’au IIe siècle…

GT
14/07/2009

Source: Polémia

©Polémia

L’armée romaine dans la tourmente. Une nouvelle approche de la crise du IIIe siècle, Yann Le Bohec, Editions du Rocher, collection L’Art de la Guerre, mars 2009, 315 p., 21 euros.

lundi, 29 juin 2009

J. J. Bachofen, Il popolo licio

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J. J. Bachofen, Il popolo licio

Prefazione a
J. J. Bachofen, Il popolo licio, Napoli 2009

di Claudio Mutti*



L'indeuropeista danese Holger Pedersen (1867-1953), autore della monumentale Vergleichende Grammatik der keltischen Sprachen (Göttingen 1909-1913), si occupò anche, tra l'altro, di albanese, di armeno, di lingue balto-slave, di tocario e di ittita. A quest'ultima lingua Pedersen dedicò un lavoro intitolato Hittitisch und die anderen indoeuropäischen Sprachen (København 1938), nel quale affermò che l'ittita, per quanto lontano sia dal tipo indeuropeo, è per certe sue caratteristiche "così arcaico che, per l'aspetto generale della famiglia linguistica, è altrettanto importante quanto l'antico indiano e il greco" (p. 191).

Fra il 1879 e il 1902, insieme coi norvegesi Sophus Bugge (1833-1907) ed Alf Torp (1853-1916), Holger Pedersen sostenne il carattere indeuropeo del licio e del lidio, due lingue parlate nell'Anatolia occidentale nel I millennio a. C. A quell'epoca si conoscevano soltanto circa 150 iscrizioni licie, risalenti ai secc. V e IV a. C., ma non erano ancora note le lingue anatoliche del II millennio, sicché l'ipotesi dei glottologi nordici non poté scuotere l'autorità della teoria allora dominante, secondo cui la popolazione pregreca dell'Asia Minore non sarebbe appartenuta alla famiglia indeuropea.

Sul finire del XIX secolo alcuni linguisti avevano infatti formulato la teoria secondo cui la lingua dei Lici e le altre antiche lingue dell'Asia Minore (misio, lidio, cario ecc.) sarebbero appartenute ad una famiglia diversa sia da quella indeuropea sia da quella semitica. Faceva eccezione il frigio, ritenuto lingua indeuropea per via dei numerosi elementi lessicali assai simili al greco contenuti nelle iscrizioni frigie. Fu così che nacque l'ipotesi di un'affinità delle lingue egeo-microasiatiche con quelle caucasiche.

Soltanto nel 1936 un professore di glottologia dell'Università di Pavia, Piero Meriggi (1899-1982), decifratore dell'ittita geroglifico, rilanciò i risultati delle ricerche compiute da Pedersen, Bugge e Torp, rafforzandoli con nuove argomentazioni. Da parte sua, basandosi su alcune analogie morfologiche nella declinazione e nella coniugazione e sulla presenza di un gruppo di elementi lessicali comuni, Pedersen metteva in luce la vicinanza del licio e dell'ittita, affermando in particolare che il licio rappresenta un più tarda fase di sviluppo del luvio: "In gewissen Beziehungen würde das Luwische sich besser als Stammutter des Lykischen empfehlen" (Lykisch und Hittitisch, Kopenhagen 1949). Tali vedute furono confermate alla fine degli anni Cinquanta dalla Comparaison du louvite et du lycien (“Bulletin de la Société de Linguistique de Paris”, 55, pp. 155-185 e 62, pp. 46-66) del francese Emmanuel Laroche (1914-1991), il quale mostrò la corrispondenza del termine ittita per 'Licia' (Lukka) con il luvio Lui-, da un più antico *Luki-, donde l'identità dei nomi Luwiya e Lykìa.

Dal fatto che nelle iscrizioni licie siano individuabili alcuni elementi tipici di una lingua satem l'indeuropeista bulgaro Vladimir Ivanov Georgiev conclude che nel licio sarebbero presenti due componenti: "la prima è probabilmente il licio, successore del luvio (e vicino all'ittita), la seconda è probabilmente il termilico, successore del pelasgico" (Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Roma 1966, p. 233), sicché la lingua licia del I millennio costituirebbe il risultato della mescolanza di queste due lingue.

Siamo dunque in presenza di un caso che giustifica la nozione di "peri-indeuropeo", in quanto nel licio, come nel lidio, gli elementi indeuropei sono innegabili, però "è difficile considerare queste lingue sullo stesso piano delle lingue indeuropee normali" (Giacomo Devoto, Origini indeuropee, Padova 2005, p. 206). Così il Devoto, per il quale il licio e il lidio, assieme alle altre lingue anatoliche più o meno vicine all'ittita, "completano l'imagine di una complessità linguistica accanto ad una etnica, intorno alla nozione etnico-linguistica ben definita dagli Ittiti" (op. cit., p. 426).

Alla componente etnolinguistica indeuropea corrisponde, nella cultura politica del popolo licio, un caratteristico "tratto delle vecchie radici indoeuropee, [ossia] che le città licie erano governate da consiglieri anziani (senati)" (Francisco Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell'Europa. Lingua e storia, Bologna 2008, pp. 352-353), mentre dal sostrato preindeuropeo proviene quell'aspetto matriarcale che non era sfuggito all'osservazione di Erodoto. "Solo questo uso è loro proprio - scrive il padre della storia - e in ciò non assomigliano a nessun altro popolo: prendono il nome dalle madri e non dai padri. Se uno chiede al vicino chi egli sia, questi si dichiarerà secondo la linea materna (metròthen) e menzionerà le antenate della madre. E qualora una donna di città sposi uno schiavo, i figli sono considerati nobili; qualora invece un uomo di città, anche il primo di loro, abbia una moglie straniera o una concubina, i figli sono perdono ogni diritto" (I, 173, 4-5).

Già in Omero, d'altronde, è attestato il singolare costume licio della discendenza matrilineare: Bellerofonte, scelto dal re di Licia come genero e reso partecipe di metà del potere regale, rappresenta una "eccezione ai normali costumi matrimoniali attestati nel mondo omerico" (Maria Serena Mirto, Commento a: Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 970); tra i suoi nipoti, l'erede del potere regale e il comandante supremo dei Lici nella guerra di Troia non è Glauco, "lo splendido figlio di Ippoloco" (Iliade, VI, 144), bensì Sarpedonte, figlio di Laodamia: "Accanto a Laodamia giacque il saggio Zeus, - ed essa generò Sarpedonte dall'elmo di bronzo, pari agli dèi" (Iliade, VI, 198-199).

Questa storia viene presa in considerazione da Bachofen nelle pagine introduttive al Mutterrecht: "Accanto ad una testimonianza assolutamente storica di Erodoto, la storia mitica del re presenta un caso di trasmissione ereditaria matrilineare. Non i figli maschi di Sarpedone [Sic. "Sarpedone" in luogo di "Bellerofonte" è ovviamente una svista del traduttore], ma Laodamia, la figlia, è l'erede legittima, e questa cede il regno a suo figlio, il quale esclude gli zii. (...) La preferenza data a Laodamia nei confronti dei suoi fratelli conduce Eustazio all'osservazione che un tale trattamento di favore della figlia rispetto ai figli maschi contraddice interamente le concezioni elleniche" (Johann Jakob Bachofen, Introduzione al "Diritto materno", a cura di Eva Cantarella, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 44-45).

Nel 1862, un anno dopo la pubblicazione del Mutterrecht, Bachofen riprende l'argomento con Das lykische Volk und seine Bedeutung für die Entwicklung des Altertums, Freiburg im Breisgau. Ne esistono due traduzioni italiane: quella di Alberto Maffi (Il popolo licio e la sua importanza per lo sviluppo dell'antichità, in: Il potere femminile. Storia e teoria, a cura di Eva Cantarella, Il Saggiatore, Milano 1977) e quella ormai irreperibile del latinista E. Giovannetti (Il popolo licio, Sansoni, Firenze 1944, che viene riproposta nel presente fascicolo.


*Claudio Mutti, redattore di "
Eurasia. Rivista di studi geopolitici", è laureato in Filologia Ugrofinnica all’Università di Bologna. Si è occupato dell’area carpatico-danubiana sotto il profilo storico (A oriente di Roma e di Berlino, Effepi, Genova 2003), etnografico (Storie e leggende della Transilvania, Oscar Mondadori, Milano 1997) e culturale (Le penne dell'Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Società Editrice Barbarossa, Milano 1994; Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1999).
Tra le pubblicazioni più recenti, citiamo: Imperium. Epifanie dell'idea di impero, Effepi, Genova 2005; L'unità dell'Eurasia, Effepi, Genova 2008.
(Per ulteriori dati bibliografici, si veda il sito informatico
www.claudiomutti.com).


dimanche, 28 juin 2009

Quand les Celtes mesuraient le temps

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Quand les Celtes mesuraient le temps

 

Le calendrier celtique remonte à des époques extrêmement éloignées. Il était transmis de bouche à oreille.

 

Les Druides furent les gardiens jaloux du calcul traditionnel des jours, des mois, des années et de l'évolution des saisons.

 

De la façon dont les Celtes subdivisaient l'année et les saisons, il ne nous reste plus que de rares indications, souvent peu objectives, qui nous viennent d'auteurs latins comme César ou Pline. Mais nous disposons aussi de quelques témoignages directs, très intéressants. Beaucoup d'encre a coulé après la découverte de fragments de calendriers gallo-romains en 1807 près du lac d'Antre, dans le Jura français et, en 1897, à Coligny, dans l'Ain. L'étude approfondie de ces restes nous révèle que le calendrier celtique remonte, pour ce qui est de son élaboration, à des époques extrêmement éloignées et, pendant des siècles, il a été transmis de génération en génération, exclusivement sous forme orale. C'est ainsi que le calcul des jours, des mois et des années, la cadence des fêtes au cours de l'année et le cycle des saisons, constituent une partie importante du vaste patrimoine des traditions celtiques, jalousement gardé par les Druides, ces prêtres qui étaient en quelque sorte les dépositaires de la sagesse dans le monde celtique. Les Druides étaient les seuls à connaître les vertus des plantes, à utiliser l'alphabet, à maîtriser les forces de la nature et à prévoir le cours d'événements et phénomènes naturels.

 

La doctrine numérique de Pythagore

 

D'après d'anciennes sources, les Druides étaient aussi des philosophes et ils connaissaient la doctrine numérique de Pythagore: c'est la preuve qu'ils possédaient un niveau de culture raffiné et qu'ils savaient accepter les apports culturels d'autres civilisations sans dénaturer la leur. Il semblerait que ce soient bien les Druides qui aient inventé le calendrier des Celtes et gardé ses secrets pendant des siècles. Selon les chercheurs, il est possible de distinguer deux phases d'élaboration du calendrier celtique: une très ancienne phase, puis une autre, plus récente et plus complexe, laissant transparaître l'influence d'autres civilisations, surtout latine et grecque. La phase la plus ancienne de l'élaboration de ce calendrier est aussi la moins connue.

 

Grâce à des études très poussées en archéo-astronomie, il a été possible de faire remonter ses origines à l'Age du Bronze. Ce genre de calendrier était établi d'après le lever du soleil, sur cette base, les dates les plus importantes de l'année étaient les solstices et les équinoxes. Ce fait a amené certains chercheurs à en conclure que déjà à l'Age du Bronze l'année était divisée d'après le nombre de jours pendant lesquels le soleil se trouvait en déclinaison +16° ou -16°. Puisque cela se vérifie aux alentours du 2 février (-16°), du 5 mai (+16°), du 6 août (+16°) et du 2 novembre (-16°) ces quatre jours devinrent les points de repère de l'année et on leur associait les fêtes principales qui marquaient ainsi les changements des saisons. Les fêtes, liées à des cultes et à des rites ancestraux avec la Terre et les éléments naturels, furent plus tard christianisées par l'Eglise Catholique qui entendait ainsi déraciner à tout prix le paganisme et l'héritage du monde celtique. Elles furent modifiées dans leur nom et leur signification, mais malgré ces changements, elles sont encore aujourd'hui bien vivantes, témoignage d'un lien plus étroit que jamais, et tout à redécouvrir, entre notre culture et celle de nos ancêtres celtiques.

 

Imbolc et Beltaine, Lughnasad et Samain

 

La fête de Imbolc était célébrée le 2 février ; celle dédiée au dieu de la lumière se tenait le 5 mai. Le 2 février on célébrait la fête de Imbolc, fête qui a survécu jusqu'à nos jours et qui est plus connue sous le nom de "Chandeleur". Quant à la fête de Beltaine, elle était célébrée le 5 mai et était dédiée à Bel, le dieu celtique de la lumière. Parfois elle était aussi appelée Cetsamain, qui signifie "début de la chasse". Comme cette date désignait l'apogée du printemps, c'était la fête de la liesse et de la musique : les jeunes dansaient et chantaient autour de l'arbre sacré en tapissant le sol de fleurs pendant que dans les champs on allumait des feux. Plus tard la date du 5 mai fut déplacée au 1 mai ; en Italie, elle est toujours célébrée sous le nom de Calendimaggio (Calendes de mai).

 

Le 6 août c'était la fête de Lammas, appelée aussi Lughmasa ou Lugnasad dans la tradition britannique; en Italie, cette fête correspond au 15 août et est connue sous le nom de Ferragosto. Enfin, Samain, qui inaugurait le long hiver celtique. Elle tombait le 2 novembre, était dédiée au culte du feu et entretenait des liens très étroits avec le culte des morts. Peut-être l'Eglise catholique choisit-elle le 2 novembre pour la commémoration des morts justement à cause de cette tradition ancestrale, dans le but évident d'éteindre tout souvenir du paganisme, en lui procurant une nouvelle signification, toute chrétienne.

 

Le Calendrier de Coligny

 

Les meilleures informations directes sur le calendrier celtique sont connues grâce à une table en bronze découverte à Coligny et qui date de la fin du IIième siècle après Jésus-Christ. La table, dont ne subsistent aujourd'hui que des fragments, fut gravée par les Druides pour préserver leurs connaissances astronomiques et leurs traditions du danger que la conquête romaine de la Gaule représentait, en quelque sorte pour que ces connaissances ne soient pas perdues à jamais. Ce calendrier témoigne d'une connaissance avancée des normes qui régissent les mouvements des astres et prouve que les Celtes, contrairement à ce qu'affirment péremptoirement les panégyristes de la culture latine, maîtrisaient des notions astronomiques et mathématiques fort avancées.

 

Le calendrier de Coligny est un calendrier lunaire qui s'étale sur une période de 5 ans, totalisant 62 mois; 5 mois comptaient 29 jours et 7 mois en comptaient 30, pour un total de 355 jours. La non correspondance avec l'année normale de 365 jours était corrigée en insérant, au long du cycle de 5 ans, deux fois un mois supplémentaire de 30 jours: une fois au début de la première année et une deuxième fois au milieu de la troisième année. Dans le calendrier de Coligny les 62 mois du cycle sont disposés en 16 colonnes comprenant chacune trois ou quatre mois. Les mois sont numérotés de 1 à 12, pendant que les jours de chaque mois sont subdivisés en quinzaines et précédés par des abrégés qui en indiquent la nature: D (jour), MB (bonne journée), AMB (mauvaise journée). Devant chaque jour il y avait un trou dans lequel on plantait un petit bout de bois pour signaler le jour en cours. Au début du mois apparaissait le nom du mois suivi par le terme MAT(U), complet, pour les mois de 30 jours, ou le terme ANM(ATU), incomplet, pour les autres mois.

 

Les prêtres connaissaient la doctrine numérique de Pythagore. Une journée était calculée, comme le font encore aujourd'hui les Juifs et les Musulmans, de coucher de soleil à coucher de soleil. Le mois débutait à la pleine lune. Les noms des mois et leur position reflètent le lien profond des Celtes avec la Terre et les saisons agricoles. L'année commençait au mois de Samonios (chute des semis qui correspondait à octobre/novembre), c'est-à-dire quand, à l'arrivée de l'automne, les noix et leurs coquilles tombent des arbres.

 

Le cycle celtique des mois

 

Suivaient, dans l'ordre: Dumannios (les plus sombres profondeurs, novembre/décembre), Riuros (temps froid, décembre/janvier), Anagantinos (temps de rester à la maison, littéralement: incapable de sortir, janvier/février), Ogronios (temps de la glace, février/mars), Cutios (temps des vents, mars/avril). A la fin du premier semestre, tous les 5 semestres, on intercalait un mois supplémentaire appelé Mid Samonios. Avec Giamonios (exposition des bourgeons, avril/ mai) commençait le deuxième semestre suivi par Simivisonios (temps de la lumière, mai/juin, quand le soleil est à son zénith), Equos (temps des chevaux, juin/juillet, idéal pour les voyages), Elembivos (temps des réclamations, juillet/août quand, à l'occasion des foires, on fêtait les mariages et on présentait les cas à débattre devant les juges), Edrinios (temps d'arbitrages, août/septembre, quand on tranchait les litiges) et Cantlos (temps des chants, septembre/octobre, quand les poètes s'installaient dans les villages pour y passer l'hiver).

 

Outre les tables de Coligny et du Lac d'Antre, il y a plus de trente ans, en 1967, ont été retrouvés d'autres fragments d'un calendrier celtique dans le sanctuaire de Villards d'Héria. Tout ce matériel constitue la preuve irréfutable de l'importance que les Celtes attachaient à la subdivision de l'année et à leur rapport, franc et direct, avec les saisons et les éléments de la nature dont dépendait la vie de leur civilisation. Les fêtes que nous célébrons aujourd'hui, les noms de nos territoires et de nos villes et la langue que nous parlons révèlent des matrices celtiques certaines. Et malgré les millénaires d'histoire et les différentes dominations, chacune apportant sa propre culture, notre lien avec la civilisation celtique reste extrêmement vivant et irréfutable. Aujourd'hui plus que jamais.

 

Elena PERCIVALDI.

(article issu de La Padania, Milan; trad. Franç.: LD)

 

mercredi, 22 avril 2009

De heidenen in de Lage Landen

Ex : Nieuwsbrief Deltastichting nr. 24 – April 2009

De heidenen in de Lage Landen


Neen, dit is géén boek over heidense spiritualiteit of heidense religiositeit in 2009 in de Lage Landen. Ugo Janssens vertelt in dit boek wél de geschiedenis van het heidendom – in al zijn aspecten – in de Lage Landen. Van de oertijd (voor zover men al iets kan zeggen, natuurlijk) tot het christendom: het heidendom in de symboliek, in de riten, in de tempelbouw en in de verschillende momenten van het menselijk leven.

Alles startte met de jagers en de verzamelaars, die op het einde van de middensteentijd (van 11.500 tot 5.800 v.o.j.) overschakelden van de jacht naar een meer sedentair bestaan. Maar in de eerste hoofdstukken heeft auteur Janssens het eerst nog uitgebreid over die andere species, de Heidelbergmens, die nogal zwaar leken op de neanderthalmens (die van 800.000 tot 150.000 jaar geleden leefden). Europa werd immers minstens 500.000 jaar geleden al bewoond, zoveel is wel duidelijk geworden uit allerlei vondsten (bijvoorbeeld gevonden in Spanje). Deze soort en de neanderthalmens hadden een zeer sociaal gedrag, zij verzorgden hun zieken en gehandicapten, ze geloofden in een leven na de dood, en begroeven hun doden met allerlei riten en grafgiften.

Dan kwam inderdaad de ‘homo sapiens’, en het oudste Europees exemplaar werd in de Roemeense stad Pestera gevonden: zo’n 35.000 jaar oud. Net als bij vele andere natuurvolkeren in de wereld werden ook bij die eerste ‘homines’ sporen van sjamanisme ontdekt. In Europa doken bijvoorbeeld rots- en grotheiligdommen op. De mensen geloofden in reïncarnatie, en dus in het behoud van delen van het lichaam. Allerlei delen van het dode lichaam werden daarom bewaard: botten, huiden, schedels.

Voor de wetenschappers is de overgang van de oude naar de nieuwe steentijd (van 11.500 tot 7.800 v.o.j.) een duistere, geheimzinnige tijd. Zovele vragen blijven onopgelost. Zo bijvoorbeeld de vraag of de (vrij) plotse overgang veroorzaakt werd door wereldwijde overstromingen? Men heeft er het raden naar. De Vlaams-Nederlandse kustlijn bijvoorbeeld zou rond 6.000 jaar voor onze jaartelling gevormd zijn. En in Denemarken werd een vrij grote grafplaats gevonden, waarin heel wat mannen en vrouwen begraven waren. In ons land moesten wetenschappers genoegen nemen met artefacten. In de religieuze beleving was de vrouw – de Moeder – het middelpunt. De befaamde wetenschapster Marija Gimbutas heeft haar sporen verdiend in het (letterlijk soms) opspitten van deze ‘duistere’ prehistorie.

De overgang van jagers naar sedentaire gemeenschappen leidde tot een verruwing van de maatschappij, er ontstond wedijver, ambitie en agressie, en deze evolutie leidde uiteindelijk tot een degradatie van de vrouw tot slavin. Maar andere wetenschappers bijvoorbeeld denken dan weer dat allerlei patriarchaal gerichte ruitervolkeren vanuit Oost-Europa voor de grote omwenteling zorgden. Op vele plaatsen ontstond een soort mannelijke drievuldigheid, met als opperste god de Vader als hoogste leider.

Vele sacrale plaatsen uit het Neolithicum werden in Europa teruggevonden, ook in West-Europa. De oudste omwallingen zouden 4.400 tot 3.500 v.o.j. zijn opgericht. Vlaanderen, Nederland en Duitsland werden grotendeel agrarisch, onder de zogenaamde bandkeramiekers.
Ook over de stenen kolossen, dolmens, menhirs, en andere monumenten, die op het einde van het Neolithicum werden opgericht, blijven de grootste twijfels bestaan, en de auteur Ugo Janssens maakt er een erezaak van om alle mogelijke stellingen mooi op een rijtje te zetten (met weeral de naam Gimbutas prominent vernoemd). Voor wie er nog zou aan twijfelen: Stonehenge ontstond niet in dit Neolithicum, maar werd pas veel later opgericht, tijdens de bronstijd).

De zonnegod werd geboren en zou de Grote Moeder steeds vaker vervangen. De winterzonnewende werd ook steeds vaker als het begin van het jaar beschouwd. Zonnesymbolen verschenen op de rotswanden – ook het complex van Wéris in de Waalse Ardennen moet in dit tijdsgewricht worden gesitueerd. Grafheuvels werden opgericht als magisch en religieus cultusoord (er zijn er honderden van bekend in België en Nederland). De auteur gaat uitgebreid in hoe er werd begraven en wat de mogelijke verklaringen zouden kunnen zijn.

Tussen 5.000 en 3.000 voor onze jaartelling waaierden de Indo-Europeanen vanuit Azië uit over Europa – de kopertijd en de bronstijd braken aan. Men schakelde over van inhumatie naar crematie, alhoewel, zegt Ugo Janssens, de vraag waarom dit gebeurde, ook nu nog niet kan worden beantwoord. Er zijn gissingen, er zijn veronderstellingen, maar zekerheid hebben we niet. De eerste urnenvelden in de Lage Landen duiken op rond 1.100 voor onze jaartelling. Ook mensenoffers behoorden tot de religieuze tradities in die periode, en voor de eerste keer in dit boek duikt de naam over de Germaanse oppergod, Wodan, en van allerlei Keltische goden. Ook de zonnewagen kwam steeds vaker voor.

In onze contreien doken de eerste Keltische migranten wellicht op tussen 1.400 en 1.100 voor onze jaartelling, en dan vooral als een elite die de autochtone bevolking ging overheersen. De Keltische cultuur was het resultaat van een economisch en militair overwicht – de Hallstattcultuur (Oostenrijk). Germanen kunnen trouwens niet los worden gezien van Kelten, het waren in oorsprong ook Kelten, maar vermengden zich gaandeweg met Baltische stammen en met allerlei niet Indo-Europese gemeenschappen.

De Kelten geloofden in reïncarnatie, en geloofden daarenboven dat de verblijfplaats aan de overzijde van korte duur was. Hun riten waren er steeds op gericht de goden gunstig te stemmen, de natuur met andere woorden gunstig te stemmen. Tempels, ook openluchttempels (vooral van de Kelten in onze gebieden) werden opgericht ter ere van de goden. De goden werden niet in menselijke vorm afgebeeld – althans niet zolang de Romeinen nog niet in onze streken waren gelegerd). In Vlaanderen, aldus Janssens, zijn vele Keltische tempels gevonden, de grootste daarvan in Kontich.

Germanen en Kelten cultureel van elkaar onderscheiden, is eigenlijk onmogelijk. Maar de goden van de Germanen kon je wel onderscheiden van de Keltische, want naast de verpersoonlijking van de natuurelementen waren de Germaanse goden ook de goddelijke vertegenwoordigers van de verschillende sociomaatschappelijke lagen van de samenleving. En in tegenstelling tot de Keltische priesters waren de Germaanse niet georganiseerd.

Ugo Janssens gaat in op de verschillende scheppingsverhalen, het pantheon van de verschillende goden, en de rites bij overlijden en geboorte bij de componenten van de samenleving in de Lage Landen na de komst van de Romeinen: de (Gallo-)Romeinen, de Germanen en de Kelten.

Tenslotte, om dit boek over heidenen in de Lage Landen volledig te maken, is er een hoofdstukje over de Oosterse goden in onze gewesten. Met komst van de Romeinse soldaten en een Romeins toplaagje kwamen ook allerlei goden in Vlaanderen en Nederland: Isis, Serapis, Cybele, en Mythras. Met deze laatste werd de akker trouwens al aardig beploegd voor de (voorlopig) jongste goddelijke komst in onze landen: het monotheïsme, in de vorm van het christendom.

Een zeer interessante uitgave. Veel informatie. Maar ook vele onopgeloste vragen.


Titel: De heidenen: Riten, culten en religie in de Lage Landen. Van de oertijd tot het christendom
Auteur: Ugo Janssens

ISBN : 978-90-209-8321-0
Verkoopprijs : 19,95 EUR (richtprijs)
NUR-code : 683 Oudheid (tot 500)
Afwerking : Paperback
Aantal pagina's : 304
Uitgave : Uitgeverij Lannoo

(Peter Logghe)

mardi, 14 avril 2009

Danses dionysiaques

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Danses dionysiaques

 

Une savante étude sur Les danses dionysiaques en Grèce Antique vient de paraître. Il s'agit de la troisième partie d'une thèse de doctorat soutenue par Marie-Hélène Delavaud- Roux en 1991 et dont les deux parties précédentes ont été publiées sous les titres de Les danses armées en Grèce Antique et de Les danses pacifiques en Grèce Antique. L'auteur écrit: «Dans ce qui suit, je donnerai aux qualificatifs des danses dionysiaques ou bachiques un sens très large. Il s'agit en fait d'un type de danse qui peut concerner d'autres divinités que Dionysos —Déméter, Cybèle et Adonis. Nous prenons donc les mots “dionysiaque” et “bachique” dans le sens d'“orgiaque”, par opposition aux manifestations orchestiques armées et pacifiques. Dans cette étude, nous engloberons aussi bien les danses liées à l'extase que celles liées à l'ivresse. Les premières semblent féminines, tandis que les secondes paraissent plutôt masculines. Cependant, nous verrons que les hommes peuvent dans certains cas effectuer des danses mystiques, rappelant les danses des derviches tourneurs». Le livre est abondamment illustré de dessins figurant sur les céramiques grecques. Il permettra à certains une approche intéressante des musiques traditionnelles de ce pays. La Grèce est un des rares pays européens où les traditions musicales (entre autres) sont encore réellement  vivantes. Pour les découvrir, il faut éviter les soirées “pour touristes”, se munir de l'excellent L'été grec  de J. Lacarrière, et emprunter des chemins qui, parfois, ne mènent nulle part (JdB).

 

Marie-Hélène DELAVAUD-ROUX, Les danses dionysiaques en Grèce Antique, Publications de l'Université de Provence, 29 avenue Robert Schuman, F-13.621 Aix-en-Provence Cedex 1,1995, 256 p.,170 FF.

dimanche, 12 avril 2009

Hellenes and Indo-Aryans

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Hellenes and Indo-Aryans

Houston Stewart Chamberlain / http://www.centrostudilarune.it/

Isaac Taylor, The Origin of the Aryans. An Account of the Prehistoric Ethnology And Civilization of Europe To us it seems almost mockery, if one compares a philosopher with a blind man. In order to avoid any misinterpretation of my comparison, I want to make myself even more clear by referring to the Greeks. It is by no means certain, I believe, that the Greeks (those virtuosi when it comes to using the eye) had the right capabilities to serve mankind as the exclusive leaders on philosophical issues. Their whole life was a denial of introspection and therefore formed the sharpest contrast possible with the Indo-Aryan lifestyle. Now let us look at the upbringing of the Aryan thinker. The young Brahman received his education in the seclusion of a rural surrounding: mental treasures and moral habits; with incomparable severity and perseverance he was educated for thinking, according to plan. Twelve years and often longer the theoretical instruction and exercise took; then came the indispensable school of practical life, the founding of his own household. And it was only after his own son had grown up and had build his own house, that the time had come for a wise man to disappear into the forests, he, now freed from all the obligations of the rituals and from the entire equipment of the symbolic belief in gods, he, whose speculative abilities formed the best personal civilization one could think of, whose memories were enriched by all joys and sadness of family life, he whose knowledge of human nature had matured by the fulfilment of his practical civic duties — only now the time had come for this wise man to increase the treasures of thought, inherited from his ancestors, and thus to increase the mental possession of his people.

For the Greeks however education consisted of the training of the eye and of rhythmic feeling: gymnastics and music, being pretty and recognizing beauty with sureness. From their childhood up they filled their days with looking at the other, „watching the outside“, talking and discussing and tuning. In short: the publicity was the atmosphere of Greek existence; all Greek philosophers were politicians and orators. And while even in today’s degenerated times many Indo-Aryans of pure race conclude their life in complete seclusion, prepare their grave, and calmly lie down, silent and lonely while death approaches, in order to unite themselves with the omnipresent world spirit, we hear Socrates, up to the moment when he empties the cup of hemlock, amusing himself with dialectic hair-splitting with his friends and discussing the advantage of the believe in immortality for the human society.

M. Monier-Williams, A Sanskrit-English Dictionary. Etymologically and Philologically Arranged with Special Reference to Cognate Indo-European Languages So we see that the serious obstacles, raised by the formlessness of the Indo-Aryan representation of their world-view, are not without some kind of atonement; and it’s justified to expect to find something new here. But we would be superficial, if we were satisfied with just this one insight. Because the distinction between form and matter can lay claim to a limited value only; so here we have to dig somewhat deeper.

Hellenic humanism — to which the Indo-Aryan now forms a counterweight — was for us in particular a school of form, or perhaps better of shaping, of creation, of the artists’ individual works on up to the realization that a human society can have a form in which free-creative art is the all-penetrating element. In admiration of related strangers we climbed up to new achievements of our own. On the other hand, each attempt failed to master what was specifically Hellenic regarding the contents, if one refrains from those things — logic, geometry — where the form is already contents. This is quiet clear for the arts, but for philosophy the emancipation from Helleno-Christian ties has to still take place, although it was always followed out by our real philosophers, from Roger Bacon on to Kant. As for India the conditions differed. The Indian Aryan missed a Hellene, to keep within bounds in time his innate inclination — also inborn to us — to digress excessively, to canalize his over-rampantly thriving forces as it were, to accompany his overflowing fantasy with the wise guide called „taste“, and his judgement with a notion of shape-giving. That effusiveness, which Goethe calls the source of all greatness, was present with the Indian Aryan just as abundantly as with the Hellenes, they missed however sophrosyne, the restrictress. No poem and no philosophical writing of the Indian is enjoyable for a man of taste, formally speaking. And once these people wanted to avoid the excessiveness and therefore untransparancy, the unartisticness of their creations, they immediately ran into the opposite extreme and availed themselves of such an exaggerated aphoristical briefness that their writings became nearly an unsolvable mystery.

The Indo-Aryan Languages A well-known example is Pânini’s grammar of Sanskrit, which is written in the form of algebraic formulas, so that this exhaustive representation of the Sanskrit language, 4000 rules large, fills hardly 150 pages. Another example are the philosophical comments of Bâdarâyana, with whom sometimes a whole chapter with explanations was necessary, before one could understands three words of his way of expression, concise to absurdity. The form of the Indian is therefore nearly always rejectable. And this means a lot; because a clear distinction between form and contents can’t be found anywhere; he who criticizes the form, cannot praise the contents without some reservations. For this is also true; with the Indo-Aryan we have to dig deeply before we hit upon pure, unslagged gold. If one is not determined or capable to descend into the depths of this soul (for which a congenial attitude is necessary), one shouldn’t make attempts at all; he will harvest little for much trouble. However, he who can and may descend, will return with ever-lasting rewards.

And now we see immediately, how very limited the criticism of such an organism often is; for while I just criticized the Indian form, one also has to admit that especially within this „formlessness“ the possibility of certain conceptions, certain suggestions, a certain communication between soul and soul emerges, which one would search for in vain in other places. Such things are untransferable and cannot not be detached from their environment; we learn to think thoughts, which we would not have thought otherwise, because we missed the material mediator — if I may say so. Nevertheless we may summarize our views on form with the following statement: what causes our deepest interests in the creations of the Indo-Aryan spirit, is the inner core, from whence they originate, and not the form in which they are represented to us. Thus if we expect an animating influence from India on our own spiritual life, then this expectation is mainly related to that core only.

* * *

From Aryan World-view, (or. Arische Weltanschauung). The translation, based upon the 8th. ed. in German, published by F. Bruckmann A.-G., Munich 1938, was made by hschamberlain.net.


Houston Stewart Chamberlain

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samedi, 28 mars 2009

Le premier royaume des Burgondes

Dorothea WACHTER :

Le premier royaume des Burgondes

 

La Bourgogne ! Il y a une charge véritablement magique dans ce nom mais il suscite également bien de la mélancolie lorsque l’historien, professionnel ou amateur, examine les hauts et les bas de l’histoire burgonde et bourguignonne.

 

La Bourgogne et la Burgondie de jadis sont situées au coeur de l’Europe, en un espace qui devrait leur conférer une grande importance politique. De surcroît, les nombreuses impulsions  culturelles qui ont émané de cette région d’Europe ont contribué à forger le meilleur de l’esprit occidental.

 

La Bourgogne n’est pas seulement le nom d’une riche et belle province de la France actuelle. Elle doit son nom au peuple germanique des Burgondes, qui s’était installé, au départ, dans la dépression formée par la Saône. A l’Ouest, la Bourgogne est surplombée par le plateau calcaire de la Côte d’Or et les monts du Charolais. A l’Est, la “Haute Bourgogne” s’étend jusqu’au Jura et jusqu’à ce plateau central de la région montagneuse du Morvan, qui est située bien plus au nord que le Massif Central. La “Basse Bourgogne” s’avance au nord vers le pays calcaire du Bassin Parisien.

 

La Suisse occidentale actuelle, avec Berne, Fribourg dans l’Üchtland, Lausanne et Genève se trouve sur le sol de l’ancienne Burgondie.

 

En Allemagne, la conscience populaire associe encore et toujours le terme de “Burgund” à une partie du Grand Duché de la fin du moyen âge. Ce territoire est resté partiellement la base de  départ d’un ensemble plus vaste où, du 5ème au 15ème siècle, des entités politiques différentes, de nature et de taille, ont émergé. Toutes portaient le nom de “Burgondie” ou de “Bourgogne”. Seule l’aire culturelle compacte de la Bourgogne actuellement française en a conservé le nom: ces terres furent le noyau du duché médiéval, que je traiterai dans mon livre. C’est là qu’une branche parallèle de la famille royale française exerçait ses prérogatives: les Valois.

 

L’historien et médiéviste néerlandais Huizinga ne fut pas le seul à évoquer “le sort et l’héritage” du duché des Valois, en spéculant sur ce qu’aurait pu devenir la Bourgogne des Grands Ducs. Mais il me semble oiseux d’aborder l’histoire en avançant l’éternelle question empreinte de nostalgie: “Que serait-il advenu, si...?”. Nous ne parlerons donc que fort brièvement des thèses d’Huizinga.

 

Aujourd’hui, un important réseau routier traverse ce pays de transit entre le Rhin, la Saône, la Loire et le Rhône. Dans l’antiquité, la route la plus importante, qu’empruntaient alors bon nombre de peuples, partait de Cabillonum (Châlon) à Augusta Rauracorum (Bâle); César et le chef paysan germanique Arioviste l’ont tous deux empruntée. Les recherches historiques ont également prouvé qu’il y avait en Bourgogne actuelle l’une des plus anciennes voies de communication nord-sud d’Europe, qui partait de la Méditerranée, plus exactement de Masilia (Marseille), longeait le Rhône et passait par Alésia, où, en 52 avant J. C., César l’emporta définitivement sur le chef militaire celte et arverne Vercingétorix. Celui-ci avait tenté d’organiser depuis Bibracte la résistance des peuples celtiques de Gaule contre l’emprise romaine. La prise d’Alésia par César marqua le début de l’occupation définitive des Gaules.

 

Aux paysages différents de l’espace burgonde-bourguignon doit également s’associer un phénomène générateur d’histoire, qui doit susciter en nous un questionnement perpétuel sur la vie et la mort des grands peuples. La tradition bourguignonne est née il y a plus de 1500 ans. On connait bien ses débuts. Il suffit de se replonger dans l’histoire des premières rencontres entre Romains et Germains.

 

Les historiens de l’antiquité évoquent plus de cinq cents ans d’histoire marqués par les mouvements des peuples germaniques et par les confrontations militaires qu’ils ont suscitées. Les derniers siècles de ces mouvements migratoires portent le nom de “migration des peuples” (Völkerwanderungen) en Allemagne et d’ “invasions barbares” chez les héritiers des Gallo-Romains. On pourrait tout aussi bien parler de “migrations germaniques”, car le raid des Huns d’Attila, parti du sud de la Russie pour débouler en Gaule et y être arrêté, n’a jamais été qu’un corps étranger au beau milieu d’un déménagement de peuples exclusivement germaniques.

 

L’époque de ce “déménagement de peuples” peut se subdiviser en trois parties: la première eut lieu entre 260 et 400, la seconde entre 400 et 550 et la dernière de 550 à 700. Au cours de la première phase, la culture germanique subit une transformation; elle se trouvait sous l’influence des provinces romaines. Dans la seconde phase, les influences germaniques orientales dominent,  avec l’apport des Goths. Lors de la dernière phase, c’est une nouvelle culture germanique qui se déploie avec faste et se diffuse en Europe. C’est aussi l’époque du renforcement de l’église dite romaine, ce qui a pour résultat que les dons offerts aux défunts dans les tombes germaniques traditionnelles disparaissent. Nous pouvons considérer que les “migrations des peuples”, à la fin de l’Empire romain, sont l’aboutissement final de mouvements migratoires très anciens, observables dès les premiers balbutiements de la proto-histoire, chez les peuples et tribus d’Europe. Le grand raid des Huns, l’un des plus importants mouvements migratoires d’Eurasie, conserve une importance historique uniquement dans la mesure où il a forcé les Germains à quitter leurs territoires d’origine.

 

Lorsque nous parlons aujourd’hui de Bourgogne, nous songeons, le plus souvent, aux 14ème et 15ème siècles, à cet Age d’Or bourguignon, qui n’a pas été épargné par la lutte entre les puissants de l’heure. Il s’agit alors de la Bourgogne, actuelle région de France, qui ne couvre jamais que la sixième partie de ce que fut la grande Burgondie. Cet espace burgonde comprend certes la Bourgogne actuelle mais aussi et surtout les royaumes médiévaux de Basse Burgondie et de Haute Burgondie, la terre impériale romaine-germanique de “Burgund” ou Arélat, partagé aujourd’hui entre la France et la Suisse. Cet ensemble territorial burgonde, à l’Est de la frontière médiévale de la France (Francie occidentale), a été la matrice d’une culture riche et originale de l’antiquité à l’Age d’Or des Grands Ducs. Les acquis culturels de cet ensemble burgonde ont été capitaux dans la formation politique et culturelle de l’Europe toute entière. Les villes de cet ensemble ont toutes été des centres de culture et de créativité politiques et religieuses.

 

La Provence appartenait  jadis à la “Basse Bourgogne” ou “Basse Burgondie”, qui s’étendait de Mâcon à Marseille. Cette région a joué le rôle capital d’intermédiaire entre les cultures du Sud et du Nord de l’Europe.

 

La Franche-Comté, avec l’ancienne ville impériale romaine-germanique de Besançon  (“Bisanz” en allemand), fut, du point de vue politique et culturel, la porte d’entrée, au nord, de ce royaume de “Basse Burgondie”.

 

A tout cela s’ajoutent, comme nous l’avons déjà dit, les cantons suisses du Valais et du Vaud, avec l’abbaye royale de Saint Maurice d’Agaune, burgonde dès ses origines, et les villes de Genève et de Lausanne, entre le Jura et les Alpes.

 

Malheureusement, l’Arélat, en tant qu’ensemble territorial, n’a jamais trouvé d’assises politiques et ethniques suffisamment solides pour durer et n’a jamais pu devenir une province culturelle burgonde bien établie sur une identité homogène. Il ne reste plus que des coutumes anciennes partagées mais incapables de susciter l’éclosion d’un profil politique durable.

 

L’époque des Ducs de Valois, avec leur Cour et leurs fastes, symboles de leur statut, avec les grandes chasses ducales, leurs fêtes flamboyantes, où parfois des cruautés sans nom étaient perpétrées, a laissé de fort belles traces dans la littérature. Nous y reviendrons. Dans cette introduction, nous préférons évoquer la nécropole de Champmol près de Dijon qui a été construite pour servir de tombeau au Duc Philippe le Hardi (son sarcophage et celui de Jean Sans Peur se trouvent désormais au Musée du Palais des Ducs à Dijon). A Beaune, nous trouvons les peintures flamandes de Roger de la Pasture (van der Weyden) et des frères Van Eyck; nous découvrons les églises romanes et gothiques dont les façades ont été cruellement détruites lors de la Révolution Française mais où se trouvent encore des oeuvres du grand sculpteur Claus Sluter, mort en 1406 à Dijon. Ce sculpteur avait dépassé le style gothique du 14ème et contribué grandement à créer le style du 15ème. De prestigieuses abbayes nous ramènent des siècles en arrière, où une vie active florissait et où le religieux se mêlait étroitement à la politique.

 

Nous sommes plongés dans la confusion quand nous voyons que les termes de “Bourgogne” et de “Burgondie” ont été donnés, à différentes époques, à des pays aussi différents les uns des autres et aux contours fluctuants, qui ont émergé et puis disparu. Nous pouvons considérer que la Bourgogne est une terre de traditions où plus d’un peuple a donné le meilleur de lui-même, pour sa région et pour l’Europe. N’oublions pas, nous, Allemands, les rapports étroits qui ont existé entre les parties orientales du Royaume de Burgondie et l’ancien Empire: Adelaïde (Adelheid), la seconde épouse de l’Empereur Othon I, était la fille du Roi Rodolphe de Burgondie et elle était surnommée “la mère de tous les Rois”.

 

Revenons aux racines les plus anciennes, aux origines réelles de la Bourgogne, chez le peuple des Burgondes, tribu germanique orientale, composée d’hommes et de femmes à la haute stature de type scandinave et que Pline considérait comme parents proches des Vandales. Ils se sont mis en route vers 100 avant J. C., se détachant des autres peuples de la branche nordique de l’ensemble germanique, quittant leur patrie originelle scandinave, en passant par Burgundarholm (l’île de Bornholm), où ils se sont établis brièvement. Ils s’installent ensuite à l’embouchure de l’Oder et, au départ de cette nouvelle patrie, explorent le continent de long en large à la recherche de terres. Les Rugiens de Poméranie ultérieure les chassent; ils bousculent les Vandales et trouvent refuge entre l’Oder et la Vistule, où leur présence est attestée au 2ème siècle de l’ère chrétienne. Dès le début de ce 2ème siècle, ils poursuivent leur migration. Une partie d’entre se serait installée dans le sud de la Russie, sur les côtes de la Mer Noire. La partie demeurée sédentaire fut alors assiégée par des tribus gothiques puis chassée. Elle trouva de nouvelles terres en Lusace. Vers la moitié du 3ème siècle, un parti de Burgondes se meut vers l’Est et subit une cruelle défaite face aux Gépides. Les restes épars de ce parti défait a dû vraisemblement migrer lentement vers le Sud-Est, comme le firent par ailleurs les Goths de Crimée. Le gros de la tribu s’ébranle alors vers l’Ouest et s’installe sur le cours supérieur et moyen du Main, où un conflit l’opposera en 278 aux Alamans. Ils restèrent environ une centaine d’années sédentaires dans la région de Kocher et de Jagst, où ils furent agriculteurs et artisans. Au 4ème siècle, leur territoire s’étend à l’Ouest jusqu’au Rhin et au Sud jusqu’à Schwäbisch Hall.

 

Le Limes romain (dans son ensemble le monument romain le plus impressionnant d’Allemagne) les a empêchés pendant près d’un siècle de poursuivre leurs pérégrinations vers l’Ouest, malgré leurs tentatives de le percer.

 

Les Burgondes n’avaient pas de roi, seulement un “Ancien” disposant de droits sacrés et ayant le statut de grand prêtre: il exerçait son pouvoir fort sur l’ensemble de la tribu. Ce grand prêtre tribal était inamovible à vie et portait le titre de “Sinistus”. Ulfila, l’évêque des Goths, désigne également les prêtres païens de ce terme dans sa traduction en gothique de la Bible. Leurs  voisins alamans devinrent rapidement leurs ennemis les plus obstinés. Les racines de cette inimitié tenace peut s’expliquer par le caractère des deux peuples. Les Burgondes étaient réputés pour leur patience et leur tolérance. L’archéologue Paret, en analysant un grand nombre de découvertes archéologiques, estime prouvé que le caractère des Alamans était plutôt sauvage et farouche, souvent animé par une rage de détruire.

 

Les Burgondes étaient plus prompts à s’entendre avec les Romains car leur caractère était plus paisible, plus patient et souple; ils préféraient commercer et négocier les produits de valeur de  leur artisanat très raffiné. Cette propension à la négociation et la volonté de se frotter à la civilisation, les Romains et les peuples celtiques autochtones mais romanisés de leur future patrie en ont tiré profit. Les Romains ont accepté que les Burgondes, au détriment des Alamans, s’installent de l’Odenwald au Rhin, en partant de leur foyer sur le cours moyen du Main.

 

La patience et la tolérance des Burgondes ont eu des revers: elles leur ont fait perdre très tôt leur indépendance politique et favorisé la dilution de leur identité.

 

Avant la fin du 4ème siècle, des troupes armées de Burgondes atteignent les rives du Rhin. Elles profitent ensuite du passage des Vandales pour traverser le fleuve. A la même époque, le Roi des Wisigoths, Alaric, se trouvait en Italie et avait atteint le faîte de sa puissance, tandis que l’Empire romain avait été profondément ébranlé par des désordres intérieurs et des troubles de toutes sortes. Sans doute pour apaiser les Burgondes en quête de terres, les Romains leur donnèrent des territoires autour de Worms et Mayence et en firent des “foederati”. L’Ancien de la tribu, le Sinistus, perd son statut et se voit remplacer par un Roi, chef d’armée, issu de la lignée des Gibikides. Le premier roi des Burgondes fut en effet un certain Gibich. A l’époque de ce premier roi, les Burgondes semblent déjà avoir adopté le christianisme dans sa version arianiste. Nous reviendrons sur la nature de ce filon du christianisme, qui, apparemment, favorisait la patience et la tolérance fondées sur le raisonnement. La tribu n’embrassa le catholicisme romain que vers 500.

 

Parmi les successeurs de Gibich, il y eut Gundahar qui, pour obtenir de nouvelles terres où se sédentariser, tenta, vers 435, de conquérir la province romaine de Belgica Prima, à laquelle était rattachée toute la région mosellane. Cette tentative se solda par un échec face aux troupes du général romain Aetius. Cette défaite burgonde entraîna l’impossibilité de s’installer dans le pays qui allait plus tard devenir la Lorraine. Celle-ci attira les Alamans et les Francs qui se heurtèrent fréquemment aux Burgondes. Après que la paix fut conclue entre Burgondes et Romains, à la  suite de la tentative avortée de conquérir la Belgica Prima, les Romains rompirent la trêve en favorisant des attaques frisonnes (les Hünen, que l’on ne confondra pas avec les Huns) contre les Burgondes. Lors d’une bataille, dans cette guerre, une armée burgonde toute entière périt au combat, avec toute la lignée de ses rois. Il faut préciser ici que cette tragédie ne constitue nullement la source de l’épopée des Nibelungen. Les Nibelungen n’ont rien à voir avec les Burgondes. L’idée d’associer la tragédie burgonde à l’épopée des Nibelungen vient du fait que des chroniqueurs ont de fait combiné arbitrairement la matière de l’épopée germanique au sort de cette armée burgonde, anéantie en 436. Il n’y a jamais eu de campagne burgonde le long du Danube jusqu’à la Tisza.

 

Les Nibelungen était un tribu franque. Déjà dans la Chanson de Walthari, on parle des “Franci Nebulones”. D’après les recherches les plus récentes, notamment celles de Heinz Ritter-Schaumburg (“Die Nibelungen zogen nordwärts”, Munich, 1981), les “Niflungen” seraient originaires de Neffel près de Zülpich en Rhénanie. De là, ils firent mouvement le long de la Dhün, jusqu’à son confluent avec le Rhin, et de ce confluent vers Dortmund et Soest où ils livrèrent combat aux Hünen frisons (et non pas les Huns), dont le Roi se nommait Attala, Attila ou Atilius et non pas l’Etzel hun de la Chanson des Nibelungen. Les “Niflungen” furent ainsi écrasés au 6ème siècle. La Chanson des Nibelungen a repris cette confusion avec les Burgondes et l’a diffusée à grande échelle, ce qui n’ôte rien, bien entendu, à sa valeur poétique et littéraire. Mais rien d’historique n’atteste cette équation entre les Nibelungen et les Burgondes.

 

Après la défaite des Burgondes face aux Hünen frisons, les restes de la tribu se reconstituèrent et connurent une nouvelle expansion démographique, exerçant une pression constante contre les Romains, auxquels ils réclamaient des terres. Ils forcèrent bientôt Aetius en 443 à accepter un “déménagement”. Les Romains leur cédèrent le pays de Sapaudia, sur les rives gauche et droite du Rhône dans les régions de Grenoble et de Genève, où ils s’installèrent au titre de “hospites”. Le nom de “Sapaudia” est gaulois et signifie “pays des sapins”, du terme celtique “sapaud” signifiant “résineux”. Les forêts qui couvraient à l’époque la Gaule n’étaient pas denses sur de grands territoires et étaient généralement, à quelques exceptions, des forêts de feuillus, et surtout de broussailles avec, éparses, des chênées, comme on en voit encore aujourd’hui en Bourgogne et en Franche-Comté.

 

Du point de vue d’Aetius, le déménagement des Burgondes avait ses raisons stratégiques: protéger le frontière dans la partie méridionale de l’ancien royaume des Suèves. Ensuite, dans le midi de la Gaule, venait de s’installer un peuple germanique oriental. Genève devint ainsi le premier centre important de la nouvelle patrie des Burgondes. Ceux-ci se distinguent des autres peuplades germaniques orientales sur un point majeur: ils n’ont jamais vécu de longues pérégrinations; leur objectif a toujours été la sédentarité. Les Germains orientaux, contrairement aux Germains occidentaux, ont toujours été marqués par un certain nomadisme (surtout les Goths). Exception chez les Germains occidentaux: les Lombards. Ils furent les derniers grands nomades de la famille germanique: ils furent les premiers à débouler à l’embouchure du Danube dans le seconde moitié du 2ème siècle et les derniers à cesser tout mouvement après 550. Leur première installation sédentaire le long de la Waag, ils la doivent aux bonnes relations qu’ils avaient tissées avec les Marcomans. La masse principale des Lombards, fixées à l’époque dans la région de Lauenburg-Lüneburg, suivit en 489 les Germains orientaux en direction de la Basse Autriche, à la recherche de terres. Ils ont alors pratiqué l’agriculture et l’élevage sur des terres fertiles entre les Ostrogoths et les Gépides, d’une part, et les Suèves, d’autre part. Ils demeurèrent longtemps des paysans et des artisans, qui n’avaient nulle envie de servir comme officiers dans les légions romaines. Quand ils constatèrent que les Ostrogoths qui, eux, avaient servi dans ces légions, y avaient perdu énormément de sang et de monde, ils s’ébranlèrent vers le Sud et s’installèrent sur les bonnes terres de la Haute Italie. Paul Warnefried de Cividale, rédacteur de l’Historia Langobardorum, est un Lombard à l’esprit vif et clair, exemple emblématique des talents de son peuple. Selon le germaniste contemporain Goez, les origines de la littérature allemande sont à trouver chez les Lombards, dans leurs cloîtres de la plaine du Pô. Les premiers témoignages de l’art poétique en langue germanique, l’épopée gothique de Hildebrand et Hadubrand, ont été récités et transmis par des Lombards de Haute Italie. Ce sont eux qui ont donné à cette matière poétique un lustre littéraire incontestable. Dans l’éclosion et le développement de la future langue allemande, les Lombards ont été les premiers, affirme le germaniste Bruckner.

 

Ce furent encore les Lombards qui, après la disparition du réseau des voies romaines, ont recréé une nouvelle liaison routière entre leur métropole royale de Pavie et l’ancienne Urbs impériale (Rome): la Via Sancti Petri. Le peuple lombard a été un agent de civilisation, a brillé par l’excellence de sa culture mais son oeuvre a été trop longtemps méconnue: de nombreuses études et travaux académiques du 20ème siècle ont enfin réhabilité ce peuple.

 

Dorothea WACHTER.

(introduction au livre “Die Burgunden. Historische Landschaft – Versunkenes Volk”, Orion-Heimreiter, Kiel, 1986; adaptation française: Elfrieda Popelier).

mardi, 24 mars 2009

The Kalash: The Lost Tribe of Alexander the Great

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The Kalash: The Lost Tribe of Alexander the Great

by Aithon

 Ex: http://www.creternity.com/

  When the great hero and general, Alexander, who was as great as the god Apollo and Zeus, left his troops here, he asked them to stay here in this land without changing their beliefs and traditions, their laws and culture until he returned from the battles in the East. This is a story that is told not in a village in Greece but on the the mountainsides of the great Hindu Kush. In this remote area of the northwestern region of Pakistan lives a peculiar tribe, the Kalash. The Kalash proclaim with pride that they are the direct descendents of Alexander the Great. There are many similarities between them and the Hellenes of Alexander the Great’s time. Similarities such as religion, culture, and language reinforce their claims to Hellenic ancestry.

  The Kalash are a polytheistic people, meaning that they believe in many gods. The gods that they believe in are the twelve gods of Ancient Greece which makes them the only people who continue this worship! Gods such as Zeus, the god of gods, Apollo, the god of the sun, and Aphrodite, the goddess of beauty, are such gods that they pay homage to. Shrines which are found in every Kalash village remind us of the religious sanctuaries we would stumble across in Ancient Greece. They serve as houses of worship where prayers and sacrifices are offered. Oracles who played a major role in acting as mediators and spokespeople between the gods and the mortals still hold a position of importance in the social structure of the Kalash. Every question or prayer towards the gods is usually followed by a sacrifice of an animal. It is reminiscent of the sacrifices the Hellenes gave to the gods to assure them a victory over the city of Troy.

  Religions always possess certain traditions and rituals which are observed by their followers. The Kalash practice a ritual that is celebrated on August 6th. This feast day is named the Day of the Transfiguration. It is the day where the grapes are brought out to the god Dionysus to be blessed and to guarantee them of a plentiful crop. This ritual can be traced back to Ancient Greece where it was practiced by the cult of Dionysus who paid their respect to the god of fertility and wine. An active member of the cult of Dionysus was Olympia, mother of Alexander the Great, who is said to have recruited many of her son’s soldiers and who in return practiced it throughout their expedition (Alexandrou, pg. 184).

  The Kalash also live a lifestyle that can be positively compared to that of the Ancient Greeks. Let us start with the observation of their homes. The Kalash are the only people in the East who make and use accessories such as chairs and stools that cannot be found anywhere else in the surrounding regions! Their chairs are decorated with drawings such as the ram’s horns which symbolize the horns that decorated Alexander the Great’s helmet. Battle scenes depicting Greek soldiers are also observed. In the recent archaeological discoveries in Vergina, Greek archaeologists found the exact same replicas as the ones the Kalash use in their homes (National Herald, pg. 7).

As we know, Pakistan is a nation ruled by Islamic law. Under the law of the Koran alcohol consumption is prohibited. When we enter the region of the Kalash we encounter fields that are inhabited by grape vines. The Kalash are the only people who produce and consume wine and indulge themselves in feasts such as for the aforementioned feast of Dionysus. Greeks such as Socrates would participate in wine feasts such as we come across in the Symposium. Their feasts are always followed by songs and dances. The Kalash dance in a cyclical motion and the men usually follow it by loud cries of i-a and i-o which can be traced back to the battle cries let loose by Alexander’s soldiers. There is a saying held by the Pakistanis who state that only the Greeks and the Kalash whistle in such a way (Alexandrou, pg 87).

  In 1896 a British explorer by the name of George Robertson visited the Kalash and did a study on them. He concluded that fifty percent of the Kalash’s language derives from Ancient Greek. Such similarities can be found in their gods’ names. Zeus is called Zeo, Aphrodite is called Frodait, the name Dionysus has kept the same pronounciation. The Kalash have words such as demos meaning city-state and use the word ‘ela’ as an imperative command meaning come here. There was recently a tablet found in a village of the Kalash whose message was in the form of hieroglyphics. When the code was deciphered the message read, “Alexander the Great lives forever” (National Herald, pg.8).

  In this article we have observed similarities between people of the past, the ancient Greeks and people of the present, the Kalash. Through these similarities the Kalash have justified their claim as descendants of Alexander the Great. Ancient Greece and the tales of Alexander the Great were once believed to exist only in history books. However as the article insists, these great legacies live on with the Kalash of the mountainous Hindu Kush.

BIBLIOGRAPHY:
Alexandrou Dimitris N., "Kalash, The Greeks of the Himalayans", Thessaloniki, Greece, 1997

vendredi, 27 février 2009

Platon y la revolucion europea

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Platón y la revolución europea

Adriano Romualdi

Como ya se ha indicado el totalitarismo platónico evoca, aunque sólo sea por analogías formales, el totalitarismo europeo contemporáneo. Tanto en uno como en otro estamos ante la pretensión del Estado de guiar la vida del individuo, tanto en uno como en otro una idea se sitúa en el centro de la vida con la pretensión de sellar todas sus manifestaciones. Es cierto que Platón habría podido suscribir el eslogan mussoliniano «Todo dentro el Estado nada fuera del Estado, nada contra el Estado». Y es también cierto que habría podido escribir de su puño y letra una declaración como la aparecida en Pravda el 21 de agosto de 1946: «El deber de la literatura es ayudar adecuadamente al Estado a educar a su juventud, responder a sus necesidades, educar a la nueva generación a ser valerosa, a creer en su causa, a mostrarse intrépida ante los obstáculos y preparada para superar todas las barreras…».

El totalitarismo platónico no nace solamente de la concepción del Estado como un macro-hombre, como unidad orgánica, sino también de la conciencia de la descomposición social, de la crisis de la ciudad griega que exigía soluciones drásticas, medidas urgentes y coercitivas. Nace de la conciencia de que la antigua clase dirigente estaba muerta y la nueva no estaba todavía preparada. Visto desde esta perspectiva, el totalitarismo platónico presenta relevantes coincidencias históricas con el totalitarismo moderno, surgido para sustituir las elites políticas derribadas por las revoluciones liberales. Ambos totalitarismos, nacidos de una meditación pesimista sobre el momento presente, acusan un optimismo fundamental. Creer que un Estado, una civilización, puedan ser salvados mediante el dominio de una sola idea es, ante todo, una manifestación de esperanza. Sólo se está dispuesto a reconocer una autoridad política ilimitada a aquel principio del cual se acepta, fielmente, su ilimitada bondad. En este sentido, el totalitarismo de Platón, la idea del Estado-organismo, se nos presenta cono un mito, como mitos son las concepciones de los Estados fascista, nacionalsocialista y bolchevique. Considerado en su líneas generales, el mito del Estado platónico puede relacionarse con las más diversas tendencias del totalitarismo moderno, sean éstas de derecha o de izquierda: «En la República se puede encontrar la autorización a predicar la revolución social, la caída del capitalismo y el poder del dinero; pero igualmente puede encontrarse una justificación de la coexistencia de dos sistemas diferentes de educación, uno para los pocos y otro para los muchos, y una justificación de la clase dirigente hereditaria»[1].

Sin embargo, observando con más atención, el sentido del totalitarismo platónico nos obliga a hacer distinciones: no se trata de la tiranía de una clase o de una facción sino del gobierno de los mejores, los cuales, encarnado los valores heroicos y sacrales, pueden razonablemente pretender representar la totalidad de los valores del espíritu. Esta cualificación más precisa nos permite, sin embargo, rechazar toda posible vinculación entre bolchevismo y platonismo. En efecto, este último no es un Estado-totalidad sino una parte del todo, la más ínfima y plebeya, que pretende situarse como absoluto social y espiritual. La dictadura del proletariado constituye la inversión perfecta del ideal platónico. Más complejo resulta el discurso para el fascismo y el nacionalsocialismo que, si bien han ignorado la suprema exigencia de situar nuevamente en la cima del Estado valores trascendentes, también es cierto que han luchado por la creación de una elite heroica capaz de situar la política por encima de la economía e imponer una nueva jerarquía de los rangos. En cierto sentido representan un intento de remontar el ciclo de la decadencia de las formas políticas tal y como se halla delineado en la República.

Las relaciones entre platonismo y nacionalsocialismo merecen un consideración a parte. Es conocida la influencia ejercida por el platonismo sobre la cultura alemana de la primera mitad del siglo XX. El circulo que dirige el poeta-profeta Stefan George difunde una imagen heroica de Platón que no deja de influir en las corrientes políticas de extrema derecha. Así, izada la roja bandera de la esvástica sobre el mástil de la Cancillería, se eleva un coro de voces proclamando a Platón «precursor», «defensor del derecho de los mejores», «nórdico», «Gründer», «Hüter des Lebens» o incluso «Führer»[2]. Para la reconstrucción de la imagen de Platón en el III Reich resulta de interés el libro de Hans Günther, el máximo teórico nacionalsocialista de la idea «nórdica», dedicado a Platon als Hüter des Lebens. Platons Zucht und Erziehunggedanken und deren Bedeutung fur die Gegenwart («Platón como custodio de la vida. La concepción educativa y selectiva platónica y sus significado para nuestro tiempo»). En él se puede leer: «No debemos dejarnos seducir por aquellos que definen la eugenesia como una ciencia “animal”. Fue Platón quien proporcionó al término griego “idea” su actual significado filosófico y quien con su doctrina se ha impuesto como fundador del idealismo… y ha sido precisamente el propio Platón quien, en tanto que idealista, el primero en definir el ideal de la selección»[3].

Para Günther, Platón es el salvador de la sangre elegida, el asertor de la vida como totalidad de alma y cuerpo. Para Platón, como para todos los arios primitivos, «no existía nada espiritual que no concerniese también al cuerpo ni nada físico que no concerniese igualmente al alma. Esta constituye precisamente la manera característica de pensar del nórdico»[4]. En la concepción aria de la vida, interpretada por Platón, la nobleza de ánimo y la belleza comienzan a existir «cuando las tenemos ante los ojos, personificadas. Esta sana concepción genera el concepto helénico de la kalokagathía, de la bondad-belleza, y la kalokagathía no se considera como un modelo de perfección individual sino como algo mucho más vasto: una teoría de la cría de una humanidad superior. Sólo por medio de una selección, de la educación de una estirpe elegida, puede lograrse que la belleza y la bondad aparezcan un día personificadas ante nosotros»[5].

Resulta evidente que la interpretación nacionalsocialista de Platón es propagandística y unilateral. Pero, igualmente, algunas afirmaciones fundamentales son irrebatibles. Muy difícilmente se hubiese escandalizado Platón ante la quema de los libros «corruptores» o ante las leyes para la protección de la sangre. Evidentes influjos platónicos se encuentran además en la doctrina interna de las S.S., dedicadas a someter a una paciente selección física y espiritual a los futuros jefes, educados en los Ordensburgen, los «Castillos de la Orden» surgidos por doquier en Alemania. La Ordnungstaatgedanke, la concepción del Estado como Orden viril que se identifica con la voluntad política, se nos muestra como una revivificación de las ideas de la República.

Concluyendo, se puede afirmar que se encuentra una herencia platónica incontestable en los movimientos fascistas europeos. La identificación del Estado con una minoría heroica que lo rige, el ardiente sentimiento comunitario, la educación espartana de la juventud, la difusión de ideas-fuerza por medio del mito, la movilización permanente de todas las virtudes cívicas y guerreras, la concepción de la vida pública como un espectáculo noble y bello en el que todos participan: todo esto es fascista, nacionalsocialista y platónico a la vez. La evidencia habla por sí sola.

Hoy, consumida en una sola e inmensa pira la esperanza de volver a dar una elite a la Europa invertebrada, la enseñanza política de Platón parece lejana y casi perdida para siempre. Los valores económicos, que él colocó no en la cúspide sino en la base de la sociedad, se exaltan como soberanos. Burguesía y proletariado, Occidente y Oriente, capitalismo y comunismo proclaman al unísono la llegada de un Estado cuya única meta es el bienestar de los más. Aquello que Platón habría denominado como la parte apetitiva del Estado ha aplastado a la parte heroica y cognoscitiva. La civilización de las masas pesa como la opaca mole de las inmensas ciudades de cemento. Pero este mundo de las masas lleva en su seno los gérmenes de su propia descomposición. Por un lado, se asiste a una creciente especialización de las funciones, por otro, al nacimiento de una estructura cada vez más parecida a un mecanismo perfecto[6]. Entretanto, las masas, insertas en este gran mecanismo, vegetan en la comodidad en un estado de creciente abulia política. Surge así la posibilidad del dominio de una elite especializada sobre una masa satisfecha e indiferente. Escribe Nietzsche en la Voluntad de Poder: «Un día los obreros vivirán como hoy los burgueses pero sobre ello vivirá la casta superior; ésta será más pobre y más simple pero poseerá el poder». Es una afirmación profética que proyecta en el futuro la visión de una elite platónica interiormente forjada por un moderno doricismo, habitando con sobria pobreza en el centro inmóvil donde accionan las ruedas del brillante mecanismo de la civilización occidental[7].

Llegados a este punto, cuando estamos a punto de concluir estas notas introductorias, concédasenos el finalizar a la manera platónica introduciendo un mito. Un mito que no hemos inventado nosotros sino que se encuentra en las páginas de una novela de Daniel Halévy, Histoire de quatre ans. 1997-2001. Estamos en 1997: Europa se pudre en el bienestar y el libertinaje. La corrupción crece por lo que «heridos los centros de energía aria», la marea de los pueblos de color amenaza a los europeos decadentes. Pero he aquí que, un poco por todos lados, grupos de individuos se aíslan, dándose una estructura ascético-militar, una disciplina severa. En sus cenobios se recompone la antigua ley de la vida, vuelve a florecer el espíritu de obediencia y sacrificio. Alcanzando el poder, el grupo de monjes-laicos pone fin al desorden y a la corrupción democrática dividiendo la sociedad en las tres castas de asociados, novicios y sometidos. El esfuerzo del nuevo orden salva Europa, y la Federación Europea, fundada el 16 de abril de 2001, se prepara para marchar contra los bárbaros de Oriente. Hasta aquí el mito, un mito didascálico que no habría desagradado a Platón. Pero, en el mito y más allá del mito, el ideal político de Platón se mantiene como un elemento permanente de toda verdadera batalla por el orden. El perno de su sistema político está constituido por la exigencia de hacer coincidir la jerarquía espiritual con la jerarquía política, de asegurar al espíritu la dirección del Estado.

No sin motivo Kurt Hildebrandt ha podido titular su libro Platón, la lucha del espíritu por la potencia. Esta exigencia, formulada con tanta claridad por el más grande pensador de la Hélade y de Occidente, permanece en todo tiempo, al igual que las historias de Tucídides ktéma es aéi, una conquista para la eternidad. Nadie como Platón ha sufrido por la ineptitud de la inteligencia, incapaz de dar un orden a la vida. Ha contemplado hasta en los abismos más insondables la tragedia de la escisión entre espíritu y vida, entre espíritu y poder político. Y nos ha mostrado la vía real que conduce más allá de esta trágica escisión: no la vana tentativa idealista de adecuar la política a esquemas abstractos, sino un esfuerzo heroico y disciplinado para infundir sangre y energía a la pura inteligencia, para confiar los valores del espíritu a una especie de hombre fuerte, templada, victoriosa. En la oscuridad contemporánea la doctrina de platón arde como un fuego lejano que orienta nuestro camino. Hacia ella deberá saber mirar una nueva clase política resuelta a fundar el verdadero Estado, a dar a cada uno lo suyo, a imponer contra la tiranía de la masa y del dinero la nueva jerarquía.

Notas

[1] Thomas A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari, 1961, p. 223.
[2] Sobre la imagen de Platón en la Alemania de este periodo véanse: J. Bannes, Hitlers Kampf und Platons Staat, Berlín y Leipzig 1933 y Die Philosophie des heroischen Vorbildes; C. Bering, Der Staat der Königlichen Weisen, 1932; K. Gabler, Platon der Führer, 1932; H. Kutter, Platon und die europäische Entscheidung; F. J. Brecht, Platon und der George-Kreis, Leipzig 1929.
[3] Platon als Hüter des Lebens, Munich 1928, p. 66.
[4] Op. cit., p. 39.
[5] Op. cit., p. 46.
[6] Véase
J. Evola, Cavalcare la tigre, Milán 1961: «En el lugar de las unidades tradicionales – de los cuerpos particulares, de los órdenes de las castas y de las clases funcionales, de las corporaciones – conjunto de miembros a los que el individuo se sentía ligado en función de un principio supraindividual que informaba su entera vida, proporcionándole un significado y una orientación específicos, hoy se poseen asociaciones determinadas únicamente por el interés material de los individuos, que sólo se unen sobre una base: sindicatos, organizaciones de categoría, partidos. El estado informe de los pueblos, en la actualidad convertidos en meras masas, hace que todo posible orden posea un carácter necesariamente centralista y coercitivo».
[7] Una perspectiva similar se delinea en
Der Arbeiter de Ernst Jünger: «Al igual que produce placer ver a las tribus libres del desierto que, vestidas de harapos, poseen como única riqueza sus caballos y sus valiosas armas, también resultaría placentero ver el grandioso y valioso instrumental de la “civilización” servido y dirigido por un personal que vive en una pobreza monacal y militar. Es éste un espectáculo que produce alegría viril y que hace su aparición allí donde al hombre se le imponen exigencias superiores para alcanzar grandes fines. Fenómenos cono la Orden de los Caballeros Teutónicos, el ejército prusiano, y la Compañía de Jesús constituyen ejemplos a tal efecto…». Citado en J. Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Roma 1960, pp. 75.


Adriano Romualdi

vendredi, 20 février 2009

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/



Ci sono termini ed espressioni che hanno uno strano destino, soprattutto se si tratta di traduzioni. Una di queste è l’espressione latina “mos maiorum”. Purtroppo in ambito accademico i traduttori di opere greche e latine ci offrono spesso versioni letterali, orribili e – va detto! – “sbagliate”. Sbagliate non già sotto un aspetto prettamente semantico (la traduzione è, in fin dei conti, accettabile), ma perché non tengono conto di una più libera ma esatta equivalenza tra termini di lingue diverse e, soprattutto, eludono – per stanca e incolore prassi scientifico-accademica – il fattore estetico. Per rendere mos maiorum troverete, infatti, “usanze dei padri”, “costume degli antenati” e altre formulacce del genere. Al contrario, per tradurre esattamente il termine, esiste una e una precisa parola: Tradizione (in greco èthos). Che altro sono “i costumi dei padri” se non princìpi e valori verso i quali i membri di una comunità devono osservare venerazione ed emulazione? “Tradizione”. Punto.

Il mos maiorum è inoltre assolutamente necessario per comprendere veramente la Romanità: esso, infatti, era alla base e si manifestava in ogni aspetto (diritto, famiglia, politica, cultura, religione…) della vita comunitaria e privata dei cittadini romani.

Il diritto romano, anzitutto, fu da principio regolato unicamente dalla tradizione non scritta che gli avi trasmisero ai posteri: prima della codificazione delle leggi delle XII tavole non esisteva, infatti, legge (lex da lego, cioè che deve esser letta in quanto scritta). «La concezione romana rifiuta in linea di massima la codificazione e mostra una forte riluttanza nella emanazione di singole leggi. Il popolo del diritto non è il popolo della legge»: questa la celebre formula coniata da F. Schulz nei Prinzipien des römischen Rechts (Princìpi del Diritto romano). Da qui nasce, in ambito giuridico, la dicotomia/antitesi tra mos e lex, tra costume che viene dalla veneranda tradizione e la legge. Così Cicerone, nelle Catilinarie, invoca il mos maiorum contro la legge scritta per poter mettere a morte Catilina: secondo la Tradizione era possibile condannare a morte i nemici della Patria, non per le leges Valeriae-Semproniae che proibivano la pena capitale per un cittadino romano. Questo esempio mette in evidenza l’enorme potere che la Tradizione esercitava nel diritto romano, molto spesso superiore alla stessa legge.

La Tradizione era altresì fondamentale nella vita politica e, in particolar modo, per il Senato. I membri di quest’ultimo, infatti, erano i discendenti degli eroi che fecero grande Roma e, giacché secondo i Romani la virtus maiorum si trasmetteva di padre in figlio, la auctoritas e la legittimazione del potere dei senatori venivano direttamente dalla gloria dei loro antenati. Tale principio si manifestava al massimo grado nei funerali pubblici delle famiglie patrizie, in cui tutte le imagines degli antenati della gens (maschere di cera che riproducevano le fattezze degli avi) sfilavano in lunghi cortei che si concludevano con l’orazione celebrativa, nella quale si lodavano, oltre alle virtù del defunto, le gloriose gesta dei suoi progenitori. Era quindi obbligatorio per gli eredi delle grandi famiglie di Roma conoscere le imprese dei propri antenati, e l’educazione dei giovani nobili verteva eminentemente sulla trasmissione dei mores maiorum. È emblematica al riguardo l’immagine, lasciataci dalla letteratura antica, di Scipione Emiliano che ritrova vigore e propensione a grandiose gesta osservando le immagini dei suoi avi.

Ma tale culto della Tradizione non esisteva esclusivamente nelle autorevoli famiglie patrizie, ma era altresì venerata la gloria populi Romani, ossia la Tradizione comune a tutto il popolo di Roma.
Ogni cittadino romano ha dunque il dovere di mantenere e, possibilmente, di accrescere la gloria dei padri, praticando la via della virtus.

Parimenti in ambito militare e religioso il mos maiorum è un elemento inscindibile dall’essenza stessa della Romanità. Le virtù dei maiores, come ce le tramandano gli scrittori greci e romani, sono le seguenti:

- Fortitudo: capacità, coraggio;
- Fides: fedeltà (verso gli altri);
- Pietas: fedeltà (verso gli dèi, la Patria, la famiglia);
- Iustitia: senso della giustizia;
- Audacia: coraggio;
- Constantia: costanza;
- Magnitudo animi: nobiltà d’animo;
- Aequitas: equità;
- Probitas: probità;
- Auctoritas: autorità;
- Honestas: onestà;
- Temperantia: misura;
- Clementia: moderazione.

La tradizione romana si fondava, in ultima analisi, sugli exempla maiorum, ossia le eroiche gesta compiute dagli avi, le quali spingevano i giovani a rendere sempre più grande Roma: e questo proprio perché gli esempi di virtù degli antenati erano tali in quanto volti all’accrescimento della gloria dell’Urbe. Si capirà meglio, quindi, il motivo per il quale l’educazione dei fanciulli romani si basasse sugli exempla maiorum: non precetti ma esempi, giacché il precetto istruisce, ma è l’esempio che trascina e muove gli animi.

In conclusione, vediamo che sia gli antichi che i moderni ravvisarono nel culto della Tradizione (il mos maiorum) il segreto della grandezza di Roma; e tanto più i romani se ne discostavano, tanto più era lecito parlare di decadenza e degenerazione dei costumi.
Non a caso lo storico greco Polibio canta la gloria di Roma spiegando ai propri compatrioti che Roma ha conquistato il mondo grazie alle sue istituzioni e alla forza che le viene dall’osservanza della sua nobile Tradizione.

Ora, dunque, potremo comprendere più a fondo il celeberrimo verso del poeta Ennio che, scolpendo il suo esametro come solido marmo, cantò: Moribus antiquis res stat romana virisque, «Roma si fonda sulla Tradizione e sui suoi eroi»!

mercredi, 28 janvier 2009

Hypathie, vierge martyre des païens

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - COMBAT PAÏEN - DÉCEMBRE 1990

B. Favrit-Verrieux:

Hypathie, vierge martyre des Païens

"Dors, ô blanche victime en notre âme profonde,

Dans ton linceul de vierge et ceinte de lotos;

Dors! l'impure laideur est la reine du monde

Et nous avons perdu le chemin de Paros (…)

Demain, dans mille années,

Dans vingt siècles, —qu'importe au cours des destinées—

L'homme étouffé par vous se dressera (…)

Votre œuvre ira dormir dans l'ombre irrévocable".

Leconte de Lisle (Hypathie et Cyrille)

Alexandrie, 415. Cinq ans après le sac de Rome, alors que l'Empire s'écroule, l'Egypte vit à l'heure des derniers feux du paganisme antique. L'Occident est acquis à la cause du "Galiléen", l'Orient résiste encore, mais il n'est qu'en sursis. La ville égyptienne abrite une population multiconfessionnelle; la cohabitation s'avère de plus en plus difficile. Face aux Juifs et aux païens "Hellènes": les partisans de Jésus, manœuvrés par l'évêque Cyrille, et qui comptent bien se rendre maîtres de la place.

Dans cette atmosphère tendue se dresse Hypatie, la vierge des païens et, si l'on en croit les relations de Socrate (1) et Damaskios, l'ultime rempart du paganisme. Son père, prêtre des dieux et scientifique de renom, lui a enseigné la mathématique, l'astrologie et la philosophie. Elle a grandi dans le culte des dieux; elle sait que tout flanche et agonise autour d'elle; pourtant, elle se refuse à suivre la théorie des conversions. Un combat sans espoir, perdu d'avance… En cela réside toute sa signification.

Hypathie enseigne la philosophie, elle a le verbe haut mais la grâce l'habite; tous les témoignages convergent lorsqu'il s'agit d'évoquer sa grande beauté. On a coutume de la représenter au milieu d'un cénacle, le cercle de ses fidèles qui, avec elle, refusent de voir les dieux s'exiler pour céder la place aux religions de l'intolérance.

Les Juifs et les chrétiens s'affrontent à coups d'émeutes et de pogroms sous les regards inquiets d'Hypatie et des siens; à quand leur tour?… Il y aussi la lutte d'influence que se livrent Oreste, préfet de la ville, et l'évêque Cyrille. Pour une cause mal définie, le préfet d'Alexandrie aurait fait torturer à mort un chrétien, un provocateur dont les Juifs ont exigé la tête. L'affaire dégénère bientôt et c'est le massacre entre les deux communautés. Cyrille, qui a l'avantage de la supériorité numérique, fait détruire les synagogues et expulser les Juifs. Puis, emporté par son élan, l'évêque harangue ses troupes qui jettent l'anathème sur le représentant de Rome. Oreste cherche alors à se concilier les faveurs d'Hypatie dont l'influence est toujours notoire pour tenter de réduire Cyrille et ses moines fauteurs de troubles. On rapporte aussi que frappé par la beauté de la jeune femme, le préfet d'Alexandrie, bien que baptisé, aurait longuement hésité à s'engager sur le voie du paganisme. Il n'en fit rien.

Lorsque la vierge païenne est prise à partie en pleine ville par la foule chrétienne fanatisée qui l'arrache de sa voiture et la traîne au Caesarium, il ne réagira pas. Sur les marches du temple impérial, Hypatie est "déshabillée, tuée à coups de tessons, mise en pièces… Ses restes sont ensuite promenés dans les rues et brûlés…" (3). Désormais, Cyrille et Oreste peuvent envisager la réconciliation…

Dans son avant-propos à un ouvrage de Gabriel Trarieux (4), George Clemenceau eut cette phrase: "Hypatie contre Jésus. La Grèce toujours contre sa mère l'Asie, la beauté contre la bonté, fût-il jamais plus passionnante tragédie?" Passionnantes ou pas, il est des tragédies dont les païens que nous sommes ne peuvent s'accommoder et veulent éviter. Contre l'éradication de la beauté et le règne du lit de Procustre, nous devons montrer notre détermination face à l'intolérance qui règne chez nous et le retour des tabous et des amalgames minables. Nos spécificités, notre religiosité européennes nous ont toujours enseigné de ne pas nous agenouiller, nous encaloter, nous voiler, nous asservir, de privilégier l'amour des libertés pour que s'élève l'être face à ses sensibilités identitaires. Hypatie, la chaste et belle païenne, n'a pas voulu se taire et se prosterner. Elle a montré la voie. Souvenons-nous du culte d'Athénée Poilias qu'elle tenta d'honorer jusqu'au bout et de sa croisade contre le Crucifié.

B. Favrit-Verrieux.

Notes:

(1) Histoire de l'Eglise.

(2) Vie d'Isidore.

(3) Chronique des derniers païens - Pierre Chuvin (Les belles Lettres: Fayard, Paris, 1990).

(4) Hypatie - Cahiers de la quinzaine (Paris, avril 1904).

samedi, 17 janvier 2009

L'héritage de Sparte

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - CRITICON (Munich) - ORIENTATIONS (Bruxelles) - Février 1990

L'héritage de Sparte:

Hommage à la Prusse de la Grèce antique

par Gerd-Klaus KALTENBRUNNER,

Si la Prusse-Brandebourg fut le "pôle nord" et l'Autriche le "pôle sud" de l'histoire allemande mo-derne, la politique et la civilisation hellé-niques furent marquées pendant des siècles par l'opposition entre Athènes et Sparte. L'Autriche et la Prusse ne furent pas seulement des constructions étatiques: elles ont également in-carné une manière d'être, un état d'esprit, un style, une éthique. Il en est de même pour Athènes et Sparte. Ce dualisme resta d'ailleurs bien vivace longtemps après que les deux cités-Etats grecques eurent perdu leur puissance et même leur indépendance. A l'instar de l'ancien Empire allemand, qui comprenait une multitude d'Etats dont certains étaient de taille mi-cro-sco-pique, la Grèce antique ne formait pas une unité politique; c'était une mosaïque de villes et de confédé-rations, toutes jalouses de leur indépen-dance. Cer-taines de ces poleis  jouèrent, en leur temps, un rôle éminent, politiquement ou cultu-rellement. Citons par exemple les villes grecques d'Asie mineure, Ephèse, Milet et Smyrne, les colonies grecques de la Mer Noire, de Sicile ou d'Italie du Sud. Sur le continent hellénique, ce furent Corinthe et Thèbes, Argos et Némée, Eleusis et Delphes, sans oublier les nombreuses villes-Etats de la Mer Egée: la Crète, Chypre, Rhodes, Samos, Lesbos, Delos, Chios, etc...

Chacun de ces noms renvoie à une facette de l'"hel-lénité", incarne un aspect unique, irré-ductible, de la culture grecque. Pourtant, seules Athènes et Sparte ont acquis une dimension historique mondiale. C'est qu'elles furent, avant tout, des "idées" au sens plato-nicien, c'est-à-dire susceptibles, selon les circons-tances, de se réactualiser, de se réincarner sans cesse. Elles ne furent pas des concepts abstraits mais des modèles vivants d'existence historique pouvant à tout moment orienter l'histoire réelle. La Guerre du Pélo-ponnèse, cette "guerre mondiale grec-que" selon la formule magistrale de Thucydide, constitue l'épiphanie de cette opposition, où se résorbe l'insurmontable dualité Sparte-Athènes. Pour Platon mais aussi pour Rousseau et, plus récemment, pour Maurice Barrès, Sparte était l'archétype de l'"Etat vrai". Or, cet arché-type sert depuis longtemps de repoussoir à une politologie qui s'est dégradée en "science de la démocra-tie" au service de l'"esprit du temps".

Sparte ou Spartacus?

On peut, bien entendu, être spartakiste, puisque ce terme ne renvoie pas à un groupe d'extrême-droite mais à un mouvement communiste (le communisme passant déjà pour une forme de démocratie). Etre spartakiste, cela n'a plus rien de dégradant. Le sparta-kisme, c'est de gauche, donc c'est bien. Le mot n'évoque-t-il pas l'es-clave Spartacus, originaire, non de Sparte, mais de Thrace, qui avait organisé la révolte contre ses maîtres romains? Sparte, en revanche, voilà le diable. La "spartitude", c'est synonyme de ru-desse, de dureté, de vexations inutiles... Mais que valent les beaux discours sur la "démo-cratie" quand survient l'Ernstfall:  le cas d'ur-gen-ce, la situation périlleuse, exception-nelle? L'ins-tant où la question n'est plus de savoir si l'on va se permettre un peu plus ou un peu moins de confort "démocratique"? Où le défi existen-tiel se résume en deux mots: se battre ou dispa-raî-tre...

Combien pèsent, sur le plateau de la balance, les so-phismes libéraux-démocratiques le jour où les armées ennemies franchissent la frontière, saluées par des cin-quièmes colonnes qui déroulent joyeusement le drapeau de l'étranger et s'ali-gnent pour la collabora-tion? A ce moment-là, la seule alternative n'est-elle pas: Aut Spartiates aut Spartacus  (Etre Spartiate ou Spartakiste)?

Aujourd'hui, au nom de Sparte, qui se souvient du mythe d'Hélène, la plus belle femme du mon-de? Qui se souvient que Castor et Pollux, le cou-ple inséparable des deux frères héros qui recevra plus tard une patrie céleste en devenant la constellation zodiacale des Gé-meaux, étaient d'o-ri-gine spartiate et furent honorés à Sparte? On a oublié que Cythère, île fortunée dédiée à Aphro-dite, faisait partie du territoire de Sparte. Révolu est le temps où les écoliers découvraient, le coeur bat-tant, les légendes de l'Antiquité classi-que et s'enthousiasmaient de ce que Sparte, pour-tant située au centre de la plaine de l'Eurotas, ait renoncé, jusqu'à la période hellénistique, à se construire des remparts. Si les Spartiates n'ont pas voulu ériger des fortifica-tions artificielles et des forteresses, c'est parce qu'à Sparte, les hommes, c'était l'Etat. Ces hoplites, qui misaient sur la force de leurs poings et de leurs armes, savaient que chacun était une pierre d'un rempart vi-vant: l'esprit de défense de la Polis. Qui se rappelle en-fin ce que rapportaient Aris-tote, Plutarque et d'autres écrivains antiques: nulle part ailleurs, dans aucun autre Etat grec, la femme n'avait autant de droits civils et publics que dans cette cité dorienne qui exaltait comme nulle autre la fraternité virile?

La Gérousie

On oublie souvent, semble-t-il, que Sparte fut le pre-mier Etat au monde à posséder une sorte de tribunal constitutionnel. Il s'agit des cinq épho-res ou "gardiens des lois" qui pouvaient même traduire les rois (il y en avait toujours deux à la tête de la polis) devant leur ju-ridiction. Il faut rappeler que Sparte, justement parce que sa constitution était "spartiate", a toujours su étouf-fer dans l'oeuf l'émergence de tyrans populaires, ce qui ne fut pas le cas des autres cités-Etats grecques. Soucieux de donner une expression politique à la sa-gacité, à l'expérience et à la sa-gesse des Anciens, les Spartiates créèrent la Gé-rousie: aucune affaire impor-tante de l'Etat ne pouvait être tranchée sans l'assentiment préala-ble de ce Conseil des Anciens qui, avec les deux rois représentant le couple de Gémeaux mythologi-ques, Castor et Pollux, comprenait trente mem-bres au total. Pour siéger à la Gérousie, il fallait avoir au moins soixante ans. L'appartenance à ce corps, incarnation politique du principe de sénio-rité, était définitive: seule la mort pouvait y met-tre fin. Il ne fait guère de doute que la stabilité politique de Sparte, pendant des siècles, était due en partie à cette institu-tion, capable de dé-jouer à temps tous les projets préci-pités, les ini-tiatives inconsidérées ou les idées non mû-ries.

Mais ni la belle Hélène ni les dioscures siégeant au firmament étoilé ni la sagesse du Conseil des Anciens n'ont aujourd'hui droit de cité lorsqu'il est question de Sparte. Même le poète Tyrtée, qui vivait au VIIième siècle avant notre ère et dont les éloges de Sparte sont nombreux, paraît oublié. Et pourtant, Tyrtée était Athénien de naissance. On dit qu'il boitait et avait été maître d'école. Ce n'est que plus tard qu'il devint pa-né-gyriste de Lacédémone et citoyen spartiate. Plus de deux mille ans après, le Souabe Hegel allait bien à Berlin où il devint... philosophe de l'Etat prussien! C'est dans la guerre, disait Hegel, que se manifeste la cohésion de chacun avec l'ensemble. Et il ajoutait que la guerre était l'esprit et la forme où se focalisait l'essentiel de la sub-stance éthique d'un peuple ou d'une nation.

Quant à Tyrtée, j'hésite à le citer car, s'il vivait de nos jours, ses éloges de l'héroïsme spartiate lui vaudraient certainement d'être marqué du signe infamant d'"extrémiste de droite". Une de ses élégies, consa-crée aux héros de la deuxième guerre médique, paraî-trait presque obscène à des oreilles pacifistes, à l'instar du fameux vers d'Ho-race selon lequel "il est doux et honorable de mourir pour la patrie" (Carmina  III, 2, 13), ou encore de Hölderlin dont on s'obstine —sans suc-cès— à faire un Jacobin en puissance:

"Sois grande, ô ma patrie,

Et ne compte point les morts;

pour toi, ma bien-aimée

Aucun mort ne sera de trop!".

Le Romain Horace et l'Allemand Hölderlin sont en fait des fils posthumes de Tyrtée, Spartiate d'adoption, qui, dès le VIIième siècle avant no-tre ère, proclamait son mépris pour l'homme, fût-il par ailleurs de qualité ou de haut rang, qui ne fît pas ses preuves sur un champ de bataille. Voici les premiers vers d'une élégie à laquelle se réfère explicitement Platon dans son dia-logue Des Lois  (629, a-e):

"Je ne ferais nulle mention ni ne tiendrais compte d'un homme,

Quand il serait couronné à la course ou à la lutte,

Aurait la taille et la force d'un cyclope,

serait aussi rapide que le vent de Thrace,

Serait plus beau que Tithonos

Et plus riche que, jadis, Midas et Kinyras;

quand il serait de sang plus noble que Pélops, fils de Tantale,

et aurait la magie du verbe d'Adraste,

et serait grand en toutes choses,

s'il n'est pas grand dans la tourmente du combat!

Car il ne sera pas brave à la guerre

Celui qui ne supporte pas de regarder la tuerie sanglante

Et n'attaque pas l'adversaire

en l'affrontant de près.

C'est la vraie vertu, le plus beau et le meilleur des prix

Que le jeune sang puisse un jour conquérir (1)".

L'Etat guerrier

Les vers de Tyrtée, Spartiate d'adoption, nous rap-pel-lent sans équivoque possible que Sparte fut un Etat guerrier au sens le plus vrai du terme. Un Etat enca-serné, a-t-on pu dire, un Etat pratiquant l'élitisme eu-géniste et dont certains as-pects évoquent le commu-nisme de guerre. Le mo-dèle de la politeia  selon Pla-ton, aristocrate athénien mais spartanophile. Une synthèse appa-remment perverse entre prussianisme et so-cia-lisme. Et le cauchemar de tous les libéraux, de Wil-helm von Humboldt à Karl Popper et à Hen-ri Marrou.

Il ne faut pas s'illusionner: toutes ces descrip-tions, même exagérées dans les détails, même caricaturales (et caricaturées pour les besoins de la polémique) ont un fond de vérité. Athènes exceptée, aucun autre Etat antique ne nous est mieux connu que celui des Spar-tiates qui se nom-maient eux-mêmes Lacédémoniens (le Spartiate était l'homme libre, citoyen à part entière). Les anecdotes les plus effarantes reposent sur de so-lides témoignages. Il est hors de doute que Spar-te, même et surtout à une époque avancée de l'his-toire an-tique, était, comparée à Athènes, un Etat extrême-ment archaïque, rude et xénophobe. Et il est indéniable que jusqu'à la fin, cet Etat a veillé jalousement et or-gueilleusement à préser-ver cette différence-là. Inutile de broder sur l'orgueil ostentatoire, sur la morgue du Spartiate, fût-il citoyen ordinaire. Chaque Spartiate était moi-tié roi moitié brigand. Les textes authen-ti-ques de Tyrtée lui-même sont là pour infirmer toute tentative de banalisation. Tyrtée nous mon-tre sans conteste un Etat où le guerrier l'empor-tait sur le bel esprit et le marchand. Toute la cul-ture était axée sur la chose mi-litaire et l'idéal était le sous-officier d'active. Quand une mère avait perdu son fils à la bataille, elle refusait la-co-niquement (c'est le cas de le dire) toutes con-do--léances: "Je n'ignorais pas qu'il était mortel", et ce que proclame solennellement le choeur de la pièce de Schiller Die Braut von Messina:  "La vie n'est pas le bien suprême" (acte 4, scène 10), était, à Sparte, le b.a.-ba de la formation po-li-tique de n'importe quelle recrue. L'épigramme du lyrique Simonidès dédié aux Spartiates tom-bés aux Thermopyles exprime lapidai-rement ce que l'on attendait du soldat:

"Passant, va dire à Sparte

Que tu nous as trouvés, gisants

Conformément à ses lois".

Vouloir minimiser a posteriori la sévérité spar-tiate est une entreprise vouée à l'échec. La civi-lisation lacédé-monienne n'était guère littéraire mais très athlétique. A Sparte, la poésie fut un produit d'importation, comme en témoigne l'exem-ple des trois grands poètes, Tyrtée, Ter-pandros et Thaletas: le premier venait d'Athènes, le second d'Antissa (Ile de Lesbos), le troisième de Crète. Sparte les fit venir comme poètes offi-ciels, un peu comme la Prusse prendra à son service les Souabes Hegel et Schelling, le Baron de Stein, origi-naire de Nassau, le Hessois Sa-vigny et le Saxon Ranke. La cuisine était aus-tère, c'était le cauchemar des gosiers corinthiens, crétois ou sybarites. Les dis-tributions collectives de "soupe au sang" étaient considérées, hors de Sparte, comme un vomitif.

Un système d'éducation terrible

A sept ans révolus, les enfants appartenaient à l'Etat qui prenait en charge leur éducation. Les garçons, no-tamment, devaient gravir, échelon par échelon, les étapes de la hiérarchie dans les formations de la jeu-nesse d'Etat. La musique et la poésie étaient considé-rées comme des acces-soires de la pédagogie d'Etat. L'autonomie du sens et du goût esthétiques n'était guère prisée: la danse réduite à un exercice gymnique, la poé-sie au rôle d'auxiliaire de l'éducation politique et la musique à un instrument de drill et de dres-sage. Outre le chant choral, musique militaire et chansons de marche au son de la flûte (qui jouait dans l'Antiquité, on le sait, le rôle de nos tam-bours et trompettes): tel était le parnasse spar-tiate.

La vertu suprême était le patriotisme poussé jus-qu'au sacrifice et la subordination des intérêts in-dividuels au salut de l'Etat. Obéissance, endurcis-se-ment des corps et des âmes, frugalité et dis-cipline faisaient partie des règles de vie les plus na-turelles. La discipline, surtout, imprégnait et mo-delait toutes choses: celle des enfants et des adul-tes, discipline à l'école, discipline à table, discipline du corps et de l'esprit, de la concep-tion à la tombe: c'était l'art de gouverner à la spartiate. Est-il besoin de souligner que dans cet-te polis dorienne, la pédérastie, amours "inver-ses d'homme à homme", comme disait Hans Blü-her, était omniprésente? Force est de la considé-rer comme une devotio lacedaemonia,  spéci-fique d'un Etat organisé en Männerbund  (con-frérie virile). Dans ce domaine comme dans d'au-tres, n'enjolivons rien.

Le Taygète

Même observation à propos d'une loi que Plu-tarque fait remonter à Lycurgue, le législateur semi-légendaire de Lacédémone: à sa naissance, l'enfant est examiné par les Anciens du clan. S'il est jugé sain, bien fait et vigoureux, il est dé-claré digne d'être éduqué. Si en re-vanche, le Con-seil des Anciens le trouve malingre et mal constitué, l'enfant est "exposé" au fond d'un précipice rocailleux du Taygète. Car "ils pensaient que pour un être incapable, dès le début de sa vie, de se développer et de devenir sain et fort, il vaut mieux ne pas vivre du tout car il ne sera utile ni à lui-même ni à l'Etat" (Lycurgue, 16).

De l'eugénisme spartiate à l'avortement libéral

Cette loi est à mes yeux la seule dans la constitution de Sparte qui devrait trouver grâce auprès des tenants ac-tuels de l'ordre libéral-dé-mo-cratique, quoique pour des raisons opposées: les Lacédémoniens formés à l'école de Lycurgue avaient une pensée eugéniste alors que nos parasites obéissent à des motivations essentielle-ment individualistes et hédonistes: ce n'est pas pour "améliorer la race", c'est pour augmenter leurs chances d'"épanouissement personnel" qu'ils souscri-vent à l'adage selon lequel "être né ne confère aucun droit à la vie": de nos jours, le "citoyen adulte" ne se laisse nullement prescrire si l'enfant venu au monde doit vivre ou non. Le Conseil des Anciens, institution "réactionnaire", a été remplacé, en ce qui concerne le sort du nouveau-né ou du foetus, par l'auto-détermi-na-tion du "conseil parental" et, si ur-gence il y a, par le droit de la mère dans le sein de laquelle se développe, tel un abcès, le fruit de ses en-trailles. La possibilité, admise par la société, de prati-quer, comme à Sparte, l'"exposition" de l'enfant (à ce détail près que l'opération est chronologiquement avancée au stade du foetus) contraste favorablement avec les méthodes "barbares" de Sparte où la mort n'était même pas intra-utérine. L'avancement progres-sif du meurtre silencieux à une période comprise entre le premier et le si-xième mois de la grossesse, et son remplace-ment, au niveau du vocabulaire, par un doux eu-phémisme, l'"interruption de grossesse" (IVG), sont considérés comme des acquis d'une civili-sation qui paraît avoir définitivement surmonté Sparte. C'est ainsi qu'en Allemagne par exem-ple, on considère comme un "progrès" le meurtre d'enfants par le Ge-bärstreik  ou "grève des ventres" bien que cette grève-là fasse cha-que année mille fois plus de victimes en-fantines que n'en fit, en sept siècles d'histoire spartiate, l'exposition rituelle sur le Taygète...

 

La liberté de la femme

La sympathie du démocrate sincère est toujours allée à Athènes, jamais à Sparte. L'homme de par-ti, l'honnête homme respectueux de l'ordre libéral-démocratique, se voudrait Périclès, au moins en miniature. Personne, en revanche, ne souhaite passer pour un héritier ou un disciple de Lycurgue! Athènes est synonyme, on le sait, de Lumière, de Culture, de Démocratie et Périclès est la superstar de ces divinités éthérées. Par contre, la Sparte de Lycurgue passe pour avoir été pire que la Prusse frédéricienne, pres-que une préfiguration an-tique de l'Etat national-so-cialiste!

"Louons ce qui nous affaiblit et nous désarme! Mé-fions-nous de ceux qui nous parlent d'union, de force, de grandeur, de discipline, de cohésion! Ou nous ris-querions de glisser vers le fascisme —et Hitler de re-venir!". C'est à peu près le discours que tient, la main sur le coeur, l'Occident démocratiste et bien-pensant. L'objur-gation, tantôt articulée du bout des lèvres tantôt hurlée, se gonfle démesurément dans le bour-don-ne-ment des médias. Il existe donc bien ce que j'ap-pe-lerais une réaction émotionnelle antispar-tia-te. Elle nour-rit la lutte contre tout ce qui, de près ou de loin, pourrait évoquer l'ascèse, l'hé-roïsme ou la disci-pline. Se recommander de Spar-te, admirer Sparte comme paradigme d'éta-tici-té sévère, certes, mais puis-sante et capable, voilà qui, aujourd'hui, choque. Comme pou-vait choquer, voici cinq siècles, le fait de nier la tri-nité divine ou l'incarnation du Christ.

Et pourtant, sur les traces de Plutarque et de Platon, j'ai rassemblé ici quelques bons points en faveur de Sparte. Il faut tout d'abord signaler que dans cette Sparte au "conservatisme" rigide, les femmes pou-vaient faire tout ce qui leur était strictement interdit à Athènes-la-libérale. A La-cé-dé-mone, les femmes étaient beaucoup plus libres que les hommes. Non seulement en amour mais en affaires. Elles jouissaient de droits in-connus partout ailleurs. Au IIIième siècle, par exem-ple, les femmes spartiates possédaient plus de richesses (y compris des biens fonciers éten-dus) que leurs maris, leurs frères ou leurs amants (Plutarque, Agis,  5, 23, 29). Aristote, déjà, reprochait à Ly-curgue de n'avoir pas extir-pé le "dérèglement et le matriarcat" des femmes spartiates (Politique,  2, 1270a, 6). A l'étranger habitué à un strict et exclusif patriarcat, la ville de Sparte offrait presque le spectacle d'un Etat "exotique", dominé par les femmes (Plu-tarque, Numa,  25,3): "Les femmes spartiates ont sans doute été assez irrévérencieuses et se sont sans doute comportées de façon extrêmement virile, surtout à l'égard de leurs maris puisqu'à la maison, elles déte-naient un pouvoir sans partage et qu'à l'extérieur elles intervenaient en toute liberté dans les affaires d'Etat les plus impor-tantes". Et pourtant, elles n'avaient rien de spa-dassins hirsutes et grivois: leur charme un peu abrupt était proverbial dans toute l'Hellade. Leur li-berté semblait excessive même aux Athéniens les plus "progressistes" et les plus "éclairés".

La rigueur d'un Etat guerrier résolument viril était adoucie par la grâce souriante, la malice, l'élégance spontanée de ses jeunes femmes qui, contrairement à leurs soeurs d'Athènes, avaient accès aux exercices sportifs et gymniques. Com-me les hommes, les fem-mes lacédémo-nien-nes étaient célèbres pour leur sens de la répartie et leur laconisme (le mot, d'ailleurs, nous est resté: Sparte est située au centre de la Laco-nie). Plu-sieurs anecdotes témoignent de cette vivacité de l'esprit, de cette concision propres aux Spartia-tes. Comme une étrangère disait à Gorgo, épou-se de Léo-nidas, roi de Sparte: "Vous autres La-cédémoniennes êtes bien les seules à pouvoir dominer vos maris", Gorgo répliqua avec su-perbe: "Après tout, c'est nous, et nous seules, qui les mettons au monde!" (Plutarque, Lycur-gue,  14, conclusion).

Sans Sparte, pas d'Athènes

Mais concluons. Nous venons d'inscrire le nom de Léonidas. Nous avions, au début de ce texte, cité Si-mo-nidès célébrant les Lacédémoniens morts aux Ther-mopyles face à la supériorité numérique des Perses: "Voyageur, va dire à Spar-te...". Disons-le la-conique-ment: si l'on con-si-dère la civilisation grecque comme le fon-dement permanent de la culture euro-péenne, on ne peut ignorer Sparte. Toute la culture de la Grèce classique, que l'on identifie volontiers à Athènes, n'aurait jamais pu s'épanouir si un peuple de guerriers, comparativement prosaïque, discipliné, en odeur de quasi barbarie, n'avait pas combattu jusqu'à la mort, pour sauver l'Hel-lade, aux Thermopyles, à Sa-la-mine et à Platée. Les victoires militaires, qui ne fu-rent possibles que grâce à la présence spartiate, ont alors conquis, préservé et élargi cet espace où purent s'épanouir librement le théâtre grec, la philo-so-phie grecque, la science grecque et même la démocratie grec-que. C'est ce qu'il faut se garder d'oublier.

Regardons Sparte, presque étrangère dans sa rudesse. Cette société a pu pervertir jusqu'à la caricature des traits qui ont existé, à un degré moindre, dans toute polis grecque. Mais surtout, Sparte, qui incarnait au plus haut point toutes les potentialités de la polis, nous rappelle brutale-ment combien toute l'Antiquité clas-si-que nous apparaîtrait étrangère si nous cessions d'y pro-jeter notre propre humanisme. Sparte nous fait éga-lement saisir le sens du mot "politeia" à l'état chi-miquement pur: l'Etat, "le plus froid de tous les mons-tres froids", comme l'affirme le Zarathoustra de Nietzsche. On peut ne pas aimer Sparte. Mais qui-con-que se sent une attirance pour l'héritage grec doit se souvenir que toutes ces merveilles, toute cette splen-deur, tout ce qui, en nous, "parle" et nous en-thou-siasme (au sens étymologique du terme), que tout cela n'a pu s'épanouir et se déployer que dans un monde soustrait à la menace du despotisme oriental par le sacrifice suprême de quelques dizaines de milliers d'hommes.

Mais Sparte nous remet aussi en mémoire les fonde-ments de la culture européenne sur les-quels on fait si volontiers l'impasse aujourd'hui: l'espace où cette cul-tu-re a pu éclore n'était certes pas défendu par des déserteurs ou des objecteurs de conscience! Il était dé-fendu par des soldats résolus face à la supériorité nu-mérique écrasante de l'adversaire. Les meilleurs guer-riers, la plus belle discipline militaire, étaient à Lacé-démone. Après la victoire sur les Perses, aucun équi-libre harmonieux ne put s'établir entre les deux types de société grecque qu'incarnaient respective-ment Spar--te et Athènes. Peut-être fut-ce là la grande tragédie de la Grèce antique. Culturellement, Sparte fut une im-passe. Mais Athènes elle-même, la "voie" athénienne, nous le pres-sentons aujourd'hui, pouvait-elle se poursuivre en ligne droite jusqu'à nous?

Peut-être, après tout, la culture n'est-elle qu'un inter-mède, un gaspillage stérile d'énergie sur l'arrière-plan des espaces cosmiques infinis. Un certain défaitisme gagne autour de nous. Il déclare publiquement que l'orientalisation de l'Eu-rope, si elle s'était accomplie beaucoup plus tôt, nous aurait épargné bien des maux. Pour ce genre de discours, les victoires grecques sur les Perses ne signifient donc rien. Mais c'est déjà une autre histoire. Il reste que Sparte nous rap-pelera tou-jours, de façon lancinante, une vérité éternelle, large-ment occultée de nos jours: sans un certain degré de "spartitude", non seulement aucun Etat n'est possible, mais aucune civilisation ne peut vivre et… survivre.

Il faut redécouvrir notre héritage lacédémonien.

Gerd-Klaus KALTENBRUNNER.

(texte paru dans Criticón, n°100, März-Juni 1987; traduction française: Jean-Louis Pesteil; adresse de Criticón: Knöbelstraße 36/V, D-8000 München 22; prix de l'abonnement annuel (six numéros): DM 57; étudiants: DM 38).

Note

(1) Dans le dialogue de Platon, Clinias ajoute: "C'est un fait que (ces poèmes) sont venus jusque chez nous, im-portés de Lacédé-mone" (ndt).  

vendredi, 28 novembre 2008

Le national-socialisme et l'antiquité

Le national-socialisme et l'antiquité

Le national-socialisme et l'Antiquité , par Johann Chapoutot (Presses Universitaires de France, 2008)

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"Le rapport du national-socialisme à l'Antiquité n'a guère suscité l'intérêt des historiens. Si on conçoit volontiers que les nazis aient pu mobiliser une authentique et indubitable germanité, on répugne à associer nationalsocialisme et Antiquité gréco-romai|ne. On rencontre partout cette association : dans les nus néo-grecs de Breker et de Thorak, dans l'architecture néo-dorique de Troost, dans les édifices néo-romains de Speer et dans les manuels scolaires qui présentent une vision surprenante de l'Antiquité méditerranéenne. L'auteur s'étonne d'une part de ce peu d'intérêt de la part des historiens, d'autre part s'interroge sur cette référence constante du régime nazi à l'Antiquité gréco-romaine. Quel besoin vient dicter le recours à l'Antiquité gréco-romaine alors qu'un racisme aussi obsessionnel que le nazisme semblerait exclure a priori toute référence autre qu'à une germanité strictement définie et circonscrite ? Or le but répété d'Hitler était de reconstruire la fierté d'une nation humiliée par le diktat de Versailles. Cette thérapie nationale ne passait pas seulement par une politique de réarmement et de mégalomanie territoriale, elle se devait de reconstruire une histoire prestigieuse en annexant le passé antique pour rehausser une fierté nationale humiliée en 1918 et 1919. On assiste alors à une réécriture de l'Histoire et de la race (construction d'un homme nouveau, le sujet nazi) qui annexe les Grecs et les Romains à la race nordique. Cet ouvrage fait ainsi pénétrer au coeur du projet totalitaire nazi : il s'agit de dominer non seulement le présent et l'avenir mais aussi un passé réécrit et instrumentalisé."

lundi, 24 novembre 2008

Découvertes de monnaies celtiques et germaniques

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Découverte de monnaies d’or et d’argent celtiques et germaniques au Limbourg néerlandais


Paul Curfs est l’un de ces hommes qui a pour passe-temps de se promener avec un détecteur de métaux. En mars de cette année, près de son domicile dans la région de Maastricht, son appareil a émis le signal habituel en passant au-dessus d’une masse métallique. Il a découvert ainsi un première piécette d’or, ornée d’un cheval stylisé. Deux jours plus tard, il découvre, à proximité immédiate de sa première trouvaille, quelques pièces supplémentaires, presque identiques à la première, qu’il a tout de suite apportées au service archéologique de la région, dirigé par le conservateur Wim Dijkman. Celui-ci a pris immédiatement conscience de la grande importance historique de ces monnaies. Après l’ensemencement au printemps du champ de maïs et la récolte estivale, il a fallu attendre les courtes vacances de la Toussaint pour y délimiter une superficie à prospecter de 15 m sur 30 m, puis découvrir encore quelques pièces et, enfin, à 65 cm dans le sol, le reste, concentré, du trésor. Celui-ci est le plus important de cette sorte à avoir été exhumé jusqu’ici hors du sol néerlandais. Dans la même région, il y a huit ans, on avait trouvé à Heers (Limbourg flamand) 102 monnaies provenant des Eburons et de quelques autres peuples celtiques.


Quelles conclusions tirent les archéologues néerlandais de cette découverte?


  • Les monnaies ont été vraisemblablement enterrées dans une besace de tissu ou de cuir; les labours profonds en ont exhumé quelques-unes et les ont dispersé autour de la cachette initiale;


  • Ces monnaies datent du premier siècle avant l’ère chrétienne, à l’époque où les tribus celtiques de nos régions résistaient aux troupes de César, lors du soulèvement des Eburons et des Atuatuques (Aduatiques);


  • Les 39 pièces d’or découvertes relèvent de la tribu des Eburons, menés à l’époque par leur fameux chef Ambiorix, dont la statue se dresse à Tongres;


  • Les 70 monnaies d’argent proviennent des tribus germaniques voisines, qui habitaient entre Meuse et Rhin;


  • Cette découverte prouve que les Eburons et les Germains de Rhénanie avaient partie liée dans la résistance aux légions romaines et entretenaient des contacts très étroits entre eux; selon le prof. Nico Roymans: “Ce trésor de monnaies a peut-être servi à acheter une alliance contre les Romains”;


  • Le Prof. Roymans constate que dans les environs immédiats du site, où Curfs a découvert les monnaies, il n’y a aucune trace d’habitation; on a donc enfoui cet or et cet argent dans une zone inhabitée, probablement pour empêcher qu’on les dérobe ou qu’un ennemi s’en empare;


  • Le Conservateur Dijkman remarque que les deux types de monnaie présentent, sur une face, un même motif, soit un triskèle celtique; les monnaies celtique d’or présentent, sur leur autre face, un motif hippique, imité des anciennes monnaies grecques; les pièces germaniques d’argent présentent, sur le côté pile, une pyramide de cercles ou d’anneaux, dont on ne connaît pas encore la signification.


Un trésor qui devrait permettre d’élucider davantage l’alliance entre Ambiorix et les Germains de Rhénanie, qu’évoque la “Guerre des Gaules” de César.


Source: “Het Laatste Nieuws”, 14 novembre 2008, pp. 2 & 6.

(résumé: Robert Steuckers).