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vendredi, 17 décembre 2010

Cavalcare la crisi

Cavalcare la crisi

di Stefano Zecchi - Marco Iacona

Fonte: scandalizzareeundiritto

p138.jpg-Evola ha costruito gran parte delle sue riflessioni attorno al concetto di crisi. Lei crede che ciò lo allontani da una cultura italiana che nella sua generalità, nel XX secolo, non ha partorito grandi opere su questo tema? 

«Il tema della crisi è un argomento che ha impegnato buona parte della cultura europea e in questo senso Evola si pone come serio interlocutore. In Italia però, nonostante sia ben conosciuta, la cultura della crisi non viene tematizzata perché domina l’idealismo, quello crociano e quello gentiliano. Si pensi al disconoscimento da parte di Croce del valore di un libro famosissimo come Der Untergang des Abendlandes oppure alle ricerche e alle conferenze in tema di crisi di Husserl o alle tematiche heideggeriane. Ecco, alla sua domanda risponderei di sì, Evola si pone al di fuori della cultura filosofica dominante. Certo poi gioca a suo sfavore la collocazione politica che aumenta il distacco della sua ricerca filosofica dalla restante parte della cultura italiana».               

-Perché ha scritto il saggio introduttivo alla V edizione di Cavalcare la tigre (Stefano Zecchi, Evola, o una filosofia della responsabilità contro il nichilismo, Mediterranee 1995)?

«Fu Gianfranco de Turris ad offrirmi quest’opportunità ed io accetti volentieri. Penso che Cavalcare la tigre sia un testo importante. Evola mostra i limiti della modernità nel momento in cui è trionfante e nel momento in cui esprimersi contro di essa era né più e né meno che un’eresia. Il libro s’incrociava anche con i miei studi, nonostante le tematiche svolte fossero assai diverse. La conoscenza di Cavalcare la tigre era fondamentale perché fondamentale era per me la proposta di un angolo di visuale sul tema della modernità e sul concetto di crisi».

 -Cavalcare la tigre esce agli inizi degli anni Sessanta. Qual è il clima culturale italiano di quel periodo?

«È il clima più ostile possibile nei confronti di una critica alla modernità! La cultura di destra era sotterranea quindi non aveva voce all’interno del dibattito culturale; la cultura laico-liberale e quella comunista si sviluppavano invece su prospettive totalmente diverse da una critica all’idea di modernità. Ma non era solo Evola ad essere bistrattato, si pensi a come erano stati trattati Heidegger e Husserl, cioè gli esponenti di una filosofia che usciva fuori da prospettive diciamo così à la page. Di più, in Italia si stava  instaurando, costruita con grande meticolosità, l’egemonia culturale della sinistra, quindi Evola come altri grandi pensatori europei era posto ai margini del dibattito culturale».       

-Cosa pensa dell’interesse in negativo di Evola per gli esistenzialisti?

«Credo che Evola per certi aspetti abbia visto giusto. La critica evoliana agli esistenzialisti per qualche verso mi sembra analoga alla critica fatta da Henry Miller ai surrealisti. Miller scrisse la Lettera aperta ai surrealisti (che si trova nel volume Max e i fagociti bianchi) accusandoli di intellettualismo e di incapacità di toccare a fondo i temi che essi stessi avevano sollevato. Evola mi dà l’idea di sviluppare una critica, diciamo così, metodologicamente analoga a quella di Miller perché mette in evidenza la mistificazione e le ambiguità di un pensiero esistenziale che in realtà non arriva a porre i veri temi dell’esistenza. Un pensiero che resta come una forma superficiale di interrogazione dell’essere umano».

-Lei scrive che Cavalcare la tigre «può essere letto come un manuale di sopravvivenza» «da chi crede che la società moderna porti al disastro personale e sociale, culturale e politico». Ma in quanto strumento di “salvezza” secondo lei Cavalcare la tigre è davvero efficace?

«Paradossalmente le tematiche evoliane, o comunque se non Evola il clima culturale a cui Evola appartiene sono ben più attuali oggi. Con la perdita dell’enfasi sull’idea di sviluppo e di progresso c’è maggior attenzione ai temi della crisi, e quindi i punti che Evola ha toccato sono di maggiore attualità. Ecco, le critiche di Evola (come alcune cose dette da Heidegger e da Husserl) proprio per questa perdita del valore teoretico ed etico del progresso oggi ritornano. Devo dire però che Cavalcare la tigre ci anche ha dato una mano ad attraversare un deserto: così siamo arrivati all’oggi potendo dire che per fortuna i tempi sono molto diversi».

-Lei mostra qualche affinità col pensiero di Evola...

«Io non sono un “evoliano”, il mio pensiero si sviluppa in modo diverso, sebbene, come dicevo, alcuni aspetti della critica della modernità ritornino nei miei libri. Ricordo ad esempio che quando scrissi un libro come La Bellezza (1990) soltanto il termine “bellezza” venne considerato offensivo nei riguardi della modernità».

-Parafrasando il titolo di un suo libro degli anni Novanta (Stefano Zecchi, Sillabario del nuovo millennio, Mondadori 1993), secondo lei Evola potrebbe essere un pensatore capace di decrittare il nuovo millennio?

«Sicuramente sì. Evola è uno dei grandi pensatori del nostro secolo collocabile, come ho detto più volte, all’interno del filone della crisi. Piuttosto, ripeto, su di lui ha giocato negativamente l’esperienza politica e il fatto che la cultura egemone fosse legata al dibattito politico italiano. Penso che Evola paghi un prezzo che col passare del tempo sarà sempre meno salato».

-Un’ultima domanda. Lei ha scritto di televisione e conosce i mezzi di comunicazione. Potremmo fare un parallelo fra Evola e Pasolini dicendo che si tratta di due autori che si sono opposti al potere trionfante dei moderni mezzi di comunicazione?

«Beh, in Evola c’è anche una sorta di filo moralistico, secondo il quale qualunque fenomeno moderno conduce alla massificazione. In Pasolini invece, a parte il tema moralistico, c’e un’accettazione e perfino un utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Pasolini è più disponibile perché la sua è una critica ad una modernità dimentica degli aspetti originari dell’esistenza, della dimensione rurale e di quella operaia. Pasolini usa cinema, televisione e giornali ed esercita sul campo le sue critiche. Ritengo invece che Evola non avrebbe mai voluto sporcarsi gli abiti inserendosi fra i protagonisti dei più moderni mezzi di comunicazione».

 

 

 

 

 


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mercredi, 15 décembre 2010

Vers un Big Bang géopolitique - Entretien avec H. Juvin

Vers un Big Bang géopolitique

Entretien avec Hervé Juvin

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

juvin.jpgHervé Juvin n’est pas qu’un économiste, ni uniquement un essayiste, non plus seulement le président d’Eurogroup Institute, il est encore et surtout un analyste incomparable, aussi lucide que courageux, du monde comme il ne va plus.
La crise – économique, systémique, anthropologique – que traverse l’Occident, ou plutôt les Occidents disloqués, a trouvé en lui l’un de ses interprètes les plus perspicaces. Il vient de publier chez Gallimard un essai sur « le renversement du monde », ce monde sur lequel on vivait et qui se retrouve la tête en bas. Décapant. Et très éclairant.

Le Choc du mois : Ce que vous appelez le « renversement du monde » tient d’abord selon vous à une sorte de pathologie de l’Occident qui serait devenu incapable de penser les dimensions du politique et de l’identité…

Hervé Juvin : Je ne suis pas sûr qu’il n’y ait pas, au lieu d’un Occident, plutôt des Occidents, au pluriel, et de plus en plus. L’intervention américaine dans l’ex-Yougoslavie, pour ne citer qu’elle, est un moment où l’Occident s’est sans aucun doute battu contre lui-même. On peut en dire autant de la crise financière, qui a vu l’opposition anglo-américaine contre l’Europe s’exacerber. En fait, il faut revenir à ce moment particulier, non pas tant de la chute du mur de Berlin que de la dissolution de l’Empire soviétique, dont on oublie toujours de rappeler à quel point elle fut éminemment et très curieusement pacifique. De là va résulter un mouvement d’euphorie qui traversera quasiment tout l’ensemble occidental et dont l’expression emblématique restera le livre de Fukuyama, La fin de l’Histoire et le dernier homme. Trois raisons à cela : d’abord, l’on assistait à la fin du colonialisme ; ensuite, l’on voyait l’explosion du bloc qui incarnait non seulement le Mal, mais encore plus sûrement l’Autre absolu ; enfin, l’on pouvait estimer que la démocratie était en train de s’universaliser. Autant de raisons qui nous ont poussés à croire qu’il était possible de s’abstraire de la condition politique. Or, la condition politique, c’est essentiellement deux choses : le fait qu’il y a des hommes, et non pas l’Homme avec un grand H, comme le remarque si bien Hannah Arendt ; et le fait qu’il y a des frontières, à l’intérieur desquelles les hommes exercent la liberté de s’autodéterminer, dans le cadre d’une nation, à travers un État souverain et un territoire national clos.
Autrement dit, les Mêmes décident de ce qui concerne les Mêmes : les décisions que prend le peuple français n’engagent que les seuls Français, du présent et des générations à venir, pas les Américains, les Russes, les Marocains, etc. Or, on assiste pendant plus d’une décennie à la mise en apesanteur de cette condition politique. Comme les frontières vont disparaître et la démocratie planétaire s’étendre partout, il n’y aura plus que des individus, tous voués à la poursuite du bonheur, tous habités par un désir illimité. Dès lors, le seul principe de régulation des individus sera l’économie ou le marché, bref ce phénomène extrêmement important que l’on va désigner sous le nom de globalisation.

Vous expliquez également que cette globalisation repose sur une alliance objective entre l’ État et le marché. Quelle forme a-t-elle prise ?

Dans les années 1990, nous sommes entrés, sur le plan politique, en territoire inconnu, par suite de la diffusion des Droits de l’Homme, perçus comme un droit illimité de l’individu à se départir de tout collectif, à briser tout lien, à nier toute appartenance, à se désengager de tout rapport durable et pérenne avec les siens. De défensifs, le sans-frontiérisme et le mondialisme sont ainsi devenus agressifs. Parler de nationalités, de frontières et de souveraineté vous faisait passer pour démodé et vieux jeu, sinon carrément indécent. Le Droit et le Marché prétendaient alors se substituer au Politique dans une conjuration tout à fait étonnante qui devait déboucher sur une libération de l’individu et même du collectif, toutes deux éminemment bénéfiques. Le phénomène a été abondamment commenté, notamment par les penseurs socialistes issus de l’extrême gauche dans les termes les plus enthousiastes. Ce sont les grands mots de «société citoyenne» ou «société civile», lesquelles viendraient reprendre leurs droits.
Il n’en fut rien. Ce à quoi on va assister, c’est au contraire à l’apparition d’une configuration tout à fait inédite, mise en évidence par la crise, dans laquelle, comme Marx et Nietzsche l’avaient bien vu dès la fin du xixe siècle, l’ État ne va plus se définir que contre le peuple, et même contre les peuples, parce qu’il devient l’infrastructure de déploiement du marché, du libre-échange, de la circulation indéfinie des capitaux, des biens et des personnes. La grande entreprise entreprend de changer les peuples, organisant l’invasion et le démantèlement des Nations, avec le concours d’ États tenus par des engagements arrachés par Bruxelles sous l’influence anglo-américaine. C’en est fini du principe majoritaire, du suffrage universel et de la démocratie représentative. Le paradoxe, c’est que tout cela va se faire sous l’égide du Droit, alors qu’on assiste au retour des principes constitutifs de la Colonisation. Car si l’on veut bien poser un regard un peu décapant et inhabituel sur la situation actuelle, il faut revenir à la conférence de Bandung, en 1955, réunion d’ États asiatiques et africains qui annonce la fin de la période coloniale et l’avènement d’un nouvel ordre du monde. A cinquante ans de distance, il ne fait aucun doute que l’appel de Bandung a été entendu, puisque la décolonisation politique a été effective. Mais il est tout aussi évident que l’on a assisté parallèlement à une colonisation interne des sociétés humaines par la finance de marché et l’économie. De façon inattendue, violente, avec une rapidité ravageuse, l’économie a pris le pouvoir. Cela uniquement parce que les États ont mis à la disposition du marché leurs infrastructures, dont celles relevant de la sécurité, de la censure et du contrôle des populations. Telle est la configuration que la crise a révélée. J’en veux pour preuve la promptitude avec laquelle les États ont volé au secours d’établissements financiers et de sociétés d’assurance en situation de faillite (et qui auraient mérité d’être faillis), en mobilisant avec une rapidité impressionnante toutes leurs ressources, qui sont en dernier ressort celles du contribuable.

La globalisation occidentale serait donc la fille des colonialismes européens ?

Le colonialisme du xixe siècle, c’était déjà le rêve d’un monde sans limites, d’une nature inépuisable, et plus encore l’idée que le monde s’offrait aux colons blancs pour en user à leur guise parce qu’ils étaient les détenteurs de la civilisation, de la morale et du Bien. On oublie d’ailleurs toujours de rappeler que quelques-uns des plus éminents dirigeants socialistes de la IIIe République furent les plus ardents colonisateurs. Mais les colonialismes européens étaient nationaux, plus que religieux ou financiers. C’était la France, l’Allemagne, l’Angleterre, qui plantaient leurs drapeaux. Aujourd’hui, le régime des colons se déploie sous l’influence américaine, et, dorénavant, chinoise. Si le modèle américain, c’est certes celui de la première libération d’un peuple du colon britannique, c’est aussi celui d’un développement par l’éradication des indigènes. Le génocide indien libère la terre pour l’exploitation infinie du colon.
Nous assistons aujourd’hui à l’extension mondiale de ce système. Le droit du colon, c’est-à-dire celui du développeur et de l’investisseur capable de rentabiliser n’importe quel actif, est jugé supérieur à celui de peuples autochtones et indigènes à demeurer sur leur sol, selon leurs mœurs, lois et règles.
Le droit au développement masque l’obligation de se développer… ou de partir. Contre l’économie, nul ne saurait se dresser légitimement. C’est exactement ce principe qui préside à la colonisation interne de nos sociétés, par exemple à l’obligation d’accepter l’immigration de peuplement.
Pour le dire très clairement, le principe de la colonisation étendue à la totalité du monde est en train de recréer un vaste marché de l’esclavage, en contraignant toutes les ressources terrestres à fonctionner dans le système économique à un prix de marché jugé universel. Ce qui constitue la négation absolue du droit des autochtones à disposer d’eux-mêmes. L’événement nouveau et renversant, c’est que nous, Européens, sommes en train de subir le même phénomène d’humiliation, d’expulsion et d’invasion, qu’enduraient jadis les colonisés. Interdits d’identité, bafoués dans nos mœurs et lois, privés de nos mots et expressions, au nom d’une conformité sur laquelle veillent les chiens de garde de la nouvelle Internationale, nous nous rapprochons insensiblement, mais rapidement, de la condition des indigènes si bien décrite par Claude Lévi-Strauss. A quand des réserves pour les Français de souche ? La lutte pour la décolonisation interne de nos sociétés sera le sujet politique de la génération à venir. Ce sera l’occasion d’affirmer une nouvelle radicalité républicaine, l’occasion aussi de réaliser l’union de tous les peuples contre l’entreprise mondialisée et la finance satellisée.

Pensez-vous que la survie même des nations occidentales soit engagée dans ce processus néo-colonial ?

Après 1990, se sont développés un discours et une idéologie abrités sous le double biais du libre-échange, garant de la croissance et de la stabilité des prix, et de la liberté de mouvement des hommes, garante de la paix dans le monde comme du droit de chacun à poursuivre son bonheur privé. Il s’agissait clairement d’une idéologie de la disparition des nations. On voit aujourd’hui avec quelle naïveté l’Union européenne l’a endossée, estimant que la poursuite de la construction européenne ne pouvait se faire qu’en défaisant le national. Une telle politique comportait un risque considérable : en détricotant les nations, on réveillait le démon des origines, celui des religions, mais aussi des régionalismes qui sont en train de gagner toute l’Europe. Aveugles aux conséquences de la mondialisation – déracinement, désaffiliation, désappartenance –, nous n’avons pas voulu voir la violence qu’elle ne manquerait pas de semer dans le monde. Or, l’on sait – ou l’on devrait savoir – que rien n’est plus capable de violence, et d’une violence illimitée, qu’un homme seul, réduit aux émotions et aux passions, privé de liens, d’attachements et, souvent, de convictions. Ce modèle de « l’homme sans qualités », de l’homme-bulle, de l’homme en apesanteur, est le produit de la société de marché et l’idéal de la démocratie planétaire. A nier la condition politique, nous avons pensé que l’individu absolu était l’homme du futur, alors qu’un tel individu, non seulement, n’existe pas, mais peut s’avérer être un monstre capable de tout. Ce que nous commençons à entrapercevoir, ici ou là, dramatiquement. La mondialisation a donc sécrété une extrême violence. En sortir appellera en retour une violence identique. En clair, nous sommes partis pour une phase qui va répondre, au moins à moyen terme, à la brutalité de la mondialisation, sur fond de retour des questions de frontières, d’identités de souveraineté, de légitimité, lesquelles vont laisser muette une large partie de la classe politico-intellectuelle, qui, depuis une génération au moins, a désappris à penser la politique. Le temps de la décolonisation interne de nos sociétés est venu.

A vos yeux, les chefs d’ État occidentaux sont donc directement responsables de la crise que le monde traverse depuis trois ans ?

La crise a d’abord été une crise du sans-limite. Il est clair que lorsque des entreprises, qui se disent privées et n’apportent de l’argent qu’à leurs seuls actionnaires, tout en faisant jouer un effet de levier sur le collectif – État et contribuable –, parce qu’elles sont, selon l’expression consacrée, « trop grosses pour mourir », c’est qu’elles ont au préalable trop grossi. Cet effet de levier sur la collectivité n’est pas tolérable.
Seconde faute majeure, celle de l’interdépendance. La crise a été manifestement une crise de l’interdépendance. Or, si nous avons été sauvés, c’est par des pays dont la monnaie n’est pas convertible et qui se sont protégés des excès des mouvements de capitaux et de l’économie de marché. En somme, nous avons été sauvés parce que l’interdépendance n’est pas planétaire. Mais quels sont les conseils prodigués, au terme de la série des G20 suscitée par l’Occident, pour sortir de la crise ? Accroître l’interdépendance (on le voit avec la pression exercée sur la Chine et l’air pincé des institutions mondiales à l’encontre de pays comme l’Inde ou le Brésil qui refusent l’afflux de capitaux spéculatifs). C’est donc aussi une crise de l’absence de responsabilité. Ceux qui, par cupidité et refus de tout lien avec une communauté ou une collectivité quelconques, en ont été à l’origine ne veulent endosser aucune responsabilité, et même pour la plupart, ne seront tout simplement pas remis en cause. Les Américains n’ont-ils pas l’insolence de faire la leçon au monde ? On voit pourtant bien que le règne de la conformité à la norme et à la règle ne résout rien, tant il est vrai que la responsabilité ne s’exerce que devant une communauté ou une collectivité définies, la responsabilité planétaire n’existant pas. Mais encore une fois, ce qui a triomphé, c’est le principe du renard libre dans un poulailler libre.
Ce qui me conduit à ce constat quelque peu désolant : tout indique que nous sommes dans un système de crise. La crise, c’est ce que l’on a inventé de mieux pour casser les systèmes de protection sociale en Europe, pour étendre le règne du marché et pour liquider tout ce qui dans les sociétés humaines et les peuples constitués n’entendait pas s’abandonner à l’interdépendance et à la loi du marché mondial. Voilà où nous en sommes : tout faire pour que rien ne change, tel est le credo inentamé de l’Occident. Mais ajouter des liquidités à une mer de liquidités pour éviter la déflation, réclamer plus d’interdépendance pour faire financer le naufrage américain et occidental par ceux qui ont préservé jusqu’ici leur autonomie, tout cela ne pourra pas fonctionner. Le sauvetage du système peut faire illusion un moment, mais il ne fera que rendre la crise encore plus grave, par renforcement des illusions du libre-échangisme, du mondialisme et du sans-frontiérisme. Alors que ce à quoi devraient travailler les décideurs et responsables, c’est précisément de préparer l’après.

Ce que naturellement ils ne font pas ?

Parce qu’il s’agit avant tout de parer au plus pressé, parce que l’ensemble des cadres intellectuels mis en place depuis plus d’une trentaine d’années sont devenus totalement obsolètes. Nous devons nous habituer à la fin de l’universel, réapprendre que la condition humaine ne se réduit pas à l’existence d’un homme-bulle en apesanteur, redécouvrir les identités, les frontières, les nations, les religions, les passions politiques. Bref, nous devons rouvrir les yeux sur le monde. Or, en Europe et aux États-Unis, on semble persuadé que les autres sont destinés à devenir pareils à nous. Ce qui nous épargne d’avoir à nous y intéresser. Nous avons jadis conquis le globe parce que nous avons été extraordinairement riches en mondes, capables de nous intéresser à l’Autre, d’essayer de le comprendre, infiniment curieux, observateurs et ouverts. Mais voilà, nous sommes devenus pauvres en mondes. Nous ne voyons pas la manière dont le monde se renverse. C’est probablement le plus grand sujet d’inquiétude pour les années à venir. J’invite tous les dirigeants à partir à la redécouverte du monde. C’est la tâche la plus essentielle aujourd’hui. Il faut se départir de cet immense mensonge, quasiment criminel, selon lequel le monde serait devenu plat. Le monde n’est plat que pour ceux qui vont d’aéroports en Hilton et d’Hilton en aéroports. Nous sommes aveugles à l’impressionnante montée de l’Islam, facteur géopolitique aussi important que l’avènement de la Chine ; aveugles au contrôle d’Internet par les États-Unis ; aveugles au discrédit du soft-power occidental, résultat du « deux poids, deux mesures » appliqué dans le domaine nucléaire aussi bien que dans les agressions américaines contre l’Irak et l’Afghanistan ; aveugles aux renaissances politiques que provoquent les agressions des fonds d’investissement sur les terres agricoles ; aveugles aux effets de la diffusion planétaire des technologies de communication.    

Propos recueillis par Philippe Marsay


Hervé Juvin, Le renversement du monde, Politique de la crise,
« Le Débat », Gallimard, 261 p., 17,90 €.

vendredi, 10 décembre 2010

"Wir sind nicht das Weltsozialamt" - Interview mit Udo Ulfkotte

»Wir sind nicht das Weltsozialamt«

Exklusiv-Interview mit Udo Ulfkotte

Michael Grandt / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Noch immer schlagen die Wellen in Sachen Migration hoch. Der Publizist Udo Ulfkotte hat schon vor Jahren vor Missständen gewarnt, aber niemand wollte auf ihn hören. In seinem neuen Buch präsentiert er dort Fakten, wo Sarrazin nur Aussagen macht.

Zur Person:

Dr. Udo Ulfkotte ist Jahrgang 1960. Er studierte Kriminologie, Islamkunde und Politik. Von 1986 bis 2003 arbeitete er für die Frankfurter Allgemeine Zeitung – zumeist im Nahen Osten. Er ist Sicherheitsfachmann und wendet sich gegen die schleichende Islamisierung. In zahlreichen Büchern, die Bestsellerauflagen erreichten, hat der Autor über die von den Medien verschwiegene Entwicklung aufgeklärt. Der Schweizer Journalist Beat Stauffer nannte Ulfkotte 2007 einen der »härtesten deutschen Islamismus-Kritiker« und berichtete: »(…) auch erklärte Gegner anerkennen, dass sich Ulfkotte auf der Ebene der Fakten nicht so leicht widerlegen lässt.« Viele muslimische Mitbürger haben zur Ermordung von Ulfkotte und seiner Familie aufgerufen, die nun an einem geheimen Ort lebt. Zuletzt erschien im Kopp Verlag sein Buch Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold., über das in der Mainstreampresse bereits kontrovers diskutiert wird.

Michael Grandt: Warum sind Sie überhaupt zu einem der hartnäckigsten Islam-Kritiker in Deutschland geworden?

Udo Ulfkotte: Ich bin mit einem ziemlich naiven Weltbild nach einem Studium von Jura, Politik und Islamkunde zur Frankfurter Allgemeinen Zeitung gekommen, wo ich 17 Jahre aus der islamischen Welt berichtet habe. Zwischen dem, was mir deutsche Universitäten über die islamische Welt und Muslime vermittelten, und der Realität bestand ein Unterschied wie zwischen Tag und Nacht. Der aus unserer westlichen Sicht so friedfertige Islam begegnete mir überall in der islamischen Welt absolut unfriedlich. Überall dort, wo Muslime und Christen oder Muslime und Nicht-Muslime zusammenleben, gibt es irgendwann Bürgerkrieg oder Krieg. Nach 17 Jahren Realitätserfahrung vor Ort habe ich feststellen müssen, dass auch meine europäische Heimat durch die Zuwanderung von immer mehr Muslimen in genau das abgleitet, worüber ich viele Jahre aus fernen Ländern berichtet habe: Parallelgesellschaften, der Vormachtanspruch und das Überlegenheitsgefühl der Muslime, die Beanspruchung von Sonderrechten, wie Migrantenbonus vor Gericht, die Behandlung von Nicht-Muslimen, also ethnischen Europäern als Menschen zweiter Klasse, und vor allem: horrende Kosten, die wir für vergebliche Integrationsversuche ausgeben. Jegliche Kritik an diesen Zuständen wird oder besser gesagt wurde in Europa über Jahre brutal mit der Nazi-Keule unterdrückt.

Zum Islam-Kritiker hat mich die Bundesregierung gemacht. Ich habe viele Sachbücher geschrieben und wäre nie Islam-Kritiker geworden, hätte mir dieser Staat nicht sechs Hausdurchsuchungen verordnet. In den Durchsuchungsbeschlüssen stand jedes Mal, ich hätte möglicherweise »Dienstgeheimnisse« verraten. Ich hatte ganz normal über das Verhalten von Muslimen berichtet – allerdings über das Verhalten jener Muslime, die von der Bundesregierung hofiert und zu Islam-Gipfeln eingeladen werden. Ich hatte von Sicherheitsbehörden Unterlagen zugespielt bekommen, die das wahre Gesicht einiger dieser Menschen deutlich zeigten. Und dann kam die Rache dieses Staates – die Hausdurchsuchungen. Der Überbringer der Botschaft wurde geköpft, die Wahrheit galt als »Dienstgeheimnis«. Seither interessiert mich politische Korrektheit nicht mehr. Lange vor Sarrazin habe ich die Dinge beim Namen genannt und auch belegt. Ich habe bei den Durchsuchungen gemerkt, dass wir Bürger für die Herrschenden nur Stimmvieh sind, das alle paar Jahre ein Kreuzchen machen darf. Und ich habe erfahren müssen, dass die Regierenden die schleichende Islamisierung Europas schlicht nicht interessiert. Die Parteien interessiert nur das nächste Kreuzchen des Stimmviehs. Und ob das Stimmvieh in ein paar Jahren in einem islamischen oder aber einem anderen Staatswesen lebt, das interessiert die da oben ganz bestimmt nicht. Auf dem Gebiet, auf dem ich mich auskenne – dem Islam und der Islamisierung Europas – mache ich also den Mund auf, damit unsere Kinder einmal später sehen, dass nicht alle geschwiegen haben.

Michael Grandt: Ihre Gegner werfen Ihnen eine »Islamophobie« und ein eingeengtes Weltbild vor, was sagen Sie dazu?

Udo Ulfkotte: Islamophobie ist nach der Wortbedeutung eine an Wahn grenzende Angst vor dem Islam. Islamophobie ist heute vor allem unter Muslimen verbreitet, etwa unter Sunniten, die Schiiten hassen, oder unter Schiiten, die Sunniten hassen. Überall in der islamischen Welt werden täglich Muslime Opfer dieser hasserfüllten islamophoben Wahnvorstellungen. Die weisen Politiker der westlichen Welt haben keine Erklärung dafür, warum es Islamophobie unter Muslimen gibt. Sie nennen es vielmehr nur Islamophobie, wenn Europäer nicht freudig erregt ihre eigene Verdrängung durch Muslime in Europa begrüßen. Wenn Hunderttausende Türken im Frühjahr 2007 in ihrer Heimat gegen die Islamisierung ihres Landes demonstrieren, dann ist das aus westlicher Sicht keine Islamophobie, sondern ein friedlicher Massenprotest. Zeitgleich wird jegliche Kritik am Islam in westlichen Staaten von Muslimen unter dem Beifall von Intellektuellen als »Islamophobie« bezeichnet. Das ist schizophren. Das zeigt, wie krank unsere Politiker und Intellektuellen sind. Der Begriff »Islamophobie« stammt übrigens von der terroristischen islamischen Gruppe Hizb ut-Tahrir, die in Deutschland verboten ist. Wenn mir also jemand »Islamophobie« vorwirft, dann ist das bei näherer Betrachtung so, als ob mir ein Nazi vorwirft, dass ich seine Ideologie nicht teile. Ich habe tiefstes Mitleid mit jenen, die so dumm sind und Kampfbegriffe wie »Islamophobie«, die von islamischen Terrorgruppen kreiert worden sind, unkritisch nachplappern.

Michael Grandt: Was unterscheidet Ihre neue Publikation Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold. von dem Buch Sarrazins?

Udo Ulfkotte: Zu jeder Aussage des Buches gibt es die Originalquellen. Insgesamt rund tausend Quellen, die man im Internet mühelos anklicken kann. Wenn man also schlicht nicht glauben will, dass Migranten aus den deutschen Sozialversicherungssystemen schon bis 2007 mehr als eine Billion (!) Euro mehr herausgenommen als in diese einbezahlt haben, dann klickt man auf der zum Buch gehörenden Website die Fundstelle an und kann sich vom Wahrheitsgehalt dieser Aussage überzeugen. Wer nicht glaubt, dass wir Steuerzahler gewalttätigen Migranten Boxkurse finanzieren, anatolischen Frauen Kurse, in denen sie lernen, einen Tampon zu benutzen oder wie man ein Hemd bügelt, dann schlägt man die Originalquelle nach. Und dann wird einem schnell klar, dass ethnische Europäer längst schon Menschen zweiter Klasse sind, die immer öfter nur noch dafür arbeiten, die unglaublichen Leistungen für Migranten zu finanzieren. Wussten Sie, dass wir seit Jahrzehnten Türken und Mitglieder von Balkan-Großfamilien, die noch nie in Europa gewesen sind, kostenlos und ohne einen Cent Zuzahlung, in der gesetzlichen deutschen Krankenversicherung mitfinanzieren? Davon können ethnische Deutsche, deren Krankenkassenbeiträge ständig erhöht werden, nur träumen. Wussten Sie, dass die Bundesregierung seit 2003 versprochen hat, diese Benachteiligung ethnischer Deutscher endlich zu beenden, es aber bis heute nicht getan hat? Wussten Sie, dass schon mehr als 40 Prozent der Sozialhilfebezieher in Deutschland Ausländer sind und die von ihnen verursachten Kosten für die Steuerzahler pro Jahr (!) höher sind als die Kosten der Finanzkrise? Der Unterschied zum Sarrazin-Buch besteht in der Dichte der Fakten und den direkt präsentierten Belegen. Tausend unglaubliche Fakten – und tausend Quellen. Da kann man nicht mehr sagen, dies oder das ist »rechtsextrem«, denn es sind Fakten. Sarrazin trifft Aussagen, ich präsentiere Fakten. Die Resonanz der Medien ist aufschlussreich: All jene, die über Sarrazin diskutiert und sich aufgeregt haben, schweigen zu meinem Buch. Ist doch klar: Sie kommen an den Fakten nicht vorbei. Wie wollen Journalisten denn den Bürgern da draußen erklären, dass es gut für uns ist, wenn Türken, die noch nie in Deutschland gewesen sind, in Anatolien in der deutschen Gesetzlichen Krankenversicherung versichert sind? Während wir Deutsche ständig neue Zusatzzahlungen für die Krankenversicherung leisten müssen, sind türkische Familienangehörige in der Türkei kostenlos mitversichert. Das erklären Sie mal einem deutschen Beitragszahler …

Michael Grandt: Wie lautet die zentrale Aussage Ihres Buches?

Udo Ulfkotte: Migranten aus islamischen Staaten sind Wohlstandsvernichter. Weil wir nicht das Weltsozialamt sind, müssen wir unsere Gastarbeitslosen wieder zum Gehen auffordern. Sonst bricht der Sozialstaat in weniger als 48 Monaten zusammen. Denn wir finanzieren das gerade schon mit den Steuergeldern unserer noch nicht einmal gezeugten Kinder.

Michael Grandt: Sehen Sie Unterschiede in der Wahrnehmung Ihrer kritischen Publikationen zwischen der intellektuellen Elite, dem medialen Establishment und dem Normalbürger?

Udo Ulfkotte: Da gibt es ganz gewaltige Unterschiede. Wenn man sich vor Augen hält, dass ein normales Sachbuch zu dieser Thematik von mir in kurzer Zeit irgendwo zwischen 60.000 und 100.000 Mal verkauft wird, meine Bücher allerdings in Medien fast nie erwähnt werden, dann zeigt das den volkspädagogischen Charakter unserer Medien und intellektuellen Eliten. Bücher, die kaum 2.000 Mal verkauft werden, werden überall besprochen, wenn sie nur politisch korrekt sind. Mich stört das allerdings nicht. Denn jene, die meine Bücher kaufen, bestellen die Zeitungen, die sich so verhalten, irgendwann ganz einfach ab. Die Qualitätsmedien schaufeln sich ihr eigenes Grab, indem sie ihre Kunden vergraulen. Eigentlich schade, aber wenn sie so dumm sind, kann ich es auch nicht ändern.

Michael Grandt: Haben Sie Drohungen erhalten?

Udo Ulfkotte: Ich kann die nicht mehr zählen. Von 2002 bis Ende 2003 hatte meine Familie wegen der vielen Morddrohungen Polizeischutz. Wir sind nach Angriffen mehrfach umgezogen. Wir haben heute zum Schutz scharfe Wachhunde. Ein Angreifer wäre in Sekundenbruchteilen Hackfleisch. Die letzte Morddrohung stammt übrigens von einem Produzenten von Xavier Naidoo. Der hatte vor wenigen Wochen öffentlich einen Preis für denjenigen ausgesetzt, der mir den Kopf abschneidet. Das Verfahren ist derzeit bei der Staatsanwaltschaft Hamburg anhängig. Es gibt leider immer mehr von diesem Bodensatz unserer Gesellschaft, der sich selbst dabei auch noch witzig findet, um den sich die Staatsanwaltschaften kümmern müssen.

Michael Grandt: Sie sind ebenfalls sehr kritisch, wenn es um die Politik islamischer Staaten geht. Wie verhält es sich im Falle Israels, das immer wieder Menschenrechte bricht und sich um keine UN-Resolutionen schert?

Udo Ulfkotte: Ich habe nicht das geringste Problem damit, den Staat Israel zu kritisieren. Wo Kritik angebracht ist, da muss man sie auch offen äußern.

Michael Grandt: Ich danke Ihnen für dieses Gespräch.

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Publikationen von Udo Ulfkotte:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

jeudi, 09 décembre 2010

Entretien avec Alexandre Belov: communauté païenne russe et arts martiaux

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

 

Entretien avec Alexandre Belov:

communauté païenne russe et arts martiaux

 

Q.: Qu'est-ce que le paganisme pour vous?

 

AB: Pour moi, le paganisme est en premier lieu la somme des expériences indépendantes vécues au fil de l'histoire par un peuple particulier, tant dans le contexte des processus vitaux que dans le domaine de la connaissance.

 

Q.: Comment le paganisme slave a-t-il pu survivre sous la férule du communisme?

 

AB: La dictature communiste n'a nullement contrarié les intérêts du paganisme slave. Il faut ajouter que l'athéisme commu­niste a permis de contenir les attaques chrétiennes contre la liberté de la connaissance. L'ère communiste a ainsi rendu un grand service au paganisme slave.

 

Q.: Quelle est selon vous la particularité du paganisme slave en comparaison avec les autres paganismes euro­péens?

 

AB: La particularité essentielle du paganisme slave est d'avoir cultivé radicalement la “grande idée barbare”, c'est-à-dire l'idée d'unir le Nord de glace à l'élément du feu. La variante russe du paganisme slave a joué un plus grand rôle historique dans les traditions d'Europe orientale que le paganisme slave en général, parce qu'il a réussi à conserver et à maintenir durant des siècles au moins trois linéaments païens fondamentaux: l'adoration du Soleil, de trois divinités associées et de Prav (*), c'est-à-dire l'adoration du Dieu du Tonnerre comme divinité principale assurant l'équilibre et l'harmonie de l'univers. Le der­nier avatar de Prav se retrouve dans la désignation en langue russe du christianisme d'Orient, Pravoslaviyé, soit “orthodoxie”. Le nom, au départ païen, a été volé par les chrétiens.

 

Q.: Quels ont été les réunions, rencontres ou événements qui vous ont conduit à créer la “Communauté Païenne Russe”?

 

AB: La création de la communauté païenne russe a été suivie par une deuxième naissance: la fondation d'un centre du culte pour toute la Russie, le sanctuaire de Peroun, Dieu du Tonnerre des Slaves anciens, à Radoucha. Cette fondation a été condi­tionnée, d'une part, par la nécessité de propager la tradition nationale du culte, et, d'autre part, par la nécessité de développer cette tradition en prenant en compte la dynamique du développement dans la société contemporaine.

 

Q.: Pouvez-vous nous parler de la nature particulière de l'Art Martial Slave, que vous pratiquez et enseignez, et la comparer aux arts martiaux orientaux?

 

AB: Goritsa est un art de combat qui récapitule l'expérience historique de la “lutte russe” et la connecte à cette “grande idée barbare” que je viens de vous évoquer. J'ai créé ce système de lutte et je m'en occupe depuis environ quinze ans. Je m'occupe plus généralement d'arts martiaux depuis 24 ans. L'une des particularités principales de Goritsa est d'utiliser les réflexes les plus caractéristiques des lutteurs cherchant à diriger l'attitude de leurs adversaires. Toutes les actions de l'adversaire relèvent de ce complexe que sont toutes les actions bio-mécaniques typiques. Cela permet d'attaquer un adver­saire en connaissant à l'avance ses réactions possibles. La Goritsa est un système unique de combat qui privilégie l'attaque. La Goritsa n'est donc pas un système d'auto-défense. Autre particularité de la Goritsa: ses sources remontent à la chevalerie et sont héritées du symbolisme physique de l'arme du combattant pendant la lutte. C'est là que réside toute entière la diffé­rence entre cet art martial et sa variante chinoise, qui imite plutôt l'attitude de l'animal. J'ai dénombré plus de vingt différences fondamentales entre l'art martial slave, la Goritsa, et les règles des arts martiaux extrême-orientaux.

 

Q.: L'Art Martial Slave est-il pratiqué aujourd'hui dans toute la Russie?

 

AB: Les objectifs et les tâches de la Goritsa sont difficiles à réaliser dans la Russie actuelle, parce que la caste militaire est déconsidérée par la propagande occidentaliste actuelle au profit d'une vision purement économiciste de la société, portée par les financiers qui ne s'intéressent pas aux arts martiaux.

 

Q.: Vous revenez d'un voyage en Italie. Vous y avez organisé des démonstrations et répendu votre enseignement. Que pensez-vous de l'expansion de l'Art Martial Slave en Europe?

 

AB: La campagne de promotion de la Goritsa en Europe est possible, même nécessaire, parce que cette méthode de combat exprime un mode de connaissance fondamentalement païen, partant non-conformiste dans le contexte actuel. C'est le meilleur moyen pour recréer une caste guerrière dans toute l'Europe, qui soit animée par des principes qui soient vraiment les siens.

 

Q.: En dehors de la Russie, quelles sont pour vous les traditions européennes les plus intéressantes?

 

AB: Ce qui m'attire dans la tradition païenne européenne, c'est surtout la beauté et la sagesse que l'on retrouve dans la poésie épique populaire. Nous découvrons là une éthique authentique. Non importée.

(propos recueillis par Jean de BUSSAC et traduit par Anatoli M. IVANOV).

 

(*) NDT: “Prav” est un terme difficile à traduire, emprunté au “Livre de Velès”, un faux devenu à mon grand regret très popu­laire parmi les néo-païens russes. “Prav” est à la racine des mots russes “pravy” (droit), “pravda” (vérité) et “pravoslaviyé” (orthodoxie).

dimanche, 05 décembre 2010

Interview with Greg Johnson

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Interview with Greg Johnson

ex.: http://www.counter-currents.com/

1. Being a man of ideas, has literature played an important role in your life? What would you say were the texts that proved key in your personal and intellectual development? And why?

History and philosophy played more of a role in shaping my outlook than literature. In fact, I can’t name a single work of fiction, qua fiction, that has shaped my worldview. But works of fiction have provided me with concrete and vivid exemplifications of otherwise abstract ideas. I love philosophical novels. Plato’s dialogues, of course, qualify both as literature and philosophy.

Plato has had the greatest influence on my outlook, particularly the Republic, but also the Gorgias, Phaedrus, Symposium, Euthydemus, Euthyphro, Apology, Crito, and Phaedo. Rousseau’s philosophical novel Emile also influenced my thinking profoundly. I love Ayn Rand’s The Fountainhead and Atlas Shrugged, but classical liberalism, capitalism, and even individualism ultimately undermine aristocratic and heroic values.

The philosophers who have shaped me the most are Plato, Aristotle, Plotinus, Machiavelli, Vico, Rousseau, Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, William James, Heidegger, Guénon, Evola. Alan Watts has had a huge impact as well, as have the Tao te Ching and the Upanishads.

Wagner’s music dramas are in a class by themselves, as texts somewhere between philosophy and literature/myth, married to some of the greatest music ever written. They are profound, and have influenced me profoundly.

Savitri Devi is also hard to categorize. She combines philosophy, history, religion, politics, and myth. She too has had a great influence on me.

As for literature proper: The writers I loved most as a child are ones I still love today: Poe, Tolkien, Kipling, and old illustrated compendiums of Greek and Norse mythology. Frank Herbert’s Dune books have also remained favorites. I like them more every time I return to them.

Later on I came to love Homer, Shakespeare, Blake, Goethe, Schiller, Baudelaire, Dickinson, Oscar Wilde, Yeats, Wallace Stevens, and Philip Larkin as poets and dramatists.

In terms of novels and stories, my favorite writers came to include Dostoevsky, Hugo, Flaubert, D. H. Lawrence, H. P. Lovecraft, Flannery O’Connor, and Yukio Mishima.

There are also “non-greats” whose voices I consistently enjoy: Edith Sitwell, Truman Capote, Evelyn Waugh.

I read a lot of Ray Bradbury, Kurt Vonnegut, and Aldous Huxley in my teens. Someday I want to revisit them. I think Bradbury will stand the test of time.

Literary criticism is very important to me. My favorite critics are D. H. Lawrence, Ezra Pound, Camille Paglia, and H. L. Mencken.

I have very little time to read fiction now, unfortunately. The last novel I read was Mister! I read too much non-fiction and spend too much time staring at the computer screen. I just can’t add more reading on top of that. So my primary form of intellectual recreation is watching movies and operas and listening to music.

2. I first became aware of you following your appointment as editor of The Occidental Quarterly. However, I understand you had already been active as a dissident writer for a number of years, during which you wrote under various pen names. What, in your particular case, made you opt in favor of pen names? And why did you decide eventually to do away with them?

When I wrote under pen names, I was working for people who would fire me if they knew my real views.

When I took the TOQ job, I was told I would have to use my own name. At the time, I was explained that since TOQ is the would-be flagship of the intellectual wing of the Anglophone movement, it would not be suitable to edit it under a pen name. I accepted that argument at face value and took the plunge. At that point, I crossed the Rubicon. After about a year, all my old professional “friends” and contacts simply melted away.

At the Counter-Currents/North American New Right site, I am consolidating all of my writings under two names: Greg Johnson for all the political articles and Trevor Lynch for most of the movie and television reviews.

3. The internet and ‘the real world’ are often presented as diametrical opposites, with the former cast as phony and the latter as the only thing that counts. But, isn’t the internet as real as the so-called real world? I say this because behind the keyboards and in front of the screens sit real people, whose behaviour in the ‘real world’ is both a cause and a result of what happens on the internet. I am aware of the argument against: many real people adopt fake online identities, but, ultimately, in the long run it is next to impossible for people not to betray their own thoughts and feelings online. Fake identities aside, is not the internet perhaps the most honest record of what is actually on people’s minds? Is not ‘the real world’ in fact phonier, since many don’t say what is on their minds in face-to-face situations for fear of social disapproval, professional consequences, or ostracism?

There have been recent studies that suggest that people lie more on the internet than in real life. But to some extent I agree with you: the internet is like the voting booth, and in its privacy and anonymity people can be more honest about controversial matters. In more mundane matters, usually connected to online dating and banal narcissism, the internet is a vast sewer of lies and imposture.

All this relates to the “ethics” of pen names. To me, it is purely a matter of individual discretion. I recommend pen names to those who want to communicate ideas but can’t under their own names. After all, it is the ideas that matter in the end, not the authors.

Yes, cowardly and dishonorable people often hide behind pen names. But narcissistic jackasses also write under their own names. To me, the most important consideration is to get as much truth as possible circulating out there. The labels and brands are less important than the content.

4. Your tenure as TOQ editor saw a number of innovations: an active online presence was developed and articles and reviews appeared that covered a much wider spectrum of cultural spaces than ever before. What were your aims for the TOQ during this period?

My aim was to make TOQ a metapolitical journal for a North American New Right, the goal of which was to lay the foundations of the White Republic. There were, however, limitations built into TOQ from the beginning that made that difficult.

A problem was that the journal did not have clearly articulated goals. There were basic topics and parameters in the founding documents, which were drawn up by Sam Francis, Louis Andrew, William Regnery, and Kevin Lamb: TOQ was to deal with biological race differences as well as the Jewish Question. TOQ was not to bash homosexuals. TOQ was to be neutral on religion.

The de facto editorial line, however, can be divined from the interview published with Alain de Benoist. Only about half the actual interview was published. Everything critical of scientific materialism and Christianity was dropped. Benoist, I imagine, was quite disgusted. I certainly was when I learned about it. (I plan to publish the discarded portions in the first volume of North American New Right.)

Now, to his credit, the original Editor Kevin Lamb frequently crossed these boundaries. When I took over as Editor, I quickly learned that I had to edit as if I had a scientific materialist over one shoulder and a religious fundamentalist over the other. I too went beyond those strictures. I made some improvements in the design and editing of the journal, but ultimately I did not do anything radically different than Lamb.

5. The term ‘metapolitics’ is often used within the intellectual class, and no doubt there are some who think it is all pretentious nonsense. Please explain this term for the layman, and why metapolitics is important. Why not just straight politics?

Metapolitics deals with foundational questions connected to politics, questions from history, philosophy, religious studies, the arts, and the human sciences.

One way of understanding the distinction between metapolitics and politics is in terms of values.

A political leader has to appeal to the existing values and attitudes of his constituency. The reason why White Nationalist politics is premature is that it offends the values of the electorate. (David Duke’s one win was a fluke. It won’t be allowed to happen again.) We can’t get what we want, because our people don’t want what we want. They think our goals are immoral. They also think they are incoherent and impractical.

They think these things, because our enemies have carefully laid the metapolitical foundations for the power they enjoy. They control academia, the school system, publishing, the arts, the news and entertainment media, and they have remade the American mind to their liking. My aim is to change people’s sense of what is politically desirable and right, and their sense of what is politically conceivable and possible.

That means that we have to explore ideas that would offend the majority of people.

6. So metapolitics is not the province of impractical bookworms, then. How does it relate to politics?

Metapolitics is about laying the foundations for political change. There are three levels to our struggle. (1) The metapolitical struggle to change values, culture, worldviews. (2) The metapolitical struggle to create a white community, and not just a virtual community, but an actual, real world, face-to-face community. A counter-culture needs to be embodied in a counter-community. (3) The political struggle for actual political power. In the end, we want political power, because we want to make the survival and flourishing of our people the law of the land, a matter of explicit policy, indeed the fundamental law and policy.

But metapolitics is not compatible with political activity within the present system and at the present time. Why? Because the prevailing metapolitical consensus rejects White Nationalism as immoral and impossible. This means that pushing our agenda in the present system is ultimately futile. Any gains will be at tremendous cost and will be easily reversed. You can swim against the current, but it is exhausting, and as soon as you run out of energy, the current will sweep you back to where you started. You can’t build the political superstructure before you lay the metapolitical foundations.

This is not to say that it is impossible for a deep-cover White Nationalist to pursue political power. I hope a lot of them are.

Nor is it impossible for system politicians to support initiatives that White Nationalists can support. For me, the only political issue in the United States that I care about is immigration, and there is reason for hope on that front. Politicians who are close to the right bank of the mainstream are pushing initiatives that might slow or halt the onslaught of illegal immigration. It is far short of what White Nationalists want—namely, a race-based immigration policy—but it would give us time by putting back the date when Whites become a minority in the United States. Given how disorganized and kook-infested the White Nationalist movement is in the United States, we need all the time we can get. Thus if it is possible for a White Nationalist to push immigration policy in the right direction, I say do it, so long as you do not divert our community’s resources into the political mainstream.

What I reject utterly is the idea that White Nationalists—a tiny, despised, poorly funded, poorly led minority—should divert any of our scare political capital into the mainstream at the cost of building up our own institutions and community. The mainstream is capable of taking care of itself. We need to take care of ourselves. If we don’t articulate our message and build our community, nobody else will.

We can’t buy mainstream politicians. They would flee from and denounce us if they knew who we are. Thus spending our political capital on people like that and expecting White Nationalist results is analogous to taking one’s capital to Las Vegas and playing craps as opposed to building one’s own business that will provide long-term steady income.

Gambling, of course, is more fun than hard work, and the political system, like Las Vegas, is full of people who will be your friend and stroke your ego as long as you have money to blow. But the house always wins in the end, so White Nationalists who put their capital behind system politicians end up cleaned out, burned out, and useless to our cause.

7. Does not the inherent need for dissimulation in politics make it incompatible with free enquiry and open intellectual debate?

Yes, I will grant that. And if I thought that the time for political struggle were at hand, and if I thought that someone had come up with the perfect “Noble Lie,” I would fall right in line.

But White Nationalist politics is premature. Yet the main impediment I encounter is giddy people thinking that the time for political struggle is at hand, and the only thing standing in the way of that are people like me who insist on talking about things like the problems of Christianity, European idears like fascism and (horrors!) National Socialism, etc. After all, these ideas won’t play in Peoria! They tell us that we need to shut down such discussions so our enemies don’t use them to scare away the voters.

Well, it doesn’t take a Ph.D. to see where this is going. The first thing we need to do is stop publishing articles that might offend mainstream Republican types. So we can’t publish articles about Black Metal, because that is “Satanic,” or Traditionalism because it is “occult,” or paganism because it is pagan. And we can’t be critical of capitalism either.

But you can’t stop there. Nothing offends Christian fundamentalists more than Darwinism, so scientific race studies and evolutionary psychological studies of the Jews are out too. Why talk about race and Jews at all, for that matter? Isn’t that divisive? Why not just get people riled up about “unfairness” and “double standards” against “European Americans” based on our “skin color”? Maybe we should just talk about restoring the Constitution.

In short, why not just close up shop? That is the ultimate end of this lemming-like stampede into the safe, respectable oblivion of mainstream conservatism.

The trouble with the mainstream, though, is that our enemies have done the metapolitical engineering work necessary to divert the conservative mainstream away from the turbines of political power and into the irrigation ditches of irrelevance.

So until the time is ripe for political struggle, I think that it is best to have the most open and free-wheeling intellectual debate possible. That is the only way we will create an intellectually exciting and morally credible metapolitical movement.

Besides, you can’t put the genie back in the bottle or the toothpaste back in the tube. For instance, even if I shut up tomorrow about the damaging effects Christianity has had on our racial survival, our enemies could still use that to scare Christians about Godless or Satanic racists. So we might as well keep the conversation going.

Besides, racially-conscious Christians will never reform their churches unless we constantly scourge them to do it. Otherwise, they tend to be far more interested in shutting down criticism in our camp than in confronting anti-White hatred in their churches.

Maybe metapolitical debate is folly from the point of view of political expediency. But as William Blake put it, the fool, if he persists in his folly, becomes wise. So we will persist.

We aren’t going to shut up and blend in, so people in the mainstream had better figure out ways of making us work to their advantage, if only by using us as boogey men to make them seem moderate by comparison.

8. Revolutionising the collective consciousness is probably one of the most difficult tasks that can be attempted, because for the most part people are not conscious of how they thinking is pre-determined by implicit rules and taken-for-granted notions that, because they seem self-evident truths, act to make ideology invisible. Truly unfettered intellectual debate feels threatening because it seeks to break out of that cognitive cage. Worse, this cage is so insidious that it even affects those who already are outside of the mainstream. What are the most common everyday manifestations you have encountered of the barriers to unfettered intellectual debate?

I can think of three.

First, there are people who read Counter-Currents/North American New Right and TOQ before them who imagine themselves being confronted with quotes from these publications on the campaign trail, or in a press conference, or on trial, or during pillow talk. (Not that they are politicians or otherwise likely to be interviewed by the press, but they have vivid imaginations.) They imagine themselves being tried before the court of today’s public opinion for holding heretical beliefs. And they are scared.

Well, they should be scared. That is the whole necessity for metapolitical struggle in the first place: to change prevailing public opinion. And to change public opinion, one must first have the courage to disagree with it, to buck it, to say things that might offend the public and that demagogues and lawyers can easily twist into a noose before a baying lynch mob.

A second perennial confusion is what Guillaume Faye calls the misapplication of the “apparatus logic” of a political party to an intellectual movement or publication. I try to survey the full variety of intellectual and cultural currents on the racialist right. Well of course somebody out there disagrees strongly with everything that I publish. Only a schizophrenic could hold Darwinian evolutionism and Guénonian devolutionism in the same mind, for instance.

But I routinely hear from people saying that I shouldn’t have published something, or that I need to remove something potentially offensive from the site. My standard reply is: If you don’t agree with something, write a rebuttal and we will publish that too.

Frequently, the reaction is incomprehension and anger. I realized that I am dealing with people who think in terms of a single intellectual orthodoxy in which offending opinions are not debated but simply made to disappear. It is the mentality that gave us the Inquisition and the Gulag.

Third, there is the related confusion that I call “representation logic”: the idea that everything published in a magazine represents the views of everybody else in the magazine, or everybody who subscribes to it, or everybody who donates to it. The consistent application of that sort of thinking would shut down all intellectual discussion.

For example, when I published Derek Hawthorne’s review of Jack Donovan’s Androphilia, I had one reader write in and say that he could not be part of the North American New Right because he wasn’t homosexual—as if everybody else who reads the site or writes for it were! Another fellow wondered if we were all “Satanists” because I published something by Julius Evola on Aleister Crowley. It doesn’t work that way.

9. When my essay about Black Metal appeared at TOQ Online, it elicited the highest number of comments ever seen for a TOQ article. Why do you think TOQ readers felt so strongly about such an obscure form of music? And why do you think people who obviously never heard the music felt entitled to have such strong opinions about it?

First of all, let me say that I thought very highly of that article. I was proud to have it appear in our pages. I knew nothing about Black Metal, so I was very happy to find such a sophisticated and well-informed perspective on it.

I wish I could find similarly high quality articles on the Neofolk scene and other white subcultures. We need to know what is out there and what works. We need to establish connections with these communities. Your article is a model of the sort of work that I want to publish in North American New Right (hint, hint).

I would have thought that White Nationalists would have been delighted to discover such a vast musical subculture in which radical white racial consciousness is the norm. Unfortunately, that was often not the case. I received more criticism for that article than anything else I published.

Christians (and gallant atheists who throw their honesty in the mud so Christians need not dirty their feet) were shocked at the associations with Satanism, paganism, and National Socialism. Others with premature fantasies of political activism were worried about how it would play in Peoria. Most of it was just bad faith posturing.

10. After editing TOQ, you founded a publishing house, Counter-Currents. What are your aims with this new enterprise? What can we expect from, and what would you like to make happen with, Counter-Currents in the next five to ten years?

Counter-Currents publishes North American New Right, which is a metapolitical journal that aims at laying the foundations for a white ethnostate in North America. North American New Right has two formats.

First, there is our webzine, at the Counter-Currents website, www.counter-currents.com, which publishes something new every day. The reason we publish online is because it increases the availability and thus the impact of an article, and it makes it immediately available to the public. Our goal is to save the world, after all. If something contributes to that end, it is worth publishing right away.

Second, we will publish an annual print volume, which contains the best of the website and additional articles, reviews, interviews, etc. This will be a handsome book along the lines of the journals Tyr or Alexandria: The Journal of Western Cosmological Traditions. The first volume, for 2010, will go to press in March 2011.

We also plan to publish around six books a year. Our format is to publish short books that can be read in a day, say in the range of 120 to 160 pages, with 200 being the upper limit. All our books will be published in limited numbered, hardcover editions of 100 copies plus standard hardcover and paperback editions.

Our first two volumes are Michael O’Meara’s Toward the White Republic and Michael Polignano’s Taking Our Own Side. Forthcoming volumes include works by Julius Evola, Alain de Benoist, Kerry Bolton, and Edmund Connelly.

Counter-Currents/North American New Right focuses on philosophy, political theory, religion, history, the arts, and popular culture with a White Nationalist metapolitical slant, and a special emphasis on whites in North America, since this is where we are located. We do not focus on science, policy studies, or the daily news cycle. We are not a political activist group, but a politically aware publishing house.

11. During the summer you wrote “Learning from the Left,” to which I responded with an article of my own, “Learning from the Right,” both on The Occidental Observer. In my article, I enumerated what I considered to be the failed strategies of the right. What are, in your opinion, the failed strategies of the right? And, having learnt from them, what do you propose should be the Right’s focus/approach in the coming decade?

I will speak specifically of the American scene.

I think the greatest failure of the post-WW II racial right is not dealing with the Jewish Question, whether through ignorance or cowardice. Instead, the tendency has been to use euphemisms, circumlocutions, and proxies to speak about the enemy: liberals, socialists, cultural Marxists, etc. But you cannot fight an enemy whom you refuse to name and understand. Is it any surprise that people have not been eager to follow leaders who reek of cowardice and moral confusion?

Next is the failure to identify what we are fighting for, again whether through ignorance or cowardice. We are fighting for the survival of white people in North America. Again, the tendency has been to use euphemisms, circumlocutions, or proxies: the Constitution, free enterprise, Christianity. The most preposterous one that I have heard is the claim that we are “the descendants of non-duophysite Christians as of 1492.” Of course this is not a definition of anything, just a euphemism for white Europeans, not Arabs or Jews. But why not just come out and say that? Is it any surprise that a movement where this passes for cleverness has gotten nowhere?

The third great failure is ceding the whole realm of culture and ideas to the Jews and trying to fight a merely political battle, which leads inevitably to the buffoonery of cornpone populism as an attempt to make an end run around the establishment’s lock on thinking people. But it just hasn’t worked. It might have worked 60 years ago, but it didn’t. But today Jews control the whole realm of explicit culture, for the thinking and unthinking alike.

Whites in North America will not be able to regain control of our destiny until we (1) openly avow and defend our racial identity and interests, (2) openly identify the leading role of the organized Jewish community in setting our race on the path to degradation and death, and (3) lay the metapolitical foundations for political power, which includes (a) spreading our message through the whole realm of culture and ideas and (b) fostering a concrete, real-world, racially-conscious white community.

12. As an intellectual, your theatre of war is the realm of ideas. Yet, people are seldom, if ever, persuaded through reason. Those who adopt dissident views adopt them because they were already innately pre-disposed toward them, and events facilitated a process of becoming truer to themselves. What does that mean for dissident intellectuals, from a political-strategical point of view?

Rational persuasion does not presuppose a blank slate model or an idea of reason as “pure” and unconditioned by factors other than truth. Maybe all reasoning is in the end is getting people to become aware of what they are already predisposed to believe. Which is implies that those people who lack that predisposition will never believe, no matter how good your argument may be.

Well, if that is so, then universalism is out. Democracy is out. Egalitarianism is out. But that sounds fine to me.

If we can persuade 5% of our people of the truth of our cause and get another 20% to identify with the program in essentially irrational or sub-rational ways, we can dominate the rest. Perhaps we can win the loyalty of 50% by delivering prosperity, security, and peace. Even if 25% can never get with the program, no matter what we do, because they have innate predispositions to reject it, they would just have to grumble and put up with the New Order. If their attitudes are genetic, then our eugenics program can target those traits and try to make them less prevalent in every future generation.

These numbers are arbitrary, but I think they communicate an important truth: a small minority of true believers, if it wins the allegiance of a somewhat larger minority of people who merely hold the right opinions without good reasons, can dominate the whole of society, essentially buy the loyalty of the majority, and completely disempower its die-hard opponents.

The real question for me is how to gain that second group, the larger minority of people who hold the right opinions but not necessarily for rational reasons. That is why metapolitics has to go beyond reason—beyond philosophy, beyond science—and engage myth, religion, and art.

One of my aims for Counter-Currents/North American New Right is to foster and promote a white artistic movement. I have done some writing on this topic, but my ideas are not yet ready for publication. The essence of the program, though, has two main parts.

First, we need to expose young, racially-conscious white artists to the great exemplars of the past. You don’t have to go back too far before one discovers that practically all great thinkers and artists are “right wing extremists” by present-day standards. Beyond that, many of the greatest artists of the 20th century were on our side as well. That is a tradition that we need to recover.

Second, we need to gather together white artists and foster them by creating a community of artists and critics. Critics can play an important role, even critics who are not artists themselves. Eventually, this will become the topic of a series of articles and reviews, which I then will bundle into a book.

13. The typical Right winger excels at critiquing what is wrong with modern Western society, but falls well short when it comes to imagining a future society in which the Right’s intellectual traditions comprise the mainstream of culture. William Pierce’s single broadcast, “White World,” set against his hundreds of other broadcasts, epitomizes this condition. Surely the future must not simply be a futile (and impossible) return to the 1930s. The Left, on the other hand, has always had a utopian vision. Describe a future society where Savitri Devi’s texts are canonical university textbooks, read without controversy.

This is why I think we need to cultivate artists. Artists project worlds. Harold Covington’s Northwest Quartet novels, for example, are enormously effective at communicating ideas. His novel The Hill of the Ravens is set in a future Northwest Republic, as are parts of A Distant Thunder.

Of course film is even more effective at communicating ideas than books. Film really is the realization of Wagner’s idea of the Gesamtkunstwerk.

Savitri Devi was politically to the right of Hitler. I guess the best image of a world where she is read without controversy is the final chapter of her Impeachment of Man: “Race, Economic, and Kindness: An Ideal World.”

14. Finally, how would you like to be remembered in 100 years? And how do you think you will be remembered by the enemy?

In truth, my initial reaction to your question is that I would like to be forgotten.

Human egoism is such an ugly thing. Narcissism is such a devastating personality trait in our movement—particularly the histrionic, “drama queen” variety. But there is a normal, healthy desire to be remembered that gets trampled and crushed by pathological narcissists stampeding toward what they imagine to be the stage of history and the spotlight of eternal glory. Of course in reality they end up telling the same stories to ever-dwindling meet, eat, and retreat groups; posturing on Facebook; or telling lies on internet forums.

I am less concerned with how I am remembered than by whom: I hope our people are alive and flourishing in a hundred years, and many centuries after that. As for our enemies: Frankly, I hope they lose their will to survive, suffer a demographic collapse, and eventually disappear. That is the sort of world in which I would like to be remembered.

I want to accomplish the goals I have set out above, and I would like them to contribute to that world. I want to leave the world a better place than I found it. I want to be part of the chain that carries what is best in our race and civilization onward and upward. Whether I am remembered or forgotten, I will still have played that role; it will be part of the permanent record of the cosmos, as unalterable as the laws of mathematics. That is more important than living on in other people’s memory.

Source: http://www.wermodandwermod.com/newsitems/news241120100028...

dimanche, 28 novembre 2010

Josef Schüsslburner: Konsensdemokratie

Josef Schüßlburner: Konsensdemokratie
Felix MENZEL - http://www.sezession.de/

In der aktuellen Staffel der Reihe kaplaken hat der Jurist Josef Schüßlburner die „Konsensdemokratie“ hinterfragt. Sezession hat ihm drei Fragen dazu gestellt. Schüßlburner erklärt in diesem kurzen Gespräch, warum Deutschland ein Korrektiv zur linken Mitte braucht und wie es um die Erfolgsaussichten einer rechten Partei steht.

Herr Schüßlburner, wie wirkt es sich auf unseren Staat aus, wenn die großen Volksparteien kaum noch Unterschiede aufweisen?

18615_0.jpgDie ideologische Konvergenz der sich über die „Mitte“-Verortung für das Volk setzenden Volks-Parteien belegt, daß sich das „eherne Gesetz der Oligarchie“ (Robert Michels) durchgesetzt hat. Es hat sich eine politische Klasse mit einer einheitlichen Weltsicht gebildet, die sich gegenüber maßgeblichen Forderungen aus dem Wahlvolk, das die Oligarchie über eine „Konsensdemokratie“ zu vertreten beansprucht, immunisiert. Die Tendenz zur Oligarchie bestätigt an sich die rechte Weltsicht gegenüber linken „demokratischen“ Wunschvorstellungen, jedoch ist es zum Zwecke der Wahrung des demokratischen Charakters der parlamentarischen Demokratie erforderlich, diesem „ehernen Gesetz“ entgegenzuwirken. Die Linke hat kein Interesse, da sie ja die Ideologie der oligarchischen Mitte bestimmt.

Warum braucht eine funktionierende Demokratie eine starke Linke und eine starke Rechte?

Der offene Links-Rechts-Antagonismus wirkt dem „ehernen Gesetz der Oligarchie“ entgegen und garantiert den repräsentativen Charakter der parlamentarischen Demokratie. Die Tatsache, daß diese repräsentative Situation in der Bundesrepublik Deutschland nicht gegeben ist, ergibt sich auch aus offiziösen Verlautbarungen, wonach 30 Prozent der Bevölkerung etwa ein „geschlossenes rechtes Weltbild“ und dergleichen haben würden, was ja gerade bei einem Verhältniswahlrecht dazu führen müßte, daß etwa ein Drittel der Bundestagsabgeordneten ein solches Weltbild haben sollten.

Diese Divergenz von Volk und Repräsentanten zeigt auch, daß die Demokratie in der Bundesrepublik ihren klassischen Anspruch nicht einlöst, die Freiheit des Volkes zu garantieren. Diese Freiheit zeigt sich neben der Tatsache, daß man sich etwa als „rechts“ einstufen darf, ohne durch Antidiskriminierungsgesetze diskriminiert zu werden, nicht zuletzt daran, daß dem Wahlvolk klare Alternativoptionen zur Verfügung stehen, welche sich dann auch in politischen Entscheidungen niederschlagen.

Aufgrund der aktuellen Debatte um eine „Sarrazin-Partei“ muß natürlich noch eine Frage folgen: Glauben Sie, daß sich in den nächsten Jahren eine erfolgreiche Rechtspartei bilden könnte?

Der Verwirklichung einer normalen westlichen Demokratie mit einem freien und offenen Links-Rechts-Antagonismus stehen in der Bundesrepublik Deutschland starke Hindernisse entgegen. So sorgt das Konzept eines post-demokratischen „Europa“, das die Oligarchisierung beschleunigt, ohnehin dafür, daß die Wahlentscheidungen und damit das eigentlich demokratische Element immer weniger relevant werden, was allerdings mit einer ideologischen Aufwertung von Demokratie zu einer Zivilreligion einhergeht. Man muß auch einräumen, daß diese Zivilreligion der Oligarchie, die insbesondere in der „Bewältigung“ besteht, ihre Untertanen doch sehr im Griff hat. Vereinfacht: Ohne einen deutschen Berlusconi wird es nicht möglich sein, die nur freiheitliche Demokratie der linken Mitte in eine freie Demokratie des offenen Links-Rechts-Antagonismus zu überführen.

Vielen Dank für das Gespräch!

vendredi, 26 novembre 2010

Revue "Identidad" (Espagne): Entretien avec Robert Spieler

Un grand entretien avec Robert Spieler publié dans la revue espagnole Identidad

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« Les spéculateurs et la finance internationale sont évidemment coupables dans l’émergence de cette crise, mais le premier responsable est le libéralisme mondialiste, forcément mondialiste et cosmopolite… »

20101111181859-portada.gifNous publions ici le texte de l’entretien accordé par Robert Spieler, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire, à la revue espagnole Identidad…

 

Identidad : Robert Spieler, parlez nous de votre carrière politique. 

 

Robert Spieler : Adhérent d’Ordre Nouveau, à sa fondation en 1969, j’ai rejoint le Parti des Forces Nouvelles (PFN) après la dissolution d’O.N. en 1973. J’ai été adhérent du GRECE et actif dans les milieux de la Nouvelle Droite. J’ai créé en 1981, lors de l’arrivée de la gauche au pouvoir, Forum d’Alsace, qui était le plus important club d’opposition d’Alsace. A la demande de Jean-Pierre Stirbois, j’ai rejoint le Front national en 1985. Je fus élu député et conseiller régional d’Alsace en 1986. J’ai quitté en 1989 le Front national dont je ne supportais pas l’ambiance de cour orientale, pour créer le mouvement régionaliste Alsace d’Abord dont je fus le Président jusqu’en 2008 et qui obtint jusqu’à 1O% des voix aux élections en Alsace. Je fus élu conseiller régional pendant 18 ans et conseiller municipal de Strasbourg pendant 12 ans En 2008, convaincu que la situation dramatique de la France exigeait le rassemblement de toutes les forces de la Résistance nationale et européenne, j’ai contribué à créer la Nouvelle Droite Populaire, dont je suis le délégué général.

 

Id – Pouvez-vous nous définir les objectifs de la NDP ?

 

R.S. : La NDP veut rassembler les forces nationalistes et identitaires, dans le respect des différences de sensibilités, avec pour objectif d’organiser la nécessaire Reconquista.

 

Nous défendons nos identités régionales, nationales et européennes, et voulons une Europe indépendante et puissante, fidèle à ses racines helléniques, celtiques, germaniques et chrétiennes. L’Europe de la puissance que nous espérons n’a bien entendu rien à voir avec l’Europe des nains de Bruxelles. Nous voulons aussi rompre avec l’ultra libéralisme mondialiste, destructeur des emplois européens, et créer une zone économique et commerciale protégée, partenaire de la Russie. Nous devons aussi en finir avec les tutelles étrangères qui asservissent notre continent. La construction d’une puissance militaire et diplomatique européenne implique que les pays européens doivent quitter l’OTAN.

 

Id - Le 9 mai, a eu lieu à Paris une manifestation nationaliste et identitaire qui a rencontré un grand succès.

 

R.S. : La NDP a largement contribué au succès de la manifestation nationaliste et identitaire du 9 mai 2010 qui a réuni à Paris plus d’un millier de militants très déterminés. Il s’agissait d’une première initiative de rassemblement dans la rue des forces nationalistes et identitaires. Nous allons poursuivre dans cette voie. Nul doute qu’en 2011, nous serons trois fois plus nombreux.

 

Id - Que penser de la burka ? L’interdire, ne pas l’interdire ?

 

R.S. : J’ai toujours dit que le problème n’était pas un morceau de tissu, mais ce qu’il recouvre. Ce n’est pas la burka qu’il faut interdire, c’est l’invasion islamique de l’Europe. La Reconquista passe par le départ d’une majorité des immigrés non européens, fussent-ils de nationalité française, espagnole, etc… La nationalité leur a été accordée sous la pression des lobbys antinationaux, contre la volonté de nos peuples. La nationalité leur sera retirée, sauf à ceux qui le méritent, le jour où le Peuple aura pris le pouvoir.

 

Id - L’immigration est-elle un problème religieux ou ethnique ?

 

R.S. : Le problème est ethnique avant d’être religieux. Si les masses africaines qui nous envahissent étaient chrétiennes, cela ne diminuerait pas la menace qui pèse sur la substance même de l’Europe. Ceci dit, l’islam, par sa vision totalitaire représente une redoutable menace qu’il faut impérativement conjurer. L’Europe est aujourd’hui dans un terrible état de faiblesse. L’effondrement démographique de pays tels l’Espagne, l’Italie, l’Allemagne mais aussi la Russie va entraîner la perte, d’ici trente ans, de dizaines de millions de naissances européennes et donc de millions de combattants pour la Reconquista. Seule une révolution nationale et européenne peut redonner à nos peuples l’énergie vitale qui permettra d’entamer le chemin de la renaissance.

 

Id - Sommes nous à la veille de confrontations ethniques ?

 

R.S. : En France, ce sont des centaines de quartiers de nos villes qui sont occupés par les envahisseurs. La police a pour consigne de ne pas les provoquer et de les laisser agir à leur guise dans les zones qu’ils contrôlent. Quand des policiers ou des citoyens réagissent, ils sont impitoyablement persécutés par une justice massivement collaborationniste. Cela fait deux mois, par exemple, qu’un vieux monsieur de 73 ans est en prison, dans le sud de la France, pour avoir tiré sans grosses conséquences sur des Roms qui s’étaient  introduits dans sa maison. Sommes-nous à la veille de confrontations ethniques généralisées ? Certainement. Ces confrontations se produiront quand les autorités voudront reprendre le contrôle des quartiers occupés. Mais ces confrontations débuteront plutôt en Espagne, en Italie ou en Autriche qu’en France ou en Allemagne, deux pays soumis à une véritable dictature de l’ordre moral imposé par les lobbys et leurs porte-serviettes, et dont les citoyens subissent dès leur plus jeune âge un véritable dressage mental.

 

Id - Qui sont les responsables de la crise économique et financière ?

 

R.S. : Les spéculateurs et la finance internationale sont évidemment coupables dans l’émergence de cette crise, mais le premier responsable est le libéralisme mondialiste, forcément mondialiste et cosmopolite.

 

Il faut sortir de la logique ultralibérale et ériger des frontières protectrices autour d’une Europe qui serait partenaire de la Russie. L’importation massive de produits fabriqués en Extrême-Orient dans des pays qui ne respectent aucune norme sociale détruit massivement nos emplois. Il faut réindustrialiser l’Europe. La finance doit être soumise à la volonté politique, et non l’inverse. La banque centrale européenne, qui aujourd’hui n’a de comptes à rendre à personne doit être mise sous tutelle.

 

Id - Vous défendez, contre le jacobinisme les identités régionales…

 

R.S. : La France est le pays le plus jacobin, le plus centralisé d’Europe. Les hauts fonctionnaires parisiens dirigent tout. Il est tout à fait anormal que l’ouverture ou la fermeture d’une maternité soit décidée par un fonctionnaire nommé par l’Etat, et non par la Région concernée. J’ai été conseiller régional d’Alsace durant 18 ans et ai pu mesurer les limites de la pseudo- régionalisation française. Pour donner un seul exemple, les Régions disposent du droit de financer et de construire des lycées, mais n’ont aucune autorité sur le contenu des programmes ni le choix des directeurs d’établissements. Quel intérêt y a-t-il de pouvoir choisir la couleur de la moquette ? Les régions devraient être maîtresses dans les domaines de l’identité régionale, de l’enseignement des langues régionales, de la politique d’aménagement du territoire, de développement économique, de préservation de l’environnement, etc…

 

Les Français envient beaucoup les Espagnols, les Italiens et les Allemands pour l’autonomie dont disposent leurs Régions.

 

Id - Y a-t-il contradiction entre la défense des identités alsacienne, française, européenne ?

 

R.S. : Etre Alsacien, Français et Européen, ce sont trois facettes qui ne sont absolument pas contradictoires de l’identité. Certains se sentent plus régionalistes, d’autres plus nationalistes, certains plus européens.  Nationalistes, régionalistes et partisans de l’Europe de la puissance sont destinés à combattre ensemble l’ennemi commun. Une seule condition : le respect de nos différences.

 

Id - Vous prônez l’axe Paris-Berlin-Moscou ?

 

R.S. : En tant que partisan de l’Europe de la puissance, je pense en effet que l’avenir de l’Europe passe par l’axe Paris-Berlin-Moscou. Sur les plans militaires et diplomatiques, l’Europe est une vassale des Etats-Unis. Il est indispensable que les pays européens quittent l’Otan pour construire une défense européenne partenaire de la Russie. L’Europe n’est en rien concernée par les conflits du Proche-Orient, de l’Afghanistan ou de l’Iran. Que je sache, les Iraniens, les Palestiniens et même les Talibans n’ont aucune responsabilité dans l’invasion que subit l’Europe. La guerre de libération doit être menée sur notre sol, pas en Afghanistan. Et puis, les soldats européens n’ont pas vocation à mourir ni pour Tel Aviv, ni pour Wall Street.

 

Id - Vous êtes un des fondateurs, aux côtés d’autres dirigeants de mouvements européens, de l’association Villes contre islamisation.

 

R.S. : Je suis très motivé à entretenir d’excellentes relations avec les mouvements européens frères : notamment les Flamands du Vlaams Belang, les Catalans de Plataforma Catalunya, les Autrichiens du Fpoe, les Italiens de la Lega Nord, les Allemands de Pro-Köln et bien sûr, les nationalistes espagnols représentés par mon ami Alberto Torresano dans toutes les manifestations de la Résistance en Europe. Cette collaboration des forces identitaires européennes est plus qu’importante. Elle est vitale. Seuls, nous sommes faibles. Unis, nous sommes forts.

 

Id - Un mot aux lecteurs d’Identidad.

 

R.S. : Je salue les valeureux combattants réunis autour de l’excellente revue Identidad et suis fier d’être un de vos camarades.

 

Site de la revue Identidad : cliquez ici

Blog de Robert Spieler : http://robert-spieler.hautetfort.com/

jeudi, 25 novembre 2010

Entrevista com Guillaume Faye

Entrevista com Guillaume Faye

por François Delancourt
http://legio-victrix.blogspot.com/

warrior_girl.jpgJornalista, escritor, polemista, produtor de rádio, roteirista, Guillaume Faye foi um dos principais entusiastas da corrente conhecida como Nova Direita, movimento que abandonou em meados dos anos 80. Depois dirigiu a publicação mensal J'ai tout compris.

Na atualidade, enquanto continua sua carreira jornalística, analisa a situação e lança novos dardos ideológicos que correm o risco de acertar no alvo em todos os instantes.

- Français d'abord: Poderias dar-nos uma definição do "politicamente correto" e explicar como funciona?

- Guillaume Faye: O "politicamente correto" é, antes de nada, uma censura social do pensamento e da inguagem imposto nos Estados Unidos pelos meios liberais-radicais, os grupos feministas, homossexuais, e por certas minorias étnicas, com o fim de paralizar a expressão da direita republicana. Porém na França, o "politicamente correto", adquire um perfil mais severo que nos Estados Unidos, é uma velha história. Leva ao ostracismo aos que não seguem a linha e os discursos oficiais da ideologia hegemônica. Na universidade dos anos 60 e 70, o antimarxismo era politicamente incorreto e seus detratos diabolizados como "fascistas".

O "politicamente correto" é a condição sine qua non para ter acesso aos grandes meios de comunicação e não ser socialmente satanizado. É o "politicamente chip". Dizer "jovens rebeldes" ao invés de marroquinos amotinados. Falar de "incidentes" e não de saques. Evocar os "efeitos colaterais" das Forças Aéreas estadunidenses na Sérvia, porém evitar a todo custo o tema incorreto dos bombardeios dos bairros civis do norte de Belgrado. Dizer "fratura social", ao invés de pauperização e, acima de tudo, esforçar-se, se quer ser admitido para jantar no andar térreo da Casa Lipp, Boulevard Saint Germain, para deixar entender que detesta os "franchutes" (*gíria depreciativa para fazer referência aos franceses étnicos). Para ser politicamente correto, é necessário ser etnomasoquista, é indispensável.

- Qual é, então, o lugar dos que têm coisas para dizer e verdadeiras perguntas para fazer?

- Acima de tudo não é necessário que se auto-censurem e adociquem seus discursos. Para forçar a barreira do politicamente correto eu prego o pensamento radical; quer dizer, o pensamento verdadeiro e afirmativo, do qual falava Nietzsche em seu "Crepúsculo dos Ídolos". Frente ao sistema é necessário aparecer como um verdadeiro inimigo, e não como um falso amigo. Como escreveu Solzhenitsyn, somente sendo radical o discurso poderá desafiar a censura e alcançar o ouvido do povo.

- Por quê a extrema esquerda não representa uma alternativa?

- Porque suas idéias e seus homens, os do trotskismo internacionalista e cosmopolita, já estão no poder. Porque seu discurso social está obsoleto e centrado na imigração e na xenofobia, sem ter em conta a defesa e a proteção do verdadeiro povo francês.

- O que é que lhe permite afirmar que o livre-comércio cairá em breve?

- Minhas posições são as de Maurice Allais, prêmio Nobem de economia. O mundialismo livrecambista não é viável a médio prazo pois descuida das diferenças de fatores de produção entre as distintas zonas e suprime as regulações econômicas. É um semi-reboque com o motoristo adormecido. Agora bem, em uma auto-estrada, uma coisa é certa: sempre há uma curva em alguma parte.

Para ser breve, eu sou favorável à teoria da autarquia dos grandes espaços: um espaço europeu de economia de mercado, sem fiscalismo nem estatismo, porém operando contingentemente sobre as importações exteriores, sobre todos os fluxos, quer sejam financeiros, materiais ou humanos.

- Você pôs em evidência os perigos da ascenção do integrismo religioso, não crês que possa existir uma forma moderada de Islã?

- Não, o Islã laico e moderado não existe. O Islã é uma civilização teocrática em que a fé se confunde com a lei. Quando o Islã é majoritário sobre um território, os cristãos e os judeus passam a ter um status de inferioridade. O Islã não conhece nem a tolerância, nem a reciprocidade, nem a caridade para com o não-muçulmano, excluída a umma (comunidade dos crentes do Islã). A esse respeito a ingenuidade dos políticos e dos sacerdotes é anestesiante.

- Para você, a imigração não é uma invasão, mas sim uma colonização populacional. Não estamos diante de uma diferença puramente semântica?

- França, em sua história, sofreu invasões totais ou parciais por parte de alemães, ingleses, russos, etc. Ainda assim, continuou sendo ela mesma. Uma invasão tem caráter militar e a sorte das armas pode mudar. A imigração atual é uma colonização populacional, com frequência consciente e vivida como um revanche contra a civilização européia. Pretende-se ademais, definitiva. A colonização das maternidades, como assinalava o general Bibeard, é muito mais importante que a das fronteiras porosas.

- Regressemos, se quiseres, à política. Como explica os ataques que a Frente Nacional vem sofrendo desde quinze anos?

- Como dizia Jean Baudrillard em 1997, em Libération, se minha memória não me engana (o que serviu para ser satanizado pelo terrorismo intelectual de seus colegas), "a Frente Nacional é o único partido que faz política, ali onde outros fazem marketing eleitoral". Agora bem, o sistema detesta os que fazem política, e os que têm idéias ou projetos alternativos de sociedade. Por outro lado, a Frente Nacional parece-se a um médico que ousa dizer a seu paciente que este em câncer e que deveria ser operado. É sempre desagradável de ouvir e entender.

A acusação neutralizadora de "racismo" e "fascismo" (em outro momento lançada contra Raymond Aron, lá por 1968, porque não era nem stalinista, nem marxista) não é nem se quer postura séria para os que a proferem. São anátemas para-religiosos, excomunhões lançadas contra todo grupo constituído que conteste os dogmas oficiais da classe político-midiática-intelectual no poder.

- Se o entendo bem, os partidos do governo formariam uma sorte de partido único ao que poderíamos chamar também Frente republicana?

- Vivemos dentro de um regime totalitário ao estilo ocidental, mais sutil, porém aparentado com os regimes soviético ou iraniano. A maioria e a oposição oficiais não discutem mais do que pontos de doutrina secundários, porém seguem pertencendo à mesma ideologia, a única autorizada. Diferem um pouco sobre os meios, porém não sobre os fins. Dita "Frente republicana" (que na realidade usurpou escandalosamente este belo vocábulo romano de res publica, assim como o conceito grego de demokratia) inclui várias frentes. Sobre as opções gerais, estão todos de acordo. Na atualidade, e emprego para isso personagens de Hergé, o senhor Chirac se assemelha ao capitán Haddock, o comandante bêbado e sem poder à cargo do Karaboudjian que transporta o ópio, e o senhor Jospin ao teniente Allen, que é o verdadeiro chefe a bordo. Que chege logo Tintin!

- A Frente Nacional seria então a única novidade política depois de 50 anos...

- Isso são os historiadores do ano 2050 que dirão. Nós chegamos a um ponto em que, como tratei de explicar em meu ensaio L'archéofuturisme, vivemos uma convergência de catástrofes. Pela primeira vez desde a queda do Império Romano, nossa civilização está globalmente ameaçada (étnica, demográfica, cultural, ecológica, economicamente...). É o "caso de urgência", a Ernstfall da qual falava Carl Schmitt. Vivemos tempos e apostas mais cruciais, por exemplo, que a derrota de 1940. Trata-se de salvar um povo e uma civilização. Nesse sentido, a missão e a ambição de movimentos como este devem ser de ordem histórica mais do que política. Trata-se de "Grande Política" no sentido nietzscheano. Nesses tempos crepusculares, um movimento político não pode ter futuro se não se afirma como o único defensor de um projeto revolucionário, que se reivindica (como foi a genial tática de Charles de Gaulle em 1940) como o último recurso.

O essencial não está em ser uma "novidade política", o essencial é, em verdade, impôr-se como uma novidade "histórica".


Tradução por Raphael Machado

mercredi, 24 novembre 2010

Où va la ville? Entretien avec P. Le Vigan

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Où va la ville ?

Entretien avec Pierre Le Vigan

Jean-Marie Soustrade : De l’après-guerre aux années 60, la France a été dans l’obligation de développer son parc de logements pour répondre aux besoins de la reconstruction, au Baby Boom et aux flux migratoires (retour des pieds-noirs et immigration du Maghreb notamment). Quelle politique du logement a été mise en œuvre ?  Et plus largement quelle politique d’urbanisme ?

Pierre Le Vigan : La France a été très lente à mettre en place une politique du logement d’autant plus nécessaire après 1945 qu’aux destructions de la Guerre 39-45 s’ajoutaient les effets du retard pris dans l’entre deux guerres, malgré les lois Loucheur, les constructions de pavillons et de quelques cités-jardins. L’essor réel de la construction après guerre date du Plan Courant de 1953, du nom de Pierre Courant, ministre de la Construction. La construction s’est accélérée à partir des Z.U.P. (zones à urbaniser en priorité). Comme dans beaucoup de domaines c’est la IVe République qui a initié les choses mais c’est la Ve qui en a récolté les fruits. Du moins à l’époque du général de Gaulle. À cette époque, en effet, on a vu les bénéfices de la politique de construction de masse de logements mais on n’en a pas vu les conséquences à long terme. Les bénéfices, c’est loger plus de familles – suite au Baby Boom commencé en 1942 – et dans plus de confort. Les conséquences à long terme c’est un urbanisme sans âme, sans enracinement, des quartiers sans repères, souvent éloignés des moyens de transports, isolés des vieux centre-villes, et c’est la création de quartiers anonymes et dévalorisés.

Comment en est on arrivé là ? C’est la politique de Paul Delouvrier grand commis à l’urbanisme nommé par de Gaulle qu’il faut incriminer. Les zones à urbaniser (Z.U.P.) étaient choisies en « sautant » par-dessus les banlieues existantes. Donc en lointaine périphérie. On a préféré faire du neuf dans des endroits vierges plutôt que d’améliorer les territoires de vieilles banlieues. Il est vrai que celles-ci étaient communistes pour une bonne part et que le régime gaulliste voulait les contourner. En outre l’idéologie urbaine « fonctionnaliste » plus ou moins proche de Le Corbusier se prêtait plus à des constructions dans de l’espace vide plutôt qu’à des « retricotages » fins de la ville dans des territoires déjà urbanisés. On a été au plus simple à court terme, au plus facile, au plus technocratique, et au plus mauvais à long terme.

J.-M.S. : On s’accorde généralement sur les erreurs dans la politique du logement qui ont  été commises dans les années 50-60 à 70, de la reconstruction à la fin des « Trente Glorieuses » pour résumer. Mais on reste souvent dans le flou concernant ces erreurs, comme avec la formule « trop de béton », qui ne veut pas dire grand-chose. Quelles ont été les vraies erreurs ? Ont-elles concerné d’abord le domaine architectural, ou urbanistique, ou les deux ?

P.L.V. : Parmi les graves erreurs, il y a le manque de transports : peu de gares, pas de tramway, pas assez de bus dans les nouveaux quartiers. Il y a l’isolement par rapport aux centre-villes, il y a des constructions de cités à cheval sur plusieurs villes, qui favorisent l’irresponsabilité des élus. Il y a l’interventionnisme d’État hors de toute concertation avec les élus locaux. Force est de constater que De Gaulle ne connaissait et ne comprenait rien aux questions de la ville et qu’il n’était inspiré qu’en politique extérieure. Ce qui plaide entre parenthèses contre le pouvoir personnel et contre une présidence omnipotente.

L’architecture des grands ensembles est contestable par sa monotonie, par l’équivalence du devant et du derrière des immeubles, par sa dimension souvent excessive. Je ne crois pas souhaitable de construire des immeubles au-delà de sept ou huit étages qui ne permettent guère de loger plus de gens à moins de réduire les règles de prospects donc de rapprocher les immeubles d’une manière excessive. Les immeubles de plus de huit ou dix étages  obligent en outre à avoir plusieurs ascenseurs, et rendent plus complexes les règles de sécurité (incendie et autre).

Toutefois, dire cela, c’est déjà être plus dans la volumétrie et le rapport entre les volumes que dans l’architecture stricto sensu. Nous sommes donc dans l’urbanisme. Des voies trop larges sont aussi à incriminer, des espaces non appropriés, trop d’espaces verts qui ressemblent à des terrains vagues. Pas assez de densité, c’est à mon avis, le reproche principal à faire. Les banlieues lointaines, les villes nouvelles sont cinq à dix fois moins denses voire encore moins (en nombre de logements à l’hectare) que les centre-villes haussmanniens. Exemple : Paris compte 20 000 habitants/km2, Sarcelles 7000 habitants/km2, Villiers-le-Bel 3700 habitants/km2, Bièvre en Essonne 500 habitants/km2. La faible densité rend difficile le maillage social, donne aux bandes de jeunes une forte visibilité, rend trop coûteuse la création de transports collectifs, favorise donc la voiture comme mode de déplacement, avec ses nuisances y compris en terme de paysage urbain (immenses parkings au pied des H.L.M.). Les erreurs sont donc avant tout urbanistiques.

J.-M.S. : Les politiques en ont-ils tenus compte des erreurs (voire des horreurs !) des années 60-70 lors des politiques ultérieures d’urbanisation ?

P.L.V. : À partir de 1975, la réponse est oui. Bien entendu, tout n’est pas parfait à partir de cette époque mais il se trouve que le très net ralentissement de la construction à partir de 1975, absurde à certains égards alors que le gouvernement encourageait l’immigration familiale qui amenait donc des familles nombreuses en France, ce ralentissement a mené à faire des opérations plus petites, mieux concertées, surtout à partir de la décentralisation de 82 – 83, et mieux intégrées dans l’existant. En outre, un véritable corps professionnel des urbanistes a fini par exister et la culture des architectes a changé elle aussi avec la fin partielle de la domination des idéaux modernistes et fonctionnalistes. Ce qui ne veut pas dire que tout ce que l’on appelle post-moderne forme un ensemble cohérent (ce n’est pas le cas) ou convaincant (Ricardo Bofill est parfois assommant de mauvais goût). Un exemple de ré-urbanisation assez réussi est le centre-ville de Saint-Denis, dans le 93, avec des rues étroites, le tramway, le métro, à une erreur près, avoir installé un grand supermarché dans le centre au lieu d’une multitude de boutiques.

J.-M.S. : Quelles ont été les politiques de rénovation et de réhabilitation urbaine  menées en France à partir de la fin des années 70 et sur la base du constat d’une crise des grands ensembles ? Quel bilan peut-on en tirer notamment sur le plan du « vivre-ensemble » ? Que pensez vous de la politique de la ville ?

P.L.V. : Le début des politiques de la ville, en fait la politique des quartiers « à problèmes » est Habitat et Vie sociale (H.V.S.). C’est en 1977 et c’est un peu une idée de la « Deuxième Gauche », la gauche « social-démocrate » anti-étatiste de Rocard et autres. Il se trouve que c’est aussi à ce même moment que la politique de l’aide à la pierre est remplacée par l’aide à la personne (par Raymond Barre en 1977). À ce moment, les loyers des logements sociaux deviennent trop chers pour les classes moyennes, qui sont poussés à quitter les H.L.M., ce qui nuit bien sûr à la mixité sociale. L’aide à la personne (les A.P.L.) rend solvables des gens qui ont de faibles revenus, ou ont des revenus de transferts sociaux, ou travaillent au noir. Cela amène à changer la composition des H.L.M. : des familles monoparentales de plus en plus nombreuses, des familles issues de l’immigration aussi de plus en plus nombreuses. En trente ans elles sont devenues majoritaires dans beaucoup de quartiers de banlieues ou en tout cas de quartiers H.L.M. Les réhabilitations qui ont été menés l’ont généralement été sérieusement. Le gain en confort est souvent réel même si esthétiquement l’aspect hybride des interventions n’est pas toujours très heureux. Mais les habitants vivent dans les immeubles avant de les regarder.

Le problème est l’ampleur des dégradations et atteintes aux biens et personnes commises par une petite minorité d’habitants, qui instaure un climat de peur et de complaisance vis-à-vis des trafics, vols, dégradations dont les autres habitants, eux-mêmes en bonne part issus de l’immigration sont les premières victimes. Après H.V.S., en 1981, le gouvernement Mauroy a mis en place la politique de D.S.Q. (Développement social des quartiers). Il s’agit alors avant tout de faire un travail éducatif et de prévention de la délinquance. Les études d’évaluation se sont succédées et les nouvelles mesures de politique de la ville aussi, en fonction des gouvernements. Elles se ressemblent toutes étant définies par les mêmes hauts fonctionnaires souvent assez autistes et munis d’une culture de type « fonction publique », respectable mais parfois bien naïve, culture associée à une formation sociologique de base amenant bien souvent à la « culture de l’excuse ». À cela s’ajoute le souci de ne pas « faire de vagues ».

D’une manière générale la situation ne s’est pas améliorée sauf dans certaines villes de province car l’échelle plus petite de l’urbain et l’implication de certains élus locaux a permis des réussites. Ailleurs, dans les grandes métropoles, le « mal vivre ensemble » gagne. Chômage, dévalorisation du travail, relations conflictuelles entre jeunes et police jouent, mauvaises relations entre jeunes et parents, entre jeunes et adultes jouent aussi. Les contrôles au faciès sont une réalité mais dans le même temps l’agressivité de certaines bandes de jeunes vis-à-vis de tout ce qui est public, des pompiers aux médecins, et en somme vis-à-vis de tout ce qui extérieur au quartier est réelle.  Cette logique du ghetto est dramatique et n’a été cassée par aucune loi même bien intentionnée comme la Loi d’orientation sur la ville (L.O.V.) de 1991.

J.-M.S. : Comment s’est passée la reconstruction dans les autres pays européens ? Comment ont-ils fait face à l’urbanisation massive de l’après-guerre ?

P.L.V. : Je ne suis pas spécialiste de ces questions à l’échelle européenne, questions au demeurant passionnantes. En Allemagne, il y a eut beaucoup de reconstructions qui respectaient l’usage des parcelles avant les destructions (peu à Berlin par contre) et peu ou prou la volumétrie des immeubles détruits, très nombreux outre-Rhin (des millions de sans abris). L’influence de Le Corbusier est venue plus tard. En Grande-Bretagne la reconstruction a été plus rapide qu’en France. Dans tous les cas l’arrivée en ville de populations rurales puis immigrés a été l’occasion de production de logements de masse comparables (grandes cités-dortoirs) mais le phénomène a été plus marqué en France parce que l’urbanisation était plus tardive que dans beaucoup d’autres pays européens.

J.-M.S. : Qu’est ce qui fait qu’un quartier devient un quartier de relégation ? En quoi et comment se fait ce processus de relégation ?

P.L.V. : Un quartier de relégation est un quartier qui donne une mauvaise image sur les C.V. mais c’est aussi et surtout un quartier où on rencontre surtout des gens « paumés », sans repères, sans projet. Dans un quartier de relégation, il n’y a pas une dynamique sociale positive, ascendante. C’est un quartier-ghetto, ghetto de pauvres mais aussi ghettos d’immigrés. Il manque une culture commune à laquelle s’agréger. Parfois, cette culture, c’est l’islam. Mais ce n’est pas ce qui aide le plus à l’intégration. Souvent l’adoption de l’islam correspond à une réaction identitaire. « Puisque vous me rejetez, moi aussi je rejette votre Occident consumériste. » On peut le comprendre, mais ce n’est pas très constructif et c’est d’ailleurs très artificiel, d’où la nécessité de  ne pas trop se braquer sur ces questions.

J.-M.S. : Le port de la burqa se développe dans ces quartiers. Ajoute-t-il à la relégation ?

P.L.V. : Ce n’est pas un phénomène majeur. Il faut dire simplement : « La République n’admet que l’on dissimule son visage dans l’espace public » (qu’il s’agisse de burqa, casque de motard, bonnet, déguisement, etc.) ». Point. La polygamie est plus complexe – sans doute beaucoup plus massive aussi que le port de la burqa – et pose des problèmes plus graves. En outre, elle coûte cher aux caisses sociales alors que la burqa ne coûte rien ! La burqa est un peu un chiffon rouge si je puis dire. On n’est pas obligé face à cela de se sentir une mentalité de taureau.

J.-M.S. : Les services publics au sens large et autres acteurs indispensables (médecins par exemple) sont-ils suffisamment présent dans ces quartiers ?

P.L.V. : Ils ne sont pas assez nombreux, regardez par exemple le taux de médecins, mais les conditions de séjour dans certaines banlieues ne sont pas très attractives. Quand un médecin doit calmer un toxico qui s’agite, ou cherche à voler, dans sa salle d’attente et en plus faire son boulot, on peut comprendre qu’il finisse par avoir envie d’autre chose comme conditions de travail. Tant que la sécurité n’est pas rétablie, ces sous-effectifs de professions libérales sont inévitables. Les professions libérales, à quelques remarquables exceptions près, vont là où il y a de l’argent. Quant aux policiers, ils sont beaucoup moins nombreux en banlieue qu’à Paris. Il faut plus de policiers mais aussi et surtout plus de police de proximité et moins d’interventions « à la cow-boy ». Les opérations coups de poing sont faites pour être médiatisées mais ne résolvent pas grand-chose. Sarkozy a trop développé ce genre de choses : la primauté de la communication sur l’action réelle. Il semble qu’on aille vers un peu plus de travail de fond des services de police depuis quelque temps. Il est vrai que le banditisme violent venu des banlieues prend des proportions de plus en plus inquiétantes. Il faut instaurer une insécurité quotidienne pour les dealers et les brûleurs de voitures. Actuellement, c’est plutôt l’insécurité quotidienne pour les honnêtes gens qui, rappelons-le, sont la grande majorité des habitants des banlieues.

J.-M.S. : Les diverses zonages opérées par la politique de la ville et manifestés par les sigles comme Z.U.S., Z.E.P., Z.R.U., Z.F.U. … ont-elles contribué, selon vous, à stigmatiser ces quartiers ?

P.L.V. : Zones urbaines sensibles, zones d’éducation prioritaire, zones de redynamisation urbaine, zone franches urbaines : tous ces sigles visent à désigner des politiques publiques prioritaires et sur des territoires qui ne se recoupent pas tous. C’est une machinerie complexe et parfois utile. Il n’est pas sûr que les choses ne seraient pas pires sans un certain nombre de ces mesures à propos desquelles il est trop facile de ricaner. Ceci dit, elles ne sont pas à la hauteur des problèmes. Déléguer la gestion des quartiers aux « associations », cela a ses limites. La vraie question est que beaucoup de quartiers ne sont plus des quartiers de travailleurs et que, quand il y a des travailleurs ils n‘ont qu’une idée en tête : en partir le plus vite possible pour échapper à un climat malsain pour eux, pour leur femme, leurs enfants. Les travailleurs d’origine immigrés sont les premiers à dire, bien souvent, « pas question pour moi de m’installer dans le “ 9-3 ”» (la Seine – Saint-Denis). Et ils ajoutent souvent, n’ayant pas l’habitude de la langue de bois : « Il y a trop de racaille ».

Je crois que ces quartiers se sont « stigmatisés » tout seul, du fait d’une partie de leur jeunesse et de la faiblesse du civisme en général en France y compris bien entendu chez les Français d’origine.

Pour ce qui est des zonages, ils ont cherché à résoudre des problèmes caractéristiques des quartiers sensibles en mettant plus de moyens. Cela peut être nécessaire. Les Z.E.P. donnent plus de moyens, c’est plutôt un atout d’être en Z.E.P. de ce point de vue mais ensuite si la norme sociale de la jeunesse de tel quartier en Z.E.P. est de ne rien faire à l’école, au collège, au lycée et au contraire de vivre de petites magouilles (ou grandes magouilles), qui empoisonnent la vie du quartier, alors cela ne suffit pas. Il y a alors un terrorisme de la majorité : croire à l’école et au savoir, c’est ringard, c’est « bouffon ». Ce ne sont pas, en tout cas, les intitulés des politiques publiques qui ont créé les problèmes.

J.-M.S. : Quelles sont les grandes orientations données par l’actuel ministère de la ville pour les quartiers sensibles ? Comment la politique de la ville entend-elle lutter, présentement et à l’avenir contre la délinquance ?

P.L.V. : Le logement est rattaché au vaste ministère de l’Écologie de Jean-Louis Borloo. Fadela Amara est secrétaire d’État à la ville. Cette dernière a des idées, mélange de volontarisme, de connaissance du terrain et de réalisme (elle ne se fait pas trop d’illusions). Elle est assez bien inspirée mais marginalisée. Le gouvernement a cherché en la nommant un effet d’affichage avant l’efficacité. En fait, pour comprendre, au-delà des mots et des discours quasi-interchangeables d’un ministre à l’autre, la vraie politique du gouvernement pour les banlieues, il faut regarder le projet du Grand Paris de Christian Blanc, sans même parler des extrapolations de Jacques Attali sur Paris prolongé jusqu’au Havre, Attali jouant comme Alain Minc le rôle de ballon d’essai de Sarkozy. Or c’est un projet du même ordre que celui de De Gaulle et Delouvrier dans les années 60 que ce projet gouvernemental du Grand Paris. À savoir un très mauvais projet. Non qu’il n’y ait pas matière à créer une instance fédérative entre Paris et surtout les trois départements de la Proche Couronne. Cela, c’était le projet de Philippe Dalier, un sénateur U.M.P., c’était aussi l’idée de beaucoup d’autres comme, depuis longtemps, Georges Sarre, alors maire du XIe arrondissement de Paris. Mais le Grand Paris de Blanc se résume au super-métro, le « Grand Huit » de 130 km, qui ne répond aucunement aux besoins des habitants. Là encore, on saute par dessus la banlieue existante pour aller créer des problèmes ailleurs en développant plus encore l’urbanisation en très grande banlieue, donc une urbanisation en tâche d’huile. Une nouvelle catastrophe urbaine se prépare.

J.-M.S. : Est-ce que démolir des tours pour faire des banlieues pavillonnaires améliore automatiquement la vie collective et fait reculer la délinquance ?

P.L.V. : Il est sidérant de voir que l’on va détruire des tours porte de Clignancourt (tours qui ne sont pas horribles ni en mauvais état du reste, même si je n’ai aucun goût pour les tours) au moment où on parle d’en construire Porte de la Chapelle soit à deux pas, et à un endroit où il y en a déjà dont on peut faire le bilan : elles fonctionnent très mal sauf quand elles sont hyper-sécurisées (donc très coûteuses) et destinés à des classes moyennes ou supérieures, celles qui n’ont… pas la moindre envie d’habiter Porte de la Chapelle. On marche sur la tête. Une nouvelle fois – et c’est le mal contemporain – ce qui compte pour les politiques, c’est l’image. Alors que l’efficace, l’utile pour les habitants, souvent, ce n’est pas le spectaculaire. C’est du terre à terre dont on a besoin. Et dans tous les sens du terme. Démolir des tours, dans certains cas, pourquoi pas ? Mais ce n’est pas la panacée. Trop souvent on ajoute du traumatisme à du traumatisme, la destruction est vécue comme une dévalorisation rétroactive. Bien souvent, il vaut mieux densifier, construire autour des immeubles, ou modifier leur accès, leur entrée, leur façade, etc.

Quand aux tours, de quoi parle-t-on ? Dix étages ? Quinze étages ? Quand ce sont des tours résidentielles, cela ne pose pas de problèmes particuliers, chacun respecte les espaces communs. Quoique… Les incivilités existent aussi chez les bourgeois. Pour les logements sociaux, les tours, c’est tout à fait inadapté mais il y a en fait peu de tours de logements sociaux en banlieues, en tout cas assez peu de tours de logements de plus de dix étages. Quand il y en a, comme à Bagnolet, il vaut sans doute mieux faire de l’urbanisme reconstructeur, restructurant plutôt que destructeur, améliorer les transports, les créer à différentes échelles, pour petits et grands déplacements, amener des emplois, décloisonner plutôt que détruire. Dire que l’on détruit des tours pour faire des quartiers pavillonnaires n’est par ailleurs  pas très exact. En général, on détruit des tours pour reconstruire des petits immeubles, ce qui peut être réussi, et est tout différent des pavillons.

J.-M.S. : Quelles solutions d’urbanisme et d’architecture pourraient être mises en œuvre pour améliorer la situation des quartiers en difficultés ?

P.L.V. : Urbanisme, architecture, oui, mais on ne peut évacuer la question de la crise de civilisation : le manque de motivation pour le travail, et pour la création. La France qui était une nation d’artistes est devenue une nation de téléphages et de consommateurs d’Internet, et pour ce qu’Internet a de moins intéressant. La France et l’Occident en général, et toute la planète, tend à entrer dans cette post-civilisation qui rétrécit les horizons et atrophie les sensibilités. Seule une minorité échappe à cela. Une minorité privilégiée par la culture, l’éducation et le niveau économique. Heureusement en un sens que cette minorité existe mais pourra-t–elle résister à la montée de la barbarie ? Les quartiers en difficulté, habités par des gens eux-mêmes souvent déshérités, moins du reste au plan strictement financier qu’au plan culturel, souffrent au premier chef de cette crise de civilisation. Les quartiers de grands ensembles, ceux ciblés par la politique de la ville – terme ambitieux : il vaudrait mieux dire plus modestement « l’infirmerie des banlieues » – nécessitent à mon sens de la modestie, continuer de travailler avec les associations même s’il ne faut pas en attendre des miracles, et de l’ambition surtout dans un domaine : les transports.

Il faut absolument que les gens bougent de ces quartiers, n’en soient pas prisonniers, puissent aller voir ailleurs donc, il faut des transports, y compris le soir et même la nuit. Il faut aussi des entreprises locales, tout un tissu de P.M.E. Il faut aussi renforcer les effectifs permanents de police mais aussi d’éducateurs. Il faut refuser la victimisation des délinquants. Ils ne sont pas victimes; ils pourrissent la vie des travailleurs. Bien des Maghrébins qui « s’en sortent », bien des « Noirs », – et non pas des « Blacks » -, Africains ou Antillais qui eux aussi s’en sortent le montrent : les jeunes, avec de l’énergie, peuvent trouver une formation, un travail, une voie, un avenir, une espérance, une place dans la société. La République française est généreuse, l’éducation gratuite, les soins gratuits, ce n’est pas rien, il faut le dire et le rappeler. Et, en contrepartie, il faut être sévère avec ceux qui pourrissent la vie de ces quartiers, et qui ne sont pas les porteurs de voiles « islamiques ». Ce sont les canailles qui vivent de trafics de drogue, de vols, d’escroqueries, qui harcèlent les filles, etc.

J.-M.S. : Pourquoi arrive-t-on si peu à faire de la mixité sociale dans les quartiers sensibles ? Comment expliquer qu’en dépit de la politique de la ville, les habitants fuient ces quartiers ?

P.L.V. : On arrive plus facilement à mettre quelques pauvres dans des quartiers riches que quelques riches dans des quartiers pauvres. La mixité sociale a reculé. Il y avait des bourgeois dans beaucoup de quartiers de banlieue nord il y a cent ans. Combien en reste-t-il ? Et puis, le caractère multi-ethnique des banlieues fait fuir beaucoup de classes moyennes et a fortiori supérieures. Tout le monde est pour l’immigration  mais chacun préfère habiter un quartier où il n’y a « pas trop » d’immigrés. Il y a beaucoup d’hypocrisie là dedans.

Les deux questions de l’immigration et de l’occupation du logement social sont par ailleurs de plus en plus liées puisque les immigrés ont en moyenne de faibles revenus et compte tenu du nombre assez élevé d’enfants qu’ils ont, sont prioritaires pour les H.L.M. Il n’y avait que les élus communistes jusque dans les années 80 à habiter dans des H.L.M. et encore pas tous !

J.-M.S. : Le problème d’anomie (au sens de désagrégation des règles de vie en collectivité et du lien social) des quartiers sensibles, s’il existe,  est-il résoluble uniquement par des politiques étatiques ? Où est-ce un problème qui va bien au-delà ?

P.L.V. : L’anomie ou encore la perte de la décence commune dont parlait George Orwell est une réalité. Elle concerne particulièrement les jeunes de ces quartiers. C’est la conséquence du déracinement du à l’immigration de masse. C’est la conséquence d’une perte d’identité ou d’une impossibilité de construction identitaire dans la tolérance, le respect des autres, qu’ils soient issus d’autres communautés immigrées ou qu’ils soient Français de souche. La société multiraciale est devenue multiraciste. Les injures sont très souvent raciales. Mais en outre, l’américanisation des mœurs – et pour faire court la fascination par le fric, par exemple les joueurs de foot, trop souvent arrogants  et pleins aux as – joue un rôle très déstructurant.

L’intégration par les valeurs de l’effort, du travail, de la République qui ne reconnaît aucune communauté, ne marche plus. Il n’y a pourtant pas d‘autre voie que l’assimilation et le retour à ces valeurs qui n’ont, faut-il le rappeler, jamais impliqué de renier ses ancêtres et ses traditions. Mais est-ce que cela peut marcher avec une immigration de masse ? En tout cela, si cela ne marche pas, rien d’autre ne marchera car il n’y a pas de communautés en France, de cadres communautaires réellement capables de prendre le relais et on ne peut les créer artificiellement dans les populations d’Afrique noire ou celles originaires du Maghreb. C’est d’ailleurs précisément parce que, dans leurs pays d’origine, le lien social était en crise que ces gens là sont venus en France, alors comment peut on imaginer que, une fois venus en France, leurs attaches d’origine fonctionnent de manière communautaire, ce qu’elles ne faisaient pas dans leur pays ? C’est pourquoi l’intégration communautaire, je n’y crois pas.

Pour revenir à la question centrale qui est celle des jeunes des quartiers, ce qui doit être géré est, ajouté au problème de l’identité, un problème « hormonal ». C’est ce qu’a bien vu Luc Bronner dans La loi du Ghetto. Les jeunes garçons ont pris le pouvoir. Le culte de l’enfant-roi de nos sociétés n’a rien arrangé. Quand un parent donne une fessée à son enfant les services sociaux le réprimandent. Les immigrés ne comprennent pas cela. Ils ont l’impression qu’on leur casse leur boulot d’éducateur et de parent. Ils n’ont pas complètement tort là-dessus.

Mais surtout il y a l’absence fréquente du père ou la dévalorisation de la figure du père. C’est souvent un chômeur. Nombre d’immigrés ont été licenciés de leur travail à quarante-cinq ans, cela n’aide pas à donner une image forte. Quant aux familles monoparentales, le garçon seul face à sa mère est roi dans certaines cultures. Il y a une asymétrie de la délinquance entre garçons et filles. Difficile donc de dissocier les questions de la banlieue des questions culturelles liées à l’immigration. Ce qui ne veut pas dire que, sans problème de l’immigration, il n’y aurait plus de problème de la banlieue.

J.-M.S. : Quel est l’état du lien social dans les quartiers sensibles ?

P.L.V. : On constate un mauvais état du lien social. Je n’ai pas suffisamment d’expérience de terrain pour en dire plus bien qu’ayant longtemps vécu en banlieue y compris dans des quartiers dits « sensibles ». Restaurer la valeur travail, restaurer l’accès concret au travail, mais aussi développer l’idée que le travail n’est pas la lutte de tous contre tous, que c’est aussi la solidarité entre les hommes. Et aussi développer un autre imaginaire que la consommation, voilà ce qu’il faudrait sans doute faire. Programme vaste et complexe.

J.-M.S. : Quelles sont les caractéristiques des habitants des quartiers en difficultés, comment y vit-on ? Famille monoparentales, fort taux de chômage, jeunes déscolarisés, modes de vies différents en raison des origines immigrés des habitants, d’autres facteurs… ?

P.L.V. : Là-dessus il y a des études sociologiques. On trouve effectivement les caractéristiques que vous évoquez.  Mais je ne suis pas spécialiste de ces questions, aussi je vous renvoie aux sociologues de profession.

J.-M.S. : Quel rapport ont les habitants des quartiers sensibles avec leurs lieux de vie ?

P.L.V. : Vous voulez dire : aiment-ils leurs lieux de vie ? Je ne sais pas. Je crois qu’ils ne les détestent pas dans bien des cas, mais qu’ils regrettent les problèmes de transport, la délinquance excessive, l’irrespect des lieux, de l’hygiène, les gens qui urinent dans les ascenseurs, etc. Les gens aimeraient aimer leurs quartiers. Ils n’y arrivent pas bien souvent. Ceci dit, il me parait difficile de généraliser. Choisy-le-Roi n’est pas Bagnolet, qui n’est pas Bondy, qui n’est pas la banlieue de Saint-Étienne, ni de Perpignan, etc.

J.-M.S. : Quelles furent les grandes évolutions sociologiques dans les quartiers sensibles ces trente dernières années ? Y a-t-il eu une ethnicisation de ces quartiers, un appauvrissement ? Une fuite des classes moyennes vers le périurbain ou le centre-ville pour les classes moyennes supérieures ?

P.L.V. : Depuis trente ans et même plus il y a clairement une « ghettoïsation » des quartiers, une pauvreté endémique, un désœuvrement, une défrancisation qui touche notamment les mœurs, un développement des trafics de drogue, bref toute une série de ruptures culturelles, dans des domaines très divers,  qui favorisent les amalgames et qui font que pour beaucoup la seule chose de sûr à propos de la banlieue c’est qu’ils ne veulent pas y habiter.

Il y a bien sûr un départ de tous ceux qui peuvent partir notamment les Français de souche des classes moyennes mais aussi les immigrés qui accèdent à la classe moyenne. Quand aux classes supérieures elles n’ont jamais habité les quartiers sensibles et n’ont donc pas l’occasion de les fuir…

J.-M.S. : Le rôle des « créateurs de lien social » (animateurs sociaux, gardiens d’immeubles…) dans ces quartiers a-t-il évolué ? Ont-ils plus de difficultés à remplir ce rôle ? Si oui pourquoi ?

P.L.V. : Je crois qu’il faut leur demander leur avis. C’est un sujet que je connais mal.

On a renforcé le rôle des gardiens et souvent leur nombre et on a eu raison. C’est devenu un métier très complexe que d’être gardien dans les grands ensembles, entre la pression des jeunes du quartier et celle du bailleur, de la police, etc.

J.-M.S. : Comment expliquer le fort taux de délinquance dans ces quartiers sensibles ? D’où vient l’origine du malaise et des conduites déviantes ?

P.L.V. : C’est une question de civilisation. Ce qui joue, c’est la séduction de l’argent facile (les sportifs dont on parle à la télé, les traders…), le goût des objets technologiques sophistiqués, et coûteux, la fin du respect de la culture, de toutes les cultures y compris celles d’origine mais aussi de toutes les institutions pourtant au service des gens  (maintenant on brûle les écoles, les M.J.C., les bibliothèques, les gymnases…). On vole dans les magasins de fringues, de chaussures de marque… On ne vole pas les livres de la Pléiade. Mais aussi il y a, comme je l’ai déjà dit, la crise hormonale de ces jeunes garçons qui n’ont pas de défouloir, qui ne font plus leur service militaire, qui ne peuvent plus canaliser leur énergie. C’est le problème principal. Ce n’est pas l’immigré de quarante ans qui brûle des voitures, me semble-t-il. Ce n’est pas celui qui bosse sur les chantiers dans le bâtiment et qui part tôt le matin. C’est le gamin de 14 – 18 ans qui en plus de détruire son quartier et d’y brûler les voitures des honnêtes gens qui sont ses voisins, pourrit la vie de son école. Cette jeunesse des émeutiers explique la peur des bavures qu’a la police. Il y a une dimension nihiliste là dedans, comment le nier ?

J.-M.S. : Comment les pouvoirs publics répondent-ils aux problèmes des banlieues dans le cadre de la politique de la ville ? Les dispositifs en place soulagent-ils les habitants de ces quartiers en difficulté sociale ? Peut-on faire mieux ?

P.L.V. : On connaît les actions de la politique de la ville avec le soutien aux associations. Cela joue sans doute dans le bon sens mais à la marge. L’isolement des quartiers arrange tout le monde : ils « mettent le bordel » chez eux et pas ailleurs. On ne met pas le paquet en éducation, prévention, répression, encadrement. La République ne croit plus en elle. Respecter les gens, c’est s’occuper d’eux, les cadrer et les encadrer si possible, mais la vérité est peut-être que la République préfère abandonner les banlieues. J’espère me tromper.

J.-M.S. : D’une manière plus générale, est-ce que ce sont les habitants qui font le lieu de vie ou le lieu de vie qui fait les habitants, ou est-ce un peu des deux ?

P.L.V. : C’est une excellente question. La misère a trouvé son décor. Mais c’est moins une misère matérielle - les gens ne meurent pas de faim ni de manque de vêtements – qu’une misère morale. La délinquance des  jeunes  ajoute à cette misère morale.

Je crois que l’urbanisme pourrait changer beaucoup de choses mais pas tout car il faut que change aussi l’imaginaire de nos sociétés hypermarchandes.

Ceci dit, il y a des pistes et il faut bien commencer par quelque chose : des petites rues interdisant la vitesse, des immeubles suffisamment petits pour permettre des relations de proximité. À terme, il faudrait peut-être aussi envisager la création d’une garde civique – sorte de nouvelle « garde nationale » – en liaison avec la police nationale. Il faut refaire un urbanisme de proximité, d’immeubles de taille moyenne, quatre à six étages, avec des rues adaptées c’est-à-dire de taille modeste (exemple : le quartier de « l’Orme-Seul » de l’architecte Catherine Furet à la Courneuve) et des axes plus grands mais jamais disproportionnés avec des bus, des tramways, des métros, aériens de préférence (c’est tout de même plus gai que de passer des heures sous terre). En résumé, il faut arriver à une densité beaucoup plus forte que dans les banlieues actuelles tout en évitant les tours. C’est parfaitement possible : regardez le Xe, ou le XIe arrondissement de Paris ! Il y a une forte densité et pas de tours.

Il faut penser l’urbanisme pour le lien social et aussi – ne soyons pas naïfs – pour la sécurité (on le fait déjà mais dans la perspective d’interventions ponctuelles plus que dans le registre d’une sécurité quotidienne). Cela coûtera cher mais pas plus que des milliers de voitures brûlées chaque année. Et si on ne sauve pas la banlieue du plongeon, on plongera tous.

Propos recueillis par Jean-Marie Soustrade.


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samedi, 20 novembre 2010

Interview with Tomislav Sunic

Interview with Tomislav Sunić

Alex KURTAGIC

Ex: http://www.counter-currents.com/

zero.pngTomislav (Tom) Sunić is a former US professor, author, translator and a former Croat diplomat. He did his undergraduate work in literature and languages in Europe. He obtained his doctoral degree in political science at the University of California. Dr. Sunić has published books and articles in French, German, English, and Croatian on subjects of cultural pessimism, the psychology of communism and liberalism, and the use and abuse of modern languages in modern political discourse. The present interview explores a little the man behind the ideas; we learn a few things never previously told by Dr. Sunic about his past and personality. Of course, Dr. Sunic tells us about his new book in French, his early years in Communist Yugoslavia, the art of translating, and more.

Not from a socio-political perspective, but rather from an everyday man-in-the-street perspective, how does the Yugoslavia of the 1950s and 1960s differ from Croatia in 2010?

The Yugoslav times were less crowded, although the Yugoslav space was more condensed and bleak—literally speaking—a black and white environment. Vulgar and disciplinary were the daily discourse and the surrounding communist insignia. By contrast, despite the aura of decadence today, especially as far as the incoming liberal mores are concerned, the flow of time in Croatia is far more dispersed. Time flies faster now. People are beginning to learn the liberal mores of fake mercantile politeness—with its obvious downturn in the loss of identity.

You have stated in previous interviews that in 1971 you hitchhiked to Kashmir. You must have found yourself in at least one or two tricky situations during that adventure… What was it like to travel across Eastern Europe and Asia in the midst of the Cold War? What motivated your departure? Surely, there are less radical ways of escaping than hitchhiking to India. And why India and not, say, Italy or Greece?

I could not put myself into the wider socio-historical perspective back then. I was to a large degree blessed by willful ignorance and a solid degree of adolescent romanticism. Hence the reason that it never crossed my mind that I could get killed, stabbed, or kidnapped during my hippie days. I never thought about my tomorrows. I actually hitchhiked from Copenhagen across Italy, took the ferry from Brindisi to Corfu in Greece and continued then my odyssey, literally without a penny, by train across Turkey to Teheran.  Greece was a dictatorship back then, in 1972. Shah Reza Pahlavi was the boss of Persia. The war between Pakistan and India had just ended. But I lived my magic double life; India was a location of initiation for all hippies world-wide.

A man who loves literature lives partly through it. What would you say are the key texts that defined you as a person and as a thinker? And why?

Well, I define the choice of my prose by my character. I read Herman Hesse, not because he was a standard hippie literature in my adolescence; he was also a great author who managed to combine, without resorting to a violent narrative or pornography, the world of illusions and of magic realism which I craved. It was me. Hesse was a good Bildungsroman for a 19 year boy like me. In fact, I do not rule out now that I may have been a reincarnated Byron, or Céline, or Kerouac, thrown on a voyage through Asia. When walking down the street of Kabul in my torn pants, t-shirt, and my earrings, a sense of déjà  vu was creeping through my head; I must have been, long time ago, a courtier, or some important emissary during the military campaigns of Alexander the Great. This image still haunts me.

Later on, as I matured, I again just followed my instincts and not any political fashion or agenda. I must have been a reincarnated Louis Ferdinand Céline—so I started learning every nook and cranny of the French language and spirit. Later on, when I embraced political scientist Carl Schmitt and sociologist Vilfredo Pareto, or Alain de Benoist, the answer was quite simple. Their style reminded me of my own hidden sense of beauty—in a broader sense.

We know that during the 1980s you immigrated to the United States. What were your first impressions of the Americans, versus what you knew about them previously as a distant observer? What did you like, and what did perplex you the most, about them? No doubt perception and reality differed greatly in some important respects.

Crowds and noise. This was my first impression after landing in America. I can tell by the level of noise how civilized or barbaric a country is. In public spaces or on public premises I like silence. These vicarious prosthetic (or better yet: pathetic) devices, like the early walkie talkies or the walkman, radios,  and, later on, all these anthropomorphic extensions, like cell phones and iPods, became symbols of spiritual rootlessness and the sign of physical superfluity, of being at the wrong place and in wrong time. I do not like fifth gear; an America shifted to neutral would have been an ideal place for me. I regret not being born two hundred years earlier, in the antebellum South. On the communicational level, I could not put up with the endless moralizing and formalistic pep talks in America.  Let alone the fact that I could not grasp, and still can’t, coming from the communist universe, why a White nation of such an impressive size, loves to indulge in self-hatred, in feelings of guilt, while catering to the lowest dregs of its society. This was not America I had dreamt of.

You qualified as a political scientist in the United States and held academic positions for a time in American universities. You and I have both written about the latter, as well as their counterparts in Europe, being in the grip of Freudo-Marxist scholasticism. This implies that Freudo-Marxist scholastics constitute a species. I suggest that the species is not homo americanus, because homo americanus is a result, not an agent. Am I wrong? Maybe you could describe the zoology of Freudo-Marxist scholasticism—its habitat, its social organization, its archetypical personality, its feeding habits…

Is my social behavior inborn or is it acquired? This is the timeless question regarding the mystery of life. Just as there must be a Catholic or a liberal gene, there must have also been a special genetic proclivity among countless Europeans to travel into the unknown, overseas, all the way across the Ocean, all the way across continental America. There must have been a primeval will to power unprecedented in the history of the White man. But, on the other hand, this Promethean spirit morphed into a homo œconomicus, a peculiar non- European species who soon found his Double in what I call homo americanus—a biped solely interested in how to make a quick buck, regardless of his geographic latitude. I am sure that the vast majority of people who have come to America over the last three hundred years must have had money as their prime motive, and not some idea of spiritual freedom or genetic betterment.  As far as Freudo-Marxian scholasticism is concerned, let me remind you that psychoanalysis and Marx’ teachings have always had more disciples in the US academia than in Europe. In its ideal-typical manner, “true” Marxism took roots in America faster and better than in communist Eastern Europe.  Hence the reason that this postmodern egalitarian drivel, the multiracial, promiscuous, Obamanesque “multiethnic sensitive training” and engineering, has more momentum now in America than anywhere else in Europe, let alone former communist Europe.

The 1990s were a tumultuous decade for the former Yugoslavia. We saw its dismemberment during the first half and in 1999 we saw Clinton bomb Serbia for three months—for reasons that, viewed from 2010, now seem rather nebulous. Against this backdrop, how would you summarize this decade for you personally?

Tomislav%20Sunic%20Radio%20(small).jpgIn 1993, upon my return from the USA, I became a diplomat in charge of cultural promotion in the early Tudjman government. I gave hundreds of speeches all over America and Europe regarding Croatia’s place in the world, the fallacy of multiculturalism, the fraud of modern historiography, etc. Disillusion and feelings of betrayal s00n followed. I had seriously thought that the legacy of communism was going to be removed, along with is former architects. Instead, the war in ex-Yugoslavia turned into an ugly war between similar ethnic groups. One thing I learned though: never get carried away too much even with your own political or philosophical ideas—they can backfire. Now, 15 years later, it seems to me that the whole Balkan chaos was cooked up by former Yugoslav communist elites—who in a twinkle of an eye decided to become either good liberals or petty nationalist rabble-rousers.

Since 2007 you have been very active and much more visible that I remembered in the earlier part of the decade. You published Homo Americanus, in English, and La Croatie: un pays par défaut? in French. What motivated this increase in activity?

Well, it is in my genes. I am afraid of being swallowed up by the merciless flow of time. Feelings of shame and despair envelope me every time I remain idle. I will lecture and write as long as I breathe.

Tell us about your latest book. What are its main theses? And why did you chose to write it in French?

The book deals with the meaning of identity in the age of globalism. As a case study I use Croatia and Croats and their troubles in defining themselves in postmodern world. It is a fairly good academic work, providing a solid bibliography. The book discusses the danger of conflictual  victimologies and why  the sense of victimhood leads inevitably to friction and war and never to interethnic or interracial understanding. My book is a good read for somebody who wishes to find out more about multicultural artificial states and modern historiography —which has been to a large extent monopolized by modern hagiographers. The reason I wrote it in French is simple: I owed it to myself and to my good sense of the French language—which is a very rich language on both the conceptual and aesthetic levels. I also owed something to French-speaking friends of mine.

Besides English, French, and of course Croatian, you are also fluent in German, and in your philosophical works have drawn from many suppressed German sources. German is a contextual language and one that allows the formation of seemingly endless compounds. Individual words (Volk is a well-known example) may also package shades of meaning, implications, not known in English. Tell us about the difficulties in translating, and accurately conveying the style and meaning of the original in our modern lingua franca, English.

Any translation is a separate work of art. Not just translating poetry, but translating even the smallest essay in the field of humanities presents a huge challenge. I have always admired a good translator—more so than the author of the original work himself. Language does not have just the functional role. It is a treasure trove of spirituality, especially for people with a strong sense of the metaphor and poetry. The German language, the richest European language, with a very precise normative grammar, has been thrown aside since WWII. Students in the West no longer study it. It could have become, like Latin, the major force for uniting Europe or for that matter the main communication vehicle for the White man.

The advent of the internet now makes it very difficult for one to hide. What do you think former classmates and friends—people you lost touch with many years ago—think when they look you up? (I am not implying you ought to care.)

Even if many actually look me up on the internet, I doubt they understand all the sociological or political nuances of my prose or the prose about me. Some do, of course—at least, some professors or students I worked with in the USA. However, the internet image does not reflect the real object itself—in this case myself. But those who used to know me—given that the internet is more or a less a solitary game—must think of me, even if they do not like my stance; “What a heck of a guy, Tom is!”

What would you say if someone, maybe someone you know, maybe even someone whose opinion matters to you, who is well meaning, but who is also little naive or misinformed, asks, with some concern over a cup of coffee, ’Hey, Tom. What made you go all Nazi? You have a PhD in political science, come from a respectable family, your father was a lawyer—and you… you turned out racist. What happened?’

The usage of this type of negative epithet is pretty current in Western media and to some extent in the Western judiciary. The advantage of living in post-communist countries is that words such as “Nazis,” “fascists,” “racists,” no longer have such a bad resonance, despite the fact the new political class all over Eastern  Europe is trying again legally to resurrect them with its original criminogenic meaning. Of course, this all happens under pressure from the West, where these qualifiers are in constant usage today. Where communism left off, modern liberalism continued…  I need to remind you that the usage of these value-loaded qualifiers was standard practice in the communist vernacular and the media against any dissident, aired on all wavelengths 24 hours a day. Towards the end of the communist rule there was an enormous amount of psycholinguistic saturation amidst the populace, so that everybody got sick of that language—even the communist scribes who had made these words ‘fashionable’ in the first place. Distorted political verbiage was the main cause of the collapse of communism. Hence, the paradox that these words—used today as shut-up words in the West— no longer have such an oppressive weight in Eastern Europe. In fact, they often serve as a badge of honor for some people!

I have expressed my own opinion on the subject, but, as a director of the American Third Position political party, perhaps your have a different one—What are the failed strategies of the Right? And, What do you propose should be done to turn the tide? What is, as you see it, your contribution to this very difficult enterprise?

First and foremost, all Right-wingers, all nationalists, all patriots, or—let us call them rather nicely—“all racially and culturally conscious Whites,” must cease blaming the Other for their own patent failures to organize intellectual or political counter-power. Blaming the Other automatically and subconsciously implies that the Other is better than oneself. Well, he is not.  It is not the Other, be he a Jew, a Liberal, a Black man, or an Immigrant, who is responsible for the current predicament of White man. Those who are to be blamed are White activists or thinkers themselves, who in most cases do not distinguish between cause and effect. They first need to exercise some conceptual gymnastics. The monolithic linear black and white mindset, inherited from Judeo-Christianity needs to be removed along with its secular offshoots, such as egalitarianism, with all its modalities, e.g. liberalism, globalism, communism. If white nationalists do not start thinking and conceptualizing the world in a more polymorphous and cyclical fashion, with millions of shadings between the “good” and the “evil,” they will be  wasting yet more of their time. Once the objective real world is conceptualized as a multifarious phenomenon, things will start falling into their place. Including the need to establish a new cultural hegemony.

What would you like to accomplish in the next 10 years?

I would like to publish at lest several more books, in German, English, and French. I hope I can be of some service to the rise and spread of the American Third Position.

How would you like to be remembered in a hundred years? And how do you think you will be remembered?

Well, I want to be remembered as somebody who placed the interests of his community above his own and above the interests of his own family. As somebody who absolutely rejects money as a means of communication, I would expect this will be accepted without caveats from my present or future colleagues and friends. I’d like to be remembered as somebody who left timeless traces in our Western heritage.

I’d like to be remembered as an author and innovator, as a path-breaker whose words will resonate through yet another set of incoming crowded times.

Thank you, Tom, for granting this interview.

Source: http://www.wermodandwermod.com/newsitems/news041120102141...

samedi, 13 novembre 2010

The Rebel: An Interview with Dominique Venner

dominique_venner.jpgThe Rebel:
An Interview with Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Michael O’Meara

Czech translation based on this English translation: here

The noted French nationalist and historian speaks to the personal imperatives of white liberation.

Translator’s Note:

It’s a testament to the abysmal state of our culture that hardly one of Dominique Venner’s more than forty books have been translated into English. Venner is more than a gifted historian who has made major contributions to the most important chapters of modern, especially twentieth-century European history. He’s played a key role in both the development of the European New Right and the “Europeanization” of continental nationalism.

It is his “rebel heart” that explains his engagement in these great struggles, as well as his interests in the Russian Revolution, German fascism, French national socialism, the US Civil War, and the two world wars. The universe found in his works is one reminiscent of Ernst von Salomon’s Die Geächteten — one of the Homeric epics of our age.

The following interview is about the rebel. Unlike the racial conservatives dominant in US white nationalist ranks, European nationalism still bears traces of its revolutionary heritage — opposed as it is not merely to the alien, anti-national forces, but to the entire liberal modernist subversion, of which the United States has been the foremost exemplar.

Question: What is a rebel? Is one born a rebel, or just happens to become one? Are there different types of rebels?

Dominique Venner: It’s possible to be intellectually rebellious, an irritant to the herd, without actually being a rebel. Paul Morand [a diplomat and novelist noted for his anti-Semitism and collaborationism under Vichy] is a good example of this. In his youth, he was something of a free spirit blessed by fortune. His novels were favored with success. But there was nothing rebellious or even defiant in this. It was for having chosen the side of the National Revolution between 1940 and 1944, for persisting in his opposition to the postwar regime, and for feeling like an outsider that made him the rebellious figure we have come to know from his “Journals.”

Another, though different example of this type is Ernst Jünger. Despite being the author of an important rebel treatise on the Cold War, Jünger was never actually a rebel. A nationalist in a period of nationalism; an outsider, like much of polite society, during the Third Reich; linked to the July 20 conspirators, though on principle opposed to assassinating Hitler. Basically for ethical reasons. His itinerary on the margins of fashion made him an “anarch,” this figure he invented and of which after 1932 he was the perfect representative. The anarch is not a rebel. He’s a spectator whose perch is high above the mud below.

Just the opposite of Morand and Jünger, the Irish poet Patrick Pearse was an authentic rebel. He might even be described as a born rebel. When a child, he was drawn to Erin’s long history of rebellion. Later, he associated with the Gaelic Revival, which laid the basis of the armed insurrection. A founding member of the first IRA, he was the real leader of the Easter Uprising in Dublin in 1916. This was why he was shot. He died without knowing that his sacrifice would spur the triumph of his cause.

A fourth, again very different example is Alexander Solzhenitsyn. Until his arrest in 1945, he had been a loyal Soviet, having rarely questioned the system into which he was born and having dutifully done his duty during the war as a reserve officer in the Red Army. His arrest and then his subsequent discovery of the Gulag and the horrors that occurred after 1917, provoked a total reversal, forcing him to challenge a system which he once blindly accepted. This is when he became a rebel — not just against Communist, but capitalist society, both of which he saw as destructive of tradition and opposed to superior life forms.

The reasons that made Pearse a rebel were not the same that made Solzhenitsyn a rebel. It was the shock of certain events, followed by a heroic internal struggle, that made the latter a rebel. What they both have in common, what they discovered through different ways, was the utter incompatibility between their being and the world in which they were thrown. This is the first trait of the rebel. The second is the rejection of fatalism.

Q: What is the difference between rebellion, revolt, dissent, and resistance?

DV: Revolt is a spontaneous movement provoked by an injustice, an ignominy, or a scandal. Child of indignation, revolt is rarely sustained. Dissent, like heresy, is a breaking with a community, whether it be a political, social, religious, or intellectual community. Its motives are often circumstantial and don’t necessarily imply struggle. As to resistance, other than the mythic sense it acquired during the war, it signifies one’s opposition, even passive opposition, to a particular force or system, nothing more. To be a rebel is something else.

Q: What, then, is the essence of a rebel?

DV: A rebel revolts against whatever appears to him illegitimate, fraudulent, or sacrilegious. The rebel is his own law. This is what distinguishes him. His second distinguishing trait is his willingness to engage in struggle, even when there is no hope of success. If he fights a power, it is because he rejects its legitimacy, because he appeals to another legitimacy, to that of soul or spirit.

Q: What historical or literary models of the rebel would you offer?

DV: Sophocles’ Antigone comes first to mind. With her, we enter a space of sacred legitimacy. She is a rebel out of loyalty. She defies Creon’s decrees because of her respect for tradition and the divine law (to bury the dead), which Creon violates. It didn’t mater that Creon had his reasons; their price was sacrilege. Antigone saw herself as justified in her rebellion.

It’s difficult to choose among the many other examples. . . . During the War of Secession, the Yankees designated their Confederate adversaries as rebels: “rebs.” This was good propaganda, but it wasn’t true. The American Constitution implicitly recognized the right of member states to secede. Constitutional forms had been much respected in the South. Robert E. Lee never saw himself as a rebel. After his surrender in April 1865, he sought to reconcile North and South. At this moment, though, the true rebels emerged, those who continued the struggle against the Northern army of occupation and its collaborators.

Certain of these rebels succumbed to banditry, like Jesse James. Others transmitted to their children a tradition that has had a great literary posterity. In The Unvanquished, one of William Faulkner’s most beautiful novels, there is, for example a fascinating portrait of a young Confederate sympathizer, Drusilla, who never doubted the justice of the South’s cause or the illegitimacy of the victors.

Q: How can one be a rebel today?

DV: How can one not! To exist is to defy all that threatens you. To be a rebel is not to accumulate a library of subversive books or to dream of fantastic conspiracies or of taking to the hills. It is to make yourself your own law. To find in yourself what counts. To make sure that you’re never “cured” of your youth. To prefer to put everyone up against the wall rather than to remain supine. To pillage whatever can be converted to your law, without concern for appearance.

By contrast, I would never dream of questioning the futility of seemingly lost struggles. Think of Patrick Pearse. I’ve also spoken of Solzhenitsyn, who personifies the magic sword of which Jünger speaks, “the magic sword that makes tyrants tremble.” In this Solzhenitsyn is unique and inimitable. But he owed this power to someone who was less great than himself. That should give us cause to reflect. In The Gulag Archipelago, he tells the story of his “revelation.”

In 1945, he was in a cell at Boutyrki Prison in Moscow, along with a dozen other prisoners, whose faces were emaciated and whose bodies broken. One of the prisoners, though, was different. He was an old White Guard colonel, Constantin Iassevitch. He had been imprisoned for his role in the Civil War. Solzhenitsyn says the colonel never spoke of his past, but in every facet of his being it was obvious that the struggle had never ended for him. Despite the chaos that reigned in the spirits of the other prisoners, he retained a clear, decisive view of the world around him. This disposition gave his body a presence, a flexibility, an energy that defied its years. He washed himself in freezing cold water each morning, while the other prisoners grew foul in their filth and lament.

A year later, after being transferred to another Moscow prison, Solzhenitsyn learned that the colonel had been executed.

“He had seen through the prison walls with eyes that remained perpetually young. . . . This indomitable loyalty to the cause he had fought had given him a very uncommon power.”

In thinking of this episode, I tell myself that we can never be another Solzhenitsyn, but it’s within the reach of each of us to emulate the old White colonel.

French Original: “Aujourd’hui, comment ne pas être rebelle?

vendredi, 12 novembre 2010

Last Encounter with Carl Jung

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Last Encounter with Carl Jung

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Alex Kurtagić

Author’s Note:

This is a translation of the article by Serrano published by the Chilean newspaper El Mercurio in 1961, following Carl Jung’s death.

It’s six in the morning, 8 June. I open the doors to my room in New Delhi—doors which open to a small white terrace, already fulgurating with sunlight. The tremendous June heat starts early in the day. I am partially naked, and in a moment I will begin my yogic exercises of sun adoration, “Suryanamaskar.” The trees’ incredible verdure, even in this weather, and the birdsong of infinity, greet me. A servant, who is from around these parts, approaches me with that measured step of the Indians and says to me, “Salam, Sahib.” It’s his respectful greeting. He hands me a piece of paper. It’s a telegram. I open it without hurry, almost absent-mindedly. I see that it comes from Zurich and it surprises me that this is the case. I begin reading and I am perplexed. The telegram reads as follows: “Dr. Jung died peacefully yesterday at noon. Best wishes.” It is signed by Beiley and Jaffe: the young lady that kept him company, who walked him home—an extraordinary woman—; and his private secretary, a Swiss citizen.

A great sadness immobilizes me right there—my eyes are moist, perhaps because of the intense sun, or perhaps not. It was so recently that I had been with Dr. Jung, at his house in Küsnacht, next to Lake Zurich. I might have been the last foreign friend to see him. The news has hit me in the depths of my soul. I have had the enormous fortune of having been prefaced by Jung—that, having been the first and last time that he penned a preface for a purely literary work.

I received a letter from him at the time of our last year’s earthquakes in Chile. He said, “Even if modern men of science will not accept it, there is a relationship between Nature and the soul. Mother Nature now attunes itself to our civilization and begins also to visit destruction. Unfortunately, it has been your country’s turn this time. I have thought of Chile so much lately!”

The remembrance flies, I see its image, it’s on my mind. So very recently I arrived at his house, amid a fine rain. Jung’s house is in the outskirts of Zurich, in Künsnacht. At the entrance’s portal there is a phrase in Latin that reads, more or less, “Think or not in God. He is always present.” Inside there are paintings and beautiful objects, antique engravings, mediaeval paintings. I was received by Ms. Beiley, who invited me into a small living room, where she served us tea.

We talked about Dr. Jung. She told that me he had not been well during the last few days, feeling very tired as a result of working intensively on a 80-page essay he had written in longhand, as usual, directly in English for an American publication, and due to appear soon with the title “Man and his Myths.” Ms. Beiley is very worried, as Jung has said to her, “I wish to go, but you tie me here.” She does not believe him, as she thinks that Dr. Jung is still interested in life and the Earth. He has told me that “to die is also to go to Jung’s collective Unconscious, only to then, from there, go back to the realm of forms, of forms . . .” Hesse has also told me that “Jung is a giant, a giant mountain in our time.” And he has asked me to forward Jung his greetings—“the steppe wolf’s greetings,” he has said.

Jung has been unwell, it is true, but he’s afflicted by no illness. That day he had felt better  and even got up to receive me. Ms. Beiley asks that we go upstairs, but also that I don’t stay long so as not to tire him. We entered his study. And there was Jung, on a chair, next to the window facing the lake. He’s wearing a Japanese robe that makes him look like a Zen Buddhist monk, an old samurai, or a magus from earlier times. He is haloed by a crepuscular light, and he is surrounded by alchemical engravings and a great paining of the Hindu god Shiva on the summit of Mount Kailash.

He smiles with that smile of his, filled with cunning, wisdom, and benevolence. He reaches for his pipe, but fails. I tell him, “What a beautiful Japanese robe.” It is a ceremonial robe. Out of my pocket I take box from Kashmir that I have brought him as a present. He looks at it and says, “It’s made out of turquoise.” And then he adds, “I’ve never been to Kashmir. I traversed the South of India; Madora—all those very ‘interesting’ places.” He then talks to me about the Hindus and the Chinese; he makes reference to a book by a Chinese master of Zen Buddism, whose name I can’t remember now, and he tells me that it is the best he has read on the subject. I transmit Hermann Hesse’s greetings and I relate my conversation with that writer about death. I explain that I have asked him whether it is important to know that there is something beyond death. Jung meditates for a while and states that the question has been posted incorrectly—that I should have asked whether there is reason to believe that there is something beyond death.

085_MiguelSerrano.jpgI now ask Dr. Jung, “And what do you believe? Is there?” He answers, “if the human mind can operate independently of the brain, then it operates independently of space and time. And if it operates independently of space and time, it is incorruptible.”

And what do you believe, Dr. Jung? What do you think?

I have seen men wounded by bullets to the brain during the war who have a lost all brain function and who nevertheless have dreams and are able to remember them afterwards. What is it they dream? There are small children, who don’t yet have a defined self, whose consciousness is diffuse and spread over their bodies, yet who have deep and personal dreams that mark them for the rest of their lives. There is no self there. What is that other they dream?

Do you believe, Dr. Jung, that there exists something like a subtle body, an astral body, the “Linga-Sarira” of Hindu philosophy, which detaches itself upon death?

I don’t know. I have seen objects materialize and mediums move objects from afar without touching them with their physical bodies.

And Dr. Jung continues:

Sometime ago I was very ill, almost in a coma; everybody thought that I would die and maybe even that I was suffering greatly, because in this condition one’s body makes people believe that one is suffering. But in reality I felt as if I were floating and experienced a marvelous sense of freedom. I remembered it afterwards.

Dr. Jung always wore on his right hand a ring with a Gnostic gem. An Egyptian gem. We spoke about the meaning of that ring, and he explained, “All these symbols are alive in me.” His memory and culture, even at the age of 85, was incredible.

At times he spoke like a poet, like a magus, like a mystic. One time he said to me, “My message is not wholly understood; only poets understand it.”

Now I ask him:

What will happen to mankind in the coming technological supercivilization? Do you think that, in twenty years, anyone will care about the spirit of symbols, in the midst of the era of interplanetary journeys, with the Sputniks, the Gagarins, and the Shephards? Will not the spirit come to appear passé?

Dr. Jung smiles cunningly and states:

Sooner or later man will have to return to himself, even if from the stars. All this that is happening now is an extreme form of escapism, because it is easier to reach Mars than to find oneself. If man doesn’t find himself, then he faces the greatest of dangers: his own annihilation. On journeys into outer space there is also an unconscious attempt to solve the gravest of all problems that man will have to face in the future: overpopulation.

Dr. Jung was going to continue talking about this very important topic when Ms. Beiley entered the room to say that Dr. Jung’s daughter and son-in-law were waiting. I had not fulfilled my promise of a brief conversation.

But now I know it doesn’t matter, because mine was to be his last interview. And something perhaps told me that this was the case, for when I reached the door I stopped and turned my head. Jung sat there staring at me, with a soft smile and lifting his hand in a gesture of farewell. His last one. The hand with the Gnostic ring. I bowed, respectfully.

Source: http://www.wermodandwermod.com/newsitems/news251020101138...

mercredi, 10 novembre 2010

Vérités et contre-vérités sur la Russie avec Alexandre Latsa

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Vérités et contre-vérités sur la Russie avec Alexandre Latsa

Ex: http://www.alliancegeostrategique.org/ 

La Russie est un sujet prolifique pour journalistes et experts en tant que puissance résiduelle de l’ex-Union Soviétique soucieuse de s’offrir un rang conforme à ses ambitions mondiales. De fait, fantasmes et réalités ne cessent de se bousculer lors de nombreux papiers commentant les actions des dirigeants ou sur les évènements pouvant survenir au sein de cette fédération eurasiatique.

Certains auteurs n’ont pas manqué de faire part de leur atterrement quant à la méconnaissance ou à la vision faussée véhiculées par les médias traditionnels comme modernes. L’un deux, Alexandre Latsa, se proposant d’offrir une vision dissonnante comme il l’écrit lui même quant aux faits relatés. Résident permanent à Moscou, il intervient régulièrement en diverses publications pour exprimer son point de vue lorsque ce n’est pas sur son propre espace d’information numérique. Je l’ai par conséquent interrogé quant aux diverses problématiques régulièrement ou récemment soulevées afin qu’il puisse expliciter la teneur des enjeux comme apporter ses corrections idoines.
 
Alexandre, bonjour. Pour commencer, abordons un sujet récurrent dans les journaux occidentaux concernant la démographie Russe. On continue de percevoir la Fédération de Russie comme un pays à la dérive en ce domaine, quelle est votre observation sur le sujet?

Il est encore fréquent de lire que la Russie perdrait « un million d’habitants / an », pourtant c’est inexact, la Russie est sortie de la situation démographique réellement catastrophique dans laquelle elle s’est retrouvée suite à l’effondrement de l’URSS.

 

Bien sur tout n’est pas réglé, mais la population a cessé de diminuer.

 

En 1991, la population de l’URSS était de 292 millions d’habitants et la population de la Russie dans ses frontières actuelles s’élevait à 148,3 millions d’habitants. 1991 est une date charnière puisque c’est l’année durant laquelle la population cesse d’augmenter et la mortalité dépasse la natalité. L’effondrement politique et économique qui frappe la Russie durant la décennie qui va suivre verra un déclin démographique sans précédent.

 

Juste quelques chiffres pour “bien” comprendre la gravité de la situation et imaginer le chaos total, économique, politique, hospitalier et donc sanitaire que ce pays à traversé durant les « libérales années 90 ». L’espérance de vie s’est effondrée à un niveau inférieur au niveau Péruvien ou Indonésien, l’excédent de décès durant cette période était le double de l’excédent de décès du aux difficiles conditions de vie des civils en Russie durant le second conflit mondial (!).La Russie connu un regain de maladies qui n’existaient même plus dans nombre de pays du 1/3 monde : diphtérie, typhus, choléra, fièvre typhoïde et une explosion des maladies sexuellement transmissibles comme le Sida, à tel point que le chef de file de l’épidémiologie Russes estima que au rythme des années 90, 10 millions de personnes seraient contaminées en 2005. Cette explosion était due à l’explosion de la prostitution (par nécessité économique) mais aussi à la drogue, la Russie étant en 1998 le principal marché du monde. En 1998 on estimait à 5 millions le nombre de drogués du pays soit 3% de la population. Si les jeunes consommaient de la drogue, les plus vieux buvaient. Une enquête de 1998 prouva que 50% des hommes buvaient en moyenne plus de ½ litre de vodka par jour. Rien qu’entre 1990 et 1998, furent recensés : 259.000 suicides, 230.000 décès par empoisonnement (de vodka), et 169.000 assassinats. Alors que de plus en plus de Russes mourraient, surtout, de moins en moins naissaient.Les enfants qui naissaient n’avaient cependant pas tout gagné. En 1998, un million d’enfants errait dans les rues des villes de Russie. Tout cela entraîna un déclin démographique implacable. Les conséquences vont être tragiques, dès 1996 la population de la Russie va commencer à diminuer,  pour atteindre 142,8 millions d’habitants en 2006. Soit sur 10 ans une perte nette de 5,5 millions d’habitants ! Pour la seule année 2005, la population a diminué de 780.000 habitants, ce qui est absolument considérable.

 

En 2005 fut mis en place le fameux plan démographique confié au futur président Dimitri Medvedev. De quoi s’agit t-il ? D’un plan d’aide à la natalité, offrant des primes financières à partir du second enfant mais également tout une batterie d’aides diverses et de facilités économiques. Ce capital maternel (appelé Mat Kapital) étant recevable 3 ans après la naissance. Les résultats ont été fulgurants, : en 2006, la population à baissé de 600.000 habitants, en 2007 de 300.000 habitants et en 2008 de 100.000 habitants. En 2009, la population n’a pas baissé, elle a même légèrement augmenté (de 35.000 personnes) pour se stabiliser à 141,9 millions d’habitants. L’accroissement des naissances a été constaté dans 70 territoires de la Fédération et la réduction des décès dans 73 territoires sur les 83. Symbole de cette renaissance démographique, la Sibérie puisqu’entre 2000 et 2009 la natalité y a augmenté fortement : en 2000 98.000 enfants sont nés en Sibérie et en 2009 174.000. Selon la ministre russe de la Santé et du Développement social Tatiana Golikova la stabilité démographique s’explique principalement par l’accroissement des naissances : 1,76 million de Russes ont vu le jour en 2009, c’est-à-dire plus de 2,8% que en 2008, seulement 1,714 million. La ministre s’est engagée à ce que : « le déclin démographique cesse en 2011 avec une population stabilisée et un taux de mortalité égal au taux de natalité ».

 

Désormais, la natalité étant repartie à la hausse (première phase du plan démographique), celui ci entre donc dans sa seconde phase qui est destinée à notamment faire baisser la mortalité. Sont visés notamment les décès causés par des maladies comme la tuberculose, les décès sur la route, les décès dus à la consommation de drogues, les décès dus à la consommation d’alcool ou d’alcool frelaté, responsables de la mort annuelle de 500.000 personnes. En outre le pouvoir Russe cherche aussi à faire baisser le nombre d’avortement qui est un des plus élevés au monde (en 2008, pour 1,714 million de naissance, ont été recensés en Russie près de 1,234 million d’avortement). Enfin, le but est qu’en 2020, le niveau de vie atteigne 75 ans pour les citoyens Russes.

 

En 2010, sur le premier semestre de l’année, le rythme se poursuit puisque le nombre de naissances (868.936) y est de 2,3% plus élevé que sur le premier semestre 2009 (849.267), soit 19.569 naissances en plus. La mortalité est nettement en baisse avec une chute de 1,8% entre le S1 2010 (1.010.988 décès) et le S1 2009 (1.029.066 décès) soit 18.078 décès en moins. Il semble possible d’envisager que la population Russe stagne ou augmente cette année, malgré la surmortalité malheureuse et exceptionelle due à la canicule cet été.

 

Il est à noter que cet automne 2010, un grand recensement fédéral aura lieu en Russie dont je publierai les résultats sur mon blog. Enfin pour clore cette question démographique, et revenir sur ce que l’on peut souvent lire à savoir que la population Russe devrait s’effondrer et s’élever à 137 millions en 2035, voir 100 millions en 2050, sachez que trois scénarios démographiques sont prévus par le pouvoir Russe, une prévision basse envisage une population stabilisée à 128.000.000 d’habitants en 2030, une prévision moyenne envisage une population de 139.372.000 d’habitants en 2030 et enfin une prévision haute de 148.000.000 d’habitants en 2030. On est donc assez loin des prévisions catastrophistes que l’on peut lire ici et la.

 

Un autre sujet qui revient périodiquement serait l’existence de dissensions entre le Premier Ministre Vladimir Poutine et le Président Dmitri Medvedev : quelle consistance donner à ces allégations selon vous?

Aucune et pour deux raisons majeures. Le culte du secret Russe, couplé à la très importante verticalité du pouvoir Russe fait qu’il est impossible de tirer quelque conclusion que ce soit à ce niveau. Bien sur ce scénario fait “fantasmer” des gens qui n’apprécient que peu la ligne politique que Vladimir Poutine et  Dmitri Medevdev défendent tant sur le plan de la politique extérieure, que sur la politique intérieure. Il y a des gens ouvertement hostiles à une Russie forte, indépendante, non alignée à l’OTAN et qui réconstitue son influence dans le monde, et surtout sur les trois zones clefs que sont l’Europe, le Caucase et l’Asie centrale. Personne ne peut prévoir l’avenir, ni savoir ce qui se passe “dans” les murs du Kremlin mais ce qui est certain, c’est que l’obsession grandissante d’une soi disant tension entre les deux hommes me fait penser à l’affaire du troisième mandat de Vladimir Poutine. Il est intéressant de voir la coalition hétéroclite qui “rêve de” cette guerre au sommet, il y a bien sur la presse traditionelle francaise, et certains analystes, comme le Réseau Voltaire, des personnalités comme Michel Drac (lire les entretiens sous l’article) mais également divers mouvements d’ultra-droites Russes ou encore l’opposition libérale.

 

Pour ma part, au jour d’aujourd’hui, il n’y a aucun signe perceptible je répète d’une quelconque tension entre les deux hommes. Je crois plutôt à un partage voulu des rôles : Medvedev fait le gentil, et Poutine le méchant, soit l’inverse de la situation de aout 2008 pendant la guerre en Géorgie. Le tandem marche à la perfection la récente “démission” du maire de Moscou en est la preuve. Cette démission fait suite aux « départs » des présidents dinosaures du Tatarstan et du Bashkortostan cette année, ce qui témoigne de la volonté du pouvoir de rafraichir la vie politique, tout en “luttant” contre la corruption, le tout de concert.

 

La récente catastrophe écologique et humaine qui a frappé la Russie cet été, je veux parler des incendies, a donné lieu dans les journaux à nombre de commentaires acerbes quant à la gestion du sinistre par l’exécutif Russe, ces propos étaient-ils justifiés selon vous?

Non, la presse a largement exagéré la situation, mais également les “théoriques” responsabilités politiques liées. Même la situation à Moscou, sous la fumée à été exagérée. J’ai passé l’été à Moscou, ai travaillé tous les jours, la vie ne s’est pas arrêtée et les Moscovites ont patiemment attendu que le climat change et que la pluie arrive. Il convient d’étudier les faits, et de comprendre l’environnement assez particulier. La Russie n’est pas le Poitou-Charentes, c’est un pays grand comme 31 fois la France et plus de 2 fois les états unis. Le nombre de pompiers y est deux fois inférieur à celui de la France (22.000 contre 55.000) et ceux-ci ne sont pas vraiment “rôdés” à la lutte contre des incendies de cette ampleur tout simplement parce que cela arrive très rarement.

La moitié du territoire Russe est boisée (800 millions d’hectares) et de nombreuses parties de ces forêts sauvages (donc non entretenues) sont des zones relativement vides ou les arbres sont en grande partie des résineux. En outre, la construction a été anarchique et les villages sont relativement éparpillés, souvent pas alimentés en eau courante, les maisons étant en bois.

Dans ces conditions lorsque des flammes de la hauteur d’un immeuble de 6 ou 7 étages se propagent à 30 km/heure sur cent ou deux cents maisons en bois sans eau courante et habitées par des personnes âgées, et que le principal « poste » de pompier est à 20 Kilomètres de la, que faire ?

 

Néanmoins si l’on regarde les chiffres de plus près, on s’aperçoit que finalement les 975.000 Hectares qui ont brûlés ne représentent « que » 0,05% du territoire Russe. A titre de comparaison en France chaque année, brûle également cette proportion de territoire, alors que en Amérique, c’est presque le triple, soit 0,18% du territoire qui brûle chaque année. On oublie vite que par exemple en Amérique en 1991 l’incendie d’Oakland Hills avait détruit 2.900 maisons et tués 25 personnes, ou que l’incendie de Cedar en 2003 avait lui détruit 4.847 maisons. Je donne cette comparaison avec un pays comme l’Amérique qui est très lourdement équipé, préparé et avec de nombreux pompiers pour montrer qu’il est très difficile de répondre au feu. Mais enfin lorsque chaque année en Amérique brûle 3 fois ce qui a brûlé en Russie cet été 2010, on n’entend aucun journaliste marteler que la responsabilité est celle du pouvoir démocrate ou républicain en place.

 

Pour ces événements comme pour beaucoup d’autres la presse étrangère Occidentale, française en tête se discerne par sa mauvaise foi et son non professionnalisme. Les journalistes et autres correspondants ne sont généralement que des exécutants insipides, aux ordres de rédactions directement sous influence du « politique ». J’étudie intensément le traitement médiatique Français de la Russie, pays dans lequel je vis, et travaille, c’est incroyable. Il y a une volonté parfaitement claire de discréditer ce pays, de le faire passer pour une dictature, une sorte de 1/3 monde noir, rouge et brun, dans lequel il n’y aurait aucune liberté et qui ne partagerait pas les valeurs «Paneuropéennes ». Pour cela tous les moyens sont bons, même lorsque des catastrophes climatiques éclatent. A ce titre, le comportement du grand reporter de France2 qui m’a contacté est explicite : un grand reporter que l’on voit tous les jours à la télévision et que l’on imagine sérieux me contacte dans un seul but : « tenter de montrer les failles du système Poutine », il faut lire l’échange que j’ai reproduit sur mon blog, et noter cette obsession compulsive de « démontrer les failles du système Poutine », finalement peu importe qu’elles existent ou pas, peu importe la réalité et les faits, l’important est de faire ce que la rédaction demande, et de le faire gober aux téléspectateurs.

 

Cette obsession poutinophobe qui a frappé nombre de journalistes, pigistes et correspondants de presse ne me semble pouvoir se justifier que par l’excès de CO2 respiré, et se traduire par de dogme suivant  : « La Russie se calcine, c’est la faute à Poutine ». Je note que la presse a également oublié de préciser que des mesures ont été prises, notamment la création d’une agence fédérale des forêts pour parer à une ce qu’une telle situation se reproduise.

 

L’enfumage médiatique à un fondement, politique, voir même géopolitique. La Russie est “la” puissance émergente qui inquiète l’Ouest américano-centré, car elle n’est pas sous contrôle de l’OTAN. C’est une puissance nucléaire, politique, et qui à une vision du monde qui ne « cadre » pas avec le projet unipolaire que certains espèrent pour le monde de demain. C’est une puissance souveraine, et l’affirmation de cette souveraineté est la grosse raison du matraquage médiatique dont elle est victime dans la presse Occidentale.

 

L’on avait beaucoup parlé en 2003 d’un axe Paris-Berlin-Moscou inédit dans l’Histoire, qu’en reste-t-il près de sept ans après ? Quelle place l’Europe occupe-t-elle dans la géostratégie Russe?

La Russie répète qu’elle appartient à l’Europe par la voix de son ministre des affaires étrangères Serguey Lavrov , je cite : « La Russie se voit comme une partie de la civilisation européeenne » ou encore : « La fin de « la guerre froide » et la globalisation ont donné des arguments solides en faveur  de la coopération collective « sur toute espace entre Vancouver et Vladivostok ». La Russie est fondamentalement un pays Européen. L’argument qui est de dire que l’occupation tataro-mongole (300 ans) aurait séparé la Russie de l’Europe ne tient pas. C’est un argument que l’on n’oppose pas à l’Espagne qui a subi 700 ans d’occupation Arabe ni aux pays des Balkans qui ont subi 600 ans d’occupation Ottomane.

 

La relation UE/Russie me semble parasitée par le facteur Américain. Après l’élection de Vladimir Poutine en 2000, la Russie était dans les meilleures dispositions envers “l’Ouest”, comme l’a montré le soutien Russe formel à l’Amérique après le 11 septembre. En retour, la stratégie de pression et de containment s’est accrue, notamment dans l’étranger proche de la Russie, et en 2003, deux évenements majeurs, la guerre en Irak, puis l’affaire Kodhorkovski ont considérablement retendu les relations. Lors du second mandat de Vladimir Poutine, de 2004 à 2008, le climat s’est détérioré avec l’ouest (UE et Etats Unis), à cause notamment des révolutions de couleur et l’adhésion des états Baltes à l’UE notamment. La manipulation Ukrainienne lors de la guerre du gaz a été très mal ressentie à Moscou, et la réintégration de la France au sein du commandement intégré de l’OTAN vu comme une trahison, à mettre en lien avec le bombardement de la Serbie en 1999. Le sommet de la tension à été atteint en aout 2008, lors de la guerre en Géorgie, durant laquelle l’OTAN a été indirectement impliqué dans un assaut militaire qui à couté la vie a des casques bleux Russes sous mandat de l’ONU. Comme l’a dit Sergey Lavrov : « Depuis 20 ans la Russie  aspirait à construire de nouvelles relations avec l’Occident, sans rencontrer très souvent la compréhension et des échos adéquats ».

 

Bien sur durant cette dernière décennie, la Russie a pu développer des partenariats solides avec certain pays de l’UE, mais étrangement, peu avec l’UE elle-même. Il faut s’avouer que l’UE « est siamoise de l’OTAN » comme dirait Pierre Lévy, à tel point que Javier Solana est passé directement du secrétariat général de l’Alliance au poste de Haut-représentant de l’UE. Or l’OTAN reste pour les Russes la principale menace, selon la « nouvelle doctrine militaire Russe » signée par le président Russe en février 2010.

L’UE est bien sur devenue le premier partenaire commercial de la Russie, mais celle-ci est son principal fournisseur d’énergie. Si l’on regarde pays par pays, c’est la Chine qui est désormais le premier partenaire commercial de la Russie en fevrier 2009. Au sein de l’Union européenne, l’Allemagne, loin devant l’Italie et la France. Par conséquent le projet « Paris-Berlin-Moscou » semble tourner à un projet « Berlin-Moscou ». Mais actuellement les fondements du partenariat sont plus basés sur des interdépendances économiques que sur une réelle alliance politique et une vision du monde en commun, cela car l’UE est pour l’instant un géant économique mais un nain politique, très relié à la vision très OTANisé du monde, ce qui n’est pas le cas de la Russie. Pourtant la encore, les propositions Russes de création d’une architecture Européenne de sécurité témoignent de la bonne foi de nos partenaires Russes et de leur vision cohérente du futur européen commun qu’ils souhaiteraient.

 

Pouvez-vous expliciter les liens entre Téhéran et Moscou, une relation qui ne paraît pas aussi simple telle qu’énoncée par certains commentateurs?

La relation Russie/Iran est une affaire à diverses facettes. La Russie n’a cessé de soutenir l’Iran de façon diplomatique, et commerciale également. La récente inauguration de la centrale de Bouchehr (projet avait été initié par le groupe allemand Siemens avant la révolution islamique de 1979, puis interrompu peu après le déclenchement de la guerre Irak-Iran en 1980 et dont le chantier a été repris en 1994 par la Russie) témoigne de ce partenariat économique réel. Bien sur l’IRAN est un pays sous sanctions, et surveillé par la communauté internationale mais la Russie s’est toujours opposée, et continuera probablement à s’opposer aux sanctions trop unilatérales du conseil de sécurité des Nations-Unies. Certes la récente décision Russe de ne pas livrer de missiles S-300 à l’état Iranien semble brouiller les cartes, mais je doute que des transferts de technologie n’aient pas déjà eu lieu, à un moment ou un autre, vu la longue présence de la Russie en Iran et on peut même envisager que peut être que le système similaire que l’IRAN affirme être en train de développer est « d’inspiration » Russe. Après tout une agence Iranienne a affirmé il y a quelques mois que : « l’Iran disposait de quatre missiles destinés à doter les systèmes de DCA S-300, dont deux lui ont été vendus par la Biélorussie et deux par un vendeur resté inconnu ». Intox ou réalité ? Quoi qu’il en soit

 

Il faut envisager la situation vue de l’angle de Moscou. La Russie n’a « pas » aujourd’hui intêret à un quelconque regain de tension ou d’une nouvelle course aux armements avec l’ouest alors même qu’elle est en train de reprendre l’avantage sur nombre de theâtres d’opérations « prioritaires pour elle » qu’elle avait « momentanément perdu », comme l’Asie centrale, l’Ukraine ou le Caucase. Or de très nombreux autres paramètres interviennent, l’intense activité Turque dans le Caucase et les rapprochements Irano-Turcs, les capitaux Iraniens en Géorgie, ou le soutien Turc à l’Azerbaidjan qui sont des points assez sensibles et peut être que les petites « sanctions » Russes sont des avertissements à l’Iran. Peut être également la Russie a-t-elle déjà reçu les gages d’une non action militaire contre l’Iran ?

 

Je souhaiterais cependant rappeler qu’il n’est pas possible d’envisager des problèmes aussi complexes de façon simpliste. On a pu lire ça ou là des analyses alarmistes imaginant que la Russie pourrait soutenir l’Iran par anti américanisme, et même devenir une espèce de porte parole du monde musulman antisioniste, mais les choses doivent être observées avec moins de manichéisme. Aujourd’hui la Russie pense d’abord à ses intérêts, comme tout pays souverain. Son intérêt dans la région est une « realpolitique », pragmatique et équilibrée et qui a pour but de consolider sa position politique et économique. Malgré ce refus de livraison des missiles à l’Iran, la relation entre les deux pays devrait rester assez stable, la Russie continuant de soutenir diplomatiquement l’Iran. Du reste, lorsque les manifestations de 2009 ant pouvoir ont eu lieu en Iran (on a parlé de tentative de révolution de couleur en Iran), les meetings de l’opposition ont vu de très violents slogans anti Russes, ce qui en dit très long.

 

Quel regard et action guident la Fédération de Russie en Asie Centrale qui est devenue avec les années une zone d’intérêt comme d’inquiétude dans les chancelleries? Certains experts parlent d’un jeu d’échecs entre les puissances locales émergentes, la Chine, la Russie et les Etats-Unis : votre opinion sur le sujet?

L’Asie centrale est une zone stratégique et très convoitée, c’est le theâtre du « grand jeu » du siècle dernier, d’opposition des empires. Finalement les Anglais en ont été expulsés, les Russes aussi et les Américains sont sur la même pente. L’inde et la Chine tentent des approches non guerrières, plus commerciale.

 

Seul le Kazakhstan semble avoir bien défini son projet de coopération étroite avec la Russie, et se situe à un autre niveau économique, son PIB / habitant étant égal à celui de la Turquie. Pour des raisons évidentes linguistiques, historiques, stratégiques et géographiques, l’Asie centrale est une « zone » du monde dans laquelle la Russie souhaite clairement augmenter sa présence et son influence. La vague de Russophobie lié au nationalisme d’indépendance post Soviétique semble plus ou moins tassée et nombre de ces états restent encore finalement relativement dépendants de la Russie, notamment économiquement, via par exemple les grosses minorités présentes sur le territoire Russe. Enfin ces état sont relativement démunis face aux diverses déstabilisations régionales: les révolutions de couleurs et les instabilités politiques liées, l’Islamisation et les risques terroristes liés, la déstabilisation régionale due à l’aventure militaire en Afghanistan, la pression économique Chinoise (transasia) etc etc … Ce sont autant de défis que la Russie doit également relever, avec relativement « peu » d’alliés réels pour l’instant. Sa seule chance à mon avis est de tisser des liens bilatéraux très forts avec les gouvernements de ces états et de développer une coopération multi-échelle très poussée. En cela les récentes grandes manœuvres au Kirgystan sont exemplaire des progrès de la diplomatie Russe, à l’œuvre dans cette région. Enfin les états d’Asie centrale sont membres d’une organisation militaire régionale très importante, qui est l’Oganisation de la coopération de Shanghai, avec la Russie. Par conséquent, il est plausible que l’Asie centrale voit un retour d’un grand jeu version 2.0, je rajouterais cependant un acteur essentiel à mon avis et que vous n’avez pas cité : la Turquie.

 

Quels seraient selon vous les axes de développement diplomatiques majeurs de la Russie pour ces prochaines années?

Ils sont triples à mon avis et à des échelles différentes.

 

Tout d’abord la Russie va essayer de resserrer les liens avec les nations Européennes, l’approfondissement des relations avec l’Allemagne, les récentes « détentes » avec la Pologne ou l’Ukraine par exemple sont l’illustration de cette « nouvelle » politique européenne de la Russie.  Curieusement, cette alliance « Allemagne-Pologne-Ukraine » était vue par certains stratèges Américains (Zbigniew Brzezinski notamment) comme la future colonne vertébrale de la sécurité Européene et de l’OTAN « contre » la Russie. Or c’est l’inverse qui est en train d’arriver, la proposition d’architecture de sécurité collective européenne Russe est d’ailleurs à mon avis extrêmement réaliste et constructive.

 

Ensuite la Russie tente de se placer au cœur de l’Asie, consciente du basculement du monde en cours. Le partenariat avec la Chine est particulièrement à l’ordre du jour mais la Russie tisse des liens bilatéraux de plus en plus poussés également avec la Mongolie, le Japon ou encore le Vietnam, ainsi qu’avec les Corées. Cette « offensive » vers l’Asie a selon moi des symboles forts, vers la Chine tout d’abord qui est depuis l’année dernière le premier partenaire commercial de la Russie et enfin à travers la diversification de l’approvisionnement énergétique d’une région qui est en plein développement économique et pourrait d’ici le milieu du siècle supplanter l’Europe dans ses besoins. Enfin la création de l’OCS est symbolique, la Russie étant le seul pays « Européen » membre de cette organisation, montrant bien la son positionnement géopolitique cohérent avec sa géolocalisation : au cœur de l’Eurasie.

 

Enfin la Russie cherche à avoir toute sa place dans le monde musulman, le pays comprenant une très forte minorité musulmane, estimée à 20 millions de personnes. La Russie a une très forte composante orientale (Tatare, Caucasienne, Centro-asiatique) qu’elle souhaite faire valoir, et se place désormais comme un partenaire proche de nombre de pays musulmans, Arabes ou Asiatiques. A ce titre, elle est par exemple depuis 2005 observateur de l’Organisation de la conférence Islamique.

 

L’on pointe souvent du doigt le fait que ce pays dépend énormément pour sa santé économique de l’extraction et la commercialisation de ses ressources fossiles, la Russie est-elle capable à terme d’être moins dépendante de cette manne très liée aux fluctuations des cours mondiaux?

Cette inquiétude me semble relativement obsolète. Aujourd’hui, la tendance est à la baisse des prix industriels et à la hausse des prix des matières premières. La démographie mondiale, la demande des pays émergents et l’épuisement progressif de certaines ressources minières devraient soutenir cette tendance dans le long terme. En conséquence, on constate que la dette de tous les pays industriels occidentaux augmente de façon alarmante, pendant que les pays exportateurs de matières premières accumulent les réserves de change.

 

La Russie profite pleinement de cette situation, et a mis en œuvre de grands programmes de modernisation de la société et de l’économie. Cemois de novembre 2010, le chômage est revenu à son niveau d’avant la crise et la croissance du PIB devrait être de 4 ou 5% pour 2010 et 2011, les réserves de change restent a un niveau élevé, le rouble est stable, et ces conditions permettent de financer ces programmes sans endetter l’état. Dans le domaine social, le programme démographique a déjà des résultats mesurables dont nous avons parlé au début de cet entretien mais d’autres résultats très positifs ont été obtenus depuis 2000 : les revenus réels de la population ont plus que doublé, les revenus des retraités ont triplé et le nombre de personnes vivant sous le seuil de pauvreté été diminué par deux. En ce début d’année, quatre projets dits “nationaux” (santé, enseignement, logement et agriculture) ont été lancés, projets dont le financement devrait approcher 4,5 milliards d’euros et destinés à encore relever le niveau de vie de la population.

 

La relative désindustrialisation post Soviétique est certes réelle et les écueils sont nombreux, mais il y a vraiment une volonté affichée du pouvoir, maintenant que la société politique et civile est relativement organisée et stable (effets des premiers mandats Poutine) d’instaurer une politique économique pragmatique. Le point de départ public pourrait en être le discours de Medvedev « Go Russia » de novembre 2008. Des progrès sont constatables à vue d’œil, que ce soit des améliorations dans le fonctionnement de l’administration (réduction du nombre de fonctionnaires), ou des infrastructures, du souhait d’attrait de capitaux étrangers ou encore de la lutte anti corruption.  En outre de nombreux projets sont en cours, comme un projet d’OS Russe, un nouveau moteur de recherche Russe, une nouvelle voiture électrique Russe, un téléphone Russe à deux écrans, la création d’une Silicon-Valley Russe ou faire de la capitale un centre financier. Le président Russe, Dimitri Medvedev, a aussi confirmé son souhait de faire de la Russie un des leaders mondiaux de la nanoindustrie, dont le marché devrait selon lui atteindre en 2015 entre 2000 et 3000 milliards de dollars, soit 10 fois plus qu’aujourd’hui. Enfin un plan fédéral immense à pour objectif de développer la Sibérie sur 10 ans.

 

Bien sur, tout cela n’est que peu retranscrit dans les médias Occidentaux, mais les médias Russes en parlent beaucoup, je ne peux que conseiller aux lecteurs intéressés et non Russophones de lire Ria Novosti en Français ou encore mon blog Dissonance, qui fait notamment écho des avancées économiques en Russie.

 

Yannick Harrel, Cyberstratégie Est-Ouest

lundi, 08 novembre 2010

Renato Del Ponte: My Memories of Julius Evola

My Memories of Julius Evola

Renato Del Ponte

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

DallaTrinceaADada.jpgRenato del Ponte is a central figure in European Evolianism. Founder of the Centro studi evoliani in Genoa in 1969 and editor of the journal Arthos, he also runs the Roman Traditionalist Movement.

Question: Renato del Ponte, your name is closely related to Evola’s. Can you tell us how you came to Evola and what your relationship was with him?

Reply: I am simply a man who has always sought to give my life, on the existential, political, and cultural levels, a line of extreme coherence. It is no surprise that on this way I crossed paths with Evola, who had made coherence in his life as in his writings his watchword.

Naturally because Evola was born in 1898 and I in 1944, our physical encounter could take place only in the last years of his life.

The circumstances and the characteristics of our relationship are developed partly in the letters from 1969 to 1973 (published in the book Julius Evola, Lettere 1955–1974 [Finale Emilia: Edizioni La terra degli avi, 1996], pp. 120–155).

It was always a very cordial relationship, which imparted in me the desire to create an organizational network to make his thought better known in Italy and abroad.

Q.: It is you who deposited the urn containing Evola’s ashes in a crevasse on Monte Rosa. Could you tell us the circumstances?

R.: Yes, it was I, along with other faithful friends, who ensured the transport and the deposit of Evola’s ashes in a crevasse on Monte Rosa at 4,200 meters of altitude, at the end of August 1974. To tell you the truth, I was not the executor of Evola’s will, but I had promised him that, along with our mutual friend Pierre Pascal, I would be vigilant so that the provisions of his will concerning his burial were correctly carried out.

As Evola feared, there were many serious oversights that obliged me to intervene and carry out the burial with the assistance of Eugene David who was Evola’s alpine guide when he made his ascents of Monte Rosa in 1930. It is impossible for me to relate all these adventures, some rather romantic, but you can refer to the collective work Julius Evola: le visionnaire foudroyé [Julius Evola: The Fallen Visionary] (Paris: Copernic, 1979) where some of them are reported.

Q.: You run the Roman Traditionalist Movement. What is this?

R.: The Movimento tradizionalista romano is an essentially cultural and spiritual structure that aims to raise awareness of the characteristics of the Roman Tradition, which is not a historical reality that has been definitively left behind, but an immortal spiritual reality still able to offer today an operative existential model and a religious orientation based on what we define as the “Roman way of the Gods.” To this end, the movement acts on a very discrete internal and communal dedicated to the practice of pietas, and on an external plane dedicated to making known the traditional set of themes of Romanness through manifestos, books — for example my Religione dei Romani (Milano: Rusconi, 1992) which obtained an important literary prize — and periodicals. For more details, you should refer to my contribution in Paris last February to colloquium of L’originel on paganism that will probably be published in French in the journal Antaios.

Q.: For some, Evola’s involvement with the Ur Group is his most interesting period. It seems to us that he mixed quasi-fascist politics, occultism, and modern art in an astonishing and attractive cocktail. Is this correct? How do you analyze this phase of Evola’s life?

R.: I cannot discuss the Ur Group and Evola’s involvement in a brief manner. I recommend my book Evola e il magico Gruppo di Ur [Evola and the Magical Ur Group] (Borzano: Sear Edizioni, 1994).

I will simply say that it was the most committed period in Evola’s life.

This is because it was the period when certain esoteric current, which for the most part laid claim to Roman tradition, had some concrete hope of influencing Italy’s government.

But this phase of Evola’s life can also be interpreted as an attempt, characteristic of his whole existence, “to proceed differently,” to exceed the limits of the forces that condition existence, to create something once more, or better, to return under quite “normal” conditions to a life according to the Tradition.

Q.: How does one reconcile Evolianism and political commitment?

R.: If you speak to me about possible political actions of more limited orientation, reserved to a minority that tries to influence certain groups or certain environments, but at the individual level and without concrete hope of publication of journals and books.

We soon begin to publish Arthos again at quarterly intervals. It is natural that the Italian initiative is accompanied by the birth of similar groups and movements in Europe and especially in France where Evola’s work is well-known. The year to come will surely see the realization of concrete initiatives of which you will be of course informed since we naturally count on your active contribution.

From Lutte du Peuple, no. 32, 1996, http://www.centrostudilaruna.it/mes-souvenirs-de-julius-e...

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vendredi, 29 octobre 2010

Interview with Guillaume Faye

Interview with Guillaume Faye

Guillaume FAYE

Ex: http://www.counter-currents.com/

archeo_fu_fa.gifQuestion: We will begin by quoting you. In the review Études et recherches, fifteen years ago, you wrote that one can arrive at the point where “a world civilization desirous to stabilize history opposes its conservative will to the forces which it had itself released.” According to you, are we there? The Occident, longtime passive witness of the ethnic invasion, America longtime imprudent accomplice of the Islamists — do they still have the moral strength “to stop the course of history” when the clash of civilizations has passed from the stage of the “cold war” to that of the “hot war”?

Guillaume Faye: One epoch terminates, another commences. One cannot foresee what will occur: what we know is that we are at a crossroads; we live the end of an age of European civilization. This civilization has known three great epochs: the ancient, the medieval, then the modern which commenced about the 1850s. Currently we live at the end of this last epoch because Europe is invaded by the very ones it had conquered when it is in full demographic decline. On the moral, mental, psychological level, all European values have reached their conclusion, diluted in humanism and total egalitarianism. The Hegelian “enough” thesis that I defend is that this situation is provoking a world catastrophe which can in the end regenerate us. One does not regenerate oneself cold: one can metamorphose oneself only hot. The central question that one can pose in a dialectical manner is to know if this ethnic, ecological, ethical, etc., catastrophe that European civilization caused by its own decline will be the occasion of a regeneration or a disappearance.

Currently we are colonized, and this invasion is coupled with an incredible masochism on the part of Europeans themselves. Thus, only a terrifying crisis –­ that I welcome, in this respect -­- can change collective mentalities, awake Europeans. In my new book, Avant-Guerre [Before the War], I develop my thesis of “the Colonization of Europe,” while going beyond, by transcending the European context. Because for me, now that we have come right to the clash of civilizations, we go towards the third world war!

Question: The shock of September 2001 seemed to awaken the capacity of analysis of certain media. Then, quite quickly, Bush specified that he did not make war on Islam, and the big media — Le Monde or Télérama in France, Repubblica in Italy — devoted all their energy to make Islam known to us, this religion of tolerance and culture, so near and so remote. Has censorship already returned?

Guillaume Faye: This awakening was a shuddering, a flapping of wings. When Bush and Blair say that they do not make war on Islam, it is risible. Maybe we do not make war on Islam, but Islam makes war on us! It is not you who designate the enemy; it is the enemy who designates you! They knew very well that they declared the war on Islam, which besides is designated in Arabic by the same word as “Islamism”: islamiya. There was thus a small awakening, but it is not very important. The war which Islam makes on us did not begin on September 11, 2001, but in the ’60s. What is positive, it’s that the Islamists went too far, too fast: it’s the Arab mentality which wants that. They passed too quickly from the time of peace to the time of war, whereas they were underway to invade consciousness. If they had been less impatient, nobody would have seen anything. No doubt, so that the eyes really open, there a giant attack will be necessary: but I do not believe that this will take place immediately; it is not in their interest to realize too much of it in the immediate future.

It is possible that there will be a period of calm. We are faced with a terrorism which does not depend on a true terrorist organization, but deploys itself according to the logic of a transnational war, in networks, and which goes beyond the sole capacities of a group like Al-Qaeda: Islam is multinational; the war is not territorialized, nor reducible to the misdeeds of a single organization! The end of bin Laden will not solve anything at all because this last, simple sponsor of the jihad in spite of his posture of Prophet, had only applauded some acts that he undoubtedly had followed and financed, but certainly not organized directly himself!

Question: Which strategy do you recommend for citizens who would like to prepare for the future conflicts? Some have said that you want to found your own political party.

Guillaume Faye: It’s idiotic! That would limit my audience. That goes completely against my current analysis, because I recommend creating and working through a network. It is certainly necessary that there be parties to make agitprop. But the important thing is the network, on a European scale, without a guru or bigwig! To found one more petty sect is completely counterproductive. My “party” is my secretariat and the many friends with whom I collaborate in all Europe. I do not want a label!

Question: In the review Réfléchir et Agir, you recommended a “withdrawal” from associative action, following the example of that which the extreme-Left made. Could you develop this point?

Guillaume Faye: It is not a “withdrawal,” but a general-purpose strategy. One needs parties, publishers, associations, trade unions. It is necessary that our ideas be present in civil society. But all the forms of action are necessary: we should not oppose metapolitics to politics. All action, political, cultural, should be connected by the same vision of the world. It is not a strategy of withdrawal, but of spreading out, comparable that of the Trotskyists — who are today at the head of the State and of the Catholic Church! –­ from the ’60s. The French national Right is undermined by the culture of defeat, petty bosses, gossip: the different groups of Muslims and Leftists can detest one other, but they have each and all the same enemies against whom they unite. Whereas for many people of our ideas, the enemy is at first his own political friend, for simple reasons of jealousy!

I am stunned to see that associative action has so little been used. There is no association which defends Europeans! Well, there is AGRIF, but they do few things, and they belong too openly to the National Front, which undermines their credibility: S.O.S Racism knew to more or less camouflage  its connection to the Socialist Party!

At least, the Left moves: look at Act against Unemployment, ATTAC or Right to Housing, which represent 5,000 people in France! People in our circles are for order, but they are disorganized and inactive, whereas the Trotskyists, in spite of their ideology, are organized people. It is necessary to move! I am struck by the poverty of the associative activity in our camp. I repeat it, there is anti-European racism and no association really stirs itself to get it talked about!

Question: What do you think of this pro-Islamist drift that one observes in the French national Right, a drift often aroused by an anti-Americanism fed on ill-digested antisemitism?

Guillaume Faye: This drift is recognized. They confound the enemy and the adversary: the adversary is that which weakens us, that is to say the United States, the enemy is that which invades us concretely: Islam and the Third World. The funniest thing is that it is I, among others, who, in the ’70s, convinced this circle that one did not have to be deeply pro-American. All the obsessional anti-Americans of today were then pro-Americans! Giorgio Locchi and I, notably with my book Le Système à tuer les peuples [The System Against the Peoples], made Alain de Benoist topple over into anti-Americanism, who was an Americanophile before; to realize it, it is enough to re-read the numbers from before 1975 of the review Nouvelle École! Some suffer from an obsessional antisemitism, coupled with a kind of Stockholm Syndrome which makes them love the true enemy. The Muslims will not hold any liking of them for it: the French “identitarians” who perhaps admired the actions attributed to bin Laden will have their throats cut like the others! Islam is a religion of force which leads certain nationalist militants to prostrate in front of the conquering religion with the fascination of a colonized people. But even if they convert, which is already the case for some, they are always, as Occidentals, only second-class Muslims. Pro-Islamism in the nationalist Right is common enough. Plus these people are “nazis” in the most primary sense of the word, anti-Americans in the most idiotic sense of the term, and plus they are pro-Muslims, without knowing either America or Islam besides. They are fascinated by the neo-romantic illusions which they have of Islam. In circles which claim to be radical, there is an infantile reaction: these people are perhaps extremists, but not radical, because the radicals are those who go to the root of things. It is easy to tag “US go home” or “Long live bin Laden” in the subway; they risk less than if they were going to write “Islam out” in the projects.

Question: As a journalist, which judgment do you give to the sociology of the current media? Does the “politically correct” find its roots in the Third-Worldism of the ’50s and ’60s, in communist engagement, or rather in May ‘68 and the years which followed?

Guillaume Faye: It is a sequence; but I believe that it is the post-’68 period which weighed the most. Those who hold the media are people 50 years old, of my generation, who grew up in a neo-Marxist atmosphere. But one needs to know that there reigns among journalists a true Stalinist single thought: Marxism has ceded in this respect its place to Third-Worldism, then to immigrationism. To succeed socially, it is necessary to have a position which goes in the direction of the anti-[White] racist, immigrationist, and egalitarian software-ideology (as at the time of the USSR, where it was necessary to be pro-Soviet). Knowing that even people disapproving of it participate in this vulgar affair.

Everyone sees the truth in the street, everyone except the current elites, who play ostrich. Some great journalists, totally [in spite] of my ideas, signed the petitions for the “undocumented:” they explained to me that if they had refused, their career was screwed. It does not suffice not to speak of it: one must claim to be anti-[White] racist, as it was necessary to be Stalinophile in the ’50s. Charlie-Hebdo attacked Gérard Depardieu because he refused to sign! That did him no harm, because he is at the top. But a young actor would have seen his career cut short. One must know that many do not speak by conviction, but from fear: they want to be on the side of the whip hand. One must proclaim oneself anti-[white] racist, for immigration, etc. as in the nineteenth century one must go to Mass every Sunday! That means Charlie-Hebdo, directed by “old schmucks,” is the classic example of the “Stalinist rag and informer,” a “media of thought-police and collaborators,” the “freezing point of journalism.” For Europeans to have a true awakening from the conformism and ethno-masochistic blindness of our self-styled “opinion leaders,” we have need of a terrible crisis, which alone can give us the energy to defend ourselves.

From the Guillaume Faye Archive, interviewer and translator not credited.

lundi, 04 octobre 2010

L'ex-Chancelier Helmut Schmidt sur l'affaire Sarrazin

L’ex-Chancelier Helmut Schmidt sur l’affaire Sarrazin

 

Extraits d’un entretien avec Helmut Schmidt à « Zeit Magazin », supplément illustré de l’hebdomadaire « Die Zeit » (Hamburg)

Propos recueillis par Giovanni di Lorenzo

 

schmidt.jpgQ. : Quel est le nerf que Sarrazin a effectivement touché ?

 

HS : Apparemment, il en a touché plusieurs en même temps. Parmi ces nerfs, il y a ceux d’un certain groupe de personnes. Par exemple, parmi nos concitoyens juifs, il y en a quelques-uns qui se sentent visés par une remarque, tout à fait en marge d’ailleurs du discours de Sarrazin, sur le « gène juif ». Toutefois, l’intérêt général pour les thèses de Sarrazin a au moins deux racines. Premièrement : la situation, qu’il décrit, sur laquelle il prend son point de départ et pour laquelle il propose une thérapie et énonce des conclusions, eh bien, cette situation est ressentie de manière identique par beaucoup de gens en Allemagne.

 

Q. : Vous voulez dire le déficit d’intégration…

 

HS : Oui. Car les autres affirmations de Sarrazin ne sont pas partagées par tous. Deuxièmement : ces autres affirmations ont provoqué beaucoup de gens, surtout ceux de la presse et de la classe politique. Ces gens-là ont commencé par prendre une attitude très prononcée de mépris à l’égard de Sarrazin et ont jugé négativement ce qu’il disait. Jusqu’au jour où ils ont remarqué, journalistes en tête, qu’une bonne part de l’opinion publique pensaient très différemment d’eux. Alors ils se sont mis à réfléchir. Il faut ensuite ajouter un troisième point : le parti de Sarrazin, auquel il appartient depuis trente ou quarante ans, je veux dire celui des sociaux-démocrates, pense aujourd’hui à le jeter hors de ses rangs. Beaucoup de gens estiment que ce n’est pas correct.

 

Q. : Et vous-même ?

 

HS : Je pense aussi que ce n’est pas correct.

 

Q. : Et pourquoi n’est-ce pas correct ?

 

HS : Il faut d’abord écouter, poser des questions, discuter. Jadis, nous avons eu toutes sortes de déviants au sein de la sociale démocratie allemande et Sarrazin n’est pas le premier qui se voit menacer d’une exclusion. Mais, dans le temps, nous les avons supportés, ces esprits rebelles. Au-delà de la cuisine interne de la SPD, ce qui est important, c’est le fait que la liberté de proclamer son opinion haut et fort pour que l’entende toute l’opinion publique, est désormais perçue comme mise en danger dans l’affaire Sarrazin. En réalité, elle n’est pas mise en danger. Mais lorsque quelqu’un dit quelque chose, qui ne me plait pas, et qu’alors je lui dis tout de go, que je ne lui serrerai plus la main, que je ne veux plus le voir, une telle attitude est perçue comme un mépris à l’endroit de l’opinion que l’autre a formulée. La constitution fédérale allemande autorise les bonnes politiques comme les fausses. La liberté d’opinion, garantie par l’article 5, est valable pour les opinions justes comme pour les opinions fausses. Alors si le social-démocrate Sarrazin, ancien sénateur de Berlin pour les finances, connaît le succès en formulant des assertions provocatrices  —et il n’y a aucun doute qu’elles sont provocatrices—  je lui aurais dit, moi, s’il me l’avait demandé, de modérer ses propos.

 

(…)

 

Q. : Considérez-vous que l’identité allemande et que l’existence même de l’Allemagne sont en danger vu le taux de naissance beaucoup plus élevé que l’on constate dans les couches les plus défavorisées de la population, surtout chez les immigrés ?

 

HS : Non, je ne perçois pas ce danger pour le moment. Mais je dois vous avouer qu’au début des années 70, j’ai demandé à ce que l’on freine l’immigration en provenance d’aires civilisationnelles trop étrangères à l’Allemagne, que j’ai considéré une telle mesure comme nécessaire et que je l’ai favorisée. Lorsque j’ai pris les fonctions de chef de gouvernement, nous avions 3,5 millions de travailleurs étrangers, ici en Allemagne ; quand j’ai quitté les affaires, nous en avions encore 3,5 millions. Aujourd’hui, nous avons à peu près 7 millions d’étrangers en Allemagne.

 

Q. : Mais, vous, vous n’avez pas réclamé un frein à l’immigration au nom de principes tirés de la génétique…

 

HS : C’est juste. Tout cela n’a rien à voir avec l’hérédité et la génétique. Si vous prenez par exemple une personne issue d’une culture ouest-européenne, comme celles de l’Espagne ou du Portugal, et que vous la transplantez à Hambourg Eimsbüttel, et que ses enfants vont là à l’école, en règle générale, tout va bien, tout se passe dans le bon ordre.  Avec ceux qui nous arrivent de Pologne, tout se passe même fort bien. Mais si vous transplantez une personne qui nous arrive d’Afghanistan ou du Kirghizistan pour s’installer au même endroit, sans que ses enfants ne comprennent le moindre mot d’allemand, alors vous récolterez tôt ou tard de sérieux problèmes à l’école.

 

Q. : Depuis peu, nous avons une jeune collègue, que vous verrez souvent assise en face de vous lors des conférences politiques du vendredi. Ses parents sont arrivés de Turquie il y a près de quarante ans. Ils étaient ouvriers d’usine ; la mère ne connaissait quasiment pas un mot d’allemand et elle devait imiter le caquètement des poules chez le boucher pour signifier qu’elle voulait du poulet. Mais leur fille est devenue journaliste à « Die Zeit »…

 

HS : Je n’ai pas dit que cela devait irrémédiablement mal se passer. Bien au contraire. Il y a beaucoup de cas où l’intégration réussit. Mais il y a aussi beaucoup d’autres cas, où elle ne réussit pas du tout. C’était la raison pour laquelle j’avais fait en sorte qu’on mette un terme au recrutement des « travailleurs-hôtes », comme on disait alors, et qu’on leur offre davantage de possibilités de retour au pays. Il est vrai que ces travailleurs avaient été recrutés dans l’idée qu’ils étaient effectivement des « hôtes » et que tout hôte, un jour ou l’autre, rentrerait chez lui. Mais beaucoup d’entre eux, de fait, ne le désiraient pas.

 

Q. : Pourquoi personne n’a envisagé, à l’époque, que ces travailleurs resteraient ?

 

HS : Parce que tous les Espagnols ne sont pas restés ; beaucoup d’Italiens et de Portugais les ont imités. Dans la plupart des cas, ne sont restés que les gens qui provenaient de pays où, sur les plans économique et social, tout allait beaucoup plus mal qu’ici en Allemagne.

 

Q. : Vous voulez dire des Musulmans issus de Turquie…

 

HS : Par exemple, mais pas seulement de Turquie, aussi des anciennes républiques de l’ex-Union Soviétique, de l’actuelle Fédération de Russie ou de pays du Proche Orient, comme le Liban notamment. De tous ceux qui sont venus de ces pays, beaucoup ont aimé demeurer en Allemagne. Or on aurait parfaitement pu prévoir que leur intégration allait s’avérer difficile. En réalité, le problème fondamental est le suivant, et il est juste que l’on en discute dorénavant sur la place publique : nous, les Allemands, n’avons pas été capables d’assimiler ou d’intégrer sept millions d’immigrés. Nous n’avons pas réussi car nous n’avons pas fait suffisamment d’efforts et nous n’avons pas entrepris les démarches qu’il fallait entreprendre. Nous avons intégré une grande partie de ces travailleurs, certes, mais une autre partie d’entre eux, et une partie considérable, nous ne l’avons pas intégrée. Malheureusement. Ce n’est pas tant la faute de ces immigrés, comme on dit aujourd’hui. La faute principale incombe aux Allemands eux-mêmes. Et cette faute vient du fait que nous n’avons pas discuté de la chose. On peut dire de Sarrazin ce que l’on veut, il a fait mouche et a osé aborder un sujet qui était quasiment tabou jusqu’ici.

 

(extrait d’un entretien paru dans « Zeit Magazin », n°38/2010).

samedi, 18 septembre 2010

Renato del Ponte: Mes souvenirs de Julius Evola

Mes souvenirs de Julius Evola

Renato Del Ponte

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Renato del Ponte est une figure incontournable de l’évolisme européen. Fondateur du Centro studi evoliani à Gênes en 1969 et éditeur des revue Arthos, il anime aussi le Mouvement traditionaliste romain. Il nous a fait l’amitié de nous accorder l’entretien qui suit.

Question: Renato del Ponte, votre nom est étroitement lié à celui d’Evola, pourriez vous vous présenter à nos lecteurs et préciser ce qui vous a amené à Evola et quels ont été vos rapports avec lui?

Réponse: Je suis simplement une homme qui a toujours cherché à donner à sa propre vie, sur les plans existentiels, politiques et culturels, une ligne d’extrême cohérence. Il est normal que sur cette voie mon itinéraire ait rencontré celui d’Evola qui avait fait de la cohérence dans sa vie comme dans ses écrits son mot d’ordre. Naturellement pour des raisons conjoncturelles – Evola est né en 1898 et moi en 1944 – la rencontre physique n’a pu se produire que dans les dernières années de sa vie.

Les circonstances et les particularités de nos rapports sont développés en partie dans les courriers que nous avons échangé à partir de 1969 et jusqu’en 1973 (Ndlr: Édité dans le livre Julius Evola, Letttere 1955-1974, Edizioni La terra degli avi, Finale Emilia, 1996, pp. 120-155).

Il s’est toujours s’agit de rapports très cordiaux, emprunts pour ma part de la volonté de créer un réseau organisationnel qui fasse mieux connaître sa pensée en Italie et à l’étranger.

Q.: C’est vous qui avez déposé dans une crevasse du mont Rosé l’urne contenant les cendres d’Evola. Pourriez vous nous dire dans quelles circonstances ?

R.: C’est effectivement moi et d’autres amis fidèles qui avons assuré le transport et le dépôt des cendres d’Evola dans une crevasse du Mont Rosé à 4.200 mètres d’altitude, à la fin d’août 1974. Pour vous dire la vérité, je n’étais pas l’exécuteur testamentaire des dernières volontés d’Evola, mais je lui avais promis ainsi qu’à notre ami commun Pierre Pascal, que je serais vigilant à ce que les volontés concernant sa sépulture soient correctement exécutées.

Comme le craignait Evola, il y eut de graves et multiples négligences qui m’obligèrent a intervenir et a procéder à l’inhumation avec l’aide d’Eugène David qui était le guide alpin d’Evola lorsqu’il fit ses ascensions du Mont Rosé en 1930. Il m’est impossible de raconter toutes les péripéties, certaines particulièrement romanesques, mais vous pouvez vous reporter à l’ouvrage collectif Julius Evola: le visionnaire foudroyé (Copernic, Paris, 1979) ou certaines sont relatées.

Q.: Vous animez le Mouvement traditionaliste romain. Qu’est-ce ?

R.: Le Movimento tradizionalista romano est une structure essentielle­ment culturelle et spirituelle qui se propose de mieux faire connaître les caractéristiques de la Tradition romaine, laquelle n’est pas une réalité historique définitivement dépassée, mais une entité spirituelle immortel­le capable d’offrir encore aujourd’hui un modèle opératif existentiel et une orientation religieuse basée sur ce que nous définissons comme la «voie romaine des Dieux». Dans ce but, le mouvement agit sur un plan interne et communautaire, très discret, voué à la pratique de la pietas, et sur un plan externe voué à faire connaître la thématique traditionnelle de la romanité au travers de manifestes, de livres – par exemple ma Religione dei Romani (Rusconi, Milano, 1992) qui a obtenu un important prix littéraire – et de revues. Pour le reste des particularités vous devez vous référer à mon intervention faites à Paris en février dernier au colloque de L’originel sur le paganisme et qui sera probablement publiée en français dans la revue Antaios.

Q.: Pour certains, la période du groupe Ur est la plus intéressante d’Evola. Il nous semble qu’elle mélangea politique para-fasciste, occultisme et art moderne dans un étonnant et fascinant cocktail. Est-ce exact? Comment analyser cette phase de la vie d’Evola?

R.: Je ne peux pas parler de manière brève du groupe d’Ur et de ses activités. Je vous renvoie à mon livre Evola e il magico Gruppo di Ur (Sear Edizioni, Borzano, 1994).

Je me limiterai à dire gué c’est la période la plus engagée de la vie d’Evola.

Cela parce que ce fut la période où certains courants ésotériques, qui pour une bonne part se revendiquaient de la tradition romaine, avaient quelques espérances concrètes d’influencer le gouvernement de l’Italie.

Mais aussi cette phase de la vie d’Evola peut être interpétée comme une tentative, caractéristique de toute son existence, de «procéder autre­ment», de dépasser les limites des forces qui conditionnent l’existence, pour créer quelque chose de nouveau, ou de meilleur, de revenir à des conditions plus «normales» d’une vie selon la Tradition.

Q.: Comment concilier évolisme et engagement politique?

R.: Si vous me parlez de possibles actions politiques d’orientation une fâché plus limitée, réservée à une minorité qui est de tenter d’influencer certains groupes ou certaines ambiances, mais au niveau individuel et sans espérance concrète de publication de revues et d’édition.

Nous allons bientôt recommencer à publier Arthos à un rythme trimestriel. Il est naturel que l’initiative italienne soit accompagnée par la naissance de groupes et de mouvements analogues en Europe et surtout en France où l’œuvre d’Evola est bien connue. L’année a venir verra sûrement la réalisation d’initiatives concrètes dont vous serez bien sur informés puisque nous comptons naturellement sur votre active contri­bution.

Note
Article tiré de «Lutte du Peuple», numéro 32, 1996.

lundi, 13 septembre 2010

Entretien avec Jean Haudry

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

 

Entretien avec Jean Haudry

 

propos recueillis par Xavier Cheneseau

 

1- Professeur à l'Université Lyon III, vous dirigez «l'Institut d'Etudes Indo-euro­péennes». Pouvez-vous nous dire en quelques mots qui étaient les Indo-Euro­péens?

 

jean-haudry.pngBien que je ne dirige plus l'Institut (mon ami Allard m'a remplacé dans cette fonc­tion), je continue à me consacrer aux études indo-européennes. Les Indo-Euro­péens ne peuvent se définir, dans un pre­mier temps, que comme «locuteurs de l'in­do-européen reconstruit», comme des in­do-européanophones comme il existe des «francophones», etc. C'est seulement dans un deuxième temps, à partir de la recons­truction (fondée en grande partie sur celle de la langue) de la civilisation matérielle et de la culture, en particulier de la «tra­dition indo-européenne» qu'on peut parler de «peuple indo-européen», et chercher à le situer dans l'espace et dans le temps, c'est-à-dire par rapport aux sites archéo­logiques actuellement connus.

 

2- Peut-on parler d'unité des Indo-Euro­péens? A quand remonte celle-ci? Comment s'est formée la communauté primitive?

 

On peut sans aucun doute parler d'une «période commune» de l'Indo-Européen et donc de ses locuteurs les Indo-Européens; sinon, la notion même d'indo-européen, lan­gue commune dont sont issues les lan­gues indo-européennes par un pro­ces­sus de dialectalisation, serait vide de sens. Cette période commune se situe au Néo­lithique et se termine avec ce que cer­tains préhistoriens nomment «l'âge du cuivre»: le nom du «cuivre» (*áyes-)  figure en effet dans le vocabulaire reconstruit, tandis qu'on n'y trouve ni le nom du bronze, ni celui du fer. La localisation la plus pro­bable du dernier habitat commun est le site dit des «Kourganes», en Ukraine, aux Vième et IVième millénaires. Quant à la formation de l'ethnie, je persiste à croire, après E. Krause, Tilak, et quelques au­tres, qu'elle s'est effectuée dans les ré­gions circumpolaires arctiques. Mais, en l'absence de confirmation archéologique, ce n'est là qu'une hypothèse, et qui ne fait pas, tant s'en faut, l'unanimité.

 

3- Existe-t-il un type physique spécifique­ment indo-européen?

 

La réponse à cette question ne peut être que «statistique»: aucune langue n'est liée par nature et définitivement à une ethnie ou à une race. Mais de même que la grande majorité des locuteurs des langues bantu sont de race noire, et que la grande majorité des locuteurs du japonais sont de race jaune, on peut affirmer sans ris­quer de se tromper que la grande majo­rité des locuteurs de l'indo-européen étaient de race blanche. On peut même préciser, en se fondant sur la tradition indo-européenne, qui associe constam­ment le teint clair, les cheveux blonds et la haute stature à son idéal social et mo­ral, que la couche supérieure de la po­pu­lation, au moins, présentait ces trois ca­ractères. Les documents figurés de l'é­poque historique confirment cette hypo­thèse; mais l'archéologie préhistorique, sans l'infirmer positivement, ne la con­firme pas non plus: il semble bien que les migrations indo-européennes n'aient pas été des mouvements massifs de popula­tions. Par là s'explique l'apparente contra­diction entre les deux points de vue: un petit groupe peut véhiculer et trans­met­tre l'essentiel d'une tradition, mais il ne laisse guère de traces anthropologiques de sa présence sur le terrain.

 

4- Quelle était la vision du monde des Indo-Européens?

 

Le formulaire reconstruit (plusieurs cen­taines de formules) exprime manifeste­ment les idéaux et les valeurs d'une «so­ciété héroïque», un type d'organisation so­ciale pré-féodale bien connu, qui se pro­longe à l'âge du bronze et même au début de l'âge du fer. On peut supposer qu'elle était déjà constituée en ce qui concerne les Indo-Européens, au Néolithique final (à l'«âge du cuivre»). Dans cette «société héroïque», la gloire et la honte sont les deux forces principales de pression (et de répression) sociales. Il s'agit de ce que les ethnologues nomment shame culture,  par opposition aux guilt cultures, dans les­quelles ce rôle revient au sens du péché. Gloire et honte affectent à la fois l'in­dividu (qui, par la «gloire impérissable» atteint la forme supérieure de la survie) et sa lignée toute entière, ascendants et descendants. D'où une inlassable volonté de conquête et de dépassement de soi, et des autres.

 

5- Que signifie le concept «d'idéologie tri­partite»? Avait-il un objectif précis?

 

On nomme «idéologie tripartite» la ré­par­tition de l'ensemble des activités cosmi­ques, divines et humaines en trois sec­teurs, les «trois fonctions» de souverai­neté magico-religieuse, de force guerrière et de production et reproduction, mise en lu­mière par Georges Dumézil. On ne sau­rait parler d'un «objectif» quelconque à propos de cette tripartition: il s'agit en ef­fet d'une part (essentielle) de la tra­di­tion indo-européenne, et non d'une cons­truc­tion artificielle, comme celles des «idéo­logues». C'est pourquoi le terme d'«i­déologie» ne me paraît pas très heureux; il conduit à cette confusion, quand on n'a pas présente à l'esprit la définition qu'en a donné Dumézil.

 

6- «La révolution française» semble avoir fait disparaître la conception trifonction­nelle de la société, êtes-vous d'accord avec cette vision des choses?

 

Est-il sûr que la conception trifonction­nelle était vivante dans la société d'An­cien Régime finissant? J'en doute. L'a­bolition des trois ordres, qui repré­sen­taient effectivement une application du mo­dèle trifonctionnel n'a fait qu'entériner un changement de mentalité et un chan­gement dans les réalités sociales. La no­blesse avait depuis longtemps cessé d'être une caste guerrière et privée de ses der­niers pouvoirs politiques par Louis XIV, il ne lui restait que des «privilèges» dont la justification sociale n'était pas évidente. On peut à l'inverse estimer que la Révo­lution a donné naissance à une nouvelle caste guerrière sur laquelle Napoléon Bo­naparte a tenté d'édifier un nouvel ordre social.

 

7- Est-il possible d'adapter une nouvelle tripartition à nos sociétés post-indus­trielles?

Je ne crois pas que la tripartition fonc­tionnelle représente un idéal éternel et intangible, tel le dharma  hindou. La fonc­tion guerrière a perdu aujourd'hui une grande part de sa spécificité, écartelée entre la science et la technique d'une part, l'économie de l'autre. Quant à la fonc­tion magico-religieuse, on peut se de­mander qui en est aujourd'hui le repré­sentant. Elle se répartit sur un certain nombre d'organisations (et une multitude d'individus) dont on ne peut attendre une régénération de nos sociétés, bien au con­traire. Mais nombre de sociétés indo-eu­ropéennes anciennes n'étaient pas orga­nisées sur le modèle trifonctionnel. Seuls, les Indo-Iraniens et les Celtes, en dé­ve­loppant une caste sacerdotale, ont réalisé à date ancienne une société trifonction­nelle. Or, ce ne sont pas les peuples qui ont le mieux réussi dans le domaine po­litique.

 

8- Est-ce à dire que cette nouvelle triparti­tion puisse être un élément de renouveau de nos civilisations?

 

Un renouveau de nos civilisations (je di­rais plutôt: une régénération de nos peu­ples) ne saurait venir d'un retour à un type d'organisation politique, économique et social des périodes médiévales ou pro­to­historiques. Je sais bien qu'il existe dans nos sociétés des gens qui ont pour idéal l'«âge d'or» de la horde primitive vivant de cueillette. L'archaïsme et la régression sont des phénomènes typiques des pé­rio­des de décadence; ils sont la contre-partie sociale de l'infantilisme sénile. Le renou­veau ne peut venir que d'un retour aux for­ces vives de la tradition, c'est-à-dire aux idéaux et aux valeurs qui ont fait le succès historique des peuples indo-euro­péens, qui a abouti à l'émergence du mon­de civilisé, industrialisé et développé. Il s'agit d'abord de la volonté d'être, dans le monde et dans la durée: d'aimer la vie, de la transmettre, de lutter contre toutes les formes de mort, de décadence, de pourri­ture. Il s'agit aussi de la volonté d'être soi, de maintenir la différence capitale en­tre le sien et l'étranger. Ces deux idéaux ne sont d'ailleurs pas spécifiques: ils sont communs à tout groupe humain qui sou­haite exister comme tel et avoir un ave­nir. Nos ancêtres indo-européens ont vou­lu davantage: on constate dans leur tra­dition une volonté d'être «plus que soi», de se dépasser, de conquérir, et pas seule­ment des territoires, d'accéder à cette sur­humanité que certains d'entre eux —les Grecs— ont nommés «héroïque» et que tous, même sans la nommer, ont connue. C'est dans cette perspective que le modèle trifonctionnel peut être un élément de re­nouveau: comme échelle de valeurs, et non comme principe d'organisation socia­le.

Professeur Haudry, nous vous remercions de nous avoir accordé cet entretien.

dimanche, 11 juillet 2010

Le Traité du Trianon fut une catastrophe pour l'Europe entière!

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Le Traité du Trianon fut une catastrophe pour l’Europe entière!

 

 

Entretien avec Gabor Vona, président du parti “Jobbik” sur les conséquences du Traité du Trianon et sur la situation des minorités hongroises en Europe centrale

 

Q. : Monsieur Vona, il y a 90 ans, les puissances signaient le traité du Trianon. Quelles sont les conséquences de ce Traité sur la Hongrie actuelle ?

 

GV : Laissez-moi d’abord vous expliquer la terminologie de cette question épineuse : d’après moi, tout traité est le suite logique de négociations ; or ce qui s’est passé après la seconde guerre mondiale dans le château du Trianon à Versailles relève du diktat et non de négociations ; les ennemis de la Hongrie ont décidé du sort de notre pays en tablant sur des mensonges, des chiffres falsifiés et de faux rapports. L’Europe centrale, et avec elle le Royaume de Hongrie tout particulièrement, a été morcelée par la faute d’une coalition de superpuissances à courtes vues et par un groupe d’Etats avides, calculateurs et frustrés, que nous connaissons depuis sous le nom de « Petite Entente ».

 

Pour les Hongrois, le Traité du Trianon est synonyme d’une tentative de liquider purement et simplement le peuple hongrois. La perte de régions stratégiquement, culturellement et économiquement importantes et de leurs habitants signifie une perte démographique, culturelle et économique qui se ressent encore aujourd’hui dans notre pays, pour ne rien dire des dommages d’ordres psychologique et spirituel que le Traité du Trianon à infligé à notre conscience collective.

 

Mais les résultats du traité du Trianon n’ont pas été une tragédie que pour les seuls Hongrois : ce fut une tragédie pour l’Europe entière. Parce que le Traité du Trianon et les autres diktats imposés par les vainqueurs dans la région parisienne ont déstabilisé l’Europe centrale et orientale et ont été la cause de conflits non encore résolus dans la région. Tant l’effondrement général de l’ex-Yougoslavie dans la violence que la séparation pacifique de la Tchécoslovaquie en deux entités étatiques prouvent que les assises de ce Traité du Trianon étaient insensées.

 

Q. : La Hongrie a perdu plus des deux tiers de son territoire et plus de trois millions de Hongrois ont été placés sous l’autorité d’Etats voisins. Dans quelle mesure cette tragédie nationale a-t-elle transformé la mentalité des Hongrois ?

 

GV : Immédiatement après la tragédie que fut le Traité du Trianon, la Hongrie est parvenue à se consolider très rapidement pendant l’ère chrétienne-conservatrice de l’Amiral Miklos Horthy. L’ère Horthy a permis de libérer des énergies positives pour le bien de la nation hongroise : en un laps de temps très bref, la Hongrie a réussi à reconstruire ses infrastructures, son industrie, son armée et ses forces de police. Le régime de Horthy jeta les bases d’une économie saine et efficace, soutenue par l’une des monnaies les plus stables d’Europe. Ce régime mit également sur pied un système éducatif solide et apte à soutenir la concurrence. La vie culturelle était florissante. Sous Horthy, la Hongrie avait une élite nationale impressionnante et bien formée, qui poursuivait un objectif : réviser les clauses du diktat injuste du Trianon et qui était prête à défendre les minorité ethniques magyares au-delà des nouvelles frontières de l’Etat hongrois résiduaire en menant une diplomatie offensive et même, s’il le fallait, en faisant appel aux forces armées. L’objectif déclaré, réunifier la nation, a pu être atteint, du moins partiellement. Mais depuis cette époque, nous, Hongrois, n’avons plus d’élite nationale. Pendant les cinq décennies de communisme, nous avions une élite d’obédience internationaliste et, aujourd’hui, nous avons une élite qui croit à l’idéologie de la globalisation. Aucune de ces élites n’a été ou n’est capable ou désireuse de défendre les intérêts nationaux. Il faut ajouter que ces « élites » ont eu la pire influence qui soit sur la mentalité actuelle du peuple hongrois.

 

Q : Récemment, le Parlement hongrois a décidé de faire passer une loi sur la « double citoyenneté » et cela a conduit à des tensions avec la Slovaquie. Comprenez-vous les critiques émises par les Slovaques ?

 

GV : Non. Mais je ne crois pas qu’il s’agit, en ce cas précis, d’une mécompréhension du problème. la Slovaquie, en effet, se comporte comme un adolescent frustré, qui approche de ses vingt ans, développe un complexe d’infériorité et réagit de manière disproportionnée face à une loi qui est entièrement au diapason de ce que demandent le droit des gens, les conventions réglementant les droits de l’homme et les principes du Conseil de l’Europe. Il y a quelques semaines, des élections ont eu lieu en Slovaquie et, comme vous l’aurez appris, la rhétorique anti-hongroise s’y est révélée capable de rapporter le maximum de voix. Ce n’est dès lors pas un miracle qu’aucun parti slovaque n’a pu se soustraire à ce chœur anti-hongrois…

 

Q. : Plus d’un demi million de Hongrois ethniques vivent en Slovaquie où, l’an passé, le Parlement a fait passer la loi dite « de protection de la langue slovaque ». Dans quelle mesure celle loi discrimine-t-elle les Hongrois ? Pouvez-vous nous expliquer quelle est la situation de la minorité hongroise en Slovaquie ?

 

GV : La loi sur la langue slovaque a pour noyau que tous les citoyens, pour toutes les questions administratives, ne peuvent utiliser que la seule langue slovaque ; ensuite toute infraction à cette loi est passible de sanctions sévères, imposées par l’Etat. Comme les Hongrois sont la seule minorité importante en Slovaquie, il est clair que cette loi vise principalement les Hongrois ethniques. Cette loi correspond parfaitement à la rhétorique anti-hongroise récurrente et aux pratiques législatives habituelles du gouvernement slovaque. Pour comprendre l’absurdité de cette loi, il faut savoir que la majorité des Hongrois ethniques (près de 10% de la population) vit dans le sud de la Slovaquie dans une région bien délimitée. Dans cette région, on rencontre très souvent des villes ou des villages entièrement hongrois où tous parlent hongrois, y compris les fonctionnaires de l’hôtel de ville ou de l’administration municipale, de la poste ou de la police. Par cette loi, un Hongrois ethnique est désormais contraint d’utiliser la langue slovaque pour s’adresser à un autre Hongrois ethnique qui, lui, travaille, dans un bureau de poste de village où, plus que probablement, tous les clients de la journée parlent hongrois. Tout cela se passe au 21ième siècle, dans l’Union Européenne, avec l’accord tacite de l’UE…

 

Q. : L’UE garde le silence sur le traitement infligé aux Hongrois ethniques de Slovaquie. Ce comportement est-il objectif ?

 

GV : Parmi les plus importantes demandes formulées au moment où la Hongrie adhérait à l’UE, il y avait celle qui réclamait de celle-ci qu’elle ne tolèrerait pas les discriminations infligées aux Hongrois ethniques. Ensuite, il y avait une demande plus claire encore : l’UE devait accepter la disparition éventuelle de certaines frontières, de façon à ce qu’un peuple puisse, le cas échéant, se réunifier. Nous avons beaucoup entendu parler des « valeurs communes » de l’Europe, lesquelles rejetaient les discriminations et les politiques de deux poids deux mesures, pratiquées sur la base de la race ou de l’ethnie. Maintenant, nous entendons très peu d’échos de ces « valeurs », censées être contraignantes. L’Europe se tait lorsque des Hongrois ethniques sont molestés parce qu’ils parlent leur langue maternelle, lorsque des supporters du club de football de Dunaszerdahely sont attaqués brutalement par la police ou quand une loi discriminante se voit ratifiée par le Parlement slovaque.

 

Q. : Et quelle est la situation des minorités hongroises en Roumanie, en Serbie et en Ukraine ?

 

GV : Dans chacun de ces pays, la situation est différente, relève d’une histoire et d’un contexte différents. Toutefois, entre tous ces pays, un point commun : la volonté du gouvernement en place de contraindre les minorités hongroises, qui vivent sur leur territoire, à s’assimiler.

 

Q. : Jusqu’en 1921, le Burgenland, aujourd’hui autrichien, appartenait à la Hongrie. Pourquoi n’y a-t-il pas de tensions entre l’Autriche et la Hongrie au sujet de ce territoire ? Est-ce dû à la « communauté de destin » partagée par les vaincus de la première guerre mondiale ?

 

GV : Vaincus ? Pour ce qui concerne le Burgenland, l’Autriche appartient plutôt au camp des vainqueurs, puisqu’elle a reçu un territoire auparavant hongrois. Du point de vue hongrois, cela paraît étrange d’avoir perdu un territoire au profit de l’Autriche, après que nous ayons combattu côte à côte pendant une guerre. Je pense que la raison pour laquelle le Burgenland ne constitue pas un objet de tension entre nos deux Etats, c’est que l’Autriche ne considère pas la minorité hongroise comme un danger pour l’unité du peuple et de l’Etat. Malheureusement, l’hostilité aux Hongrois ethniques que l’on perçoit en Slovaquie, en Roumanie, en Serbie et en Ukraine est largement répandue.

 

Q. : Dans l’UE les frontières entre Etats perdent de jour en jour plus d’importance. L’UE ne pourrait-elle pas édulcorer les conséquences du Diktat du Trianon ?

 

GV : Non. La rhétorique de l’UE et de ses partisans ressemble très fort aux professions de foi internationalistes des communistes. Le socialisme, bien qu’axé sur une autre logique utopique, cherche, lui aussi, à annihiler l’Etat national. Si l’UE pouvait constituer une solution, alors les relations entre la Hongrie et ses voisins, également membres de l’UE, devraient sans cesse s’améliorer. Mais nos expériences indiquent exactement le contraire…

 

Q. : Pensez-vous que soient possibles une révision du Diktat du Trianon et une réunification des territoires peuplés de Hongrois dans les Etats limitrophes de la Hongrie actuelle avec celle-ci ?

 

GV : Pour que cela advienne, il faut que la Hongrie se dote d’abord d’une véritable élite nationale, au service des intérêts du peuple. C’est là une condition incontournable pour la renaissance spirituelle de notre pays.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°24/2010 ; propos recueillis par Bernhard Tomaschitz).

dimanche, 04 juillet 2010

Le élites di Washington sono molto préoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

Le élites di Whashington sono molto preoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

di Pepe Escobar - Salvador Lopez Arnal

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]





Lentamente ma energicamente il popolo del Sud si organizza e si prepara politicamente non solo per frenare l'imperialismo militarista e bellicista degli Stati Uniti ma anche per mettere fine all'ipocrisia dell'abuso di dominazione neo-coloniale da parte delle potenze industriali europee, con le loro addormentate società civili. Frenare le ingiustizie a cui sono sottomessi numerosi popoli in pieno ventunesimo secolo, rispetto e mutua reciprocità sono i nuovi dogmi. In questa intervista, il nostro collega Pepe Escobar analizza il modo in cui alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Turchia o l'India, stanno organizzando una nuova era di relazioni armoniche e rispettose fra i popoli.

Domanda: in un recente articolo pubblicato da Asia Times Online [1], tradotto da Sinfo Fernández di Rebelión, lei parlava della dominatrice. Mi permetta di complimentarmi per la sua trovata terminologica. Perché lei crede che la Segreteria di Stato statunitense (Hillary Clinton) si adatti bene a questo termine? Non sono migliorate le forme di politica estera degli Stati Uniti nell'amministrazione Obama?

Pepe Escobar: Hillary è una dominatrice nel senso che è capace di soggiogare tutto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU invece di ammettere il fallimento della sua diplomazia. Forse lo ha imparato con Bill... O forse sono tutti masochisti.

No, non è così. La ragione principale è che la Cina e la Russia si lasciarono dominare. Cina e Russia decisero che era meglio lasciare la stridula Hillary dominare il palco per qualche giorno, e lavorare in silenzio per raggiungere il loro obiettivo: porre sanzioni con il massimo sentore “light” su Teherán. Per ciò che riguarda l'Iran, gli Stati Uniti sono ciechi, lo vedono tutto rosso. Lo stesso può dirsi in relazione a Israele, lo vedono tutto bianco celestiale.

Domanda: il nodo centrale del suo recente articolo – «Irán, Sun Tzu y la dominatrix» [2] [
Traduzione Comedonchisciotte N.d.r] – è l'accordo fra le diplomazie di Brasile, Turchia e Iran sul tema dello sviluppo nucleare di quest'ultimo Paese. In cosa consiste questo accordo?

Pepe Escobar: è essenzialmente lo stesso accordo proposto dagli stessi statunitensi nell'ottobre del 2009. La differenza sta nel fatto che, secondo la proposta del 2009, l'arricchimento dell'uranio si realizzava in Francia e in Russia e ora, attraverso l'accordo, si effettuerà in Turchia.

La differenza fondamentale è nel metodo. Turchia e Brasile si sono comportate con diplomazia, senza polemiche e rispettando le ragioni iraniane. Altro dettaglio fondamentale: tutto quello che hanno fatto era già stato discusso in dettaglio a Washington. Quando è stato presentato un risultato concreto, quando è stato raggiunto l'accordo con l'Iran, Washington, mi permetta la metafora bellica, ha sparato loro un colpo nelle costole.


Domanda: non è una novità nella diplomazia internazionale che Brasile e Turchia, due paesi non contrapposti agli Stati Uniti, si mettano in gioco in questa faccenda? Perché lei crede che abbiano scommesso su questa strategia autonoma? Cosa vincerebbero? L'Iran non è forse lontano, molto lontano, dal Brasile?

Pepe Escobar: ogni Paese ha i suoi motivi per espandere la propria mappa geopolitica. La Turchia si vuole proiettare come attore eccezionale, che conta davvero in Medio Oriente. Ne consegue una politica diciamo post-Ottomana, organizzata dal Ministro delle Relazioni Estere, il professor Ahmet Davutoglu.

Anche il Brasile, con una politica molto intelligente di Lula e del suo ministro Celso Amorim, vuole posizionarsi come mediatore onesto nel Medio Oriente. Il Brasile fa parte della BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che secondo me è attualmente il vero contro-potere all'egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Se circa due settimane fa ha discusso formalmente a Brasilia la sua adesione, la Turchia sarebbe parte del gruppo, il quale sarebbe quindi chiamato BRICT. Questa è la nuova realtà nella geopolitica globale. E, senza dubbio, le vecchie élites di Washington sono diventate livide.

Domanda: non sembra, come lei stesso segnalava, che l'accordo abbia suscitato entusiasmo nella Segreteria di Stato né nei governi europei. Perché? Vorrebbero che la strada diplomatica fallisca per proseguire con le loro sanzioni e condurci ad uno scenario bellico? Se è così, cosa guadagnerebbero con esso? Non ci sarebbero troppi fronti aperti allo stesso tempo?

Pepe Escobar: dalla prospettiva della politica interna degli Stati Uniti, quello che interessa a Washington è cambiare il regime. Ci sono almeno tre tendenze in lizza. I “realisti” e la sinistra del Partito Democratico che sono a favore del dialogo; l'ala del Pentagono e dei servizi di intelligence vogliono almeno delle sanzioni, e i repubblicani, i neocolonialisti, le lobby di Israele e la sezione Full Spectrum Dominance del Pentagono vogliono un cambio di regime sia come sia, inclusa la strada militare, se fosse necessario.

I governi europei sono cagnolini da compagnia di Bush o di Obama. Non servono a niente. Ci sono voci autorevoli in alcune capitali europee e a Bruxelles. Sanno che l'Europa ha bisogno del petrolio e del gas iraniano per non essere ostaggi di Gazprom. Ma sono una minoranza.

Domanda: lei crede che il Governo iraniano aspiri, oltre le sue dichiarazioni, a possedere un armamento nucleare? Per farsi rispettare? Per piegare Israele? Per attaccarla? Pakistan nucleare, India nucleare, Israele nucleare, Iran nucleare. Tutta questa zona non diventerebbe un'autentica polveriera?

Pepe Escobar: sono stato molte volte in Iran e mi sono convinto di quanto segue: il regime iraniano può causare rabbia ma non è un sistema suicida. Il leader supremo, in diverse occasioni, ha annunciato una fatwa affermando che l'arma nucleare è “non-islamica”. Le Guardie Rivoluzionarie supervisionano il programma nucleare iraniano, senza dubbio, ma sanno molto bene che le ispezioni e il controllo della IAEA, Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, sono molto seri. Se punteranno a sviluppare una bomba atomica rudimentale, saranno scoperti e denunciati immediatamente.

Di fatto, l'Iran non ha bisogno di alcuna bomba atomica come elemento di dissuasione. Gli basta un arsenale militare high-tech, di tecnologia sempre più avanzata. L'unica soluzione giusta sarebbe una denuclearizzazione totale del Medio Oriente che Israele, ovviamente, con i suoi più di duecento missili nucleari, non accetterà e mai rispetterà.

Domanda: che ruolo gioca la Russia in questa situazione? Lei ricordava che l'impianto nucleare di Bushehr fu costruito dalla Russia, che lì si stanno si stanno svolgendo le ultime prove e che probabilmente si inaugurerà quest'estate.

Pepe Escobar: Bushehr deve essere inaugurata in agosto, dopo molti ritardi. Per la Russia l'Iran è un cliente privilegiato in termini nucleari e degli armamenti. Ai russi interessa che l'Iran continui in questo modo, che la situazione non cambi. Non vogliono l'Iran come potere nucleare militare. È una relazione con molti nodi, ma soprattutto commerciale.

Domanda: nel suo articolo lei cita il vecchio generale e stratega Sun Tzu. Ricorda un aforisma del filosofo cinese: “lascia che il tuo nemico commetta i suoi errori e non correggerli”. Lei afferma che Cina e Russia, maestri strateghi quali sono, stanno applicando questa massima rispetto agli Stati Uniti. Che errori stanno commettendo gli USA? Sono tanto goffi i suoi strateghi? Non hanno per caso letto Sun Tzu?

Pepe Escobar: tutti gli statunitensi ben educati nelle università hanno letto Sun Tzu. Altra cosa è saperlo applicare. Cina e Russia, in una strategia comune ai BRIC, si accordarono per lasciare gli Stati Uniti con l'illusione di condurre le sanzioni, nello stesso tempo in cui lavorarono e lavorano per minarle al massimo e approvare in ultima istanza un pacchetto di sanzioni molto “light”. Russia e Cina vogliono stabilità in Iran con il beneficio delle loro importanti relazioni commerciali. Nel caso della Cina, tenga in conto che l'Iran è un grande fornitore di gas e questo riguarda la massima sicurezza nazionale.

Domanda: siamo, lei riassume, in una situazione in cui sul tavolo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica c'è un accordo di interscambio approvato dall'Iran, mentre nelle Nazioni Unite è in marcia un'offensiva di sanzioni contro l'Iran. Lei si domanda di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”. Io le domando: di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”?

Pepe Escobar: la vera “comunità internazionale”, i BRIC, i paesi del G-20, le 118 nazioni in sviluppo del Movimento dei non-allineati, insomma, tutto il mondo in sviluppo, sta con Brasile, Turchia e la loro diplomazia di non-opposizione. Solo gli Stati Uniti vogliono sanzioni e i suoi patetici, ideologici cani da compagnia europei.

Domanda: lei afferma anche che l'architettura della sicurezza globale, “vigilata da un pugno di temibili guardiani occidentali auto-nominati”, è in coma. L'Occidente “atlantista” affonda come il Titanic. Non esagera? Non confonde i suoi desideri con la realtà? Non c'è il pericolo reale che l'affondamento distrugga quasi tutto prima di affondare definitivamente?

Pepe Escobar: io ero già di fronte, con l'orrore di tutto il mondo, come per ora poter almeno credere nella possibilità di un nuovo ordine, delineato soprattutto dal G-20 e dai paesi del BRICT. Inclusa la T finale.

Il futuro economico è dell'Asia e il futuro politico è dell'Asia e delle grandi nazioni in via di sviluppo. È chiaro che le élites atlantiste rinunciano al loro potere solo dopo aver visto i propri cadaveri distesi per terra. Il Pentagono continuerà con la sua dottrina di guerra infinita. Però prima o poi non avrà come pagarla. Non nego che sia una possibilità che gli USA, in un futuro prossimo, sotto l'amministrazione di un pazzo repubblicano di estrema destra, entri in un periodo di guerra allucinata, sconvolta. Se così fosse, sarà senza dubbio la sua caduta, la caduta del nuovo Impero Romano.

Domanda: quale forte lobby degli USA è a favore della guerra infinita a cui si è appena riferito? Chi sostenta e finanzia questa lobby?

Pepe Escobar: La guerra infinita è la logica della Full Spectrum Dominance, la dottrina ufficiale del Pentagono, che include “l’encirclement” di Cina e Russia, la convinzione che questi paesi non possano emergere come ficcanaso e competitori degli USA, e inoltre fare tutti gli sforzi per controllare o almeno vigilare Eurasia. È la dottrina del Dr. Strangelove [3], però è anche la mentalità dei dirigenti militari statunitensi e della maggioranza del suo establishment. Il complesso industrial-militare non ha bisogno dell'economia civile per sostentarsi. Ha in elenco un'enorme quantità di politici e tutte le grandi corporazioni.

Domanda: lei parla della dottrina del Dr. Zbigniew “conquisteremo l'Eurasia”. Un'altra trovata, mi permetta un altro complimento. Il vecchio assessore alla sicurezza nazionale, lei segnala, sottolineò che “per la prima volta in tutta la storia umana, l'umanità si è svegliata politicamente -questa è una nuova e totale realtà- , una cosa mai successa prima”. Secondo lei è così? Che parte dell'umanità addormentata si è svegliata?

Pepe Escobar: per le élites statunitensi il dato essenziale è che Asia, America Latina e Africa stanno intervenendo politicamente nel mondo in un modo impensabile durante il colonialismo e che la decolonizzazione è, per loro, un incubo senza fine. Come dominare chi ora sa come comportarsi per non essere dominato di nuovo? È una domanda basilare.

Domanda: Washington, profondamente unilaterale, lei segnala, non esita a puntare l'indice fino al più vicino dei suoi amici. Perché? Sono per caso l'incarnazione dell'Asse del Male? Può essere raggiunta l'egemonia con procedimenti così poco gentili? Fino a quando?

Pepe Escobar: Non si può sottovalutare la crisi statunitense. È totale: economica, morale, culturale e politica. Ed anche militare perché furono distrutti in Iraq e sono al limite di un’umiliante sconfitta totale in Afganistan. Il nuovo secolo americano morì già nel 2001. L'11 settembre, oggi, si può interpretare come un messaggio apocalittico di fine.

Domanda: ma qual è uno degli attori principali della politica statunitense nel Vicino Oriente? Israele è addormentato? Quali sono i piani dei bulli di Gaza? [4]

Pepe Escobar: Israele si è convertito in quello che io chiamo “briccone” [birbante, o stato villano]. Sparta paranoica, etno-razzista, che ha la responsabilità della macchia profonda dell'apartheid. Israele sarà ogni volta più isolata dal mondo reale, protetta solo dagli USA, di cui è uno Stato-cliente. E il suo incubo, come se si trattasse di un film horror hollywoodiano, sarà il ritorno di ciò che è stato represso: la storia gli farà pagare per tutto l'orrore che ha perpetrato e continua a perpetrare contro i palestinesi.

Domanda: che opinione ha dell'azione di Israele dello scorso 30 maggio? Che senso può avere un attacco a dei pacifisti solidali con Gaza?

Pepe Escobar: fa parte della stessa logica di sempre. Abbiamo sempre ragione; quelli che sono contro le nostre politiche sono terroristi o antisemiti. Ora Israele è nella fase di difendere l'indifendibile: il blocco di Gaza.

È chiaro che ora tutto il mondo lo sa e non lo potrà più ingannare con le sue bugie, la Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele. Ma dubito, come nel caso degli Stati Uniti, che questa volta siano capaci di imparare la lezione.

Pepe Escobar [foto accanto al titolo N.d.r.], analista geopolitico. È autore di «Globalistan: How the Gbalizad World is Dissolving into Liquid War» (Nimble Books, 2007) e di «Red Zone Blues: a shapshot of Baghdad during the surge». Recentemente ha pubblicato «Obama does Globalistan» (Nimble Books, 2009), un libro che merita di essere tradotto (in spagnolo) con urgenza.

NOTE

[1] Fonte:
http://www.atimes.com/atimes/Middle...

[2]
http://www.rebelion.org/noticia.php..., 27 maggio 2010.

[3] Il film di S. Kubrick il cui titolo in italiano è “il Dottor Stranamore”, uno dei film preferiti di Manuel Sacristán.

[4] La domanda è stata formulata prima dell'attacco alla Flotilla della libertà e solidarietà. L'intervista termina con una domanda sull'attacco. “La Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele”, afferma Escobar.

Titolo originale: ""LA GUERRA INFINITA ES LA LÓGICA DE LA DOCTRINA OFICIAL DEL PENTÁGONO”"

Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107156
04.05.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GABRIELLA REHO
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


[Truppe statunitensi sparse per il mondo nel tentativo di ottenere una dominazione militare, oltre che economica. Il caso iracheno è esemplare. Si tratta di un’invasione per il petrolio, con il pretesto di difendersi da possibili armi nucleari che non sono mai state trovate.]

lundi, 28 juin 2010

Entretien avec Christiane Pigacé

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Entretien avec Christiane Pigacé

propos recueillis par Jürgen Hatzenbichler et Helena Pleinert

Athenabbbbbb.jpgQ.: Aujourd'hui, la démocratie est honorée comme un «veau d'or», disent ses adversaires. Mais est-il possible, de nos jours, de critiquer la démocratie ou de la refuser?

CP: Il faut d'abord voir ce que l'on entend par démocratie. Je crois qu'à notre époque, le poli­tique, en fait, est saturé, comme sont saturées les institutions politiques, par les pouvoirs écono­miques entres autres. Donc le discours sur la démocratie est en fait un discours de légitima­tion, un discours de justification, qui ne fait que cacher l'absence de démocratie véritable. Il s'a­git donc d'un leurre. Il y en a eu d'autres par le passé. Il y a eu des dieux, par exemple, qui ca­chaient les manœuvres des prêtres. De même, il n'y a pas aujourd'hui de démocratie véritable. Peut-être en Suisse, éventuellement, où il y a au moins des techniques de démocratie réelle qui sont en œuvre mais la Suisse est un tout petit Etat qui ne survit qu'à la suite d'une situation éco­nomique et politique très particulière. Les pré­tendues grandes démocraties actuelles, et par exemple la France, les Etats-Unis et l'Angle­ter­re, ne sont évidemment pas des démo­craties dans la mesure où, dans ces Etats, le peuple  —j'en­tends par là l'ensemble des ci­toyens en état de par­ticiper au politique—  ne par­ticipe pas réelle­ment au politique puisqu'il n'a pas les moyens de participer au politique. Ni les moyens économi­ques ni les moyens sociaux.

 

Q: Donc toute démocratie réelle est «démocratie à la base» (Basisdemokratie)?

 

CP: Je dirais plutôt que la démocratie directe est une technique. Je veux dire qu'il s'agit d'un en­semble de techniques qui permettent au peuple de participer directement au politique. Je ne choisis aucune technique. Je préfère me référer au terme de «démocratie de base», ou «démocratie di­rec­te», qui est celui de démocratie substantielle. C'est-à-dire qu'il faut découvrir les bonnes tech­niques pour la bonne époque, afin que le peuple participe effectivement au politique, puisse y participer à tout moment, dans la mesure où cha­que citoyen soit directement concerné par le po­li­tique et, pour cela, il faut que le peuple soit un véritable peuple, que le tissu social soit un tissu solide. Il faut aussi que chaque mouvement à l'intérieur du peuple ou à l'extérieur du peuple (contre le peuple) soit immédiatement transmis à travers les associations, à travers les différents réseaux qui construisent ce peuple, afin qu'il y ait une réaction immédiate qui n'exige même pas les techniques de la démocratie directe, qui exige simplement une adhésion, une adhésion exprimée.

 

Q: On peut effectivement imbriquer le concept de démocratie dans une tradition européenne, celle de la démocratie grecque, celle de la Rome répu­blicaine, etc. Au regard de cette tradition, à quoi la démocratie actuelle devrait-elle ressembler?

 

CP: Vos deux exemples, celui de la Grèce et celui de Rome, sont de bons exemples. Car vous évo­quez là un exemple de bonne démocratie et un exemple de mauvaise démocratie. Je crois que les Grecs ont des héritiers: ce sont les Anglo-Saxons. Et je crois que les Romains ont eu des héritiers: les peuples germaniques. La démo­cra­tie athénienne était essentiellement une dé­mocratie formelle. Je crois que la démocratie athé­nienne s'est installée dans ses institutions pour amener au pouvoir une classe de mar­chands qui s'est opposée à une classe de proprié­taires terriens. Je ne dis pas que c'était plus mal mais, enfin, ce n'était guère mieux. Alors que Rome qui ne s'est pas beaucoup préoccupée de mettre en avant le mot «démocratie», s'est, par contre, beaucoup préoccupée de mettre en avant le mot de «citoyen» et de faire en sorte que le citoyen et le peuple romain soient particulièrement res­pectés à l'intérieur et à l'extérieur de la Cité. Je ne voudrais pas entrer dans de trop longs déve­loppements, bien sûr, car cela ferait éclater le cadre de cette entrevue, mais dire que l'on perçoit des phénomènes tout-à-fait parallèles dans les démocraties germaniques primitives, où l'on sai­sit le politique de la même façon et où l'hom­me libre, en tant qu'il appartient au peuple, est de la même façon respecté. Parce qu'à travers lui, c'est le peuple que l'on respecte. Je crois qu'au­jour­d'hui il faudrait trouver des procédures pour parvenir à ce même respect et je ne pense pas que ce soit par les techniques sociales qui sont ap­pli­quées en France ou dans d'autres Etats que l'on puisse y parvenir. Au contraire, ces tech­niques, qui relèvent plutôt de la charité publique, n'ex­pri­ment pas du tout ce droit essentiel du ci­toyen à être respecté et à participer à la vie pu­blique. Donc une démocratie devrait être un lieu où existe une véritable société civile, c'est-à-dire une société où chaque citoyen soit mis en état de participer réellement à la vie publique et soit le premier personnage de cette vie publique, c'est-à-dire que l'homme politique soit un personnage qui, au contraire du citoyen, inspire immédia­tement la méfiance, alors que le citoyen, a priori, ne doit inspirer que le respect.

 

Q: Mais qu'est-ce qui fait que l'on est citoyen dans ces modèles classiques ou germaniques? N'était-ce pas seulement les hommes libres qui avaient droit de cité, droit d'éligibilité et d'élection? Cette démocratie était donc très éli­taire, très limitée...

 

CP: Je ne pense pas qu'elle était élitaire. Je pense que les circonstances historiques étaient diffé­rentes. On ne doit pas tant parler d'«homme li­bre» mais plutôt de «celui qui appartient au peu­ple». N'appartenaient pas au peuple ceux qui ve­naient en visiteurs et qui étaient reconnus com­­me «étrangers», avec un statut d'étranger: il s'a­git des métèques à Athènes ou d'autres per­sonnages ou les premiers plébéiens de Rome, par exemple, ou les esclaves. L'esclavage est chose reconnue dans toute l'Antiquité: je ne porterai pas de jugement de valeur sur l'esclavage ici mais j'ajouterai toutefois que l'esclavage était la contrepartie technique de la démocratie. Mais aujourd'hui il y a d'autres contreparties tech­ni­ques: il y a le machinisme et la technologie qui ne nécessitent plus l'existence de l'esclavage. Donc, en fait, dans l'esprit du temps, tout membre du peuple était effectivement citoyen. L'homme libre, c'est le membre du peuple, c'est celui qui appartient au peuple. Et celui qui, appartenant au peuple, était reconnu comme libre a justement tout les devoirs et les droits du citoyen. Au de­meurant, et à ce propos, je reviens à la question précédente pour donner une précision et montrer à quel point la hiérarchie entre le citoyen et l'Etat était inversée aux yeux des Anciens: dans la Rome antique, les fonctionnaires étaient souvent pris chez les esclaves ou chez les affranchis. Ce qui montre bien que le fonctionnariat n'était pas une dignité. C'était une servitude, au fond.

 

Q: On parle beaucoup aujourd'hui du «citoyen responsable» (mündiger Bürger), c'est-à-dire d'un citoyen capable de mesurer pleinement toutes les décisions prises à l'assemblée. Sans ce citoyen, la démocratie n'existe pas. Mais ce «citoyen responsable» existe-t-il?

 

CP: Si le citoyen ne tire ses droits, ses libertés et ses devoirs que du seul fait qu'il appartient au peuple, c'est-à-dire que c'est le peuple qui lui donne ses droits et ses devoirs et non l'inverse; de ce fait, le citoyen responsable n'a pas à prendre ses propres décisions, il a à participer à la décision commune, à la décision qui est prise pour le bien commun. C'est ce qui distingue l'hom­me libre dans le domaine privé du citoyen dans le domaine public et puis ensuite de l'hom­me politique lors de la crise, qui n'agit plus tout-à-fait comme un simple citoyen mais qui sup­por­tera éventuellement une responsabilité su­périeure.

 

Q: Autre fondement de la démocratie moderne: les droits de l'homme. Ces droits de l'homme sont-ils quelque chose de réel ou relèvent-ils d'un mythe permanent?

 

CP: Lorsque l'on a posé cette question à René Cas­sin, au moment où il a mis au monde la Dé­claration universelle des droits de l'Homme, lorsque, plus précisément, on lui a demandé s'il s'agissait bel et bien de droits, il a ri. Et il a ré­pondu: «bien sûr que non, n'est-ce pas, il s'agit d'une tentative politique pour tendre vers quelque chose, mais il est évident que ce ne sont pas des droits». Et Michel Villey, qui ne peut nullement être soupçonné d'être un anti-démocrate pri­mai­re, avait formulé une critique, que je n'approuve pas sur tous les points, mais une cri­tique très vigoureuse des droits de l'homme en tant que droits. Il est évident que les droits de l'homme sont une idéologie. Et une idéologie de justifi­ca­tion, de légitimation, pour les Etats ac­tuels qui se réclament de ces droits de l'homme. Mais pour que ces droits de l'homme puissent ef­fectivement s'appliquer, il faudrait d'abord que l'on sache ce qu'est l'homme et ensuite qu'il y ait un système juridique capable de faire appliquer ces droits et qui n'existe, je crois, dans aucun Etat.

 

Q: Actuellement, en Allemagne, nous assistons à une discussion entre hommes de droite et anar­chistes sur la question de l'Etat; les deux groupes de protagonistes critiquent la notion d'Etat au départ de la notion de peuple, de Volk. A votre avis quel est le rôle de l'Etat?

 

CP: L'Etat est la forme la plus élaborée de l'ins­ti­tution politique dans sa traduction juri­dique. L'Etat peut ne pas exister. Je veux dire par là que l'Etat est un phénomène récent. Le poli­tique, en revanche, est quelque chose, que je ne qualifie­rais pas d'éternel  —ce serait sans doute un peu excessif—  mais est un phénomène presque aussi ancien que l'homme. A partir du moment où il y a eu des sociétés, ces sociétés ont eu à faire face à diverses difficultés, elles ont été, ipso facto, des sociétés politiques. Et ces sociétés ont été des so­ciétés politiques, parce qu'à l'intérieur de ces sociétés, il y a eu une recon­naissance, la recon­naissance de liens face à un danger commun. Et là il y a le peuple. Donc peuple et politique sont effectivement deux choses qui vont ensemble. Mais l'Etat ne va pas obliga­toirement avec le peu­ple ni avec le politique. Parce que le politique permet l'usage de l'arbitraire, c'est la seule acti­vité humaine où l'arbitraire soit autorisé. Or, les institutions po­litiques, aujourd'hui, sont figées dans l'institution étatique et ont été récupérées par des intérêts économiques et privés, ce qui in­duit qu'elles ne sont plus politiques par ce fait même. Et là, l'Etat est vraiment contre le peuple, parce que l'Etat se pose alors comme quelque cho­se d'étranger à l'intérieur du peuple. Donc je pense que, tout en demeurant fidèle à sa vocation poli­tique, à son éventuelle vocation d'unité, d'u­nion, de réunion communautaire face à un dan­ger à un moment quelconque, un peuple peut fort bien se passer d'Etat.

 

Q: Vous affirmez donc le primat du politique contre le primat de l'économie...

 

CP: Non, pas réellement. Je veux dire qu'au­jourd'hui, il y a primat de l'économie et l'Etat est là. Le problème, je crois, est celui de l'insti­tu­tion. L'institution est quelque chose de figé. Aus­sitôt qu'une institution est créée  —je parle seulement des institutions politiques c'est-à-dire des institutions de superposition—  elle se pose comme hautement symbolique par rapport à l'i­dentité réelle d'un peuple; elle vit d'une vie pro­pre, elle se détache peu à peu de la réalité concrète que constitue ce peuple; par là même, cette insti­tution peut être la proie de n'importe qui; au­jour­d'hui, l'Etat en tant qu'institution, est la proie d'intérêts économiques. L'Etat n'a plus rien à voir avec le peuple. Et le politique n'est plus dans l'Etat. Le politique est ailleurs. Le po­litique peut être dans le terrorisme, dans le syn­dicalisme, dans la vie associative, dans la vie culturelle, par­ce que c'est là que le peuple se re­crée mais le politique n'est certainement plus dans l'Etat parce que l'Etat, aujourd'hui, ne tra­vaille plus qu'à défaire le peuple. Finalement, la tendance de l'Etat, on la voit très bien au­jourd'hui: la ten­dance de l'Etat, c'est d'en arri­ver à une seule puis­sance mondiale, les Etats-Unis, entourées de puissances vassalles. Pour­quoi des puissances vas­salles? Parce que les Etats-Unis, seul Etat subsistant, gouvernent l'ONU. Les politologues aujourd'hui, et même les plus «démocrates», l'a­vouent volontiers, et pas seulement Julien Freund et Carl Schmitt avant lui. Ils avouent que tout Etat mondial se­rait un Etat policier et tout Etat policier est, par dé­finition, contre le peuple.

 

Q: La démocratie, aujourd'hui, nous est présen­tée comme le bien absolu; la dictature, elle, fait désormais figure, de mal absolu. Peut-il y avoir une dictature nécessaire, qui amène au Bien?

 

CP: Oui. N'importe quelle forme du politique peut être bonne et nécessaire. Mais les Romains étant, pour nous, de grands instituteurs, nous re­tenons leur leçon: la dictature peut être excel­lente, à la condition expresse qu'elle dure peu et qu'elle soit associée à un objectif précis. Lorsque l'on utilise une bombe atomique, mieux vaut ne pas la faire exploser sur soi. Il faut la faire ex­plo­ser aussi loin que possible, n'est-ce pas, et sur l'objectif qu'il faut détruire. Pas un autre. Donc la dictature, à un moment précis et pour une rai­son précise, peut se révéler nécessaire ou, plus simplement, il peut s'avérer impossible d'éviter une dictature. Mais la dictature est quelque chose qui correspond à des conditions politiques tout à fait particulières, qui ne sont pas du tout anti-démocratiques. Je veux dire qu'un régime qui empêche le peuple de s'exprimer, de s'épanouir et de survivre, comme les régimes parlementaires actuels, est beaucoup plus anti-démocratique et nocif pour le peuple qu'une dictature courte et éventuellement efficace. J'insiste: courte. Pour qu'il n'y ait pas d'ambiguïté, je pense que s'il faut une dictature, il faut savoir exécuter le dic­tateur aussitôt après.

 

Q: Pensez-vous que la démocratie moderne, qui prend son envol avec la révolution française, est fondamentalement une idée de gauche?

 

CP: C'est un peu complexe. La révolution fran­çai­se a été un événement complexe parce qu'à peu près toutes les formes de régime que nous con­nais­sons actuellement s'y sont exprimées. Il y avait encore des partisans de la monarchie, tant constitutionnelle qu'absolue; il y avait des dé­mo­crates libéraux, constitutionnels égale­ment; il y avait des démocrates autoritaires et plé­bis­ci­taires; il y avait ensuite des partisans d'une dic­tature plébiscitaire. Il y avait tout cela, en quel­que sorte, en vrac. Et c'est effectivement de cette époque, de façon un peu arbitraire, que l'on date l'apparition de la démocratie comme gouver­ne­ment du peuple dans notre histoire. Je répète que c'est arbitraire; à deux points de vue: parce qu'il y a eu des exemples ailleurs de gou­vernement du peuple, de démocratie, avant la ré­volution fran­çaise; ensuite, parce qu'en fait, la première chose qu'ont fait les révolutionnaires après 1794, donc après une très courte période, qui a duré un peu plus d'un an, a été d'empêcher le peuple de gou­verner. Le plus grand travail des révolution­nai­res français, ou plutôt des soi-di­sant révolution­naires français, et de leurs suc­cesseurs, a été d'em­pêcher la souveraineté du peuple de s'ex­primer. Notamment en détournant le terme de nation, et en faisant de la nation un terme ab­strait, quelque chose de tout-à-fait sub­jectif, vide de contenu réel, de manière à ce que le peuple ne puisse pas se reconnaître dans la na­tion. Donc effectivement, la démocratie mo­derne, qui, pour moi, n'est pas une démocratie, trouve sa source mythique dans la révolution française, mais c'est à tort. Je pense que la révo­lution française est porteuse du message d'une autre démocratie, que je veux bien faire mienne, mais, de celle-là, on a très peu parlé; en France, on en a reparlé bien sûr en 1815, en 1848, au début de la IIIième République, pendant toute la fin du siècle; ces démocrates-là sont bien entendu trai­tés de «fas­cistes» ou d'«hommes de droite» parce qu'ils veu­lent redonner la parole au peuple et parce qu'ils ne sont pas parlementaristes.

 

Q: Les droits de l'homme, eux aussi, ont été for­mulés au cours de la période révolutionnaire en France. Ne sont-ils pas revenus en Europe, après un détour par l'Amérique, à la suite de la seconde guerre mondiale. Ne peut-on pas dire que nous avons affaire, ici, à une idée de la gauche euro­péenne, qui nous est revenue avec les forteresses volantes, les tapis de bombes et de phosphore qui ont incendié les écoles et les baraquements des réfugiés?

 

CP: Je crois que cette idée est partie d'Amérique et non de France. Je veux dire par là que la pre­mière «déclaration des droits» est anglo-sa­xon­ne, plus précisément américaine. C'est une dé­cla­ration des droits plus universelle puisque la déclaration française est, ne l'oublions pas, une déclaration des droits de l'homme ET du citoyen. Et très rapidement, il sera clair que ce citoyen est le citoyen français. Au regard de cela, je ne vois pas ce que vous en­tendez par «gauche». Si l'on veut dire par là que la déclaration des droits de l'homme et l'idéologie des droits de l'homme est une idéolo­gie favorable au peuple et favorable à la citoyen­neté et à la souveraineté du peuple, on peut dire que cette déclaration et cette idéologie n'ont pas fait leurs preuves en ce sens. Je pense que ceux qui, en France, ont lancé la première déclaration des droits, étaient des anglophiles pour la plu­part; ils essayaient, en quelque sorte, de synthé­tiser, avec l'esprit qui est toujours l'es­prit fran­çais, un ensemble d'idées qu'ils avaient prises ou croyaient avoir reprises à l'Angleterre ou aux Etats-Unis. Mais ces idées étaient en fait conser­vatrices, dans le sens où elles étaient ins­pirées des constitutionalistes anglo-saxons. De toute façon, l'idéologie des droits de l'homme con­naîtra deux interprétations, en France: une interprétation nationaliste et une interprétation in­ternationaliste, plutôt mondialiste, qui va l'em­­porter avec l'appoint, effectivement, des An­­­glo-Saxons au moment de la première guerre mondiale, lorsque Wilson imposera son point de vue. Aujourd'hui, je pense que pour l'essentiel l'idéologie des droits de l'homme est une idéolo­gie d'inspiration anglo-saxonne.

 

Q: Quelle serait alors l'interprétation nationa­liste des droits de l'homme?

 

CP: En France, les droits de l'homme ont été dé­fendus par les nationalistes, surtout face aux marxistes. Parce qu'aux yeux des nationalistes, les droits de l'homme et du citoyen étaient des droits gagnés par le peuple français au prix de son sang durant les nombreuses révolutions que le peuple français avait faites au cours du XIXiè­me siècle. Ces droits gagnés par le peuple fran­çais devaient être défendus par le peuple français en tant que tels. L'internationalisme pour sa part, surtout dans sa mouture marxiste, se faisait le complice du capitalisme en jouant en quelque sorte l'internationale des travailleurs, réduits à l'état de prolétaires, contre les ouvriers français, parce que ces ouvriers avaient plus de droits que les autres et que, par égalitarisme, on voulait leur ôter ses droits ou une parte de ces droits. Donc pour les nationalistes français, il fallait aider les autres nationalistes  —il y avait ef­fec­ti­vement une inter-nationale, comme le dit Bar­rès dans Scènes et doctrines du nationa­lisme—   car chaque peuple devait défendre les droits qu'il avait acquis en tant que peuple. Le mot citoyen a donc une grande importance. Je vous donne une précision historique, qui est ca­pitale: le mouve­ment nationaliste est issu histo­riquement, dans toute l'Europe, d'un événement qui est la révo­lution française. Mais les nationa­listes français sont issus de la révolu­tion, alors que les natio­na­­lismes, ailleurs en Eu­rope, se sont souvent faits contre la révolution. Ce qui fait que, pour des nationalistes français, il n'était pas du tout génant de s'approprier la révo­lution française. Nationalistes de tous les pays peuvent se rejoin­dre mais en sachant qu'il y a une route histo­ri­que qui n'a pas été parcourue de la même ma­nière.

 

Q: L'idée de démocratie, issue de la révolution française, est couplée à une idée d'égalitarisme: tous les hommes sont pareils, pourvus des mêmes facultés et des mêmes droits, légués par Dieu. Telle est l'idée que la plupart de nos contempo­rains se font de la démocratie. Tout le reste, pour eux, n'est pas de la démocratie, même si, pour vous, la démocratie a de toutes autres racines...

 

CP: Oui, j'en suis bien consciente, mais je ne pense pas qu'il y ait, à l'heure actuelle, de démo­cratie en Europe occidentale. Je pense qu'il y existe des régimes qui, sous couvert de démocra­tie, sont en fait des oligarchies, des oligarchies économiques. Quant à la révolution française, on lui a fait dire ce que l'on a bien voulu lui faire dire. L'idée de démocratie, telle qu'elle relève de la révolution française, est une idée qui est ins­pirée de la déclaration des droits de l'homme, bien évidemment. Mais cette déclaration est pu­rement fictive, illusoire. Ce n'est pas elle qui a inspiré la véritable révolution française, c'est-à-dire celle de 1793 et de 1794, qui est effectivement la véritable révolution, où l'on insiste sur les as­pects dynamiques, sur le pouvoir accordé au peuple, et non pas seulement sur des droits illu­soires.

 

Q: Les démocraties actuelles se définissent comme les pôles opposés et absolus des systèmes totalitaires, de quelqu'idéologie qu'ils relèvent. Peut-on imaginer qu'un système de démocratie formelle puisse se muer en un totalitarisme?

 

CP: Vous m'obligez à faire du vocabulaire. C'est-à-dire qu'on évolue entre les deux conceptions de la démocratie, celles de la démocratie formelle et de la démocratie substantielle. Je vois mal com­ment une démocratie substantielle, c'est-à-dire une démocratie qui est respectueuse des identités, des différences, peut devenir totalitaire. Ce serait absolument incompatible. Une démocratie sub­stantielle, par essence, ne peut jamais devenir totalitaire. Elle ne peut jamais être soumise à un monolithisme qu'il soit culturel, politique ou re­ligieux. Son principe est le respect des diffé­rences. Sa force naît de l'accord commun autour du respect de ces différences. Par exemple de la reconnaissance par les régions de l'autorité po­litique, de la reconnaissance par les communes, par les villes, par les villages, de l'autorité des régions, de la reconnaissance, à l'intérieur des différentes villes, des associations, bref, de tout ce tissu humain. Donc une démocratie substan­tielle, si elle est vraiment une démocratie sub­stantielle, ne peut pas être totalitaire. En re­van­che, ce que l'on appelle démocratie au­­jour­d'hui, c'est-à-dire le régime dont nous par­lions et qui a remplacé le peuple, a remplacé la souveraineté du peuple par une divinité que l'on appelle l'i­déologie des droits de l'homme, peut être tota­li­taire et elle le montre. Elle a un effet décapant et uniformisant qui est absolu et c'est même le to­talitarisme absolu puisque c'est un totalitarisme qui ne construit rien mais qui dé­truit.

 

Q: Dans les écrits de la «nouvelle droite» fran­çaise, on repère sans cesse le concept d'«Etat or­ganique». A quoi ressemblerait un tel Etat sur le plan du droit et des sciences politiques?

 

CP: Nous savons tous ce qu'est, scientifiquement parlant, une société organique. C'est une société où les parties s'expliquent par le tout et non l'in­verse. D'un point de vue juridique, institu­tion­nel, je ne pense pas qu'il y ait de règles. La seule règle, c'est la règle du politique. C'est-à-dire qu'il faut qu'il y ait une hiérarchie des va­leurs à l'in­térieur de cette société, que cette hié­rarchie transparaisse dans les institutions, qu'elles soient écrites ou non écrites, et que ces institu­tions permettent, puisqu'elles sont des institu­tions politiques, que la décision politique soit pri­se souverainement au moment venu. Je ne pen­se pas qu'il soit nécessaire de compliquer les choses au-delà de ce que je viens de vous dire.

 

Q: Parlons un petit peu de l'institution parle­mentaire. Dans un parlement, en théorie, siè­gent les représentants élus du peuple. Le parle­ment est de ce fait un reflet du peuple. Une as­semblée où l'on prend des décisions qui vont dans le sens du bien du peuple. En réalité, nous avons souvent affaire aux représentants, non du peuple, mais des intérêts des lobbies. Comment pourrait-on réduire au minimum la représenta­tion de ces lobbies au profit d'une représentation réellement populaire?

 

CP: Je pense qu'il n'y a pas de solution-miracle. On peut constater l'existence des lobbies et sup­pri­mer les lobbies. Et ensuite, le peuple se re­struc­turera et reconstruira éventuellement ses réseaux. Mais, je le répète, il n'y a aucune solu­tion-miracle. On peut admettre quelques freins. Par exemple, pour ce qui concerne l'élection d'un député. Un député, dans l'état actuel des choses, ne court plus aucun risque jusqu'à sa réélection. Bon, il est élu, il est très content d'être élu; ce qu'il doit alors essayer de faire: trouver d'autres électeurs pour être réélu. Et cela pourrait ne pas être les mêmes électeurs. Il est certain que si l'on pouvait prévoir des procédures a posteriori qui permettraient aux électeurs de ce député de le ré­voquer en cours de mandat, les risques encourus par le député seraient nombreux. C'est une pro­cé­­dure qui est appliquée dans certains Etats. On l'appelle la procédure de revocatio ad popu­lum.  Elle a notamment été appliqué à Rome. Elle pré­voit un contrôle extrêmement étroit des activités financières de ce député ainsi que de ses faits et gestes pendant son mandat, assorti d'une sorte de procès qui lui serait fait après son man­dat. Ce qui oblige le député à être plus attentif à la volonté de ses électeurs. Mais je ne crois pas que ce soit suffisant. Car s'il s'agit d'électeurs comme ceux d'aujourd'hui, c'est-à-dire des gens qui appar­tien­nent à une société libérale ou issue du monde libéral, eh bien, ces électeurs ne seront qu'une somme d'individus qui voteront un peu au ha­sard. Donc, a priori, la condition indispen­sable à la formation d'institutions saines, c'est la réap­pa­rition d'un peuple sain, d'un véritable peuple et ce peuple, je ne peux pas le fabriquer d'un coup de baguette magique et aucune institu­tion n'en est capable.

 

Q: Carl Schmitt a défini le concept du politique par celui de l'inimitié. Quel est le degré d'inimitié nécessaire à l'intérieur d'un système politique? Et comment cette inimité s'exprime-t-elle?

 

CP: Je pense que pour que le politique soit néces­saire, pour que l'institution politique soit néces­saire, il faut qu'effectivement un danger appa­raisse. Mais je pense aussi que pour que l'insti­tu­tion politique apparaisse, l'amitié est au moins aussi nécessaire que l'inimitié. Parce que si l'on ne trouve pas d'amis contre l'ennemi, le po­litique n'apparaîtra jamais. Donc, il faut, sur ce point, compléter Carl Schmitt, par exemple par Koellreutter. C'est-à-dire compléter la notion d'en­nemi par celle de «camarade dans le peu­ple». S'il y a un peuple qui s'ignore, parce qu'il n'a pas encore rencontré la nécessité de se ma­nifester en tant que peuple, il aura l'occasion de se reconnaître comme tel quand l'ennemi ap­paraîtra. Mais s'il n'y a pas de peuple, l'ennemi peut apparaître et il n'y aura pas, je crois, de ré­action politique. Donc amitié et inimitié sont né­cessaires. Et l'on peut se trouver dans une société qui a tous les traits d'une société politique, durant des siècles, sans, je pense, qu'il y ait d'ennemi. C'est une chose possible. Je ne sais pas si une telle société ne tendrait pas à une certaine dés­agrégation.

 

Mais il y a beaucoup de définitions de l'ennemi. L'ennemi peut être un autre peuple, une puis­san­ce économique, un danger écologique, ou n'im­porte quelle sorte de danger, comme une épidé­mie, etc. On utilise beaucoup la façon dont Carl Schmitt a présenté, peut-être d'une manière un peu dure, sa définition de l'ennemi, pour dire: voilà il y a d'affreux fascistes qui voient des en­nemis partout. Mais le fait est là: nous avons tous, tant que nous sommes, des ennemis partout. Les idéologues de gauche qui rejettent le plus vi­vement la pensée de Carl Schmitt sont les pre­miers à voir des ennemis partout à droite, chez les adversaires de l'écologie, chez les bellicistes, etc. Leur façon d'être pacifistes manifeste bien qu'ils ont un grand sens de l'ennemi, beaucoup plus vif que la plupart des nationalistes que je connais et qui cherchent au contraire à s'unir avec n'importe qui. Les gens de gauche, eux, pas­­sent leur temps à reconnaître l'ennemi.

 

Q: On parle beaucoup, trop même, des concepts de «gauche» et de «droite». Ils sont utilisés désor­mais universellement, mais ne décrivent plus guère une substance concrète. N'est-il pas temps d'introduire de nouvelles dichotomies, un nou­veau vocabulaire instrumentalisable pour rendre compte de la complexité des enjeux poli­tiques?

 

CP: Je pense qu'effectivement il y a tout un tra­vail énorme à faire sur les concepts. Ce devrait être notre premier travail, peut-être. Le concept de «nationalisme», lui aussi, devrait être réétu­dié. De même que le concept de «socialisme». Tous ces concepts ont été forgés de façon un peu rapide au XIXième siècle. Pour la «droite» et la «gauche», de la même façon, ces concepts sont opératoires parce qu'on en connaît approximati­vement le sens. J'insiste: approximativement. Je crois, en effet, qu'il faudrait découvrir d'au­tres concepts aujourd'hui. Pas exactement les découvrir, plutôt les mettre en avant. Peut-être le concept d'«identité» que l'on pourrait op­poser au concept d'«uniformisation». Ou le concept de «do­mination économique» que l'on pourrait op­poser au concept de «solidarité poli­tique». Mais ce ne sont là que des exemples: on pourrait en trouver beaucoup d'autres. En ce qui concerne la droite et la gauche, j'y ai réfléchi, pour un travail que j'avais à conduire il y a quelque temps sur les deux concepts; et la seule chose que je peux dire à ce sujet, c'est que, sous la révolution française, lors du vote sur le veto, les députés qui ont voté contre le veto, c'est-à-dire contre le roi, se sont mis à gauche, tandis que les autres se mettaient à droite. En France, c'est ce que nous avons de plus sûr sur la droite et sur la gauche. Après, les gens de droite ne sont devenus natio­nalistes que tout à la fin du XIXième siècle, alors que c'est la gauche qui était nationaliste au dé­part. Le socialisme était en principe à gauche mais, en fait, puisque les socialistes étaient en même temps nationalistes, on peut se demander, au regard des critères en vigueur de nos jours, s'ils n'étaient pas aussi à droite; le patriotisme s'est situé surtout à gauche aussi. Les idées so­ciales, par contre, ont été défendues par les con­tre-révolutionnaires et par les légitimistes. Ceux-ci ont été les premiers à les défendre. Il faut bien le dire, car telle est la vérité historique. Les concepts de droite et de gauche sont des concepts qui, historiquement, sont dépourvus de sens. Alors, si l'on voulait tout de même leur recher­cher un sens étymologique, on pourrait se souve­nir que, dans l'antiquité, et en particulier quand on lisait les augures, la gauche, c'était à la fois le mouvement et le désordre, c'est-à-dire simulta­nément quelque chose de positif et de négatif. Et la droite, c'était l'ordre et aussi l'immobilisme. Donc aussi, simultanément, quelque chose de po­sitif et de négatif. Je crois que les concepts de droite et de gauche naissent de la révolution fran­çaise dans la mesure où, au moment de la révolution, un grand désordre apparaît qui fait que la complémentarité nécessaire à toute société politique disparaît. En effet, à cette époque trou­blée de notre histoire, le mouvement et la conser­vation se séparent, alors que dans les sociétés humaines normales, ce sont des choses qui doi­vent coexister.

 

Q: Une dernière question: vous avez assez sou­vent utilisé le concept de «nationalisme», dans un sens relativement positif. Chez nous, dans le monde germanophone, le «nationalisme», et tout ce qui en relève, est tabouisé. Qu'en est-il en France? Est-ce différent?

 

CP: Pas tellement. Mais c'est effectivement un peu différent. Ceci dit, il y a une certaine margi­nalisation du nationalisme, tout de même. On doit l'admettre. Ensuite, les nationalistes ne sont pas d'accord entre eux. Ce qui complique beau­coup les choses. Ce désaccord vient du fait qu'ils ne mettent pas la même chose sous le mot «natio­nalisme». Ou parce que certains qui sont peut-être plus nationalistes que ceux qui se disent na­tio­nalistes, rejettent absolument cette appella­tion. Ce qui ne simplifie pas les choses.

 

Q: Madame Pigacé, merci de nous avoir accordé cet entretien.

 

vendredi, 11 juin 2010

La sfida totale

LA SFIDA TOTALE

INTERVISTA A DANIELE SCALEA

 

Stefano Grazioli

Ex: http://www.italiasociale.net/

 

sfida-totale.jpgTanti parlano e scrivono di geopolitica, pochi ne capiscono davvero qualcosa. Daniele Scalea è uno di questi. Giovane, 25 anni e una laurea in Scienze storiche alla Statale di Milano, Daniele Scalea - che già da qualche anno é nella redazione di Eurasia -  ha esordito con un opera di grande spessore (un assaggio sul sito), dimostrando che le sponde del Lago Maggiore (vive a Cannobio) possono diventare un osservatorio privilegiato per capire e spiegare le vicende del Mondo che ci circonda. A confermarlo non sono tanto io, quanto chi ha scritto la prefazione del nuovo libro di Daniele, “La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” (Fuoco Edizioni), e cioè il generale Fabio Mini, uno che ne capisce: “Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire”.

Ecco, non aggiungo altro nemmeno io. Consiglio solo di correre in libreria o ordinare il libro via internet direttamente dall’editore. E di leggere con attenzione la lunga  intervista che gentilmente che l’autore ci ha concesso.

 

Rovesciamo la bottiglia e partiamo dal fondo. Lei conclude il suo libro scrivendo che la nascita del Nuovo Mondo, o perlomeno la ristrutturazione geopolitica di quello vecchio, potrebbe essere oltremodo complicata: in sostanza il passaggio da un sistema semi-unipolare a uno multipolare rischia di produrre dolorose frizioni dovute al fatto che la potenza egemone – gli Stati Uniti – opporrà resistenza alla perdita del proprio potere. La “sfida totale” ha già vincitori e vinti?

La tendenza storica del post-Guerra Fredda marcia contro gli USA. Negli anni ’90 la geopolitica mondiale ha vissuto il suo “momento unipolare”, e tutto sembrava girare per il verso giusto, dalla prospettiva di Washington. Ma già si covava quanto sarebbe venuto. L’ultimo decennio ha visto l’emergere a livello economico, strategico ed infine anche politico di veri e propri competitori della “unica superpotenza rimasta”: il riferimento è prima di tutto a Cina e Russia, ma una menzione la meritano pure India, Brasile, Giappone. Il sogno della “fine della storia” è svanito. Gli USA hanno tentato, sotto Bush, un ultimo brutale tentativo di mantenere la propria supremazia incontrastata: il progetto di “guerra infinita”, che avrebbe dovuto annichilire come un rullo compressore tutti i possibili nemici e competitori, ma che si è arenato già sui primi due scogli incontrati, ossia Afghanistan e Iràq. L’ordine mondiale odierno è “semi-unipolare”, con Washington ancora potenza egemone, ma più per la cautela dei suoi rivali che per la propria forza ed autorità. La crisi finanziaria del 2008 è partita dagli USA ed ha mandato parzialmente in frantumi quell’ordine economico su cui si fonda gran parte del potere di Washington. Tutto lascia supporre che si concretizzerà il ritorno ad un vero e proprio ordine “multipolare”, e questa è anche la mia previsione.

Però …come spesso accade c’è un “però”. Uno degli errori più comuni del nostro tempo è quello di percepire le tendenze come fattori fissi ed immutabili, quando in realtà sono contingenti. Come sosteneva Hume, l’uomo è portato a credere in ciò che è abituato a vedere, ossia ad assolutizzare il contingente. Ma le inversioni di tendenza sono sempre possibili. Gli Stati Uniti non hanno accettato e difficilmente accetteranno il ruolo di ex egemone in declino. A meno d’implosioni interne del tipo pronosticato da Igor Panarin, riusciranno ad opporre resistenza, ed hanno molto frecce al loro arco se non per bloccare, quanto meno per rallentare la transizione al mondo multipolare: ricordiamo, tra i principali, il poderoso strumento militare (che spesso fa cilecca, ma per capacità di proiezione globale non ha pari), la “egemonia del dollaro” (Henry Liu), la centralità nel sistema finanziario, l’influenza culturale. Già il secolo scorso la supremazia delle talassocrazie anglosassoni fu sfidata, prima dal Reich tedesco e poi dall’Unione Sovietica, e sappiamo bene tutti come andò a finire. Meglio non vendere la pelle dell’orso (o le penne dell’aquila, se vogliamo esser più precisi nell’allegoria zoologica) prima d’averlo ucciso. Certo però che questi USA d’inizio XXI secolo paiono solo la copia sbiadita della superpotenza del ventesimo: molta della loro grandezza deriva dall’eredità delle generazioni passate, e quando sono chiamati a difenderla non sembrano all’altezza del proprio rango senza pari.

E ora dall’inizio, tuffandoci un po’ nel passato. L’attacco al cuore della Terra, all’Heartland, che gli Stati Uniti hanno attuato su quattro direttrici (sovversione politica, espansione militare, risorse energetiche, supremazia nucleare): può sintetizzare?

La strategia statunitense, quanto meno dagli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale in poi (e forse anche da prima), è fortemente ispirata ai princìpi della geopolitica. L’Heartland (H. Mackinder) è una delle categorie basilari di questa disciplina: è la Terra-cuore, il centro del continente eurasiatico, storicamente impermeabile alla potenza marittima – quest’ultima incarnata prima dall’Impero britannico e poi dal “imperialismo informale” statunitense. L’Heartland è occupato dalla Russia, che rappresenta perciò stesso il principale ostacolo e minaccia potenziale all’egemonia della potenza talassocratica, ossia marittima, degli USA. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, Washington e Mosca hanno più volte tentato approcci amichevoli, ma tutti sono finiti male. All’arrendevolezza di El’cin si rispose con lo smembramento della Jugoslavia, ed i Russi reagirono portando al Cremlino un certo Vladimir Putin. Le sue aperture dopo l’11 settembre sono state ripagate con la penetrazione statunitense in Asia Centrale, nel “cortile di casa” russo. Anche l’attuale recentissimo idillio tra Obama e Medvedev durerà poco. Nessuno vuole sfociare nel determinismo, ma la geografia è un fattore importante nella vicenda umana, ed in questo caso la geografia condanna Russia e USA ad essere, almeno nello scenario attuale, quasi sempre nemici.

Dagli anni ’90 ad oggi gli Statunitensi, sulla scia di teorizzazioni come quelle di Zbigniew Brzezinski, lungi dall’allentare la morsa su Mosca hanno cercato di sfruttare il crollo dell’URSS per neutralizzare definitivamente la minaccia russa. Le “direttrici d’attacco”, come da lei sottolineato, sono state quattro:

a) la sovversione politica: tramite la CIA, enti pubblici o semi-pubblici come il National Endowment for Democracy o U.S. Aid, e finte ONG gli USA hanno orchestrato una serie di colpi di Stato in giro per l’ex area d’influenza moscovita, allo scopo d’insediare quanti più governi filo-atlantici e russofobi fosse possibile. I casi più celebri: Serbia, Georgia, Ucraìna, Kirghizistan. Ci hanno provato persino in Bielorussia e in Russia (leggi Kaspàrov), ma non è andata bene. I governanti locali si sono fatti furbi ed hanno iniziato a porre una serie di restrizioni alle attività d’organizzazioni straniere nei propri paesi. Gli ultimi eventi in Ucraìna e Kirghizistan fanno pensare che l’ondata di “rivoluzioni colorate” sia ormai in fase di risacca;

b) l’espansione militare: la NATO si potrebbe definire come l’alleanza che lega l’egemone statunitense ai paesi ad esso subordinati. Non è qualitativamente diversa dalla Lega Delio-Attica capeggiata da Atene, o dalle varie alleanze italiche di Roma. Un’alleanza non certo tra pari. Nata in funzione anti-sovietica, scioltasi l’URSS non solo non ha chiuso i battenti ma si è allargata verso est, fino ai confini della Russia. La nuova dottrina militare russa cita espressamente la NATO tra le minacce per il paese;

c) le risorse energetiche: una potente leva strategica per la Russia è costituita dalla sua centralità nel commercio energetico intra-eurasiatico. Gli USA hanno cercato di sminuirla facendo dell’Asia Centrale un competitore di Mosca, tramite gasdotti e oledotti alternativi che scavalcassero il territorio russo. L’impossibilità di costruire la condotta trans-afghana, il ridotto impatto del BTC ed il fallimento annunciato del Nabucco chiariscono che il progetto, almeno per ora, non ha avuto successo;

d) la supremazia nucleare: è un punto sovente ignorato dai commentatori occidentali. Si definisce “supremazia nucleare” la capacità d’uno Stato di vincere una guerra atomica senza subire danni eccessivi, ossia di sferrare un “primo colpo” (first strike) parando la successiva rappresaglia. Quando si dispone di migliaia di testate e missili nucleari, come gli USA, è facile annientare un rivale con una guerra atomica: il grosso problema è riuscire ad evitare d’essere annientati a propria volta se il nemico, come la Russia, ha a sua volta migliaia di armi nucleari con cui rispondere. Ecco dunque l’idea dello scudo ABM (anti-missili balistici), il sogno di Reagan riesumato da Bush e per niente accantonato da Obama. Resterà ancora a lungo una delle principali pietre della discordia tra Mosca e Washington. Infatti, il Cremlino non si beve la storia che lo scudo ABM sia rivolto contro l’Iràn e la Corea del Nord, e nel mio libro spiego dettagliatamente il perché.

Lei si sofferma sulla politica estera statunitense dell’ultimo decennio sviscerando le differenze tra idealisti e realisti alla Casa Bianca. Cosa ha cambiato l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca?

Ha cambiato molto, ma probabilmente meno di quello che avrebbe potuto se non ci fosse stata la crisi finanziaria del 2008. Obama era portatore d’una geostrategia alternativa a quella neoconservatrice, meno fissata sul Vicino e Medio Oriente e più attenta agli equilibri globali nel loro complesso. Essa comprendeva anche una non dichiarata strategia anti-russa di tipo brzezinskiana. La stessa distensione con l’Iràn era ed è mirata soprattutto a rivolgere la potenza persiana contro Mosca in funzione di contenimento sul fianco meridionale.

Inutile dire che la crisi ha scompaginato i piani. Gli USA si sono ritrovati con l’acqua alla gola, ed Obama s’è accontentato di cercare di salvarne la supremazia mondiale. L’ideologismo di Bush è stato sostituito con un po’ di sana Realpolitik, e la minaccia ed uso della forza militare sono oggi stemperate dal ricorso alla diplomazia come via prediletta. Ma ciò non è sufficiente. Washington, capendo di non farcela più da sola, sta cercando di cooptare qualche grande potenza come stampella della propria egemonia. All’inizio Obama ha cercato di formare il famoso “G-2” con la Cina, ma ben presto la tensione ha preso a montare ed oggi Washington e Pechino si guardano in cagnesco come non succedeva da decenni. Così Obama ha messo nel mirino la Cina, ed ha pensato bene di corteggiare la Russia. Il “leviatano” talassocratico ed il “behemoth” tellurocratico si sono già trovati fianco a fianco contro una potenza del Rimland, ossia del margine continentale dell’Eurasia (mi riferisco alla Germania nel secolo scorso), ma non credo che ciò si ripeterà oggi. Gli USA superpotenza avrebbero potuto cooptare la Russia di El’cin e del primo Putin, ma si sono rivelati troppo avidi di potere ed hanno finito con l’allontanarla. Oggi sono ancora la potenza egemone, e perciò suscitano invidia ed ostilità, ma sono un egemone zoppo,  e dunque appoggiarlo non dà più gli stessi vantaggi d’un tempo. Allearsi con qualcuno che ti vorrebbe come stampella del suo potere traballante non è una prospettiva così allettante. Il Cremlino prenderà altre strade. Solo quando gli USA si saranno ridimensionati al rango di grande potenza inter pares, allora si potrà ridiscutere d’alleanze strategiche.

L’8 dicembre 1991 i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che Gorbačev fu costretto ad accettare suo malgrado. L’ex presidente russo Vladimir Putin, ora primo ministro, ha affermato che la dissoluzione dell’Urss è la stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. È d’accordo?

Il termine “catastrofe” sottintende un giudizio di valore, e dunque è soggettivo. Restando sul merito, è indubbio che il crollo dell’URSS, ossia della potenza terrestre dell’Heartland che conteneva la superpotenza marittima, è stato un evento epocale. E dal punto di vista dei Russi, non si può che considerare catastrofico. Ma non solo dal loro. Il crollo della diga sovietica – una diga criticabile e controversa fin quanto si vuole – ha aperto la strada al tentativo egemonico degli USA, col suo contorno di prevaricazione e guerre. Per gli Statunitensi la disgregazione dell’URSS è stata un successo, per i Polacchi una benedizione, per i Cubani, i Siriani o i Palestinesi una disgrazia.

Vladimir Putin è stato, tra luci ed ombre, il simbolo della ritorno della Russia sulla Grande Scacchiera. Lei scrive che la “Dottrina Putin” può essere interpretata come un realismo in salsa russa, fondato sull’accorta tessitura d’alleanze intra-continentali con la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia e l’Europa Occidentale. Cioè?

Ho ripreso la definizione che cita da Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. In Russia, dopo la fine del comunismo sono emerse due visioni ideologiche: quella eurasiatica, che vede negli USA il nemico storico da combattere ad ogni costo, e quella occidentalista, che vede nell’Ovest il beniamino da emulare e compiacere ad ogni costo. La Dottrina Putin esula da questi schemi e si pone nel mezzo degli “opposti estremismi”. Putin ha adottato linguaggi e formalità cari agli occidentali, ed ha a lungo considerato prioritari i rapporti con l’Europa e gli USA. Ma non è mai stato arrendevole e rinunciatario, non ha mai rinunciato a difendere il ruolo della Russia nel mondo ed il suo “spazio vitale” nell’Heartland. Quando ha verificato che con Washington non c’erano spazi di dialogo, si è rivolto altrove. Le alleanze intra-continentali da lei citate servono a creare un “secondo anello di sicurezza” (il primo dovrebbe essere il “estero vicino”) attorno alla Russia. L’obiettivo finale è estromettere la talassocrazia, ossia gli USA, dall’intera massa continentale eurasiatica, per mettere definitivamente in sicurezza la Russia.

Secondo Parag Khanna i “tre imperi” del nuovo mondo multipolare sarebbero Usa, Cina e Unione Europea, mentre la Russia farebbe parte del “secondo mondo”. Lei non è d’accordo. Perché?

Perché la visione di Parag Khanna si fonda sostanzialmente su valutazioni di tipo economico e sulle sue simpatie personali. L’economia è importante ma non rivela tutto. Ad esempio, l’Unione Europea, si sa, è un gigante economico ma un nano politico. Non è neppure uno Stato, bensì un’accozzaglia di Stati nazionali che, come stanno dimostrando gli eventi attuali, in mezzo alla tempesta preferiscono pensare ognuno per sé. La Russia ha un ingente patrimonio geopolitico, in termini geografici, militari ed energetici, che può giocare efficacemente sulla grande scacchiera mondiale. Mosca è ancora al centro della politica internazionale, considerarla parte del “secondo mondo” è ingiustificato.

La Cina è e sarà comunque uno dei protagonisti di questo secolo e intorno al ruolo di Pechino si gioca ovviamente il futuro di Washington. Riprendo allora le sue parole: «Per gli Usa il contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Davvero Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi a Pechino per creare una “sfera di co-prosperità” asiatica?»

È un dilemma che non ha ancora trovato risposta. L’India sembrava più vicina alla Cina qualche anno fa, quando entrò nel gergo comune degli addetti ai lavori il termine “Cindia”. Al contrario, il Giappone che qualche anno fa pareva nemico irriducibile di Pechino oggi gli si sta riavvicinando. La situazione è fluida e difficile da decifrare, ma la sensazione è che Nuova Delhi e Tokio cercheranno la vincita sicura: aspetteranno di capire con certezza chi avrà la meglio tra Cina e USA, e solo allora punteranno tutto sul cavallo vincente.

Spostiamoci infine Oltreoceano, dove comunque i grandi attori sono sempre gli stessi. Nel libro scrive che Obama sembra deciso a recuperare l’influenza sul “cortile di casa”, e con qualsiasi mezzo. Russia e Cina, invece, offrono una sponda diplomatica alle nuove potenze emergenti come Brasile e Venezuela. I prossimi conflitti sono programmati?

Il Sudamerica è storicamente un’area molto pacifica. Ma ciò è dovuto anche alla sua storia di marginalità nel quadro geopolitico, ed all’egemonia a lungo incontrastata degli USA. Oggi questi due fattori stanno venendo meno. In Sudamerica sta emergendo una grande potenza mondiale – il Brasile – mentre il controllo degli USA sul “cortile di casa” è stato seriamente intaccato. Cina e Russia si fanno beffe della Dottrina Monroe, punto fermo della strategia statunitense da un paio di secoli. Washington passerà all’azione, o meglio alla reazione, e non sappiamo ancora quali strumenti sceglierà.

Maggiore integrazione economica? L’ALCA è stato bocciato da quasi tutti i paesi sudamericani.

Legami militari? In Sudamerica la Russia ha superato gli USA nell’esportazione di armi.

Influenza culturale? I sentimenti anti-statunitensi, tradizionalmente radicati nell’area, appaiono al massimo storico, ed il risveglio della comunità indigena porta ad una riscoperta del proprio retaggio più arcaico, piuttosto che all’adozione della way of life nordamericana.

Colpi di Stato? In Venezuela ci hanno provato ma fu un fallimento; un pesce molto più piccolo come l’Honduras è caduto nella rete, ma si ritrova quasi completamente isolato nella regione.

Guerre per procura? I paesi sudamericani sono molto restî a scendere in guerra tra loro, se non altro perché sono tutti instabili al loro interno e temono gravi contraccolpi domestici. Attorno alla Colombia la tensione sta montando, e molto decideranno le imminenti elezioni presidenziali. Santos ricorda per certi versi Saakašvili: è una testa calda, con lui tutto sarebbe possibile. Mockus, al contrario, cercherebbe la distensione coi vicini ed allenterebbe i legami con gli USA. In ogni caso, per Bogotà sarebbe una mossa come minimo azzardata andare in guerra coi vicini, quando non controlla neppure il proprio territorio nazionale.

Guerre in prima persona? Sono da escludersi almeno finché le truppe nordamericane rimangono impantanate in Iràq e Afghanistan. Anche dopo aver evacuato i due paesi mediorientali, l’esperienza inciderà negativamente sulla propensione alla guerra nei prossimi anni. Certo, non sono eventi traumatici come il Vietnam – avendovi preso parte soldati professionisti e non cittadini coscritti – ma il paese è comunque demoralizzato e le casse vuote. Inoltre i paesi sudamericani si stanno integrando: attaccarne uno significherebbe rovinare i rapporti con tutti.

Per tali ragioni, ritengo che nei prossimi anni Washington si limiterà a sovvenzionare e “pompare” a livello mediatico i propri campioni in loco: lo sta già facendo in Brasile, anche se difficilmente il Partito dei Lavoratori di Lula sarà scalzato dal potere. In qualche “repubblica delle banane” centroamericana potranno pure organizzare dei golpe, ma l’arma tradizionale dell’influenza nordamericana sui vicini meridionali appare sempre più spuntata.

La perdita dell’egemonia sul continente americano rappresenterà una svolta epocale per gli USA e la geopolitica mondiale. Gli Stati Uniti d’America, potenza continentale, hanno potuto inventarsi potenza marittima contando sull’isolamento conferito dall’assenza di nemici sulla terraferma: dal Novecento hanno perciò potuto proiettarsi con sicurezza sugli oceani e al di là degli stessi. Con l’emergere di forti rivali nelle Americhe, gli USA perderebbero uno dei loro storici vantaggi strategici: smetterebbero di essere “un’isola” geopolitica e ritornerebbero una potenza continentale.

Quali sono questi “rivali” che gli USA potranno trovare nel continente? Facile rispondere il Brasile, su tutti, che ha dimensioni e demografia adatte a sfidare la supremazia di Washington nell’emisfero occidentale. Facilissimo citare il “blocco bolivariano”, paesi che presi singolarmente sono deboli, ma che se dovessero riuscire ad unirsi, resi più forti dalla veemenza ideologica, creerebbero non pochi problemi ai gringos, come li chiamano loro. E non scordiamoci il Messico. Il Messico è una nazione molto grande, direttamente confinante con gli USA, e coltiva – anche se silenziosamente – storiche rivendicazioni territoriali sul sud degli Stati Uniti. La sua economia è in forte crescita: fra pochi anni sarà considerata una grande potenza, almeno in quest’ambito. Fatica a tenere sotto controllo la parte settentrionale del paese, ma è quella meno popolata e più povera. In compenso ha un’arma atipica. Samuel Huntington, poco prima di morire, lanciò un avvertimento ai propri connazionali: di guardarsi dall’enorme aumento numerico dei Latinos – per lo più messicani – negli USA. I Latinos sono concentrati in pochi Stati: California, Texas, Arizona, New Mexico ed anche Florida (qui si tratta di cubani e portoricani). Giungono in massa e tendono a conservare la propria lingua, la propria religione ed il proprio modo di vivere. Hanno già acquisito un ingente peso elettorale, ma in massima parte non sono integrati nella società statunitense. Nel Sud, i cartelli criminali del narcotraffico hanno costituito veri e propri “Stati nello Stato”, che spadroneggiano nei quartieri latini, sanno autofinanziarsi illecitamente tramite il traffico di droga e la prostituzione, hanno veri e propri eserciti armati fino ai denti. Un soggetto ideale per condurre una guerra asimmetrica, se se ne creassero le condizioni. Questi cartelli del narcotraffico hanno eguale potere al di là del confine, nel settentrione del Messico, e forti collusioni con le autorità di Città del Messico. Non è un caso che negli USA da alcuni anni stiano cercando d’arginare l’immigrazione e d’integrare i Latinos nella società, mentre in Messico non fanno nulla per dissuadere i propri cittadini dall’espatriare nelle terre che gli Statunitensi rubarono al Messico centocinquant’anni fa. La situazione è esplosiva, e qualche analista – come George Friedman – se n’è accorto.

 

22/05/2010

lundi, 24 mai 2010

Gespräch mit Guillaume Faye

SYNERGON - BRUESSEL / DRESDEN / ZUERICH - FEBRUAR 2002

Gespraech mit Guillaume Faye

Dear Friends, Here one of the first interviews that Guillaume Faye gave to a German publisher, explaining his career in the New Right scene and giving some explanation about the trial he had to undergo last year for having published "La colonisation de l'Europe", a book that everyone should read anyway, if you agree or not. This interview was made before September 2001 and therefore doesn't mention the events of New York and Afghanistan. We'll try to make another interview of Faye as soon as possible to let you all know what is his point of view in front of the new war and the new alliances in the Old World.

Gespraech mit Guillaume Faye


fayePqNC.jpgGuillaume Faye, geboren 1949, ist als Schriftsteller und Publizist einer der bedeutendsten Theoretiker der "Neuen Rechten" in Frankreich und arbeitete bis 1987 u.a. bei den Zeitschriften "Élements" und "Nouvelle École". 1987 zog er sich von der "Neuen Rechten" zurück und arbeitete als Moderator beim Pariser Lokalradio "Skyrock", war Texteschreiber für Rockbands und Drehbuchautor. Seit Anfang der Neunziger Jahre arbeitet er bei "Synergies Européennes" sowie bei "Terre et Peuple" mit und ist zudem auch publizistisch wieder aktiv.

Das hier veröffentlichte Gespräch mit Guillaume Faye wurde am Rande der SYNERGON-Sommerakademie im August 2001 von Christian Desruelles und Sven Henkler geführt. Übersetzung: Christian Desruelles.

Guillaume Faye, wir haben gehört, daß Sie an einem neuen Buch arbeiten, das den Arbeitstitel "Die Konvergenz der Katastrophen" trägt. Was können Sie uns darüber bereits heute verraten?

Ich werde in diesem Buch zeigen, daß zum ersten Mal in ihrer ganzen Geschichte die westliche Zivilisation und die europäische Kultur vom Tode bedroht sind, denn zum ersten Mal stehen alle Anzeigen im roten Bereich und in naher Zukunft, so in etwa gegen 2010, 2015, wird sich eine Anzahl dramaturgischer Linien überschneiden. Ich lehne mich dabei an die "Katastrophentheorie" des französischen Mathematikers René Thom an. Die Katastrophe ist nicht die Apokalypse, die Katastrophe ist der abrupte Übergang in einen komplett anderen Systemzustand. Es wird eine Explosion geben, die wahrscheinlich die ganze Erde in Mitleidenschaft ziehen wird, die nicht die Menschheit in Gefahr bringen wird, bei der jedoch die europäische Kultur Gefahr läuft, ganz einfach zu verschwinden.

In früheren Zeiten konnte die europäische Kultur in bestimmten Bereichen, zu bestimmten Zeiten bedroht sein, denken wir an Wirtschaftskrisen oder an Kriege. Aber nie in ihrer Geschichte war sie in allen Bereichen und zur gleichen Zeit bedroht.

Ich will Ihnen ein Bild geben: Wir befinden uns auf der Titanic. Alles ist wunderbar: die Küche ist hervorragend, die Frauen sind bildhübsch, das Schiff ist hell erleuchtet, das Meer ist ruhig und das Wetter angenehm - und in einer Stunde werden wir alle tot sein. Und nur der Ausguck weiß es, er sieht den Eisberg kommen.

Zweites Bild: Sie haben gegen Mittag in ihrem Haus einen Kaminbrand - das ist nicht weiter schlimm. Sie haben die Zeit, das Feuer zu löschen. Wenn Sie sich um ein Uhr nachmittags den Fuß verstauchen, ist das ebenfalls nicht weiter schlimm, Sie können ihn verbinden. Wenn Sie um vier Uhr eine Überschwemmung im Keller haben, haben Sie alle Zeit der Welt, die Feuerwehr zu rufen. Wenn Sie nun aber um 18 Uhr gleichzeitig einen Kaminbrand, einen verstauchten Fuß und eine Überschwemmung im Keller haben, dann sind Sie verloren. Genau das aber kommt auf Europa und möglicherweise auf die ganzeWelt zu.

Wird es Kulturen, Gesellschaften geben, welche die Konvergenz der Katastrophen überstehen werden?

Natürlich. Zuerst aber lassen Sie mich die konvergierenden Linien der Katastrophen kurz beschreiben. Die erste Linie ist das ökologische Desaster, das die Erde zur Zeit erlebt und dessen Auswirkungen sich sehr bald und sehr brutal bei der Ernährungssituation und der Gesundheit der Menschen bemerkbar machen werden.

Die zweite Linie in dieser Dramaturgie ist die dritte große Offensive des Islam auf breitester Front, von Gibraltar bis nach Indonesien, und die Unterwanderung Europas durch den Islam und die Immigration. Wir wissen, daß wir in Frankreich ab dem Jahre 2010 mit einem echten ethnischen Bürgerkrieg rechnen müssen, der das Risiko der totalen Destabilisierung der Gesellschaft mit sich bringen wird.

Die dritte Linie ist der wahrscheinliche Zusammenbruch der europäischen Wirtschaft, ebenfalls so gegen 2010, verursacht durch zwei Faktoren: der erste Faktor ist die Überalterung der europäischen Bevölkerung, wodurch die aktiven Teile der Gesellschaft nicht mehr in der Lage sind, die Bedürfnisse des inaktiven Teils zu decken. Der zweite Faktor, den ich in meinem Buch vertieft behandeln werde, ist das fortschreitende Absinken der europäischen Wirtschaft auf das Niveau der Dritten Welt, das heute sichtbar seinen Anfang nimmt.

Die vierte Linie schließlich ist die Expansion des organisierten Verbrechens, Epidemien, die unkontrollierte Verbreitung nuklearen Materials, die wahrscheinlich in nuklearen Konfrontationen enden wird, die wachsende Unordnung in den internationalen Beziehungen und die Unfähigkeit der EU, etwas anderes zu sein als ein bürokratischer Hohlraum, die mögliche Konfrontation im pazifischen Raum zwischen den USA und dem aufstrebenden China.

Von all dem verschont bleiben werden die Völker mit dem "langen Gedächtnis", d.h. China und die islamische Welt. Der Westen ist leider ein "kurzlebiges Volk" geworden. Früher waren auch die europäischen "langlebige" Völker. Man muß sich im klaren darüber sein, daß materieller Reichtum selbstverständlich kein Glücksgarant ist, noch weniger allerdings wird er die Überlebensgarantie eines Volkes in der Zukunft sein.

Diese Katastrophen werden die hochtechnisierten anonymen Zivilisationen des Westens treffen, nicht aber die wahren Völker. Wir haben hier den Unterschied von Zivilisation und Kultur vor uns. Zivilisationen werden sterben - Kulturen werden leben. Die Frage ist: Will Europa wieder eine Kultur werden, will es, wenn Sie so wollen, die "Renaissance" oder will es als Zivilisation sterben? Dieses Problem habe ich in meinem Buch "L' Archéofuturisme" behandelt.

Angesichts all dieser Katastrophen, die uns bedrohen, Guillaume Faye, sind Sie da nicht zum verbitterten Pessimisten geworden?

Ich bin glücklich, wenn ich Pessimist bin. Denn die Optimisten gehen immer zugrunde, weil sie nicht sehen wollen, was um sie herum geschieht. Wohingegen die Pessimisten auf alles um sich herum achtgeben, namentlich auf Hindernisse und Herausforderungen. Wir krepieren an der Ideologie des Optimismus: die "love story" mit "happy end". Alles geht den Bach runter, aber irgendwie wird alles gut werden, denn wir sind ja Optimisten. Das nenne ich den Totalitarismus des Optimismus, lächeln ist obligatorisch, obwohl jedem einzelnen innerlich zum heulen ist. Im Gegenteil also, ich finde, eine Katastrophe ist eine wunderbare Herausforderung, sich zu regenerieren. Diese Katastrophe wird vielleicht das vierte Kulturzeitalter in Europa einleiten, wenn es denn zur Kultur noch fähig ist. Europa kann sterben oder aber auf neuer Grundlage wiedererstehen.

Selbstverständlich ist es für einen Kranken nicht gerade erfreulich, wenn man ihm mitteilt: "Mein Herr, Sie kommen jetzt unters Messer!" Ich freue mich, daß ab 2010 sehr gravierende Dinge geschehen werden, Dinge, die ich leider nicht mehr erleben werde. Schreckliches kommt auf uns zu, aber um so besser, kein Grund Trübsal zu blasen, das wird ein Stimulans sein, ein Faktor der Selektion für die Europäer, das Ende der bür-gerlichen Gesellschaft, der Sturm wird losbrechen.

Sie sprachen vorhin von einem vierten Kulturzeitalter. Wird das die Zeit des Nach-Chaos sein?

Das wissen wir nicht. Hier muß ich einen kleinen Exkurs in die Mathematik machen. Eine Katastrophe ist mathematisch betrachtet ein heftiger und abrupter Verlust des Gleichgewichts innerhalb eines Systems oder, wenn Sie so wollen, ein Zustandswechsel. Unter System ist dabei sehr vieles zu verstehen: eine Familie, ein Volk, alles, was in der einen oder anderen Form organisiert ist. Dieser Gleichgewichtsverlust endet in einem Chaos, dann kommt es zu einer Wiederherstellung des Gleichgewichts, einer Stabilisierung, mit anderen Worten, zu einem Nach-Chaos. Das ist gültig für jedes physikalische System und jede Kultur, das ist etwas universal Gültiges.

Es kann nun gut sein, daß die europäische Kultur, und ich betone, ich spreche in diesem Zusammenhang nur von ihr und nicht von der "Menschheit", für die dieses Risiko nicht besteht, im Chaos versinkt, daß es also für sie kein Nach-Chaos geben wird, daß sie verschwinden wird. Das kann sehr gut sein, den Untergang von Kulturen sehen wir tausendfach in der Geschichte der Menschheit. Ich mache mir im Moment keine Sorgen um China oder den Islam, aber ich mache mir große Sorgen um Europa, denn vergessen Sie nicht, in zwanzig Jahren werden wir nicht mehr in dieser Zivilisation leben, das ist sicher. Schon nur der Lebensstandard wird vermutlich sehr viel tiefer als heute sein. In meinem Buch "L'Archéofuturisme" habe ich ein Weltwirtschaftssystem der zwei Geschwindigkeiten beschrieben: eine Minderheit behält eine übertechnisierte Ökonomie, die über-wältigende Mehrheit aber wird sich in einem neuen Mittelalter wiederfinden, mit einem Lebensniveau, das demjenigen im Europa des 16. Jahrhunderts vergleichbar ist.

Ich habe dieses Modell vor kurzem an der Wirtschaftsfakultät der Universität Birmingham vorgestellt. Ich hatte Angst, von den Studenten und den Professoren dort für einen Idiot gehalten zu werden, aber mitnichten, als Hypothese wird es von ernstzunehmenden Ökonomen durchaus akzeptiert. Es ist nun an uns, die Zeit nach dem Chaos vorzubereiten, denn das Wesentliche ist nicht, einen Lebensstandard aufrechtzuerhalten, sondern dafür zu sorgen, daß die europäische Kultur und die europäischen Völker überleben können.

Kann die Kultur in Europa, wenn es sie nach der Zeit des allgemeinen Chaos noch geben sollte, China und der islamischen Welt die Stange halten?

fayeCdEM.jpgNatürlich, unter der Bedingung, daß das Problem der islamischen Präsenz in Europa gelöst sein wird, denn wir sind das Opfer der dritten Invasion in der Geschichte des Islam in Europa, und unter der Bedingung, daß die Europäer wieder Kinder haben werden und ihre Vitalität wiedererlangen, denn die größte Macht eines Volkes sind nicht die Atom-U-Boote, sondern seine Werte, die Zahl der Kinder und der Zusammenhalt innerhalb des Volkes, das sind die drei wichtigsten Waffen. Es sind heute die Waffen der Chinesen und der Muslime, aber es sind nicht die Waffen der westlichen Welt. Das westliche Modell ist nur scheinbar vor Kraft strotzend und die Hegemonialmacht, die Vereinigten Staaten, wird sich als Eintagsfliege entpuppen.

Für wen schreiben Sie Ihre Bücher?

Für zwei Kategorien von Publikum: für ein junges Publikum, das dieselben Werte hat wie ich, und das in diesen Ansichten bestärkt werden muß, dem ich Argumente und Anregungen liefere, und für ein neues Publikum, das sich aus allen Schichten zusammensetzt, das nicht in parteipolitischen Denkmustern festgefahren ist, das sich aber gewissermaßen den gesunden Menschenverstand bewahrt hat oder in einer klaren Weltanschauung verankert ist. Ich habe Vorträge mit hinsichtlich "political correctness" fürchterlichem Inhalt, z.B. zum Thema Einwanderung, vor einer Zuhörerschaft von Linksextremen gehalten, und die Leute waren einverstanden mit dem, was ich gesagt habe. Ein anderes Beispiel: Vor kurzem habe ich vor einem rein muslimischen Auditorium einen islamkritischen Vortrag gehalten. Die Leute kamen nachher zu mir und sagten: "Sie haben begriffen, was wir wollen, aber da Sie glücklicherweise der einzige sind, macht es ja nichts."

Ich ergreife jedoch nie Partei, Parteipolitik ist mir völlig egal. Das Kind beim Namen zu nennen ist heutzutage überall schwierig in Europa, in der Öffentlichkeit natürlich sowieso. Am ehesten ist dies möglich in Spanien und vor allem in Italien. In zweiter Linie kommen Belgien und Frankreich, obwohl ich nicht zu viel rühmen will; Sie wissen vielleicht, daß ich in Paris einen Prozeß am Hals habe und es also erwiesenermaßen nicht ratsam ist, sich zu weit aus dem Fenster zu lehnen. In der Schweiz und in Deutschland würde ich nie wagen, solche Sachen öffentlich zu sagen. Ich denke, in Italien ist es heute tatsächlich am einfachsten, sich frei zu äußern. In den USA ist alles möglich, ich kann alles und das Gegenteil davon sagen, aber es hat keine Wirkung und verpufft ungehört.

Ich füge hinzu, daß es normal ist, daß unsere Ideen in Konflikt geraten mit der Zensur. Zensur hat es zu jeder Zeit, überall und in unterschiedlicher Form gegeben. Wichtig ist, sie zu umgehen und nicht dumm in die aufgestellten Fallen zu tappen. Und gleichzeitig muß man mutig sein, es gibt Dinge, die man klar und deutlich sagen muß. Man darf es nicht machen wie die französische "Neue Rechte" um Alain de Benoist, die aus Angst, von der Pariser Intelligentsia nicht mehr zum Italiener eingeladen zu werden, Ansichten und Ideen der extremen Linken übernimmt, daß heißt beispielsweise den Kommunitarismus, die Befürwortung der Immigration und der multikulturellen Gesellschaft usw.

Vor einiger Zeit konnte man im Fernsehen junge Menschen auf der Straße sehen: in Genua und in den nordenglischen Städten Oldham und Bradford. Welche Jugendlichen würden Sie bevorzugen?

Tja, wenn Sie mich so direkt fragen, dann stehe ich natürlich auf Seiten der jungen Briten in Oldham und Bradford, weil sie sich gegen die Übergriffe junger muslimischer Pakistanis gewehrt haben, denn vergessen wir nicht, in Oldham hat alles mit einem Angriff auf einen weißen, hoch-dekorierten Kriegsveteranen begonnen, der sich in ein von Immigranten beherrschtes Quartier ver-irrt hatte.

Die jungen Leute in Genua hingegen sind Opfer einer Manipulation, sie behaupten, gegen die Globalisierung zu sein, im Grunde tun sie jedoch nichts anderes, als der Globalisierung in ihrer liberalen Variante die trotzkistische entgegenzustellen. Der beste Beweis dafür ist, daß sie für die Abschaffung aller Grenzen sind.

Diese Demonstrationen à la Mai ´68 in Genua sind in gewissem Sinne reines Theater. Wir haben es hier mit einem klassischen Beispiel für Manipulation der Akteure und Desinformation des Publikums zu tun. Phänomene dieser Art dienen dazu, die Aufmerksamkeit der Menschen von dem abzulenken, was heute wirklich geschieht. Aber es ist interessant, daß in der Berichterstattung über die Tumulte in Nordengland die Medien vom eigentlich wichtigen Ereignis ablenkten, von der Tatsache, daß Teile des englischen Volkes konkret auf den Beginn eines Bürgerkrieges reagierten und gegen das ihnen von Immigranten quasi auferlegte Verbot, die eigenen Quartiere zu betreten, aufbegehrten.

Sprechen wir von den Autoren und den Büchern, die auf Sie und Ihren Werdegang am meisten Einfluß gehabt haben...

Oh, da gibt es einige. Wirklich zutiefst geprägt haben mich Friedrich Nietzsche, ich muß es gestehen, und ein großer Teil der deutschen Philosophie: Heidegger natürlich, über welchen ich eine größere Arbeit geschrieben habe, auf eine ganz besondere Art und Weise auch Hegel oder all die Lebensphilosophen wie Ludwig Klages und Georg Simmel. Beeindruckt hat mich auch der Wahldeutsche Houston Stewart Chamberlain. Ich finde überhaupt, daß es geradezu ein kategorischer Imperativ ist, sich mit deutscher Philosophie auseinanderzusetzen, man kommt einfach nicht darum herum. Obwohl ich nicht alle Thesen nachvollziehen kann, muß ich auch Carl Schmitt und seinen französischen Schüler Julien Freund erwähnen. Dann die amerikanischen Soziologen Bell und Lasch. Franzosen kommen mir fast keine in den Sinn, ja, gut, Julien Freund, den ich schon erwähnt habe, bestimmt aber Raymond Ruyer, der nicht sehr bekannt ist.

Mein Buch "L' Archéofuturisme" ist aber inspiriert worden durch sein vor langer Zeit erschienenes Buch "Les cent prochains siècles". Von den Franzosen haben mich auch einige, ein wenig spezielle Denker geprägt, der bekannte Guy Debord etwa, der die ziemlich ulkige Schule der Situationisten gegründet hat, mit seinen Betrachtungen über die "Gesellschaft des Spektakels".

Wichtig sind mir auch Michel Maffesoli, übrigens ein Freund von mir, Jacques Derrida und Michel Foucault. Von den französischen Dichtern beeindruckt mich Jean de La Fontaine, der Dichter der Fabeln, das ist ganz außerordentlich. Ich liebe auch einige Bücher von Ernst Jünger, nicht alle, aber bestimmt "Auf den Marmorklippen" und "Eumeswil".

Alle die Autoren sprechen mich an, die dem Leben und der Wirklichkeit verpflichtet sind.

Stichwort "Wirklichkeit": Nach einer Zeit, als Sie sich der Wirklichkeit gestellt haben, als Sie Radio gemacht und auch Drehbücher geschrieben haben, als Sie auch eine zeitlang als Kassierer in einem Supermarkt gearbeitet haben, sind Sie 1998 wieder auf die Bühne der europäischen "Neuen Rechten" zurückgekehrt. Warum?

Aus zwei Gründen: einmal weil ich mich in der Welt des Showbusiness gelangweilt habe. Es gab da zu viele mittelmäßige Leute. Zweitens hatte ich genug, mich zu amüsieren und dabei zu nichts nutze zu sein. Meine Radiosendungen brachten es zwar auf zweieinhalb Millionen Zuhörer, dennoch konnte ich nicht mit ansehen, was um mich herum passierte. Ich konnte nicht zuschauen, wie Europa untergeht wie die Titanic. Das angenehme Leben war mit meiner Rückkehr natürlich zu Ende, aber ich bin heute viel glücklicher.

Guillaume Faye, Sie haben vorhin erwähnt, daß Sie in einen Gerichtsprozeß verwickelt sind?

Das ist sehr interessant. Dieser Prozeß zeigt, daß es in Europa kein positives Recht mehr gibt und wir zu einem Recht zurückkehren, das man als inquisitorisches oder subjektives Recht bezeichnen könnte: man beurteilt nicht mehr eine Handlung, sondern die Gesinnung.

Die Veröffentlichung meines Buch "La colonisation de l'Europe" hat mir diesen Prozeß eingebracht. Was die Behörden so schockiert hat ist, daß ich die Einwanderung Kolonisierung nenne. Es gibt in diesem Buch keinerlei Aufstacheln zum Rassenhaß, wir müssen uns halt einfach wehren, weil wir angegriffen werden.

Als das Buch erschienen war, wurde ich vor den Kadi zitiert. Ziel war es, meinen Verleger mittels einer enormen Geldstrafe finanziell zu ruinieren und mir Angst einzujagen und mich daran zu hindern weiterzuschreiben. Der Chefankläger warf mir Aufstachelung zum Rassenhaß vor, 178 Seiten von 300 fielen laut Anklage unter diesen Tatbestand. Mein Anwalt wandte ein, daß juristisch betrachtet eine Handlung, also eine tatsächliche Erfüllung des Tatbestandes vorliegen müsse: ich stehle, wenn ich jemandem etwas tatsächlich wegnehme; ich stachle zum Rassenhaß auf, wenn ich meine Leser dazu aufrufe, ein Messer zu nehmen, damit auf die Straße zu gehen und alle Immigranten, die ihnen begegnen, umzubringen. Die Antwort der Richterin auf diesen Einwand: "Es ist die allgemeine Atmosphäre, die dieses Buch bei der Lektüre verströmt, daran spürt man deutlich, daß sie hassen." Und das vor 200 Zuhörern im Gerichtssaal. Sie fuhr fort: "Und im übrigen steht schon im Vorwort ein skandalöser Satz." Den besagten Satz hatte Alexander Solschenizyn in einem Zeitungsinterview gesagt. Mein Anwalt meinte nachher, die Richterin habe vermutlich nicht einmal gewußt, wer Solschenizyn ist, und falls doch, dann zumindest nicht genau, ob er verboten ist oder nicht. Der Satz also lautet: "Wenn die Feder nicht wie ein Dolch ist, dann taugt sie nichts." Ich wollte mit diesem Zitat ausdrücken, daß, wenn ein Buch die Dinge nicht beim Namen nennt, es nichts wert ist. Sie aber sagt mir: "Sie sehen ja selbst, wenn Sie andere Autoren zitieren, dann kommt da sofort ein Dolch ins Spiel, das beweist doch ihre potentielle Gewalttätigkeit. Das heißt mit anderen Worten, daß Sie Ihren Lesern einflüstern, Menschen zu töten!"

Aber ich hatte zwei Entlastungszeugen: einen Afrikaner und einen Araber. Die Richterin meinte, das sei nun wahrhaft teuflisch von mir. Die Zeugen sagten, was ich in meinem Buch schreibe, sei noch nicht einmal die halbe Wahrheit. Nun, meinem Verleger und mir wurde je eine Buße von 50.000 französischen Franken aufgebrummt, aber ich habe Berufung gegen das Urteil eingelegt und notfalls ziehe ich das Urteil weiter an den französischen Kassationshof. Was auch immer geschehen mag, ich werde nicht zahlen und publizistisch eher noch eins draufgeben.

Eine letzte Frage: Stand hinter Ihrem Ausflug ins Showbusiness auch ein wenig die Absicht, den "Tiger zu reiten"?

Sie spielen da natürlich auf den Titel eines Werkes von Julius Evola an. Evola finde ich hochinteressant, aber im Gegensatz zu vielen seiner Leser sind es seine Zeitanalysen wie "Revolte gegen die moderne Welt", seine politischen und soziologischen Texte wie "Cavalcare la tigre", die mich faszinieren. Seine anderen, esoterischen Bücher zu begreifen, dafür halte ich mich persönlich für zu wenig intelligent.

Aber um Ihre Frage zu beantworten: Ja, ich glaube, das kann man so sagen. Du kannst eine Sache nur kritisieren, wenn Du dieser Sache auf den Grund gegangen bist. Du kannst die Gesellschaft kritisieren, wenn Du Dich in ihrem Zentrum aufgehalten hast, ohne Dich durch diese Gesellschaft korrumpieren zu lassen. Ich habe beobachtet, ich habe mitgemacht, ohne innerlich dabei beteiligt gewesen zu sein, in diesem Sinne habe ich den Tiger geritten, ja.

Herr Faye, wir danken Ihnen für dieses Gespräch.

lundi, 17 mai 2010

Entretien avec le Prof. Claudio Risé: les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

Entretien avec le Prof. Claudio Risé:

Les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!

 

«Les hommes politiques italiens qui regardent vers l'avenir et constatent qu'inéluctablement une entité padanienne verra tôt au tard le jour enragent ou se désespèrent. Cette rage et ce désespoir sont pourtant en contradiction avec le sacro-saint droit à l'auto-détermination des peuples et avec l'Histoire, avec un “H” majuscule. Parce que le processus historique actuelle­ment en cours depuis la chute du Mur de Berlin indique clairement que la survie des vieux Etats nationaux ne peut plus constituer un dogme. Nous nous trouvons aujourd'hui face à une affir­mation globale des différences et des identités ethniques et culturelles qui se développent dans le monde entier. La myopie des politiciens romains les place en dehors de l'histoire». L'homme qui prononce devant moi ces paroles fortes n'est pas un militant de la Ligue lombarde de Bossi mais un universitaire tranquille qui vit au Sud-Tyrol et à Milan et enseigne à l'Université de Trieste une matière complexe que l'on nomme la “polémologie”, soit l'étude des guerres et surtout des guerres menées à l'époque dite “postmoderne” (de 1945 à nos jours).

 

Le Professeur Claudio Risé est aussi psychanalyste et auteur de nombreux livres nous permet­tant de méditer sur le destin et le passé des cultures traditionnelles et identitaires. Parmi ces ouvrages: Psicanalisi della guerre  (Red Edizioni) et Misteri, guerra e trasformazione  (Società Editrice Barbarossa).

 

Q.: Professeur Risé, qu'entendez-vous par “guerre postmoderne”?

 

CR: Si nous entendons par “moderne” l'époque qui a commencé par les révolutions bour­geoises de la fin du XVIIIième, qui se basaient sur les thèses de l'idéologie des Lumières et ont constitué l'origine à leurs avatars: le libéralisme, le marxisme et le fascisme, nous pourrions dé­finir la “postmodernité” comme l'ère de la crise de ces sociétés, crise commencée immédiate­ment après la seconde guerre mondiale qui a atteint son maximum d'acuité après l'effondre­ment de l'empire communiste à l'Est. Nous noterons, dans cette optique, que la ma­jeure partie des conflits qui ont éclaté au cours des cinquante dernières années a été déclen­ché au nom de principes considérés à tort comme “dépassés” par les mentalités matérialistes et illuministes: ces principes sont les droit à l'auto-détermination, la défense d'un territoire spéci­fique, la dé­fense existentielle de sa propre nation, que l'on perçoit comme l'expression inalié­nable d'une culture, de facteurs raciaux, de traditions, d'un héritage historique et non plus sim­plement comme un ordre juridique sec et codifié. Les guerres du XIXième siècle et les deux conflits mondiaux de notre siècle n'étaient pas du tout liés à de tels sentiments, à l'exception notable du monde germanique où l'on conservait intacte la notion d'une “Kultur” (c'est-à-dire l'essence des mythes fondant une communauté populaire) que l'on opposait volontiers à la “Zivilisation” (la dimension exclusivement matérielle et technique de l'écoumène humain, di­mension que détestait Spengler).

 

Q.: Aujourd'hui, nous assistons effectivement à un réveil des ethnies, que les médias et le monde politique italiens minimisent, ridiculisent ou tentent de criminaliser, notamment quand il s'agit de l'idée de “Padanie”. Ce comporte­ment ne se repère pas avec la même intentisé ailleurs...

 

CR: Telle est bien la question. Un Etat historiquement fort comme la Grande-Bretagne vient à son tour de reconnaître le Pays de Galles comme un Etat national (potentiel) et révise ses posi­tions dans l'épineuse question irlandaise. Une vieille nation digne comme l'Espagne parle dé­sormais d'autonomie et l'applique comme en Catalogne. En revanche, chez nous, les journaux italiens sont les seuls dans tout le monde civil à refuser de reconnaître comme un fait politique pertinent, de grande portée historique, l'émergence d'une entité padanienne. D'autre part, il faut souligner que les politiciens italiens ignorent les tenants et les aboutissants de cette ques­tion, car ils ne connaissent pas (ou feignent de ne pas connaître) la nature du problème. L'Italie étouffe dans le magma énorme de la bureaucratie étatique, dont le personnel est littéralement terrorisé à l'idée de perdre son travail. L'aversion à l'égard de l'idée padanienne chez beaucoup de fonctionnaires de l'Etat et de politiciens est ridicule, au-delà même de toute rhétorique de circonstance: elle est principalement motivée par leur instinct de survie, par le désir de maintenir des privilèges acquis. Le régime italien doit retrouver le calme en jettant un oeil sur les chiffres réels et non seulement sur les chiffres de propagande: depuis la fin de la guerre jusqu'à au­jourd'hui, le nombre des Etats est passé d'une quarantaine à près de deux cents. Faire sem­blant de ne pas voir cette évidence, c'est de la sottise sinon de l'aveuglement.

 

Q.: Comment expliquez-vous que, dans une époque essentiellement marquée par le globalisme économique, ce sont justement ces tendances identitaires qui soient en pleine expansion et que l'on redécouvre ses racines ethniques?

 

CR: Le globalisme des marchés s'accompagne d'une informatisation globale: là réside, à mes yeux, la grande innovation positive. Grâce aux réseaux d'internet, par exemple, des modèles culturels différents et des mouvements ethniques se diffusent et peuvent s'affronter entre eux chaque jour vingt-quatre heures sur vingt-quatre: c'est là un phénomène sans précédent. L'ouverture sur Internet a ôté aux Etats le pouvoir de contrôler la communication de masse. Paradoxalement, nous nous apercevons que le globalisme aide formidablement les revendica­tions ethniques des peuples.

 

Q.: Alors, Francis Fukuyama et les partisans du mondialisme, qui proclamaient qu'ils allaient mettre un terme à l'histoire et transformer la planète en un ag­glomérat d'individus sans racines se sont trompés dans leurs calculs?

 

CR: La théorie de Fukuyama a déjà été démentie depuis un certain temps, même s'il ne veut pas l'admettre. Les effets néfastes de la mondialisation sont déjà là, bien concrets, il suffit de garder les yeux ouverts. A leur grande stupeur, les potentats américains ont dû constater que les communautés redécouvraient peu à peu leurs cultures, leurs musiques, leurs littératures. Les forces traditionnelles sont revenues dans le circuit après l'hibernation due au bipolarisme USA/URSS (qui, par ailleurs, était un faux bipolarisme, vu les accords plus ou moins secrets entre les deux superpuissances). Ainsi, les marchés internationaux sont “relus” par les peuples spécifiques: ceux-ci acceptent de rentrer sur ces marchés, mais en n'abandonnant pas leurs ca­ractéristiques particulières et sans s'aligner sur une idéologie exclusivement économiciste. En effet, nous devons être bien attentifs à ne pas confondre le mondialisme homologuant, ennemi des racines des peuples, et le globalisme des échanges. Ce dernier, je le répète, est l'“ami” de l'idéal d'auto-détermination.

 

Q.: Selon vous, Prof. Risé, l'entité padanienne en Italie du Nord finira pas s'imposer, puisque l'histoire va dans cette direction. Naîtra-t-elle pacifique­ment ou y a-t-il des risques de tensions entre centralistes et indépendan­tistes, comme semble le prévoir le Prof. Miglio?

 

CR: Je ne suis pas en mesure de prédire l'avenir dans une boule de cristal, mais j'entrevois tout de même un grand danger pour l'Italie: sa faiblesse... Un individu qui possède un “moi” fort se montre plus tolérant que celui que ne possède qu'un “moi” faible. Si l'on reporte le “moi” indivi­duel sur celui de l'Etat, le résultat est identique. On sait comment est née l'Italie (l'Etat italien): sous l'impulsion d'un complot anglo-français, car la France comme l'Angleterre sont les enne­mies jurées de l'institution impériale (le Saint-Empire) et des puissances centre-européennes. Mais le résultat de ces manigances franco-britanniques a été un Etat faible qui ne manifeste au­cun respect pour les cultures vivantes et réelles à l'intérieur de ses frontières. L'identité des peuples de Padanie et des régions alpines est historiquement liée à la culture du vénérable Saint-Empire romain d'une part, et aux racines celtiques et lombardes, d'autre part. Les cul­tures, les sociétés, les communautés charnelles et réelles de ces régions padaniennes et al­pines ont entre elles des rapports féconds et profonds tandis que l'Etat italien est né au départ de principes tout-à-fait opposés voire antagonistes à ceux que la romanité antique, solaire et respectueuse de toutes les composantes de son Empire. La Rome antique n'a rien à voir avec la Rome actuelle. Valentin Moroz avait raison d'écrire, après sa condamnation en ex-URSS pour ses activités en faveur du nationalisme ukrainien: «Une nation ne peut exister que s'il y a des hommes prêts à mourir pour elle. Je sais que tous les hommes sont égaux. Ma raison me le dit. Mais en même temps, je sais que ma nation est unique... Mon cœur me le dit». Il me semble que de tels sentiments sont très éloignés de l'état d'esprit qui règne en Italie aujourd'hui.

(propos recueillis par Gianluca Savoini, pour le quotidien La Padania, 6 juin 1997).

 

dimanche, 16 mai 2010

Entretien avec A. Murcie et L.-O. d'Algange, éditeurs de Jean Parvulesco

JeanParvulesco_Paris2000-217x300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Entretien avec André Murcie et Luc-Olivier d'Algange, éditeurs de Jean Parvulesco

 

propos recueillis par Hugues RONDEAU

 

Amateurs de prose et de vers ajourés, André Murcie et Luc-Olivier d'Algange ne partagent cependant pas l'éthylique détachement de Rimbaud ou la talentueuse indifférence d'Hölderlin.

Pour eux, la poésie est le flambeau de leur combat. Courageux ou téméraires, ils se dépensent sans compter pour la survie d'une petite maison d'édition, les Nouvelles Littératures Européennes. Sous ce label sont déjà parus une revue au parfum de la grande littérature, un roman de Luc-Olivier d'Algange  (Le Secret d'or) et surtout un cahier d'hommage à Jean Parvulesco.

Trois cent quarante-quatre pages de témoignages et d'articles inédits font de ce volume, l'indispensable lexique de l'œuvre de l'auteur de  La Servante portugaise.

Editer Parvulesco ou avoir opté pour la subversion par le talent.

 

 

- En prenant la décision d'éditer Jean Parvu­lesco, génial trublion du la littérature franco­phone, vous avez pris un risque certain. Poête et essayiste, géopoéticien aurait dit Kenneth White, écrivain re­belle et ésotériste inspiré, Parvulesco ouvre les yeux des prédestinés mais demeure inconnu du grand public. Votre initiative avait-elle pour but de le rendre populaire ?

 

- Luc-Olivier d'Algange: Je dois avouer que mon engouement pour les écrits de Jean Parvulesco est né de la lecture en 1984 de son Traité de la chasse au faucon.  Il m'apportait la preuve attendue qu'une haute poésie était possible  —et même né­ces­saire—  dans cette époque pénombreuse où nous avons disgrâce de vivre. La dis­grâce, mais aussi, dirai-je, la chance ex­traordi­naire, car, en vertu de la loi des contrastes, c'est dans l'époque la plus déré­lictoire et la plus vaine que l'espoir nous est offert de connaître la joie la plus laborieuse et, dans sa splendeur absolue (Style), l'exaucement de la volonté divine.

Tel était le message que me semblait appor­ter la poésie de Jean Parvulesco. Or, sa­chant qu'André Murcie poursuivait une quête pa­rallèle à la mienne et qu'il envisa­geait en outre de lancer la revue Style,  il m'a semblé utile de lui faire part de ma dé­couverte. C'est ainsi que dès le premier numéro, avec un poême intitulé Le Privi­lège des justes se­crets, Jean Parvulesco de­vint une voie es­sentielle de la revue Style.  Celle-ci devait encore publier le vaste et fa­meux poème, Le Pacifique , nouvel axe du monde  ainsi que le Rapport secret à la nonciature,  qui est un admirable récit visionnaire sur les appari­tions de Medjugorge et de nombreux autres poèmes. Tout cela avant d'élargir encore son dessein, en créant les éditions des Nou­velles Littératures Européennes, et de pu­blier un Cahier Jean Parvulesco,  récapitu­lation en une succession de plans de l'univers de Parvulesco, en ses divers as­pects, poétiques, philosophiques, esthé­tiques, architecturaux, cinématogra­phiques ou politiques.

 

-  André Murcie:  En effet et ceci répond de façon plus précise à votre question, il est clair que Parvulesco va à contre-courant de ses contemporains. Jean Parvulesco n'est en aucune façon un spécialiste. Il est, au con­traire, de cette race d'auteurs qui font une œuvre, embrassement de l'infinité des appa­rences et de cette autre infini qui est der­rière les apparences. C'est là la diffé­rence soulignée par Evola entre «l'opus», l'œuvre, et le «labor», le labeur. Avec Par­vulesco, nous sommes aux antipodes d'un quelconque «travail du texte», c'est à dire que nous sommes au cœur de l'œuvre et même du Grand œuvre, ainsi que l'illustre d'ailleurs le premier essai, publié dans le Cahier dans la série des dévoilements: Al­chimie et grande poésie.

Ce texte est sans doute, depuis les De­meures philosophales  de Fulcanelli, l'approche la plus lumineuse de ces ar­canes et tous ceux qui cherchent à préciser les rapports qui unissent la création litté­raire et la science d'Hermès trouveront, sans nul doute, en ces pages, des informa­tions précieuses et, mieux que des informa­tions, des traces - au sens où Heidegger di­sait que nous devions mainte­nant nous in­terroger sur la trace des Dieux enfuis.

Pour Jean Parvulesco, il ne fait aucun doute que la lettre est la trace de l'esprit. C'est ainsi que son œuvre nous délivre des idolâ­tries du Nouveau Roman et autres lit­téra­tures subalternes qui réduisent les mots à leur propre pouvoir dans une sorte de res­sassement narcissique. Pour Jean Parvu­les­co, la littérature n'a de sens que parce qu'el­le débute avant la page écrite et s'achève a­près elle.

 

- Il est signicatif que ces propos sur l'alchimie soient, dans le même chapitre du Cahier, sui­vis par un essai intitulé: «La langue fran­çaise, le sentier de l'honneur»...

 

- Luc-Olivier d'Algange: Trace de l'esprit, trace du divin, la langue française retrouve en effet, dans la prose ardente et limpide de Jean Parvulesco, sa fonction oraculaire. Ses écrits démentent l'idée reçue selon la­quelle la langue française serait celle de la com­mune mesure, de la tiédeur, de l'anecdote futile. Jean Parvulesco est là pour nous rap­peler que dans la tradition de Scève, de Nerval, de Rimbaud, de Lautréa­mont ou d'Artaud, la langue française est celle du plus haut risque métaphysique.

«Langue de grands spirituels et de mys­tiques, écrit Jean Parvulesco, charitable­ment emportés vers le sacrifice permanent et joyeux, d'aristocrates et de rêveurs pré­destinés, faiseurs de nouveaux mondes et parfois même de mondes nouveaux, langue surtout, de paysans, de forestiers conspi­ra­teurs et nervaliens, engagés dans le chemi­nement de leurs obscures survi­vances trans­cendantales, occultes en tout, langue de la poésie absolue...».

C'est exactement en ce sens qu'il faudra comprendre le dessein littéraire qui est à l'origine du Cahier  - véritable table d'orien­tation d'un monde nouveau, d'une autre cul­ture, qui n'entretient plus aucun rapport, même lointain, avec ce que l'on en­tend or­dinairement sous ce nom. Car il va sans dire que la «Culture» selon Parvu­lesco n'est cer­tes pas ce qui se laisse asso­cier à la «Com­mu­nication» mais un prin­cipe, à la fois sub­versif et royal, qui n'a pas d'autre but que d'ou­trepasser la condition humaine.

Tel est sans doute le sens du chant intitulé Les douzes colonnes de la Liberté Absolue  que l'on peut lire vers la fin du Cahier:  «...que nous chantons, que nous chantons, par ces volumes conceptuels d'air s'appelant étangs, ou blancs corbeaux, au­tour de l'im­maculation des Douzes Co­lonnes, ver­tiges s'ou­vrant sur les Portes d'Or et indigo de l'At­lantis Magna, chu­chotement circu­laire et lent, je suis la Li­berté absolue».

L'œuvre doit ainsi accomplir, par une in­time transmutation, cette vocation surhu­maniste, qui, dans la pensée de Jean Par­vulesco, ne contredit point la Tradition, mais s'y inscrit, de façon, dirai-je, clandes­tine; toute vérité n'é­tant pas destinée à n'importe qui. Mais c'est là, la raison d'être de l'ésotérisme et du secret, qui, de fait, est un secret de nature et non point un secret de convention.

 

- Vous avez donné une large place dans le Cahier aux rêves et prémonitions métapoli­tiques de Jean Parvulesco.

 

- André Murcie: En ce qui concerne le do­maine politique, nous avons republié dans le Cahier, un ensemble d'articles de géopo­li­tique que Parvulesco publia naguère dans le journal Combat et qui eurent à l'époque un rententissement tout à fait extraodi­naire. Ce fut, à dire vrai, une occasion de polé­mi­ques furieuses. A la lumière d'évènements récents, concernant la réuni­fication de l'Alle­magne, les change­ments intervenus à l'Est, ces articles re­trouvent brusquement une actualité brû­lante. Il semblerait que seul ce­lui qui expé­rimente les avènements de l'âme soit des­tiné à comprendre les évè­nements du monde. Ainsi des études comme L'Allemagne et les destinés actuelles de l'Europe  ou en­co­re Géopolitique de la Mé­diterranée occiden­tale  donnent à relire les évènements ulté­rieurs dans une perspec­tive différente.

 

- Le Cahier s'enrichit aussi des reflexions peu banales de Parvulesco sur le cinéma.

 

- Luc-Olivier d'Algange: Je crois que nous mesurons encore mal l'influence de Jean Par­vulesco sur le cinéma français et euro­péen. On sait qu'il fut personnage dans cer­tains films de Jean-Luc Godard - en parti­cu­lier dans A bout de souffle, et qu'il fut aussi, par ailleurs, acteur et scénariste. A cet égard, le Cahier  contient divers témoi­gnages passionnants concernant, plus par­ticulière­ment, Jean-Pierre Melville et Wer­ner Schrœ­ter dont nul, mieux que l'auteur des Mystères de la villa Atlantis,  ne connait les véritables motivations.

Il nous propose là une relecture cinémato­graphique dans une perspective métapoli­ti­que qui dépasse de toute évidence les niai­se­ries que nous réserve habituellement la cri­tique cinématographique.

 

- André Murcie: L'intérêt extrême des té­moignages de Jean Parvulesco concernant l'univers du cinéma est d'être à la fois en pri­se directe et prodigieusement lointain. C'est à dire, en somme, de voir le cinéma de l'in­térieur, comme une vision, en sympa­thie pro­fonde avec le cinéaste lui-même, et non point telle la glose inapte d'un quel­conque cinéphile. C'est ainsi que Nietzsche ou Tho­mas Mann parlèrent de Wagner.

 

- D'autres textes, publiés dans ce Cahier ont également cette vertu du témoignage direct, qui nous donne à pressentir une réalité sin­gulière. Ainsi en est-il des récits portant sur Arno Brecker et Ezra Pound.

 

- Luc-Olivier d'Algange: J'ai été pour ma part très sensible à l'hommage que Jean Par­vulesco sut rendre à Ezra Pound dont Dominique de Roux disait qu'il n'était rien moins que «le représentant de Dieu sur la terre». Hélas, cette recherche de la poésie absolue était jusqu'alors mal comprise, li­vrée aux maniaques du «travail du texte» et autres adeptes du lit de Procuste, acharnés à faire le silence sur les miroitements ita­liens de l'œuvre de Pound.

Cette italianité fit d'alilleurs d'Ezra Pound une sorte d'apostat, alors que, par cette fidé­lité essentielle, il rejoignait au contraire, au-delà des appartenances spéci­fiantes, sa véri­table patrie spirituelle qui, en aucun cas ne pouvait être cette contrée où Edgard Poe et Lovecraft connu­rent les affres du plus impi­toyable exil.

Mais je laisse la parole à Jean Parvulesco lui-même: «Ce qu'Ezra Pound, l'homme sur qui le soleil est descendu, cherchait en Italie, on l'a compris, c'est le Paradis. Tos­cane, Om­brie, Ezra Pound avait accédé à la certi­tude inspirée, initiatique, abyssale, que le Para­dis était descendu, en Italie, pen­dant le haut moyen âge et que, très occul­tement, il s'y trouvait encore. Pour en trou­ver la passe in­terdite, il suffisait de se lais­ser conduire en avant, aveuglément - et nuptialement aveu­glé - par la secretissima,  par une cer­taine lu­mière italienne de tou­jours ».

 

Propos recueillis

par Hugues Rondeau.

 

Cahier Jean Parvulesco, 350 pages, Nouvelles Littératures Européennes, 1989.

 

Luc-Olivier d'Algange, né en 1955 à Göttingen (Allemagne) a publié :

 

Le Rivage, la nuit unanime  (épuisé)

Médiances du Prince Horoscopale (Cééditions 1978)

Manifeste baroque  (Cééditions, 1981)

Les ardoises de Walpurgis  (Cahiers du lo­sange, 1984)

Stances diluviennes  (Le Jeu des T, 1986)

Heurs et cendres d'une traversée lysergique  (Le Jeu des T, 1986)

 

Co-fondateur, avec F.J Ossang, de la revue CEE (Christian Bourgois éditeur)

Rédacteur de PICTURA EDELWEISS et PIC­TURA MAGAZINE

 

Textes parus dans :

Recoupes; Erres; L'Ether Vague; CEE; Encres Vives; Phé; Libertés; Sphinx; Evasion; Le Mi­roir du Verbe; Dismisura; Bunker; Le Cheval rouge; Devil-Paradis; Anthologie de la poésie initiatique vivante; Claron; Le Jeu des Tombes; Question de; Vers la Tradition; La Poire d'Angoisse; Camouflage; Strass-Polymorphe; Phréatique, Asturgie-Onirie; Pictura; Mensuel 25; Matulu, Place royale, L'Autre Monde.

 

André Murcie né en 1951

 

- Poèmes de poésie  (1967-1985)

- Poème pour la démesure d'André Murcie

- Poèmes de la démesure  (Work in progress).