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samedi, 15 mai 2010

Intervista a Francesco Polacchi (Blocco Studentesco)

Intervista a Francesco Polacchi



Francesco Polacchi è nato a Roma nel 1986. Studente di Scienze storiche presso l’università di Roma Tre, è responsabile nazionale del Blocco Studentesco.

Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Cercherò di essere sintetico... Trovo la Storia molto divertente: credo che sia molto più simpatica e meno noiosa di come ce la si voglia far passare di questi tempi; credo cioè che nulla avvenga mai per caso e che il passato esista sia perché debba riproporsi sia perché gli uomini debbano carpire gli insegnamenti degli avi in situazioni completamente differenti da come si erano proposte in precedenza.
I periodi storici in cui più ritrovo lo spirito e le linee guida della mia azione sono l’Impero Romano, anche se sono consapevole che in mille anni di storia (considerandolo quindi dall’atto della fondazione di Roma quale Imperium) tanti sono stati i momenti e i motivi che lo hanno portato alla sua implosione; l’Impero di Federico II quale più longeva e fresca espressione della nuova sintesi delle idee Imperium, popolo e rivoluzione sociale e amministrativa nell’artecrazia e infine, ovviamente, il Fascismo. Inoltre ci sono altri momenti quali il Risorgimento, il periodo napoleonico o alcuni altri imperatori «medioevali» (uso le virgolette perché odio la parola «medioevo» in quanto vorrei sapere quale epoca non è un passaggio tra due epoche???). Come autori ho sempre svariato: da Degrelle a Palahniuk, da Sun Tzu a Bunker, da Omero e Virgilio a Fante e Bukowski...


Che cosa è stato secondo te sinteticamente il Fascismo? Alcune sue intuizioni e proposte possono essere valide ancora oggi?

In senso lato il fascismo è stata la grande poesia del XX secolo; l’originale sintesi tra la moderna idea di Stato, le nuove esigenze della società con una visione del mondo lontana dall’essere contingente e immanente. In senso stretto fu ciò che trasformò l’Italia da un paese agricolo a una nazione industriale.
Molte sono le intuizioni che possono essere ancora valide, come la politica sulla casa di proprietà, sulla socializzazione delle imprese, su un’economia guidata (non bloccata) dallo Stato, sulla costruzione di grandi infrastrutture, la lotta alla mafia... tutte cose che ormai sono tristemente cadute nel dimenticatoio perché il fascismo è oggetto di una damnatio memoriae che non concede sconti.


Come e perché nasce il Blocco Studentesco? Qual è la sua «missione»?

Non siamo religiosi, quindi in un certo senso non crediamo alle «missioni»... però accetto la provocazione e dico che la nostra volontà è quella di riportare la partecipazione politica tra i giovani in un periodo storico in cui si fa di tutto per andare nella direzione opposta; d’altronde: meno domande e meno curiosi = meno problemi. Questo è un po’ il perché. Sul come la cosa è molto divertente. Ufficialmente il Blocco Studentesco nasce il 12 settembre del 2006 a CasaPound, ma l’idea era nata qualche mese prima sulle scale quando mi ritrovai con Davide di Stefano a parlare con Gianluca Iannone il quale ci disse un po’ per gioco: «perché non fate un movimento studentesco?». Detto fatto e, così come in altre situazioni, la nascita del Blocco non deve essere vista come chissà quale operazione studiata nelle segrete da chissà quanto tempo... Sicuramente però è stato proprio il momento giusto per partire!


In che stato si trova l’attuale sistema dell’istruzione nazionale?

Non bene. Troppi finanziamenti alle scuole private e poca attenzione al settore pubblico in cui molto spesso gli addetti non fanno il loro dovere avvalorando la tesi di chi vorrebbe privatizzare anche l’aria che si respira.


Come giudichi le ultime riforme della Gelmini in materia di scuola e università?

Non sono poi così negative. A me fa sorridere il fatto che tutte le manifestazioni di protesta che furono fatte nell’autunno 2008, a parte pochi interlocutori tra cui noi!!!!, non avevano idea su cosa andare a parare. Noi volevamo bloccare la legge 133, gli altri al massimo il grembiule e il maestro unico: assurdo. Tornando a bomba: la riforma sugli accorpamenti dei licei era necessaria così come il riordino degli istituti tecnici; altre cose come le norme antibullismo e il voto in condotta sono palliativi populistici. Sull’università, fermo restando la nostra assoluta contrarietà alla legge 133 voluta dalla finanziaria del 2008, gli interventi contro il baronato e in favore della maggiore trasparenza di assegnazioni e fondi non possono che farmi piacere.


Tu conosci molto bene gli interessi politici che gravitano intorno alla scuola. Quali sono i veri centri di potere che dettano l’agenda in fatto di istruzione?

Con la legge 133 si concede la possibilità a terzi di entrare nei consigli di amministrazione degli atenei. Il problema è che così facendo le materie umanistiche andrebbero ovviamente a soccombere e materie più tecniche a essere favorite. In più la mia grande paura è relativa alla possibile intromissione delle multinazionali farmaceutiche.


Che modello di scuola/università propone il Blocco? Come intende realizzarlo?

La scuola e l’università devono essere i luoghi in cui si formano le coscienze delle nuove generazioni e la professionalità della classe dirigente del futuro. Anche se non devono essere viste come scuole di lavoro, è chiaro che devono rappresentare la piattaforma di lancio per gli studenti nella società civile, cioè in quella dei «grandi». Oggi assistiamo purtroppo alla distruzione della comunità scolastica in nome di una più proficua e con meno problemi scuola-azienda che nell’università è già diventata una realtà. Per raggiungere questo obiettivo puntiamo sulla ricostruzione di un movimento che sia al tempo stesso una vera e propria comunità di giovani dediti quotidianamente alle attività politiche seguendo i nostri princìpi basilari. È nell’azione quotidiana che si possono gettare le fondamenta per il futuro e, nel frattempo, concorrere a qualsiasi tipo di elezione dove far valere le nostre idee riportando lo spirito di trincea che ci contraddistingue.


Ultimamente stiamo purtroppo assistendo a un continuo crescendo di tensione con le formazioni della cosiddetta «sinistra antagonista», tanto che alcuni – probabilmente in maniera esagerata – fanno paragoni con gli anni piombo. A chi e a cosa giova questa situazione?

Il paragone con gli anni di piombo è assolutamente esagerato... qualcosa è cambiato, non tutto, ma qualcosa sì. Questa situazione giova moltissimo all’estrema sinistra in quanto, essendo ormai sconfitti dalla Storia, possono trovare un motivo per continuare a esistere solo nel cannibalismo politico, cioè solo nutrendosi delle altrui battaglie per avere qualcosa da contraddire, qualcosa contro cui opporsi. In più questa situazione fa gola a tutti i finti democratici che trovano l’occasione per poter aprire bocca e darle fiato, usando il linguaggio politichese per affermare cose banalissime e avere un minimo di visibilità nonostante la loro inconsistenza politica.


Questa domanda è quasi d’obbligo. Che significato ha avuto l’ormai celebre manifestazione anti-Gelmini dell’autunno 2008? All’inizio sembrava che si fosse veramente riusciti a realizzare una protesta corale e trasversale, al di là delle vecchie contrapposizioni politiche. Poi che cosa è successo?

C’era una volta una manifestazione studentesca... il Blocco e le incredibili vicende di piazza Navona. Nelle due settimane precedenti al 29 ottobre il nostro movimento era impegnato in una vera e propria agitazione studentesca partecipando a manifestazioni, cortei, sit-in, assemblee straordinarie, occupazioni di innumerevoli scuole per contestare la legge 133 (che fa parte della finanziaria 2008) e tutto questo ovviamente con studenti di qualsiasi opinione politica... il 29 ottobre era l’ultimo giorno.


Il Blocco Studentesco si sta espandendo in tutta Italia, contando numerosi militanti e decine di migliaia di simpatizzanti. Qual è il segreto di questo successo? Che cosa rappresenta il Blocco per le nuove generazioni?

Il Blocco è il nuovo che avanza, è l’irrazionale voglia di vivere, è un’esplosione di vitalità che non tutti riescono a capire, ma con cui tutti devono fare i conti. Credo che il segreto del successo vada rintracciato nell’impegno costante dei militanti che con i loro sacrifici portano «avanti la baracca» e nell’organizzazione scientifica del da farsi. Quando a questi due elementi si aggiunge un contenuto rivoluzionario il resto vien da sé.


In cosa invece il Blocco, secondo te, deve ancora migliorare?

Si deve sempre migliorare in tutto, la perfezione non è di questo mondo, ma tendendo costantemente ad essa si migliora tutti i giorni.


Feste, sport, concerti. Che importanza rivestono questi eventi per la politica del Blocco?

Sono mezzi importanti per dimostrare realmente la nostra essenza. Mostriamo a tutti come ci divertiamo ai nostri concerti e alle nostre feste, condividendo con gli altri la nostra innata propensione al sorriso e al divertimento. Insomma tutto il contrario di quello che dicono alcuni giornali descrivendoci come pazzi asociali assetati di sangue. Senza tralasciare poi l’importanza economica che rivestono tali eventi, essendo quasi l’unica fonte di autofinanziamento per il gruppo.


Che ruolo giocano le nuove tecnologie all’interno della militanza politica del nuovo millennio?

Un ruolo importantissimo, basti pensare che subito dopo gli scontri di Piazza Navona abbiamo messo su youtube il nostro video-verità che ci ha permesso di mostrare a tutti come erano andate realmente le cose. Per non parlare dell’importanza che riveste la grafica nei nostri manifesti e nei nostri volantini. È un altro campo in cui dimostriamo di essere avanguardia.
Se nel ’900 era il cinema l’arma più forte, nel terzo millennio è internet a rivestire il ruolo di protagonista indiscusso.


È nato da poco «Idrovolante», il trimestrale del Blocco Studentesco all’università. Quanto è importante la battaglia culturale per un’organizzazione come il Blocco? Quali sono le linee-guida e le idee-forza della nuova cultura che si intende proporre?

La battaglia culturale è la battaglia più importante. Tramite il nostro giornalino, le nostre assemblee e le nostre conferenze stiamo di fatto portando avanti una piccola rivoluzione culturale. In Italia, purtroppo, dal secondo dopoguerra in poi la sinistra ha monopolizzato questo settore servendosi di case editrici, cantanti, autori, comici, per far credere a tutti che la «cultura sta a sinistra». Si sono volutamente criminalizzati autori come Pound, Céline, La Rochelle e gettati nel dimenticatoio avvenimenti storici come la tragedia delle foibe. Tutto ciò che non piaceva all’intellighenzia salottiera era considerato non cultura. CasaPound ha rivoluzionato tutto questo, diventando un vero e proprio laboratorio culturale dove si parla di tutto e tutti possono parlare.
Inevitabilmente questo dà fastidio a qualcuno che ha smarrito ormai presa sulle masse e vivacità culturale.
Passando alle linee-guida e alle idee-forze credo che i manifesti dell’
EstremoCentroAlto e della Neoterocrazia raffigurino in versi la nostra «idea di mondo».


Quali sono i prossimi obiettivi del Blocco? Quali le prospettive?

Gli obbiettivi sono molti e le sfide più grandi sono quelle che ci entusiasmano di più. Quest’anno abbiamo raggiunto risultati importanti alle elezioni della Consulta Provinciale degli studenti, prendendo 4 presidenti e una marea di voti, poi ci saranno le elezioni universitarie, le prime a cui partecipa il Blocco e ogni anno ci sono le elezioni all’interno dei vari licei. Abbiamo organizzato una festa con quasi mille persone al Piper, storico locale romano, e il 7 Maggio staremo in piazza per la Giovinezza al potere. L’obbiettivo principale è quello di risvegliare questa generazione dallo stato confusionale in cui è stato trascinato dall’attuale società dei consumi, ma soprattutto vogliamo volere e affermare!


Che cosa ti aspetti dalla manifestazione nazionale del 7 maggio?

Immagino migliaia di persone che colorano la città con fumogeni e bandiere, allegria incontenibile mista a rabbia da urlare in faccia a chi ci dice che va tutto bene e a chi ci vorrebbe morti. Dimostrare a tutti che siamo noi la meglio gioventù.

En économie, l'imagination doit prendre le pouvoir!

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

En économie, l'imagination doit prendre le pouvoir!

Entretien avec Nicolas Franval,

universitaire, économiste, animateur du «Cercle de Réflexion pour une économie alternative» qui travaille au sein de la nébuleuse «Nouvelle Droite»

 

Propos recueillis par Arnaud Guyot-Jeannin

 

Avec l'effondrement du communisme, le capitalisme libéral semble être le remède miracle qui apporterait aux peuples op­primés le «bien être» et leur procurait une liberté dont ils ne disposaient pas jusqu'à présent. Ne s'agit-il pas de récu­ser ce point de vue?

 

Comment ne pas se réjouir de l'effondrement des régimes staliniens de l'Est? Mais cette joie n'em­porte nullement une adhésion au capita­lisme libéral. A cet égard, révélatrices furent les images que nous ont déversées les télévisions lors de la chute du mur de Berlin. Nous pouvions voir une masse d'individus se précipitant vers les supermarchés de Berlin-Ouest, s'émer­veil­lant devant la diversité des déter­gents, goûtant ces fruits terriblement exotiques que sont l'o­ran­ge et la banane. Ce fut le même émoi télévisuel quand, à Moscou, s'est installé le premier fast-food; enfin triomphaient les droits de l'homme. Car que reprochaient véritablement les «bonnes consciences» au communisme? D'être ineffica­ce, de ne pas satisfaire les besoins de la popu­la­tion, de ne pas offrir une consomma­tion de mas­se. Ainsi, le totalitarisme stalinien était con­dam­né non parce qu'il était un totalita­risme mais parce qu'il faisait régner la pénurie. Et de proposer le modèle libéral comme remède à tous les maux dont souffraient ces peuples.

 

Cela appelle quelques brèves remarques. En pre­mier lieu, je doute très sérieusement que le ca­pitalisme occidental soit une référence, ce sys­tè­me économique qui génère le chômage, ex­clut un part croissante de la population de la sphère so­ciale, etc. Comment penser un seul instant que la France de Monsieur Mitterand puisse susciter la moindre admiration? En se­cond lieu, nombre de pays de l'Est ne sont pas en mesure et ce, pour des raisons économiques, so­ciales, historiques, d'ins­taurer un régime capi­taliste libéral. On ne passe pas aussi facilement d'une régulation pénurique à une régulation concurrentielle, on n'instaure pas aussi aisé­ment des mécanismes de marché et de crédit. Et la BERD ne fera pas de miracles et nul ne peut douter que son rôle sera négatif. La troisième remarque est que les peu­ples de l'Est ont actue­lement d'autres batailles à mener, notamment un combat politique pour leur indépendance. Il est à noter que les bons esprits occidentaux qui condamnaient le communisme au nom des peuples opprimés, condamnent au­jour­d'hui ces mêmes peuples en lutte pour leur indépendance, pour leur droit à exister. Evidem­ment, on meurt plus facilement pour défendre son identité que pour un taux de profit. Enfin, pou­vons-nous sou­haiter qu'à un totalitarisme (com­muniste) suc­cède un autre totalitarisme (libéral) certes plus confortable? Pouvons-nous souhaiter que les peuples de l'Est se noient «dans les eaux glacées du calcul égoïste» (Marx)? Par contre, même si certaines craintes subsistent, nous devons être attentifs à l'évolution de ces pays et, qui sait, voir émerger des formes na­tionales de développement économique qui re­jettent le communisme et le li­béralisme.

 

Selon vous, libéralisme économique et défense des identités collectives sont-ils compatibles?

 

Il est étrange de voir certains affirmer mener un combat identitaire et, dans un même temps, dé­fendre avec un bel enthousiasme le libéralisme économique. Les causes d'une telle incohérence m'échappent. Le libéralisme économique consti­tue une négation absolue de toute identité collec­tive. Réduisant, au nom de l'individualisme, tou­te communauté à une somme d'individus é­goïstes et calculateurs (i.e. aptes rationnelle­ment au calcul économique) dont la seule fonc­tion serait de pro­dui­re/­con­som­mer, le libéra­lis­me évacue, détruit toute spé­ci­ficité culturelle, his­torique des peuples. Le libéralisme écono­mique dé­truit les liens sociaux et organiques des com­mu­nautés humaines, interdisant tout projet col­lec­tif, historique ou national. Nul n'a loué à ce jour les mérites du FMI  —haut lieu du libéra­lis­me— dans sa dé­fen­se des identités collectives. En outre, nombre de penseurs libéraux, s'ins­pi­rant du modèle rosto­wien, estiment que certains cultures ou religions sont des obstacles au déve­loppement économique et d'encourager les peu­ples à renoncer à leur spécificité culturelle pour accéder, en opérant le fameux «take off», aux joies de la «civilisation». Dès lors, défendre les identités collectives, le droit des peuples à dis­poser d'eux-mêmes et à préserver leur identité, est incompatible avec une défense du libéralisme économique qui a montré sa pleine capacité eth­nocidaire. A l'inverse, le cosmopolitisme est un pur produit du libéralisme, l'homo oeconomicus  étant un individu (et non une personne) indiffé­rencié, interchangeable, déculturé, déraciné, cir­cu­lant telle une vulgaire marchandise de ter­ritoire en territoire.

 

Plus trivialement dit et n'en déplaise à certains «nationaux-libéraux», il est difficile d'être si­mul­­ta­nément pour le bourreau et ses victimes.

 

Face à l'utilitarisme marchand des dé­mocraties bourgeoises qu'induit la théo­rie néo-classique, existe-t-il des alterna­tives?

 

Il est exact que la théorie néo-classique est actuel­lement dominante, surtout dans le monde anglo-saxon, les écoles libérales ou néo-libérales proli­férant. Il est tout aussi vrai que les politiques éco­nomiques mises en œuvre dans le monde oc­ci­den­tal, s'inspirent très largement de cette théo­rie. Force est de constater que cette théorie offre une remarquable rigueur formelle et que les théo­ries concurrentes se sont effacées. A moins de confondre Karl Marx et les Marx Brothers, le marxisme est globalement mort même si subsis­tent ici et là quelques chapelles marxisantes. Quant au keynésianisme, les politiques de re­lan­ce qu'il a inspirées, ont échoué. C'est ainsi que, faute de combattants, la théorie libérale triom­phe et la science économique semble être occupée par la seule théorie néo-classique. Néan­moins cette théorie est dans l'incapacité de ren­dre compte, d'expliquer la crise actuelle où les mécanismes de marché sont bloqués notam­ment par l'existence de monopoles et de groupes d'in­térêts, où les consommateurs et les salariés ont des comportements irrationnels dûs en partie à l'illusion monétaire, où persistent l'inflation, etc.

 

Ainsi avons-nous une théorie dominante et scien­tifiquement impuissante. Cela ne signifie nullement une fin de la science économique. En effet, à toute époque, se sont affirmés certains es­prits originaux, des «hérétiques» c'est-à-dire des économistes qui, s'écartant du corpus théorique dominant, ont exploré de nouveaux espaces de connaissance, ont trouvé des réponses aux ques­tions qui concrètement se posaient. Citons les noms de List, Sombart, Schumpeter, Veblen, Per­roux,… Globalement, ces économistes furent des critiques du libéralisme. Actuelle­ment cer­taines questions économiques demeu­rent sans réponse, faisant apparaître un inaltérable écart entre le monde réel et la théorie, mettant à jour une crise de la théorie écono­mi­que. Mais dans ce climat de crise, de nouveaux courants apparais­sent, de nou­velles pensées naissent. L'école de la régu­lation en est un parfait exemple.

 

Un socialisme élitaire impose de réfuter le dogme capitaliste comme le dogme col­lectiviste. Les concepts de participation et d'intéressement qui réintroduisent une vision communautaire et organique dans l'entreprise, suppriment-ils réel­lement la lutte des classes?

 

Je doute que la lutte de classes existe encore et je regrette parfois qu'il n'y ait pas un affrontement héroïque entre bourgeois et prolétaires. Nous as­sistons plutôt, dans le règne de la quantité qui est le nôtre, à des querelles entre catégories so­ciales en vue d'obtenir une plus grande part du revenu national. En outre, il faut se méfier des confu­sions langagières. Certes le terme de participa­tion est très en vogue et, faute d'audace, certains n'hésitent pas à invoquer le fondateur de la V° République à l'appui de leur thèse qu'ils vou­draient novatrices. Préalablement, je me ris­que­rai à un constat. Actuellement se développe, pa­ral­lèlement au culte du marché, un culte de l'en­treprise, sorte de nouvelle religion. Cela n'a rien de surprenant dans une société où régnent les va­leurs marchandes. Ainsi l'entreprise qui est, rappelons-le, un reflet, un condensé de l'orga­nisation sociale et économique de la so­ciété, se­rait devenue ce lieu où, par une étrange magie, tous les acteurs sociaux communieraient dans un même culte: celui de l'efficacité, de la ren­tabilité, de la compétitivité. L'entreprise se­rait devenue ce lieu où s'élaborerait une nouvelle convivialité générée par un discours unifiant (cette fameuse «culture d'entreprise»). Et suc­combant à ce culte de l'unité retrouvée, certains soutiennent l'idée de participation. Soyons pré­cis. La participation peut prendre trois formes: participation à la gestion (co-gestion), participa­tion au résultat (intéressement) et participation au capital (actionnariat). Quelle que soit la forme retenue, la participation m'apparaît com­me étant un excellent moyen technique pour que le système perdure. Prenez la participation au résultat de l'entreprise. Nul ne peut nier qu'ils s'agisse là d'un excellent instrument pour moti­ver le personnel. Mais cette participation si­gni­fie: soyez plus rentables, vous gagnerez plus et ainsi vous consommerez plus, vous serez plus heureux. Tout cela relève d'un système de va­leurs qui n'est pas le mien. C'est pourquoi l'idée de participation actuellement m'apparaît comme une douce illusion. Par contre, si l'on exclut le gadget idéologique, il est possible de penser au­trement l'organisation de la production, d'envi­sager l'entreprise comme une commu­nauté de travail où s'associeraient le capital et le travail. Encore faut-il préciser qu'une telle or­ganisation suppose une rupture avec le système économique actuel qui s'accommode fort bien de la partici­pa­tion. Pour être plus précis, je préfère nettement l'idée de coopération à celle de partici­pation.

 

Le corporatisme offre-t-il encore une cer­taine actualité?

 

Là aussi, il faut se méfier des mots. Le terme de corporatisme est devenu peu flatteur; pour cer­tains, c'est même une insulte. Plus sérieuse­ment, nous pouvons concevoir une organisation nouvelle de la production tant au niveau macro-économique qu'au niveau micro-économique voi­re méso-économique (les secteurs d'activité) et ce, sans pour autant supprimer certains méca­nismes du marché. Pourquoi ne pas envisager, nationalement ou sectoriellement, des instances de représentations des «métiers» qui seraient des lieux de négociations entre employeurs et em­ployés et où seraient élaborés des projets/plans de développement. Pourquoi la planification serait-elle la chasse gardée des technocrates dont se­raient exclus les producteurs? Si cette utopie (réaliste) doit se nommer corporatisme, pourquoi pas?

 

Ne faut-il pas supprimer les syndicats de classe?

 

La question syndicale doit s'apprécier pays par pays, le monde du travail ayant des traditions et spécificités nationales. En ce qui concerne la France, je doute qu'il existe des féodalités syndi­cales et des syndicats inféodés à des partis poli­tiques. Quant à savoir s'il faut les supprimer, la réponse est apportée par les travailleurs eux-mê­mes. Actuellement la France a le plus faible taux de syndicalisation parmi les pays membres de l'OCDE. Par exemple, le taux de syndicalisa­tion n'est que de 5,6% dans le secteur privé. Les syn­dicats n'ont pas besoin d'être supprimés, ils se suppriment d'eux-mêmes. Par contre, il est évi­dent qu'un syndicalisme est à réinventer, un syn­dicalisme qui ne soit pas uniquement préoc­cupé par la recherche d'intérêts quantitatifs, un syndicalisme qui prenne toute sa place dans une nouvelle organisation de la production telle que je l'esquissais précédemment.

 

Comment distingueriez-vous dirigisme et étatisme?

 

Actuellement il est un débat centré sur le rôle de l'Etat. Les libéraux montrent que les interven­tions économiques et administratives de l'Etat sont inefficaces et coûteuses, et prônent une vaste déréglementation. Les keynésiens montrent que l'Etat se doit d'intervenir et prônent une politique de relance par la demande publique. Ce (vieux) débat sur les mérites comparés de l'Etat-Gen­dar­me et de l'Etat-Providence m'apparaît être sans intérêt. Nul ne peut nier que l'Etat, fut-il très li­béral, intervient notamment par la monnaie et le crédit. La question n'est donc pas de savoir s'il faut plus ou moins d'Etat. La ques­tion n'est pas économique mais politique. Libéraux, keyné­siens, marxistes considèrent que l'Etat est un agent économique qui participe comme tel à l'ac­tivité économique; ils ne se sé­parent que sur le degré de l'intervention. En ce sens, tous sont éta­tistes. J'ai tendance à penser que l'Etat est de nature politique et qu'il existe un primat du po­litique sur l'économique; dès lors, l'Etat en tant qu'instance du politique, est en droit d'assigner des buts, de fixer des orienta­tions à l'économie. En ce sens, je suis dirigiste. Quant à déterminer quelles doivent être les formes d'intervention de l'Etat, interventions qui doivent générer le moins de bureaucratie possible, il n'existe pas de formules toutes faites. Pour une fois, mettons l'imagination au pouvoir.

 

vendredi, 14 mai 2010

Questions à Karel Dillen (1994)

dillen1.jpgArchives du CRAPOUILLOT - 1994

Questions à Karel Dillen

 

1) Pendant la dernière guerre, vous avez été un jeune homme sage et studieux, qui ne s'est pas engagé, ni dans la résistance ni dans la collaboration. Les injustices et la vio­lence de l'épuration ont fait de vous un nationaliste dur et pur. Pouvez-vous nous expli­quer cette grande mutation personnelle?

 

Cette mutation n'a pas été aussi dramatique que vous le laissez sous-entendre. L'athénée (équivalent du lycée) que je fréquentais baignait dans une atmosphère nationaliste fla­mande. Bon nombre de professeurs étaient des nationalistes convaincus et engagés. Leur enseignement s'en ressentait. N'ayant rien eu à voir avec la collaboration, après le départ des Allemands, je n'ai eu aucun ennui et j'ai conservé mes droits politiques. Autour de moi, la répression frappait cruellement certains de nos anciens professeurs, comme Reimond Rens ou le romancier Oswald Everaert. Quelques-uns de mes condis­ciples plus âgés, dont Herman Pauwels, ont été jetés en prison, battus, torturés et sont sortis brisés des cachots belges. La plupart des professeurs inquiétés ont été chassés de nos écoles et collèges, ce qui, à long terme, a eu des conséquences sur la qualité globale de l'enseignement. Pour moi, ce fut un contraste horrible par rapport à la relative tolérance qui règnait dans l'école pendant les trois premières années de la guerre: on savait perti­nemment bien qui était, parmi les professeurs et les élèves, en faveur des alliés et qui soutenait l'«Ordre Nouveau» pro-allemand. Mais la discussion demeurait ouverte et courtoise. En 1943, les choses ont mal tourné. Dans la région d'Anvers, des professeurs pro-alliés ont été arrêtés et internés à Buchenwald. Seuls les communistes ont survécu à cet effroyable univers concentrationnaire et sont revenus. Après avoir servi de traduc­teur dans les services annexes de l'armée britannique et effectué mon service militaire, je me suis engagé dans un mouvement de jeunesse nationaliste, le mouvement «Sint-Arnoutsvendel», même si, à 22 ans, je n'avais plus aucune prédisposition pour ce type d'activité! J'étais fasciné par le courage de ses animateurs qui affirmaient haut et clair leur nationalisme en dépit de la tourmente. Dans ce cadre, j'ai commencé ma vie de mi­litant, en organisant des manifestations de souvenir et d'hommage aux victimes de l'épuration. J'ai également organisé le premier meeting à Anvers en faveur de l'am­nistie. J'ai ensuite tout naturellement participé aux premiers combats de la Vlaamse Concentratie,  le premier parti nationaliste flamand d'après 1945. Le nationalisme de cette époque-là se portait mal: il avait été décapité, ses principaux animateurs croupis­saient dans les geôles belges, les autres étaient privés de leurs droits civils ou devaient trimer dur pour se refaire une situation. Pour sortir de l'isolement la VC était contrainte de tenter une ouverture vers des milieux qui n'étaient pas nationalistes (indépendants et paysans). Un travers dans lequel la Volksunie,  le parti qui devait succéder à la VC, allait tomber à son tour, surtout sous l'impulsion du «centriste» Hugo Schiltz et par le no­yautage des éléments gauchistes, de plus en plus nombreux pendant les années 60.

 

2) La fidélité aux principes, l'éthique de la continuité, le refus des bricolages politiciens et des compromissions qui ne mènent à rien constituent les principales caractéristiques de votre vision de la politique. Nous aimerions que vous nous donniez quelques préci­sions...

 

En effet, je refuse catégoriquement de conclure des compromis qui menacent ou ruinent les principes clairement définis, adoptés par un parti ou un mouvement prenant son en­vol. Sur le long terme, la succession ininterrompue des compromis et des concessions ne permet plus de mener une politique cohérente. L'électeur n'y trouve plus son compte. Rien ne peut être décidé, tranché. Rien ne peut être fait, aucun problème ne peut être ré­solu. C'est le règne de l'indécision. L'histoire du mouvement flamand dans notre après-guerre illustre parfaitement ce type d'enlisement. Certes, il a des circonstances atté­nuantes parce qu'il a été brisé par la répression. Le calcul des nationalistes prêts aux compromis s'explique tout simplement parce que ces hommes ne voulaient pas rester dans la marginalité; sans alliances, aucune victoire électorale, même minime, n'était possible. La Volksunie  a connu cet état d'esprit dès le début des années 60, l'aile cen­triste du mouvement, celle de Schiltz, désirait partager ne fût-ce qu'une parcelle du pou­voir. Elle a été renforcée, avant et après 68, par des éléments gauchistes qui, auparavant, n'avaient jamais trouvé leur place dans le mouvement flamand. Nationalistes purs, centristes prêts à toutes les compromissions et gauchistes messianistes se côtoyaient ainsi dans un parti qui naviguait au pifomètre, sans suivre de ligne directrice. Les na­tionalistes pourtant n'ont pas réagi devant les dérives centristes ou gauchistes. Moi-même, au départ, je ne voulais pas lâcher le seul parti nationaliste flamand ayant sur­vécu aux tourmentes du siècle. Comme les autres, je suis resté parce que je ne voyais pas d'autres solutions. A l'époque, créer un nouveau parti aurait été suicidaire. Les accords du Palais d'Egmont (1977), où la Volksunie  a jeté par dessus bord les principes du mou­vement flamand pour obtenir quelques misérables strapontins, ont été la goutte qui a fait déborder le vase. J'ai franchi le pas. J'ai lancé le VNP, devenu, après quelques avatars, le Vlaams Blok.

 

3) Vous êtes député européen depuis cinq ans. Quel est votre jugement sur l'Europe de Bruxelles et de Strasbourg? Quelle Europe souhaiteriez-vous voir advenir?

 

Mon jugement est facile à formuler: l'Europe de Bruxelles est une catastrophe pour les Européens. Ils risquent de tomber sous la coupe d'une eurocratie subtilement autoritaire, qui régentera leur vie comme le Big Brother  d'Orwell régentait la vie des habitants d'Oceana dans ce célèbre roman prémonitoire que fut 1984.  Les eurocrates n'ont plus que le mot de «subsidiarité» à la bouche. La «subsidiarité», en théorie, c'est donner un pou­voir de décision aux plus petits échelons de la politique. En pratique, nos bons eurocrates ne se soucient pas davantage de cette théorie qu'un poisson d'une pomme. L'eurocratie se mêle de tout, de la longueur des saucissons ou de la grosseur des petits pois. Elle parle du respect des «différences», mais ne leur laisse plus aucune place. Et quand on me parle d'une Europe fédérale, je ne vois pas de quel fédéralisme on parle; je m'insurge contre ce faux fédéralisme qu'on cherche à nous imposer de force car il n'est que le masque pu­blicitaire d'une monstruosité centralisatrice, sèchement administrative, autoritaire et mondialiste. Face à ce fédéralisme malhonnête, je lutte pour une Europe confédérale qui, dans un deuxième temps, dirigera son attention sur ces faits concrets, historiques et éternels que sont les peuples. Tous les peuples d'Europe ont droit à l'auto-détermination. En ce qui nous concerne, la Flandre doit encore devenir Etat.

 

4) Comment appréciez-vous le travail de la “fraction technique des droites européennes” que vous animez notamment avec Jean-Marie Le Pen?

 

Je rappellerais que nous sommes une fraction “technique” et non pas un groupe qui ras­semble des partis porteurs d'une vision du monde monolithique et standardisée. Certes, nous avons tous énormément de points communs. Mais aussi des différences. La con­ception française et la conception flamande du nationalisme sont très différentes. Le Vlaams Blok  avait plus d'affinités avec nos collègues allemands qui, comme nous, sont animés par un nationalisme qui place le peuple, le Volk,  au-dessus de l'Etat. Alle­mands et Flamands ont élaboré un nationalisme ethnique, dérivé de la philosophie de Herder. Les Français ont développé un nationalisme d'adhésion, comme l'a théorisé Renan. Les autres différences sont secondaires. Par exemple, la problématique de la peine de mort: le FN français est inconditionnellement en faveur de la peine de mort. Le Vlaams Blok  est moins catégorique. Personnellement, je suis contre. Mais la problé­matique n'est pas close au sein de notre parti. Le souvenir de l'épuration et de nos mar­tyrs m'incline à rejeter la peine de mort. Je reste séduit par les arguments de Maître Jac­ques Isorni, le défenseur de Pétain et de Brasillach.

 

Au sein de la “fraction technique”, la coopération est bonne, même si, au départ, nos col­lègues français ont dû s'étonner de la nature du nationalisme flamand. Sur le plan hu­main, l'expérience est très positive. Les qualités intellectuelles et politiques de mes col­lègues français sont exceptionnelles. Leurs compétences nous apportent beaucoup. La survie de cette fraction dépendra des résultats en Allemagne. Si nos amis y dépassent la barre des 5% en dépit de leurs querelles intestines, nous recommencerons l'expérience sans hésiter. Flanqués sans doute par de nouveaux collègues néerlandais et danois.

 

5) Vous êtes un lecteur attentif de la presse française de droite. Vous avez connu person­nellement des hommes aussi différents que Maurice Bardèche et Olier Mordrel, aux­quels vous demeurez inébranlablement fidèle. Pouvez-vous nous dire deux mots sur ces amitiés indéfectibles?

 

Mon intérêt pour la France remonte aux temps de la répression. L'avocat Walter Bouche­ry, un nationaliste d'après 1945, peu compromis dans la collaboration, très critique à son égard, s'engage tout de suite sur la brèche, dès la fin des hostilités, et publie une revue in­titulée Wit en Zwart  (Blanc et Noir) qui ne dura que trois numéros, avant d'être inter­dite. J'y ai découvert un article sur Robert Brasillach, qui a aussitôt éveillé mon intérêt. Je n'ai plus cessé, depuis lors, de m'intéresser passionnément à ce personnage tragique de l'histoire et des lettres françaises. J'ai entamé une quête, que je poursuis toujours d'ailleurs, dans les publications, revues, journaux et livres français qui évoquent ce martyr de la cause nationale. C'est ainsi que j'ai découvert les revues de droite qui s'in­surgeaient contre les rigueurs de l'épuration: les Ecrits de Paris  et Défense de l'Occi­dent.  Bardèche, armé de son immense culture, comprenait bien quels étaient les ressorts du nationalisme flamand, ce qui est rare chez nos amis français. Le nationalisme eth­niste était pour lui une valeur positive, y compris celui des Bretons. Finalement, j'ai ap­pris à le connaître personnellement, je lui ai posé des tas de questions sur Brasillach, il m'a prêté sa collection de Je suis partout,  pour que je la consulte. Plus tard, il est venu prononcer une conférence à Anvers sur «L'Europe entre Washington et Moscou».

 

J'ai connu Olier Mordrel quand il était encore interdit de séjour en France. Mordrel a fait ainsi la navette entre tous les pays voisins de la France. C'est ainsi qu'un jour il est venu loger chez moi. Le lendemain, il s'est adressé à Bruxelles à un auditoire d'une quarantaine de Bretons qui souhaitaient rencontrer leur célèbre exilé. Mordrel était pro­che depuis longtemps du mouvement flamand, qui lui a toujours manifesté un indé­fecti­ble attachement et s'est montré solidaire de ses initiatives. Avant guerre, il avait connu Hector De Bruyne de la Volksunie,  un nationaliste de pure eau devenu par la suite mi­nistre du commerce extérieur de l'Etat belge.

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Mais je voudrais aussi évoquer la figure de Robert Poulet, que les nationalistes français connaissent bien pour ses chroniques dans Rivarol  et Ecrits de Paris.  Le contact s'est établi à la suite d'une recension de Ce n'est pas une vie,  un récit autobiographique où il évoque notamment les longs mois qu'il a passés dans sa cellule de condamné à mort à Bruxelles. J'avais écrit cette recension dans l'hebdomadaire satirique et nationaliste anversois 't Pallieterke,  auquel j'ai collaboré pendant de très longues années. Cette re­cension a enchanté Poulet et a fait que nous nous sommes liés d'amitié. L'homme m'a séduit par son intégrité. Sa culture immense, ses conseils, ses souvenirs ont été pour moi un enrichissement personnel inestimable. L'année de sa mort, en 1989, le journaliste flamand Manu Ruys a lancé une initiative visant sa réhabilitation et a adressé une mis­sive au Palais de Laeken. La première réaction du Palais a donné un faible espoir au no­nagénaire. La deuxième réaction a été un refus poli mais froid. Poulet a été terriblement déçu. Il est mort quelques mois plus tard, après m'avoir légué les documents re­latifs à cette affaire. Je les ai publiés dans 't Pallieterke. Cette affaire a conforté mon républi­canisme.

 

6) Le directeur du Belgisch Israelitisch Weekblad (Hebdomadaire Israëlite Belge) d'Anvers, Monsieur Louis Davids, a pris votre défense contre les “progressistes anti-fascistes” qui sévissent en dedans et en dehors de la communauté juive d'Anvers, de Bruxelles et de Belgique. Expliquez-nous donc cet état de choses à peine croyable pour les Français d'aujourd'hui...

 

C'est simple. J'ai derrière mois 45 années d'activisme politique. J'ai écrit des milliers de pages. J'ai prononcé des centaines de discours. Pas un mot, pas une ligne dans tout ce­la qui soit qualifiable d'antisémite. Les rapports entre les nationalistes flamands et la communauté israëlite à Anvers et en Belgique ne sont pas conflictuels, hormis le petit incident que vous signalez et qui émane de marginaux qui veulent singer les modes de Paris. Ces rapports varient entre la sympathie et la neutralité. Qui plus est, le mouve­ment nationaliste flamand a eu ses héros, ses martyrs et ses militants juifs. Je pense surtout à cette figure sublime que fut Marten Rudelsheim, mort dans une prison belge en 1920. Cet intellectuel brillant, issu des milieux nationaux-libéraux, avait milité dès son plus jeune âge pour la séparation administrative et pour la flamandisation de l'Univer­sité de Gand, dans une Belgique qui ne connaissait aucune université flamande, alors que nous formons la majorité de la population. En 1914-18, les autorités allemandes a­vaient appuyé et concrétisé ce projet par solidarité inter-germanique. Rudelsheim a été condamné pour collaboration et interné, ses juges n'étant sans doute pas exempts de ré­flexes antisémites plus ou moins conscients. Rudelsheim est mort en héros, pour notre cause. Notre reconnaissance sera éternelle. Je pense aussi au dévouement du Professeur Wenger, qui a multiplié les initiatives culturelles à Anvers et n'a jamais cessé de sou­te­nir l'Université de notre ville. Je pense aussi au Dr. Schaap, israëlite hol­landais, dont les convictions sont très ancrées à droite, qui mène un combat pour la sau­vegarde de l'i­dentité de la Flandre méridionale, qui fait partie aujourd'hui du départe­ment du Nord (France).

 

Louis Davids, que vous mentionnez, est le rédacteur en chef du principal hebdomadaire israëlite d'Anvers, la ville qui compte la plus forte communauté juive de Belgique, une communauté solidement ancrée dans notre passé et notre tissu industriel, notamment dans le secteur de la taille du diamant. Louis Davids et son équipe n'ont jamais participé aux attaques habituellement lancées contre le mouvement flamand par quelques cénac­les minoritaires de la communauté juive de Bruxelles, fortement influencés par l'idéo­logie anti-identitaire que distillent certains philosophes juifs de la place de Paris, qui ne se souviennent pas des leçons sublimes de Simone Weil, la jeune et poignante philosophe décédée à Londres en 1942 et dont l'ouvrage principal s'intitule L'enracinement.  Pour ces “penseurs” à la mode, toute affirmation d'une identité est suspecte d'antisémitisme. Généralisation qui est évidemment fausse. Il fallait remettre les pendules à l'heure. En­suite, ce journal ne participe pas à la campagne hostile à l'amnistie que mènent les mê­mes cénacles bruxellois. En effet, le combat pour l'amnistie a rebondi en Flandre: on pense enfin réviser le procès d'une fermière innocente, mère de plusieurs enfants, fusil­lée en 1945 pour une délation qu'elle n'avait jamais commise et qu'aucune preuve sé­rieuse n'étayait. Louis Davids est un honnête homme: je crois donc qu'il ne voit aucun inconvénient, en tant qu'israëlite, en tant que ressortissant d'une communauté qui a pourtant très injustement souffert lors de la dernière guerre, à ce que l'on réexamine le dossier de cette pauvre femme.

 

 

lundi, 12 avril 2010

Intervista ad Adriano Scianca


Adriano Scianca è nato a Orvieto nel 1980. Laureato a Roma in filosofia, è giornalista e scrittore. Ha collaborato a numerose riviste culturali, tra cui «Orion», «Letteratura-Tradizione» ed «Eurasia». Per la cultura di CasaPound, gestisce l’
«Ideodromo» e ha redatto Il Manifesto dell’EstremoCentroAlto.



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Una precoce lettura dei classici evoliani, dei quali mi appassionarono l’ampio respiro e la profondità storica in cui inquadrare i rudimenti della mia visione del mondo; l’incontro con la cosiddetta «Nuova destra», che ha sciolto certe cristallizzazioni e mi ha insegnato l’importanza di un confronto serrato con il pensiero dominante al quale opporre sempre tesi altrettanto persuasive; la collaborazione con una testata «storica» del mondo nazionalrivoluzionario come «Orion» grazie alla sostanziale mediazione di Gabriele Adinolfi, che mi ha insegnato a ridare spina dorsale a quelle intuizioni neodestre troppo spesso tendenti al debolismo; il passaggio dalla teoria alla prassi con l’ingresso nella palestra dell’anima di CasaPound, nella quale tutto ha finalmente acquisito un senso.


Georg W. F. Hegel è stato un filosofo fondamentale per la storia della filosofia occidentale. Quali sono state le sue migliori intuizioni e i suoi abbagli?

Hegel ha il merito di aver concepito il reale come divenire e il difetto di averne imprigionato l’essenza nella gabbia della dialettica. I suoi testi sono pieni di intuizioni geniali intrappolate nella ragnatela del «sistema» onnicomprensivo e definitivo. Molto interessanti, ovviamente, le sue riflessioni sullo Stato come eticità.


Quanto ha influito il pensiero di Nietzsche sulla società del suo tempo? Quanto è ancora attuale il filosofo tedesco?

Nella società del suo tempo passò pressoché inosservato, stampando i suoi libri da solo e impazzendo poco prima che il suo pensiero si diffondesse come una salutare epidemia. Nella storia del pensiero occidentale, in compenso, Nietzsche segna uno spartiacque fondamentale. Esiste un «prima di Nietzsche» e un «dopo Nietzsche», c’è poco da fare. Con Giorgio Locchi amo ricordarne la fondamentale intuizione della «apertura della storia» contro ogni finalismo; con Luciano Arcella mi piace sottolinearne la fondamentale «mediterraneità» contro la pesantezza «tedesca, troppo tedesca»; con Gilles Deleuze me ne servo per stanare lo spirito reattivo in ogni sua metamorfosi.


Che cosa può ancora insegnarci oggi l’opera di Robert Brasillach?

Non ebbe il talento letterario corrosivo di un Céline né la lucida visione tragica di un Drieu. Eppure seppe dipingere il «sentimento del fascismo» come nessun altro mai. Raccontò un fascismo che era soprattutto cameratismo e allegria e continuò a guardare i campi della gioventù, i fuochi nella notte, i canti dei Balilla con lo stupore estasiato di un bambino. Ecco, Brasillach ci insegna a non perdere mai quello sguardo, ad avere diciassette anni per tutta la vita, ad essere curiosi della propria epoca.


Hai più volte citato nei tuoi scritti Gilles Deleuze. Che valore dài al suo pensiero?

Me ne innamorai leggendo all’università Nietzsche e la filosofia, libro illuminante e straordinariamente scorrevole per l’autore. La sua lettura della Genealogia nietzscheana mi rivelò un mondo. Altre sue cose sono più pesanti, soprattutto quando in esse si fa sentire l’influenza di Felix Guattari. Fu un filosofo di sinistra? Primo: chi se ne frega. Secondo: chi sono io per contraddire Alain Badiou, che ha scritto: «[All’epoca] avevo la tendenza a identificare come “fascista” la sua apologia del movimento spontaneo, la teoria degli “spazi di libertà”, il suo odio della dialettica, per dirla tutta: la sua filosofia della vita e dell’Uno-Tutto naturale».


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

È veramente paradossale che gran parte del neofascismo abbia snobbato questo pensatore. Persino un gigante come Adriano Romualdi ne parlò come di un liberale che si era dato una verniciata di fascismo. Eppure – tanto per limitarci all’essenziale – basterebbe rileggere La dottrina del fascismo, scritta insieme a Mussolini, per capire l’importanza del pensatore. Quanto all’aspetto più propriamente filosofico invito tutti a leggersi il fondamentale volume di Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato, nel quale emerge con chiarezza la parentela spirituale fra Gentile e Nietzsche.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

Prendi un gruppo di giovani svegli, colti, laboriosi, gente che costituirebbe la classe dirigente di ogni Stato e a cui sarebbe possibile vivere di rendita. Metti che invece questi ragazzi abbiano l’unico pensiero fisso di donare totalmente se stessi a un’idea e che si applichino in questo senso con un ardore e una purezza incontrovertibili, fin nelle minuzie dell’esistenza quotidiana. Metti che queste persone fondino una scuola attorno a cui orbitino migliaia di altri giovani. Una scuola perfettamente inserita nell’ufficialità di un regime che faccia di essa il bastione e il motore di una rivoluzione. Metti che scoppi una guerra e che tutti, dico tutti, gli appartenenti alla scuola partano volontari, chiedendo, implorando la prima linea. E metti infine che questi ragazzi muoiano uno a uno, nel sacrificio esemplare e religioso di se stessi sull’altare dell’idea. Ecco, questo fu la Scuola di Mistica fascista. Un episodio che fa tremare i polsi, che ci mette di fronte a noi stessi in modo definitivo. Qualcosa che azzera le discussioni. Trovatemi un Giani o un Pallotta democratici, comunisti, liberali o anarchici. Non ne esistono e questo è quanto.


Fascismo-movimento e Fascismo-regime. La dizione defeliciana ha creato non pochi fraintendimenti, in quanto alcuni hanno enfatizzato le differenze di questi due elementi, mentre altri hanno preferito uno a discapito dell’altro. Tu come la vedi?

Una distinzione che non ho mai capito: in quale regime o tipo di governo non c’è una qualche distinzione tra le proposte di poeti, filosofi, intellettuali da una parte e l’azione di amministratori, governanti, politici dall’altra? Perché allora si enfatizza questa dialettica solo nel fascismo? Forse per salvare intellettuali di prim’ordine dalla condanna generalizzata e separare così astrattamente i «buoni» dai «cattivi»? Ogni momento storico conosce lo scarto fra teoria e prassi. Il fascismo, semmai, è fra i regimi in cui meno si può proporre un simile discorso: Pavolini fu fascista di movimento o di regime? E Gentile? Giani? Ricci? Evola? Gli psicodrammi sui fatti cattivi che tradiscono sempre le intenzioni buone lasciamole a comunisti e cristiani, a noi piace il movimento che si fa regime, l’intellettuale che coincide con il militante.


Destra e sinistra nel Fascismo. Quale è stato il rapporto tra queste due «anime» durante il Ventennio? Quale il loro lascito?

Il fascismo è sintesi o non è. La sua forza fu l’unione di tutte le verghe, sottrarne una a posteriori è sbagliato, in qualsiasi senso ciò accada. Si può, ovviamente, avere una sensibilità più affine all’una o all’altra corrente, basta non prepararsi alibi con discutibili viaggi mentali. Chiamo «viaggio mentale» ogni tesi che perda di vista la complessità del reale per venire incontro a mancanze tutte nostre e consentirci di fare le cose più semplici di quanto non lo siano. Il fascismo non fu una semplice variante del socialismo o una parodia di militarismo prussiano. Forse è ora di recuperare un sano «fascismo di centro»...


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

Quando, negli anni ’30, tutti si pavoneggiavano con i distintivi del Pnf lui urlò al mondo la sua adesione a idee che trascendevano il fascismo; quando tutti, dopo l’8 settembre, se la squagliavano lui era al suo posto di milizia. Mi sembra che questo basti a definire la statura del personaggio. Molto amato quanto odiato, andrebbe semmai contestualizzato. Diciamo che fu meno importante di quanto credano i suoi adoratori e più di quanto credano i suoi detrattori. Ha scritto diverse cose discutibili e fornito indicazioni esistenziali preziose. Alle prime si sono attaccati tutti gli sfigati del mondo, convinti che la ciclicità del tempo e il kali yuga fornissero un alibi alla loro inettitudine. Sono quelli, per capirci, che continuano a scrivere «epperoché», «femina» e «Aristotile» in ossequio al maestro. E tuttavia non sarà un caso che quanto di meglio è uscito dal nostro mondo rechi una forte impronta evoliana. Pensiamo solo a personalità come Clemente Graziani, Maurizio Murelli, Cesare Ferri, Carlo Terracciano, Claudio Mutti, Walter Spedicato, Adriano Romualdi, Peppe Dimitri, Gabriele Adinolfi. Forse i tempi oggi sono maturi per riscoprire un Evola oltre le incrostazioni, comprese quelle che lui stesso contribuì a creare. Un Evola scintillante e rinnovato. Un Evola mito mobilitante, come nel bellissimo manifesto rosso della conferenza che si svolse a CasaPound nel 2004.


È corretto parlare di egemonia della sinistra nel mondo della cultura e dell’informazione?

Per esserci vera egemonia ci dev’essere un progetto, una qualche idea di società da proporre, una politica. Oggi, palesemente, tutto questo manca. L’egemonia di sinistra è stata una realtà concretizzatasi in una mafia culturale odiosissima. Ora questa egemonia arranca e lascia solo rendite di posizione. Dall’altra parte la destra non sa opporre se non lamenti e alibi per le proprie sconfitte o cialtroni prezzolati che svillaneggiano nei posti che contano finché dura il boss, senza però costruire alcunché. Da una parte c’è un’egemonia in crisi, dall’altra l’incapacità di crearne una nuova. In questo teatrino della sconfitta, l’unica proposta d’avanguardia può essere solo quella volta a creare nuova egemonia. Sull’«Ideodromo» mi è capitato di scrivere: «Guardandoci attorno ora che molti bastioni di quel fortino culturale sono caduti, dobbiamo lanciare un messaggio che sia chiaro e netto: noi l’egemonia non la chiediamo, ce la prendiamo. Se le regole del gioco sono già scritte e ci vedono relegati fuori dallo stadio, noi facciamo invasione. Non cerchiamo scuse o riconoscimenti, ci rimbocchiamo le maniche e ci riprendiamo tutto. Dire che sia facile sarebbe da pazzi. Dire che è impossibile sarebbe da vili».


È possibile proporre un altro modo di fare cultura, che sia incisivo e accattivante, in grado di superare i dettami del «politicamente corretto»?

Il politicamente corretto già non è più cultura, è un rantolo d’agonia. Per il resto, praticamente tutta la cultura che conta del ’900 è affar nostro. Basta con i complessi di inferiorità. Solo noi abbiamo gli strumenti concettuali per interpretare la modernità: usiamoli! Solo dopo aver acquisito tale consapevolezza potremo impostare una seria politica culturale. Che, ovviamente, deve essere tutta puntata a creare senso: dare senso al mondo, dare senso all’epoca presente, dare senso alla comunità nazionale. Se si fa cultura in questo modo non occorre preoccuparsi di avere un approccio «incisivo e accattivante», le cose vengono da sé.


Che cosa rappresenta CasaPound nella cornice politica attuale? Quali le prospettive future?

Rappresenta una speranza, una volontà e una via. Pregi, difetti, prospettive e pericoli non dovrei essere io a indicarli: facendone parte la cosa assumerebbe toni autoelogiativi, questi sì un vero pericolo da evitare. Credo tuttavia di essere oggettivo se affermo che Cpi è la vera novità degli ultimi anni. Le prospettive mi sembrano luminose, a patto di saper capitalizzare la crescita esponenziale del movimento ed evitare l’effetto «recupero» da parte di un sistema che ha sempre bisogno di «cattivi» folcloristici da esibire.


Quali pensi che siano le maggiori qualità di Gianluca Iannone?

Ci sarebbe molto da dire, al riguardo, e invece dirò molto poco, poiché ho l’onore di confrontarmi quotidianamente con Gianluca e so quanto poco ami la personalizzazione delle battaglie di CasaPound. Generosità, lungimiranza, coerenza e genialità dell’uomo sono sotto gli occhi di tutti, anche dei nemici. Interni ed esterni.


Come e perché nasce il manifesto dell’EstremoCentroAlto? Quale idea di società e di politica vuole proporre?

Il manifesto dell’EstremoCentroAlto nasce in onore alla sentenza di Delfi: «divieni ciò che sei». Anche noi siamo divenuti ciò che già eravamo, ovvero spiriti liberi non incasellabili in categorie. La vera sfida ora è esplicitare i contenuti già presenti nel manifesto. Personalmente vedo l’EstremoCentroAlto come una visione originaria, cristallina sulla realtà del terzo millennio, oltre tutti i residui «ideologici» e i viaggi mentali del neofascismo. I tre termini che formano la nuova definizione segnano già una discontinuità in direzione di una politica non falsamente moderata, non ondivaga, non prostituita. Quale idea della società propone? Libertaria ma responsabile, scanzonata ma severa, popolare ma gerarchica. Questo mi sembra appaia chiaramente da parole come queste: «Un’idea ed una comunità sempre in bilico tra imperium e anarchia, un sentimento del mondo che non concepisce alcun ordine sociale al di fuori di un ordine lirico. Una visione che rifiuta il grigiore burocratico della città-caserma tanto quanto l’attrazione morbosa per l’informe, per il deforme, per i maleducati dello spirito. Un’idea politica che disprezza le cosche, le oligarchie, le caste, le sette e le lobby e che immagina, per ogni Stato degno di questo nome, la partecipazione per base, la decisione per altezza e la selezione per profondità». Insomma: uno Stato sovrano che non diventi però un cerbero o un aguzzino, una società in cui sia garantita la circolazione delle élites e il popolo si senta di nuovo padrone del proprio destino.

mardi, 06 avril 2010

Tomislav Sunic répond aux identitaires

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Tomislav SUNIC répond aux Identitaires 

 

Le 30 Janvier 2004

sunicXXX.jpgRencontre avec le docteur Tomislav SUNIC, enseignant en sciences politiques aux Etats Unis et écrivain croate.

Pamphlétaire et contestataire de la droite antilibérale croate, ancien diplomate, il est l’auteur d’ouvrages traitant entre autre de la géopolitique dans les Balkans, de la démocratie et de l’utopie égalitaire. Tom Sunic dénonce inlassablement le danger de la globalisation mondialiste en train d’éclore sur les décombres du communisme dans les pays de l’Est. Tomislav Sunic est également le correspondant en Croatie de la revue Nouvelle Ecole.

 

Aujourd'hui, il milite notamment pour un véritable rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Cette guerre larvée servant, selon Tomislav SUNIC, les intérêts des ennemis de l'Europe.

 

Au début des années 90, les occidentaux voyaient s'engager le provisoire dernier acte d'une guerre civile européenne qui avait commencé presque 80 ans plus tôt. Quels étaient les ingrédients récurrents de ce conflit yougoslave encore mal compris en France ?

 

Tomislav SUNIC : Les responsables de cet acte de guerre sont à chercher chez les jacobins français, chez Clemenceau, dans le Traité de Versailles, chez Mitterrand, et bien sûr, chez les Américains qui avaient prêché, à partir de 1948 et jusqu’en 1990, “ l’unité et l’intégrité ” d’un pays artificiel, connu sous le nom de “ Yougoslavie ”.

 

Aujourd'hui, vous souhaitez un rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Celui-ci semble encore bien précaire. Comme l'ont démontré les affrontements sérieux survenus lors de rencontres sportives, notamment au cours du match Croatie-Serbie de water-polo du dernier championnat d'Europe, les cicatrices semblent profondes. Bien sûr, les ennemis de l'Europe s'en réjouissent. Une normalisation réelle des rapports croato-serbes est-elle concevable ou encore illusoire ?

 

TS : Laissons le sport à part. Lorsque les équipes de différentes villes croates s’affrontent, il y a toujours une pagaille - comme d’ailleurs partout chez les supporters en Europe. Le problème réside dans la mythologie grande-serbe et la martyrologie grande-croate. Au cours des dernières 70 années, à savoir depuis la fondation de la Yougoslavie en 1919, les intellectuels serbes et croates, n’ont jamais jugé nécessaire de se débarrasser de leurs mythes pseudo-historiques. Le vrai délire commença en 1945 lors de la prise du pouvoir par les communistes, et lorsque l’hagiographie serbe imposa dans les écoles, et auprès du grand public occidental, sa victimologie “ anti-fasciste ” s’élevant à 600.000 Serbes prétendument tués par les fascistes croates de 1941 à 1945. Cette surenchère a eu pour cause, chez les Croates, de profondes frustrations, un romantisme politique souvent bête, et une poussée révisionniste qui aboutit en 1990 à l’éclatement du pays. Hélas, le nationalisme croate est également à la base de sa “ légitimité négative ” ; malheureusement on reste un bon Croate en fonction de son anti-serbisme, c’est-à-dire en diabolisant l’Autre. Le résultat fut la deuxième guerre entre les Serbes et les Croates en 1991.

Tant que les intellectuels serbes et croates ne se mettront pas sérieusement au travail pour examiner leurs victimologies respectives, et qui remontent à la deuxième guerre mondiale, la guerre larvée sera là, au grand plaisir des ennemis de l’Europe.

 

Croatie et Serbie semblent rivaliser d'ardeur pour livrer leurs patriotes respectifs au Tribunal Pénal International de La Haye. Quel est votre avis sur cette Cour et sa légitimité ?

 

TS : Aucun. La Cour de La Haye fonctionne d’après le principe du “ deux poids deux mesures. ” Ce qui n’est pas permis aux Serbes et aux Croates, est loisible pour les guerriers américains, israéliens, etc… Revenons à la phrase lapidaire de Carl Schmitt : “ Auctoritas non veritas facit legem ” (*). En bon français, c’est la qualité du flingue qui décide qui ira à La Haye, qui aura raison et qui aura tort, et qui va façonner par la suite le droit international. Le Tribunal de La Haye est un alibi pour l’incompétence de la classe politique en Union Européenne, qui fut d’ailleurs totalement incapable de mettre fin au conflit yougoslave dans les années 90.

 

Bien que les composants soient un peu différents – distinctions ethniques plus franches – les gouvernements des principales capitales européennes continuent leur politique de l'autruche, et semblent nier l'évidence en minimisant la possibilité d'affrontements multiculturels et/ou multiethniques graves dans les années à venir. Est-ce, selon vous, lâcheté ou volonté délibérée de refuser l'évidence ? Qu'est-ce qui pourrait faire échapper l'UE a une crise “ à la yougoslave ” ?

 

TS : “ L’Euroslavie ” actuelle ressemble étrangement à l’ex-Yougoslavie. Soyons sérieux. Le système bruxellois n’est pas conçu comme vecteur pour réunir les peuples européens dans un destin commun. L’UE est un vaste marché, un bazar dont l’avenir dépend uniquement d’un perpétuel bond économique en avant.

 

En effet, qui aurait cru que la Yougoslavie multiculturelle allait éclater en décombres ? Je crois que la même “ balkanisation ” attend l’Union européenne demain, avec des conséquences beaucoup plus graves. Tant que l’État-providence fonctionne, bon gré mal gré, tant que les allogènes reçoivent leur morceau de sucre de la part des contribuables européens, le calme est garanti. Une fois que la crise économique deviendra palpable, nous serons témoins d’une guerre civile autrement plus sauvage que dans les Balkans. Victime de ses illusions du progrès, et croyant naïvement en la théologie du marché libre, l’Union Européenne va devenir la proie de ses propres chimères. Le soi-disant bon fonctionnement de l’UE, avec son prétendu élargissement à l’Est, ressort d’un nouveau romantisme politique. Ce projet reste la plus grande imposture après la deuxième guerre mondiale.

 

Pertes des valeurs traditionnelles, plaisirs petits-bourgeois, dévirilisation, paradis artificiels, le matérialisme libéral triomphe en Europe occidentale. Quelle est votre réponse au chaos du monde moderne ?

 

TS : Lorsqu’on lit les écrivains des années trente nous nous rendons compte du même scénario en Europe. Nul doute, le libéralisme touche a sa fin. Le roi est nu ; il n’a plus de repoussoir communiste. Donc sa dégénérescence apparaît plus clairement. Tant mieux. Il faut que la situation empire davantage, pour que davantage de gens puissent déchiffrer l’ennemi principal.

 

On a dit que Rome était tombée car ses Dieux l'avaient abandonnée. Voyez-vous dans la perte totale de sens du sacré en Occident, une des causes profondes de son déclin ?

 

TS : Bien entendu. Même les grandes religions monothéistes ne sont plus capables d’insuffler le sens du sacré à leurs brebis. Hélas, dans la perspective historique, cinquante, voire une centaine d’années, ne veulent rien dire. Mais pour nous-mêmes, pour qui le temps vole si rapidement, il est peu probable que le grand retour des dieux ait lieu pendant notre parenthèse terrestre… Mais, peut-être dans une vingtaine d’années, verrons-nous la grande renaissance des dieux européens !

 

Les hommes debout au milieu des ruines - identitaires éveillés- ont coutume de dire que le soleil se lèvera à l'Est. Le salut de l'Occident peut-il venir de l'exemple des jeunes générations d'Europe de l'Est ? Et, selon vous, un rapprochement concret des forces nationales de chacun des pays de l'Ouest et de l'Est pour une renaissance européenne est-il sérieusement envisageable ?

 

TS: Le grand avantage du communisme fut sa barbarie et sa transparence vulgaire. Son grand avantage fut également qu’il sut préserver, malgré son dogme international, l’homogénéité ethnique des Européens de l’Est. La Russie, la Croatie, la Serbie, l’Estonie, etc. restent des enclaves blanches, de solides “ camps des saints ”. Espérons que la classe dirigeante en Europe orientale ne va pas tomber dans la surenchère du mimétisme pro-occidental et qu’elle ne va pas remplacer sa maladie de “ l’homo sovieticus ” par la nouvelle pathologie de “ l’homo occidentalis ”. Il y a quelques signes encourageants que cette Europe cioranienne commence à s’apercevoir de l’imposture occidentalo-libérale. Mais pour mener le travail de renaissance à son terme, il faut que ses citoyens fassent table rase de leur petit nationalisme et qu’ils abandonnent la haine de l’Autre, c’est-à-dire de leurs voisins. Les individus sages et cultivés de l’Europe occidentale pourraient y aider et cela d’une manière considérable.

 

Pour finir, un message pour les visiteurs du site “ les-identitaires.com ” ?

 

TS : Unissons nos forces identitaires et patriotiques, apprenons les langues et la culture de nos voisins européens ! Pratiquons l’identification – non seulement avec notre tribu – mais surtout avec l’Autre, à savoir nos frères voisins européens !

(*) Littéralement : “ C’est l’opinion et non la vérité qui fait la loi ”, à prendre ici au sens de “ C’est l’autorité et non la vérité qui commande à la loi ”.

 

Propos recueillis par Renaud BOIVIN

Pour en savoir plus : http://doctorsunic.netfirms.com

samedi, 03 avril 2010

Intervista a Gabriele Adinolfi

Intervista a Gabriele Adinolfi

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Gabriele Adinolfi è nato a Roma nel 1954. Tra i fondatori di Terza Posizione, è analista politico e scrittore. Ha collaborato a numerose iniziative culturali, tra cui «Orion», gestisce il sito di informazione «Noreporter» e ha istituito il Centro Studi Polaris.


Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Silla, Cesare, Augusto, Giuliano, gli Ottoni, Barbarossa, Carlo V, Napoleone e i grandi dell’Asse.
Poi, sul piano degli scrittori, Friedrich Nietzsche, in cui è essenziale lo sforzo poetico dello spirito guerriero, il coraggio di guardare la nudità senza arrossire; Pierre Drieu La Rochelle, la sobria e cosciente concezione di vivere la tragedia; Julius Evola, il nume che ti presenta direttamente la tua verità ancestrale e quella divina; Benito Mussolini, il pensiero lineare e lirico in geometrie perfette; Luigi Pirandello, come dice lui stesso, «le maschere nude», quindi l’ironia divina nell’introspezione della commedia umana; Jean Mabire, la capacità di disegnare paesaggi e personaggi eroici propri ad un romanziere, che è stato ufficiale di commando e che resta legato ad un immaginario pagano; infine Alexandre Dumas, l’espressione delle gerarchie valoriali che si rivelano nel pieno delle passioni umane. Ma penso si debbano aggiungere anche Emilio Salgari che con i suoi capolavori di avventura ha creato un immaginario impareggiabile invitandoci a vivere sul serio, ed Edmondo De Amicis che con il libro Cuore ha insegnato e formato tantissimo le generazioni che vanno da quella cresciuta immediatamente prima del fascismo alla mia.


Soppressione delle libertà politiche, leggi razziali, imperialismo coloniale, alleanza con Hitler. Queste sono le classiche accuse rivolte al Fascismo dalla vulgata corrente. Che cosa rispondi a chi presenta tutto ciò come la definitiva condanna in sede storiografica e politica del Ventennio?

Che chi lo pensa è ignorante, male informato o prevenuto.
Il Fascismo e l’Asse hanno rappresentato l’espressione piena e vitale della libertà e della dignità dei popoli e lo hanno fatto da ogni punto di vista: esistenziale, politico, culturale, finanziario, economico, energetico e sociale.
Chi ha conculcato le libertà, oltre ad aver eliminato centinaia di milioni di uomini, chi ha imposto il sistema criminale e mafioso in cui versa oggi un pianeta allo sbando, preda dello sfruttamento integrale di popoli, individui e risorse, della speculazione intensiva ed estensiva che si estende al sistematico utilizzo del narcotraffico e alle miliardarie e delinquenziali operazioni farmaceutiche che apportano epidemie e impediscono qualsiasi cura di successo, è proprio chi alla Germania dichiarò guerra nel 1939 e poi combatté contro di noi ed il Giappone. Si tratta di quegli stessi che, dopo aver commesso il genocidio completo dei nativi americani, hanno compiuto i massacri al fosforo, al napalm e con le bombe atomiche.
Non possono così che suonare grottesche le accuse mosse all’Asse; in particolare quella che va ultimamente alla moda di prendersela con il Fascismo per le leggi razziali, stilate peraltro al varo dell’Impero, «dimenticando» che tra i «buoni» le leggi razziste erano attive, dall’arrivo dei «progressisti» al potere, come in Francia dove furono introdotte da un premier israelita o negli Usa dove rimasero attive fino al 1964. Pretendere che queste fossero un motivo di differenziazione e di scontro è ridicolo come lo è la distrazione odierna, visto che nessuno si scandalizza per quelle tuttora in vigore in Liberia e in Israele.
Che i padrini della mafia americana e cosmopolita o i lacchè dello stalinismo possano aver presentato, a posteriori, il Fascismo e l’Asse in questo modo falso e fittizio ci sta pure: hanno vinto e possono fare quello che vogliono, anche imporre leggi contro la ricerca storica. Poiché poi la menzogna è tipica della loro cultura, è normalissimo che la propaghino ovunque a mascheratura della loro sozzura.
Quello che non si può invece avallare è il tentativo pietoso di coloro che, avendo frequentato ambienti diversi dai dominanti, ambienti in cui proprio la conoscenza storica è la prima attività politica, si affannino a dire bestialità di questo tipo nel vile e servile conato di essere accettati. Non si sa bene da chi vogliano esserlo né come sperino di riuscirci perché chi striscia non piace neppure a colui verso cui si prosterna. Ma mi chiedo anche perché mai costoro dovrebbero fare carriera.
Cos’hanno, infatti, da farci la Nazione, il popolo, la stessa umanità, di gente così?
Infine ci sono quelli a cui, come si dice a Roma «non regge la pompa»: quelli che hanno paura di essere giudicati e cercano di farsi strada a gomitate «prendendo le distanze» da questo o da quell’aspetto, in modo da non sentirsi scomunicati. La scala di valori tra costoro varia: molti sono semplicemente dei deboli, altri sono degli influenzati, comunque scarsamente combattivi, parecchi invece sono dei banali miserabili.
Non hanno la forza e il coraggio di andare in fondo nella ricerca della giustizia e della verità e preferiscono evitare di pagare dazio, gettando al mare la memoria dei vinti perché tanto non costa nulla. Infatti perdono solo la dirittura e la dignità.


Uno sguardo all’attualità. Come giudichi sinteticamente Berlusconi e la sua politica estera?

Berlusconi è un po’ Craxi, un po’ Pacciardi e un po’ Cossiga. Ovviamente è soprattutto craxiano, anche se il ruolo dell’Italia è cambiato sulla questione palestinese; infatti, a differenza di Craxi, Berlusconi è filo-israeliano. Ma non dimentichiamoci che non c’è più Arafat dalla parte dei palestinesi, e quindi mancano le parti con cui dialogare.


Oltre a un’innegabile componente craxiana, in Berlusconi rivedi confluite anche altre tradizioni politiche, per esempio di un Giolitti?

Sicuramente Berlusconi ha una componente giolittiana. Nondimeno il presidente più simile a Giolitti è stato Andreotti.


Che ne pensi della politica economica dell’attuale governo?

L’Italia, dal punto di vista capitalista, diplomatico ed energetico, sta seguendo le linee di politica estera già abbozzate e poi delineate da Mussolini verso est e sud. Ribadisco che tuttavia il modello politico, sociale e culturale non è sicuramente mussoliniano.


Sul caso Alitalia, come giudichi il comportamento dell’esecutivo?

In Italia il capitalismo funziona sul consociativismo e sul co-interesse. Ossia: più do da mangiare ad un nemico e meno lo ho contro.


Quale reputi che sia l’influenza della massoneria oggi?

Nei precedenti governi, compresi quelli Berlusconi, ci furono certamente uomini con una forte connotazione massonica e con un passato di quel marchio, ma oggi i poteri forti sono altra cosa: a livello nevralgico c’è una compenetrazione di interessi vaticani, laici, protestanti, israeliti che convivono tramite strutture miste. L’«Ancien Régime» vuole questo consociativismo con le comunità islamiche, e questo modello è dettato da Usa e Francia.


Come giudichi la caduta dell’ultimo Governo Prodi?

Vista la situazione internazionale, con il Trattato di Lisbona, è interesse dei centri di potere che vengano fatte determinate riforme. I poteri forti volevano Prodi, ma è impossibile governare ricorrendo ogni volta al voto determinante dei senatori a vita. Quindi, dopo aver concepito l’irrimediabilità della bancarotta per il governo Prodi, i centri di potere hanno permesso nuovamente a Berlusconi di gestire la situazione. Tuttavia Murdoch, i magistrati e la CEI sono in conflitto con il Cavaliere, che però è supportato dal Vaticano. Le oligarchie comunque non sono di certo filo-berlusconiane.


La Mafia è, secondo te, un potere forte?

Non totalmente. Lo Stato non la può abbattere e non ha i mezzi per farlo. Ma, qualora acquisisse tutto questo, lo potrebbe fare sicuramente.


Perché Berlusconi è entrato in politica?

Entra in politica per salvare le tv. Poi, dopo averci preso gusto, ha deciso di rimanerci ed ampliare il suo impero, entrando in collisione con i magistrati.


Che cosa ne pensi delle affermazioni di Gelli su Berlusconi? Secondo te chi ha fatto entrare il Cavaliere in politica?

A proposito di Gelli, non è affatto vero che la P2 voleva bloccare l’avanzata comunista al governo. Inoltre va detto che ricevere complimenti da Gelli non è affatto positivo; magari Gelli li ha fatti perché, avendo perso la leadership, è geloso di Berlusconi. Resta comunque una persona poco credibile e, quel che è certo, non è stato lui a far entrare il Cavaliere in politica, ma piuttosto Bettino Craxi e Francesco Cossiga.


Capitolo «Gianfranco Fini»: con le sue ultime scelte, dove vuole arrivare?

Innanzitutto voglio precisare che ritengo che Fini sia mosso dall’invidia nei confronti di Berlusconi. Ad ogni modo, il suo sogno è fare il Presidente della Repubblica, ma forse ha fatto calcoli inesatti, perché nel suo giochino «scandalistico» ottiene consenso a sinistra, che tuttavia è effimero: la sinistra infatti non lo sosterrebbe mai a discapito di un suo esponente. Un altro suo possibile errore è l’eccessiva convinzione che sembra nutrire di essere tutelato e garantito da centri di potere esteri, che, a parte Londra, non hanno motivi per appoggiarlo.


Ultimamente si sono accese roventi polemiche sul ruolo effettivo di Di Pietro in Tangentopoli. Tu come la vedi?

Americani e comunisti, sapendo che non avrebbe mai potuto affossare il Pci, hanno fatto fare a Di Pietro una manovra politico-giudiziaria che ha spazzato via tutti i partiti politici del tempo, escludendo solo il Pci. Non a caso, per darsi una collocazione politica, si è fatto aiutare da Occhetto che, comunque, resta per me il vero regista della manovra di Tangentopoli.


Passiamo velocemente alla storia. Riguardo alla Guerra Fredda, che cos’è che non ci ha raccontato la storiografia ufficiale?

La Guerra Fredda si è combattuta realmente in Asia, non in Europa. Kennedy e Krusciov, che passano per moderati, sono stati coloro che hanno alzato maggiormente il tiro e rischiato seriamente di arrivare ad uno scontro armato. Da questa situazione chi ne ha tratto vantaggio è stata la Cina, perché è stata utilizzata dagli USA in funzione anti-sovietica.


Non furono in pochi coloro che, dopo la disfatta bellica, traslocarono dal Pfr al Pci, come ad es. Stanis Ruinas. Come giudichi questa scelta? Fu un tradimento o un percorso rivoluzionario alternativo?

A mio giudizio è dura passare il solco tra Fascismo e Pci, in particolare dopo le stragi ignobili commesse dai partigiani; anche se il Msi è lontano anni luce dal Fascismo, non bisogna dimenticare che il Movimento Sociale non aveva spazi e perciò, invece che scomparire, ha dovuto fare delle scelte. Il problema di quel partito, secondo me, è comportamentale, perché questo al suo interno aveva personaggi rivoluzionari, ma aveva una gestione para-statale. Comunque in politica non esiste il «giusto» o «sbagliato»: ciò che conta è l’uomo e nel Msi purtroppo vi fu molto l’inversione delle gerarchie con tutto quello che ne è conseguito.


Torniamo alla politica attuale. Quali prospettive per CasaPound?

Innanzitutto dipenderà dal ritmo che CasaPound avrà, anche se a mio parere gli allargamenti numerici sono stati negli ultimi tempi un po’ eccessivi e la obbligano a un forte impegno per rispondere al suo clamoroso successo. Ma dal punto di vista della creazione artistica e delle capacità dialettiche e mediatiche, CasaPound sta bruciando qualsiasi record. Proprio per questo ci vuole tenuta. Ad oggi è difficile capire quali siano i limiti che possa incontrare e quali gli obiettivi che le possano essere preclusi, se riesce a mantenere una corsa cadenzata.


Come giudichi le accuse di entrismo, giunte sia da destra che da sinistra, rivolte a CasaPound?

CasaPound ha abbandonato l’infantilismo destro-terminale e lo ha fatto senza sottostare alle logiche dell’entrismo. Questo fa letteralmente impazzire i duri e puri della «masturb-azione» che vedono ogni giorno la fotografia dell’essere radicali, idealisti e concreti e non hanno alibi per motivare la loro mancanza di azione.


Parliamo di Polaris. Come nasce questo centro studi, e perché?

Nel sistema moderno ed oligarchico, un ruolo essenziale nella formazione delle élites è dovuto ai think tank, che restano comunque un modello americano. Anche in Europa esistono, mentre in Cina e in India si stanno sviluppando. In Italia i centri studi, se hanno forza, producono programmi scientifici (come la Fondazione Ugo Spirito), oppure sono salotti correntizi dei politici che hanno tendenza alla superficialità. Il think tank fa analisi, propone soluzioni e strategie per conto di poteri forti economici privati. Polaris prova una terza via, cioè tracciare e proporre analisi e strategie per tutti gli operatori politici ed a vantaggio della nazione. Facendo un esempio, è come un’agenzia di servizi per le questioni politiche, giuridiche ed economiche; al contrario di come spesso avviene, Polaris è cresciuta gradualmente e da marzo editerà una pubblicazione trimestrale, che si pone ai livelli e nelle competenze trattate di riviste come «Limes» o «Aspenia».


Come è possibile coniugare movimentismo futur-ardito, attività culturale d’avanguardia ed elaborazioni strategiche ad ampio respiro?

Essenzialmente bisogna coniugare strutture a importanti reti relazionali.



jeudi, 25 mars 2010

H. de Sy: "De top van de Vlaamse Beweging is even Jacobijns als Parijs"

Hubert de Sy: "De top van de Vlaamse beweging is even Jacobijns als Parijs"

Christian Dutoit 

Ex: http://www.meervoud.org/

Vlaams.jpgEen hekelschrift. Zo noemt auteur Hubert de Sy zelf het boek dat hij vorig jaar uitgaf met als merkwaardige titel 'Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde beweging'. Volgens de achterflap verkondigt het boek 'politiek uiterst non-correcte meningen en stellingen.'
Het boek kende enig succes en is binnenkort aan zijn derde druk toe. Tijd voor Meervoud om een gesprek aan te gaan met de auteur over zijn 'hekelschrift' en over wat hem ertoe brengt zich als nestor (de Sy werd geboren in 1921) en na een lange en zeer gevarieerde carrière (oud-koloniaal ambtenaar, directeur van de Vlaamse Elsevier, VEV,...) in te laten met die 'versnipperde' Vlaamse beweging.

- Uw boek wordt door velen die het gelezen hebben, waaronder ikzelf, als nogal 'pessimistisch' aangevoeld. In een inleiding laat u Trends-directeur Crols ongeveer zeggen dat Brussel een blok aan het been is van de rest van Vlaanderen, en u schijnt zich daarbij aan te sluiten.

Hubert de Sy: Ik wens dat niet, maar ik denk dat er geen andere mogelijkheid meer is. Brussel heroveren, dat vind ik een utopie. Een dwaasheid. Niet alleen kunnen we niet op tegen de Franstalige belgicisten, maar binnen vijf jaar zijn de Arabieren baas. Hoe kunnen wij dat omkeren? Waar ik aan denk is, als Vlaanderen onafhankelijk is of zelfbestuur heeft, Brussel af te kopen. Met geld, veel geld. Brussel en Wallonië leven maar dank zij het geld van de Vlamingen. Je mag dat draaien of keren zoals je het wil.

- Eigenlijk geeft u nu Henri Simonet postuum gelijk, die ooit beweerde dat de verfransing van Brussel een 'onomkeerbaar sociologisch feit was'?

Hubert de Sy: Dat is een maatschappelijk fenomeen, daar kan je niet tegenop. Dat kun je niet tegenhouden met wetten.

- Maar Brussel 'afkopen'? Dat is een zachte variatie op wat Guido Tastenhoye van het Vlaams Blok hier ooit in deze kolommen verkondigde. Hij wou natuurlijk wel de ring afsluiten of de Brusselaars eventueel onder water zetten. Maar goed, ...

Hubert de Sy: Kijk, Brussel kan niet leven zonder geld van Vlaanderen. Dus kan Vlaanderen zeggen: je krijgt geld, mààr!

- Brussel is toch een economisch verlengstuk van Vlaanderen?

Hubert de Sy: Brussel is inderdaad een economisch verlengstuk van Vlaanderen, maar of er nu een Belgisch, een federaal of een confederaal systeem is, die economische relatie tussen Vlaanderen en Brussel heeft daar niets mee te maken. De structuur van de staat verandert niets aan de commercie. De Vlamingen gaan blijven verkopen. Als Delhaize of GB goedkoper varkensvlees vinden in Vlaanderen, dan gaan ze toch niet zeggen:Vlaanderen, dat is een andere staat. Dan gaan ze dat toch gewoon kopen. De economische middens trekken zich niets aan van het staatsbestel.

- In het verleden is het toch al gebeurd dat Wallonië liever bussen ging kopen in Frankrijk dan in Koningshooikt, de Van Hool-affaire.

Hubert de Sy: Dat is toch zeker zeer marginaal.

- En onlangs dreigde Di Rupo er nog mee Vlaamse producten te boycotten als er een nieuwe ronde in de staatshervorming zou komen?

Hubert de Sy: Dat is een politiek discours. In de praktijk kan dat misschien werken voor vijf procent van de economische uitwisseling.

- Ik kom nog even terug op de commentaren op uw boek. De meeste commentatoren en recensenten noemen het pessimistisch. Bent u pessimist van nature of het geworden?

Hubert de Sy: Ik moet toegeven dat mijn vrouw dat ook soms zegt. Maar als iemand iets zegt dat niet strookt met 'la pensée unique', dan ben je automatisch een pessimist. Ik beweer dat ik mijn best gedaan heb om rekening te houden met naakte feiten, en te trachten nuchtere gevolgtrekkingen te maken. Dat is mijn standpunt. Ik geef u het voorbeeld, dat voor mij emblematisch is, van de splitsing van Brussel-Halle-Vilvoorde. In dit geval heeft zelfs de top van de Vlaamse intellegentsia gezegd aan de Vlaamse politici dat ze eindelijk eens gebruik moesten maken van hun parlementaire meerderheid. Het heeft niet geholpen. Ze hebben het een tweede keer gedaan. Het heeft absoluut niet geholpen, integendeel. De resultaten van de kieswet zijn erger wat er ooit geweest is en ze zijn nu definitief vergrendeld. Brussel-Halle-Vilvoorde staat nu als kiesdistrict compleet open voor de propaganda van Franstalige politici. Wat heeft dat met pessimisme te maken? Het heeft te maken met het aanhalen van concreet controleerbare onbetwistbare feiten die aantonen dat de Vlaamse beweging niet alleen meer vooruit gaat maar integendeel achteruit gaat. Je kan zo honderd voorbeelden aanhalen.

- Hoewel het economisch niet zo goed voor de wind gaat doet Vlaanderen het voorlopig nog economisch beter dan Wallonië en Brussel. Hebt u er een verklaring voor waarom dat zich niet politiek vertaalt?

Hubert de Sy: Je bedoelt dat de economische macht zich politiek niet uitdrukt? Dat wordt moeilijk. Ik was toen actief in het Vlaams Economisch Verbond, toen de eerste regionalisering plaatsvond. Toen ging het goed met de inkomsten van het VEV, omdat ik het argument had om via die regionalisering te pleiten voor een grotere samenwerking met het VEV eerder dan met het VBO. Rekening houdende met een nieuwe economisch-politieke context. Zeer vlug hebben wij dan vastgesteld - na vijf of tien jaar - dat de Vlaamse economische middens ingezien hebben dat de macht van het Belgisch establishment, het Belgisch kapitaal, belgicistisch gebleven was en dat ze daar niets tegen konden doen. Een zakenman moet geld verdienen of vooral in leven blijven. Ze hebben ingezien dat ze in een Belgische context leven en dat het zakelijk gevaarlijk is zich flamingant op te stellen. Omdat ze te doen hebben met de macht van de Générale, Paribas enzovoort. Kort na de oorlog had je nog fabrikanten, ik denk aan Sabbe, die hun bedrijf De Vlaamse Tapijtweverij noemden. Het is ondenkbaar dat men vandaag een bedrijf opricht dat zich 'Vlaams' noemt. Die mensen kwamen uit Vlaamse college's waar ze liederen zongen als 'Mijn Vlaandren heb ik hartlijk lief' en 't zijn weiden als wiegende zeeën'. Dat is nu totaal gedaan. Wat doen de katholieke scholen vandaag? Die leren veilig vrijen.

- Kom, de tijden zijn toch ook wel enigszins veranderd.

Hubert de Sy: Ik wil maar zeggen dat het identiteitsbewustzijn maar kan komen uit de familie en uit het onderwijs. Dat gezeur, dat emmeren over identiteit heeft geen zin. Welk onderwijsprogramma is er vandaag nog dat de Vlaamse beweging uitlegt? Dat is toch essentieel, niet alleen voor Vlaanderen maar ook voor België.

- OK, u bent een weinig pessimistisch. Probeert u eens na te gaan wat er vandaag dan wèl nog goed is aan de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Wat is er verkeerd aan de Vlaamse beweging? Wel, ik ga natuurlijk niet akkoord met Schiltz die zegt dat de Vlaamse beweging afgedaan heeft omdat we nu een Vlaams parlement hebben.

- Rekent u Schiltz tot de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Neen. Hij en de Spirit-groep hebben de Vlaamse beweging ontmand. En de Spiritgroep, met Anciaux aan de kop, heeft ze afgemaakt. De Vlaamse beweging is nu meer dan ooit nodig. Maar de strategie is verkeerd. Sedert dertig jaar is men bezig over de Vlaamse identiteit en over de eerbaarheid van het Vlaams-nationalisme. Kijk, die Vlaamse identiteit: elk volk heeft zijn identiteit. Waarom moet dat bewezen worden? Het moet eventueel via het onderwijs en de kleine verenigingen uitgelegd worden. De Vlaamse identiteit bestaat, maar het identiteitsbewustzijn bestaat niet. De strategie is verkeerd omdat men bezig is met dingen die evident zijn. Nationalisme is gelijk een broodmes, je kunt ermee doen wat je wil. Je kunt er brood mee snijden, en dat is goed, maar je kunt ook de nek oversnijden van de vijand. In 'Doorbraak' heeft Manu Ruys dat 'Byzantijns' academisme genoemd. Centraal voor de Vlaamse beweging zijn het gedachtegoed van Maurits Van Haegendoren, en Lode Claes. De eerste zei: red de democratie, en Vlaanderen zal gered zijn. En de tweede had het over de 'afwezige meerderheid'. De Vlaamse beweging moet zich toespitsen op diegenen die potentieel iets kunnen veranderen aan de situatie. En dat zijn namelijk de politici. Je kan maar een wet baren en doen uitvoeren via het parlement. Je gaat er toch niet van uit, zoals Tastenhoye, dat we gaan opstaan en plaats nemen in de loopgraven. Dat is toch te knettergek. Enkel de parlementairen kunnen Vlaanderen zelfstandigheid geven of, voor degenen die het wensen, onafhankelijkheid. Die moeten dus het vuur aan de schenen gelegd worden. Aan de electorale schenen dus. Ach, als je die Nieuwe Politieke Cultuur van Verhofstadt nu ziet. Er zijn nog nooit zoveel politieke benoemingen geweest. En de groenen doen daar hevig aan mee. De Vlaamse beweging heeft geen boodschap aan steriel academisme. De top van de Vlaamse beweging is even Jacobijns als Parijs. Kijk naar dat recente congres over identiteit...

- Van de Marnixring?

Hubert de Sy: Inderdaad. Manu Ruys heeft daar zeer kritisch op gereageerd. Er waren 40 sprekers, het was internationaal, en er waren 500 of 600 aanwezigen. Het bewijs dat het gelukt was is het feit dat de voorzitter achteraf uitgenodigd werd op een drietal internationale congressen. Hoeveel schuppen aarde zal dat aan de Vlaamse zaak bijbrengen? Niets. Niets, niets.

- Wat zou u dan wel willen zien?

Hubert de Sy: Twee dingen. Eerst de strategie. Er zijn honderden kleine Vlaamse verenigingen en honderden kleine blaadjes. Men moet die basis inschakelen. Er is geen middenveld die de idealen van de Vlaamse beweging vertaalt naar het gewone volk. En ten tweede moet aan de Vlamingen uitgelegd worden wat de economische en culturele nadelen zijn van de huidige politiek. Cultureel de verfransing van Vlaams-Brabant. Economisch het aantal euro's dat jaarlijks gespendeerd wordt aan de Franstaligen. Dit soort dingen moet gevulgariseerd worden. We moeten opnieuw samen bewegen. En nu beweegt iedereen in zijn eigen hoekje. Maar ik heb weinig vertrouwen in de Vlaamse intelligentsia. Hoeveel zouden er zich nog als Vlaming durven uiten? Zou het vijf procent zijn? Kijk naar een Guido Van Gheluwe (oprichter van de Orde van den Prince, nvdr). Dat is een hevige flamingant, bijna Blokker aan het worden vrees ik zelfs. Maar die durven niet naar buiten treden. Hij is dolgelukkig met mijn boek, omdat ik zeg wat hij niet durft zeggen.

- Er zijn ook mensen die juist omwille van het Vlaams Blok niet meer naar buiten treden.

Hubert de Sy: Het Vlaams-nadelige van het Vlaams Blok is dat men alles wat Vlaamsgezind is amalgameert met het Blok.

- In die zin is het Vlaams Blok dan een blok aan het been van de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Dat schrijf ik letterlijk. Het cordon sanitaire is natuurlijk totaal ondemocratisch, maar dat belet niet dat de situatie zodanig geëvolueerd is dat de reputatie van het Vlaams Blok door dat systematisch amalgameren door mannen als Ludo Dierickx, Mark Spruyt en onze filosoof daar, hoe heet hij ook weer...

- U bedoelt Dieter Lesage?

Hubert de Sy: Ja, iemand die zich altijd filosoof verklaart. Die zijn erin geslaagd de Vlaamse beweging te demoniseren. En dat is een drama.

- Nu even iets helemaal anders. Wat vindt u van de activiteiten van het TAK?

Hubert de Sy: TAK? (denkt even na). Zeer positief. Kijk, twintig of dertig jaar geleden hadden wij 'taaltuinen'. Met Mark Galle, op de radio. Als je vandaag naar Ninove gaat, dan daag ik u uit om te verstaan wat ze daar zeggen. Antoon Roosens, die ik in mijn boek citeer, heeft ooit gezegd dat een volk zich niet kan laten respecteren als het geen cultuurtaal heeft. En wat doet de Vlaamse beweging daarvoor? Niets. Niets, sorry, niets.

- Maar nu verwart u het TAK een beetje met de Vereniging Algemeen Nederlands of de vroegere ABN-kernen.

Hubert de Sy: Het TAK, ik vind dat perfect. Het TAK, u bedoelt daar dus mee de mensen die tegen het Frans en het Engels zijn.

- Laten we even verder gaan. De Vlaamse Volksbeweging? De vorige voorzitter, Ivan Mertens, voorspelde de Vlaamse onafhankelijkheid voor vorig jaar...

Hubert de Sy: De VVB is even belangrijk als ze ooit geweest is. Maar ze volgt een verkeerde strategie. Ze werkt defensief. Vlaanderen Staat in Europa, dat spreekt niet tot de bevolking. Hoeveel Vlamingen kennen het verschil tussen volk, staat, natie, enzovoort... Ze houdt zich bezig met identiteit en de eerbaarheid van de Vlamingen. Ze moet veel agressiever worden. Ze moet vooral de basis betrekken.

- Hoe staat u dan tegenover het Vlaams Blok? Die partij heeft een volkse basis, of niet?

Hubert de Sy: Interessant. Daar kun je niet in twee woorden op antwoorden. Het Vlaams Blok is opgericht door Hugo Schiltz. Dat heeft Mark Grammens gezegd. Daar ga ik 100% mee akkoord. Het verraad van Hugo Schiltz ligt aan de oorsprong van het VB. In het VB heb je de overschotten, de restanten of de naweeën van de collaboratie en vooral van de repressie die het grootste schandaal van de Belgische geschiedenis is. Die rechtse of zelfs uiterst-rechtse strekking zindert vandaag nog altijd na bij mensen van het VB. Denk ik toch.

- Anderzijds recruteren ze een flink deel van hun electoraat bij vroegere SP-kiezers. Hoe verklaart u dat dan?

Hubert de Sy: Da's toch makkelijk. Als er op de markt een ruimte komt, dan is er altijd wel iemand die erin springt. De SP is een kaviaar-SP geworden en wordt het elke dag nog iets meer. Het Vlaams Blok is daar natuurlijk ingesprongen. Het VB is naar de gewone mens gegaan met het Vlaamse idee en natuurlijk ook met het migrantenidee. Het VB heeft rekening gehouden met de gewone Vlaamse mensen die in buurten wonen die overstelpt worden met migranten, en gaat ervan uit dat dit ook mensen zijn. En dat die mensen soms gedurende twee generaties gewerkt hebben voor een eigen huis, en dat hun eigen huis vandaag niets meer waard is. En daar houdt pater Leman géén rekening mee. En dat vind ik onzindelijk. Dat vind ik schandalig. Die mensen worden veel meer gediscrimineerd - vind ik - dan sommige migranten. OK, migranten worden wel gediscrimineerd, maar positief gediscrimineerd, sorry. Maar positieve of negatieve discriminatie, discriminatie is altijd verkeerd en ondemocratisch.

- Via uw talloze lezersbrieven bent u een actief medewerker van 't Pallieterke.

Hubert de Sy: Kijk, 't Pallieterke is een troostappel voor veel flaminganten. Daar lezen ze wat ze graag horen. Daar kunnen ze hun zeg kwijt. Het is vooral de troostappel voor de ouderwetse flamingant. Ik vind het zeer belangrijk, maar nog eens, de belgicistische middens zijn er ook in geslaagd 't Pallieterke te demoniseren. Van het bij Hitler te zetten. Dat is spijtig, maar wat kun je eraan doen? De belgicistische middens hebben àlle media in handen.

- Wat vindt u van de huidige evolutie bij het Ijzerbedevaartcomité?

Hubert de Sy: Wel, Lionel Vandenberghe heeft het Comité ontluisterd en vandaag loopt hij over naar de SP.a. Alle overlopers zijn onzindelijke mensen, maar hij is nog veel onzindelijker want hij loopt over van het Vlaamse naar het Waalse kamp. SP.a is een aanhangsels, via handen, voeten en portefeuilles, zetels en prebendes gebonden aan de PS en die PS is dé echte pest voor Vlaanderen. Omdat ze de macht hebben. Hij is dus de schaamte en de schande voorbij.

- Bent u ooit op de Ijzerbedevaart geweest?

Hubert de Sy: Ja, één keer. Maar de bedevaart is kapotgemaakt door de politieke partijen. In het begin de Volksunie, later de CVP. Zij hebben het dus gepolitiseerd. En al wat gepolitiseerd is, is rot. Per definitie. Vrede en geen oorlog, dat is het essentiële. Men had nooit die nazi's uit Holland en vooral uit Duitsland naar Diksmuide moeten laten komen. Dat was een fout van het Comité, dat kunnen ze zelfs niet aan het Blok verwijten. Het Vlaams Blok heeft daar overigens ook stommiteiten gedaan. Verreycken gedroeg er zich als een feldwebel. Daar is het Vlaams Blok enorm fout geweest.

- Hoe staat u tegenover N-VA?

Hubert de Sy: Ik vind Bourgeois een enorm charmant man. Ik wil de N-VA vergelijken met de VU van vóór Schiltz. Ik vind het schandalig dat men bang is voor de 'V' van de CD&V maar vind de 5%-regeling al even schandalig. Ik hoop werkelijk dat ze het halen. Kijk, nu kun je als Vlaming die afzijdig wil blijven van het Vlaams Blok weer stemmen voor een Vlaamse partij.

- Voor een 'proper' Vlaams Blok dus, zoals Bérénice Vaeskens in dit nummer van Meervoud stelt?

Hubert de Sy: Dat men mij dan die term 'proper' eens uitlegt. Zijn de socialisten 'proper' met Agusta? Het grote euvel van het VB is dat die partij stemmen heeft afgepakt van de SP. En het feit dat ze tegen de koning zijn.

- Een laatste vraagje, wat vindt u nu eigenlijk van een fenomeen als Meervoud?

Hubert de Sy: Ik vind dat een oase in de Vlaamse pers. Wat ik vooral apprecieer is dat Meervoud links is. Maar dat er weinigen zo hevig kritiek durven uitbrengen op de kaviaarsocialisten van de SP. Dat vind ik eerlijke journalistiek.

Hubert de Sy. Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde beweging. Mechelen, 2002, 387 p. Verkrijgbaar via Roulartabooks, Meiboomlaan 33, 8800 Roeselare. E-post: Jan.Ingelbeen@roularta.be

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lundi, 22 mars 2010

R. Steuckers: itinéraire métapolitique et idiosyncratique

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Itinéraire métapolitique et idiosyncratique

Réponses de Robert Steuckers
au questionnaire d’un étudiant, dont le mémoire de fin d’études porte sur l’anti-américanisme dans les milieux néo-droitistes, nationaux-révolutionnaires  et extrême-droitistes en Belgique
[Fait à Forest/Flotzenberg, août 2004].

Photo: Beloeil, Parc du Chäteau du Prince de Ligne, 20 août 2007 /  Copyright: AnaR

ANN92.doc 165.jpg1. Comment vous définissez-vous au niveau idéologique?

Première remarque : la notion d’idéologie n’est pas adéquate en ce qui me concerne. L’idéologie fonctionne selon un mode constructiviste, elle procède de ce que Joseph de Maistre nommait l’“esprit de fabrication”, elle tente de plaquer des concepts flous, soi-disant universellement valables, relevant du « wishful thinking », sur un réalité effervescente, qui procède, elle, qu’on le veuille ou non, d’une histoire, d’une réalité vivante, d’un flux vivant, souvent violent, rude, âpre. D’emblée, nous avons voulu une immersion dans ce flux, certes cruel, où le moralisme des systèmes idéologiques dominants n’a pas sa place, et non pas le repli frileux dans les espaces idéologisés, strictement contrôlés, qui ronronnent des ritournelles et qui ânonnent des poncifs dans le triste espace politico-intellectuel belge (français, allemand, etc.). Cette option implique un ascétisme rigoureux : celui qui refuse sinécures et prébendes, celui qui s’astreint à lire et à archiver sans état d’âme, sans désir vénal de voir ses efforts rémunérés d’une façon ou d’une autre. Un ascétisme aussi qui n’est jamais qu’une transposition particulière, et peut-être plus rigoureuse, de l’option de Raymond Aron qui se déclarait « spectateur désengagé ». Aprés plus de trente ans de combat métapolitique assidu, je ne regrette pas mon option première, celle de l’adolescent, celle de l’étudiant. Je n’ai tué ni l’enfant, ni l’adolescent, ni l’étudiant qui est en moi. Je garde les mêmes sentiments, la même moquerie, le même mépris pour le monde politique et intellectuel de ce pays qui crève sous la sottise des politicards véreux, qui se prétendent « démocrates ». « L’enfant qui joue aux dés », disait Nietzsche, grand poète. Et je ris. Tout à la fois de bon coeur et méchamment. Mélange des deux. Comme les enfants.

Pour revenir au terme « idéologie », je vous rappelle que l’objet de mon mémoire à l’institut de traducteurs-interprètes portait justement sur l’ « idéologie », comme articulation de la domination des préjugés. Ce petit ouvrage d’Ernst Topitsch et de Kurt Salamun (« Ideologie als Herrschaft des Vorurteils »)  —dont j’ai fait une traduction raisonnée et commentée—  démontrait comment tout discours idéologique masquait le réel, travestissait les réalités historiques, camouflait derrière des discours ronflants ou moralisants des réalités bien plus prosaïques et vénales. Topitsch, Salamun et Hans Albert, leur maître à penser, s’inscrivaient dans une tradition philosophique mettant l’accent sur le pragmatisme et la raison. Par conséquent, j’ai toujours estimé qu’il ne fallait jamais raisonner et analyser les faits de monde au travers du prisme d’une doctrine idéologique, quelle qu’elle soit. Au contraire l’attitude politique et intellectuelle qu’il convient de recommander est celle de Tite-Live, de Tacite et des « tacitistes » espagnols, dont faisait partie notre compatriote Juste-Lipse : recenser les faits, comparer, retenir des points récurrents, écrire des « annales d’empire », afin de pouvoir trancher vite en cas d’urgence, de décider sur base de faits d’histoire et de géographie, qui sont toujours récurrents. En effet, l’homme politique ne peut raisonner qu’en termes de temps et d’espace, puisqu’il est jeté, comme tous ses semblables, dans ce monde troublé, en perpétuelle effervescence, hic et nunc. L’idéologue est celui qui croit trouver des recettes soustraites aux affres du temps et de l’espace. Impossible. Il est donc un escroc intellectuel. Et un piètre politique. Il inaugure des ères de ressac, de déclin, de décadence, de déchéance.

A cette option « tacitiste », j’ajouterai la marque de Johann Gottfried Herder, théoricien au 18ième siècle d’une vision « culturaliste » de l’histoire, opposée aux schématismes de l’idéologie des « Lumières ». La vision herdérienne de l’histoire a eu un impact politique considérable en Flandre, en Allemagne, dans tous les pays slaves et scandinaves, en Irlande. Elle estime que le patrimoine culturel d’un peuple est un éventail de valeurs impassables, que l’homme politique ne peut négliger, ni mettre « à disposition », comme le dit Tilman Meyer, pour satisfaire une lubie passagère, une mode, un schéma idéologique boiteux, qui n’aura aucun lendemain ou, pire, inaugurera une ère de sang et d’horreur, comme à partir de Robespierre.

Ma position, face à la question qui interpelle tout publiciste quant à ses options idéologiques, est donc la suivante : je ne m’inscris nullement dans le cadre étroit, artificiel et fabriqué d’une « idéologie », mais dans le cadre d’une histoire européenne, qu’il faut connaître et qu’il faut aimer.

2. Quels sont les penseurs les plus importants pour vous?


J’estime que tous les penseurs politiques sont importants et que l’homme engagé, sur le plan métapolitique comme sur le plan politique, doit avoir une solide culture générale. On mesure pleinement le désastre aujourd’hui, quand on voit des huitièmes de savant se pavaner grossièrement sur la scène de la politique belge et européenne. Des huitièmes de savant passés maîtres évidemment dans l’art de hurler des slogans idéologisés, qui valent ce qu’ils valent, c’est-à-dire rien du tout. S’il est un penseur important à approfondir ou à redécouvrir aujourd’hui, c’est sans nul doute Carl Schmitt. Que des dizaines de politologues, dans le monde entier, et surtout près de chez nous aux Pays-Bas, sont en train de faire revivre. Mais Carl Schmitt a commencé à écrire à seize ans, a produit son dernier article à l’âge de 91 ans. Sa culture classique et sa connaissance des avant-gardes du 20ième siècle étaient immenses. Au-delà de son oeuvre qui insiste, comme vous le savez, sur l’esprit de décision, sur les constitutions, sur la notion de « grand espace », etc., nous découvrons au fil des pages, et surtout de son journal, Glossarium, —paru seulement après sa mort, à sa demande—, une connaissance très vaste de la culture européenne, non seulement politique, mais aussi littéraire et artistique. Ce constat, après lecture du Glossarium de Schmitt ou des Journaux de Jünger, m’induit à refuser cette facilité, très courante chez bon nombre de publicistes, qui consiste à sélectionner quelques figures, à les isoler du vaste contexte dans lequel elles ont émergé, à les simplifier, à en faire de vulgaires sources de slogans à bon marché, à les couper de leurs sources, souvent innombrables. Ce vain exercice de sélection et de simplification conduit trop souvent à des discours creux, tout comme l’exaltation des schémas idéologiques.

Je plaide par conséquent pour une connaissance réelle de toute la trajectoire de la pensée européenne, pour une connaissance des trajectoires arabo-musulmanes ou asiatiques, comme l’ont fait des auteurs comme Henry Corbin pour le monde iranien ou la mystique islamique, Thierry Zarcone pour cet étonnant mélange de soufisme et de chamanisme qui structure le monde turc, comme Giuseppe Tucci pour les mondes chamaniques et bouddhistes d’Asie centrale, etc. Aucune personnalité du monde intellectuel, aussi pertinente soit-elle, aucune époque, aussi riche soit-elle, ne sauraient être isolées des autres. L’Europe et le reste du monde ont besoin de retrouver le sens de la chronologie, le sens du passé: c’est la réponse nécessaire aux épouvantables  ravages qu’a fait le progressisme en jugeant, de cette manière si impavide qui est la sienne, tout le passé comme un ensemble hétéroclite de méprisables reliquats, juste bons à être oubliés. La leçon du Prix Nobel de littérature V. S. Naipaul est à ce titre fort intéressante : on ne peut gommer le passé d’un peuple; toute conversion, aussi complète puisse-t-elle paraître, ne saurait oblitérer définitivement ce qu’il y avait « avant ». Naipaul nous enseigne à respecter le passé, à nous méfier des « convertis » aux discours tapageurs, tissés de haine. Pour moi, cette haine est certes le propre des talibans, que l’on a vu à l’oeuvre à Bamiyan en Afghanistan, est le propre des tueurs musulmans d’Indonésie, bien évidemment, mais aussi, chez nous, le propre du mental des tristes avataras de l’idéologie des Lumières: les ruines de l’abbaye de Villers-la-Ville et le trou béant de la Place Saint Lambert à Liège l’attestent, pour ne pas mentionner les autres sites en ruines depuis la révolution française, dont l’historien René Sédillot a dressé le bilan affligeant. La rage d’éradiquer, la frénésie de détruire sont bel et bien le propre de certaines conversions, de certaines idéologies, notamment de celles qui tiennent, ici chez nous, aujourd’hui, le haut du pavé.

Il nous faut donc retrouver le sens des humanités, comme on disait à la Renaissance, c’est-à-dire renouer avec nos antiquités et dire, avec Goethe, que « rien d’humain ne doit nous demeurer étranger ». Les faux « humanistes » professionnels, qui écervèlent les jeunes générations depuis mai 1968, et tiennent le pouvoir aujourd’hui, trahissent cet humanisme en usurpant justement le terme « humanisme », pour en faire, avec la complicité des médias, le synonyme de leurs forfaitures. Nos faux « humanistes », parlementaires ou « chiens de garde » du système dans les médias, vont à contre-sens de ceux qui ont donné à V. S. Naipaul un Prix Nobel que cet écrivain indo-britannique a très largement mérité. Quand, comme ces politiciens et ces médiacrates incultes, on pense que le discours, que l’on développe, est une panacée universelle indépassable, qu’elle incarne le « multiculturalisme », l’imposture éclate au grand jour: pour ces gens « tout ce qui est humain, c’est-à-dire tous les héritages situés » leur est étranger; leur « multiculturalisme » n’est ni multiple, puisqu’il vise l’homologation universelle, ni culturel, car toute culture est située, animée d’une logique propre, que le respect des choses humaines nous induit à préserver, à maintenir et à cultiver, comme nous l’enseigne Naipaul.

Donc il faut tout lire, tout découvrir et re-découvrir. Chacun selon ses choix (Goethe: « Ein jeder sieht, was er im Herzen trägt »), chacun selon ses rythmes.

3. Ce qui est frappant dans votre anti-américanisme de « droite », c’est qu’il est le pendant négatif de votre européanisme radical et qu’il est aussi multiforme : puisqu’il critique les aspects sociaux, culturels, économiques, géopolitiques et législatifs (questions de droit international) des Etats-Unis?

D’abord, je perçois dans votre question une anomalie fondamentale due sans doute aux mauvaises habitudes lexicales et sémantiques nées de la Guerre Froide. L’anti-américanisme n’est pas le propre des gauches. Historiquement parlant, c’est faux. L’anti-américanisme est une très vieille idée « conservatrice ». Petit rappel: l’inquiétude face à la proclamation de la doctrine de Monroe dans l’Europe de la Restauration était réelle. Ainsi, Johann Georg Hülsemann, le ministre autrichien des affaires étrangères en 1823, au moment où le Président américain Monroe proclame sa célèbre doctrine, avertit l’Europe du danger que représentent les principes dissolvants de l’américanisme. Tocqueville voit émerger une « démocratie », atténuée, jugulée ou contrôlée par des lobbies, forte de sa pure brutalité et de ses discours simplistes, dépourvus de toutes nuances et subtilités. L’aventure mexicaine de Maximilien a l’appui d’une Europe conservatrice qui veut remplacer outre Atlantique une Espagne qui n’est plus capable, seule, d’assurer là-bas sa mission. En 1898, les forces conservatrices européennes sont du côté de l’Espagne agressée et scandaleusement calomniée par les médias imprimés (déjà les mêmes tactiques de diabolisation outrancière!). Quand Sandino et ses partisans se dressent au Nicaragua contre l’emprise économique américaine, les forces conservatrices catholiques sont à ses côtés. La littérature française d’inspiration conservatrice fourmille de thématiques anti-américaines et dénonce le quantitativisme, la frénésie et l’économisme de l’American Way of Life.

Hülsemann décrit l’opposition de principe entre l’Amérique et l’Autriche-Hongrie comme un choc imminent, opposant des « antipodes ». Il avait vu clair. En effet, les politiques menées au nom d’une continuité millénaire, comme celle qu’incarnait l’Empire austro-hongrois, héritier de l’impérialité romaine-germanique, et celles menées au nom de la nouveauté intégrale, qui entend rompre avec tous les passés, comme l’incarnent les Etats-Unis, sont irréconciliables dans leurs principes, surtout si l’on veut transposer la nouveauté américaine dans le contexte européen et danubien. Dans cette lutte duale, et métaphysique, je suis évidemment du côté des continuités, quelles qu’elles soient et où qu’elles s’incarnent sur la planète.

Pour ce qui concerne la Russie, elle a été, dès la fin de l’ère napoléonienne, le bouclier de la Tradition dans le concert des puissances européennes, avec le dessein de ne plus laisser se déchaîner l’hydre révolutionnaire, qui, à cause de ses obsessions idéologiques et de sa volonté de transformer le réel de fond en comble, met fin aux guerres de « forme », idéologise les conflits et entraîne la disparition de la distinction entre civils et militaires, comme le montre les horreurs commises en Vendée. Dostoïevski, pourtant révolutionnaire décembriste au début de sa carrière, s’est, avec la maturité, parfaitement rendu compte de la mission « katéchonique » de son pays. Son Journal d’un écrivain explicite les grandes lignes de sa vision politique et géopolitique. Le traducteur allemand de ce Journal d’un écrivain n’est autre que la figure de proue de la « révolution conservatrice », Arthur Moeller van den Bruck. Ce dernier, sur base d’une connaissance très profonde de l’oeuvre de Dostoïevski, énonce la théorie russophile de la « révolution conservatrice » : la Russie est éternelle dans son refus des mécanismes révolutionnaires et du rationalisme étriqué qui en découle. Même si, en surface, elle devient « révolutionnaire », elle ne le sera jamais dans ses tréfonds. Donc l’Allemagne conservatrice doit s’allier à la nouvelle Russie soviétique pour se dégager de la cangue politique et économique que lui impose l’Occident libéral. Pour Moeller van den Bruck, le soviétisme n’est qu’un « habit », qui revêt, momentanément, une Russie « illibérale » qui ne peut se trahir. Cette idée revient à l’avant-plan dans le sillage de mai 68: en Occident, les derniers restes de bienséance traditionnelle, les institutions qui reflètent le fond ontologique de l’homme, sont battus en brèche par la nouvelle idéologie, alors qu’au même moment, en Union Soviétique, on assiste à un retour à de nouvelles formes de slavophilie traditionnelle.

Dans l’espace néo-droitiste allemand, cette renaissance slavophile faisait germer l’espoir d’une nouvelle alliance russe, pour secouer le joug américain, faire quitter le territoire allemand par les Britanniques et voir les Français retraverser le Rhin.

Dans l’espace néo-droitiste français, surtout sous l’impulsion indirecte du créateur de bandes dessinées Dimitri, l’image d’une humanité russe fruste mais honnête, intacte en son fond ontologique, agitait aussi les esprits. Pour certains, qui allaient évoluer vers un néo-national-bolchevisme, et redécouvrir, à la suite de la thèse de doctorat du Prof. Louis Dupeux, l’oeuvre d’Ernst Niekisch  —le national-bolchevique du temps de la révolution spartakiste et de la République de Weimar—,  la société soviétique était un modèle de décense face à un Occident perverti par l’idéologie soixante-huitarde, la permissivité générale et la déliquescence des moeurs.

Pour d’autres, mieux ancrés dans les rouages étatiques en Occident, l’affaire des missiles, le retour à l’idéologie d’un occidentalisme missionnaire des droits de l’homme, d’une idéologie de l’Apocalypse (l’Armaggedon, disait-on), l’évolution de la praxis politique internationale des Etats-Unis était inadmissible. Elle signifiait une immixtion totale. Elle assimilait l’ennemi au Mal absolu, ravivait en quelque sorte les guerres de religion, toujours horribles dans leur déroulement. Elle n’admettait plus la neutralité librement choisie d’Etats, pourtant en théorie libres et souverains, et assimilait la modération à de la tiédeur, de la lâcheté ou de la trahison. On a revu le même scénario pendant la guerre d’Irak: la diplomatie appartenait au passé, annonçaient les nouveaux bellicistes anti-européens à la Kagan; le monde devait suivre l’ « Empire » et punir tous les récalcitrants, posés d’office comme « immoraux ». Finalement, Staline et sa diplomatie des rapports bilatéraux entre Etats apparaissait comme un modéré, qui avait arrondi les angles d’une praxis internationale révolutionnaire et bolchevique, également apocalyptique, binaire et manichéenne.

Cette pratique des rapports bilatéraux permettait aux petites puissances des deux blocs en Europe d’amorcer, du moins en théorie et au nom de la liberté des peuples et des Etats de disposer d’eux-mêmes, des relations bilatérales sans l’intervention des deux superpuissances. Ce créneau théorique, notre ministre des affaires étrangères de l’époque, Pierre Harmel, a tenté de l’occuper. Il a voulu dégager les pays européens, au nom d’une idée d’ « Europe Totale », de l’étreinte mortelle du duopole américano-soviétique. Cette oeuvre de paix lui a valu d’être traité de « crypto-communiste ». Les atlantistes, comme le remarque Rik Coolsaet, qui entend s’inscrire dans la tradition harmélienne de notre diplomatie, ont torpillé cette initiative belge et ramené notre pays dans l’ordre atlantique. Cette immixtion intolérable dans notre liberté d’action postule, bien évidemment, pour tous les patriotes, de considérer l’atlantisme comme l’ennemi numéro un et les atlantistes comme des traitres, non seulement à la patrie belge, mais aussi aux patries flamande et wallonne et à la Grande Patrie européenne. La caballe contre Harmel, menée avec des complicités intérieures, surtout socialistes, constitue une intolérable ingérence dans les affaires européennes.

L’affaire Harmel a rebondi vers 1984, quand éclate à l’OTAN le scandale Kiessling. Le général allemand Kiessling voulait raviver la « Doctrine Harmel », qu’il défendait avec brio dans les colonnes de la presse ouest-allemande. Il souhaitait un partage des tâches plus équitable au sein de l’OTAN et l’accès d’officiers européens aux commandements réels. Les services américains ont considéré que cette exigence de justice et d’équité constituait une révolte inacceptable de la part d’un minable « foederatus » du nouvel empire thalassocratique. De toutes pièces, on a monté une caballe contre le Général Kiessling, en poste au SHAPE à Mons, arguant qu’il avait des rapports homosexuels avec son chauffeur. Au même moment, avec beaucoup de courage, Rik Coolsaet, haut fonctionnaire au ministère des affaires étrangères, ose, à son tour, réhabiliter la Doctrine Harmel, dans un livre qui comptera plusieurs rééditions. La tradition européiste reste donc malgré tout bien présente dans notre pays. Dans le cadre de votre travail, ou dans tout développement ultérieur de celui-ci, il serait bon que vous procédiez à une étude parallèle de l’européisme officiel de Harmel et de l’européisme « marginal » de Thiriart.

Le cadre de l’anti-américanisme de mes publications s’inscrit donc dans cette critique conservatrice de l’américanisme, bien étayée depuis les écrits de Hülsemann. Pour Hülsemann, qui écrit juste après la proclamation de la Doctrine de Monroe, l’américanisme peut tranquillement se développer derrière la barrière océanique que constitue l’Atlantique. Mon objectif n’est donc pas de critiquer tel ou tel aspect de la vie politique, sociale ou économique des Etats-Unis, car ils sont libres de développer les formes sociales qu’ils souhaitent voir advenir dans leur réalité quotidienne. Pour répondre à la deuxième partie de votre question, je dirais que si nous avons quelques fois critiqué certains aspects de la société américaine, c’est dans la mesure où ces aspects peuvent s’exporter en d’autres espaces de la planète, comme le craignait Hülsemann. Dans L’ennemi américain, j’ai surtout choisi de développer et de solliciter les arguments de Michel Albert dans son célèbre ouvrage Capitalisme contre capitalisme. Michel Albert, dont l’inspiration est essentiellement « saint-simonienne », défend le capitalisme ancré dans un espace donné, patrimonial et investisseur, soucieux de la survie des secteurs non marchands et démontre la nocivité des doctrines importées depuis le monde anglo-saxon, qui privilégient la spéculation boursière et ne se soucient nullement des dimensions non marchandes, nécessaires à la survie de toute société. Par conséquent, toute critique de tel ou tel aspect de la société américaine doit porter uniquement sur leurs aspects exportables et dissolvants. S’ils sont dissolvants, ils ne faut pas qu’ils soient importés chez nous. S’ils ne le sont pas et permettent au contraire de fortifier notre société, il faut les adopter et les adapter. Au cas par cas.

La géopolitique américaine a entièrement pour vocation de contrôler les rives européenne et africaine de l’Atlantique et les rives asiatiques du Pacifique, afin qu’aucune concentration de puissance économique ou impériale ne puisse s’y consolider. En réponse à ce défi, nous devons, malgré les innombrables difficultés, oeuvrer pour qu’un jour l’émergence de blocs soudés par l’histoire, en Europe et en Asie, redevienne possible. Autre nécessité, pour y parvenir: manifester une solidarité pour les continentalistes latino-américains, qui entendent se dégager de l’emprise nord-américaine. Le panaméricanisme n’est jamais que le camouflage du colonialisme de Washington, dans une vaste région du monde aux réflexes catholiques et traditionnels, qui respectent le passé européen. Dans le cadre de l’église catholique, il y a eu assez de voix pour plaider pour l’indépendance ibéro-américaine, des voix qui ont pris tantôt une coloration idéologique de droite, tantôt une coloration idéologique de gauche, notamment au temps de la « théologie de la libération ». Ces colorations n’ont pas d’importance de fond: ce qui importe, c’est l’indépendance continentale ibéro-américaine. Car si cette indépendance advient, ou si les Etats-Unis éprouvent de manière constante des difficultés à maintenir leur leadership, la cohésion du « nouveau monde » face à l’Europe et à l’Asie recule, à notre bénéfice commun.  

Quand vous évoquez les aspects « législatifs » de notre critique de l’américanisme, vous voulez sûrement mentionner notre critique des principes non traditionnels de droit international que les Etats-Unis ont imposés à la planète depuis Wilson. Depuis le Président Wilson, sous l’impulsion des Etats-Unis, le droit international devient un mixte biscornu de théologie à bon marché, de principes moraux artificieux et d’éléments réellement juridiques qui ne servent que de decorum. Théologie, principes moraux et éléments de droit que l’on va modifier sans cesse au gré des circonstances et des intérêts momentanés de Washington. Les bricolages juridico-idéologiques des Kellogg et Stimson, manipulés contre les intérêts vitaux du Japon dans les années 20 et 30, les manigances de l’Administration Clinton dans l’affaire yougoslave en 1998-1999, les appels à détruire définitivement les principes de la diplomatie traditionnelle avant l’invasion de l’Irak au printemps 2003, attestent d’une volonté d’ensauvager définitivement les moeurs politiques internationales. Position évidemment inacceptable. L’oeuvre de Carl Schmitt nous apprend à critiquer cette pratique barbare de Washington, véritable négation des principes policés de la civilisation européenne, établis au cours du 18ième siècle, après les horreurs des guerres de religion. Dans l’idéologie américaine, les théologies violentes et intolérantes du puritanisme religieux s’allient aux folies hystériques de l’idéologie révolutionnaire française. Cette combinaison calamiteuse a contribué à ruiner la culture européenne et son avatar moderne, la civilisation occidentale. Sur base de leur excellente connaissance de l’oeuvre de Carl Schmitt, Günter Maschke, en Allemagne, et Nikolaï von Kreitor, en Russie, travaillent actuellement à élaborer une critique systématique de la pratique bellogène qui découle de ce « mixtum compositum » théologico-juridique.

4. Il y a chez vous, et c’est lié à vos études je suppose, un grand intérêt pour le monde germanique, à la fois au niveau historique et géopolitique, mais aussi au niveau de l’histoire des idées politiques et notamment au travers de la révolution conservatrice. Qu’en est-il?

Certes, mais, quantitativement, le « monde germanique », comme vous dites, est celui qui, au cours de l’histoire européenne, a produit le plus de textes politiques, philosophiques et idéologiques, tout simplement parce que la langue allemande est la langue européenne la plus parlée entre l’Atlantique et la frontière russe. Peut-on comprendre réellement les grands courants idéologiques contemporains en Europe et dans le monde, tels le marxisme, le freudisme, l’existentialisme, etc., sans se référer aux textes originaux allemands et sans connaître le contexte, forcément germanique, dans lequel ils ont d’abord émergé. J’ai toujours été frappé de constater combien étaient lacunaires les productions soi-disant marxistes ou freudiennes d’individus ne maîtrisant pas l’allemand. La même remarque vaut pour les conservateurs ou néo-droitistes ou nationaux-révolutionnaires qui se piquent de connaître les protagonistes allemands de « leur » idéologie, tout en ne sachant pas un traître mot de la langue tudesque. Le premier résultat de cette ignorance, c’est qu’ils transforment cet univers mental en une panoplie hétéroclite de slogans décousus, d’imageries naïves, de transpositions plus ou moins malsaines, panoplie évidemment détachée de son contexte historique, essentiellement celui qui s’étend de 1815 à 1914. La « révolution conservatrice », que vous évoquez dans votre question, est certes importante, dans le sens où elle exprime cette sorte de « néo-nationalisme » des années 20, sous la République de Weimar, soit un ensemble de courants idéologiques non universalistes, opposés au marxisme de la social-démocratie ou au libéralisme économique, ensemble assez diversifié qu’ont défini des auteurs comme Armin Mohler ou Louis Dupeux (Zeev Sternhell préférant parler, pour la France, de « droite révolutionnaire »). Cependant, si Mohler, par exemple, a dû opérer une coupure temporelle et limiter sa recherche aux années qui vont de la défaite allemande de 1918 à l’avènement de Hitler au pouvoir en janvier 1933, cet ensemble de courants  idéologiques n’est évidemment pas hermétiquement fermé aux époques qui l’ont précédé et à celles qui l’ont suivi. Cette « révolution conservatrice » de 1918-1932 a des racines qui plongent profondément dans le 19ième siécle : notamment via la lente réception de Nietzsche dans les milieux parapolitiques, via les mouvements sociaux non politiques de « réforme de la vie », dont les plus connus restent le mouvement de jeunesse « Wandervogel » et le mouvement de l’architecture nouvelle, Art Nouveau ou Jugendstil, notamment l’école de Darmstadt et, chez nous, celles de Horta et de Henry Vandevelde (tous deux également très actifs en Allemagne). Ces mouvements sociaux étaient plutôt socialistes, voyaient l’avènement du socialisme d’un oeil bienveillant, mais, simultanément, offraient à ce socialisme naissant, une culture que l’on pourrait parfaitement qualifier d’ « archétypale », offraient des référents germanisants, celtisants ou néo-médiévaux, mettaient l’accent sur l’organique plutôt que sur le mécanique. La social-démocratie autrichienne de la fin du 19ième siècle présente ainsi des références qui sont davantage schopenhaueriennes, wagnériennes et nietzschéennes que marxistes. Sous le national-socialisme, certaines trajectoires intellectuelles se poursuivent sans être censurées. Et ces mêmes trajectoires se prolongent dans les années fondatrices de la République Fédérale, jusque très loin dans les années 60 et sous des étiquettes non nationalistes et non politiques.

Par ailleurs, la « révolution  conservatrice » n’est pas un monde exclusivement allemand. Les passerelles sont très nombreuses : l’influence de Maeterlinck, par exemple, est prépondérante dans la genèse d’une nouvelle pensée organique en Allemagne avant 1914. J’ai déjà évoqué brièvement l’influence de l’école belge de Horta en Allemagne, et vice-versa, l’influence des écoles de Vienne et de Darmstadt, voire de Munich, sur l’Art Nouveau en Belgique, à Nancy et à Paris. La philosophie de Henri Bergson joue également un rôle capital dans la genèse de la révolution conservatrice. Un homme comme Henri De Man se situe lui aussi dans cette zone-charnière entre le socialisme vitaliste et populaire de la sociale-démocratie d’avant 1914 et les théories économiques non libérales du « Tat-Kreis » révolutionnaire-conservateur. Les influences des Pré-Raphaëlites anglais, de l’architecture théorisée par Ruskin, du mouvement « Arts & Crafts » en Grande-Bretagne ont influencé considérablement les théoriciens allemands du Jugendstil, d’une part, et l’architecture organique d’un Paul Schulze-Naumburg avant, pendant et après le national-socialisme, d’autre part. L’expressionnisme, mouvement complexe, diversifié, influence l’époque toute entière, une influence qui retombe forcément aussi sur l’espace intellectuel « révolutionnaire conservateur ».  On ne saurait négliger l’influence des grands courants ou des grandes personnalités scandinaves telles Kierkegaard, Hamsun, Strindberg, Ibsen, Munch, Sibelius, Nielsen, etc. L’Espagne est présente aussi, par l’intermédiaire d’Ortega y Gasset, très apprécié en Allemagne, surtout chez les protagonistes catholiques de la « révolution conservatrice », dont Reinhold Schneider, qui a atteint le sommet de sa célébrité dans les années 50. Entre l’oeuvre de l’Anglais D. H. Lawrence et cet ensemble « révolutionnaire conservateur », d’une part, et le monde artistique contestataire et organique de l’époque, d’autre part, est-il possible d’établir une césure hermétique? Non, évidemment. La Russie, avec ses penseurs slavophiles, avec Leontiev et Dostoïevski, ensuite via l’émigration blanche à Berlin, pèse, à son tour, d’un poids prépondérant sur l’évolution des penseurs « révolutionnaires conservateurs ». La France, outre Bergson, influence les jeunes néo-nationalistes, dont Ernst Jünger, qui sont de grands lecteurs de Léon Bloy, de Maurice Barrès, de Charles Péguy, de Charles Maurras (en dépit de l’anti-germanisme outrancier de celui-ci).

La « révolution conservatrice » n’est donc pas vraiment une spécialité germanique, mais l’expression allemande, localisée dans le temps de la République de Weimar, d’un vaste mouvement européen. Il convient donc d’étudier les passerelles, de mettre en exergue les influences réciproques des uns sur les autres, de ne pas isoler cette « révolution conservatrice » de ses multiples contextes, y compris celui de la social démocratie d’avant 1914.

Connaissant la langue allemande, j’ai pris cet ensemble « révolutionnaire conservateur » comme tremplin, pour entamer une quête dans toute la culture européenne des 19ième et 20ième siècles. J’ai également utilisé les travaux de Zeev Sternhell (La droite révolutionnaire et Ni gauche ni droite) ainsi que les classifications du Professeur français René-Marill Albérès, spécialiste de l’histoire littéraire européenne. Albérès est justement l’homme qui m’a aidé à bien percevoir les innombrables passerelles entre courants littéraires provenant de toutes les nations européennes. Partant, la maîtrise des classifications d’Albérès, ajoutées à celle de Mohler, de Sternhell et de Dupeux (et du national-révolutionnaire historique Paetel), me permettait d’opérer une transposition vers la sphère des idéologies politiques.

Pour terminer ma réponse, je dirais que cet ensemble de courants idéologiques ne relève nullement du passé: le retour « postmoderne » à une architecture moins fonctionnelle, la nécessité ressentie de voir triompher un urbanisme de qualité à l’échelle humaine (comme le voulaient Horta et l’école de Darmstadt), la sensibilité écologique qui doit davantage à Bergson, Klages, Friedrich-Georg Jünger, D. H. Lawrence, Jean Giono et tant d’autres qu’aux soixante-huitards et marxistes recyclés dans la défense d’une nature à laquelle ils ne comprennent généralement rien, le mouvement altermondialiste qui cherche à jeter les bases d’une économie nouvelle, la guerre en Irak qui a fait prendre conscience de l’inanité de l’interventionnisme systématique des Etats-Unis (à l’instar de Carl Schmitt), l’engouement généralisé pour les grands courants religieux et mystiques, le goût du public pour l’aventure et les épopées, notamment sur les écrans de cinéma, montrent tous que les filons philosophiques, qui ont donné naissance à la « révolution conservatrice », qui l’ont irriguée et ont suscité de nouvelles veines, qui sont ses héritières, demeurent vivants.  

5. Dans vos revues, il y a beaucoup de traductions d’articles provenant du monde germanophone, mais aussi latin (hispanique et italien) et, plus original encore, de l’Europe slave, en particulier de la Russie. D’une certaine façon, ne peut-on pas considérer votre revue comme une sorte de « Courrier International » de la pensée européiste?

En effet, le poids prépondérant de thématiques germanisantes au début de l’histoire de Vouloir, faisait dire, à quelques néo-droitistes parisiens jaloux, qui n’ont pas digéré entièrement l’anti-germanisme maurrassien en dépit de leurs dénégations et de leur germanomanie de pacotille, que mes publications étaient des « revues allemandes en langue française ». J’ai donc suivi des cours accélérés en langues espagnole, italienne et portugaise, de façon à acquérir une connaissance passive de ces langues et de traduire, avec l’aide d’amis et de mon ex-épouse, les articles de nos innombrables amis hispaniques et italiens. D’autres, que je remercie, m’ont aidé à traduire des articles du polonais et du russe. L’objectif a donc toujours été de dire « non » aux enfermements; « non » à un enfermement dans le carcan très étroit du belgicanisme institutionnel (ce qui n’est évidemment pas le cas de notre culture, qui a un message serein à offrir à tous), « non » à un enfermement dans le carcan de la francophonie officielle, « non » au carcan de l’eurocratisme, « non » au carcan de l’atlantisme. Par ailleurs, « non » aux carcans idéologiques et politiques, « non » aux deux carcans du « démocratisme chrétien » et du « laïcisme libre(!!!!!)-penseur » à la belge. La masse de textes, de thématiques diverses et variées, qu’offraient les éditeurs et les revues allemandes permettait de rebondir dans tous les domaines et dans tous les espaces culturels européens et d’éviter toute forme d’enclavement idéologique.

Au fond, je vais confesser ici pour la première fois que cette idée est très ancienne chez moi: elle vient de la victoire électorale du FDF aux élections communales de 1970. Flamand de Bruxelles, littéralement assis sur deux cultures, cette victoire électorale a fait pâlir mon père, l’angoisse se lisait sur le visage de cet homme de 57 ans, qui craignait la minorisation des Flamands de Bruxelles, un homme simple qui n’avait pas envie de subir l’arrogance d’une bourgeoisie et d’une petite bourgeoisie qui se piquait d’une culture française (qu’elle ne connaissait évidemment pas en ses réels tréfonds), un pauvre petit homme qui devinait aussi, instinctivement, que ce francophonisme de brics et de brocs, plus braillard que créateur de valeurs culturelles véritables, barrait la route de beaucoup aux cultures néerlandaise, allemande et anglaise, auxquelles les Flamands ont un accès plus aisé. Ensuite, ce qui le rendait malade, c’était les rodomontades des « traitres » : les Flamands de souche, installés à Bruxelles, qui croyaient s’émanciper, échapper à la culture, souvent rurale, qu’avaient abandonnée leurs parents en venant travailler dans la grande ville. Tout cela était confus dans la tête de mon père, qui aimait les Wallons, quand ils étaient authentiques. Il avait travaillé à Liège, comme beaucoup de Limbourgeois. Il aimait les Ardennais et surtout les Hesbignons, dont les Limbourgeois du Sud sont si proches et auxquels ils sont si souvent liés par des liens matrimoniaux. Et les Wallons du quartier, où nous vivions, n’avaient cure du bête « francophonisme » des nouveaux francophonissimes originaires de Flandre ou de Campine, qui n’avaient rien de wallon, qui agaçaient les vrais Wallons. Et les Ardennais de Bruxelles, comme mon père du Limbourg, ne reniaient pas leur culture catholique et rurale, qu’ils ne retrouvaient évidemment pas dans les rodomontades émancipatrices des zélotes du nouveau parti de Lagasse et de « Spaakerette ». Dans ma tête d’adolescent, tous ces affects paternels s’entrechoquaient, provoquaient des réflexions, sans doute fort confuses, mais qui allait être à la base de toutes mes entreprises ultérieures et surtout de ma décision d’étudier les langues germaniques. Car que proposaient les braillards du FDF, dont l’insupportable Olivier Maingain perpétue la triste tradition? Rien d’autre qu’un réductionnisme intellectuel, inacceptable en notre pays, carrefour entre quatre grandes langues européennes. Le multilinguisme est une nécessité et un devoir: à quatorze ans, j’en étais bien conscient. Mon père aussi. J’allais donc devoir, adulte, me battre contre l’ineptie qui venait de triompher, par la grâce des dernières élections. Il fallait commencer la bataille tout de suite. A cette heure, je n’ai pas encore déposé les armes.

Mais, il fallait que je me batte en français car le vin avait été tiré, j’étudiais dans cette langue, depuis ma première primaire, sans renier mes racines; il me fallait donc utiliser la langue de Voltaire pour commencer le travail de reconquista qu’il s’agissait d’entreprendre, non pas tant contre le FDF, manifestation éphémère, politicienne et périphérique d’un « francophonisme » bizarre, mixte monstrueux d’ « illuminisme » révolutionnaire et de « postmaurrasisme panlatiniste » (qui ne voulait pas s’avouer tel), mais contre tous les simplismes et réductionnismes que le (petit) esprit, se profilant derrière sa victoire, amenait dans son sillage. Toute cette bimbeloterie francophonisante finissait par m’apparaître comme des « plaquages » artificiels, des agitations superficielles sans fondements. La culture rurale matricielle me paraissait seule authentique (quelques mois plus tard, Mobutu évoquait l’authenticité zaïroise, banalisait le terme d’ « authenticité » et je ne pouvais m’empêcher de lui donner raison...). Cette notion d’authenticité était valable pour la Flandre et le Brabant thiois, pour la Wallonie et les Ardennes. Elle était valable aussi pour la seule région d’Europe que je connaissais à l’époque: le haut plateau franc-comtois dans le département du Doubs, les Franches Montagnes, fidèles à la tradition burgonde, fidèles à l’Espagne et à l’Autriche contre le Roi-Soleil, comme l’écrivait, dans un opuscule anti-jacobin, un certain Abbé Mariotte, auteur d’une petite histoire de la Franche-Comté, que je lisais avidement, avec amour, chaque été, quand nous étions là-bas, à l’ombre du clocher de Maîche. Une authenticité que m’avait fait découvrir un cadeau du concierge permanent du formidable manoir qui nous hébergeait à Maîche: Le loup blanc de Paul Féval, roman chouan et bretonnant, qui accentuait encore plus cette volonté d’aller aux racines les plus profondes, ici les racines celtiques d’Armorique, comme là le « saxonnisme » de Walter Scott, avec Ivanhoe et Robin des Bois. L’homme était donc tributaire de (et non déterminé par) l’appartenance au terroir de ses ancêtres et le nier ou l’oublier équivalait à basculer dans une sorte de folie, de démence maniaque, qui s’acharnait à éradiquer passé, souvenirs, liens, traces... jusqu’à rendre l’homme totalement anémié, vidé de tout ce qui fait son épaisseur, son charme, sa personnalité. Un tel homme est incapable de créer de nouvelles formes culturelles, de puiser dans son fonds archétypal: les portes sont ouvertes alors pour faire advenir une « barbarie technomorphe ».

1970, l’année de mes quatorze ans et l’année du triomphe du FDF, a déterminé mon itinéraire de façon radicale: au-delà des agitations politiciennes, jacobines, modernistes, toujours aller à l’authentique, avoir une démarche « archéologique » et « généalogique », sortir du « francophonisme » d’enfermement, s’ouvrir au monde et d’abord au monde proche, tout proche, qui commence à Aix-la-Chapelle, qui nous ouvre à l’Est, comme la langue française, non reniée et cultivée, ouvre au Midi. Quelques semaines après la victoire électorale du FDF, je m’en vais d’ailleurs, muni d’un catalogue du « Livre de Poche », quémander au Frère Marcel, une liste de bons livres à lire: il m’a fait découvrir Greene et surtout Koestler, sources de mon engouement pour la littérature anglaise. Mais aussi tous les classiques de la littérature française à l’époque: Cesbron, Mauriac, Bazin, Troyat...

Le « germanisme » était présent, comme la matrice culturelle du Flamand de Bruxelles, du fils d’immigré limbourgeois. Mais le germanisme était ouvert, tant au français (qui n’est pas le « francophonisme ») qu’à la latinité, que nous faisait aimer notre professeur de latin, l’inoubliable Abbé Simon Hauwaert. Balzac, Stendhal, Baudelaire et Flaubert sont d’ailleurs des exposants ante litteram de la « révolution conservatrice », en sont la matrice à bien des égards, dans leur critique incisive du « bourgeoisisme »: donc, une fois de plus, pas de frontière entre un espace français, qui serait hermétique, et un espace germanique, qui serait tout aussi hermétique. Par ailleurs, ce sont le baron Caspar von Schrenck-Notzing, directeur de Criticón (Munich), qui me fait découvrir l’Espagne de Balthazar Gracian, puis Günther Maschke (et Arnaud Imatz), qui me font découvrir Donoso Cortès. C’est par des études allemandes, ou traduites en allemand, que je découvre d’Annunzio et Pessoã. Plus tard, j’allais constater que la culture italienne est très ouverte à l’Allemagne et à l’Autriche, qu’elle traduit bien plus que l’édition parisienne, sans perdre la moindre once de sa latinité. Un exemple à suivre...

La lecture conjointe de Herder et de Heidegger allait donner des assises philosophiques à ce magma informel de l’adolescent.

6. Justement, une spécificité importante de votre démarche réside dans votre philo-slavisme et votre anti-soviétisme modéré qui s’est manifesté dès le début de votre itinéraire (à l’époque, où, sous l’impulsion de Ronald Reagan, on renoue avec la Guerre Froide la plus glaciale) et que vous partagez, quoique dans une autre optique, avec le PCN. Qu’en dites-vous aujourd’hui?

Entre 1970, que je viens de vous évoquer, et le début de l’aventure de Vouloir, treize années se sont écoulées. La Guerre Froide s’enlise. Le duopole n’a rien d’autre à proposer qu’une partition définitive du monde entre deux camps, animés chacun par une idéologie hostile aux matrices culturelles et aux authenticités fécondes, décrétées « archaïsmes » ou « fascismes » (à la suite notamment des hypersimplifications d’un Georges Lukacs). Derrière cette partition du monde, se profile une histoire européenne pluri-millénaire, où les horizons sont toujours vastes, où l’on ne bute pas sur un « Rideau de fer », à 350 km à vol d’oiseau de Bruxelles. Où l’on pouvait aller à Prague, à Varsovie et à Budapest, sans passer à travers un champ de mines, surveillé par des miradors. Le dégel avait fait espérer un assouplissement et voilà, soudain, que le reaganisme réactive la Guerre Froide, éloignant la possibilité d’une réconciliation européenne. La déception est immense, surtout, j’imagine, pour ceux qui avaient espéré que la « Doctrine Harmel », voire l’Ostpolitik de Brandt, allaient porter des fruits. La division européenne apparaît dès lors comme l’oeuvre d’un « talon d’acier », une anomalie scandaleuse, qu’il fallait combattre, à la suite de Thiriart et de son mouvement « Jeune Europe », afin de retrouver le dynamisme européen en direction du Sud-Est et des profondeurs du continent asiatique, conquis vers 1600 avant JC par les cavaliers iraniens, puis, à partir du 16ième siècle, par les Cosaques des Tsars. C’était un idéal d’ « Europe Totale », mixte de Harmel et de Thiriart. Et, derrière eux, se profilaient tout à la fois 1) un projet « démocrate-chrétien » (en réalité « conservateur » au sens metternichien du terme) de rééditer, cette fois sous le signe d’une pensée inspirée de « Rerum Novarum », la « Sainte-Alliance » conservatrice de 1814, Europe de l’Est voire Russie comprises, ou 2) une vision plus pragmatique, géopolitique et technique, comme celle d’Anton Zischka, inspirateur majeur du jeune Thiriart. Elle impliquait d’étudier les dynamiques à l’oeuvre dans ces espaces immenses. Une telle étude postule non seulement de connaître les atouts économiques de l’espace euro-sibérien, dans le sillage de Youri Semionov, mais aussi, à la suite de l’historien italien des religions, Giuseppe Tucci, l’héritage spirituel de ces peuples à la charnière de l’Europe et de l’Asie. Parmi les multiples aspects de cet héritage spirituel, la slavophilie et l’oeuvre de Leontiev, partisan d’une alliance avec les forces asiatiques contre un Occident « libéral-manchesterien » qui a trahi la  Russie lors de la Guerre de Crimée. Raison pour laquelle mes amis et moi, nous n’avons cessé de nous intéresser à ces thématiques.

Le PCN, dans ses démarches, ne semble pas fort s’intéresser à la pensée organique russe. Or peu avant que la Guerre Froide ne reprenne sous Reagan, le dissident Yanov, établi en Californie, sort un ouvrage universitaire intitulé The Russian New Right, où il démontre que la pensée slavophile et néo-orthodoxe, fondamentalement anti-occidentale, et l’oeuvre de Soljénitsyne, impulsent, tant chez les établis que chez les dissidents de l’ex-URSS, une nouvelle révolution conservatrice, ou « nouvelle droite », avec des écrivains comme Valentin Raspoutine ou Youri Belov. Quant aux tenants de l’idéologie occidentaliste, on les retrouvait aussi, d’après Yanov, dans les deux camps. A Moscou, Alexandre Prokhanov, que j’allais rencontrer en 1992, était à l’époque directeur de la revue Lettres soviétiques. Il avait publié, pour la première fois dans une publication soviétique officielle, un numéro consacré à Dostoïevski, qui avait été mis à l’écart à l’ère soviétique la plus sourcilleuse. Prokhanov innovait. Je me suis procuré un exemplaire de cette revue à la « Librairie de Rome » à Bruxelles. Au même moment, Etudes sociales, autre publication émanant de l’Académie soviétique des sciences, réhabilitait le passé païen russe, dans un optique très semblable à celle de la « nouvelle droite ». Ces textes attestaient d’un changement et d’un abandon graduel des vieilles lunes progressistes du marxisme institutionnalisé, abandon qu’aucune officine « marxiste » belge ou française ne jugeait bon de faire. Les archaïsmes étaient toujours de mise chez nos communistes locaux. Leur déphasage par rapport aux legs de l’histoire et au réel ne faisait que s’accentuer. Rien n’a changé sur ce chapitre.

Ce chassé-croisé d’occidentalisme et de slavophilie chez les dissidents comme chez les établis, et le succès des néo-slavophiles, notamment dans l’orbite cinématographique, laissaient espérer une transformation lente de l’URSS en une nouvelle Russie conservatrice, capable de damer le pion à la superpuissance libérale, vectrice de toutes les déliquescences morales et spirituelles, fautrice du déclin intellectuel généralisé de l’Occident et matrice de la vulgarité marchande. Ce que nous haïssions dans le communisme s’estompait et ce que nous n’avons cessé de haïr, du plus profond de nos tripes, dans le libéralisme ne cessait de s’amplifier, jusqu’à atteindre l’effroyable monstruosité qu’il a acquise aujourd’hui, un monde où le banquier, être infect et infécond, inculte et vulgaire, accumulateur et comptable, vaut plus que le joueur d’accordéon du coin de la rue, être touchant de sincérité et de spontanéité. Chez nous, les acteurs de théâtre sont sûrs de crever de misère quand ils ne pourront plus monter sur les planches. En Italie, les professeurs d’université s’étaient mobilisés à l’époque contre les MacDo, qui finançaient Reagan et recevaient en échange le droit de s’établir dans tous les coins et recoins de l’américanosphère. Ces professeurs voulaient organiser un boycott général de la chaîne de « fast food »; chez nous, quand les étudiants de Gand ont voulu faire de même, par solidarité avec le corps académique italien, la minable crapule assurant la gérance d’une de ces auges de la mal-bouffe a eu le culot d’appeler les flics, qui ont verbalisé, et le corps académique, veule et lâche, n’a rien dit. On mesure aujourd’hui l’étendue du désastre. L’empoisonneur avait la « liberté » de commercer... et on ne pouvait y porter atteinte. La chaîne de ces fast-foods avait acquis le droit, grâce à Reagan, qu’elle avait financé, d’abaisser l’âge requis pour travailler dans le secteur de la restauration: depuis lors, les lycéens travaillent pour gagner l’argent de leurs cartes de GSM et le niveau d’instruction et d’éducation ne cesse de baisser; le monde sans relief des « petits jobs et boulots », stigmatisé par Hannah Arendt, est devenu la référence suprême.

Face à cette involution, perceptible dès le début des années 80, la société soviétique, malgré son caporalisme, sa froide rigueur idéologique, sa langue de bois, laissait entrevoir une renaissance, un dépassement de l’horreur économique par un retour aux valeurs qui avaient enthousiasmé les premiers slavophiles du 19ième siècle, ces disciples russes de Herder. Ensuite, sous les coups du néo-libéralisme triomphant, l’Europe perdait et le sens de l’Etat et le respect de ses héritages culturels. Face au « Dieu Argent », désormais honoré sans plus aucune retenue morale ou éthique en Occident, dans l’ « américanosphère » (Faye), Moscou semblait conserver un sens de l’Etat, avec une armée qui respectait des traditions russes (donc européennes), et un appareil culturel et académique, dont le Bolchoï, par exemple, était un fleuron. Les titres académiques semblaient mieux respectés qu’en Europe ou en Amérique. Le « fast food » est la manifestation sociale la plus tangible de cet avènement du « tout-économique », qui nous a tant scandalisé à l’époque, jusqu’à en devenir, je le concède, une véritable obsession récurrente, qu’atteste la littérature néo-droitiste et nationale-révolutionnaire.

Ensuite, Reagan et ses conseillers étaient bien conscients du fait qu’un discours exclusivement néo-libéral ne pouvait consolider leur pouvoir ni constituer une propagande efficace. Ils ont alors puisé dans le registre de l’idéologie religieuse puritaine, l’héritage américain des « Founding Fathers » et des « Pèlerins du Mayflower », où l’accent est souvent mis sur l’Apocalypse, jugée imminente, portée par le « Mal absolu », qu’il s’agit de combattre et d’éradiquer. Ce langage réactive les affects qui préfigurent les guerres de religion, alors que la pensée d’un Hobbes et toute l’évolution de la pensée politique européenne après les horreurs de la guerre de Trente Ans visaient justement à éviter de tels débordements. Le reaganisme met un terme définitif aux « formes » de la guerre et de la diplomatie traditionnelles. Cet infléchissement était inacceptable, même dans une optique conservatrice traditionnelle. Il ne faut pas se leurrer: si Reagan a été décrit par les gauches comme un « néo-conservateur », cette  manière de percevoir les choses est fondamentalement erronée. Le puritanisme apocalyptique des « Pères Fondateurs » et des Puritains du 17ième siècle est le contraire diamétral des options « tacitistes » et « machiavéliennes », de la tradition régalienne européenne en général. Ce n’est d’ailleurs pas un hasard si le retour, après Cromwell, du Roi en Angleterre ait contraint ces zélotes, à l’idéologie bibliste, à franchir l’Atlantique, où, espérait-on en Europe, ils allaient pouvoir vivre leurs utopies irréalistes et anti-historiques en vase clos.

Les Etats-Unis sont spécialisés dans le bricolage idéologico-théologique quand il s’agit de créer des vulgates médiatisables pour faire passer leur volonté dans les faits. Avec Reagan, nous avions, outre le néo-libéralisme, qui dissout toutes les formes politiques et culturelles, l’idéologie de l’Apocalypse, qui entend faire table rase des legs de l’histoire, et, surtout, une interprétation messianique des « droits de l’homme », impliquant un interventionnisme tous azimuts, qui flanquait tous les principes de la diplomatie traditionnelle par terre! Le Général Jochen Löser s’est dressé, à l’époque, et avec vigueur, contre ce mixte idéologico-théologico-économique, qui revient aujourd’hui à l’avant-plan avec Bush junior; avec l’armement moderne, cette nouvelle idéologie agressive risquait de déclencher une guerre d’annihilation totale en Europe centrale. Si les Etats-Unis maniaient une telle idéologie, la fidélité à l’alliance atlantique pouvait être remise en question. Harmel s’était proposé d’assouplir la « Doctrine Hallstein », rigide et pérennisant par son intransigeance la césure européenne, afin de mettre lentement fin à la chape pesante qu’était le duopole né à Yalta. La « Doctrine Harmel » était aussi un retour à la diplomatie traditionnelle, laquelle devait recevoir à nouveau la préséance. Löser et Kiessling entendaient y revenir au début des années 80, juste avant la perestroïka de Gorbatchev. Ce débat n’est pas clos: au printemps 2003, quand les troupes anglo-américaines entrent pour la deuxième fois en Irak, et que les Européens s’insurgent en arguant que toutes les voies diplomatiques n’avaient pas été exploitées, Robert Kagan, idéologue au service de la politique de Bush junior, annonce clairement, sans circonlocutions inutiles, que la diplomatie, « c’est du passé » et que l’avenir appartient à ceux qui ne s’en soucient nullement. La « Vieille Europe » est donc celle de la diplomatie, à l’idéologie « machiavello-tocquevillienne » et « tacitiste ». La « Nouvelle Europe » est celle qui va renier cet héritage pour suivre aveuglément le nouvel « Empire » qui agit arbitrairement selon ses intérêts immédiats.

Je ne crois pas que le PCN ait vraiment mis tous ces éléments dans la balance: il m’a donné la triste impression de se muer en un calque maladroit du stalinisme (revu par la propagande américaine du temps de la Guerre Froide), attitude typique des mouvements politiques marginaux qui cherchent à attirer l’attention sur eux par des prises de position qui font bêtement scandale.

7. Autre point commun avec le PCN et, par-delà cette formation, avec Jean Thiriart, vous avez fait, vous aussi, votre pèlerinage à Moscou. Quelles sont les perspectives avec les Russes et notamment avec Alexandre Douguine et l’actuel président russe Vladimir Poutine, de créer cet empire européen que vous appelez de vos voeux?

Je n’ai pas souvenir que le PCN, ou l’un de ces dirigeants, ait fait le « voyage à Moscou ». Fin mars, début avril 1992, je m’y suis effectivement rendu avec Alain de Benoist et Jean Laloux (secrétaire de rédaction de la revue Krisis). Les activités principales de ce voyage ont été 1) une conférence de presse où nous avons présenté les grandes lignes de la « nouvelle droite »; 2) un débat, dans les locaux de la revue moscovite Dyeïnn (« Le Jour ») avec Ziouganov et Volodine, exposants du parti communiste russe. Le dialogue a tourné autour de la notion de « Troisième Voie » en économie, c’est-à-dire, pour moi, ce que Perroux, Albertini et Silem ont nommé les « voies hétérodoxes », héritières de l’école historique allemande de Schmoller, Rodbertus, etc. Douguine et Prokhanov étaient les deux organisateurs de ces rencontres. Douguine a fait du chemin depuis lors. Il appuie aujourd’hui Vladimir Poutine, qui, à ses yeux, tente de redresser une Russie ruinée par le clan Eltsine et les oligarques.

Quelques mois plus tard, Thiriart, Schneider, Battarra et Terracciano se retrouvaient à leur tour à Moscou. En 1996, une équipe de « Synergies européennes », composée de Sincyr, Sorel et de Bussac, visite à son tour Moscou et rencontre d’autres personnalités, dont l’ex-dissident, le sorélien Ivanov, l’anthropologue Avdeev, et d’autres. Ces hommes oeuvrent dans d’autres perspectives. L’hispaniste Toulaev s’est joint à eux. Notre ami autrichien Gerhoch Reisegger s’est également rendu à plusieurs reprises à Moscou, ramenant de ses voyages des informations d’ordres économique et factuel très intéressantes. Wolfgang Strauss continue à publier une chronique permanente sur cet espace idéologique russe, dans les colonnes de la revue Staatsbriefe, qui paraît à Munich sous la direction du Dr. Sander. Tous les aspects de la pensée non conformiste —hétérodoxe—  russe nous intéressent.

Quant à savoir si Poutine emportera le morceau, il me semble que la réponse se situe dans les extraits du dernier ouvrage de Reisegger que nous avons traduits. La consolidation du poutinisme dépend de l’organisation des transports (routes et chemins de fer), des gazoducs et oléoducs de l’Asie centrale, de la Sibérie, de concert avec l’Inde, le Japon et la Chine. Si une synergie parvient à s’établir, l’Eurasie demeurera eurasiatique. Sinon, les Américains préparent d’ores et déjà la riposte: le stratège Thomas Barnett propose aujourd’hui à l’établissement américain d’abandonner l’alliance européenne, de laisser l’Europe périr dans ses contradictions et de miser sur l’Inde et la Chine, voire sur une Russie détachée de l’Europe, afin de conserver les atouts américains en Asie centrale, acquis par la conquête de l’Afghanistan et la satellisation de l’Ouzbékistan. Barnett apporte la réponse américaine au projet de Henri de Grossouvre, soit le projet de créer un Axe Paris-Berlin-Moscou.

8.Après plus de vingt ans d’activités politiques et intellectuelles, quel est le bilan que vous tirez? Notamment sur les Etats-Unis et l’Europe?

Premier bilan, évidemment, comme Thiriart et de Benoist, et même comme Faye, c’est d’avoir constaté l’immense, l’incommensurable bêtise du « milieu identitaire ». En hissant la préoccupation au niveau européen, Thiriart avait voulu dépasser l’étroitesse des « petits nationalismes ». Avec son option « métapolitique », de Benoist avait voulu briser le cercle infernal des répétitions et des rengaines. Ils se sont tous deux heurtés à une incompréhension générale, hormis quelques notables exceptions qui ont tenté de poursuivre le combat. Thiriart n’a pas trop bien su emballer sa marchandise.Ses textes, denses, toujours au moins partiellement actuels, figuraient certes au milieu de dessins satiriques de toute première qualité, mais les écrits des autres « journalistes », dans la feuille du mouvement, laissaient vraiment à désirer et étalaient les fantasmes habituels du « petit nationalisme » ou de l’« extrême droite » au mauvais sens du terme. Thiriart a vraiment tout essayé pour gommer définitivement ces dérives: il avouait, dans un entretien accordé à l’avocat espagnol Gil Mugarza, n’avoir pas pu enrayer les multiples expressions de cette « psychopathologie » politique. Les hommes de notre temps ne raisonnent plus en termes de temps et d’espace, mais se laissent aveugler par les idéologies, les « blueprints » de Burke, déviance encore accentuée par la propagande médiatique, qui atteint désormais des proportions incroyables. Ignorant tout de la géographie, nos contemporains ne comprennent pas les enjeux spatiaux, seuls enjeux réels des conflits qui ensanglantent la planète. Leurs horizons sont vraiment limités, alors que l’on n’a jamais autant parlé de « mondialisme » ou d’« universalisme ».

Alain de Benoist, pour sa part, a tenté d’élargir et d’européaniser l’horizon culturel du milieu nationaliste français, dans lequel, dès l’adolescence, il avait fait ses premiers pas. Il lui a présenté des thématiques inhabituelles, fort intéressantes au départ, mais, en bout de course, force est de constater qu’il en a trop fait, qu’il a jonglé avec une quantité de choses diverses que ce public ne pouvait pas assimiler à la vitesse voulue. Alain de Benoist changeait trop souvent de sujet et son propre public, au sein du GRECE, ne suivait pas la cadence. Il s’en désolait, tempètait, rouspétait; on l’écoutait poliment, mais, au fond, on semblait lui dire, par le regard: « Cause toujours, tu m’intéresses! ». D’où, ce que j’appelle le « mouvement brownien » des brics et brocs culturels et cultureux agités par de Benoist. Henry de Lesquen parlait, à son propos, de prurit « noviste ». Deux handicaps marquaient la démarche du « Pape de la nouvelle droite »: une incapacité —en fin de course, et non pas, curieusement, au début de sa trajectoire—  à opérer une synthèse et à se concentrer sur l’essentiel; bref, la dispersion et la confusion; ensuite, un désintérêt pour l’histoire et ses dynamiques, au profit d’une sorte d’idolâtrie pour les idées toutes faites, pour les corpus moraux plus ou moins bien échafaudés, pour le clinquant de concepts immédiatement médiatisables (dans l’espoir d’être enfin accepté, comme figurant ou comme acteur, dans le « PIF » ou « paysage intellectuel français »). Enfin, l’homme est tenaillé par l’inquiétude, par d’inexplicables angoisses, par un doute incapacitant, aux dimensions qui laissent pantois. Si Thiriart a été une cohérence au milieu des incohérences de l’extrême droite belge et italienne de son époque, de Benoist, lui, a démarré dans la cohérence pour se disperser dans un fatras de thématiques différentes et divergentes, dans un capharnaüm conceptuel qu’il est désormais incapable de maîtriser. Il m’apparaît aujourd’hui comme une sorte d’âne de Buridan, qui n’a pas à choisir entre deux picotins d’avoine, mais est perdu au milieu d’une foultitude de picotins, tous aussi alléchants, et ne sait plus où donner de la tête.

Ne cédons pas à cette aigreur, que l’on retrouve aussi chez un Guillaume Faye, qui la tourne en cynisme avec son sens du canular qui est inégalable, ou chez un Christian Bouchet, qui ne mâche pas ses mots pour fustiger l’inculture du « milieu identitaire ». Cette inculture n’est pourtant pas le propre de ce milieu mais bien le lot général de notre temps. La gauche n’est plus aussi « intellectuelle » qu’elle ne l’a été. Sachons que l’OSS visait, dès l’entrée en guerre des Etats-Unis en 1941-42, à faire perdre à l’Europe son leadership intellectuel. L’effervescence de mai 68 et les pédagogies démissionnaires qui en découlent, en dépit de l’excellence de ce que Luc Ferry appelle la « pensée 68 » (avec Deleuze, Guattari, Foucault, Lévi-Strauss, etc.), a donné le coup de grâce aux établissements d’enseignement en Europe. La vague néo-libérale a simplement parachevé l’horreur. La méditation, la lecture, l’étude, la recherche sont des activités qui prennent du temps, qui empêchent de gagner vite beaucoup d’argent, pour pouvoir consommer tout aussi rapidement. Et empêcher l’adolescent ou l’étudiant de gagner de l’argent, même au détriment de ses études, relève, au regard du mental contemporain, d’un « archaïsme », méchant et pernicieux, d’un « fascisme » rétrograde. Au bout d’une décennie à peine, on a des instituteurs, des régents et des licenciés mal formés, qui ont moins lu, qui n’ont pas de passions littéraires bien étayées, qui ont butiné bêtement autour de toutes les loupiotes médiatiques faites de variétés de plus en plus vulgaires (Loft, Star Academy, etc.), qui ont gagné des sous pour se payer de la bimbeloterie high tech ou des fringues ridicules et, partant, ne se sont pas constitué de bibliothèques personnelles. L’influence des sous-cultures et des modes est de plus en plus désastreuse. A cela s’ajoute que le milieu identitaire est tout aussi indiscipliné que le reste de la société, que les « egos » y sont encore plus surdimensionnés, générant à la pelle des personnalités caractérielles. Très difficile dès lors de faire éclore dans un tel milieu une conscience historique prospective et volontariste, comme le voulait Thiriart, ou d’entamer une longue bataille métapolitique, comme le voulait de Benoist.

Pourtant, de nouvelles initiatives voient le jour. Elles sont au moins portées par des hommes au caractère plus trempé. De vrais travailleurs. Qui multiplient les initiatives et sont très présents sur internet. Cette nouvelle génération semble ouverte sur le monde. Elle est européiste, même en France, car la France contemporaine, qui se veut championne des abstractions universalistes les plus délirantes, l’a déçue. L’avenir nous dira ce que ce travail parviendra à réaliser. Deux éceuils à éviter: se méfier des modes, ne pas y succomber (comme Ulysse face au chant des sirènes); ne pas tomber dans la dispersion.

Ensuite, force est de constater que les Etats-Unis ont gagné la guerre: en Europe en 1945 (mais ça, tout le monde le sait déjà), dans les Balkans en 1999, ce qui leur permet de contrôler l’espace-tremplin de l’Europe vers le Moyen-Orient, utilisé par Alexandre le Grand puis par les Ottomans, en Afghanistan en 2001, ce qui leur permet de contrôler l’Asie centrale, en Irak en 2003, où ils se sont emparé des principales réserves énergétiques du monde, en Afrique centrale et occidentale, ce qui leur permettra de contrôler les ressources pétrolières inexploitées du continent noir. Cette série de victoires est due à leur avance technologique, notamment sur le plan satellitaire. Pire: la riposte européenne ne sera guère possible car en s’emparant d’Avio en Italie, de Santa Barbara Blindados en Espagne, de l’usine de sous-marins allemand, bientôt de Rheinmetall, les consortiums américains, dont le fameux Groupe Carlyle, ont mis la main, par des coups en bourse, sur les entreprises qui forgent les armes européennes. Le Général allemand Franz Ferdinand Lanz a déclaré à ce propos: « Toute armée dépendant d’une industrie militaire étrangère est une armée de deuxième classe ». « Dans tous les cas de figure, l’armée est l’expression et la garante de la souverainté d’un Etat ». « Seules les puissances qui disposent d’un potentiel stratégique produit par une industrie militaire indépendante, sont en mesure de s’affirmer, même modestement, sur la scène internationale ». Cette fois, il n’y a pas lieu de parler de la simple souveraineté d’un Etat, mais de celle de tout un continent, de toute une matrice de civilisation. L’Europe est donc aujourd’hui une « impuissance » édentée.

9. Dans vos revues, au cours des années 80, vous avez défendu des positions neutralistes; est-ce la même logique qui vous fait défendre un monde multipolaire ou constitués de grands blocs qui ne pratiqueraient pas entre eux la politique d’ingérence et d’immixtion, qui semble dominante aujourd’hui?

Entendons-nous d’abord sur le terme « neutralisme ». Le neutralisme n’est pas une idéologie démissionnaire, un pacifisme bêlant comme celui des gauches qui manifestaient contre l’installation des missiles américains, au début des années 80. Le neutralisme, pour moi, est armé et même surarmé. L’exemple est helvétique et suédois, autrichien et yougoslave. Il s’agissait d’organiser une armée de citoyens, capable de mailler totalement le territoire. Il impliquait la fusion armée/nation. Sur le plan diplomatique, il s’interdisait de participer à des alliances, comme l’OTAN, par exemple, et mettait l’accent sur l’indépendance et la souveraineté nationales. Parallèlement à ce neutralisme classique, de type suisse, il y avait aussi le gaullisme, ou la sanctuarisation nucléaire du territoire national. Cette option neutraliste ou gaullienne impliquait aussi de conserver des usines d’armement nationales et de créer les conditions d’une autarcie militaire. La Suède y parvenait. L’Europe, à plus grande échelle, aurait parfaitement pu réussir sa déconnexion, par rapport aux blocs atlantique et soviétique. C’est aussi ce que réclamait les Tchèques lors du printemps de Prague: rappelez-vous le Paris-Match de l’époque, avec cette jeune fille pragoise, blonde et fort maigre, qui, devant les chars soviétiques qui entraient dans la ville, portait sur la poitrine un écriteau, avec ce seul mot: « Neutralitu ». Elle exprimait le désir de la population tchèque et slovaque de se dégager du bloc soviétique sans pour autant vouloir se noyer dans le bloc capitaliste. Un mouvement neutraliste, de part et d’autre du Rideau de Fer, suite logique d’une application graduelle de la « Doctrine Harmel », aurait rendu à l’Europe son indépendance et sa puissance.

En 1984, quand j’ai rencontré le Général Löser, lors de la Foire du Livre de Francfort, il venait de sortir un livre programmatique, appelant ses compatriotes, les ressortissants des trois Etats du Bénélux, les Hongrois, les Tchèques, les Slovaques et les Polonais à se dégager des blocs. Ce livre s’intitulait justement Neutralität für Mitteleuropa. Löser, ancien Commandeur de la 24ième Panzerdivision de la Bundeswehr et rescapé de Stalingrad, était aussi un théoricien militaire qui s’alignait sur les stratèges Spannocchi (Autriche), Brossolet (France gaullienne), sur leurs homologues yougoslaves, suisses et suédois. Sa neutralité n’était pas une neutralité désarmée, mais, au contraire, une neutralité vigilante et citoyenne, centrée sur elle-même et non aliénée par l’appartenance à un bloc, dominé par une superpuissance, qui oblitérait les spécificités nationales et tenait sa part d’Europe sous tutelle.

Le monde est effectivement multipolaire. On ne peut réduire l’inépuisable diversité humaine à deux blocs ou à un monde global unifié,comme le voudrait le « nouvel ordre mondial » de Bush-le-Père et de son théoricien Francis Fukuyama (qui a révisé ses positions depuis ses euphories du début des années 90). Les Etats-Unis veulent imposer leur modèle et utilisent, pour y parvenir, l’idéologie des « droits de l’homme », indéfinie, mise à toutes les sauces, manipulable à l’envi (on l’a vu au Kosovo, où elle a servi à mettre en place un régime de mafieux et de maquereaux). L’idée d’un « nouvel ordre mondial », outre ses aspects missionnaires, part du principe d’un genre humain indifférencié ou de l’idée d’un genre humain amnésique, épuré de tous les legs de l’histoire, dévalorisés a priori comme s’ils n’étaient que de vulgaires scories. Or les hommes ont été appelés à créer des formes, variées et différentes, sur la Terre. Ce sont ces formes qui font l’humanité, qui permettent de dépasser le stade purement animal et générique de l’espèce. Par conséquent, l’espace politique de la Terre n’est pas un « uni-versum », mais un « pluri-versum ». Le respect du passé, des formes, des continuités, comme nous l’enseigne Naipaul, postule de respecter ces acquis, de ne pas vouloir revenir à un stade purement générique et de ne pas vouloir éradiquer purement et simplement, avec une rage frénétique, ce qui a été, est et demeurera. L’acceptation de la nature « pluri-verselle » de l’échiquier mondial implique de reconnaître la multiplicité des pôles politiques dans le monde. C’est donc bien une option « multipolaire ».

Face à la volonté américaine d’établir un « nouvel ordre mondial », la Chine, notamment, a suggéré des « amendements ».D’abord, elle a souhaité une adaptation de la notion de « droits de l’homme » à chaque aire civilisationnelle de la planète. Chaque aire de civilisation adapterait ainsi la déclaration universelle des droits de l’homme à ses propres spécificités culturelles, et la Chine, par exemple, lui donnerait une connotation « confucéenne ». La Chine a demandé à l’Occident de « respecter l’étonnante pluralité des valeurs et des systèmes sociaux, économiques et politiques », de « renoncer à toutes manoeuvres coercitives d’unification ou d’uniformisation ». Les Chinois estiment, à juste titre, que: « ces dix mille choses peuvrent croître de concert, sans se géner mutuellement, et les taos peuvent se déployer parallèlement sans se heurter ». C’est l’esprit de la « Déclaration des Droits de l’Homme de Bangkok », proclamée le 2 avril 1993. La Chine a tenté de faire front, de s’opposer à la volonté américaine d’homogénéisation de la planète. Elle s’est expressément référée à la notion de « pluralité ». Sa volonté était aussi d’imposer un modèle des relations internationales, reposant sur les « cinq principes de la coexistence pacifique »: 1) le respect mutuel de la souveraineté et de l’intégrité territoriale des Etats; 2) le principe de non-agression; 3) le refus de toute immixtion dans les affaires intérieures d’Etats tiers; 4) l’égalité des partenaires sur l’échiquier international; 5) le respect des besoins vitaux de chacun (auxquels il est illicite de porter atteinte). Ces cinq principes, me semble-t-il, résument parfaitement nos propres positions « multipolaristes ». Ils sont l’expression d’une antique sagesse, qu’il serait sot de ne pas écouter.

10. Votre vision d’une Europe impériale est donc tout-à-fait antinomique de tout impérialisme à l’intérieur ou à l’extérieur de celle-ci. Qu’en est-il?

Le débat qui porte sur l’Europe impériale, sur les impérialismes intérieur et extérieur est sans fin. La notion d’Empire en Europe remonte aux Romains. La personnalité collective, porteuse de cet Empire, est le « Senatus Populusque Romanus », soit le Sénat et le Peuple romains. Par la « Translatio Imperii », elle passe aux Francs de Charlemagne (« Translatio Imperii ad Francos »), puis, avec Othon Ier, à l’ensemble des peuples germaniques (« Translation Imperii ad Germanos »). Ou plus exactement, aux ressortissants des territoires relevant du « Saint Empire Romain de la Nation Germanique ». Cela a été tout théorique, surtout après l’élimination de la descendance de Frédéric II de Hohenstaufen. Outre les vicissitudes dynastiques du Saint Empire, le noyau territorial concret de cet ensemble, forgé depuis César (Caesar / Kaiser), implique d’unir le continent européen autour de trois bassins fluviaux, le Rhône (conquis depuis Marius), le Rhin et le Danube, plus le Pô en Italie du Nord. C’est à partir de ces trois bassins, et des territoires qui se situent entre eux, et à partir de la plaine nord-européenne aux fleuves parallèles, de l’Yser au Niémen, que l’Europe doit se former. C’est, disait le géopolitologue autrichien, le Général-Baron Jordis von Lohausen, la paume de la main « Europe », dont les doigts sont les espaces périphériques: scandinave, ibérique, italique, balkanique, britannique. Sans une cohésion solide de cette paume, pas d’unification européenne possible. Et sans cette unification, c’est l’anarchie et la dissolution. Or c’est ce désordre et cette dispersion qui ont été le lot de l’Europe au cours de l’histoire post-romaine. Napoléon a voulu l’unifier à partir de la frange occidentale de la paume, l’espace gaulois, dont les bassins fluviaux portent vers l’Atlantique et non pas vers le cœur du continent, dont l’artère majeure est le Danube, symbole fluvial de l’Europe comme forme de vie. La tentative napoléonienne est donc grevée d’une impossibilité physique et géographique. L’ « hegemon » ne pouvait être français, à cause des faits géographiques et hydrographiques, qui sont évidemment incontournables. Hitler est prisonnier de la vision « ethniste », qui domine en Allemagne à son époque. Il se vaut libérateur et émancipateur, fondateur d’un nouvel ordre social, plus juste et plus efficace pour les ouvriers et les paysans. Il séduit. Incontestablement. Mais quand ses troupes entrent en Bohème tchèque, à Prague, elles réduisent ipso facto à néant le principe cardinal de la politique allemande, depuis la « prussianisation » protestante du « Reich ». En entrant dans l’espace linguistique tchèque, les armées de Hitler remettaient en question le fondement même du Reich protestantisé, et donc particulariste, et la propre propagande ethniste du national-socialisme. Une contradiction qui n’a jamais pu être surmontée, avant la  fin du deuxième conflit mondial. De Gaulle, après 1945, et surtout dans les années 60, veut assumer une sorte de leadership, mais sa France, bien que souveraine et membre du Conseil de sécurité de l’ONU, n’est plus prise au sérieux: la défaite de 1940 est toujours dans les têtes, le pays paraît pauvre et archaïque (cf. les études d’Eugen Weber sur la France rurale), ne séduit pas les Nord-Européens qui le regardent avec commisération, les défaites coloniales d’Indochine et d’Algérie écornent son prestige. La France gaullienne, en dépit de ses efforts, ne sera pas le « Piémont » d’une Europe dégagée des blocs. Le retour à une Europe impériale ne sera possible que s’il y a unanimité des Européens, sans autre « hegemon » que la volonté organisée et structurée des européistes de toutes nationalités.

Il est évident que le colonialisme de papa, essentiellement capitaliste dans son essence, est inacceptable dans la situation actuelle. En Indochine, par exemple, l’imbroglio de 1940 à 1946, entre Japonais, Français de Vichy et de Londres, Britanniques, Américains, Indochinois de droite et Vietminh, semblait insoluble. Les Japonais avaient appuyé les mouvements d’émancipation anticolonialistes; les Américains avaient pris le relais. Il était évident que la seule solution raisonnable, pour la France de Londres, qui appartenait au camp des vainqueurs, aurait été de négocier directement avec le Vietminh, plus nationaliste que communiste au lendemain de l’occupation japonaise. Un accès graduel mais rapide à l’indépendance des territoires indochinois aurait permis de sauver une certaine présence française, donc européenne, de se faire le champiuon de l’émancipation coordonnée des peuples extra-européens, dans ce territoire hautement stratégique, où se situent les embouchures des grands fleuves asiatiques, qui prennent leurs sources sur les flancs de l’Himalaya (Fleuve Rouge, Mékong, ...). Les hésitations, l’illusion de vouloir perpétuer un empire colonial du 19ième siècle dans les conditions très différentes d’après 1945 a empêché les uns et les autres de trouver une solution rapide et harmonieuse.

La défaite de Dien Bien Phu encourage ensuite la rébellion algérienne, qui couvait depuis les événements sanglants de Sétif en 1945. Mais, l’Algérie se trouvant aux portes de l’Europe, l’histoire de sa conquête et de sa colonisation est fort différente de celle de l’Indochine. Si la présence française en Extrême-Orient est due à la course effrénée de toutes les puissances européennes pour se tailler une fenêtre sur le Pacifique, la conquête de l’Algérie, après 1830, provient d’une volonté européenne d’imposer à la France une tâche « réparatrice », après les guerres révolutionnaires et napoléoniennes. La France avait été l’alliée des Ottomans et des Barbaresques contre la légitimité impériale; elle s’était mise ainsi au ban des nations européennes. Comme la piraterie barbaresque ne cessait de sévir au début du 19ième siècle, l’Europe de la Sainte-Alliance a décidé d’y mettre un terme et de charger la France de cette mission. La présence d’une puissance européenne en Afrique du Nord se justifiait par la nécessité de sécuriser la Méditerranée, de garantir la libre circulation des navires européens et d’éviter les rafles d’esclaves sur les côtes chrétiennes de la Méditerranée. Si la France n’avait pas imposé son système jacobin aberrant en Algérie, la révolte n’aurait pas été aussi sauvage et la décolonisation aurait sans doute pu s’opérer dans l’harmonie. En dépit de cela, l’Europe aurait dû se montrer solidaire des Européens d’Algérie, appuyer la France et les colons espagnols et italiens d’Algérie. L’Espagne avait un droit d’intervenir en Oranie, où la population européenne de souche espagnole était majoritaire. L’Europe, et surtout l’Espagne (avant même la France), a le droit d’entretenir des troupes en Afrique du Nord en représailles des agressions sarazines et barbaresques, qui ont duré  plus d’un millénaire. On ne peut transposer l’idée d’une libération nationale et anticoloniale, comme elle s’est exprimée en Indochine, en Afrique du Nord, puisque l’intervention française est la réponse européenne à des agressions répétées et particulièrement horribles. Au nom du Testament de Charles-Quint, qui doit constituer le bréviaire de tout homme politique qui se respecte en Belgique, en Allemagne, en Autriche, en Hongrie, en Croatie, en Italie et en Espagne, les zones d’Afrique du Nord doivent être tenues constamment sous surveillance. La présence espagnole à Ceuta et Melilla est ainsi entièrement justifiée, ne peut être soumise à révision, même si nos concitoyens de souche marocaine ne le comprennent pas.

Toute démarche impériale offensive, en dehors de la zone initiale d’un Empire, est justifiable si elle est dictée par des motifs stratégiques et géopolitiques. En revanche, elle est injustifiable si elle est dictée par des motifs économiques. De même, autre facteur dont il faut tenir compte: la  proximité spatiale. En Indochine, la France est une « raumfremde Macht » (une puissance étrangère à l’espace), exactement comme l’Allemagne avait été une « raumfremde Macht » en Micronésie avant 1918, ce que reconnaissait pleinement le géopolitologue Haushofer. En Afrique du Nord, aucune puissance européenne riveraine de l’Atlantique et de la Méditerranée n’est une « raumfremde Macht », puisque toutes ont subi les agressions sarazines ou barbaresques pendant près d’un millénaire. L’Europe a le droit inaliénable de protéger ses abords, même en constituant des glacis hors de son espace propre. En Europe même, aucun colonialisme intérieur n’est acceptable.

Les Etats-Unis sont en train de créer un OTAN-Sud comprenant tous les pays arabes d’Afrique du Nord, du Maroc jusqu’à l’Egypte, Libye comprise, afin de pénétrer l’Afrique subsaharienne et d’y puiser les richesses du sous-sol, non encore pleinement exploitées. L’OTAN-Sud arabophone a donc deux fonctions: 1) parachever l’encerclement de l’Europe; 2) contrôler l’Afrique subsaharienne et servir de verrou entre l’Europe et celle-ci. Ce projet n’est possible que sans présence européenne en Afrique du Nord, d’où la bienveillance américaine à l’égard des terroristes algériens en lutte contre la France jadis, à l’égard du Maroc contre l’Espagne à la fin des années 50, enfin, à l’égard de l’agression marocaine contre Perejil et l’Espagne en juillet 2002. Les Etats-Unis misent sur le trop-plein démographique nord-africain, sur le « Youth Bulge » comme disent leurs stratèges, afin d’y recruter des mercenaires pour bloquer l’Europe par le Sud et engager des troupes le long des nouveaux oléoducs qui achemineront le brut africain vers les côtes de l’Atlantique, si des troubles ou des rébellions enflamment la région. L’émergence imminente d’un OTAN-Sud aurait dû inciter les autorités européennes à la vigilance. L’Europe perd toutes ses cartes en Afrique.

La question de l’impérialisme extérieur est donc bien trop complexe pour la réduire à ces schémas  binaires dont se gargarisent les belles âmes de gauche.

11. Actuellement, il semble que l’anti-américanisme soit à la mode. Quelles sont vos critiques à l’égard de celui-ci et de l’anti-Bushisme médiatique?

Si l’anti-américanisme a le vent en poupe actuellement, c’est dû essentiellement à une décennie et demie d’interventions américaines dans le monde. La disparition de la « Soviétie », et donc la fin de la Guerre Froide, avait fait espérer, surtout en Europe, l’avènement d’une longue ère de paix, de reconstruction, de fraternité, où les deux parties de l’Europe se seraient lentement mais sûrement resoudées. Les Etats-Unis ont déçu cet espoir. C’est la raison majeure de l’anti-américanisme réel et sincère qui déferle sur la planète et surtout sur l’Europe. Mais il existe aussi un « anti-américanisme » fabriqué, notamment dans les milieux « altermondialistes ». Christian Harbulot, officier et stratége français, spécialiste de la « guerre cognitive », constate que l’ouvrage théorique majeur, censé exprimer la sensibilité altermondialiste, Empire de Hardt et Negri, évoque lourdement la nécessité d’organiser une « résistance » en « réseaux », dont la caractéristique majeure serait d’être non territorialisée. Cette idée est devenu le « joujou » de la nouvelle gauche actuelle. Or, on ne peut résister sans avoir de base territoriale, sans restructurer des souverainetés territorialisées, de préférence à l’échelle continentale. Par conséquence, une « résistance » déterritorialisée ne débouche sur rien, comme le constate très justement Harbulot. La gauche est aussi très excitée parce que Bush est républicain. Or les démocrates, que cette gauche juge plus pacifiques, sont tout aussi bellicistes, comme l’a prouvé l’Administration Clinton, en déclenchant la guerre dans les Balkans. Kerry, nouvelle figure de proue démocrate, accepte le fait de la guerre en Irak et appartient vraisemblablement au même groupe étudiant de Yale, la fameuse société « Skull & Bones », dont les Bush ont fait partie et qui semble être le noyau dur, dont sont issus les dirigeants américains actuels. La gauche ne tient pas un raisonnement géopolitique mais « moraliste ». Or on ne riposte pas à une agression militaire, permanente et planétaire, par des déclarations moralisantes. Elles ont toujours eu, ont et auront un effet nul.

L’anti-bushisme se borne à ridiculiser le Président américain, à dire qu’il est un « idiot », alors que la démarche impériale qu’il poursuit a été jusqu’ici couronnée de succès. Certes, c’est au détriment de l’Europe, de la Russie et du nationalisme arabe laïc, mais, objectivement, cette stratégie, assortie de culot et d’audace, foulant aux pieds le droit international, paie. Les lamentations ne servent donc à rien et l’anti-bushisme à la Michael Moore n’est finalement qu’une dérivation, qui sert à dire : « Voyez, nous sommes réellement démocrates, nous tolérons la critique, nous admettons que l’on soit outrancièrement irrévérencieux à l’égard du Président ». Pendant ce temps, les chars tirent sur Bagdad, les grandes entreprises logistiques comme Halliburton entrent en action, les satellites espions ne cessent pas de fonctionner.

12. Les mouvements d’extrême-gauche sont aussi souvent très anti-américains. Que pensez-vous de leurs thèses?

Les mouvements d’extrême-gauche devraient se livrer à un petit travail d’anamnèse. La gauche extrême, qui existe aujourd’hui, est l’héritière de ceux qui scandaient, en Allemagne et à Paris entre 1967 et 1969: « Ho Ho Ho Chi Minh!». Or cet homme politique vietnamien, qui a dégagé son pays des tutelles japonaise, française et américaine, a d’abord négocié avec Washington dans le dos des Français, immédiatement après la seconde guerre mondiale. Ho Chi Minh a d’abord été un agent américain, avant de devenir un ennemi de Washington dans le Sud-Est asiatique. Après le départ des troupes américaines en 1975, les relations américano-vietnamiennes se sont rapidement « normalisées », prouvant que, malgré l’horreur de la guerre du Vietnam (bombardements sur Hanoï, défoliation des forêts tropicales indochinoises par l’agent orange, etc.), des passerelles entre les deux pays existaient, tout comme d’ailleurs, entre la Chine de Mao et les Etats-Unis, notamment par l’intermédiaire de brillants journalistes sinologues.

Ce qui caractérise les diverses extrêmes gauches, c’est l’absence de rétrospective historique, c’est l’amnésie, c’est une propension agaçante à raisonner en termes figés, à ériger des mythologies propagandistes au rang de vérités historiques. J’ai toujours trouvé de bonnes analyses factuelles dans les publications et chez les auteurs dits d’« extrême gauche », mais les conclusions étaient trop souvent erronées, car elles partaient de raisonnements détachés du flux de l’histoire, lequel ne s’arrête pas. On a assisté plus d’une fois à des débats stériles pour tenter d’interpréter les nouvelles donnes qui surgissaient sur l’échiquier international. Je me rappelle surtout des discussions sans fin (et sans objet) au moment du rapprochement sino-soviétique en 1972, puis, dans la foulée, entre partisans du Vietnam devenu entièrement communiste et partisans du Cambodge de Pol Pot. Tout cela a fini par lasser le public. L’extrême gauche relève donc, le plus souvent, d’un rituel sans impact politique réel. Tout comme l’extrême droite d’ailleurs, qui cultive d’autres fantasmes.

Aujourd’hui, les thèses les plus intéressantes débattues dans le petit espace de l’extrême gauche internationale sont indubitablement celles de Noam Chomsky. L’analyse géopolitique n’y est pas clairement énoncée. L’option moraliste et internationaliste de ce corpus ne permet pas d’incarnation politique réelle, puisqu’elle entend se situer au-delà des Etats nationaux, tout en admettant que les nations du tiers-monde, mais elles seules, ont un droit à l’auto-détermination. L’Europe est généralement assimilée, ni plus ni moins, au camp « impérialiste », alors qu’elle est sous tutelle et ne dispose d’aucune marge de manœuvre réelle! Tous les faits énoncés par Chomsky, Chossudovsky, etc. doivent être inclus et assimilés dans les analyses géopolitiques classiques, qui se hissent bien évidemment au-dessus des étiquettes et clivages idéologiques. La fusion des deux corpus pourrait donner à terme un outil politique efficace. Quant à l’altermondialisme, je le répète, il ne peut se laisser piéger par le leurre qu’on lui agite sous le nez, à savoir cette idée de « réseaux » sans ancrage territorial.

13. Quelle est votre opinion sur la Guerre Froide? A-t-elle été une mascarade et, si oui, pourquoi les Etats-Unis ont-ils poussé à la chute de l’URSS?

La Guerre Froide est un répit. Il s’agissait d’assiéger, de « contenir » l’URSS, soit, dans le langage du géopolitologue britannique Mackinder, de coincer la puissance maîtresse du « Heartland » continental, de l’enserrer dans un jeu d’alliances, dont les maillons se situent sur l’ « anneau extérieur littoral », afin qu’elle ne puisse conquérir cette frange périphérique et maritime du vaste continent eurasien. Auparavant, il s’était agi d’utiliser les forces du « Heartland » pour harceler les puissances organisatrices de la « Forteresse Europe », dont l’Allemagne, pièce géographique centrale de la « Zwischeneuropa », et du Japon, organisateur de la « sphère de coprospérité est-asiatique ». Les Etats-Unis, ont bien assimilé la dialectique théorisée par Mackinder pour affaiblir toutes les puissances d’Eurasie. Après les ennemis principaux, Allemands et Japonais, il fallait mettre hors jeu l’allié principal, le « spadassin continental » soviétique (« kontinentaler Haudegen », dixit Ernst von Reventlow). Pour y parvenir, il fallait organiser le « containment », l’encerclement de l’ancien allié, maître de la « Terre du Milieu », en organisant sur les « franges continentales » (ou « rimlands »), des systèmes d’alliance, tels l’OTAN, l’OTASE, le CENTO, etc. L’objectif était évidemment d’éviter tout rapprochement germano-soviétique, ou euro-soviétique, après 1945. Le terme « mascarade » ne me paraît dès lors pas adéquat. La Guerre Froide est la suite logique des deux premières guerres mondiales. L’intention des puissances thalassocratiques anglo-saxonnes a toujours été, depuis les préludes de la Guerre de Crimée au 19ième siècle, de détruire la puissance russe, de la faire imploser. En 1941, après la défaite de la France, l’Allemagne est le danger primordial. Il faut dès lors la détruire en utilisant le potentiel militaire et démographique de la seconde puissance du continent: en l’occurrence, l’URSS de Staline. Une fois le danger allemand écarté, on passe à l’étape suivante: détruire la Russie. Le même scénario s’observe au Moyen-Orient, où les Etats-Unis ont armé Saddam Hussein contre l’Iran, puis désigné l’Irak comme ennemi du genre humain, pour qu’il ne puisse exercer aucun contrôle de type hégémonique dans la région. Après 1945, la France, alliée, est évincée de ses positions extra-européennes en Indochine, avec la complicité des Etats-Unis, qui se retournent ensuite contre leurs alliés communistes vietnamiens du départ. La dernière phase consiste à organiser des « abcès de fixation » sur les franges extérieures de la Fédération de Russie, aux frontières déjà complètement démembrées depuis la chute de l’Union Soviétique. L’imbroglio tchétchène, qui s’étend à l’Ingouchie, à l’Ossétie et au Daghestan, en est un exemple d’école. Ces processus n’étonnent que ceux qui prennent les vérités de propagande anti-hitlériennes, anti-staliniennes, anti-nasseriennes, anti-irakiennes pour des faits objectifs et imaginent que les services américains croient à leur propre propagande: en fait, ils ne font que manipuler un discours, qu’ils savent parfaitement construit et amplifié par les grands médias internationaux, undiscours qui sert à réaliser des buts géopolitiques, définis depuis des décennies sinon des siècles.

14. Comment voyez-vous l’évolution des Etats-Unis au cours de ces prochaines années?

Je ne possède pas de boule de cristal, me permettant de voir l’avenir. La seule chose que l’on puisse dire avec suffisamment de certitude, au vu de l’évolution actuelle de la situation internationale, c’est que les Etats-Unis cherchent, au Moyen-Orient et en Afrique Noire, à s’emparer du maximum de ressources pétrolières, de gagner la bataille des énergies pour conserver les rentes que leur offre le pétrole, afin de les investir dans les recherches de haute technologie. Ainsi, les Etats-Unis pourront forger les armes et les technologies satellitaires qui leur permettront de conserver leur leadership pendant un siècle ou deux. Ils s’assureront une domination très confortable sur les autres et pérenniseront leur puissance. Je me méfie des discours récurrents, qui apparaissent dans les médias et qui prévoient le déclin imminent des Etats-Unis.

15. Pourquoi les atlantistes en Europe, mais aussi aux Etats-Unis ne militent-ils pas pour la création des Etats-Unis d’Occident, comme le suggère « Xavier de C*** » dans son livre « L’Edit de Caracalla ou plaidoyer pour des Etats-Unis d’Occident », paru chez Fayard en 2002?

Les atlantistes européens sont des internationalistes qui croient à la propagande de Washington. Mais les vrais détenteurs du pouvoir américain, qui orchestrent cette propagande « mondialiste » ne le sont que d’une certaine façon. Ils croient à l’ancrage américain. Imaginez la situation qui émergerait, si l’Europe votait toujours pour des pacifistes ou si son poids démographique contribuait à faire élire exclusivement des présidents européens, qui feraient une géopolitique européenne et non plus américaine. Les programmes géopolitiques américains, définis depuis si longtemps, ne pourraient plus être mis en œuvre. L’écoumène atlantiste ne serait plus américanocentré. Le protestantisme puritain deviendrait minoritaire, sous le poids du catholicisme européen et latino-américain. Ce « Xavier de C***»  ignore que le moteur religieux de l’américanisme est ce protestantisme dissident, puritain et fanatique des « Founding Fathers ». Son projet « caracallien »  minorise ipso facto ce puritanisme, donc fait perdre à l’Amérique sa spécificité fondatrice. C’est un projet d’atlantiste européen naïf et non pas un projet puritain-américain réaliste, car un tel projet n’imaginerait pas une fusion globale où il ne serait plus qu’un facteur périphérique et marginalisé.

samedi, 27 février 2010

Entrevista al ex-ministro iraqui del petroleo Issam al-Chalabi

Entrevista al ex-ministro iraquí del petróleo Issam al-Chalabi

“La UE está tirando millones de euros a la basura en proyectos imaginarios”

En el informe de mayo de 2001, titulado “Cheney Energy Task Force”, el ex vicepresidente estadounidense Dick Cheney, explicó abiertamente que el objetivo de la política estadounidense en Iraq, era “[…] abrir áreas del sector energético iraquí a la inversión extranjera”. Una nueva ley del petróleo, propuesta por el gobierno estadounidense y las grandes compañías petroleras, sería el marco “legal” para la venta del petróleo iraquí.

Sin embargo, a pesar de los siete años de ocupación no han conseguido la aprobación de una nueva ley del petróleo. El régimen clientelista iraquí la aprobó, pero no el Parlamento. Pero ni al consejo de gobierno ni a las grandes compañías parece preocuparles por lo que han decidido seguir adelante con dos ventas públicas llevadas a cabo en junio y diciembre de 2009. La mayoría de las reservas confirmadas de Iraq fueron regaladas en forma de contratos de servicio a las compañías extranjeras debilitando y menospreciando de este modo el papel de la nación, que antes de 1972 se había fortalecido gracias a los decretos de nacionalización de las compañías extranjeras del petróleo.


Sigyn Meyer [P]: ¿Podría por favor, comentarnos los resultados de estos acuerdos y la naturaleza de los contratos que firmaron? La duración de los mismos parece un término excesivamente largo, de 20 a 25 años, para contratos de servicios técnicos.

Issam al-Chalabi [R]: Los contratos no se han dado a conocer ni siquiera al Parlamento iraquí, por lo que los detalles exactos se desconocen, no obstante se sabe que su duración es de 20 años, ampliable a otros cinco más. A pesar de que la denominación de los contratos es de “servicios” muchos lo dudamos. Hay un refrán que dice: “el demonio se oculta en los detalles”. Iraq, ciertamente perderá su capacidad para tomar decisiones acordes a los intereses nacionales.

[P]: ¿Qué nos puede decir sobre la legalidad y la transparencia de esos contratos? Parece que al menos el contrato de Rumaila ha sido impugnado ante los tribunales.

[R]: Desde que el actual gobierno fue incapaz de aprobar el proyecto de ley sobre petróleo y gas —debido a las diferencias con el gobierno regional del Kurdistán— decidió dar un paso más al declarar que podrían basar su política en anteriores leyes aprobadas en las décadas anteriores. Esas leyes especifican con términos muy claros que el desarrollo de las fuentes del petróleo se ha de realizar mediante la puesta en práctica de una política nacional, lo que significa que es la nación la que tiene que poner los medios y si fuera necesaria la intervención de una entidad extranjera, eso se haría estudiando caso por caso, mediante una ley que regularía específicamente cada caso. Eso está determinado por la ley 97 de 1967, en base a la cual se firmaron algunos contratos en 1968 y a principio de la década de 1970. Esta y otras leyes siguen en vigor, según el artículo 130 de la nueva constitución aprobada en 2005, la cual estipula que, a menos que se enmienden o deroguen, todas las leyes anteriores siguen en vigor. Sin embargo, el actual gobierno está saltándose el Parlamento y firmando contratos tras el acuerdo del gobierno, por lo tanto, todos esos contratos son ciertamente ilegales.

[P]: ¿Cuál es la relación entre el gobierno central y el gobierno regional del Kurdistán. Ellos afirman que les pertenece el petróleo de “su” parte de Iraq y por ello firman sus propios contratos de petróleo. Además se han producido escándalos como el de Peter Galbraith, que en Suecia ha pasado desapercibido casi por completo. ¿Puede darnos su opinión al respecto?

[R]: De acuerdo a todas las leyes en vigor, el petróleo y el gas de Iraq pertenecen a todos los iraquíes y puesto que el Parlamento central representa a los iraquíes y a falta de la nueva ley de petróleo y gas, esto significa que el Ministerio del Petróleo está autorizado para gestionar los asuntos del petróleo, por lo que las reivindicaciones y los actos del gobierno regional del Kurdistán y todos los acuerdos y contratos firmados por ellos son completamente ilegales. Por este mismo motivo, todas las compañías que firmaron acuerdos con el gobierno regional del Kurdistán, como la DNO de Noruega, son completamente responsables y tendrán que asumir las consecuencias.

Ha quedado demostrado que Peter Galbrith, ex embajador estadounidense y asesor del gobierno regional del Kurdistán, quien jugó un papel esencial en la formulación de la constitución de 2005 y más tarde en la redacción del proyecto de ley de petróleo y gas (sin aprobar todavía), recibió al menos un 5% del contrato firmado por la DNO. Actualmente el asunto está siendo investigado por los tribunales. En este asunto también han aparecido nombres de algunos altos cargos del gobierno regional kurdo.

[P]: El gobierno iraquí y las empresas hablan sobre una fabulosa producción de petróleo y que las exportaciones aumentarán en muy poco tiempo. Usted que conoce bien las infraestructuras petroleras de Iraq, ¿qué opina de estas afirmaciones?

[R]: El ministro de Petróleo habla sobre el incremento de la producción hasta alrededor de los 12 millones de barriles al día, pero admite que no se espera que Iraq exporte tanto puesto que el mercado no absorberá tales incrementos. Por tanto, para empezar, Iraq tendrá que pagar a las compañías por el coste de la capacidad adicional de seis millones de barriles al día que no se pueden utilizar y eso dando por sentado que Iraq pueda exportar los otros seis millones de barriles al día.

Muchos expertos iraquíes, entre ellos altos cargos del ministerio dudan de la capacidad de esos campos de petróleo para alcanzar los aumentos prometidos.

Voy a poner un ejemplo: Iraq actualmente produce alrededor de un millón de barriles de petróleo de los campos de petróleo del sur y del norte de Rumaila y en las ofertas y en las concesiones el Ministerio no espera que la producción supere los 1,7 millones de barriles al día como máximo de su capacidad sostenible. Las compañías adjudicatarias, la BP de Reino Unido y la CNPC de China, se comprometieron a 2,85 millones de barriles al día, cifra similar a la producción de otros campos adjudicados. Otra cuestión es que esas compañías se comprometen a incrementar la producción actual en un 10 por ciento (alrededor de 2,4 millones de barriles al día en 2009), por lo que no se espera un gran incremento de la producción hasta dentro de seis o siete años como poco. Además, Iraq es incapaz de llevar su capacidad exportadora hasta los 12 millones de barriles al día. Actualmente la cifra está en 1,5 millones de barriles exportados a través del Golfo en el Sur y en 700 millones de barriles exportados a través de Turquía.

[P]: Halliburton, KEB y otras compañías estadounidenses, conocidas por su corrupción y precios inflados, participan en la carrera por conseguir la bonanza del petróleo iraquí. Estos que se benefician de la guerra, y que ya han ganado fortunas en Iraq, ahora obtendrán nuevas fortunas con la reconstrucción. Ni siquiera parece que tengan que negociar porque obtienen subcontratas de las compañías petroleras. Se introducen subrepticiamente en ellas. ¿Qué opina sobre esto y quién va a pagar esas fabulosas sumas?

[R]: Todos los gastos en los que incurran las compañías petroleras serán pagados por Iraq, empezando por el día en el que las compañías petroleras alcancen el 10 por ciento. Sí, ciertamente las compañías petroleras insisten en contratar servicios a un precio muy superior al normal en función del tiempo y de las capacidades mencionadas, cuando Iraq lo podría hacer mucho más barato aunque la verdad es que tardaría más tiempo, pero como he dicho antes la mayoría de los [supuestos] incrementos adicionales serán nulos.

[P]: Europa también ha puesto los ojos en Iraq. “Iraq representa un nexo fundamental para la seguridad energética” ha dicho Andris Piebalgs, comisario para la energía de la Unión Europea, quien en enero firmó con Hussain al-Shahristani, actual ministro del petróleo iraquí, el memorando de entendimiento en Bagdad. Iraq, con las terceras reservas de petróleo del mundo, ya es un importante proveedor de petróleo y puede convertirse en un proveedor clave de gas para el corredor Sur, afirmó Piebalgs. David Cameron, el líder británico tory, afirmó recientemente en Chatham House que “[…] la OTAN, tiene que desarrollar, de forma ideológica y práctica, los conceptos de solidaridad y asistencia mutua en el contexto de la amenaza a la seguridad energética como parte de la operación de apuntalamiento de la seguridad [energética] colectiva en el siglo XXI”. Sin embargo, no se muestran tan entusiastas cuando se trata de condenar criminales de guerra. ¿Cómo ve usted el papel de la Unión Europea en Iraq?

[R]: Es muy poco práctico decir que el gas iraquí llegará a Europa. El último acuerdo entre la Unión Europea e Iraq no se llevará a cabo sencillamente porque no hay suficiente gas en Iraq y el que está disponible apenas es suficiente para el consumo local en Iraq. La Unión Europea está tirando a la basura millones de euros en proyectos imaginarios y empleando decenas de miles en sus agencias sin ver el beneficio real para los europeos cuyo dinero y cuyos impuestos se están despilfarrando. La Unión europea sigue las políticas estadunidenses en el mundo, lo que incluye Iraq y Afganistán.

[P]: Recientemente Irán envió soldados para ocupar el campo de petróleo de Fakka en el lado iraquí de la frontera con Irán, ¿qué opina al respecto?

[R]: Los iraníes afirman que las fronteras no están claramente definidas, lo que es absolutamente falso. Las fronteras se definieron en el Acuerdo de Argel de 1975 y según éste, las fronteras se definieron en los mapas y en el memorando de acuerdo final, que incluía especificaciones de los límites y los ministros de exteriores firmaron las coordenadas de cada uno de los límites establecidos. Fueron los iraníes quienes depositaron las copias de esos acuerdos, en inglés y en francés, en la sede de Naciones Unidas en 1976.

Los iraníes ocuparon el pozo número cuatro y tras multitudinarias manifestaciones contra los actuales dirigentes iraquíes conocidos por su lealtad a Irán, éste último retiró a los soldados del pozo pero los dejó dentro de las fronteras iraquíes. Este campo de petróleo es totalmente iraquí y está dentro de las fronteras iraquíes. Este es un ejemplo de las intenciones de Irán y de la interferencia de Irán en asuntos iraquíes.

[P]: Una gran publicación industrial sueca, “Dagens industria”, afirmó el 15 de enero que “Iraq destaca entre los países productores”. Los contratos han sido ejemplares porque predicen que puede ser posible producir mucho más petróleo de lo que puedan bajar los precios, al menos durante un par de años. “Quienes creen en una carencia de petróleo en los próximos diez años, tienen desde luego que asegurarse el suministro”.

[R]: Como he explicado antes, hay dudas legítimas sobre la posibilidad de que Iraq alcance tales niveles de producción, y eso sin tener en cuenta su capacidad para exportar. No podemos predecir correctamente los precios del petróleo mañana por lo tanto, ¡cómo hacerlo para los próximos siete años! Todas las declaraciones de las compañías internacionales de petróleo son engaños para el público y para justificar sus propios gastos y beneficios.

[P]: El mundo entero tiene puestos los ojos en el petróleo iraquí. Hay una lucha feroz en marcha, no solo Estados Unidos y las empresas occidentales compiten, sino que además algún Estado y algunas empresas privadas de países emergentes, como China, con importancia creciente importancia en el mundo de los negocios y con creciente necesidad energética. ¿Cuál es su consideración al respecto?

[R]: Lo que es importante para Estados Unidos, y para el libre comercio, es despojar a los pueblos y a las empresas nacionales petroleras el control sobre el petróleo y lo que no es tan importante es qué empresa internacional en concreto lo controla porque todas tienen los mismos objetivos. Además, parece que todo el mundo lucha por su trozo de pastel.

Sigyn Meder

Traducido por Paloma Valverde, extraído de Rebelión.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 21, 2010.

dimanche, 14 février 2010

Démocratie sous tutelle: entretien avec Paul Piccone

piccone.jpgArchives de Synergies Européennes - 1995

 

Démocratie sous tutelle

 

Entretien avec Paul Piccone, directeur de «Telos» (New York)

 

Dans les années 60, la plus importante des revues culturelles américaines, Telos, éditée à New York, crée le phénomène de la «Nouvelle Gauche» et ouvre la voie à la “contestation permanente” de 1968, en important aux Etats-Unis la pensée critique de l'Ecole de Francfort, d'Adorno et de Marcuse. Mais aujourd'hui, étonnant signe des temps: Telos  diffuse désormais la pensée de Carl Schmitt aux Etats-Unis, avec l'intention bien profilée de donnée une “épine dorsale” aux New Republicans, qu'on appelle aussi la New Right aux Etats-Unis. L'un des directeurs de Telos  est Paul Piccone, philosophe du politique, Italo-Américain de tempérament volcanique que j'ai rencontré lors d'un colloque à Pérouse. Il m'a parlé avec beaucoup d'enthousiasme de Gianfranco Miglio, le politologue qui a introduit Schmitt en Italie. «L'alliance entre Fini et Miglio», m'a dit Piccone, «est la véritable nouveauté, une nouveauté surpre­nante, dans votre pays. C'est le présidentialisme plus le fédéralisme. C'est l'Etat fort mais “petit”, assorti des libertés locales, des autonomies culturelles, de l'articulation des différences. C'est ce que tentent de réaliser les néo-conservateurs aux Etats-Unis».

 

Q.: Mais, cher Professeur, je vous demande un instant... Je voudrais que vous m'expliquiez comment vous êtes passé d'Adorno à Schmitt, de la nouvelle gauche à la nouvelle droite...

 

PP: Je vous dirais tout simplement que la première chose à se mettre en tête, c'est que la dichotomie gauche/droite est désormais dépassée. Aujourd'hui, le conflit politique ne passe plus par ces catégories, mais par d'autres: nous avons et nous aurons d'autres clivages: les populistes (les partisans du peuple) contre la nouvelle classe des technocrates, la démocratie contre la radicalisation de l'idéologie des Lumières.

 

Q.: Je crains de ne pas comprendre: votre populisme, c'est donc la droite; et la “nouvelle classe”, c'est la nouvelle gauche, “radicale-chic”...

 

PP: Il faut commencer par s'ôter de la tête l'idée fausse du populisme qu'a bricolée la gauche; quand elle parle de populisme, elle imagine des foules de paysans du Middle West, ignorants et armés de fourches, qui s'en vont lyncher des Noirs et molester des Juifs. Cette imagerie sert la nouvelle classe; en la manipu­lant, elle défend son pouvoir. La démocratie, pour la “nouvelle classe”, constitue un danger: parce que, pour elle, le peuple, source originelle de la souveraineté, est aussi le réceptacle d'une irrationalité invin­cible. De ce fait, le peuple a besoin de dirigeants sages et éclairés qui disent et manient les “règles” for­melles de la démocratie. Mais la démocratie représentative en vient à représenter de moins en moins les besoins de la vie réelle des gens, et de plus en plus des techniques formelles. Et sur ce champ technico-formel, seuls sont autorisés à intervenir les avocats, les bureaucrates, les intellectuels. De fait, cette conception est bien celle du progressisme de ce siècle, depuis le marxisme réel jusqu'à la sociale-démo­cratie et au Parti Démocrate américain; tous sont les versions différentes d'un centralisme bureaucra­tique qui essaie par tous les moyens de justifier son existence et de se légitimer politiquement. C'est ainsi que fonctionne le puissant appareil administratif-redistributif qui corrige les différences créées par le mar­ché. Finalement, la vie réelle du peuple, avec son organicité et son patrimoine d'expériences collectives, en vient à être entièrement dominée par un seul et unique héritage culturel, celui des Lumières qui se pro­clame frauduleusement seul “rationnel”, seul “universel(lement valable)”. Et prétend protéger le peuple contre lui-même. Les néo-républicains américains s'opposent à cette mythologie; leur lutte prend la forme d'une lutte contre la bureaucratie étatique omniprésente, qui empêche les communautés particulières de vivre comme elles l'entendent.

 

Q.: C'est donc un phénomène très américain...

 

TELOS142_MED.gifPP: C'est vrai. Très américain au sens le plus profond du terme. La démocratie américaine, en effet, a été fondée par des fanatiques religieux  —les pères pélerins du Mayflower—  qui ont fui l'Europe pour pouvoir conserver leur liberté d'être des fanatiques. Ils ont donc créé un système de liberté, où tous ont le loisir d'être fanatiques sans être troublés par personne; et spécialement sans être dérangés par les héritiers de la “démocratie jacobine” de la Révolution Française, qui prétendent imposer à chacun, au nom de la Raison, un catalogue bien délimité de valeurs auxquelles nous sommes tous priés de nous adapter. Mais je ne crois pas que cela soit un phénomène exclusivement américain: parce qu'aujourd'hui la Raison des Lumières, qui au fil des décennies s'est faite Etat, menace tout le monde. Au fait, a-t-on arrêté la Madonne en Italie?

 

Q.: Vous voulez dire la Madonne de Civitavecchia, celle qui pleure des larmes de sang? Les juges, en effet, l'ont mise sous sequestre car ils suspectaient une super­cherie, ils ont cru que l'on abusait de la crédulité populaire...

 

PP:  A qui le dites-vous... Je ne sais pas si la Madonne pleure pour du vrai, mais ce qui m'importe, moi, c'est que ceux qui y croient sont libres d'y croire sans que l'autorité de l'Etat n'ait à s'y immiscer pour dé­cider si oui ou non ces larmes de sang sont une tromperie qui abuse de la crédulité populaire. Cet incident devrait vous montrer à quoi se réduit la démocratie formelle... Elle n'est plus que l'expression d'une classe de “protecteurs” qui protègent l'ensemble des citoyens jugés incapables de se gouverner eux-mêmes. La démocratie représentative est périmée et s'est muée en une démocratie radicale (qui se dit “libérale” dans le monde anglo-saxon), où les choix démocratiques sont réduits et réservés à ce qui est parfaitement insignifiant. Déjà l'Ecole de Francfort avait démasqué cette fraude. Mon évolution de la nou­velle gauche à la nouvelle droite s'explique par une fidélité à cette démarche démasquante.

 

Q.: Mais cette démarche était de gauche...

 

PP: Si vous voulez. L'Ecole de Francfort, et tout spécialement Adorno, dans sa Critique de l'Aufklärung, nous ont expliqué comment la “rationalité instrumentale”, absoluisée, finit par exclure comme “irrationnels” tous les réflexes vitaux des gens normaux pour qui vivre est plus important que penser. La démocratie des Lumières, qui est une démocratie représentative, n'offre qu'une représentation appauvrie de la vie politique. Ce qui nous ramène au phénomène dont nous subissons aujourd'hui les effets néga­tifs: les démocraties deviennent ingouvernables, les masses sont devenues abstentionnistes, c'est le règne des intérêts particuliers. La démocratie a sombré dans le radicalisme démocratique qui rend tout gouvernement impossible.

 

Q.: Que peut-on faire pour s'y opposer?

 

PP: Il faut récupérer à notre profit la pensée de Carl Schmitt. Parce que Carl Schmitt a théorisé la contra­diction fondamentale entre ce “radicalisme libéral” (issu des Lumières) et la démocratie. Schmitt a amorcé une critique démocratique de la démocratie libérale issue des Lumières et nous a montré combien il était nécessaire de surmonter les formalismes, les “règles”, afin de restaurer les liens entre gouvernants et gouvernés, sans lesquels la démocratie n'a pas de sens.

 

Q.: Mais cette démocratie schmittienne n'est-elle pas la fameuse démocratie plébis­citaire, portée à bout de bras par un homme providentiel?

 

PP: C'est cela le nouveau populisme. Il doit conduire à l'émergence d'une politique populiste, faite par le peuple et pour le peuple. Cette politique ne sera plus l'œuvre d'une caste de professionnels, mais par des membres effectifs d'une communauté déterminée, qui font de la politique pour exprimer directement les exigences et les besoins expérimentés dans la vie quotidienne, la leur et celle de leurs électeurs.

 

Q.: Comment décririez-vous l'expérience Berlusconi?

 

PP: Berlusconi est le moindre mal, parce qu'il n'y a pas autre chose pour l'instant. Mais Berlusconi n'a pas de programme, pas de “vision”. C'est l'axe Fini-Miglio qui me semble aujourd'hui plus prometteur en Italie. A deux, ils peuvent jeter les bases d'une démocratie populiste en Italie.

 

(propos recueillis par Maurizio BLONDET; entretien paru dans Pagine Libere, Rome, juin 1995).

dimanche, 10 janvier 2010

Entretien exclusif avec A. Soljenitsyne

180px-Solzhenitsyn.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Entretien exclusif avec Alexandre SOLJENITSYNE

 

propos recueillis par Wolfgang STRAUSS

 

Depuis novembre 1987, une complicité spirituelle lie le Prix Nobel de littérature Alexandre Soljénitsyne, en exil à Cavendish (Vermont, USA), et notre camarade Wolfgang Strauss, collaborateur des revues Europa Vorn, Staatsbriefe  et, pour les traductions françaises, de Vouloir. Cette amitié s'est scellée par une intense correspondance entre les deux hommes. Les propos ci-dessous ont été recueillis avant les événements d'août.

 

Q.: Le peuple allemand est enfin réunifié. Prenez-vous part aux événements qui se déroulent en Allemagne?

 

AS: Oui, évidemment. Car pour moi, vous ê­tes un important intermédiaire. Avant déjà, je lisais vos articles et vos recensions: un éditeur allemand me les envoyait. Lorsque je les lisais, j'étais surpris par la précision de vos connais­san­ces en histoire russe. Mais maintenant que je sais que vous avez séjourné dans l'Archipel Gou­lag, je comprends.

 

Q.: Les Allemands dans leur majorité aujourd'hui sont russophiles; ils se solidarisent avec le combat russe pour la liberté, pour la renaissance de la Russie, dont vous êtes le représentant, tant sur le plan politique que sur le plan spirituel. Mais, malheureusement, les informations que nous recevons sont rares et lacunaires.

 

AS: Bien sûr, vous avez appris personnel­le­ment à connaître la Russie et vous savez beau­coup de choses qu'il est difficile d'expli­quer à vos compatriotes. Ne perdez pas cou­ra­ge, gardez votre énergie, poursuivez vos efforts.

 

Q.: Au vu de la décadence dominante, quelles sont, à votre avis, les chances d'un renouveau spirituel et éthique chez les Russes et les Allemands?

 

AS: Oh, le chemin sera long avant que les peuples de Russie et de notre communauté ne recouvrent la santé morale. L'Allemagne, elle aussi, se trouve dans une triste situation, une situation pathologique, et peu de temps nous res­te pour retrouver la voie de la convales­cen­ce et de la guérison.

 

Q.: Quelle est votre tâche principale, aujourd'hui?

 

AS: Depuis six ans déjà, je ne réponds plus aux questions que me posent les médias occi­den­taux. Mon devoir, c'est d'écrire des livres. Et ce qui me reste à faire est titanesque. 

dimanche, 03 janvier 2010

Entrevista sovre uma das divisoes infantis do nacionalismo europeu

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Entrevista sobre uma das divisões infantis do nacionalismo europeu

by Rodrigo

Já não deposita esperança, como antes ou como alguns “nacional-revolucionários”, no mundo árabe-muçulmano?

Todas as tentativas anteriores de criar um eixo ou uma concertação entre os dissidentes construtivos da Europa manipulada e os parceiros do mundo árabe considerados “Estados-Pária” saldaram-se por falhanços. Os colóquios líbios da “Terceira Teoria Universal” deixaram de existir aquando da aproximação entre Khadaffi e os Estados Unidos e desde que o líder líbio adoptou políticas anti-europeias, nomeadamente participando recentemente no mobbing (mobilização mediática para fazer pressão política) contra a Suíça, um mobbing em curso desde há uns bons 10 anos e que encontrou novo pretexto para continuar depois da famosa votação sobre os minaretes.

O líder nacionalista Nasser desapareceu para ser substituído por Sadat e depois por Moubarak, que são aliados muito preciosos dos EUA. A Síria participou na perseguição ao Iraque, última potencia nacional árabe, eliminada em 2003, apesar do efémero e frágil eixo entre Paris, Berlim e Moscovo. As crispações fundamentalistas declaram guerra ao Ocidente sem fazer distinção entre a Europa manipulada e o Hegemon americano, com o seu apêndice israelita. Os fundamentalistas opõem-se aos nossos modos de vida tradicionais e isso é inaceitável, como são inaceitáveis todos os proselitismos do mesmo tipo: a noção de jahiliyah (idolatria a destruir) é para todos perigosa, subversiva e inaceitável; é ela que veicula esses fundamentalismos, logo à partida instrumentalizando contra os estados nacionais árabes, contra os resíduos de sincretismo otomano ou persa e depois por parte das diásporas muçulmanas na Europa contra todas as formas de politicas não fundamentalistas, nomeadamente contra as instituições dos Estados de acolhimento e contra os costumes tradicionais dos povos autóctones.

Uma aliança com estes fundamentalismos obrigar-nos-ia a renunciarmos ao que somos, do mesmo modo como exige o Hegemon americano, a exemplo do Grande Irmão do romance 1984 de Georges Orwell, exigem que rompamos com os recursos íntimos da nossa historia. O prémio Nobel da literatura Naipaul descreveu e denunciou perfeitamente este desvio na sua obra, evocando principalmente as situações que prevalecem na índia e na Indonésia. Neste arquipélago, o exemplo mais patente, aos seus olhos, é a vontade dos integristas de se vestirem segundo a moda saudita e imitar os costumes da península arábica, quando estas vestimentas e estes costumes eram diametralmente diferentes dos do arquipélago, onde há muito tempo reinava uma síntese feita de religiosidades autóctones e de hinduísmo, como atestam, por exemplo, as danças de Bali.

A ideologia inicial do Hegemon americano é também um puritanismo iconoclasta que rejeita as sínteses e os sincretismos da “Merry Old England” (1), do humanismo de Erasmo, do Renascimento Europeu e das políticas tradicionais da Europa. Neste sentido partilha bom número de denominadores comuns com os fundamentalismos islâmicos actuais. Os Estados Unidos, com o apoio financeiro dos Wahabitas sauditas, manipularam estes fundamentalismos contra Nasser no Egipto, contra o Xá do Irão (culpado de querer desenvolver a energia nuclear), contra o poder laico no Afeganistão ou contra Saddam Hussein, puxando provavelmente ao mesmo tempo alguns cordelinhos no assassinato do rei Faycol, “culpado” de querer aumentar o preço do petróleo e de se ter aliado, nesta óptica, ao Xá do Irão, como brilhantemente mostrou o geopolitólogo sueco, William Engdahl, especialista de geopolítica do petróleo. Acrescentemos de passagem que a actualidade mais recente confirma esta hipótese: o atentado contra a guarda republicana islâmica iraniana, os problemas ocorridos nas províncias iranianas com o fim de destabilizar o país, são obra de integrismos sunitas, manipulados pelos Estados Unidos e a Arábia Saudita contra o Irão de Ahmadinedjad, acusado de recuperar a política nuclear do Xá! O Irão respondeu apoiando os rebeldes zaiditas/xiitas do Yemen, retomando assim uma velha estratégia persa, anterior ao surgimento do Islão!

Os pequenos fantoches que se gabam de ser autênticos nacional-revolucionários e que se deleitam em todo o tipo de farsas pró-fundamentalistas são, na verdade, bufões alinhados por Washington por dois motivos estratégicos evidentes:

1- Criar a confusão no seio dos movimentos europeístas e fazê-los aderir aos esquemas binários disseminados pelas grandes agencias mediáticas americanas que orquestram por todo o mundo o formidável “soft power” de Washington;
2- Provar urbi et orbi que a aliança euro-islâmica (euro-fundamentalista) é a opção preconizada por “perigosos marginais”, por “terroristas potenciais”, pelos “inimigos da liberdade”, por “populistas fascizantes ou cripto-comunistas”.

Neste contexto encontramos também as redes ditas “anti-fascistas”, agitando-se contra fenómenos assimilados, mal ou bem, a uma ideologia política desaparecida desde há 65 anos. No teatro mediático, colocado em prática pelo “soft power” do Hegemon, temos, de uma parte, os idiotas nacional-revolucionários ou neo-fascistas europeus zombificados, mais ou menos convertidos a uma ou outra expressão do wahabismo e, de outra parte, os anti-fascistas caricaturais, largamente financiados com o propósito de mediatizar os primeiros (…).Todos têm o seu papel a desempenhar, mas o encenador é o mesmo e conduz a comédia com mestria. Tudo isto resulta num espectáculo delirante, apresentado pela grande imprensa, igualmente descerebrada.(…)

(…) Efectivamente, é forçoso constatar que o fundamentalismo judaico-sionista é igualmente nefasto ao espírito e ao politico quanto as suas contra-partes islamistas ou americano-puritanas. Todos, uns como outros, estão afastados do espírito antigo e renascentista da Europa, de Aristóteles, de Tito Lívio, de Pico della Mirandola, de Erasmo ou Justo Lipsio. Perante todas estas derivas, nós afirmamos, em alto e bom som, um “non possumus”!Europeus somos e europeus permaneceremos, sem nos disfarçarmos de beduínos, de founding fathers ou de sectários de Guch Emunim.

Não podemos classificar como anti-semita a rejeição desse pseudo-sionismo ultra-conservador que recapitula de maneira caricatural aquilo em que pensam políticos de aparência mais refinada, quer sejam likudistas ou trabalhistas, constrangidos a rejeitar os judaísmos mais fecundos para melhor desempenharem o seu papel no cenário do Próximo e Médio Oriente imaginado pelo Hegemon. O sionismo, ideologia inicialmente de facetas múltiplas, decaiu para não ser mais que o discurso de marionetas tão sinistras quanto os wahabitas. Todo o verdadeiro filo-semitismo humanista europeu mergulha, pelo contrário, em obras bem mais fascinantes: as de Raymond Aron, Henri Bergson, Ernst Kantorowicz, Hannah Arendt, Simone Weil, Walter Rathenau, para não citar mais que um pequeno punhado de pensadores e filósofos fecundos. Rejeitar os esquemas de perigosos simplificadores não é anti-semitismo, anti-americanismo primário ou islamofobia. Diga-se de uma vez por todas!

Excerto de uma entrevista a Robert Steuckers conduzida por Philippe Devos-Clairfontaine (Bruxelas, 7 de Dezembro de 2009)

dimanche, 06 décembre 2009

Entretien avec Pavel Toulaev

Russian_soldiers_on_the_Champs_Elysees_DSC03310.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Entretien avec Pavel Vladimirovitch Toulaev, Vice-Président de « Synergies Européennes » à Moscou

 

1. Pavel Vladimirovitch, comment vous présenteriez-vous à vos amis synergétistes d’Europe occidentale ?

 

PVT : Je m'appelle Pavel Vladimirovitch Toulaev et j'ai 39 ans. Russe et citoyen de la Russie, je réside à Moscou. De par ma formation, je suis traducteur-interprète en langue espagnole, anglaise et française et licencié en histoire ; par vocation je suis poète, philosophe et homme de lettres ; par profession, je suis professeur à l'Université linguistique d'Etat de Moscou ; par engagement social, je suis rédacteur scientifique et littéraire de la revue historique et culturelle Naslednié Predkov (Les legs des ancêtres). J'ai une cinquantaine de publications à mon actif sur la Russie, l'Espagne, l'Amérique latine et l'Amérique du Nord dans les genres les plus divers: des études scientifique aux visions mystiques. Parmi les plus significatives, je citerai: « Comprendre l'Entité russe », « Sept rayons », « La croix sur la Crimée », « La Révolution conservatrice en Espagne », « La Russie et l'Espagne s’ouvrent l'une à l'autre ». Parmi les livres sortis sous ma rédaction, je choisirais les recueils suivants: « La Russie et l'Europe: expérience d’une analyse à partir de l'idée de "sobornost " », « Le peuple et les intellectuels», « Perspective russe » et également « Philosophie posthistorique» par Vitalii Kovalev et « Comment l'ordre organise les guerres et les révolutions » par Antony Sutton.

 

2. Quelles sont les sources de votre mode de penser ?

 

PVT : Ma famille, mes amis et ma Patrie ont joué le rôle principal dans ma formation. Elevé dans les bonnes traditions russes et dans la famille d'un officier des services de renseignement pour l'étranger, j'ai reçu une éducation avec une forte orientation idéologique, fidèle aux principes du patriotisme, du socialisme soviétique et de la pratique sportive et culturelle au sein des organisations des pionniers et du Komsomol. Depuis l'enfance, j'ai eu l'occasion de beaucoup voyager. Né à Krasnodar, dans le sud ensoleillé de la Russie, j'ai passé ma jeunesse au bord de la mer Noire à Sotchi, j'ai été plus d'une fois dans la ville natale de mon père, Saint-Pétersbourg, et en Sibérie, pays natal de ma mère ; j'ai vécu en Autriche et en Australie, j'ai travaillé en Espagne et aux Etats-Unis. Mon expérience à l'étranger a considérablement influencé ma vision du monde, mais j'ai passé la plus grande partie de ma vie dans la capitale de la Russie. C'est surtout grâce à Moscou, avec ses traditions russophiles, orthodoxes et impériales, que j'ai atteint ma maturité.

La beauté et le mystère qui se manifestent dans la nature, dans l'érotisme et dans l'art ont aussi exercé une grande influence depuis toujours sur ma façon de penser. J'ai toujours considéré la création artistique et l'amour comme l'expression la plus naturelle du monde intérieur. Dans ma jeunesse je me suis appliqué à la peinture, j'ai été barde lorsque j'étais étudiant et j'ai vécu d'impressions musicales et théâtrales, j'ai écrit et exécuté moi-même des chansons. Après avoir adopté la foi orthodoxe, j'ai appris à chanter la messe. L'esthétique m'attire sous toutes ses formes et surtout sous sa forme musicale, qui n'a jamais cessé de m'envoûter véritablement. J'écoute régulièrement la musique classique de Bach et Tchaïkovski à Richard Strauss et Rachmaninov. J'aime également la musique populaire y compris l’occidentale par sa vitalité et son naturel.

 

3.Quels auteurs et quels livres vous ont marqué le plus dans votre jeunesse ?

 

PVT : Il est difficile d'opérer une sélection parmi les centaines d'auteurs et de livres que j'ai lus. Depuis l'enfance, j'ai avalé de tout selon de contes, des livres d'aventures, des romans policiers, des romans d'amour et des poésies. La première œuvre sérieuse dont je me rappelle est l'Odyssée d'Homère dans ma jeunesse, en dehors de ma passion pour la peinture et pour la musique, j'ai pris goût aux œuvres ayant trait aux beaux-arts aux musées et aux albums d'art.

 

Pendant les années universitaires sous l'influence de mon éducation soviétique, je me suis passionné pour le romantisme soviétique et le mouvement des partisans de l'époque. Une fois devenu boursier de thèse à l'Institut de lyrique latine de l'Académie des sciences de l'URSS, où je me suis spécialisé dans le Pérou, j'ai été enchanté par les travaux et la biographie de Che Guevara, de Fidel Castro, de Ho Chi Min, de José Carlos Mariategui, de Aya de la Torre, de Simon Bolivar et de José Marti. J'ai traduit et chanté les chansons de Victor Hara.

 

C'est au cours d’un stage de boursier de thèse que j'ai souhaité me familiariser avec les auteurs classiques russes de Pouchkine et Gogol, Tolstoï et Essenine, en dehors des œuvres de Marx, Hegel et Lénine, qu'il fallait obligatoirement lire à l'époque. Je me suis littéralement plongé dans leurs œuvres complètes pendant des semaines et des mois entiers dans les bibliothèques.

Dostoïevski m'a profondément secoué et ce sont surtout  Les Démons et Les frères Karamazov qui ont produit une grande impression sur moi. En lisant Dostoïevski, je me suis reconnu sans réfléchir... Ensuite cela a été le tour de Nikolaï Fedorov, utopiste l'excès, qui rêvait de redonner la vie tous nos ancêtres, une idée qui m'a stupéfié. En bon élève de la période soviétique, j'avais étudié l'histoire selon les principes du matérialisme historique et je me trouvais alors confronté à la résurrection des pères, aux racines aryennes, aux recherches de berceaux indo-européens, à la guerre pour Constantinople. En un mot, j'étais confronté à la contre-révolution. J'ai éprouvé un grand bonheur esthétique en lisant Nabokov. Sa langue somptueuse, veloutée et extraordinairement poétique, m'a charmé. Le roman surréaliste de Nabokov Le Don est un des meilleurs romans du XXième siècle.

 

tulaev.jpgParmi les philosophes, mon premier maître à penser a été Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Pendant mon stage de boursier de thèse, j'ai été obligé d'étudier Les cahiers philosophiques de Lénine qui contiennent beaucoup d'extraits de la philosophie classique allemande. Je n'en suis pas resté là. M'étant armé de patience, j'ai consacré plusieurs mois à l'étude en autodidacte de la dialectique de l’absolu. J'ai étudié L'Encyclopédie philosophique, La

science de la logique, L'éstétique et ensuite La philosophie de l'histoire, le résultat a surpassé toute attente car je suis devenu un idéaliste convaincu.

 

Platon, que j'ai aussi lu en entier, a suivi Hegel et j'ai même composé deux dialogues philosophiques en m'inspirant des siens. Aristote ne m'a pas vraiment captivé et, au lieu d'étudier la Métaphysique, j'ai relu les biographies philosophiques de Diogène Laërce, les poèmes d'Homère et des magnifiques traductions d'hymnes anciens. Les classiques orientaux ont également exercé une influence considérable sur moi: parmi eux  le « Rigveda »,  le « Mahabharata », Le chevalier dans la peau de tigre de Chota Roustavéli ainsi que la poésie lyrique dans l'esprit de Nizami et de Omar Khayyam. En général, j'ai une prédilection pour l'Orient à laquelle ont contribué le Précis d'Histoire mondial de Djavaharlal Nehru, mon engouement pour les livres et les tableaux de Nikolaï Roerich, mon intérêt scientifique pour l'lnde, la Chine et la Corée du Nord. L'Orient de l’époque classique m'a toujours inspiré un sentiment de respect profond et parfois même d'exaltation et de vive émotion.

 

Le Zarathoustra de Friedrich Nietzsche m'a beaucoup marqué. Je l'ai lu pour la première fois dans une édition d'avant la révolution (il n'y avait pas d'éditions soviétiques), par la suite, j'ai eu accès aux nouvelles traductions et j'ai lu avec inspiration La naissance de la tragédie et l’esprit de la musique, L'Antéchrist  et d'autres œuvres. C'est en partie sous l'influence de Nietzsche que j'ai créé la société littéraire moscovite « Prométhée » avec une orientation pour l'esthétique musicale, pour le « cosmos russe » et l'astronautique. C'était une étape importante de mon cheminement spirituel, où trouvèrent leur expression les recherches et les élans de ma jeunesse romantique.

 

4. Quels penseurs ont attiré votre attention dans la maturité ?

 

PVT : Parmi les auteurs occidentaux, ce sont Wagner, Schopenhauer, Heidegger, Camus, Dali, Ortega y Gasset qui m'ont captivé, ensuite Dante, Baltasar Gracian, Ignace de Loyola, Rafael Calvo Serrer (surtout sa Théorie de la Restauration), Escriva de Balaguer (Chemin) et aussi la grandiose poésie épique espagnole « El Cid », que j'ai étudiée dans le texte original. Après avoir travaillé à Séville pour l'Expo-92 et avoir fait connaissance avec des phalangistes, j'ai étudié les œuvres de José Antonio Primo de Rivera, j'ai écrit la brochure La révolution conservatrice en Espagne et l'essai biographique Franco - Caudillo de l'Espagne.

 

Peu à peu, j'ai commencé à préférer les penseurs russes. Encore dans les années soviétiques grâce aux recherches fondamentales du fondateur de l'école mythologique A.H. Afanasiev (son travail principal Les conceptions poétiques des Slaves sur la nature) et de l'académicien B. A. Rybakov (Le paganisme des anciens Slaves et Le paganisme de l'ancienne Russie), j'ai découvert le monde de l'antiquité slave et je me suis sérieusement intéressé aux racines aryennes de notre civilisation. C'est ainsi que mon intérêt profond pour le passé est né et que j'ai été amené à lire avec la plus grande attention l'ouvrage en plusieurs tomes l’Histoire de l'Etat russe par N. M. Karamzine, à cela ont suivi les œuvres choisies sur l'histoire russe de S. M. Soloviev et les conférences renommées de M. O. Klioutchevski. Dans cette période, je suis devenu militant de la Société panrusse de protection des monuments historiques et culturels.

 

Depuis le debut de la « perestroïka », j'ai essayé de lire tout ce qui était interdit auparavant et qui était désormais disponible: les livres des écrivains russes-blancs, les analyses des dissidents soviétiques sur le rôle des juifs et des francs-maçons. Je me suis abonné à une montagne de revues copieuses: Problèmes de philosophie,  Notre contemporain (Nach Sovremenik), Moscou, Science et religion et d'autres sans compter quelques journaux politiques d'orientation patriotique dans le genre du Messager russe (Russkii Vestnik) et de Jour (Dyeïnn). C'est avec difficulté que j'ai avalé cette avalanche d'informations où foisonnaient les scandales, les sujets à sensation et les nouvelles tragiques.

 

Après l'abolition de la censure et la libération totale de la presse, les classiques de la pensée russe ont commencé à être publiés en gros tirages: Vl. Soloviev, N. Berdiaev, P. Florenski, Illin, E. Troubetskoi, L. Tikhomirov, I. Solonevitch et d'autres. Ils sont tous des idéalistes orthodoxes de tendances différentes. Je ne peux affirmer avoir lu toutes leurs œuvres (il y en a des centaines), mais j'ai étudié sérieusement l'essentiel. Sous l'influence des philosophes orthodoxes, j'ai élaboré l'idée russe: la « sobornost », qui signifie la liberté hiérarchique et différenciée en Dieu.

C'est à cette époque que j'ai étudié la Bible et que j'ai lu plusieurs fois l'Evangile. L'Ancien Testament a produit sur moi une impression sombre et lors de la lecture du Nouveau Testament j'ai été particulièrement touché par l'Evangile de Saint-Jean et par l'Apocalypse. La Liturgie divine et l'expérience mystique du martyr aident sensiblement à la compréhension de la véritable Orthodoxie.

 

Sur le plan personnel c'est le père Dmitri Doudko, éminent pasteur moderne et chef spirituel reconnu de l'opposition nationale-patriotique qui m'a offert son aide. J'ai en effet eu l'occasion de réviser un recueil de ses sermons choisis.

 

Alexei Fedorovitch Lossev reste pour moi encore aujourd'hui le dieu de la philosophie. Il est en même temps philosophe, philologue, musicologue, écrivain, expert de l'antiquité. C'est en la personne de Lossev que la pensée russe a surpassé pour la première fois l'école allemande, réunissant en soi les théories les plus innovantes de la dialectique antique et classique, de la phénoménologie moderne, de la philosophie de l'histoire et de la linguistique. La conception de Lossev est complète ; et elle est aussi exquise ; sa compréhension seule offerte un plaisir esthétique. Les travaux de Lossev, que je préfère, sont : La dialectique du mythe, La mythologie des Grecs et des Romains, Le problème du symbole et l’art réaliste  et bien sûr, son oeuvre fondamentale Histoire de l'Esthétique de l'Antiquité. Lossev est encore inconnu en Occident mais, avec le temps, il occupera sans aucun doute la place qui lui revient dans l'Olympe intellectuel.

 

Dans le cadre de cet interview, il faut réserver une place à part au fameux livre de Nikolaï Yakovlevitch Danilevsky La Russie et l'Europe: Aperçu sur l’attitude culturelle et politique du monde slave vis-à-vis du monde romano-germanique, où l'on élabore pour la première fois, sur une base scientifique, la doctrine du « type slave du point de vue historico-culturel ». J'ai non seulement étudié soigneusement cette œuvre fondamentale qui a exercé en son temps une influence fondamentale sur Spengler et qui a suscité un débat animé dans le milieu intellectuel russe de la fin du XIXième et du début du XXième siècle, mais j'ai aussi étudié l'histoire du problème, j'ai tenu une conférence scientifique à ce sujet dans le cadre du programme de la société historico-religieuse « Sobor » que je dirige et j'ai publié la première anthologie de la philosophie russe de l'histoire, qui comprenait des extraits de l’œuvre des slavophiles classiques, des occidentalistes et des eurasiens: Khomiakov, Kiréevski, Tioutchev, Herzen,

Danilevski, Léontiev, Rosanov, Troubetskoï, Ivanov, Fedotov, Lossev, et aussi des articles de mes contemporains et amis: Vitali Kovalev, Igor Demine, Vladimir Martchenkov, Nikolaï Licovoï, Andreï Pavlenko, Gueïdar Djemal, Viatcheslav Parchkov et d'autres auteurs de talent.

 

6. Quelles sont les grandes lignes de votre conception du monde ?

 

L'esprit russe a l'habitude d'écarter les structures de pensée rigides et encombrantes. Le paganisme slave était ouvert et polythéiste. L'Orthodoxie est à sa base apophatique. Les partisans de Bakounine et les marxistes-léninistes ont transformé la dialectique de Hegel en dialectique de la révolution. Les systèmes philosophiques, tels que « la sophiologie » de Vladimir Soloviev ou « la philosophie du nom » d'Alexeï Lossev, sont de rares exceptions.

 

Je n'ai jamais essayé de créer un système philosophique qui soit en même temps développé et achevé. De temps en temps, naturellement, j'ai dressé le bilan de mes recherches, mais à chaque fois une nouvelle vision du monde s'est ouverte à moi. De la fougue révolutionnaire de ma jeunesse, je suis passé à un prométhéisme créatif, du prométhéisme à l'esprit de « sobornost », de cet esprit de « sobornost » à l'académisme romantique. Maintenant je préfère contempler le monde, l'écouter, l'étudier, le comprendre en profondeur, le savourer, l'apprécier tout en exprimant ma volonté dans l'aspiration à la perfection et à la supériorité. D'ailleurs, je n'ai pas tiré un trait définitif sur mes recherches et je reste ouvert à la vie et à la connaissance. Disons que dans la poésie pendant un certain temps j'ai sciemment visé le symbolisme ontologique, mais actuellement, je me sens plus proche de la simplicité organique d'un romantisme concret et combatif. La paix, la guerre, l'amour, le foyer familial, une mort digne me sont nécessaires en tant que tels et non pas par le biais de symboles et de reflets.

 

Dans la thèse que je prépare actuellement sur l'histoire des relations russo-hispaniques, je développe une nouvelle tendance de la sémiotique historique. Je considère, étudie et lis toute l'histoire y compris les relations internationales comme un texte. Pour moi, en tant que culturologue qui se veut objectif et impartial, il est important de fuir l'idéologisation et la modernisation des faits historiques. Cela ne veut pas dire, bien sûr, que je n'ai pas de préférences, de convictions civiques et d'opinions politiques. Je suis un fondamentaliste russe, un patriote, j'aime la liberté et je déteste le pouvoir de l'argent.

 

Ce sont surtout mes poésies et mes essais réunis dans le livre Comprendre l’Entité russe qui illustrent le mieux ma conception. A ceux qui s'intéressent aux racines indo-européennes, aryennes et slaves, je recommande la lecture de mon étude Nos Dieux originaires: Zeus, Léto, Artemis, Apollon et leurs ancêtres et aussi le précis bibliographique Pôle hyperboréen (in : Naslédnié Predkov, n°4). Mes opinions actuelles, fondées sur un paradigme qualitativement nouveau, qui a été élaboré en tenant compte de l'utilisation de l'ordinateur et de l'expérience acquise aux Etats-Unis, ont été exprimées dans le recueil Prospective russe et également dans une série de nouveaux articles de revues et dans des interventions publiques. Une place particulière devrait être réservé, selon moi, à l’article « Les guerres de la nouvelle génération » (NdSE n°39).

 

7. Quel est le contenu du livre Perspective russe?

 

Perspective russe est un recueil collectif d’une dizaine d'écrivains russes, publié en 1996 par le centre de coordination «Pôle» en tant que supplément spécial à la revue Naslédnié Predkov. Ce recueil a le mérite fondamental de créer un modèle de passage au mouvement patriotique russe où le mode de pensée littéraire et idéaliste cèdera la place à une approche militaire et stratégique et où le national-conservatisme sera remplacé par le national-technocratisme.

 

Dans ce livre il y a six divisions: « L'ideologie nationale », « Guerre et Géopolitique », « La percée technologique », « La Russie et le monde contemporain », « Les conférences et les rencontres scientifiques », « Les nouvelles publications », qui contiennent les analyses des intellectuels les plus avancés de mon entourage. A part mon introduction, « La Renaissance russe: objectifs et priorités», les articles présents dans ce recueil sont: « Russie: principe aristocratique » (Alekseï Chiropaév), « La dictature du capital commercial » (Serguéï Gorodnikov), « La compétitivité de la Russie à l’avenir » (Andréï Saveliev), « La quatrième guerre mondiale » (Vladimir Popov), « Le Temps et le poids de la Russie » (Valeriï Milovanov), « Est-ce que la Russie possède une armée apte à combattre ? » (Evguénii Morozov), « La situation géostratégique après la guerre froide » (Alexandre Bedritzki), « L’exposition aéronautique et astronautique à Joukovskii » (Serguéï Guérasioutine). Ce recueil contient aussi une partie analytique, des traductions, des critiques, des nouvelles et de brèves  informations: « Qui Crée notre espace d’information? », « Le résultat des élections présidentielles », « Les droites en Europe Orientale » (d'après le livre de Paul Holenos  La liberté de haïr) ; la discussion du livre d'Antony Sutton Comment l'Ordre organise les guerres et les révolutions avec la critique « Conflits à régler: vers un nouvel ordre mondial », les critiques du « Recueil de géopolitique russe » ; du livre de K. E. Sorokine « La géopolitique de l'époque contemporaine et la géostratégie de la Russie » et le numéro qui vient de paraître de la Revue militaire et aussi la réponse à deux calomniateurs russophobes: Walter Laqueur et Alexandre Yanov, suite à la parution de leur livre Les Cent-Noirs. Naissance de l’extrême droite en Russie et Après Eltsine. La Russie de Weimar. A côté de ces articles, il y a, dans le recueil, mon interview intitulé: « Les USA sont un monde qualitativement à part ».

 

J'attire votre attention sur le fait que c'est justement dans « La perspective russe 1996 » que l'on a osé la première tentative de formuler les objectifs fondamentaux de la « Quatrième guerre mondiale ». En effet, la troisième guerre mondiale (appelée « guerre froide ») contre l'URSS et le communisme mondial, s'est officiellement close le 20 avril 1996, avec la signature au niveau étatique le plus élevé, de la « Déclaration de la rencontre moscovite ». C'est de là que sont nés de nouveaux problèmes et que des questions ont été soulevées ; c'est de là également que vient l'actualité de notre travail que les analystes les plus clairvoyants ont défini comme « une attaque intellectuelle de la nouvelle génération des patriotes ».

 

8. Quelles sont vos opinions géopolitiques et leur influence sur les débats à la Douma ?

 

Mes opinions politiques ainsi que ma vision du monde sont en développement perpétuel. Mon intuition de départ et ma volonté sont assez simples. Tout ce qui est bénéfique pour la Russie, pour ma Patrie, me convient. Tout ce qui est contre les Russes et la Russie dans son ensemble est inacceptable pour moi. Méthodologiquement, je dérive mon argumentation de la multiplicité et de la hiérarchie de l'être unique indivisible, composé de plusieurs types d'espaces: personnel, sacré, physique, historique, économique, d'information, etc. Une telle typologie peut varier. L'important est de comprendre que nous, notre famille, notre people, notre histoire, nos intérêts, nous sommes à l'intersection de ces mondes. Si l'on me lance un défi, je suis obligé de répondre. De surcroît, je veux gagner même si la mort me menace. Je le veux tellement et je ferai tout pour que mon désir se réalise, devienne réel. Cela c'est la substance. Quant à la forme, mon modèle métahistorique et descriptif, si l'on peut le synthétiser au maximum, contient trois espaces, grands et complexes, et de type différent, qui pénètrent l'un dans l'autre:

1) La Croix russe (elle se forme à l'intersection du chemin historique « des Varègues aux Grecs », direction Nord-Sud et de l'artère trans-européenne qui s’étend dans toute la Russie de l'Ouest à l'Est, où se cristallise le noyau russe renouvelé et ethniquement compact).

2) L'axe trans-aryen (il traverse la partie méridionale de l'espace central depuis le Nord-Ouest au Sud-Est et crée une attraction entre le Nord et le Sud aryens).

3) Le bouclier euro-asiatique (l'espace le plus étendu et le plus hétérogène qui pourrait être constitué potentiellement par tous les Etats de notre continent avec les îles adjacentes; son but essentiel consiste à créer une large union de défense contre les forces de l'atlantisme occidental, du mondialisme et du sionisme international). Il est important de ne pas confondre ces trois grands espaces car c'est à l'intérieur de chacun d'entre eux que les problèmes particuliers trouvent leur solution.

 

C'est par un souci d'exactitude scientifique que je dois préciser que mes opinions en matière de géopolitique se sont formées sous l'influence des œuvres d'Alexandre Douguine, surtout de sa revue Elementy. Je souhaite également mentionner le travail de Robert Steuckers « Panorama théorique de la géopolitique » ( j'ai participé à sa traduction en russe), les études d'Evguéniï Morozov et de ses compagnons de lutte dans le Recueil géopolitique russe et aussi les recherches en matière de race et d'eugénisme de Vladimir Avdéev, mon ami, membre du conseil de rédaction de Naslédnié Predkov.

 

Actuellement, j'interprète les anciens problèmes d'une nouvelle façon, je complète et je précise mes études précédentes. Il est indispensable de tenir compte de ce qui a été publié par d'autres auteurs ces dernières années. C'est surtout les Principes de géopolitique de A. G. Douguine, la Géopolitique contemporaine de K. E. Sorokine,  L'Europe unie: problèmes et perspectives de V. Wiedemann, les Manœuvres de la nouvelle géopolitique de A.V. Mitrofanov, l'étude critique de l'« eurocentrisme » de S. Kara-Mouzza. Ce qui différencie essentiellement mes anciennes vues des actuelles, c'est mon plus grand réalisme et le refus du schématisme occidental.

 

Vous me demandez quel est l'impact des projets géopolitiques sur les débats à la Douma. Je ne peux pas répondre avec précision à votre question car j'ai été au Comité de géopolitique seulement quelques fois (récemment, on y a présenté la revue Naslédnié Predkov). Toutefois, s'il faut s'en tenir à quelques démarches pratiques de l'administration actuelle des affaires étrangères du gouvemement d'Eltsine, signalons quelques points qui nous paraissent intéressants et positifs : une amitié préférentielle avec l'Allemagne, des rapports extrêmement chaleureux avec la France, un certain rapprochement avec le Japon, le fait d'accorder un plus grand poids au rôle de l'Espagne, l'intensification de la présence russe dans les Balkans malgré les menaces de la Turquie, et, en même temps, l'évident passage d’un stade à un autre : de l’alliance temporaire avec les USA, nous passons à un éloignement graduel par rapport aux Américains ; nous constatons aussi un rapprochement ostentatoire avec la Chine. La reprise de la lutte en faveur des anciens alliés dans le monde arabe, en Asie, en Amérique latine etc. On ne peut pas s'empêcher de remarquer les changements en faveur de mes amis politiques.

 

9. Comment voyez-vous la future collaboration entre les nouvelles droites en Russie et

en Europe occidentale ?

 

D'un point de vue géopolitique, ce qui m'intéresse ce n'est pas le fait d'être à droite ou à gauche, mais l'attitude réelle par rapport aux Russes, à la Russie, à notre passé, présent et futur. C'est cette vision qu’expriment mes amis espagnols, qui me disent: « Nous aimons les Russes indépendamment du fait qu’ils soient communistes ou monarchistes ». Ils incarnent l'idéal. Et ils ont raison car il y a non seulement des individus mais aussi des pays entiers qui changent leur orientation politique, bien que, malgré cela, les intérêts fondamentaux restent les mêmes dans le fond.

 

En définitive,  je me sens beaucoup plus proche de la droite. Ce n'est pas par hasard que Naslédnié Predkov (« L'héritage de nos ancêtres »), possède un sous-titre « revue des perspectives de droite ». Mais la question est de savoir de quelle droite il s'agit. « Les anciennes droites » diffèrent entre elles, les « nouvelles droites » sont aussi hétérogènes. Chez nous en Russie, par exemple, il y a des tendances extrémistes qui n'ont pas de lien réel avec la tradition nationale. Ce sont les habituels extrémistes de gauche: soit par le fond, soit par le langage, soit par la forme. C'est pour cette raison que la première chose à faire consiste à s'entendre sur les questions principales et à chercher ensuite des alliés.

 

Mais il y a autre chose. L'Europe occidentale, actuellement, n’est pas satisfaite de l'influence excessive des USA dans sa région. Mais elle possède des intérêts russes. En effet, l’intégration des petits Etats de l’Europe orientale ou septentrionale dans le marché commun et l'OTAN etc l'arrange parfaitement car dans ce cas, le rôle de ces mêmes Etats d'Europe occidentale s'accroît et leur structure s'actualise et se dynamise. Il serait plus avantageux pour les Russes que ce processus de dynamisation se développe à l'Est et au Sud par le territoire russe. Mais ce sont justement les conflits militaires provoqués et artificiellement entretenus en Europe orientale qui l'empêchent.

 

Votre organisation a lancé l’initiative « Synergon/Synergies Européennes » avec laquelle je me suis familiarisé en lisant les pages de la revue Impérativ (n°2), dirigée par Vladimir Wiedemann. Le document qu’il y a publié contient des pensées remarquables et constructives et comme, on le dit dans ce cas, chargées d'optimisme. Je suis surtout frappé par l'appel des auteurs à la conservation de la mémoire historique, des cultures enracinées et développées, ayant des traditions spirituelles riches. Vous comprenez profondément les problèmes écologiques et économiques de l'époque actuelle, vous ouvrez des perspectives aux jeunes, aux innovateurs, aux forces dynamiques. Ce sont surtout notre politique d'information et votre intention de contribuer à la création des bases d'un système de soutien intellectuel réciproque entre ceux qui partagent les mêmes idées « sur toute l’étendue du Grand Ordre continental » qui n'ont intéressé. Si j'ai bien compris, il ne s'agit pas ici de l'Europe occidentale qui attire vers elle une partie des pays d'Europe orientale dans les intérêts de l’OTAN mais de la formation sur tout notre continent d'une communauté qualitativement différente pour toute l'Eurasie.

 

Quelle forme prendra cette nouvelle communauté géopolitique, c'est avec le temps que nous le verrons. S'agirait-il de cet Empire Sacré entièrement autonome auquel vous aspirez ou d'une nouvelle Sainte-Allianœ ou de l'héritière de l'Union Soviétique ? Pour le moment, il n'y a pas de réponse précise à cette question comme à beaucoup d'autres. Il est clair que le chemin vers le bloc continental ne sera pas facile et, à l'avenir, il ne faut pas s'attendre à une solution rapide et pacifique de tous les problèmes existants.

 

Qu'est-ce que l'on peut proposer de concret aux membres de la « Synergies européennes » ? Tout d'abord, il s'agira d’apprendre à se connaître en profondeur. Pour le moment, je ne connais pas bien l'UE et je ne suis prêt qu'à avoir un rôle d'observateur. En deuxième lieu, il s'agira d'un champ intellectuel et d'information. Il sera indispensable de comparer notre terminologie, nos valeurs, nos objectifs. Il ne faut pas se hâter de créer un « nouvel ordre », en imitant les modèles historiques qui n'ont pas fonctionné autrefois ou qui se sont auto-éliminés. La troisième étape pourrait être une conférence permanente apte à faciliter le passage de la solution des problèmes théoriques aux questions pratiques. Ensuite, on pourrait envisager la publication d'un périodique en plusieurs langues étrangères y compris le russe.

 

Mais actuellement la Russie n'offre que rarement le matériel, prêt à être publié, pour « Synergies Européennes ». C'est une situation anormale. Elle ne correspond pas à l'apport des Russes au développement du continent. Par conséquent, nous devons tout d'abord créer des conditions aptes à faire naître une collaboration réciproque et passer ensuite aux questions pratiques d'organisation et de droit.

Pour conclure, je voudrais remercier personnellement Robert Steuckers pour l'attention qu'il consacre à la Russie, au nouveau mouvement de droite, à la revue « L'Héritage de nos ancêtres » et aussi pour m'avoir offert l'occasion de m'exprimer sur les pages de votre publication. Pendant que l'on préparait l'interview à l'impression, Anatoli M. Ivanov m'a montré une sélection des numéros  de «NdSE » et de «Vouloir» de ces dernières années. Je m'en félicite ! Vous publiez une revue tout à fait nécessaire et sérieuse. Ce sont surtout les éditions spéciales consacrées à l'idée russe et au bolchevisme national qui m'ont plu.

 

Permettez moi de souhaiter que nos rapports se développent ultérieurement sur la base d’un intérêt réciproque, d'une profonde compréhension mutuelle et des liens constructifs et amicaux. Ensemble, nous constituerons une force !

 

Pavel TOULAEV.

2 février 1998, rédaction : 15.10.98

 

dimanche, 08 novembre 2009

Pasteur Blanchard: Aux sources du national-populisme

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES 1998

blanchard62f2b516f5ad8c297a665a9e10ae7918.jpgAUX SOURCES DU NATIONAL POPULISME

Entretien avec le Pasteur Blanchard

 

Q.: Votre ouvrage sur le National Populisme doit paraitre prochainement aux Editions de l'Æncre, pourquoi avoir traité ce sujet?

 

R.: Simplement parce que j'appartiens au peuple, je suis sorti du rang du milieu ouvrier; et même si je n'en ai pas eu toujours conscience, il est une constante dans mon engagement —pour paraphraser de manière humorisitque Maurice Thorez: «être un fils du peuple», et dans mon cheminement intellectuel tout me ramenait à cela. Il me revient que ma fille ainée voulant, il y a quelques années, m'apporter la contradiction en me montrant combien mon cursus était peu conforme aux normes intellectuelles de l'idéologie dominante, et croyant me vexer, m'a dit: «Dans le fond, à l'origine, tu n'étais qu'un ouvrier»; je lui ai répondu que s'il est une chose dont je suis fier, c'est bien “d'être un ouvrier!”. Donc, le populisme est ma famille naturelle, j'y suis comme un poisson dans l'eau. Et bien qu'il m'ait fallu cheminer, lire des auteurs d'horizons différents, je suis arrivé à cette famille naturellement, trouvant là de manière autant intuitive qu'intellectuelle, ce qui est la cohérence profonde de ma personnalité.

 

C'est pour cette raison que j'ai éprouvé le besoin d'écrire cet ouvrage. Il n'est pas né d'hier. En réalité, à l'origine, ce n'étaient que des notes prises au cours de mon cheminement intellectuel, certaines remontant à plus de dix ans. Etant venu au nationalisme sans connaître les réseaux nationalistes, il a bien fallu, à coup de lectures, que je trouve ma voie; j'ai donc lu les auteurs principaux de tous les courants de pensée de notre famille, pour enfin rencontrer ceux avec qui j'étais totalement en phase. Cet ouvrage est donc une mise en forme déjà existants que je gardais par devers moi au fil des années.

 

Q.: Comment situez-vous ce que vous nommez le “national-populisme” par rapport aux autres courants de pensée de la famille nationale?

 

R.: Tout d'abord, ce qui définit le national-populisme est la séparation entre le spirituel et le temporel. On peut très bien être populiste et avoir des métaphysiques différentes. Il n'y a pas d'incompatibilité entre ce courant de pensée et des prises de positions païennes, chrétiennes, ou tout simplement agnostiques. Le populisme n'a pas la prétention d'apporter des réponses dans le champ du religieux; ça ne veut pas dire que, à titre personnel, on ne puisse pas avoir de conviction. Mais cette distinction, éminemment moderne, entre les deux champs, temporel et spirituel, est l'apanage du populiste, ce qui fait de lui un homme tolérant par nature, car il a l'intime conviction, comme aimait à dire Martin Luther, que, en ce qui concerne les convictions personnelles, “il n'est pas bon de forcer les consciences”.

 

Mais le populisme se différencie aussi par sa modernité. On peut, de manière un peu schématique, sans tenir compte des nuances, diviser notre famille en deux grands courants: l'un populiste, l'autre contre-révolutionnaire, ce dernier s'opposant à la modernité issue des immortels principes; il revêt un caractère théocratique et il a la prétention de changer les choses en y mettant, sur le plan social, une dimension spirituelle. Dans ses grandes lignes, ce courant se trouve dans la tradition catholique issue du Concile de Trente. N'oublions pas que celui-ci est une réaction contre le protestantisme et qu'il a durci, sur bien des points, la position des catholiques; ce qui le cractérise, c'est le refus du monde moderne. Le national-populisme, lui, accepte la modernité. Il pense que 1789 a été pernicieux et que les élites naturelles ont été broyées par une mécanique administrative; mais il a la conviction que, pour autant, comme le disait Maurice Barrès, on ne peut pas distraire cette période de l'histoire de notre pays, celle-ci est indivise. On peut dire que l'ancêtre du national -populisme est Bonaparte avec sa dimension plébeienne de l'appel au peuple et du césarisme. Dimension que, d'ailleurs, nous retrouverons au moment de l'affaire Boulanger avec cet ouvrage magistral de Maurice Barrès L'appel au soldat  qui est une constante du national-populisme. Nous pouvons dire, à cet égard, que le Front National est l'héritier de ce courant et que, dans le fond, Jean-Marie Le Pen est un général Boulanger qui a réussi.

 

Q.: Mais ne pensez-vous pas que tout cela puisse conduire au totalitarisme, comme on a pu le voir entre les deux guerres, et que cette idéologie puisse être dangereuse?

 

R.: On peut considérer que tout système idéologique peut être dangereux, quel qu'il soit, et qu'il y a des travers repérables et condamnables dans tous les systèmes de pensée. On a l'habitude de mettre en avant le fascisme, le nazisme et le communisme, pour montrer les travers de ces idéologies. Il est vrai que, lorsque des idées s'incarnent, elle finissent par dévoyer la cause qu'elles croyaient servir. Et concernant ces trois idéologies, il y aurait des choses, comme partout, condamnables et même abominables. Je crois que toute honnêteté intellectuelle doit avoir le courage de dénoncer, quelles que soient ses convictions, ce qui n'est pas défendable. En tant que protestant, si je réprouve la Saint Barthélemy, je reconnais aussi que dans mon camp le massacre des Irlandais par Cromwell est inqualifiable. Pour autant, je crois qu'il faut se garder de toute caricature. Il n'y a pas, dans l'histoire, un bien absolu et un mal absolu, cette lecture manichéenne relève du conte de fée. Et je voudrais aussi souligner que le libéralisme, à ses origines, a des aspects pernicieux. Quand l'Armée du Salut a été créée à la fin du l9ème en Angleterre, c'était suite au capitalisme sauvage qui faisait vivre dans des quartiers insalubres, pires que ceux de Bombay ou de Calcutta, des personnes qui n'étaient pas des esclaves mais de bons anglais qui ne se trouvaient pas au fin fond du pays mais bien dans la ville de Londres.

 

Dans l'histoire, rien n'est tout blanc, rien n'est tout noir. Dénonçons ce qui doit être dénoncé et gardons-nous de tout manichéisme.

 

Q.: Comment s'intitulera votre livre, et quand paraitra-t-il?

 

R.: Aux sources du national-populisme, Maurice Barrès, Georges Sorel. Il sortira aux Editions de l'Æncre en septembre1998.

samedi, 07 novembre 2009

"Vitales Denken ist inkorrekt"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Politische Theorie: Interview mit Robert Steuckers

"Vitales Denken ist inkorrekt"

von Jürgen Hatzenbichler

 

In diesem Jahr haben wir das 30jährige Jubiläum der 68er Revolte. Welchen Stellenwert hat die Neue Linke heute für einen rechten Diskurs?

 

STEUCKERS: Zunächst muß gesagt werden, daß die Neue Linke in Paris im Mai 1968 zwar demonstrierte, Krawall machte und die Fabriken mobilisierte, daß aber am 30. Mai eine Million Gegendemonstranten auf den Straßen waren, um dem ein Ende zu machen. Also im Mai hat die Rechte gewonnen; im Juni ist de Gaulle zurückgekommen. Man muß festhalten, daß die sogenannte antiautoritäre Bewegung erst 1988 nach der Machtübernahme durch Mitterand mit der Besetzung der Institutionen beginnen konnte. Zwischen 1968 und 1981 hatte in Frankreich die Neue Linke zwar sehr viel Gewicht, aber trotzdem ist die liberal-konservative Rechte an der Macht geblieben und hat ihre Weltanschauung entwickeln können. Man muß außerdem, um ’68 zu verstehen, wissen, daß de Gaulle nach dem Algerienkrieg seinen Kurs vollständig geändert hatte, daß er antiimperialistisch und antiamerikanisch war, daß er 1965 Rußland besucht hat und die Nato verlassen hatte. Er stellte in einer Rede in Kambodscha Frankreich als die führende antiimperialistische Macht dar, als Partner für die Länder, die weder amerikanisch noch kommunistisch waren. Er pflegte auch Kontakte nach Südamerika, so daß die französische Flugzeugindustrie die amerikanische dort verdrängen konnte. 1967 rief er in Québec das "freie Québec" aus, was eine direkte Provokation für die USA war. Die Amerikaner haben das nicht toleriert. Der Mai ’68 ist dann teilweise auch von den amerikanischen Geheimdiensten gemacht worden, damit Frankreich auf seine antiimperialistische Funktion verzichtet.

 

Im deutschen Sprachraum verbindet man 1968 in der Folge mit politischer Korrektheit. Wie hat sich die Revolte im frankophonen Bereich ausgewirkt?

 

STEUCKERS: Der Moralismus ist in Deutschland und bei der deutschen Linken viel stärker ausgeprägt als in Frankreich. In Frankreich gibt es zwei Begriffe. Es gibt den Mai ’68: die Studentenbewegung als eine auflehnende Bewegung. Aber es gibt auch noch das "Denken von 68", la pensée ’68. Wenn man davon spricht, meint man eine Reihe von dekonstruktivistischen Philosophen wie Foucault, Derrida, Deleuze, Guattari oder andere, die sich besonders von Nietzsche haben inspirieren lassen. Heutzutage aber kritisiert die political correctness diese Philosophen, weil sie lebensphilosophisch denken, weil sie "Vitalisten" sind.

 

Diese Methode der Dekonstruktion richtet sich vor allem gegen die Moderne...

 

STEUCKERS: …ja, gegen die Aufklärung. Ich würde hier etwa einen Akzent von Michel Foucault nennen. Foucault gilt selbstverständlich als linker Philosoph, aber er hat am Anfang seiner Karriere, die er mit einem 1961 erschienenen Artikel begonnen hat, eine These entwickelt, die besagt, daß die Aufklärung überhaupt nicht die Befreiung des Menschen ist, sondern der Anfang seiner totalen Überwachung und Bestrafung. Als dieser Artikel erschienen ist, wurde Foucault von gewissen Tugendwächtern als Reaktionär abgestempelt. Foucault war homosexuell; das ist bekannt. Er hat gesagt: "Ich muß mich für die Außenseiter engagieren, ich muß den Linken spielen, anders ist meine philosophische Karriere verloren." Nichtsdestoweniger gilt seine These, daß Aufklärung überwachen und bestrafen heißt. Foucault kritisierte weiter, daß die Aufklärung bis heute die Grundlage des französischen Jakobiner-Staates ist. Für Foucault verkörpert sich die aufklärerische Gesellschaft im neuen panoptischen Gefängnis, wo mitten im Gefängnis ein Turm steht, von dem aus der Wächter beobachten kann, was alle Gefangenen tun. Das Modell der Aufklärung verkörpert also eine gläserne Gesellschaft ohne Mysterien, ohne Privatsphäre oder persönliche Gefühle. Die political correctness hat sehr klar gesehen, daß dieses Denken äußerst gefährlich für die aufklärerischen Staaten ist. Foucault wird als "Vitalist" abgestempelt.

 

Welche Ideen der Neuen Linken sind noch aktuell?

 

STEUCKERS: Diese Frage muß ich über eine Umweg beantworten: Was will die heutige Neue Linke? Will die Neue Linke die Ideen von Foucault weiterverbreiten, also gegen Gesellschaften sein, die die totale Überwachung und Bestrafung wollen? Ich kann nicht für die Linke anworten. Aber was ich sehe, ist, daß die Neue Linke heutzutage gar nicht mehr denkt, sondern eben politische Korrektheit durchsetzen will.

 

Von manchen Rechten wird das Schema Rechts-Links mittlerweile in Frage gestellt. Ist die Aufhebung des Gegensatzes aktuell?

 

STEUCKERS: Ich meine, die Rechte wiederholt seit mehreren Jahrzehnten zu oft die gleichen Schlagwörter. Ich beobachte zwar, daß heutzutage in Deutschland gewisse philosophische Strömungen Foucault zusammen mit Carl Schmitt und Max Weber lesen. Das ist sehr wichtig. Das ist der Kern einer neuen Konservativen Revolution, weil es antiaufklärerisch ist. Wobei ich selber nicht die ganze Aufklärung ablehne – zum Beispiel nicht den aufklärerischen König Friedrich II. von Preußen. Ich leugne nicht alles von Voltaire, der ein aufklärerischer Philosoph war und eine sehr gute Definition von Identität gegeben hat, als er sagte: "Es gibt keine Identität ohne Gedächtnis." Ich lehne also nicht alles ab, ich lehne aber sehr wohl die political correctness ab, die von sich behauptet, daß sie die Erbin der Aufklärung sei und uns eine verballhornte Aufklärung verkauft. Man muß sagen, daß antiaufklärerische Ideen sowohl rechts wie auch links vorhanden sind. Andererseits hat eine gewisse Rechte, vor allem die technologie-konservativen Kräfte, die Frage der Werte nicht mehr gestellt. Diese Konservativen wollen sich aufklärerisch profiliert sehen wie die political-correctness-Linken.

 

Kann man sagen, daß in so einer Gesellschaft, die alles nur noch in ökonomischen und Konsumbegriffen sieht, die linken und rechten Intellektuellen die letzten Verteidiger von Sinn und Wert sind?

 

STEUCKERS: Das hat die amerikanische Debatte sehr gut beantwortet, wo der Philosoph John Rawls die Frage der Gerechtigkeit gestellt hat. Wenn die Aufklärung im Konsumismus endet, ist weder Gemeinschaft noch Gerechtigkeit möglich. Es gibt wahrscheinlich Wertkonservative und Wertprogressisten. Und hier ist eine Debatte möglich über die entscheidenden Fragen von Morgen. Aber die organisierten Kreise der political correctness werden alles tun, um das zu verhindern.

 

Wo sehen Sie auf der Rechten die mögliche Trennlinie zwischen wertkonservativer Haltung und reaktionärer Position?

 

STEUCKERS: Eine wertkonservative Haltung kann heutzutage überhaupt nicht strukturkonservativ bleiben. Eine wertkonservative Haltung verteidigt die Werte, die die Gemeinschaft zusammenhalten. Wenn Strukturkonservative, das heißt Wirtschaftsliberale, es unbedingt vermeiden, die Frage nach den Werten stellen, dann wird das die Auflösung der Gemeinschaften vorantreiben. Dann haben wir die Gefahr, daß die Staaten, aber auch eine eventuelle Weltgemeinschaft, absolut unregierbar werden.

 

Welchen Stellenwert hat die Nouvelle Droite, die Neue Rechte im heutigen intellektuellen Diskurs?

 

STEUCKERS: Sie hat heutzutage nicht mehr die Stellung von Einzelgängern. Sie sollte mehr auf die amerikanischen Kommunitaristen setzen und die Debatte gegen die Globalisierung und für identitätsstiftende Werte führen. Außerhalb Europas und Amerikas ist zu beobachten, daß nichtwestliche Zivilisationen wie China und die asiatischen Staaten die aufklärerische Idee der Menschenrechte zweimal abgelehnt haben, zuerst in Bangkok, dann in Wien. Sie haben sich dafür eingesetzt, daß die Menschenrechte den Traditionen der jeweiligen Zivilisationen angepaßt werden, weil, so sagten es etwa die Chinesen, die Menschen nie nur Individuen sind, sondern immer in eine Gemeinschaft und eine Kultur eingebettet sind.

lundi, 02 novembre 2009

Ernst Jünger est mort: entretien avec Heimo Schwilk

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

 

 

Ernst Jünger est mort

 

Entretien avec Heimo Schwilk

 

Heimo Schwilk, né en 1952 à Stuttgart, a étudié la philosophie, la philologie germanique et l'histoire à Tübingen. De 1986 à 1991, il a été rédacteur au Rheinischer Merkur. Depuis 1991, Schwilk dirige la rédaction de la rubrique “Berlin und neue Bundesländer” du Welt am Sonntag. Pour ses reportages sur la Guerre du Golfe, il a reçu le célèbre prix “Theodor Wolff” en 1991. En 1988, il a édité chez Klett-Cotta un remarquable album de photographies sur la vie d'Ernst Jünger.

 

Q.: Quel vide laissera derrière lui l'écrivain Ernst Jünger qui vient de mourir ce mardi 17 février 1998?

 

HS: Tout d'abord, ils vont enfin pousser un soupir de soulagement, tous ceux qui ont voulu contester à Jünger la modeste place qu'il occupait encore dans cette société désarticulée qu'est la RFA. Lui, Jünger, l'homme que l'on ne pouvait pas utiliser, l'homme qui s'était volontairement soustrait au “discours” dominant, l'homme qui se désintéressait de la politique, est définitivement parti, se lançant dans sa dernière grande aventure, celle de la mort. Jünger nous a enseigné que la vie était mystère, que l'homme était un être merveilleux dans un monde merveilleux. Ce fondement romantique de la pensée de Jünger a en quelque sorte ouvert une faille dans le mur, faille qui le séparait, dès son vivant, de tous ceux qui travaillaient, opiniâtres, à la profanation et à la banalisation de notre existence. Jünger ne nous laisse aucun vide, mais un océan d'instants accomplis, qui sont devenus poésie dans un monde qui n'est plus que bavard-communicatif.

 

Q.: Bon nombre d'individus pressaient encore Ernst Jünger dans ses dernières années à prendre la parole en tant qu'“écrivain politique”. Il a toujours refusé. Mais entre les lignes, dans des remarques en marges, ne s'est-il pas mêlé subtilement au tumulte du monde, à sa manière?

 

HS: Ernst Jünger, immédiatement après l'accession au pouvoir des nationaux-socialistes a exprimé dans de nombreuses lettres jusqu'ici impubliées son sentiment: les discours sur la politique qui sont teintés d'opinions et de convictions équivalent à une auto-mutilation pour l'homme amoureux de la musique. Jünger avait derrière lui cinq années d'immixtion polémique dans des revues ou des ouvrages collectifs. Après 1945, il s'en est tenu à son verdict sur la politique. Les défenseurs de la littérature engagée se sont dressés contre lui et Benn disait de ses tristes sires, avec mépris: “ils rampent comme des chiens devant les concepts de la politique”. De fait, Jünger n'avait que bien peu de choses à apporter à ce discours qui se disait “démocratique”. En revanche, il avait énormément de choses à dire sur ce que Heidegger nommait les “existentiaux”: la temporalité, la déréliction (Geworfenheit), la mort. Il estimait que pontifier de la philosophie à côté des urnes électorales n'était pas une activité fort productive.

 

Q.: Pourquoi Ernst Jünger est-il tant apprécié de nos voisins, en particulier les Français, alors que chez nous, en Allemagne, il est demeuré un écrivain “contesté”?

 

HS: Etre contesté n'est en soi nullement répréhensible, pour autant que l'affrontement ait vraiment lieu et qu'on ne perpétue pas à l'infini, comme en Allemagne, une procédure de tribunal d'épuration. Les Français apprécient en premier lieu, chez Jünger, le fait qu'il a tant aimé leur pays  —et cela c'est sympathique—  qu'il le connaît parfaitement et qu'il le regarde dans ce qu'il a de spécifique. Ils paient tribut à sa moralité, celle avec laquelle il a mené à bien sa mission fort délicate d'officier des troupes d'occupation et d'écrivain en poste à Paris entre 1940 et 1944, sans jamais nuire à son intégrité. Ils aiment la clarté de sa langue, la force qu'elle met à nous éclairer. Ils considèrent que cette langue de Jünger exprime ce que vivent les sens, tout en restant typiquement allemande. François Mitterand remarquait, dans sa laudatio  pour le centième anniversaire de l'écrivain, que Jünger était resté un “homme libre”. Cela voulait dire qu'il cultivait une pensée détachée de tout poncif, une pensée pour laquelle les applaudissements des masses n'avaient aucune signification.

 

Q.: Ernst Jünger a-t-il suivi l'actualité politique jusqu'à son dernier jour?

 

HS: Ernst Jünger lisait régulièrement la presse, y compris Junge Freiheit, mais il passait rapidement sur les rubriques politiques, comme il me l'a dit plusieurs fois. Il était bien au courant de la marche du monde et plus d'une remarque moqueuse dans ses journaux atteste qu'il observait avec attention le déclin de la politique politicienne à Bonn, surtout celle des “ grands partis populaires” dont les différences ne sont qu'apparences. Mais il s'intéressait surtout aux processus généraux d'uniformisation, que toute observation fine de notre époque révèle et que son Travailleur  a exposé. Ensuite, il attendait du XXIième siècle l'avènement d'une nouvelle spiritualité, dont les prémisses sont justement les processus de déblaiement que décrivent ses essais et journaux.

 

Q.: Quelle est la signification de l'œuvre d'Ernst Jünger pour l'avenir?

 

HS: Elle réside dans sa foi en l'Etre, dans sa “nouvelle théologie”, qui refuse de laisser le dernier mot à la destructivité et à la petitesse de l'homme moderne.

 

Q.: L'une des figures les plus importantes dans la pensée de Jünger est l'anarque. Que devons-nous en penser aujourd'hui?

 

HS: L'anarque est, au contraire de l'anarchiste, ne cultive pas d'idées politiques, n'est pas une personnalité qui cherche le changement radical. Le politique est pour lui une chose extérieure, une dérivation, un phénomène secondaire. L'anarque  —comme l'homme qui recourt aux forêts—  demeure souverain et dispose librement de soi. Il joue son propre rôle dans la société. Service et liberté ne sont pas des contraires chez lui; le sacrifice, mais aussi le suicide, appartiennent à son capital. Dans Le recours aux forêts,  Jünger a décrit cette attitude: «Celui qui recourt aux forêts possède un rapport originel avec la liberté, qui, vu sur le plan temporel, s'exprime par une résistance à tous les automatismes, ce qui implique qu'il n'ait pas à tirer la conséquence que dicte généralement l'éthique, c'est-à-dire adopter le fatalisme». L'anarque n'est pas un missionnaire, armé de ses connaissances, il vit comme l'unique et sa spécificité (Der Einzige und sein Eigentum), c'est-à-dire avec l'ensemble de ses expériences, mais il brille devant tous les autres, à titre d'exemple. Peut-on dire quelque chose de plus pertinent sur la personne d'Ernst Jünger?

(entretien paru dans  Junge Freiheit,  n°9/1998; propos recueillis par Dieter Stein).

dimanche, 01 novembre 2009

Intervista con Massimo Cacciari

cacciari1.jpgALESSANDRA IADICICCO – Il Giornale, 15 / 01/ 2001

Intervista con Massimo Cacciari

«Di fronte all'oblio dell'essere non bisogna inseguire le mode»

La new age è nell'universo della merce. Serve una nuova percezione del sacroHa un senso oggi invocare il ritorno del pensiero forte, nell'epoca del trionfo del pensiero debole? E hanno affatto un senso i due termini della contrapposizione?

«C'è - risponde Massimo Cacciari - un nichilismo debole, debolissimo, miserabile e un nichilismo fortissimo. Se per nichilismo intendiamo una sorta di relativismo assoluto, l'affermazione che il mondo è senza valori e senza idee, allora siamo in un pensiero debole. Se invece intendiamo l'opposto, se nichilista è il pensiero in cui "del niente si fa niente", il pensiero che non considera in alcun modo il niente, allora abbiamo a che fare con un pensiero ultraforte, niente meno che con il pensiero che sta alla base di tutto il progetto tecnico scientifico del mondo contemporaneo. Se tutto è niente, se mi interessano solo gli enti, allora siamo nel nichilismo di cui parla Heidegger, che è assolutamente l'opposto del pensiero debole, Per me il nichilismo è il non interessarsi del nulla».

E nel totale oblio dell'essere, tanto assoluto da dimenticarsi anche del niente, resta per il pensiero uno spazio, un ruolo, un compito?

«Il pensiero contemporaneo deve discutere questa situazione, deve comprendere le ragioni, i motivi, le soluzioni. Un pensiero forte oggi è quello che non semplifica, che non insegue le mode, che comprende la complessità del nichilismo».

E che sa affrontarne i problemi di fondo. Quali sono?

«Se l'unica cosa che conta sono i fenomeni e la nostra capacità di trasformarli ad libitum, allora, da questa impostazione derivano tutti i nostri problemi. Deriva il fatto che Dio è morto, che i valori sono niente».

E i conflitti?

«E i conflitti diventano incomprensibili. Il pensiero contemporaneo non li capisce, non è in grado di spiegarseli. Non sa spiegarsi perché i Paesi islamici non capiscano che il nostro sistema politico è il migliore del mondo».

E il potere?

«Anche il potere è immanente al progetto tecnico scientifico che ormai ha dominato il mondo: e ormai ci domina un biopotere, una biopolitica che incide sulla vita».

E le nuove forme di religiosità?

«La new age è consumismo, resta all'interno dell'universo della merce. Una percezione diversa del sacro è tutta da immaginare».

Quali pensatori possono essere di soccorso nella riflessione sull'epoca?

«Sulla linea ermeneutica, ci sono infiniti stimoli a pensare in questa direzione. Da Nietzsche e Heidegger discende un filone che si biforca. Da una parte si prende la strada del pensiero debole, dall'altra quella delle riflessioni, spesso dai tratti anche tragici, sul destino del nichilismo. Penso a Nietzsche e Heidegger. C'è poi un autore che contraddice, che dice oltre, che contraddice questo destino, ed è Emanuele Severino. La linea da cui proviene è evidentemente diversa da quella ermeneutica».

E il suo pensiero?

La sua analisi disincantata della crisi dell'epoca lascia tuttavia intravedere un'ipotesi propositiva: penso alla tesi geofilosofica dell'Arcipelago.

E' una soluzione?

«Le idee sono responsabili e devono ritenersi tali: nel momento in cui le pronuncio, devo pensare che possano trasformarsi in fatti. Scrivendo L'Arcipelago o la Geofilosofia dell'Europa speravo che potessero incarnarsi in qualche movimento reale. Tanto meno, però la loro verità è diminuita dal fatto che non diventino reali. Nel momento in cui formulo un'ipotesi filosofica, devo però parlare prendendo piena responsabilità della mia parola».

 

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vendredi, 30 octobre 2009

Intervista a Vladimir I. Jakunin

 

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INTERVISTA A VLADIMIR I. JAKUNIN

 


a cura di Daniele Scalea e Tiberio Graziani -Eurasia / http:://www.italiasociale.org/

All'inizio del XX secolo, Halford Mackinder scrisse nel suo celebre saggio The Geographical Pivot of History dell'importanza geostrategica delle ferrovie: egli pensava che le strade ferrate transcontinentali costruite dai Russi in Eurasia controbilanciassero il potere marittimo dei popoli anglosassoni, inaugurando una nuova era nei rapporti tra mare e terra e tra Europa e Asia. Lei pensa che le ferrovie russe abbiano ancora una così grande importanza geostrategica?

Lo sviluppo delle infrastrutture dei trasporti è sempre stato visto attraverso il prisma del posizionamento strategico del paese. Si valutava il suo significato economico, sociale e militare-difensivo. Nell'epoca della globalizzazione il trasporto ferroviario non ha perso minimamente la propria importanza dal punto di vista dell'economicità, del rispetto dell'ambiente e della rapidità che caratterizzano il trasporto di merci e persone. Inoltre, se è diminuito il suo potenziale ruolo strategico-militare, in virtù della nuova realtà bellica, il suo significato geopolitico, a mio parere, non ha fatto che aumentare. A ciò contribuisce lo sviluppo dei legami politici ed economici tra i paesi, la necessità di rispondere alle esigenze delle economie dei paesi sviluppati nello svolgimento delle operazioni di importazione ed esportazione nell'ambito della cooperazione commerciale estera, la possibilità di garantire l'accesso al mare dei cosiddetti «paesi di mezzo», l'opportunità di sviluppare in senso reciprocamente vantaggioso i corridoi di trasporto internazionali. E anche la possibilità di uno sviluppo non conflittuale delle relazioni economiche e di offrire assistenza alla realizzazione di infrastrutture ferroviarie per lo sviluppo delle economie di altri paesi, conformemente alle aspirazioni geopolitiche di questa o quella nazione. Un brillante esempio del conseguimento non conflittuale di obiettivi geopolitici reciprocamente vantaggiosi può essere fornito dalla cooperazione di molti paesi e compagnie nello sviluppo del corridoio Ovest-Est lungo il percorso della «Transiberiana».

Vi sono progetti di privatizzazione di RZhD (la compagnia ferroviaria russa). Crede possibile che lo Stato russo si privi d'una quota di maggioranza in un simile settore strategico?

L'attuale legislazione russa esclude la privatizzazione delle infrastrutture ferroviarie della Russia. E benché si possa ipotizzare in linea teorica che nel tempo, sussistenti determinate condizioni politiche ed economiche, ciò sia possibile, è altamente probabile che la Russia proseguirà la riforma del trasporto ferroviario assegnando i diversi tipi di attività (per esempio il trasporto merci, il trasporto passeggeri, la costruzione e manutenzione delle infrastrutture, il trasporto di containers, la logistica e via dicendo) a compagnie indipendenti e privatizzando queste compagnie interamente o in parte.

Cos'è cambiato nelle relazioni tra Russia e Unione Europea dopo la guerra russo-georgiana della scorsa estate?

Questo è un tema a sé stante ed esigerebbe un'approfondita analisi a parte. Mi limiterò a osservare che sulla percezione delle cause e degli effetti del conflitto in Ossezia del Sud, nei paesi dell'Unione Europea e negli Stati Uniti, hanno notevolmente influito tutti i vecchi pregiudizi sulla «pericolosità» della Russia per i «piccoli» paesi europei. A questo ha contribuito non poco la macchina informativo-propagandistica dei mezzi di informazione occidentali. Questo atteggiamento è profondamente mutato solo quando vari giornalisti occidentali, mesi dopo la conclusione della fase più «calda» del conflitto georgiano-ossetino nel quale la Russia era stata trascinata, hanno pubblicato notizie reali sulle azioni condotte dalle autorità e dai militari georgiani in Ossezia, notizie che hanno sconvolto l'opinione pubblica occidentale.
Per quanto concerne le relazioni politiche tra la Russia e gli Stati Uniti, il palese coinvolgimento della precedente amministrazione al fianco del regime di Saakasvili non ha fatto che accrescere la sfiducia.

Nell'ultimo decennio l'economia russa ha pienamente recuperato dai diffìcili momenti degli anni '90. Nella seconda parte dell'estate 2008, tuttavia, il prezzo del petrolio è crollato ed i mercati azionar! russi hanno sofferto gravi perdite. Le prospettive di recupero economico della Russia sono ancora buone?

Oggi la crisi finanziaria si è trasformata in una crisi economica globale ed è opportuno interrogarsi sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Senza entrare nel dettaglio, è possibile concludere che la sua sistematicità è il risultato della realizzazione acritica e dogmatica dei punti essenziali della teoria economica neo-liberista, cioè quelli riguardanti la completa eliminazione dello Stato dalla sfera della gestione dello sviluppo economico. Le azioni più recenti, condotte praticamente da tutti gli Stati sviluppati del mondo, dimostrano palesemente il fallimento di questa teoria. Per quanto concerne le prospettive economiche della Russia, esse subiscono l'influsso di una serie di fattori negativi e d'altri positivi. Tra i fattori negativi possiamo elencare il noto orientamento all'esportazione dell'economia, l'incompiutezza della riforma istituzionale, l'insufficiente sviluppo del mercato, l'assenza di un ampio strato di piccole e medie imprese, la lacunosità del sistema bancario e l'assenza, per esempio, di leggi che sanciscano l'obbligo della partecipazione di organizzazioni sociali e professionali e della comunità di esperti alla formulazione delle decisioni governative. Tra gli aspetti positivi, che ci permettono di guardare con ottimismo alle prospettive economiche del paese, includiamo naturalmente la riforma istituzionale attualmente in corso, l'unione del mondo degli affari e delle élites politiche attorno alla dirigenza dello Stato, una base di risorse tra le più ricche e richieste del mondo, risorse umane sufficienti e ben formate (non ostante le conseguenze demografiche degli anni Novanta), l'importante integrazione della Russia nel sistema economico e finanziario mondiale e, infine, riserve finanziarie molto sostanziose accumulate negli anni passati. Attualmente molto — se non tutto -dipenderà dall'efficacia e dalla tempestività dei provvedimenti anticrisi del governo e del mondo imprenditoriale della Russia.

Ritiene che l'attuale crisi economica e finanziaria possa contribuire a cambiare la struttura geopolitica e le gerarchie internazionali, in particolare favorendo l'emergere d'un nuovo ordine mondiale multipolare?

In effetti il mondo multipolare è emerso già molto prima della fase «calda» della crisi finanziaria, come è stato riconosciuto da esperti ben noti negli ambienti politici e scientifici come il professor F. Fukuyama, Z. Brzezinski, H. Kissinger, l'accademico E. Primakov; dai capi di Stato europei e sudamericani, dell'India, della Cina, della Russia; da organizzazioni della società civile e non-governative come il Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà», dalle Nazioni Unite, dall'UNESCO e molte altre istituzioni. Mi sembra, in pratica, che si possa parlare di un mondo variegato con elementi di pluralità, come riconosciuto dagli autori citati. Di per sé la crisi molto probabilmente produrrà un inasprimento delle contrapposizioni già esistenti tra i vettori di sviluppo del sistema mondiale: unipolarismo contro multipolarismo. Non sarà facile prevederne l'esito. Tuttavia è molto probabile che il ritorno a un mondo unipolare non sarà meno difficoltoso della costruzione di un mondo più giusto.
È ora più o meno ovvio quanto segue: in primo luogo, l'uscita dalla crisi avverrà in un lasso di tempo piuttosto lungo; in secondo luogo, durante quella fase, segnata dalla necessità di ricorrere a provvedimenti cruciali per uscire dalla crisi, avverrà una ricostruzione dell'ordine mondiale, ormai obsoleto, con una ridistribuzione piuttosto radicale dei beni su scala globale; infine, è ormai generalmente riconosciuto che l'attuale struttura del sistema economico-finanziario abbia esaurito le proprie risorse tecnologiche per ciò che riguarda il rinnovamento e l'evoluzione dell'uomo nella sua attività di valorizzazione e sviluppo del mondo. Ed è proprio adesso che sono necessari radicali cambiamenti sociali e civili a livello globale (anche nell'interesse dei promotori di tali cambiamenti).

In che modo un nuovo sistema multipolare potrebbe contribuire a favorire il dialogo tra le civiltà?

Con lo sviluppo, su basi scientifiche, di un sistema d'opinioni che riconosca come sia il dialogo tra le civiltà, e non lo scontro, lo strumento per prevenire conflitti a livello geopolitico, culturale, religioso o geoeconomico. Col rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile dei diversi paesi nella formulazione delle ambizioni strategiche delle élites di governo, e coli'influenza della collettività su queste élites non solo attraverso i modi d'espressione della cosiddetta «volontà popolare» già collaudati e in una certa misura orientati da queste élites, ma anche attraverso i metodi del dialogo diretto tra civiltà condotto dai rappresentanti delle diverse civiltà. Questi rappresentanti non sono le organizzazioni e le autorità internazionali, che non conducono un dialogo bensì negoziati, ma gli individui o le organizzazioni non-governative.
Nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà», un lavoro efficace e mirato per controllare la realizzazione dei diversi piani di questa trasformazione può essere organizzato come segue:
1) la creazione da parte di un gruppo di esperti e analisti di un Thesaurus (struttura di subordinazione) dei postulati, delle convinzioni e dei valori politici, etico-morali, economico-sociali e via dicendo, più comunemente impiegati nelle discussioni sulla crisi globale;
2) lo svolgimento di diverse iniziative da parte del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» per armonizzare i risultati analitici ottenuti con gli attori influenti e con le parti interessate alla trasformazione;
3) l'organizzazione di una campagna di informazione su vasta scala, impiegando i mezzi di informazione interattivi e altre strutture, per l'efficace e rapida introduzione di rappresentazioni coerenti, componente necessaria nel contesto della comunicazione globale sui temi attuali dell'agenda globale;
4) lo svolgimento di un regolare monitoraggio delle reazioni a tale informazione, al fine di valutare la risposta del pubblico alle proposte formulate;
5) in base ai risultati dell'analisi ed alla sintesi di queste reazioni, la pianificazione e realizzazione di dialoghi regionali, specialistici, di ricerca ecc. (impiegando i metodi già sperimentati dalle iniziative del Forum Pubblico Mondiale) al fine di ratificare le decisioni concordate e selezionate in maniera mirata.
La necessità di tali iniziative nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» e di strutture simili è giustificata dal fatto che le attuali ricette scientifiche e politiche per uscire dalla crisi circolano in ristrette comunità altamente specializzate, non hanno alcun fondamento legittimo e si impongono alla più ampia pratica internazionale, come accade per esempio con le idee del neo-liberismo, attraverso metodi, politici e d'altro tipo, di natura coercitiva.

In qualità di presidente e cofondatore del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» potrebbe farci un resoconto delle sue attività a partire dal 2002?

Riteniamo che negli ultimi sei anni i partecipanti al Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» siano riusciti a creare una piattaforma pubblica, unica nel suo genere, di interazione tra le civiltà per l'analisi e la descrizione dei caratteri fondamentali della nostra epoca, nonché adeguati strumenti di dialogo tra le civiltà nel contesto delle più importanti sfide del nostro tempo: la globalizzazione, il dialogo tra le culture e le religioni, l'influenza delle tendenze economiche mondiali sui rapporti tra le civiltà, l'inammissibilità dell'imposizione forzata dei propri valori a un'altra civiltà, la creazione di un mondo unipolare e molti altri problemi. La «Prima Dichiarazione di Rodi» e le sue conclusioni non solo sono ampiamente note, ma sono anche alla base di una serie di accordi internazionali sulla cooperazione tra Stati. La Conferenza del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» si svolge già da sei anni con cadenza annuale nell'isola di Rodi, ed è oggetto di grande attenzione. Nel 2008 vi hanno partecipato circa 500 rappresentanti di più di 64 paesi. Prosegue con successo il programma di sviluppo della comunità in rete di «Dialogo di civiltà», e molto altro. In generale mi sembra che questa attività meriti una valutazione positiva. Ritengo che sia giunto il momento di passare dalla constatazione di un interesse per il dialogo all'esercizio di un'influenza controllata sui processi sociali, impiegando a tal fine tutte le risorse delle organizzazioni non-governative internazionali, degli amici rappresentanti delle comunità di esperti, mezzi di informazione e confessioni religiose. Naturalmente qui dobbiamo impegnarci ulteriormente per strutturare questo interesse con l'obiettivo di trasformarlo in uno strumento di influenza pubblica sullo sviluppo mondiale.

A suo parere quali sono i comuni settori d'interesse che andrebbero rafforzati e sviluppati tra Russia e Unione Europea?

Innanzi tutto, agli interessi strategici della Russia e dell'Unione Europea risponde una tendenza all'approfondimento dell'integrazione nella sfera umanistica e in quella economica, in particolare nel settore del trasporto ferroviario in quanto area di reciproco interesse del tutto priva di conflitti: infatti, una tale cooperazione può avere esito positivo solo se le compagnie dei trasporti condividono gli stessi obiettivi.

Considerando la posizione strategica dell'Italia nel mezzo del Mar Mediterraneo e, soprattutto, la sua «alleanza» asimmetrica con gli USA nel contesto della NATO, crede che Washington permetterà a Roma di sviluppare relazioni politiche e militari con Mosca?

Mi sembra che la domanda sia posta in modo scorretto, laddove si chiede se «Washington possa permettere qualcosa all'Italia». Pur nella chiara alleanza strategica con la NATO e con gli Stati Uniti, nell'emergente condizione di multipolarismo l'Italia è libera di determinare da sola il sistema dei propri interessi geopolitici, e ha ripetutamente dimostrato la propria sostanziale posizione di indipendenza in tutta una serie di eventi controversi verificatisi in tempi recenti. Pertanto ritengo che, finché al mondo esisteranno i confini degli Stati nazionali, continueranno a esistere anche i cosiddetti «interessi nazionali» e le aspirazioni geopolitiche dei governi, e questo influenzerà lo sviluppo di una cooperazione internazionale, e difficilmente esisterà un paese in grado di affermare di essere assolutamente libero da questa influenza.
Roma è la capitale dell'Italia ma anche il centro della Cristianità cattolica. Durante gli ultimi anni, malgrado la promozione d'un dialogo ecumenico ed inter-ecclesiastico con la Cristianità russo-ortodossa, il Vaticano ha esteso le proprie attività in Russia ed in alcuni paesi ex sovietici (ad esempio in Kazakistan). Tra queste attività, possiamo menzionare la creazione di nuove diocesi cattoliche senza neppure interpellare le Chiese ortodosse. Tenendo conto che, nel corso di tali iniziative, il Vaticano ha spesso chiesto a Mosca un maggiore rispetto dei diritti umani-al pari d'alcune ONG o apparati politici occidentali — crede vi siano legami tra le strategie di Washington e quelle del Vaticano?
Ogni chiesa, anche all'interno degli Stati laici, resta parte della società e, quando tocca la sfera della morale e tanto più delle relazioni pubbliche o internazionali, spesso riflette gli atteggiamenti socio-politici dominanti. A mio parere ciò vale effettivamente per alcuni aspetti dell'attività del Vaticano. Dato che il cattolicesimo è ampiamente diffuso nel mondo occidentale, è possibile che nelle sue posizioni sui principali temi risenta dell'influenza ideologica degli Stati Uniti che sono la guida riconosciuta di quel mondo. È possibile che questo sia anche una conseguenza dell'attività economica dello Stato del Vaticano e della sua dipendenza dall'economia statunitense. Il Concilio Vaticano II ha affermato che le altre religioni possono essere condotte attraverso il dialogo sulle posizioni della mentalità europea, in quanto identità più evoluta. Per questo il Concilio ha ampliato la sfera del dialogo, ha riconosciuto la possibilità del dialogo con le altre religioni e le altre civiltà: allo scopo di assimilarle gradualmente. La storia del cattolicesimo dimostra in maniera convincente cosa sia questa linea di dialogo. Le chiese del mondo e le principali confessioni devono, riteniamo, contribuire a instaurare un dialogo efficace tra i popoli. Il problema di un ampio dialogo pubblico è che le principali forze sociali e i partecipanti alla collaborazione internazionale tendono spesso a difendere le proprie posizioni, a persuadere gli altri della loro giustezza, a ricevere conferma delle proprie convinzioni. La religione, al contrario, ha sempre invitato ad affermare il punto di vista della verità universale, ad abbandonare l'insieme delle convinzioni inevitabilmente contingenti e a porsi sul cammino del rinnovamento, del miglioramento di sé. La mentalità individualista agli occhi della coscienza religiosa coincide sempre con il peccato e l'errore. Indubbiamente gli sforzi delle Chiese e delle confessioni permettono di innalzare il livello e la cultura del dialogo tra le organizzazioni pubbliche e le strutture internazionali. È necessario che il dialogo sociale non si concentri solo sui problemi immediati, benché comunque importanti, della politica e della vita sociale. In questo caso il nostro dialogo verrà ripreso e sviluppato, estendendosi a nuovi problemi o aspetti della soluzione di vecchi problemi, cui la coscienza collettiva contemporanea non è in grado di arrivare. Ci sembra che nel miglioramento del dialogo collettivo la Chiesa e le confessioni siano chiamati a fornire una nuova forma di servizio all'uomo e a conseguire una propria sfera pratica di realizzazione della verità e della forza delle proprie rivelazioni. Riteniamo che le profonde tradizioni e potenzialità delle organizzazioni religiose e dei contatti interconfessionali apporteranno un inestimabile contributo al dialogo tra le civiltà. E speriamo che la Chiesa e le confessioni assumano un ruolo attivo nelle nostre iniziative future.

(traduzione dall'originale russo di Manuela Vittorelli)

* Vladimir Ivanovic Jakunin è presidente del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» e della Rossijskie Zheleznye Dorogi, la compagnia ferroviaria dello Stato russo. Tra il 1985 ed il 1991 ha fatto parte della missione diplomatica sovietica presso le Nazioni Unite (gli ultimi tre anni come primo segretario). Dal 2000 al 2003 è stato vice-ministro dei trasporti della Federazione Russa.


18/05/2009

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jeudi, 22 octobre 2009

R. Steuckers: entretien pour le journal Hrvatsko Slovo

Hotel_de_ville_Bruxelles_1.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Robert Steuckers :

Entretien pour le journal

Hrvatsko Slovo

 

Propos recueillis par Tomislav Sunic

 

1. Quelle est votre carte d'identité?

 

Je suis né en 1956 à Uccle près de Bruxelles. J'ai été à l'école de 1961 à 1974 et à l'Université et à l'école de traducteurs-inter­prètes de 1974 à 1980. Dans ma jeunesse, j'ai été fasciné par le roman historique an­glais, par la dimension épique de l'Ivanhoe  de Walter Scott, de la légende de Robin des Bois, par l'aventure de Quentin Durward, par les thématiques de la Table Ronde. Le cadre médiéval et la profondeur mythique ont très tôt constitué chez moi des réfé­rentiels importants, que j'ai complété avec notre propre héritage littéraire épique flamand, avec le Lion des Flandres  de Hendrik Conscience, et par les thèmes bretons, dé­couverts dans Le Loup Blanc de Paul Féval. Certes, j'ai lu à l'époque de nombreuses édi­tions vulgarisées, parfois imagées, de ces thématiques, mais elles n'ont cessé de me fasciner. Des films comme Excalibur ou Braveheart  prouvent que ce filon reste malgré tout bien ancré dans l'imaginaire eu­ropéen. En dépit des progrès techniques, du désen­chantement comme résultat de plusieurs décennies de rationalisme bureaucratique, les peuples ont un besoin vital de cette veine épique, il est donc néces­saire que la trame de ces lé­gendes ou que ces figures héroïsées de­meurent des réferentiels im­pas­sables. Sur le plan philosophique, avant l'université, dans l'adolescence de 12 à 18 ans qui reste la pé­riode où s'acquièrent les bases éthiques et philosophiques essen­tielles du futur adulte, j'ai abordé Nietzsche, mais surtout Spengler parce qu'il met l'histoire en perspective. Pour un adolescent, Spengler est difficile à digé­rer, c'est évident et on n'en retient qu'une caricature quand on est un trop jeune lecteur de cet Allemand à la culture immense, qui nous a légué une vision synoptique de l'histoire mondiale. Toute­fois, j'ai retenu de cette lec­ture, jusqu'à aujourd'hui, la vo­lonté de mettre l'histoire en perspec­tive, de ne jamais soustraire la pensée du drame planétaire qui se joue chaque jour et partout. Juste avant d'en­trer à l'université, pen­dant la dernière année de l'école secondaire, j'ai découvert Toynbee, A Study of History, sa classification des civilisations, son étude des ressorts de celles-ci, sa dynamique de “chal­len­ge-and-response”; ensuite, pour la Noël 1973, il y avait pour moi dans la hotte des ca­deaux Révolte con­tre le monde moderne  de Julius Evola et une anthologie de textes de Gottfried Benn, où celui-ci insistait sur la notion de “forme”. J'avais également lu mes premiers ouvrages d'Ernst Jünger. A l'école, j'avais lu no­tamment le Testament espagnol  de Koestler et La puissance et la gloire  de Graham Greene, éveillant en moi un intérêt durable pour la littérature carcérale et surtout, avec le prêtre alcoolique admi­rablement mis en scène par Greene, les notions de péché, de perfectibilité, etc. que transcende malgré tout l'homme tel qu'il est, imparfait mais sublime en dépit de cette imperfection. Dès la première année à l'Université, je découvre la veine faustienne à partir de Goethe, les deux chefs-d'œuvre d'Or­well (La ferme des animaux et 1984), Darkness at Noon de Koe­st­ler (autre merveille de la littérature car­cérale!). Im­mé­dia­te­ment dans la foulée, je me suis plongé dans son ouvrage philoso­phi­que The Ghost in the Machine, qui m'a fait dé­cou­vrir le com­bat philosophique, à mon avis central, contre le ré­ductionnisme qui a ruiné le continent eu­ro­péen et la pensée occi­dentale en ce siècle et dont nous tentons péniblement de sortir au­jourd'hui. Depuis ma sortie de l'université, j'ai évi­demment travaillé comme traducteur, mais j'ai aussi fondé mes revues Orien­tations (1982-1992), Vouloir (depuis 1983), et co-édité avec mes amis suisses et français, le bulletin Nou­velles de Synergies Européennes (depuis 1994). Entre 1990 et 1992, j'ai travaillé avec le Prof. Jean-Fran­çois Mattéi à l'Encyclopédie des Œuvres philosophiques des Presses Univ­er­si­tai­res de France. 

 

2. Dans les milieux politico-littéraires, on vous colle souvent l'étiquette de “droitier”. Etes-vous de droite ou de gauche. Qu'est-ce que cela signifie aujourd'hui?

 

Dans l'espace linguistique francophone, cela a été une véritable manie de coller à tout constestataire l'étiquette de “droite”, parce que la droite, depuis le libéralisme le plus modéré jusqu'à l'affirmation natio­naliste la plus intransigeante, en passant par toutes les variantes non progressistes du catholicisme, ont été re­jetées sans ménagement dans la géhenne des pensées interdites, considé­rées arbitrairement comme droitières voire comme crypto-fascistes ou carrément fascistes. Cette manie de juger toutes les pensées à l'aune d'un schéma binaire provient en droite ligne de la propagande communiste française, très puissante dans les médias et le monde des lettres à Paris, qui tentait d'assimiler tous les adversaires du PCF et de ses satellites au fas­cisme et à l'occupant allemand de 1940-44. Or, au-delà de cette polé­mique  —que je ne reprendrai pas parce que je suis né après la guerre—  je constate, comme doivent le constater tous les observa­teurs lucides, que les cultures dans le monde, que les filons cultu­rels au sein de chaque culture, sont l'expression d'une pluralité inépuisable, où tout se compose, se décompose et se recompose à l'infini. Dans ce grouillement fécond, il est impossible d'opérer un tri au départ d'un schéma simplement binaire! La démarche binaire est toujours mutilante. Ceci dit, je vois essentiellement trois pistes pour échapper au schéma binaire gauche/droite.

- La première vient de la définition que donnait le grand économiste français François Perroux du rôle de l'homme dans l'histoire de l'humanité et dans l'histoire de la communauté où il est né par le hasard des circonstances. L'homme selon Perroux est une personne qui joue un rôle pour le bénéfice de sa communauté et non pas un individu qui s'isole du reste du monde et ne donne rien ni aux siens ni aux autres. En jouant ce rôle, l'homme tente au mieux d'incarner les valeurs impassables de sa communauté nationale ou religieuse. Cette définition a été classé à droite, précisément parce qu'elle insistait sur le caractère impassable des grandes valeurs traditionnelles, mais bon nombre d'hommes de gauche, qu'ils soient chrétiens, musulmans, agnostiques ou athées, en recon­naîtront la pertinence.

- La deuxième piste, très actuelle, est celle que nous indique le communauta­risme américain, avec des auteurs comme Sandel, Taylor, McIntyre, Martha Nussbaum, Bellah, Barber,Walzer, etc. Au cours du XXième siècle, les grandes idéologies politiques dominantes ont tenté de mettre les valeurs entre paren­thè­ses, de procéder à une neutralisation des valeurs, au bénéfice d'une approche purement techno­cra­ti­que des hommes et des choses. Dans les années 50 et 60, l'idéologie dominante de l'Occident, aux Etats-Unis et en Europe de l'Ouest, a été ce technocratisme, partagé par le libéralisme, la sociale-dé­mo­cra­tie et un conservatisme qui se dégageait des valeurs traditionnelles du ca­tholicisme ou du pro­testantisme (en Allemagne: de l'éthique prussienne du service à l'Etat). Les ques­tions soulevées par les valeurs, dans l'optique d'une certaine philosophie empirique, néo-logique, étaient des questions vides de sens. Ce refus occidental des valeurs a généré un hyper-individualisme, une anomie générale qui se tra­duit par un incivisme global et une criminalité débridée en croissance continue. Le questionnement sou­le­vé aujourd'hui par l'école communautarienne américaine est une réponse à l'anomie occidentale (dont on n'est pas toujours fort conscient dans les pays européens qui ont connu le communisme) et cette ré­ponse transcende évidemment le clivage gauche/droite.

- La troisième piste est celle des populismes. Sous le titre significatif de Beyond Left and Right. Insur­gency and the Establishment,  une figure de proue de la gauche radicale américaine, David A. Horowitz, a publié récem­ment un ouvrage qui fait sensation aux Etats-Unis depuis quelques mois. Horowitz recence toutes les ré­voltes populaires américaines contre l'établissement au pouvoir à Washington, depuis 1880 à nos jours. Délibérément, Horowitz choisit à gauche comme à droite ses multiples exemples de révoltes du peuple contre ces oligarchies qui ne répondent plus aux nécessités cruelles qui frappent la population dans sa vie quotidienne. Horowitz brise un tabou tenace aux Etats-Unis, notamment en s'attaquant au caractère quelque peu coercitif des gauches, depuis le New Deal de Roosevelt jusqu'à nos jours. Une coercition subtile, bien camouflée derrière des paroles moralisantes... C'est à dessein que j'ai choisis ici des exemples américains, car les idéologèmes américains sont indépendants, finalement, des clivages eu­ro­péens nés de la seconde guerre mondiale. Même des propagandistes chevronnés ne pourront ac­cuser de “fascisme” des filons idéologiques nés en plein centre ou en marge des traditions “républi­caines” ou “démocrates”. Ce qui importe, c'est de défendre un continuum dans lequel on s'inscrit avec sa lignée.

 

3. Dans vos écrits sur la géopolitique, on perçoit une très nette influence des grands géopolitologues comme Kjellén, Mackinder, Haushofer et Jordis von Lohausen; vous semblez aussi vous intéresser aux travaux du Croate Radovan Pavic. De votre point de vue d'Européen du Nord-Ouest, comment percevez-vous la Mitteleuropa, plus particulièrement la Croatie?

 

C'est certain, j'ai été fasciné par les travaux des classiques de la géopolitique. J'ai rédigé des notes sur les géopolitologues dans l'Encyclopédie des Œuvres philosophiques, éditée par le Prof. Jean-François Mattéi (Paris, 1992). Le dernier numéro de ma revue Vouloir   (n°9/1997) est consacré à ces pionniers de la pensée géopolitique. En ce qui concerne votre compatriote Pavic, c'est, avec le Français Michel Fou­cher (Lyon), le meilleur dessinateur de cartes expressives, parlantes, suggestives en Europe au­jourd'hui. L'art de la géopolitique, c'est avant tout l'art de savoir dessiner des cartes qui résument à elles seules, en un seul coup d'oeil, toute une problématique historique et géographique complexe. Pavic et Klemencic (avec son atlas de l'Europe, paru cette année à Zagreb) perpétuent une méthode, lancée par la géopo­litique allemande au début de ce siècle, mais dont les racines remontent à ce pionnier de la géogra­phie et de la cartographie que fut Carl Ritter (1779-1859). Quant à ma vision de la Mitteleuropa, elle est quelque peu différente de celle qu'avait envisagée Friedrich Naumann en 1916. Au beau milieu de la pre­mière guer­re mondiale, Naumann percevait sa Mitteleuropa comme l'alliance du Reich allemand avec l'Autriche-Hon­grie, flanquée éventuellement d'une nouvelle confédération balkanique faisant fonction d'Ergänzungs­raum pour la machine industrielle allemande, autrichienne et tchèque. Cette alliance articu­lée en trois vo­lets aurait eu son prolonge­ment semi-colonial dans l'empire ottoman, jusqu'aux côtes de la Mer Rouge, du Golfe Persique et de l'Océan Indien. Aujourd'hui, un élément nouveau s'est ajouté et son importance est ca­pitale: le Rhin et le Main sont désormais reliés au Danube par un canal à gros gabarit, assurant un tran­sit direct entre la Mer du Nord et l'espace pontique (Fleuves ukrainiens, Crimée, Mer Noire, Cau­case, Ana­to­lie, Caspienne). Cette liaison est un événment extra­ordinaire, une nouvelle donne importante dans l'Eu­ro­pe en voie de formation. La vision du géopolitologue Artur Dix, malheu­reu­sement tombé dans l'oubli au­jourd'hui, peut se réaliser. Dix, dans son ouvrage principal (Politische Geographie. Weltpolitisches Hand­buch, 1923), a publié une carte montrant quelles dynami­ques seraient possibles dès le creusement défi­nitif du canal Main/Danube, un projet qu'avait déjà envisagé Charlemagne, il y a plus de mille ans! Aujour­d'hui le Rhin est lié à la Meuse et pourrait être lié au Rhône (si les gauches françaises et les nationalistes é­triqués de ce pays ne faisaient pas le jeu des adversaires extra-européens de l'unité de l'Europe et du rayonnement de sa cul­tu­re). Les trafics sur route sont saturés en Europe et le transport de marchandises par camions s'avèrent trop cher. L'avenir appar­tient aux péniches, aux barges et aux gros-pousseurs fluviaux. Ainsi qu'aux oléoducs transcaucasiens. Fin décembre 1997, l'ar­mée belge en poste en Slavonie orientale a plié bagages et a ache­miné tout son charroi et ses blindés par pousseurs jusqu'à Liège, prou­vant de la sorte l'importance militaire et stratégique du sy­stème fluvial intérieur de la Mitteleuropa. La mise en valeur de ce réseau diminue ipso facto l'importance de la Méditerranée, contrô­lée par les flottes amé­ri­cai­ne et britannique, appuyées par leur allié turc. Les Etats d'Europe centrale peuvent contrôler aisé­ment, par leurs propres forces terrestres la principale voie de passage à travers le con­ti­nent. La liaison Rot­terdam/Constantza devient l'épine dorsale de l'Europe.  Quant à la Croatie, elle est une pièce impor­tante dans cette dynamique, puisqu'elle est à la fois riveraine du Danube en Slavonie et de l'Adriatique, partie de la Méditerranée qui s'enfon­ce le plus profondément à l'intérieur du continent européen et qui revêt dès lors une importance stratégique considérable. Au cours de l'histoire, quand la Croatie apparte­nait à la double mo­narchie austro-hongroise et était liée au Saint-Empire, dont le territoire belge d'aujour­d'hui faisait partie intégrante,  elle offrait à cet ensemble complexe mais mal unifié une façade méditerra­néen­ne, que l'empire ottoman et la France ont toujours voulu confis­quer à l'Autriche, l'Allemagne et la Hon­grie pour les as­phy­xier, les en­claver, leur couper la route du large. Rappelons tout de même que la misère de l'Europe, que la ruine de la civilisation européen­ne en ce siècle, vient essen­tiellement de l'al­lian­ce perverse et pluriséculaire de la France monarchique et de la Turquie ot­tomane, où la France reniait la civilisation européenne, mobilisait ses forces pour la détruire. La Mitteleuropa a été prise en tenaille et ra­vagée par cette alliance: en 1526, le Roi de France François Ier marche sur Milan qu'il veut arracher au Saint-Empire; il est battu à Pavie et pris prisonnier. Ses alliés ot­tomans profitent de sa trahison et de sa di­version et s'emparent de votre pays pen­dant longtemps en le ra­vageant totalement. Au XVIIième siècle, la collusion franco-ottomane fonctionne à nouveau, le Saint-Em­pire est attaqué à l'Ouest, le Palatinat est ra­vagé, la Franche-Comté est annexée par la France, la Lorraine impériale est en­va­hie, l'Alsace est elle aus­si définitivement arrachée à l'Empire: cette guerre inique a été menée pour soulager les Turcs pen­dant la grande guerre de 1684 à 1699, où la Sainte-Alliance des puissances européennes (Autriche-Hongrie, Po­logne, Russie) con­jugue ses efforts pour libérer les Balkans. En 1695, Louis XIV ra­vage les Pays-Bas et incendie Bruxelles en inaugurant le bom­bardement de pure terreur, tandis que les Ottomans reprennent pied en Serbie et en Roumanie. En 1699, le Prince Eugène, adver­sai­re tenace de Louis XIV et brillant serviteur de l'Empire, impose aux Turcs le Traité de Carlowitz: la Sublime Porte doit céder 400.000 km2 de territoires à la Sainte-Alliance, mais au prix de tous les glacis de l'Ouest (Lorraine, Alsace, Franche-Comté, Bresse). La Répu­bli­que sera tout aussi rénégate à l'égard de l'Europe que la monar­chie française, tout en introduisant le fanatisme idéologique dans les guerres entre Etats, ruinant ainsi les principes civilisateurs du jus publicum europæum:  en 1791, alors qu'Autrichiens, Hon­grois et Russes s'apprêtaient à lancer une offensive définitive dans les Balkans, la France, fidèle à son anti-européisme foncier, oblige les troupes impériales à se porter à l'Ouest car elle lance les hordes révolu­tion­naires, récrutées dans les bas-fonds de Paris, contre les Pays-Bas et la Lorraine. Le premier souci de Napoléon a été de fabriquer des “départements illyriens” pour couper la côte dalmate de son “hinterland mittel­europäisch” et pour pri­ver ce dernier de toute façade méditerra­néenne. L'indépendance de la Croatie met un terme à cette logi­que de l'asphyxie, redonne à la Mitteleuropa une façade adriati­que/méditerranéenne.

 

4. A votre avis, quelles seront les forces géopolitiques qui auront un impact sur le destin croate dans l'avenir?

 

Le destin croate est lié au processus d'unification européenne et à la rentabilisation du nouvel axe central de l'Europe, la liaison par fleuves et canaux entre la Mer du Nord et la Mer Noire. Mais il reste à savoir si la “diagonale verte”, le verrou d'Etats plus ou moins liés à la Turquie et s'étendant de l'Albanie à la Macédoine, prendra for­me ou non, ou si une zone de turbulences durables y empêchera l'émergence de dynamiques fécondes. Ensuite, l'af­frontement croato-serbe en Slavonie pour la maîtrise d'une fe­nê­tre sur le Da­nube pose une question de principe à Belgrade: la Serbie se sou­vient-elle du temps de la Sainte-Alliance où Austro-Hongrois ca­tholiques et Russes orthodoxes joignaient frater­nel­lement leurs efforts pour libérer les Balkans? Se faire l'allié in­conditionnel de la France, comme en 1914, n'est-ce pas jouer le rôle dévolu par la monarchie et la république françaises à l'Em­pire ottoman de 1526 à 1792? Ce rôle d'ersatz  de l'empire otto­man moribond est-il compatible avec le rôle qu'entendent se don­ner certains na­tionalistes serbes: celui de bou­clier européen con­tre tout nouveau déferlement turc? La nou­velle Serbie déyougo­slavisée a intérêt à participer à la dyna­mi­que danubien­ne et à trouver une liaison fluviale avec la Russie. Toute autre politique serait de l'aberration. Et serait contraire au principe de la Sainte-Alliance de 1684-1699, qu'il s'agit de restaurer après la chute du Rideau de fer et des régimes communistes. Par ail­leurs, l'intérêt de la France (ou du moins de la population française) serait de joindre à la dynamique Rhin/Danube le complexe fluvial Saô­ne/Rhône débouchant sur le bassin occidental de la Méditerra­née, zone hautement stratégique pour l'ensemble européen, dont Mackinder, dans son livre Democratic Ideals and Reality  (1919), avait bien montré l'importance, de César aux Vandales et aux Byzantins, et de ceux-ci aux Sarrazins et à Nelson.

 

5. En vue de la proximité balkanique, quelles seront les synergies convergentes?

 

Favoriser le transit inter-continental Rotterdam/Mer Noire et faire de la région pontique le tremplin vers les matières premières caucasiennes, caspiennes et centre-asiatiques, est une nécessité économique vitale pour tous les riverains de ce grand axe fluvial et de cette mer intérieure. D'office, dans un tel contexte, une symphonie adviendra inéluctablement, si les peu­ples ont la force de se dégager des influences étrangères qui veu­lent freiner ce processus. Les adversaires d'un consensus harmo­nieux en Europe, de tout retour au jus publicum euro­pæum  (dont l'OSCE est un embryon), placent leurs espoirs dans la ligne de fracture qui sépare l'Europe catholique et protestante d'une part, de l'Europe orthodoxe-byzantine d'autre part. Ils spéculent sur la classification récente des civilisations du globe par l'Amé­ricain Samuel Huntington, où la sphère occidentale euro-amé­ricaine (“The West”) serait séparée de la sphère orthodoxe par un fossé trop profond, à hauteur de Belgrade ou de Vukovar, soit exactement au milieu de la ligne Rotterdam/Constantza. Cette césure rendrait inopérante la nouvelle dynamique potentielle, couperait l'Europe industrielle des pétroles et des gaz caucasiens et l'Europe orientale, plus rurale, des produits in­dustriels alle­mands. De même, la coupure sur le Danube à Belgrade a son é­quivalent au Nord du Caucase, avec la coupure tchétchène sur le parcours de l'oléoduc transcaucasien, qui aboutit à Novorossisk en Russie, sur les rives de la Mer Noire. La guerre tchétchène profite aux oléoducs turcs qui aboutissent en Méditerranée orientale contrôlée par les Etats-Unis, tout comme le blocage du transit danubien profite aux armateurs qui assurent le transport transméditerranéen et non pas aux peuples européens qui ont intérêt à raccourcir les voies de communication et à les contrôler directement. La raison d'être du nouvel Etat croate, aux yeux des Européens du Nord-Ouest et des Allemands, du moins s'ils sont conscients du des­tin du continent, se lit spontanément sur la carte: la configuration géographique de la Croatie, en forme de fer à cheval, donne à l'Ouest et au Centre de l'Europe une fenêtre adriatique et une fenêtre danubienne. La fenêtre adriatique don­ne un accès direct à la Méditerranée orientale (comme jadis la République de Venise), à condition que l'Adriatique ne soit pas blo­quée à hauteur de l'Albanie et de l'Epire par une éven­tuelle barrière d'Etats satellites de la Turquie, qui verrouilleraient le cas échéant le Détroit d'Otrante ou y géneraient le transit. La fenêtre danubienne donne accès à la Mer Noire et au Caucase, à condi­tion qu'elle ne soit pas bloquée par une entité serbe ou néo-you­go­slave qui jouerait le même rôle de verrou que l'Empire ottoman jadis et oublierait la Sainte-Alliance de 1684 à 1699, prélude d'une symphonie efficace des forces en présence dans les Balkans et en Mer Noire. L'Europe comme puissance ne peut naître que d'une telle symphonie où le nouvel Etat croate à un rôle-clé à jouer, no­tamment en reprenant partiellement à son compte les anciennes dynamiques déployées par la République de Venise, dont Ragu­se/Dubrovnik était un superbe fleuron.

 

6. Vous semblez être assez critique à l'égard de l'Etat pluri-ethnique belge? Quel se­ra son rôle?

 

L'Etat et le peuple belges sont des victimes de la logique partito­cra­tique. Les peuples de l'Ostmitteleu­ropa  savent ce qu'est une logi­que partisane absolue, parce qu'ils ont vécu le communisme. A l'Ouest la logique partisane existe également: certes, dans la sphè­re privée, on peut dire ou proclamer ce que l'on veut, mais dans un Etat comme la Belgique, où les postes sont répartis entre trois formations politiques au pro rata des voix obtenues, on est obligé de s'aligner sur la politique et sur l'idéologie étri­quée de l'un de ces trois partis (démocrates-chrétiens, socialistes, libéraux), sinon on est marginalisé ou exclu: la libre parole dérange, la volonté d'aller de l'avant est considérée comme “impie”. On m'objectera que la démocratie de modèle occidental permet l'alternance politique par le jeu des élections: or cette possibilité d'alter­nan­ce a été éli­minée en Belgique par le prolongement et la succession ad infini­tum de “grandes coalitions” entre démocrates-chrétiens et socia­listes. A l'exception de quelques années dans les “Eigh­ties”, où les libéraux ont participé aux affaires. Ce type de “grandes coali­tions” ne porte au pou­voir que l'aile gauche de la démocratie-chré­tienne, dont l'arme principale est une démagogie dangereuse sur le long terme et dont la caractéristique majeure est l'absence de principes politiques. Cette absence de prin­ci­pes conduit à des bricolages politiques abracadabrants que les Belges appellent ironiquement de la “plom­berie”. L'aile plus conservatrice de cette démocratie-chrétienne a été progressivement marginali­sée en Flandre, pour faire place à des politiciens prêts à toutes les combines pour gouverner avec les socia­listes. Or, les socialistes sont relativement minoritaires en Flandre mais majoritaires en Wallonie. Dans cet­te partie du pays, qui est francophone, ils ont mis le patrimoine régional en coupe réglée et ils y rè­gnent com­me la mafia en Sicile, avec des méthodes et des pratiques qui rap­pellent les grands réseaux ita­liens de criminalité. Les scandales qui n'ont cessé d'émailler la chronique quotidienne en Belgique vien­nent essentiellement de ce parti socialiste wallon. La Belgique fonctionne donc avec l'alliance de so­cia­listes wallons majoritaires dans leur région, de socialistes flamands minoritaires dans leur région, de dé­mo­crates-chrétiens wallons minoritaires et de dé­mo­crates-chrétiens flamands majoritaires, mais dont la ma­jorité est aujourd'hui contestée par les libéraux néo-thatché­riens et les ultra-nationalistes. Une très for­te minorité flamande conserva­tri­ce (mais divisée en plusieurs pôles antagonistes) est hors jeu, de mê­me que les classes moyennes et les entrepreneurs dynamiques en Wallonie, qui font face à un socia­lisme ar­chaïque, vindicatif, corrompu et inefficace. La solution réside dans une fédéralisation toujours plus pous­sée, de façon à ce que les Flamands plus conservateurs n'aient pas à subir le mafia-socialisme wal­lon et les Wallons socialistes n'aient pas à abandonner leurs acquis sociaux sous la pression de néo-tha­tché­riens flamands. Mais la pire tare de la Belgique actuelle reste la nomination politique des magis­trats, éga­lement au pro rata des voix obtenues par les partis. Cette pratique scandaleuse élimine l'indé­pen­dan­ce de la magistrature et ruine le principe de la séparation des pouvoirs, dont l'Occident est pour­tant si fier. Ce principe est lettre morte en Belgique et la cassure entre la population et les institutions judi­ciai­res est dé­sormais préoccupant et gros de complications. L'a­venir de la Belgique s'avère précaire dans de telles con­ditions, d'autant plus que la France essaie d'avancer ses pions partout dans l'économie du pays, de le co­loniser financièrement, avec l'ac­cord tacite de Kohl  —il faut bien le dire—  qui achète de la sorte l'ac­cep­tation par la France de la réunification allemande. Le pays implosera si son personnel poli­tique con­ti­nue à ne pas avoir de vision géopolitique cohérente, s'il ne reprend pas cons­cience de son destin et de sa mis­sion mitteleuropäisch,  qui le con­duiront de surcroît à retrouver les intérêts considé­rables qu'il avait dans la Mer Noire avant 1914, surtout les entreprises wallonnes! Non seulement l'Etat belge implosera s'il ne retrouve pas une vision géopolitique cohérente, mais chacune de ses compo­san­tes imploseront à leur tour, entraînant une catastrophe sans précédent pour la population et créant un vi­de au Nord-Ouest de l'Eu­rope, dans une région hautement stratégique: le delta du Rhin, de la Meuse et de l'Es­caut, avec tous les canaux qui les relient (Canal Albert, Canal Juliana, Canal Wilhelmina, Willems­vaart, etc.).

 

7. Le peuple flamand en Belgique a joué un rôle non négligeable lors de la guerre en ex-Yougoslavie, en apportant son aide au peuple croate. Qu'est-ce qui les unit?

 

Les nationalistes flamands s'identifient toujours aux peuples qui veulent s'affranchir ou se détacher de structures étatiques jugées oppressantes ou obsolètes. En Flandre, il existe un véritable engouement pour les Basques, les Bretons et les Corses: c'est dû partiellement à un ressentiment atavique à l'égard de la France et de l'Espagne. La Croatie a bénéficié elle aussi de ce sentiment de solidarité pour les peuples concrets contre les Etats abstraits. Pour la Croatie, il y a encore d'autres motifs de sympathie: il y a au fond de la culture flamande des éléments baroques comme en Autriche et en Bavière, mais mar­qués d'une truculence et d'une jovialité que l'on retrouve surtout dans la peinture de Rubens et de Jor­daens. Ensuite, il y a évidemment le catholicisme, partagé par les Flamands et les Croates, et un Kultur­na­tionalismus  hé­rité de Herder qui est commun aux revendications nationalistes de nos deux peuples. Mais ce Kulturnationalismus  n'est pas pur repli sur soi: il est toujours accompagné du sentiment d'ap­partenir à une entité plus grande que l'Etat contesté  —l'Etat belge ici, l'Etat yougoslave chez vous—  et cette en­tité est l'Europe comme espace de civilisation ou la Mitteleuropa comme communauté de destin histo­rique. Certes, dans la partie flamande de la Belgique, le souvenir de l'Autriche habsbourgeoise est plus ancien, plus diffus et plus estompé. Mais il n'a pas laissé de mauvais souvenirs et l'Impératrice Ma­rie-Thérèse, par exemple, demeure une personnalité historique respectée.

dimanche, 21 juin 2009

Perspectives géopolitiques eurasiennes

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Archives de" SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

 

Perspectives géopolitiques eurasiennes

 

 

Table ronde tenue dans les locaux de la revue moscovite Dyenn, organe de l'opposition

 

Avec la participation de Sergeï Babourine, Alain de Benoist, Alexandre Douguine, Lieutenant-Général Nikolaï Klokotov, Chamil Soultanov, Robert Steuckers

 

Les participants:

 

Chamil SOULTANOV: journaliste musulman, observateur politique à la rédaction de la re­vue Dyenn, spécialiste des questions géo-éco­no­miques et géopolitiques.

 

Sergeï BABOURINE: leader de l'opposition au sein du Parlement de la république de Russie et chef du groupe des députés "Rossiia" (= Russie); député, juriste. Il a eu plus de voix lors de l'élection au poste de président du haut conseil de la Russie au printemps de 1991; il battait ainsi son rival Chazboulatov, numéro 1 dans l'équipe d'Eltsine. Mais vu la fai­ble participation des électeurs à cette élec­tion, elle a été annulée. Babourine a fondé le parti patriotique "Renaissance", qu'il dirige de main de maître.

 

Alexandre DOUGUINE, Président de l'Asso­cia­tion historique-religieuse Arktogaïa, édi­teur, écrivain.

 

Nikolaï KLOKOTOV, Lieutenant-Général de l'Armée Soviétique; Directeur de la chaire de stratégie à la haute école de l'état-major de l'Armée Soviétique.

 

A. DOUGUINE: Commençons par prendre en considération la doctrine géopolitique eura­sien­ne. Aujourd'hui, les facteurs géopolitiques re­pren­nent toute leur importance, au moment, pré­cisément, où s'effondrent, avec une rapidité dé­concertante, les univers idéologiques qui avaient été conventionnels jusqu'ici. Nous ne pouvons plus envisager le monde dans l'optique dichoto­mique habituelle, opposant un camp socia­liste à un camp capitaliste. Sommes-nous ca­pable de don­ner une réponse satisfaisante quand on nous pose la question de savoir si la Russie d'aujour­d'hui vit sous un régime capitaliste ou un régime socialiste? Devant l'impossibilité de répondre à cette question, parce qu'il n'y a pas encore de ré­ponse, nous devons immanquable­ment nous ré­férer à un système doctrinal stable, pour pouvoir nous orienter dans le monde poli­tique, devenu très compliqué, parfois paradoxal. Je pense que l'approche géopolitique est pour l'instant la seule acceptable, parce qu'elle insiste sur les réalités politiques et historiques les plus durables et re­fuse d'accorder trop d'importance aux circon­stan­ces passagères et éphémères de la politique politicienne.

 

Je voudrais, ici, attirer votre attention sur un pro­jet géopolitique défendu par plusieurs auteurs en Europe actuellement. Tous appartiennent à des milieux intellectuels non conformistes. Généra­le­ment, on les désigne sommairement par l'éti­quet­te «Nouvelle Droite». Leur projet re­prend des thèses énoncées dans les années 20 par des géo­politiciens allemands, souvent russo­philes. Par­mi eux, les nationaux-bolchéviques regroupés au­tour de Niekisch et plusieurs repré­sentants de l'école de Karl Haushofer. Le noyau de ce projet, c'est l'application pratique de la cé­lèbre doctrine géopolitique du géographe britan­nique Sir Hal­ford John Mackinder, mais en en inversant le sens.

 

Mackinder jetait un regard bien circonstancié sur la situation géopolitique mondiale; en effet, son optique est celle des puissances thalassocra­tiques, surtout l'Angleterre; son objectif est de dé­fendre leurs intérêts. Pour Mackinder, le plus grand danger qui guettait les Etats maritimes, démocratiques et marchands (capitalistes) était l'éventualité d'une alliance entre tous les Etats tellurocratiques ou continentaux, autour du pays détenteur de la grande masse continentale, le Heartland. Le rôle-clef dans cette alliance, pour­rait être joué soit par la Russie soit par l'Al­le­magne soit par une quelconque alliance entre pays européens et/ou asiatiques.

 

Les nationaux-bolchéviques allemands et Haus­hofer ont tenu compte des thèses de Mackinder mais ont refus la politique d'endiguement qu'il préconisait. Ils voulaient, au contraire, que les puissances continentales s'unissent et se dé­ve­lop­pent en autarcie; base de cette union grande-continentale: l'alliance germano-russe, sur les plans géopolitique et stratégiques. Haushofer a donné le nom de Kontinentalblock  à ce projet, qui impliquait l'anti-américanisme ou, plus gé­néralement, l'opposition à toute forme d'impé­ria­lisme thalas­socratique. La Nouvelle Droite eu­ropéenne  —ra­dicalement anti-américaine et anti-bourgeoise—  a repris à son compte les mê­mes thèses, en les modernisant et en les appli­quant à la situation géopolitique actuelle. Le pré­curseur de cette ten­dance a été sans conteste Jean Thiriart, le leader d'un mouvement pour l'unité européenne, actif dans les années 60 en Belgique et en Italie et portant le nom de «Jeune Europe». Jean Thiriart n'a pas participé au lancement de la Nouvelle Droite: au moment où celle-ci voyait le jour, il s'était déjà retiré de la politique active et n'écrivait plus rien (années 1966-69). Ce n'est que vers 1983-84 qu'il a rédigé et distribué à comp­te d'auteur ses thèses sur l'unification eu­ra­sienne et formulé son projet «euro-soviétique».

 

Plus tard, l'anti-américanisme est systématisé par Alain de Benoist, chef de file de la Nouvelle Droite en Europe. L'intérêt pour les doctrines géopolitiques eurasiennes se retrouve dès 1981 chez Robert Steuckers, l'éditeur des revues Vou­loir  et Orientations.  En Allemagne, les cou­rants néo-nationalistes ne sont plus du tout rus­sophobes  —à quelques exceptions près—  et l'an­ti-américanisme est une constante solide­ment ancrée dans ces milieux. Un général de l'armée autrichienne, Jordis von Lohausen, ré­dige en 1979 un traîté de géopolitique, reprenant les thè­ses des écoles d'avant-guerre en les mo­derni­sant. Sa conception est très européo-centrée mais ses critiques contre l'Amérique sont acerbes.

 

Le noyau essentiel de cette démarche pro-conti­nen­tale et anti-thalassocratique, c'est la recon­naissance, réaliste et froide, nécessaire, qu'il y a opposition entre les puissances maritimes  —ras­semblées aujourd'hui dans le projet planétaire et thalassocratique des Etats-Unis, c'est-à-dire le «Nouvel Ordre Mondial»—  et les puissances eu­rasiatiques continentales de la Chine à l'Espa­gne. Cette opposition doit être reconnue comme telle, divulguée, présentée au public sans aucune équivoque de type moralisant, sans hypo­crisie.

 

Aujourd'hui, nous devons constater que le lobby atlantiste et pro-américain est très fort dans les pays eurasiatiques. Cette présence est patente dans les pays du Tiers-Monde (leurs dirigeants travaillent souvent ouvertement pour la CIA) et en Europe. Mais les événements récents que nous avons subis dans notre pays, montrent que ce lob­by est également ici, chez nous, en Russie. Il est donc temps d'y réfléchir pour que nous puis­sions amorcer une lutte consciente et cohérente contre ces forces, téléguidées depuis Washington. Or­ga­niser la résistance continen­tale eurasiatique est un impératif très actuel pour nous qui devons agir au nom de nos intérêts géo­politiques, au nom de notre tradition et de nos va­leurs étatiques et spirituelles, menacées par les Américains et leurs agents politiques et cultu­rels.

 

Ne pensez-vous pas, Messieurs, que la doctrine eurasienne devient aujourd'hui de plus en plus actuelle et nécessaire?

 

S. BABOURINE: Cette vision de l'actualité géo­politique me paraît extrêmement intéressante, mais un peu trop générale. Je voudrais attirer votre attention sur des problèmes plus concrets, quoique liés au thème central que nous soumet­tons à discussion. Nous, les Russes, avons as­sisté au cours de ces dernières années à la des­truction systématique de toutes les structures qui assuraient la sécurité de l'Etat. On en arrive même à détruire des structures plus directement vitales, dans les domaines économique et straté­gique.

 

Ce processus involutif a commencé dès l'annon­ce de la «démocratisation». Cette «démocratisa­tion» —qui est d'ailleurs quelque chose de tout à fait différent de la démocratie—  je pourrais la dé­finir comme le régime du «libéralisme nihi­liste». La doctrine du libéra­lisme rejette toutes les considérations d'ordre proprement géopoli­tique, de la même façon qu'elle refuse d'accepter les valeurs de l'Etat, de l'ordre politique, etc. Dans notre société, le libé­ralisme a nié les in­térêts géopolitiques natio­naux, les intérêts de l'instance qu'est l'Etat. Dans une telle situation, les idées positives, qui exigent une certaine élé­vation de l'esprit, parce qu'elles veulent penser un ordre concret pour le continent ou pour l'Eu­rasie, ne trouvent aucune réponse, dans une so­cié­té «démocratisante» qui s'enfonce dans les voies de l'anarchie et de l'hyper-individualisme délétère.

 

La crise alimentaire se fait sentir d'une ma­nière très forte. Par conséquent, toutes les tenta­tives de réveiller la conscience géopolitique du peuple russe seront bloquées par le nihilisme qui ne cesse de croître. Pourtant, travailler à réveil­ler cette conscience est nécessaire: le nihilisme ambiant ne doit pas nous empêcher de la faire.

 

Ch. SOULTANOV: A propos du libéralisme, je pense plutôt qu'il y a des nations intelligentes et des nations moins intelligentes. Les premières peuvent assimiler le poison imposé de l'extérieur et le transformer, sinon en remède, du moins en quelque chose d'inoffensif. Le modèle démocra­tique et libéral, qui est intrinsèquement anti-or­ganique, anti-traditionnel et anarchique, a été imposé au Japon et à l'Allemagne occidentale a­près la deuxième guerre mondiale. Mais ces deux pays ont réussi à introduire dans ce système libéral-démocratique des éléments issus de l'or­dre traditionnel, impliquant une hiérarchie des valeurs. Au Japon surtout, on peut retrouver der­riè­re la façade capitaliste et les discours libé­raux, les restes de l'esprit des samouraïs, l'éthi­que japonaise traditionnelle, la conscience aigüe des intérêts nationaux, le collectivisme créatif. A l'extérieur, le Japon correspond aux critères de la démocratie voulue par les Américains, mais l'esprit qui l'anime est radi­calement autre.

 

Je me demande pourquoi, nous Soviétiques, nous nous conduisons aujourd'hui comme une nation stupide, en acceptant sans aucune distance cri­tique les propositions libérales de l'Occident? De plus, nous n'avons même pas été vaincus par une puissance étrangère, comme c'était le cas pour le Japon et l'Allemagne. Pourquoi n'avons-nous pas imité l'expérience de la Chine, qui a pu réali­ser des réformes économiques très importantes sans crises brutales et catastrophes sociales? Vers 1985, nous étions une superpuissance relati­vement stable qui aurait eu seulement beoin de quelques modernisations superficielles et de quel­ques innovations technologiques. Pourquoi les changements ont-ils pris aujourd'hui une al­lure tellement dramatique?

 

S. BABOURINE: Je me souviens des paroles d'un homme politique russe, appartenant au camp des patriotes, Milyoukov. En observant les agitations du parlement bourgeois russe des an­nées 1916-1917, il se demandait: «Qu'est-ce que c'est? De la stupidité ou de la trahison?». Si cette question était posée aujourd'hui, la seconde pos­sibilité évoquée par Milyoukov répondrait à votre question, Monsieur Soultanov.

 

N. KLOKOTOV: A mon avis, le recours aux pers­pectives géopolitiques est un impératif caté­gorique aujourd'hui. Nous sommes le plus grand pays eurasien et nos intérêts sont inextricable­ment liés à l'espace eurasiatique et cela, sur tous les plans, économique, stratégique, politique, etc. On ne doit pas oublier que le continent eurasia­tique est beaucoup plus riche par ses ressources que le continent américain. Cela nous donne un certain avantage stratégique.

 

Ch. SOULTANOV: Mackinder affirmait que les puissances maritimes, surtout l'Angleterre, ne doivent jamais tolérer qu'un Etat continental s'or­ganise économiquement et politiquement, qu'il deviennent fort et puissant. Telle était la position traditionnelle de la Grande-Bretagne face à ses voisins européens. Par conséquent, dans cette même logique, l'éclatement de l'Etat soviétique répond aux nécessités stratégiques de la Grande Ile qu'est le Nouveau Monde, héritier de la politique thalassocratique anglaise, et ad­versaire de cette Plus Grande Ile qu'est l'Eu­rasie.

 

N. KLOKOTOV: Cette continuité géopolitique est désormais, pour ainsi dire, inscrite dans les gènes des peuples anglo-saxons. Face au Vieux Continent, les Etats-Unis ont hérité cette tactique de l'Angleterre. En tenant compte du développe­ment des armes modernes, l'Ile Amérique est de­venue pour l'Eurasie, ce qu'était jadis l'Angle­terre pour l'Europe. Pour ma part, je suis con­vain­cu que la conscience géopolitique des peuples est une faculté qui, peu à peu, devient hé­réditaire. Les Américains ont une mentalité d'insulaires. Ce qui m'amène à la certitude que les Améri­cains agissent toujours, en politique internatio­na­le, pour favoriser géopolitiquement leur Ile-Amérique et pour contrecarrer les sy­nergies à l'œuvre en Eurasie, le continent rival.

 

Par ailleurs, il m'a toujours paru évident que les expansionnismes allemands et japonais ne pou­vaient avoir disparu purement et simplement avec leur défaite de 1945. Nous, Russes, sommes contraints de regarder le retour du Japon et de l'Allemagne sur l'avant-scène de la politique internationale avec une certaine inquiétude. Vont-ils jouer le jeu de l'Ile Amérique ou parier pour l'unité eurasiatique? J'ai toujours refusé de croire que les Allemands étaient devenus de braves pacifistes innocents. Je ne crois pas qu'ils puissent un jour abandonner complètement leur prétention à vouloir unifier à leur profit et pour leur compte la masse continentale eurasienne ni à réaliser leur projet de Lebensraum à nos dé­pens. L'idée même d'une Allemagne pacifiste m'apparaît contre-nature. Raison pour laquelle les Russes doivent être constamment en état d'a­lerte sur le plan géopolitique.

 

A. DOUGUINE: Monsieur Klokotov, permettez-moi une question indiscrète. Y a-t-il dans l'Ar­mée Soviétique, actuellement, un lobby eura­sia­ti­que qui s'opposerait à la tendance nettement pro-atlantiste et pro-américaine de nos diri­geants «démocratiques» d'aujourd'hui, tels Gorbatchev, Yakovlev et Eltsine?

 

N. KLOKOTOV: Il n'y a pas qu'un lobby ou un groupe de stratéges. Trouver dans l'armée des atlantistes est extrêmement difficile, peut-être même impossible. Malgré les efforts des com­missaires politiques dans l'armée, qui voulaient nous convaincre que notre histoire militaire a commencé en 1917, nous, les officiers sovié­ti­ques, avions bien conscience du passé glorieux des armes russes; toutes les victoires russes de l'histoire étaient nos victoires. Et comme la stra­tégie militaire russe était essentiellement et na­tu­rellement eurasiatique, continentale et, en ce sens, universelle et supra-ethnique, ces mêmes traditions se perpétuaient dans l'armée soviéti­que. L'idée de la solidarité entre tous les peuples de l'Eurasie était le fondement doctri­nale de no­tre armée. Dans l'armée actuelle, au­cune que­rel­le n'oppose les nationalités, même si cette ar­mée est composée de représentants des ethnies les plus diverses. La conscience des inté­rêts grands-continentaux unit notre armée, comme devrait être soudé organiquement le ter­ritoire eurasien lui-même.

 

A. de BENOIST: Il faut rappeler la genèse de l'O­TAN. Cette alliance a été créée après la se­conde guerre mondiale pour organiser la défense des pays occidentaux contre la menace commu­niste venue de l'Est. Les peuples d'Europe occi­dentale ont également vécu tout ce temps sous la tutelle de l'OTAN, supposant naïvement que les Améri­cains les défendraient contre l'Union Sovié­ti­que. Quoi qu'il en soit, il est parfaitement évi­dent que, dans la situation actuelle, l'existence de l'OTAN a perdu pleinement sa si­gnification: le communisme en Union Soviétique n'existe plus et le Pacte de Varsovie, qui était le pendant de l'OTAN, s'est écroulé.

 

A. DOUGUINE: Objectivement, l'OTAN est dé­sormais une force globale garantissant stratégi­quement la domination planétaire de la civilisa­tion atlantique. Aujourd'hui, il est évident que seules les alliances stratégiques globales sont en mesure d'assurer le fonctionnement du système complexe qu'est la géo-économie mondiale. L'O­TAN se trouve être aujourd'hui la forme d'uni­fi­cation de la politique planétaire  —ou plus exacte­ment: de l'économie globalisée—  sous le signe de l'atlantisme et sous le commandement des puis­sances insulaires anglo-saxonnes, à sa­voir les Etats-Unis et leur «base maritime et aé­rienne en lisière de l'Europe», l'Angleterre.

 

A. de BENOIST: Cette «unification atlantique du monde» et, pour commencer, cette «unification atlantique de l'hémisphère nord» est l'objectif final de l'OTAN. Mais une telle «unification at­lantique» ignore totalement l'incompatibilité géopolitique globale entre les conceptions du mon­de —politique et géoéconomique— «conti­nen­tale» (eurasiatique) et «insulaire» (atlan­ti­que). Au fond, comment les théoriciens de l'O­TAN expliquent-ils le fait que leur al­liance existe? Auparavant, ils justifiaient l'OTAN par l'existence d'une menace sovié­tique. Actuelle­ment, ils parlent comme suit: après la faillite du communisme, il est tout-à-fait logique d'ad­mettre que l'ordre démocratique et libéral se propagera d'Ouest en Est et qu'un nombre tou­jours plus grand de pays de l'hémisphère nord seront intégrés dans un sys­tème socio-démo­cra­tique unique de type occiden­tal. L'OTAN, à l'heu­re actuelle, veut se donner un rôle de mé­diateur au niveau du processus d'intégration des régimes libéraux de l'hémisphère nord; veut participer au processus de soudure économique et industrielle des éco­nomies des différents Etats. Il ne faut d'ailleurs pas oublier que l'industrie militaire est partout un secteur industriel impor­tant.

 

A. DOUGUINE: Monsieur Steuckers, votre vi­sion du monde et de la politique est agonale et conflictuelle, éloignée de tout irénisme. Com­ment conciliez-vous l'idéal de pax eurasia­tica avec votre constat de la permanence du con­flit dans les relations inter-humaines et inter-éta­tiques?

 

R. STEUCKERS: Les conflits sur notre «hémis­phère eurasiatique» sont inévitables mais ils doi­vent être transformés en conflits lo­caux et ré­gulés, ce qui est impossible en dehors d'un bloc militaire stratégique unique en Eurasie. Nous devons combattre la conception de la «guerre ab­solue», avec son idéologie mani­chéenne où les adversaires se considèrent mu­tuellement com­me les représentants du «mal ab­solu». Nous a­vons vu l'exemple le plus détestable de cette ap­pro­che manichéenne quand les Américains, lors de la guerre du Koweit, ont été pris d'un délire de fanatisme puritain. Nous de­vons plutôt nous pen­cher sur le concept de «guerre de forme», c'est-à-dire sur les types de conflits  —vu la nature hu­maine les conflits sont malheu­reusement iné­vitables—  qui se déroulent entre de petites ar­mées composées de volontaires et de militaires professionnels, sans engagement de la popula­tion civile et sans destruction des éco­nomies na­tionales. Je le répète, nous ne sommes pas des utopistes et nous reconnaissons, bien sûr, que des conflits déterminés enflammeront tou­jours l'u­ne ou l'autre portion de l'espace eurasia­tique. Mais il sera nécessaire de les réguler en pensant au mode de belligérence que fut et pourra rede­venir la «guerre de forme»: les parties belli­gé­rantes doivent voir dans leur ennemi d'au­jour­d'hui un allié potentiel de demain.

 

N. KLOKOTOV: Considérez-vous, Monsieur Steuckers, que le refus de l'armement nucléaire de la part de la Russie mènera à une plus grande sécurité en Europe ou, au contraire, l'armement nucléaire russe a-t-il été et demeurera-t-il un facteur effectif de dissuasion des conflits locaux?

 

R. STEUCKERS: En Europe, le désarmement u­ni­latéral de la Russie et notamment son renon­cement unilatéral à l'armement nucléaire n'est avantageux pour personne. Nous avons toujours aspiré à ce que les troupes soviétiques abandon­nent les pays d'Europe centrale mais nous n'a­vons jamais voulu l'affaiblissement de la Rus­sie elle-même, qui, forte, a toujours jouer un rôle stabilisateur, tant au temps de la Pentarchie que pendant l'équilibre européen arbitré par Bis­marck. L'arme nucléaire en quantité limitée est effectivement nécessaire à l'Europe pour conte­nir les Etats-Unis ou d'autres puissances extra-continentales et pour prévenir des conflits locaux intra-européens ou intra-eurasiatiques.

En même temps, un puissant armement nu­clé­aire est extrêmement accablant d'un point de vue économique au point que les dépenses pour l'ar­me­ment ont déjà conduit l'économie améri­caine au seuil de la faillite; les Russes ne doi­vent pas se faire d'illusions à ce sujet. Les seuls modèles capitalistes efficaces aujourd'hui sont les modè­les japonais et allemand. La course aux arme­ments a détruit non seulement l'économie so­viéti­que mais également l'économie améri­cai­ne. Les dépenses pour un super-armement sont tout simplement insensées. Il est certes né­ces­saire d'avoir une arme nucléaire limitée per­mettant d'asséner sélectivement un coup puis­sant, fort et irrésistible destiné à prévenir l'ex­ten­sion des conflits, à arrêter la guerre to­tale. Mais pourquoi faut-il créer un potentiel suf­fisant pour détruire dix fois la planète entière? 

 

A. DOUGUINE: Pour l'armée tout est donc clair, comme vient de nous le dire le Lieutenant-Gé­néral Klokotov. Sur le même sujet, j'aimerais maintenant interroger Monsieur Babourine et lui demander quelles sont les orientations géopo­litiques de nos parlementaires, de nos députés.

 

S. BABOURINE: A la différence de Monsieur Soultanov, je ne crois pas qu'il y ait des nations intelligentes et des nations moins intelligentes. Je pense plutôt qu'il y a des peuples heureux et des peuples malheureux. Les peuples heureux ont des gouvernants sages. Aujourd'hui, notre peuple est extrêmement malheureux. La plupart des députés sont absolument incompétents en matières poli­tiques et géopolitiques. Ils agissent par la force de leurs émotions, de leurs sentiments éphémères, en suivant les suggestions séduisantes de la pe­tite clique des hypnotiseurs et des démagogues. Ces derniers sont bien conscients de leurs inté­rêts, mais évitent toujours de parler des questions géopolitiques, évitent même de prononcer ce mot parce qu'ils ont peur des définitions claires et sans équivoques que donne précisément la géopo­litique; on s'apercevrait tout de suite, si ces défi­nitions étaient largement répandues dans la classe politique et dans l'opinion publique, qu'ils agissent contre les intérêts nationaux de notre Etat et de notre peuple. Deux exemples: celui des Iles Kouriles et celui des frontières russo-ukrai­niennes. On veut rendre les Iles Kouriles au Ja­pon pour obtenir un soutien financier (dérisoire d'ailleurs) de Tokyo; mais sur le plan économi­que, politique, géopolitique, stratégique et surtout moral, ce serait une perte gigantesque, une tra­gédie nationale, un choc pour notre cons­cience, une humiliation profonde. Pire, cela risque d'a­morcer un processus destructeur de ré­vision gé­nérale de toutes les frontières du globe. Si nous acceptons comme légitime cette pratique de révi­ser les frontières nationales, nous créons impli­ci­tement un terrible précédent; des guerres en chaîne risquent de s'ensuivre.

 

Une autre tragédie risque de se produire, à la fois géopolitique et religieuse: la destruction de la synthèse unique entre les trois grandes cultures religieuses (chrétienté, islam, bouddhisme) qui s'est réalisée dans les terres de Russie. Enfin, troisième menace, tout aussi terrible: le risque de brisure irrémédiable de l'unité des trois peuples slaves orientaux (Grands-Russiens, Petits-Rus­siens ou Ukrainiens et Blancs-Russiens). Si cet­te rupture est consommée lors du prochain ré­fé­rendum sur l'indépendance de l'Ukraine, ce se­ra une catastrophe gigantesque. Nous sommes en­racinés dans toutes les parties de la Russie; nous avons tous des parents dans toutes les répu­bliques, parmi tous les peuples qui vivent sur nos terres.

 

Dans tous ces événements, j'aperçois clairement la trace du travail qu'accomplissent les forces qui veulent à tout prix détruire l'unité eurasia­tique, affaiblir l'organisme géopolitique conti­nental, dresser des obstacles à toute réssurection possible de la Russie en tant que grand empire eurasien. Mais cette politique de sabotage systé­matique n'est pas seulement venue de l'exté­rieur. Ce sont nos politiciens qui détruisent sys­té­matiquement le pays de l'intérieur. C'est en pen­sant anticipativement les conséquences ter­ribles de cette involution politique, en envisa­geant la catastrophe grande-continentale qui ris­que de survenir, qu'il faut juger les orienta­tions géopolitiques de nos dirigeants et de nos par­lementaires. Leurs positions, mêmes ina­vouées, deviennent bien claires quand on cons­tate leurs actes concrets.

 

Ch. SOULTANOV: Je voudrais rappeler les ar­guments qu'évoquent souvent les opposants à l'i­dée eurasienne. Je m'adresse surtout à Ale­xan­dre Douguine. On ne peut pas nier que l'Eurasie d'aujourd'hui est loin, très loin, d'être le conti­nent harmonique et pacifié. Elle est dé­chirée par les conflits intérieurs: guerre récente entre l'I­rak et l'Iran, guerre inter-ethnique en Yougosla­vie, guerre en Afghanistan, menées sé­paratistes en Inde (les Sikhs), conflits entre na­tionalités de l'ex-URSS, etc. Pire: bon nombre de puissances en Eurasie possèdent l'arme nu­cléaire, ce qui augmente les chances de voir se déclencher une apocalypse, scellant définitive­ment le suicide de tous nos peuples. Ne doit-on pas rechercher plutôt qu'une opposition entre deux continents, une har­monie planétaire, se ba­sant sur des valeurs uni­versellement humaines, non pas contre l'Amé­rique, mais avec l'Amérique?

 

A. DOUGUINE: Premièrement, je refuse à croi­re aux «valeurs universellement hu­maines», parce que c'est, à mon avis, une abs­traction, une utopie, absolument vide de sens; ces «valeurs» font partie de l'héritage de la Révolution fran­çaise et de la pensée rationaliste de l'ère des Lu­mières: elles sont aussi optimistes qu'elles sont infantiles.

 

Ch. SOULTANOV: Mais toutes les religions sont d'accord pour affirmer l'unité de l'homme.

 

A. DOUGUINE: Oui, dans un autre sens, dans le sens spirituel, au niveau de l'archétype intempo­rel, et non pas dans la réalité historique contin­gente. De plus, les différentes religions expri­ment des conceptions différentes de l'«universa­lisme anthropologique». L'universalisme chré­tien  —dont il existe d'ailleurs beaucoup de va­riétés—  est une chose, l'universalisme isla­mi­que en est une autre, etc. On peut admettre la possibilité d'une alliance, par exemple, entre les Chrétiens et les Musulmans pour la défense des intérêts géopoli­tiques de l'Eurasie, mais les dif­fé­rences entre leurs valeurs religieuses respec­tives n'en dimi­nueront pas pour autant. D'ail­leurs le monde d'aujourd'hui n'est pas guidé par les facteurs spirituels et religieux, donc je trouve votre objec­tion est dépourvue de consistence.

 

Par ailleurs, le célèbre politologue allemand Carl Schmitt, popularisé en Europe par les efforts des nouvelles droites, est devenu aujourd'hui l'auteur le plus indispensable pour donner un re­gain de sérieux aux facultés de sciences poli­tiques et sociales en Europe occidentale. Carl Schmitt, dans toute son œuvre, insiste sur la dis­tinction ami/ennemi, ou, plus précisément, entre «les nôtres» et les «non nôtres» (en russe: nachi  et nenachi).  Cette distinction est à l'origine de toute communauté humaine, depuis les tribus pri­mitives jusqu'aux empires les plus complexes et les Etats les plus grands. Nier la distinction a­mi/ennemi, nôtres/non-nôtres, serait faire vio­len­ce à la nature humaine, sombrer dans l'arti­ficialité monstrueuse et contre-naturelle. Je pen­se que les défenseurs des «valeurs univer­selle­ment humaines» ne croient pas eux-mêmes en l'abstraction qu'ils proposent et suggèrent; ils l'utilisent pour masquer leurs buts géopolitiques et politiques véritables. Eux aussi opèrent la dis­tinction entre «nôtres» et «non-nôtres». Leurs «nôtres» restent souvent dans l'ombre et sont ra­dicalement les ennemis de nos «nôtres». Le seul «universalisme» que nous devons reconnaître comme réel, réaliste et concret est l'univer­sa­lis­me eurasien, qualitatif et différen­cié, poly-ethni­que et organique.

 

Je voudrais aussi insister sur la nécessité, au­jourd'hui, à l'heure critique où nous vivons, d'é­largir les limites dans lesquelles nous avions coutume d'enfermer notre conception des «nô­tres». Ces limites ne seront plus celles de l'ex-URSS, mais celles, naturelles et géogra­phiques, du grand continent eurasiatique. Toutes les for­mes de (petit)-nationalisme ou de chauvi­nisme sont des alliées objectives des forces hos­tiles à la synergie constructive eurasiatique. Dans le mon­de actuel, la liberté d'un peuple, quel qu'il soit, dépend directement de l'autarcie géo­poli­tique et géo-économique du continent sur le­quel ce peuple vit. Les Russes, les Allemands, les Ja­ponais, les Français, les Serbes et les Croates, les Caucasiens, les Indiens, les Irakiens et les Ira­niens, les Espagnols, les Vietnamiens et les Chi­nois, en tant que nations, ne seront plus ja­mais libres, indépendants et forts si un Empire eura­sia­tique ne se constitue pas. Les peuples de l'ex-URSS et tous les autres peuples d'Europe, sans instance grande-continentale eurasienne, reste­ront à jamais les «petits frères» de l'Oncle Sam. Dans ce vaste processus de libération anti-amé­ri­cain et donc anti-impérialiste, trois Etats sont historiquement destinés à jouer un rôle uni­fi­ca­teur important, à devenir conjointement le Heart­land  eurasiatique: la Chine, la Russie et l'Allemagne. Pour réaliser cette fantastique sy­nergie, nous avons besoin de la participation de tous les peuples et de tous les pays eurasiens. Ils sont tous des «nôtres».

 

Nous devons clairement apercevoir l'unique fron­tière qui sépare les «nôtres» des «non-nô­tres». C'est la frontière entre l'Eurasie (non seu­lement géographique, mais aussi spirituelle, cul­turelle, idéologique, traditionnelle) et l'Occident «atlantiste» et extra-européen, l'Occident améri­cain. Je suis partisan d'une union et d'une uni­versalité plus larges mais, pour être concrète, définie et réelle, cette univer­salité doit s'arrêter, trouver des limites tan­gibles, sur la façade mari­time occidentale de la masse continentale eura­sienne. Au-delà des «colonnes d'Hercule», de Gi­braltar ou du Cap Saint-Vincent, commence u­ne autre planète, un autre monde, aliéné et hos­tile. Certes, nous pou­vons faire une exception pour les Amérindiens, ces enracinés qui conser­vent malgré tout leur propre identité, leur propre tradition. Ils sont des «nôtres», contrairement aux yankees, avec leur messianisme qui veut promouvoir les «valeurs universellement hu­mai­nes», en même temps que leurs «Mac'Do'» et leurs banques.

 

S. BABOURINE: Je ne partage pas le radica­lisme de vos propos. Il y a des valeurs universel­lement humaines, comme le droit de vivre, par exemple, ou quelques vérités religieuses, etc. En revanche, je suis radicalement contre l'emploi de la rhétorique humaniste et de la démagogie quand elles servent à masquer la destruction de l'Etat et la désintégration des systèmes de sécu­rité. C'est de la manipulation et du lavage de cerveaux.

 

Ch. SOULTANOV: Vous avez mentionné la sé­curité de l'Etat. Comment la pensée militaire so­viétique voit-elle le rôle de l'Etat soviétique en tant que puissance nucléaire à ces trois niveaux que sont la planète, le continent et l'Etat russe?

 

N. KLOKOTOV: Nous avons construit notre doc­trine militaire en prenant ces trois niveaux en considération. Détenir l'arme nucléaire et peser très lourd sur le plan des armements con­ven­tionnels, tels étaient les deux atouts décisifs qu'a­vançait l'armée soviétique pour garantir l'é­­quilibre planétaire entre les deux blocs. Grâce à l'URSS, les Atlantistes américains et leurs in­térêts commerciaux étaient confrontés à des li­mites sur le continent eurasiatique. De facto, le Pac­te de Varsovie était un pacte eurasien ina­che­vé. Nous étions les garants de l'ordre: grâce à no­tre force dissuasive, aucun conflit grave ne pouvait survenir en Eurasie. De ce fait, l'armée soviétique avait une fonction équilibrante tant au niveau global qu'au niveau continental. Elle as­surait la parité. La doctrine dominante de notre stratégie militaire était qualifiable d'«eura­sis­te». On peut donc dire que la sécurité planétaire (globale), la sécurité continentale et la sécurité de l'Etat soviétique étaient étroitement liées entre elles; elles étaient au fond une seule et même cho­se.

 

Dans le vaste contexte eurasien, le rôle de l'ar­mée soviétique était le suivant: grâce à sa simple existence, les autres peuples d'Europe et d'Asie n'avaient pas besoin d'entretenir d'armée, si­non des unités limitées numérique­ment pour as­surer l'ordre intérieur dans de pe­tites entités po­litiques. De telles armées n'auraient eu qu'une fonction symbolique en cas de conflit global. En revanche, quand la donne a changé en URSS, on s'est aperçu que l'armée so­viétique n'était pas préparée du tout à faire face à des conflits locaux ou à intervenir dans des luttes intestines. Toute notre stratégie avait été élabo­rée pour garantir la paix à grande échelle et non pas à vaincre dans de petits combats (en situation de Kleinkrieg).  L'objectif principal de notre armée à toujours été d'assurer la paix planétaire.

 

Même aujourd'hui, après la dissolution du Pacte de Varsovie, notre armée continue à servir cet ob­jectif, tout simplement parce qu'elle possède l'arme nucléaire et que se structuration straté­gique est demeurée telle. Il n'est pas sérieux de parler de la «souveraineté» des républiques ou même des libertés des pays d'Europe orientale si ces républiques et ces pays ne possèdent pas de forces militaires suffisantes pour défendre cette liberté et cette indépendance. Paradoxalement, ces républiques et ces pays ne peuvent être «in­dépendants» que s'ils dépendent de l'armée so­viétique! Autrement, le voisin le plus fort les avalera à la première occasion. Toute «souve­rai­neté» sans armée forte, capable de ga­rantir ef­ficacement l'indépendance, est pure chimère, même au niveau juridique. Même au cas où les républiques de l'ex-URSS se partage­raient une fraction plus ou moins importante de l'arsenal nucléaire soviétique, cette fraction demeurera tou­jours insuffisante pour les rendre réellement li­bres. Arithmétiquement, la République de Rus­sie sera toujours plus forte sur le plan militaire. C'est pourquoi toute cette rhéto­rique indépendan­tiste, déversée sur les ondes ou dans les colonnes des journaux, sans aucune considération profon­de de la situation straté­gique, géopolitique et mi­li­taire, me paraît être de la pure démagogie, in­consistante et vide de sens. La souveraineté et l'indépendance ne seront ga­ranties aux répu­bliques que si elles participent à une alliance stra­tégique et géopolitique avec la Russie ou avec un Etat soviétique rénové mais qui n'aura pas aliéné les instruments de sa sou­veraineté. D'ail­leurs, quel que soit le nom, URSS, CEI ou autre, la donne géopolitique et géostratégique restera la même.

 

Ch. SOULTANOV: D'accord, mais vous ne pou­vez pas nier que le bloc OTAN demeure toujours puissant et continue à développer ses capacités militaires et stratégiques; quant au bloc alterna­tif, il se réduit aujourd'hui à la seule Russie, qui se dégrade de plus en plus et se trouve entre les mains de politiciens de tendance atlantiste. Nous devons donc nous attendre à la fragmenta­tion définitive de l'ancienne URSS et même à ce que les républiques, Russie comprise, vendent leurs armes nucléaires à des pays relativement belliqueux, le Pakistan par exemple. Aujour­d'hui, l'armée soviétique est presque en­tière­ment détruite. Dès lors, les propos de Monsieur Klokotov ne sont-ils pas un peu ana­chroniques?

 

A. DOUGUINE: Pour ma part, je voudrais insis­ter sur le caractère artificiel de la destruction du système soviétique. J'ai toujours été un ennemi du socialisme marxiste et du système soviétique mais, malgré cela, je veux rester honnête et avouer qu'avant la perestroïka, la situation en URSS n'était guère critique des points de vue économique, politique, technologique, etc. Nous, les dissidents, étions une minorité infime; nos idées anti-soviétiques n'avaient pas la moindre incidence sur le peuple. En 1985, des pays beau­coup moins stables que l'URSS survivaient sans trop de problèmes depuis des décennies et pour­suivent leur bonhomme de chemin. Mais Gor­ba­tchev a commencé par déstabiliser l'Etat, en provoquant des conflit, en ébranlant les struc­tu­res administratives, en bouleversant les habitu­des idéologiques, en dénonçant les vérités incar­nées dans l'homo sovieticus. En prétendant en finir avec la «sclérose» de l'armée (qu'est ce que cela signifie, dans le fond?), on fait sauter toute sa structure. Volontairement, on a troqué une i­déologie totalitaire contre une autre, qui n'est pas moins totalitaire, je veux dire qu'on a troqué l'u­topisme marxiste/communiste contre l'utopisme démocratique/capitaliste, sans faire preuve de la moindre correction à l'égard du peuple et sans aller à l'encontre de ses demandes d'ordre spi­rituel ou existentiel. Quel que soit le but de Gor­batchev et d'Eltsine, il demeure évident que leurs orientations géopolitiques sont non seu­lement pro-occidentales mais, pire, extrême-oc­ci­den­ta­les, c'est-à-dire atlantistes, agressive­ment pro-a­méricaines et anti-eurasistes, anti-euro­péen­nes dans le sens où le destin de la Russie et celui de l'Europe sont intimement liés. Je perçois bien la contradiction entre, d'une part, la doctrine stra­tégique développée par l'état-ma­jor sovié­ti­que  —laquelle est eurasiste plutôt que marxiste ou communiste, comme vient de nous l'expliquer le Lieutenant-Général Nikolaï Klokotov—  et, d'au­tre part, la doctrine géopoli­tique pro-atlan­tiste des chefs de l'Etat post-sovié­tique actuel. J'en déduis que les idées défendues par Nikolaï Klokotov ne sont pas anachroniques mais consti­tuent plutôt une conception opposée à celles des auteurs et des praticiens de la peres­troïka. Géopo­litiquement parlant, les transfor­mations à l'œu­vre aujourd'hui sont globalement négative pour l'ensemble eurasiatique. Mes con­victions per­son­nelles me portent à croire que les chefs de l'URSS actuelle, partie en quenouille, sont les agents inconscients, non pas tant des services secrets étrangers (ça reste à prouver; nous n'a­vons aucune preuve tangible), mais, métaphy­si­quement, je crois qu'ils sont les agents de l'autre continent, car ils font le jeu, naïve­ment, des in­térêts atlantistes et anti-eurasiens.

 

J'aimerais aussi répondre à Sergueï Babourine, puisqu'il m'a interpellé à propos du «droit de vi­vre». Je crois, moi, qu'il y a des valeurs qui transcendent le simple droit de vivre. Les va­leurs qui se profilent derrière la pensée géopoli­tique, les valeurs supérieures de l'Etat, les va­leurs véhiculées dans la chair du peuple, par la Tradition, par l'héritage historique de la nation sont plus hautes que notre misérable vie indivi­duelle, éphémère et inéluctablement vouée à la mort. La Russie a été un grand empire continen­tal parce que des millions de Russes sont morts, ont donné, avec des millions de ressortissants d'autres peuples de l'empire, leur «droit de vi­vre» pour que s'instaure sur la planète cet Em­pire/Etat gigantesque et grandiose, qui res­tera, dans les mémoires, couvert de gloire éter­nelle, grâce à ses victoires, ses guerres, l'exemple des génies qu'il a produits, grâce à la culture qu'il a fait éclore, grâce à sa tradition et sa spiritualité. Cet Empire/Etat avait une grande mission eura­siatique à accomplir, dont les di­mensions histo­ri­ques et religieuses ne doivent pas nous échap­per. Pour ces valeurs, les meil­leurs fils de la Pa­trie mourraient et tuaient. Voilà la grande vé­rité, nue et crue, que nous dé­voile l'histoire. Nous, les Russes, sommes tout naturellement, par le fait de notre naissance, de notre culture, de nos racines, les soldats de cet Empire, les soldats de l'Eurasie. Et nous devons, au lieu de ratio­ciner sur ces abstractions mé­diocres que sont le «droit de vivre», les «droits de l'homme», les «valeurs universellement hu­maines», mourir et tuer pour les intérêts, de la Russie, du Grand Con­tinent eurasiatique, de la Planète. Nous de­vons n'être qu'une armée où seuls comptent la discipline et le devoir.

 

S. BABOURINE: D'accord. Pour notre peuple, la période de la perestroïka est la période d'expan­sion d'une nouvelle idéologie qui lui est consub­stan­tiellement étrangère. A présent, notre peuple est groggy, sa conscience est obscurcie, troublée. Il ne comprend pas ce que les nouveaux chefs de l'Etat comptent faire de lui. Il n'a pas été préparé. Il est knock-outé. En gros, je pense comme Dou­guine, mais je mettrais l'accent sur d'autres cho­ses. Ou plutôt, je simplifierais la problématique en disant que l'essentiel, au­jourd'hui, est de dé­fendre la Patrie. A tout prix. Car tel est notre de­voir. La Russie est en danger. Et c'est en défen­dant la Russie sur les plans spi­rituel, idéolo­gi­que et physique que nous abouti­rons, tout naturel­lement, à la défense du Grand Continent, à la conscience de sa dynamique géo­politique, à la di­mension axiologique eura­sienne proprement dite.

 

Ch. SOULTANOV: Ne pensez-vous pas, Mon­sieur Douguine, que le projet eurasiatique est une utopie nouvelle, alors que la réalité éco­nomique et les intérêts de la vie quotidienne nous dirigent vers d'autres perspectives, plus con­crètes et net­tement moins héroïques. L'Occident et surtout les Etats-Unis vont profiter de la crise écono­mique en Russie pour acheter tout simple­ment le pays, ses politiciens et ses dirigeants, comme c'est le cas partout dans le tiers-monde. Le peuple sera satisfait d'exécuter les ordres des gouver­neurs de la Banque mondiale, à condition de re­cevoir à manger. Le pathos eurasiatique est cer­tes très séduisant pour l'élite et les patriotes con­vaincus mais le peuple, lui, ne s'en souciera guè­re; il préfèrera sans doute la satiété et la colo­ni­sation à l'indépendance et au combat.

 

S. BABOURINE: Dans la rue, on dirait que c'est déjà le cas.

 

A. DOUGUINE: Sans doute que, dans un premier temps, le choix du peuple se portera vers l'atlan­tis­me. Mais, à long terme, je doute que la greffe soit possible. L'atlantisme, en soi, est une idéolo­gie qui est diamétralement opposée à notre idéo­logie intrinsèque, à notre nature russe, à notre idéologie russe, à nos traditions, à notre histoire. Les auteurs eurasistes du début de ce siècle, com­me Troubetskoï, Vernadsky, etc., ont démontré que la révolution bolchévique a été une réponse spontanée et aveugle à l'expansion du capitalis­me et de son idéologie implicite, indivi­dualiste et égoïste. Le communisme n'avait qu'un seul côté attirant: son engagement anti-bourgeois et anti-individualiste. Les Russes, à cette époque, vi­vaient toujours dans la dimension du collec­ti­visme spirituel, dans l'esprit de l'obchtchina,  c'est-à-dire la communauté (Gemeinschaft) qua­litative et organique tradi­tionnelle. Quand notre peuple prendra cons­cience de l'essence anti-rus­se du modèle améri­cain, il réagira. D'une ma­nière brutale.

 

Par ailleurs, je refuse de croire à la supériorité absolue de l'économie capitaliste; notre écono­mie a commencé à se désintégrer quand on y a in­troduit des éléments capitalistes. Dans le tiers-monde, beaucoup de pays capitalistes connais­sent la misère. De plus, le bien-être offert par le capitalisme est également très exagéré. Cette re­lativisation du fait capitaliste me permet de ne pas considérer a priori les réflexions d'ordre géopolitique, les perspectives eurasistes, comme des utopies. En outre, je ne crois pas que le pou­voir et le lobby atlantistes dureront longtemps dans notre pays. Les réflexes communautaires des Russes sont trop profondément ancrés dans l'âme du peuple pour qu'on puisse les en éradi­quer. L'âme russe est pourtant plastique: elle peut assimiler toutes les idéologies, sauf celle qui veut expressément son assèchement et sa dispari­tion. Qui plus est, les «démocrates» ne pourront jamais nourir convenablement le peuple. Ils sont malhabiles à l'extrême et n'ont aucun sens de la responsabilité. Les révoltes de la faim éclate­ront. La haine à l'égard des politiciens prendra des proportions inouïes. Le pouvoir «démo­crati­que» va tomber et les gouverneurs de la Banque mondiale seront renvoyés dans leurs pays. Par conséquent, les intérêts eurasiens se­ront les seuls à l'avant-plan à court ou moyen terme. Raison pour laquelle nous ne pouvons né­gliger les projets géopolitiques eurasiens, les re­jeter comme quelque chose de trop «intellectualiste» ou d'«utopique». Je déplore au contraire l'absen­ce d'intellectualité chez les nôtres. La stupidité de nos «démocrates» me ré­jouit. Mais je crains que la révolte populaire, anti-démocratique et an­ti-atlantiste, ne soit ré­cupérée, une fois de plus, par quelques aventu­riers idéologiques ou par des sectes politiques étrangères aux intérêts russes et eurasiatiques, comme en 1917. Je ne crois pas qu'on puisse acheter notre peuple; on peut le sé­duire mais pour cela, il faut faire preuve d'au­torité, encourager l'esprit communautaire qui gît au fond de son âme et connaître les détours de la psyché russe. Les atlantistes sont incapables de faire ce tra­vail. Donc, en dépit de leurs efforts, la réponse sera eurasiatique.

 

N. KLOKOTOV: A propos de la satiété, je me sou­viens d'une conversation que j'ai eue à Rome a­vec un général de la Bundeswehr qui me de­man­dait: «Qu'allez-vous faire avec l'aide hu­mani­taire de l'Occident?». J'ai répondu qu'il n'y a pas meilleur moyen de tuer les capacités à pro­duire les biens que de donner ceux-ci en ca­deau. La fameuse aide occidentale nous perver­tit; elle fait de nous des parasites. Cette aide est perverse: elle est une forme de lutte idéologique qui, sous le couvert souriant de la générosité, em­pêche toute renaissance possible de notre peuple, rend inutile les efforts de notre peuple dans la re­construction pour lui-même d'un appareil indus­triel et de services.

 

Ch. SOULTANOV: Réalisable ou non, le projet eurasien reste très intéressant et digne d'une étu­de approfondie. Par conséquent, je pense qu'il faut l'étudier sous tous ses aspects dans les mi­lieux intellectuels, culturels, politiques et mili­taires. Il est temps, pour nous, d'appeler les cho­ses par leur nom, sans équivoques et sans il­lu­sions.

 

A. DOUGUINE: Monsieur de Benoist, vous qui vi­vez à Paris, au sein de la culture occidentale, comment réagissez-vous quand on vous parle de «continent eurasien», thème qui n'a pas beau­coup été abordé en France?

 

A. de BENOIST: Je considère le projet eurasia­tique, l'alliance eurasienne à l'échelon culturel, économique et peut-être militaro-stratégique com­me nécessaire et souhaitable au plus haut point. Il est possible que la création définitive du bloc eurasien soit le stade final d'un long proces­sus. Le continent eurasiatique est un conglomé­rat géant de formations politiques, nationales et étatiques diverses. Nous ne pourrons pas en une seule fois parvenir à l'intégration géopolitique définitive. La majorité des ethnies et des peuples eurasiatiques ont des racines culturelles, histo­riques et traditionnelles communes bien plus pro­fondes que les frictions et les conflits de l'his­toire de ces derniers siècles qui, en compa­raison du cycle de vie d'une ethnie, occupent un espace-temps assez insignifiant.

 

A. DOUGUINE: Habituellement, deux principes en apparence antagonistes s'opposent au projet du «mondialisme atlantique»: le principe du régio­nalisme, de la conservation de l'ethnie, du «na­tio­nalisme local» et le principe de l'union eura­sienne globale, la théorie de l'«autarcie des grands espaces»...

 

A. de BENOIST: Je considère qu'il s'agit là de deux niveaux différents d'un seul et même pro­cessus; l'un inférieur, l'autre supérieur. A l'heu­re actuelle, nous ne devons pas insister uni­quement sur l'unification eurasienne puisque nous n'avons pas encore les moyens suf­fisants pour réaliser un tel projet. Nous devons commen­cer par le bas, en opposant au mondia­lisme les valeurs ethniques, régionales et natio­nales, les traditions, les principes organiques, commu­nau­taires et qualitatifs de l'organisation sociale. Mais cette opposition doit nous permettre de pré­parer le fondement intellectuel et culturel de la future unification; doit contribuer à l'instau­ra­tion de la compréhension réciproque entre les for­ces eurasiennes orientées dans le sens conti­nen­tal. Nous devons travailler au ni­veau des ré­gions tout en pensant au continent.

 

Il y a des aspects positifs dans l'unification al­lemande, en ce qu'elle constitue l'amorce du dia­logue eurasiatique. L'alliance étroite entre la Russie et l'Allemagne est gage de paix pour le continent eurasien. Toute la question est de sa­voir si l'URSS d'hier pourra passer sans heurts à la création d'un nouveau bloc continental eura­siatique. Il me semble, hélas, que c'est impos­si­ble. Apparemment, nous devrons passer par une période transitoire de chaos: d'abord la dé­sin­té­gration du bloc des pays de l'ex-Pacte de Var­so­vie; ensuite le chaos et la guerre civile dans les pays d'Europe orientale; enfin, la désin­tégration de l'URSS et même, peut-être, de la Russie. Tous ces processus  —et particulièrement la désin­té­gra­tion de la Russie—  sont des phéno­mènes pu­re­ment négatifs mais qui, malheureu­sement, sont presque inévitables.

 

R. STEUCKERS: Toutes les guerres eurasiennes de ces derniers siècles n'ont amené que des ré­sultats négatifs; pensons à la guerre russo-sué­doise au temps de Charles XII, à Napoléon, à Hitler, etc. Chaque guerre eurasiatique, gagnée ou perdue, a mené uniquement à l'exarcerbation des problèmes géopolitiques, sociaux, nationaux et économiques et nullement à leur résolution. Chaque guerre menée entre les pays de l'Est et de l'Ouest, chaque conflit se développant le long de cet axe est contre nature et enfreint les liens géo­politiques et géo-économiques organiques tou­jours plus solides et profonds le long des latitudes et se relâchant au contraire le long des longi­tudes du globe terrestre. Selon une loi détermi­née, non encore comprise dans son entièreté, les pays du Nord se sont toujours distingués, dans l'histoire médiévale et contemporaine, par un niveau plus élevé de développement économique ou par un sens plus aigu du politique, face à leurs adversaires en décadence; raison pour laquelle  tous les conflits qui les opposent tendent inévita­blement vers une crise planétaire globale. Le Nord, plus riche, peut et doit livrer sa production excédentaire au Sud plus pauvre. C'est notam­ment du Nord vers le Sud que doit passer l'ex­pansion culturelle positive, qui ne signifie nul­lement un impérialisme exploiteur. Presque tou­jours  dans l'histoire, lorsque l'influence cultu­relle et économique s'est propagée du Nord au Sud (du Japon en Chine; de la Russie à l'Asie Cen­trale au XIXième siècle, etc.), nous avons ob­tenu un résultat harmonieux et naturel. Les ex­pansions le long de l'axe Est-Ouest, au contraire, ont mené systématiquement à la destruction de tout équilibre et à la catastrophe.

 

Il faut d'ailleurs souligner que l'expansion de la Russie à travers le continent asiatique a été une expansion pleinement harmonieuse et naturelle; en effet, à partir du XVIIième siècle, les Russes, descendants directs des peuples indo-européens jadis répartis dans l'actuelle Ukraine et dans la partie occidentale de la steppe centre-asiatique, ont suivi la même voie que leurs ancêtres scythes et iraniens qui ont créé l'empire perse et la civi­lisation védique en Inde dans la plus haute anti­quité. C'est de ce point de vue d'ailleurs, que la Russie peut, aujourd'hui, se considérer comme la puissance politique qui est l'héritière directe de ces conquérants indo-européens. En Europe occi­dentale, l'Empire romain a commencé son ex­pansion méditerranéenne contre Carthage, diri­geant ses énergies vers le Sud, vers l'Afrique du Nord, grenier à blé. Ce mouvement était orga­nique et harmonieux; quand Rome s'est retour­née contre son réservoir de population celtique et germanique, contre la Gaule et la Germanie, son déclin a commencé.

 

A partir de ses lois géopolitiques et historiques, nous pouvons comprendre à quel point est dange­reuse l'intrusion militaire, culturelle et écono­mique de l'Amérique en Europe et en Asie: cette intrusion contredit en effet la logique naturelle Nord-Sud et représente une ingérence catastro­phique, génératrice de crises, le long de l'axe Est-Ouest. L'ingérence américaine, nouveauté du XXième siècle, est source de déséquilibre cons­tant sur le continent eurasien; cette expan­sion va de paire avec des conflits entre Etats eu­rasiatiques littoraux et insulaires, d'une part, et Etats centre-continentaux (Allemagne/Grande-Bretagne; Russie/Angleterre en Asie centrale et en Afghanistan; Chine/Japon; etc.). L'Amé­ri­que, imitant l'exemple de l'Angleterre, vise tou­jours à provoquer des conflits sur les franges lit­to­rales du grand continent. En Extrême-Orient, c'est la politique d'attiser les conflits entre la Chine et le Japon, la Corée du Nord et la Corée du Sud, le Vietnam du Nord et le Vietnam du Sud. En Europe, c'est l'opposition entre Etats occiden­taux littoraux ou insulaires (France et Grande-Bretagne) et Etats centraux ou orientaux "conti­nen­taux" (Allemagne, Autriche-Hongrie, Rus­sie). La stratégie de l'américanisme consiste à conquérir (particulièrement sur les plans cultu­rel et éco­nomique) les Etats littoraux, tant sur la façade atlantique que sur la façade pacifique. Cette poli­tique enfreint directement la logique na­turelle du développement le long d'axes nord-sud et fait obstacle au renforcement des liens con­tinentaux eurasiens. Notons, par ailleurs, que dans le cadre de leur propre hémisphère oc­cidental insu­laire, les Etats-Unis utilisent ad­mi­rablement la logique Nord-Sud, en unifiant selon leurs propres critères géo-économiques le Ca­nada, les Etats-Unis (puissance dominante dans le jeu) et le Mexique. C'est la logique pana­méricaine.

 

A. DOUGUINE: Comment vous apparaît, Mon­sieur Steuckers, l'alliance stratégique et mili­tai­re des puissances eurasiatiques?

 

R. STEUCKERS: Elle est nécessaire. Nous de­vons mettre à l'avant-plan, aujourd'hui, la con­ception qui s'est développée au XVIIIième siècle sous le nom de Jus publicum europaeum  en l'ap­pliquant à l'ensemble du continent eurasien. Quoi­qu'il soit encore trop tôt pour parler de la réa­lisation d'un tel bloc continental stratégique uni­fié, nous sommes néanmoins tout simplement ob­ligés de présenter et de développer cette notion. Nous devons sans cesse insister sur le fait que tout conflit intra-continental, représentera une défaite notoire pour toutes les parties belligé­ran­tes aux niveaux économique, politique et so­cial, sans même parler des pertes humaines et mo­ra­les. Chaque guerre entre puissances eura­siennes porte en germe une défaite complète pour toutes les parties engagées. Dans un certain sens, nous sommes condamnés à l'alliance con­tinentale, de même que nous sommes condam­nés, sur le plan géopolitique, à voir dans les Etats-Unis l'en­nemi commun, menaçant à tous points de vue l'harmonie du continent eurasia­tique et contrecarrant l'orientation naturelle de ses ex­pansions culturelles et économiques. Car tant que l'américanisme, qui ouvre des conflic­tua­li­tés Est-Ouest, exercera sa pression sur l'Europe, nous vivrons toujours dans l'attente d'un nou­veau conflit intra-continental, d'une nouvelle guer­re eurasiatique qui, le cas échéant, pourra se terminer par une catastrophe globale qui préci­pitera la planète dans le déclin et la mi­sère. 

 

De la part de la revue Dyenn,  je remercie tous les participants et j'espère que nous nous rencontre­rons plus souvent dans l'avenir car notre jour­nal consacrera bientôt, régulièrement, plusieurs pages à l'idée eurasiste.

 

(nous remercions Alexandre Douguine et Sepp Staelmans de nous avoir communiqué une ver­sion française du texte russe de cette table ronde, publiée dans Dyenn,  n°2/1992).     

 

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jeudi, 18 juin 2009

Entretien avec Hans Jürgen Syberberg

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Contre l'esthétique des vainqueurs!

 

 

Entretien avec Hans Jürgen SYBERBERG

 

 

propos recueillis par Ulrich FRÖSCHLE et Michael PAULWITZ

 

 

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Q: «Une nouvelle Allemagne, un nouvel art». La fin de l'après-guerre signifie-t-elle aussi la fin de l'art de l'après-guerre?

 

HJS: Notre situation globale, je la percevais, l'été passé, comme une impasse, surtout dans le domaine de l'esthétique. Puis est venu le fameux automne... Ce n'était plus une impasse mais une fin, la fin, la conclu­sion d'une époque, l'époque de l'après-guer­re.

 

Q.: Et l'art de cet après-guerre?

 

HJS: En Allemagne, les pères fondateurs de l'intelligence officielle de notre après-guerre doivent constater leur faillite: Adorno, Bloch, Benjamin, Horkheimer, etc. Je dis ce­la, parce que j'ai le sentiment que la para­lysie actuelle du débat intellectuel vient du fait que nous ne sommes pas en mesure de nous dresser contre cette génération d'é­mi­grants. Mais eux le comprennent. Si quelque chose de neuf doit croître et se déve­lopper, ce qui est ancien, vermoulu, doit cé­der la place. Ce qui est ancien n'est pas a priori «bon» pour l'éternité. Pour me concentrer sur l'es­sentiel, je dirais que cette combinaison, où entrent 1) cette prétention morale, «ver­tuiste», affirmée par les ex-émigrants et 2) les positions des gauches, a conduit à cette pa­­ralysie de l'intelligence que l'on constate à l'Ouest, précisément parce que les positions des gauches sont devenues intouchables, ont reçu une sorte de cachet de noblesse parce qu'elles étaient défendues par des ex-émi­grants.

 

Q: Voyez-vous les signes avant-coureurs d'une perestroïka dans notre monde cultu­rel?

 

HJS: Dans la partie orientale de l'Alle­ma­gne actuelle, beaucoup de choses ont chan­gé, mais, chez nous, peu, du moins dans le do­maine de la culture. Je constate qu'il y a ici, à l'Ouest, bien plus de girouettes et de staliniens qu'à l'Est. Dans le petit monde de la culture, on parle encore et tou­jours com­me il y a vingt ans. Je n'ai pas vu un seul de nos «fonctionnaires» de la cul­ture, ni au thé­â­tre ni dans les journaux ni dans aucune institution qui patronne les sciences de l'es­prit qui ait cédé sa place ni changer les pa­ra­mètres qui régissaient son cerveau.

 

Q: Est-ce l'héritage de 68?

 

HJS: Les soixante-huitards constituent, pour le moment, la génération qui a le plus d'ef­forts à fournir pour surmonter ses com­plexes. Mais je veux être clair: le processus que j'incrimine n'a pas commencé en 1968. En 68, on n'a fait que formuler clairement ce qui s'est passé depuis 1945. Je pense que la rééducation, commencée en 1945, a été une démarche erronée. Rien que le mot: au­jourd'hui, n'est-ce pas, on ne parle même plus d'éduquer un enfant, alors, vous pen­sez, vouloir transposer cela à tout un peu­ple...! Un peuple qui devrait être éduqué puis rééduqué...! Situation abominable! Qui si­gni­fie en fait: aliéner le peuple par rapport à sa propre culture.

 

Q: La culture de notre après-guerre a-t-elle été une culture des vainqueurs?

 

HJS: Oui. Je vois en elle une esthétique du vain­queur. C'est simple: ce qui nous est ar­ri­vé après 1945 était une esthétique détermi­née par les vainqueurs. A l'Ouest, les Alle­mands se sont conformés parfaitement à «cette liberté qui nous vient d'Occident»..., alors qu'ils auraient dû se demander, petit à petit, si cet apport correspondait bien à leur sentimentalité intime, aux sentiments inté­rieurs de leur nature profonde. C'est Aron, je crois, qui a dit que le mot «rééducation» ne lui avait pas plu dès le départ et il a tou­jours pensé qu'il fallait agir autrement. Mais il est l'un des rares à Paris  —souvent des hommes de droite, de confession israë­lite—   à avoir pensé autrement. En Alle­ma­gne, nous avons subi une occupation qui nous a amené l'américanisation. Et, pour sauter quelques étapes, je trouve que les évé­ne­ments de l'an passé à Leipzig et dans d'au­tres villes nous ont fait du bien. Mal­heu­reusement, ce n'était pas une révolution culturelle mais c'était au moins une révolu­tion née en Allemagne.

 

Q: Avons-nous aujourd'hui un art sans peuple?

 

HJS: L'art a toujours eu pour fonction d'af­fir­mer la vie et non de la détruire. Au départ de cette affirmation, je pense que nous avons aujourd'hui un art qui, pour la première fois dans l'histoire, est dépourvu de «na­tu­re»; en disant cela, je ne pense pas seule­ment à la nature physique, que nous som­mes en train de saccager allègrement, mais à la nature psychique. Nous sommes en pré­sense d'un art qui reflète les névroses de notre temps, ce qui revient à dire effecti­ve­ment que c'est un art sans peuple, pire, un art qui s'impose contre le peuple. Résul­tat: l'art devient suspect. Les gens ne se rendent plus au théâtre, ne participent plus à rien, parce qu'ils n'ont plus confiance en rien, parce qu'ils ont le sentiment que cet art n'est pas notre art, que ce qu'ils voient re­présenté ne les concerne pas. Je ne dis pas que l'art doit briguer l'assentiment bruyant des mas­ses et de la majorité mais je dis qu'il doit être accessible.

 

Q: Le philosophe de l'esthétique Hans Sedl­mayr a parlé de «perte du centre» (Verlust der Mitte). Le mal ne réside-t-il pas dans la «dé-localisation» (Entortung)  de l'homme moderne?

 

HJS: J'ai avancé une critique du «prêchi-prêcha sur la société multi-culturelle». Ce discours est effectivement très dangereux car l'organisation multi-culturelle de la so­ciété conduit à l'élimination des valeurs pro­pres à la population autochtone. Le vieil adage «Connais-toi toi-même» demeure, en­­vers et contre tout, le présupposé sur le­quel doit reposer toute rencontre avec l'au­tre. En revanche, si l'on provoque déli­béré­ment un mixage trop rapide, on jette les ba­ses d'un monde «électronisé», où l'appré­hen­sion du monde ne s'effectue plus que par des clips, qui ne durent que quelques secon­des. Tout cela, c'est une question d'écologie spirituelle. Les hommes d'aujourd'hui ne se rencontrent plus qu'au niveau du fast-food, même si l'éventail des marchandises offer­tes est assez large.

 

Q: Comment pensez-vous que s'articulera cette «écologie spirituelle» que vous appelez de vos vœux?

 

HJS: C'est en fait la question essentielle. Que se passera-t-il en effet, quand tous nos concitoyens de l'ex-RDA pourront déguster des bananes et auront troqué leurs vieilles Trabis contre des voitures d'occasion occi­dentales? Leur curiosité pour ce qui est au­tre ne se tarira-t-elle pas? Et nous, les in­tellectuels, sommes-nous capables de ré­pon­dre à ce défi?

 

Q: Une dernière question: quand on vous ba­lance l'étiquette de «fasciste», est-ce que cela vous gène ou vous amuse?

 

HJS: Je me suis longtemps demandé s'il fal­lait que je dise les choses aussi ouverte­ment car une telle ouverture m'exposait, évi­demment, au reproche de «fascisme». En fin de compte, je me suis dit: «Maintenant ça suffit! Cela n'a aucun sens de se cacher tout le temps et de mentir par confort».

 

Q: Monsieur Syberberg, nous vous remer­cions de nous avoir accordé cet entretien.

 

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mardi, 16 juin 2009

Interview pour "Sinergeias Europeias"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

Robert STEUCKERS:

 

Interview pour Sinergeias Europeias (n°2)

 

1. Pendant l'été 1993, toute la presse européenne a parlé de la convergence entre intellectuels de droite et intellectuels de gauche. En Belgique avez-vous été la cible de cette nouvelle inquisition? A votre avis, qu'est-ce qui a fait éclater l'affaire?

 

L'affaire germait depuis la Guerre du Golfe, du moins en France. Un groupe d'intellectuels a eu le courage de signer un manifeste contre cette entreprise guerrière orchestrée par les Etats-Unis et l'ONU, avec la bénédiction de tous les intellectuels bien-pensants de la place de Paris, ceux qui, précisément, sont passés du «col Mao au Rotary». Alain de Benoist, le chef de file de la Nouvelle Droite était l'un des co-signataires, de même que Gisèle Halimi, Roger Garaudy, Max Gallo, Antoine Waechter (le leader des Verts), Claude Cheysson (un ancien ministre de Mitterrand), etc. Alain de Benoist apparaissait comme le seul homme de «droite» dans cet aréopage. A la suite de l'agitation pour ou contre la Guerre du Golfe, on a pu croire qu'un nouveau «Paysage Intellectuel Français» allait se dessiner, où la stricte dichotomie gauche/droite du temps de la guerre froide n'aurait plus eu sa place. La disparition de cette dichotomie a eu l'effet d'un traumatisme chez ceux qui s'étaient enfermés dans toutes les certitudes de l'Europe divisée, avaient vécu  —au sens vraiment alimentaire du terme—  des convictions, artificielles et bricolées, qu'ils affichaient sans nécessairement les ressentir, sans y croire toujours vraiment. La chute du Rideau de Fer a obligé les esprits à repenser l'Europe: chez les intellectuels bruyants du journalisme parisien, qui sont très prétentieux et peu cultivés, qui ignorent tout des langues, des littératures, de la vie politique des peuples voisins, le choc a été rude: ils apparaissaient d'un coup aux yeux de tous pour ce qu'ils sont vraiment, c'est-à-dire des provinciaux enfermés dans des préjugés d'un autre âge. Leur ressentiment, le complexe d'infériorité qu'ils cultivent avec une rancœur tenace (ce qui est pleinement justifié, parce qu'ils sont réellement inférieurs à leurs collègues européens, japonais ou américains), voilà ce qui a transparu dans la campagne de l'été 1993. Les connaissances encyclopédiques d'Alain de Benoist, sa volonté de «scientificiser» les discours politiques, les nouveaux clivages, plus subtils, moins manichéens, qui surgissaient à l'horizon, étaient sur le point de leur faire définitivement perdre la face. Ils ont voulu retarder leur déchéance et ils ont lancé cette campagne absurde. Ils ont donné libre cours à la haine qu'ils vouent depuis longtemps au «Pape» de la ND qui, malheureusement pour lui, ne cesse de commettre des maladresses psychologiques.

 

En Belgique, je n'ai pas été la cible d'une campagne similaire parce que la gauche et la droite ont été quasi unanimes pour condamner cette guerre, y compris dans les médias habituellement très conformistes. L'ambassadeur d'Irak, le Dr. Zaïd Haidar, a été interviewé par tous les journaux, par la radio et la télévision. J'ai eu l'occasion de prononcer une conférence à ses côtés. Le Dr. Haidar est un homme remarquable, un diplomate de la vieille école, un conciliateur né: il a fait l'admiration de tous et suscité le respect de l'ensemble de ses interlocuteurs. Ensuite, Jan Adriaenssens, un haut fonctionnaire des affaires étrangères à la retraite, a réussi de main de maître à faire renaître les sentiments anti-américains dans l'opinion publique belge, en accusant les Etats-Unis, la Grande-Bretagne et la France de jeter de l'huile sur le feu et de nuire aux intérêts de la Belgique. Même si mon pays ne brille généralement pas par l'originalité de ses positions et si le débat intellectuel y est absent, la Guerre du Golfe a été une période d'exception, où nos points de vue ont été largement partagés par les protagonistes en place sur l'échiquier politique. Nous avons donc vécu une Guerre du Golfe très différente en Belgique (et en Allemagne): l'hystérie anti-irakienne des nullités journalistiques parisiennes n'a eu prise sur personne. Qui plus est, la Belgique est le pays qui a le mieux résisté aux Américains qui insistaient lourdement pour que l'on envoie des troupes ou des avions. L'Allemagne, après le refus belge, s'est d'ailleurs alignée sur les positions de Bruxelles.

 

Dans l'opposition aux menées bellicistes de l'Ouest, les nationalistes de gauche et de droite se retrouvent traditionnellement dans le même camp, surtout si la France joue les va-t-'en-guerre. Automatiquement, surtout dans la partie flamande du pays, on se hérisse contre toute forme de militarisme français et l'opinion se dresse vite contre Paris, par une sorte d'atavisme. Récemment, début 1994, le journaliste flamand Frans Crols a ordonné à l'un de ses jeunes collègues, Erick Arckens, d'aller interviewer Alain de Benoist à Paris, pour faire la nique à ses homologues parisiens et pour montrer qu'il respectait les traditions: les Français persécutés chez eux ont toujours, dans l'histoire, pu librement exprimer leurs idées à Bruxelles. Alain de Benoist, persécuté en 1993, n'a pas fait exception. Alors qu'on avait oublié son existence en Belgique depuis les heures de gloire de la Nouvelle Droite (1979-80), il est réapparu soudainement dans la Galaxie Gutenberg comme un diablotin qui sort d'une boîte, comme une vieille redingote qu'on retire de la naphtaline. Ses persécuteurs ont raté leur coup en Belgique et lui ont permis de s'exprimer en toute liberté dans l'un des hebdomadaires les plus lus de la partie néerlandophone du pays.

 

La hargne des journalistes parisiens, qui se piquent d'être à gauche, provient sans nulle doute de l'importance considérable qu'a eue le parti communiste en France. L'enrégimentement des esprits a été en permanence à l'ordre du jour: il fallait réciter son catéchisme, ne pas désespérer Billancourt. On ne faisait plus d'analyser, plus de philosophie, on faisait de l'agit-prop, de la propagande: maintenant que la donne a changé, tout cela ne vaut plus rien. En Belgique, le PC a toujours été insignifiant, les communistes, groupusculaires, étaient la risée du peuple, qui voyait s'agiter ces pauvrets sans humour, toujours de mauvaise humeur, dépourvus de joie de vivre. Les Français ont eu des communistes puristes, qui n'avaient rien compris à la dialectique de Hegel et de Marx, qui avaient adopté cette philosophie allemande sans en comprendre les ressorts profonds. Les communistes français ont érigé le marxisme sur un piédestal comme une idole figée, de la même façon que les Jacobins et les Sans-Culottes avaient dressé un autel à Bruxelles pour la «Déesse Raison», devant la population qui croulait de rire et se moquait copieusement de cette manie ridicule. Ces idolâtries puériles ont conservé leur pendant dans les débats, même aujourd'hui: les intellectuels parisiens, bizarrement, ne s'entendent jamais sur les faits, mais sur des abstractions totalement désincarnées: ils imaginent une gauche ou une droite toutes faites, y projettent leurs fantasmes. Et ces momies conceptuelles ne changent jamais, ne se moulent pas sur le réel, n'arraisonnent pas la vie, mais demeurent, impavides, comme une pièce de musée, qui prend les poussières et se couvre de toiles d'araignée. De telles attitudes conduisent à la folie, à la schizophrénie totale, à un aveuglement navrant. La campagne de 1993 est une crise supplémentaire dans ce landerneau parisien, peuplé de sinistres imbéciles dépourvus d'humour et incapables de prendre le moindre recul par rapport à leur superstitions laïques. Ils sont inadaptés au monde actuel en pleine effervescence.

 

2. Mais la convergence gauche/droite est-elle une situation nouvelle?

 

Non. Et paradoxalement, ce sont des convergences du même ordre qui attirent encore et toujours les historiens des idées. Ce ne sont pas les conventions de la droite ou de la gauche, la répétition à satiété des mêmes leitmotive qui intéresse l'observateur, l'historien ou le politiste. Mais les fulgurances originales, les greffes uniques, les coïncidentiae oppositorum. En France, la convergence entre Sorel, Maurras, Valois et les proudhoniens en 1911 ne cesse de susciter les interrogations. L'effervescence des années 30, avec le néo-socialisme lancé par Henri De Man, Marcel Déat, Georges Lefranc, les initiatives d'un Bertrand de Jouvenel, d'un Georges Soulès (alias Abellio), etc. sont mille fois plus captivantes que tout ce que disaient et faisaient les braves suiveurs sans originalité. A long terme, les moutons sont les perdants dans la bataille des idées. Les audacieux qui vont chercher des armes dans le camp ennemi, qui confrontent directement leurs convictions à celles de leurs adversaires, qui fusionnent ce qui est apparamment hétérogène, demeurent au panthéon de la pensée. Les autres sombrent inéluctablement dans l'oubli. En Italie, le débat est plus diversifié, l'atmosphère moins étriquée: depuis près de vingt ans, depuis la fin des «années de plomb», hommes de gauche et hommes de droite ne cessent plus de dialoguer, d'approfondir la radicalité de leurs assertions, sans se renier, sans renier leur combat et celui des leurs, mais en élevant sans cesse la pensée par leurs disputationes  fécondes.

 

3. En Russie, en octobre 93, on a vu sur les mêmes barricades des communistes et des nationalistes. Cette situation est-elle due à l'existence d'un ennemi commun, Eltsine, où cette alliance fortuite a-t-elle des bases solides, qui lui permettront de durer?

 

Bien sûr, le pari qu'Eltsine a fait sur le libéralisme échevelé, sur un libéralisme sauvage qui ne respecte aucun secteur non marchand, qui refuse les héritages culturels, a immanquablement contribué au rapprochement entre communistes et nationalistes, pour qui un ensemble de valeurs non-marchandes demeure cardinal; valeurs sociales pour les uns, valeurs historiques et politiques pour les autres, valeurs culturelles pour tous. A mon avis ce rapprochement n'est pas fortuit. Il faut savoir qu'il y a eu une dimension nationale dans le bolchévisme et que Staline s'est appuyé sur ces résidus de nationalisme pour asseoir puis étendre son pouvoir. Avant son avènement, certains spéculaient sur une «monarchie bolchévique», où un Tsar serait revenu aux affaires mais en utilisant à son profit l'appareil politique, économique et social mis en place par Lénine et ses camarades. Ensuite, quand l'opposition extra-parlementaire en Occident adoptaient les modes gauchistes, le style hippy et raisonnaient au départ des travaux de Marcuse (Eros et civilisation) ou de Reich (le freudo-marxisme), la contestation russe était populiste, nationaliste et écologiste. En témoignent les œuvres de Valentin Raspoutine et de Vassili Belov. Ces auteurs déployaient une mystique des archétypes, ruinaient les arguments des idéologies progressistes, prônaient un retour aux valeurs morales de la religion orthodoxe, chantaient les valeurs de la terre russe, sans aucunement encourir les foudres du régime. Au contraire, on leur décernait le Prix Lénine, même s'ils condamnaient clairement le technicisme matérialiste du léninisme! Les libéraux, en revanche, qui prônaient une occidentalisation des mœurs politiques soviétiques, ont été mis sur la touche. Le rapprochement entre nationalistes et communistes, l'émergence d'un corpus patriotique russe au sein même des structures du régime, datent d'il y a vingt ou trente ans. La perestroïka n'a fait que donner un relief plus visible à cette convergence. Les événements tragiques d'octobre 1993 ont scellé celle-ci dans le sang. La mystique du sang des martyrs russes, tombés lors de la défense du Parlement (de la “Maison Blanche”), sera-t-elle le ciment d'un futur régime anti-libéral?

 

4. Cette alliance se poursuivra-t-elle après la chute d'Eltsine et des libéraux?

 

Les élections de décembre 93 ont introduit un facteur nouveau: le nationalisme de Jirinovski, sur lequel les observateurs se posent encore beaucoup de questions. Est-ce une formule nouvelle ou une provocation destinée à fragmenter le camp nationaliste, à isoler les communistes, à tenir à l'écart les éléments patriotiques les plus turbulents? Je crois qu'il est encore trop tôt pour répondre. Les nationalistes radicaux en tout cas rejettent Jirinovski. Au-delà de toute polarisation gauche/droite, une chose est certaine: le libéralisme est inapplicable en Russie. L'essence de la Russie, c'est d'être «autocéphale», de refuser toute détermination venue d'ailleurs. La Russie ne peut prospérer qu'en appliquant des recettes russes, ne peut guérir que si l'on applique sur ses plaies des médications russes. L'alliance anti-libérale des communistes, qui vont au nationalisme pour se guérir de leurs schémas, et des nationalistes, qui refusent la déliquescence libérale, est une formule russe, non importée. Dans ce sens, elle peut survivre à haute ou à basse intensité.

 

5. Une telle alliance peut-elle se transposer dans les pays occidentaux?

 

Ce qui est certain, c'est que le discours de la gauche classique est désormais obsolète. La rigidité communiste n'est pas adaptée à la souplesse d'organisation que permettent les nouvelles technologies. Mais, en Occident, le nombre des exclus ne cesse de croître, les clochards apparaissent même sur les bancs publics des villes riches du Nord de l'Europe continentale (Thatcher les avait déjà fait réapparaître en Angleterre). Les secteurs non marchands tombent en quenouille: l'associatif n'est plus subsidié, l'enseignement va à vau-l'eau, on n'investit pas dans l'urbanisme ou l'écologie, on ne crée pas d'emplois dans ces secteurs, la stagnation économique empêche d'accroître la fiscalité. Bref, le libéralisme cesse de bien fonctionner en Europe. Mais les structures syndicales de la sociale-démocratie restent lourdes, dépourvues de souplesse. Face au déclin, nous assistons à toutes sortes de réflexes poujadistes incomplets, qui se traduisent par des succès électoraux, suivis de stagnation. Les mécontents n'ont pas encore trouvé la formule alternative adéquate qui devra immanquablement conjuguer la souplesse administrative, calquée sur la souplesse des nouvelles technologies, aux réflexes sociaux et nationaux. Ces réflexes visent au fond à rapprocher les gouvernants des gouvernés, à trouver des formules de représentation à géométrie variable, fonctionnant dans des territoires de petites dimensions à mesures humaines. Cette nouvelle forme inédite de démocratie locale chassera la démocratie conventionnelle qui a déchu en un mécanisme purement formel. Enfin, la formation d'un bloc européen, qui se dessine à l'horizon, surtout depuis que l'Autriche, les pays scandinaves et les pays du «Groupe de Visegrad» (Hongrie, Pologne, République tchèque) ont demandé leur adhésionà la CEE, nous obligera à trouver une formule politique et sociale différente de celle des Etats-Unis, puissance avec laquelle nous entrerons inévitablement en conflit. Or cette formule doit tenir compte, pour être séduisante, des impératifs urgents que le régime actuel est incapable de résoudre: ces impériatifs sont sociaux, identitaires et écologiques.

 

(propos recueillis par Julio Prata).

jeudi, 21 mai 2009

La crisi del dono - Intervista Claudio Risé

La crisi del dono.
Intervista Claudio Risé

di Susanna Dolci - 07/05/2009

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

crisidono

 

È, Claudio Risé [nella foto sotto], uno degli psicanalisti italiani di ampia fama nazionale ed internazionale. Docente di Scienze Sociali alle Università di Trieste-Gorizia, Insubria (Varese) e Bicocca (Milano), da oltre trent’anni studia l’uomo e la donna ovvero il maschile ed il femminile, nelle loro molteplici sfaccettature. La vita, la famiglia e la genitorialità con particolare attenzione alla figura paterna intesa come assenza o come “mestiere” difficile. I suoi numerosi libri sono stati tradotti in molti paesi europei ed in Brasile. Un spazio internet a disposizione del suo pubblico: www.claudio-rise.it. Esce in questi giorni per le Edizioni San Paolo La crisi del dono. La nascita e il no alla vita. È questo suo nuovo andare in riflessione, una discesa verso le «radici del pensiero che rifiuta la nascita». Un’attenzione di saggia misura sull’aborto inteso come quotidianità di azione da cronaca e da statistica, di battaglia politica, di leggi, di polemica, di giudizi positivi e negativi, di “crimine” addirittura, di orrori legalizzati od illegali e di tanto altro da aggiungere. O da sottrarre… Dipende, sempre, dai punti di vista. Ma il libro non è solo questo… ed è già molto. “La crisi del dono” è una sorta di Summa che non tralascia nulla perché niente vuole lasciare nel silenzio. Tutti gli attori legati alla venuta al mondo vengono chiamati in causa. Siano essi uomini, donne, bambini stessi e dunque padri, madri e figli, miti e mitologie, cambiamento e rinnovamenti, sacro e profano. Spetta, alfine ed in piena libertà, ad ogni singolo lettore decidere a quale cammino interpretativo accingersi. Che oscilla, in presenza, dagli albori temporali come il classico pendolo foucaultiano o la inimitabile quanto terribile spada di Damocle. Tutto sempre e come eterna scelta tra la vita e la morte. Un sentito ringraziamento a Claudio Risé per la sua piena e gentile disponibilità alla realizzazione dell’intervista che segue, nonostante i suoi molteplici impegni.

È stato appena editato dalle Edizioni San Paolo. È il suo “La crisi del dono. La nascita ed il no alla vita”. Lei ci parla di: Mito, Nascita, Figlicidio, Figli, Uomo, Donna, Aborto… E tanto ancora…  Se dovesse definire il centro di questo libro, cosa direbbe?

È un libro sulla nascita, come evento fisico, psichico e simbolico, sul suo significato e sulle resistenze che suscita. Molto spesso non la vogliamo (non solo quella fisica), perché ci chiede sempre di cambiare, trasformarci, ri/nascere.

 

Cos’è veramente l’aborto?

La scelta di evitare una nuova nascita sopprimendo il nascituro. Al di là delle considerazioni morali (non spetta a me giudicare), è una scelta fortemente conservatrice, contro il cambiamento. Dal punto di vista psicologico esprime un’avversione al futuro, alla trasformazione che regge il mondo, cui oppone il potere dell’Io individuale, quello che decide, appunto, l’aborto.

Tra abortire e dare in adozione c’è da sempre in mezzo una montagna invalicabile? Perché?

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È invece valicabile; molti la attraversano. Occorre rinunciare al possesso del figlio. Che del resto nessuno ha, perché il figlio appartiene a sé stesso. E, per la persona religiosa, a Dio.

Com’è il mondo in cui viviamo? Cito alcuni termini ricorrenti nei suoi studi e libri: neopaganesimo, narcisismo, droghe, guerra, terrorismo, scontro di etnie ma anche felicità come dono di sé, l’altro. Incubi quotidiani, difetti e pregi di questa nostra esile esistenza. Come affrontare al meglio o meno peggio tutto ciò?

Io racconto solo la psiche delle persone che vedo, la quale a sua volta parla del mondo in cui vivono. Un buon metodo per star bene, conosciuto da sempre,  potrebbe essere quello di cercare di essere se stessi, senza continuamente conformarsi, o dipendere dall’approvazione degli altri. Ha dei prezzi, ma ci si guadagna il vivere la propria vita, e non quella altrui, o del sistema  di comunicazione dominante.

 

Uomo? Uomo selvatico? O Maschio? Identità maschile tra essere io e/od altro da proprio sé medesimo? Tra Don Giovanni e Padre?

Consiglio di evitare ogni etichetta, comprese quelle sopra elencate (anche se prese dai miei libri) ed ascoltare chi si è. Che è sempre dentro, non fuori di noi.

 

La Donna? Mi verrebbe di aggiungere “è mobile….” ma forse è meglio “selvatica”? E d’ingegno? A metà tra forza e mistero dell’eterno archetipo dell’essere femminile? La Grande Madre, terribile eppur generosa?

Idem. Ognuna scopra sé stessa, e la interpreti. Il resto riguarda le altre, non te.

 

Lei parla della figura del Padre come dono, assenza e mestiere? Chi è un padre?

Un uomo che genera con una donna un figlio, lo protegge e aiuta a crescere quando è piccolo, e poi a diventare se stesso quando è più grande. Una figura elementare, che la natura conosce da sempre.

 

La natura intesa come mondo selvatico? Ancora respira nel suo esistere?

Sì. Tra le prime leggi firmate dal nuovo Presidente degli Stati Uniti ce n’è una che estende enormemente le aree vincolate a Wilderness, cioè  destinate a rimanere incontaminate, già molto estese in quel Paese. E’ una questione di grande attualità, e futuro. Ma naturalmente la Wilderness è ovunque, a cominciare da dentro di noi. Anche qui, si tratta di ascoltarla, e onorarla. E goderla.

 

Dove vanno i giovani?

Bisognerebbe chiederlo a loro. Io sono vecchissimo.

 

La comunità vivente ha ancora un suo specifico perché ben definito? È ancora dono e sacrificio?

Senza l’uno, e l’altro, non esiste comunità. Al massimo società, associazioni, club etc.

 

Famiglia VS divorzio. Anche qui quali i pregi, le colpe e loro effetti collaterali

La famiglia può fallire, così come un bimbo può essere soppresso. Basta si sappia che è un disastro, e non  si spacci divorzio ed aborto per cose da niente.

 

A conclusione. Siamo ancora in grado di trasformarci e rinnovarci? O restiamo in una immobile opposizione che nega l’anelito alla vita?

Non siamo noi a scegliere. È la natura a determinare che tutto, nell’essere umano, cambia continuamente nel corso della vita, le sue cellule, i suoi neuroni, i suoi sentimenti, il mondo intorno a lui. Certo possiamo optare per la sclerosi, mummificarci a vent’anni; molti lo fanno. Sono di solito pazzi, e piuttosto infelici, ma si può fare anche così. Però è meglio seguire, con spirito di avventura e divertimento, il misterioso  e sorprendente itinerario che la vita ci propone.


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vendredi, 01 mai 2009

Rencontre avec François Gibault

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Rencontre avec François Gibault

 

Avec son affabilité coutumière, François Gibault nous reçoit chez lui, au premier étage de ce bel hôtel particulier jouxtant le cinéma « La Pagode ». Étonnant personnage que ce libertaire de droite, catholique, colonel de réserve, amateur éclairé de peinture moderne et d’art lyrique.  Pénaliste réputé, il cumule deux passions : Céline (le biographe est devenu président de la Société des Études céliniennes) et Dubuffet (il en administre la Fondation). Il vient de terminer son troisième roman, Un nuage après l’autre, et prépare l’édition de la correspondance de Céline au pasteur Löchen.

 

Comment se porte la Société des Études céliniennes ?

 

Elle se porte bien. Comme vous le savez, l’essentiel de nos activités, ce sont les colloques qui se tiennent tous les deux ans et qui sont une grosse machine à organiser intellectuellement et matériellement. Ensuite, l’année suivante, c’est la publication des Actes. Le colloque de l’année dernière a été un beau succès, une réunion extrêmement fructueuse pour tout le monde. Nous étions, comme d’habitude, une quarantaine venus, sinon de tous les pays, du moins de tous les continents. Cela avait été remarquablement organisé par l’Institut français de Budapest, et les débats furent passionnants. Il faut dire que le thème était, je crois, très bien choisi : « Céline et la médecine ». Thème double puisque c’était à la fois « Céline médecin » et « La médecine dans l’œuvre ». Les actes viennent d’être publiés ¹. Maintenant, nous travaillons sur le prochain colloque qui aura lieu en France, dans un an, puisque l’usage est l’alternance. Ce sera sans doute Paris, et nous aurions voulu que ce soit au Val de Grâce, mais cette administration vient de refuser pour les raisons que vous imaginez. Le thème en sera « Céline et la guerre » comme cela a été décidé lors de l’assemblée de juillet dernier.

 

En tant que représentant de l’ayant droit, pouvez-vous susciter d’autres manifestations, telle une grande exposition Céline à la Bibliothèque nationale ?

 

C’est envisageable, mais il y a des réticences : les pouvoirs publics ne sont pas très chauds pour organiser quelque chose sur Céline. Ou alors il faudrait un grand événement. Il aurait fallu faire cela au moment du centenaire de la naissance de l’écrivain, mais vous savez que cet anniversaire n’a même pas été mentionné dans la brochure des commémorations éditée chaque année par le Ministère des Affaires culturelles.

 

Beaucoup de céliniens regrettent que les trois entretiens filmés de Céline ne soient pas commercialisés sous la forme de DVD.

 

Ça, c’est tout à fait envisageable, d’autant que Frémeaux vient de publier, sous la forme de disques compact, une lecture intégrale du Voyage au bout de la nuit ². C’est une idée excellente et cela pourrait être une action possible de la société. Par ailleurs, il existe un projet cinématographique d’adaptation du Voyage. Cette fois-ci, ça a l’air sérieux, le contrat est signé mais je n’ai pas encore pu rencontrer le réalisateur François Dupeyron qui est en train de travailler sur le scénario. Vu l’importance de l’œuvre, je crois qu’il envisage de faire un film en deux épisodes. Étant donné son intérêt pour la Première guerre mondiale, je crois qu’il va s’attacher surtout à la première partie du livre, nous verrons bien...  Quoiqu’il en soit, je dois le rencontrer pour veiller au respect du droit moral (vous savez qu’il y a plusieurs manières d’adapter une œuvre), et pour veiller aussi au choix des acteurs... Mais je le crois soucieux d’être très fidèle à l’esprit de l’œuvre, et je ne me fais guère de souci à ce sujet.

 

Comment se porte l’œuvre de Céline en librairie ?

 

Elle se porte admirablement. Le meilleur indicateur, c’est précisément le nombre d’exemplaires de Voyage par an vendus en poche, car vous savez qu’on ne vend plus qu’en poche pratiquement — et en Pléiade, mais ça c’est un autre public. Le grand public, lui, n’achète plus qu’en poche. On ne vend presque plus d’exemplaires en collection « Blanche ». On vend plus de 40.000 exemplaires par an, ce qui est énorme. On en a vendu un peu plus l’année où le manuscrit de Voyage s’est vendu aux enchères publiques : là, il y a eu une espèce de rebond. Il s’en est vendu plus de 50.000 exemplaires. Je pense que Voyage est une des œuvres classiques qui se vend le mieux. Plus de 70 ans après sa parution, il n’a pas pris une ride et c’est encore un best-seller. À titre de comparaison, Mort à crédit se vend à 10.000 exemplaires environ chaque année.

 

Quid d’une édition scientifique des pamphlets ?

 

C’est le serpent de mer, ça revient toujours, on en parle tout le temps, mais vous savez que Madame Destouches est opposée à cette réédition, sinon ça serait fait depuis longtemps. En tout cas, il n’y a pas de projet précis. Compte tenu du climat actuel, je crois que cela serait très mal vu et même considéré comme une sorte de provocation. Céline, de son vivant, ne voulait pas cette réédition, et Madame Destouches ne fait que respecter les intentions de son mari.

 

Avec tout de même une exception : Mea culpa.

 

Mea culpa, c’est autre chose. C’est un texte très court, très élaboré et aussi anticommuniste. Longtemps, elle s’est opposée à cette réédition. Je l’ai beaucoup incitée à accepter une nouvelle publication.

Par ailleurs, on pourrait envisager une réédition partielle des pamphlets. Je n’aime pas beaucoup cela car c’est une façon de trahir l’auteur. Cela étant, j’avais comme idée de republier la fin de Bagatelles (la partie qui concerne l’URSS) avec Mea culpa. On pouvait faire un très beau livre.

De toute façon, le livre n’est pas interdit puisqu’on peut le trouver notamment sur les quais, souvent en édition pirate. Ce livre est en circulation : les éditions originales ne sont pas interdites de vente.

 

N’y a-t-il pas  un  manque  de cohérence de la part de l’ayant droit qui  interdit  certaines  choses et en autorise d’autres (les lettres aux journaux de l’Occupation, la préface de L’École des cadavres, etc.) ?

 

J’ai toujours poussé Madame Destouches à accepter un maximum de choses, y compris les adaptations, bonnes ou mauvaises, car c’est intéressant de faire vivre une œuvre. On a laissé passer un certain nombre de choses y compris les abus de citation. Madame Céline laisse faire. On ferme un peu les yeux. Les pamphlets, cela fait partie de l’œuvre. Ce sont des textes extrêmement violents, mais ils sont intéressants du point de vue de la langue et du style. Il y a de très belles pages et puis aussi, il faut le dire, des pages beaucoup plus faibles. Mais il y a des envolées extraordinaires, ce n’est pas contestable.

 

Quand paraîtra la correspondance de Céline au Pasteur Löchen ?

 

Tout est prêt depuis longtemps, sauf la préface. Entre-temps, le pasteur Löchen est décédé, comme vous le savez ³. J’étais devenu très proche de lui, et sa disparition m’a fait beaucoup de peine. Ce fut affreux, d’autant qu’il est mort avant sa femme qui était grabataire. C’est lui qui s’en occupait. Ils n’avaient qu’un seul désir : c’était de mourir ensemble. Il est mort un mois avant sa femme. À sa demande, je suis allé le voir à Metz, une semaine exactement avant sa mort. C’est là qu’il m’a demandé de prendre la parole lors de son enterrement pour dire quel avait été son rôle dans la défense de Céline, ce que j’ai fait, bien évidemment.

Chaque fois qu’il y a des vacances judiciaires, je me dis que je vais les utiliser à rédiger cette préface. Je dois aussi classer les lettres par ordre chronologique. Au début, les lettres sont datées ou faciles à dater car elles se rapportent à des événements. Ensuite les lettres sont très difficiles à dater, car elles ne comportent aucun repère permettant de les situer dans le temps.

Il s’agit d’une correspondance très intéressante, car on y voit le changement de ton. Au début, les lettres sont respectueuses (« vous homme de Dieu, moi mécréant »), puis elles deviennent plus débridées et plus cordiales. Il est amusant de voir l’évolution de cette correspondance.

 

Y a-t-il d’autres projets ?

 

J’ai un projet personnel : j’aimerais faire quelque chose sur Céline et Dubuffet. Comme vous le savez, j’ai l’honneur de défendre deux œuvres : Céline en littérature, Dubuffet en peinture, puisque je suis Président de la Fondation Dubuffet.  Dubuffet était un homme aux talents multiples : peintre, lithographe, sculpteur, graveur, mais c’était aussi un grand écrivain, ce qu’on oublie souvent. Je ne désespère pas un jour de le faire entrer dans la Bibliothèque de la Pléiade. C’est une autre affaire. Il y a de vraies correspondances entre les deux hommes. Il y a des fils secrets entre ces deux êtres : ils étaient libres et ont travaillé seuls, ne subissant aucune influence et n’ayant pas de suiveurs. Ils sont aussi créateurs d’un style, ce qui est rare, se moquant de l’opinion qu’on avait d’eux. Ils ont aussi chacun commencé très tard avec une première vie professionnelle : l’un comme médecin, l’autre comme marchand de vins. Dubuffet a commencé son œuvre à plus de 40 ans et Céline a publié Voyage alors qu’il avait à peu près cet âge. Leurs parcours sont assez comparables. J’avais pensé intituler ma biographie « Céline, cavalier seul ». Cette appellation peut également convenir à Dubuffet. En fait, ce sont deux anarchistes très partisans de l’ordre. La seule différence, c’est que si Dubuffet avait une grande admiration pour Céline, l’inverse n’était pas vrai. Que ce soit en peinture, en littérature ou en musique, Céline avait, comme vous le savez, des goûts classiques. Cela étant, on trouve dans leur œuvre des propos comparables quant à l’aspect révolutionnaire de l’art. Dans Asphyxiante culture 4, Dubuffet affirme que l’artiste doit être un révolutionnaire, qu’il est là pour faire avancer les choses, pour chambouler ce qui existe. On trouve une idée comparable dans Voyage au bout de la nuit. Ils ont aussi en commun un côté viscéralement français et, bien entendu, le génie car Dubuffet, lui aussi, était un génie. Un jour, je ferai une communication sur Céline-Dubuffet lors d’un colloque.

 

Votre confrère Jacques Vergès a écrit : « Admirer  Céline  à une époque où règne  la  pensée unique et le  terrorisme intellectuel est  presqu’un  délit ».  Le  fait de vous  être  intéressé de  près à Céline vous a-t-il valu des inimitiés, notamment dans le monde judiciaire ?

 

Absolument pas. Cela tient au fait que je crois avoir écrit une biographie objective de Céline, ne dissimulant aucun des documents que j’ai découverts lors de mes recherches. Ainsi, l’Ordre des médecins des Yvelines m’a donné connaissance du dossier de Louis Destouches. J’y ai trouvé une lettre qui n’est pas à la gloire de Céline et que j’ai reproduite dans le deuxième tome de ma biographie, alors que personne ne la connaissait et que j’aurais pu la passer sous silence 5. On m’a souvent dit qu’il s’agissait d’une biographie à l’anglaise ou à l’américaine. Les gens qui auraient pu me reprocher de m’occuper de Céline me rendent justice. J’ai essayé de montrer Céline tel que je le voyais et, je le pense, tel qu’il était.

 

N’avez-vous pas l’impression que la condamnation morale de Céline est paradoxalement  plus  forte aujourd’hui que dans les années d’après-guerre ?

 

C’est un peu normal : pendant les années d’après-guerre, on ne n’est pas beaucoup occupé de cet aspect de la Seconde guerre mondiale. C’est ensuite que les historiens s’en sont occupés.

Nul doute que sa responsabilité est engagée : il faut reconnaître que certaines phrases de Bagatelles pour un massacre sont insoutenables. Cela étant, quand on fait un livre en ne citant que ces phrases là et en gommant tout le reste, comme l’a fait M. Rossel-Kirschen 6, on arrive à faire de Céline une espèce de monstre. Sur le plan intellectuel, la méthode est inacceptable et condamnable.

 

Dans la préface des Lettres de prison, vous écrivez : « Céline, mieux que  tout  autre, savait  qu’il  n’avait pas voulu l’holocauste  et  qu’il n’en avait pas même été l’involontaire instrument. Il savait aussi qu’il n’avait en rien collaboré ». D’autres biographes de Céline estiment, au contraire, qu’il a collaboré. Tout dépend évidemment de ce que l’on entend par « collaboration »...

 

Évidemment. Céline a « collaboré » comme d’autres écrivains français qui ont fini à l’Académie. Ceci dit, son dossier de collaboration n’est guère consistant. Outre certaines lettres aux journaux (surtout celles écrites en 1942 et 1943), ce qu’on peut surtout lui reprocher c’est d’avoir permis la republication des pamphlets sous l’Occupation. Et on ne peut pas uniquement imputer cela à son éditeur, Robert Denoël. On connaît la lettre de Céline à Karl Epting réclamant du papier pour permettre la réédition de ces textes. Ceci, à une époque où la rafle du Vel’ d’Hiv avait eu lieu. Les déportations étaient connues, même si le sort réel des déportés, lui, ne l’était pas.

 

Ainsi,  vous pouvez donc comprendre que vous choquez certaines personnes lorsque vous écrivez : « Céline apparaît fragile, sensible comme un enfant, souffrant de toutes les misères, tragique et désespéré. »

 

Oui, j’en ai pris, pardonnez-moi l’expression, plein la gueule lorsque, sur un plateau de télévision, j’ai dit que Céline était un humaniste 7. Or, Voyage au bout de la nuit est bien le livre d’un humaniste, c’est évident. Céline était un être très contradictoire :  avare et généreux, anarchiste et homme d’ordre, pour ne citer que ces deux aspects.

 

À cet égard, vous vous êtes d’ailleurs trouvé des points communs avec lui.

 

En effet, je suis bourgeois et anarchiste. Et surtout un émotif rentré, si je peux m’exprimer ainsi. Lorsque j’étais enfant, j’étais d’une extrême sensibilité. Comme Céline, j’ai compris que c’était un immense défaut et qu’il fallait rentrer tout cela, ne pas le montrer, se durcir pour ne pas être vulnérable et prendre tous les mauvais coups. Cela étant, il faut se garder, lorsqu’on est biographe, de se laisser aveugler par les points communs et éviter de faire une sorte d’autoportrait.

 

Comment voyez-vous le petit monde des céliniens ? Il est pour le moins pittoresque, non ?

En effet, mais je crois qu’il en est ainsi dans d’autres sociétés littéraires où l’on trouve également ces aspects de jalousie, de compétition, des petites chapelles, etc. En ce qui me concerne, j’ai un avantage : je suis bien avec tout le monde, que ce soit avec vous, avec Philippe Alméras, ou avec Henri Godard. Et je laisse chacun s’exprimer. Je pense que c’est une condition absolue pour être président de la Société des Études céliniennes. Je m’efforce de ne rentrer dans aucune bagarre. Je ne suis même pas arbitre :  je suis au-dessus de toutes ces querelles.

Quant à mon admiration pour Céline, je puis vous dire qu’elle va en grandissant. Chaque fois que je relis Voyage, je découvre des choses nouvelles. Ainsi, j’ai un exemplaire où je souligne les passages qui suscitent mon admiration. Tout le livre va finir par être souligné !  Vous savez que j’ai enterré récemment mon confrère Jean-Marc Varaut. Peu de temps avant sa mort, il m’avait demandé de lui faire la lecture car il ne pouvait plus tenir un livre. Au téléphone, je lui ai dit : « Je vais te lire des passages de Voyage au bout de la nuit ». Il était réticent. J’ai insisté, et je lui ai lu des passages choisis (la guerre, l’Afrique et un passage sur l’Amérique). Il écoutait, manifestement bouleversé. Et, à la fin, il m’a dit : « Comme je regrette d’être passé à côté de cette œuvre ! » C’était extrêmement émouvant pour moi.

 

Pour conclure, j’aimerais vous demander des nouvelles de Madame Destouches...

 

Vous savez qu’elle a 93 ans. Mais je puis vous assurer qu’elle est très présente, magnifique, ayant même « rajeuni » ces dernières années. Elle avait connu un passage difficile, une sorte de dépression.  Aujourd’hui, elle sort à nouveau. Elle a passé quelques jours l’été dernier dans la suite « Marcel Proust » à Cabourg. Elle va à des expositions, des spectacles de ballets, dîne au restaurant ou chez des amis. Elle fait des choses qu’elle avait vraiment cessé de faire, ce dont je me réjouis.

Propos recueillis par Marc LAUDELOUT

Notes

 

1. Actes du Quinzième colloque international Louis-Ferdinand Céline. Médecine (Budapest, 9-11 juillet 2004), Société d’études céliniennes, 2005, 270 pages, couverture illustrée. Tirage limité à 150 exemplaires. Disponible auprès du Bulletin célinien. Prix : 73 euros, frais de port inclus. Couverture reproduite en dernière page.

2. Voyage au bout de la nuit. Texte intégral interprété par Denis Podalydès, coffret de 16 CD édité par Frémeaux et Associés, 2003.

3. Voir M. Laudelout, « In memoriam François Löchen », in Le Bulletin célinien, n° 252, avril 2004, pp. 9-13.

4. Jean Dubuffet, Asphyxiante culture, Éditions de Minuit, 1986 (la première édition date de 1968).

5. Cette lettre a été reproduite, page 223, dans le deuxième tome de la biographie de Céline (Délires et persécutions, 1932-1944) par François Gibault, publiée en 1985 au Mercure de France.

6. André Rossel-Kirschen, Céline et le grand mensonge, Éd. Mille et une nuits, 2004.

7. Allusion au débat qui l’opposa à Guy Konopnicki dans l’émission Rive droite, rive gauche de Thierry Ardisson sur la chaîne Paris-Première, le 15 octobre 1997. La transcription de ce débat a paru  dans Le Bulletin célinien, n° 182, décembre 1997, pp. 11-15 ; 17 et 19.

 

 

mardi, 28 avril 2009

An Interview with Dominique Venner

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An Interview with Dominique Venner

 

 

by Michael O'Meara

TRANSLATOR’S NOTE: It’s testament to the abysmal state of our culture that hardly one of Dominique Venner’s more than forty books have been translated into English. But everything he writes bears directly on us — “us” here referring not specifically to the anglophone world, but to the European world that exists wherever white men still carry on in any of the old ways.

Venner is more than a gifted historian who has made major contributions to the most important chapters of modern, especially 20th-century European history. He has played a key role in both the development of the European New Right and the “Europeanization” of continental nationalionalism.

It is his “rebel heart” that explains his engagement in these great struggles, as well as his interests in the Russian Revolution, German fascism, French national socialism, the U.S. Civil War, and the two world wars. The universe I’ve discovered in his works is one that reminds me of Ernst von Salomon’s “Die Geächteten” — one of the Homeric epics of our age.

The following interview is about the rebel. Unlike the racial conservatives dominant in U. S. white nationalist ranks, European nationalism still bears traces of its revolutionary heritage — opposed as it is not merely to the alien, anti-national forces, but to the entire liberal modernist subversion, of which the United States has been the foremost exemplar. -Michael O’Meara

Question: What is a rebel? Is one born a rebel, or just happens to become one? Are there different types of rebels?

Dominique Venner: It’s possible to be intellectually rebellious, an irritant to the herd, without actually being a rebel. Paul Morand [a diplomat and novelist noted for his anti-Semitism and collaborationism under Vichy] is a good example of this. In his youth, he was something of a free spirit blessed by fortune. His novels were favored with success. But there was nothing rebellious or even defiant in this. It was for having chosen the side of the National Revolution between 1940 and 1944, for persisting in his opposition to the postwar regime, and for feeling like an outsider that made him the rebellious figure we have come to know from his “Journals.”

Another, though different example of this type is Ernst Jünger. Although the author of an important rebel treatise on the Cold War, Jünger was never actually a rebel. A nationalist in a period of nationalism; an outsider, like much of polite society, during the Third Reich; linked to the July 20 conspirators, though on principle opposed to assassinating Hitler. Basically for ethical reasons. His itinerary on the margins of fashion made him an anarch, this figure he invented and of which after 1932 he was the perfect representative. The anarch is not a rebel. He’s a spectator whose perch is high above the mud below.

Just the opposite of Morand and Jünger, the Irish poet Patrick Pearse was an authentic rebel. He might even be described as a born rebel. When a child, he was drawn to Erin’s long history of rebellion. Later, he associated with the Gaelic Revival, which laid the basis of the armed insurrection. A founding member of the first IRA, he was the real leader of the Easter Uprising in Dublin in 1916. This was why he was shot. He died without knowing that his sacrifice would spur the triumph of his cause.

A fourth, again very different example is Alexander Solzhenitsyn. Up until his arrest in 1945, he had been a loyal Soviet, having rarely questioned the system into which he was born and having dutifully done his duty during the war as a reserve officer in the Red Army. His arrest, his subsequent discovery of the Gulag and of the horrors that occurred after 1917, provoked a total reversal, forcing him to challenging a system which he once blindly accepted. This is when he became a rebel — not only against Communist, but capitalist society, both of which he saw as destructive of tradition and opposed to superior life forms.

The reasons that made Pearse a rebel were not the same that made Solzhenitsyn a rebel. It was the shock of certain events, followed by a heroic internal struggle, that made the latter a rebel. What they both have in common, what they discovered through different ways, was the utter incompatibility between their being and the world in which they were thrown. This is the first trait of the rebel. The second is the rejection of fatalism.

Q: What is the difference between rebellion, revolt, dissent, and resistance?

DV: Revolt is a spontaneous movement provoked by an injustice, an ignominy, or a scandal. Child of indignation, revolt is rarely sustained. Dissent, like heresy, is a breaking with a community, whether it be a political, social, religious, or intellectual community. Its motives are often circumstantial and don’t necessarily imply struggle. As to resistance, other than the mythic sense it acquired during the war, it signifies one’s opposition, even passive opposition, to a particular force or system, nothing more. To be a rebel is something else.

Q: What, then, is the essence of a rebel?

DV: A rebel revolts against whatever appears to him illegitimate, fraudulent, or sacrilegious. The rebel is his own law. This is what distinguishes him. His second distinguishing trait is his willingness to engage in struggle, even when there is no hope of success. If he fights a power, it is because he rejects its legitimacy, because he appeals to another legitimacy, to that of soul or spirit.

Q: What historical or literary models of the rebel would you offer?

DV: Sophocles’ Antigone comes first to mind. With her, we enter a space of sacred legitimacy. She is a rebel out of loyalty. She defies Creon’s decrees because of her respect for tradition and the divine law (to bury the dead), which Creon violates. It didn’t mater that Creon had his reasons; their price was sacrilege. Antigone saw herself as justified in her rebellion.

It’s difficult to choose among the many other examples. . . . During the War of Succession, the Yankees designated their Confederate adversaries as rebels: “rebs.” This was good propaganda, but it wasn’t true. The American Constitution implicitly recognized the right of member states to succeed. Constitutional forms had been much respected in the South. Robert E. Lee never saw himself as a rebel. After his surrender in April 1865, he sought to reconcile North and South. At this moment, the true rebels emerged, who continued the struggle against the Northern army of occupation and its collaborators.

Certain of these rebels succumbed to banditry, like Jesse James. Others transmitted to their children a tradition that has had a great literary posterity. In the “Vanquished,” one of William Faulkner’s most beautiful novels, there is, for example a fascinating portrait of a young Confederate rebel, Drusilla, who never doubts the justice of his cause or the illegitimacy of the victors.

Q: How can one be a rebel today?

DV: How can one not! To exist is to defy all that threatens you. To be a rebel is not to accumulate a library of subversive books or to dream of fantastic conspiracies or of taking to the hills. It is to make yourself your own law. To find in yourself what counts. To make sure that you’re never “cured” of your youth. To prefer to put everyone up against the wall rather than to remain supine. To pillage in this age whatever can be converted to your law, without concern for appearance.

By contrast, I would never dream of questioning the futility of seemingly lost struggles. Think of Patrick Pearse. I’ve also spoken of Solzhenitsyn, who personifies the magic sword of which Jünger speaks, “the magic sword that makes tyrants tremble.” In this Solzhenitsyn is unique and inimitable. But he owed this power to someone who was less great than himself. To someone who should gives us cause to reflect. In “The Gulag Archipelago,” he tells the story of his “revelation.”

In 1945, he was in a cell at Boutyrki Prison in Moscow, along with a dozen other prisoners, whose faces were emaciated and whose bodies broken. One of the prisoners, though, was different. He was an old White Guard colonel, Constantin Iassevitch. He had been imprisoned for his role in the Civil War. Solzhenitsyn says the colonel never spoke of his past, but in every facet of his attitude and behavior it was obvious that the struggle had never ended for him. Despite the chaos that reigned in the spirits of the other prisoners, he retained a clear, decisive view of the world around him. This disposition gave his body a presence, a flexibility, an energy that defied its years. He washed himself in freezing cold water each morning, while the other prisoners grew foul in their filth and lament.

A year later, after being transferred to another Moscow prison, Solzhenitsyn learned that the colonel had been executed. “He had seen through the prison walls with eyes that remained perpetually young. . . . This indomitable loyalty to the cause he had fought had given him a very uncommon power.” In thinking of this episode, I tell myself that we can never be another Solzhenitsyn, but it’s within the reach of each of us to emulate the old White colonel.

French Original
“Aujourd’hui, comment ne pas être rebelle?”
http://www.jisequanie.com/blogs/index.php?2006/06/18/13-entretien
avec-dominique-venner-comment-peut-on-ne-pas-etre-rebelle

On Venner
“From Nihilism to Tradition”
http://www.theoccidentalquarterly.com/vol4no2/mm-venner.html