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vendredi, 21 mai 2010

L'Arabia Saudita, l'Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

di Giovanni Andriolo

Fonte: eurasia [scheda fonte]


 
L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e culturale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista.

Analogie e differenze: un punto di partenza

Con la sua estensione di circa 1.700 km² e una popolazione di quasi 70 milioni di abitanti, l’Iran è uno dei Paesi più estesi e popolosi della regione vicino-orientale. L’Arabia Saudita supera l’Iran per estensione, raggiungendo circa i 2.250 km², ma presenta una popolazione inferiore, all’incirca 28 milioni di abitanti. I due Paesi risultano quindi essere tra i maggiori per estensione e, nel caso dell’Iran, popolosità di tutta la regione.

Entrambi i Paesi, poi, occupano un’importantissima area geografica, affiancando entrambi il Golfo Persico/Arabico (a cui, d’ora in poi, ci si riferirà come Golfo), anche se l’Arabia Saudita non si affaccia, come l’Iran, direttamente sull’importantissimo Stretto di Hormuz, passaggio d’ingresso per le navi nel Golfo stesso.

Dal punto di vista economico, i due Paesi basano la loro ricchezza sull’esportazione di materie prime: innanzitutto il petrolio, di cui l’Arabia Saudita detiene le riserve maggiori al mondo, mentre l’Iran si posiziona al terzo posto nella stessa classifica; ma anche gas, acciaio, oro, rame.

Entrambi i Paesi, poi, sono caratterizzati da un sistema politico forte, accentratore, di stampo religioso, che in Arabia Saudita prende le sembianze di un Regno, mentre in Iran si declina in una Repubblica Islamica.

Dal punto di vista culturale, entrambi i Paesi si configurano, per così dire, come Stati-guida della regione, essendo entrambi simbolo di due civiltà e di due culture storicamente importanti e forti.

Proprio su quest’ultimo punto nascono le prime divergenze tra i due Paesi: infatti l’Iran è la culla della civiltà persiana, storicamente affermata e radicata, e per niente disposta a vedersi superata dall’altra grande cultura che caratterizza l’Arabia Saudita, la civiltà araba. A questa prima divergenza culturale si affianca una divergenza religiosa, che vede nell’Iran il Paese-guida della corrente islamica sciita, sia per tradizione storica sia per numero di sciiti presenti nel Paese, mentre dall’altra parte, specularmente, la dinastia dei Saud che regna nell’Arabia Saudita si pone come centro di riferimento della corrente sunnita del mondo islamico.

Infine la posizione internazionale dei due Paesi, che attualmente vede da un lato l’Iran come il nemico più temibile di Israele e Stati Uniti, il primo dei cosiddetti “Stati Canaglia”, il Paese che con il suo piano di sviluppo del nucleare è sospettato di volersi dotare di potenti armi per minacciare la stabilità della regione; mentre dall’altro l’Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, un suo fondamentale interlocutore politico e commerciale, una colonna portante del sistema di mantenimento della stabilità nella regione.

Una breve storia dello scontro

La dinastia dei Saud appartiene alla corrente del Wahabismo islamico, una diramazione ultraortodossa del Sunnismo, e fin dalla fondazione del Regno Saudita ha sempre mantenuto un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell’Iran sciita e delle sue pretese di espansione militare e controllo della regione. Sia gli Wahabiti sia gli Sciiti continuano da sempre uno scontro ideologico religioso in cui ognuna delle correnti tenta di dimostrare l’infondatezza e l’inconsistenza dell’altra, in entrambi i Paesi. Infatti attualmente in Arabia Saudita circa il 15% della popolazione è di religione musulmana sciita, mentre in Iran circa il 10% della popolazione e sunnita. I rapporti tra i due Paesi si sono tuttavia mantenuti cordiali fino al 1979, anno in cui la Rivoluzione iraniana portò un cambio di regime nel Paese, trasformandolo in una Repubblica Teocratica. Il nuovo leader religioso Ruhollah Khomeini e gli uomini di governo iraniani criticarono aspramente il regime saudita, accusandolo di illegittimità. Dall’altra parte, il nuovo regime rivoluzionario insediatosi in Iran fu visto da parte dell’Arabia Saudita come un ulteriore pericolo per la stabilità della regione e per i propri possedimenti territoriali.

La prime avvisaglie di una guerra fredda tra i due Paesi si ebbero in occasione della Prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. L’Arabia Saudita, sebbene le sue relazioni con l’Iraq al tempo non fossero particolarmente strette, offrì a Saddam Hussein, sunnita, 25 miliardi di dollari per finanziare la guerra contro l’Iran, e spronò gli altri Stati arabi del Golfo ad aiutare finanziariamente l’Iraq. L’Iran rispose con minacce e con ricognizioni da parte della propria aviazione sul territorio saudita. Malgrado ciò, i due Paesi non interruppero in quel periodo le relazioni diplomatiche.

Prima della fine della guerra, però, accadde un evento che fece deteriorare fortemente le relazioni tra i due Paesi: nel 1987 infatti, durante il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita, un gruppo di pellegrini sciiti diede vita ad una protesta contro la dinastia saudita, causando una dura reazione da parte delle forze di sicurezza saudite, che uccisero circa 400 dimostranti, di cui più della metà di nazionalità iraniana. Di conseguenza, Khomeini rivolse forti accuse contro l’Arabia Saudita, l’Ambasciata Saudita a Tehran fu attaccata, furono presi in ostaggio alcuni diplomatici sauditi e uno di loro perse la vita. In quell’occasione furono interrotti i rapporti diplomatici tra i due Paesi e l’Arabia Saudita sospese la concessione di visti ai cittadini iraniani, impedendo loro in questo modo di effettuare l’annuale pellegrinaggio alla Mecca.

Dopo la fine della Prima guerra del Golfo, nel 1989, Iran e Arabia Saudita iniziarono lentamente a riavvicinarsi. Un impulso in questo senso fu dato dagli avvenimenti della Seconda guerra del Golfo, iniziata nel 1990, quando Saddam Hussein occupò con il proprio esercito il Kuwait. Iran e Arabia Saudita percepirono l’espansionismo iracheno come un forte pericolo per la propria integrità territoriale e per i propri pozzi petroliferi, per cui criticarono aspramente l’Iraq e in questo si avvicinarono notevolmente, arrivando a ristabilire relazioni diplomatiche nel 1991. In quell’anno le autorità saudite concessero a 115.000 pellegrini iraniani il visto per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca.

Negli anni seguenti, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono e alla fine degli anni ’90 i capi di stato di entrambi i Paesi scambiarono visite ufficiali nelle rispettive capitali. Iniziò da allora un periodo di cooperazione ufficiale tra i due Paesi con l’intento di diffondere stabilità e sicurezza nella regione.

La situazione attuale

Malgrado il riavvicinamento diplomatico ufficiale tra Iran ed Arabia Saudita negli anni ’90, restano oggi diverse incognite sui rapporti effettivi tra i due Paesi.

Infatti, da un lato l’Arabia Saudita continua a temere un possibile espansionismo iraniano sulla regione del Golfo. In questo senso, alimenta i dubbi sauditi l’atteggiamento del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, anti-statunitense, anti-israeliano, fautore di un controverso programma di sviluppo di energia nucleare, sospettato di voler dotare l’Iran di armi atomiche, critico verso il Regno Saudita e l’alleanza dei Saud con gli Stati Uniti. D’altra parte per l’Iran di Ahmadinejad continua a risultare incoerente l’atteggiamento saudita, che da un lato deplora la presenza israeliana in Palestina, dall’altro si pone come alleato degli Stati Uniti, principali alleati e protettori di Israele, che nella visione del presidente iraniano costituiscono il nemico per eccellenza.

In definitiva, i due Paesi si fanno ugualmente promotori della creazione di ordine e stabilità nella regione vicino-orientale, proponendo tuttavia due diversi schemi: l’Iran infatti predilige un profilo più indipendente e chiaramente ostile alle potenze che, a suo avviso, portano disordine nella regione, gli Stati Uniti e Israele; l’Arabia Saudita, invece, opta per un atteggiamento più riservato nei confronti delle potenze presenti nell’area, attenta soprattutto a perseguire le proprie politiche in accordo con i meccanismi che garantiscono il suo fiorente sviluppo economico. In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita diventa molto difficile, poiché si trova a dovere gestire rapporti amichevoli con attori che tra loro sono in forte conflitto. L’Arabia Saudita infatti si trova al centro di un complicato intreccio di interessi, per cui dipende per la sua sicurezza dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo deve mantenere buoni rapporti di vicinato con l’Iran, pur temendone le velleità aggressive. In contemporanea l’Arabia Saudita si trova a favorire, in quanto campione della civiltà araba e della religione musulmana, la causa palestinese contro la presenza israeliana, ma allo stesso tempo deve continuamente gestire i propri rapporti con gli Stati Uniti, a loro volta principali alleati di Israele.

Da parte sua, l’Iran nutre forti timori per la propria incolumità: infatti la presenza statunitense nella regione, sia come alleato di Israele, sia tramite il dislocamento di forze militari in territorio saudita e nel bacino del Golfo, spinge il governo di Ahmadinejad ad un atteggiamento aggressivo in chiave difensiva e genera ulteriori critiche verso la condotta della dinastia dei Saud.

Questo delicato equilibrio di forze è messo alla prova e minacciato dagli eventi che nell’ultimo decennio hanno sconvolto la regione vicino-orientale.

Da un lato la presenza di Hamas sulla striscia di Gaza e il fermento di Hezbollah in Libano. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di fornire armi e aiuti ad entrambi i movimenti, ad Hamas in chiave strategica anti-israeliana, ad Hezbollah con la stessa funzione e in quando movimento di matrice sciita. D’altra parte il Dipartimento di Stato statunitense identifica tra i finanziatori di Hamas l’Arabia Saudita stessa, fattore questo che complica ulteriormente l’intricata situazione internazionale del Regno dei Saud.

In secondo luogo l’attacco statunitense in Iraq del 2003 e soprattutto gli eventi che a questo sono seguiti: se da un lato, infatti, l’Arabia Saudita non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Saddam Hussein, dall’altro il declassamento che il sunnismo ha ricevuto nel Paese a vantaggio della popolazione sciita, in seguito al rovesciamento del regime di Saddam, non può che creare disappunto nel Regno dei Saud. In questo senso la politica dell’amministrazione Bush in Iraq non sembra aver considerato attentamente il fattore sciita. Infatti se in Iraq si dovesse rafforzare il governo dello sciita Nouri al-Maliki, si verrebbe a creare nel Vicino Oriente un blocco sciita che, partendo dall’Iran, proseguirebbe lungo l’Iraq, passando per la Siria (sciita solo nella figura della sua dirigenza, ma vicina politicamente all’Iran) e terminando in Libano (dove la presenza sciita è notevole) e a Gaza (dove Hamas gode del supporto iraniano).

Inoltre l’Iran si sta muovendo parallelamente lungo le vie del cosiddetto soft power, intromettendosi nella politica saudita (ma anche nello Yemen, in Bahrein, in Libia, in Algeria) per rafforzare le popolazioni sciite locali. In Arabia Saudita la già scarsa partecipazione politica diventa nulla per la minoranza sciita, che dal punto di vista sociale ed economico risulta fortemente svantaggiata. Le autorità saudite vietano alla comunità sciita di celebrare le proprie festività e di costruire moschee nel Paese, ad eccezione di alcune aree particolari. In questa situazione l’Iran interviene con aiuti e finanziamenti alla popolazione sciita, che a sua volta sembra accogliere con favore questo supporto. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita è impegnata nel finanziamento e nella costruzione di scuole Wahabite in altri Paesi, con il compito di diffondere la dottrina della corrente dei Saud. Questo tipo di politica soft non prevede l’uso della forza, ma può dare origine in alcuni casi a scontri veri e propri.

Un esempio di tali dinamiche si può vedere negli avvenimenti della fine del 2009 tra Yemen e Arabia Saudita. Il governo di Sana’a, infatti, ancora negli anni ’90 aveva armato e finanziato l’imam Yahya al-Houthi, di parte sciita, inviandolo nella regione settentrionale di Sa’adah con il compito di contenere e contrastare il proselitismo Wahabita attivo nella regione. Con il tempo, però, al-Houthi si pose alla guida di un movimento di rivendicazione dell’indipendenza di Sa’adah dallo Yemen. Il governo yemenita, allora, dopo aver accusato l’Iran di finanziare il movimento di al-Houthi, chiamò in aiuto l’Arabia Saudita, il cui esercito ha effettuato tra novembre e dicembre del 2009 diverse incursioni nel nord dello Yemen, fino a schiacciare i guerriglieri di al-Houti. Ahmadinejad, da parte sua, non ha tardato a criticare l’intervento saudita nello Yemen, chiedendo provocatoriamente per quale motivo l’Arabia Saudita non si sia dimostrata altrettanto pronta ad intervenire durante i bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; l’Arabia Saudita ha risposto accusando l’Iran di intromissione negli affari interni yemeniti.

Alcune conclusioni

Alla luce di quanto appena raccontato emerge chiaramente come gli accordi ufficiali tra Iran e Arabia Saudita, volti allo sviluppo di una politica di stabilità e di cooperazione anche economica, celino in realtà una complessa rete di schermaglie, accuse, disaccordi che, nella migliore tradizione della guerra fredda, si ripercuotono su altri attori internazionali senza sfociare, per ora, in uno scontro diretto. Ne sono esempi concreti il caso dello Yemen appena descritto o l’Iraq post-Saddam, con la guerriglia tra la maggioranza sciita e le comunità sunnite, entrambe supportate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. E’ un altro valido esempio la diffusione, ad opera del governo di Riad, di scuole di matrice wahabita in diversi Paesi arabi, così come la propaganda sciita e il supporto da parte iraniana alle comunità sciite in diversi Paesi a maggioranza sunnita, tra cui l’Arabia Saudita.

In ultima analisi tutte queste incomprensioni sembrano nascere, oltre che da volontà di autoaffermazione di tipo culturale e religioso (civiltà araba-civiltà persiana, sunnismo-sciismo), soprattutto da un fattore che domina da decenni lo scenario vicino-orientale: la paura.

Da un lato infatti, l’Arabia Saudita teme la continua espansione dell’influenza iraniana nella regione, mentre dall’altro l’Iran teme l’avvicinamento delle monarchie del Golfo agli Stati Uniti.

Inoltre non va dimenticato che entrambi i regimi attivi nei due Paesi si stanno confrontando con una crescente opposizione interna: da un lato i Saud, le cui politiche di avvicinamento agli Stati Uniti contrariano fortemente parte dell’ortodossia religiosa e il movimento al-Qaida, presente nel Paese malgrado gli sforzi delle forze di sicurezza interne per contrastarlo; dall’altra il governo di Ahmadinejad, criticato sempre più apertamente da ampi strati della società, come dimostra l’ondata di proteste levatasi in occasione delle recenti elezioni iraniane.

La paura di aggressioni dall’esterno unita all’instabilità crescente dei due regimi sembra spingere dunque Iran e Arabia Saudita verso posizioni sempre più aggressive e contrastanti. Così, ad esempio, il programma iraniano di sviluppo in campo nucleare sta causando un’analoga corsa al nucleare da parte dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui l’Arabia Saudita è l’elemento più importante), che hanno già chiesto supporto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per lo sviluppo di un reattore nucleare.

L’equilibrio mantenuto nella regione dall’interconnessione di interessi strategici ed economici, che vede l’esuberanza iraniana moderata dall’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, non ha ancora provocato scontri diretti tra i due Paesi. Tuttavia, la costante instabilità dell’intera regione e dei governi delle due potenze vicino-orientali potrebbe portare ad un crescente scontro tra due Paesi dotati di risorse energetiche e di armamenti ingenti e moderni. Finora gli attriti sono sfociati in scontri armati decentrati, coinvolgendo attori diversi, ma non è escluso che una crescente ostilità, alimentata anche dagli avvenimenti bellici che stanno avvenendo in varie zone della regione, possa portare a conseguenze più gravi.

Lo scontro tra Iran ed Arabia Saudita sembra inserirsi, dunque, nel complesso mosaico delle vicende vicino-orientali, interconnettendosi a queste, alimentandole e traendo contemporaneamente da queste alimentazione. Il fatto che due potenze come Iran ed Arabia Saudita si trovino in un tale stato di terrore, dimostra come sia l’autoritarismo interno sia l’aggressività verso l’esterno non sembrino garantire, nel Vicino Oriente, quella stabilità e sicurezza che tutto il mondo auspica, e soprattutto come sia Iran sia Arabia Saudita risultino attualmente inadeguate al ruolo di Paese-guida nella regione del Golfo a cui entrambe ambiscono.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
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mercredi, 19 mai 2010

Arctique et hydrocarbures: les accords russo-norvégiens

Andrea PERRONE:

Arctique et hydrocarbures: les accords russo-norvégiens

 

Moscou et Oslo signent un accord sur les frontières maritimes arctiques et mettent un terme à plus de quarante années de controverses

 

carte_norvege_fr.gifLe 27 avril 2010, le Président russe Dmitri Medvedev terminait sa visite de deux jours en Norvège, visite qui avait eu pour but de renforcer les relations bilatérales entre les deux pays et d’innover dans le domaine de la coopération énergétique.

 

En présence d’un parterre bien fourni d’entrepreneurs et d’industriels norvégiens, le chef du Kremlin a souligné que son pays voulait améliorer le partenariat stratégique et énergétique avec la Norvège et trouver une issue à la querelle qui oppose Moscou et Oslo pour la maîtrise des eaux territoriales dans la Mer de Barents, dont les fonds recèlent de vastes gisements de ressources énergétiques.

 

La visite de Medvedev a également permis de conclure un accord historique sur les frontières maritimes dans l’Océan Glacial Arctique, après quarante années de querelles irrésolues. Le premier Ministre norvégien, Jens Stoltenberg, l’a annoncé lors d’une conférence de presse à Oslo, tenue avec le Président russe. “C’est une journée historique”, a déclaré Stoltenberg, “car nous avons trouvé la solution à une question importante, demeurée ouverte, et qui opposait la Norvège à la Russie”. “Nous sommes voisins”, a ajouté pour sa part Medvedev, “et nous voulons coopérer”. Stoltenberg a ensuite souligné que les deux pays se sont mis d’accord sur tout et a précisé que l’accord conclu était “optimal et bien équilibré”. “Cette solution”, a poursuivi le Premier Ministre norvégien, “représente plus qu’une délimitation territoriale sous la surface de l’océan; il s’avère important pour le développement de bonnes relations de voisinage”.

 

L’enjeu? Une zone de 175.000 km2, situés à proximité de l’archipel des Spitzbergen (qui appartient à la Norvège) et l’île de la Nouvelle-Zemble (qui fait partie de la Fédération de Russie). En 1978 déjà, un accord était entré en vigueur qui consentait aux deux pays de pêcher dans la zone mais sans régler définitivement la question des frontières maritimes. Or la question était épineuse, surtout parce que les experts pensent que dans le fond de l’Océan Arctique se trouvent d’énormes réserves de gaz naturel et de pétrole. La signature de l’accord par les ministres des affaires étrangères norvégien et russe s’est effectuée la veille du départ de Medvedev pour le Danemark, où il s’est rendu pour une visite officielle de deux jours (les 27 et 28 avril 2010).

 

En juillet 2007, la Russie et la Norvège avaient déjà signé une déclaration de principe pour délimiter les zones offshore du Fjord de Varanger (Varangerfjorden) dans la Mer de Barents: cette fois, les diplomates russes et norvégiens ont décidé de trouver un accord pour les autres frontières maritimes dans la même zone arctique, riche en gaz et en pétrole. La Norvège est le troisième exportateur mondial d’or noir, après l’Arabie Saoudite et la Russie. Oslo possède encore d’abondantes réserves de gaz naturel et s’intéresse au gisement russe de Shtokman, situé dans la partie orientale de la Mer de Barents et à l’exploitation d’autres gisements dans la presqu’île de Jamal, toujours sur territoire russe. La compagnie norvégienne Statoil, qui contrôle 24% des actions émises sur ces gisements, a réussi, fin avril 2010, lors du nouvel accord russo-norvégien à convaincre les Russes de passer à la réalisation du projet d’exploitation du riche gisement de Shtokman, dont Gazprom possède 51% des actions et la société française Total, 25%. Le 13 juillet 2007, Gazprom et Total ont signé un accord-cadre pour financer et construire les infrastructures du gisement. Le 25 octobre de la même année, une déclaration de principe de même nature avait été scellée entre la compagnie d’Etat russe et l’instance qui allait devenir l’actuelle Statoil norvégienne. Le 21 février 2008, les trois compagnies fondent un consortium commun à Zoug en Suisse.

 

Le soir suivant, Medvedev partait pour Copenhague, où plus aucun chef d’Etat russe ne s’était rendu depuis la visite de Nikita Khrouchtchev en 1964. L’actuel chef du Kremlin a rencontré le 28 avril 2010 les plus hautes autorités du Royaume du Danemark pour discuter d’accords commerciaux et régler les investissements danois dans les secteurs russes de l’énergie et de l’agriculture, sans oublier, bien évidemment, les questions qui touchent à la sécurité de l’Europe.

 

Andrea PERRONE / a.perrone@rinascita.eu

(article issu de “Rinascita”, Rome, 28 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; http://www.rinascita.eu ).

mardi, 11 mai 2010

Russie et Danemark: coopération énergétique

DANEMARK.gifAndrea PERRONE:

Russie et Danemark: coopération énergétique

 

Medevedev en visite officielle à Copenhague: renforcement du partenariat stratégique et énergétique entre la Russie et le Danemark

 

Le Président russe Dmitri Medvedev a entamé un voyage en Europe du Nord dans le but de souder un partenariat énergétique, de renforcer les relations bilatérales et multilatérales dans la zone arctique et la coopération en matières de haute technologie et d’énergies renouvelables.

 

Mercredi 28 avril 2010, Medvedev se trouvait au Danemark. Le chef du Kremlin y a atterri et y a été accueilli par la Reine Margarete II et par le Premier Ministre Lars Lokke Rasmussen. Le thème privilégié de cette rencontre au sommet, qui doit sceller la coopération russo-danoise, a été l’énergie, plus particulièrement la construction du gazoduc North Stream.

 

Le Président russe, en participant à un sommet d’affaires russo-danois, a souligné qu’il s’avère surtout nécessaire “de créer un critère général et des réglementations pour la coopération énergétique du futur”. Ensuite: “Il s’avère nécessaire de mettre à l’ordre du jour des normes et des réglementations internationales pour la coopération énergétique”, a poursuivi le chef du Kremlin, “parmi lesquelles une nouvelle version de la Charte de l’énergie”. La Russie a déjà présenté à ses interlocuteurs un document de ce type, dans l’espoir que les Danois feront de même, de leur côté. Medvedev a ensuite rappelé que le secteur énergétique représente un secteur clef de la coopération entre la Russie et le Danemark. Moscou et Copenhague, a souligné le Président russe, ont désormais visibilisé leur contribution à la sécurité énergétique en Europe et leur souhait de voir se diversifier les routes d’acheminement du gaz, dont le gazoduc North Stream. Il a ensuite adressé ses meilleurs compliments au Danemark, premier pays à avoir participé à la construction du gazoduc et à avoir permis son passage à travers sa propre zone économique. La réalisation du gazoduc North Stream, a poursuivi Medvedev, rendra possible, non seulement la satisfaction des besoins en gaz du Danemark, mais aussi son rôle d’exportateur de gaz vers les autres pays européens, tandis que les contrats à long terme dans les secteurs du pétrole et du gaz naturel pourront garantir le partenariat énergétique russo-danois pour les trente prochaines années. Medvedev a également mis en exergue la participation des entreprises danoises dans les programmes de mise à jour et de rentabilisation des implantations énergétiques dans diverses régions de Russie. Le premier ministre danois et le chef du Kremlin ont ensuite signé, au terme de la rencontre, une série d’accords portant pour titre “partenariat au nom de la modernisation” et visant la coopération dans le secteur de la haute technologie et le développement de l’économie russe dans certaines régions de la Fédération de Russie, comme le Tatarstan.

 

Andrea PERRONE,

a.perrone@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 29 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu ).

samedi, 01 mai 2010

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Firmata l’intesa, fra Mosca e Oslo, sui confini dell’Oceano Artico dopo 40 anni di insanabili contrasti

Andrea Perrone

Si è conclusa ieri la visita di due giorni del presidente russo Dmitrij Medvedev in Norvegia per rafforzare le relazioni, l’innovazione e la cooperazione energetica con Oslo.


medNorv.jpgAlla presenza di un folto gruppo di imprenditori e industriali il capo del Cremlino ha sottolineato che il suo Paese vuole migliorare la partnership strategica dell’energia con la Norvegia e trovare una via d’uscita alla disputa che contrappone Mosca e Oslo per le acque territoriali del Mare di Barents, i cui fondali possiedono vasti giacimenti di risorse energetiche.
La visita di Medvedev ha garantito anche il raggiungimento di uno storico accordo sul confine nel Mar Glaciale Artico, dopo 40 anni di insanabili contrasti. Ad annunciarlo è stato il premier norvegese, Jens Stoltenberg (nella foto con Medvedev) a Oslo, in una conferenza stampa congiunta con il presidente russo. “È un giorno storico - ha dichiarato Stoltenberg - abbiamo trovato la soluzione a una questione importante rimasta aperta tra Norvegia e Russia”. “Siamo vicini - ha aggiunto da parte sua Medvedev - e vogliamo cooperare”. Stoltenberg ha sottolineato che i due Paesi si sono accordati su tutto precisando che l’accordo è stato “ottimo e bilanciato”. “Questa soluzione - ha proseguito il primo ministro norvegese - è più di una linea di confine sotto l’Oceano. È per lo sviluppo di buone relazioni di vicinato”.
In gioco una zona di 175.000 chilometri quadrati posta tra l’arcipelago delle Spitzbergen (che appartengono alla Norvegia) e l’isola di Novaja Zemlija (di proprietà della Russia). Già dal 1978 è in vigore un accordo che consente a entrambi i Paesi di pescare in quell’area, ma la questione dei confini marittimi era rimasta incompleta. Una questione spinosa, anche perché gli esperti ritengono che nell’Artico si trovino enormi riserve di gas naturale e petrolio. La firma dell’accordo, da parte dei ministri degli Esteri di Oslo e Mosca, è giunto in serata prima della partenza di Medvedev per la Danimarca dove si recherà per una visita di due giorni (27-28 aprile).
Nel luglio 2007 Russia e Norvegia avevano già firmato un’intesa per delimitare le aree offshore del Varangerfjord nel Mare di Barents: questa volta hanno deciso di accordarsi su altri confini sempre nella stessa area, ricca di gas e petrolio. La Norvegia è il terzo esportatore mondiale di “oro nero” dopo l’Arabia Saudita e la Russia. Oslo possiede però anche abbondanti riserve di gas naturale ed è interessata al giacimento russo di Shtokman, situato nella parte orientale del Mare di Barents e allo sfruttamento di quello della penisola di Jamal, sempre in territorio russo. La compagnia norvegese Statoil, che controlla il 24% del pacchetto azionario, con l’accordo di ieri tra Mosca e Oslo, è riuscita a convincere la Russia a mettere in atto la realizzazione del progetto per lo sfruttamento del ricco giacimento di Shtokman, di cui Gazprom possiede un 51% e la società francese Total il 25 per cento. Il 13 luglio 2007 Gazprom e Total hanno firmato un accordo quadro per finanziare e realizzare le infrastrutture del giacimento. Il 25 ottobre dello stesso anno un’analoga intesa è stata siglata fra la compagnia di Stato russa e l’odierna Statoil norvegese. Il 21 febbraio 2008 è stato fondato un consorzio fra le tre compagnie a Zug, in Svizzera.
In serata poi Medvedev è giunto a Copenaghen dove nessun leader russo si è più recato dall’ultima visita di Nikita Krusciov, nel lontano 1964. L’attuale capo del Cremlino si incontrerà oggi con le massime autorità della Danimarca per discutere di accordi commerciali e investimenti danesi nel settori russi dell’energia e dell’agricoltura, nonché della sicurezza europea.


28 Aprile 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=1799

mardi, 06 avril 2010

South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

»South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

 

Nabucco auf dem Trockenen …

Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

 

 

__________

(1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

(2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

(3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

(4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

(5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

(6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

(7) Ebenda

(8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

(9) Ebenda

(10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

(11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

(12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

 

Mittwoch, 31.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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dimanche, 04 avril 2010

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Russlands Position als wichtigster Energielieferant für Deutschland und die EU scheint gefestigt, die Orangene Revolution ist de facto rückgängig gemacht. Jetzt richtet sich die russische Politik vermehrt ostwärts auf den Energiebedarf des dortigen Kooperationspartners China, des ehemaligen Feindes in der Zeit des Kalten Krieges. Diese Entwicklung sorgt im Pentagon für Kopfschmerzen und schlaflose Nächte, denn hier wird Halford Mackinders schlimmster Albtraum wahr – die friedliche wirtschaftliche Vereinigung der Region, die er das Herzland der Weltinsel nannte.

Moskau orientiert sich gen Osten

gaz-russe-via-ukraine.jpgEnde 2009 hat Moskau genau zum geplanten Zeitpunkt und zur großen Überraschung Washingtons nach vierjähriger Bauzeit die Ostsibirien-Pazifik-Pipeline (East Sibiria Pacific Ocean, ESPO) in Betrieb genommen. Der Bau der Ölpipeline hat etwa 14 Milliarden Dollar gekostet. Sie ermöglicht Russland nun den direkten Export von Öl aus den ostsibirischen Feldern nach China sowie nach Südkorea und Japan – ein großer Schritt zu einer engeren wirtschaftlichen Integration zwischen Russland und China. Die Pipeline verläuft zum etwas nördlich der chinesischen Grenze gelegenen Ort Skoworodino am Fluss Bolschoi Newer. Dort wird das Öl für den Transport zum Pazifikhafen Kozmino in der Nähe von Wladiwostok zurzeit noch auf Eisenbahntankwagen umgeladen. Allein der Bau dieser Station hat zwei Milliarden Dollar gekostet. Dort können täglich bis zu 300.000 Barrel Rohöl verladen werden. Das Öl, das von vergleichbarer Qualität ist wie die im Nahen Osten geförderten Sorten, dominiert mittlerweile den Markt in der Region. Der russische staatliche Pipelinemonopolist Transneft hat noch einmal zwölf Milliarden Dollar in die 2.700 Kilometer lange Pipeline durch die ostsibirische Wildnis investiert, die eine Verbindung zu den verschiedenen, von den russischen Großunternehmen Rosneft, TNK-BP und Surgutneftegaz erschlossenen Ölfelder in der Region herstellt.

Der Anschluss zum Endhafen Kozmino soll 2014 fertiggestellt sein, der Bau verschlingt noch einmal zehn Milliarden Dollar. Die Gesamtpipeline hat dann eine Länge von 4.800 Kilometern, das ist mehr als die Strecke von Los Angeles nach New York. Darüber hinaus haben sich Moskau und Peking auf den Bau eines Abzweigs von Skoworodino nach Daqing in der nordostchinesischen Provinz Heilongjiang geeinigt. Die Provinz ist das Zentrum der chinesischen petrochemischen Industrie, dort findet sich auch das größte Erdölfeld in China. Nach der Fertigstellung werden pro Jahr etwa 80 Milliarden Tonnen sibirisches Öl über die Pipeline transportiert und 15 Milliarden Tonnen über einen weiteren Abzweig aus China.

Welche Wichtigkeit man im energiehungrigen China dem russischen Öl beimisst, zeigt sich daran, dass China Russland ein Darlehen über 25 Milliarden Dollar gewährt hat, als Gegenleistung für Öllieferungen in den nächsten zwei Jahrzehnten. Im Februar 2009, als der Ölpreis von seinem vorherigen Höchststand von 147 Dollar pro Barrel innerhalb weniger Monate auf 25 Dollar pro Barrel gefallen war, standen der russische Rosneft-Konzern und der Pipeline-Betreiber Transneft kurz vor dem Zusammenbruch. Peking reagierte damals sehr schnell und sicherte sich die künftige Lieferung von Öl aus den sibirischen Feldern: Die staatliche Chinesische Entwicklungsbank bot Rosneft und Transneft Darlehen in Höhe von zehn bzw. 15 Milliarden Dollar an, insgesamt also eine Investition über 25 Milliarden Dollar für den beschleunigten Bau der Pazifik-Pipeline. Russland versprach seinerseits die Erschließung weiterer neuer Felder sowie den Bau des ESPO-Abschnitts nach Daqing von Skorowodino bis zur chinesischen Grenze, eine Entfernung von knapp 70 Kilometern. Außerdem werden mindestens 300.000 Barrel Öl der sehr gefragten schwefelarmen Sorte Sweet Crude an China geliefert. (1)

Jenseits der russischen Grenze, auf der chinesischen Seite, will Peking eine eigene knapp 1.000 Kilometer lange Pipeline nach Daqing bauen. Das chinesische Darlehen wurde mit sechs Prozent Zinsen vergeben, das russische Öl müsste also für 22 Dollar pro Barrel an China verkauft werden. Heute liegt der Ölpreis international wieder bei durchschnittlich 80 Dollar pro Barrel – China macht also wirklich ein sehr gutes Geschäft. Anstatt nun über den vereinbarten Preis neu zu verhandeln, ist man in Moskau offensichtlich zu der Erkenntnis gekommen, dass der strategische Vorteil der Verbindung mit China den möglichen Einnahmeverlust wettmacht. Man behält sich die Preisfestsetzung für das restliche Öl vor, das durch die ESPO-Pipeline bis zum Pazifik zu anderen asiatischen Märkten fließt.

Während die Energiemärkte in Westeuropa die Aussicht auf relativ stabile Nachfrage bieten, boomen die Märkte in China und ganz Asien. Deshalb orientiert sich Moskau deutlich gen Osten. Ende 2009 hat die russische Regierung einen umfassenden Energiebericht mit dem Titel Energy Blueprint for 2030 (zu Deutsch: Energieplan für 2030) herausgegeben. Darin werden umfangreiche inländische Investitionen in die ostsibirischen Ölfelder gefordert, es ist die Rede von einer Verschiebung der Ölexporte nach Nordostasien. Der Anteil der russischen Exporte in die Asien-Pazifik-Region soll von acht Prozent im Jahr 2008 im Verlauf der nächsten Jahre auf 25 Prozent steigen. (2) Das hat sowohl für Russland als auch für Asien, besonders für China, bedeutende Konsequenzen.

China hat Japan bereits vor einigen Jahren als zweitgrößter Öl-Importeur nach den Vereinigten Staaten überholt. China misst der Frage der Energiesicherheit große Bedeutung bei, deshalb ist Ministerpräsident Wen Jiabao soeben zum Leiter eines ressortübergreifenden Nationalen Energierats ernannt worden, der Chinas Energiepolitik koordinieren soll. (3)

 

Russland beginnt mit der Lieferung von LNG-Gas nach Asien

Wenige Monate vor Fertigstellung der ESPO-Ölpipeline zum Pazifik hat Russland mit der Lieferung von Flüssig-Erdgas (Liquified Natural Gas, LNG) innerhalb des Projektes Sachalin-II begonnen, einem Joint Venture unter Führung von Gazprom, an dem auch die japanischen Konzerne Mitsui und Mitsubishi sowie die britisch-niederländische Shell beteiligt sind. Russland sammelt mit dem Projekt unschätzbar wichtige Erfahrungen auf dem sehr schnell wachsenden LNG-Markt, d.h. einem Markt, der nicht auf den Bau langfristig festgelegter Pipelines angewiesen ist.

China macht auch anderen Ländern der ehemaligen Sowjetunion Offerten, um sich künftige Energielieferungen zu sichern. Ende 2009 wurde der erste Abschnitt der Zentralasien-China-Pipeline, die auch als Turkmenistan-China-Pipeline bekannt ist, fertiggestellt. Sie befördert Erdgas aus Turkmenistan über Usbekistan nach Südkasachstan und verläuft parallel zu der bereits bestehenden Pipeline Buchara–Taschkent–Bischkek–Almaty. (4)

In China schließt die Pipeline an die bestehende West-Ost-Gaspipeline an, die quer durch das Land verläuft und weit entfernt gelegene Städte wie Schanghai und Hongkong versorgt. Etwa 13 Milliarden Kubikmeter sollen 2010 über diese Pipeline transportiert werden, die Menge soll bis 2013 auf über 40 Milliarden Kubikmeter steigen. Später soll über diese Pipeline mehr als die Hälfte des chinesischen Erdgasverbrauchs gedeckt werden.

Es war die erste Pipeline, über die Gas aus Zentralasien nach China gebracht wurde. Die Pipeline aus Turkmenistan, die 2011 in Betrieb genommen werden soll, wird mit einem aus Westkasachstan kommenden Strang verbunden. Sie wird Erdgas von mehreren kasachischen Feldern nach Alashankou in der chinesischen Provinz Xingjiang befördern. (5) Kein Wunder, dass die chinesischen Behörden alarmiert waren, als im Juli 2009 Unruhen unter den dort lebenden ethnischen Uighuren ausbrachen. Die chinesische Regierung beschuldigte den in Washington ansässigen Weltkongress der Uighuren und dessen Vorsitzende Rebiya Kadeer, den Aufstand angezettelt zu haben. Der Weltkongress unterhält angeblich enge Verbindungen zu der vom US-Kongress unterstützten und mit Regimewechseln erfahrenen Nicht-Regierungs-Organisation National Endowment for Democracy. (6) Xinjiang wird für den künftigen Energiefluss in China immer wichtiger.

Entgegen den Behauptungen einiger westlicher Kommentatoren stellt die Turkmenistan-China-Pipeline keineswegs eine Bedrohung für Russlands Energiestrategie dar. Sie festigt vielmehr die wirtschaftlichen Verbindungen zu den Mitgliedsländern der Shanghai Cooperation Organization (SCO). Gleichzeitig wird darüber ein erheblicher Teil des Gases aus Turkmenistan nach China transportiert, der sonst über die von Washington favorisierte Nabucco-Pipeline geflossen wäre. Aus geopolitischer Sicht kann dies für Russland nur von Vorteil sein, denn ein Erfolg von Nabucco würde für Russland erhebliche Einbußen an wirtschaftlichem Einfluss bedeuten.

Die 2001 von den Staatschefs Chinas, Kasachstans, Kirgisistans, Russlands, Tadschikistans und Usbekistans in Shanghai gegründete SCO hat sich mittlerweile zu Mackinders schlimmsten Albraum entwickelt – in ein Instrument enger wirtschaftlicher und politischer Kooperation zwischen den Schlüsselländern Eurasiens, unabhängig von den Vereinigten Staaten. In seinem 1997 erschienenen Buch The Grand Chessboard (deutscher Titel: Die einzige Weltmacht: Amerikas Strategie der Vorherrschaft) hat Brzezinski unverblümt erklärt: »… lautet das Gebot, keinen eurasischen Herausforderer aufkommen zu lassen, der den eurasischen Kontinent unter seine Herrschaft bringen könnte und damit auch für Amerika eine Bedrohung darstellen könnte. Ziel dieses Buches ist es deshalb, im Hinblick auf Eurasien eine umfassende und in sich geschlossene Geostrategie zu entwerfen.« (7) Später schreibt er warnend: »Von nun an steht Amerika vor der Frage, wie es mit regionalen Koalitionen fertig wird, die es aus Eurasien herauswerfen wollen und damit seinen Status als Weltmacht bedrohen.« (8)

Nach den Ereignissen vom September 2001, die viele russische Geheimdienstexperten nicht für das Werk einer Gruppe von bunt zusammengewürfelten muslimischen Al-Qaeda-Fanatikern halten wollten, hat die SCO genau die Gestalt einer ernsten Bedrohung angenommen, vor der der Mackinder-Schüler Brzezinski gewarnt hat. Bei einem Interview mit The Real News bemängelte Brzezinski jüngst auch das Fehlen einer kohärenten Eurasien-Strategie bei der Regierung Obama, vor allem in Afghanistan und Pakistan.

 

__________

(1) Greg Shtraks, »The Start of a Beautiful Friendship? Russia begins exporting oil through the Pacific port of  Kozmino«, Jamestown Foundation Blog, Washington D.C., 11. Dezember 2009, unter http://jamestownfoundation.blogspot.com/2009/12/start-of-beautiful-friendship-russia.html

(2) Ebenda

(3) Moscow Times, »Putin Launches Pacific Oil Terminal«, 29. Dezember 2009, unter http://www.themoscowtimes.com

(4) Zhang Guobao, »Chinese Energy Sector Turns Crisis into Opportunities«, 28. Januar 2010, unter www.chinadaily.com.cn

(5) Isabel Gorst, Geoff Dyer, »Pipeline brings Asian gas to China«, Financial Times, London, 14. Dezember 2009

(6) Reuters, »China calls Xinjiang riot a plot against its rule«, 5. Juli 2009, unter http://www.reuters.com/article/idUSTRE56500R20090706

(7) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and It's Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1998 (Paperback), p. xiv. Deutsche Ausgabe: Die einzige Weltmacht – Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Beltz Quadriga Verlag, Weinheim und Berlin 1997, S. 16

(8) Ebenda, S. 86f.

 

Donnerstag, 01.04.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mardi, 30 mars 2010

Russlands Energie-Strategie für Nord- und Westeuropa

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Russlands Energie-Strategie für Nord- und Westeuropa

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Wenn sich Russlands Nachbarland Ukraine neutral verhält und sich die innenpolitische Lage dort stabilisiert, bedeutet das für Moskau weit mehr, als dass die militärische Bedrohung durch Washington entschärft wird. Denn jetzt kann Russland den einen besonderen Hebel nutzen, der dem Land neben der verbliebenen und noch immer schlagkräftigen Atomstreitmacht verblieben ist, nämlich den Export von Erdgas. Während Russland über die weltweit größten Reserven verfügt, herrscht in Westeuropa, ja sogar in Großbritannien, lebhafte Nachfrage, da die Vorräte in der Nordsee allmählich zur Neige gehen. Der Ostsee-Pipeline von Russland nach Norddeutschland kommt deshalb besondere Bedeutung zu.

Nach Schätzungen westeuropäischer Industriekreise wird die Nachfrage nach Erdgas in den Ländern der Europäischen Union in den kommenden 20 Jahren im Vergleich zu heute um etwa 40 Prozent wachsen. Der Anstieg geht vor allem auf das Konto der Stromerzeugung, weil Erdgas hierfür als saubere und sehr effiziente Energiequelle gilt. Während der Bedarf also steigen wird, geht die Förderung auf den Gasfeldern in Großbritannien, den Niederlanden und anderen EU-Ländern allmählich zurück. (1) Wenn die Ukraine nun von ihrer feindseligen Haltung Moskau gegenüber auf eine »blockfreie« Neutralität – um einen Ausdruck von Janukowytsch zu gebrauchen – umschwenkt, die zunächst auf die Stabilisierung der russisch-ukrainischen Erdgas-Geopolitik konzentriert, eröffnen sich für Russland plötzlich weit stabilere wirtschaftliche Optionen, mit denen der versuchten militärischen und wirtschaftlichen Einkreisung durch Washington begegnet werden kann.

Als Juschtschenko und Saakaschwili in der Ukraine bzw. in Georgien das Zepter übernahmen und gemeinsam mit Washington auf einen NATO-Beitritt hinarbeiteten, konnte Russland unter Putin praktisch nur noch die Energiekarte spielen, um zumindest den Anschein wirtschaftlicher Sicherheit aufrechtzuerhalten. Russland verfügt über die mit Abstand größten Erdgasreserven der Welt. Die zweitgrößten Reserven befinden sich übrigens nach Schätzung des amerikanischen Energieministeriums im Iran, den Washington ja ebenfalls im Visier hat. (2)

Heute verfolgt Russland erkennbar eine faszinierende, äußerst komplexe Energiestrategie. Die Energievorräte werden als diplomatischer und politischer Hebel benutzt, um »Freunde zu gewinnen und die Menschen (in der EU) zu beeinflussen«. Dmitri Medwedew, Putins Nachfolger im Präsidentenamt, ist geradezu prädestiniert für diese Gaspipeline-Geopolitik, denn er war zuvor Vorsitzender des staatlichen Gazprom-Konzerns.

Hoher Einsatz beim eurasischen Schachspiel

In gewissem Sinne ähnelt die eurasische Landmasse heute einem dreidimensionalen geopolitischen Schachspiel zwischen Russland, der Europäischen Union und Washington. Bei dem Spiel geht es für Russland um das Überleben als funktionierende Nation, was Medwedew und Putin offensichtlich auch bewusst ist.

Zu der versuchten militärischen Einkreisung Russlands durch die USA gehörten nicht nur die Rosen- und die Orangene Revolution in den Jahren 2003 und 2004, sondern auch die höchst provokative Pentagon-Politik der Raketen-»Verteidigung«, in deren Rahmen von den USA (nicht von der NATO) befehligte Raketenbasen in Schlüsselländern des ehemaligen Warschauer Pakts, an der unmittelbaren Peripherie errichtet wurden. Als Reaktion verfolgt Moskau jetzt eine eindrucksvolle und hochkomplexe Pipeline-Strategie, die man der amerikanischen Militärstrategie der Einkreisung durch die NATO, der Stationierung von Raketen und der »Farbenrevolutionen«, einschließlich der versuchten Destabilisierung des Iran im vergangenen Sommer durch eine »Grüne Revolution«, oder auch »Twitter Revolution«, wie Hillary Clinton sie salopp nannte, entgegensetzt. Die USA zielten darauf ab, Russland zu isolieren und die potenzielle strategische Allianz in ganz Eurasien zu schwächen.

Für Russland, das erst kürzlich Saudi-Arabien von der Position als größter Erdölproduzent und -exporteur der Welt verdrängt hat, bedeutet der Erdgas-Verkauf im Ausland einen bedeutenden Vorteil, denn Moskau kann den Preis und den Markt für Erdgas besser bestimmen. Anders als beim Erdöl, dessen Preis der strikten Kontrolle von Big Oil (und dessen Mittätern von der Wall Street, wie Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP MorganChase) unterliegt, ist es für die Wall Street viel schwieriger, den Preis für Erdgas zu manipulieren, schon gar nicht durch kurzfristige Spekulation wie beim Erdöl.

Da Erdgas anders als Erdöl vom Bau kostspieliger Pipelines oder LNG-Tanker und LNG-Terminals abhängig ist, wird der Preis normalerweise in langfristigen Lieferabkommen zwischen Verkäufern und Kunden festgelegt. Das bietet für Moskau einen gewissen Schutz vor Preismanipulationen wie 2008/2009 beim Ölpreis durch die Wall Street, als dieser von einem Rekordhoch von 147 Dollar pro Barrel auf unter 30 Dollar nur wenige Monate später gedrückt wurde. Diese Manipulationen hatten verheerende Folgen für Moskaus Einkünfte aus dem Erdölexport, und das genau zu dem Zeitpunkt, als die weltweite Finanzkrise auch russische Banken und Unternehmen von weiteren Krediten abschnitt.

Mit Janukowytsch als ukrainischem Präsidenten scheint nun der Weg frei für geregelte Verträge mit der russischen Gazprom über die Erdgasversorgung in der Ukraine und die Durchleitung nach Westeuropa. Genau die Hälfte der in der Ukraine verbrauchten Energie wird aus Erdgas erzeugt und der größte Teil davon, ca. 75 Prozent, stammt aus Russland. (3)

Jetzt scheint eine tragfähige Einigung zwischen der russischen und der ukrainischen Regierung über den Preis für das importierte russische Gas erreicht worden zu sein. Im Januar 2010 hat die Ukraine einem Gaspreis zugestimmt, der ähnlich hoch ist wie der in Westeuropa, gleichzeitig erhält sie jedoch von der russischen staatlichen Gazprom deutlich höhere Gebühren für die Durchleitung russischen Gases nach Westeuropa. Etwa 80 Prozent der russischen Gasexporte liefen bisher über die Ukraine. (4)

Das wird sich allerdings unter Russlands langfristiger Pipeline-Strategie drastisch ändern, die darauf abzielt, das Land in Zukunft weniger verwundbar durch politische Umwälzungen wie die Orangene Revolution 2004 in der Ukraine zu machen.

Die politische Bedeutung von Nord Stream

Nach der Orangenen Revolution in der Ukraine 2004 verfolgt Moskau die Strategie, die Pipelines nach Westen langfristig nicht mehr durch die Ukraine oder Polen zu führen. Deshalb wird die durch die Ostsee verlaufende Gaspipeline Nord Stream von Russland direkt nach Deutschland gebaut. Der polnische Außenminister Radek Sikorski ist ein in Washington ausgebildeter Neokonservativer. Als Verteidigungsminister war er zuvor maßgeblich an dem Abkommen über die Stationierung der amerikanischen Raketenabwehr beteiligt. Unter Sikorski ist Polen heute eng an die NATO gebunden, ein Aspekt davon ist die Zustimmung zu Washingtons einseitig provokativer Politik der Raketenstationierung. Außerdem versucht er immer wieder, bislang allerdings ohne Erfolg, den Bau der Nord Stream zu blockieren.

Nord Stream war für Russland besonders wichtig, so lange es so aussah, als ob es Washington gelänge, die Ukraine nach der Orangenen Revolution in die NATO zu ziehen. Heute ist die alternative Ostseepipeline für Russland aus anderen Gründen wichtig.

nordstream.jpgDie Nord-Stream-Gaspipeline verläuft von dem russischen Hafen Vyborg nahe St. Petersburg nach Greifswald in Norddeutschland durch die Ostsee in internationalen Gewässern, sie umgeht also sowohl die Ukraine als auch Polen. Als Nord Stream als Joint Venture der beiden deutschen Gasgesellschaften E.ON und BASF und der russischen Gazprom angekündigt wurde – mit dem ehemaligen Bundeskanzler Gerhard Schröder als Vorstand –, verglich Sikorski, damals polnischer Außenminister, das deutsch-russische Gasabkommen mit dem Pakt zwischen Molotow und Ribbentrop, dem 1939 geschlossenen Pakt zwischen Nazideutschland und der Sowjetunion, die damals Polen unter sich aufteilten. (5)

 Sikorskis Logik war vielleicht nicht so ganz präzise, das emotionale Bild dagegen sehr.

Ende 2009 genehmigten auch Schweden und Finnland nach Dänemark die Trassenführung für die Pipeline durch ihren Teil der Ostsee. Mit dem Bau des milliardenschweren Projekts soll im April dieses Jahres begonnen werden, die erste Gaslieferung ist für 2011 vorgesehen. Nach Fertigstellung einer zweiten Parallelpipeline, mit deren Bau 2011 begonnen werden soll, wird Nord Stream voraussichtlich 55 Milliarden Kubikmeter Gas pro Jahr durch die Pipelines leiten, nach Angaben auf der Website von Nord Stream genug, um 25 Millionen Haushalte in Europa mit Gas zu versorgen.

Da Nord Stream dann als wichtigste Lieferroute direkt von Russland zu den wichtigsten Kunden in Deutschland verläuft, und da ein stabiles Transitabkommen durch die Ukraine ausgehandelt worden ist, wird eine Unterbrechung der Gazprom-Lieferungen nach Nordeuropa sehr unwahrscheinlich. Durch Nord Stream wird Gazprom in die Lage versetzt, eine flexiblere Gas-Diplomatie zu betreiben, und Störungen der Lieferung, zu denen es in den vergangenen Jahren in der Ukraine wiederholt gekommen war, werden dann weniger Probleme bereiten.

Ende 2009 hat sich der russische Präsident Dmitri Medwedew in Minsk mit Vertretern aus Belarus (Weißrussland) getroffen, genau zu der Zeit, als Nord Stream die letzten politischen Hürden nahm. Medwedew sagte, Russland denke über den Bau eines zweiten Strangs der großen Jamal-Europa-Pipeline durch Belarus nach, falls es die Nachfrage in Europa erforderlich mache: »Ich bin überzeugt: je mehr Möglichkeiten für die Lieferung von russischem Gas nach Europa bestehen, desto besser für Europa und Russland.« (6)

Darüber hinaus hat Großbritannien soeben einen langfristigen Vertrag mit Gazprom für den Import von Gas über die Nord Stream unterzeichnet – auch das ist eine bedeutsame geopolitische Veränderung. Mehr als vier Prozent der Gasnachfrage sollen 2012 durch diese Lieferung gedeckt werden. Großbritannien wird damit von einem Netto-Gasexporteur zu einem Netto-Importeur. Gegenwärtig bestehen zusätzlich zu den Verträgen der Gazprom mit Deutschland und Großbritannien noch Lieferverträge mit Dänemark, den Niederlanden, Belgien und Frankreich, sie wird dadurch auf dem Energiemarkt der EU zu einem maßgeblichen Faktor.

 

___________

(1) »Eurogas (Europand Union of the National Gas Industry), Natural Gas Demand and Supply: Long-Term Outlook to 2030«, Brüssel 2007, unter: www.eurogas.org/.../Eurogas%20long%20term%20outlook%20to%202030%20-%20fina.

(2) Jim Nichol u.a., »Russia’s cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(3) US Energieministerium, »Ukraine Country Analysis Brief, Energy Information Administration«, August 2007, Washington DC, unter http://www.eia.doe.gov/cabs/Ukraine/Full.html.

(4) »International Energy, Russia to supply 116 bn cm of gas to Europe via Ukraine in 2010«, Peking, 19. November 2009, unter http://en.in-en.com.

(5) Simon Taylor, »Why Russia's Nord Stream is winning the pipeline race«, 29. Januar 2009, EuropeanVoice.com, unter http://www.europeanvoice.com/article/imported/why-russia%E2%80%99s-nord-stream-is-winning-the-pipeline-race/63780.aspx.

(6) RIA Novosti, »Russia pledges 30–40% discount on gas for Belarus in 2010«, 23. November 2009, unter http://en.rian.ru.

 

Freitag, 26.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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vendredi, 26 mars 2010

Energie voor Europa: het belang van goede banden met Rusland en Iran

EnergieHet internationale grootkapitaal is ambitieus. Het wil zoveel als mogelijk haar macht uitbreiden. Elkeen die in de weg staat, moet “geneutraliseerd” worden . Na pogingen in Servië, Georgië, Oekraïne, Kirgizië, Oezbekistan, Irak en anderen is nu Iran aan de beurt. Het gebruikte trukje is eenvoudig. Ofwel organiseert de CIA en aanverwante organisaties door aanvoer van letterlijk hele kisten vol dollars “spontane betogingen”, ofwel bombardeert men het land en zijn bevolking.

In het Midden-Oosten bevinden zich een paar landjes die niet zwichten voor de duivelse wellustige gulzigheid van het internationale grootkapitaal. Palestina en Syrië zijn bij ons even bekend als Iran.

De opkomst en groei van de BRIC-landen (Brazilië, Rusland, India en China) maken het leven van de Amerikaanse economische bovenlaag zuur. Heel wat olie- en gasreserves liggen in landen die de VS beschouwen als “kwaadaardig”.

De vraag naar olie en gas neemt wereldwijd toe. De energieproductie concentreert zich meer en meer op landen met grote reserves zoals Rusland, het Midden-Oosten, Iran, Venezuela, enzovoort. De grootste wereldeconomieën worden meer en meer afhankelijk van energie-invoer uit deze landen. De importafhankelijkheid stijgt tot boven de 80% voor de VS, de EU-landen, China en India. Net als de andere veelverbruikers Japan en Zuid-Korea zullen de Europese landen – uitgezonderd Rusland - zo goed als volledig afhankelijk worden van invoer. Met andere woorden : de importafhankelijkheid van 80% zal nog toenemen naar een getal dat zich niet ver van de 100% bevindt. Dit is een voor ons uitermate zwakke positie. Een ietsje meer Europese actie zou meer dan welkom zijn. Het valt op dat Europa er door middel van de alles verlammende Europese Unie passief bij staat.  

Er zijn een paar belangrijke geografische aspecten waar we rekening moeten mee houden : met Europa als continent (omdat wij nu eenmaal hier wonen); met de energieleveranciers en met energiecorridors (transport van energie). De belangrijkste vraag voor ons luidt : wie levert ons de nodige energie en langs welke wegen wordt deze tot bij ons gebracht ? De Europese landen zijn het aan zichzelf verplicht om het eigen belang voorop te stellen. Maar het gebeurt niet.

Iran en de Straat van Hormuz

Iran is net als Rusland een belangrijke energieleverancier.  Het land is echter totaal omsingels door VS-gezinde regeringen en de daarbijhorende Amerikaanse troepen zoals Saoudi-Arabië, Irak (waar de VS nu de door hun gebrachte chaos misbruiken om er aan de macht te zijn), Pakistan en het chaotische Afghanistan. Iets verder bevindt zich het oorlogszuchtige Israël. Rusland-Iran

Belangrijk voor olieuitvoer is de Straat van Hormuz. Deze 21 kilometer brede watercorridor verbindt de Perzische Golf (gelegen aan de zuidkust van Iran) met de Indische Oceaan.  Aan de andere kant van de Perzische golf liggen Saoudi-Arabië, de Verenigde Arabische Emiraten en in het verlengde van de Perzische Golf, de Golf van Oman, bevindt zich het Sultanaat Oman. In de geopolitiek wordt het belang van waterwegen nooit onderschat. De Straat van Hormuz is één van de drukst bevaarde waterwegen. Dagelijks passeren er 17 miljoen vaten olie en 31 miljoen ton vloeibaar gas. De productievolumes van de VS, Europa, Rusland en Azië zullen met de jaren afnemen waardoor de productie in het Midden-Oosten aan belang zal toenemen. Europese landen kunnen zich op deze veranderende situatie beter goed voorbereiden. Het Internationaal Energie Agentschap (IEA) voorspelt dat het olievervoer door de Straat van Hormuz  zal verdubbelen. Men schat dat er dagelijks spoedig 35 miljoen vaten per dag zullen passeren. Ook het gasvervoer zal er enorm toenemen. De Straat van Hormuz wint zienderogen aan belang als energiecorridor van de wereldeconomie. De goede verstaander begrijpt waarom de VS met alle macht deze regio helemaal in handen willen hebben en waarom ze niet opgezet zijn met het “lastige” Iran. De VS importeren via deze Straat dagelijks 2,5 miljoen vaten olie. De regio wordt voor een groot deel door de VS gecontroleerd. Zij beschouwen Iran als een “gevaar”. Iran bevindt zich in een perfecte strategische positie om er de doorgang van olie en gas te bedreigen. Iraanse leiders hebben al gedreigd de olietransporten te verhinderen indien het land wordt aangevallen. Israël zal een zware verantwoordelijkheid op zich nemen indien het zelf Iran aanvalt of de aanval aan de VS-troepen overlaat (via de almachtige Israel-lobby in de VS). De gevolgen van een aanval op Iran zullen het transport en de de prijs van de olie niet in het voordeel van de Europese consument doen evolueren.

Ook de Chinezen beschouwen de Amerikaanse dominantie van de Straat als een bedreiging. In dit kader werden er al contracten afgesloten met Abu Dhabi om de Straat van Hormuz te omzeilen en olie via pijpleidingen naar China te brengen. Hoofdaannemers zijn twee dochterfirma’s van het Chinese staatsbedrijf CNPC.

Oekraïne en de Zwarte Zee

De gasproductie neemt in Europa zienderogen af terwijl de vraag toeneemt. De aanvoer van gas naar Europa gebeurt hoofdzakelijk door pijpleidingen. Zuid-Europa wordt bevooraad via Noord-Afrika, Trinidad-Tobago en het Midden-Oosten. Noord-west Europa krijgt gas van Noorwegen en Rusland. Oost-Europa is helemaal afhankelijk van Russische aanvoer.

Geheel Europa is nu al voor 25% afhankelijk van Russisch gas. Hiervan komt 80% binnen via de Oekraïnse corridor en 20% via Wit-Rusland. De grote afhankelijkheid van de Oekraïnse corridor veroorzaakte veel ongemak bij de Europese landen en bij Rusland omdat het land tijdens de pro-westerse periode de pijpleidingen liet verrotten. Hierdoor vermindert de doorvoer van gas jaarlijks aanzienlijk. De winsten op transitvergoedingen verdwenen veelal in diepe zakken terwijl er zo goed als geen onderhoud werd gedaan. Het is in het belang van alle  partijen (West-Europa, Oekraïne en Rusland) dat de huidige nieuwe regering onder Janoekovitsj  orde schept, de corruptie aanpakt, en mee kan bijdragen aan het bevorderen van goede relaties tussen Rusland, Oekraïne en de Europese landen.

De Europese landen en Rusland waren tot 2004 accoord dat er een Baltische pijpleiding van Rusland naar Duitsland moest komen. Deze zou gewoon door de Baltische Zee lopen. Nu heeft Europa geen zin meer omdat de Baltische landen en Polen dit plots niet meer zien zitten. De Baltische landen en Polen hebben een pattent op  “Russen pesten”.  Zij vrezen dat ze met de komst van de pijpleiding door zee niet meer over een “pest- en verhindermogelijkheden” beschikken. Ook vrezen ze vele transitinkomsten te missen. Een onbegrijpelijk anti-Russisch gedrag gezien deze landen extreem afhankelijk zijn van Russische energie. 

Om de problematische Oekraïnse corridor te omzeilen werken Russen en Italianen aan een nieuwe pijpleiding via de Zwarte Zee en Turkije. De Zwarte Zee is heel belangrijk voor Rusland. Het voert langs daar heel veel olie uit komende vanuit het Russische binnenland en Kaspische Zee. Deze pijpleiding vormt zware concurrentie voor de Nabucco-pijpleiding, die ooit bedoeld was om Iraans gas naar Europa te brengen. Ondanks het gegeven dat deze pijpleiding een verbinding legt tussen Iran en Azerbeidjan enerzijds en West-Europa anderzijds, hebben de VS de aanleg van deze lijn actief gesteund. Als dat geen bemoeienis is in onze zaken ! Gezien Iran niet zomaar naar de Atlantische pijpen danst, wilde men zich in het Atlantische kamp in andere Kaspische landen bevoorraden zoals Turkmenistanen Azerbeidjan. Maar Turkmeens gas wordt voornamelijk door de Russen opgekocht. Een deel dient voor de Russische markt, een ander deel(tje) wordt doorverkocht aan de rest van Europa.  De Europese landen strijden dus in twee blokken – Rusland tegenover de rest van Europa - om Kaspische energie. Intussen heeft ook China zijn geopolitieke belangen en plannen in de Kaspische regio laten zien.

De corridor van Xinjiang

De economische bonzen hebben allen hun oog laten vallen op Centraal-Azië. Japan had na de val van de Sovjet-Unie sterke ambities in die regio, ambities die het moest opbergen wegens politieke hinderpalen. China’s vraag naar meer en meer energie leidde naar het opdrogen van Chinese energietransporten naar Japan.

Centraal-Aziatische grondstoffen dragen bij aan de verdere ontwikkeling van Oost-Azië. Chinese energiebedrijven trachten de energierijke Chinese regio Xinjiang te integreren met de omgeving. Sinds 2006 stroomt er olie van Kazachtstan naar China. Deze pijleidingen zullen door getrokken worden naar de olierijke Kaspische Zee-regio. China sloot ondertussen overeenkosten met Oezbekistan, Turkmenistan en Kazachstan. Verder hebben de Russen een plan om gas uit West-Siberië over het Altajgebergte naar Xinjiang te voeren.  De Russen hebben steeds een grote voorkeur gehad om met Europa zaken te doen, maar de EU heeft onder Amerikaanse druk Ruslands uitgestoken hand steeds geweigerd. De Russen zijn niet van gisteren en besluiten dan maar om zich op hun eigen achtertuin te wenden : Centraal-Azië en China. Dit scenario komt sterk overeen met wat het Amerikaanse grootkapitaal wenst : Rusland weghouden van de rest van Europa en verder richting Azië wegdringen.

Hoewel Xinjiang zelf 25 miljoen ton olie en 16 miljoen ton gas produceert, volstaat dit niet om de energienoden van de energieverslindende Chinese kust te bevredigen. Als energiecorridor naar Centraal-Azië en Rusland is Xinjiang in Noord-West China uitermate belangrijk.  De grens met Pakistan neemt ook aan belang toe. De Chinezen hebben al miljarden geïnversteerd in de Pakistaanse haven Gwadar, gelegen aan de Arabische Zee. Wie de kaart bekijkt, ziet dat de haven op amper 400 kilometer van de Straat van Hormuz ligt . De haven biedt toegang tot de Perzische Golf en de Zee van Oman. Midden-Oosterse en Afrikaanse energietransporten worden met dit strategisch punt enorm ingekort. Nu wordt er nog veel geïmporteerd via de Straat van Malakka. De Straat van Malakka is de belangrijkste route tussen de Indische Oceaan en de Stille Oceaan. Hier worden alle belangrijke Aziatische economieën (India, China, Japan, Zuid-Korea en Taiwan) met elkaar verbonden. Er varen jaarlijks meer dan 50.000 schepen doorheen. Men kan makkelijk begrijpen dat China deze drukke en voor hen lange route wil inkorten. Daarbij komt de moeilijkheid dat de Straat niet diep genoeg is – amper 25 meter -  om de zwaarste olietankers door te laten.

Het Panamakanaal

Het Panamakanaal is zeer belangrijk en hoofdzakelijk aangelegd voor de Amerikaanse economie. Het werd in 1914 aangelegd om de route tussen New York en San Francisco de helft korter te maken. Vandaag zien we dat het Panamakanaal een belangrijke energiecorridor vormt tussen Latijns-Amerika en Oost-Azië. Hugo Chavez, president van Venezuela en groot tegenstander van de VS, beschouwt het kanaal als primordiaal voor de ontwikkeling van de energisector van zijn land. Venezuela beschikt over zware olie en bevat potentieel veel olievelden. Het kan mettertijd de belangrijkste olieleverancier van de wereld worden. Chavez heeft terecht de hele energiesector genationaliseerd. De opbrengsten moeten aan het hele volk ten goede komen en niet aan enkelen, zoals bijvoorbeeld in de VS en in Rusland. Chinese en Russische bedrijven vervangen er de Amerikaanse. China importeert nu al duizenden tonnen olie uit Venezuela en wil het aantal opdrijven. Ook Japan heeft zijn zinnen op de Venezuelaanse olie gezet. Alle Latijns-Amerikaanse olie richting Azië wordt langs het Panamakanaal vervoerd. In 1999 droegen de VS de eigendomsrechten over het kanaal over aan Panama. Het bedrijf Hutchinson-Whampoa van de Hong Kong-Chinese oligarch Li Ka-Shing kocht zich een controlerend belang in waarmee hij meer specifiek beide kanten van het kanaal controleert. Hiermee zijn de Chinese belangen veilig gesteld.

De VS zijn wereldmijd oppermachtig. Maar er groeit concurrentie. Rusland kan steeds beter om met zijn energieproductie en de transitzones. China en India staan aan de deur te kloppen om in de hoogste afdeling mee te dingen naar de kampioenstitel.

Besluit :

China heeft begrepen wat de Europese landen niet willen begrijpen : het opkomen zonder limieten voor het eigen belang. Iran is het enige niet door de VS gedomineerd land in de olierijke Kaspische regio. De Chinezen weten dit en handelen er naar. De vandaag zeer passieve Europese landen staan voor de keuze : of blijven meeheulen met de VS, die ons al 65 jaar bezetten, ons Kosovo aan de hand heeft gedaan en Turkije aan ons been willen lappen, ofwel accoorden sluiten met vrije landen zoals Rusland, Iran en Venzuela. In het kader van een remigratiepolitiek is het trouwens steeds goed om met bepaalde landen goede banden te hebben.

De Europese landen hebben de mogelijkheid om wereldwijd een rol van belang te spelen. Om een rol van belang te spelen moet men eerst en vooral binnenlands stevig op de benen staan. De Europese Unie is een nefaste contructie die best wordt opgeheven. In de plaats kan een verbond (overlegorgaan) komen van vrije landen en volkeren. De EU is één van de verlengstukken van de NAVO, die op zijn beurt de militaire arm is van het internationale grootkapitaal. De NAVO strijdt niet voor een rechtvaardige wereld – want dan zouden ze Israël moeten aanvallen – maar voor de economische belangen van een bepaalde economische kaste.

De Lage Landen zijn volledig importafhankelijk wat betreft primordiale levensbehoeften : voedsel en energie. Onze landbouw wordt doelbewust ten voordele van Amerikaanse genetisch gemanipuleerde import vernietigd. Energie uit fossiele brandstoffen hebben we opgegeven. Onze Europese politici hebben ons lot verbonden aan dat van de goede wil van de VS. De VS hebben echter een eigen politieke agenda : Europa zo veel mogelijk verzwakken. Zij beschouwen ons nog steeds als een gevaarlijke potentiële concurrent.

In afwachting van de ontbinding van de Europese Unie (als instituut) en de oprichting van een Europees overlegorgaan, kunnen de lage Landen best nu al uit de EU stappen. Dan kunnen we zelf vrij en ongebonden akkoorden sluiten met Rusland, Iran, Venezuela en andere belangrijke geopolitieke gebieden en landen.

Kris Roman
N-SA coördinator Buitenlandse Contacten

N-SA coördinator geopolitieke denktank "Euro-Rus"

mardi, 16 mars 2010

Il Grande Gioco in Asia Centrale

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Il Grande Gioco in Asia centrale

di Marco Luigi Cimminella

Fonte: eurasia [scheda fonte] 

Con la vittoria del filo-russo Janukovič alle elezioni presidenziali ucraine, svoltesi lo scorso mese, Mosca ha ritrovato un probabile alleato nello scontro energetico ingaggiato dalle grandi potenze in Asia centrale e meridionale. Il petrolio vicino-orientale non basta a soddisfare il fabbisogno di idrocarburi di Europa e Stati Uniti, che spinti alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento, hanno finito per posare gli occhi sulle riserve caspiche e caucasiche. L’estrazione e l’esportazione di queste risorse sono da tempo sottoposte al rigido monopolio del colosso russo Gazprom che, con una serie di condutture che attraversano il territorio ucraino, rifornisce i mercati occidentali.


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Nel tentativo di contrastare questo chiaro “leverage” della politica estera russa, Washington, di concerto con alcuni paesi europei, ha approntato alcuni importanti progetti. Pensiamo al gasdotto Nabucco (il tragitto nella foto) o all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che permettono agli idrocarburi asiatici di viaggiare in direzione ovest scavalcando la Russia a sud. Allo stesso modo deve essere analizzato il proposito di costruire delle condutture che, attraversando le acque del Mar Nero e collegando Supsa, in Georgia, con Odessa, in Ucraina, permetta agli idrocarburi azerbaigiani, turkmeni e kazaki di raggiungere l’Europa, senza passare per il territorio di Mosca. Inizialmente il Cremlino aveva potuto ostacolare questo progetto grazie alla collaborazione del governo ucraino, con a capo il filo-russo Kučma. In seguito alla rivoluzione arancione che si era ultimata, nel 2004, con la nomina a presidente del liberale Juščenko, l’Ucraina si era mostrata favorevole ad aderire al disegno occidentale, manifestando chiare intenzioni di entrare a far parte della Nato e attirandosi così le dure critiche della classe dirigente russa. Nel febbraio scorso, Janukovič ha riportato, in seguito ad elezioni contestate dalla rivale Timošenko, un’importante vittoria che potrebbe cambiare gli assetti degli schieramenti impegnati in quella frenetica competizione, tesa all’accaparramento delle risorse energetiche, conosciuta come il Grande Gioco del XXI secolo.


Contesto storico del Grande Gioco

L’Asia centrale e meridionale ha sempre rivestito un’importanza fondamentale nello scacchiere internazionale. Considerandola come il cuore della “World Island”, cioè della massa continentale che comprende Eurasia e Africa, H. Mackinder, padre della geopolitica moderna, aveva scritto: “Who rules East Europe commands the Heartland; who rules the Heartland commands the World-Island; who rules the World-Island controls the world”. In queste tre semplici frasi, il noto studioso raccoglieva il succo della sua teoria dell’Hertland, destinata ad avere grande successo nei secoli successivi e ad essere sottoposta anche a diverse rielaborazioni1. La teoria di Mackinder ha trovato riscontro pratico nel corso dell’Ottocento in relazione al cosiddetto “Grande Gioco”, il lungo ed estenuante conflitto che vide impegnati lo Zar e Sua Maestà nel tentativo continuo di imporre il proprio dominio in Asia centrale e meridionale.

La regione che Mackinder definisce “Terra cuore”, si identificava, nel corso della seconda metà dell’800, con il territorio sottoposto al controllo russo. Inaccessibile dal mare, ricca di petrolio e gas naturale, quest’area faceva dell’impero zarista lo stato perno dello scacchiere internazionale. Con una rottura dell’equilibrio di potenza, originatosi con il congresso di Vienna del 1814 in seguito alle sconfitte napoleoniche, lo Zar avrebbe potuto condurre l’esercito imperiale verso la conquista dei territori periferici dell’Eurasia. Successivamente, sfruttando le ingenti risorse energetiche della regione, San Pietroburgo avrebbe potuto dotarsi di una immensa flotta, capace di concorrere con quella britannica per il dominio dei mari. Proprio lo sbocco al mare ha costituito una delle priorità dell’agenda zarista nel corso dell’Ottocento. Due in particolare erano gli obbiettivi si San Pietroburgo: il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. L’interesse per il primo fu parzialmente spento in seguito alla sconfitta nella Guerra di Crimea2 (1853-1856), che comportò un cambiamento di rotta nella politica estera zarista. La Russia puntava ora ad estendere la propria influenza nei khanati in Asia centrale, e da qui, procedendo verso sud, avrebbe potuto garantirsi uno sbocco sull’Oceano Indiano.

Naturalmente, le mire espansionistiche di San Pietroburgo andarono presto incontro alla dura opposizione britannica. Difatti, in Asia meridionale vi era l’India, considerata dalla regina Vittoria la gemma del suo impero coloniale. Il continuo avanzamento delle truppe zariste nei territori centro-asiatici costituiva una grande minaccia che bisognava debellare. In particolare, il Foreign Office aveva individuato nell’Afghanistan un’ottima base strategica che le truppe russe avrebbero potuto utilizzare per infliggere duri attacchi alla prediletta fra le colonie della regina. La necessità di contenere l’espansionismo zarista, facendo dell’Afghanistan uno stato cuscinetto contro le pretese egemoniche di San Pietroburgo, diede inizio ad un esasperante conflitto che si ripercuoterà nel corso dei secoli, giungendo prorompente sullo scenario internazionale attuale.


L’importanza strategica dell’Asia centrale oggi

Questa regione ha assunto un’importanza strategica considerevole nel contesto internazionale odierno. Le motivazioni sono evidenti. In primo luogo, significativa è la questione energetica. Secondo il parere di geologi ed esperti, l’intera area trabocca di idrocarburi. Vero è che tali riserve non sono quantitativamente comparabili a quelle del Golfo Persico. Ciononostante, sono in grado di saziare, almeno per il momento, gli ingordi appetiti energetici delle grandi potenze, comportandosi come un ottimo succedaneo agli idrocarburi vicino-orientali, la cui fruizione è sempre soggetta a continue oscillazioni dovute al fondamentalismo islamico e al terrorismo internazionale. I giacimenti più ricchi li rinveniamo nel bacino caspico, nonché in Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Iran. In Azerbaijan, l’estrazione di petrolio è aumentata da 180.000 barili al giorno (barrels per day bbl/d) del 1997 a 875.000 bbl/d nel 2008. Apprezzabili anche le riserve di gas naturale, la cui produzione ha raggiunto, nel 2008 572 btc (billion cubic feet). Un altro importante produttore è il Turkmenistan, che nel 2008 ha raggiunto i 189.400 bbl/d di oro nero e 70.5 miliardi di metri cubi di oro blu. Considerevoli anche le riserve uzbeke, che nel 2008 ammontavano a 67.6 miliardi di metri cubi di gas e 83.820 bbl/d di petrolio. Le coste caspiche kazake garantiscono un ottimo approvvigionamento di petrolio, con una produzione di 1,45 milioni di barili al giorno nel 2007. Infine l’Iran, che solo nel 2008 ha esportato 2,4 milioni di barili al giorno, sia verso l’Asia che verso i paesi europei facenti parte dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)3.

In secondo luogo, vi sono anche consistenti motivazioni di carattere commerciale che non bisogna sottovalutare. Fin dai tempi antichi, infatti, questa regione aveva assunto il ruolo di crocevia di itinerari terrestri, marittimi, fluviali che, mettendo in comunicazione la Cina con il Mediterraneo, consentiva alle carovane di mercanti di vendere i pregiati ed esotici prodotti orientali sui mercati occidentali. Questo corridoio commerciale fu chiamato, dal geologo e geografo tedesco Ferdinand von Richthofen “Seidenstrabe” (via della seta). La classe dirigente zarista prima, poi quella sovietica e infine quella russa, ha sempre considerato l’Asia centrale come una regione strategica per Mosca. In particolare, nel corso del secondo conflitto mondiale e poi successivamente durante la guerra fredda, questo territorio fungeva da bacino energetico per la potente macchina bellica comunista. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, come scrive Zbigniew Brzezinski, si generò un buco nero, che successivamente finì per ridimensionare la presenza russa nel territorio. L’erosione del controllo moscovita fu accelerata dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991, dai continui tentativi della Turchia di accrescere il proprio peso in Georgia e Armenia, dalla rinascita del fervore nazionalista e musulmano nelle ex-repubbliche centro-asiatiche, continuamente impegnate nel porre fine ad una soffocante dipendenza economica, dal sapore marcatamente sovietico, nei confronti di Mosca.

Di conseguenza, fin dai primi anni novanta, l’esigenza di diversificare i propri partner politici ed economici ha assunto una significativa importanza per questi paesi, che, nel conseguimento di quest’obbiettivo, hanno incontrato non poche difficoltà. L’adozione di un approccio liberale classico, esplicatosi in questo caso in una maggiore collaborazione economica fra i paesi centro-asiatici, preludio ad un’integrazione di carattere politico, ha mostrato serie difficoltà nella sua applicazione pratica. In primo luogo, l’implementazione iniziale di politiche liberali da parte delle ex-repubbliche sovietiche ebbe dei seri risvolti negativi. Il Kirghizistan entrò a far parte, nel 1998, del WTO, mentre Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan, Afghanistan, Iran ne divennero osservatori. Ben presto questi paesi si accorsero che le loro deboli economie, scarsamente diversificate, non potevano reggere contro l’inondazione delle esportazioni straniere, in particolare quelle cinesi, più convenienti e vantaggiose. Per salvaguardare l’economia nazionale era quindi necessario adottare, almeno inizialmente, politiche protezioniste, e solo dopo aver sviluppato solide basi, concorrere con le altre potenze su un piano mondiale. In secondo luogo, allo scopo di incentivare una maggiore integrazione economica e finanziaria, i fragili paesi centro-asiatici avevano bisogno degli investimenti stranieri per promuovere la costruzione di infrastrutture funzionali alla realizzazione di profittevoli scambi commerciali in Eurasia. Da qui la frenetica competizione delle grandi potenze, in una lotta diplomatica senza esclusione di colpi, tesa ad una spartizione della torta asiatica che le favorisca.

Come scrive Joseph Nye4 siamo ormai catapultati in una realtà sempre più interdipendente, frutto di una globalizzazione a diversi livelli, economico, politico, socioculturale, religioso. Il ripristino di corridoi multimodali, funzionali al commercio e al trasporto di idrocarburi, si presenta inevitabile, garantendo la possibilità, agli stati della regione, di diversificare i propri partner energetici, finanziari, commerciali, politici, militari. Ed è così che la Cina, gli Stati Uniti, l’Unione Europea prendono parte ad un interessante affare che per più di cinquant’anni è stato dominio esclusivo di Mosca. Un nuovo “Grande Gioco” è scoppiato quindi in Asia centrale e meridionale. Nuovi paesi recitano, sul proscenio internazionale, uno scontro, di kiplingiana memoria, che deciderà i destini dell’equilibrio mondiale. Washington, Pechino, Mosca, Bruxelles, nel perseguire ciascuno i propri obiettivi nella regione, non potranno assolutamente sottovalutare le esigenze delle piccole e medie potenze dell’area che, lungi dall’essere semplici spettatori passivi, rivendicano un ruolo da protagoniste attive nel decidere le sorti del futuro assetto geopolitico internazionale.


* Marco Luigi Cimminella, dottore in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con la redazione di “Eurasia”


Note

1 – Degno di nota fu la rivisitazione della teoria di Mackinder ad opera di Spykman, che attribuì maggiore importanza al concetto di Rimland, intesa come la fascia costiera euroasiatica dove si sarebbe inscenato lo scontro fra le potenze di terra e quelle di mare per il dominio del mondo.

2 – San Pietroburgo poteva infatti garantirsi uno sbocco nel Mediterraneo in due diversi modi. Il primo consisteva nel passare attraverso la regione dei Balcani, sottoposta al controllo turco. La seconda, controllare lo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, entrambi sotto la reggenza ottomana. La strategia russa fu quella di attendere che l’esasperazione dei popoli salvi, insofferenti alla dominazione del sultano, prorompesse in una guerra contro la dominazione turca. Le forze militari russe avrebbero allora combattuto a fianco della popolazione locale, di cui lo zar si proclamava protettore, per stroncare le truppe ottomane e imporre il proprio controllo sulla regione. L’ostilità e l’opposizione turca nei confronti delle mire zariste fu rafforzata dall’impegno bellico di Regno Unito, Piemonte e Francia, che segnò, nella guerra di Crimea, la fine militare delle pretese pseudo religiose ed espansionistiche di Nicola I.

3 – Fonte dati: http://www.eia.doe.gov/

4 – http://www.theglobalist.com/StoryId.aspx?StoryId=2392

vendredi, 12 mars 2010

Is de oorlog om de olie en gas uitgebroken?

Is de oorlog om olie en gas uitgebroken?

Ex: Nieuwsbrief Deltastichting - n°33 (maart 2010)
Het is duidelijk dat we ons al een tijdje in een overgangsfase bevinden, een interregnum: de oude zekerheden van vorige eeuw zijn weggevallen, de opdeling van de wereld in ‘goeden’ – de NAVO, het vrije Westen, West-Europa, Amerika – en de ‘slechten’ – de communistische staten rond de USSR en China – is ongedaan gemaakt, en in de plaats daarvan is een ingewikkelde wereld met veel en tegenstrijdige krachten. China botst met Rusland, Amerika botst met iedereen, China eist een stuk van de markt in Afrika, Rusland zoekt toenadering met Europa, dat nochtans een veilige afstand wil bewaren. De globalisering van de economie – waarvan het einde nu ook al voorspeld wordt door Chinakenner Jacques Martain in De Tijd (06.03.2010) – zorgt ervoor dat nog meer dan vroeger de controle over de energiebronnen een, zoniet dé inzet wordt van de strijd tussen de grote spelers op de wereldmarkt.
 
Het mag dan al zo zijn, dat we in snel tempo aan het afstevenen zijn naar het einde van het tijdperk van de fossiele brandstoffen, feit is nochtans dat de strijd ook en nog steeds gaat om de controle van onder andere olie. Maar ook in toenemende mate gas. Daarover willen we het hier hebben.
 
Rusland was in de jaren 80 van vorige eeuw de grootste producent van petroleum, maar met het ineenstorten van de Sovjet-Unie zakte ook de productie in elkaar. Met Poetin aan de macht in het Kremlin werd hieraan grotendeels verholpen en moet men vaststellen dat Rusland opnieuw is opgeklommen tot de tweede producent van petroleum, na Saoedi-Arabië. Rusland is goed voor ongeveer 6% van ontdekte wereldreserves, maar gelet op het feit dat nog heel wat grondgebied niet volledig is onderzocht, zou dit aandeel wel eens kunnen stijgen in de komende jaren. Maar Rusland speelt vooral een grote rol op het vlak van de gasproductie, haar reserves zijn goed voor 30% van de wereldvoorraad. Daarnaast bevinden zich 25% van de steenkoolreserves op het Russische grondgebied. Zij is dus een hoofdspeler op de wereldenergiemarkt.
 
Op dat vlak is ze de perfecte tegenspeler op het vlak van energievoorziening: het islamitische deel van het Midden-Oosten (Saoedi-Arabië, Irak, Iran, de Golfemiraten). Dit politiek en economisch belangrijke stuk van het Midden-Oosten controleert 2/3de van de wereldreserves van aardolie en meer dan een derde van alle gasvoorraden.

 

Wie doet beroep op en is afhankelijk van de Russische energievoorziening? De Europese Unie eerst en vooral (ze koopt er de helft van haar gas en zo’n 20 van haar petroleum), Japan, China, India, Korea. Tegen 2020 zal een belangrijk deel van de energie-export van Rusland in de richting van Zuid-Oost-Azië gaan, rekenen economische commentatoren ons voor.
 
Zo bekeken was het voor Poetin al heel lang overduidelijk dat de energievoorziening de joker wordt van de Russische heropstanding. Met dit onderwerp heeft de Russische politicus zijn doctoraat aan de universiteit van Sint-Petersburg gehaald, en met dezelfde vaststellingen bouwt hij zijn politiek verder uit. Niet alleen zal de export van energie Rusland de middelen verschaffen om haar dominante militaire, economische en politieke rol in de wereld te vestigen, de staten die voor hun energievoorziening afhankelijk zijn van de toevoer vanuit Rusland, zullen dit ook politiek vertaald zien.

Aan de andere kant van het geografische spectrum blijven de VSA natuurlijk ook op een zeer prominente manier aanwezig. Niet alleen hebben zij sinds de oorlog tegen Irak hun controle op de petroleum in het Midden-Oosten versterkt, maar daarenboven domineren zij met hun enorme oorlogsvloot zowat alle grote zeevaartroutes ter wereld. Terwijl Amerika dus met haar oorlogsvloot Rusland wil verzwakken door haar te omsingelen, gebeurt eigenlijk hetzelfde door Rusland, dat Amerika wil verzwakken door continentale aanvoerroutes op te zetten van aardolie en gas. Op die manier wil Rusland haar positie van wereldspeler veilig zetten, terwijl Amerika er alles aan doet om haar eerste rangsrol te verdedigen. De oorlog om het gas en de olie is dus inderdaad losgebroken. De Europeanen zitten in deze ‘vreedzame’ oorlog op een uitermate ongemakkelijke plaats: ze hebben een militaire alliantie met de VSA, maar zij economisch sterk afhankelijk van de olie- en gastoevoer vanuit Rusland.
 
Misschien als uitsmijter het volgende meegeven: de strijd van Poetin om de energiemarkt is een strijd op twee fronten. Hierboven hebben we al een kleine inkijk gegeven op de strijd buiten de grenzen van Rusland. Maar de strijd werd eerst intern gevoerd, en die strijd heeft Poetin grotendeels gewonnen. Ik heb het dan over de strijd tegen de grote olie-oligarchen op het Russische grondgebied. Een aantal namen zijn wellicht bij onze lezers blijven hangen: Gazprom en Rosneft, maar vooral Joekos en Michaël Khodorchovski. Sommigen hebben het in dat verband zelfs over petroleumnationalisme. 

(Peter Logghe)

jeudi, 04 mars 2010

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Fra grandi attese, ottimi docenti e qualche immancabile boicottaggio, il tradizionale corso di studi all’Università di Teramo

Filippo Ghira

Enrico_Mattei.pngRiparte all’Università di Teramo il  “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”. Nel 2007 era stato chiuso per la nota vicenda Faurisson, per due anni è continuato a Roma sotto l’egida dello Iemasvo, Istituto Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”, e adesso è di nuovo nell’Ateneo dove era stato inaugurato nel febbraio 2006 con una prolusione di Giulio Andreotti su Enrico Mattei.
E’ cambiato qualcosa? “E’ cambiato il regolamento di Facoltà - risponde il professor Claudio Moffa, coordinatore del corso di studi, le cui domande scadranno il 28 febbraio prossimo – adesso la lista dei docenti deve essere approvata dal Consiglio di Facoltà ma comunque l’impianto generale non cambia. Anzi nella fase romana è stata allargata la rosa dei conferenzieri, per fare due nomi Ilan Pappè e Clementina Forleo, e quest’anno proponiamo nuovi argomenti interessanti”. Come il convegno di economia su “Monete, acqua, oleodotti: le guerre economiche del Medio Oriente” e quello su: “Finanza, usura e signoraggio”, con economisti quali Bruno Amoroso, Gianfranco Lagrassa e Eugenio Benetazzo. O il seminario su: “L’assedio dei cristiani in Medio Oriente”, un panorama radicalmente diverso da quello dei tempi di La Pira.
Un corso dunque allo stesso tempo altamente professionale ma anche poco omologato alla lettura dominante degli eventi mediorientali.
Nessun problema dunque? “I problemi ci sono – risponde Moffa – e vengono per ora soprattutto da internet che  ci impedisce di fatto una adeguata pubblicizzazione: improvvisi blocchi della posta in uscita, scomparsa dai siti di nomi e notizie importanti che poi magicamente ricompaiono poco dopo. Ma chiunque tratta argomenti politicamente non corretti conosce questo tipo di ostacoli. Per il resto ci stiamo avvicinando al traguardo delle iscrizioni, ancora possibili. Il termine ultimo per iscriversi al Master è il 28 febbraio. L’impressione quindi è che si voglia giocare sul fattore tempo per impedire che gli incontri del Master che vedrà l’avvicendarsi di docenti di chiara fama, abbia il successo e il riscontro già avuti in passato.
Una battaglia che riguarda tutti: basta andare sul sito
www.masteruniteramo.it, ascoltare le presentazioni video del corso di studi e il già nutrito programma articolato in convegni e temi molto interessanti e spesso controcorrente per capire. La lista dei relatori, Franco Cardini, Maurizio Blondet, ma anche Agostino Cilardo, Ferdinando Pellegrini e Israel Shamir, basterebbe da sola a rassicurare che quella offerta agli iscritti e agli uditori, sarà un’analisi obiettiva degli argomenti trattati. Ci saranno anche alcuni ambasciatori, come quello venezuelano, entro un quadro di pluralismo tipico di un Ateneo pubblico”.
 
Enrico Mattei: in nome dell’Italia
Problemi per un Master intitolato a Mattei? La verità è che la figura e l’opera di Enrico Mattei sono ancora in grado di dare fastidio per tutti gli interrogativi che esse pongono oggi in materia di approvvigionamento energetico, indipendenza nazionale, colonialismo e rapporti internazionali. Della figura di Enrico Mattei si tende oggi a ricordare l’atteggiamento spregiudicato, i finanziamenti versati ai vari partiti per non dover incontrare ostacoli sul suo cammino. Ma ben pochi ricordano che il suo “utilizzare i partiti come taxi” era finalizzato a rendere l’Italia indipendente dal punto di vista energetico e non dipendente quindi dalle forniture delle Sette Sorelle statunitensi e anglo-olandesi. Basti pensare che  nell’immediato dopoguerra, Enrico Mattei, nominato commissario liquidatore dell’Agip, dimostrando una notevole lungimiranza, riuscì a convincere il governo dell’epoca a rinunciare a quella idea e di investire invece in un Ente pubblico, l’Eni appunto, che si occupasse di garantire al nostro Paese l’approvvigionamento energetico di petrolio e di gas, che fu più che determinante per sostenere il nostro boom economico. La stampa italiana, specie quella del Nord, legata agli ambienti industriali e finanziari nazionali, e con saldi legami con analoghi ambienti europei e americani, non si fece sfuggire l’occasione per attaccare la politica dell’Eni che si muoveva con estrema autonomia sugli scenari internazionali, avendo per prima preoccupazione l’interesse nazionale.
L’aspetto che determinò il successo dell’Eni nei Paesi produttori di petrolio fu l’approccio “non colonialista” con cui Mattei lo caratterizzò. Tanto per cominciare, Mattei innovò radicalmente nella percentuale che l’Eni ritagliò per se stesso nello sfruttamento dei giacimenti di petrolio scoperti. Appena un 25% per il gruppo italiano contro il 75% riservato alla compagnia petrolifera di Stato locale. Laddove le Sette Sorelle pretendevano come minimo il 50%. Secondo aspetto, fu la clausola secondo la quale se le ricerche di uno specifico giacimento non avessero avuto buon fine, l’Eni non avrebbe chiesto niente allo Stato estero a mo’ di indennizzo. Un metodo a dir poco rivoluzionario che contribuì in maniera determinante a creare una corrente di enorme simpatia verso il gruppo italiano. Terzo e non meno importante innovazione fu la scelta di Mattei di fare addestrare le maestranze locali nella scuola aziendale dell’Eni a San Donato Milanese. Il disegno era di per sé ovvio. L’Eni, voleva far capire Mattei, non vuole limitarsi a rapporti economici ma vuole far crescere professionalmente una folta schiera di tecnici che una volta formati saranno in grado di fare da soli o affiancare al meglio le società petrolifere straniere, senza quindi dover dipendere totalmente da esse. Un approccio che è ancora vivo nella memoria delle classi dirigenti di quel Paese. Un ricordo che fa sì che l’Eni possa ancora oggi vivere di rendita in quei Paesi godendo di una simpatia che non è mai venuta meno.
La politica autonoma dell’Eni si indirizzò soprattutto verso i Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa. Se fu l’Iran l’esempio più eclatante di un irrompere del gruppo italiano in un Paese che era considerato territorio esclusivo di caccia della British Petroleum, fu però l’Egitto di Nasser il primo Paese con il quale Mattei nel 1956 iniziò rapporti stabili e duraturi. Per non parlare dell’appoggio finanziario dato dall’imprenditore marchigiano al Fronte di liberazione nazionale algerino, un fatto che non poteva che irritare non poco la Francia la cui classe dirigente si stava ormai rassegnando all’idea di perdere i suoi territori di oltremare. Una vicinanza all’Fnl che fu rafforzata dalla disponibilità di un appartamento a Roma per il capo politico del movimento indipendentista, Mohamed Ben Bella.
L’Eni si poneva quindi come una realtà autonoma che, in nome degli interessi superiori dell’Italia, vista come un naturale prolungamento dell’Europa verso i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, voleva rompere gli equilibri consolidati in tutta l’area. L’attivismo di Mattei dava particolare fastidio ad Israele che male sopportava il fatto che l’Eni tendesse a far crescere economicamente e autonomamente Paesi come Algeria ed Egitto. L’origine dell’attentato del 27 ottobre 1962 con la bomba piazzata nel suo aereo ed esplosa nel cielo di Bascapè deve probabilmente essere inserita in questa contrapposizione con lo Stato nato appena quindici anni prima. Una ostilità che ebbe conseguenze all’interno della stessa Eni quando Mattei, qualche mese prima della sua morte, obbligò Eugenio Cefis, vicepresidente dell’Eni e presidente dell’Anic, a lasciare il gruppo dove costituiva il capo di una corrente giudicata troppo “vicina” agli interessi atlantici ed israeliani. Lo stesso Cefis, ex braccio destro di Mattei nella guerra civile come partigiano cattolico, che fu chiamato a guidare l’Eni subito dopo la morte di Mattei. Le altre ipotesi sul’attentato sono infatti poco credibili. Da un intervento delle Sette Sorelle, con le quali in settembre aveva raggiunto una sorta di “gentlemen agreement”, all’ipotesi della Cia che giudicava Mattei destabilizzante, proprio nei giorni in cui infuriava la crisi dei missili sovietici a Cuba. Lo stesso scetticismo vale per un possibile ruolo avuto dalle compagnie petrolifere francesi, che avevano vasti interessi in Algeria, o per l’intervento della Mafia siciliana o di Cosa Nostra Usa che agirono per conto terzi. Tutte ipotesi che hanno il demerito di vedere solamente la punta dell’iceberg e di non voler leggere quella che è la sostanza del problema. L’attentato di Bascapè mise comunque fine all’esistenza di una personalità unica, un uomo che era stato capace di intravedere realtà e potenzialità che altri nemmeno si immaginavano.  
 
 
 
Per informazioni e per iscriversi al Master:
www.masteruniteramo.iit
info@mastermatteimedioriente.it;
claudio.moffa@fastwebnet.it;
mastermattei.unite@tiscali.it;
377-1520283; 347-7777.071





23 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=832

samedi, 27 février 2010

Entrevista al ex-ministro iraqui del petroleo Issam al-Chalabi

Entrevista al ex-ministro iraquí del petróleo Issam al-Chalabi

“La UE está tirando millones de euros a la basura en proyectos imaginarios”

En el informe de mayo de 2001, titulado “Cheney Energy Task Force”, el ex vicepresidente estadounidense Dick Cheney, explicó abiertamente que el objetivo de la política estadounidense en Iraq, era “[…] abrir áreas del sector energético iraquí a la inversión extranjera”. Una nueva ley del petróleo, propuesta por el gobierno estadounidense y las grandes compañías petroleras, sería el marco “legal” para la venta del petróleo iraquí.

Sin embargo, a pesar de los siete años de ocupación no han conseguido la aprobación de una nueva ley del petróleo. El régimen clientelista iraquí la aprobó, pero no el Parlamento. Pero ni al consejo de gobierno ni a las grandes compañías parece preocuparles por lo que han decidido seguir adelante con dos ventas públicas llevadas a cabo en junio y diciembre de 2009. La mayoría de las reservas confirmadas de Iraq fueron regaladas en forma de contratos de servicio a las compañías extranjeras debilitando y menospreciando de este modo el papel de la nación, que antes de 1972 se había fortalecido gracias a los decretos de nacionalización de las compañías extranjeras del petróleo.


Sigyn Meyer [P]: ¿Podría por favor, comentarnos los resultados de estos acuerdos y la naturaleza de los contratos que firmaron? La duración de los mismos parece un término excesivamente largo, de 20 a 25 años, para contratos de servicios técnicos.

Issam al-Chalabi [R]: Los contratos no se han dado a conocer ni siquiera al Parlamento iraquí, por lo que los detalles exactos se desconocen, no obstante se sabe que su duración es de 20 años, ampliable a otros cinco más. A pesar de que la denominación de los contratos es de “servicios” muchos lo dudamos. Hay un refrán que dice: “el demonio se oculta en los detalles”. Iraq, ciertamente perderá su capacidad para tomar decisiones acordes a los intereses nacionales.

[P]: ¿Qué nos puede decir sobre la legalidad y la transparencia de esos contratos? Parece que al menos el contrato de Rumaila ha sido impugnado ante los tribunales.

[R]: Desde que el actual gobierno fue incapaz de aprobar el proyecto de ley sobre petróleo y gas —debido a las diferencias con el gobierno regional del Kurdistán— decidió dar un paso más al declarar que podrían basar su política en anteriores leyes aprobadas en las décadas anteriores. Esas leyes especifican con términos muy claros que el desarrollo de las fuentes del petróleo se ha de realizar mediante la puesta en práctica de una política nacional, lo que significa que es la nación la que tiene que poner los medios y si fuera necesaria la intervención de una entidad extranjera, eso se haría estudiando caso por caso, mediante una ley que regularía específicamente cada caso. Eso está determinado por la ley 97 de 1967, en base a la cual se firmaron algunos contratos en 1968 y a principio de la década de 1970. Esta y otras leyes siguen en vigor, según el artículo 130 de la nueva constitución aprobada en 2005, la cual estipula que, a menos que se enmienden o deroguen, todas las leyes anteriores siguen en vigor. Sin embargo, el actual gobierno está saltándose el Parlamento y firmando contratos tras el acuerdo del gobierno, por lo tanto, todos esos contratos son ciertamente ilegales.

[P]: ¿Cuál es la relación entre el gobierno central y el gobierno regional del Kurdistán. Ellos afirman que les pertenece el petróleo de “su” parte de Iraq y por ello firman sus propios contratos de petróleo. Además se han producido escándalos como el de Peter Galbraith, que en Suecia ha pasado desapercibido casi por completo. ¿Puede darnos su opinión al respecto?

[R]: De acuerdo a todas las leyes en vigor, el petróleo y el gas de Iraq pertenecen a todos los iraquíes y puesto que el Parlamento central representa a los iraquíes y a falta de la nueva ley de petróleo y gas, esto significa que el Ministerio del Petróleo está autorizado para gestionar los asuntos del petróleo, por lo que las reivindicaciones y los actos del gobierno regional del Kurdistán y todos los acuerdos y contratos firmados por ellos son completamente ilegales. Por este mismo motivo, todas las compañías que firmaron acuerdos con el gobierno regional del Kurdistán, como la DNO de Noruega, son completamente responsables y tendrán que asumir las consecuencias.

Ha quedado demostrado que Peter Galbrith, ex embajador estadounidense y asesor del gobierno regional del Kurdistán, quien jugó un papel esencial en la formulación de la constitución de 2005 y más tarde en la redacción del proyecto de ley de petróleo y gas (sin aprobar todavía), recibió al menos un 5% del contrato firmado por la DNO. Actualmente el asunto está siendo investigado por los tribunales. En este asunto también han aparecido nombres de algunos altos cargos del gobierno regional kurdo.

[P]: El gobierno iraquí y las empresas hablan sobre una fabulosa producción de petróleo y que las exportaciones aumentarán en muy poco tiempo. Usted que conoce bien las infraestructuras petroleras de Iraq, ¿qué opina de estas afirmaciones?

[R]: El ministro de Petróleo habla sobre el incremento de la producción hasta alrededor de los 12 millones de barriles al día, pero admite que no se espera que Iraq exporte tanto puesto que el mercado no absorberá tales incrementos. Por tanto, para empezar, Iraq tendrá que pagar a las compañías por el coste de la capacidad adicional de seis millones de barriles al día que no se pueden utilizar y eso dando por sentado que Iraq pueda exportar los otros seis millones de barriles al día.

Muchos expertos iraquíes, entre ellos altos cargos del ministerio dudan de la capacidad de esos campos de petróleo para alcanzar los aumentos prometidos.

Voy a poner un ejemplo: Iraq actualmente produce alrededor de un millón de barriles de petróleo de los campos de petróleo del sur y del norte de Rumaila y en las ofertas y en las concesiones el Ministerio no espera que la producción supere los 1,7 millones de barriles al día como máximo de su capacidad sostenible. Las compañías adjudicatarias, la BP de Reino Unido y la CNPC de China, se comprometieron a 2,85 millones de barriles al día, cifra similar a la producción de otros campos adjudicados. Otra cuestión es que esas compañías se comprometen a incrementar la producción actual en un 10 por ciento (alrededor de 2,4 millones de barriles al día en 2009), por lo que no se espera un gran incremento de la producción hasta dentro de seis o siete años como poco. Además, Iraq es incapaz de llevar su capacidad exportadora hasta los 12 millones de barriles al día. Actualmente la cifra está en 1,5 millones de barriles exportados a través del Golfo en el Sur y en 700 millones de barriles exportados a través de Turquía.

[P]: Halliburton, KEB y otras compañías estadounidenses, conocidas por su corrupción y precios inflados, participan en la carrera por conseguir la bonanza del petróleo iraquí. Estos que se benefician de la guerra, y que ya han ganado fortunas en Iraq, ahora obtendrán nuevas fortunas con la reconstrucción. Ni siquiera parece que tengan que negociar porque obtienen subcontratas de las compañías petroleras. Se introducen subrepticiamente en ellas. ¿Qué opina sobre esto y quién va a pagar esas fabulosas sumas?

[R]: Todos los gastos en los que incurran las compañías petroleras serán pagados por Iraq, empezando por el día en el que las compañías petroleras alcancen el 10 por ciento. Sí, ciertamente las compañías petroleras insisten en contratar servicios a un precio muy superior al normal en función del tiempo y de las capacidades mencionadas, cuando Iraq lo podría hacer mucho más barato aunque la verdad es que tardaría más tiempo, pero como he dicho antes la mayoría de los [supuestos] incrementos adicionales serán nulos.

[P]: Europa también ha puesto los ojos en Iraq. “Iraq representa un nexo fundamental para la seguridad energética” ha dicho Andris Piebalgs, comisario para la energía de la Unión Europea, quien en enero firmó con Hussain al-Shahristani, actual ministro del petróleo iraquí, el memorando de entendimiento en Bagdad. Iraq, con las terceras reservas de petróleo del mundo, ya es un importante proveedor de petróleo y puede convertirse en un proveedor clave de gas para el corredor Sur, afirmó Piebalgs. David Cameron, el líder británico tory, afirmó recientemente en Chatham House que “[…] la OTAN, tiene que desarrollar, de forma ideológica y práctica, los conceptos de solidaridad y asistencia mutua en el contexto de la amenaza a la seguridad energética como parte de la operación de apuntalamiento de la seguridad [energética] colectiva en el siglo XXI”. Sin embargo, no se muestran tan entusiastas cuando se trata de condenar criminales de guerra. ¿Cómo ve usted el papel de la Unión Europea en Iraq?

[R]: Es muy poco práctico decir que el gas iraquí llegará a Europa. El último acuerdo entre la Unión Europea e Iraq no se llevará a cabo sencillamente porque no hay suficiente gas en Iraq y el que está disponible apenas es suficiente para el consumo local en Iraq. La Unión Europea está tirando a la basura millones de euros en proyectos imaginarios y empleando decenas de miles en sus agencias sin ver el beneficio real para los europeos cuyo dinero y cuyos impuestos se están despilfarrando. La Unión europea sigue las políticas estadunidenses en el mundo, lo que incluye Iraq y Afganistán.

[P]: Recientemente Irán envió soldados para ocupar el campo de petróleo de Fakka en el lado iraquí de la frontera con Irán, ¿qué opina al respecto?

[R]: Los iraníes afirman que las fronteras no están claramente definidas, lo que es absolutamente falso. Las fronteras se definieron en el Acuerdo de Argel de 1975 y según éste, las fronteras se definieron en los mapas y en el memorando de acuerdo final, que incluía especificaciones de los límites y los ministros de exteriores firmaron las coordenadas de cada uno de los límites establecidos. Fueron los iraníes quienes depositaron las copias de esos acuerdos, en inglés y en francés, en la sede de Naciones Unidas en 1976.

Los iraníes ocuparon el pozo número cuatro y tras multitudinarias manifestaciones contra los actuales dirigentes iraquíes conocidos por su lealtad a Irán, éste último retiró a los soldados del pozo pero los dejó dentro de las fronteras iraquíes. Este campo de petróleo es totalmente iraquí y está dentro de las fronteras iraquíes. Este es un ejemplo de las intenciones de Irán y de la interferencia de Irán en asuntos iraquíes.

[P]: Una gran publicación industrial sueca, “Dagens industria”, afirmó el 15 de enero que “Iraq destaca entre los países productores”. Los contratos han sido ejemplares porque predicen que puede ser posible producir mucho más petróleo de lo que puedan bajar los precios, al menos durante un par de años. “Quienes creen en una carencia de petróleo en los próximos diez años, tienen desde luego que asegurarse el suministro”.

[R]: Como he explicado antes, hay dudas legítimas sobre la posibilidad de que Iraq alcance tales niveles de producción, y eso sin tener en cuenta su capacidad para exportar. No podemos predecir correctamente los precios del petróleo mañana por lo tanto, ¡cómo hacerlo para los próximos siete años! Todas las declaraciones de las compañías internacionales de petróleo son engaños para el público y para justificar sus propios gastos y beneficios.

[P]: El mundo entero tiene puestos los ojos en el petróleo iraquí. Hay una lucha feroz en marcha, no solo Estados Unidos y las empresas occidentales compiten, sino que además algún Estado y algunas empresas privadas de países emergentes, como China, con importancia creciente importancia en el mundo de los negocios y con creciente necesidad energética. ¿Cuál es su consideración al respecto?

[R]: Lo que es importante para Estados Unidos, y para el libre comercio, es despojar a los pueblos y a las empresas nacionales petroleras el control sobre el petróleo y lo que no es tan importante es qué empresa internacional en concreto lo controla porque todas tienen los mismos objetivos. Además, parece que todo el mundo lucha por su trozo de pastel.

Sigyn Meder

Traducido por Paloma Valverde, extraído de Rebelión.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 21, 2010.

vendredi, 26 février 2010

Nabucco con futuro incierto por falta de gas

Nabucco con futuro incierto por falta de gas

nabucco_pipeline_100.jpgProyectado por Europa para reducir la dependencia energética de Rusia, el gasoducto Nabucco en la región del mar Caspio está lejos aún de materializarse a causa de la escasez de carburante, afirmó hoy un experto europeo.

Para Alexander Rahr, especialista del Consejo Alemán en asuntos energéticos y los países de la Comunidad de Estados Independientes, el proyecto ideado por Estados Unidos y la Unión Europea tropieza con muchos obstáculos y el principal es la falta de gas a fin de garantizar el trasiego en los plazos previstos.

Dijo que las fuentes no podrán llenar las tuberías como se creyó y sencillamente Nabucco no tiene hoy gas disponible.


Azerbaiyán, según el experto, parece ser la única alternativa posible para el del trasiego del carburante hacia Europa, aunque recordó los grandes volúmenes de combustible azul vendidos por ese país a Rusia y a Irán.

En Occidente están esperanzados en completar las necesidades con el gas proveniente de Iraq, pero la situación de inestabilidad del país árabe pone en duda que pueda ingresar al mercado europeo, sostuvo el analista alemán.

Otro de los proveedores importantes de gas en Asia Central es Turkmenistán, que vende casi todo el carburante a Rusia y a China; además de haberse comprometido con Moscú en la construcción de un gasoducto en el Caspio para diversificar las rutas energéticas hacia Europa.

Nabucco se ha visto en un callejón sin salida porque Rusia actuó con habilidad al convencer a varios estados balcánicos de unirse al proyecto South Stream (Corriente Sur), otra de las variantes alternativas, puntualizó Rahr.

Considerado clave para la geopolítica energética de Estados Unidos y de la UE en Asia Central y la zona del Caspio, el proyecto involucra a Azerbaiyán, Bulgaria, Georgia, Hungría, Rumania y Turquía, junto a Austria, donde terminaría uno de los ramales.

El director general de esta obra, Reinhard Mitchek, aseguró recientemente que Nabucco comenzará a operar en 2014.

A un costo estimado de 7 mil 9 millones de dólares, se espera que el gasoducto bombee 31 mil millones de metros cúbicos de gas anuales desde la estación primaria en la ciudad turca de Erzurum.

Bautizada por sus iniciadores como la ruta transcaspia, Nabucco fue diseñado para acabar con el monopolio de Rusia en la exportación de hidrocarburos a Europa y controlar las principales fuentes de materia prima en Asia Central.

Extraído de Prensa Latina.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 23, 2010.

mercredi, 10 février 2010

Iran: Milliarden-Gasgeschäft mit Deutschland

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Iran: Milliarden-Gasgeschäft mit Deutschland

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Der Iran hat soeben einen Milliarden-Vertrag mit einem deutschen Unternehmen über den Bau von 100 Gaskompressoren abgeschlossen. Diese Vereinbarung erklärt erneut, warum die großen EU-Länder kein Interesse daran zeigen, den Iran durch Wirtschaftssanktionen unter Druck zu setzen. Washingtons Iran-Politik ist ein einziger Scherbenhaufen, das Risiko, dass über die nuklearen Ambitionen des Iran ein Krieg ausbricht, sinkt.

Der Chef der iranischen Gas Engineering and Development Company, Ali Reza Gharibi, hat soeben bekannt gegeben, dass ein nicht genanntes deutsches Unternehmen einen Vertrag zum Bau der Turbo-Kompressoren unterzeichnet hat. Zum Vertragsumfang von einer Milliarde Euro gehört der Transfer von Know-how für Bau, Einrichtung und Betrieb der Anlagen zur Förderung und zum Transport iranischen Erdgases. Der Iran verfügt nach Russland wahrscheinlich über die zweitgrößten Erdgasreserven der Welt. Bisher hat das Land als Gasexporteur nur eine untergeordnete Rolle gespielt. Mit den neuen Kompressoren könnte sich das ändern.

Laut Quellen aus der Industrie handelt es sich bei dem deutschen Unternehmen um die Siemens AG, obwohl das staatliche iranische Gasförderunternehmen National Iranian Gas Company (NIGC) dies dementiert. Siemens hatte zuvor bereits 45 solche Turbo-Kompressoren an den Iran geliefert. Das NIGC sprach von einem Vertrag mit einem »iranischen Unternehmen zum Bau von 100 Turbo-Kompressoren im Iran, unter Nutzung des Know-hows des Partnerunternehmens«, ohne den Namen der Firma zu nennen.

Der Vertrag bezieht sich dem Vernehmen nach auf Anlagen, die nicht unter ein internationales Embargo fallen. Die Unterzeichnung erfolgt zu dem Zeitpunkt, wo dem Iran wegen des umstrittenen Atomprogramms ein neues Finanz-, Technologie- und Handelsembargo droht.

 

Durch den Vertrag mit einer deutschen Firma will der Iran seine Gasexporte erhöhen.

 

Die Entwicklung des iranischen Gassektors hat bislang unter mangelnden produktiven Investitionen gelitten. Außerdem hat der gestiegene heimische Gasverbrauch dazu geführt, dass von der täglichen Förderung von ca. 500 Millionen Kubikmetern kaum etwas für den Export übrig blieb.

Die in dem Vertrag mit der deutschen Firma zugesicherte Ausrüstung und das Know-how wird den Iran in die Lage versetzen, Anlagen zur Produktion von Flüssigerdgas (LNG) zu errichten, das dann Zeitungsmeldungen zufolge auf dem Seeweg exportiert werden soll. Die regierungsnahe Tageszeitung Iran Daily berichtet, der Vertrag sei Anfang letzter Woche unterzeichnet worden und ließe »viele deutsche Unternehmen, die sich seit Langem über die Handelsbeschränkungen [aufgrund von Sanktionen] mit dem Iran beklagen, aufatmen«. Offiziellen Statistiken zufolge sind Deutschland und China nach den Vereinigten Arabischen Emiraten die wichtigsten Handelspartner des Iran.

 

Mittwoch, 03.02.2010

Kategorie: Wirtschaft & Finanzen

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samedi, 06 février 2010

Colaboracion energetica ruso-venezolana

Colaboración energética ruso-venezolana

El líder venezolano dio instrucciones a su gobierno de acelerar la realización del proyecto sobre la construcción por las compañías rusas del complejo de centrales termoeléctricas que funcionan a base de coque de petróleo. El ministro de Energía y Petróleo de Venezuela Rafael Ramírez llegará pronto a Moscú y discutirá este problema con sus colegas rusos.

De momento, Moscú y Caracas realizan las tesis del memorando sobre la colaboración en la esfera energética firmado en 2008 por los Presidentes de los dos países, Dimitri Medvedev y Hugo Chávez respectivamente. Según los compromisos contraídos entonces, Rusia presta ayuda a Venezuela en la construcción de una central atómica, en la formación del personal, los dos países explotan juntos los yacimientos de uranio. En la etapa final está el proceso de fundación del banco conjunto ruso-venezolano que va a financiar proyectos comerciales y económicos bilaterales, incluso en la esfera petrogasífera.


Guennadi Shmal, presidente de la Unión de Productores de Petróleo de Rusia, comenta las perspectivas de la colaboración energética de Rusia con Venezuela y con otros países de América Latina:

Últimamente, Rusia establece relaciones cercanas con Venezuela y América Latina en general. Y eso a pesar de que allí existen ciertas dificultades, por ejemplo las legislativas. Como ejemplo, en algunos países no se permite la participación de compañías extranjeras en las industrias petrolera y gasífera. En este caso Venezuela es una excepción agradable, por eso muchas empresas rusas, entre ellas Lukoil y Gazprom, colaboran activamente con las venezolanas. Creo que en adelante nuestra cooperación vaya ampliándose. Venezuela, importante productor de petróleo pesado, al igual que otros Estados de la citada región, necesita nuevas tecnologías. El intercambio de experiencia y tecnologías puede ser objeto de nuestra colaboración.

Actualmente, Moscú considera a América Latina como una de las principales regiones políticas y económicas. Según estimaciones de expertos, en los próximos 10-15 años el producto interno bruto de Venezuela, Argentina, Brasil y México va a crecer en vez y media más rápido comparando con el resto del mundo. El aumento de la exportación y de la demanda interna de recursos energéticos abre perspectivas para ampliar notablemente la cooperación ruso-latinoamericana en el campo de la seguridad energética global.

Extraído de La Voz de Rusia.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 1, 2010.

samedi, 16 janvier 2010

Intesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei

kash4.jpgIntesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei
Scritto da Antonio Albanese   

Ex: http://www.area-online.it/

«Ringrazio il premier Berlusconi per questo invito a visitare l’Italia e per il calore che ho sentito in tutti gli incontri». Così, Nursultan Nazarbayev, presidente del Kazakistan, ha espresso la sua soddisfazione per gli ottimi rapporti con l’Italia, commentando la firma di una serie di importanti accordi bilaterali (il partenariato strategico con il ministero degli Esteri e un’intesa per la lotta al narcotraffico e alla criminalità organizzata) e commerciali tra i due Paesi.
 Questi ultimi valgono «molti miliardi di dollari», come ha sottolineato lo stesso Berlusconi nel corso della conferenza stampa congiunta.
Le intese «riguardano nostre grandi aziende» come Eni, Finmeccanica, Ansaldo e Fs, ma, come ha poi sottolineato il nostro premier, «in questi giorni sono stati presi contatti anche con le nostre medie imprese e abbiamo preso accordi per una missione di nostre piccole e medie imprese per esportare in Kazakistan il nostro know how». 
Berlusconi ha inoltre espresso «la speranza di poter aumentare in maniera notevole la collaborazione economica». Ha poi sottolineato l’accordo sul turismo «per portare turisti italiani in questo Paese che è grande nove volte l’Italia». Il premier ha espresso poi «grande soddisfazione per l’impegno dei nostri imprenditori nei confronti di un Paese in grande espansione».
Di Kazakistan, è bene ricordarlo, Berlusconi avrebbe parlato a fine ottobre, durante la visita privata a Vladimir Putin. Nel corso della “trilaterale” Italia-Russia-Turchia, svoltasi proprio nella casa del primo ministro russo, Berlusconi, Erdogan (collegato in videoconferenza con gli altri due leader) e Putin hanno esaminato il progetto dell’oleodotto Samsun-Ceyhan (vi sono impegnate la turca Celik Enerji e l’Eni). Questo progetto collegherebbe il Mar Nero turco con le coste del Mediterraneo, attraversando da nord a sud l’Anatolia, con lo scopo di alleggerire il carico e il traffico attualmente sostenuto dalle petroliere che passano il Bosforo, con conseguenze ambientali indubbiamente positive. A questo progetto dovrebbe partecipare anche il Kazakistan. 
L’incontro di fine ottobre, come aveva fatto sapere Palazzo Chigi, era stato richiesto da Nazarbayev in occasione di una precedente breve visita di Berlusconi in Kazakistan e rientra nella strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico messa in atto dall’Italia, primo importatore di gas condensato e di petrolio dal Kazakistan. Gli accordi firmati durante l’incontro riguardano «investimenti reciproci di 6 miliardi» di dollari. Questa è la cifra indicata da Nursultan Nazarbayev, che ha spiegato come questi accordi possono essere «uno stimolo per il rilancio dei rapporti» tra i due Paesi. Il presidente della Repubblica kazaka ha poi precisato come l’interscambio tra Italia e Kazakistan abbia «raggiunto il 30% dell’intero interscambio con l’Unione europea, pari a 14 miliardi di dollari; e gli investimenti italiani hanno raggiunto i 6 miliardi di dollari con 97 imprese presenti in Kazakistan», un 8% in più, rispetto allo stesso periodo del 2008.
Grazie alle intese di Roma si è rafforzata, nel settore petrolifero, la collaborazione con l’Eni: l’amministratore delegato, Paolo Scaroni e il presidente di KazMunayGas (Kmg, la compagnia kazaka), Kairgeldy Kabyldin, hanno siglato, alla presenza di Nazarbayev e Berlusconi, un nuovo accordo di cooperazione per lo sviluppo di attività di esplorazione e produzione e la realizzazione di infrastrutture industriali in Kazakistan. In particolare, l’accordo, che fa seguito a un memorandum d’intesa preliminare firmato a luglio 2009, prevede che Eni e Kmg  conducano studi di esplorazione nelle aree di Isatay e Shagala, nel Mar Caspio, e studi di ottimizzazione dell’utilizzo del gas in Kazakistan. È prevista anche la valutazione di «numerose iniziative industriali», tra cui un impianto di trattamento del gas, un impianto di generazione elettrica a gas, un cantiere navale e l’upgrading della raffineria di Pavlodar, di cui Kmg possiede la quota di maggioranza. Le decisioni finali d’investimento per questi progetti «sono previste entro due anni dal completamento di studi tecnici e commerciali dettagliati», come ha fatto poi sapere la compagnia italiana. Eni prevede poi di «rafforzare ulteriormente la sua presenza in Kazakistan, dove è co-operatore nel giacimento Karachaganak ed è partner nel consorzio che gestisce il giacimento Kashagan».
Secondo Paolo Scaroni, «è un accordo molto importante che definisco “matteiano” perché ad ampio spettro». A Eni sono state assegnate, ha detto Scaroni, «due aree esplorative che sono al top delle brame delle compagnie mondiali, le due aree del petrolio più promettenti del Mar Caspio. È un grande risultato che testimonia il successo della nostra presenza in Kazakistan. Si è parlato tanto di Kashagan anche in modo non lusinghiero. Pensate che avrebbero fatto un accordo di questo tipo se le nostre performance non fossero al top?».
Per quel che riguarda gli altri accordi, il presidente della società kazaka Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna (società statale di gestione industriale e finanziaria), Kairat Kelimbetov, e il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, hanno firmato un memorandum d’intesa per sviluppare accordi di collaborazione industriale con le aziende del gruppo Finmeccanica nei settori del ferroviario, dell’elettro-ottica e dell’elicotteristica. L’intesa tra Finmeccanica e Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna prevede la costituzione di un gruppo di lavoro che dovrà analizzare le nuove esigenze del Kazakistan e le opportunità di business per le aziende del gruppo italiano. Nel settore ferroviario, il presidente della società Temir Zholy, Askar Mamin, l’ad di Finmeccanica e quello delle Ferrovie dello Stato italiane, Mauro Moretti, hanno inoltre firmato un accordo di ampia cooperazione per lo sviluppo del settore ferroviario del Paese centroasiatico. Sempre in questo campo, Temir Zholy e Ansaldo Sts hanno firmato un accordo per la realizzazione di una joint venture nel segnalamento ferroviario, nei sistemi di elettrificazione e per la realizzazione di centri di comando e controllo per le stazioni ferroviarie in Kazakistan e nei Paesi limitrofi. L’accordo con le ferrovie kazake (Ktz) è il primo passo della cooperazione del sistema Italia nel settore ferroviario per lo sviluppo del trasporto su ferro dell’importante Paese centroasiatico. Le aree nelle quali Fs collaborerà con le Ferrovie kazake sono fra l’altro: assistenza tecnica per fornire supporto al loro processo di ristrutturazione; studio di fattibilità con Italferr per l’aggiornamento della linea Astana-Almaty, per una velocità commerciale di 200-250 chilometri orari; sviluppo di centri logistici nel Paese con Fs Logistica e Italferr; cooperazione per Traffic Management Centers (11 centri) e gestione del traffico merci e della logistica integrata. Il Kazakistan è il Paese dell’area centroasiatica che ha il piano di investimenti più significativo per lo sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria e quindi del trasporto su ferro.
Nel settore dell’elettro-ottica, la KazEngineering e Selex Galileo hanno firmato un accordo di collaborazione per lo sviluppo di applicazioni civili e militari, che prevede anche l’utilizzazione dei sistemi elettro-ottici italiani per l’ammodernamento dei veicoli corazzati T72, carri armati in servizio nelle forze armate kazake. Accanto a questi progetti si sono avviate le procedure per costituire una joint venture tra AgustaWestland e Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna per la realizzazione di un centro di manutenzione e addestramento per elicotteri civili, nonché una joint venture per l’assemblaggio in Kazakistan di autobus a gas naturale della BredaMenarinibus (società di Finmeccanica).
Accanto agli accordi economici, abbiamo accennato agli accori politici siglati tra i due Paesi. L’Italia appoggerà il Kazakistan per la sua presidenza dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) nel 2010. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha confermato direttamente a Nursultan Nazarbayev, al Quirinale. «La presidenza dell’Osce da parte del Kazakistan nel 2010 è un fatto molto importante anzitutto per il rilancio stesso dell’Osce» ha detto il capo dello Stato, «sentiamo che questa organizzazione può svolgere un ruolo maggiore di quello che non sia riuscito a svolgere negli ultimi tempi». In particolare, Napolitano ha apprezzato l’idea di Nazarbayev di una convocazione dell’Osce a livello di vertice dei capi di Stato di tutti i Paesi aderenti: «È una proposta eccellente, che l’Italia appoggia e si augura che si possa realizzare. Non a caso la proposta arriva dal Kazakistan, ovvero da un Paese esempio e specchio di tolleranza, di moderazione e di convivenza pacifica; Paese che persegue una politica di equilibrio nei rapporti internazionali e rappresenta una grande garanzia per tutti, collocato in un’area strategica e in una regione irta di problemi», posta fra il Medio Oriente, l’Iran con il suo contenzioso nucleare, l’Afghanistan e il Pakistan al centro della minaccia del terrorismo internazionale. 
Quanto ai rapporti bilaterali fra i due Paesi, Napolitano, ricordando che per Nazarbayev si tratta della sua seconda visita al Quirinale, dopo il precedente invito della presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, registra con soddisfazione «l’intenso sviluppo dei rapporti economici e dell’interscambio commerciale con un Paese ricco di grandi risorse che ha un ruolo chiave per l’approvvigionamento energetico» accanto alle «eccellenti possibilità di impegno comune  sui grandi temi della politica internazionale». 

jeudi, 14 janvier 2010

Teheran, epicentro di un terremoto geostrategico

340x.jpgTeheran, epicentro di un terremoto geostrategico

Ahmadinejad e Berdymukhamedov inaugurano un gasdotto in Turkmenistan

Pietro Fiocchi

Dopo aver riscosso un certo successo in Tajikistan, dove il presidente Rakhmon ha garantito sostegno al programma nucleare civile di Teheran, Ahmadinejad era ieri in Turkmenistan. Nella capitale Ashgabat ha incontrato il leader dell’ex repubblica sovietica Gurbanguly Berdymukhamedov, con il quale si è congratulato per la sua politica imparziale, approccio saggio per assicurare pace e stabilità nella regione.
A detta dello stesso Ahmedinejad, tra i governi dei due Paesi centroasiatici ci sarebbe una perfetta sintonia su una serie di questioni di carattere locale e internazionale. Posizioni vicine sulla questione Afghanistan. Il presidente iraniano è tornato a scandire concetti ormai noti: “l’Iran incoraggia soluzioni ai problemi della regione che siano giusti per tutti i Paesi e per tutti i popoli”.
Berdymukhamedov, forse per restare fedele alla sua fama di saggia neutralità, non ha fatto eco al suo ospite. In ogni caso, in precedenza aveva fatto sapere di non essere favorevole a interventi militari sul fronte afghano. Posizioni molto vicine a quelle di Mosca e di tutti gli altri cinque membri dell’Organizzazione di Shangai per la cooperazione, in cui Teheran è osservatore e aspirante membro. Ashgabat con questa organizzazione non ha niente a che fare, ma di recente ha riscoperto con il Cremlino l’antica amicizia e concluso vari accordi nel settore energetico.
Non è verosimile che il Turkmenistan si abbandoni a colpi di testa e si privi della simpatia di due alleati strategici come la Russia e l’Iran, così ben disposti. Quindi l’Eurasia, quella che conta, è compatta nel proporre compromessi che escludano l’uso della forza, tanto per Kabul quanto per l’intera Asia Centrale. Difficile che sia altrimenti: tra vicini di casa sono preferibili le buone maniere.
Discorsi sulla sicurezza a parte, il punto forte dei tre giorni di Ahmadinejad in Turkmenistan è l’inaugurazione, oggi, di un nuovo gasdotto. Lungo 30,5 chilometri, il gasdotto permetterà di aumentare le forniture destinate a Teheran fino 14 miliardi di metri cubi di gas all’anno, per raggiungere in seguito i 20 miliardi. Non sarà un problema: Ashgabat ne produce 80 miliardi l’anno, di cui 30 vanno in Russia e 6 in Cina. A quanto pare in tema di idrocarburi l’Iran per un po’ potrà stare tranquillo. C’è inoltre la banca del Qatar, che finanzierà prossimamente, con la cifra iniziale di 400 milioni di euro, lo sviluppo del giacimento petrolifero di Esfandiar, nel Golfo.
Sempre in tema di affari e prospettive c’è una novità: con l’anno nuovo è in vigore l’Unione doganale di Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un gigante economico, una nuova realtà politica, di cui l’alleato Iran saprà amichevolmente approfittare.


06 Gennaio 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=261

mardi, 29 décembre 2009

Droht ein Krieg zwischen Iran und dem US-Irak?

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Droht ein Krieg zwischen Iran und dem US-Irak?

Michael Grandt / http://info.kopp-verlag.de/

Eine Auseinandersetzung um eine kleine Ölquelle im Grenzgebiet zwischen dem Irak und dem Iran kann der Anlass für einen größeren Konflikt werden, bei dem die USA sich »legitim« ihres Erzfeindes Iran entledigen könnten.

Von den westlichen Mainstream-Medien weitgehend ignoriert, braut sich in Persien ein Gewitter zusammen, das sich zu einem handfesten Konflikt zwischen dem Iran und dem US-Irak ausweiten könnte.

Bereits von 1980 bis 1988 führten der Iran und der Irak einen brutalen Krieg, der Hunderttausende das Leben kostete. Zwar verkündete der damalige irakische Präsident den Sieg, aber in Wirklichkeit handelte es sich um eine Patt-Situation.

Seit dem 18. Dezember halten nun iranische Soldaten ein umstrittenes Ölfeld auf irakischem Staatsgebiet besetzt. Das Öl-Feld Fakka liegt etwa 300 Kilometer südöstlich von Bagdad.

Einem Mitarbeiter des Betreibers Maysan Oil Company zufolge werden in Fakka gegenwärtig rund 10.000 Barrel Öl pro Tag gefördert.

Vize-Innenminister Ahmed Ali al-Chafadschi sagte gegenüber der Nachrichtenagentur Reuters, elf Soldaten hätten die Grenze überquert, die iranische Flagge gehisst und hielten einen Ölturm besetzt. Auch in der Vergangenheit hätte Iran versucht, irakische Techniker durch Schüsse an der Arbeit an dem Bohrturm zu hindern. Der Irak habe bislang nicht militärisch reagiert und strebe eine diplomatische Lösung an, sagte al-Chafadschi weiter. »Der Bohrturm liegt auf irakischem Gebiet, 300 Meter von der Grenze entfernt.«

Dem widersprach Teheran und erklärte, die Ölquelle befinde sich auf iranischem Gebiet.

Jetzt mischte sich erstmals auch ein hochrangiger US-Militär ein: US-Generalstabschef Michael Mullen sagte, nach seinem Verständnis stehe das Gebiet unter irakischer Souveränität.

Interessant bei dieser Aussage dürfte sein, dass er nicht behauptet, dass die Ölquelle auf irakischem Gebiet liegt, sondern unter irakischer Souveränität steht.

Für die USA wäre dieser Vorfall wohl eine Möglichkeit, den internationalen Druck auf den Erzfeind Iran weiter zu verstärken. Er könnte sogar Anlass dafür sein, einen Konflikt zu schüren, bei dem die Amerikaner den Irakern »schützend« beistehen und so ein für alle Mal das Problem »Iran« aus der Welt schaffen. Die jüdisch-israelisch-amerikanische Lobby wartet schon lange darauf.

Die Nachricht über die Besetzung der Ölquelle stärkte an den internationalen Finanzmärkten den Dollar, der einen Teil seiner Verluste zum Euro wieder wettmachte. Auch der Ölpreis legte nach den ersten Berichten leicht zu, gab später jedoch wieder nach.

 

Dienstag, 22.12.2009

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mercredi, 11 novembre 2009

Nueva 'Guerra Fria' por petroleo del Artico

arctique.jpgNueva ‘Guerra Fría’ por petróleo del Ártico

El experto norteamericano Roger Howard, autor de ‘Fiebre del oro en el Ártico’ y ‘Cazadores de petróleo’, pronostica una nueva ‘Guerra Fría’ entre EEUU y Rusia por recursos no explorados del Ártico, cuya extracción hacen posible el calentamiento global y nuevas tecnologías.

“Los hielos se derriten, lo que pemite desarrollar yacimientos de hidrocarburos en zonas árticas que, según expertos, encierran hasta el 13% de recursos mundiales no prospectados de petróleo y hasta el 30% de gas natural”, dijo Howard en una entrevista a RIA Novosti.

Según el experto, el “quinteto ártico” (EEUU, Rusia, Noruega, Canadá y Dinamarca) ya trata de legitimar sus derechos a la plataforma continental lo que intensificará la lucha política, ante todo, entre Rusia y EEUU.


“La explotación del Ártico dejó de ser un proyecto de un futuro lejano. Según algunos expertos, los hielos del Océano Glacial Ártico se derretirán por completo para 2030. Washington y Moscú no desaprovecharán esta ocasión”, indicó Howard.

El experto afirma que, debido al cambio climático, la frontera norte de Rusia será más vulnerable y se expondrán a una amenaza militar las bases de la Armada rusa y yacimientos importantes en la costa norte del país.

A su vez, EEUU también tendría que considerar las amenazas militares frente a la costa de Alaska, a los yacimientos petroleros en la bahía Prudhoe y a las estaciones de radar que vigilan rutas marítimas transatlánticas.

“No creo que será inevitable la confrontación entre EEUU y Rusia, pero la situación política en la región se agravará”, constató Horward y agregó que fracasarán los intentos del “quinteto ártico” de repartirse las zonas de influencia con ayuda de la Organización de las Naciones Unidas (ONU),

Según el experto, la mejor vía para la regulación política del problema son las negociaciones bilaterales.

“Para evitar la confrontación vale la pena recordar el caso de China y Japón que en 2008 acordaron a dividir en partes iguales todo lo proveniente de los yacimientos que se descubrirán en el Mar de China Oriental”, concluyó Howard.

Extraído de RIA Novosti.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 5, 2009.

vendredi, 30 octobre 2009

Erdgas: russisch-bolivianisches Joint Venture

xin_152020617062837517686.jpgErdgas: russisch-bolivianisches Joint Venture

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Laut neuesten Meldungen wird Russland in Kürze mit der bolivianischen Regierung ein Abkommen über die Erkundung und Förderung von Erdgas unterzeichnen. Für die USA bedeutet das einen herben Rückschlag in ihrer traditionellen Einflusssphäre in Lateinamerika. Seit der Verkündung der Monroe-Doktrin im Jahr 1832 betrachten die USA, allen voran die führenden Banken, Südamerika als »Amerikanische Plantage«. Wenn nun der staatliche russische Energiekonzern »Gazprom« nach Bolivien vordringt, ist das als asymmetrische geopolitische Antwort Moskaus darauf zu verstehen, dass die USA in den letzten Jahren die NATO bis praktisch vor die Haustür Moskaus erweitert haben. Die USA sind schwerlich in der Lage, mit wirtschaftlichen Anreizen eine Gegenoffensive zu starten.

Der stellvertretende Direktor von Gazprom, Alexander Medwedew, gab kürzlich anlässlich einer Konferenz über Energiefragen in Argentinien bekannt, das Unternehmen werde in den nächsten Wochen eine Vereinbarung mit der staatlichen bolivianischen Öl- und Gasgesellschaft YFBP über ein Joint Venture zur Erschließung der riesigen Erdgasvorkommen in Bolivien unterzeichnen. Nach Venezuela verfügt Bolivien mit 1,5 Billionen Kubikmetern über die zweitgrößten Erdgasreserven in Südamerika. Das meiste Erdgas lagert in der Provinz Santa Cruz im Südosten des Landes.

Dem Gasgeschäft mit Russland gingen Gespräche mit Moskau über verstärkte russische Militärhilfe für die Streitkräfte Boliviens voraus. Zuvor hatten die USA jegliche militärische Unterstützung aufgekündigt. 

 

Bolivien will sich von der wirtschaftlichen Beherrschung durch die USA befreien.

 

Den äußerst populären bolivianischen Präsidenten Evo Morales, der erste der indigenen Bevölkerung entstammende Präsident in der 470-jährigen Geschichte des Landes seit der spanischen Eroberung, haben die USA seit seiner Wahl im Jahr 2005 im Visier. Im September 2008 verwies Präsident Morales den US-Botschafter, den er beschuldigte, Aufstände der Opposition und Proteste gegen ihn geschürt zu haben, des Landes. Eine Woche später reagierte die Regierung Bush und setzte Bolivien auf die »schwarze Liste« von Ländern, die angeblich nicht genug gegen den Drogenanbau unternehmen. Damit wurde sämtliche Hilfe der USA ausgesetzt. Die Liste der Länder, die »nachweislich versagt« haben sollen, ist erstaunlich kurz: sie umfasst nur die drei Länder Bolivien, Venezuela und Burma (Myanmar) – alle drei ausgesprochene Gegner der USA. Länder wie Mexiko, Afghanistan und Kolumbien stehen nicht auf Washingtons Liste, ein Zeichen dafür, dass es in Bezug auf die Bewertung wohl andere Motive gibt.

Im Januar 2009 hat Morales erneut ein entscheidendes Referendum im Land für sich entschieden, er kann sich nunmehr zur Wiederwahl stellen und Schritte zur Kontrolle über große Ländereien in die Wege leiten. Die 60 Prozent Ja-Stimmen erlauben es Morales, im Dezember 2009 erneut für das Präsidentenamt kandidieren. Gemäß der neuen Vollmachten kann er reiche Landbesitzer enteignen, denn der Staat gestattet den Besitz großer Ländereien, sogenannte Latifundistas, nur dann, wenn das Land »im Dienste der Gesellschaft« genutzt wird. Andernfalls kann es vom Staat beschlagnahmt und neu verteilt werden. Das Referendum verleiht dem Staat auch mehr Macht über die Energiequellen des Landes.

 

Krieg wegen Wasser und Energie

Die USA sind praktisch nur an der Ausbeutung der enormen Rohstoffvorkommen des Landes interessiert. In den 1980er-Jahren schickte Washington den Harvard-Ökonomen Jeffrey Sachs, »Mr. Schocktherapie«, nach Bolivien, damit er dort seine radikale Therapie anwenden konnte, die zwar die Inflation eindämmte, aber nichts zur Bekämpfung der extremen Armut beitrug. Vielmehr ebnete sie ausländischen Multis wie BP und Exxon Mobil sowie britischen und amerikanischen Wasserunternehmen den Weg, die Rohstoffe des Landes zu plündern.

Halliburton, die alte Firma des früheren US-Vizepräsidenten Dick Cheney, plante den Export des bolivianischen Erdgases. 2002 führte die öffentliche Empörung über eine Vorzugsbehandlung, die eine frühere proamerikanische Regierung Halliburton angedeihen ließ, im ganzen Land zu Protesten, die Medien sprachen damals von einem »bolivianischen Gaskrieg«.

Angesichts zunehmender öffentlicher Proteste und landesweiter Streiks gegen die ausländische Ausbeutung der Rohstoffe verabschiedete der bolivianische Kongress 2005 ein neues Gesetz, das sogenannte Kohlenwasserstoff-Gesetz. Dadurch gingen die Energiequellen teilweise wieder in staatlichen Besitz über, Pachtverträge mit ausländischen Unternehmen blieben erlaubt, allerdings zu weniger vorteilhaften Bedingungen. Die YPFB war 1996 privatisiert worden; damals hatten sich die britischen Unternehmen BP und BG zusammen mit Halliburton und ExxonMobil umgehend daran gemacht, eine mehrere Milliarden Dollar teure Gaspipeline zu bauen, über die Flüssigerdgas (LNG) nach Kalifornien transportiert werden sollte. Der Löwenanteil der Aufträge für den Bau ging an Cheneys alte Firma Halliburton.

Morales wurde im Dezember 2005 mit großer Mehrheit gewählt, weil er versprach, die Rohstoffe zu nutzen, um die Wirtschaft des Landes, das zu den ärmsten Ländern Südamerikas gehört, zu entwickeln. Seitdem unterstützt Washington insgeheim verschiedene Oppositionsgruppen in der Provinz Santa Cruz, wo sich riesige Ergas- und Frischwasserlager befinden.

Am 1. Mai 2006 unterzeichnete Präsident Morales einen Erlass zur Verstaatlichung aller Gasreserven: »Der Staat nimmt [die Kohlenwasserstoffe] wieder vollständig in Besitz und übt die vollständige Kontrolle darüber aus.« Seither haben sich die Einnahmen des Landes aus Geschäften mit Energieträgern verdoppelt, im Vergleich mit 2002 sogar versechsfacht. Ausländische Unternehmen wie beispielsweise Shell wurden entweder entschädigt oder sie betrieben ihre Geschäfte weiter, allerdings als Minderheitspartner des Staates.

 

Bush findet eine Ranch als »Alterssitz«

Kurz vor Ende seiner Amtszeit hat der scheidende Präsident George W. Bush südamerikanischen Medienberichten zufolge in Bolivien für einigen Aufruhr gesorgt,  nachdem bekannt geworden war, dass er beabsichtigte, im Dreiländereck zwischen Paraguay, Brasilien und Bolivien ein großes Grundstück zu kaufen, um sich dort »zur Ruhe zu setzen«. Angeblich hat Bush in Chaco in Paraguay in der Nähe einer amerikanischen Militärbasis etwa 40.000 Hektar Land gekauft. Es liegt dem Vernehmen nach in der Region Paso de Patria, in der Nähe der bolivianischen Erdgaslager und der großen Wasservorkommen im Gebiet der Guarani-Indianer an der dreifachen Grenze. Der »Acuifero Guarani« zählt zu den größten unterirdischen Wasserreservoirs in Südamerika, er erstreckt sich von Argentinien über Brasilien, Paraguay und Uruguay auf einer Fläche, die größer ist als Texas und Kalifornien zusammengenommen.

Der Einfluss der USA in Südamerika ist so gut wie dahin, allein der unerschütterliche Alliierte Kolumbien sowie Peru können noch Washingtons geopolitischer Einflusssphäre zugerechnet werden. Unter der Führung von Hugo Chavez aus Venezuela setzt sich der übrige Kontinent jetzt gegen die USA zur Wehr. Chavez unterhält gute Beziehungen zum Iran und zu Kuba und hat jüngst die russische Luftwaffe und Marine zu Manövern in der Karibik eingeladen. Der bolivianische Präsident Morales unterhält enge Verbindungen zu den Regierungen Venezuelas, Ecuadors und seit neuestem auch Paraguays. Dort war im April 2008 der ehemalige Bischof Fernando Lugo mit überwältigender Mehrheit gewählt worden, was die 61 Jahre währende Herrschaft der rechtsgerichteten und der Armee nahestehenden Colorado-Partei ein Ende bereitet hat.

 

Der bolivianische Präsident Morales (rechts) bildet mit Venezuela, Kuba und Paraguay eine Art inoffizieller Allianz für eine unabhängige Wirtschaftspolitik.

 

Der Vertrag zwischen Bolivien und der russischen Gazprom sichert Bolivien weitgehende wirtschaftliche Unabhängigkeit von den USA. Für Russland eröffnet sich damit die große Chance, den Vereinigten Staaten in deren eigenem Hinterhof, der traditionellen »Einflusssphäre« in Südamerika, die lange als Familienplantage der Rockefellers gegolten hatte, Druck zu machen. Angesichts der tiefen Wirtschaftskrise kann die Regierung Obama nicht viel dagegen setzen, ihr bleibt nur die Möglichkeit, Chaos in der Region zu schüren. Bolivien und den anderen Ländern hat sie wenig Positives zu bieten. Der ganze Prozess wirkt wie ein schaler Aufguss des Zusammenbruchs des Britischen Empires in Afrika und auf dem Indischen Subkontinent nach dem Zweiten Weltkrieg.

 

Freitag, 16.10.2009

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mardi, 29 septembre 2009

Offensive atlantiste et pétrolière en Italie

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Offensive atlantiste et pétrolière en Italie

 

L’offensive atlantiste en Italie a de fortes odeurs d’hydrocarbures. En effet, les services spéciaux de Washington n’évoquent plus l’anti-communisme d’hier ni même l’anti-fascisme d’avant-hier, mais les oléoducs et gazoducs des lignes South Stream et Nabucco. Par la voix du collabo Giuseppe Vatinno, responsable d’ “Energie e Ambiente” (“Energie et Environnement”), le gouvernement Obama a condamné la politique énergétique de l’agence pétrolière italienne ENI, jugée “eurasienne” et “russophile”. Les propos de Vatinno ont été prononcés immédiatement après le long discours public d’Obama (un hasard?), où, récemment, le premier président afro-américain de l’histoire a évoqué les dangers  que courait la pauvre Europe en se plaçant sous la dépendance énergétique de la Russie (ce qui ne serait qu’une tentative de se soustraire à la dépendance totale qui la lie aux Etats-Unis...).

 

L’intervention de Vatinno prouve, d’abord, que le “soft power” fonctionne toujours de manière optimale dans le monde des médias. On obtient toujours un collabo et des effets de presse en un quart de tour. Ensuite, cela prouve, mais on s’en doutait, qu’il y a une continuité parfaite entre la politique pétrolière de Bush, Rice et Cheney et celle, plus diffuse mais bien réelle, d’Obama et de son équipe. Qui plus est, c’est au moment même où se met en place la stratégie de séduction à l’endroit de l’Arménie préconisée par le chef de la diplomatie turque Davutoglu, que Vatinno exhorte les Italiens à dénoncer la politique pétrolière de l’ENI et du gouvernement Berlusconi. Davutoglu et Erdogan courtisent (hypocritement) une Arménie enclavée pour qu’elle lâche du lest dans la région du Haut Karabakh qu’elle occupe après l’avoir délivrée du joug azéri. Un retrait arménien permettrait de laisser passer des oléoducs et des gazoducs sans aucun obstacle, et sous le seul contrôle des Turcs, entre les rives caspiennes de l’Azerbaïdjan turcophone et les côtes turques de la Mer Noire et de la Méditerranée. Vatinno déclare que l’ENI et l’Italie doivent abandonner le tracé de “South Stream”, amenant les hydrocarbures russes vers l’Europe et la péninsule italique et opter pour le tracé “Nabucco”, qui amène les hydrocarbures azéris via la Turquie! Le collabo Vatinno, le gouvernement Obama et la diplomatie de Davutoglu travaillent donc de concert, avec une orchestration parfaite.

 

Vatinno exhorte en même temps tous les pays de l’UE à écouter l’appel d’Obama! Il faut obéir au nouveau “chef”. Les doigts sur les coutures du pantalon. En dehors de ce que dit le chef, point de salut et, puisqu’il est partiellement “noir”, si vous ne lui obéissez pas, vous êtes un “raciste”, na, tralala. Obama ha sempre ragione!

 

Pour obtenir l’oreille des Européens, Vatinno n’hésite pas à qualifier le tracé “Nabucco” d’ “européen” et à stigmatiser “South Stream” d’ “asiatique” (mais sans évoquer “North Stream”...!). Pour le quotidien romain “Rinascita”, c’est là une “thèse incroyable”: “South Stream” est bien plus européen que “Nabucco” puisqu’il traverse la Bulgarie, la Grèce et aboutit en Italie (tous pays de l’UE); “Nabucco”, lui, traverse des pays non membres de l’UE, qui sont en guerre ou en état d’instabilité chronique, à cause des stratégies antirusses manigancées dans les officines du Pentagone: la Géorgie et la Turquie. L’atlantisme est une idéologie foncièrement irréaliste du point de vue européen: le discours de Vatinno le prouve à l’envi. Son argumentation n’a aucun fondement tangible, c’est-à-dire aucun fondement géographique sérieux.

 

La leçon à tirer de la gesticulation télécommandée de Vatinno: il est temps que les Européens prennent conscience de leur propre géographie; se tournent vers le réel concret et tellurique plutôt que vers les nuées et les fumées diffusées par les médias pour les amener à sortir du réel et, ainsi, à perdre tout sens de leur souveraineté.

 

(source: “Italia e Russia, legame necessario”, in “Rinascita”, Rome, 22 septembre 2009).

dimanche, 20 septembre 2009

Rusia y Dinamarca estudian tender el gasoducto Nord Stream por territorio danés

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Rusia y Dinamarca estudian tender el gasoducto Nord Stream por territorio danés

El jefe del Gobierno ruso, Vladímir Putin, sostuvo hoy una conferencia telefónica con su homólogo danés Lars Lokke Rasmussen, con quien estudió la posibilidad de tender el gasoducto Nord Stream (Corriente Norte) a través de la zona económica exclusiva de Dinamarca.

“Las partes examinaron la posibilidad de construir un tramo del gasoducto en la zona económica exclusiva de Dinamarca”, informó el portavoz del Gobierno ruso, Dmitri Peskov.

Al principio, cuando el proyecto llevaba el nombre de Gasoducto de Europa del Norte, se pensaba tenderlo hasta el Reino Unido. Pero luego, los parámetros del proyecto cambiaron y recibió el nombre de Nord Stream. Finalmente se decidió tenderlo hasta el territorio alemán.


El gasoducto Nord Stream será una nueva ruta de exportación del gas ruso principalmente a Alemania, Reino Unido, Holanda, Francia y Dinamarca. Su extensión alcanzará 1.220 km y el primer tramo deberá entrar a funcionar en 2010.

Extraído de RIA Novosti.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 16, 2009.

vendredi, 18 septembre 2009

Les espions de l'or noir

Les espions de l’or noir

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Le pétrole, « maître du monde » ? Oui, mais comment en est-on arrivé là ? Des rivalités pour contrôler la route des Indes à l’émergence des Etats-Unis comme puissance mondiale, les pays anglo-saxons ont su étendre leur influence en Asie centrale, dans le Caucase et au Proche-Orient, avec, au final, leur mainmise sur les principales ressources pétrolières mondiales.

Gilles Munier remonte aux origines du Grand jeu et de la fièvre du pétrole pour raconter la saga des espions de l’or noir et la malédiction qui s’est abattue sur les peuples détenteurs de ces richesses. Il brosse les portraits des agents secrets de Napoléon 1er et de l’Intelligence Service, du Kaiser Guillaume II et d’Adolphe Hitler, des irréguliers du groupe Stern et du Shay – ancêtres du Mossad – ou de la CIA, dont les activités ont précédé ou accompagné les grands bains de sang du 19ème et du début du 20ème siècle.

Parmi d’autres, on croise les incontournables T.E Lawrence dit d’Arabie, Gertrude Bell, St John Philby et Kermit Roosevelt, mais aussi des personnages moins connus comme Sidney Reilly, William Shakespear, Wilhelm Wassmuss, Marguerite d’Andurain, John Eppler, Conrad Kilian. Puis, descendant dans le temps, Lady Stanhope, le Chevalier de Lascaris, William Palgrave, Arthur Conolly et David Urquhart.

« On dit que l’argent n’a pas d’odeur, le pétrole est là pour le démentir » a écrit Pierre Mac Orlan. « Au Proche-Orient et dans le Caucase », ajoute Gilles Munier, « il a une odeur de sang ». Lui qui a observé, sur le terrain, plusieurs conflits au Proche-Orient, montre que ces drames n’ont pas grand chose à voir avec l’instauration de la démocratie et le respect des droits de l’homme. Ils sont, comme la guerre d’Afghanistan et celles qui se profilent en Iran ou au Darfour, l’épilogue d’opérations clandestines organisées pour contrôler les puits et les routes du pétrole.

Contact : gilmunier@gmail.com [1]

* Editions Koutoubia – Groupe Alphée-Editplus, 11 rue Jean de Beauvais – 75005 PARIS

Source : http://espions-or.noir.over-blog.com/ [2]


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vendredi, 11 septembre 2009

Ecole des Cadres: revues à lire

SYNERGIES EUROPEENNES -  Ecole des Cadres

Bruxelles/Liège/Namur - Septembre 2009

 

 

 

 

Revues d’histoire, de géopolitique et de stratégie à lire impérativement pour étoffer nos séminaires et conférences pour l’année académique 2009-2010. Toutes ces revues se trouvent en kiosque.

 

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“Champs de bataille”

 

n°29 (septembre-octobre 2009)

 

Au sommaire:

 

Gautier LAMY

Histoire géostratégique de la Crimée

 

Pierre-Edouard COTE

La guerre d’Orient: la campagne de Crimée 1854-1856

 

Jean-Philippe LIARDET

Sébastopol et la Crimée pendant la Seconde Guerre Mondiale

 

Raphaël SCHNEIDER

La guerre italo-turque de 1911-1912: la conquête de la Libye

 

Etc.

 

“Ligne de Front”

 

n°19 (septembre-octobre 2009)

 

Au sommaire:

 

1939: la campagne de Pologne – Les débuts de la Blitzkrieg

 

DOSSIER PETROLE

 

Yann MAHE

Pétrole 1939-1945: le nerf de la guerre

 

Roumanie: la chasse gardée du III° Reich

 

1941: le Golfe s’embrase ! La rébellion irakienne

 

1941: l’Iran passe sous la coupe des Alliés

 

1941-1942: la campagne des Indes néerlandaises – Le pétrole, l’un des enjeux de la guerre du Pacifique

 

1942: Objectif Bakou – Coups de main dans le Caucase

 

1944: Red Ball Express Highway – Artère du ravitaillement allié

 

etc.

 

“Diplomatie”

 

n°40 (septembre-octobre 2009)

 

Géopolitique de l’Océan Indien

 

Alain GASCON

Les damnés de la mer: les pirates somaliens en Mer Rouge et dans l’Océan Indien

 

Houmi AHAMED-MIKIDACHE

Comores: microcosme de l’Afrique

 

André ORAISON

A propos du différend franco-comorien sur Mayotte au lendemain de la consultation populaire du 29 mars 2009 relative à la départementalisation de l’ “île hippocampe”

 

Hors dossier:

 

Entretien avec Richard STALLMAN: Logiciels libres: vers la fin de la colonisation numérique?

 

Ketevan GIORGOBIANI

Russie-Géorgie: un an après la guerre

 

Benoit de TREGLODE

Viêt Nam-Chine: nouvelle crise ou tournant géopolitique?

 

Etc.

 

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“Diplomatie”

 

Hors-Série n°9 – août-septembre 2009

 

Géopolitique et géostratégie de l’espace

 

Xavier PASCO

Les transformations du milieu spatial

 

Jacques VILLAIN

Une brève histoire de la conquête spatiale

 

Alexis BAUTZMANN

Les grandes divisions de l’espace

 

Jacques VILLAIN

La conquête de la Lune (1968-1969): le dénouement

 

Alain DUPAS

La “Guerre des étoiles”: un tournant décisif de la guerre froide

 

Entretien avec Mazlan OTHMAN

Les Nations Unies et l’espace

 

Entretien avec François-Xavier DENIAU

La France et l’espace

 

Entretien avec Alexandre ORLOV

Les enjeux de l’espace, vus de Russie

 

Philippe ACHILLEAS

Le statut juridique de la Lune

 

Sophie CLAIRET

A la conquête de Mars: qui a les moyens de ses ambitions?

 

Entretien avec Jacques VILLAIN

Espaces civil et militaire – Le jeu des puissances

 

Géraldine NAJA-CORBIN

Vers une politique spatiale européenne ambitieuse pour répondre aux défis du XXI° siècle

 

Entretien avec Thierry MICHAL

GRAVES: le Grand Réseau Adapté à la Veille Spatiale

 

Etc.

 

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“Moyen-Orient”

 

n°1 (août-septembre 2009)

 

Entretien avec Olivier ROY sur le Moyen-Orient

 

Bernard HOURCADE

L’Iran face au défi de l’ouverture internationale

 

Entretien avec Fariba ABDELKAH

L’Iran aux urnes: quels enjeux?

 

Barthélémy COURMONT

La nouvelle politique iranienne de Washington: révolution ou simple changement de ton?

 

François NICOULLAUD

Iran nucléaire: le jeu des erreurs ou comment s’en sortir?

 

Mohammed EL OIFI

La couverture médiatique de la guerre de Gaza

 

Daniel MÖCKLI

Le conflit israélo-palestinien après la guerre de Gaza

 

Luis MARTINEZ

La rente pétrolière en Algérie: de Boumédiène à Bouteflika

 

Entretien avec Anouar HASSOUN

La finance islamique, une croissance mondiale?

 

Frédéric COSTE

Londres, centre européen de la finance islamique

 

Olivier PASTRE

La France et la finance islamique

 

Nadia HAMOUR

La mise en place de mandats au Moyen-Orient: une “malheureuse innovation de la paix”?

 

Etc.

 

 

 

mardi, 08 septembre 2009

A qui profite la déstabilisation de l'Ossétie du Sud?

A qui profite la déstabilisation de l’Ossétie du Sud ?

Dmitri Babitch / http://www.geostrategie.com    

A qui profite la déstabilisation de l’Ossétie du Sud ?

Une explosion a eu lieu mercredi à Tskhinvali: quelqu’un a visiblement tenté de torpiller les festivités dans la capitale sud-ossète. La république célébrait l’anniversaire de la reconnaissance de la république par la Russie, ainsi que le lancement du gazoduc Dzouarikaou-Tskhinvali.

Ce tube, un des plus élevés du monde (il traverse les régions de haute montagne), est destiné à approvisionner en gaz toute l’Ossétie du Sud en éliminant sa dépendance envers les livraisons de gaz géorgien et permettra de créer de nouveaux emplois dans le pays.

Le gaz géorgien était acheminé jusqu’à tout récemment à Tskhinvali sous une pression très faible (0,6 atmosphère au lieu de 5 atmosphères). Tbilissi souhaitait priver la république de tout combustible, mais le gaz destiné aux villages géorgiens situés près de Tskhinvali passait par le centre de distribution de la capitale sud-ossète. C’est pourquoi la Géorgie octroyait à la république certains volumes d’hydrocarbures. Ainsi, cela dément indirectement les déclarations de Tbilissi sur la fuite de la totalité des Géorgiens du territoire de l’Ossétie du Sud.

Qui plus est, le service russe de protection des frontières affirme que près de 6.000 réfugiés géorgiens sont revenus dans la république suite à la stabilisation relative de la situation dans la région frontalière. Pourtant, les volumes de gaz fournis par les autorités géorgiennes n’assuraient pas le fonctionnement normal de l’industrie sud-ossète et ne suffisaient pas non plus à satisfaire les besoins des habitants de la république.

Qui a voulu gâcher la fête? Les hypothèses sont nombreuses. Les forces du ministère sud-ossète de l’Intérieur ont été consignées en cas de provocations éventuelles et de sabotages provenant de la frontière géorgienne. Tout le monde se souvient des nombreux tirs, explosions et actes de subversion qui ont précédé l’année dernière l’invasion des troupes géorgiennes le 8 août 2008.

Certains experts notent également des signes d’instabilité à l’intérieur de la république. On sait très bien que les parties en opposition avec le président Edouard Kokoïty ont obtenu des résultats très faibles aux élections législatives du 31 mai. Privée de moyens légaux d’exprimer son désaccord au parlement, l’opposition pourrait-elle tenter des actions violentes dans la rue?

« Non », estime Raouf Verdiev, coprésident du Congrès russe des peuples du Caucase et auteur du livre « Les particularités de l’Ossétie contemporaine ». Il explique son opinion de la manière suivante: « Les républiques de l’Ossétie du Sud et de l’Abkhazie sont de jeunes pays en état de gestation. Ce processus se déroule sans opposition, c’est pourquoi cette dernière est pratiquement inexistante ».

Rappelons pourtant que les élections législatives ont réuni en mai des forces politiques importantes. Accusant M.Kokoïty des lenteurs accusées dans la reconstruction des 650 maisons rasées par les troupes de Saakachvili, le parti Fydybasta (Patrie) semblait assez populaire. Le Parti populaire, non-admis à participer aux élections et scindé par un « putsch » intérieur, jouissait du soutien d’Albert Djoussoïev, homme du jour actuel, chef de la société Stroïprogress qui a été le maître d’oeuvre de la construction du gazoduc Dzouarikaou-Tskhinvali.

M.Djoussoïev s’est ouvertement opposé à la nomination de Vadim Brovtsev, ancien directeur général de la compagnie russe de bâtiment Vermikoulit, au poste du premier ministre de la république. De plus, cette opposition était loyale envers la Russie: le Kremlin ne pouvait pas, selon Albert Djoussoïev, approuver la candidature de M.Brovtsev.

Tout cela constitue des divergences normales entre des leaders puissants qui restent dans le cadre des processus démocratiques, bien que la guerre et la propagation consécutive de la culture politique russe sur le territoire de l’Ossétie du Sud aient naturellement renforcé le parti au pouvoir d’Edouard Kokoïty.

Ni la Russie, ni l’Ossétie du Sud ne sont en mesure d’influer sur le régime de Mikhaïl Saakachvili afin de prévenir ses provocations armées suivies d’une campagne informatique massive en Occident visant à imputer à Moscou la responsabilité de ces démarches. Les contribuables russes ont cependant déjà accordé à l’Ossétie du Sud un soutien de 10 milliards de roubles (317 millions de dollars): 1,5 milliards en 2008 et 8,5 milliards en 2009. En échange, la Russie a le droit d’exiger de la république au moins la stabilité politique nécessaire à l’utilisation raisonnable de ces fonds. Et les procédures démocratiques constituent le moyen le plus fiable d’obtenir une véritable stabilité politique. La Russie ne pourra donc pas accepter la situation où l’équipe d’un « leader puissant » ignore les engagements de l’équipe du leader précédent sans rendre compte de l’agent dépensé et cherche à placer ses candidats à tous les postes importants.

Les autorités sud-ossètes doivent rester fidèles au plan de développement national, exposé dans l’article des présidents Edouard Kokoïty et Sergueï Bagapch publié dans le journal Guardian: « Au cours des deux dernières décennies, nos pays se sont assidument employés à occuper une place digne dans la communauté des nations à l’aide du développement de l’édification de la construction de la société civile, de l’encouragement la presse libre et de l’organisation d’élections compétitives permettant à nos citoyens de choisir leurs leaders. Et on ne peut pas dire la même chose de la Géorgie, dont les deux derniers leaders sont arrivés au pouvoir grâce aux révolutions ».

Il ne suffit pas d’être fier de telles réalisations, il faut aussi les soutenir.

Source : RIA Novosti