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mercredi, 07 mai 2014

A bâtons rompus avec Robert Steuckers

A bâtons rompus avec Robert Steuckers

Uccle, mai 2014

Par les animateurs du Cercle "L'Heure Asie"

( http://lheurasie.hautetfort.com )

samedi, 29 mars 2014

Eurasisme, Alternative à l'hégémonie libérale

Eurasisme, Alternative à l'hégémonie libérale

 

vendredi, 07 mars 2014

Intervista ad ALESSANDRA COLLA

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Intervista ad ALESSANDRA COLLA

Ex: http://eritcamente.net
 
Alessandra Colla è nata a Milano nel 1958; sposata, ha un figlio.
 
Laureata (cum laude) all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, giornalista pubblicista, si occupa da sempre di scienze umane.
È stata fra gli animatori delle Edizioni Barbarossa (1980, poi Società Editrice Barbarossa dal 1989) e del mensile "Orion", che ha contribuito a fondare (1984). Da qualche anno collabora con le riviste "Eurasia" e "Terra insubre"; dal 2004 ha aperto diversi blog (quello attuale è alessandracolla.net).

Nella sua produzione trentennale (articoli, saggi, conferenze, traduzioni) si segnalano «Quella femmina... fatta a pezzi» (“Risguardo IV”, Ar, Brindisi 1985); L'uomo (eco)illogico (Società Editrice Barbarossa, Milano 1994); «Donne, streghe, ribelli: il caso o la necessità?», in: AA.VV., Rivolte e guerre contadine (Società Editrice Barbarossa, Milano 1994); traduzione e cura del saggio di Roger Stéphane Ritratto dell'avventuriero (Società Editrice Barbarossa, Milano 1994).
 
Intervista a cura di Steno Lamonica
 
1)      Una donna, colta ed affascinante, di destra. Uso tale termine solo per comodita’, lei non ama etichette. Raro una donna con noi, unici ribelli…
 
Se, come dice Umberto Eco, «la persona colta non è quella che sa quando è nato Napoleone, ma quella che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui le serve e in due minuti», allora probabilmente è vero, sono colta. Affascinante non so, lascio il giudizio a chi mi conosce.
La prego con tutto il cuore di risparmiarmi il “di destra”. La dicotomia destra/sinistra ha fatto più danni e più morti dell’ira di Achille… È verissimo che non amo le etichette: la definizione è sempre un limite, e uccide la complessità.
Oggi come oggi, poi, per un movimento la rarità mi sembra consistere non tanto nell’annoverare tra le proprie file delle donne, quanto piuttosto delle persone veramente libere.
 
 
 2)      L’impero USA, una catastrofe per l’umanita’. Chi lo vincera’? 
 
Per certi versi è intrigante attribuire agli Stati Uniti la qualifica di “impero”: è come se ci si trovasse ancora in un tempo grandioso e squassato da scontri titanici. In realtà quello americano, a mio avviso, è un brutale imperialismo aggravato da delirio paranoico. E poiché certe patologie si risolvono soltanto con la morte del paziente, suppongo che occorrerà aspettare la fine degli Usa così come li conosciamo noi adesso. Non mi sento di fare previsioni: credo sia impossibile, oltre che inutile. Poiché siamo in piena globalizzazione, e poiché tutto ciò che (almeno a livello macroscopico) accade in una parte del pianeta si ripercuote altrove, non mi sento di escludere che i molti imprevisti che si verificano giornalmente dovunque nel globo rappresentino di fatto altrettanti contraccolpi sul sistema Usa, che già mostra la corda — anche se qui da noi resiste l’immagine del sogno americano. Naturalmente, se davvero si riuscisse a costituire un fronte comune eurasiatico in grado di contrastare l’unipolarismo statunitense sia a livello economico che a livello culturale si aprirebbero nuovi scenari ancora parzialmente da descrivere: ma ho la sensazione che la fine della potenza americana potrebbe arrivare prima di quanto si pensi, e forse non nei modi che molti, poco caritatevolmente, si aspettano.
 
 
 3)      Nietzsche e la politica. L’ellenico “farmaco” per l’orribile presente?
 
Credo che Nietzsche abbia a che fare col Politico più che con la politica. Così sui due piedi, di ellenico mi viene in mente soltanto un termine: e precisamente l’apolitìa di cui diceva Evola. Aggiungo, parafrasando proprio Evola, che il senso del Politico (come la religione) è un’equazione personale.
 
 
 4)      Sono irrispettoso se le rubo del tempo chiedendole un parere su…Gianfranco Fini? Quali forze dietro di lui?
 
Non irrispettoso: sfortunato. Perché non ho niente da dire su Fini. Personalmente non credo che sia manovrato o agito da forze occulte: sono più propensa a credere che da tempo porti avanti un percorso personale volto al raggiungimento di un obiettivo ben preciso. Adesso come adesso, sembra che il suo progetto abbia subito una battuta d’arresto: lui stesso, se non ricordo male, ha dichiarato di aver perso una battaglia ma non la guerra.
 
5)      Le “ministre con i tacchi a spillo”. Aspetto della cachistocrazia o ginecocrazia?
 
Cachistocrazia con la “c” maiuscola, direi. E un pessimo servigio reso alle donne.
 
 
 6)      Alessandra Colla, Pierangelo Buttafuoco, Massimo Fini; silenzio televisivo su di voi. Vendetta rancorosa della plutocrazia?
 
Troppo onore… La ringrazio del lusinghiero accostamento. Ma devo dire che non mi pesa l’indifferenza mediatica: la televisione ovvero la visibilità di cui essa è mezzo è un’arma a doppio taglio. Diciamo che preferisco poche persone che leggono quello che scrivo, meditando le mie parole e dedicando un po’ del loro tempo soltanto al mio pensiero, a una folla di spettatori che fanno altro mentre parlo, sono distratte da quello che vedono ed equivocano su quello che dico. L’ideale sarebbe una via di mezzo fra lo stile pitagorico e la radio, insomma.
 
 
 7)      I giovani, bevono molto, si abbronzano alquanto, fumano tanto, consumano troppo, leggono poco. “Fiamma Futura” pone la cultura in primissimo piano. Ha dei suggerimenti?
 
Credo che spesso, quando si parla di cultura, ci si dimentichi della sua etimologia, che rimanda al coltivare. E coltivare è un’attività sicuramente capace di dare grandi soddisfazioni, ma altrettanto sicuramente faticosa e dall’esito incerto, a causa delle molte variabili in gioco. Allo stesso modo, fare cultura è un’impresa grandiosa, ma non necessariamente destinata al successo: in buona  sostanza si investe sul futuro, e le gratificazioni immediate sono rare e difficili da conseguire. Così, risulta infinitamente più semplice e comodo lasciare che il germoglio cresca per suo conto, assecondandone l’inclinazione anziché cercare di orientarlo correttamente. La tendenza, negli ultimi decenni, è stata esattamente questa, e mi sembra un segno dei tempi: nel senso che non è una peculiarità di questo Stato il quale, non essendo più sovrano, non ha più autentici valori da trasmettere; bensì è un atteggiamento riscontrabile praticamente dovunque vi siano delle realtà giovanili in aggregazione — si preferisce catturare, non importa come, il consenso immediato delle giovani generazioni piuttosto che impegnarsi sul lungo periodo in un’opera di sincera educazione: nel senso stretto di e-ducere, cioè condurre la persona fuori dalla condizione di primitiva ignoranza per aiutarla a conseguire l’integralità e la pienezza della dimensione umana nella sua accezione più alta.
Comprendo benissimo che invertire la tendenza è, se non impossibile, sicuramente arduo: tuttavia credo che sia un preciso dovere, per chi ancora riconosce certi valori, applicarsi a mantenerne la vitalità e a trasmetterne il messaggio alle generazioni che verranno. Evangelicamente, di tanti semi ne andrà qualcuno a buon fine…
 
 
 8)      Nel suo sito (www.alessandracolla.net ) tra le cose che ama cita gli animali e tra quelle che detesta lo “stato pontificio”. Ci spieghi.
 
A voler essere pignola, dico precisamente che mi piacciono i primi e non mi piace il secondo: ma il senso, ne convengo, è lo stesso. La spiegazione potrebbe andare molto per le lunghe, ma cercherò di compendiare.
Gli animali, o come preferisco dire i senzienti non umani, giocano un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità: tutte le civiltà precristiane tributavano agli animali un riconoscimento ontologico e metafisico che i monoteismi hanno, nella migliore delle ipotesi, ignorato; per converso, nessuna civiltà precristiana ha mai investito l’essere umano di quel diritto d’arbitrio sul pianeta che costituisce, invece, la cifra del monoteismo giudaico-cristiano. Ho cominciato ad occuparmi di questioni inerenti al cosiddetto animalismo (uso il termine per pura comodità, La prego di accettare la convenzione) quando ero una ragazzina — parliamo di trentacinque anni fa — prima in modo “viscerale”, e poi spostandomi su di un piano più strettamente filosofico: il che ha comportato il necessario ripensamento della posizione dell’uomo sul pianeta e in relazione agli altri viventi. Poiché ho studiato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ho avuto modo di approfondire il pensiero cattolico (quindi giudaico-cristiano) in relazione non solo a questo argomento, bensì anche alla costruzione dell’edificio ideologico che ha permesso alla Chiesa di Roma di colonizzare, devastandoli, terre e spiriti nel corso di duemila anni: e sono approdata alla convinzione che nel mio personalissimo orizzonte metafisico nulla di ciò che attiene al cattolicesimo può trovare posto. È una questione di etica, direi; ma soprattutto di Weltanschauungen assolutamente irriducibili.
 
 
 9)      Lei ha il merito di essere stata tra le prime persone in Italia ad interessarsi di Ipazia. Avremo il piacere di un suo libro su questa affascinante filosofa trucidata dall’intolleranza?
 
La figura di Ipazia non è soltanto affascinante, come dice bene Lei, ma incute rispetto: il momento storico in cui si svolge la sua vicenda, la sua storia e la sua terribile fine meritano più di una pellicola non particolarmente riuscita e di qualche narrazione troppo romanzata. Continuo a raccogliere materiale e a studiare: può darsi che prima o poi, se e quando riterrò di esserne all’altezza, mi provi a cimentarmi nell’impresa…
 
 
 10)  113 basi NATO in Italia,alcune in odore di atomica. Noi chiediamo la fine dell’occupazione militare straniera. La sua opinione?
 
Credo che si potrebbe ripescare un vecchio slogan: “via l’Italia dalla Nato, via la Nato dall’Italia”. Di fatto, la posizione di sudditanza della nostra nazione rende al momento impossibile non dico progettare un futuro, ma anche soltanto riappropriarsi di un presente assai critico. Naturalmente, sui motivi che hanno portato l’Italia a diventare una colonia statunitense ci sarebbe da dire parecchio: mi limito a ricordare che Mussolini, profeticamente, aveva definito l’Italia “una portaerei nel Mediterraneo”: gli americani hanno capito tanto bene la lezione da metterla in pratica con estrema concretezza. Sulla fattibilità di una liberazione dall’occupazione militare sono un po’ scettica: non vedo, per il momento, un popolo italiano in grado di lottare compatto per questo obiettivo; e, come diceva l’amico e maestro Carlo Terracciano, “guai a chi non sa portare le sue armi, perché dovrà portare quelle degli altri”.
 
 
 11)   Lei onora l’Ellade e la Magna Grecia. In un “Manifesto Politico Nazionale” potrebbe comparire questo asse culturale per rinsanguare le radici nazionali e paneuropee mentre assistiamo allo scempio dell’invasione clandestina planetaria?
 
In tutta sincerità, credo che l’immigrazione (clandestina o no) sia un effetto più che una causa. E temo di più l’omologazione culturale ai modelli d’oltreoceano che la perdita d’identità per colpa degli extracomunitari. Visto che in questa chiacchierata aleggiano spiriti antichi, vorrei ricordare che ogni Impero, a partire da quello romano, è per sua natura multiculturale. Ora, è chiaro che non ci troviamo per nulla al cospetto di un impero: ma la multiculturalità è un dato di fatto. L’importante, invece, è mantenere le singole specificità: e se le radici sono profonde, non c’è commistione o contiguità che possano cancellare una memoria salda e consapevole. Il problema vero, a mio avviso, è: abbiamo noi questa memoria? La possediamo al punto di poterla trasmettere, vivificata, a quelli che verranno? Solo dalla risposta a questa domanda, credo, dipenderà una scelta di destino.

 

mercredi, 05 mars 2014

Méridien Zéro : médias alternatifs et métapolitique engagée

Méridien Zéro : médias alternatifs et métapolitique engagée

 

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lundi, 17 février 2014

Entretien avec Lucien Cerise, auteur de « Gouverner par le chaos »

Entretien avec Lucien Cerise, auteur de

«Gouverner par le chaos»

samedi, 28 décembre 2013

Laurent Brayard: « La grande majorité des médias français sont contrôlés »

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Laurent Brayard: « La grande majorité des médias français sont contrôlés »

Auteur : Médias-Presse-Info
 

 

 

Laurent Brayard,Français habitant en Russie et rédacteur pendant un moment à la Voix la Russie, raconte sur son blog une histoire assez étonnante qui lui est arrivée avec un journaliste français. Intrigué, nous avons voulu en savoir plus et il a bien voulu répondre à nos questions tout en nous offrant un panorama de la presse russe par la même occasion.

1) Laurent Brayard, pourriez-vous d’abord brièvement vous présenter aux lecteurs ?

Bonjour à vous, je suis un journaliste indépendant mais aussi un historien et un écrivain. Je vis en Russie, à Moscou depuis quatre ans, j’ai 41 ans. J’ai longtemps vécu en Bourgogne, ma terre de cœur mais les hasards de la vie et une grande histoire d’amour m’ont conduit vers la Russie.

2)  Sur votre blog, vous racontez une histoire vraiment étonnante. Un journaliste français, que vous connaissiez depuis longtemps, vous a avoué récemment vous avoir retiré de ses contacts twitter parce que ce que vous écriviez n’était pas dans ligne des rédactions françaises et que son rédacteur en chef lui avait fait le reproche d’être en contact avec vous. Pourriez-vous nous en dire plus ?

Je suis en France depuis quelques semaines, à cause d’un grave accident qui a manqué de me coûter la vie. Ce séjour forcé m’a fait penser un moment que je pourrais vivre à nouveau en France avec ma compagne. J’ai donc cherché du travail et j’ai écumé tous les médias nationaux et les régionaux proches de ma région. Ayant travaillé pour La Voix de la Russie, média public russe, je savais déjà que je porterais à vie une sorte d’étiquette du genre « Kremlin » sur le front ! Mais j’ai vite compris que cela serait pire encore que ce que j’imaginais. Je n’ai pas qu’un ami qui travaille dans le journalisme. J’ai été surpris de l’absence de solidarité, par les silences ennuyés à la fois de mes amis et des rédactions. L’ami dont je parle, est un ami d’enfance, il travaille pour un très grand journal régional, l’un des plus importants de notre pays. Je ne peux pas, sans lui créer des ennuis, le citer, au moins par fidélité à notre amitié et par principe, je peux seulement ajouter que le journal en question est Sud-Ouest… une très grosse boutique, le 2e quotidien régional français. La conversation que j’évoque a eu lieu dans un cadre privé, des retrouvailles entre vieux amis. Ma surprise fut grande d’entendre mon camarade pendant la moitié de notre rencontre, me marteler que je devais, supprimer mes réseaux sociaux, disparaître de la toile si je voulais un jour travailler dans le journalisme en France et vendre des livres… L’histoire que je raconte est vraie, il a été sermonné par sa rédaction pour m’avoir dans ses contacts Twitter et a dû rendre des comptes. Pendant les quelques heures de notre conversation, il a vainement tenté de m’expliquer qu’il fallait absolument que je reste dans la rédaction d’articles dans une ligne modérée centriste, le plus neutre possible et en évitant d’écrire contre la gauche et en particulier ce qui pourrait froisser les milieux gays, de gauche ou des pouvoirs en place.

3)  Mieux encore, ce journaliste explique que pour garder son poste et ne pas être mis au placard, il vaut mieux écrire dans l’air du temps. Quel regard, cela vous donne-t-il de la presse française ?

Oui c’est tout à fait ce qu’il m’a dit et redit, à savoir que je devais pour être sûr de travailler, n’écrire que dans les sillons tracés par les rédactions. Pour avoir travaillé un peu dans le journalisme et avoir écouté des amis, comme Olivier Renault, un grand journaliste ayant une vaste expérience, je savais déjà que le système était verrouillé. Il est évident que les rédactions françaises sont sous contrôle, Serge Halimi en parlait déjà depuis longtemps dans son ouvrage, Les Nouveaux chiens de garde. Depuis cette époque, le système s’est durci, je rappelle aussi que Coluche avait également démontré la concussion et la mise sous contrôle des médias dans une émission restée célèbre : http://www.youtube.com/watch?v=7JNL2OSiEZ0 . Ma vision de la presse française est donc négative, la liberté d’expression n’existe que de façade et la grande majorité des médias français sont contrôlés, rappelons que l’Etat français est propriétaire de plusieurs chaînes de télévision et subventionne de nombreuses officines médiatiques. Les autres petit à petit ont été maîtrisés, nous pourrions même dire infiltrés !

4)  Peut-on parler d’un cas isolé pour ce journaliste français, qui après tout pourrait fantasmer, ou alors est-ce bien le cas de la presse française en général ?

 Je ne pense pas qu’il s’agisse d’un cas isolé, je pense que mon ami m’a tenu ce discours eu égard à notre longue amitié, mais qu’il ne se rendait pas compte lui-même de ce que cela signifiait. Avec d’autres camarades journalistes nous avions lancé un projet, le projet Camille Desmoulins qui surveillait la presse française sur le thème de la Russie. Nous avons rentré dans des fichiers des centaines d’articles de journaux nationaux et régionaux en rentrant également les auteurs, la signature ou non de l’AFP, une notation selon une échelle de russophobie. Le travail hélas colossal ne nous a pas permis faute de financement de tenir plus de six mois, mais les résultats ont été effarants. Nous avons constaté que plus le journal avait de tirage, plus les articles publiés étaient des copier/coller de l’agence AFP. Certains journaux comme Le Parisien atteignait les 86 % d’articles de l’AFP, des régionaux un peu moins, le bon élève était Le Bien Public avec un total de 50 %. Ce simple fait démontre bien, qu’il n’y a plus de journalistes qui écrivent, seulement quelques « autorisés » signant dans de grandes vitrines médiatiques tels Le Monde ou Le Figaro. Il nous a été impossible de déterminer qui écrit dans l’agence AFP et qui contrôle l’agence mais les pistes sont limpides. Dans ce projet nous notions aussi les propriétaires des médias, nous avons été surpris du nombre de banques… En discutant avec quelques collègues ostracisés comme moi, nous arrivions tous à la même conclusion, le système formate des journalistes dans les grandes écoles, ils sont formés pour évoluer dans le cadre donné mais rares sont ceux qui font aujourd’hui du journalisme. Il faut chercher dans les médias alternatifs ou francophones étrangers pour aujourd’hui trouver de la vraie information, une information traitée sans pression et librement. Toutefois à l’heure actuelle le Sénat et Hollande récemment durant son voyage en Israël ont parlé de « nettoyer » internet, c’est dire où nous en sommes, si cela devait arriver, nous serions clairement dans une dictature démocratique, la première de l’histoire.

5)  Alors que les médias français ne cessent de montrer Poutine comme un dictateur au service duquel est la presse russe. N’est-ce pas risible ?

Oui et je peux en parler, je me suis trouvé en février 2013 dans un press-tour dans la ville d’Ekaterinbourg pour la candidature à l’EXPO 2020 avec de nombreux journalistes russes et étrangers. J’ai demandé à ceux de l’opposition, notamment communiste, s’ils pouvaient travailler librement, ils m’ont tous répondu que oui. Ceux de Komsomolskya Pravda, héritier de la Pravda étaient même chagrinés de voir comment la presse occidentale est en déliquescence, écrit sans cesse des absurdités, des inventions et des délires caricaturaux sur l’état de la presse russe. Moi-même j’ai écrit un article sans concession sur le président Poutine, dénommé Le syndrome de Borodino et j’ai boycotté les cérémonies de septembre 2012 pour le bicentenaire de 1812. Non seulement ma rédaction a publié mon article très sévère pour Poutine et le pouvoir en place, mais je n’ai pas été inquiété, loin de là. J’ajoute que le président Poutine se prête à un exercice de communication avec le peuple russe, chaque année, cela s’appelle La ligne. A l’avance les citoyens russes peuvent poster des questions, le jour même Poutine répond pendant des heures, son record étant 9 heures de suite, à des dizaines de questions, internet, téléphoniques, courriers… et qu’il répond à des questions vraiment sensibles de gens qui ne sont pas de son parti. Les questions ne sont pas choisies, le président doit subir cette épreuve, être convaincant, s’avancer sur des sujets épineux et il répond ! Toute la presse est invitée et participe, nous n’avons pas cela en France… nos journalistes et politiciens manquent de courage !

6)  Aujourd’hui, entre la Russie et la France, dans quel pays vous vous sentiriez le plus libre pour vous exprimer ?

Sans hésitation, la Russie, la liberté a changé de camp, c’est un pays qui est dans une situation économique similaire à nos trente glorieuses, c’est un pays dynamique mais qui reste ferme sur la défense de son identité et de son indépendance. Cette indépendance, la France assujettie à l’Europe et à l’OTAN ne la possède plus. Un journaliste en France doit servir le pouvoir, s’il ne le fait pas il est condamné à végéter ad vitam aeternam, voir à changer de métier. La démocratie française n’est déjà plus que l’ombre d’elle-même, n’oublions pas non plus que nous sommes dans un régime présidentiel… vendu comme démocratique. Monsieur Valls a parlé plusieurs fois d’ennemis de la République… cela démontre bien que si ces gens considèrent qu’il y a des ennemis dans notre pays… des ennemis du Peuple, c’est que la Nation est divisée. On commence par parler d’ennemis, on transgresse les lois ou on les façonne en conséquence et on termine par des persécutions et des emprisonnements. Cela ne vous rappelle rien ?


- Source : Médias-Presse-Info

lundi, 23 décembre 2013

Pour une Europe-puissance dans un monde multipolaire !

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Pour une Europe-puissance dans un monde multipolaire !

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par Aymeric Chauprade à Boulevard Voltaire et consacré à la question de l'Europe au sein du monde multipolaire...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

«En 1991, après la chute de l’URSS, nous avons manqué une chance historique…»

Un monde bipolaire pouvait induire un possible choc des civilisations. Mais l’univers multipolaire qui s’annonce est-il forcément plus rassurant ?

Le monde bipolaire n’était pas le choc des civilisations, il était le choc de deux utopies mondialistes, le libéralisme et le socialisme planétaires, chacune adossée à la logique de puissance d’une nation motrice, les États-Unis et la Russie. Remarquez que la théorie du choc des civilisations a repris de l’actualité juste après l’écroulement de l’Union soviétique, avec Samuel Huntington, quand précisément les Américains, pour ne pas voir leur alliance otanienne connaître le même sort que le pacte de Varsovie, ont tenté de réveiller les représentations civilisationnelles.

Ce qui s’est passé à partir de 1991 est assez simple. Le projet unipolaire américain (l’Amérique-monde) s’est accéléré, et il lui a été offert d’un coup, par l’effondrement soviétique, des territoires immenses à intégrer dans l’OTAN, comme dans l’OMC. En opposition au projet unipolaire, les émergents importants – Russie, Chine, Turquie, Inde, Brésil – se sont mis à reconstruire leur puissance régionale et à marcher vers la puissance. Seuls les Européens sont interdits de « puissance » par l’Union européenne et donc incapables de préparer l’Europe-puissance dont nous aurions besoin pour affronter les défis à venir. Bien sûr que le monde multipolaire n’est pas plus rassurant que le monde bipolaire. Si nous voulons la paix, il faut en réalité l’équilibre des puissances. La bipolarité a reposé sur l’équilibre de la terreur. La multipolarité doit reposer sur l’équilibre de toutes les puissances, nucléaires ou conventionnelles.

Est-ce l’occasion pour l’Europe, non pas de retrouver son rôle dominant de naguère, mais au moins de reprendre la main sur l’échiquier mondial ?

En 1991, après l’écroulement de l’URSS, les Européens ont raté une chance historique. Ils pouvaient décider de s’émanciper des États-Unis (sans se fâcher avec eux, là n’est pas le but !) et construire une Europe-puissance. Mais avec le Royaume-Uni (le général de Gaulle avait vu juste) et une logique d’élargissement à l’Est (intégration horizontale) qui diluait tout effort d’intégration verticale, c’était impossible! Le triste bilan des 23 années qui suivent la fin de l’ère bipolaire, c’est que les Européens ont finalement abdiqué leur souveraineté non pour une « Europe-puissance », mais simplement pour s’arrimer aux USA et la dynamique d’élargissement de l’OTAN. Sur le continent eurasiatique il y a place pour trois blocs de puissance – l’Europe, la Russie et la Chine –, seulement les Américains n’en veulent surtout pas car ils perdraient alors la main sur l’histoire mondiale.

Ne serait-ce pas le moment, pour la France, de remettre à l’honneur ses vieilles alliances : Turquie, Amérique latine, monde arabe ?

L’échec géopolitique, économique, social de l’Union européenne doit nous imposer une remise en cause complète du cadre actuel, fondé sur le couple OTAN/UE. Nous devons retrouver notre souveraineté nationale et proposer à nos amis et partenaires européens d’en faire autant (ce qu’ils feront dès lors que nous le ferons), puis refonder le projet européen sur l’idée d’une Europe confédérale et d’un partenariat fort avec la Russie. Les Allemands peuvent ouvrir à la France l’Europe centrale et orientale, tandis que nous pouvons aider les Allemands à se développer outre-mer grâce à notre présence mondiale (nous avons le deuxième espace maritime mondial derrière les Américains, et une grande partie des ressources de demain est en mer). Un véritable protectionnisme européen doit être mis en place sur le plan économique. L’Europe de demain devra aussi avoir une véritable flotte européenne reposant d’abord sur l’alliance de trois puissantes marines – française, allemande et russe – qui ensemble pourront peser autant que la flotte états-unienne, nous assurer une présence maritime mondiale et assurer la sécurité de nos approvisionnements. Tant que nous dépendrons de la thalassocratie américaine, nous ne serons pas indépendants.

Contrairement à ce que l’on entend souvent, les souverainistes ne sont pas opposés à l’idée européenne, bien au contraire. Ils veulent simplement la refonder sur un authentique projet de civilisation (les racines chrétiennes de l’Europe, l’affirmation de nos identités) autant que de puissance (la puissance ne signifie pas l’agression !), tenant compte des réalités nationales et des complémentarités possibles entre nations européennes. La preuve même que l’Union européenne est en train de tuer la puissance européenne, c’est que tous les budgets de défense nationaux européens sont en train de s’effondrer sans qu’aucune défense européenne n’émerge en échange ! Il y a une règle simple dans la vie, c’est que si un système en place depuis maintenant plus de vingt ans a produit un effondrement identitaire, économique, social, géopolitique de l’Europe, c’est qu’il n’est pas bon et qu’il faut en changer sans plus tarder.

Aymeric Chauprade, propos recueillis par Nicolas Gauthier (Boulevard Voltaire, 11 décembre 2013)

dimanche, 15 décembre 2013

Meeting with Helmut Schmidt

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Meeting with Helmut Schmidt

 

Late last night, Vladimir Putin met with Helmut Schmidt, a German statesman and the fifth chancellor of the Federal Republic of Germany from 1974 to 1982.

PRESIDENT OF RUSSIA VLADIMIR PUTIN: Mr Chancellor, please allow me to warmly welcome you.

It is a great pleasure and honour for me to meet with you in Moscow, for you are not only the patriarch of European politics but of global politics as well.

You have done a great deal for the development of the Federal Republic and Europe, but you have also made significant contribution to the development of Russian-German relations. The decision on the “gas for pipe” contract was made while you were a member of the Government. In one of your articles I read that at that time, after the war, no hatred remained between the Germans and the Russians toward one another, and this was very good.

I want to tell you that we have made a great deal of progress in developing our relations. Today, Germany is one of our leading trade and economic partners. This year, I believe we will cross the threshold of $75 billion in trade. Some two thousand German companies are operating in Russia, there is a large volume of mutual investment, and all this is developing. We are carrying out large-scale joint projects, working not only at the ministerial level, but the regional level as well.

We are broadening contacts between civil societies and people, which is probably more important than anything.

I am very happy to see you. Welcome, Mr Chancellor.

HELMUT SCHMIDT (translated from Russian): Thank you very much, Mr President,

You have already mentioned that neither Russians nor Germans harbour any hatred toward one another. And that, indeed, is a surprise; having been a soldier in World War II, I simply cannot believe that we have reached such a positive result, which was simply impossible to dream about at the time.

Mr President, you have already said some beautiful words about me, but you must nevertheless know that I am almost 95 years old; I am a very old man who is hard of hearing and no longer needed. Today, I am only an observer; I am observing what is happening in the world. I can say that things have been worse on our planet, but we can still improve our current state of affairs. Nevertheless, today, I am no longer an active player in this arena; I am simply observing what is happening.

VLADIMIR PUTIN: Your birthday is on December 23, isn’t it?

HELMUT SCHMIDT: That’s right. I was almost a Christmas baby; Christmas is celebrated in Germany on the 24th.

You know, this is – how can I say – my farewell visit to Russia, because it has become very difficult for me to travel; I didn’t even really want to come here, because it truly is quite difficult for me. But ultimately, you must say your proper goodbyes to your neighbours, right? I have already visited China, the United States, Italy and France. But it was particularly important for me to come here, because I remember that at the end of the last century, in 1999, at the end of this century, at the end of the next century – we will always remain neighbours. In spite of any economic developments, or military developments, we will always be bound by fate; we will always remain neighbours. Granted, we have Poland and Ukraine between us, as well as other nations. But in good times and in bad times, we nevertheless remain neighbours forever – neighbours who depend on one another.

You know, about 40 years ago, the General Secretary [of the Central Committee of the CPSU] Leonid Brezhnev came to visit Germany – West Germany at the time – and met with then-Federal Chancellor Willy Brandt. This was in the 1970s and I was present at that meeting. And Brezhnev spoke for a very long time, listing the terrible actions we committed on Russian soil. I think he spoke for about 15 minutes. When he finished, I also made a long speech. I said, “Mr General Secretary, everything you just said is, of course, true. Everything is correct; we committed terrible acts on Russian soil. Yes, we started the war, all this was our fault, but if you say that all Germans were fascists, I must tell you that is not true. Yes, all this was our fault, but not all Germans were fascists. In most cases, these were simply German soldiers who felt that they must defend their Fatherland. Yes, all this happened, all this was simply awful, but it is nevertheless wrong to call all Germans fascists. These were simply soldiers who were misled to believe in the wrong values.”

I want to stress again: it truly is a miracle that there are nearly no feelings of hatred between our peoples today. And you very rightly mentioned that our relations are very good and tight, not only economically, but in many other areas as well. Indeed, we have become good neighbours, and I am one of the very many Germans who have always felt and continue to feel today that this is very important, to always have good neighbourly relations between our nations.

VLADIMIR PUTIN: Mr Federal Chancellor, you said that this is your farewell visit. But I hope we will still remain in contact. You will soon be celebrating your birthday, so please allow me to wish you a Happy Birthday.

We truly know how much you have done since Mr Willy Brandt passed the baton on to you. And your opinion regarding the future of Russian-German relations is very important for us and for future politicians.

Of course, there has been a great deal of tragedy in our relations. But you rightly stated – the interpreter left out a detail, but it is important – the detail is that we have always been together, in good times and bad. And it will be the same in the future. Still, we need to strive to avoid dark spots; on the contrary, we have everything we need to grow together, rather than fight one another. Today’s trends in global development are pushing us toward joining forces.

I am certain that there are more elements uniting us than problems, which might cause disputes, both on a day-to-day level and politically. I would very much like for the opinions of people such as you to be spread even wider within our Russian establishment, as well as in Europe.

HELMUT SCHMIDT: You know, I would very much like that too. Although I must say that at this time, Europe is undergoing a crisis and things are not at their best; Europe is going through an institutional crisis.

I must say that the parliament is not very capable, the commission in Brussels is not functioning so well, various councils of ministers are also not working well, and the actions taken by individual governments leave something to be desired. I think there have been two outstanding leaders in Europe since the war: Winston Churchill and Charles de Gaulle. Since then, the quality of European leaders is gradually going down.

VLADIMIR PUTIN: The Chancellor who preceded you, Willy Brandt, certainly belongs to this cohort, at the very least.

HELMUT SCHMIDT: I agree with you.

VLADIMIR PUTIN: If I may, I have already said that you firmly gripped the baton that was passed to you, and I think you also played a tremendous role, as did the other Federal Chancellor, Mr Helmut Kohl.

As for critical statements, you certainly have the right to make them. But I do not share your view. Still, you and I can discuss this matter further.

HELMUT SCHMIDT: But I haven’t criticised anything yet.

VLADIMIR PUTIN: So this was only a prelude.

HELMUT SCHMIDT: No, I just stated the facts.

VLADIMIR PUTIN:  You see, the global economic situation is complicated. It’s true that it is difficult to resolve the problems Europe faces, given the European nations’ large social burden, which is due to their development model. But on the other hand, it is precisely these difficulties that should prompt us to work together.

jeudi, 28 novembre 2013

A Conversation with Dr. Tomislav Sunic

 

A Conversation with Dr. Tomislav Sunic (Pt. 1)

URL: http://www.blogtalkradio.com/theimperianmandate/2013/11/26/a-conversation-with-dr-tomislav-sunic-pt-1

Tonight I have the supreme pleasure of welcoming to the program Dr. Tomislav Sunic – a world renowned European New Right intellectual, author, professor, former diplomat, and someone I am proud to consider a personal friend. Tonight we will be discussing:

-- Tom’s background growing up in Tito’s Yugoslavia and how most people followed socialist trends behind the “Iron Curtain” as easily as most Westerners today follow “Americanized” pop culture;

-- The fact that socialism fell in Eastern Europe mainly because many of its theorems have been better implemented in the West (particularly in the United States), for example multiculturalism, the welfare state, amnesty for millions of illegal immigrants – these are just some of the communistic principles that have been implemented far more successfully in the United States than in the ex-Soviet bloc countries;

-- America as the destructive source of the new multiracial Europe;

-- European language issues vis-à-vis communication between EU member states, and the peculiar richness of the German language;

-- The power of language and why it is desirable for those of us who love our European roots to learn as many Indo-European languages as possible;

-- Tom’s experiences in academia, self-censorship and the outright cowardice that exists among the professorship;

-- Censorship in socialist countries versus censorship in the Western “democracies” and why the latter is worse.

Join me for this excellent 1-hour discussion with one of the greatest and most influential pro-European/pro-Western voices of our time: Dr. Tomislav (“Tom”) Sunic.

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dimanche, 17 novembre 2013

Intégrale de l’interview de Guillaume Faye

Intégrale de l’interview de Guillaume Faye

par Thomas Ferrier

Ex: http://psune.fr

Le politiste engagé Guillaume FAYE, partisan de l’Europe comme nation, comme le rappelle l’intitulé d’un de ses anciens ouvrages, « Nouveau discours à la nation européenne », a accepté notre invitation à évoquer sa conception du monde à partir des questions thématiques que nous lui avons posées. [...]. Vous pouvez également retrouver ses analyses sur son propre blog, www.gfaye.com. Je précise à toutes fins utiles que les propos de Guillaume Faye ne réflètent pas nécessairement les positions de [psune.fr].

***

2006-05a_thumb-300x300.jpgNous ouvrons le bal par le thème de la politique française et notamment de la présidence « Hollande ».

I. Guillaume Faye et la gouvernance « française »

TF: Juste quelques mots sur ce que vous inspire l’actualité politique du moment : affaire Cahuzac, bilan de François Hollande, « mariage pour tous », baisse programmée des allocations familiales, taxation future et probable des Smartphones et plus généralement de tout appareil connecté, laxisme judiciaire, affaire du « mur des cons », affaire du RER de Grigny, émeutes à Trappes, Colombes, Stockholm, agression islamique d’un militaire à Londres, Paris, situation de guerre civile à Marseille, affaire Méric, affaire Vikernes, affaire syrienne (faut-il intervenir ou pas ? Intérêt ou pas pour l’Europe ?)…

Guillaume FAYE: Pour tous ces commentaires politiques, vous voyez mon blog, J’ai Tout Compris ou gfaye.com Le gouvernement socialiste mène sa politique catastrophique dans la plus parfaite inconscience. C’est l’idéologie qui dirige, mêlée aux calculs politiciens classiques, à l’improvisation, etc. L’affaire Cahuzac est très amusante et reflète les terrifiantes contradictions de la gauche et de ce pays : voilà donc un ministre chargé de taxer et d’assommer fiscalement ses concitoyens qui, lui-même, fraude le fisc qu’il estime (d’ailleurs à juste titre) confiscatoire et racketteur. C’est l’arroseur arrosé, le gendarme-voleur. L’État le savait et l’a protégé en vain. La commission parlementaire d’enquête, entièrement truquée par le PS, a essayé de limiter les dégâts.

Mariage pour tous ? Ça fait plus de dix ans que j’avais dit que ça arriverait inéluctablement. C’est un symptôme, il faut s’attaquer aux causes. Sur l’insécurité et la criminalité (dues au mélange détonnant d’immigration incontrôlée et de laxisme judiciaire) nous allons monter vers des niveaux stratosphériques. Comme je l’ai souvent dit, nous nous dirigeons (pas seulement en France) vers soit une rupture, aux conséquences révolutionnaires, soit une mort tiède (Warmtod, concept éthologique lorenzien) , un effondrement mou. Il ne faut pas exclure , sous des formes imprévisibles, la révolte populaire massive des Européens de souche. Un phénomène viral, épidémique, transpolitique, qui ne toucherait pas que la France mais pourra se répandre comme une nuée ardente, au ras du sol, dans l’Union européenne. L’Histoire est ouverte, l’avenir est détectable mais non pas prévisible, l’impensable peut se produire. Mais l’Histoire, quand elle déchaine ses vagues, « n’épargne pas le sang », comme disait Jules César.

TF: En règle générale, comment voyez-vous le fonctionnement de l’actuelle présidence ?

Guillaume FAYE: François Hollande n’est pas à la hauteur d’un chef d’État, encore moins que ses prédécesseurs. Le dernier homme à la hauteur fut Pompidou. Pourquoi cette situation ? La cause est sociologique. Les élites, les vraies, se détournent de la carrière politique. Elles se destinent à la carrière économique (y compris à l’étranger). Les élus, le personnel des cabinets ministériels, les ministres sont d’un niveau plutôt en dessous de la moyenne requise par la fonction. Le plus étonnant, c’est au gouvernement, dont les membres (surtout les femmes) sont nommées au regard de critères (y compris la ”diversité”) qui n’ont rien à voir avec la compétence. Mme Duflot, Mme Taubira, Mme Touraine, Mme Filipetti, Mme Belkacem etc. sont des militantes, des idéologues, mais toutes atteintes par le principe de Peter : dépassement du niveau de compétence (c’était la même chose avec Rama Yade, un vrai gag ambulant). Ce n’est pas nouveau : un Kouchner aux Affaires étrangères était aussi inapte qu’un Douste-Blazy ou aujourd’hui que le prétentieux Fabius (rien à voir avec Hubert Védrine). Bref, pas de pros ou trop peu. La sphère politicienne souffre globalement d’un manque de niveau. Autant que d’une absence de vision, d’intuition et de bon sens.

Second élément, très grave aussi : la pollution de la classe politique, droite et gauche, par les briques idéologiques de la vulgate mortifère que nous connaissons bien., notamment sur la question de la préservation de l’identité ethnique européenne. En rupture avec les sentiments intuitifs d’un peuple de souche, invisible et sans droit à la parole.

TF: Par son côté « inamovible », par l’autisme dont semble faire preuve le Président de la République vis-à-vis d’un mécontentement croissant, illustré par une côte de popularité au plus bas, ne peut-on pas y voir là une certaine dérive monarchique, spécifique à la France, a contrario par exemple des Etats-Unis, où il existe, gravé dans le marbre constitutionnel et juridique, une procédure pouvant destituer le Président de ses fonctions (impeachment).

Guillaume FAYE: Le problème n’est pas tant constitutionnel que relevant du ”peuple français” lui-même, qui est très pusillanime. On mérite ceux qu’on élit. La France est une république monarchique, la Grande Bretagne, une monarchie républicaine. Cela dit, deux rois de France sur trois n’étaient pas à la hauteur, pas plus qu’un Princeps Augustus romain ( on traduit faussement pas ”Empereur”) sur deux. Le problème réside plus dans la solidité de la société civile et de la congruence du corps social autour de la Nation. Aux USA, la destitution est exceptionnelle. En France, elle est remplacée par la cohabitation : le Chef de l’État, le PR, rendu impuissant par une majorité parlementaire hostile. Si, après l’élection de M. Hollande, l’électorat avait élu une majorité non-socialiste au Palais Bourbon, M. Hollande n’aurait pas pu appliquer son programme. Il aurait passé ses journées à l’Élysée, à tourner en rond.

TF: Enfin plus généralement que vous inspire l’observation de l’actuelle classe politique, de l’extrême-gauche, au FN inclus, quand bien même ce dernier semble bénéficier d’une certaine notoriété médiatique plus importante qu’auparavant, notamment sous l’impulsion de Marine Le Pen et de l’énarque techno-souverainiste et ancien chevènementiste Florian Phillippot ? Que vous inspire le ralliement officiel du géopoliticien Aymeric Chauprade au FN, lui qui dans la Nouvelle Revue d’Histoire n°22 proposait comme solution au problème migratoire, le fait de « repasser le film à l’envers » ?

Guillaume FAYE: Les réponses à ces questions sont largement exprimées dans mon blog J’ai Tout Compris. Le FN recueille des voix non-politiques, protestataires. Sa critique des actuelles institutions européennes est exacte, mais la vision de l’Europe qu’il en tire est erronée. D’ailleurs, (contradiction) le FN a prospéré sur les élections européennes tout en étant anti-européiste. Passons. Le vote FN est essentiellement motivé par les problèmes d’immigration massive, d’islamisation et d’insécurité, toutes choses liées. Les positions du FN sur l’économie et le social sont erratiques et irréalistes. Le FN occupe une position symbolique dans la dramaturgie politique française mais pas encore gouvernementale. Il y a une forme de jacquerie dans le vote FN.Concernant la question européenne, le FN rejette en bloc l’UE et l’Euro, parfois pour de bonnes raisons critiques. Cependant, les solutions du FN sont techniquement inappropriées. Sortir de l’€uro, c’est 40% d’inflation pour le Franc de retour et la fonte des neiges pour toutes les épargnes. La cata. Il vaut mieux modifier la structure du navire Europe en construction que de le couler. Encore une fois, l’idée européenne est la bonne mais les institutions européennes doivent être corrigées, comme l’idéologie qui les anime. La question centrale est d’ailleurs l’idéologie : une France souverainiste sans UE avec l’idéologie actuelle, il n’y aurait aucune différence. Le poison, ce n’est pas l’UE ou Bruxelles, c’est la mentalité générale qui nous corrompt. Elle est présente au cœur de toutes les élites de chacun de nos pays. Le problème, ce n’est pas l’UE, pas Bruxelles, pas le souverainisme, c’est l’idéologie dominante : le renoncement à l’identité ethnique et culturelle. L’ennemi, ce n’est pas l’ « Europe », c’est une pathologie mentale. Et, si une révolution surgit, une révolte, elle ne pourra être qu’européenne, c’est à dire épidémique – avec la Russie en arrière cour, derrière le décor.Concernant Aymeric Chauprade et sa remarque que vous citez, je dirais que le problème migratoire a atteint un point de non-retour en Europe. Exactement comme un processus thérapeutique qui doit passer des médicaments à l’intervention chirurgicale. Pour résoudre ce problème, il faudra instaurer des protocoles douloureux. Inverser la tendance, repasser le film à l’envers, effectivement, C’est un processus révolutionnaire, qui relèvera d’une polémologie lourde. Je n’en dirai pas plus.

***

Nous continuons la publication thématique de notre entretien avec Guillaume FAYE. Cette fois, nous abordons la figure de Dominique VENNER, fondateur d’un mouvement européiste dans les années 60, et qui s’est donné la mort il y a quelques mois pour inviter les Européens à sortir de leur dormition mortifère.

II. Guillaume Faye et Dominique Venner

TF: Le mardi 21 mai dernier vers 14h40, sur l’autel même de la cathédrale Notre-Dame de Paris, l’historien Dominique Venner, auteur notamment du Cœur Rebelle (autobiographie), d’une biographie d’Ernst Jünger, de « Histoire des Européens. 35.000 ans d’identité », « le Siècle de 1914″, « Le choc de l’Histoire », liste non exhaustive… et aussi directeur de la revue la Nouvelle revue d’Histoire, a mis fin à ses jours.

Guillaume FAYE: Cette nouvelle fut pour moi un choc. Immédiatement, la comparaison avec la mort volontaire de Mishima, nationaliste japonais, m’est venue à l’esprit. Tout d’abord, en s’immolant à Notre-Dame, Venner a signifié que ce sanctuaire chrétien, il se le réappropriait comme païen. S’immoler sur un autel chrétien comme s’il était un réceptacle de sang à la mode capitoline ou delphique, c’est une première dans l’ Histoire. Venner a voulu frapper de stupeur ses contemporains par son geste. Dans un premier temps, je me suis dit : « quel dommage ! » Venner a décidé de conclure sa vie par sa propre volonté, d’organiser la ”chute”, comme disent les scénaristes et les dramaturges. Ne pas laisser sa mort entre les mains du destin, mais la vouloir. Choisir sa fin et lui donner un sens. L’éthique romaine de Regulus dans sa sombre splendeur. Fiat mors tibi. Ta mort n’appartient qu’à toi, même les dieux n’en décident pas, car le païen est un homme libre. L’inverse absolu du païen étant l’adepte de l’islam, c’est-à-dire de la soumission.

TF: Que vous inspire l’homme, son œuvre, ses idées, et quel est selon vous le meilleur enseignement qu’il faut en tirer ?

Guillaume FAYE: J’ai écrit un long texte sur cette question ainsi qu’un hommage funèbre à Venner, « La mort d’un Romain » que j’ai envoyé à Roland Hélie qui l’a diffusé sur Internet. Je vous y renvoie. Venner est celui qui m’a fait entrer en 1970 dans le milieu identitaire de la résistance européenne, pour employer une appellation peu courante. Je n’en dirai pas plus. Sur son œuvre et ses idées, il semble qu’il avait décidé d’aborder les choses sous un angle historique et détourné et non pas polémique et politiquement direct, contrairement à sa stratégie de jeunesse. Néanmoins son message testamentaire et funéraire est très clair quand on le lit honnêtement : Venner s’insurgeait d’abord contre la destruction de l’identité ethnique des Européens. Et il essayait aussi de résoudre ses propres contradictions.

TF: Considérez-vous que son geste, doit être perçu comme étant un acte désespéré, ou un acte politique ? Ou les deux ?

Guillaume FAYE: Il est très difficile de se mettre dans la peau d’un homme qui se donne la mort. Il y a forcément un mélange de motivations intimes et de raisons ”extérieures”. Néanmoins, on peut donner à son désespoir (dont les causes sont complexes) un sens politique. Par là, Venner a très exactement suivi Mishima. Mais il est impudique et ignoble d’interpréter ou pis, de salir un tel geste, comme l’ont fait les Femen. Le suicide est un mystère. Dans les religions du Salut (où le suicide est peccamineux) le martyre remplace le suicide. Mais c’est un autre débat. Dans l’islam, le martyre, sous forme d’une immolation qui tue les ennemis (p.ex. attentats terroristes) trahit une mentalité de paranoïa perverse, liée à une pathologie mentale.

TF: Pensez-vous qu’il puisse réellement servir à « réveiller les consciences », vœu qu’il avait formulé dans le dernier éditorial de son blog ? Qu’il peut réellement avoir un impact, et disons-le « changer les choses » ? Croyez-vous réellement qu’il peut déboucher sur une refondation politique concrète, à l’instar par exemple de l’immolation de Ian Palach en 1968 ?

Guillaume FAYE: C’est une possibilité. La mort sacrificielle a, depuis le néolithique, chez presque tous les peuples, une signification lourde. Même si notre époque tente, en vain, d’évacuer cette dimension. Le suicide de Dominique Venner au chœur de Notre-Dame fera date et n’est pas destiné à être un ”événement” englouti par l’actualité comme une défaite du PSG face à l’OM. Un mythe va se créer, en forme d’exemple, autour de cette mort volontaire. Mais il faudra un certain temps. Venner n’a tué personne en se tuant, il ne s’est pas fait exploser avec une ceinture de dynamite. Il a interrompu sa vie, et il a mis son plongeon dans la mort au service d’un message. Il a suivi très exactement les traces de Yukio Mishima. Maintenant, ce que je viens de vous dire n’est pas une certitude. Chacun suit sa voie. Personnellement, l’idée du suicide ne m’a jamais effleuré comme moyen de faire passer un message. Tout simplement parce que la mort interrompt la délivrance du message. À moins de penser qu’on ait tout dit…

TF: Ou bien en regardant tout ce qui s’est passé (ou plutôt rien passé) depuis dans « la mouvance nationale » au sens large, ne partagez-vous pas le constat formulé par certains, où il ressort un certain cynisme désabusé (Pensons à un récent éditorial de Philippe Randa, reprenant les constats de Nicolas Gauthier et Alain Soral), pour ne pas dire le nihilisme que dénonçait Nietzsche ? En d’autres termes, ce suicide maintenant oublié des media une semaine après alors qu’on est à quasiment J+ 4 mois, a-t-il réellement « servi à quelque chose » ?

Guillaume FAYE: Encore une fois, les commentaires de Randa, de Gauthier et de Soral sont hors-sujet, trop liés à l’actualisme. Les médias importent peu. La mort volontaire de Venner est un fait transmédiatique, qui restera dans les mémoires. La « mouvance nationale » actuelle n’est pas le réceptacle adéquat. Venner a voulu donner à son geste tragique une dimension historique et non pas médiatique et immédiate. Il ne s’adressait pas à ses amis, à ses proches, à la ”mouvance”, dite d’extrême-droite. Il s’adressait à son peuple, c’est-à-dire aux Européens, et son message portait essentiellement sur la préservation de l’identité ethnique actuellement menacée.

***

Nous avons interrogé Guillaume Faye et sollicité son opinion concernant le projet européiste du PSUNE. Tel est son avis sur l’utilité de notre modeste mouvement.

III. Guillaume Faye et le PSUNE

TF: L’Europe ? De l’Islande à la Russie, ou sans la Russie ? Avec le Caucase ou sans ? Avec la Turquie ?

Guillaume FAYE: La Grande Europe, c’est-à-dire l’idée impériale, doit évidemment inclure la Russie. J’avais nommé cela l’ « Eurosibérie ». Mais mes amis russes de l’association Athenaeum, notamment le Pr. Pavel Toulaev, proches de l’Académie des Sciences de Russie, a préféré le terme d’ « Eurorussie ». Bien préférable au terme « Eurasie ». Les mots comptent car ils sont l’interface entre l’esprit humain et les choses. Une union entre l’Europe péninsulaire, l’Europe centrale et la partie est-ouralienne de la Fédération de Russie (en gros UE-Russie), constituerait le plus grand ensemble ethno-économique de la Terre. La question centrale, c’est l’affectivité d’appartenance, qu’on nomme aussi « patriotisme ». Tant que les peuples apparentés de souche, de même origine globale ethno-culturelle, « de l’Ibérie à la Sibérie », de Dublin à Vladivostok ne se sentiront pas membres d’un même homeland, d’un même volk global, les choses seront difficiles. Et puis, dans l’histoire, il a été démontré qu’il faut aussi la conjonction d’une menace globale perçue et d’un égregor, un chef mobilisateur.

La fantastique « union de peuples apparentés » qu’est l’Union Européenne, après tant de guerres entre nous, ne pourra jamais être féconde dans la mollesse prosaïque de réglementations économiques. C’est vrai, on peut penser que l’UE est un début, position dialectique hégélienne défendue par certains mais on peut aussi estimer que c’est une impasse. C’est-à-dire une mauvaise voie pour un bon projet. Il est extrêmement difficile de conclure. L’idée européenne est un grand projet et comme tout grand projet, sa solution demande de pouvoir sortir du labyrinthe.

L’idée européenne est un chantier, un chantier très difficile. Même s’il est assez mal parti, on ne peut pas y échapper. Votre projet, au PSUNE, me semble en tout cas différent dans son orientation idéologique de celle de l’eurocratie actuelle, qui correspond d’ailleurs exactement à l’idéologie des gouvernements des États membres et qui ne s’impose nullement à ces derniers, contrairement à ce que prétendent les souverainistes. Dans mon essai Mon Programme (Éd. du Lore), je formule une critique acerbe des institutions de l’UE, qui ne doit pas du tout être prise comme un renoncement à l’idée européenne.

TF: Que pensez-vous du projet européiste révolutionnaire du PSUNE ? Et (facultativement) de son dirigeant ?

Guillaume FAYE: C’est une belle initiative. Elle est nécessaire parce que les grandes idées doivent nécessairement à leur début avoir un caractère impensable et irréalisable. De Gaulle en 1940 avait une position impensable mais qui s’est révélée gagnante. L’essentiel est de bien sentir la réalité et de soumettre l’idéologie à la praxis, ce que n’a pas fait Lénine, contrairement à ce qu’il avait écrit. La vraie révolution suppose une certaine froideur, une analyse rigoureuse des faits. Un pragmatisme. Mais en même temps une vision, un idéal à long terme. Le PSUNE me semble posséder ces caractères. Thomas Ferrier, son dirigeant, s’inscrit dans un profil humain à la fois idéaliste et réaliste, ce qui correspond aux deux jambes de la démarche politique. Le PSUNE, à côté d’une démarche politique, doit penser à faire un long travail métapolitique d’influence.

TF: Que pensez-vous de l’idée de « nationalité européenne » qui permettrait de refonder sur des bases juridiques une citoyenneté que les Etats ont dévoyée en la conférant à n’importe qui ? La tabula rasa, qu’implique la naissance d’une Europe-Nation vierge juridiquement ne permettrait-elle pas de rendre tout possible, nous libérant non seulement de traités internationaux contraignants mais aussi des constitutions des Etats, véritables machines à enfermer et à trahir le peuple ?

Guillaume FAYE: Cette solution est parfaite d’un point de vue théorique, mais il est long le chemin de la coupe aux lèvres. D’autre part, attention : c’est aujourd’hui Bruxelles qui défend une ouverture des frontières à l’immigration, avec l’accord des États membres qui pourraient le refuser, et ce, pour la fausse bonne raison de compenser le déficit démographique européen. Fausse bonne raison, car le Japon, qui est dans la même situation refuse l’immigration. Il n’en meurt pas, au contraire, cela l’incite à l’innovation . Comme je l’expose dans « Mon programme » (Éd. du Lore), il faut revoir de fond en comble le fonctionnement de l’Union européenne. L’idée est bonne, mais la forme ne l’est pas. Par exemple, la garde à vue simplifiée pour les clandestins exigée par la Commission européenne et les mesures pro-immigration exigées par la Cour européenne de justice sont catastrophiques pour l’Europe elle-même. En l’état actuel, un pouvoir français qui, par exemple, appliquerait en matière d’immigration, d’expulsions, de statut des étrangers, etc. quelques unes des mesures que je prône, serait obligé d’affronter les institutions européennes et de contrevenir aux règles juridiques de l’UE.

Dans l’absolu, une nationalité européenne différente d’une citoyenneté nationale-étatique, plus restrictive que cette dernière, et donnant droit à des statuts juridiques spécifiques, supposerait un processus de rupture révolutionnaire par rapport à la philosophie du droit de l’UE. Il y aurait « rupture d’égalité ». Car refuser la nationalité européenne aux citoyens non-européens d’origine des États-Nations ne s’inscrit pas dans les principes généraux du droit de l’actuelle UE. Je suis donc bien d’accord : il s’agirait d’un passage en force révolutionnaire. Abolissons l’édit de Caracalla !

***

Guillaume Faye est le théoricien le plus représentatif de l’européisme identitaire, à savoir que l’Europe est sa patrie, et pas une simple construction politique ou économique. Auteur du Nouveau discours à la Nation Européenne (nouvelle édition en 1999), et de nombreux autres ouvrages dédiés à la défense de notre civilisation, son dernier étant Mon Programme, écrit pour enrichir le débat au moment des élections présidentielles de 2012. [...].

IV. Guillaume Faye et l’Europe unie

TF: Bonjour Guillaume Faye. En 1999, vous ressortiez votre « Nouveau discours à la nation européenne », et en 2012 « Mon programme ». En 1999, vous affirmiez que « l’Union Européenne (…) est la mise en œuvre du projet d’union des cités grecques ». En 2012, dans le cadre de la campagne électorale, en revanche, vous déclarez ne plus défendre « la thèse des Etats-Unis d’Europe ». Qu’est-ce qui a changé, selon vous ?

Guillaume FAYE: Ce qui a changé, c’est l’histoire. L’idée d’union européenne a été dévoyée de l’intérieur. Mais ce n’est pas une raison pour l’abandonner. Quand vous aimez une femme et qu’elle vous trompe, ce n’est pas forcément une bonne raison pour cesser de l’aimer et de la détester. Pour l’instant, les États–Unis d’Europe doivent être mis entre parenthèses provisoires. Ce n’est pas néanmoins un argument pertinent pour être souverainiste. J’ai conscience qu’étant profondément machiavélien (au vrai sens du terme et non pas vulgaire), ma position peut poser problème.

TF: Dans « Mon programme », au chapitre sur la France et l’Europe, vous émettez des propositions que pourraient soutenir les souverainistes, avec un « conseil des gouvernements de l’Union », l’abolition du parlement européen, l’abrogation des accords de Schengen, même si vous prônez le maintien de l’€uro, avec exclusion des Etats surendettés, ce qui les amènerait objectivement à la ruine. Vous-êtes-vous converti au souverainisme ou est-ce simplement que, le cadre choisi par l’ouvrage, se plaçant dans une logique nationale, en lien avec les élections présidentielles, amène nécessairement à restaurer la « souveraineté nationale », en attendant une (éventuelle) souveraineté européenne ?

GF: La véritable Union européenne, de puissance, ne pourra se construire qu’autour d’institutions lisibles et simples. Nous sommes actuellement dans une situation ingérable, bureaucratique. Sans vrai fédérateur. L’essentiel est l’Idée Européenne qui, comme je l’ai répété est d’abord ethnique avant d’être économique, institutionnelle ou administrative. On a mis la charrue avant les boeufs. Le sentiment détermine les institutions et non l’inverse. Les Cités grecques ne se sont unies que face à un ennemi commun. En réalité, il faudrait la naissance d’un souverainisme européen. Mais il y a loin de la coupe à la bouche. L’idée européenne ne fonctionnera jamais tant qu’elle ne sera pas affectivement présente chez nos peuples. Ou alors, c’est du calcul de technocrates, sans aucune chance de réalisation. L’histoire a pour matière une certaine exaltation. L’Union européenne ne propose aucun idéal mobilisateur, pas plus – voire beaucoup moins, hélas – que les États qui la composent. Ce qui ne veut pas dire que j’abandonne mon idéal central de Nation Européenne (souveraine).

L’idée officielle actuelle d’Union européenne est l’inverse même de celle de Nation européenne. C’est contradictoire, mais c’est le jeu de la dialectique historique. Compliqué, n’est-ce pas ? Les institutions nouvelles que j’ai proposées dans ce livre procèdent du réalisme. Je me méfie de ce paradoxe qu’est le romantisme technocratique. Maintenant, je ne suis pas un gourou, j’ai une analyse variable. Qui peut prétendre avoir raison alors même que nous ne connaissons pas l’avenir et que nous voyons assez mal le présent ? La détermination de Thomas Ferrier pour des États-Unis d’Europe est une position qui doit être poursuivie, tentée. L’essentiel est l’unité de l’Europe, ethniquement, quelle que soit sa forme. Machiavel, suivant Aristote son maître, disait que seul compte le but. Les formes sont toujours assez secondaires.

TF: Même si le parlement européen n’a aucun pouvoir, il dispose d’une relative légitimité démocratique, en ce sens où des formations politiques marginales au sein de l’assemblée nationale, en raison d’un mode de scrutin majoritaire, peuvent y être représentées. En ce sens, à l’instar des Etats généraux en 1789, le parlement européen ne peut-il être l’antichambre d’une assemblée européenne constituante par auto-proclamation pour peu que des européistes authentiques y soient majoritaires ou en tout cas une forte minorité mobilisatrice (30% des députés par exemple) ? Une institution n’est-elle pas en mesure de s’émanciper et de prendre le pouvoir, malgré ses traités fondateurs ?

GF: Cette remarque est théoriquement vraie mais pratiquement problématique. Les institutions européennes ne sont pas démocratiques puisque la Commission viole en permanence les traités en passant du rôle d’exécution à celui d’ordonnancement. Le Parlement européen ressemble à une chambre d’enregistrement napoléonide. Bien sûr, une révolution serait possible. Le problème est que le Parlement européen n’est qu’une coquille vide. L’idée d’une assemblée européenne constituante et révolutionnaire ? Pourquoi pas ? Piste à suivre. Mais ce genre de situation ne sera possible que dans un contexte de crise très grave.

Il faudrait étudier sérieusement la possibilité juridique d’une révolte parlementaire européenne. L’idée est intéressante, on ne peut que la souhaiter même si l’on en doute. L’idée est brillante mais elle se heurte à la pesanteur d’une opinion publique matraquée et d’élites médiocres. Cela dit, en cas de crise très grave, une prise de conscience européenne globale est possible. Le recours au Parlement européen serait intéressant. Qui sait ? Dans les situations tragiques, l’ordre juridique et institutionnel connaît une distorsion bien connue des historiens. Voir à ce propos la remarquable biographie de Pompée par Éric Thessier (Perrin). Le Parlement européen pourrait-il devenir une instance révolutionnaire ? Dans l’histoire romaine (où le Sénat fut nul) comme dans d’autres, c’est un Princeps qui rétablit l’ordre de marche.

TF: En 1999, vous prôniez la subversion de l’Union Européenne et non la confrontation avec elle, « montons dans l’avion européen et jouons aux pirates de l’air, en montant en douce, puis braquons le pilote ». En 2012, vous évoquez l’idée que la France « fasse chanter » l’Union Européenne pour exiger d’elle une refonte totale.

GF: C’est vrai. Mais le problème, c’est que, tragiquement, l’avion européen n’a pas de réacteurs (contrairement à ce que j’avais cru) et ne peut même pas décoller. On ne s’amuse pas à braquer un avion au sol. En réalité, l’Union européenne est un être politique virtuel. Contrairement aux souverainistes français, je ne ne me réjouis pas de l’impuissance de l’UE. Celle de l’État français est la même. Le mal est global. Bien sûr, j’ai prôné une refonte totale de l’UE. Dans un sens machiavélien : reculer en apparence pour avancer en réalité. Il faut refonder complètement les institutions de l’UE, selon mes principes. Pour renforcer l’Europe.

TF: Demeurez-vous un européiste qui attend que la flamme de la foi en l’Europe se réveille ? Ou avez-vous abandonné l’espoir d’une révolution européenne, d’une république européenne ?

GF: Mon espoir est évidemment celui d’une nation européenne globale. Tout mon courant de pensée a toujours été celui du nationalisme européen, respectueux de tous les autres.

Un entretien de Guillaume Faye par Thomas Ferrier, 2013.

lundi, 11 novembre 2013

“Rusia es la Tercera Roma”

El 16 de octubre de 2013 se publicaba esta entrevista en el prestigioso medio italiano BARBADILLO, laboratorio di idee nel mare del web. Alfonso Piscitelli entrevistaba a Adolfo Morganti, presidente de la asociación italiana IDENTITÀ EUROPEA, que estudia y promueve la construcción de una Europa fiel a sus raíces clásicas y cristianas. El tema central que aborda la entrevista es Rusia, pero la cultura del entrevistador y del entrevistado logran que sea todo un diálogo ameno y provechoso. Hemos creído oportuno traducirla y publicarla en RAIGAMBRE para el público hispanohablante

La asociación Identità Europea tiene en los históricos Franco Cardini y Adolfo Morganti, editor del “Il Cerchio”, a sus exponentes más importantes. Hace años que promueve iniciativas que reclaman una reflexión sobre las raíces del continente europeo (raíces clásicas y cristianas) y sobre su destino. Recientemente “Identità Europa” ha organizado en San Marino un Congreso sobre “Europa en la época de las grandes potencias, desde 1861 a 1914”, en el ámbito de ese discurso se ha abordado también la naturaleza compleja de las relaciones entre Italia y Rusia. Replanteamos el argumento a menudo descuidado por los historiadores contemporáneos, con el presidente de Identità Europea, Morganti.

Alfonso Piscitelli.: En la segunda mitad del XIX se articulaba una red compleja de alianzas entre naciones europeas continentales: la Triple Alianza (Alemania, Austria, Italia) y por un cierto tiempo el Pacto de los Tres Emperadores (Alemania, Austria, Rusia). ¿Fue el intento de superar los nacionalismos en orden a una cooperación continental?

Adolfo Morganti: Era la tentativa de superar los límites y los conflictos cebados por el nacionalismo jacobino, pero al mismo tiempo eran fuertes las tensiones estratégicas que se localizaban en el área balcánica con Rusia, que patrocinaba los movimientos nacionalistas del pueblo eslavo y Austria que contenía estas pulsiones subrayando el aspecto supranacional del Imperio de los Habsburgo. Sarajevo no fue una sorpresa, como localización del foco de la primera guerra mundial.

A. P.: E Italia, ¿cómo se movía sobre el plano internacional?

A. M.: Todos conocemos el impulso profundo que el arte italiano dio a Rusia: un impulso evidente en San Petersburgo. Menor fue la intensidad de las relaciones marítimas entre Italia y el Mar Negro, que han plasmado la estructura económica misma de aquellas regiones. Sobre el plano diplomático, después de la intervención piamontesa en la Guerra de Crimea, las relaciones con Rusia indudablemente tenían que recuperarse: en efecto, por largo tiempo, Rusia representó algo extraño y distante, en los mismos años en los que Italia establecía una alianza con Austria y Hungría.

A. P.: Con el enemigo por excelencia de la época del Risorgimento [Austria].

A. M.: Más tarde, con el viraje que supuso 1914, obviamente la situación cambió las tornas: los rusos vinieron a ser aliados en el curso de la Primera Guerra Mundial, pero las relaciones gubernamentales y diplomáticas no fueron tan frecuentes y orgánicas como lo fueron, en cambio, las relaciones económicas.

A. P.:: ¿Crees que hoy Rusia deba ser incluida en la identidad europea, a la que alude el nombre de tu asociación?

A. M.: Con seguridad, la parte europea de Rusia debe ser considerada un elemento importante en el discurso sobre la Europa contemporánea. A partir de su conquista de Siberia, relativamente reciente, Rusia ha adquirido una vocación más amplia: la de Eurasia; pero Europa es impensable sin su área oriental, así como la identidad cristiana del continente es impensable sin contemplar el papel de la ortodoxia. Rusia, por una parte es Europa y reconocida como tal (y desde un punto de vista existencial hoy defiende los valores europeos incluso más que muchos estados de la Comunidad Europea), por otra parte, se atribuye una misión y una identidad que rebasa los confines de la misma Europa.

A. P.: El diálogo ortodoxo se ha reanudado a lo grande en los años sesenta con Pablo VI, con la recíproca retirada de excomuniones y el abrazo con el patriarca Atenagoras.

A. M.: Generando entusiasmos y resistencias a las dos bandas: resistencias que en el ámbito ortodoxo amenazaron con producir un cisma, que más tarde se hizo realidad.

A. P.: Y el hecho de que Juan Pablo II fuese un eslavo, un polaco (no extraño al “humus cultural” del nacionalismo polaco), ¿ha facilitado o ha creado alguna fricción y malentendidos entre las dos partes?

A. M.: Ciertamente, cuando la primera jerarquía católica de la Rusia post-soviética fue elegida por Juan Pablo II, la presencia de prelados polacos fue relevante y esto creó notables problemas de coexistencia con los ortodoxos. La misma acción de los franciscanos en Rusia era vista como una fuerza de penetración católica en el área del cristianismo ortodoxo. Ahora, con el cambio de jerarquía, en que la presencia de Italia está representada autorizadamente por el actual Obispo de Moscú, estos problemas casi se han disuelto.

A. P.: Si recuerdo bien, fue Ratzinger quien determinó una nueva relación, promoviendo el cambio de jerarcas.

A. M.:: Exactamente.

A. P.: Un recordatorio siempre es útil… ¿por qué se originó y por qué persiste la división entre cristianos católicos y cristianos ortodoxos?

A. M.: Hay toda una serie de diferencias dogmáticas que dividen a católicos y ortodoxos: la cuestión del “filioque” (de la procesión del Espíritu Santo), la diversas valoraciones de ultratumba (los ortodoxos no conciben el purgatorio), el diverso modo de entender la confesión. Son diferencias importantes, pero en la historia del cristianismo tales divergencias no han impedido necesariamente la unidad de las iglesias: por caso, pensemos que, durante una época en la historia, el cristianismo irlandés calculaba la Pascua de manera diferente al cristianismo continental. Ya hemos tenido otras situaciones de diversidad, que no afectan a la unidad subyacente. En el caso ortodoxo vino, en cambio, una separación profunda, pero no ocultemos que el cisma maduró sobre la cuestión del primado del Obispo de Roma, primado de honor, según los ortodoxos; primado jerárquico, según los católicos.

A. P.: También hay temas fuertes que unen a los dos mundos espirituales, pensemos en la gran devoción a la Madre de Dios; y en lo que atañe al tema mariano no podemos olvidar que al inicio del siglo XX, la profecía de Fátima está estrechamente ligada al tema de Rusia. ¿Qué ideas te has hecho a propósito de esto?

A. M.: La profecía de Fátima veía en Rusia el centro de una gran apostasía, que luego se verificó con el comunismo; pero las profecías son un terreno resbaladizo. Sin lugar a dudas, el gran gigante ruso constituye un escenario fundamental para la articulación de las fuerzas en la confrontación entre tradición y modernidad, entre el cristianismo y la tentativa ilustrada de disolverlo o reducirlo a la esfera privada, está a los ojos de todos.

A. P.:  ¿Es verdad o solo es una simplificación decir que el espíritu cristiano de Rusia está atraído particularmente por el Evangelio de San Juan y por el Apocalipsis?

A. M.: Es un enfoque para la escatología en general. Pero este enfoque es compartido con la milenaria tradición católica: en el ámbito católico hasta lo que no ha mucho se hacía en las llamadas meditaciones sobre los “Novísimos” (muerte, juicio universal, infierno y paraíso) era intensa; después (por usar un eufemismo) no ha sido valorada al máximo…

A. P.: Y el tema típicamente ruso de la Tercera Roma, ¿puede todavía jugar el papel de idea movilizadora en el ánimo de Rusia y en el ánimo de los europeos que miran con atención a Rusia?

A. M.:: Rotundamente: sí. Rusia es la Tercera Roma, tanto para los rusos creyentes como para los laicos. Los laicos ven en el poder de Moscú la continuación efectiva de una autoridad imperial a través de todas las modificaciones históricas posibles. Para el creyente, el concepto de Tercera Roma tiene una resonancia ulterior, pero todos los sujetos político-culturales rusos comparten el sentido de esta misión histórica, sean comunistas o nacionalistas, religiosos o laicos.

A. P.: Sin embargo, en el inmenso territorio ruso existen también otras tradiciones religiosas: el ministro de defensa Shoigú es un budista de la zona siberiana.

A. M.: También hay regiones de la Federación Rusa de mayoría hebrea y zonas en las que se arraigó el islam chiíta (principalmente en la parte ocupada por población turcófona) o sunnita. Desde los tiempos del imperio zarista, la multiplicidad de tradiciones religiosas no ha creado problemas de convivencia.

A. P.: ¿Podría decirnos su valoración personal de la figura de Vladimir Putin?

A. M.: ¡Putin es un ruso! En cuanto tal, él continúa encarnando esta misión de Rusia, cristiana e imperial. El hecho de que Putin sea más creyente o menos es indiferente. Su misión personal es la de proteger a Rusia y Rusia tiene esta identidad (imperial y cristiana) y no otra alguna…

(Traducción al español por Manuel Fernández Espinosa)

Fuente original en italiano: L’intervista. L’editore Adolfo Morganti: “Mosca è ancora la Terza Roma”

Fuente: Raigambre

jeudi, 17 octobre 2013

Christopher Gérard Interviews Dominique Venner

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Christopher Gérard Interviews Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com

Translated by Giuliano Adriano Malvicini

Translator’s Note:

The following is an interview with Dominique Venner from 2001, originally published on the occasion of the release of his book Dictionnaire amoureux de la chasse. It seems fitting, as a last farewell, to let Dominique Venner himself speak.

Christopher Gérard: Who are you? How do you define yourself? A werewolf, a white falcon?

Dominique Venner: I am a Frenchman of Europe, or a European whose mother tongue is French, of Celtic and Germanic ancestry. On my father’s side, I am of old Lorraine peasant stock, but they originally emigrated from the German part of Switzerland in the seventeenth century. My mother’s family, many of whom chose military careers, is originally from Provence and Vivarais. I myself was born in Paris. I am a European by ancestry, but birth isn’t enough on its own, if one doesn’t possess the consciousness of being what one is. I exist only through roots, through a tradition, a history, a territory. I will add that I was destined to dedicate myself to arms. Certainly, there is a trace of that in the steel in my pen, the instrument of my profession of writer and historian. Should I add to this brief portrait the epithet of werewolf? Why not? A terror to “right-minded” people, an initiate of the mysteries of the forest, the werewolf is a figure in which I can recognize myself.

CG: In Le Cœur rebelle (The Rebellious Heart, 1994), you sympathetically evoke the memory of “an intolerant young man who carried within himself, as it were, the scent of a coming storm”: that was you when you fought first as a soldier in Algeria and then as political activist in France. So who was that young Kshatriya, where did he come from, who were his teachers, his favourite authors?

DV: That’s what the “white falcon” in your first question alluded to, the memory of intoxicating and dangerous times, during which the young man I was thought he could invert a hostile destiny through a violence that he had accepted as necessary. It may seem extremely presumptuous, but at the time, I didn’t recognize anyone as a teacher. Certainly, I looked for stimulus and recipes for action in Lenin’s What is to be Done? and in Ernst von Salomon’s The Outlaws. I might add that the readings of my childhood had contributed to forging a certain world-view that in the end remained rather unchanged. In no particular order, I’ll mention Military Education and Discipline Among the Ancients, a small book about Sparta that belonged to my maternal grandfather, a former officer, The Legend of the Eagle by Georges d’Esparbès, La Bande des Ayaks by Jean-Louis Foncine, The Call of the Wild by Jack London, and later the admirable Martin Eden. Those were the formative books I read at the age of ten or twelve. Later, at the age of twenty or twenty-five, I had of course gone on to read other things, but the bookstores back then were poorly stocked. Those years were a time of intellectual penury that is hard to imagine today. The library of a young activist, even one who devoured books, was small. In mine, besides historical works, prominent works were Reflections on Violence by Georges Sorel, The Conquerors by Malraux, The Genealogy of Morals by Nietzsche, Service inutile by Montherlant, and Le Romantisme fasciste by Paul Sérant, which was a revelation for me in the sixties. As you can see, that didn’t go very far. But even if my intellectual horizons were limited, my instincts went deep. Very early, when I was still a soldier, I felt that the war in Algeria was something very different from what the naive defenders of “French Algeria” said or thought. I had understood that it was an identitarian struggle for Europeans, since in Algeria they were threatened in their very existence by an ethnic adversary. I also felt that what we were defending there — very poorly — were the southern frontiers of Europe. Frontiers are always defended against invasions on the other side of oceans and rivers.

CG: In this book, which is something of an autobiography, you write: “I am from the land of trees and forests, of oaks and wild boars, of vineyards and sloping roofs, of epic poems and fairy-tales, of the winter and summer solstices.” What sort of a strange fellow are you?

DV: Very briefly stated, I am too consciously European to in any way feel like a spiritual descendant of Abraham or Moses, but do I feel that I am entirely a descendant of Homer, Epictetus, and the Round Table. That means that I look for my  bearings in myself, close to my roots, and not in faraway places that are entirely foreign to me. The sanctuary where I meditate is not the desert, but the deep and mysterious forest of my origins. My holy book is not the Bible, but the Iliad[1], the founding poem of the Western psyche, which has miraculously and victoriously crossed the sea of time. A poem that draws from the same sources as the Celtic and Germanic legends, and manifests the same spirituality, if one goes to the trouble to decode it. Nevertheless, I don’t ignore the centuries of Christianity. The cathedral of Chartres is a part of my world as much as Stonehenge or the Parthenon. That’s the heritage that we have to make our own. The history of the Europeans isn’t simple. After thousands of years of indigenous religion, Christianity was imposed on us through a series of historical accidents. But Christianity was itself partially transformed, “barbarized” by our ancestors, the barbarians, Franks and others. Christianity was often thought of by them as a transposition of the old cults. Behind the saints, people continued to celebrate the old gods without asking too many questions. And in the monasteries, monks often copied ancient texts without necessarily censoring them. This continuation of pre-Christian Europe still goes on today, but it takes other forms, despite all the efforts of biblical sermonizing. It seems especially important to take into account the development of Catholic traditionalists, who are often islands of health opposing the surrounding chaos with their robust families, their numerous children and their groups of physically fit youths. Their adherence to the continuity of family and nation, to discipline in education, the importance they place on standing firm in the face of adversity are of course things that are in no way specifically Christian. They are the residue of the Roman and Stoic heritage which the church had more or less carried on until the beginning of the twentieth century. On the other hand, individualism, contemporary cosmopolitanism, and the religion of guilt are, of course, secularized forms of Christianity, as are the extreme anthropocentrism and the desacralization of nature in which I see a source of a Faustian modernity gone mad, and for which we will have to pay a heavy price.

CG: In Le Cœur rebelle, you also say that “dragons are vulnerable and mortal. Heros and gods can always return. There is no fatality outside of the minds of men.” One thinks of Jünger, whom you knew personally, and who saw titans and gods at work . . .

DV: Killing all fatalist temptations within oneself is an exercise from which one may never rest. Aside from that, let’s not deprive images of their mystery and their multiple radiations, let’s not extinguish their light with rational interpretations. The dragon will always be part of the Western imagination. It symbolizes by turns the forces of the earth and destructive forces. It is through the victorious struggle against a monster that Hercules, Siegfried, or Theseus attained the status of hero. In the absence of heroes, it isn’t hard to recognize – in our age – the presence of various monsters which I don’t think are invincible, even if they appear to be.

CG: In your Dictionnaire amoureux de la chasse (Plon, 2000), you reveal the secrets of an old passion and you describe in veiled terms the secrets of an initiation. What have those hours of tracking given you, how have they transformed, even transfigured you?

DV: In spite of its title, this Dictionnaire amoureux is not at all a dictionary. I conceived it as a pantheistic poem for which hunting is only a pretext. I owe my most beautiful childhood memories to hunting. I also owe it the fact that I have been able to morally survive the periods of ghastly despair that followed the collapse of the hopes of my youth, and reestablish a balance. With or without a weapon, in the hunt, I return to the sources that I cannot do without: the enchanted forest, silence, the mystery of wild blood, the ancient comradeship of the clan. To me, hunting is not a sport. It is a necessary ritual in which each participant, predator or prey, plays the part assigned to it by its nature. Together with childbirth, death and seeding, I believe that hunting, if it is performed in accordance with the right norms, is the last primordial rite that has partially evaded the disfigurements and the deadly manipulations of modernity.

CG: Elsewhere in this book, you evoke several ancient myths, several figures from still clandestine pantheons. I’m thinking of the myth of the Wild Hunt and the figure of Mithras. What do they mean to you?

DV: We could add to the list, most notably Diana-Artemis, the goddess of childbirth, the protector of pregnant women, of cows in calf, of vigorous children, of life in its dawn. She is both the great predator and the great protector of animality, which is what the best hunters also are. Her figure corresponds to the ancients’ idea of nature, which is the complete opposite of the  saccharine notions of a Jean-Jacques Rousseau and of sunday strollers. They knew that nature was fearsome to the weak, and pitiless. It is through force that Artemis defends the inviolable realm of the wild. She ferociously kills those mortals who through their excesses put nature in danger. That’s what happened to two furious hunters, Orion and Acteon. By violating her, they had transgressed the limits beyond which the order of the world falls into chaos. That symbol hasn’t aged, on the contrary.

CG: If there is an omnipresent figure in your book, it is the forest, the refuge of outcasts and rebels . . .

DV: The whole literature of the Middle Ages – the chansons de geste or the Arthurian legends – saturated as it is with celtic spirituality, invariably embellishes on the theme of the forest, that dangerous world, that refuge of spirits and fairies, hermits and rebels, which is also a place of purification for the tormented soul of the knight, whether his name be Lancelot, Percival, or Yvain. In chasing a deer or a wild boar, the hunter penetrated its spirit. By eating the animal’s heart, he appropriated its strength. In the lay of Tyolet, by killing the roebuck, the hero gains the ability to understand the spirit of wild nature. I feel that very strongly. For me, entering the forest is much more than a physical need, it is a spiritual necessity.

CG: Could you recommend a few great novels about hunting still in print?

DV: The first that comes to mind is Les Veillées de Saint-Hubert by the Marquis de Foudras, a collection of short stories recently re-published by Pygmalion. Foudras was a marvelous story-teller, as was his countryman and successor Henri Vincenot — whose La Billebaude one of course has to read. He was to the world of castles and hunting with hounds what Vincenot is to that of thatched cottages and poaching. Among the great novels that initiate the reader into the mysteries of the hunt, one of the best is Le Guetteur d’ombres by Pierre Moinot, which transcends well-crafted literary narrative. In the abundant production of Paul Vialar, who was made famous by La grande Meute, I have soft spot for La Croule, a term that refers to the mating call of the woodcock. It’s a pretty novel, a quick read. The main character is a young woman, the kind one would like to meet once in a while, one who possesses a passion for the ancestral domain. I also suggest reading La Forêt perdue, a short and magnificent medieval poem in which Maurice Genevoix lets us re-experience the spirit of Celtic mythology through the impossible pursuit of a huge, invulnerable deer by a relentless huntsman, in whom we discover a young and daring Knight with a pure soul.

Vernal equinox MMI

Notes

1. Dominique Venner adds that the harsh and rhythmical translation of Leconte de Lisle (from around 1850) is his favourite. This version of the Iliad and the Odyssey is available in two volumes from éditions Pocket.

All rights and copyright by Christopher Gérard

(It is absolutely forbidden to copy or share this particular interview anywhere else on the internet without prior asking of the respective author Christopher Gérard.)

Editor’s Note: I have no way of contacting Christopher Gérard, but he is welcome to contact me at editor@counter-currents.com.

Source: http://eurocontinentalism.wordpress.com/2013/10/05/an-interview-with-dominique-venner/ [2]


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mercredi, 21 août 2013

L'héritage de Dominique Venner

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L'héritage de Dominique Venner

Entretien avec Aliénor Marquet

« Son œuvre ? Des centaines de milliers,
sans doute même des millions d’exemplaires de ses livres,
de ses articles, une revue d’histoire qui va perdurer
au-delà de sa disparition…
Pour ses détracteurs,
il a peut-être “débarrassé le plancher”,
mais il a, à l’évidence,
laissé aux générations futures
de fructueuses munitions»

 

L’historien et essayiste, ancien combattant de l’Algérie française et fondateur de la Nouvelle Revue d’Histoire (NRH) s’est donné la mort le lendemain de Pentecôte devant l’autel de la cathédrale Notre-Dame de Paris, laissant un testament politique dans lequel il appelait à des actions spectaculaires et symboliques pour « ébranler les somnolences », expliquant que « nous entrons dans un temps où les paroles doivent être authentifiées par des actes »… De nombreux hommages lui ont été rendus.

Entretien d’Aliénor Marquet avec Philippe Randa qui lui a consacré un chapitre de son livre Ils ont fait la guerre.Les écrivains guerriers, préfacé par Jean Mabire (éditions Déterna, « Documents pour l’Histoire », 3e édition).

Quel souvenir vous a laissé votre première rencontre rencontre avec Dominique Venner ?

Il s’agissait de l’interviewer pour la revue Hommes de Guerre, dirigée par Jean Mabire. Le souvenir d’avoir affaire à quelqu’un qui savait très exactement, très minutieusement, comment devait se dérouler notre entretien. Il avait préparé questions et réponses ; les premières rejoignaient celles que j’avais préparées et donc « l’interview » pour article a été rapidement exécuté… Nous avons pu passer la suite de notre déjeuner dans une discution qui n’a fait que confirmer que Dominique Venner était quelqu’un dont la vision du monde, l’action et la pensée était parfaitement réfléchies, organisées…

Qu’il ait mis fin volontairement à ses jours ne m’étonne donc pas ; c’est dans la droite ligne de son personnage.

Certains qualifient Dominique Venner de « réformateur du nationalisme français » et même de « créateur de l’extrême-droite moderne » ; partagez-vous cet avis ?

Pour ma part, j’ai toujours été plus sensible au Dominique Venner historien que théoricien. Peut-être parce que je ne l’ai pas connu à l’époque où il était engagé politiquement… Je suis même assez surpris que beaucoup l’appréhende comme un théoricien, mais c’est un fait… Si par ailleurs, j’ai eu toujours de très bons contacts avec Dominique Venner, je n’en ai jamais été proche, comme je l’ai été de Jean Mabire, par exemple… Si cela avait été le cas, mon opinion serait sans doute différente.

Vous partagez avec lui une vision européiste pour l’avenir de notre pays… Ne pensez-vous pas que l’Union européenne actuelle a déconsidérée une telle vision ?

La ligne « souverainiste », défendue par un éventail assez large de la classe politique, ne me semble pas être d’un dynamisme remarquable, se contentant généralement de pointer les défaillances évidentes de l’Union européenne actuelle… Étant pour ma part un partisan de l’Europe des régions, je ne peux que reconnaître la justesse de la plupart des critiques émises par les souverainistes, sans adhérer le moins du monde à leur obsession d’un retour au pré carré des Nations… Pour faire une comparaison avec votre prochaine question, c’est comme les critiques que certains émettent sur les religions monotéïstes en prônant un retour à des religions polythéistes mortes, mais qu’ils envisagent pourtant avec le plus grand sérieux de ressusciter.

Êtes-vous choquée par l’endroit choisi par Dominique Venner pour mettre fin à ses jours ?

Dominique Venner a laissé une lettre expliquant qu’il admirait ce lieu de culte, « génie de ses aïeux » et ne voulait en rien choquer les chrétiens, mais « choquer » dans le sens de « réveiller » sa « patrie française et européenne » ; il a demandé à ses proches de comprendre le sens de son geste… Prenons acte de ses intentions. Quant à être fondateur de quoi que ce soit, je ne le crois pas… Nous sommes à une époque où un suicide, quelles qu’en soient les motivations, est perçu comme le simple acte d’un déséquilibré… Comme l’a dit Alain Soral à Nicolas Gauthier dans un entretien paru sur le site Boulevard Voltaire : « L’immense majorité des soumis, n’y verront que “le bon débarras d’un vieux con d’extrême droite” et sont déjà passés à autre chose… » On ne peut, hélas, être plus cyniquement réaliste.

Dominique Venner n’ouvrait pas les colonnes de la NRH à certains auteurs jugés sulfureux… Pensez-vous que l’intérêt de la revue de Venner – qui savait jusqu’où aller trop loin –, n’était pas justement, en ne franchissant pas la ligne rouge, de pouvoir durer et toucher un public « hors milieu » par le biais de sa distribution en kiosque ?

J’ignore absolument tout de la non-collaboration de certains auteurs à sa revue et des motifs pour cela… Qui sont les « On » et de quels droits reprochent-ils les choix de collaboration d’un directeur de publication ? Il est quand même, me semble-t-il « maître et charbonnier chez lui »… Pour ma part, quand j’émets des reproches, c’est sur un texte qui a été publié et non sur ceux qui ne l’ont pas été… Et pour ma part toujours, je juge ce qui a été écrit et non pas par qui cela a été écrit… Les collaborations à la NRH ont été suffisamment éminentes, riches et multiples pour qu’on s’en réjouisse sans chercher chicane sur celles qui n’y ont pas figurées.

Votre politique éditoriale est différente…

J’applique évidemment dans ma politique éditoriale ce que je viens d’expliquer… Libre à ceux que je n’ai pas publié pour des raisons que leur ai indiqué et qui ne regardent qu’eux et moi, d’en penser ce qu’ils veulent… Quant à ceux qui jugent les auteurs ou les œuvres que j’ai ou vais publier dans le futur comme des « provocations », c’est participer à la diabolisation de certains auteurs, de certaines pensées, c’est admettre implicitement qu’on ne peut pas lire certains livres ou certains auteurs pour comprendre le passé ou répondre aux défis du présent, mais simplement pour « faire du buz », selon une expression contemporaine… Si certains me considèrent comme un provocateur, qui puis-je ? Je n’ai pas de temps à perdre avec eux.

Dominique Venner avait ses choix de collaboration, j’ai les miens éditoriaux… Je doute que lui m’ait considéré comme un provocateur, pas plus que je ne l’ai considéré comme d’une trop grande prudence… « On » peut bien penser ça de lui ou de moi… Je doute qu’un tel jugement l’ait beaucoup chagriné de son vivant. Quant à moi, ai-je besoin d’être plus explicite ? Sinon, je peux citer Michel Audiard qui avait des saillies assez justes pour qualifier tous les « On » de France et de Navarre. Et d’ailleurs !

La dichotomie nationaux/nationalistes qu’il avait introduite s’appliquerait donc aussi à la presse et à l’édition ? Et lui, le révolutionnaire, aurait tenu le rôle du national pendant que vous tenez celui du nationaliste ?

Je suis fatigué de l’éternel débat entre « nationaux » et «  nationalistes », entre « révolutionnaires » et « réactionnaires », entre « républicains » et « fascistes »… C’est un vocabulaire obsolète qui empêche tout véritable débat et ne correspond plus en rien à notre siècle. Que l’on prenne position sur des débats actuels avec un vocabulaire adapté me semble plus fécond… Quant à savoir si Dominique Venner ou moi-même ou d’autres encore tiennent des « rôles » et quelles sont les différences entre nous, c’est vouloir absolument étiqueter les uns et les autres… L’ennui, avec les étiquettes, c’est qu’elles correspondent rarement à la réalité et n’ont d’autres finalités que réduire l’expression ou la crédibilité de ceux qui en sont victimes… Intéressons-nous à ce qu’écrivent les uns ou les autres, cherchons à en tirer le bon grain utile de l’ivraie stérile… Pour jouer un rôle, il faut être dans une pièce où un maître-d’œuvre distribue justement les rôles… Je ne pense pas que Dominique Venner ait obéi à qui que ce soit pour « jouer » une partition écrite par d’autres… Ce n’est pas mon cas non plus.

Quel regard le professionnel de la presse et de l’édition que vous êtes porte-t-il sur l’œuvre de Dominique Venner ?

Dominique Venner a vécu une époque où les idées qu’il défendait n’étaient pas en « odeur de sainteté politique »… Il n’a donc pas connu la notoriété des plateaux de télévisions et n’a guère été invité dans les grandes universités pour débattre comme tant d’autres auteurs de bien moindre talent… Ce n’est pas le seul dans ce cas ; ses amis et complices Jean Mabire ou Jean Bourdier hier, Alain de Benoist aujourd’hui encore, sont cloués au même pilori d’exclusion… Reste son œuvre. Des centaines de milliers, sans doute même des millions d’exemplaires de ses livres, de ses articles, une revue d’histoire qui va perdurer au-delà de sa disparition… Pour ses détracteurs, il a peut-être « débarrassé le plancher », mais il a, à l’évidence, laissé aux générations futures de fructueuses munitions qui pourraient être d’importance pour « refonder notre future renaissance en rupture avec la métaphysique de l’illimité, source néfaste de toutes les dérives modernes », selon ses derniers désirs exprimés dans sa lettre-testament.

Ils ont fait la guerre. Les Écrivains guerriers, Philippe Randa, collection « Documents pour l’Histoire », éditions Déterna, 304 pages, 31 euros

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samedi, 08 juin 2013

Euro-Atlantism must be replaced by Eurasianism

Euro-Atlantism must be replaced by Eurasianism

by Gabor VONA

Ex: http://www.geopolitica.ru/

 

- Mr. Vona, what is main idea of your political party and why is it important for Hungary to make revision of the relations with EU?

- Jobbik is a national conservative party which does not refrain from using radical means. So when they label us as radicals, they are wrong.  Radicalism is not a principle, it is a method. The reason why we are radicals is because the situation is radical as well. At the moment, we Hungarians are sick passengers on a sinking European ship that has lost its values. This is unbearable. First we must get off the ship, then cure our diseases. Hungary was not admitted to the EU so that we could develop. The goal was to colonize us, to exploit our cheap labour and acquire our markets. Western companies and banks now try to maintain their systems by using the profit they pump out of our country in the East. And this is just the economic side of the problem. The EU did not bring any good in terms of the spiritual, mental side, either. After the anti-value approach of Communism, we are now living in the valuelessness of capitalism. I personally follow traditionalist principles, in other words, I believe that Europe should get back to its own roots and rearrange its relationship with other traditional cultures that only exist in the East now.

- Jobbik has image of ultra right political party in Hungary and in Europe too. Do you agree with this label or have other outlook that can not be dealing with classical terms of "right", "left" and so on?

- If modernity, which stretches from the Renaissance through the Age of Enlightenment to global capitalism, is identified with the political left, then we definitely belong to the right. I and my party, however, cannot be located by using the left and right coordinates of current politology. The best way is to say that Jobbik is a national radical party, which is not chauvinistic, which defies global capitalism and three of its key representatives, the USA, the EU and Israel, from the platform of universal human values.

- Euroscepticism is very different in EU. Please can you to describe some particular issues ofHungary and neighbour countries related with this topic? What is role of euroatlanticism strategy in this process?

- The disapproval rate of the EU has just exceeded its approval rate in Hungary for the first time. There was an incredible brainwashing going on in the 1990s, so most people believed it was going to be good to join the EU, and that there was no other option. By now more and more people have realized that the whole thing was a setup. The Union needs markets, cheap labour and a garbage dump. How naive we were when we thought that the West was going to provide a historic compensation for the East to counterbalance  their exploiting and abandoning us quite a few times in history! The same applies to the neighbouring countries as well but Hungary is in the worst situation. The previous government signed every paper Brussels laid down in front of them, the current one is only interested in its own power, and antagonizes the whole EU for it. The common ground of the two governments is that neither has any concept whatsoever. So far I am the only politician in Hungary to declare that Euro-Atlantism must be replaced by Eurasianism.

- Did financial crisis had influence on protectionism moods or general aspects is civilizational and values factors? How much involved NGO's and external powers in desintegration of hole hungarian system (territory-language-culture-etc.)?

- The economic crisis indeed has a great influence on scepticism. The situation has revealed that the EU does not represent the interests of the whole community but the major Western member states - France, England, Germany. The influence of various external powers and organizations is becoming more and more obvious in people's eyes. I can go as far as to say that there is a revolution of consciousness going on in Hungary. This is of course painful, because people must give up many illusions, but it is inevitable because the future must be built on truth and reality. Consequently, what now seems to be a confusion in Hungarian society will clear  up, I hope, and give way to a society that is much more self-aware and has much clearer thinking.

 - If we'll look inside of Hungarian identity we'll find eurasian roots of this nation. How much this line presented in your politics?

- Completely.  The Hungarian nation has Turkic origin, and was formed by the Russian steppes into what it is now, then wandered to the West to establish a state in the Carpathian basin. Our Western integration has been going on for centuries, but we have never forgotten our Eastern origin and they could never uproot this concept from our minds. This duality has often had its drawbacks for us, but I believe it could be beneficial this time.

 - By the way what about connection with Russia in geopolitcal sense of nowadays?

- Jobbik is an anti-Communist party, yet we were the first in Hungary to seriously propose to settle our relations with the Russians. Not only in diplomatic speeches, but in reality as well. At the time of the Georgian conflict, when the whole Hungarian political elite was voicing their agreement with the American interests, we declared that this issue was about something completely different. When Viktor Orbán was sending sulky messages to Russia from opposition back in 2009, we already declared that he was making a huge mistake. Personally, I have good relations with several Russian diplomats in Budapest, and I am very happy that the Russian Embassy is always represented at our year-opening conferences. In my foreign policy plans, Russia - in addition to Germany and Turkey - is a key political and economic ally, partner for Hungary. 

- If we'll speak about global processes what is your position and prognosis for forthcoming events? How long U.S. will be superpower yet? What is E.U. future and how Eurasian integration will happens?

- Difficult question. The agony has definitely started and a new world order will have to be established. The alliance of the BRICS countries clearly shows that the time of the USA and EU has passed. The most fortunate turn of events would be if they themselves realized it, because that could prevent major conflicts and give way to a peaceful transformation. With regard to the framework of Eurasian cooperation, I don't see the actual opportunities yet, because first we must define the basic values and the consequent strategy that could attract the widest possible circles. This is the challenge now, and Jobbik is the only Hungarian political entity willing to meet it. The others are all Atlanticists, and they will remain so until history passes them.

- Thank you Mr. Vona for interview. Do you want to add something for our readers?

- Thank you for the opportunity.

By Leonid Savin

vendredi, 10 mai 2013

Le Qatar, champion du mensonge et de la dissimulation

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Le Qatar, champion du mensonge et de la dissimulation

Majed Nehmé
 
Ex: http://www.legrandsoir.info/
 

AFRIQUE-ASIE : Sans sponsors et en toute indépendance, à contre-courant des livres de commande publiés récemment en France sur le Qatar, Nicolas Beau et Jacques-Marie Bourget* ont enquêté sur ce minuscule État tribal, obscurantiste et richissime qui, à coup de millions de dollars et de fausses promesses de démocratie, veut jouer dans la cour des grands en imposant partout dans le monde sa lecture intégriste du Coran. Un travail rigoureux et passionnant sur cette dictature molle, dont nous parle Jacques-Marie Bourget.

Écrivain et ancien grand reporter dans les plus grands titres de la presse française, Jacques-Marie Bourget a couvert de nombreuses guerres : le Vietnam, le Liban, le Salvador, la guerre du Golfe, la Serbie et le Kosovo, la Palestine… C’est à Ramallah qu’une balle israélienne le blessera grièvement. Grand connaisseur du monde arabe et des milieux occultes, il publiait en septembre dernier avec le photographe Marc Simon, Sabra et Chatila, au cœur du massacre (Éditions Érick Bonnier, voir Afrique Asie d’octobre 2012)

Nicolas Beau a longtemps été journaliste d’investigation à Libération, au Monde et au Canard Enchainé avant de fonder et diriger le site d’information satirique français, Bakchich. info. Il a notamment écrit des livres d’enquêtes sur le Maroc et la Tunisie et sur Bernard-Henri Lévy.

Qu’est-ce qui vous a amenés à consacrer un livre au Qatar ?

Le hasard puis la nécessité. J’ai plusieurs fois visité ce pays et en suis revenu frappé par la vacuité qui se dégage à Doha. L’on y a l’impression de séjourner dans un pays virtuel, une sorte de console vidéo planétaire. Il devenait intéressant de comprendre comment un État aussi minuscule et artificiel pouvait prendre, grâce aux dollars et à la religion, une telle place dans l’histoire que nous vivons. D’autre part, à l’autre bout de la chaîne, l’enquête dans les banlieues françaises faite par mon coauteur Nicolas Beau nous a immédiatement convaincus qu’il y avait une stratégie de la part du Qatar enfin de maîtriser l’islam aussi bien en France que dans tout le Moyen-Orient et en Afrique. D’imposer sa lecture du Coran qui est le wahhabisme, donc d’essence salafiste, une interprétation intégriste des écrits du Prophète. Cette sous-traitance de l’enseignement religieux des musulmans de France à des imams adoubés par le Qatar nous a semblé incompatible avec l’idée et les principes de la République. Imaginez que le Vatican, devenant soudain producteur de gaz, profite de ses milliards pour figer le monde catholique dans les idées intégristes de Monseigneur Lefebvre, celles des groupuscules intégristes qui manifestent violement en France contre le « mariage pour tous ». Notre société deviendrait invivable, l’obscurantisme et l’intégrisme sont les meilleurs ennemis de la liberté.

Sur ce petit pays, nous sommes d’abord partis pour publier un dossier dans un magazine. Mais nous avons vite changé de format pour passer à celui du livre. Le paradoxe du Qatar, qui prêche la démocratie sans en appliquer une seule once pour son propre compte, nous a crevé les yeux. Notre livre sera certainement qualifié de pamphlet animé par la mauvaise foi, de Qatar bashing… C’est faux. Dans cette entreprise nous n’avons, nous, ni commande, ni amis ou sponsors à satisfaire. Pour mener à bien ce travail, il suffisait de savoir lire et observer. Pour voir le Qatar tel qu’il est : un micro-empire tenu par un potentat, une dictature avec le sourire aux lèvres.

Depuis quelques années, ce petit émirat gazier et pétrolier insignifiant géopolitiquement est devenu, du moins médiatiquement, un acteur politique voulant jouer dans la cour des grands et influer sur le cours de l’Histoire dans le monde musulman. Est-ce la folie des grandeurs ? Où le Qatar sert-il un projet qui le dépasse ?

Il existe une folie des grandeurs. Elle est encouragée par des conseillers et flagorneurs qui ont réussi à convaincre l’émir qu’il est à la fois un tsar et un commandeur des croyants. Mais c’est marginal. L’autre vérité est qu’il faut, par peur de son puissant voisin et ennemi saoudien, que la grenouille se gonfle. Faute d’occuper des centaines de milliers de kilomètres carrés dans le Golfe, le Qatar occupe ailleurs une surface politico-médiatique, un empire en papier. Doha estime que cette expansion est un moyen de protection et de survie.

Enfin il y a la religion. Un profond rêve messianique pousse Doha vers la conquête des âmes et des territoires. Ici, on peut reprendre la comparaison avec le minuscule Vatican, celui du xixe siècle qui envoyait ses missionnaires sur tous les continents. L’émir est convaincu qu’il peut nourrir et faire fructifier une renaissance de la oumma, la communauté des croyants. Cette stratégie a son revers, celui d’un possible crash, l’ambition emportant les rêves du Qatar bien trop loin de la réalité. N’oublions pas aussi que Doha occupe une place vide, celle libérée un temps par l’Arabie Saoudite impliquée dans les attentats du 11-Septembre et contrainte de se faire plus discrète en matière de djihad et de wahhabisme. Le scandaleux passe-droit dont a bénéficié le Qatar pour adhérer à la Francophonie participe à cet objectif de « wahhabisation » : en Afrique, sponsoriser les institutions qui enseignent la langue française permet de les transformer en écoles islamiques, Voltaire et Hugo étant remplacés par le Coran.

Cette mégalomanie peut-elle se retourner contre l’émir actuel ? Surtout si l’on regarde la brève histoire de cet émirat, créé en 1970 par les Britanniques, rythmée par des coups d’État et des révolutions de palais.

La mégalomanie et l’ambition de l’émir Al-Thani sont, c’est vrai, discrètement critiquées par de « vieux amis » du Qatar. Certains, avançant que le souverain est un roi malade, poussent la montée vers le trône de son fils désigné comme héritier, le prince Tamim. Une fois au pouvoir, le nouveau maître réduirait la voilure, notamment dans le soutien accordé par Doha aux djihadistes, comme c’est le cas en Libye, au Mali et en Syrie. Cette option est même bien vue par des diplomates américains inquiets de cette nouvelle radicalité islamiste dans le monde. Alors, faut-il le rappeler, le Qatar est d’abord un instrument de la politique de Washington avec lequel il est lié par un pacte d’acier.

Cela dit, promouvoir Tamim n’est pas simple puisque l’émir, qui a débarqué son propre père par un coup d’État en 1995, n’a pas annoncé sa retraite. Par ailleurs le premier ministre Jassim, cousin de l’émir, le tout-puissant et richissime « HBJ », n’a pas l’intention de laisser un pouce de son pouvoir. Mieux : en cas de nécessité, les États-Unis sont prêts à sacrifier et l’émir et son fils pour mettre en place un « HBJ » dévoué corps et âme à Washington et à Israël. En dépit de l’opulence affichée, l’émirat n’est pas si stable qu’il y paraît. Sur le plan économique, le Qatar est endetté à des taux « européens » et l’exploitation de gaz de schiste est en rude concurrence, à commencer aux États-Unis.

La présence de la plus grande base américaine en dehors des États-Unis sur le sol qatari peut-elle être considérée comme un contrat d’assurance pour la survie du régime ou au contraire comme une épée de Damoclès fatale à plus ou moins brève échéance ?

La présence de l’immense base Al-Udaï est, dans l’immédiat, une assurance vie pour Doha. L’Amérique a ici un lieu idéal pour surveiller, protéger ou attaquer à son gré dans la région. Protéger l’Arabie Saoudite et Israël, attaquer l’Iran. La Mecque a connu ses révoltes, la dernière réprimée par le capitaine Barril et la logistique française. Mais Doha pourrait connaître à son tour une révolte conduite par des fous d’Allah mécontents de la présence du « grand Satan » en terre wahhabite.

Ce régime, moderne d’apparence, est en réalité fondamentalement tribal et obscurantiste. Pourquoi si peu d’informations sur sa vraie nature ?

Au risque de radoter, il faut que le public sache enfin que le Qatar est le champion du monde du double standard : celui du mensonge et de la dissimulation comme philosophie politique. Par exemple, des avions partent de Doha pour bombarder les taliban en Afghanistan alors que ces mêmes guerriers religieux ont un bureau de coordination installé à Doha, à quelques kilomètres de la base d’où décollent les chasseurs partis pour les tuer. Il en va ainsi dans tous les domaines, et c’est le cas de la politique intérieure de ce petit pays.

Regardons ce qui se passe dans ce coin de désert. Les libertés y sont absentes, on y pratique les châtiments corporels, la lettre de cachet, c’est-à-dire l’incarcération sans motif, est une pratique courante. Le vote n’existe que pour nommer une partie des conseillers municipaux, à ceci près que les associations et partis politiques sont interdits, tout comme la presse indépendante… Une Constitution qui a été élaborée par l’émir et son clan n’est même pas appliquée dans tous ses articles. Le million et demi de travailleurs étrangers engagés au Qatar s’échinent sous le régime de ce que des associations des droits de l’homme qualifient « d’esclavage ». Ces malheureux, privés de leurs passeports et payés une misère, survivent dans les camps détestables sans avoir le droit de quitter le pays. Nombre d’entre eux, accrochés au béton des tours qu’ils construisent, meurent d’accidents cardiaques ou de chutes (plusieurs centaines de victimes par an).

La « justice », à Doha, est directement rendue au palais de l’émir, par l’intermédiaire de juges qui le plus souvent sont des magistrats mercenaires venus du Soudan. Ce sont eux qui ont condamné le poète Al-Ajami à la prison à perpétuité parce qu’il a publié sur Internet une plaisanterie sur Al-Thani ! Observons une indignation à deux vitesses : parce que cet homme de plume n’est pas Soljenitsyne, personne n’a songé à défiler dans Paris pour défendre ce martyr de la liberté. Une anecdote : cette année, parce que son enseignement n’était pas « islamique », un lycée français de Doha a tout simplement été retiré de la liste des institutions gérées par Paris.

Arrêtons là car la situation du droit au Qatar est un attentat permanent aux libertés.

Pourtant, et l’on retombe sur le fameux paradoxe, Doha n’hésite pas, hors de son territoire, à prêcher la démocratie. Mieux, chaque année un forum se tient sur ce thème dans la capitale. Son titre, « New or restaured democracy » alors qu’au Qatar il n’existe de démocratie ni « new » ni « restaured »… Selon le classement de The Economist, justement en matière de démocratie, le Qatar est 136e sur 157e États, classé derrière le Bélarusse. Bizarrement, alors que toutes les bonnes âmes fuient le dictateur moustachu Loukachenko, personne n’éprouve honte ou colère à serrer la main d’Al-Thani. Et le Qatar, qui est aussi un enfer, n’empêche pas de grands défenseurs des droits de l’homme, notamment français, de venir bronzer, invités par Doha, de Ségolène Royal à Najat Vallaud-Belkacem, de Dominique de Villepin à Bertrand Delanoë.

Comment un pays qui est par essence antidémocratique se présente-t-il comme le promoteur des printemps arabes et de la liberté d’expression ?

Au regard des « printemps arabes », où le Qatar joue un rôle essentiel, il faut observer deux phases. Dans un premier temps, Doha hurle avec les peuples justement révoltés. On parle alors de « démocratie et de liberté ». Les dictateurs mis à terre, le relais est pris par les Frères musulmans, qui sont les vrais alliés de Doha. Et on oublie les slogans d’hier. Comme on le dit dans les grandes surfaces, « liberté et démocratie » n’étaient que des produits d’appel, rien que de la « com ».

Si l’implication du Qatar dans les « printemps » est apparue comme une surprise, c’est que la stratégie de Doha a été discrète. Depuis des années l’émirat entretient des relations très étroites avec des militants islamistes pourchassés par les potentats arabes, mais aussi avec des groupes de jeunes blogueurs et internautes auxquels il a offert des stages de « révolte par le Net ». La politique de l’émir était un fusil à deux coups. D’abord on a envoyé au « front » la jeunesse avec son Facebook et ses blogueurs, mains nues face aux fusils des policiers et militaires. Ceux-ci défaits, le terrain déblayé, l’heure est venue de mettre en poste ces islamistes tenus bien au chaud en réserve, héros sacralisés, magnifiés en sagas par Al-Jazeera.

Comment expliquez-vous l’implication directe du Qatar d’abord en Tunisie et en Libye, et actuellement en Égypte, dans le Sahel et en Syrie ?

En Libye, nous le montrons dans notre livre, l’objectif était à la fois de restaurer le royaume islamiste d’Idriss tout essayant de prendre le contrôle de 165 milliards, le montant des économies dissimulées par Kadhafi. Dans le cas de la Tunisie et de l’Égypte, il s’agit de l’application d’une stratégie froide du type « redessinons le Moyen-Orient », digne des « néocons » américains. Mais, une fois encore, ce n’est pas le seul Qatar qui a fait tomber Ben Ali et Moubarak ; leur chute a d’abord été le résultat de leur corruption et de leur politique tyrannique et aveugle.

Au Sahel, les missionnaires qataris sont en place depuis cinq ans. Réseaux de mosquées, application habile de la zaqat, la charité selon l’islam, le Qatar s’est taillé, du Niger au Sénégal, un territoire d’obligés suspendus aux mamelles dorées de Doha. Plus que cela, dans ce Niger comme dans d’autres pays pauvres de la planète le Qatar a acheté des centaines de milliers d’hectares transformant ainsi des malheureux affamés en « paysans sans terre ». À la fin de 2012, quand les djihadistes ont pris le contrôle du Nord-Mali, on a noté que des membres du Croissant-Rouge qatari sont alors venus à Gao prêter une main charitable aux terribles assassins du Mujao…

La Syrie n’est qu’une extension du domaine de la lutte avec, en plus, une surenchère : se montrer à la hauteur de la concurrence de l’ennemi saoudien dans son aide au djihad. Ici, on a du mal à lire clairement le dessein politique des deux meilleurs amis du Qatar, les États-Unis et Israël, puisque Doha semble jouer avec le feu de l’islamisme radical…

Le Fatah accuse le Qatar de semer la zizanie et la division entre les Palestiniens en soutenant à fond le Hamas, qui appartient à la nébuleuse des Frères musulmans. Pour beaucoup d’observateurs, cette stratégie ne profite qu’à Israël. Partagez-vous cette analyse ?

Quand on veut évoquer la politique du Qatar face aux Palestiniens, il faut s’en tenir à des images. Tzipi Livni, qui fut avec Ehud Barak la cheville ouvrière, en 2009, de l’opération Plomb durci sur Gaza – 1 500 morts – fait régulièrement ses courses dans les malls de Doha. Elle profite du voyage pour dire un petit bonjour à l’émir. Un souverain qui, lors d’une visite discrète, s’est rendu à Jérusalem pour y visiter la dame Livni… Souvenons-nous du pacte signé d’un côté par HBJ et le souverain Al-Thani et de l’autre les États-Unis : la priorité est d’assister la politique d’Israël. Quand le « roi » de Doha débarque à Gaza en promettant des millions, c’est un moyen d’enferrer le Hamas dans le clan des Frères musulmans pour mieux casser l’unité palestinienne. C’est une politique pitoyable. Désormais, Mechaal, réélu patron du Hamas, vit à Doha dans le creux de la main de l’émir. Le rêve de ce dernier – le Hamas ayant abandonné toute idée de lutte – est de placer Mechaal à la tête d’une Palestine qui se situerait en Jordanie, le roi Abdallah étant déboulonné. Israël pourrait alors s’étendre en Cisjordanie. Intéressante politique-fiction.

Le Qatar a-t-il « acheté » l’organisation de la Coupe du monde football en 2022 ?

Un grand et très vieil ami du Qatar m’a dit : « Le drame avec eux, c’est qu’ils s’arrangent toujours pour que l’on dise “cette fois encore, ils ont payé !” » Bien sûr, il y a des soupçons. Remarquons que les fédérations sportives sont si sensibles à la corruption que, avec de l’argent, acheter une compétition est possible. On a connu cela avec des jeux Olympiques étrangement attribués à des outsiders…

Dans le conflit frontalier entre le Qatar et le Bahreïn, vous révélez que l’un des juges de la Cour internationale de justice de La Haye aurait été acheté par le Qatar. L’affaire peut-elle être rejugée à la lumière de ces révélations ?

Un livre – sérieux celui-là – récemment publié sur le Qatar évoque une manipulation possible lors du jugement arbitral qui a tranché le conflit frontalier entre le Qatar et Bahreïn. Les enjeux sont énormes puisque, sous la mer et les îlots, se trouve du gaz. Un expert m’a déclaré que cette révélation pouvait être utilisée pour rouvrir le dossier devant la Cour de La Haye…

Les liaisons dangereuses et troubles entre la France de Sarkozy et le Qatar se poursuivent avec la France de Hollande. Comment expliquez-vous cette continuité ?

Parler du Qatar, c’est parler de Sarkozy, et inversement. De 2007 à 2012, les diplomates et espions français en sont témoins, c’est l’émir qui a réglé la « politique arabe » de la France. Il est amusant de savoir aujourd’hui que Bachar al-Assad a été l’homme qui a introduit la « sarkozie » auprès de celui qui était alors son meilleur ami, l’émir du Qatar. Il n’y a pas de bonne comédie sans traîtres. Kadhafi était, lui aussi, un grand ami d’Al-Thani et c’est l’émir qui a facilité l’amusant séjour du colonel et de sa tente à Paris. Sans évoquer les affaires incidentes, comme l’épopée de la libération des infirmières bulgares. La relation entre le Qatar et Sarkozy a toujours été sous-tendue par des perspectives financières. Aujourd’hui Doha promet d’investir 500 millions de dollars dans le fonds d’investissement que doit lancer l’ancien président français à Londres. Échange de bons procédés, ce dernier fait de la propagande ou de la médiation dans les aventures, notamment sportives, du Qatar.

François Hollande, par rapport au Qatar, s’est transformé en balancier. Un jour le Qatar est « un partenaire indispensable », qui a sauvé dans son fief de Tulle la fabrique de maroquinerie le Tanneur, le lendemain, il faut prendre garde de ses amis du djihad. Aucune politique n’est fermement dessinée et les diplomates du Quai-d’Orsay, nommés sous Sarkozy, continuent de jouer le jeu d’un Doha qui doit rester l’ami numéro 1. En période de crise, les milliards miroitants d’Al-Thani impliquent aussi une forme d’amitié au nom d’un slogan faux et ridicule qui veut que le Qatar « peut sauver l’économie française »… La réalité est plus plate : tous les investissements industriels de Doha en France sont des échecs… Reste le placement dans la pierre, vieux bas de laine de toutes les richesses. Notons là encore un pathétique grand écart : François Hollande a envoyé son ministre de la Défense faire la quête à Doha afin de compenser le coût de l’opération militaire française au Mali, conduite contre des djihadistes très bien vus par l’émir.

Majed Nehmé

http://www.afrique-asie.fr/menu/actualite/70-points-chauds/5510-le-qat...

* Le Vilain Petit Qatar – Cet ami qui nous veut du mal, Jacques-Marie Bourget et Nicolas Beau, Éd. Fayard, 300 p., 19 euros

URL de cet article 20343
http://www.legrandsoir.info/le-qatar-champion-du-mensonge-et-de-la-dissimulation.html

Italia sotto attacco

Italia sotto attacco

Marco della Luna: quinte colonne della finanza internazionale presenti nel governo

Federico Dal Cortivo

Federico Dal Cortivo ha intervistato Marco Della Luna, autore del libro “Traditori al governo? Artefici, complici e strategie della nostra rovina”. L’Italia è oramai da anni sotto attacco, non militare, non ve ne è bisogno essendo la penisola dalla fine della Seconda Guerra Mondiale occupata militarmente dagli Stati Uniti, ma economicamente.Gli obiettivi fin troppo chiari: distruggere completamente il sistema Italia che era fatto anche d’imprese anche a partecipazione statale, lo Stato sociale, le regole del mondo del lavoro, la previdenza pubblica e la sanità, la scuola e l’università dello Stato e infine mettere le mani sul nostro patrimonio economico, colonizzando definitivamente la penisola.
 
Avv. Della Luna lei ha recentemente pubblicato un saggio da titolo eloquente, “Traditori al governo”, nel quale analizza in modo esauriente le dinamiche e i personaggi che hanno portato la nostra nazione al punto in cui si trova oggi dopo l’ultimo governo tecnico di Mario Monti . Quali sono stati a suo avviso i passaggi fondamentali che ci hanno portato alla situazione attuale di grave crisi economica?
Le principali tappe della rovina voluta, e finalizzata a dissolvere il tessuto produttivo del Paese, desertificandolo industrialmente e assoggettandolo alla gestione via centrali bancarie fuori dai suoi confini, onde farne territorio di conquista per capitali stranieri, sono i seguenti:
- la progressiva e totale privatizzazione-divorzio dal Ministero del Tesoro della proprietà e della gestione della Banca d’Italia, con l’affidamento ai mercati speculativi del nostro debito pubblico e del finanziamento dello Stato (operazione avviata con Ciampi e Andreatta negli anni Ottanta);
- l’immediato, conseguente raddoppio del debito pubblico (da 60 a 120% del pil) a causa della moltiplicazione dei tassi, e la creazione di una ricattabilità politica strutturale del Paese da parte della finanza privata;
- la svendita agli amici/complici e ai più ricchi e potenti, stranieri e italiani, delle industrie che facevano capo allo Stato e che erano le più temibili concorrenti per le grandi industrie straniere;
- la privatizzazione, con modalità molto “riservate”, ma col favore di quasi tutto l’arco politico, della Banca d’Italia per mezzo della privatizzazione delle banche di credito pubblico (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Banca Nazionale del Lavoro, Credito Italiano, con le loro quote di proprietà della Banca d’Italia);
- la riforma Draghi-Prodi che nel 1999 ha autorizzato le banche di credito e risparmio alle scommesse speculative in derivati usando i soldi dei risparmiatori e alle cartolarizzazioni di mutui anche fasulli, come i subprime loans americani;
- l’apertura delle frontiere alla concorrenza sleale dei Paesi che producono schiavizzando i lavoratori e bruciando l’ambiente;
- l’adesione a tre successivi sistemi monetari – negli anni Settanta, Ottanta e Novanta – che impedivano gli aggiustamenti fisiologici dei cambi tra le valute dei paesi partecipanti – anche l’Euro non è una moneta, ma il cambio fisso tra le preesistenti monete – con l’effetto di far perdere competitività, industrie e capitali ai paesi meno competitivi in favore di quelli più competitivi, che quindi accumulano crediti verso i primi, fino a dominarli e commissariarli.
Da ultimo, le misure fiscali del governo Monti-Napolitano-ABC, che, tra le altre cose, hanno depresso i consumi,hanno messo in fuga verso l’estero centinaia di miliardi, svuotando il Paese di liquidità; hanno distrutto il 25% del valore del patrimonio immobiliare italiano, paralizzato il mercato immobiliare così che imprese e famiglie non possono più usare gli immobili per ottenere credito, e l’economia è rimasta senza liquidità, con insolvenze che schizzano al 30% e oltre..
 
Nel suo libro lei parla senza mezzi termini di “tradimento”, di quinte colonne che, neppure camuffate, operano all’interno dei governi per agevolare l’opera di conquista economica, che si traduce anche in politica, dell’Italia. Personaggi che devono avere dei requisiti ben precisi a suo avviso, ce ne può parlare?
Ma io nego che siano definibili “traditori”. Sono piuttosto definibili “nemici”, perché fanno gli interessi stranieri contro quelli nazionali, in modo scoperto. Definisco traditori, invece, i dirigenti dell’ex PCI che sono passati al servizio del capitalismo finanziario sregolato e collaborano con esso alla costruzione di una società e di un nuovo ordinamento nazionale e mondiale al servizio di esso, tradendo il loro elettorato. A dirla tutta, però, non ci sono nemici né traditori: l’Italia è un Paese tanto radicalmente mal assortito e tanto irrimediabilmente entropizzato, che l’unica cosa che razionalmente se ne può fare è ciò che quei signori ne stanno facendo, lasciando ai giovani, ai ricercatori, agli imprenditori la possibilità di emigrare verso paesi più funzionanti. Quindi sono assolti, anche moralmente.
 
Ci dica di Mario Monti e dell’altro Mario, quel Draghi che regge la BCE. Ambedue hanno prestato i loro servizi… alla stessa banca d’affari, la Goldman Sachs. A quali poteri, economici e non, rispondono realmente questi figuri? Per il primo si può ipotizzare oggi il reato di Alto Tradimento?
Per quali interessi lavorino è nella loro storia obiettiva… non è un mistero. Ciò vale anche per Romano Prodi, altra carriera con Goldman Sachs: quando non era suo advisor, era al governo e la nominava advisor del governo per le privatizzazioni… pensiamo specialmente a quella della Banca d’Italia… sono tutte storie di vita e lavoro convergenti… dirlo ieri poteva suonare ardito e fantasioso, dirlo oggi suona per contro ovvio. Il reato di alto tradimento, previsto dall’art. 77 del Codice Penale Militare di Pace, presuppone che l’autore del fatto sia un militare; altra ipotesi di questo reato è quella enunciata dall’art. 90 della costituzione, in relazione al solo capo dello Stato. Quindi un civile in generale, e in particolare un premier, può commettere il reato di alto tradimento solo in concorso o con un militare o col capo dello Stato. Altrimenti, a un civile diverso dal capo dello Stato si possono ipotizzare altri reati, di attentato alla Costituzione e all’indipendenza della Repubblica, commessi con la violenza consistita nel sottoporre il Paese e il popolo a gravi sofferenze e minacce economiche per indurlo a modificare il suo ordinamento costituzionale e a cedere la sua sovranità sancita dall’art. 1 della Costituzione.
 
E veniamo al Presidente Giorgio Napolitano, ha favorito la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, posto sotto ricatto dalla famosa lettera della BCE ,con la quali si ordinava all’Italia di prendere tutta una serie di misure antisociali per favorire i “mercati”. Che ruolo ha avuto e ha tutt’ora colui che fin dai tempi del PCI aveva ottimi rapporti con gli Stati Uniti e quali sono i suoi legami con i poteri finanziari e massonici?
Dico che non so se e che legami abbia coi poteri finanziari forti e con le massonerie. E direi così anche se li conoscessi. Quando si parla di un presidente della Repubblica, bisogna stare attenti. A meno che si parli da un Paese estero, sotto la protezione di un’altra bandiera. Da dove sono, posso dire che egli si intende di macroeconomia, quindi capiva e capisce ciò che stava e sta avvenendo, e che effetti hanno certe manovre.
 
Per un attimo un passo indietro, certe cose non sono solo di oggi come lei ben saprà. Come giudica i precedenti governi, sia di centrosinistra sia di centrodestra, che nulla hanno fatto per tutelare gli interessi nazionali negli ultimi decenni? Si potrebbe, a suo avviso, far partire la loro “negligenza” (ma meglio starebbe il termine “tradimento” degli interessi nazionali) da quella famosa riunione a bordo del panfilo reale Britannia al largo di Civitavecchia nel giugno 1992?
 
Facendo seguito alla mia prima risposta direi che la partitocrazia italiana, complessivamente, dalla fine degli anni ‘70, lavora per rendere il Paese territorio di conquista per i capitali stranieri, come ho già detto. Ciò ha fatto e sta facendo soprattutto la sinistra sotto la copertura di due concetti, quelli del riformismo e dell’europeismo.
 
E veniamo alla cura proposta dalle teste d’uovo di Bruxelles, del FMI e dalla BCE: pareggio di bilancio, privatizzazioni, tagli alla sanità, alla scuola, alle pensioni, riforma del lavoro ecc. Queste cose dove sono state messe in pratica non hanno certo portato prosperità per i popoli, bensì solo per i cosiddetti mercati, che non sono di certo un entità aliena. Ce ne può parlare?
La parola “riformismo”, di cui tutti si riempiono oggi la bocca, ha avuto, dopo la metà degli anni ‘70, un’inversione di significato: dapprima, dalla seconda rivoluzione industriale, e anche nella Carta Costituzionale del 1948, e ancora nello Statuto dei Lavoratori, “riformismo” significava riforma della proprietà agraria per porre fine allo sfruttamento dei contadini da parte dei latifondisti; significava diritti sindacali, previdenziali e di sciopero per por fine allo sfruttamento degli operai da parte dei grandi imprenditori; significava contrastare le sperequazioni di reddito, diritti e opportunità tra lavoratori e capitale finanziario; significava consapevolezza del crescente strapotere delle corporations e del capitalismo rispetto ai cittadini, ai lavoratori, agli elettori, ai risparmiatori, ai piccoli proprietari, degli invalidi (uno strapotere che oggi è moltiplicato dalla globalizzazione e dal carattere apolide della grande finanza). Era un riformismo per la solidarietà, l’equa distribuzione delle opportunità e del reddito, l’accessibilità al lavoro e alla proprietà privata. Da tutto ciò l’art. 1 con la Repubblica fondata sul lavoro; l’art. 3 con la parità dei cittadini e l’obbligo di rimuovere gli ostacoli anche economici che, di fatto, limitano questa parità; gli artt. 35-40 con la tutela del lavoro; l’art. 41, che vieta l’iniziativa economica che sia contro l’interesse sociale o la sicurezza e dignità umane, stabilendo che la legge possa indirizzarla ai fini collettivi; l’art. 42 che assicura le funzioni sociali della proprietà; l’art. 43 che prevede l’esproprio nel pubblico interesse; etc.; fino all’art. 47, che tutela il risparmio, e non le maxifrodi ai danni dei risparmiatori, e i bonus e le cariche pubbliche in favore di chi le ordisce.
Dalla fine degli anni ‘70, “riformismo” ha preso a significare esattamente l’inverso, ossia la demolizione di tutto quanto sopra al fine, dichiarato, di togliere ogni limitazione alla possibilità di azione e profitto del capitale finanziario, della proprietà privata, della privatizzazione di beni e compiti pubblici, sul presupposto che ciò genererà più ricchezza, più equità, più produzione, più occupazione, più libertà, più stabilità, più razionale allocazione delle risorse. Con i risultati che vediamo: crescente estrazione della ricchezza prodotta dalla società da parte di cartelli e oligopoli multinazionali, anzi soprannazionali. È la linea, come dicevo, della scuola economica di Chicago, del Washington Consensus, della CIA, di Thatcher, Reagan, etc. E dell’europeismo. Ma nonostante questi risultati, i vari Monti, Draghi, Rehn, Merkel e compagnia bella non fanno che ripetere che bisogna continuare sulla via delle riforme, altrimenti non c’è speranza, e se qualcosa non funziona, è appunto perché le riforme non sono state abbastanza risolute e complete. In realtà personaggi come la Merkel non sono tanto ottusi da non capire che il modello è radicalmente sbagliato e devastatore, ma alcuni paesi, Germania in testa, traggono vantaggio da esso in quanto la sua applicazione colpisce in modi diversi quei medesimi Paesi e altri, come l’Italia; e l’effetto di tale diversità è che esso, come già detto, spinge capitali, imprese e lavoratori qualificati a trasferirsi nei Paesi più forti, depauperando i più deboli ed eliminandoli come concorrenti. Se vi prendete qualche minuto e leggete attentamente i suddetti articoli della Costituzione, che regolano la sovranità e i rapporti e valori socio-economici, noterete, forse con stupore, che tutto il percorso di riforme in materia di moneta, finanza, lavoro, Banca d’Italia, sistema monetario europeo (Maastricht), globalizzazioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, cartolarizzazioni, finanziarizzazione dell’economia – tutto, dico, è costituzionalmente illegittimo perché va esattamente, intenzionalmente e organicamente contro quelle norme costituzionali e contro lo stesso impianto sociale e valoriale e teleologico della Costituzione, che è appunto teso all’esclusione dell’attività imprenditoriale contraria all’interesse della società e alla realizzazione di una parità anche sostanziale dei cittadini in un quadro di solidarietà e di sicurezza in fatto di lavoro, reddito, servizi, pensioni. E non di “casinò” speculativo che comanda il Paese da piattaforme finanziarie estere attraverso il potere del rating e della manipolazione dei mercati, decidendo irresponsabilmente e insindacabilmente come si debba vivere e morire e governare.

È un disegno eversivo della Costituzione. Illecito. A esso hanno collaborato attivamente quasi tutti i “rappresentanti” del popolo, soprattutto la sinistra parlamentare. Senza farlo capire al popolo, ovviamente. Qui sta il conflitto di interessi vero. L’incompatibilità assoluta con le cariche pubbliche. Quindi i veri e primi incandidabili, ineleggibili, portatori di conflitto di interessi sono proprio i leaders della sinistra, assieme a Monti e Draghi: tra i vivi, Prodi, Bersani, Amato…
 
Lei parla di “ sacrifici senza prospettive e di “ sogno che la crisi finisca”, ma non vede la luce in fondo al tunnel? Eppure Monti e i suoi sodali ci hanno ripetuto fino alla nausea che siamo in ripresa… e che bisogna avere fiducia nei “mercati”. Lei contesta le linee economiche e fiscali imposte all’Italia dai paladini del “libero mercato”. Ci spieghi perché.
L’Italia è vicina alla fine, lo ha detto anche Squinzi il 24 marzo parlando al premier incaricato Bersani. Gli indici sono tutti al peggio, e vengono frequentemente corretti al peggioramento. Non vi è outlook di ripresa. Le migliori risorse del Paese – capitali, imprenditori, cervelli – se ne sono andate o se ne stanno andando. Chi dice che l’Italia stia riprendendosi, o è pazzo o mente. Secondo la tesi adottata dalle istituzioni monetarie, dalla Ue, da quasi tutta la politica che vuole governare, il libero mercato spontaneamente realizzerebbe l’ottimale impiego delle risorse e l’ottimale distribuzione dei redditi, inoltre automaticamente preverrebbe o riassorbirebbe le crisi. I fatti hanno clamorosamente smentito questa tesi. Del resto quella tesi valeva per i mercati dell’economia reale, non per i mercati della speculazione e dell’azzardo della finanza, che sono un’altra cosa.
O meglio, il libero mercato non esiste, perché per essere libero un mercato dovrebbe essere trasparente (cioè con operatori visibili, eleggibili dentro), non dominato da cartelli, non influenzato da asimmetrie informative, etc. etc. I mercati reali sono dominati, cioè manipolati, da cartelli di soggetti che approfittano di enormi asimmetrie informative (anche in fatto di tecnologie), che si mantengono opachi (anche FMI, BCE, Ue, Tesoro Usa, hedge funds, grandi banche…).
E che influenzano, pagandole o ricattandole, le funzioni politiche
 
Nel suo libro non disdegna di toccare la vicenda MPS,l a famosa banca senese da sempre nell’orbita della sinistra, fatti che al momento sembrano essere stati messi a tacere, con una Magistratura tutta impegnata nell’attacco a tutto campo contro Berlusconi. Chi sono i protagonisti principali e perché si è arrivati a questo, e il ruolo del duo Draghi-Monti e del PD di Bersani? Un Bersani che oramai interpreta da tempo, così come tutta la sinistra italiana, il ruolo di “mosca cocchiera dei poteri finanziari antinazionali”.
Volete i protagonisti principali? È una cerchia di nomi che potete individuare ricercando gli amministratori e i beneficiari effettivi di società derivate, di controllo, di gestione, cessionarie di rami di aziende, sicav, siv, stichtingen,… società che ricevono strani e grandi prestiti da banche in condizioni sospette… andate a consultare il Cerved, farete molte interessanti scoperte. E, per i bilanci, guardate in Cebi…Draghi ha prestato in segreto 2 miliardi a MPS già in crisi di liquidità a seguito non solo dell’acquisto di Antonveneta per un multiplo del suo dubbio valore, ma anche per una storia precedente di molti mutui concessi a soggetti che si sapeva non avrebbero pagato, e per le storie Myway e 4you, e per l’acquisizione della Banca del Salento (121)… e Monti presta 4 miliardi pubblici a MPS che in banca ne capitalizza 2,7.
Bisogna salvare MPS, l’ho detto dal mio primo articolo su di esso, del 29.06.11, ma salviamola per farne una banca nazionale di finanziamento all’economia produttiva, non solo per proteggere interessi privati o di uomini politici.
 
Avv. Della Luna i rimedi esistono per uscire da questa situazione, il mercato non è il destino dell’uomo, come non lo sono le banche, le vie alternative al capitalismo esistono, mancano oggi probabilmente gli uomini in grado d’applicarle in Italia e in Europa. Altrove i popoli hanno intrapreso una marcia diversa, e buona parte dell’America Latina ne è un esempio, questo a pochi giorni dalla morte del Presidente della repubblica Bolivariana del Venezuela Chávez, che certamente ha tracciato una via chiara di socialismo del XXI Secolo. Lei che misure adotterebbe per uscire da questo giro infernale usuraio in cui siamo precipitati?
Dalle situazioni non si esce per applicazione razionale e intenzionale di rimedi condivisi, ma perché una situazione si rompe e si cade in un’altra situazione. Non è questione di uomini. Anche il capitalismo finanziario assoluto si romperà, e io mi aspetto che ciò avvenga sia perché il tipo di mondo che esso costruisce per massimizzare la propria efficienza è incompatibile con la vita umana (troppa incertezza, violenza, mutevolezza), sia per effetto della incontrollabile accelerazione e autonomizzazione dei processi informatizzati attraverso cui si realizza lo high frequency computerized algotrading – una rete cibernetica capace di imparare e, in prospettiva, di sfuggire di mano.
 
www.europeanphoenix.com


30 Marzo 2013 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=20032

vendredi, 19 avril 2013

Écrire contre la modernité

 
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Entretien avec Pierre Le Vigan
Plusieurs lecteurs m’ont posé des questions à propos de mon dernier livre Écrire contre la modernité, oralement ou par écrit. J’ai regroupé ces questions (ou remarques) sous  un nom collectif : les lecteurs curieux (ou L.L.C.).
L.L.C. : Dans votre dernier livre, vous relativisez la continuité entre les Lumières et la Révolution française. Vous êtes ainsi au rebours d’une analyse qui, généralement située à droite, souligne la continuité entre les deux. Cela mérite quelques explications.
Pierre Le Vigan : Je souligne effectivement que les hommes des Lumières qui étaient encore vivants en 1789 ont été généralement hostiles à la Révolution, à l’exception de Condorcet, qui en sera toutefois victime comme Girondin. La plupart des hommes des Lumières encore vivants ont été hostiles non seulement au moment 1793 – 94 de la Révolution mais aussi dès 1789. Dès ce moment, la violence est le moteur de la Révolution, ce qu’ils refusent, qu’il s’agisse de la « prise de la Bastille » qui fut en fait le massacre de ses défenseurs (malgré la parole donnée), ou des journées des 5 et 6 octobre 89, où le roi est ramené de force à Paris. En ce sens, la Révolution est un bloc comme le disait Clémenceau. Or, l’esprit des Lumières ne se reconnaît pas dans cette rupture avec l’ordre ancien alors qu’il aspire de son côté à un bien s’instaurant progressivement, à une sorte d’ordre naturel fondé sur la raison qui déploierait son harmonie, ce qui est incompatible avec les soubresauts sanglants qui constituent le rythme de la Révolution française.
En réalité, le principal lien qui existe entre la Révolution française et les Lumières se fait à travers Rousseau. Mais on le sait : Rousseau occupe une place à part dans les Lumières. C’est l’un des sujets que j’aborde dans le livre. L’idéologie sommaire dite des Lumières n’a pas grand-chose à voir avec la réalité complexe et multiforme de penseurs trop importants pour être réductibles à un courant idéologique comme Rousseau, Diderot ou  Voltaire.
S’il y a continuité entre un homme rattaché aux Lumières et la Révolution, c’est donc de Rousseau qu’il s’agit. La continuité existe dans la mesure où Rousseau ne croît pas à la possibilité d’un mouvement continu de progrès mais croît dans le constructivisme. En ce sens, sans préjuger de l’attitude qui aurait été la sienne, il est en phase avec l’esprit de la Révolution qui prétend tout reconstruire, et là, il y a continuité entre 1789 et 1794, les  principales différences entre la phase 1789 et la phase robespierriste de 1794 étant le passage d’une Terreur spontanée et « populaire » (au pire sens du terme, c’est-à-dire populacier) à une Terreur d’État, mais aussi le passage de la  souveraineté nationale au projet d’une souveraineté populaire. L’autre lien très fort entre Rousseau et la Révolution française est l’exaltation de l’esprit antique et tout particulièrement de la notion de vertu civique. La Révolution française se veut exemplaire et romaine. Ici, il y a continuité entre l’« antiquo-futurisme » de Rousseau et la Révolution française.
La continuité s’établit donc pour des raisons que l’on peut trouver « sympathiques » telles l’esprit civique et le culte du citoyens et pour des raisons très contestables à savoir l’aspiration non seulement à une société bonne mais à une société totalement bonne, absolument bonne, ce qui conduit inévitablement au totalitarisme, comme tous les rêves d’absolu. En ce sens, Marcel Déat n’avait sans doute pas complètement tort de voir une continuité entre Rousseau, la Révolution française, Robespierre (qu’il admirait et approuvait), et le national-socialisme allemand (dont Déat voyait bien les aspects modernistes – la « Révolution brune » – mais sous-estimait sans doute les aspects réactionnaires, eux aussi présents). Il aurait pu ajouter le bolchevisme. Rousseau est donc l’exception qui confirme la règle : il est le seul penseur des Lumières en continuité d’idées avec la Révolution française. Mais il l’est en partie pour des raisons contestables comme la volonté d’une table rase et d’un retour artificiel  à un passé antique mythifié. À ce sujet, il faut noter qu’il serait difficile de défendre Rousseau et de voir avec sympathie les mouvements localistes et anticentralistes comme la Fronde ou la révolte vendéenne.
L.L.C. : À vous lire, vous paraissez beaucoup plus proche des auteurs républicains tels Alain Finkielkraut et Éric Zemmour que des révolutionnaires-conservateurs de la « Nouvelle Droite ». Vous paraissez éloigné des communautariens et proche des assimilationnistes. En d’autres termes, vous semblez un défenseur de l’idée stato-nationale. Qu’en est-il ?
P.L.V. : Dans la notion d’État-nation, c’est la nation qui doit être essentielle. L’État doit être un outil au service de la nation. Je ne crois pas que l’on puisse se passer de l’État. Attention : moins d’État, ce peut être plus de bureaucratie. C’est justement d’ailleurs ce qui se passe où nous souffrons d’une impuissance de l’État sur les grandes questions, impuissance mêlée à une omniprésence des pouvoirs publics dans nombre de domaines où ils ne devraient pas être présents tel la sécurité routière où s’impose une réglementation tatillonne attentatoire aux libertés les plus élémentaires. Dans la construction européenne d’aujourd’hui, la nation est la grande perdante car le lien entre l’État et la nation est perdu. Pseudo-régionalisme de féodalités locales d’une part, bureaucratie bruxelloise de l’autre, la nation s’affaisse au milieu de cela. L’État français n’est plus apte qu’à appliquer des réglementations européennes.
Il est tout à fait exact que je suis hostile à la déconstruction des nations. Qu’il y ait des identités locales, en Catalogne, en Bretagne, ailleurs, cela ne doit pas se traduire par un monolinguisme régional, ni même par l’obligation administrative d’un bilinguisme. Le niveau national est le moyen de peser plus lourd dans la mondialisation que le niveau régional. Il faut préserver ce « niveau » (le terme n’est pas élégant mais a le mérite d’être clair) national.  En ce sens, je salue le grand travail unificateur de la République, à la fois la Ire République et la IIIe République, ou celui réalisé en Turquie par Mustapha Kemal. Ce n’est d’ailleurs pas l’école républicaine de Jules Ferry qui a fait disparaître les particularismes locaux, c’est la modernité technicienne et c’est pourquoi les particularismes n’ont vraiment disparu qu’après 1945. Il faut lire sur ce sujet Jean-Pierre Le Goff, La fin du village. Une histoire française (Gallimard, 2012). De même, dans les pays de l’Est de l’Europe, la modernité capitaliste a plus détruit les cultures locales en vingt ans que ne l’a fait le communisme, pourtant dévastateur et meurtrier, en quarante-cinq ans.
Si je défends la nation, c’est aussi parce que c’est encore le cadre le mieux adapté à l’exercice de la démocratie. C’est pourquoi je rends hommage à  des figures républicaines classiques bien qu’oubliées tel Jean Prévost. Pour ses positions politiques tout comme pour ses qualités littéraires. « Il ne faut pas considérer l’auteur des Frères Bouquinquant, écrivait justement Roger Nimier, comme un écrivain mort trop jeune, qui n’a pas trouvé toute son audience, mais comme un prix Nobel en puissance et le maître d’une génération. » Je crois d’ailleurs beaucoup à la valeur d’exemplarité des esprits que l’on pourrait appeler « fermement modérés », dont Montaigne ou Jean Prévost sont  des exemples.
La modernité est pernicieuse : c’est le refus des limites du réel, et c’est en même temps le rêve d’une fin de l’histoire. La modernité refuse la dialectique de l’histoire. Cela peut prendre la forme du rêve d’une société sans classes, ou d’une société sans races. Au fond, le projet du communisme et celui du libéralisme ont des points communs, à ceci près que dans l’homogénéisation du monde, le libéralisme est plus efficace que le communisme. Du reste, le communisme n’a eu qu’un temps, tandis que le libéralisme se porte bien. En outre, compte tenu de sa dimension idéologique, le communisme est (était) en effet obligé de faire des pauses, tandis que le libéralisme peut mener son projet sans obstacles, avec pragmatisme, en jouant à la fois des aspirations à l’égalité et des aspirations à cultiver les différences. Il s’agit bien entendu toujours de petites différences anecdotiques compatibles avec le grand marché mondial. Ainsi, le libéralisme est à la fois égalitaire – il n’accepte pas les reproductions de castes fermées – et communautariste – il souhaite des niches de consommateurs pourvu que celles-ci ne soient pas fondées sur des valeurs durables.
Ce qui fait le caractère déraisonnable de la modernité, c’est donc la croyance au Progrès, et non simplement à des progrès. De là vient aussi l’idée qu’il n’y a pas de nature de l’homme, que l’on peut donc tout faire de l’homme et avec l’homme, que l’homme est totalement malléable. Cette idée est très dangereuse et nie tout ce que nous apprend l’éthologie humaine. L’homme n’est pas un animal, mais il reste un animal. Tout n’est pas possible avec l’homme, sauf à le rendre fou et malheureux. « Nous n’avons pas envie de légitimer des sociétés qui font n’importe quoi avec l’homme » écrit justement Chantal Delsol.
L.L.C. : Y a-t-il des auteurs que vous regrettez de ne pas avoir évoqué ?
P.L.V. : À chaque jour devrait suffire sa peine. Vieille sagesse que nous avons souvent du mal – moi le premier – à accepter. On rêve toujours d’un livre meilleur, plus complet, mieux équilibré, plus abouti. Les ouvrages totalement réussis sont rares. Sur le seul plan des auteurs dont je n’ai pas parlé, il y a bien entendu des manques qui – si je puis dire – me manquent. Il est ainsi bien évident que Hannah Arendt me paraît un auteur contre-moderne fondamental, qu’Heidegger est très présent dans la problématique moderne/contre-moderne sans qu’il fasse l’objet d’un de mes chapitres, que Günther Anders lui aussi me paraît important, et est en outre très attachant – il faut le dire car nous sommes tous aussi des êtres de subjectivité. J’apprends aussi toujours beaucoup à la lecture de Massimo Cacciari. Je sais bien aussi que Drieu la Rochelle, sans être philosophe, était passionné par les questions de la modernité, et que sous divers angles, il les a abordées, non sans cruauté (d’abord avec lui-même). Je ne méconnais pas que Frédéric Schiffter est à l’origine d’une critique absolument radicale des arrières-mondes – et l’idéologie du progrès en fait partie, tout comme Clément Rosset (sur lequel j’ai écrit dans Éléments) a pu démontrer – ou tout simplement rappeler – que Platon avait inventé le moyen de penser à autre chose qu’au réel. Bref, la contre-modernité est vivante et ne cesse de s’alimenter de nouvelles figures. Car au vrai elle relève de l’insurrection de la vie contre le machinal. De la chair contre l’intellect, de l’âme contre l’esprit. C’est dire aussi que la contre-modernité ne se débarrassera jamais de la modernité.

jeudi, 18 avril 2013

Sur la territorialité

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Sur la territorialité

Entretien avec Georges Feltin-Tracol

Il y a quelques mois, le Comité directeur du Carrefour des Acteurs Sociaux (C.A.S.) animé par Joël Broquet, en particulier son pôle « Territoires »,  proposait à un questionnaire d’enquête consacré à la question territoriale dans l’Hexagone. Georges Feltin-Tracol, rédacteur en chef d’Europe Maxima, a bien voulu y participer. Les réponses mises en ligne ci-dessous ont été largement développées par rapport à la version initiale envoyée au C.A.S.

Cet entretien paraît approprié au lendemain du « non » alsacien qui ne résout rien et qui aggrave au contraire les problèmes territoriaux issus d’une décentralisation trop technocratique dès le départ. L’échec du référendum régional alsacien témoigne aussi de la nécessité pour les prochaines consultations locales d’affronter frontalement notables et élus locaux.

Carrefour des Acteurs Sociaux : Selon vous, quelle organisation territoriale serait à préconiser pour optimiser les actions publiques ?

Georges Feltin-Tracol : À mes yeux, le territoire administratif le plus optimal en matière d’actions publiques demeure la région. Toutefois, il est primordial de réviser en profondeur et d’une manière complète la carte administrative territoriale en s’appuyant sur des régions rectifiées (fusion des deux demi-régions normandes, rattachement de la Loire-Atlantique à la Bretagne, création d’une région « Pays-Bas français » sur les régions Picardie et Nord – Pas-de-Calais, fusion de départements en Alsace, en Corse, en Savoie) et réduites en nombre (22, c’est trop).

C.A.S. : Quel échelon actuel est-il, selon vous, pertinent aujourd’hui ?

G.F.-T. : Outre la région, l’autre échelon pertinent me paraît être l’arrondissement rectifié. Mais attention ! La notion d’arrondissement est à modifier complètement. En effet, l’essor des modes de transport (voiture, train), l’implantation des centres commerciaux en périphérie des villes et l’étalement urbain sur les zones rurales proches (ce qui est un grave problème en soi) entraînent une véritable révolution territoriale administrative silencieuse. Face à l’effacement de la distinction rural / urbain, la région et l’arrondissement rectifié afin qu’il corresponde à un bassin de vie autour d’une ville-centre paraissent des échelons pertinents.

C.A.S. : « L’abrogation » de la démarche Pays vous semble-t-elle justifiée ?

G.F.-T. : Oui, dans le cadre actuel. En revanche, dans le cadre de l’arrondissement – bassin de vie, le « pays » pourrait renaître à la fois en tant que successeur de l’arrondissement actuel et qu’en espace optimal de proximité à la condition que ce nouvel arrondissement ou pays fusionne avec le canton, l’intercommunalité et l’actuel « pays ».

C.A.S. : Comment la gouvernance territoriale devrait-elle être organisée ?

G.F.-T. : D’abord, il faut sortir de la novlangue officielle en place. « Gouvernance » relève du jargon bureaucratique d’essence libérale-mondialiste. Le gouvernement idoine des territoires serait un recours massif et permanent à la démocratie directe.

Il est important d’abandonner le régime d’assemblée en vigueur dans les collectivités municipales, départementales et régionales et l’omnipotence de l’exécutif territorial en appliquant une large démocratie directe. Outre le contrôle civique des élus par les droits populaires de surveillance, de veto et de proposition, les responsables territoriaux devraient être tirés au sort, ne cumuler aucun mandat, être révocables et détenir un mandat impératif. Une autre réforme de taille serait d’instaurer la responsabilité sur leurs biens propres de la gestion de la collectivité. En corollaire, le droit de vote serait obligatoire sous peine de lourdes sanctions. L’idéal serait aussi une réelle impartialité, c’est-à-dire une absence de partis politiques…

C.A.S. : Les solidarités urbain/rural ont-elles un sens aujourd’hui ? Si oui, lesquelles  ?

G.F.-T. : Il est clair, aujourd’hui, que les solidarités urbain / rural se distendent du fait de la disparition voulue de la paysannerie, de l’étalement urbain anarchique et de l’alignement des campagnes sur le mode de vie, les codes culturels et les goûts des citadins. La France est en train de se scinder en trois ensembles disparates : les métropoles, créatrices de richesses, leurs banlieues sur-subventionnées et les territoires péri-urbains (ou ruraux profonds) délaissés (fermeture au nom de la R.G.P.P. – réduction générale des politiques publiques – du bureau de poste, de l’école primaire, de la gare, non-desserte des transports en commun, etc.). Fuyant des zones urbaines en chaos ethnique et les fortes hausses d’impôts, les catégories populaires et intermédiaires qui s’installent « à la campagne » se sentent pénaliser : elles n’ont droit à rien et doivent payer pour des services inexistants.

C.A.S. : Quel constat de la décentralisation faites-vous ?

G.F.-T. : D’un point de vue fédéraliste, identitaire et régionaliste français et européen, la décentralisation est un fiasco total du fait de l’incompétence de son personnel politicien. L’État central a eu tort de faire confiance à la partitocratie, d’où l’explosion des effectifs de la fonction publique territoriale, du clientélisme et de la corruption, de conserver ses attributions ou de les déléguer sans accompagnement financier réel et d’empêcher l’autonomie réelle des collectivités en leur assurant une fiscalité propre.

Plutôt que de relancer la décentralisation, l’heure est venue pour la régionalisation et la réduction draconienne des strates administratives et du nombre d’élus.

C.A.S. : Selon vous, quelles orientations devraient prendre la politique européenne de cohésion territoriale (organisation spatiale du territoire européen) ?

G.F.-T. : L’idéal serait un État fédéral européen dégagé de l’O.T.A.N. et de l’O.M.C. à vocation impériale grande-continentale. Plus concrètement, une vaste politique coordonnée de relance et de relocalisation de l’industrie, de l’agriculture (dans un sens bio et non productiviste) et des transports collectifs (avec le retour de l’aéro-train) donnerait enfin une véritable cohérence territoriale au continent sans omettre bien sûr une ambitieuse politique culturelle et scolaire authentiquement européenne et identitaire.

C.A.S. : Quelle devrait être la place de « Paris » dans l’architecture urbaine mondiale et européenne ?

G.F.-T. : L’anti-Parisien que je suis estime que ce n’est qu’une agglomération française parmi d’autres. Malheureusement, soyons réalistes. Paris et ses environs demeurent la première région de France en population et en production économique. La déconcentration de la Capitale prendra beaucoup de temps. En attendant, il importe de valoriser les autres villes et agglomérations afin de contrebalancer l’influence de plus en plus délétère de Paris.

C.A.S. :  Quel périmètre devrait avoir « Paris », en tant que ville et en tant qu’agglomération ?

G.F.-T. : Dans l’idéal toujours, il serait bien d’arrêter la croissance parisienne et de favoriser l’attrait de la « Province ». En pratique et dans la perspective voulue d’en faire une métropole mondiale, Paris doit franchir le Périphérique et étendre sa superficie à la « Petite Couronne ». En clair, il est nécessaire d’abolir le 75 et les départements périphériques et de tirer un trait définitif sur les conséquences de la Commune de 1871.

C.A.S. : La structure de l’agglomération parisienne serait selon vous ?

G.F.-T. : Une collectivité territoriale intégrant les compétences communales, départementales et régionales.

C.A.S. : Selon votre réponse, quel devrait en être le périmètre ?

G.F.-T. : Si Paris devient une collectivité territoriale, sa superficie devrait correspondre, nonobstant l’obstacle des départements à faire disparaître, à son aire urbaine, soit les « Petite » et « Grande Couronne » réunies. Un autre facteur entre en ligne de compte : les migrations tant internes qu’externes. Il faut arrêter les flux migratoires vers l’Île-de-France qui est devenue l’«Île-du-Monde ».

C.A.S. : Quelles devraient être les compétences pour la structure de l’agglomération parisienne serait selon vous ?

G.F.-T. : Le « Grand Paris » devrait détenir toutes les compétences ! À savoir la planification territoriale et l’urbanisme, l’emploi et la formation professionnelle, le développement économique, les transports, la préservation du patrimoine et l’essor culturel enraciné, l’écologie véritable et non le fumeux développement durable, ou les services sociaux à la population.

C.A.S. : Quelle appellation souhaiteriez-vous pour l’entité de la structure de l’agglomération parisienne ?

G.F.-T. : Cette collectivité territoriale avec une population moindre du fait d’un retour (imposé ? forcé ?) dans les provinces de nombreux résidents pourrait très bien s’appeler « Paris – Île-de-France ». Et puis, imaginons un changement de capitale en promouvant Lyon ou Clermont-Ferrand, voire en créant ex-nihilo une nouvelle sur les exemples de Brasilia ou d’Astana.

• Propos recueillis par le pôle « Territoires » du C.A.S.


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dimanche, 14 avril 2013

A. Chauprade on geopolitics/über Geopolitik

Aymeric Chauprade

on geopolitics / über Geopolitk

vendredi, 12 avril 2013

B. Lugan: la fin de l'université française?

Bernard Lugan:

la fin de l'université française?

mardi, 05 mars 2013

AMÉRIQUE HISPANIQUE : LA LONGUE MARCHE VERS L’UNITÉ (1833-2013)

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AMÉRIQUE HISPANIQUE : LA LONGUE MARCHE VERS L’UNITÉ (1833-2013)


Une version abrégée de cet entretien avec Alberto Buela a été publiée
dans La NRH, nº 65, mars-avril 2013


Né en 1946, à Buenos Aires, Alberto Buela est un philosophe argentin
qui s’est spécialisé dans l’anthropologie et la géopolitique. Sous la
dictature militaire, en 1981, il a été chargé par la Centrale
syndicale CGT (alors clandestine) d’effectuer une mission de
représentation auprès de l’OIT, à Genève. Il a ensuite vécu à Paris où
il a soutenu une thèse de doctorat à l’université de la Sorbonne sur
Le fondement métaphysique de l’éthique chez Aristote (1983). De retour
en Argentine, il a enseigné la philosophie dans plusieurs Universités
dont l’Université Technologique Nationale de Buenos Aires. Depuis
1990, ses travaux portent avant tout sur la « pensée américaine ». Il
a publié notamment : El sentido de América (1990), Pensadores
Nacionales Iberoamericanos (1992), Ensayos iberoamericanos (1994),
Hispanoamérica contra Occidente (1996), Metapolítica y filosofía
(2002), Teoría del disenso (2004) et, tout récemment, Disyuntivas de
nuestro tiempo (2012). Fondateur et directeur de la revue Disenso, il
est l’auteur d’une vingtaine de livres et de plus de cinq cents
articles.


1. Arnaud Imatz : L’Amérique hispanique a toujours été l’objet de
convoitises de la part des grandes puissances. Un des premiers
exemples d’ingérence de vaste envergure est le siège de Carthagène des
Indes, dans l’actuelle Colombie, en 1740. L’amiral basco-espagnol,
Blas de Lezo, repoussa alors les assauts d’une armada anglo-américaine
de cent quatre vingt navires et de 24 000 hommes, commandée par
l’amiral Edward Vernon, aidé du demi-frère du futur président des
États-Unis, Lawrence Washington. Au XIXe siècle, l’interventionnisme
étranger augmente considérablement. En 1806-1807, le Rio de la Plata
et Buenos Aires subissent une première invasion anglaise. En 1833, les
britanniques occupent les Îles Malouines. Mais les années 1820-1830
sont surtout marquées par le début de l’expansionnisme des États-Unis.
Le Mexique, pour ne citer que lui, se voit obligé de céder plus de 50%
de son territoire entre 1836 et 1848… Confrontés à deux siècles
d’interventions anglo-saxonnes, nombre d’historiens hispano-américains
en sont venus à s’interroger sur les origines des nations
ibéro-américaines et à remettre en cause les analyses conventionnelles
des longues et sanglantes guerres d’indépendance (1810-1825),
engendrées par l’occupation française de l’Espagne et les vagues
révolutionnaires européennes. S’agissait-il avant tout de « guerres de
libération nationale » , comme on le dit habituellement ? Ou voyez
vous en elles, à l’inverse, des résistances créoles et populaires
(avec souvent l’appui d’une majorité de Noirs et d’Indiens et le
soutien marginal de la troupe espagnole venue du vieux continent)
contre la sécession hispano-américaine ? En d’autres termes, ne
furent-elles pas des guerres civiles intra-américaines, financées par
les Anglais, qui aboutirent à la destruction de l’Empire espagnol au
bénéfice de l’Empire britannique et du monde anglo-saxon ?

Alberto Buela : La guerre d’indépendance américaine contre l’Espagne
fut bien en fait une « guerre civile » favorisée par les Anglais pour
détruire l’empire espagnol en Amérique et tirer un profit commercial
de la nouvelle situation. Il en fut ainsi hier et il en est encore
ainsi aujourd’hui. Les Anglais ne sont-ils pas toujours présents dans
les îles Malouines, à Bélize ou en Guyana ? Ne sont-ils pas
représentés par des assesseurs politiques ou des groupes de pression
dans tous nos gouvernements?

J’affirme, avec un bon nombre d’historiens, que ce fut une guerre
civile parce que dans les deux camps il y avait des Espagnols, des
Créoles, des Noirs et des Indiens. Mieux ! La population indigène
était majoritairement dans le camp espagnol.

Penser la guerre d’indépendance hispano-américaine comme une guerre de
libération est une mystification.


2. Arnaud Imatz : Avant de poursuivre cet entretien, il me semble
important d’apporter quelques précisions sémantiques. Pour désigner
l’Amérique centrale et du Sud et leurs habitants, les auteurs
européens ont pour habitude d’utiliser les termes « Amérique latine »
et « Latino-américains », le vocable « Américain » étant réservé aux
Américains des États-Unis. Vous rejetez absolument ces concepts et
vous leur préférez ceux d’Amérique hispanique et d’Hispano-américains,
ou plutôt ceux d’Amérique ibérique et d’Ibéro-américains. Pourquoi?


Alberto Buela : Premièrement, et avant tout, parce qu’au sens strict
les Latins sont les habitants du Latium, contrée ancienne au centre de
l’Italie actuelle. Ensuite, parce que le concept de latinité est une
création idéologique de Michel Chevalier, l’économiste, conseiller de
Napoléon III, qui souhaitait légitimer l’intervention de ce dernier en
Amérique hispanique. Et troisièmement, parce que le concept de latin
ne nous définit pas. Nous ne sommes « ni vraiment espagnols, ni
vraiment indiens », mais hispano-créoles. Nous sommes le produit d’une
culture de synthèse ou de symbiose entre deux cosmovisions qui se sont
imbriquées pour produire l’homme américain actuel.

Notre dette envers l’Europe est énorme (langue, religion,
institutions), mais notre matrice, notre genius loci (climat, sol et
paysage), est l’Amérique. Et nous ne devons pas l’oublier. Nous vivons
en Amérique et pensons depuis l’Amérique.


3. Arnaud Imatz : Dans un article sévère sur « Les interventions
anglo-saxonnes en Amérique hispanique», vous affirmez que depuis le
début du XIXe siècle leur nombre s’élève à 700 majeures et près de
4000 mineures. La doctrine de Monroe (1823), l’idéologie de la
Destinée manifeste (1845), la politique du Big Stick de Théodore
Roosevelt (1901), la politique de bon voisinage de Franklin Roosevelt
(1932), la théorie de la sécurité nationale de Truman (1947), le
projet de zone de libre échange des Amériques (ZLEA) de Bush et plus
généralement toutes les applications historiques des différents
principes énoncés par la diplomatie états-unienne, se résumeraient en
dernière instance, selon vous, par ces quelques mots : « L’Amérique
aux Américains… du Nord ». L’Amérique hispanique n’aurait-t-elle donc
jamais été vraiment indépendante ?

Alberto Buela : En deux-cents ans d’existence « républicaine »,
l’Amérique hispanique n’a jamais été pleinement indépendante. Elle ne
l’a été que de manière très sporadique grâce à quelques gouvernements
et quelques figures politiques. Au XIXe siècle on peut citer : Gabriel
Garcia Moreno (Equateur), Juan Manuel de Rosas (Argentine), José
Manuel Balmaceda (Chili), Porfirio Díaz (Mexique), Francisco Morazán
(République Fédérale d’Amérique Centrale). Et au XXe siècle : Getúlio
Vargas (Brésil), Juan Natalicio González (Paraguay), Luis Alberto de
Herrera (Uruguay), Juan José Arévalo (Guatemala), Juan Domingo Perón
(Argentine), Carlos Ibañez del Campo (Chili), Victor Paz Estenssoro
(Bolivia), Eloy Álfaro (Equateur), Francisco Madero (Mexique), Augusto
César Sandino (Nicaragua) et quelques autres.

Les sources du véritable pouvoir n’ont jamais été dans nos pays mais
toujours à l’étranger. Voilà le problème ! Dans leur immense majorité,
nos gouvernements ont été des « gouvernements vicaires » ou de «
remplacement ». En d’autres termes, comme dans le cas du Pape pour le
Christ, ils ont gouverné pour le compte et au nom d’un autre
souverain.


4. Arnaud Imatz : Les Ibéro-américains dénoncent volontiers les ONG
nord-américaines et les églises  évangéliques comme «  le cheval de
Troie de l’impérialisme yankee ». Qu’en pensez-vous ?

Alberto Buela : Cette intromission des États-Unis dans l’Amérique
ibérique à partir des sectes évangéliques a été dénoncée par une
infinité d’hommes politiques, d’intellectuels et d’agents sociaux,
depuis le linguiste Noam Chomsky jusqu’à l’évêque du Salvador, victime
d’un assassinat, Óscar Romero. Au Brésil, le cas est aujourd’hui
proprement scandaleux. Devant l’inconsistance de la conscience
religieuse brésilienne, ces sectes sont devenues une source de pouvoir
qui détermine l’élection des gouvernements. Elles sont un
extraordinaire groupe de pression.

Mais soyons clair ! Il ne s’agit là que d’un des nombreux mécanismes
de domination crées par les gouvernements nord-américains. Cependant,
une grande partie de la responsabilité incombe à nos gouvernements
autochtones et à l’Église catholique qui est entrée dans une terrible
crise depuis le concile Vatican II et qui a cessé de facto
d’évangéliser. L’Église ibéro-américaine s’est tellement
bureaucratisée qu’elle s’est écartée de la communauté, son lieu
naturel. Elle s’est transformée en un appareil de plus de l’État
libéral-bourgeois, cette forme institutionnelle qui nous gouverne.


5. Arnaud Imatz : Vous rejetez le multiculturalisme - idéologie née en
Amérique du Nord -, et défendez à l’inverse l’interculturalisme.
Qu’entendez-vous par là ?

Alberto Buela : Comme vous l’observez correctement, la théorie du
multiculturalisme est une création des think tanks états-uniens.  Sous
le masque du respect de l’Autre, elle « accorde des droits aux
minorités pour le seul fait de l’être et non pas pour la valeur
intrinsèque qu’elles représentent ».

C’est une fausse théorie. D’une part, elle prétend respecter
l’identité de l’Autre, tout en l’enfermant dans son particularisme,
d’autre part, elle dépolitise le débat politique en refusant de penser
en termes d’État-nation et se limite à des questions sociales,
raciales, économiques et de genre.

Je préfère la théorie de l’interculturalisme. Celle-ci nous enseigne
que dans l’hispano-créole il y a plusieurs cultures, qui conforment un
être symbiotique, porteur de la culture de synthèse dont nous parlions
à l’instant, et qui nous fait ce que nous sommes.


6. Arnaud Imatz : Vous êtes un spécialiste de l’histoire du
nationalisme grand continental ibéro-américain. Quels sont les traits
qui le définissent : la langue, la continuité territoriale, la
religion, l’adversaire commun ? Existe-t-il un « heartland »
sud-américain sans lequel « le grand espace autocentré » ne saurait
être ni pensé, ni construit ?

Alberto Buela : L’écoumène ibéro-américain (partie du monde de culture
ibéro-américaine) est constitué par tous les traits que vous
mentionnez. Il existe une langue commune, l’espagnol, qui est parlé
par plus de 460 millions d’habitants, chiffre auquel il faut ajouter
les 200 millions de lusophones pour lesquels le castillan est une
langue commode et facile à comprendre. C’est une donnée géopolitique
incontournable pour la formation du grand espace ibéro-américain.
L’autre donnée est la continuité territoriale qui permet d’assurer une
communication vitale. Les grands transports se font par terre. Ainsi,
les millions de Boliviens, Péruviens, Chiliens et Paraguayens, qui
vivent en Argentine, ne sont pas arrivés par bateaux ou par avion (ce
qu’ils auraient pu faire), mais par terre. Il en est de même des
milliers d’Argentins qui vivent en Équateur. Et le même phénomène se
produit en Amérique centrale alors qu’en Amérique du Nord, les
États-Unis tentent de faire obstacle à la continuité territoriale par
des kilomètres de murailles ou de barbelés électrifiés.

La religion est le second trait commun de l’Amérique hispanique.  Le
catholicisme y est assumé de façon hétérodoxe, c’est-à-dire en
cultivant le mélange de traditions et de coutumes ancestrales, comme
le culte de la Pachamama ou d’autres du même genre, sans gêner pour
autant le message du Christ.

Il est certain, nous l’avons dit, que la religion chrétienne dans sa
forme évangélique est utilisée politiquement comme élément de
domination et de distanciation par rapport à nous même, mais
l’assemblage profond, produit de cinq siècles d’inculturation du
catholicisme ou d’adaptation de l’Évangile par l’Église, a fini par
transformer un fait religieux en une donnée distinctive
anthropo-culturelle de l’homme ibéro-américain.

Reste enfin, « l’ennemi commun », incarné par « l’Anglais » ou le «
yankee », qui est l’élément donnant la cohésion à cette communauté
ibéro-américaine.

Pour ma part, j’ai soutenu, au nom de la CGT Argentine, lors du Second
Forum social mondial de Porto Alegre (2002), la théorie du « rombo »
(losange) en tant que proposition géostratégique pour la création du
grand espace sud-américain. Cette théorie soutient que le heartland
peut être constitué par l’union des quatre sommets du losange que sont
Buenos Aires, Lima, Caracas et Brasilia. Ce heartland possède 50 000
kilomètres de voies navigables dont les eaux sont profondes, des
réserves gigantesques de minéraux et d’immenses terres labourables et
cultivables. En un mot, il possède tous les éléments nécessaires pour
constituer un « grand espace autocentré » à l’intérieur de la
diversité du monde.


7. Arnaud Imatz : Le Marché commun du Sud (Mercosur), communauté
économique, crée en 1991, regroupant cinq pays du continent
sud-américain (Argentine, Brésil, Paraguay, Uruguay et Venezuela),
peut-il être considéré comme l’embryon d’un grand espace géopolitique,
économiquement, culturellement et politiquement souverain ?

Alberto Buela : Jusqu’à ce jour, et après vingt ans d’existence, le
Mercosur n’est rien d’autre que le marché de la bourgeoisie
commerciale de Buenos Aires et de Sao Paulo. Le reste est du
carton-pâte. Le Paraguay vit des tensions entre le Brésil et
l’Argentine. L’Uruguay vit de l’argent des porteños (les habitants de
Buenos Aires qui passent leurs vacances dans ce pays et qui y versent
leurs économies). Quant au Venezuela, il vient d’être admis cette
année, et il est donc trop tôt pour se prononcer.

De toute façon, il manque beaucoup d’éléments à cet embryon de grand
espace pour se constituer et se développer. Il est vrai que diverses
institutions ont été créées à ses côtés au cours des ans, comme la «
Communauté sud-américaine des nations », la « Banque du sud », «
l’Union des nations sud-américaines (UNASUR), mais le vrai problème
est que nous n’avons pas la volonté profonde et autonome de nous
auto-constituer en grand espace. Et je m’appuie sur deux raisons pour
le dire :

- Le Brésil, ou pour mieux dire Itamaraty, son ministère des Affaires
étrangères, n’a jamais admis d’intromission sur l’Amazone à partir des
Républiques hispaniques. Il ne permet pas l’accès par les voies
navigables à l’Argentine, à l’Uruguay ou au Paraguay via les fleuves
Paraná et Paraguay. Il ne permet pas non plus au Venezuela de
construire un oléoduc trans-amazonique pour alimenter les pays du Cône
Sud,

- Ensuite, et surtout, il n’existe pas d’« arcane » ou de « secret
profond partagé » par nos leaders politiques, qui est la condition
sine qua non de l’existence de tout grand espace.


8. Arnaud Imatz : La restauration de l’unité de l’Amérique hispanique,
sous différents modèles, est le rêve de beaucoup d’intellectuels et de
quelques hommes politiques. Elle était même déjà, et paradoxalement,
au centre des préoccupations des figures historiques de
l’indépendantisme Francisco de Miranda et Simon Bolivar. Pouvez-vous
nous présenter brièvement les principaux penseurs du « grand espace
ibéro-américain » ?

Alberto Buela : Les principaux penseurs de l’unité hispano-américaine
se sont fondés sur l’identité de nos peuples, sur leur passé culturel
commun et sur leurs luttes nationales contre l’ennemi commun :
l’impérialisme anglo-nord-américain. Certains avaient des convictions
socialistes, comme l’argentin Manuel Baldomero Ugarte (1875-1951),
d’autres nationalistes, comme le mexicain José Vasconcelos (1882-1959)
ou le nicaraguayen Julio Ycasa Tigerino (1919-2001), d’autres
démocrates-chrétiens, comme le costaricain José Figueres (1906-1990)
ou encore marxistes, comme le péruvien José Carlos Mariátegui
(1894-1930). Chacun entendait l’unité à partir de ses présupposés
idéologiques.


9. Arnaud Imatz : Les mouvements nationaux continentaux d’Amérique
ibérique ont pour caractéristiques l’anti-impérialisme et
l’anticommunisme. Ils se réclament souvent de la troisième position et
du populisme démocratique dont le principal objectif est pour eux la
restauration de la convivialité ou de la sociabilité partagée. Vous
avez déjà mentionné leurs grands leaders historiques, en particulier
Sandino, Haya de la Torre, Vargas, Ibañez del Campo et Perón. Ces
personnages ont-ils encore un écho dans l’opinion publique
ibéro-américaine ?

Alberto Buela : Sandino, au Nicaragua, n’a plus d’autre existence que
culturelle, car le gouvernement de Daniel Ortega, qui s’en réclame,
n’a plus rien à voir avec lui. Haya au Pérou et Ibañez au Chili ont
pratiquement disparu de la scène politique. Le cas de Vargas au Brésil
est différent parce que le PT (Parti des Travailleurs), qui est au
pouvoir depuis l’époque de Lula, et la CUT (Centrale unique des
travailleurs) se disent ses successeurs.

L’exemple de Perón mérite cependant qu’on s’y attarde. À la différence
des autres, il est toujours d’actualité en Argentine, non pas parce
qu’il aurait été bon ou mauvais au pouvoir, mais parce qu’il a laissé
une institution qui s’est consolidée dans la société civile : le
syndicat. Tant qu’il y aura des syndicats en Argentine le péronisme
vivra. Quant à savoir ce qu’est le péronisme c’est une autre question.
Le sociologue italien antifasciste, Gino Germani, qui avait vécu 15
ans en Argentine, est parti aux États-Unis en disant : « Je m’en vais
parce qu’en tant que sociologue je n’ai pas réussi à comprendre ce
qu’est le péronisme ».


10. Arnaud Imatz : Cela me rappelle une blague fameuse, dont on
attribue souvent la paternité à Juan Perón : «  En Argentine il y a
30% de socialistes, 30% de conservateurs, 30% de libéraux et 10% de
communistes. Et les péronistes alors ? Ah mais non ! tous sont
péronistes ». Que reste-t-il donc aujourd’hui du péronisme ? A-t-il
encore un contenu idéologique ? Est-il seulement une coquille vide, un
appareil politique qui permet d’occuper des postes ?

Alberto Buela : Écoutez, j’ai écrit un long essai intitulé Notes sur
le péronisme, qui a aussi été édité sous le titre de Théorie du
péronisme, je vais essayer de vous le définir en quelques mots. Le
péronisme est un nationalisme de « Grande patrie », de caractère
populaire, qui considère que la majorité a raison. Son contenu
idéologique se résume dans le postulat : justice sociale, indépendance
économique et souveraineté politique. Il privilégie les organisations
communautaires, les organisations libres du peuple, sur les
institutions de l’État. Il affirme être : « un gouvernement
centralisé, un État décentralisé et un peuple librement organisé ».

Pour ce qui est du Parti péroniste ou justicialiste, il est, comme
vous dites, une coquille vide et un instrument politique, qui permet
aux dirigeants d’occuper les postes lucratifs de l’Etat et de
s’enrichir pour une ou deux générations sans travailler.


11. Arnaud Imatz : L’Argentine a connu la pire crise de son histoire
économique en 2001-2002.  Après la fin de la parité peso-dollar, la
déclaration de cessation des paiements aux organismes internationaux
et l’abandon des mesures néolibérales, le pays a connu le renouveau
des politiques de signe national,  l’interventionnisme de l’Etat, la
croissance… mais aussi l’inflation. Depuis 2008, le pays est retombé
dans la récession et l’hyperinflation. C’est, semble-t-il, le retour à
la case départ. Que pensez-vous des  bilans présidentiels de Néstor
Kirchner et de sa femme Cristina Fernández Kirchner ?

Alberto Buela : L’Argentine est sortie de la terrible crise de
2001-2002 grâce à la gestion de son ministre de l’Économie, Roberto
Lavagna, qui a adopté et permis d’adopter aux provinces (n’oubliez pas
que l’Argentine est un État fédéral) des mesures économiques
incompatibles avec les mesures proposées par le Fonds monétaire
international et les organismes internationaux de crédit. Je me
souviens de celle qui eut le plus d’impact sur la vie quotidienne : la
création de pseudo-monnaies, qui permettaient d’acheter mais pas
d’épargner, car elles perdaient chaque jour de la valeur. Le résultat
a été une réactivation explosive de l’économie argentine qui, jusque
là, était  paralysée. La consommation et la demande ont augmenté de
façon exponentielle. Dans un pays ou la capacité économique était de
400 milliards de dollars (en 2001-2002), l’effet fut de multiplier par
100 la richesse nationale.

Le premier gouvernement du couple Kirchner profita de cette
réactivation et de la situation économique mondiale qui privilégiait
alors les marchandises (viandes, graminées et pétrole). Le bilan
global fut plutôt un succès. Mais cette croissance s’est rompue à
partir de 2007. La nouvelle donne est devenue manifeste au cours du
long gouvernement (2007-2012) de Mme Kirchner. L’économie argentine
est aujourd’hui en panne, la croissance est proche de zéro. La
politique que privilégie le gouvernement est celle des subsides au «
non-travail » plutôt qu’à la création d’emplois. L’insécurité et
l’inflation, véritable impôt sur les pauvres, pèsent lourdement sur la
société.


12. Arnaud Imatz : À ce jour, quel est le poids respectif des
différentes idéologies que sont le socialisme-marxiste, la
social-démocratie, le nationalisme et le populisme dans l’ensemble de
l’Amérique ibérique ? Qu’en est-il de l’influence de la théologie de
la libération, si répandue dans les années 1970-1980 ?

Alberto Buela : L’ensemble des pays ibéro-américains constitue une
masse de vingt États-nations où deux formes de gouvernements se
détachent. Il y a, d’une part, la social-démocratie, avec des
gouvernements du type Zapatero, comme hier en Espagne, ou Hollande,
comme aujourd’hui en France. Parmi eux : Roussef (Brésil), Kirchner
(Argentine), Correa (Équateur), Mujica (Uruguay) et les indigénistes
Chávez (Venezuela) et Morales (Bolivia). Je sais que certains
s’étonneront de voir ces deux derniers dans la liste, mais les faits
sont ce qu’ils sont. J’ai d’ailleurs eu l’occasion de parler avec
Morales et plus encore avec Chávez et je juge donc en connaissance de
cause.

Il y a, d’autre part, la forme libérale de gouvernement, comme Rajoy
aujourd’hui en Espagne et Sarkozy hier en France. Parmi eux : Piñera
(Chili), Santos (Colombie), Franco (Paraguay), Peña (Mexique) et
Humala (Pérou). Quant aux pays d’Amérique centrale, ils se divisent à
parts égales entre ces deux formes de gouvernement.

Si nous voulions classer ces gouvernements en utilisant, comme en
Europe, les catégories de populisme, nationalisme, gauche ou droite,
nous ne rendrions pas vraiment compte de la réalité. Tous se déclarent
en effet expressément populistes, nationalistes et de gauche. Cela
dit, la question de la signification de ces trois concepts ne manque
pas de resurgir aussi chez nous.

Ce qui est intéressant de noter, c’est que tous les gouvernements de
type social-démocrate se caractérisent par une dissonance entre ce
qu’ils disent dans leur discours politique et ce qu’ils font. Ainsi en
Argentine, on parle de lutte contre la concentration des groupements
économiques et l’on associe la principale entreprise de l’État, YPF
(Yacimientos petrolíferos fiscales) à la société nord-américaine
Chevron. En Uruguay, le président Mujica nous parle de libération et
prétend créer une entreprise nationale … pour planter et
commercialiser la marijuana.

À côté, les gouvernements de type libéral se caractérisent par une
plus grande efficacité économique dans la gestion administrative du
bien public, mais leur discours politique est d’une pauvreté
idéologique lamentable.

En ce qui concerne la théologie de la libération, elle n’est plus
d’actualité dans notre Amérique. N’oublions pas qu’elle était plus un
programme à réaliser qu’une construction concrète. Et aujourd’hui, les
quelques théologiens qui s’en réclament encore sont des fonctionnaires
des gouvernements sociaux-démocrates.


13. Arnaud Imatz : Et le socialisme-marxiste cubain, si à la mode dans
les années 1960-1970 ?

Alberto Buela : Sur Cuba j’ai une anecdote intéressante. J’ai été
invité par Chávez, en 2005, avec trois membres du comité directeur de
la CGT argentine. Chávez souhaitait alors fonder la « CGT bolivarienne
» et je me suis retrouvé, à Caracas, au milieu de 2500 délégués
hispano-américains arborant tous la chemisette rouge. Il y avait là
des membres du Front Farabundo Marti de Libération nationale du
Salvador, des Colombiens, des Brésiliens de la CUT (tous communistes)
et bien sûr les principaux représentants de la CGT de Cuba. Au nom de
la CGT argentine, j’ai fait la brève déclaration suivante : « Sans
vouloir se quereller avec Castro, ni avec le « petit » Correa
(dirigeant de la CGT de Cuba), nous disons qu’en 40 ans le mouvement
ouvrier institutionnel de Cuba n’a jamais négocié une seule convention
collective du travail et que par conséquent il n’a aucune légitimité
pour représenter les travailleurs cubains. Si Chávez adopte un
semblable modèle syndical, l’effet sera aussi étouffant que celui  de
« l’accolade de l’ours ». Et j’ai ajouté : Géopolitiquement, Cuba ne
signifie rien ni pour l’Amérique hispanique, ni pour Yankeeland, alors
que le Venezuela a beaucoup d’importance en raison de son pétrole ».
Je voulais dire par là que la ligne politique de Cuba n’affecte en
rien la politique et la géopolitique de l’Amérique hispanique. Ce que
d’ailleurs Castro lui même n’ignorait pas. Lorsqu’il se rendit en
Argentine, en 2007, après avoir pris connaissance de la « la théorie
du losange », il déclara sans détours (et la presse de l’époque en
témoigne) qu’il était tout-à-fait d’accord avec elle, qu’il n’avait
jamais rien entendu de plus anti-impérialiste, mais qu’il fallait
exclure Cuba pour ne pas compliquer davantage la réalisation du
projet.


14. Arnaud Imatz : 50 millions d’hispanophones vivent aujourd’hui aux
États-Unis. Ils dépasseront les 25% de la population en 2050. Dans un
article retentissant, écrit peu de temps avant sa mort (« Le défi
hispanique », Foreign Policy, 1er mars 2004), Samuel Huntington
s’inquiétait de cette situation. Il jugeait l’immigration « hispanique
», en particulier mexicaine, trop massive. Concentrée dans certains
États, elle n’aurait plus rien à voir, selon lui, avec l’immigration
traditionnelle aux sources et destinations beaucoup plus dispersées.
La division culturelle serait en passe de remplacer la division
raciale entre Noirs et Blancs. La reconquête du sud des États-Unis par
les mexicains immigrants serait en marche. Il serait désormais
tout-à-fait envisageable que ces États du sud se joignent à ceux du
nord du Mexique pour constituer une nouvelle République du nord :
MexAmérica. Ces inquiétudes de Huntington vous semblent-elles fondées
?

Alberto Buela : Le travail d’Huntington, que j’ai étudié avec
attention, est une forte invitation à la réflexion sur les
conséquences d’une immigration hispanique massive aux États-Unis.
Cependant, son analyse exclusivement politologique laisse de côté un
important aspect économique. Il ne tient pas compte de la force
économique du marché nord-américain, qui est le plus puissant du
monde, et qui a tous les jours davantage besoin de travailleurs
bilingues.

Dans les années 1940-1950, les Hispano-américains, qui allaient aux
États-Unis, voulaient que leurs enfants parlent l’anglais. Comme ils
subissaient une sorte de capitis deminutio (diminution de leurs
droits), ils souhaitaient que leur progéniture s’incorpore rapidement
à la société nord-américaine. Aujourd’hui, la situation s’est
inversée. Les immigrants parlant deux langues sont avantagés sur le
marché du travail. Cette nouvelle donne affecte plus particulièrement
les Noirs qui, parce qu’ils sont monolingues, perdent des postes de
travail.

Je ne crois pas qu’il y ait un risque d’occupation hispanique des
États-Unis, et cela d’autant moins qu’il n’y pas de plan établi en ce
sens. En revanche, ce qui existe aux États-Unis c’est une tendance
vers la société bilingue qui va permettre aux « yankees »,
contrairement à ce que pensait Huntington, une meilleure implantation
dans le monde.

Les nord-américains sont en train de réaliser, peut-être sans le
vouloir expressément, ce que les français ne font pas : profiter du
développement exponentiel de l’espagnol au niveau mondial pour
améliorer leur positionnement international.

Il faut en outre souligner  que tout le progrès technologique
(Internet, Web 2.0, tablettes, etc.) renforce le contact et le lien
des immigrés avec leurs racines. Le déracinement ne se vit plus
aujourd’hui comme il y a cinquante ans et le maintien des usages et
coutumes est devenu plus solide. La preuve : la plus grande fête du «
jour de la race » ou de l’hispanité, le 12 octobre, est célébrée à New
York et à Miami et non pas à Madrid.


15. Arnaud Imatz : Vous avez déclaré récemment dans un journal
madrilène : « Si le Premier ministre espagnol échoue dans sa politique
de redressement économique, il entrainera avec lui l’Espagne et au
passage vingt nations d’Amérique ». Pourquoi ? Quelle pourrait être,
selon vous, une bonne politique étrangère de l’Espagne et plus
généralement de l’UE en Amérique centrale et du Sud ?

Alberto Buela : Les gouvernements espagnols postfranquistes se sont
trompés d’option stratégique en se prononçant pour l’Union européenne
au lieu de choisir l’option américaine. Ces gouvernements
sociaux-démocrates ou libéraux sont des produits du complexe espagnol
de « L’Europe se termine aux Pyrénées ». Aucun d’entre eux n’a pris le
taureau par les cornes pour dire : « L’Espagne n’a pas a démontré ce
qui est un fait. L’Espagne doit assumer sa vocation américaine ».
C’est en Amérique que l’Espagne a acquis son sens dans l’histoire du
monde et non pas en Europe, même si elle en est un pays fondateur
depuis l’Hispanie romaine.

L’Espagnol, disciple des Lumières, est un homme très complexé face à
la France et ce qui est français. Ce complexe ou cette dévalorisation
de soi est ce qui a conduit à la grave erreur de préférer l’Europe à
l’Amérique hispanique, alors que celle-ci ouvre à l’Espagne des
potentialités illimitées sur le plan économique et culturel.

Tous les gouvernements postfranquistes ont renoncé expressément à
prendre la tête de cette communauté à laquelle ils appartiennent et
qui leur appartient de plein droit, au nom d’un européisme vide qui
les a finalement transformés en mendiants de l’Union européenne.

Quant à l’Union européenne, à mon avis celle-ci se limite avant tout à
l’entente Allemagne-France. L’Allemagne n’a que trois options
possibles: 1) le lien avec la Russie, 2) l’union avec les États-Unis
ou 3) l’entente avec la France (situation actuelle). Mais il n’y a pas
d’option ibéro-américaine pour elle. La communauté ibéro-américaine
n’est pas une priorité pour l’Allemagne. Le seul lien sérieux et
plausible de l’UE avec l’Amérique ibérique ne peut passer que par
l’Hexagone. La France, bernée et déçue d’investir en Afrique sans
aucun résultat positif, pourrait inviter ses partenaires européens à
se tourner vers notre Amérique.


jeudi, 28 février 2013

Mezri Haddad: « la révolution du jasmin était une manipulation du Qatar et des Etats-Unis »

Mezri Haddad: « la révolution du jasmin était une manipulation du Qatar et des Etats-Unis »

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Interviewé par le quotidien algérien La Nouvelle République, Mezri Haddad revient sur les causes de la révolution du jasmin et dévoile les objectifs stratégiques et géopolitiques du printemps arabe. Pour le philosophe tunisien, ce printemps n’est que la mise en oeuvre du « Grand Moyen-Orient » conçu par les néoconservateurs pour domestiquer l’islamisme en vue de perpétuer l’hégémonie américaine. « Le triomphe de l’islamisme en tant qu’idéologie provoquera la déchéance de l’Islam en tant que religion », prévient M.Haddad. Voici la reproduction de cette interview réalisée par Chérif Abdedaïm et publiée à la Une de la Nouvelle République du 12 février 2013.

Vous êtes de ceux qui considèrent que la « révolution tunisienne » n’est en fait qu’une  imposture qui ne relève pas seulement du ressort des islamistes. Quels sont d’après-vous les responsables de cette déstabilisation de la Tunisie et pourquoi ?

Les responsables de cette déstabilisation c’est d’abord un régime qui n’a pas été capable d’amorcer, en temps opportun, un véritable processus démocratique et qui a laissé se propager le clientélisme et la corruption. C’est aussi une opposition qui a manqué de patriotisme en se mettant au service d’agendas étrangers. Oui, j’ai considéré dès le départ que la « révolution du jasmin » était un conte de fées pour adolescents. Il s’agissait plutôt d’une révolte sociale que des traitres locaux et des services étrangers ont déguisé en révolution politique. Cette révolte sociale est semblable à celle de janvier 1978, à celle de janvier 1984 et à celle d’octobre 1988 en Algérie. Elles exprimaient toutes des revendications sociales et salariales parfaitement légitimes. Ce qui s’est passé en janvier 2011 est donc une colère sociale qu’une poignée de cyber-collabos ont transformé en soulèvement politique, selon un plan que les services américains ont mis en œuvre dès 2007. Volontairement ou inconsciemment, plusieurs jeunes tunisiens et arabes d’ailleurs ont été embrigadé par l’organisation OTPOR, par l’Open Society Institute du vénérable George Soros, et par la Freedom House, qui a été dirigé par l’ancien directeur de la CIA, James Woolsey, et qui compte parmi ses membres le théoricien du choc des civilisations, Samuel Huntington, ainsi que Donald Rumsfeld et Paul Wolfowitz, qui ont commis des crimes contre l’Humanité en Irak. C’est par la magie du Web, d’internet et de facebook qu’un simple fait divers –l’immolation par le feu d’un jeune alcoolique- s’est mu en « révolution du jasmin » pour se transmuer en « printemps arabe ».

 

Au même titre que dans beaucoup de pays arabes et même européens, la Tunisie a connu son malaise social, mal vie, chômage, etc, qui sembleraient être à l’origine du soulèvement du peuple tunisien. Toutefois, quand on  constate qu’avec la nouvelle configuration du paysage politique tunisien  cette situation sociale s’est au contraire aggravée ; qu’aurait-il fallu faire pour redresser cette situation ?

Le malaise social était bien réel mais on en a exagéré l’ampleur. Contrairement à tout ce qui a été dit par propagande, par ignorance ou par suivisme, ce n’était pas du tout une révolte de la pauvreté et de la misère économique mais de la prospérité et de la croissance mal répartie entre les strates sociales et les régions géographiques. L’économie de la Tunisie se portait nettement mieux que les économies dopées de l’Espagne, de l’Italie, du Portugal et de la Grèce, un Etat en faillite malgré trois plans de sauvetage à coup de millions d’euros. L’Etat tunisien n’était pas en faillite, bien au contraire. C’est maintenant qu’il est en faillite, avec un endettement qui s’est multiplié par sept, une croissance en berne et plus d’un million de chômeurs, alors qu’il était à 400000 en janvier 2011. En moins de deux ans, la Tunisie a perdu les acquis de 50 ans de dur labeur.

Si vous aviez à comparer l’époque Bourguiba, celle de Ben Ali, et la gouvernance actuelle,  quelle serait  d’après-vous celle qui répond le mieux aux aspirations du peuple tunisien ?

Celle de Bourguiba, incontestablement. C’était l’époque où le géni d’un homme se confondait avec l’esprit d’une nation. Je préfère employer ce concept de nation plutôt que le mot peuple dont tout le monde se gargarise depuis janvier 2011. Bourguiba, qui reste pour moi un exemple inégalable, n’était pas un démocrate mais un despote éclairé. Sa priorité n’était pas la démocratie, mais la construction d’un Etat moderne, le raffermissement d’une nation, l’affranchissement des esprits par l’éducation et l’émancipation de la femme par jacobinisme. Ben Ali n’a ni la dimension charismatique de Bourguiba, ni sa puissance intellectuelle. C’est un président pragmatique que le hasard et la nécessité ont placé à la tête de la Tunisie. Il avait deux priorités : le redressement économique du pays et la neutralisation des islamistes. Quoique l’on dise aujourd’hui, dans ces deux objectifs, il a remarquablement réussi. Sa faute majeure dont la Tunisie n’a pas fini de payer le prix, c’est qu’il n’a pas profité de ses deux atouts pour instaurer une véritable démocratie. Enivré par le pouvoir, mal conseillé, se sentant invulnérable, il n’a pas su répondre aux aspirations démocratiques d’une société à plus de 60% jeune et éduquée. Quant à la gouvernance actuelle, elle cumule l’incompétence et la suffisance. Mais plus grave encore que l’incompétence, ce gouvernement dit de la troïka n’a aucun sens du patriotisme, puisque les uns subissent les injonctions de Washington, les autres sont sous l’influence de l’ancienne puissance coloniale, et les troisièmes sont aux ordres du Qatar.

On accuse justement le Qatar de jouer un rôle déstabilisateur dans les pays arabes ; êtes-vous de cet avis ? Si oui, dans quel intérêt cet émirat joue-t-il ce rôle ?

Non seulement je suis de cet avis, mais j’ai été l’un des rares, sinon le premier à dénoncer le rôle moteur que cet émirat féodal et esclavagiste a joué dans ce fameux « printemps arabe ». Je l’avais analytiquement démontré dans mon livre « La face cachée de la révolution tunisienne », dès 2011. Le rôle de cette oligarchie mafieuse a été, en effet, déterminant. Par la propagande et l’intoxication d’Al-Jazeera, par l’activisme diplomatique, par la corruption financière des instances décisionnelles occidentales, et par le recrutement de mercenaires chargés de semer la panique et la terreur au sein de la société. Il existe des preuves matérielles selon lesquelles les premières victimes dans les rangs des manifestants ont été abattues par des snippers d’Europe de l’Est payés par les services qataris. Ce fut le cas en Tunisie mais aussi en Egypte. Dans quel intérêt le Qatar a-t-il joué ce rôle ? Primo par sous-traitance de la géopolitique israélo-américaine. Secundo par ambition énergétique. Tertio par messianisme islamo-wahhabite.

La France et les Etats-Unis, semblent également impliqués dans la déstabilisation de la Tunisie, à l’instar de l’Egypte, la Libye et maintenant la Syrie et bientôt le Sahel. Dans ces différents cas, ils semblent  se « réconcilier » avec les mouvements islamistes qu’ils combattaient depuis le 9/11 au nom de la lutte anti-terroriste. Comment peut-on interpréter cette nouvelle  « alliance »?

Pour ce qui est des anglo-saxons, cette alliance n’est pas nouvelle mais très ancienne. Elle remonte à la fameuse grande révolte arabe sous le commandement de Lawrence d’Arabie, puis à la naissance des Frères musulmans en 1928, une secte qui est le produit du géni politique anglais pour marginaliser le nationalisme arabe en guerre contre le colonialisme. L’âge d’or de l’alliance islamo-impérialiste a été en Afghanistan et contre l’URSS. Les événements du 11 septembre 2001 ont sans doute marqué un tournant. L’esclave s’est retourné contre son maître. L’administration Bush a trouvé dans cet événement l’occasion d’envahir l’Irak et croyait pouvoir éradiquer rapidement le terrorisme islamiste en Afghanistan. Mais parallèlement, dans le cadre du « Grand Moyen-Orient », les néoconservateurs renouaient avec tous les mouvements islamistes qui ont fait allégeance au gendarme du monde. Le nouveau deal : on lâche les dictatures qui vous ont persécuté, on vous aide même à prendre le pouvoir, mais en échange, vous gardez bien nos intérêts, vous ne franchissez pas la ligne rouge par rapport à Israël et vous contribuez au maintien de l’omnipuissance américaine contre la Russie, la Chine, l’Inde et les autres puissances émergentes. Comme je l’avais dit dans une interview il y a plus d’une année, « A vous la charia, à nous le pétrole. Chacun sa religion ! ». C’est ainsi que je résume le sens ultime du « printemps arabe ».  

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Vous dites également, dans l’un de vos articles que « C’est l’impatience et l’insolence d’un Rached Ghannouchi  galvanisé par le soutien américain, la crise algérienne et le bras de fer entre le FLN et le FIS qui ont changé la donne en Tunisie. » Pouvez-vous  nous éclairer à ce sujet?

Il me semble que je parlais des rapports entre Ben Ali et Ennahda entre 1987 et 1991. Il faut d’abord rappeler que deux Etats ont joué un rôle important dans l’arrivée au pouvoir de Ben Ali : l’Italie et l’Algérie. La France avait un autre successeur à Bourguiba et les Américains jouaient déjà la carte islamiste. Ben Ali a été reconnu par les Etats-Unis à la seule condition qu’il partage le pouvoir avec leurs protégés islamistes. C’est ainsi qu’il les a libéré de prison, qu’il a reçu à Carthage Ghannouchi, que les islamistes ont été autorisé à participer aux élections de 1989 avec des listes indépendantes, qu’ils ont signé le Pacte national…Le point de discorde a été la légalisation d’Ennahda. Bien installé au pouvoir, Ben Ali voulait gagner encore du temps avant de faire cette dernière concession. Excédés, confortés par l’allié anglo-américain, les islamistes ont retrouvé leurs vieux reflexes : manifestations, agitations à l’université, complots contre la sécurité de l’Etat et tentatives d’assassiner Ben Ali. Celui-ci a trouvé dans le début de la crise algérienne l’occasion de mettre hors d’état de nuire les islamistes.

En extrapolant l’impact de ces « révolutions » déstabilisatrices, on constate également, qu’un autre bras de fer se déroule en catimini entre les Etats-Unis ( y compris leur alliés Occidentaux) et les pays du BRICS. D’après-vous, quelles pourraient être  les conséquences de cette nouvelle donne ?

Ce n’est pas une extrapolation mais une expression essentielle du « printemps arabe ». Je dirai même que le premier sens géopolitique et géostratégique de ce « printemps arabe » est de saborder par anticipation tout rapprochement entre le monde arabo-islamique et les puissances du BRICS, principalement la Russie et la Chine. Il faut relire Bernard Lewis et Samuel Huntington pour une meilleure intelligibilité du « printemps arabe », à l’aune du projet de Grand Moyen-Orient. Dans le « Choc des civilisations », Huntington –qui a d’ailleurs commencé sa carrière universitaire en tant que spécialiste de la Tunisie !- parle clairement de « l’alliance islamo-confucéenne » qu’il faut empêcher par tous les moyens. La carte islamiste, comme la carte du bouddhisme tibétain, pourrait d’ailleurs tout à fait servir à l’implosion de la Chine, qui compte une trentaine de millions de musulmans. Idem pour l’Inde, autre puissance émergente, qui compte 130 millions de musulmans et que les Anglais avaient déjà affaibli par la création artificielle et sur une base confessionnelle du Pakistan en 1947, au grand désespoir de Gandhi. En termes géopolitiques, les Américains cherchent à constituer en Méditerranée un Arc sunnite, la fameuse « ceinture verte », qui partirait du Maroc jusqu’en Turquie, en passant par l’Algérie, la Tunisie, la Libye, l’Egypte, le Liban, la Syrie et le futur Etat jordano-palestinen ! Avec le Pakistan, l’Afghanistan, l’Arabie Saoudite et les pétromonarchies, l’Iran chiite sera isolé, le pétrole sera bien gardé et a foi des musulmans, bien conservée ! Mais il y a aussi un Arc chiite en prévision. C’est que les Etats-Unis ne cherchent pas tant à détruire l’Iran qu’à aseptiser son chiisme, le désamianter plus exactement. Le chiisme aura forcément un rôle à jouer, ne serait-ce que pour que la puissance de l’islamisme sunnite ne dépasse jamais le seuil de tolérance américaine.

On accuse également les instigateurs de cette déstabilisation du monde arabe de convoiter les ressources naturelles de ces pays au moment où la crise économique bat son plein en Europe et aux Etats-Unis. Dans ce cas, pourquoi alors s’être attaqué à la Tunisie qui ne dispose pas de pétrole ou d’autres ressources minières importantes ?

C’est le principal argument que les idiots utiles de la pseudo-révolution tunisienne ont utilisé pour répondre à ceux qui ont analysé cette « révolution » dans ses implications géopolitiques, en accusant d’ailleurs ces analyses de théories du complot. La Tunisie n’a pas été visée parce qu’elle regorge de pétrole mais parce qu’elle répondait au critère du parfait laboratoire. Elle devait servir de mèche à la poudrière arabe. C’était le pays socialement, économiquement et politiquement le mieux prédisposé à une telle crise. Pendant des années, on avait présenté le régime tunisien comme la plus grande dictature policière du monde arabe. Les événements de janvier 2011 ont démontré qu’il était le régime le plus vulnérable et même le plus libéral. Quant à l’appropriation des ressources naturelles par les colonialistes new look, cela ne fait pas le moindre doute. La Libye n’est plus maitresse de son gaz, de son pétrole et même de ses nappes phréatiques. Exactement comme l’Irak, depuis 2003.

Récemment les islamistes viennent de passer à une nouvelle étape  celle des assassinats ; celui du militant Chokri Belaïd, après ceux de Lotfi Nakhd, de Nidaa Tounès, il y a quelques mois ; de quoi  cela pourrait-il présager ?

C’est le présage d’une série d’attentats ciblant les politiques, les intellectuels, les journalistes, mais aussi d’un cycle de violence que la Tunisie n’a jamais connu auparavant. C’est la conséquence de deux ans de laxisme et de décisions irresponsables. Dès le 14 janvier 2011, au nom de la « révolution du jasmin », des terroristes ont été libéré, d’autres sont revenus des quatre coins du monde, des centaines de criminels qui n’ont rien à voir avec la politique ou l’islamisme ont été amnistiés par le président provisoire. Tous ces individus dangereux se promènent librement dans le pays. Il y a aussi les criminels qui sont partis faire le jihad en Syrie et qui vont revenir chez eux. Le rétablissement de l’ordre et de la paix civile vont être la tâche la plus difficile.

Enfin, à quelles conséquences pourrait-on s’attendre avec cette montée de l’islamisme radical ? Et qui en serait (ent)  le(s) véritable(s) bénéficiaire(s) ?

Première conséquence, la banalisation du choc des civilisations et la fracture entre Orient et Occident. Avec ce « désordre créatif » comme disent les architectes du « printemps arabe », les pays déstabilisés ne se relèveront pas avant une quinzaine d’années. Ils vont connaître l’anarchie, l’insécurité, l’instabilité politique et le marasme économique. Mais le plus grave à mon avis, c’est la régression sociale, éducative et culturelle que connaissent déjà ces pays et qui va connaitre une amplification dans les années qui viennent. C’est l’ère de la sacralisation du bigotisme et de l’ignorance, l’époque du repli identitaire. Mon combat contre l’idéologie islamiste n’a jamais été celui d’un marxiste, d’un freudien ou d’un laïciste. C’est parce que je me sens profondément musulman que je suis radicalement anti-islamiste. Le pire ennemi de l’islam, c’est l’islamisme. Faire de la religion de Mouhammad un enjeu politique et géopolitique entre les mains des puissances occidentales, c’est un crime impardonnable. Réduire le Coran à un manuel politique, c’est trahir l’esprit de l’islam et poignarder la transcendance de Dieu. Dès 1937, Abbas Mahmoud Al-Akkâd disait que « les groupes religieux qui recourent à la religion pour atteindre des objectifs politiques sont des agents payés qui se cachent derrière l’islam pour abattre cette religion, car la réussite de leur cause finit par la perte de l’islam ». Je considère, en effet, que le triomphe de l’islamisme en tant qu’idéologie provoquera la déchéance de l’Islam en tant que religion. En faisant du saint Coran un manuel de subversion, en réduisant la Sunna aux miasmes de la scolastique médiévale qui offense la haute spiritualité de l’Islam et la supériorité de la philosophie islamique, en faisant de l’islam un enjeu de politique internationale, en transformant cette religion en instrument de chantage , de pression ou de négociation entre les mains des « mécréants » occidentaux comme ils disent, en l‘impliquant dans des actions terroristes aussi abjectes qu’étrangères à ses valeurs intrinsèquement humanistes, ces marchands de l’islam, ces imposteurs de Dieu, ont déjà beaucoup porté atteinte à l’Islam. Vous pourriez donc facilement deviner à qui profite cette subversion de l’Islam et cette image si injuste que l’on donne des musulmans.
Tunisie-Secret.com

Interviewé par Chérif Abdedaïm
La Nouvelle République

lundi, 04 février 2013

Günter Maschke - Das Geburtstagsgespräch

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Günter Maschke

Das Geburtstagsgespräch

Ex: http://www.sezession.de/

SEZESSION: Herr Maschke, Sie waren auf einem viertägigen Carl-Schmitt-Kongreß in Brasilien. Warum waren Sie der einzige Deutsche, wenn es doch um einen Deutschen ging, an dem sich hierzulande die Geister scheiden und über den Jahr für Jahr ein halber Meter Literatur erscheint?

MASCHKE: Unter den deutschen Interpreten Schmitts bin ich wohl der einzige, der mehrere Jahre in Lateinamerika (Cuba und Peru) gelebt hat und der sowohl dort als auch in Spanien und Portugal Dutzende von Vorträgen, Seminaren und ähnliches über Schmitt gehalten hat. Es finden sich dort auch ziemlich viele Veröffentlichungen von mir, zum Teil direkt auf Spanisch verfaßt und in Deutschland unbekannt. Ich kenne eine Reihe jüngerer Autoren, die sich mit Schmitt beschäftigen und ich war befreundet mit inzwischen leider verstorbenen Freunden Schmitts, etwa mit Álvaro d´Ors, José Caamáno Martinez, Jesús Feuyo oder Gonzalo Fernández de la Mora. Seit mehreren Jahren pflege ich auch Kontakte zu einigen Portugiesen.

SEZESSION: Mit anderen Worten – Carl Schmitt im spanisch-portugisischen Ausland ist fest in Maschkes Hand!

MASCHKE: Es waren Spanier und Portugiesen, die meine Teilnahme am Kongreß in Uberlándia anregten. Weshalb nur ich aus Deutschland eingeladen wurde, weiß ich nicht, aber vermutlich haben Sie recht mit Ihrer Aussage – obwohl ich nie eine Werk- oder Denkschulstrategie verfolgt habe.

gm85418080.jpgSEZESSION: Erzählen Sie etwas über den Ertrag dieser Tagung, über die Atmosphäre. Wofür interessierte man sich? Für den Schmitt von 1932 oder auch für etwas anderes?

MASCHKE: Der Kongreß war etwas allzu angestrengt und anstrengend – einundzwanzig Vorträge in vier Tagen, dazu in unterschiedlichen Sprachen. Die Atmosphäre war jedoch angenehmer als bei ähnlichen Unternehmen hierzulande, dies auch deshalb, weil es so gut wie nicht um die Frage ging, ob Schmitt sich 1933 falsch oder verantwortungslos oder gar verbrecherisch verhalten hat. Diese bestenfalls drittrangige Frage interessiert Ausländer nur sehr selten. Was sie interessiert sind die Probleme und Ideen in Schmitts Werk und welche Aktualität dieses Werk heute in der bedrohlich nahenden Zukunft besitzt. Das kam besonders in den Referaten von Joseph Bendersky (USA) – „Schmitt und der ‚Kampf der Kulturen’ bei Samuel Huntigton“ – und von Alain de Benoist (Frankreich) – „Der gerechte Krieg von heute und Carl Schmitt“ – zur Sprache. Aber es mangelte auch nicht an Vorträgen, die man der „Einflußliteratur“ (Friedrich Balke) zuzählen mag: Schmitts Verhältnis zu Kelsen, zu Machiavelli, zu Donoso Cortés, zu Blumenberg undsofort.

Man darf sagen, daß „für jeden etwas dabei war“. Das ist aber keine Kritik meinerseits. Ein erster, dazu auch noch internationaler Kongreß hat wohl immer eine derartig großzügige „Streuung“. Man vermißte einige Schmitt-Forscher aus Argentinien und aus Kolumbien, aber der bedeutendste Ertrag des Kongresses war wohl die Gründung eines „Internationalen Netzes für Schmitt-Studien“ (RIES – Rede Internacional de Estudos Schmittianos). Es spricht viel dafür, daß hier viele Impulse aus Brasilien kommen werden, – nicht zuletzt aufgrund der erstaunlichen Energie des Initiators des Kongresses, des Philosophen Roberto Bueno.

SEZESSION: Sie haben bei Karolinger jüngst eine überarbeitete Fassung Ihres Buchs Der Tod des Carl Schmitt veröffentlicht. Das Buch war damals, nach dem Tode Schmitts im Jahre 1985, eine Abrechnung mit der Nekrologie und der Dominanz der Habermas-Schule. Wie ist die Lage heute?

MASCHKE: Die Lage hat sich etwas gebessert, weil eben die Frage nach Schmitts Engagement 1933 selbst bei uns weniger interessiert als früher. Doch vielen politischen Themen geht man immer noch etwas aus dem Wege, – dem gerechten Krieg von heute, dem so menschenfreundlich daherkommenden Humanitarismus und seinen ´Abgründen´, dem Betrug der parlamentarischen Demokratie, auch der wundersamen Vermehrung des ´eindimensionalen Menschen´, um einmal Herbert Marcusus Buchtitel zu benutzen. Was allzu heftig gedeiht ist wohl die schon erwähnte „Einflußliteratur“, die „Schmitt und … “ – Literatur. Schmitt und Agamben, und Benjamin, und Cioran, und Eschweiler, und Foucault, und Gütersloh usw. usf. Unstreitig ist ein Teil dieser Literatur nützlich und sogar notwendig, – doch der weitaus größere Teil scheint mir nur Permutations-Zirkus und feuilletonistische oder universitäre Anknüpfungsbetriebsamkeit. Die modernen geisteswissenschaftlichen Fakultären sind heute Fabriken, in denen erbarmungslos produziert werden muß – die Qualität und der Gebrauchswert der Erzeugnisse spielen da eine immer geringer werdende Rolle. Wenn schon „Schmitt und …“ –Studien, dann sollten sie auch Leuten gelten, die engere intellektuelle Beziehungen zu Schmitt unterhielten und deren Themen und Argumente sich oft mit denen Schmitt deckten, man denke etwa an Paul Barandon, Carl Bilfinger, Axel Freiherr v. Freytagh-Löringhoven, Asche Graf Mandelsloh, Heinrich Rogge, Gustav Adolf Walz, Giselher Wirsing, Ernst Wolgast. Aber ausgerechnet hier finden sich keine „Schmitt und …! –Aufsätze und das liegt zu einem beträchtlichen Teil an skandalöser Unkenntnis. Doch ich bleibe höflich und schweigsam!

gm7a792d7f1dc3346d56d6179f74a10061.jpgSEZESSION: Aus einem Gespräch mit Ihnen habe ich die Bemerkung in Erinnerung, daß Sie Schmitt desto weniger begriffen, je länger Sie sich mit ihm beschäftigten. Kokettieren Sie oder ist Schmitt wirklich ein Labyrinth?

MASCHKE: Schmitt ist eben wie jeder wirkliche Klassiker: vieldeutig und unerschöpflich. „Er zieht an, stößt ab, interessiert und ärgert, und so kann man ihn nicht los werden“ sagte Goethe 1818 über Stendhal und so geht es mir und vielen anderen mit Schmitt. Es ist oft das nur Skizzenhafte der Text Schmitts, das so stark anregt und zur wiederholten Lektüre zwingt, – auch beim x-ten Mal entdeckt man etwas bis dahin Übersehenes. Schmitts Werk ist eine Samenkapsel! – Meine Bemerkung Ihnen gegenüber war vielleicht allzu kokett. Schmitt sagte mir einmal: „Unterschätzen Sie nicht den systematischen Charakter meines Werkes!“ Doch ich gestehe, daß ich diesen „systematischen Charakter“ bisher nicht gefunden habe. Ich halte es mehr mit einer Feststellung von José Caamano Martinez: Schmitts Werke zeichneten sich aus durch Mangel an Solidheit, aber auch durch große Finesse („falta de solidez, pero de gran finura“). Nichts gegen die Solidheit, – aber die Finesse kommt aus höheren Regionen.

dimanche, 03 février 2013

Opérations extérieures et opérations d'influence...

Opérations extérieures et opérations d'influence...

Ex: http://metapoinfos.hautetfot.com/

"Nous autres idéalistes, enfants des lumières et de la civilisation, pensons régulièrement que la guerre est morte. Las, cet espoir est aussi consubstantiel à l'homme que la guerre elle-même. Depuis que l'homme est homme, la guerre et lui forment un couple indissociable parce que les hommes sont volontés – volonté de vie et volonté de domination – et que la confrontation est dans la nature même de leurs rencontres." Général Vincent Desportes, La guerre probable (Economica, 2008)

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par le général Vincent Desportes à Bruno Racouchot pour l'excellente revue Communication & Influence, éditée par le cabinet COMES. Le général Desportes est l'auteur de nombreux essais consacrés à la stratégie comme Comprendre la guerre (Economica, 2000) ou La guerre probable (Economica, 2008). 

 

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Opérations extérieures et opérations d'influence: le décryptage du Général Vincent Desportes

Somalie, Centrafrique, Mali… à des titres divers, l'armée française intervient sur bien des fronts. Il ne s'agit plus seulement de frapper l'ennemi, il faut aussi gérer les conflits informationnels et anticiper les réactions, le tout en intégrant de multiples paramètres. Comment percevez-vous cette imbrication des hard et soft powers ?

Nous assistons indéniablement à un affrontement des perceptions du monde. Les terroristes cherchent à faire parler d'eux, à faire émerger leur perception du monde à travers des actions militaires frappant l'opinion, actions dont la finalité est d'abord d'ordre idéologique. Ils inscrivent leurs actions de terrain dans le champ de la guerre informationnelle. Ils font du hard power pour le transformer en soft power. Les opérations militaires qu'ils conduisent le sont en vue de buts d'ordre idéologique. Ils ne recherchent pas l'effet militaire immédiat. Ils agissent plutôt en termes d'influence, à mesurer ultérieurement. Dans cette configuration, il y a une interaction permanente entre le militaire stricto sensu et le jeu des idées qui va exercer une influence sur les opinions publiques. La guerre est alors vue comme un moyen de communication, qui a pour but de faire changer la perception que le monde extérieur peut avoir de celui qui intervient.

Notons que cela ne joue pas que pour les terroristes. La France intervient au Mali et elle a raison de le faire. En agissant ainsi, de manière claire et efficace, elle modifie la perception que le monde pouvait avoir d'elle, à savoir l'image d'une nation plutôt suiveuse des États-Unis, comme ce fut le cas en Afghanistan. En intervenant dans des délais très brefs et avec succès loin de ses bases, en bloquant les colonnes terroristes, en regagnant le terrain perdu par les soldats maliens, et surtout en ayant agi seule, elle ressurgit d'un coup sur la scène médiatico-politique comme un leader du monde occidental. Était-ce voulu au départ ? Je ne sais pas. Mais le résultat est là. La France retrouve sa place dans le jeu complexe des relations internationales à partir d'une action militaire somme toute assez limitée. En conséquence, si l'on veut avoir une influence sérieuse dans le monde, nous devons conserver suffisamment de forces militaires classiques relevant du hard power, pour pouvoir engager des actions de soft power. L'un ne va pas sans l'autre. Le pouvoir politique doit bien en prendre conscience.

 

Justement, à l'heure où s'achève la réflexion sur le futur Livre blanc, quid des armes du soft power dans le cadre de la Défense ? La France n'est-elle pas en retard dans ce domaine ? N'est-il pas grand temps, comme vous le suggériez dans La guerre probable, de commencer enfin à "penser autrement" ?

"Toute victoire, disait le général Beaufre, est d'abord d'ordre psychologique." Il ne faut jamais perdre de vue que la guerre, c'est avant tout l'opposition de deux volontés. En ce sens, l'influence s'impose bel et bien comme une arme. Une arme soft en apparence, mais redoutablement efficace, qui vise à modifier non seulement la perception, mais encore le paradigme de pensée de l'adversaire ou du moins de celui que l'on veut convaincre ou dissuader. Dans la palette qui lui est offerte, l'homme politique va ainsi utiliser des moyens plus ou moins durs (relevant donc de la sphère du hard power) ou au contraire plus ou moins "doux" (sphère du soft power) en fonction de la configuration au sein de laquelle il évolue et des défis auxquels il se trouve confronté.

Le problème de la pensée stratégique française est justement qu'elle éprouve des difficultés à être authentiquement stratégique et donc à avoir une vision globale des choses. Notre pays a du mal à construire son action en employant et en combinant différentes lignes d'opérations. L'une des failles de la pensée stratégique française est de n'être pas en continuité comme le percevait Clausewitz, mais une pensée en rupture. C'est-à-dire qu'au lieu de combiner simultanément les différents moyens qui s'offrent à nous, nous allons les employer successivement dans le temps, au cours de phases en rupture les unes avec les autres. On fait de la diplomatie, puis on a recours aux armes du hard power, puis on revient à nouveau au soft power. Cette succession de phases qui répondent chacune à des logiques propres n'est pas forcément le moyen idoine de répondre aux problèmes qui se posent à nous. Utiliser en même temps ces armes, en les combinant intelligemment, me paraîtrait souhaitable et plus efficace. Notre pays a malheureusement tendance à utiliser plus facilement la puissance matérielle que la volonté d'agir en douceur pour modifier ou faire évoluer la pensée – et donc le positionnement – de celui qui lui fait face.

Notre tradition historique explique sans doute pour une bonne part cette réticence à utiliser ces armes du soft power. Pour le dire plus crûment, nous nous méfions des manœuvres qui ne sont pas parfaitement visibles. L'héritage de l'esprit chevaleresque nous incite plutôt à vouloir aller droit au but. Nous sommes des praticiens de l'art direct et avons beaucoup de mal à nous retrouver à agir dans l'indirect, le transverse. À rebours par exemple des Britanniques, lesquels pratiquent à merveille ces stratégies indirectes, préférant commencer par influencer avant d'agir eux-mêmes. Prenons l'exemple de leur attitude face à Napoléon. Le plus souvent, au lieu de chercher l'affrontement direct, ils ont joué de toutes les gammes des ressources du soft power et engagé des stratégies indirectes. Ils ont cherché à fomenter des alliances, à faire en sorte que leurs alliés du moment, les Russes, les Prussiens, les Autrichiens, s'engagent directement contre les armées françaises. Ils ont su susciter des révoltes et des révolutions parmi les populations qui étaient confrontées à la présence ou à la menace française, comme ce fut le cas en Espagne. Le but étant à chaque fois de ne pas s'engager directement mais de faire intervenir les autres par de subtils jeux d'influence.

 

Cette logique demeure toujours d'actualité ?

Indéniablement. Même sur le plan strictement opérationnel, cette même logique perdure sur le terrain. Les travaux de l'historien militaire Sir Basil Henry Liddle Hart dans l'entre-deux guerres mondiales en matière de promotion des stratégies indirectes sont particulièrement édifiants. Liddle Hart prône le harcèlement des réseaux logistiques de l'adversaire, des frappes sur ses réseaux de ravitaillement, et dans le même temps recommande de contourner ses bastions plutôt que de l'attaquer de front.

En ce sens, nous avons un retard à combler. Comme les Américains, au plan militaire, nous préférons l'action directe. Nous avons la perpétuelle tentation de l'efficacité immédiate qui passe par le choc direct. Pour preuve nos combats héroïques mais difficiles d'août 1914. On fait fi du renseignement, on croit que l'on va créer la surprise, on préfère agir en fondant sur l'adversaire, en croyant benoîtement que la furia francese suffira à l'emporter. On sait ce qu'il advint… Le fait est que nous préférons le choc frontal aux jeux d'influence. Nous comprenons d'ailleurs mal les logiques et rouages des stratégies indirectes. Nous cherchons à attaquer la force plutôt que la faiblesse, ce qui est à l'exact opposé de ce que prône Sun Tzu. Comme on le sait, pour ce dernier, l'art de la guerre est de gagner en amenant l'ennemi à abandonner l'épreuve engagée, parfois même sans combat, en utilisant toutes les ressources du soft power, en jouant de la ruse, de l'influence, de l'espionnage, en étant agile, sur le terrain comme dans les têtes. En ce sens, on peut triompher en ayant recours subtilement aux armes de l'esprit, en optimisant les ressources liées à l'emploi du renseignement, en utilisant de façon pertinente les jeux d'influence sur les ressorts psychologiques de l'ennemi.

 

Jusqu'à ces dernières années, on hésitait à parler d'influence au sein des armées, principalement à cause des séquelles du conflit algérien. Les blocages mentaux sont encore très forts. Cependant, les interventions conduites par les Anglosaxons en Irak et en Afghanistan ont contribué à tourner la page. Nos armées doivent-elles, selon vous, se réapproprier ce concept et les outils qui en découlent ?

Dans les guerres de contre-insurrection que nous avons eues à conduire, nous avons compris que l'important était moins de détruire l'ennemi que de convaincre la population du bienfait de notre présence et de notre intervention. Ce sont effectivement les Américains, qui ont redécouvert la pensée française de la colonisation, de Lyautey et de Gallieni, qui privilégiaient la démarche d'influence à la démarche militaire stricto sensu. Notre problème dans les temps récents est effectivement lié aux douloureuses séquelles du conflit algérien, où nous avions cependant bien compris qu'il fallait retourner la majorité de la population pour stabiliser le pays et faire accepter la force française. Ce qui, dans les faits, fut réussi. Le discrédit jeté sur les armées et certaines méthodes ayant donné lieu à des excès, ont eu pour conséquence l'effacement des enjeux de la guerre psychologique et des démarches d'influence.

Avec l'Afghanistan, les choses ont évolué. Au début, nous considérions que l'aide aux populations civiles avait d'abord pour but de faire accepter la force. Ce fut peut-être un positionnement biaisé. Nous n'avions sans doute pas suffisamment intégré le fait que les opérations d'aide aux populations étaient primordiales, puisqu'il s'agissait d'opérations destinées à inciter les populations à adhérer à notre projet. Les Américains ont compris avant nous que les opérations d'influence étaient faites pour faire évoluer positivement la perception de leur action, en gagnant comme ils aimaient à le dire, les cœurs et les esprits de ces populations.

 

Dans Le piège américain, vous vous interrogez sur les raisons qui peuvent amener les États-Unis à perdre des guerres. Accorde-t-on une juste place aux opérations d'influence ? Comment voyez-vous chez nous l'évolution du smart power ?

Premier constat, la force est un argument de moins en moins utilisable, car de moins en moins recevable dans les opinions publiques. Si nous voulons faire triompher notre point de vue et imposer notre volonté, il faut s'y prendre différemment et utiliser d'autres moyens. Et d'abord s'efforcer de trouver le meilleur équilibre entre les outils qu'offre le soft power, avec une juste articulation entre les moyens diplomatiques ou d'influence, et les outils militaires. Ces derniers ne peuvent plus être employés comme ils l'étaient avant, l'avantage comparatif initial des armées relevant de l'ordre de la destruction.

Ce bouleversement amène naturellement les appareils d'État à explorer les voies plus douces présentées par les opérations d'influence, lesquelles sont bien sûr davantage recevables par les opinions publiques. Or, pour en revenir à votre question, la puissance militaire déployée par les Américains est par nature une puissance de destruction, donc de moins en moins utilisable dans le cadre évoqué ici. Sinon, comment expliquer que la première puissance mondiale, qui rassemble plus de la moitié des ressources militaires de la planète, n'ait pu venir à bout des Talibans ?

C'est bien la preuve que le seul recours à la force brute ne fonctionne pas. Les États doivent donc chercher dans d'autres voies que celle de la pure destruction, les moyens d'assurer la poursuite de leurs objectifs politiques. Même si nous devons garder à l'esprit que ce moyen militaire stricto sensu reste essentiel dans certaines configurations bien définies. Il ne s'agit pas de se priver de l'outil militaire, qui peut demeurer déterminant sous certaines conditions, mais qui n'est plus à même cependant de résoudre à lui seul l'ensemble des cas auxquels les États se trouvent confrontés.

 

Vous qui avez présidé aux destinées de l'École de guerre, quelle vision avez-vous de l'influence, des stratégies et des opérations d'influence ?

L'enseignement à l'École de guerre évolue. Même si nous nous efforçons de penser avant tout sur un mode stratégique, néanmoins, nous travaillons toujours sur les opérations relevant prioritairement du hard power.

Nous intégrons bien sûr les opérations relevant du soft power, mais elles ne sont pas prioritaires. L'élève à l'École de Guerre doit avant tout savoir planifier - ou du moins participer à des équipes de planification - dans le cadre de forces et d'opérations d'envergure. Il y a un certain nombre de savoir-faire techniques à acquérir, lesquels reposent davantage sur l'usage de la force que sur celui de l'influence. Pour les élèves, c'est là un métier nouveau à acquérir, complexe, très différent de ce qu'ils ont connu jusqu'alors, qui se trouve concentré sur l'emploi de la force militaire à l'état brut. Cependant, dans tous les exercices qui sont conduits, il y a une place pour les opérations d'influence. La difficulté est que l'on ne se situe pas là dans le concret, et que c'est délicat à représenter. Les résultats sont difficiles à évaluer, ils ne sont pas forcément quantifiables, ils peuvent aussi être subjectifs. Alors, peut-être d'ailleurs par facilité, on continue à faire ce que l'on sait bien faire, plutôt que de s'aventurer à faire ce qu'il faudrait réellement faire.

L'Armée de Terre n'a pas à définir une stratégie d'ensemble. Elle doit simplement donner une capacité opérationnelle, maximale à ses forces. Une Armée se situe au niveau technique et opérationnel. Le niveau stratégique se situe au niveau interarmées. Et c'est là que doit s'engager la réflexion à conduire en matière de soft power. Ces précisions étant apportées, il n'en demeure pas moins que – tout particulièrement au sein de l'Armée de Terre – il est nécessaire d'avoir recours à la doctrine qui porte sur les actions à conduire en direction des populations, puisque l'on veut influer sur la perception qu'elles ont de notre action. Reconnaissons pourtant que nous sommes moins avancés que les Américains en ce domaine. Un exemple: un général américain qui commandait la première division de cavalerie en Irak, m'a raconté comment, avant de partir, il avait envoyé tous ses officiers d'état-major à la mairie de Houston pour voir comment fonctionnait une ville. Car il savait bien qu'il allait acquérir le soutien de la population irakienne non pas en détruisant les infrastructures, mais au contraire en rétablissant au plus vite les circuits permettant d'assurer les besoins vitaux, comme les réseaux d'eau ou d'électricité. Il a donc travaillé en amont sur une opération d'influence, qu'il a su parfaitement intégrer à sa manœuvre globale. De la sorte, la manœuvre d'ordre strictement militaire ne venait qu'en appui de la démarche d'influence.

 

A-t-on agi de même en Afghanistan?

En Afghanistan, on a travaillé sur trois lignes d'opérations: sécurité, gouvernance, développement. On a compris que l'on ne pouvait pas travailler de manière séquentielle, (d'abord sécurité, puis gouvernance, puis développement), mais que l'on devait travailler en parallèle sur les trois registres, avec une interaction permanente permettant d'aboutir harmonieusement au résultat final. Si les lignes gouvernance et développement relèvent peu ou prou de la sphère de l'influence, il faut cependant reconnaître que le poids budgétaire de la ligne sécurité est de loin le plus important.

 

Pourquoi ?

Au niveau des exécutifs gouvernementaux, on considère que les opérations militaires sont du ressort du hard power. Or, l'action sur les autres lignes d'opération est au moins aussi importante que sur la ligne d'opération sécurité. De fait, au moins dans un premier temps, les militaires sont d'autant plus à même de conduire les opérations d'influence qu'ils sont les seuls à pouvoir agir dans le cadre extrêmement dangereux où ils sont projetés. Mais ils ont effectivement une propension à penser prioritairement les choses selon des critères sécuritaires. Autre point à prendre en considération, les États ont des budgets limités pour leurs opérations. Les opérations militaires coûtent cher. La tendance naturelle va donc être de rogner sur les autres lignes qui n'apparaissent pas – à tort sans doute – comme prioritaires. Concrètement, influence, développement, gouvernance se retrouvent ainsi être les parents pauvres des opérations extérieures.

 

N'y-a-t-il pas également un problème de formation?

Dans les armées, on est formé comme lieutenant, capitaine, commandant pour parvenir d'abord à l'efficacité technique immédiate. On est ainsi littéralement obsédé par cet aspect des choses et son corollaire, à savoir le très rapide retour sur investissement. On concentre ainsi nos ressources intellectuelles sur le meilleur rendement opérationnel des forces, en privilégiant le budget que l'on consent à une opération. N'oublions pas que nous évoluons aujourd'hui au sein de sociétés marchandes qui veulent des retours sur investissement quasiment immédiats. Nous sommes ainsi immergés dans le temps court, à la différence par exemple des sociétés asiatiques qui, elles, ont une perception radicalement différente du facteur temps. Elles savent qu'à long terme, il est infiniment moins onéreux de laisser le temps au temps, de laisser les transformations se faire progressivement, d'accompagner par l'influence ces transformations. La Chine se vit et se pense sur des millénaires, elle connaît la force des transformations silencieuses qui atteignent leur objectif par le biais de savantes et patientes manœuvres d'influence. Nous cherchons le rendement immédiat à coût fort. Ils visent le rendement à long terme et à faible coût.

 

En guise de conclusion, peut-il y avoir une communication d'influence militaire ?

C'est un peu la vocation du Centre interarmées des actions sur l'environnement, créé en juillet dernier de la fusion du Groupement interarmées actions civilo-militaires (GIACM) et du Groupement interarmées des opérations militaires d’influence (GI-OMI). Sur les théâtres où nous opérons, nous mettons naturellement en place des vecteurs destinés aux populations locales, visant à mieux faire comprendre notre action, à faire percevoir en douceur les raisons pour lesquelles nous agissons. En un mot, nous nous efforçons de jouer sur les perceptions et sur l'image. Mais ce jeu assez fin sur l'influence reste le parent pauvre de l'action militaire.

L'influence est tout en subtilité. On ne la perçoit pas comme on peut percevoir un tir d'artillerie ou une frappe aérienne. Même si nous sommes persuadés du bienfondé des opérations d'influence, nous ne parvenons pas à faire d'elles des priorités, donc à dégager suffisamment de budgets et de personnels à leur profit. En outre, les configurations actuelles privilégient plutôt les projections de puissance pour faire plier l'adversaire. Or, dans l'histoire et en prenant les choses sur le long terme, on constate que l'utilisation de la seule force pure ne marche pas dès lors qu'on examine les choses dans la durée. La projection de puissance ou l'action brutale sont capables de faire plier momentanément l'adversaire. Mais tant que l'on n'a pas changé les esprits, l'adversaire va revenir à la charge, quitte à contourner les obstacles. D'où l'importance capitale des opérations d'influence quand on embrasse une question dans son ensemble. Sur ces questions, je renvoie volontiers au remarquable ouvrage du général Sir Rupert Smith, L'utilité de la force, l'art de la guerre aujourd'hui (Economica, 2007). Pour lui, désormais, les opérations militaires doivent être considérées moins pour ce qu'elles produisent comme effets techniques que pour ce qu'elles produisent sur l'esprit de l'autre. C'est là une préoccupation relativement récente. Ainsi, les dommages collatéraux se révèlent contre-productifs et viennent miner le résultat militaire que l'on vise. Il nous faut bien plutôt réfléchir en termes d'effets à obtenir sur l'esprit de l'autre. C'est là que l'influence s'impose comme une démarche capitale, qu'il nous faut apprendre à maîtriser. Si l'on fait l'effort de mettre les choses en perspective, sur le long terme, on voit bien que toute action militaire, au fond, doit intégrer pleinement la dimension influence, jusqu'à être elle-même une action d'influence.     

Général Vincent Desportes, propos recueillis par Bruno Racouchot (Communication & Influence, janvier 2013)

An interview with Manuel Ochsenreiter

The Fourth Political Theory

An interview with Manuel Ochsenreiter

 

Natella Speranskaya: How did you discover the Fourth Political Theory? And how would you evaluate its chances of becoming a major ideology of the 21st century?
 
 
Manuel Ochsenreiter: Since a certain time I try to follow the developments in Russia, especially Prof. Alexandr Dugin. So it is not a coincidence to get in touch with the Fourth Political Theory. You are asking about the chances. Let me say it like this: The west is actually trapped in its own liberalism. It seems right now that there is no way out because the liberal mainstream political opinion doesn´t accept any alternative ideas. It is like digesting yourself with the same acid over and over again. In my opinion, the Fourth Political Theory could be a medical cure for that sick intellectual situation. It can be a way out of the liberal hamster wheel. And more and more people are looking for such an exit.
 
 
Natella Speranskaya: Leo Strauss when commenting on the fundamental work of Carl Schmitt The Concept of the Political notes that despite all radical critique of liberalism incorporated in it Schmitt does not follow it through since his critique remains within the scope of liberalism”. “His anti-Liberal tendencies, – claims Strauss, - remain constrained by “systematics of liberal thought” that has not been overcome so far, which – as Schmitt himself admits – “despite all failures cannot be substituted by any other system in today’s Europe. What would you identify as a solution to the problem of overcoming the liberal discourse? Could you consider the Fourth Political Theory by Alexander Dugin to be such a solution? The theory that is beyond the three major ideologies of the 20th century – Liberalism, Communism and Fascism, and that is against the Liberal doctrine.
 
 
Manuel Ochsenreiter: First of all, the liberal doctrine is a totalitarian doctrine. Convinced liberals hate to hear that. They even would deny that it is a “doctrine”. But the reality is: The world wide liberalism and the postmodernism of “values” seem to be more totalitarian than communism, fascism or any –isms before. Liberalism doesn´t accept alternative ideas coexisting beside it. It shows its ugly totalitarian face every day all over the world and its sharpest sword is hypocrisy. The liberal “tolerance”, one of the most mentioned and beloved liberal values just enjoy other liberals. There is no tolerance towards non-liberals. The west showed a couple of times in the past towards some countries who didn’t adjust to this liberal world order, what that can mean at the end: If other societies, people, and countries are not convinced by NGOs, “civil society” and other forms of “western help”, they will be convinced by drones and Cruise missiles. The liberal west tells the beloved stories about “human rights” violations to convince the western societies about the necessity of such military operations. Liberals liberate with money or bombs. The choice is upto the “backwarded” aim. But at the end, everybody knows the “open society” (Karl Popper) means in reality “open market”, “free speech” means “liberal speech” and “freedom of choice” means “McDonalds or Burger King”. There is even a liberal “new speech” for these things: Military ground offensives are now “humanitarian zones”, air raids are “installing a no-flight zone” and ugly primitive Russian girls urge the west to shout “Free Pussy riot!”.
 
 
dugin_-_the_fourth_political_theory_little.jpgEvery established intellectual, politician or media company moves inside this totalitarian liberal system. For example you will not find any established political party in the German parliament that doesn´t claim to be “also liberal”. Our universities “research” about “identities”, “gender”, and “culture” to change this or that. The new liberal types of human being don´t have a heritage, homeland or cultural identity. Even the gender can be changed. We could consider that as a type of slapstick comedy if it wouldn´t be so serious, because it means a type of destruction of basics and values, which might be hard to repair.
 
 
So Prof. Dugin’s theory shows an emergency exit out of this totalitarian system. It is like opening a window to let some fresh air into the western paralyzed intellectual environment. But the liberalism is not a weak ideology which would wait for its defeat.
 
 
Natella Speranskaya: Do you agree that today there are “two Europes”: the one – the liberal one (incorporating the idea of “open society”, human rights, registration of same-sex marriages, etc.) and the other Europe (“a different Europe”) – politically engaged, thinker, intellectual, spiritual, the one that considers the status quo and domination of liberal discourse as a real disaster and the betrayal of the European tradition. How would you evaluate chances of victory of a “different Europe” over the ”first” one?
 
 
Manuel Ochsenreiter: This reminds me to the “old Europe” and the “new Europe” Donald Rumsfeld was talking about in 2003. The “old Europe” was the one that refused to support the US in the Iraq war, especially Germany and France, and the “new Europe” joined the „coalition of the willing“. But of course you mean something else with your question. There is certainly a “different Europe”. We wouldn´t be talking if it didn´t exist. In all the European countries you see certain types of intellectual resistance against the liberal totalitarian system. I would even call this type of Europe the “real” one. Because the official “Europe” is just a weird construction that denies traditions and differences, everything what makes the rich nature of Europe and the Europeans.
 
 
The “real Europe” is everywhere, where intellectuals, journalists, and politicians turn their back to Brussels and the liberal system. You find it in a huge amount of magazines, newspapers, internet forums, and political organizations all over the continent. They do it without any powerful support from other countries, just with their idealism. There are no NGOs or other institutions that fund that important work. But this shows exactly that type of these new political grassroots.  
 
 
Natella Speranskaya: “There is nothing more tragic than a failure to understand the historical moment we are currently going through; - notes Alain de Benoist – this is the moment of postmodern globalization”. The French philosopher emphasizes the significance of the issue of a new Nomos of the Earth or a way of establishing international relations. What do you think the fourth Nomos will be like? Would you agree that the new Nomos is going to be Eurasian and multipolar (transition from universum to pluriversum)?
 
 
Manuel Ochsenreiter: Western liberal propaganda always claims: “Even if we wanted, we couldn´t do something else because it would result in violence and war!” They spread panic and fear among the people. You have to imagine, our German politicians tell us that even if we Europeans would abolish the Euro currency, we might end up in a war. The postmodern globalization is presented as the only single way for the future. I spoke about liberal hypocrisy before. The truth is that the way of globalization is a painful and bloody one as we can see in many countries with western “liberation” attempts. It is a hamster wheel of wars and more wars. The longer it goes the more blood is spilt. This logic is as simple as cruel.
 
 
Why is it like this? After the downfall of the Soviet Union and the communist eastern block, western political scientists (Charles Krauthammer, Francis Fukuyama and many others) welcomed more or less the “unipolar moment”; one world with one pole which was the west. This idea was like a western “idyll”. With “Western democracy” and “western freedom” spreading all over the world also to the last little corner, mankind will face a long-term, a “final” period of peace and prosperity. Although we see every day in the news the evidence of failure of this ideology, the west still works on it. As I already said, since the end of the Cold war and the geopolitical attempts of the west to install this unipolar idea, we witness the chaotic and violent results of this sort of geopolitics.
 
 
A multipolar international order is not just the answer. It is a logical result. The question is how will this multipolar order be organized? A well-organized multipolar world would not just bring stability, but would also be a great intellectual chance of cultural exchange on a really high level. It recognizes the value of “difference” while the west today propagandizes worldwide equality and unity. The local and regional cultures would have the chance of free development, tradition, and cultural identity (both is denied by the western ideology) that could prosper. The actual western hegemony with the means of NGOs and media tries to push down these things, but not forever. And of course Eurasia will play an important role.
 
 
Natella Speranskaya: Do you agree that the era of the white European human race has ended, and the future will be predetermined by Asian cultures and societies?
 
 
Manuel Ochsenreiter: Today’s Europe is losing its human substance. It shows once more that the liberal ideology is a suicidal idea. On the one hand it fights against families and promotes for example abortion; on the other hand it campaigns extremely for mass immigration. The consequence is extinction of the Europeans. How long it takes is pure mathematics. How much the face of Europe already has changed you can witness in any European capital between Lisbon and Athens. We cannot say that the quality of the human resources really become better by immigration even if we would consider that as a neutral or even “positive” development as the liberals do. In contradiction, we face a lot of problems with immigrant communities. The liberal ideology refuses to see the reasons where they are: in ethnic backgrounds. They just speak about an alleged “discrimination” of the migrant communities and about the alleged social injustice the migrants are facing. Politics denying ethnic differences deny the reality.
 
 
Of course this development weakens Europe. We are busier more and more with “integration”, what means with ourselves. You have really to be an anti-realist to see a benefit in that suicidal development. But this exactly is told by the liberal dogma. This means automatically that other entities and cultures who don´t suffer under such development will have an advantage against a weak Europe.
 
 
Natella Speranskaya: Do you consider Russia to be a part of Europe or do you accept the view that Russia and Europe represent two different civilizations?
 
 
Manuel Ochsenreiter: I don´t see a contradiction. I personally consider Russia as a European country, of course with diverse ethnic groups. And of course it has its own culture, traditions, and identity. But every European country has its own culture and traditions. The only difference is, we Europeans are told nonstop by the Brussels propaganda that we are all somehow “the same”. The Russians have the benefit not being bombarded by that ridiculous nonsense. For me as a German, Russia should be our close friend and ally. We share a lot of interests, we share a common history of course with ups and downs – at least Moscow is closer to us than Washington. A close relationship to Russia would be in the national interest of Berlin and Moscow.
 
 
Natella Speranskaya: Contemporary ideologies are based on the principle of secularity. Would you predict the return of religion, the return of sacrality? If so, in what form? Do you consider it to be Islam, Christianity, Paganism or any other forms of religion?
 
 
Manuel Ochsenreiter: When people start worshipping their bank accounts, the horoscopes in the yellow press magazines or their luxury cars what does that tell us about the alleged absence of religion? When it is forbidden to deny liberalism as it used to be forbidden to deny the existence of god in the Middle Ages? The “secularity” in today’s Europe just refers to the power of the organized religion, but obviously not to the needs of the people. When the religion disappears they find something else. In Berlin housewives are running into Buddhist temples because they adore the eternal smile of the Dalai Lama or the haircut of Richard Gere. Of course they don´t understand anything about the spirituality of Buddhism. Trendy Businessmen do some yoga exercises. Others start doing esoteric things. But this is also an element of liberalism: superficiality. While this is happening, the organized churches are more and more weakened themselves by the liberal virus. Sometimes it is really hard to see the difference between a protestant bishop and a liberal teacher. It is somehow ironic that God comes back to Europe in these days as a Muslim migrant. All of a sudden people go on the streets to protest against blasphemy. And this takes place at the same time when “Christian” clerics in Germany seriously support the blasphemy group “Pussy riot”.
 
 
So we see on the one side the spiritual needs of the people, but on the other side also today’s Christian churches’ refusal to serve those needs. Of course there are also some exceptions. But the general situation especially in Germany and other central and western European countries is like that.
 
 
I personally don´t believe that a new type of paganism might be a dominant religious power in Europe. Why? Because it would be a pure artificial concept for the people. The strength of the churches in the past was their ties to the traditional daily life of the people. Especially Catholicism perfected to adopt and integrate old pagan traditions in its system. If Europe recovers, I am sure that maybe a new type of European Christianity would also recover. It would be a logic thing. When liberalism starts to disappear, it´s totalitarian system will also disappear. Even the Bishops of liberalism like George Soros would lose their power. But if Europe falls, the last of the “three Romes” will be Moscow – and the only resistance against the liberalist doctrine in Europe will be done by the Muslim communities while the organized Christians celebrate their own downfall.