Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

samedi, 07 mai 2011

Geheime Memoranden enthüllen Verbindung zwischen Erdölkonzernen und der Irak-Invasion

iraq-invasion-of-kuwait.jpg

Geheime Memoranden enthüllen Verbindung zwischen Erdölkonzernen und der Irak-Invasion

 

Paul Bignell

 

Wie Regierungsdokumente beweisen, wurden bereits ein Jahr bevor England eine führende Rolle bei der Invasion im Irak spielte, zwischen Ministern der Regierung und einigen der weltweit größten Erdölkonzerne Pläne zur Ausbeutung der irakischen Erdölreserven erörtert. Aus diesen Papieren, die hier zum ersten Mal der Öffentlichkeit vorgelegt werden, ergeben sich neue Fragen zur britischen Beteiligung an dem Krieg, der das Kabinett Tony Blair spaltete und dem nur zugestimmt wurde, nachdem der Premierminister behauptet hatte, Saddam Hussein verfüge über Massenvernichtungswaffen. Aber das klang niemals wirklich glaubwürdig. Die Protokolle einer Reihe von Treffen zwischen Ministern und hochrangigen Vertretern aus den Chefetagen der Erdölkonzerne stehen im Widerspruch zu den damaligen öffentlichen Bekundungen der Letzteren und der westlichen Regierungen, man verfolge [mit dem Irakkrieg] keine Eigeninteressen.

 

Mehr : http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/enthuellungen/paul-bignell/geheime-memoranden-enthuellen-verbindung-zwischen-erdoelkonzernen-und-der-irak-invasion.html

 

lundi, 11 avril 2011

Libyen: der Kampf um das Öl

Libyen: der Kampf um das Öl

Michael Grandt

Fast die ganze Welt hat sich – hauptsächlich initiiert von den USA und Frankreich – ein neues Feindbild geschaffen: den libyschen Diktator Muammar al-Gaddafi. In den vergangenen 40 Jahren wurde er aber gerade von jenen Staaten hofiert und mit Milliarden Dollar unterstützt, die ihn nun bekämpfen. Warum also jetzt diese plötzliche Wende und warum ist ausgerechnet Russland gegen diesen Krieg?

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/michael-grandt/libyen-der-kampf-um-das-oel.html


mercredi, 23 mars 2011

Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

di Sergio Cararo

 Fonte: megachip [scheda fonte]

 

“E’ una rivolta dei giovani. Sono loro che hanno iniziato la rivoluzione… noi ora la stiamo completando”. In questa breve considerazione che il colonnello Tarek Saad Hussein riferisce al settimanale statunitense “Time” a fine febbraio, è possibile comprendere gran parte del processo che è stato impropriamente definito come “rivoluzione libica” (1)

pompeguerrPerché è saltato l’equilibrio di potere di Gheddafi? Chi sono “quelli di Bengasi”? Questa è una vera guerra del petrolio, rivelatrice della competizione globale e piena di incognite

 

 

Il col. Hussein è uno degli alti ufficiali del regime di Gheddafi passato quasi subito con i ribelli di Bengasi. Insieme a lui c’è tutto un settore rilevante dell’apparato statale del regime che ha dato vita allo scontro mortale con Gheddafi per sostituirlo con una nuova leadership. E’ vero, hanno mandato prima avanti i giovani. A Bengasi il 15 febbraio erano stati i giovani e i familiari dei prigionieri politici della rivolta del 2006 nella capitale della Cirenaica ad essere scesi in piazza davanti al commissariato dentro cui era stato rinchiuso l’avvocato Ferhi Tarbel, difensore degli arrestati nella rivolta di cinque anni prima. La manifestazione del 15 febbraio era stata repressa duramente – come purtroppo è la norma in Libia e in tutti i paesi del Medio Oriente. Due giorni dopo, una nuova manifestazione, vedeva però i manifestanti, già armati, passare subito all’escalation sul piano militare contro i poliziotti del regime di Gheddafi (2)

Una tempistica rapidissima e bruciante che non ha avuto neanche il tempo di manifestarsi come rivolta popolare di piazza per diventare subito una guerra civile. E’ vero, hanno iniziato i giovani, esattamente come avevano fatto i loro coetanei in Tunisia, Egitto, Algeria o – in tempi e modi diversi – nelle strade di Roma o nelle banlieues francesi. Avevano tutte le ragioni per farlo, anche nella Libia di Gheddafi. Ma dietro i giovani libici, hanno preso subito la situazione in mano – piegandola ai loro interessi - gli uomini del vecchio apparato di regime in rotta con il leader e ansiosi di ridefinire gli equilibri interni sconvolti dalla crisi finanziaria del 2008/2009 e dalle misure “liberiste ma non liberali” introdotte da Gheddafi nel 2003.

La brusca e feroce escalation militare nella brevissima rivolta popolare libica, ci ha convinti che quella avviatasi era piuttosto una guerra civile e per alcuni aspetti con tutte le caratteristiche di una “guerra di secessione” come avvenuto negli anni Novanta in Jugoslavia o più recentemente in Sudan. Una guerra civile ed una possibile secessione della Libia alla quale non sono certo estranei gli interessi delle potenze europee e degli USA sul petrolio e il gas libico.

Su questa valutazione abbiamo introdotto una prima chiave di lettura sulla crisi in Libia che ci ha portato molti consensi ma anche numerose critiche in molti ambiti della sinistra, persino di quella più radicale.

 

 

 

 

 

 

 

Con il brutale e consueto intervento militare, con i bombardamenti sulla Libia da parte di Francia, USA, Gran Bretagna ed altre potenze della NATO, la discussione potrebbe dirsi conclusa attraverso la realtà dei fatti. I fatti spiegano la realtà meglio di mille opinioni. Eppure riteniamo che questa vicenda della Libia debba e possa prestarsi ad un lavoro di chiarezza, informazione, formazione di un punto di vista critico e rivoluzionario della realtà, che stenta enormemente a farsi strada tra tante soggettività della sinistra e degli stessi attivisti dei movimenti No war.

Perché è saltato l’equilibrio su cui si reggeva il potere di Gheddafi?

Uno splendido articolo del direttore del giornale arabo Al Quds Al Arabi segnala la preoccupazione per uno scenario che spiani la strada a quello che l’autore definisce il “Chalabi libico”. Abd al Bari Atwan, direttore palestinese di questo autorevolissimo giornale in lingua araba, descrive perfettamente la trappola dentro cui Gheddafi è caduto – volontariamente – per mano dei suoi nuovi amici occidentali, i quali, secondo Atwan, “hanno utilizzato con il colonnello libico lo stesso scenario che avevano utilizzato con il presidente iracheno Saddam Hussein, con alcune necessarie modifiche che sono il risultato delle mutate condizioni e della differente personalità di Gheddafi”. Il colonnello si è disperato perché i suoi nuovi amici occidentali non lo hanno aiutato mentre i ribelli di Bengasi lo stavano accerchiando. Se l’alleanza occidentale era stata costretta a sbarazzarsi di Mubarak, afferma Atwan, perché mai sarebbe dovuta intervenire a salvare Gheddafi? L’illusione del leader libico derivava dalle concessioni fatte a USA e Gran Bretagna nel 2000 e che nel 2003 lohanno portato fuori dalla lista nera dei “rogues states” e quindi lontano dai bersagli della guerra infinita scatenata dall’amministrazione Bush nel 2001.

 

 

 

 

“Washington e Londra hanno utilizzato l’esca della “normalizzazione” e della riabilitazione del regime libico, che avrebbe aperto la strada al suo ritorno nella comunità internazionale in cambio della sua rinuncia alle armi di distruzione di massa” – osserva Atwani – “Ciò avvenne nel 2003, cosicché americani e britannici poterono dire che la loro guerra in Iraq aveva cominciato a dare i suoi frutti. Dopo averlo spogliato delle armi di distruzione di massa, lo hanno adescato spingendolo a porre le sue riserve di denaro nelle banche americane e ad aprire nuovamente il territorio libico alle compagnie petrolifere britanniche ed americane, ancora più che in passato”. (3)

L’analisi dell’analista palestinese è spietata ma pertinente: “L’errore più grave che Gheddafi ha commesso è stato quello di fare all’Occidente tutte le concessioni che quest’ultimo gli chiedeva, e di non fare invece alcuna concessione al suo popolo che gli chiedeva libertà, democrazia e una vita dignitosa”.

La storia degli ultimi dieci anni ci racconta di un Gheddafi che ha aperto agli investimenti stranieri in cambio del ritiro delle sanzioni economiche a cui la Libia era sottoposta da anni. Non solo, nel 2033 vara un pacchetto di misure che include la privatizzazione di 360 imprese statali. “La Libia dopo la svolta compiuta da Gheddafi nei primi anni 2000” si è aperta agli investimenti occidentali - scrive un autorevolissimo sito specializzato sul Medio Oriente – Nel paese sono affluiti capitali italiani, inglesi, americani, turchi, cinesi”. Nel 2003 la Libia era diventata una delle nuove frontiere della globalizzazione del continente” – riferiscono gli analisti dell’autorevole sito Medarabnews – “il nuovo Eldorado per molte società europee e americane” (4)

Mentre la produzione petrolifera è rimasta bloccata dalle quote imposte dall’OPEC (ma con significativi aumenti del prezzo del petrolio), tra il 2003 e il 2007 la produzione di gas naturale libico è praticamente triplicata. Non solo, la qualità e i costi di recupero del greggio relativamente bassi del petrolio libico, “rendono la Libia un importante attore del settore energetico globale” (5).

La Libia si è trovata così a disporre di una enorme liquidità finanziaria da investire – tramite il boom dei fondi sovrani sviluppatisi nei paesi petroliferi – in banche e attività nei maggiori paesi capitalisti. Da qui l’entrata in Unicredit, Finmeccanica, Eni o la permanenza nel capitale della Fiat.

Per il regime di Gheddafi sono dieci anni d’oro dopo anni di embargo e ostracismo. Incontri con Condoleeza Rice e l’amministrazione USA. Incontri favolosi con Berlusconi (ma anche con Prodi). Non solo. Vengono siglati dei Trattati bilaterali con i paesi europei che sono posti a guardia delle due maggiori vulnerabilità dell’Unione Europea: garanzie dell’approvvigionamento energetico e blocco delle ondate migratorie. Gheddafi diventa così il garante di entrambe.

Qualche giorno prima degli incidenti di Bengasi a febbraio, lo stesso Fondo Monetario Internazionale il 9 febbraio rilasciava una valutazione del nuovo corso libico quasi entusiasta: “Un ambizioso programma per privatizzare banche e sviluppare il settore finanziario è in sviluppo. Le banche sono state parzialmente privatizzate, liberati i tassi di interesse e incoraggiata la concorrenza” (6)

A sconquassare la “Belle Epoque” libica, così come del resto del mondo legato al ciclo economico del capitalismo euro-statunitense, è arrivata la crisi finanziaria e globale del 2008/2009. Secondo alcuni osservatori attenti a valutare le conseguenze della crisi libica sull’Occidente, il punto di rottura è stato proprio questo: “La crisi finanziaria tra il 2008 e il 2009, ha ridotto del 40% i ricavi dei pozzi di petrolio, intaccando il rapporto tra il capo e le tribù, che con la ribellione stanno rompendo il patto economico e d’onore” (7).

E’ la crisi globale, dunque, la stessa crisi sistemica che sta squassando i capitalismi negli USA e in Europa a mettere in crisi l’equilibrio raggiunto tra Gheddafi e le varie componenti (economiche e tribali) su cui si è retto per 41 anni il regime libico. Ma non c’è solo questo.

La svolta panafricana di Gheddafi nel 1997, che porta alla rottura definitiva con l’ipotesi panaraba perseguita fino ad allora, apre le frontiere della Libia ad una enorme immigrazione dall’Africa che destabilizza gli equilibri nella popolazione, nel mercato del lavoro e nella distribuzione delle rendite petrolifere. Su una popolazione libica di 6,5 milioni di abitanti, si tratta di “circa un milione e mezzo (forse due milioni, nessuno conosce la cifra esatta) di lavoratori provenienti da paesi come il Mali, il Niger, la Nigeria, Il Sudan, l’Etiopia, la Somalia etc. forniscono manodopera a bassissimo costo per l’industria petrolifera, il settore edile, quello dei servizi, l’agricoltura” ma l’apertura delle frontiere libiche all’Africa sub-sahariana “suscita gravi tensioni nel paese a causa dell’enorme afflusso di immigrati” (8)

L’effetto di questa immigrazione nelle relazioni sociali in Libia, è anche la causa della vera e propria esplosione di episodi razzismo contro gli africani (additati come “mercenari di Gheddafi”) da parte dei ribelli di Bengasi, segnalati anche da Amnesty International e Human Rights Watch e da tutti i corrispondenti e inviati nelle zone controllate dai ribelli.

“La rivolta libica ha innescato la più vasta esplosione di violenza razziale registrata in un paese nordafricano….Lo stesso regime del Colonnello è corresponsabile di un’ondata di razzismo cos’ feroce. I nemici del colonnello stanno istigando sciovinismo e xenofobia contro i neri africani. Permettere che un simile, palese fanatismo razzista si diffonde all’interno delle aree “liberate” è rischioso” scrive un autorevole giornale arabo decisamente ostile a Gheddafi (9).

Chi sono “quelli di Bengasi”?

La domanda che in molti si pongono e alla quale pochi sanno o vogliono dare risposte è: chi sono i ribelli contro Gheddafi? Qualcuno la risolve con troppa semplicità definendoli come “il popolo libico” e dunque i nostri alleati morali e politici. Altri brancolano totalmente nel buio. Altri ancora li guardano con sospetto solo dopo averli visti inneggiare ai bombardamenti della NATO sulla Libia così come fecero i kossovari dell’UCK in Jugoslavia nel 1999. Conoscere serve per capire, e capire serve a definire la propria azione politica.

Secondo alcuni analisti dei think thank vicini alla NATO e ai suoi circoli in Italia, l’interrogativo è se la rivolta contro Gheddafi e nelle rivolte avvenute nei paesi del Maghreb “evolverà verso un nuovo sistema politico più stabile, in grado di soddisfare le esigenze delle nuove classi che hanno iniziato questo processo, oppure se, in mancanza di ciò, gli stati arabi continueranno a indebolirsi fino a fallire” (10).

La rottura del patto con Gheddafi, farebbe emergere in Libia “l’esistenza di una elite di funzionari civili e filo-occidentali che in queste ore sta prendendo le distanze dalla carneficina scatenata da “cane matto” sostiene l’Istituto Affari Internazionali (11).

Altri analisti preferiscono alimentare lo schema secondo cui la rivolta libica è stata in tutto simile a quelle della Tunisia e dell’Egitto, con un ruolo preponderante dei giovani e soprattutto di giovani interni alla modernità ed estranei alle eredità tribali della struttura sociale libica. “Il movimento ribelle ha dimostrato una maturità democratica insospettata e una stupefacente capacità di auto-organizzarsi e di coordinare le diverse città e le diverse componenti della rivolta. Anche in questo caso i giovani hanno giocato un ruolo di primo piano nella gestione delle proteste e della lotta contro il regime”. E a proposito di giovani gli estensori di questa analisi precisano: “I giovani libici si affacciano sul Mediterraneo e guardano all’Europa. Essi hanno formato la loro coscienza anche grazie a strumenti come internet e i social network che hanno favorito il fluire delle idee e l’abbattimento delle barriere solitamente presenti in un regime dittatoriale” (12).

Questa analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” opta decisamente per una visione generazionale, moderna e conseguentemente democratica della rivolta libica, offrendo un modello perfettamente coincidente con quanto le società civili europee potrebbero e vorrebbero desiderare per sentirsi in una sorta di comunità di destino con i ribelli libici.

Altri osservatori insistono invece molto sulla dimensione tribale dei rivoltosi contro Gheddafi. In alcuni casi la strumentalità di questa analisi è evidente cercando di alimentare il punto di vista sionista e neoconservatore statunitense. Secondo costoro i ribelli di Bengasi o già sono o possono diventare manovalanza per l’estremismo islamico. Le notizie sull’emirato islamico fondato a Derna dai ribelli anti-Gheddafi hanno circolato abbondantemente ma non hanno trovato finora conferme significative. Certo, la Cirenaica è la regione libica dove l’influenza dei gruppi islamisti – nonostante la repressione – è rimasta più forte. L’ultima rivolta – quella di Bengasi nel 2006 contro le provocazioni del ministro italiano Calderoli – era apertamente ispirata e sostenuta dai gruppi islamisti e fu repressa da Gheddafi con il consenso e il plauso di tutti i governi europei, arabi “moderati” e dagli Stati Uniti.

In altri casi, la chiave di lettura dello scontro tribale non indugia nell’alimentare il fantasma di Al Qaida, ma segnala come la struttura tribale della Libia abbia da un lato impedito la costruzione di uno Stato propriamente detto e dall’altra ne minaccia la precipitazione tra “gli Stati falliti” evocando lo spettro della Somalia. Secondo un esperto statunitense di un centro studi sul Medio Oriente ed ex agente della CIA nella regione, le tribù contano molto, anzi “sono decisive” nella guerra civile in atto in Libia. “Dopo essere state per quarant’anni obbligate a ubbidire ai desideri del colonnello e della sua tribù, che è molto piccola, ora vedono la possibilità di rovesciare l’equilibrio delle forze, prendendosi molte rivincite” (13).

Certo la struttura tribale in Libia non è affatto un dettaglio. Alcuni ne contano 140 alle quali apparterrebbero l’85% dei libici, di cui due/tre più importanti di altre. Gheddafi negli anni ’90, aveva rinnovato la propria alleanza con i leader tribali, le tribù diventarono di fatto i garanti dei valori sociali, culturali e religiosi del paese. In particolare strinse un’alleanza con la tribù Warfalla, la principale tribù della Tripolitania (circa un milione di persone). I posti chiave dei servizi di sicurezza vennero dati ai membri delle tribù Qadhafha e Maqariha, la prima è la tribù dello stesso Gheddafi, alla seconda appartiene l’ex delfino Jalloud defenestrato più di vent’anni fa. Entrambe erano il nucleo centrale della Rivoluzione del 1969.

Se è vero che con la crisi finanziaria del 2008/2009 c’è stata una severa riduzione della torta da spartire nel patto tra le tribù, l’ipotesi che questo abbia coinciso con lo scontro interno al gruppo dirigente libico e determinato la guerra civile, appare estremamente plausibile. Sicuramente il fattore tribale non è affatto rimovibile da una seria analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” e in qualche modo offusca l’idea di una rivolta fatta solo di giovani con l’Ipod e il computer che aspirano alla democrazia e che “guardano all’Europa”.

Ma sulla composizione dei ribelli di Bengasi e del Consiglio Provvisorio di Transizione , una struttura che è stato riconosciuta ufficialmente dalla Francia e che alcuni pacifisti guerrafondai o bellicisti umanitari vorrebbero far riconoscere anche dal governo italiano, ci sono ancora alcune cose da dire e non certo per importanza.

Non può non colpire il fatto – non l’opinione – che tra i membri più influenti del Consiglio Provvisorio di Bengasi ci siano tanti esponenti del vecchio apparto del regime di Gheddafi.

Il presidente è l’ex ministro della giustizia libico Mustafà Abdel Jalil, bengasino come lo è l’ex ministro degli interni, il generale Abdul Fattah Younes passato con i ribelli alla fine di febbraio. Praticamente due che hanno condiviso con il regime la repressione e la “giustizia”…fino a febbraio.

L’ex generale ed ex ministro Abdul Fattah Younes “è stato già individuato dagli osservatori internazionali come possibile attore del futuro della Libia; il ministro degli esteri britannico William Hague ha già parlato a lungo al telefono con lui” (14)

Ma tra i ribelli ci sono anche l’ ex ambasciatore presso la Lega Araba Abdel Monehim Al Honi, l’ambasciatore presso l’ONU Abdullarhin Shalgam (tra l’altro ex ambasciatore in Italia per moltissimi anni), gli ambasciatori in Inghilterra, Francia (guarda un po’), Spagna, Germania, Grecia, Malta e l’attuale ambasciatore libico in Italia. A Bengasi ci sono poi i militari come il colonnello Hussein citato all’inizio del nostro articolo e tanti altri ex alti ufficiali delle forze armate libiche. Alcuni fonti confermano che Gheddafi nel tempo aveva trascurato le forze armate regolari a vantaggio delle forze di sicurezza personali inducendo malumori, gelosie ma soprattutto riduzioni di prebende tra le gerarchie militari. Su questo hanno indubbiamente lavorato nei mesi precedenti la “rivolta” i servizi segreti britannici, statunitensi, francesi ma anche quelli italiani. “Intuiamo dietro i ribelli un agitarsi dei servizi segreti occidentali, specie anglosassoni, ma non abbiamo un’idea del loro reale livello di coinvolgimento” scrive un importante esperto di Medio Oriente (15).

Ma in questi giorni stanno ormai emergendo con maggiore precisione queste “presenze sul campo”dei corpi speciali delle truppe britanniche al fianco dei ribelli di Bengasi già nei primissimi giorni della “rivolta” contro Gheddafi: “centinaia di militari delle Sas, uno dei corpi più elitari del pianeta, sarebbero infatti in azione al fianco dei ribelli da un mese, con il compito di distruggere i sistemi di lancio dei missili terra-aria del colonnello” scrive il corrispondente da Londra de La Stampa (16)

 

Perché “quelli di Bengasi” non possono essere i nostri interlocutori o alleati

E’ ormai evidente come nel Consiglio Provvisorio di Bengasi sia preponderante una parte dell’ex apparato di potere del regime libico e che, come afferma sardonicamente il colonnello Hussein alla giornalista del Time…”hanno completato la rivoluzione iniziata dai giovani”. I giovani o quelli ispirati a oneste istanze di democratizzazione e autodeterminazione del popolo libico, sono stati immediatamente emarginati e ridotti al silenzio, esattamente come le voci o i cartelloni a Bengasi che si dicevano contrari all’intervento straniero in Libia per regolare i conti con Gheddafi.

Al contrario, il settore ormai prevalente nel Consiglio Provvisorio non vuole una rivoluzione, vuole solo sostituire il potere di Gheddafi con il proprio ed ha trovato nelle potenze europee e negli Stati Uniti, ma anche in certi correnti di consenso “democratico” in occidente, la leva giusta per scalzare dal potere Gheddafi, sostituirlo e dare vita ad una nuova spartizione della ricchezza derivante dal gas e dal petrolio della Libia.

Per fare questo hanno approfittato della congiuntura favorevole derivata dalle rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (queste sì possiamo ritenerle tali), hanno mandato avanti i giovani, hanno tentato un colpo di stato e di fronte al suo fallimento hanno scatenato una guerra civile, forti del fatto che quest’ultima aveva maggiore possibilità di “internazionalizzare” la crisi interna libica e favorire l’intervento di agenti esterni. Le bombe della Francia e della Gran Bretagna, i missili statunitensi che stanno piovendo sulla Libia confermano che questo è lo scenario possibile.

Se tolgono di mezzo Gheddafi il cerchio si chiude e lo “scenario A” può realizzarsi.

Se Gheddafi resiste è pronto lo “scenario B”, quello secessionista, che porterebbe la Cirenaica (dove ci sono la maggioranza dei pozzi petroliferi e del gas) nelle mani della camarilla che controlla il Consiglio Provvisorio di Bengasi e gli consentirebbe di trattare direttamente le multinazionali petrolifere di una Francia affamata di petrolio e gas a fronte della crisi del nucleare, di quelle di una Gran Bretagna danneggiate dall’incidente nel Golfo del Messico (la BP), di quelle statunitensi alla ricerca di un petrolio meno caro da estrarre come quello libico rispetto ad altri giacimenti petroliferi costosi come sono le piattaforme in mezzo al mare.

Il terzo scenario – la cosiddetta “Somalizzazione” – per ora viene esorcizzato da tutte le componenti, ma non possiamo negare che le vecchie potenze coloniali cominciano ormai ad agire come apprendisti stregoni seminando in giro più sangue e destabilizzazione che stabilità (vedi Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa, Medio Oriente).

 

No all’intervento militare contro la Libia… ma né Gheddafi né Bengasi!!

Vogliamo dirlo chiaro e tondo. Non abbiamo motivo di particolare simpatia per Gheddafi. Ha avuto un suo passato anticolonialista, ha subìto i bombardamenti USA nel 1981 e nel 1986 e gli attacchi militari francesi per le sue iniziative antiegemoniche e anticolonialiste contro gli Stati Uniti e la Francia, ma ha fatto anche volontariamente tutte le scelte che lo hanno riportato nella trappola dell’occidente. Ha firmato trattati bilaterali vergognosi con l’Italia e l’Unione Europea ed ha riportato gli interessi del proprio popolo e dell’economia della Libia dentro gli interessi strategici dei vari competitori imperialisti. Sulla sua sorte possiamo solo augurargli di non finire come Ben Alì e Mubarak fuggiti all’estero e di resistere o morire con dignità nel proprio paese.

Ma vogliamo dire anche chiaro e tondo che nessuno venga a proporre di sostenere o riconoscere “quelli di Bengasi”. Per moltissimi aspetti sono peggiori di Gheddafi. Non sono affatto “il popolo libico in rivolta”, sono solo un gruppo di potere in lotta contro il vecchio apparato di potere.

Il popolo libico, messo alle strette dalla realtà è stato costretto a schierarsi una parte con Gheddafi e una parte con quelli di Bengasi. Le sue legittime aspirazioni alla democratizzazione e alla redistribuzione della ricchezza derivante dalle risorse del paese, al momento non trovano spazio nella polarizzazione seguita alla guerra civile né, tantomeno, nelle priorità degli interessi strategici delle potenze occidentali impegnate nell’intervento militare in Libia.

Per questo abbiamo affermato che quella in Libia non era una rivolta popolare, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, ma era una guerra civile via via resa sempre più funzionale agli interessi strategici delle multinazionali europee e statunitensi. Interessi che possono coincidere o divaricarsi rapidamente dentro il Grande Gioco della competizione globale sulle risorse energetiche oggi in una fase resa acutissima dalla crisi internazionale.

 

Quella in Libia è una vera guerra per il petrolio. Rivelatrice e piena di incognite

Emblematico di questa realtà della competizione ormai a tutto campo sul piano energetico, è ad esempio il ruolo giocato dentro la Lega Araba e contro la Libia dalle petromomarchie arabe del Golfo riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Da un lato hanno ottenuto con questa collaborazione all’attacco militare che nessun membro della “comunità internazionale” mettesse becco sulla repressione contro le rivolte popolari in Yemen e Barhein (dove c’è stato addirittura l’intervento militare diretto dell’Arabia saudita nella repressione). Emblematico anche il ruolo dell’emirato del Qatar – azionista di riferimento della televisione satellitare Al Jazeera – che non solo ha inviato quattro aerei da combattimento a bombardare la Libia, ma che stavolta ha affiancato l’altra emittente satellitare Al Arabija (sotto controllo saudita) nel lavoro di manipolazione informativa e di legittimazione dell’attacco militare in Libia.

Dall’altro le petromonarchie arabe del Golfo hanno svolto il ruolo di garanzia sia alle forniture petrolifere per i paesi europei di fronte al buco apertosi con l’interruzione delle forniture libiche, sia di garanzia affinchè le transazioni petrolifere continuassero ad essere pagate in dollari (un enorme assist per l’economia USA alle prese con un debito pubblico stellare), sbarrando così la strada all’ipotesi che qui e là veniva emergendo, di pagamento in euro e yuan cinese nelle transazioni petrolifere da parte di diversi paesi petroliferi come l’Iran, il Venezuela, la Libia, la Russia e … la Libia, una sorta di nuova Opec diversa e separata da quella sotto stretto controllo saudita.

E’ evidente come la stessa crisi del nucleare esplosa insieme alla centrale atomica di Fukushima in Giappone, espone alcune potenze come la Francia a tutta la vulnerabilità di un sistema energetico fondato proprio sul nucleare. La fretta e l’oltranzismo di Sarkozy nello scatenare la guerra sulla Libia non è solo per recuperare l’immagine offuscata dalla vicenda Tunisia o un riequilibrio sul piano militare verso la Germania dominante sul piano economico nella gerarchia dell’Unione Europea (in questo agisce il solito gioco di sponda con la Gran Bretagna), ma è anche il diktat delle multinazionali del petrolio e del gas francesi al loro governo per assicurarsi almeno una parte dei molto vicini giacimenti libici e delle multinazionali del nucleare affinchè – a fronte di una impennata dei prezzi petroliferi dovuti alla guerra in Libia – l’opzione nucleare francese continui a rimanere ben presente sul terreno nonostante lo stop all’atomo che sta crescendo dopo la catastrofe nucleare in Giappone.

L’intervento militare delle potenze della NATO nel conflitto, a sostegno di una fazione (quella di Bengasi) contro l’altra fazione (quella di Gheddafi), conferma la validità della tesi della guerra civile e non di una rivolta popolare in Libia. Ma questa per noi non può essere una consolazione. E’piuttosto la consapevolezza della drammaticità della crisi globale dell’economia capitalista e della brusca ridefinizione dei rapporti di forza internazionali, cioè di quel piano inclinato del capitale che indicammo chiaramente all’inizio di questo decennio e che sembra portare la civiltà del capitalismo verso un baratro dove sta trascinando l’intera umanità.

O da questa crisi di civiltà del capitalismo o sapremo far emergere una nuova opportunità per le forze “rivoluzionarie” in grado di invertire la tendenza oppure, come diceva il vecchio Marx, rischia di concludersi “con la fine di tutte le classi in lotta”.

 

Note:

(1) Corrispondenza di Abigail Hauseloner sul “Time” del 26 febbraio 2011

(2) “Così è nata la rivoluzione. Per i soldi non per l’islam”, La Stampa del 2 marzo 2011

(3) Abd Al Bari Atwan. “Attenti al Chalabi libico” su Al Quds Al Arabi del 2 marzo 2011

(4) L’emirato libico e il letargo dell’Europa. In www.medarabnews.com febbraio 2011

(5) “Crisi libica e impatto energetico con l’Italia” in Affari Internazionali del 25 febbraio 2011. Affari Internazionali è una pubblicazione web dell’Istituto Affari Internazionali, un think thank italiano strettamente legato agli ambienti NATO e filo-atlantici.

(6) www.imf.org/external/mp/sec/pn/2011

(7) “E se il rais resta al potere? Tre scenario per l’Occidente”, Corriere della Sera, 4 marzo 2011

(8) Analisi redazionale di Medarabnews. com del 16 marzo 2011-03-20

(9) Al Ahram weekly del 16 marzo 2011

10) “Nord Africa, rivoluzione o Gattopardo?”; Stefano Silvestri su Affari Internazionali del 14 /2/2011

11) “Libia è il momento di interferire”, Roberto Aliboni su Affari Internazionali del 24 marzo

12) Analisi redazionale di Medarabnews.com del 25 febbraio 2011

13) Intervista a Frank Anderson, su La Stampa del 9 marzo 2011

14) Il Foglio del 5 marzo 2011

(15) Giuseppe Cucchi, coordinatore dell’area di politica e sicurezza internazionale di Nomisma. “Tre scenari per la Libia” Pubblicato in Affari Internazionali del 5 marzo 2011.

(16)”I Sas di Sua Maestà a fianco dei ribelli”, su La Stampa del 21 marzo 2011

Tratto da: http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_conten....


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

 

 

 

 

vendredi, 18 mars 2011

Cheerleader "humanitärer Interventionen"

HByn7Vro_Pxgen_r_1100xA.jpg

Cheerleader „humanitärer Interventionen“

Michael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Die Rollen sind einmal mehr klar verteilt: Hier der „verrückte“, „skrupellose“ Wüsten-Despot Gaddafi und sein raffgieriger Clan, und dort die hehren Rebellen, die den „Menschen in Libyen“ nichts anderes als Freiheit und Demokratie bringen wollen. Hier das Dunkel, dort das Licht. Diese manichäische Klippschulen-Hermeneutik verkünden westliche Politiker und Medien mit Blick auf die Vorgänge in Libyen rund um die Uhr.

Manches indes spricht dafür, daß es sich hier um eine Art Recycling der Kosovo-Kriegspropaganda handeln könnte, wo das „sogenannte Abendland“ nach den Worten des damaligen Außenministers Joschka Fischer für die „Menschenrechte eines muslimischen Volkes“ (komfortabel in Flugzeugen) gekämpft haben soll bzw. ein „neues Auschwitz“ zu verhindern suchte (Die Zeit, 16/1999). Es fehlt eigentlich nur noch, daß aus Gaddafi „Hitlers Wiedergänger“ wird. Mit dieser wohlfeilen Wendung stempelte einst Hans-Magnus Enzensberger Saddam Hussein zum Jabba the Hutt des Mittleren Ostens.

Kreuzzüge im Namen der „Humanität“

Ganz vorne dabei im Chor derer, die eine westliche Intervention in Libyen fordern – schließlich könnte Gaddafi wie weiland Saddam ja Giftgas einsetzen – steht mit Daniel Cohn-Bendit eine Figur, von der nicht bekannt ist, daß sie irgendeine militärische US-NATO-Intervention der letzten Jahrzehnte nicht befürwortet hätte.

Cohn-Bendit muß seinen Kopf schließlich nicht hinhalten, wenn es darum geht, die Kreuzzüge in Namen der „Humanität“ vor Ort durchzufechten. Politiker wie er geben lieber die „passiven cheerleader von US-NATO-Kriegen“, wie es der streitbare theoretische Physiker Jean Bricmont pointiert ausgedrückt hat. Cohn-Bendit hat jetzt für seine Forderungen einen einflußreichen Befürworter gefunden, nämlich Frankreichs Staatspräsident Sarkozy, der in Libyen gezielte Bombardements (für die Menschlichkeit?) durchführen lassen möchte. Noch findet er mit dieser Forderung keine Mehrheit.

Was nicht ist, kann indes noch werden, denn aus Sicht des Westens ist das Verschwinden Gaddafis mittlerweile eine Kardinalfrage; es kann nach all den humanitären Erregungs-Tsunamis der letzten Wochen keine Kooperation mit ihm mehr geben. Das nämlich ist, um ein Bonmot des oben bereits angesprochenen Jean Bricmont aufzunehmen, die Konsequenz eines „humanitären Imperialismus“, der ausschließlich mit moraltriefender Betroffenheit operiert und dies auch noch für Politik hält.

Folgen westlicher Interventionen

Diese Positionierung, lautstark vertreten vor allem von Politikern des linksliberalen bis linken Spektrums, konterkariert politische Lösungen, weil sie eben nur mehr eine Option zuläßt – alles andere wird als „Appeasement-Politik“ denunziert –, nämlich die der „humanitären Intervention“. Die Beispiele Afghanistan, Irak und letztlich auch der Kosovo – wo zwielichtige Figuren wie der einstige UÇK-Führer Hasim Thaci, jetzt kosovarischer Premierminister, mit westlicher Hilfe nach oben gespült wurden – zeigen aber, welch fragwürdige Folgen eine derartige Politik haben kann.

Dessenungeachtet stehen im Westen wieder alle Zeichen auf Intervention. Und man täusche sich nicht: Auch die Amerikaner, die sich bisher in dieser Frage bisher sehr bedeckt gehalten haben, werden wieder mitmischen, wenn auch – folgt man z. B. den Berichten von Robert Fisk, rühriger Korrespondent der britischen Zeitung Independent im Mittleren Osten – in einer eher indirekten Rolle. Laut seinen Recherchen sollen die Amerikaner Saudi-Arabien, das im übrigen mindestens so „despotisch“ regiert wird wie Libyen, gebeten (besser wohl aufgefordert) haben, die Aufständischen mit Waffen zu versorgen.

Erkenntnisse russischer Aufklärung

Interessant ist auch, was der von Moskau aus operierende internationale Nachrichtensender „Russia Today“ (RT) letzte Woche berichtete: Er behauptete nämlich, mit Hinweis auf Erkenntnisse der russischen Militäraufklärung, daß die immer wieder verurteilten Luftschläge gegen die libysche Zivilbevölkerung in der behaupteten Form gar nicht stattgefunden hätten.

In Rußland seien die Vorgänge in Libyen mit Hilfe moderner Aufklärungsmittel, wozu auch die Satellitenbeobachtung gehört, von Anfang an verfolgt worden. Nun mag man dies als russische Propaganda gegen den Westen abtun; möglicherweise aber hat dieser Bericht doch auch einen wahren Kern, und wir befinden uns mit Blick auf Libyen einmal mehr in einer „Schlacht der Lügen“.

Der GAU für den Westen

Die Interventionspropaganda gegen Libyen verfolgt ein ganz konkretes Ziel, nämlich den GAU aus der Sicht des Westens mit allen Mitteln zu verhindern. Der „worst case“ träte ein, wenn Gaddafi – dessen „unverzüglichen Rücktritt“ die EU am vergangenen Freitag forderte – an der Macht bliebe: Was passiert dann mit den Erdölressourcen des Landes?

Anfang März hatte Gaddafi in einer Rede bereits durchblicken lassen, daß er chinesische und indische Ölfirmen ermutigen werde, die Geschäfte der westlichen Ölfirmen zu übernehmen. Es steht kaum zu erwarten, daß der Westen, allen voran die USA, dabei zusehen werden, wie Gaddafi den libyschen Erdölkuchen an die neuen Emporkömmlinge aus Indien und China verteilt.

dimanche, 06 mars 2011

US-Militärschlag gegen Gaddafi wegen Ungehorsam?

US-Militärschlag gegen Gaddafi wegen Ungehorsam?

Wolfgang Effenberger

Nachdem am 26. Februar 2011 US-Präsident Barack Obama finanzielle Sanktionen gegen Libyen beschlossen hat, werden nun  auch militärische Optionen nicht mehr ausgeschlossen. Eine derart schnelle Reaktion war bisher nur zu beobachten, wenn wirklich handfeste US-Interessen auf dem Spiel standen. Das war zum Beispiel der Fall, als die Vereinigten Staaten Ende Oktober 1983 im Rahmen der Operation »Urgent Fury« die idyllische Karibikinsel Grenada handstreichartig besetzten und damit die ihnen nicht genehme Linksentwicklung des Landes beendeten. Am 20. Dezember 1989 fielen US-Streitkräfte in Panama ein. Die Operation »Just Cause« hatte das Ziel, den ungehorsam gewordenen panamaischen Machthaber, General Manuel Noriega, zu verhaften und ihn in die Vereinigten Staaten zu entführen. Dort wurde er wegen Drogenhandels und Geldwäsche angeklagt und am 10. Juli 1992 zu 40 Jahren Haft verurteilt. 

In vielen Fällen setzten die USA nicht nur direkte Aggression, Subversion und Terror als politische Waffe ein, sondern sie unterstützten auch derartige Methoden bei Satellitenstaaten. So führte das NATO-Mitglied Türkei massive ethnische Säuberungen und andere Terroraktionen durch, wobei die Regierung Clinton noch durch umfangreiche Waffenlieferungen dazu beitrug, als die Verbrechen gegen die Zivilbevölkerung ihren Höhepunkt erreichten. (1)

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wol...

Länder-Domino: Die Ölmärkte erwarten demnächst viele neue Kriege

Länder-Domino: Die Ölmärkte erwarten demnächst viele neue Kriege

Udo Ulfkotte

 

Während man sich in Deutschland mit einem zurückgetretenen Verteidigungsminister beschäftigt, ist die Weltpolitik mit Themen ganz anderer Dimension befasst: Obwohl Saudi-Arabien versprochen hat, alle libyschen Öl-Lieferausfälle auszugleichen, steigen die Preise jetzt wieder. Denn an den Ölmärkten erwartet man nicht nur weitere Revolutionen, sondern Krieg. Und beim großen Länder-Domino kommt jetzt auch revolutionäre Bewegung in die Ölexporteure am Kaspischen Meer. Und Saudi-Arabien hat nicht die geringste Chance, die drohenden Lieferausfälle auszugleichen. All das blenden wir derzeit gern noch politisch korrekt aus. Dafür werden wir bald alle gemeinsam einen hohen Preis zahlen müssen - nicht nur an den Tankstellen.

 

 

Die Funken der Revolution springen gerade auf die Ölexporteure am Kaspischen Meer über. Aserbaidschan ist einer der großen neuen Ölexporteure in dieser Region. In Baku bereitet sich die Jugend gerade darauf vor, das Regime hinwegzufegen. Länder wie Aserbaidschan, Turkmenistan und Kasachstan sind extrem wichtig für den westlichen Energiehunger. Es besteht kein Zweifel daran, dass es in Aserbaidschan gärt. Das Regime rüstet jetzt erst einmal auf. Auch in Turkmenistan rüstet sich die Jugend für die Revolte. Und in Kasachstan und Kirgisien wird es ebenfalls nicht mehr lange dauern, bis wir Bilder von blutigen Revolten im Fernsehen präsentiert bekommen. Das alles wird aus der Sicht eines durchschnittlichen Europäers völlig überraschend kommen, denn die Medien informieren uns ja nicht einmal über die Unruhen in Oman - ebenfalls ein Öl- und Gasexporteur. Es scheint, dass viele Journalisten beim Länder-Domino inzwischen schlicht den Überblick verloren haben.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

jeudi, 17 février 2011

LEAP: fin 2011 - Chute du "Mur des pétrodollars" et choc monétaro-pétrolier majeur pour les Etats-Unis

LEAP : fin 2011 - Chute du «Mur des pétro-dollars» et choc monétaro-pétrolier majeur pour les Etats-Unis

Communiqué public du Laboratoire Européen d’Anticipation Politique (LEAP), du 15 février 2011

Ex: http://fortune.fdesouche.com/


 

Avec ce numéro 52 du GEAB, notre équipe célèbre deux anniversaires importants en terme d’anticipation. C’est en effet en Février 2006, il y a donc cinq ans exactement, que le GEAB N°2 a rencontré brusquement un succès mondial en annonçant le prochain « Déclenchement d’une crise mondiale majeure » caractérisée notamment par « La fin de l’Occident tel qu’on le connaît depuis 1945 ». Et c’est il y a deux ans exactement, en Février 2009, qu’avec le GEAB N°32, LEAP/E2020 anticipait le début de la phase de dislocation géopolitique mondiale pour la fin de cette même année.

Dans les deux cas, il est important de noter que l’intérêt indéniable suscité par ces anticipations au niveau international, mesurable notamment aux millions de lecteurs des communiqués publics concernés, n’a eu d’équivalent que le silence des principaux médias sur ces mêmes analyses et l’opposition farouche (sur Internet) de la très grande majorité des experts et spécialistes économiques, financiers ou géopolitiques.

Taux de chômage officiel (décembre 2010) - Source : BMGBullion, janvier 2011

Pourtant, en ce début 2011, plus grand monde ne doute que nous sommes bien engagés dans un processus d’ampleur historique qui voit le monde d’après 1945 s’effondrer sous nos yeux, Etats-Unis en tête, tandis que la communauté internationale se disloque chaque jour un peu plus, tout comme le tissu social et économique de la plupart des pays de la planète (1).

Mais cette évidence actuelle n’a bien entendu pas empêché « décideurs et experts » (2), en 2006, d’être certains qu’il n’y avait aucun risque de crise importante à l’horizon ; et, en 2009, qu’il était absurde d’imaginer le moindre risque de dislocation de l’ordre mondial en place et encore moins de l’ordre social. Hélas, aujourd’hui, la capacité intellectuelle de ces élites à faire face aux changements en cours ne semble pas s’être améliorée puisque les mêmes « décideurs et experts » n’imaginaient pas possible il y a seulement deux mois que la Tunisie, puis l’Egypte puissent voir leurs régimes être renversés prochainement.

Gouvernements et institutions internationales aveugles (3), experts et médias dépassés (4), … les élites occidentales, et leurs clones des différentes régions du monde, continuent à s’enfoncer sur les « holzweg » de l’Histoire, ces chemins forestiers qui ne mènent nulle part, ou plus exactement comme le soulignait Heidegger, qui ne mènent quelque part que si on a l’humilité d’être constamment à l’écoute de la forêt et de ses signaux (5).

Néanmoins, alors que les signaux deviennent de vraies sirènes d’alerte, nos élites semblent décider à tout faire pour les ignorer. Prenons un exemple très récent : la comparaison des évènements affectant le monde arabe avec la Chute du Mur de Berlin. Notre équipe a été très intéressée de constater que cette image que nous utilisons depuis 2006 pour aider à comprendre le processus en cours de désintégration de la puissance des Etats-Unis, est désormais reprise allègrement par des dirigeants politiques (Angela Merkel en-tête (6)) et des experts en tout genre.

Pourtant, à ce jour, ceux-là même qui font cette comparaison semblent s’interdire de poursuivre leur cheminement intellectuel jusqu’au bout, jusqu’au moment où il débouche sur une compréhension de la dynamique des évènements. Ils se contentent de décrire, sans analyser.

Taux de chômage par pays dans le monde arabe et en Iran - Source : Le Temps, 11 février 2011

Or ce « mur » qui s’effondre a bien été construit par quelqu’un, ou quelque chose, et dans un but précis.

Le « Mur de Berlin » avait été construit par le régime est-allemand, dans le contexte plus général du « Rideau de Fer », voulu par l’URSS, pour séparer le plus hermétiquement possible le bloc communiste de l’Occident. Et cela visait essentiellement à éviter toute remise en cause du pouvoir détenu par le parti unique dans chaque pays communiste afin de perpétuer le contrôle par Moscou des pays européens de l’Est ; en échange, Moscou assurait soutien sans faille et prébendes en tout genre aux dirigeants des pays d’Europe de l’Est.

L’effondrement du « Mur de Berlin », remettant en cause ces monopoles de pouvoir et donc les objectifs qu’ils servaient, a ainsi provoqué en quelques mois la chute successive de tous les régimes communistes d’Europe de l’Est pour se terminer deux ans plus tard par la dissolution de l’URSS et la fin de soixante-dix ans de pouvoir absolu du parti communiste russe.

Alors, si c’est aussi un « mur » qui est en train de tomber sous nos yeux dans le monde arabe, pour pouvoir espérer anticiper la suite des évènements, il est essentiel de pouvoir répondre à ces questions : qui l’a construit ? Dans quel but ? Et les réponses ne sont pas si difficiles à trouver pour qui ceux qui ne regardent pas l’actualité avec des œillères idéologiques :

  • ce « mur » a été construit par chacun des dictateurs (ou régimes) arabes de la région afin de s’assurer du maintien de leur monopole sur le pouvoir et les richesses du pays, en évitant tout risque de remise en cause de leur parti unique ou de leur légitimité dynastique (pour les royaumes). En ce sens, il y a très peu de différence entre les cliques au pouvoir dans les pays arabes et celles qui dirigeaient les pays communistes.
  • ce « mur » s’intégrait dans le dispositif plus général mis en place par Washington pour préserver son accès préférentiel (et en Dollars US) aux ressources pétrolières de la région et préserver les intérêts d’Israël. L’intégration poussée de l’appareil militaire et sécuritaire de ces pays (sauf la Syrie et la Lybie) avec le dispositif de défense des Etats-Unis assur(ait) un soutien américain sans faille et permet(tait) aux dirigeants arabes concernés de bénéficier de prébendes en tout genre sans risque de remise en cause par des forces intérieures ou extérieures.

Ainsi, en réfléchissant un peu plus à sa comparaison avec la Chute du Mur de Berlin lors de la Conférence sur la Sécurité de Munich, la chancelière allemande aurait pu se tourner vers sa voisine de débat, la Secrétaire d’Etat américaine Hillary Clinton, et lui demander : « Ne pensez-vous pas que les évènements actuels en Tunisie et en Egypte sont les premiers signes de la chute de tous les régimes qui dépendent de Washington pour leur survie ? Et qu’ils peuvent en particulier conduire à un effondrement rapide du système d’approvisionnement en pétrole des Etats-Unis tel qu’il a été mis en place il y a des décennies ? Et donc du système global de facturation du pétrole et du rôle central du Dollar en la matière ? (7) ».

Pendant que l’audience de la Conférence sur la Sécurité de Munich se serait soudain rendu compte qu’ils débattaient enfin de quelque chose de sérieux (8), Angela Merkel aurait pu ajouter : « Et concernant Israël, ne pensez-vous pas que cette chute de « mur » va impliquer très vite la nécessité de reconsidérer toute la politique américano-israélienne dans la région ? (9) ». Et là, miracle, la Conférence sur la Sécurité de Munich aurait repris pied dans le XXIe siècle et le débat euro-américain pouvait se ressourcer dans le monde réel au lieu de divaguer dans la virtualité transatlantique et la lutte contre le terrorisme.

Hélas, comme nous le savons tous, cet échange n’a pas eu lieu. Et les divagations de nos dirigeants risquent donc de continuer avec comme conséquence d’accentuer les chocs de l’année 2011 et de son caractère impitoyable comme anticipé dans le GEAB N°51.

Performance annuelle relative de 40 classes d'actifs (en %, valorisation en dollars US) (en vert : gain / en rouge : perte) - Source : Chris Martenson, 04 février 2011

Pourtant, LEAP/E2020 est convaincu que les évènements actuels dans le monde arabe, dont nous avions correctement anticipé les mécanismes, sont avant tout la traduction régionale des tendances de fond de la crise systémique globale, et en particulier de la dislocation géopolitique mondiale (10). A ce titre, ils sont les prémisses de chocs majeurs dans les trimestres à venir.

Nous estimons en particulier que la fin 2011 sera marquée par ce que notre équipe appelle la « Chute du Mur des pétro-dollars » (11) qui génèrera immédiatement un choc monétaro-pétrolier majeur pour les Etats-Unis.

C’est d’ailleurs l’un des sujets principaux de ce GEAB N°52 avec l’anticipation plus générale de l’évolution du monde arabe (y compris un indicateur précis du risque-pays dans la région). D’autre part notre équipe analyse l’accélération en cours du processus d’émergence de l’Euroland et ses conséquences pour l’Euro et la situation en Europe. Enfin, nous présentons nos recommandations concernant tous ces évènements.

———————

Notes :

(1) Même le FMI, à l’imagination pourtant peu développée, évoque désormais le spectre de guerres civiles à travers toute la planète comme le rapporte le Telegraph du 1er février 2011 ; tandis que The Onion du 24 janvier 2011 s’exerce avec succès à l’humour noir dans un article étonnant, mais révélateur de l’ambiance actuelle, qui évoque la désignation par la Fondation du Patrimoine Mondial, sponsorisée par Goldman Sachs, du « Fossé entre riches et pauvres de la planète » comme étant la 8° Merveille du Monde du fait de son ampleur désormais sans équivalent.

(2) Nous mettons des guillemets car à notre avis un décideur qui ne prévoit rien et un expert qui ne sait rien sont en fait des imposteurs.

(3) La CIA et le gouvernement français fournissent deux illustrations exemplaires de cette tendance générale : ils n’ont rien vu venir en Tunisie et en Egypte, alors même que les uns dépensent des dizaines de milliards de Dollars par an pour espionner le monde arabe et que les autres se promenaient au plus haut niveau (Premier Ministre et Ministre des Affaires étrangères) au cœur des pays concernés. La simple lecture de nos anticipations de 2008 (GEAB N°26) sur le sujet aurait pourtant pu les mettre sur la piste puisque ce sont exactement les tendances décrites alors qui ont abouti aux évènements tunisiens et égyptiens de ces dernières semaines. Comme le résume brutalement le Spiegel du 03 février 2011, « La révolution, ça n’est pas bon pour les affaires » … surtout quand on a rien vu venir pourrait-on ajouter.

(4) En la matière, les investisseurs et les acteurs économiques qui se sont contentés de ces analyses se retrouvent aujourd’hui dans des difficultés sérieuses puisque les « El Dorado » promus à coup de reportages et de commentaires « éclairés » se sont transformées brutalement en piège à capitaux, en zones instables, en prévisions incertaines. Les « fantastiques avantages compétitifs » sont quant à eux devenus en une nuit ou presque des « risques pays insupportables ». Délocalisation, sous-traitance, tourisme, construction d’infrastructures, … pour l’ensemble de ces activités, c’est en effet tout le contexte social, légal, économique, monétaire et financier des pays concernés qui est projeté dans l’inconnu.

(5) Petite remarque philosophique et méthodologique : sans aucune préméditation, notre équipe s’inscrit ici à nouveau dans une approche très franco-allemande puisque notre travail d’anticipation s’appuie non seulement sur cette notion d’ « écoute » et de dévoilement de réalité chère à Heidegger, mais également sur l’approche défendue par Descartes, à savoir, la définition d’une méthode rationnelle. Voilà d’ailleurs une synthèse qui devrait inspirer ceux qui actuellement travaillent à définir les futures caractéristiques de la gouvernance de l’Euroland. Pour en savoir plus sur cette question du « chemin » chez Heidegger et Descartes, on peut lire utilement cette page du site Digressions. Et pour mieux comprendre la méthode utilisée par LEAP/E2020 et tenter de l’appliquer vous-même directement, nous vous recommandons le Manuel d’Anticipation Politique publié aux éditions Anticipolis.

(6) Source : Bundeskanzlerin, 10 février 2011

(7) On assiste déjà à des mouvements d’ampleur autour du pétrole puisque les Etats-Unis s’apprêtent à abandonner leur propre indice WTI du cours du pétrole pour se rallier à l’indice européen Brent auquel l’Arabie saoudite s’est déjà convertie en 2009 en abandonnant le WTI. La divergence des cours entre les deux indices a culminé avec la crise égyptienne. Nous revenons sur la question pétrolière dans un autre chapitre de ce numéro du GEAB. Source : Bloomberg 10 février 2011

(8) Cette conférence, à l’instar du Forum de Davos, a un air délicieusement rétro. Les organisateurs et les participants semblent ne pas avoir réalisé que le monde auquel ils appartiennent a disparu, que leurs débats n’intéressent en fait plus personne dans le monde « réel » et que les nombreuses heures d’émissions qui leurs sont consacrées sur les chaines de télévision internationales sont la mesure inverse du très petit nombre de spectateurs qui les regardent. Avec plus de 1.500 participants américains et britanniques contre 58 latino-américains et moins de 500 asiatiques, Davos incarne indéniablement le forum typique du « monde d’avant la crise », confirmé par sa signature linguistique, le monolinguisme anglophone (même sur son site web). Monolinguisme ou multilinguisme constitue d’ailleurs selon LEAP/E2020 un premier critère très simple d’évaluation pour savoir si un projet ou une organisation à vocation internationale appartient plutôt au monde d’avant la crise ou au contraire est déjà en partie adaptée au monde d’après.

(9) A ce sujet, il faut lire le remarquable éditorial de Larry Derfner dans le Jerusalem Post du 09 février 2011.

(10) Washington a ainsi fait preuve d’une impréparation absolue, puis d’une indécision évidente, confirmant non seulement la fin de tout leadership américain au niveau international mais l’accélération d’un processus de paralysie du pouvoir central américain. Pour comprendre l’importance du phénomène, il faut garder en mémoire que l’Egypte est l’un des pays au monde qui est le plus directement financé et encadré par les Etats-Unis depuis la fin des années 1970. D’ailleurs, le New York Times du 12 février 2011 résume très bien la situation, tout en essayant de la présenter comme une stratégie alors qu’elle n’est qu’une absence de stratégie, en décrivant la gestion de la crise par Barack Obama comme étant du « straddle », une technique boursière consistant à essayer de se couvrir des deux côtés quand on sent qu’un événement important va arriver mais qu’on a aucune idée du sens qu’il va prendre. Au passage, l’article illustre le clivage entre « anciens » et « modernes » que cette crise a fait émerger au cœur du pouvoir US. Mais, nous revenons plus en détail sur tous ces aspects et leurs conséquences dans une autre partie de ce GEAB.

(11) Qui est un segment stratégiquement essentiel du « Mur Dollar », comme le « Mur de Berlin » l’était pour l’ensemble du « Rideau de Fer ».

Laboratoire Européen d’Anticipation Politique

lundi, 07 février 2011

Le Bassin du Levant assiégé par Israël

Le Bassin du Levant assiégé par Israël

Ressources énergétiques : l’exploitation déjà confiée à des sociétés états-uniennes

Ex: http://www.polemia.com/

bassin-levant-130111.jpgA la fin de l’année 2012, Israël commencera à pomper du gaz dans le gisement offshore de Tamar, confié à un consortium international chapeauté par la société états-unienne Noble Energy. Celle-ci apportera ce mois-ci une seconde plate-forme de forage (Pride North America) pour étendre les prospections dans le Bassin du Levant. Dans cette zone de la Méditerranée orientale -estime l’agence gouvernementale états-unienne U.S. Geological Survey- se trouvent des réserves de gaz se montant à 3.500 milliards de m3, et des réserves de pétrole pour 1,7 milliards de barils. On se prépare donc à de grandes affaires : en une année, l’indice énergétique de la Bourse de Tel Aviv a augmenté de 1.700 %.

Partage des zones d’exploitation : nouvelle source de contentieux et de… conflits

Mais il y a un problème : les réserves énergétiques du Bassin du Levant n’appartiennent qu’en partie à Israël. Les gisements de gaz Tamar et Léviathan se trouvent à environ 100 Kms des côtes, hors des eaux territoriales israéliennes qui s’étendent jusqu’à 22 Kms de la côte. Toutefois, selon la Convention des Nations Unies sur le droit de la mer, Israël peut exploiter les réserves offshores de gaz et de pétrole dans une zone allant jusqu’à 370 Kms de la côte. Mais il en va de même pour les autres pays riverains. Il est donc déterminant de définir les zones respectives.

Dans les eaux libanaises, d’après la compagnie norvégienne Petroleum Geo-Services, il y a de gros gisements de gaz et pétrole. A ce propos, le ministre des affaires étrangères Ali Shami a demandé le 4 janvier au Secrétaire Général des Nations Unies d’empêcher que ces gisements soient exploités par Israël. La réponse ne s’est pas faite attendre : le jour suivant, le porte-parole onusien Martin Nesirsky a rejeté la requête en déclarant que les Nations Unies ne sont pas préparées pour intervenir dans la dispute. Même réponse de la part de l’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) : le porte-parole Andrea Tenenti a déclaré au quotidien libanais The Daily Star (6 janvier) qu’ « une frontière maritime n’a jamais été établie » et que « la ligne de bouées dans la zone de Naqoura, non reconnue par le gouvernement libanais, a été instaurée unilatéralement par Israël ». Puis, le coordinateur spécial pour le Liban, Michael Williams, a diplomatiquement déclaré qu’« il pourrait y avoir un rôle pour les Nations Unies, mais nous devons en discuter avec nos juristes à New York » (The Daily Star, 11 janvier).

Israël a les mains libres

En réalité, donc, l’ONU laisse les mains libres à Israël dont le gouvernement a prévenu qu’il n’hésitera pas à employer la force pour protéger « ses » gisements. Comme le parlement libanais a approuvé une loi sur l’exploration des réserves énergétiques offshore et allouera les premières concessions au début de 2012, s’ouvre ainsi un contentieux qui pourra facilement conduire à une nouvelle guerre israélienne contre le Liban.

Qu’entend faire l’Italie, qui joue un rôle de premier plan dans l’Unifil, d’un point de vue naval aussi ? Attendra-t-elle que les navires de guerre israéliens bombardent les côtes libanaises, comme ils le firent déjà en 2006, pour s’emparer des réserves offshore du Liban ?

Il est plus difficile encore que les Palestiniens réussissent à exploiter les réserves énergétiques de leurs Territoires. Il résulte de la carte établie par U.S. Geological Survey que la plus grande partie des gisements de gaz se trouve dans les eaux côtières et dans le territoire de Gaza. L’Autorité palestinienne en a confié principalement l’exploitation à la compagnie British Gas, qui a creusé deux puits, Gaza Marine-1 et Gaza Marine-2, qui ne sont cependant jamais entrés en fonction.

Les Palestiniens sont écartés

Le gouvernement israélien a d’abord rejeté toutes les propositions, présentées par l’Autorité palestinienne et par British Gas, d’exporter le gaz en Israël et en Égypte. Elle a ensuite ouvert une négociation directe avec la compagnie britannique, qui détient la majorité des droits d’exploitation, pour arriver à un accord excluant les Palestiniens. Ce n’est pas un hasard si la négociation a été lancée en juin 2008, ce même mois où commençait (selon ce qui est admis même par des sources militaires israéliennes) la préparation de l’opération « Plomb durci » lancée contre Gaza en décembre 2008 (voir l’article par Michel Chossudovsky «La guerre et le gaz naturel : l’invasion israélienne et les gisements de Gaza en mer», Mondialisation.ca, le 12 janvier 2009, NdA). L’embargo qui a suivi, blocus naval compris, a de fait exproprié les Palestiniens du droit d’exploiter leurs propres réserves énergétiques, dont Israël veut s’emparer d’une façon ou d’une autre.

Le plan prévoit de relier, à travers un gazoduc sous-marin, les puits palestiniens de Gaza au port israélien d’Ashqelon, où, à partir de 2012, arrivera le gaz du gisement de Tamar. À une dizaine de kilomètres, au sud, il y a Gaza où les autorités israéliennes laissent passer au compte-gouttes le combustible pour la centrale électrique : ce qui provoque de continuels black-out qui, en laissant hôpitaux et stations d’épuration sans énergie, augmentent les victimes de l’embargo.

Manlio Dinucci
géographe.
il manifesto
12 janvier 2011

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio pour Mondialisation.ca,

dimanche, 06 février 2011

Si se incendia el petroleo, el capitalismo cae al abismo

Si se incendia el petróleo, el capitalismo cae al abismo

(CMMInternacional 00983 - Ex: http://www.cadenamarianomoreno.com.ar)

Reproducimos la info del diario INFOBAE. Venimos desde la CMM monitoreando la crisis mundial, la crisis del capitalismo. Africa está en rebelión. El temor que la rebelión se extienda a los emiratos árabes aliados al mundo occidental. El temor que los pueblos se adueñen de lo que es suyo?

Desde nuestro CENTRO DE NOTICIAS, en San Miguel Arcángel, Buenos Aires, Argentina en la UNASUR.

La CMM,informa:

Las bolsas europeas bajaban a primera hora del lunes por las preocupaciones sobre los disturbios en Egipto y el temor a que los problemas se extiendan a otras partes de Oriente Oriente, con consecuencias para los precios del petróleo.

Los bancos de mayor ponderación se sumaban a las caídas. Barclays, Societé Générale y Unicredito, caían entre un 1,2 por ciento y un 2,8 por ciento. El crudo Brent cotizaba esta mañana en torno a los 100 dólares por barril.

“Egipto por sí solo no sería una preocupación, la preocupación es que podamos tener inestabilidad en los Estados petroleros. Cualquier inestabilidad es negativa para los mercados”, expresó Bernard McElinder, estratega de inversión de NCB Stockbrokers en Dublín.

El crudo Brent de Londres se acercó el lunes a 100 dólares el barril por la preocupación de que las protestas en Egipto generen inestabilidad en el resto de Oriente Medio y el norte de Africa, regiones que en conjunto producen más de un tercio del petróleo del mundo. 

Seis días de disturbios en Egipto han dejado más de 100 muertos, sacudido a Oriente Medio y agitado a los inversores globales. Egipto no es un importante productor de petróleo, pero las protestas y demandas de cambio político comenzaron sólo dos semanas después de que el presidente de Túnez fuera derrocado.

La preocupación de que los estados productores de crudo en la región podrían enfrentar similares protestas está apoyando al crudo. “La situación egipcia parece ser el factor primario“, dijo David Land, analista de mercado en jefe de CMC Markets.

00:29 Publié dans Actualité, Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : pétrole, hydrocarbures, économie, capitalisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 25 janvier 2011

Viel Blut für wenig Öl

iraq_oil_fields_2681516.jpg

Viel Blut für wenig Öl

 Absurde Folge des Irakkriegs: Peking bekommt Zugriff auf irakisches Öl – Lange Gesichter in Washington

Ex.: http://www.preussische-allgemeine.de/

Außer Spesen nichts gewesen – das ist angesichts von mehr als 4400 eigenen Gefallenen noch eine milde Umschreibung der Bilanz des Irakkrieges aus US-amerikanischer Sicht. Nicht nur die islamistische Propaganda auf der ganzen Welt und das Regime in Teheran wurden gestärkt. Peking, der neue Hauptrivale Washingtons, bekam Zugriff auf Ölressourcen am Golf.

Es ist eine späte Ohrfeige für Amerikas Ex-Präsident George W. Bush: Mit dem Politiker und Hassprediger des Irak, Muktada al-Sadr, zieht dieser Tage ein erklärter und einflussreicher Erzfeind der Vereinigten Staaten in die irakische Regierung ein. Im Klartext bedeutet das, al-Sadr mit seinen engen Beziehungen zum Nachbarn Iran, wo er bis zu seiner im Irak gefeierten Rückkehr vor wenigen Tagen vier Jahre im Exil gelebt hat, wird alles daran setzen, dass die USA im Zweistromland keinen Fuß mehr auf den Boden bekommen.
Das Ziel des von Bush 2003 mit falschen Anschuldigungen angezettelten Golfkrieges, die großen Öl-Ressourcen des Landes militärisch zumindest vor einem Zugriff Dritter zu sichern, kann also nicht erreicht werden. Zudem wollte Bush verhindern, dass Saddams Gedanke, das Ölgeschäft vom Dollar abzukoppeln und auch auf den Euro zu stützen, Wirklichkeit werden konnte. Es gab Experten, die einen Wertverlust des Dollars von mehr als einem Drittel erwartet hatten, falls der Irak und weitere Ölnationen diesen Schritt gewagt hätten.
Auch die Zusammenarbeit der US-Ölmultis und der britischen BP mit den Militärs schon bei den Kriegsvorbereitungen hatte in diesem „Monopoly“ nichts genutzt. Von den angeblichen Massenvernichtungswaffen Saddams wurde nicht ein einziges Stück gefunden. Außer Milliarden-Spesen und noch höheren Schulden bei den Chinesen ist also nichts gewesen.
Die westlichen Multis rechneten nach dem Sturz Saddams schon für 2008 mit dem ganzen Kuchen. Die amerikanischen Truppen gehen, die amerikanischen Firmen kommen, so wurde damals erwaret. Doch diese Hoffnung platzte wie eine Seifenblase: Die feierliche Unterzeichnung der entsprechenden Vorverträge war bereits für Anfang Juni 2008 vorgesehen. Doch es kam anders. Ölminister Hussein al Scharistan verstand sich nicht als Glied einer Marionettenregierung an den Fäden des Weißen Hauses und ließ den Deal platzen, weil die Konzerne auf Öllieferungen als Bezahlung pochten. Scharistan kurz und bündig: „Wir teilen unser Öl nicht.“
Ironischerweise ist es nun die Volksrepublik China, deren Öl-Manager sich im Irak einnisten. Für den Iran war der Sturz Husseins in dem zu rund 60 Prozent von Schiiten bewohnten Irak in politischer Hinsicht wie ein Lottogewinn. Doch in wirtschaftlicher Hinsicht, darüber sind sich die Strategen des Ölbusiness einig, ist China der eigentliche Gewinner der amerikanischen Invasion. Die staatliche China National Petroleum Corporation (CNPC) der Volksrepublik war der erste Nutznießer der Post-Saddam-Epoche. Auch die malaysische Petronas  sowie Koreaner und British Petroleum erhielten Zuschläge. Die russischen Konzerne Lukoil und Gazprom sowie die norwegische Stat-oil ergatterten sich nach dem Abzug der US-Truppen den fettesten Happen, West Quarna, das größte Ölfeld des Irak. 15 weitere ausländische Bieter, darunter schon 2009 die italienische ENI, 2010 Shell und Angolas Sonangol, kamen zum Zug.
US-Firmen rangieren unter ferner liefen. Eine Bohrung wird Exxon Mobil niederbringen, Occidental ist an einem Konsortium beteiligt. Die bereits erschlossenen Felder werden von zwei Staatsunternehmen bewirtschaftet. 
Der Welt zweitgrößte und weltweit operierende Servicegesellschaft im Ölgeschäft, die US-amerikanische Halliburton Company im texanischen Huston, hatte schon fünf Monate vor dem Irakkrieg mit Vizepräsident Dick Cheney einen streng geheim gehaltenen Handel abgeschlossen. Die Vereinbarung wurde in den USA als „Sweetheart-Deal“ bezeichnet. Cheney war wegen einer fünfjährigen Amtszeit als „Chef Executive“ der Firma eng mit Halliburton verbandelt. Demnach war vorgesehen, dass das Unternehmen über seine Tochterfirma Kellog, Brown & Root die komplette Kontrolle über die irakischen Ölfelder erhalten sollte. Durch einen geschickten Schachzug im Zusammenwirken mit der italienischen ENI konnte sich Halliburton in die neue Ölfeldverteilung einklemmen. Sie wird bei 20 Bohrungen im wichtigen Ölfeld Zubair im Südirak ihr Wissen einbringen. Es ist, wie Experten konstatieren, ein Multi-Millionen-Deal. Ein weiteres Abkommen wurde mit der holländischen Shell für die 15 Quellen des Majnoon-Feld geschlossen – Wert des Kontrakts: 150 Millionen Dollar. Die 1919 gegründete Gesellschaft operiert in 70 Ländern und hat etwa 55000 Beschäftigte.
Die seinerzeitige Geheimabsprache mit Cheney liefert im übrigen ein zusätzliches Argument für die Absichten der Bush-Regierung, die Ölfelder mit Gewalt an sich zu bringen und dies notfalls mit einem Lügenkomplott von der Uno absegnen zu lassen.
Die USA, die sich nach dem Sieg im kurzen Golfkrieg ein mehr oder weniger uneingeschränktes Schalten und Walten erhofft hatten, um sich im Nahen Osten „das Herzblut der modernen Wirtschaft“ zu sichern, sind schon deswegen verschnupft, weil die jetzt vergebenen Lizenzen keine Gewinnbeteiligung, sondern nur einen Bonus je gepumpten Fasses vorsehen. Das ist ihnen zu wenig. Derzeit liegt die Fördermenge bei 2,3 Millionen Fass pro Tag – weniger als zu Zeiten des gestürzten Diktators Saddam Hussein. Sie soll baldmöglichst auf zwölf Millionen steigen. Nach Saudi Arabien und Kanada steht der Irak mit geschätzten 137 Milliarden Barrel an dritter Stelle bei den erkundeten Ölreserven.
 

Joachim Feyerabend

 

Veröffentlicht am 12.01.2011

dimanche, 26 décembre 2010

Wikileaks, geopolitische Absichten und South Stream

Wikileaks, geopolitische Absichten und South Stream

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Die Flut von internen Botschaftsberichten, die Julian Assange, der geheimnisumwobene Gründer der Internetplattform Wikileaks, jüngst in die Öffentlichkeit gebracht hat, gehört zu den eher seltsamen Vorfällen aus der Welt der Geheimdienste. Doch sind diese Enthüllungen für das State Department oder die US-Außenpolitik allgemein gar nicht so unangenehm wie behauptet. Denn bei dem, was da bekannt wurde, handelt es sich um einen Mix aus langweiligen und zumeist unbedeutenden Einzelheiten, die Botschaftsmitarbeiter aus aller Welt melden, und »gezielten« Lecks, wie sie der ehemalige US-Sicherheitsberater Zbigniew Brzezinski nennt.

 

 

So werden in einer internen Mitteilung Putin und Medwedew als »Batman und Robin« bezeichnet – witzig, aber doch nicht gerade wichtig. Wie sich herausstellt, war kein einziges dieser Dokumente als »streng geheim« klassifiziert. Etwa 40 Prozent der 250.000 Seiten stehen überhaupt nicht unter Verschluss.

Zu den Dokumenten, die Brzezinski als mit »gezielten« Tatsachen »platziert“ bezeichnet, um den »Absichten eines Geheimdiensts zu dienen«, gehören Mitteilungen über Verhandlungen, die Moskau und die italienische Berlusconi-Regierung über den Bau der geopolitisch wichtigen South-Stream-Gaspipeline geführt haben.

Im Dezember 2009 war der russische Präsident Medwedew zur Unterzeichnung eines Abkommens über die geplante Erdgas-Pipeline South Stream nach Rom gereist. Wie jetzt enthüllt wurde, hat US-Außenministerin Hillary Clinton eine genaue Überprüfung der Beziehungen zwischen Rom und Moskau angeordnet, besonders im Hinblick auf South Stream. Washington setzt nämlich auf ein anderes Pferd: das extrem teure »Nabucco«-Projekt, dessen Wirtschaftlichkeit bisher mangels ausreichender Einspeisung nicht gesichert ist.

In den letzten Monaten hat der Streit Nabucco gegen South Stream die Dimensionen der scharfen amerikanisch-sowjetischen Auseinandersetzungen angenommen, die während des Kalten Krieges in der Reagan-Ära über die Energieversorgung in Europa geführt wurden. Dabei steht weit mehr auf dem Spiel als nur der finanzielle Gewinn aus Gasverkauf oder Pipelinebau. Es geht vielmehr um die Zukunft Westeuropas und die Zukunft der eurasischen Geopolitik – auf den ersten Blick nicht unbedingt ersichtlich.

Eurasische Pipeline-Geopolitik

Mit der Auflösung der Sowjetunion und dem Zusammenbruch des Militärbündnisses des Warschauer Pakts war 1991 der Kalte Krieg, zumindest aus Moskauer Sicht, beendet. Moskau hatte die weiße Flagge gehisst. Überfordert durch den Rüstungswettlauf mit den USA und geschwächt durch den niedrigen Ölpreis, lag die Wirtschaft am Boden. Für den niedrigen Ölpreis war das State Department verantwortlich, das Druck auf Saudi-Arabien ausgeübt hatte, um Moskau von den Deviseneinnahmen abzuschneiden, die 1986/87 durch Ölexporte erzielt worden waren. Zwei Jahre später willigte Michail Gorbatschow ein, die Berliner Mauer einzureißen. Manche Beobachter sprachen damals von der größten fremdfinanzierten Übernahme (»leveraged buyout«) der Geschichte.

Das einzige Problem liegt darin, dass Washington keinerlei Veranlassung gesehen hat, den Kalten Krieg von amerikanischer Seite zu beenden. Anstatt die feierlichen Versprechungen einzuhalten, die man Gorbatschow im Rahmen der Gespräche über die deutsche Wiedervereinigung gemacht hatte, wonach die USA die Länder des ehemaligen Warschauer Pakts nicht in die NATO einbeziehen würde, nutzte Washington in den 1990er-Jahren Russlands Schwäche und dehnte die NATO bis direkt vor Moskaus Haustür aus. Mit Polen, Ungarn und Rumänien, Bulgarien und den baltischen Staaten hatte die NATO Russland 2003 eingekreist. Gleichzeitig verlangte der IWF als Teil der »Schocktherapie« von der russischen Regierung die Privatisierung der Staatsbetriebe. Russlands strategische Rohstoffe und andere unschätzbare Vermögenswerte gingen in westliche Hände über.

Doch im Laufe des Jahres 2003 hatte sich Präsident Wladimir Putin fest im Amt etabliert und den verschiedenen russischen Oligarchen zu verstehen gegeben, dass er die Ausbeutung russischer Vermögenswerte durch den Westen nicht weiter ausdehnen wollte. Der entscheidende Warnschuss erfolgte im Oktober 2003 mit der Verhaftung des politisch ambitionierten Michael Chodorkowski, dessen Yukos-Sibneftoil-Konzern kurz davor stand, bis zu 40 Prozent der Anteile an dieser größten privaten russischen Ölgesellschaft an ExxonMobil oder Chevron zu verkaufen. Eingefädelt hatten das Geschäft George H. W. Bush und die einflussreiche Carlyle Group aus Washington. Chodorkowski verstieß damit gegen ein Versprechen, das Putin den russischen Oligarchen abverlangt hatte: sie würden die Vermögenswerte, die sie dem Staat bei der vom IWF verordneten Privatisierung in der Jelzin-Ära buchstäblich gestohlen hatten, nicht weiter veräußern.

2003 wurde auch die Einkreisung Russlands dramatisch vorangetrieben, als die vom State Department finanzierte »Rosen-Revolution« in Georgien und die »Orange«-Revolution in der Ukraine

Washingtons Widerstand gegen die russische South-Stream-Pipeline ist Ausdruck eines geopolitischen Machtkampfs um die Vorherrschaft in Europa.

ausbrachen. Dadurch wurden zwei Marionetten Washingtons ins Amt gehievt, die sich verpflichtet hatten, ihre Länder in die NATO zu führen. Damals brachte Russland die einzige Waffe ins Spiel, über die das Land noch verfügte: die Kontrolle über die weltweit größten Erdgas-Reserven. Außerdem gab es den Gazprom-Konzern, zu dessen Vorstand Medwedew gehört hatte, bevor er in die Putin-Regierung eintrat.

Putin handelte mit der deutschen Schröder-Regierung das politisch bedeutsame Nord-Stream-Pipelineprojekt aus. Die Nord Stream, über die kürzlich das erste russische Gas nach Deutschland und in die EU gepumpt wurde, löste in Washington und bei der Regierung des NATO-Lands Polen wütende Proteste aus. Doch trotz des immensen Drucks wurde der Bau vorangetrieben.

Jetzt wird vom russischen Gazprom-Konzern die South-Stream-Pipeline gebaut. Über die Pipeline soll Gas von den russischen Gasfeldern aus der Region des Kaspischen Meeres über den Grund des Schwarzen Meeres und den Balkan bis nach Süd- und Norditalien gepumpt werden. Die Europäer sind die größten Abnehmer von russischem Gas.

Selbst England plant, ab 2012 erstmals Gas aus Russland direkt über die Nord-Stream-Pipeline zu pumpen. Streitereien zwischen Russland und der Ukraine, die offensichtlich ermuntert wurden, als Wiktor Juschtschenko, Washingtons Mann-in-Orange, noch Präsident der Ukraine war, hatten in Italien und anderen europäischen Ländern zu Engpässen bei der Gasversorgung geführt. Vor diesem Hintergrund erklärte der italienische Regierungschef Berlusconi: »Wir wollen erreichen, dass die South Stream nicht über ukrainisches Gebiet verlegt wird. Deshalb unternehmen wir jede Anstrengung, von der Türkei die Zusicherung zu erhalten, dass die South Stream durch ihre territorialen Gewässer verlegt werden kann.« Der französische Energiekonzern EDF verhandelt zurzeit über eine 10-prozentige Beteiligung an dem Projekt.

Im Dezember 2009 haben der italienische Energiekonzern ENI und Gazprom vereinbart, dass die South Stream bis Italien geführt wird. Ein technisch-wirtschaftliches Gutachten über das South-Stream-Projekt wird im Februar 2011 vorgelegt. Bis Ende 2015 soll die Pipeline in Betrieb genommen werden. Mit Bulgarien, Serbien, Ungarn, Slowenien und Kroatien hat Russland bereits Verträge über den Bau über Land unterzeichnet.

Die EU-Kommissionssprecherin für Energie, Marlene Holzner, verlangte eine Änderung des russisch-bulgarischen Vertrags über das Gaspipeline-Projekt South Stream, sodass auch andere EU-Länder Zugang zur Pipeline erhielten. Eine Fraktion in der EU unterstützt Washingtons Alternative Nabucco. Während der EU-Kommissar nach außen darauf besteht, dem South-Stream-Projekt eine faire Chance einzuräumen, arbeitet er de facto an dessen Sabotage, zugunsten von Nabucco. Holzner wird in der Presse mit den Worten zitiert: »Europäische Vertreter hatten Einwände dagegen, dass Bulgarien durch den Vertrag mit Russland zur vollständigen und ungehinderten Durchleitung russischen Gases über das eigene Staatsgebiet verpflichtet war […] Für uns liegt die Priorität bei Nabucco, weil damit die Quellen für die Gasversorgung leichter diversifiziert werden können.«

Die Wikileaks-Enthüllungen über die Beziehungen zwischen Berlusconi und Putin entsprechen Brzezinskis Definition von »gezielten« Lecks. De facto lassen sie Berlusconi als Spielball der Moskauer Energie-Geopolitik erscheinen. In den Mitteilungen ist von Berlusconis »ungewöhnlich engen Beziehungen« zu Wladimir Putin die Rede; über die South-Stream-Gaspipeline heißt es, sie errege in Washington »erhebliches Misstrauen«.

Eindeutig soll die ohnehin bedrängte Berlusconi-Regierung mit dem gezielten Leck in politische Verlegenheit gebracht werden, und zwar genau zu dem Zeitpunkt, wo der extravagante Premierminister mit einer Flut von persönlichen Skandalen und Rücktritten in seiner Koalition zu kämpfen hat.

Bisher sieht es allerdings nicht danach aus, als beeinträchtigten die Enthüllungen die Energie-Kooperation zwischen Moskau und Rom. Unbeeindruckt von den Wikileaks-Veröffentlichungen ist der russische Präsident Medwedew soeben im Rahmen der erweiterten russisch-italienischen Regierungsgespräche im russischen Skiort Krasnya Polyana an der Schwarzmeerküste mit Silvio Berlusconi zusammengetroffen. Am Rande der Gespräche unterzeichneten der russische Stromkonzern RAO und die italienische Enel-Gruppe eine Absichtserklärung für eine Partnerschaft.

Die Vereinigten Staaten werden heute nicht nur in Moskau, sondern in immer breiteren westeuropäischen Kreisen als Supermacht betrachtet, die vor dem endgültigen Abstieg steht. Angesichts der schlimmsten Wirtschaftsdepression seit den 1930er-Jahren, bei der kein Ende in Sicht ist, und der Unfähigkeit Obamas und der US-Außenpolitik zu einer für die EU günstigen Zusammenarbeit bemüht sich eine wachsende Fraktion in der politischen und wirtschaftlichen Elite von Frankreich über Italien bis Deutschland um engere Wirtschaftsbeziehungen mit Russland und eurasischen Staaten, die als Markt der Zukunft gelten. Das löst in Washington natürlich nicht gerade Jubelgeschrei aus. Vor diesem geopolitischen Hintergrund sollten die Wikileaks-»Enthüllungen« über Italien und Russland gesehen werden.

 

vendredi, 19 novembre 2010

AFRICOM nel cuore della guerra per il petrolio

africom4resized.jpg

AFRICOM nel cuore della guerra per il petrolio
 
da Amadou Fall   

 

Ex: http://www.campoantiimperialista.it/

 

Dopo aver incassato il rifiuto di quasi tutti gli stati africani, il comando degli Stati uniti per l'Africa sembrava essere destinato a rimanere a Stoccarda, in Germania. Di fatto, continua ad essere molto presente e attivo nel continente africano. AFRICOM, sotto la copertura dell'aiuto umanitario, lotta al terrorismo e mantenimento della pace, si sposta in un crescente numero di paesi dove conduce manovre militari, programmi formativi e di assistenza.

Questi movimenti vanno in parallelo alla diminuzione della presenza della Francia nella sua vecchia area d'influenza. In mancanza di una vera e propria base dove collocarsi, AFRICOM è stato ripensato come strumento che consiste in una trama di piccole installazioni intorno alla base americana di Gibuti. Dispone di una forza permanente di circa 1.800 uomini. Per le emergenze, dispone di una base navale in Kenia e altre due in Etiopia.

La rete si sta estendendo in Africa equatoriale con la presenza a Kisangani, nel cuore di Ituri, Provincia orientale, Repubblica democratica congolese (RDC). "Si tratta di formare un esercito più professionale, che rispetti l'autorità civile e garantisca la sicurezza del popolo congolese. Ciò che facciamo qui come in altri luoghi d'Africa, d'accordo con i governi sovrani, è nell'interesse dei popoli. Agli USA e alla comunità internazionale interessa che il popolo congolese viva in pace ed abbia la possibilità di un futuro migliore", diceva il generale William Ward.

Un ritornello ben noto. Tutti sanno che l'attivismo militare nordamericano non è garanzia di sicurezza. La collaborazione fra USA ed Etiopia ha raggiunto i suoi fini militari, ma ha generato una delle peggiori crisi umanitarie in Somalia. A Ituri, vittima di un conflitto interetnico dal 1999, che ha già fatto 50.000 morti e 50.000 sfollati, l'ingerenza americana ha buone probabilità di aggravare la situazione. E' questa la paura che sta dietro il rifiuto degli stati africani di ospitare la base di AFRICOM. Dovrebbe essere l'Unione africana ad assumersi l'impegno del mantenimento della pace e della lotta contro il terrorismo.

Ma la vera ragione della presenza di AFRICOM in Congo e in altri posti dell'Africa è il petrolio. Lo aveva già detto senza reticenze un ufficiale del generale Ward nel febbraio 2008: proteggere la libera circolazione delle risorse naturali dell'Africa verso il mercato globale è uno dei principi di fondo di AFRICOM. Il rifornimento petrolifero degli Stati uniti e il problema della crescente influenza cinese sono le sfide più importanti agli interessi statunitensi. Pur se la preoccupazione degli USA è condurre una guerra contro il terrorismo planetario, la creazione di un comando specifico per l'Africa spiega la natura dell'implicazione nordamericana nel gioco delle grandi potenze riguardo ai mercati africani. AFRICOM ha come finalità prioritaria quella di garantire il rifornimento petrolifero africano agli Stati uniti, per non dipendere troppo dal Medio Oriente.

La base di Gibuti permette il controllo della rotta marittima da cui transita un quarto della produzione mondiale petrolifera e il dominio della fascia petrolifera che attraversa l'Africa fino al Golfo di Guinea, dopo aver attraversato il Ciad e il Camerun. Un nuovo sito in Uganda fornisce agli Stati uniti la possibilità di controllare il Sud del Sudan. Le zone di Nigeria, Gabon, Guinea e RD Congo, ricche di petrolio e di gas sono nel mirino USA.

La Provincia orientale del Congo è in ebollizione, e tra le multinazionali desiderose di ottenere le concessioni per lo sfruttamento e lo stato congolese sono già nate della questioni. Sotto l'ombra di AFRICOM, gli americani sono lì per il petrolio e i minerali, vitali per l'industria elettronica e informatica. Dopo essersi accaparrati i minerali del Katanga, dove un consorzio sfrutta più della metà delle risorse minerarie, e dopo essersi assicurati il controllo di quelle del Kivu, Washington ora vuole il pezzo più grosso della torta, il petrolio di Ituri e per estensione, dei Grandi Laghi.

 
Fonte: http://www.fundacionsur.com/spip.php?article7422
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 

lundi, 08 novembre 2010

Enrico Mattei au Proche et au Moyen Orient

Enrico Mattei au Proche et au Moyen Orient

 

par Filippo GHIRA

 

mattei2.jpgLa figure d’Enrico Mattei, le grand pétrolier italien, est encore susceptible de donner du fil à retordre à tous ceux qui, au niveau universitaire, se posent maintes questions sur l’histoire des approvisionnements énergétiques, sur l’indépendance nationale en matières énergétiques, sur le colonialisme et sur les rapports internationaux. Aujourd’hui, on se souvient principalement d’Enrico Mattei parce qu’il avait financé, plus ou moins frauduleusement, les partis politiques de la péninsule pour qu’ils ne lui mettent pas des bâtons dans les roues. En revanche, bien peu se souviennent qu’il entendait ainsi « utiliser les partis comme on utilise un taxi », afin de rendre l’Italie indépendante sur le plan énergétique et de la dégager de la tutelle des « Sept Sœurs » américaines et anglo-hollandaises. Il suffit de penser que, dans l’immédiat après-guerre, Enrico Mattei fut nommé commissaire pour la liquidation de l’AGIP et que, dans le cadre de cette fonction, il a fait preuve d’une indubitable clairvoyance. Il a réussi à convaincre le gouvernement de l’époque de renoncer à liquider l’entreprise pétrolière italienne et d’investir dans un cartel public, l’ENI, qui s’occuperait de garantir à l’Italie les approvisionnements en gaz et en pétrole dont elle avait besoin pour soutenir son envolée économique. La presse italienne, surtout celle du nord, liée aux milieux industriels et financiers nationaux et entretenant des liens solides avec des milieux analogues en Europe et aux Etats-Unis, n’a pas laissé s’échapper l’occasion d’attaquer la politique de l’ENI qui se déployait avec une autonomie quasi totale sur la scène internationale, et dont la préoccupation première était l’intérêt de la nation italienne.

 

Ce qui déterminait le succès de l’ENI dans les pays producteurs de pétrole fut essentiellement l’approche non colonialiste que lui avait conféré Mattei. Celui-ci, en effet, innovait radicalement dans l’attribution des pourcentages que retenait l’ENI pour pouvoir exploiter les gisements de pétrole découverts. Le groupe italien ne retenait que 25% des bénéfices et en octroyait 75% à la compagnie pétrolière de l’Etat recelant les gisements. Au contraire, les « Sept Sœurs » s’appropriaient un minimum de 50%. Le deuxième aspect qui séduisait dans la politique pétrolière de Mattei fut la clause suivante : si les recherches n’aboutissaient à rien sur un site spécifique, l’ENI ne réclamait rien à titre d’indemnisation à l’Etat sur le territoire duquel se trouvait le site en question. C’était là des méthodes élémentaires et simples qui contribuaient à créer un formidable courant de sympathie pour le groupe italien. Troisième aspect de la politique de Mattei, et non le moindre : former les compétences locales à l’école de l’ENI, située à San Donato dans le Milanais. Le but de cette politique était évident. Mattei voulait faire comprendre que l’ENI n’entendait pas se limiter à des rapports économiques mais voulait aussi faire évoluer professionnellement des équipes de techniciens qui, une fois formées, seraient capables de travailler sans aide étrangère et d’aider au mieux les sociétés pétrolières étrangères, sans devoir pour autant dépendre entièrement d’elles. Cette approche demeure encore vivante dans la mémoire de bon nombre de dirigeants des pays producteurs de pétrole. Ce souvenir positif fait que l’ENI, aujourd’hui encore, peut vivre de rentes en provenance de ces pays, en jouissant d’une sympathie qui ne s’est jamais estompée.

 

mattei1.jpgLa politique autonome de l’ENI s’est adressée surtout aux pays du Proche et du Moyen Orient et d’Afrique du Nord. L’Iran fut évidemment l’exemple le plus prestigieux dans le palmarès du groupe italien, qui était parvenu à s’insinuer dans un pays considéré comme chasse gardée et exclusive de la « British Petroleum ». Mais il y eut aussi l’Egypte de Nasser : elle fut le premier pays avec lequel Mattei amorça des rapports stables et durables, dès 1956. Il faut aussi évoquer l’appui financier qu’accorda Mattei au Front de Libération National algérien, ce qui irrita bien entendu la France, dont la classe dirigeante s’était faite à l’idée de perdre ses territoires d’Outremer. Les rapports entre l’ENI et le FNL étaient de fait assez étroits : le chef politique du mouvement indépendantiste algérien, Mohammed Ben Bella, avait un appartement à sa disposition à Rome.

 

L’ENI se présentait donc comme une réalité autonome qui, au nom des intérêts supérieurs de l’Italie, considérait que l’Europe possédait un prolongement naturel sur la rive méridionale de la Méditerranée, ce qui avait pour corollaire de rompre les équilibres consolidés dans toute la région. L’activisme de Mattei rencontrait l’hostilité d’Israël qui tolérait mal de voir l’ENI contribuer à la croissance économique de pays comme l’Egypte ou l’Algérie, et cela tout en maintenant leur autonomie politique. L’origine de l’attentat perpétré contre lui le 27 octobre 1962, lorsqu’une bombe placée dans son avion explosa dans le ciel au-dessus de Bascapè, doit sans doute être recherchée dans l’hostilité que lui vouait ce petit Etat, né quinze ans plus tôt. Une hostilité à son endroit que l’on retrouvait également au sein même de l’ENI. Quelques mois avant sa mort, Mattei avait obligé Eugenio Cefis, vice-président de l’ENI et président de l’ANIC, à abandonner le groupe, où il était considéré comme le leader d’un courant jugé trop proche des intérêts atlantistes et israéliens. Ce même Cefis, ancien bras droit de Mattei dans les rangs des partisans catholiques lors de la guerre civile italienne (1943-45), fut appelé à diriger l’ENI immédiatement après la mort de Mattei. Il existe d’autres hypothèses sur l’attentat mais elles sont peu crédibles. On a évoqué une intervention des « Sept Sœurs » mais Mattei avait trouvé avec elles une sorte de « gentlemen agreement ». On a aussi évoqué la main de la CIA qui aurait jugé Mattei comme un « élément déstabilisateur », surtout en ces jours où sévissait la crise des missiles soviétiques à Cuba. Il y a lieu de faire montre du même scepticisme quand on parle d’un rôle possible des compagnies pétrolières françaises qui avaient de gros intérêts en Algérie. De même, il est peu plausible que la mafia sicilienne ou la Cosa Nostra américaine aient agi pour le compte de tiers. Toutes ces hypothèses ont le désavantage de voir seulement la partie émergée de l’iceberg et de ne pas voir le problème dans toute sa substantialité. L’attentat de Bascapè a mis fin à l’existence d’une personnalité unique, d’un homme qui s’était montré capable de percevoir réalités et potentialités là où la plupart des autres ne voyaient ni n’imaginaient quoi que ce soit.

 

Filippo GHIRA.

(article tiré du site http://rinascita.eu/ , 23 février 2010).

vendredi, 10 septembre 2010

Fin du pétrole: l'armée allemande sonne l'alarme

Fin du pétrole : l’armée allemande sonne l’alarme

Après le Pentagone, la Bundeswehr publie un rapport alarmiste quant aux conséquences, pour l’économie et la paix dans le monde, d’un pic pétrolier qui serait imminent.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

L’article paru cette semaine dans l’hebdomadaire allemand Der Spiegel n’a pas échappé à Matthieu Auzanneau, collaborateur de Terra eco, qui chronique « le début de la fin du pétrole » sur son blog Oil Man. Le magazine s’est en effet procuré un rapport du département d’analyse du futur de la Bundeswehr, l’armée allemande, qui estime qu’il est probable que que « Peak Oil se produise aux alentours de l’année 2010, et qu’il ait des conséquences sur la sécurité dans un délai de quinze à trente ans ».

Ce pic pétrolier, c’est à dire le jour à partir duquel la production mondiale de pétrole amorcera un déclin inéluctable, entraînera une flambée des prix, et « à moyen terme, le système économique global et chaque économie de marché nationale pourrait s’effondrer », estiment les analystes de l’armée allemande. « Des pénuries de biens vitaux », notamment de nourriture, pourraient apparaître, ajoutent-ils, conduisant à la mise en place de « politiques de rationnement ». Les auteurs du rapport s’inquiètent aussi des conséquences géopolitiques de la raréfaction du pétrole qui pourrait favoriser la montée des extrémismes. Dans ce contexte, « les États qui dépendent des importations de pétrole » seront obligés « de montrer plus de pragmatisme à l’égard des pays producteurs », estiment-ils, en se montant, dans le cas de l’Allemagne par exemple, plus souple à l’égard de la Russie ou plus dur vis-à-vis d’Israël.

Ce rapport de la Bundeswehr intervient dans la foulée de celui publié en mars dernier par l’état-major interarmées américain et qui prévoyait une « crise énergétique sévère » d’ici à 2015. « Du pétrole, il n’y en aura pas pour tout le monde » titrait alors Terra eco. Et comme toujours ce sont ceux qui sont déjà les plus démunis qui en feront d’abord les frais.

Cliquez sur l'image pour l'agrandir

Cliquez sur l'image pour l'agrandir

Cliquez sur l'image pour l'agrandir

Terra economica

jeudi, 19 août 2010

Iran: les Etats-Unis préoccupés par les investissements chinois

hu-jintao-et-ahmadinejad.jpg

 

Ferdinando CALDA :

 

Iran : les Etats-Unis préoccupés par les investissements chinois

 

Les rapports commerciaux sino-iraniens et russo-iraniens risquent d’annuler l’effet des sanctions américaines

 

Le maillage des sanctions infligées à l’Iran par les Etats-Unis et la « communauté internationale » n’est pas étanche, ce qui fait enrager les bellicistes américains et donne matière à penser aux Israéliens, qui, en attendant, fourbissent leurs armes pour toute intervention militaire éventuelle.

 

Vendredi 30 juillet 2010, la Chine, à son tour et après la Russie, a critiqué la décision de l’UE d’imposer de nouvelles sanctions unilatérales contre l’Iran, sanctions qui s’ajoutent à celles déjà votées par l’ONU. « La Chine désapprouve les sanctions décidées unilatéralement par l’UE à l’encontre de l’Iran. Nous espérons que les parties intéressées continueront dans l’avenir à opter pour la voie diplomatique afin de chercher à résoudre de manière appropriée les différends, par le biais de discussions et de négociations », a déclaré Jiang Yu, le porte-paroles du ministère chinois des affaires étrangères.

 

Dans le sillage des décisions prises ces jours-ci par les Etats-Unis, en effet, l’Union Européenne ainsi que le Canada et l’Australie ont adopté une série de sanctions unilatérales sans précédent contre l’Iran, sanctions qui frappent surtout le secteur énergétique du pays. Le ministre iranien des affaires étrangères, Manouchehr Mottaki, a souligné que cette décision, une fois de plus, démontre que « l’Europe est sous l’influence des Etats-Unis dans toutes ses décisions de politiques extérieures ».

 

Plus grave : ces mesures restrictives prises récemment par l’UE déplaisent fortement à la Russie et à la Chine qui, à la tribune de l’ONU, avaient demandé d’éviter toutes sanctions « paralysantes » contre la République Islamique d’Iran, particulièrement dans le secteur énergétique, lequel constitue le véritable talon d’Achille de Téhéran. Tant Moscou que Beijing entretiennent des rapports commerciaux avec l’Iran et n’ont aucune intention d’y renoncer. La position prise par les Russes et les Chinois préoccupe fortement la Maison Blanche, vu qu’elle ébranle considérablement toutes les tentatives entreprises pour isoler l’Iran.

 

« Le fait que Beijing fasse des affaires avec Téhéran est pour nous un motif de grande préoccupation », confirme Robert Einhom, conseiller spécial du département d’Etat américain pour la non prolifération et le contrôle des armements.

 

Ce fonctionnaire américain a par ailleurs annoncé qu’une délégation américaine se rendra en Chine très bientôt, ainsi qu’au Japon (qui, lui aussi, au cours de ces derniers mois, a entamé une collaboration avec l’Iran pour la construction de centrales nucléaires antisismiques). Cette délégation se rendra également en Corée du Sud et dans les Emirats arabes du Golfe car ces Etats exportent énormément vers l’Iran. Le but de la délégation est évidemment de faire accepter par toutes ces puissances les sanctions contre l’Iran décidées par Washingto (ndt : et entérinées benoîtement par ses satellites).

 

Plus particulièrement, cette délégation aura pour tâche de rappeler à Beijing que les nouvelles sanctions approuvées par les Etats-Unis, l’Union Européenne, le Canada et l’Australie impliquent que toutes les entreprises étrangères qui coopèreront avec le secteur énergétique iranien seront également sanctionnées. Or, actuellement, les entreprises chinoises, auxquelles la délégation américaine fait implicitement référence, sont en train d’investir de « manière agressive » dans ce secteur-là et non dans d’autres.

 

Du reste, le pétrole et le gaz iraniens  —qui pourraient arriver en Chine via le Pakistan, après qu’Islamabad ait noué d’importants accords en ce sens avec Téhéran—  représentent un enjeu important pour une Chine en croissance continue, de plus en plus demanderesse en matières énergétiques.

 

« Les Chinois prétendent avoir des exigences importantes en matière de sécurité », explique Einhom, qui, toutefois, invite Beijing « à revoir ses priorités ».

 

Entretemps, la République Islamique d’Iran cherche de nouvelles collaborations pour échapper aux sanctions et à l’étranglement voulu par Washington. Ces dernières semaines, le vice-ministre iranien des pétroles, Javad Oji, a eu une longue entrevue avec une délégation irakienne afin de préparer un accord sur l’exportation de gaz iranien vers l’Irak. Les Iraniens espèrent qu’il y aura très bientôt un gazoduc partant d’Iran pour aboutir en Irak qui, ultérieurement, pourra être étendu au territoire syrien et, de là, aboutir à la Méditerranée et servir à l’alimentation énergétique de l’Europe.

 

Ferdinando CALDA (f.calda@rinascita.eu ).

(article tiré de « Rinascita », Rome, 31 juillet/1 août 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

 

 

 

 

lundi, 02 août 2010

L'antagonisme Chine/Etats-Unis sur le continent africain

congo-00-africom_emblem.jpg

 

 

Federico DAL CORTIVO:

 

L’antagonisme Chine/Etats-Unis sur le continent africain

 

Avec la création de l’AFRICOM, la thalassocratie américaine veut transformer le Continent noir en une arrière-cour de Washington !

 

Les Etats-Unis, sous « l’Administration Bush », n’ont plus cessé de considérer l’Afrique comme un futur « espace vital », destiné à fournir des matières premières, dont du pétrole, indispensables pour l’économie américaine qui est constamment à la recherche de nouveaux territoires à exploiter sans vergogne, aujourd’hui plus que jamais, vu l’actuelle crise économique et le recul de l’hégémonie américaine sur l’Amérique latine, son arrière-cour traditionnelle. Mais la volonté de Washington d’étendre son influence en Afrique a aussi pour objectif de s’opposer à la pénétration chinoise sur ce continent, qui se montre de plus en plus importante. Beijing entretient des rapports commerciaux étroits et de grande ampleur avec de nombreux pays africains, rapports qui, eux aussi, s’avèrent de plus en plus nécessaire pour une économie chinoise en pleine croissance.

 

Dans le passé, la présence militaire américaine s’était manifestée en Afrique via l’ « US European Command » qui prenait sous son aile tous les pays africains ; ensuite cette compétence fut transférée au « Strike Command », devenu en 1971 le « Readiness Command » et puis, successivement, au « CentCom » et au « Pacific Command ». Il a fallu attendre 2007 pour que le Pentagone annonce la création d’un commandement tout entier consacré à l’Afrique seule.

 

La création de ce nouveau commandement a permis de définir clairement les nouvelles structures militaires qui expriment la volonté bien déterminée de Washington de renforcer considérablement sa présence militaire et de se doter, en Afrique, de capacités de riposte rapide.

 

Placé sous le commandement du Général William E. « Kip » Ward, l’Africom comprend toutes les armes formant traditionnellement les forces armées : l’armée de terre, la marine, l’aviation et les Marines, dont les postes de commandement se situent actuellement en Italie, à Vicenza (US Army Africa Setaf), à Naples (US Navy Africa), et en Allemagne, à Ramstein (US Air Force Africa), à Boeblingen (US Marine Corps Africa) et à Stuttgart (Special Operation Command Africa) ; enfin, à ces postes installés en Italie et en Allemagne, s’ajoute le Camp Lemonier à Djibouti en Afrique orientale, où se trouve également le « Combined Joint Task Force – Horn of Africa ». Le Pentagone examine actuellement la possibilité de mettre à la disposition de l’Africom d’autres forces, afin d’accroître sa vitesse opérationnelle : 1000 Marines aéroportables, capables d’être déployés rapidement sur divers théâtres d’opération. Toujours sous le prétexte de la « lutte contre le terrorisme international », Washington a renforcé ses liens militaires et diplomatiques avec plusieurs Etats africains, en suivant, dans cette optique, trois lignes directrices principales : la diplomatie, la chose militaire et le développement. Ce dernier sert, comme d’habitude, à lier l’Etat en question au modèle économique américain, afin d’un faire un vassal, pompeusement baptisé « allié ».

 

Aux côtés du Général Ward, on trouvera l’ambassadeur Anthony Holmes afin de mieux coordonner les rapports entre pays africains et, par conséquent, de s’assurer une mainmise toujours plus forte sur le Continent noir, considéré dorénavant comme « stratégique ». Tout cela correspond bel et bien à ce que l’on peut lire dans le « Quadrennial Defence Review » de février 2010, qui prévoit une augmentation des dépenses militaires de 2%, avec une somme totale allouée de 708 milliards de dollars pour 2011 (y compris les 160 milliards de dollars prévus pour les guerres d’Irak et d’Afghanistan). Pour 2010, l’Africom pourra s’attendre à recevoir 278 millions de dollars pour les opérations et 263 autres millions de dollars pour la logistique, le développement de nouvelles structures et d’autres moyens divers.

 

La machine de guerre américaine s’apprête aussi à débarquer en force en Afrique, où elle avait déjà, à intervalles réguliers, organisé des manœuvres militaires communes avec le Mali, le Nigéria, le Maroc et le Sénégal.

 

Les raisons géopolitiques, qui président à ce nouveau projet africain des Etats-Unis, doivent être recherchées dans le poids de plus en plus lourd que pèse Beijing en Afrique, grâce à une politique de non ingérence dans les affaires intérieures des pays concernés, à la différence de la pratique américaine qui a toujours préféré contrôler étroitement les « gouvernements amis » et les manipuler à loisir.

 

Après avoir adopté le « socialisme de marché », en tant que version revue et corrigée du communisme, la Chine s’est affirmée avec force sur la scène internationale, mue par l’impératif d’acquérir matières énergétiques en grandes quantités et à bon prix. On se rappellera les bonnes relations qu’entretient Beijing avec certains pays d’Amérique latine, surtout le Venezuela et le Brésil ; ces relations se déroulent de manière paritaire, mode de travail qui ne trouble en aucune façon le cours nouveau qu’a emprunté ce continent sud-américain, comme on peut le constater en observant les accords pris entre certains de ces pays d’Amérique ibérique, d’une part, et la Russie, l’Inde, l’Iran et l’Afrique du Sud, d’autre part.

 

Cependant la partie la plus importante se joue en Afrique où d’immenses richesses minières et pétrolières sont encore disponibles. Le Dragon chinois est présent sur place, avec des investissements dépassant les 20 milliards de dollars pour la réalisation d’infrastructures importantes comme des ponts, des centrales électriques et des routes.

 

Les rapports entre la Chine, d’une part, l’Angola et le Soudan, d’autre part, sont optimaux ; d’autres accords ont été conclu avec l’Algérie et l’Egypte, où 150 entreprises chinoises se sont implantées. En Afrique du Sud, les Chinois ont acquis la « Standard Bank », principale banque de ce pays riche en minerais, dont l’or et le diamant.

 

Au Soudan, la découverte de riches gisements de pétrole a attiré l’attention de la « China Petroleum Company », ce qui fait que 8% du pétrole consommé en Chine vient désormais de ce pays africain. En Algérie, la « China Petroleum & Chemical Corporation » et la « China National Petroleum » ont pris en main la gestion des puits les plus importants. A la liste, on peut ajouter le Nigéria, troisième fournisseur africain de pétrole à la Chine ; ensuite, le Sénégal, la Tchad, la Guinée, qui possèdent aussi  des gisements de pétrole, et le Cameroun, où l’on trouve et du gaz naturel et du pétrole.

 

Aujourd’hui donc, force est de constater que les fronts sur lesquels sont déployées les forces armées des Etats-Unis augmentent en nombre au lieu de diminuer ; dans un tel contexte, la thalassocratie américaine ne peut rien faire d’autre que de mettre la main sur les ressources du « Tiers Monde » (comme il était convenu de l’appeler). Pour y parvenir, Washington doit déployer de plus en plus de troupes, d’avions et de navires aux quatre coins du globe. Ces efforts ne laissent pas indifférents les Américains eux-mêmes car, pour réaliser cette politique d’omniprésence, la Défense engloutit des sommes gigantesques : il suffit d’analyser les chiffres ; entre 2001 et 2011, le bilan du Pentagone a augmenté de 40% et, si nous prenons en compte également les frais engendrés par les guerres, nous arrivons au chiffre de 70%. Nous sommes dont dans un état de guerre permanente, même si cette guerre n’a jamais été déclarée ; en effet, 400.000 hommes de l’armée américaine sont déployés sur les divers théâtres opérationnels de tous les continents. On le voit : de Bush à Obama, il n’y a eu aucun changement.

 

Federico DAL CORTIVO.

(article paru dans « Rinascita », Rome, 13 juillet 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

 

 

dimanche, 01 août 2010

Deutschland bald im Rohstoff-Krieg?

50_rohstoff_480_360_1.jpg

 

Deutschland bald im Rohstoff-Krieg?

Udo Schulze / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Hinter den Kulissen der europäischen Alltagspolitik zeichnen Experten in den »Think Tanks« (zu Deutsch etwa: Denkfabriken) von Ministerien und Regierungen ein düsteres Zukunftsbild. Dabei geht es allerdings weder um Umweltkatastrophen noch um die beängstigende Altersentwicklung der Bevölkerung. Was die Polit-Strategen befürchten, ist eine zunehmende Rohstoffknappheit in Europa, der mit eigenen Mitteln kaum begegnet werden kann. Als stärkste Industrienation der EU ist Deutschland von der fatalen Entwicklung besonders betroffen. Müssen wir deswegen bald Kriege um Rohstoffe führen?


 


 

 

 

 

Nach einem Bericht der »Financial Times« benötigen die Staaten der EU tagtäglich 14 Rohstoffe, die im Boden dieser Länder nicht oder nicht ausreichend vorkommen und deswegen eingeführt werden müssen. Deutschland braucht vor allem Gallium, Neodym, Indium und Germanium zur Herstellung von Lasertechnik, zur Produktion von Photovoltaik und Brennstoffzellen. Doch diese Stoffe lagern zum größten Teil in Russland, China und afrikanischen Ländern. Allesamt Staaten, die mit diesen reichen Bodenschätzen nicht nur Geschäfte, sondern auch knallharte Politik machen. Ihr Vorteil: Sie verfügen nicht nur über die begehrten Stoffe, sondern sind auch von geostrategischer Bedeutung. Nach Schätzungen des Bundeswirtschaftsministeriums wird sich die Nachfrage nach den Rohmaterialien innerhalb der nächsten 20 Jahre verdreifachen. Damit, so glauben Experten, könne es schnell zu militärischen Konflikten kommen, da Staaten außerhalb der EU an den knapper werdenden Schätzen ebenfalls teilhaben wollen. Hinzu kommt die relative militärische Schwäche Europas.

Deswegen hat die Bundesregierung inzwischen mit der »Deutschen Rohstoffagentur« in Hannover ein Instrument geschaffen, das Wege zum kostengünstigen Zugriff auf Rohstoffe in aller Welt erarbeiten soll. Hauptansprechpartner in diesem Kampf um die Schätze der Erde sind die Chinesen, die sich ihrer Rolle sehr bewußt sind und bereits Ausfuhrquoten und Ausfuhrzölle für eigene Rohstoffe erhoben haben, um den Aufbau der heimischen Industrie zu sichern. Nach einem Bericht des »Handelsblatt« vom vergangenen Monat droht den Europäern eine Niederlage im Wettrennen um die Stoffe. Während die USA sich ihre Ansprüche in Afghanisatan sicherten und die Chinesen in Afrika tätig würden, hinke Europa hinterher, heißt es. Aus diesem Grund ging Berlin jüngst zum Angriff über und verklagte zusammen mit anderen EU-Staaten China bei der Welthandelsorganisation WTO, damit die Exportbeschränkungen aus dem Reich der Mitte aufhören.

Gleichzeitig ist man auf der Suche nach strategichen Partnern in aller Welt. So verhandelt die EU mit der Afrikanischen Union darüber, freien Zugang zu den Rohstoffen des Kontinents zu bekommen. Im Gegenzug soll es Entwicklungshilfe geben, auch in Form von Aus- und Weiterbildung der Fachkräfte vor Ort. Ob dabei das Engagement der Nehmerländer in den Bereichen Menschenrechte und Anti-Korruption auf der Strecke bleibt, ist abzuwarten. Den deutschen Industrieverbänden jedenfalls reichen die Initiativen der Politik nicht. Sie befürchten für die nahe Zukunft eine erhebliche »Rohstofflücke«, nicht nur bei den Bodenschätzen. Laut »Handelsblatt« erwartet Ulrich Grillo vom Verband der deutschen Industrie demnächst auch eine Versorgungslücke bei Metallschrotten.

Sollte es in Zukunft zu bewaffneten Konflikten um Rohstoffe kommen, wird der Europäischen Union der Preis für ihre momentane Unterstützung der USA im Irak und in Afghanistan präsentiert werden. Während sie zur Sicherung der amerikanischen Ansprüche in den Krieg gezogen ist, reichen ihre militärischen Kräfte kaum aus, um eine weitere Konfrontation durchzustehen. Auf Hilfe durch die USA kann wohl kaum gerechnet werden. Denn wie fasste der CDU-Politiker und ehemalige Staatssekretär im Bundesverteidigungsministerium, Friedbert Pflüger, die Situation in der Zeitschrift »Internationale Politik« kürzlich doch zusammen: »Nationalismus, Kolonialismus und Imperialismus des 19. Jahrhunderts kehren zurück.«

 

samedi, 31 juillet 2010

Die neue geopolitische Bedeutung von Lubmin

Lubmin.jpg

 

Die neue geopolitische Bedeutung von Lubmin

F. William Engdahl / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

In der Nachkriegsgeschichte der Bundesrepublik verschwinden die deutschen Bundeskanzler zumeist in der Versenkung, sobald sie politische Ziele verfolgen, die zu stark von Washingtons globalen Absichten abweichen. Im Fall von Gerhard Schröder gab es gleich zwei unverzeihliche »Sünden«. Die erste war 2003 sein offener Widerstand gegen die Irak-Invasion. Die zweite, strategisch sehr viel schwerwiegendere, war seine Verhandlung mit Putin über den Bau einer neuen großen, direkt von Russland nach Deutschland führenden Erdgas-Pipeline, die das Hoheitsgebiet des damals feindlich gesinnten Polen umgehen sollte. Heute hat der erste Abschnitt dieser »Nord-Stream«-Gaspipeline das Ostseebad Lubmin in Mecklenburg-Vorpommern erreicht. Lubmin wird damit zu einem geopolitischen Dreh- und Angelpunkt für Europa und Russland.

 

 

 

Tatsächlich verdankte Gerhard Schröder seinen Posten dem stillen, aber nachdrücklichen Rückhalt durch US-Präsident Clinton, der nach Angaben unserer Quellen in der deutschen SPD verlangt hatte, eine rot-grüne Koalition müsse im Fall ihrer Wahl 1999 einen Krieg gegen Serbien unterstützen. Washington wollte ein Ende der Ära Helmut Kohl. Doch 2005 verhielt sich Schröder nach Washingtons Geschmack viel zu »deutsch«, deshalb soll sich die Regierung Bush vordringlich darum bemüht haben, einen möglichen Amtsnachfolger aufzubauen.

Seine letzte Amtshandlung als Bundeskanzler war die Genehmigung der riesigen Gaspipeline Nord Stream, die von der russischen Hafenstadt Vyborg nahe der finnischen Grenze nach Lubmin verläuft. Sofort nach dem Ausscheiden aus dem Amt des Bundeskanzlers wurde Schröder Vorsitzender des Aktionärsausschusses der Nord Stream AG, einem Joint Venture des staatlichen russischen Energiekonzerns Gazprom und den deutschen Unternehmen E.ON Ruhrgas und BASF-Wintershall. Er verstärkte in der Folgezeit auch seine öffentlich geäußerte Kritik an der US-Außenpolitik, beispielsweise beschuldigte er den US-Marionettenstaat Georgien, 2008 den Krieg gegen Südossetien begonnen zu haben.

2006 verglich der polnische Außenminister Radoslaw Sikorski, ein enger Vertrauter Washingtons und bekennender Neokonservativer, das Nord-Stream-Konsortium mit dem 1939 geschlossenen Pakt zwischen den Nazis und der Sowjetunion. Seit dem Zusammenbruch der Sowjetunion ist die Politik Washingtons darauf gerichtet, Polen als Keil zu benutzen, um eine engere wirtschaftliche und politische russisch-deutsche Zusammenarbeit zu verhindern. Das ist auch der Grund für die Entscheidung, in Polen amerikanische Raketenabwehrsysteme und jetzt auch Patriot-Raketen zu stationieren, die gegen Russland gerichtet sind.

Trotz vehementen politischen Widerstands aus Polen und anderen Ländern erreichte Schröders Nord-Stream-Projekt in diesem Monat das erste wichtige Ziel, als der erste der beiden Rohrstränge plangemäß in Lubmin das Festland erreichte. Wenn später in diesem Monat auch der zweite Rohrstrang an Land gezogen wird und die Pipeline 2011 den Betrieb aufnimmt, dann wird sie die größte unterseeisch verlaufende Pipeline der Welt sein, die jährlich 55 Milliarden Kubikmeter Gas quer durch Europa transportiert. Die unterseeische Route verläuft durch die Hoheitsgewässer und Wirtschaftszonen Finnlands, Schwedens, Dänemarks und Deutschlands, sie umgeht das Gebiet Polens und der baltischen Staaten Estland, Lettland und Litauen.

Von der Übernahmestation Lubmin aus wird die OPAL-Anbindungsleitung 470 km durch Mecklenburg-Vorpommern, Brandenburg und Sachsen bis zur tschechischen Grenze verlaufen. Andere westliche Pipelinerouten werden russisches Gas über eine bestehende Pipeline nach Holland, Frankreich und Großbritannien transportieren, was die Energie-Bindungen zwischen der EU und Russland erheblich stärken wird – eine Entwicklung, die Washington ein Dorn im Auge ist. Die französische GDF Suez, ehemals Gaz de France, hat gerade neun Prozent der Anteile an der Nord Stream AG gekauft, der niederländische Gasinfrastrukturkonzern N.V. Nederlands Gasunie besitzt ebenfalls neun Prozent. Das Projekt ist also in der EU gut verankert – eine große geopolitische Leistung der Regierung Putin-Medwedew angesichts starken Widerstands der USA. Nord Stream verfügt zurzeit über zwei langfristige Verträge über die Lieferung von Erdgas an Dänemark, Frankreich, Belgien, die Niederlande und Deutschland.

Die Gazprom verfolgt noch ein zweites großes Pipeline-Projekt, die South Stream, über die Gas von der russischen Schwarzmeerküste unter dem Schwarzen Meer hindurch nach Bulgarien und weiter nach Italien transportiert werden soll. Washington hat auf die EU-Länder und die Türkei erheblichen Druck ausgeübt, eine alternative Gaspipeline, die Nabucco, zu bauen, die Russland umgehen würde. Bisher findet Nabucco in der EU jedoch wenig Unterstützung, es gibt auch nicht genügend Gas, um die Pipeline zu füllen. Aus geopolitischer Sicht würde die Fertigstellung von South Stream die Länder der EU und Russland stärker zusammenschweißen – ein geopolitischer Albtraum für Washington. Seit Ende des Zweiten Weltkriegs war die Politik der USA darauf gerichtet, Westeuropa zu beherrschen, darum wurde zunächst der Kalte Krieg mit der Sowjetunion angefacht und nach 1990 die NATO-Osterweiterung bis an die Grenzen Russlands betrieben. Ein zunehmend unabhängiges Europa, das sich gen Osten statt über den Atlantik orientiert, bedeutet eine empfindliche Niederlage für die fortgesetzte Herrschaft der »einzigen Supermacht« USA. Damit wird das idyllische Seebad Lubmin im Nordosten Deutschlands de facto zu einem wichtigen Dreh- und Angelpunkt des geopolitischen Dramas zwischen Washington und Eurasien – ob sich die Einwohner dessen bewusst sind oder nicht.

 

dimanche, 13 juin 2010

Ölpest im Golf von Mexiko: eine "Halliburton"-Connection

le-gulf-stream.jpg

 

Ölpest im Golf von Mexiko: eine »Halliburton«-Connection

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 20. April starben bei einer Explosion der von der Ölgesellschaft BP betriebenen Bohrinsel »Deepwater Horizon« vor der Küste von Louisiana im Golf von Mexiko elf Menschen, wenig später sank überraschend die gesamte Bohrinsel. Durch das Unglück wurde die bislang größte Ölpest der Geschichte ausgelöst – wahrscheinlich um Größenordnungen schlimmer, als bei der Havarie der »Exxon Valdez« 1989 – und noch ist sie nicht unter Kontrolle. BP beteuert, die Sicherheitsvorkehrungen seien ausreichend gewesen, der Fehler müsse an anderer Stelle liegen. Eine genauere Untersuchung fördert hingegen einige sehr bezeichnende Dinge im Zusammenhang mit der Ölpest zutage.

Bemerkenswert ist zunächst einmal die Doppelzüngigkeit von BP, eine der Großen Vier angloamerikanischen Ölgesellschaften, die zusammen mit Goldman Sachs und den Wall-Street-Banken de facto den gesamten weltweiten Ölmarkt beherrschen. Der Chef von BP-Amerika, Lamar McKay, verteidigte zunächst öffentlich im US-Fernsehen die Sicherheitsvorkehrungen seines Unternehmens und erklärte, der »Ausfall eines einzelnen Bauteils« habe zu der massiven Ölpest an der Golfküste geführt. Laut einem Sprecher habe es sich von dem von McKay erwähnten defekten Bauteil, welches das Desaster verursacht habe, um einen Bohrlochschieber, einen sogenannten Blow-Out-Preventer, gehandelt.

Während also der BP-Chef erklärt, verantwortlich sei ein defekter Blow-Out-Preventer, ein Bauteil bei einer Ölplattform, das im Falle einer Explosion oder eines anderen Unfalls das Austreten des Öls verhindern soll, sprach Salvin, der offizielle Unternehmenssprecher von BP, davon, die Ursache der Explosion sei ungeklärt und betonte: »Wir schließen nichts aus.«

Könnte es sein, dass es bei der schlimmsten Ölpest der Geschichte einen politisch brisanten Hintergrund gibt?

Es stellt sich nämlich heraus, dass die BP – vormals British Petroleum, ein Unternehmen mit engen Verbindungen zum ehemaligen britischen Premierminister Tony Blair, das diesen 2003 darin bestärkt hatte, George W. Bushs Irakkrieg zu unterstützen – seit Jahren mit den amerikanischen Aufsichtsbehörden im Streit liegt, und zwar genau hinsichtlich der Frage, wie viele Sicherheitsstufen erforderlich sind, um einen Unfall bei einer Tiefseebohrung wie in diesem Fall zu verhindern.

In einem Brief an das US-Innenministerium, das für die Aufsicht über Ölbohrungen vor der amerikanischen Küste verantwortlich ist, erhob BP 2009 Einwände gegen neue Bestimmungen, die die Regierung zur Verbesserung der Sicherheitsstandards auf Ölplattformen vorgeschlagen hatte. BP schrieb damals an die US-Regierung: »Wir sind der Ansicht, dass die derzeitige Sicherheits- und Umweltstatistik der Ölindustrie beweist, dass die freiwilligen Programme … auch weiterhin erfolgreich sind.« Was wohl so viel heißen sollte wie: »Vertrauen Sie uns …«

BPs dubiose Geschichte seit dem Ersten Weltkrieg

Wie ich in meinem Buch Mit der Ölwaffe zur Weltmacht darlege, durchziehen Intrigen, Bestechung und kriminelle Machenschaften die gesamte Geschichte von BP.

Als die britische Elite im Jahre 1914 die Entwicklung in Gang setzte, die direkt zum Ersten Weltkrieg führte, hatte das Unternehmen die Hand im Spiel. Das Deutsche Reich und die deutsche Industrie zusammen mit der Deutschen Bank standen kurz vor der Vollendung des ambitioniertesten Eisenbahn-Infrastrukturprojekts der damaligen Welt – einer Eisenbahn-Verbindung von Berlin nach Bagdad.

Die britische Royal Navy, deren Marineminister ein junger Politiker namens Winston Churchill war, betrachtete diese Bagdad-Bahn, die 2003 von amerikanischen und britischen Bomben endgültig zerstört worden ist, als tödliche Bedrohung für Großbritanniens neue Ölquellen in Persien (Iran) und Kuwait. BP war ursprünglich unter dem Namen Anglo-Persian Oil Company als staatliches britisches Unternehmen gegründet worden. Churchill hatte die Marine soeben vom Kohlebetrieb auf die effizientere und leichtere Ölbefeuerung umgestellt, London betrachtete die Bagdad-Bahn als Bedrohung für die »nationale Sicherheit« des Empires.

In den 1950er-Jahren überredete die BP den US-Geheimdienst CIA, sich an einem Putsch zum Sturz des demokratisch gewählten iranischen Premierministers Mohammed Mossadegh, der BP im Iran verstaatlicht hatte, zu beteiligen. BP ist auch die wichtigste Ölgesellschaft bei dem Ölprojekt Kaspisches Meer–Baku. Dieses Projekt ist wesentlicher Bestandteil der amerikanisch-britischen Strategie, die Vorherrschaft russischer Pipelines in den ehemals zur Sowjetunion gehörenden zentralasiatischen Republiken durch den Bau der neuen westlichen Pipeline Baku–Tiflis–Ceyhan zu brechen. Um zu gewährleisten, dass diese Pipeline ausschließlich über Territorien von anti-russischen Staaten verläuft, inszenierte der US-Geheimdienst 2003 in Tiflis einen Regimewechsel, die sogenannte Rosen-Revolution. Dadurch wurde Washingtons Marionette Michail Saakaschwili an die Macht gebracht, der zuvor versprochen hatte, Georgien in die NATO zu führen – eine echte Provokation für Moskau und die Sicherheit Russlands. Georgien bedeutete für Washington und London die einzige Option, die nicht unter potenziellem Einfluss Russlands stand, sofern ein neues amerikafreundliches Regime errichtet werden konnte.

2008 stiegen Öl-Futures auf den Rekordpreis von 147 Dollar pro Barrel, bevor sie im Gefolge der Nachrichten über einen weltweiten Finanz-Tsunami nach dem Bankrott der Investmentbank Lehman Brothers im September 2008 wieder abstürzten. Nach Aussagen gut informierter Händler am Ölmarkt war BP zusammen mit Goldman Sachs hinter den Kulissen maßgeblich an der Manipulation des Ölpreises auf 147 Dollar beteiligt, um den britischen und den Wall-Street-Banken sowie auch BP einen massiven finanziellen Gewinn zu verschaffen, während sich der Finanzkrach weiter verschärfte.

Spielt Halliburton eine Rolle?

Der wahre Grund dafür, dass eine ganze Ölbohrinsel gesunken ist – immerhin ein riesiges, hochentwickeltes Ingenieurs-Bauwerk von der Größe eines Häuserblocks in einer Großstadt – ist noch nicht ermittelt, doch inzwischen ist ein höchst beunruhigendes Element bekannt geworden, nämlich, welche Rolle die Halliburton Corp., eines der korruptesten Unternehmen auf der ganzen Welt, bei der ganzen Sache spielt. Die Firma Halliburton, die noch bis vor Kurzem ihren Hauptsitz in George Bushs Heimatstaat Texas hatte, ist der größte Öl-Dienstleister der Welt und eines der größten Bauunternehmen weltweit. Ermittler der US-Regierung werfen Halliburton vor, Milliarden Dollars, welche die Firma ab 2003 für den Wiederaufbau des Irak erhalten hatte, »verloren« zu haben.

Ermittler, die die mögliche Ursache der massiven Ölpest im Golf von Mexiko untersuchten, konzentrieren sich auf die Rolle der Firma Halliburton, die dafür verantwortlich war, die Rohre unter Wasser einzubetonieren. Die Firma hat bestätigt, das Zementieren des Bohrlochs und der Rohre sei 20 Stunden vor der Explosion am 20. April abgeschlossen worden.

Am vergangenen Freitag haben die Abgeordneten Henry A. Waxman, Vorsitzender des Ausschusses für Energie und Handel im US-Repräsentantenhaus, und Bart Stupak, Vorsitzender des Unterausschusses für Aufsicht und Untersuchungen, in einem an David J. Lesar, den Vorstandsvorsitzenden von Halliburton, gerichteten Brief verlangt, Vertreter von Halliburton sollten bis zum 7. Mai sämtliche Dokumente bezüglich »der Möglichkeit oder des Risikos einer Explosion oder eines Ausbruchs auf der Bohrinsel Deepwater Horizon sowie den Status, die Adäquatheit, Überwachung und Inspektion der Zementierungsarbeiten« offenlegen.

Halliburton nennt es »verfrüht und unverantwortlich, über spezifische Ursachen zu spekulieren«. Vier Angestellte des Unternehmen waren zum Zeitpunkt des Unglücks auf der Bohrinsel stationiert.

»Halliburton hatte die Zementierungsarbeiten an der letzten Bohrlochauskleidung plangemäß beendet«, hieß es in einer äußerst vage formulierten Antwort. »Gemäß der anerkannten Praxis der Branche … wurden Test durchgeführt, die Unversehrtheit der Bohrlochauskleidung bestätigten.«

Seit der Explosion sind mehr als zwei Dutzend Sammelklagen gegen BP, gegen den Eigentümer der Bohrinsel Transocean Ltd. und gegen Halliburton eingereicht worden. BP »übernimmt die volle Verantwortung« für die Ölpest, man werde die Betroffenen angemessen entschädigen, teilte das Unternehmen mit.

Als es im August 2009 in der Timor-See vor Australien zu einem großen sogenannten Blowout kam, wurde Halliburton mangelnde Sorgfalt bei den Betonierungsarbeiten vorgeworfen. Eine entsprechende Untersuchung vor Ort ist noch im Gang.

Nach Ansicht von Experten verweist die zeitliche Nähe der Zementierungsarbeiten durch Halliburton zu der Explosion – nur ca. 20 Stunden danach – und die früheren Zementierungs-Probleme bei anderen Blowouts »auf die Firma als möglichen Schuldigen«. Der ehemalige Ölingenieur Robert MacKenzie erklärt: »Es ist wahrscheinlich, dass das Ausströmen des Gases an die Oberfläche etwas mit dem Zement zu tun hatte.« Genau dieses Gas hat wohl zu der gewaltigen Explosion geführt, die die Plattform zum Sinken brachte.

Auch die Regierung Obama verhält sich merkwürdig

Immer häufiger wird kritisiert, die Regierung Obama hätte gemeinsam mit BP mehr zur Eindämmung der Katastrophe unternehmen müssen. Um der offenen Kritik zu begegnen, sie habe zu spät adäquat reagiert, schickte die Obama-Regierung am Sonntag zwei Kabinettsmitglieder in die Sonntag-Talkshows im Fernsehen. Heimatschutzministerin Janet Napolitano sagte in Fox News Sunday, die Regierung habe »alle Mann an Deck« beordert, um die Ölpest zu bekämpfen. Was das allerdings konkret bedeutet, darüber äußerte sie sich nicht.

BP hatte im Februar 2009 bei der US-Regierung einen Plan zur Erkundung und eine Analyse der Auswirkungen auf die Umwelt eingereicht und dabei versichert, man könne ein Katastrophenszenario, ein »worst case scenario«, am Bohrort beherrschen. Als »worst case scenario« wurde in dem Dokument das Austreten von 162.000 Barrel pro Tag bei einem unkontrollierten Blowout bezeichnet – das sind etwa 25 Millionen Liter pro Tag. Derzeit treten deutlich mehr als 200.000 Barrel täglich aus. Wenn das Öl den Golfstrom erreicht und zu den Stränden Floridas wandert – und sich vielleicht sogar um die Südspitze des Bundesstaats herum auf die Ostküste ausbreitet –, dann droht nach Ansicht von Experten eine ökologische und ökonomische Katastrophe epischen Ausmaßes. Anwohner der Küstenregionen Louisianas beklagen sich bereits, BP behindere die Schutzmaßnahmen.

Öl an der Oberfläche ist nur ein Teil des Problems. Professor Ed Overton von der Louisiana State University, Chef des Risiko-Einschätzungs-Teams für den Fall einer Ölpest, befürchtet, das in das Bohrloch eingeführte Rohr könnte völlig einbrechen. Wenn das geschähe, gäbe es keine Warnung, die resultierende Springquelle könnte noch weit verheerender sein. »Wenn so etwas passiert, dann macht es KRABUMM … Wenn das Ding einbricht, dann haben wir einen wirklich großen Schlag.«

BP verweigert Angaben darüber, wie viel Öl sich unter der Plattform befindet, dies sei Firmengeheimnis. Immerhin wurde angedeutet, es seien mindestens »einige zehn Millionen Barrel«.

Obama hat alle neuen Probebohrungen vor der Küste einstweilen gestoppt, sofern die Bohrinseln nicht über neuartige Sicherheitsvorkehrungen verfügen, die eine neue Katastrophe verhindern.

Als wolle er der wachsenden Kritik begegnen, hat der Sprecher des Weißen Hauses, Robert Gibbs, einen Blog mit dem Titel Die Reaktion auf die Ölpest eingerichtet, in dem er beschreibt, was die Regierung seit der Explosion Tag für Tag unternommen hat, dabei fallen immer wieder Worte wie »sofort« oder »schnell«. Es wird behauptet, Obama hätte »schon sehr früh« alle zuständigen Behörden angewiesen, sämtliche verfügbaren Ressourcen auf das Unglück und die Ermittlung der Ursachen zu richten. Aha. Weitere Informationen folgen.

vendredi, 21 mai 2010

L'Arabia Saudita, l'Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

di Giovanni Andriolo

Fonte: eurasia [scheda fonte]


 
L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e culturale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista.

Analogie e differenze: un punto di partenza

Con la sua estensione di circa 1.700 km² e una popolazione di quasi 70 milioni di abitanti, l’Iran è uno dei Paesi più estesi e popolosi della regione vicino-orientale. L’Arabia Saudita supera l’Iran per estensione, raggiungendo circa i 2.250 km², ma presenta una popolazione inferiore, all’incirca 28 milioni di abitanti. I due Paesi risultano quindi essere tra i maggiori per estensione e, nel caso dell’Iran, popolosità di tutta la regione.

Entrambi i Paesi, poi, occupano un’importantissima area geografica, affiancando entrambi il Golfo Persico/Arabico (a cui, d’ora in poi, ci si riferirà come Golfo), anche se l’Arabia Saudita non si affaccia, come l’Iran, direttamente sull’importantissimo Stretto di Hormuz, passaggio d’ingresso per le navi nel Golfo stesso.

Dal punto di vista economico, i due Paesi basano la loro ricchezza sull’esportazione di materie prime: innanzitutto il petrolio, di cui l’Arabia Saudita detiene le riserve maggiori al mondo, mentre l’Iran si posiziona al terzo posto nella stessa classifica; ma anche gas, acciaio, oro, rame.

Entrambi i Paesi, poi, sono caratterizzati da un sistema politico forte, accentratore, di stampo religioso, che in Arabia Saudita prende le sembianze di un Regno, mentre in Iran si declina in una Repubblica Islamica.

Dal punto di vista culturale, entrambi i Paesi si configurano, per così dire, come Stati-guida della regione, essendo entrambi simbolo di due civiltà e di due culture storicamente importanti e forti.

Proprio su quest’ultimo punto nascono le prime divergenze tra i due Paesi: infatti l’Iran è la culla della civiltà persiana, storicamente affermata e radicata, e per niente disposta a vedersi superata dall’altra grande cultura che caratterizza l’Arabia Saudita, la civiltà araba. A questa prima divergenza culturale si affianca una divergenza religiosa, che vede nell’Iran il Paese-guida della corrente islamica sciita, sia per tradizione storica sia per numero di sciiti presenti nel Paese, mentre dall’altra parte, specularmente, la dinastia dei Saud che regna nell’Arabia Saudita si pone come centro di riferimento della corrente sunnita del mondo islamico.

Infine la posizione internazionale dei due Paesi, che attualmente vede da un lato l’Iran come il nemico più temibile di Israele e Stati Uniti, il primo dei cosiddetti “Stati Canaglia”, il Paese che con il suo piano di sviluppo del nucleare è sospettato di volersi dotare di potenti armi per minacciare la stabilità della regione; mentre dall’altro l’Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, un suo fondamentale interlocutore politico e commerciale, una colonna portante del sistema di mantenimento della stabilità nella regione.

Una breve storia dello scontro

La dinastia dei Saud appartiene alla corrente del Wahabismo islamico, una diramazione ultraortodossa del Sunnismo, e fin dalla fondazione del Regno Saudita ha sempre mantenuto un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell’Iran sciita e delle sue pretese di espansione militare e controllo della regione. Sia gli Wahabiti sia gli Sciiti continuano da sempre uno scontro ideologico religioso in cui ognuna delle correnti tenta di dimostrare l’infondatezza e l’inconsistenza dell’altra, in entrambi i Paesi. Infatti attualmente in Arabia Saudita circa il 15% della popolazione è di religione musulmana sciita, mentre in Iran circa il 10% della popolazione e sunnita. I rapporti tra i due Paesi si sono tuttavia mantenuti cordiali fino al 1979, anno in cui la Rivoluzione iraniana portò un cambio di regime nel Paese, trasformandolo in una Repubblica Teocratica. Il nuovo leader religioso Ruhollah Khomeini e gli uomini di governo iraniani criticarono aspramente il regime saudita, accusandolo di illegittimità. Dall’altra parte, il nuovo regime rivoluzionario insediatosi in Iran fu visto da parte dell’Arabia Saudita come un ulteriore pericolo per la stabilità della regione e per i propri possedimenti territoriali.

La prime avvisaglie di una guerra fredda tra i due Paesi si ebbero in occasione della Prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. L’Arabia Saudita, sebbene le sue relazioni con l’Iraq al tempo non fossero particolarmente strette, offrì a Saddam Hussein, sunnita, 25 miliardi di dollari per finanziare la guerra contro l’Iran, e spronò gli altri Stati arabi del Golfo ad aiutare finanziariamente l’Iraq. L’Iran rispose con minacce e con ricognizioni da parte della propria aviazione sul territorio saudita. Malgrado ciò, i due Paesi non interruppero in quel periodo le relazioni diplomatiche.

Prima della fine della guerra, però, accadde un evento che fece deteriorare fortemente le relazioni tra i due Paesi: nel 1987 infatti, durante il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita, un gruppo di pellegrini sciiti diede vita ad una protesta contro la dinastia saudita, causando una dura reazione da parte delle forze di sicurezza saudite, che uccisero circa 400 dimostranti, di cui più della metà di nazionalità iraniana. Di conseguenza, Khomeini rivolse forti accuse contro l’Arabia Saudita, l’Ambasciata Saudita a Tehran fu attaccata, furono presi in ostaggio alcuni diplomatici sauditi e uno di loro perse la vita. In quell’occasione furono interrotti i rapporti diplomatici tra i due Paesi e l’Arabia Saudita sospese la concessione di visti ai cittadini iraniani, impedendo loro in questo modo di effettuare l’annuale pellegrinaggio alla Mecca.

Dopo la fine della Prima guerra del Golfo, nel 1989, Iran e Arabia Saudita iniziarono lentamente a riavvicinarsi. Un impulso in questo senso fu dato dagli avvenimenti della Seconda guerra del Golfo, iniziata nel 1990, quando Saddam Hussein occupò con il proprio esercito il Kuwait. Iran e Arabia Saudita percepirono l’espansionismo iracheno come un forte pericolo per la propria integrità territoriale e per i propri pozzi petroliferi, per cui criticarono aspramente l’Iraq e in questo si avvicinarono notevolmente, arrivando a ristabilire relazioni diplomatiche nel 1991. In quell’anno le autorità saudite concessero a 115.000 pellegrini iraniani il visto per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca.

Negli anni seguenti, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono e alla fine degli anni ’90 i capi di stato di entrambi i Paesi scambiarono visite ufficiali nelle rispettive capitali. Iniziò da allora un periodo di cooperazione ufficiale tra i due Paesi con l’intento di diffondere stabilità e sicurezza nella regione.

La situazione attuale

Malgrado il riavvicinamento diplomatico ufficiale tra Iran ed Arabia Saudita negli anni ’90, restano oggi diverse incognite sui rapporti effettivi tra i due Paesi.

Infatti, da un lato l’Arabia Saudita continua a temere un possibile espansionismo iraniano sulla regione del Golfo. In questo senso, alimenta i dubbi sauditi l’atteggiamento del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, anti-statunitense, anti-israeliano, fautore di un controverso programma di sviluppo di energia nucleare, sospettato di voler dotare l’Iran di armi atomiche, critico verso il Regno Saudita e l’alleanza dei Saud con gli Stati Uniti. D’altra parte per l’Iran di Ahmadinejad continua a risultare incoerente l’atteggiamento saudita, che da un lato deplora la presenza israeliana in Palestina, dall’altro si pone come alleato degli Stati Uniti, principali alleati e protettori di Israele, che nella visione del presidente iraniano costituiscono il nemico per eccellenza.

In definitiva, i due Paesi si fanno ugualmente promotori della creazione di ordine e stabilità nella regione vicino-orientale, proponendo tuttavia due diversi schemi: l’Iran infatti predilige un profilo più indipendente e chiaramente ostile alle potenze che, a suo avviso, portano disordine nella regione, gli Stati Uniti e Israele; l’Arabia Saudita, invece, opta per un atteggiamento più riservato nei confronti delle potenze presenti nell’area, attenta soprattutto a perseguire le proprie politiche in accordo con i meccanismi che garantiscono il suo fiorente sviluppo economico. In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita diventa molto difficile, poiché si trova a dovere gestire rapporti amichevoli con attori che tra loro sono in forte conflitto. L’Arabia Saudita infatti si trova al centro di un complicato intreccio di interessi, per cui dipende per la sua sicurezza dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo deve mantenere buoni rapporti di vicinato con l’Iran, pur temendone le velleità aggressive. In contemporanea l’Arabia Saudita si trova a favorire, in quanto campione della civiltà araba e della religione musulmana, la causa palestinese contro la presenza israeliana, ma allo stesso tempo deve continuamente gestire i propri rapporti con gli Stati Uniti, a loro volta principali alleati di Israele.

Da parte sua, l’Iran nutre forti timori per la propria incolumità: infatti la presenza statunitense nella regione, sia come alleato di Israele, sia tramite il dislocamento di forze militari in territorio saudita e nel bacino del Golfo, spinge il governo di Ahmadinejad ad un atteggiamento aggressivo in chiave difensiva e genera ulteriori critiche verso la condotta della dinastia dei Saud.

Questo delicato equilibrio di forze è messo alla prova e minacciato dagli eventi che nell’ultimo decennio hanno sconvolto la regione vicino-orientale.

Da un lato la presenza di Hamas sulla striscia di Gaza e il fermento di Hezbollah in Libano. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di fornire armi e aiuti ad entrambi i movimenti, ad Hamas in chiave strategica anti-israeliana, ad Hezbollah con la stessa funzione e in quando movimento di matrice sciita. D’altra parte il Dipartimento di Stato statunitense identifica tra i finanziatori di Hamas l’Arabia Saudita stessa, fattore questo che complica ulteriormente l’intricata situazione internazionale del Regno dei Saud.

In secondo luogo l’attacco statunitense in Iraq del 2003 e soprattutto gli eventi che a questo sono seguiti: se da un lato, infatti, l’Arabia Saudita non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Saddam Hussein, dall’altro il declassamento che il sunnismo ha ricevuto nel Paese a vantaggio della popolazione sciita, in seguito al rovesciamento del regime di Saddam, non può che creare disappunto nel Regno dei Saud. In questo senso la politica dell’amministrazione Bush in Iraq non sembra aver considerato attentamente il fattore sciita. Infatti se in Iraq si dovesse rafforzare il governo dello sciita Nouri al-Maliki, si verrebbe a creare nel Vicino Oriente un blocco sciita che, partendo dall’Iran, proseguirebbe lungo l’Iraq, passando per la Siria (sciita solo nella figura della sua dirigenza, ma vicina politicamente all’Iran) e terminando in Libano (dove la presenza sciita è notevole) e a Gaza (dove Hamas gode del supporto iraniano).

Inoltre l’Iran si sta muovendo parallelamente lungo le vie del cosiddetto soft power, intromettendosi nella politica saudita (ma anche nello Yemen, in Bahrein, in Libia, in Algeria) per rafforzare le popolazioni sciite locali. In Arabia Saudita la già scarsa partecipazione politica diventa nulla per la minoranza sciita, che dal punto di vista sociale ed economico risulta fortemente svantaggiata. Le autorità saudite vietano alla comunità sciita di celebrare le proprie festività e di costruire moschee nel Paese, ad eccezione di alcune aree particolari. In questa situazione l’Iran interviene con aiuti e finanziamenti alla popolazione sciita, che a sua volta sembra accogliere con favore questo supporto. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita è impegnata nel finanziamento e nella costruzione di scuole Wahabite in altri Paesi, con il compito di diffondere la dottrina della corrente dei Saud. Questo tipo di politica soft non prevede l’uso della forza, ma può dare origine in alcuni casi a scontri veri e propri.

Un esempio di tali dinamiche si può vedere negli avvenimenti della fine del 2009 tra Yemen e Arabia Saudita. Il governo di Sana’a, infatti, ancora negli anni ’90 aveva armato e finanziato l’imam Yahya al-Houthi, di parte sciita, inviandolo nella regione settentrionale di Sa’adah con il compito di contenere e contrastare il proselitismo Wahabita attivo nella regione. Con il tempo, però, al-Houthi si pose alla guida di un movimento di rivendicazione dell’indipendenza di Sa’adah dallo Yemen. Il governo yemenita, allora, dopo aver accusato l’Iran di finanziare il movimento di al-Houthi, chiamò in aiuto l’Arabia Saudita, il cui esercito ha effettuato tra novembre e dicembre del 2009 diverse incursioni nel nord dello Yemen, fino a schiacciare i guerriglieri di al-Houti. Ahmadinejad, da parte sua, non ha tardato a criticare l’intervento saudita nello Yemen, chiedendo provocatoriamente per quale motivo l’Arabia Saudita non si sia dimostrata altrettanto pronta ad intervenire durante i bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; l’Arabia Saudita ha risposto accusando l’Iran di intromissione negli affari interni yemeniti.

Alcune conclusioni

Alla luce di quanto appena raccontato emerge chiaramente come gli accordi ufficiali tra Iran e Arabia Saudita, volti allo sviluppo di una politica di stabilità e di cooperazione anche economica, celino in realtà una complessa rete di schermaglie, accuse, disaccordi che, nella migliore tradizione della guerra fredda, si ripercuotono su altri attori internazionali senza sfociare, per ora, in uno scontro diretto. Ne sono esempi concreti il caso dello Yemen appena descritto o l’Iraq post-Saddam, con la guerriglia tra la maggioranza sciita e le comunità sunnite, entrambe supportate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. E’ un altro valido esempio la diffusione, ad opera del governo di Riad, di scuole di matrice wahabita in diversi Paesi arabi, così come la propaganda sciita e il supporto da parte iraniana alle comunità sciite in diversi Paesi a maggioranza sunnita, tra cui l’Arabia Saudita.

In ultima analisi tutte queste incomprensioni sembrano nascere, oltre che da volontà di autoaffermazione di tipo culturale e religioso (civiltà araba-civiltà persiana, sunnismo-sciismo), soprattutto da un fattore che domina da decenni lo scenario vicino-orientale: la paura.

Da un lato infatti, l’Arabia Saudita teme la continua espansione dell’influenza iraniana nella regione, mentre dall’altro l’Iran teme l’avvicinamento delle monarchie del Golfo agli Stati Uniti.

Inoltre non va dimenticato che entrambi i regimi attivi nei due Paesi si stanno confrontando con una crescente opposizione interna: da un lato i Saud, le cui politiche di avvicinamento agli Stati Uniti contrariano fortemente parte dell’ortodossia religiosa e il movimento al-Qaida, presente nel Paese malgrado gli sforzi delle forze di sicurezza interne per contrastarlo; dall’altra il governo di Ahmadinejad, criticato sempre più apertamente da ampi strati della società, come dimostra l’ondata di proteste levatasi in occasione delle recenti elezioni iraniane.

La paura di aggressioni dall’esterno unita all’instabilità crescente dei due regimi sembra spingere dunque Iran e Arabia Saudita verso posizioni sempre più aggressive e contrastanti. Così, ad esempio, il programma iraniano di sviluppo in campo nucleare sta causando un’analoga corsa al nucleare da parte dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui l’Arabia Saudita è l’elemento più importante), che hanno già chiesto supporto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per lo sviluppo di un reattore nucleare.

L’equilibrio mantenuto nella regione dall’interconnessione di interessi strategici ed economici, che vede l’esuberanza iraniana moderata dall’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, non ha ancora provocato scontri diretti tra i due Paesi. Tuttavia, la costante instabilità dell’intera regione e dei governi delle due potenze vicino-orientali potrebbe portare ad un crescente scontro tra due Paesi dotati di risorse energetiche e di armamenti ingenti e moderni. Finora gli attriti sono sfociati in scontri armati decentrati, coinvolgendo attori diversi, ma non è escluso che una crescente ostilità, alimentata anche dagli avvenimenti bellici che stanno avvenendo in varie zone della regione, possa portare a conseguenze più gravi.

Lo scontro tra Iran ed Arabia Saudita sembra inserirsi, dunque, nel complesso mosaico delle vicende vicino-orientali, interconnettendosi a queste, alimentandole e traendo contemporaneamente da queste alimentazione. Il fatto che due potenze come Iran ed Arabia Saudita si trovino in un tale stato di terrore, dimostra come sia l’autoritarismo interno sia l’aggressività verso l’esterno non sembrino garantire, nel Vicino Oriente, quella stabilità e sicurezza che tutto il mondo auspica, e soprattutto come sia Iran sia Arabia Saudita risultino attualmente inadeguate al ruolo di Paese-guida nella regione del Golfo a cui entrambe ambiscono.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mercredi, 19 mai 2010

Arctique et hydrocarbures: les accords russo-norvégiens

Andrea PERRONE:

Arctique et hydrocarbures: les accords russo-norvégiens

 

Moscou et Oslo signent un accord sur les frontières maritimes arctiques et mettent un terme à plus de quarante années de controverses

 

carte_norvege_fr.gifLe 27 avril 2010, le Président russe Dmitri Medvedev terminait sa visite de deux jours en Norvège, visite qui avait eu pour but de renforcer les relations bilatérales entre les deux pays et d’innover dans le domaine de la coopération énergétique.

 

En présence d’un parterre bien fourni d’entrepreneurs et d’industriels norvégiens, le chef du Kremlin a souligné que son pays voulait améliorer le partenariat stratégique et énergétique avec la Norvège et trouver une issue à la querelle qui oppose Moscou et Oslo pour la maîtrise des eaux territoriales dans la Mer de Barents, dont les fonds recèlent de vastes gisements de ressources énergétiques.

 

La visite de Medvedev a également permis de conclure un accord historique sur les frontières maritimes dans l’Océan Glacial Arctique, après quarante années de querelles irrésolues. Le premier Ministre norvégien, Jens Stoltenberg, l’a annoncé lors d’une conférence de presse à Oslo, tenue avec le Président russe. “C’est une journée historique”, a déclaré Stoltenberg, “car nous avons trouvé la solution à une question importante, demeurée ouverte, et qui opposait la Norvège à la Russie”. “Nous sommes voisins”, a ajouté pour sa part Medvedev, “et nous voulons coopérer”. Stoltenberg a ensuite souligné que les deux pays se sont mis d’accord sur tout et a précisé que l’accord conclu était “optimal et bien équilibré”. “Cette solution”, a poursuivi le Premier Ministre norvégien, “représente plus qu’une délimitation territoriale sous la surface de l’océan; il s’avère important pour le développement de bonnes relations de voisinage”.

 

L’enjeu? Une zone de 175.000 km2, situés à proximité de l’archipel des Spitzbergen (qui appartient à la Norvège) et l’île de la Nouvelle-Zemble (qui fait partie de la Fédération de Russie). En 1978 déjà, un accord était entré en vigueur qui consentait aux deux pays de pêcher dans la zone mais sans régler définitivement la question des frontières maritimes. Or la question était épineuse, surtout parce que les experts pensent que dans le fond de l’Océan Arctique se trouvent d’énormes réserves de gaz naturel et de pétrole. La signature de l’accord par les ministres des affaires étrangères norvégien et russe s’est effectuée la veille du départ de Medvedev pour le Danemark, où il s’est rendu pour une visite officielle de deux jours (les 27 et 28 avril 2010).

 

En juillet 2007, la Russie et la Norvège avaient déjà signé une déclaration de principe pour délimiter les zones offshore du Fjord de Varanger (Varangerfjorden) dans la Mer de Barents: cette fois, les diplomates russes et norvégiens ont décidé de trouver un accord pour les autres frontières maritimes dans la même zone arctique, riche en gaz et en pétrole. La Norvège est le troisième exportateur mondial d’or noir, après l’Arabie Saoudite et la Russie. Oslo possède encore d’abondantes réserves de gaz naturel et s’intéresse au gisement russe de Shtokman, situé dans la partie orientale de la Mer de Barents et à l’exploitation d’autres gisements dans la presqu’île de Jamal, toujours sur territoire russe. La compagnie norvégienne Statoil, qui contrôle 24% des actions émises sur ces gisements, a réussi, fin avril 2010, lors du nouvel accord russo-norvégien à convaincre les Russes de passer à la réalisation du projet d’exploitation du riche gisement de Shtokman, dont Gazprom possède 51% des actions et la société française Total, 25%. Le 13 juillet 2007, Gazprom et Total ont signé un accord-cadre pour financer et construire les infrastructures du gisement. Le 25 octobre de la même année, une déclaration de principe de même nature avait été scellée entre la compagnie d’Etat russe et l’instance qui allait devenir l’actuelle Statoil norvégienne. Le 21 février 2008, les trois compagnies fondent un consortium commun à Zoug en Suisse.

 

Le soir suivant, Medvedev partait pour Copenhague, où plus aucun chef d’Etat russe ne s’était rendu depuis la visite de Nikita Khrouchtchev en 1964. L’actuel chef du Kremlin a rencontré le 28 avril 2010 les plus hautes autorités du Royaume du Danemark pour discuter d’accords commerciaux et régler les investissements danois dans les secteurs russes de l’énergie et de l’agriculture, sans oublier, bien évidemment, les questions qui touchent à la sécurité de l’Europe.

 

Andrea PERRONE / a.perrone@rinascita.eu

(article issu de “Rinascita”, Rome, 28 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; http://www.rinascita.eu ).

mardi, 11 mai 2010

Russie et Danemark: coopération énergétique

DANEMARK.gifAndrea PERRONE:

Russie et Danemark: coopération énergétique

 

Medevedev en visite officielle à Copenhague: renforcement du partenariat stratégique et énergétique entre la Russie et le Danemark

 

Le Président russe Dmitri Medvedev a entamé un voyage en Europe du Nord dans le but de souder un partenariat énergétique, de renforcer les relations bilatérales et multilatérales dans la zone arctique et la coopération en matières de haute technologie et d’énergies renouvelables.

 

Mercredi 28 avril 2010, Medvedev se trouvait au Danemark. Le chef du Kremlin y a atterri et y a été accueilli par la Reine Margarete II et par le Premier Ministre Lars Lokke Rasmussen. Le thème privilégié de cette rencontre au sommet, qui doit sceller la coopération russo-danoise, a été l’énergie, plus particulièrement la construction du gazoduc North Stream.

 

Le Président russe, en participant à un sommet d’affaires russo-danois, a souligné qu’il s’avère surtout nécessaire “de créer un critère général et des réglementations pour la coopération énergétique du futur”. Ensuite: “Il s’avère nécessaire de mettre à l’ordre du jour des normes et des réglementations internationales pour la coopération énergétique”, a poursuivi le chef du Kremlin, “parmi lesquelles une nouvelle version de la Charte de l’énergie”. La Russie a déjà présenté à ses interlocuteurs un document de ce type, dans l’espoir que les Danois feront de même, de leur côté. Medvedev a ensuite rappelé que le secteur énergétique représente un secteur clef de la coopération entre la Russie et le Danemark. Moscou et Copenhague, a souligné le Président russe, ont désormais visibilisé leur contribution à la sécurité énergétique en Europe et leur souhait de voir se diversifier les routes d’acheminement du gaz, dont le gazoduc North Stream. Il a ensuite adressé ses meilleurs compliments au Danemark, premier pays à avoir participé à la construction du gazoduc et à avoir permis son passage à travers sa propre zone économique. La réalisation du gazoduc North Stream, a poursuivi Medvedev, rendra possible, non seulement la satisfaction des besoins en gaz du Danemark, mais aussi son rôle d’exportateur de gaz vers les autres pays européens, tandis que les contrats à long terme dans les secteurs du pétrole et du gaz naturel pourront garantir le partenariat énergétique russo-danois pour les trente prochaines années. Medvedev a également mis en exergue la participation des entreprises danoises dans les programmes de mise à jour et de rentabilisation des implantations énergétiques dans diverses régions de Russie. Le premier ministre danois et le chef du Kremlin ont ensuite signé, au terme de la rencontre, une série d’accords portant pour titre “partenariat au nom de la modernisation” et visant la coopération dans le secteur de la haute technologie et le développement de l’économie russe dans certaines régions de la Fédération de Russie, comme le Tatarstan.

 

Andrea PERRONE,

a.perrone@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 29 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu ).

samedi, 01 mai 2010

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Norvegia-Russia: nuovi accordi per una partnership strategica

Firmata l’intesa, fra Mosca e Oslo, sui confini dell’Oceano Artico dopo 40 anni di insanabili contrasti

Andrea Perrone

Si è conclusa ieri la visita di due giorni del presidente russo Dmitrij Medvedev in Norvegia per rafforzare le relazioni, l’innovazione e la cooperazione energetica con Oslo.


medNorv.jpgAlla presenza di un folto gruppo di imprenditori e industriali il capo del Cremlino ha sottolineato che il suo Paese vuole migliorare la partnership strategica dell’energia con la Norvegia e trovare una via d’uscita alla disputa che contrappone Mosca e Oslo per le acque territoriali del Mare di Barents, i cui fondali possiedono vasti giacimenti di risorse energetiche.
La visita di Medvedev ha garantito anche il raggiungimento di uno storico accordo sul confine nel Mar Glaciale Artico, dopo 40 anni di insanabili contrasti. Ad annunciarlo è stato il premier norvegese, Jens Stoltenberg (nella foto con Medvedev) a Oslo, in una conferenza stampa congiunta con il presidente russo. “È un giorno storico - ha dichiarato Stoltenberg - abbiamo trovato la soluzione a una questione importante rimasta aperta tra Norvegia e Russia”. “Siamo vicini - ha aggiunto da parte sua Medvedev - e vogliamo cooperare”. Stoltenberg ha sottolineato che i due Paesi si sono accordati su tutto precisando che l’accordo è stato “ottimo e bilanciato”. “Questa soluzione - ha proseguito il primo ministro norvegese - è più di una linea di confine sotto l’Oceano. È per lo sviluppo di buone relazioni di vicinato”.
In gioco una zona di 175.000 chilometri quadrati posta tra l’arcipelago delle Spitzbergen (che appartengono alla Norvegia) e l’isola di Novaja Zemlija (di proprietà della Russia). Già dal 1978 è in vigore un accordo che consente a entrambi i Paesi di pescare in quell’area, ma la questione dei confini marittimi era rimasta incompleta. Una questione spinosa, anche perché gli esperti ritengono che nell’Artico si trovino enormi riserve di gas naturale e petrolio. La firma dell’accordo, da parte dei ministri degli Esteri di Oslo e Mosca, è giunto in serata prima della partenza di Medvedev per la Danimarca dove si recherà per una visita di due giorni (27-28 aprile).
Nel luglio 2007 Russia e Norvegia avevano già firmato un’intesa per delimitare le aree offshore del Varangerfjord nel Mare di Barents: questa volta hanno deciso di accordarsi su altri confini sempre nella stessa area, ricca di gas e petrolio. La Norvegia è il terzo esportatore mondiale di “oro nero” dopo l’Arabia Saudita e la Russia. Oslo possiede però anche abbondanti riserve di gas naturale ed è interessata al giacimento russo di Shtokman, situato nella parte orientale del Mare di Barents e allo sfruttamento di quello della penisola di Jamal, sempre in territorio russo. La compagnia norvegese Statoil, che controlla il 24% del pacchetto azionario, con l’accordo di ieri tra Mosca e Oslo, è riuscita a convincere la Russia a mettere in atto la realizzazione del progetto per lo sfruttamento del ricco giacimento di Shtokman, di cui Gazprom possiede un 51% e la società francese Total il 25 per cento. Il 13 luglio 2007 Gazprom e Total hanno firmato un accordo quadro per finanziare e realizzare le infrastrutture del giacimento. Il 25 ottobre dello stesso anno un’analoga intesa è stata siglata fra la compagnia di Stato russa e l’odierna Statoil norvegese. Il 21 febbraio 2008 è stato fondato un consorzio fra le tre compagnie a Zug, in Svizzera.
In serata poi Medvedev è giunto a Copenaghen dove nessun leader russo si è più recato dall’ultima visita di Nikita Krusciov, nel lontano 1964. L’attuale capo del Cremlino si incontrerà oggi con le massime autorità della Danimarca per discutere di accordi commerciali e investimenti danesi nel settori russi dell’energia e dell’agricoltura, nonché della sicurezza europea.


28 Aprile 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=1799

mardi, 06 avril 2010

South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

»South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

 

Nabucco auf dem Trockenen …

Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

 

 

__________

(1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

(2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

(3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

(4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

(5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

(6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

(7) Ebenda

(8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

(9) Ebenda

(10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

(11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

(12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

 

Mittwoch, 31.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

© Das Copyright dieser Seite liegt, wenn nicht anders vermerkt, beim Kopp Verlag, Rottenburg


Dieser Beitrag stellt ausschließlich die Meinung des Verfassers dar. Er muß nicht zwangsläufig die Meinung des Verlags oder die Meinung anderer Autoren dieser Seiten wiedergeben.

dimanche, 04 avril 2010

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Russlands Position als wichtigster Energielieferant für Deutschland und die EU scheint gefestigt, die Orangene Revolution ist de facto rückgängig gemacht. Jetzt richtet sich die russische Politik vermehrt ostwärts auf den Energiebedarf des dortigen Kooperationspartners China, des ehemaligen Feindes in der Zeit des Kalten Krieges. Diese Entwicklung sorgt im Pentagon für Kopfschmerzen und schlaflose Nächte, denn hier wird Halford Mackinders schlimmster Albtraum wahr – die friedliche wirtschaftliche Vereinigung der Region, die er das Herzland der Weltinsel nannte.

Moskau orientiert sich gen Osten

gaz-russe-via-ukraine.jpgEnde 2009 hat Moskau genau zum geplanten Zeitpunkt und zur großen Überraschung Washingtons nach vierjähriger Bauzeit die Ostsibirien-Pazifik-Pipeline (East Sibiria Pacific Ocean, ESPO) in Betrieb genommen. Der Bau der Ölpipeline hat etwa 14 Milliarden Dollar gekostet. Sie ermöglicht Russland nun den direkten Export von Öl aus den ostsibirischen Feldern nach China sowie nach Südkorea und Japan – ein großer Schritt zu einer engeren wirtschaftlichen Integration zwischen Russland und China. Die Pipeline verläuft zum etwas nördlich der chinesischen Grenze gelegenen Ort Skoworodino am Fluss Bolschoi Newer. Dort wird das Öl für den Transport zum Pazifikhafen Kozmino in der Nähe von Wladiwostok zurzeit noch auf Eisenbahntankwagen umgeladen. Allein der Bau dieser Station hat zwei Milliarden Dollar gekostet. Dort können täglich bis zu 300.000 Barrel Rohöl verladen werden. Das Öl, das von vergleichbarer Qualität ist wie die im Nahen Osten geförderten Sorten, dominiert mittlerweile den Markt in der Region. Der russische staatliche Pipelinemonopolist Transneft hat noch einmal zwölf Milliarden Dollar in die 2.700 Kilometer lange Pipeline durch die ostsibirische Wildnis investiert, die eine Verbindung zu den verschiedenen, von den russischen Großunternehmen Rosneft, TNK-BP und Surgutneftegaz erschlossenen Ölfelder in der Region herstellt.

Der Anschluss zum Endhafen Kozmino soll 2014 fertiggestellt sein, der Bau verschlingt noch einmal zehn Milliarden Dollar. Die Gesamtpipeline hat dann eine Länge von 4.800 Kilometern, das ist mehr als die Strecke von Los Angeles nach New York. Darüber hinaus haben sich Moskau und Peking auf den Bau eines Abzweigs von Skoworodino nach Daqing in der nordostchinesischen Provinz Heilongjiang geeinigt. Die Provinz ist das Zentrum der chinesischen petrochemischen Industrie, dort findet sich auch das größte Erdölfeld in China. Nach der Fertigstellung werden pro Jahr etwa 80 Milliarden Tonnen sibirisches Öl über die Pipeline transportiert und 15 Milliarden Tonnen über einen weiteren Abzweig aus China.

Welche Wichtigkeit man im energiehungrigen China dem russischen Öl beimisst, zeigt sich daran, dass China Russland ein Darlehen über 25 Milliarden Dollar gewährt hat, als Gegenleistung für Öllieferungen in den nächsten zwei Jahrzehnten. Im Februar 2009, als der Ölpreis von seinem vorherigen Höchststand von 147 Dollar pro Barrel innerhalb weniger Monate auf 25 Dollar pro Barrel gefallen war, standen der russische Rosneft-Konzern und der Pipeline-Betreiber Transneft kurz vor dem Zusammenbruch. Peking reagierte damals sehr schnell und sicherte sich die künftige Lieferung von Öl aus den sibirischen Feldern: Die staatliche Chinesische Entwicklungsbank bot Rosneft und Transneft Darlehen in Höhe von zehn bzw. 15 Milliarden Dollar an, insgesamt also eine Investition über 25 Milliarden Dollar für den beschleunigten Bau der Pazifik-Pipeline. Russland versprach seinerseits die Erschließung weiterer neuer Felder sowie den Bau des ESPO-Abschnitts nach Daqing von Skorowodino bis zur chinesischen Grenze, eine Entfernung von knapp 70 Kilometern. Außerdem werden mindestens 300.000 Barrel Öl der sehr gefragten schwefelarmen Sorte Sweet Crude an China geliefert. (1)

Jenseits der russischen Grenze, auf der chinesischen Seite, will Peking eine eigene knapp 1.000 Kilometer lange Pipeline nach Daqing bauen. Das chinesische Darlehen wurde mit sechs Prozent Zinsen vergeben, das russische Öl müsste also für 22 Dollar pro Barrel an China verkauft werden. Heute liegt der Ölpreis international wieder bei durchschnittlich 80 Dollar pro Barrel – China macht also wirklich ein sehr gutes Geschäft. Anstatt nun über den vereinbarten Preis neu zu verhandeln, ist man in Moskau offensichtlich zu der Erkenntnis gekommen, dass der strategische Vorteil der Verbindung mit China den möglichen Einnahmeverlust wettmacht. Man behält sich die Preisfestsetzung für das restliche Öl vor, das durch die ESPO-Pipeline bis zum Pazifik zu anderen asiatischen Märkten fließt.

Während die Energiemärkte in Westeuropa die Aussicht auf relativ stabile Nachfrage bieten, boomen die Märkte in China und ganz Asien. Deshalb orientiert sich Moskau deutlich gen Osten. Ende 2009 hat die russische Regierung einen umfassenden Energiebericht mit dem Titel Energy Blueprint for 2030 (zu Deutsch: Energieplan für 2030) herausgegeben. Darin werden umfangreiche inländische Investitionen in die ostsibirischen Ölfelder gefordert, es ist die Rede von einer Verschiebung der Ölexporte nach Nordostasien. Der Anteil der russischen Exporte in die Asien-Pazifik-Region soll von acht Prozent im Jahr 2008 im Verlauf der nächsten Jahre auf 25 Prozent steigen. (2) Das hat sowohl für Russland als auch für Asien, besonders für China, bedeutende Konsequenzen.

China hat Japan bereits vor einigen Jahren als zweitgrößter Öl-Importeur nach den Vereinigten Staaten überholt. China misst der Frage der Energiesicherheit große Bedeutung bei, deshalb ist Ministerpräsident Wen Jiabao soeben zum Leiter eines ressortübergreifenden Nationalen Energierats ernannt worden, der Chinas Energiepolitik koordinieren soll. (3)

 

Russland beginnt mit der Lieferung von LNG-Gas nach Asien

Wenige Monate vor Fertigstellung der ESPO-Ölpipeline zum Pazifik hat Russland mit der Lieferung von Flüssig-Erdgas (Liquified Natural Gas, LNG) innerhalb des Projektes Sachalin-II begonnen, einem Joint Venture unter Führung von Gazprom, an dem auch die japanischen Konzerne Mitsui und Mitsubishi sowie die britisch-niederländische Shell beteiligt sind. Russland sammelt mit dem Projekt unschätzbar wichtige Erfahrungen auf dem sehr schnell wachsenden LNG-Markt, d.h. einem Markt, der nicht auf den Bau langfristig festgelegter Pipelines angewiesen ist.

China macht auch anderen Ländern der ehemaligen Sowjetunion Offerten, um sich künftige Energielieferungen zu sichern. Ende 2009 wurde der erste Abschnitt der Zentralasien-China-Pipeline, die auch als Turkmenistan-China-Pipeline bekannt ist, fertiggestellt. Sie befördert Erdgas aus Turkmenistan über Usbekistan nach Südkasachstan und verläuft parallel zu der bereits bestehenden Pipeline Buchara–Taschkent–Bischkek–Almaty. (4)

In China schließt die Pipeline an die bestehende West-Ost-Gaspipeline an, die quer durch das Land verläuft und weit entfernt gelegene Städte wie Schanghai und Hongkong versorgt. Etwa 13 Milliarden Kubikmeter sollen 2010 über diese Pipeline transportiert werden, die Menge soll bis 2013 auf über 40 Milliarden Kubikmeter steigen. Später soll über diese Pipeline mehr als die Hälfte des chinesischen Erdgasverbrauchs gedeckt werden.

Es war die erste Pipeline, über die Gas aus Zentralasien nach China gebracht wurde. Die Pipeline aus Turkmenistan, die 2011 in Betrieb genommen werden soll, wird mit einem aus Westkasachstan kommenden Strang verbunden. Sie wird Erdgas von mehreren kasachischen Feldern nach Alashankou in der chinesischen Provinz Xingjiang befördern. (5) Kein Wunder, dass die chinesischen Behörden alarmiert waren, als im Juli 2009 Unruhen unter den dort lebenden ethnischen Uighuren ausbrachen. Die chinesische Regierung beschuldigte den in Washington ansässigen Weltkongress der Uighuren und dessen Vorsitzende Rebiya Kadeer, den Aufstand angezettelt zu haben. Der Weltkongress unterhält angeblich enge Verbindungen zu der vom US-Kongress unterstützten und mit Regimewechseln erfahrenen Nicht-Regierungs-Organisation National Endowment for Democracy. (6) Xinjiang wird für den künftigen Energiefluss in China immer wichtiger.

Entgegen den Behauptungen einiger westlicher Kommentatoren stellt die Turkmenistan-China-Pipeline keineswegs eine Bedrohung für Russlands Energiestrategie dar. Sie festigt vielmehr die wirtschaftlichen Verbindungen zu den Mitgliedsländern der Shanghai Cooperation Organization (SCO). Gleichzeitig wird darüber ein erheblicher Teil des Gases aus Turkmenistan nach China transportiert, der sonst über die von Washington favorisierte Nabucco-Pipeline geflossen wäre. Aus geopolitischer Sicht kann dies für Russland nur von Vorteil sein, denn ein Erfolg von Nabucco würde für Russland erhebliche Einbußen an wirtschaftlichem Einfluss bedeuten.

Die 2001 von den Staatschefs Chinas, Kasachstans, Kirgisistans, Russlands, Tadschikistans und Usbekistans in Shanghai gegründete SCO hat sich mittlerweile zu Mackinders schlimmsten Albraum entwickelt – in ein Instrument enger wirtschaftlicher und politischer Kooperation zwischen den Schlüsselländern Eurasiens, unabhängig von den Vereinigten Staaten. In seinem 1997 erschienenen Buch The Grand Chessboard (deutscher Titel: Die einzige Weltmacht: Amerikas Strategie der Vorherrschaft) hat Brzezinski unverblümt erklärt: »… lautet das Gebot, keinen eurasischen Herausforderer aufkommen zu lassen, der den eurasischen Kontinent unter seine Herrschaft bringen könnte und damit auch für Amerika eine Bedrohung darstellen könnte. Ziel dieses Buches ist es deshalb, im Hinblick auf Eurasien eine umfassende und in sich geschlossene Geostrategie zu entwerfen.« (7) Später schreibt er warnend: »Von nun an steht Amerika vor der Frage, wie es mit regionalen Koalitionen fertig wird, die es aus Eurasien herauswerfen wollen und damit seinen Status als Weltmacht bedrohen.« (8)

Nach den Ereignissen vom September 2001, die viele russische Geheimdienstexperten nicht für das Werk einer Gruppe von bunt zusammengewürfelten muslimischen Al-Qaeda-Fanatikern halten wollten, hat die SCO genau die Gestalt einer ernsten Bedrohung angenommen, vor der der Mackinder-Schüler Brzezinski gewarnt hat. Bei einem Interview mit The Real News bemängelte Brzezinski jüngst auch das Fehlen einer kohärenten Eurasien-Strategie bei der Regierung Obama, vor allem in Afghanistan und Pakistan.

 

__________

(1) Greg Shtraks, »The Start of a Beautiful Friendship? Russia begins exporting oil through the Pacific port of  Kozmino«, Jamestown Foundation Blog, Washington D.C., 11. Dezember 2009, unter http://jamestownfoundation.blogspot.com/2009/12/start-of-beautiful-friendship-russia.html

(2) Ebenda

(3) Moscow Times, »Putin Launches Pacific Oil Terminal«, 29. Dezember 2009, unter http://www.themoscowtimes.com

(4) Zhang Guobao, »Chinese Energy Sector Turns Crisis into Opportunities«, 28. Januar 2010, unter www.chinadaily.com.cn

(5) Isabel Gorst, Geoff Dyer, »Pipeline brings Asian gas to China«, Financial Times, London, 14. Dezember 2009

(6) Reuters, »China calls Xinjiang riot a plot against its rule«, 5. Juli 2009, unter http://www.reuters.com/article/idUSTRE56500R20090706

(7) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and It's Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1998 (Paperback), p. xiv. Deutsche Ausgabe: Die einzige Weltmacht – Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Beltz Quadriga Verlag, Weinheim und Berlin 1997, S. 16

(8) Ebenda, S. 86f.

 

Donnerstag, 01.04.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

© Das Copyright dieser Seite liegt, wenn nicht anders vermerkt, beim Kopp Verlag, Rottenburg


Dieser Beitrag stellt ausschließlich die Meinung des Verfassers dar. Er muß nicht zwangsläufig die Meinung des Verlags oder die Meinung anderer Autoren dieser Seiten wiedergeben.