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lundi, 25 mars 2013

Cina e Italia più vicine grazie ad ENI

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Cina e Italia più vicine grazie ad ENI

di Michele Franceschelli

Ex: http://www.statopotenza.eu/

ENI continua a dimostrare di essere il principale vettore per un’azione politico-economica italiana libera dagli schemi atlantici, volta in direzione dell’Eurasia e dei BRICS. Dello spirito gagliardo del “cane a sei zampe” di “matteiana” memoria non è rimasto molto, tuttavia ENI è ancora oggi un colosso nazionale capace di muoversi sullo scenario mondiale – pur tra numerosi ostacoli, interni ed esterni, compromessi e cedimenti alle ingiunzioni euro-atlantiche – con un certo grado di autonomia, stringendo alleanze e collaborazioni con paesi non-allineati all’Occidente come Venezuela, Russia, Kazakhstan e Cina, tenendo aperta una fondamentale porta per una politica nazionale orientata in senso multipolare. Un “cane” pertanto non ancora addomesticato ai voleri nordatlantici e che rimane una delle risorse economiche trainanti della nazione proprio per questa sua “selvatichezza”, sempre più necessaria in un mondo di giorno in giorno più dinamico e multipolare. Per quanto tempo ancora ENI riuscirà a mantenere questo carattere non è dato sapere, anche se gli sviluppi recenti non fanno presagire niente di buono: dalle inchieste giudiziarie ad orologeria alle interessate pressioni degli ambienti euroatlantici per la cessione di Saipem, da un’opinione pubblica avversa eterodiretta con i temi del giustizialismo e dell’anti-industrialismo alle pulsioni ecoterrorriste di associazioni e gruppi eversivi e, soprattutto, per la continua assenza di un ceto politico nazionale autonomista capace di fare da scudo e di attuare in modo solido e continuativo un gioco di sponda con le scelte strategiche del management.
La sorte di ENI sembra parallela a quelle delle poche altre grandi aziende semi-pubbliche italiane, in primis Finmeccanica. Se per quest’ultima però le manovre tese a mantenerla dentro un politicamente rassicurante – ma economicante disastroso – perimetro d’azione commerciale euroatlantico sembrano avere ottenuto gli effetti desiderati, non si può ancora dire la stessa cosa per ENI, anche se entrambe lavorano in settori sensibili e strategici. E’ evidentemente decisiva in tal senso la direzione aziendale di ENI che, a differenza di quella di Finmeccanica, è ancora capace di esprimere una certa dose di forza, autonomia e continuità di vedute, pur in presenza di un quadro politico italiano inerte se non apertamente ostile. 
Il recente annuncio di Paolo Scaroni dell’accordo raggiunto con la China National Petroleum Corporation si inserisce all’interno di questo complesso quadro. Con il ceo Zhou Jiping di Petrochina Company Limited, società controllata da CNPC, è stato firmato un accordo per la vendita del 28,57% delle azioni della società Eni East Africa, titolare del 70% della partecipazione nell’Area 4, nell’offshore del Mozambico, in Africa, dove si trovano alcuni dei più importanti giacimenti mai scoperti da ENI nella sua storia. Contestualmente, ENI e CNPC hanno firmato un joint study agreement per la cooperazione finalizzata allo sviluppo del blocco a shale gas Rongchang, che si estende per circa 2.000 chilometri quadrati nel Sichuan Basin, in Cina.
E’ un accordo di mutuo vantaggio. L’ingresso nel gas non convenzionale in Cina rappresenta un’enorme opportunità di business per l’azienda italiana, dato l’incredibile sviluppo che sta attravendo il grande paese asiatico affamato di energia. Dall’altra parte, lavorare con ENI in Africa permette alla CNPC di sfruttare i posizionamenti italiani per consolidare ed ampliare la propria penetrazione nel continente. La Cina è alla ricerca di sempre nuove fonti energetiche per sostenere i suoi alti tassi di sviluppo e la partnership con i paesi dell’Africa è considerata di fondamentale importanza in questo senso. Pechino ha d’altronde un modus operandi con questi paesi diamentralmente opposto alle prassi colonialiste e neocolonialiste che contraddistinguono numerosi paesi occidentali, permettendole di essere ben vista dalle popolazioni locali; una prassi che ricorda molto da vicino quella incarnata da Enrico Mattei – che ha improntato il lavoro dell’azienda italiana per tantissimi anni – e che potrebbe essere un ulteriore punto di contatto per ampliare la collaborazione tra le due realtà aziendali in altri paesi del continente africano. 
Aiutare la penetrazione cinese in Africa – così come è stato fatto con la Russia attraveso Gazprom – non è certamente in linea con la strategia occidentale volta al contenimento della Repubblica Popolare nel continente. Questa alleanza tra ENI e CNPC rappresenta pertanto un ulteriore “peccato” commesso dall’azienda di San Donato Milanese, anche se le è economicamente molto vantaggioso con proficue ricadute per tutto il sistema-Italia; come e quando dovrà essere “lavato” questo peccato lo vedremo nel prossimo futuro sulla pelle di tutti quegli italiani che fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese. 

lundi, 11 mars 2013

Rudolf Diesel wollte weg vom Erdöl…


Rudolf Diesel: Der Industrielle und Erfinder hat seinerzeit einen Motor entwickelt, der ganz ohne Petroleum lief. Der amerikanische Öl-Millionär John D. Rockefeller beispielsweise erklärte Diesel deswegen zu seinem "Todfeind".

Freitod oder kaltblütiger Mord? Rudolf Diesel, der vor 150 Jahren geboren wurde, kam von einer Schiffsreise nach London nicht mehr lebend zurück. Über den mysteriösen Tod des Dieselmotor-Erfinders – und seine mächtigsten Widersacher.

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diesel.jpgEs war ein ruhiger Abend auf See. Rudolf Diesel hatte im Speisesaal des luxuriösen Passagierdampfers “Dresden” mit einem bekannten Industriellen zu Abend gegessen. Der große, stattliche Mann mit Brille und Schnauzer war auf dem Weg nach London, wo er ein Motorenwerk einweihen sollte. In bester Laune hatte der 55-Jährige vom Deck aus noch die sternklare Nacht vom 29. auf den 30. September 1913 bewundert. Dann machte sich Rudolf Diesel, der Erfinder des Dieselmotors, auf den Weg in seine Kabine. Dies war der Augenblick, in dem er das letzte Mal gesehen wurde.

Zehn Tage später fand man nur noch die Reste seiner aufgedunsenen Wasserleiche. Was war passiert? “Er ist zuerst mit Chloroform betäubt und dann brutal über die Brüstung ins Meer geworfen worden”, sagt Viktor Glass. Er hat den biographischen Roman “Diesel” über den Erfinder und Mechaniker geschrieben. Bis heute ist nicht geklärt, warum Diesel starb, aber Viktor Glass ist sich sicher, dass er nicht freiwillig ins Wasser sprang. “Diesel hatte sich sein Nachtzeug bereits akkurat zurecht gelegt und seine Taschenuhr so an der Wand der Kabine befestigt, dass er sie vom Bett aus sehen konnte. Das spricht definitiv nicht für Selbstmord”, sagt der Autor.

Ein Unfall wurde sofort ausgeschlossen. Denn die See war an dem Abend extrem ruhig und auch die Reling war so hoch, dass man – auch bei großer Unachtsamkeit – nicht darüber fallen konnte. Einzig ein Kreuz in Diesels Kalender sorgte lange für das Gerücht, er habe mit einem Totenkreuz den Tag seines Sterbens markiert. “Aber das Kreuz könnte auch genauso bedeuten, dass er sich damit den Tag seiner Reise angestrichen hat”, sagt Glass.
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Der erste funktionsfähige Dieselmotor aus dem Jahr 1897

Diesels Todfeinde

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Bleibt die Frage, wer Interesse am Tod des Mechanikers gehabt haben könnte. Kein Zweifel: Diesel hatte mächtige Feinde. “Der amerikanische Öl-Millionär John D. Rockefeller wollte ihn aus dem Weg räumen. Denn Diesels Motor funktionierte ganz ohne dessen Petroleum”, erklärt Viktor Glass. Rockefeller habe Diesel sogar seinen “Todfeind” genannt. Eine andere Theorie spricht laut Glass dafür, dass Diesel auf Befehl des deutschen Kaisers ermordet wurde. Er sei ja nur ein Jahr vor dem Ersten Weltkrieg gestorben, und Wilhelm II. habe Diesel-Schiffsmotoren für die Kampfeinsätze nutzen wollen. Diesel jedoch habe das nicht gewollt – wenn, hätten alle Nationen die gleichen Chancen haben sollen seinen zu Motor nutzen, erläutert Glass die Beweggründe des Erfinders.

Deshalb habe er auch an andere Nationen Patente für seinen Motor verkauft. Mit eventuell tödlichen Folgen: “Wie viele andere Intellektuelle (u.a. Julius Hensel) zu seiner Zeit kam er dann plötzlich um”, so Glass. Der Autor geht davon aus, dass sich die deutsche Seite Rudolf Diesels entledigt hat. Und das, obwohl er zu den wichtigsten Erfindern Deutschlands gehörte. Ein Mann, der es trotz widriger Verhältnisse ganz weit nach oben gebracht hatte.
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Nach Ausbruch des deutsch-französischen Krieges 1870 mussten seine Eltern mit ihm und seinen Geschwistern aus Paris fliehen, wo er am 18. März 1858 geboren worden war. Im Exil in England erwartete die Familie Hunger und Armut. Diesels Eltern konnten ihren Sohn nicht mit durchbringen und schickten ihn während der Kriegswirren zu Verwandten nach Augsburg. Dort ging Rudolf Diesel zur Schule und wurde sich schnell seiner Leidenschaft für Technik und Mechanik bewusst. Schon während seines Studiums an der Königlich-Bayerischen Technischen Hochschule in München hatte er die Idee, einen Motor zu bauen, der die Dampfmaschine ablösen sollte.
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Ohne Zwischenstopp rund um die Welt
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Für dieses Ziel war er bereit, fast alles zu opfern. Heute würde man Diesel als Workaholic bezeichnen: Nächte hindurch saß er über Skizzen und Versuchsaufbauten; er litt an Überarbeitung und starken Kopfschmerzen. 1897 gelang es ihm endlich einen Motor zu schaffen, der deutlich weniger Energie verbrauchte als die Dampfmaschine – eine Revolution. Denn zu der Zeit mussten Dampfschiffe alle paar Tage an Land gehen und neue Kohlen aufladen. Mit seinem Motor konnte ein Schiff ohne Zwischenstopp rund um die Welt fahren. Die Patente für seine Erfindung verkaufte er weltweit. Allein, im Umgang mit Geld war Diesel alles andere als patent; zum Zeitpunkt seines Todes stand er kurz vor seinem finanziellen Ruin.
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Ingenieurstreffen: Rudolf Diesel, Heinrich von Buz und Prof. Moritz Schröter (v.l.) nach der Hauptversammlung des Vereins Deutscher Ingenieure im Jahr 1897.

Auch wenn sich der Erfinder stets mit Stil kleidete und modische Anzüge trug, so hatte er doch nie vergessen, aus welcher Schicht er kam. Sein großes Ziel: Er wollte einen Motor für die einfachen Menschen bauen. Einen, den man beispielsweise für Traktoren nutzen konnte. Die Umsetzung seiner Idee war für die Bauern ein Riesenfortschritt, mussten sie doch zuvor noch per Hand, mit Ochse und Pferd den Boden pflügen und die Saat einholen. “Deshalb ist Diesel als Deutscher heute noch in aller Welt bekannt”, sagt Glass. Natürlich würden viele Hitler kennen. “Aber fragt man einen indonesischen Bauern nach einem Deutschen, wird der sicher ‘Diesel’ antworten”, so der Autor.

Wobei der Mechaniker bereits zu Lebzeiten eine international berühmte Persönlichkeit war: Der amerikanische Präsident Harry S. Truman wollte ihm zum Beispiel eine ganz besondere Ehre zu Teil werden lassen und ihn auf die erste Fahrt durch den Panama-Kanal mitnehmen. Diese Bekanntheit wollte Rudolf Diesel für seine Ideen nutzen. Er hatte sogar vor in die Politik zu gehen, um für mehr soziale Gerechtigkeit zu kämpfen. Eines seiner Ziele war es, dass die Arbeiter Anteile an den Betrieben bekommen; sein Gesellschaftskonzept hielt er in einem Buch mit dem Titel “Solidarismus” fest. Doch war Diesel auch in anderer Hinsicht Visionär: Er spielte schon Ende des 19.Jahrhunderts mit der Idee, Motoren mit Raps oder Hanf zu betreiben, was ihm damals jedoch nicht gelang.
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Die Titanic knapp verpasst
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Ebenso wie ihm der brennende Wunsch versagt blieb, 1912 mit der “Titanic” nach Amerika zu fahren – zu seinem Glück. Da Diesel keine Tickets mehr bekam, nahm er mit seiner Familie ein anderes Schiff und entkam so der Katastrophe. Als der Mechaniker vom Untergang des Schiffes erfuhr, war er geschockt. Immer wieder habe er zu seiner Frau gesagt: “Wenn nur einer gestorben wäre, was wäre dann aus den anderen geworden?”, zitiert Glass den Erfinder. “Auch daran kann man erkennen, dass er sich nie umgebracht hätte”, so der Autor. Diesel hätte niemals seine Familie allein gelassen.

Dennoch warteten seine Frau und seine drei Kinder im Herbst 1913 vergebens auf Rudolf Diesels Rückkehr. Alles, was seiner Familie von ihm blieb, war der Inhalt seiner Manteltasche: ein Portemonnaie, ein Taschenmesser, eine Pillendose. Und das Rätsel um seinen Tod – das sich wohl nie lösen wird. Denn Diesels Leiche wurde kurz nach ihrer Entdeckung wieder zurück ins Meer geworfen.
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Quelle: eines tages

samedi, 09 février 2013

Zypern: Machtpoker um Gas-Milliarden

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Zypern: Machtpoker um Gas-Milliarden

Michael Brückner

 

Paradies für Steuerhinterzieher, Waschsalon für russisches Schwarzgeld, Spielwiese für dekadente Milliardäre: Folgt man den EU-Bürokraten und den Mainstreammedien, dann ist die Finanzkrise auf Zypern die gerechte Strafe für unbotmäßiges Verhalten. Doch dahinter steckt viel mehr: milliardenschwere Gasgeschäfte, die geopolitische Macht im östlichen Mittelmeer und die Interessen der Türkei.


Der gelernte Banker Vassos Shiarly war schon im Ruhestand, als ihn im März vergangenen Jahres ausgerechnet ein bekennender Kommunist um Hilfe bat: Dimitris Christofias, Staats- und Ministerpräsident der Mittelmeer-Republik Zypern, suchte nach einem Retter in höchster Not. Das drittkleinste EU-Mitgliedsland steht nämlich seit vielen Monaten vor der Pleite. Shiarly folgte seiner patriotischen Gesinnung und übernahm das Amt des Finanzministers – ohne einen Cent Gehalt, wie er ausdrücklich betont. Schließlich habe der Präsident jemanden gesucht, der zumindest die Grundlagen des Finanzwesens verstehe, sagte der Minister jüngst in einem Interview. Soll wohl heißen: Allzu viel ökonomischer Sachverstand ist in der kommunistischen Regierungspartei AKEL offenkundig nicht vorhanden.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/michael-brueckner/zypern-machtpoker-um-gas-milliarden.html

lundi, 04 février 2013

Nouveaux gisements pétrogaziers en Méditerranée, sources de rivalité

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Nouveaux gisements pétrogaziers en Méditerranée, sources de rivalité



La Turquie exige de Chypre qu’elle suspende l’exploitation de ces ressources gazières ou donne aux Chypriotes turcs la possibilité d’y participer. Elle met en garde la Grèce contre les tentatives de définir unilatéralement les frontières de la zone économique exclusive et parle de “territoires litigieux”. La Grèce pourrait entrer en conflit avec l’Albanie pour les gisements de la mer Ionienne. Les Etats-Unis et l’UE cherchent, pour leur part, à empêcher le renforcement de l’influence de la Russie dans la région.

Le nœud chypriote

Le gisement de gaz Aphrodite, sur le plateau de Chypre, est le plus grand découvert ces dix dernières années. A l’automne 2012, Chypre annonçait que les réserves découvertes s’élevaient à 1.700 milliards de mètres cubes de gaz et étaient estimées à 2.000 milliards d’euros mais en janvier 2013, l’ambassadeur de Chypre en Grèce a donné des estimations deux fois plus élevées – 3.400 milliards de mètres cubes de gaz et 235 millions de tonnes de pétrole. Seules les réserves du secteur №12 (entre 230 et 240 milliards de mètres cubes) suffiraient pour assurer les besoins de Chypre pour les 300 prochaines années.

L’exploitation de ce champ pourrait régler les problèmes financiers de Chypre mais le pays risque également une “colonisation économique”. Près de 30 compagnies de 15 pays ont déjà répondu à l’appel d’offres pour le forage d’exploration – et la course promet d’être serrée.

Après le début des travaux sur le plateau, le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan a déclaré qu’Ankara et la République turque de Chypre du Nord (RTCN), non reconnue par la communauté internationale, commenceraient d’exploiter le pétrole et le gaz dans la “zone économique exclusive de Chypre du Nord“. Quant aux Etats-Unis, la porte-parole du département d’Etat Victoria Nuland a déclaré que les USA soutenaient le droit de Chypre d’exploiter les ressources énergétiques sur son plateau, mais Washington espère que “toutes ses ressources seront équitablement réparties entre les deux communautés (grecque et turque, ndlr)”.

En août 2012, l’Egypte a également revendiqué une partie de l’Aphrodite chypriote et du gisement voisin – le Léviathan israélien. Les accords israélo-chypriotes sur les frontières des eaux économiques exclusives des deux pays et sur la coopération pour l’exploration géologique dans ces eaux portent atteinte aux intérêts égyptiens, a déclaré la commission du parlement égyptien pour la sécurité nationale.

Le Liban prétend également au gaz de Léviathan israélien – cette question est à l’étude à l’Onu. Pour l’instant, il n’y a aucun problème avec Chypre : les 9 et 10 janvier 2013, les présidents chypriote et libanais, Dimitris Christofias et Michel Sleiman, ont convenu de coopérer pour l’exploitation des richesses naturelles.

Israël a également l’intention de collaborer avec Nicosie et Athènes, sans qui il développerait difficilement ses gisements de gaz. Cette découverte a permis d’améliorer les relations autrefois tendues entre la Grèce et Israël – en 2010, ils se sont entendus pour coopérer dans les domaines économique et militaire. Israël a étudié la possibilité de louer une île grecque pour déployer une base militaire et la Grèce a négocié son intégration au projet d’exploitation de Léviathan et d’acheminement du gaz en Europe.

Chypre, la Grèce et Israël ont déjà annoncé leur volonté de regrouper les ressources énergétiques – pendant les trois prochains mois ils ont l’intention de lancer le projet EuroAsia Interconnector, qui réunira les réseaux électriques des trois pays grâce à un câble sous-marin.

La Grèce saisit l’Onu

La Grèce pourrait devenir le 15ème plus grand détenteur de ressources de gaz naturel au monde. Selon les autorités, les gisements de gaz découverts sur le plateau du sud de la Crète permettront d’apporter à l’économie 427 milliards d’euros et régleront tous les problèmes énergétiques et financiers du pays. La Grèce est aussi à la recherche de gisements de pétrole dans les mers Ionienne et Egée, dont les ressources pourraient être également importantes.

Selon les journalistes du pays, la Grèce compte définir les frontières du plateau à l’Onu début 2013. Le quotidien Vima a déclaré le 7 janvier que le département hydrographique de la marine grecque avait déjà déterminé les coordonnées et que le gouvernement donnait son feu vert au transfert de la demande à la commission de l’Onu pour le droit de la mer, afin de valider les frontières du plateau continental.

Ankara avait mis en garde la Grèce contre des mesures unilatérales. Le ministre turc de l’Energie Taner Yildiz a parlé de “territoires litigieux” et a appelé la Grèce à ne pas faire de travaux en mer Egée sans avoir consulté Ankara. La délimitation du plateau complique les relations de la Grèce avec certains autres pays comme la Libye. Des zones de 200 miles des deux pays se superposent et il est nécessaire de convenir les limites de la zone économique exclusive. Les discussions d’experts ont commencé avec la Libye en 2007 mais après le renversement de Mouammar Kadhafi, la situation a changé. Lors d’une récente visite du ministre grec des Affaires étrangères à Tripoli, les nouvelles autorités ont déclaré que le problème des zones maritimes n’était pas bilatéral et qu’il fallait organiser des négociations avec tous les pays frontaliers.

Les partisans et les opposants

La Grèce est à la recherche de partisans, avant tout du côté de l’Allemagne, de la France, et d’autres alliés de l’Otan. Athènes estime que la Russie soutiendra la Grèce dans son litige avec la Turquie et les Etats-Unis ne devraient pas non plus s’y opposer, pensent les observateurs grecs.

Le ministre grec de la Défense a déclaré que l’heure était venue de se débarrasser de l’antiaméricanisme traditionnel. Dans un article publié par la presse occidentale, l’ex-premier ministre grec Georges Papandreou a suggéré aux Etats-Unis de former un nouveau “plan Marshall vert” pour la Méditerranée – une région “cruciale pour la sécurité internationale des USA“.

Selon Papandreou, le projet européen est aujourd’hui menacé, la situation nécessite le retour du leadership américain et ce sont les USA qui doivent lancer une “large initiative énergétique, diplomatique et pacifique qui unirait le Proche-Orient, la Méditerranée et l’Europe grâce à la coopération énergétique“.

Par ailleurs, les Etats-Unis et les pays européens cherchent à affaiblir l’influence de la Russie dans la région. Le 8 janvier, à la question de savoir ce qu’elle pensait de la vente de la compagnie gazière grecque DEPA et de sa filiale de transport de gaz DESFA à Gazprom, la porte-parole du département d’Etat Victoria Nuland a déclaré que la Grèce prenait des décisions autonomes dans le domaine énergétique, en conformité avec ses propres lois et les règlements de l’UE, mais que Washington suggérait à tous les pays de diversifier leurs sources d’énergie.

Selon Athènes, la Russie a officieusement mais clairement montré qu’elle devait remporter l’appel d’offres lorsqu’en novembre 2012 Gazprom a soudainement annoncé qu’il ne construirait pas en Grèce de déviation du gazoduc South Stream.

Quant aux Etats-Unis, ils ont intérêt [à ce] que les compagnies gazières grecques se retrouvent entre les mains des entreprises locales, avec lesquelles les USA ont des relations étroites depuis longtemps. D’autant que le coût des entreprises en cours de privatisation augmentera fortement s’il devenait possible de convenir d’itinéraires de livraison du gaz à partir des nouveaux gisements.

RIA Novosti

samedi, 02 février 2013

Il Kurdistan vende petrolio alla Turchia e beffa Baghdad

Il Kurdistan vende petrolio alla Turchia e beffa Baghdad

Un deputato turco denuncia un accordo segreto, mentre i curdi annunciano apertamente quello che il governo centrale considera “contrabbando”

Ferdinando Calda

kurdish_oil_fields.gifUn accordo segreto tra la Turchia e il governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno per il commercio di gas e petrolio all’insaputa del governo centrale di Baghdad. È quanto denuncia un deputato turco del Partito repubblicano del popolo (Chp), Aytun Ciray, secondo il quale nell’ambito di questo accordo – firmato lo scorso anno – è stata fondata anche una società offshore controllata da persone vicine al governo di Ankara. Come riporta il quotidiano turco Hurriyet, Ciray ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, sottolineando come “se questo accordo entrasse in vigore, lo scioglimento di fatto dell’Iraq sarebbe inevitabile”.
Attualmente tra Baghad e Irbil (capitale del Kurdistan) è in atto un’accesa disputa per la distribuzione dei proventi del petrolio e il controllo dell’area settentrionale intorno a Kirkuk, ricca di giacimenti. In teoria tutti i proventi della vendita all’estero di greggio dovrebbero essere versati nelle casse del governo centrale, che provvede poi a ridistribuirli anche in Kurdistan. L’accordo denunciato da Ciray, invece, lascerebbe a Irbil tutti i proventi derivanti dalla vendita del petrolio che si trova in territorio curdo, che verrebbe trasportato e venduto nei mercati internazionali attraverso la Turchia.
Già un paio di settimane fa il governo del Kurdistan aveva riconosciuto pubblicamente di aver iniziato – dall’ottobre scorso – a esportare il proprio greggio in Turchia con le autobotti (per bypassare gli oleodotti controllati dal governo centrale) al ritmo di 15mila barili al giorno, in cambio di prodotti petroliferi raffinati e carburanti. Un commercio che a Baghdad definiscono senza mezzi termini “contrabbando”. “Siamo stati costretti ad agire in questo modo a causa della decisione del governo di Baghdad, il quale non ha mantenuto la sua promessa di pagare le compagnie petrolifere”, ha ribattuto il sottosegretario del ministero del Petrolio e del Gas naturale del Kurdistan, Ali Hussain Belu, annunciando l’intenzione di portare il volume delle importazioni a 20 mila barili “il più presto possibile”.
Nel frattempo a Irbil continuano a stringere accordi con le compagnie petrolifere straniere senza passare per Baghdad. Una mossa che fa infuriare il governo centrale, che ha già minacciato più volte di escludere dai ricchi giacimenti nell’Iraq meridionale le società che trattano direttamente con le autorità curde. L’ultimo ultimatum in questo senso è stato lanciato alla statunitense Exxon Mobil, “colpevole” di aver firmato di recente un accordo con Irbil per lo sfruttamento di alcuni giacimenti nel nord. “Exxon Mobil non può lavorare in entrambi i giacimenti (nel nord e nel sud ndr) allo stesso tempo”, ha avvertito lunedì scorso il ministro del Petrolio iracheno, Abdul Kareem Luaibi, in seguito a un incontro tra il numero uno di Exxon, Rex Tillerson, e il primo ministro iracheno Nuri al-Maliki.
Nel mezzo di questa controversia, la Turchia del premier Recep Tayyip Erdogan sta da tempo appoggiando il governo del Kurdistan, sia perché interessata al petrolio curdo, ma anche perché vuole approfittare della collaborazione dei curdi iracheni nella lotta contro i separatisti curdi del Pkk, avversari politici della leadership curda irachena vicina al presidente del Kurdistan Massoud Barzani.
 


29 Gennaio 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18767

jeudi, 24 janvier 2013

Syrian Revolt and Pipeline Geopolitics

Syrian Revolt and Pipeline Geopolitics

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No matter what was said about the causes of the conflict in Syria, there is one fundamental thing connected with Petropolitics and interests of  global capital. Now let's go away aside the tactics of guerrilla warfare and analysis formed situation with methods of propaganda through Social Networks and hidden religious motives. 
The state of affair of the regional powers, which are the most important players in energy politics presents Iraq and Iran are on the one hand and Qatar and Saudi Arabia are on another. Syria mediates possible infrastructural regional projects, and trunk pipelines could link the region of The Great Middle East to Western Europe. 
 
The environmental determinism pointes out that this state is in a more advantageous position than Turkey through which the Baku–Tbilisi–Ceyhan pipeline lies. The South Caucasus is further north and the Russian Federation have strategic interests there. 
 
So, Syria is the only fall-back position as an alternative of a transit country. Besides having own oil fields, Syria's leadership is quite aware of the importance of country's geographical location.
 
In 2009 Bashar al-Assad has been promoting a "Four Seas Strategy" to turn the country into a trade hub among Persian Gulf, the Black Sea, the Caspian Sea and Mediterranean Sea. In 2010, the government signed a memorandum of understanding with Iraq for the construction of two oil pipelines and one gas pipeline to carry gas and oil from Iraq’s Akkas and Kirkuk fields on the Mediterranean Sea. In July 2011 Iranian officials announced a $10 billion gas pipeline deal between Syria, Iraq and Iran that would transport gas from Iran’s South Pars gas field, the world’s biggest, through Iraq to Syria. Also was planned an extension of the AGP from Aleppo in Syria, to the southern Turkish city of Kilis that could later link to the proposed Nabucco pipeline linking Turkey to Europe.
 
The presence of such players in one team contradicted the Washington's plans to manipulate energy flows to Europe. These plans might be ruined by serious force  majeure circumstances. At the beginning of 2011 the first demonstrations in Syria were already held and the idea of creating chaos was supported by The West and the regional powers, because it could prevent the realization of Syria's Four Seas Strategy. Turkey is one of these countries which run counter to its own strategy  "not to have problems with neighbors". The second state is diminutive Qatar which serves interests of the USA and the UK. Turkey depends on gas from 
Russia and Iran. It was advantageous for Turkey from the point of view of Eurasian Strategy to enter into alliance with Syria, (there is dependence on the West through NATO), then Qatar found out the advantage of destruction of a possible energy alliance. Earlier Qatar had proposed a gas pipeline to Syria to transport gas across Europe, but this idea was refused. A sense of revenge had a great impact on The Arab Spring. Estimating the perspective gas income to Europe and having found the support from paranoid politicians who were anxious about Gazprom's monopoly, Qatar started to support for an extended front of opposition - the National Transitional Council, a politically amorphous structure, some Non-Governmental Organizations and Jihad terrorists, many of whom do not even understand their enemies. Taking into account the means of tools of soft power, Qatar and The Department of State of U.S. started sponsoring different religious centers and organizations in particular those which are connected with the Sufi Tradition and mystical Islam in general. For example, Sheikh Abdelkader, a follower of Sheikh Mawlay al Arabi ad Darqawi’s theory, established links with Qatar and the UAE, getting a financial support from these countries. The center of the Naqshbandi order in Cyprus also was involved in a pro-American shady undertaking. Sheikh Nazim Al-Haqqani established links with the State Department and propagandized threat from Russia: the fake script of the invasion of Turkey and the liberation of Istanbul with the help of Anglo-American army. 
 
Moreover Qatar has worth millions contracts for the purchase of arms from the USA. It is doubtful whether the diminutive state is going to defend from the neighboring satellite states - Saudi Arabia, Bahrain or the UAE. Probably they act on suggestion of The Pentagon for the hypothetical protection from Iran, which is not going to conflict with the countries on the other side of  the Persian Gulf. Iran as an important ally of Syria is the next target of the West. This is not a random collection of facts.
 
This is the actual position of affairs of the Mid-East geopolitics. Be watchful!
 
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lundi, 14 janvier 2013

Gibt es eine Souveränität ohne Energie-Souveränität?

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Gibt es eine Souveränität ohne Energie-Souveränität?

Die Energiewende als Weg in eine friedliche Zukunft? Zu Daniele Gansers Buch «Europa im Erdölrausch. Die Folgen einer gefährlichen Abhängigkeit»

von Tobias Salander, Historiker

Ex: http://www.zeitfragen.ch/

Wie hängen Menschenwürde, soziale Gerechtigkeit, nationale Unabhängigkeit, Ernährungs-Souveränität, Energiesicherheit, der Wahrheit verpflichtete Geschichtsschreibung und die Frage von Krieg und Frieden zusammen? Gibt es Frieden ohne den demokratischen Rechtsstaat? Den demokratischen Rechtsstaat ohne Ernährungs-Souveränität? Ernährungs-Souveränität ohne Energiesicherheit? Energiesicherheit ohne Frieden? Oder andersherum: soziale Gerechtigkeit ohne nationale Unabhängigkeit? Nationale Unabhängigkeit ohne Energiesicherheit? Energiesicherheit ohne den demokratischen Rechtsstaat? Den demokratischen Rechtsstaat ohne Frieden? Frieden ohne eine der Wahrheit verpflichtete Geschichtsschreibung? Die einzelnen Elemente liessen sich auch in anderen Kausalketten verknüpfen, die Elemente auch erweitern durch die Begriffe Humanitäres Völkerrecht, Menschenrechte, aufrechter Gang, Zivilcourage usw. – kurz und gut durch das Insgesamt der Uno-Charta als wegweisenden Dokuments für eine bessere, humanere Welt und als Kontrapunkt zu Krieg, Hass, Zerstörung, wie sie die Welt im Zweiten Weltkrieg gesehen hatte und daraus den Schluss zog: Nie wieder!
All die oben aufgeworfenen Fragen und Ansätze zu deren Beantwortung finden sich in dem neuen Buch eines Schweizer Historikers, der schon durch frühere Forschungen aufgefallen war – und zwar auf Grund seiner Unerschrockenheit, absoluten Wahrheitsliebe und Unbestechlichkeit, die ihm so manches berufliche Ungemach und scharfe persönliche Anfeindungen eintrugen – ein Vorgang, der einen Forscher, der auf dem Boden des Humanitären Völkerrechts und der direktdemokratischen Tradition der Schweiz steht, ohne zu wanken, nur adeln kann – zeigt es doch, dass die Arbeit ins Schwarze trifft, kriminelle Energien elitärer Oligarchien aufdeckt und deswegen breit diskutiert gehört.
Dr. Daniele Ganser, Historiker und Gründer des SIPER, des Swiss Institute for Peace and Energy Studies, trägt in seinem minutiös recherchierten Werk «Europa im Erdölrausch. Die Folgen einer gefährlichen Abhängigkeit» Daten und Fakten zusammen, die auf folgende Schlussfolgerung hinauslaufen: Angesichts des 2006 erreichten weltweiten Peak Oil, des Fördermaximums von Erdöl, und des seitherigen Rückgangs der Förderrate bleibt der Weltbevölkerung nur ein Ausweg: zu 100% auf erneuerbare Energien zu setzen und die mit der Energiesicherheit der einzelnen Länder verbundenen Konflikte im Dialog zu lösen. Die Alternativen, die niemand wollen kann, wären Krieg, Gewalt oder Terror, also die altbekannten Mittel der Machtpolitik, welche die Würde des Menschen, die Souveränität der Nationalstaaten und das friedliche Zusammenleben der Völker mit Füssen treten.

Vorbei sind die Zeiten, als Forscher, die auf die Begrenztheit fossiler Energieträger verwiesen, nicht ernst genommen wurden. Die Tatsache, dass das konventionelle Erdöl, das heisst jenes Öl, welches einfach zu fördern ist, 2006 weltweit seinen Peak erreicht hat, ist heute Grundlage der Analysen des Internationalen Währungsfonds (IWF), aber auch der Internationalen Energieagentur (IEA) mit Sitz in Paris. Bemerkenswert, dass die IEA, 1974 als Gegenstück zur OPEC und im Dienste der OECD gegründet, seinerzeit lange daran zweifelte und in ihrem jährlich publizierten Standardwerk World Energy Outlook (WEO) die mögliche Förderquote zwar jährlich nach unten korrigieren musste, dann aber mit dem Jahrbuch 2010 den Peak Oil ebenfalls auf 2006 datierte.
Was Ganser mit seinem Buch gelingt und es für die Schule ab Oberstufe qualifiziert, ist sein polyperspektivischer Ansatz: Statt dass er selber Wertungen vornimmt, ausser dort, wo die Sachlage absolut eindeutig ist, lässt er immer die Sicht der Betroffenen und der Akteure zu Wort kommen – Aussagen, die in ihrer Klarheit, ja zum Teil Unverfrorenheit zum eigenen Nach- und Weiterdenken veranlassen. Oder um sein Anliegen mit dem von ihm zitierten Friedrich Nietzsche zu formulieren: «Es gibt nur ein perspektivisches Sehen, nur ein perspektivisches Erkennen. […] Je mehr Affekte wir über eine Sache zu Wort kommen lassen, je mehr Augen, verschiedene Augen wir uns für dieselbe Sache einzusetzen wissen, um so vollständiger wird unser ‹Begriff› dieser Sache, unsere ‹Objektivität› sein.» (Ganser S. 320. Zitat aus: Schönherr-Mann, Hans-Martin: «Friedrich Nietzsche». Paderborn 2008, S. 38)

George W. Bush: «Die USA sind erdölsüchtig»

Was 1859 in Titusville, Pennsylvania, begann und einen unglaublichen Wohlstand für viele Menschen mit sich brachte, vor allem natürlich in der ersten Welt, die Förderung von Erdöl, hat sich seit dem Zweiten Weltkrieg zu einem wahren Erdölrausch mit allen Begleitumständen eines Suchtverhaltens entwickelt. Wurden 1945 weltweit 6 Millionen Fass (à 159 Liter) pro Tag verbraucht, sind wir 2012 bei der schwer vorstellbaren Zahl von 88 Millionen Fass angelangt, einer Menge, die 44 Supertanker täglich über die Weltmeere transportieren!
Die grössten Süchtigen sind die USA mit 20 Millionen Fass täglichen Verbrauchs, dann China mit 9 Millionen Fass. Weniger im Vordergrund der Medien, aber um so zentraler für uns Europäer: Europa liegt immer noch weit vor China mit 15 Millionen Fass pro Tag.
Diese Zahlen und die Tatsache, dass die USA ihren Peak Oil schon 1970 hatten, China 1994, Grossbritannien und Norwegen im Jahre 2000, machen verständlich, dass heute eine scharfe Konkurrenz in Energiefragen zwischen China, den USA und, wenn auch verdeckter, Europa besteht. Wie sagte es im April 2006 George W. Bush in seiner State-of-the-Union-Botschaft? «Die USA sind erdölsüchtig. Und dieses Erdöl muss oft aus instabilen Regionen der Welt importiert werden.» Und der nun wiedergewählte Barak Obama gemäss «Neuer Zürcher Zeitung» vom 5. August 2008: «Unsere Sucht nach Öl zu durchbrechen ist eine der grössten Herausforderungen, der unsere Generation je gegenüberstehen wird.»

Weitere Kriege um Öl – oder friedliche Energiewende?

Kostete ein Fass Öl von 1950 bis 1960 konstant 2 Dollar, waren es 1999 schon 10 Dollar, 2008 dann aber die bis dato unvorstellbare Summe von 148 Dollar! Wenn auch heute der Preis wieder etwas gesunken ist, verharrt er weiterhin auf einem hohen Niveau, was gängigen Preisentwicklungsmodellen widerspricht und erstmalig in der Geschichte der Erdölförderung vorkommt. So musste die IEA 2008 die ernste Warnung publizieren, dass die Produktion vielerorts rückläufig sei, und dies bei steigender globaler Nachfrage: ein ungelöstes Problem!
Auf Grund dieser eindeutigen Faktenlage und in Kenntnis des dunklen Stromes der Menschheitsgeschichte, einer Geschichte, die einerseits zwar so reich an prohumanen Abläufen, Persönlichkeiten und Gemeinschaften ist – es seien nur die Arbeiten über die Genossenschaften von Elinor Ostrom und das Uno-Jahr der Genossenschaften 2012 in Erinnerung gerufen, ganz zu schweigen vom genossenschaftlichen Aufbau des Friedensmodells Schweiz –, andererseits aber auch menschliche Niedertracht aufweist, ein defizitäres Verhältnis des Menschen gegenüber der menschlichen Natur, gipfelnd in der Gier nach Geld, Macht und sexueller Perversion: Eingedenk dieses Hintergrundes stellt Daniele Ganser die These auf und belegt sie auch mit ungezählten Dokumenten, die These, dass die USA und die europäischen Länder heute, nach dem Zusammenbruch der Sowjet­union, Kriege führen, um Erdöl zu erbeuten – und mitnichten aus humanitären Gründen.
Oder wie kamen die drittgrössten Erdölreserven wieder in die Hand der westlichen Konzerne? Stichwort Irak-Krieg 2003. Wie kam die grösste Ölreserve Afrikas wieder an die Nachkommen der 7 Schwestern, der grossen westlichen Erdöl-Konzerne wie jene aus dem Hause Rockefeller und Rothschild? Stichwort Libyen-Krieg 2011. Und wird ­Syrien in einen Krieg um Gas getrieben?
Ganser gibt zu bedenken, dass wir im Westen dies gerne verdrängen würden, dass für Erdöl getötet werde. Seine sauber dokumentierten Belege machen aber künftig eine Verdrängung unmöglich. Und genau das ist das Anliegen des Autors: Einen Bewusstseinswandel herbeizuführen, denn ohne den sei die Energiewende nicht möglich, und schon gar nicht mit den alten barbarischen Methoden des Krieges und der Gewalt. Die vier nicht erneuerbaren Energiequellen: Erdöl, Erdgas, Kohle und Uran, seien durch die 6 erneuerbaren, nämlich Sonne, Wasser, Wind, Biomasse, Biogas, Erdwärme, zu ersetzen. Gemäss WWF Schweiz sei eine hundertprozentige Energiewende bis zum Jahr 2050 machbar.

Unser Zeitalter ist lediglich ein fossiles Intermezzo

Nach einem Blick in die Geologie und die Geschichte der letzten 2000 Jahre, die sich packend liest, da leicht verständlich geschrieben, und sich für Schüler ab der Oberstufe bestens eignet, bilanziert Ganser: Heute leben wir in einem fossilen Energierausch und haben vergessen, dass die Energie einst knapp und sehr teuer war! In den letzten 200 Jahren hat Eu­ropa fossile Energieträger verbraucht, die endlich sind – die Schattenseiten aber wurden ausgeblendet!
Unser Zeitalter sei historisch gesehen lediglich ein «fossiles Intermezzo», das allerdings vielen Menschen eine Mobilität gebracht habe, die im Mittelalter nicht einmal Königen möglich war!
Nebst der Beschreibung der Entstehung der grossen integrierten Konzerne wie Standard Oil, Royal Dutch Shell, British Petroleum, Total und Eni, in einer späteren Phase dann auch der staatlichen Konzerne der OPEC-Staaten wie Saudi-Aramco usw. leistet Ganser aber auch eine Arbeit, die schon lange erwartet wurde: Integriert in die Geschichte des «schwarzen Goldes» ist eine Schweizer Geschichte, die eine wohltuende sachliche Darlegung der geostrategischen Lage der Eidgenossenschaft beinhaltet, insbesondere auch während der beiden grossen Kriege des 20. Jahrhunderts.

Erpressungsmittel Kohle und Öl – eine implizite Widerlegung von Bergier

Da wird glasklar dargestellt, dass sowohl in der grössten Katastrophe der bisherigen Menschheitsgeschichte, dem Zweiten Weltkrieg als auch dem Morden des Ersten Weltkrieges, die Schweiz sich im Würgegriff der kriegsführenden Mächte befand und schon früh von den Briten und den Franzosen erpresst wurde, später auch von den USA, aber auch von den Nationalsozialisten. Alle Kriegsparteien wähnten, die kleine, neutrale Schweiz könne zur Sicherheitslücke werden und ihre mühsam importierten Produkte dem Feinde weiterreichen. Dass die wirtschaftliche Souveränität der Schweiz im Ersten Weltkrieg verlorenging, weil die Briten und die Franzosen den Handel nach ihrem Gusto diktierten, liest man als Schweizer Bürger nicht gerne – vor allem auch im Hinblick auf die heutige Situation, umringt von einer krisengeschüttelten EU und als Nachbar eines Deutschlands, welches unverschämte Töne anschlägt und eine Machtpose einnimmt, die an ungute Zeiten erinnert. Die doppelte Würgeschlinge im Zweiten Weltkrieg, die rigorosen kriegswirtschaftlichen Sparmassnahmen, die dunklen und kalten Wohnungen, die Macht von König Kohle, damals noch weniger vom «schwarzen Gold» – all die Ausführungen Gansers lassen eine Rekonstruktion der Ereignisse zu, die ein Bergier-Bericht verunmöglichte, ja in seiner ideologischen Zielrichtung gar bekämpfte. Ohne den Namen Bergier überhaupt nur in den Mund zu nehmen – ein nachahmenswertes Vorgehen, ist doch für das geheimdienstliche Bergier-Machwerk das Papier zu schade, auf dem es gedruckt wurde –, wirkt die sachliche Darstellung Gansers als Antidot, als Gegengift, welches die Köpfe klärt, die Sinne entwirrt und klar herausstreicht: ohne zähe Verhandlungen wären die Schweizer erfroren oder verhungert. Und: Was bereits Autoren wie Charles Higham («Trading with the Ennemy»), Herbert Reginbogin («Hitler, der Westen und die Schweiz»), Alberto ­Codevilla («Eidgenossenschaft in Bedrängnis») und andere klarstellten (vergleiche auch Zeit-Fragen Nr. 33 vom 20. August 2012): Ohne die Lieferung von Erdöl und seinen Derivaten wie Antiklopfmittel und anderen hätte Mussolini seine Äthiopien-Aggression nach einer Woche abbrechen müssen, wären Hitlers Panzerarmeen mit ihrer Blitzkriegstaktik aus Mangel an Treibstoff schon lange zum Stehen gekommen. Aber man lieferte so lange, wie man Hitler brauchte, um Stalin auszubluten, und als dann Rommel gegen Baku vorstossen sollte, da gingen die Treibstoffreserven plötzlich zur Neige, da die britische Flotte im Mittelmeer die deutschen Tankschiffe versenkte.
Der Zweite Weltkrieg aus der Perspektive des Erdöls – ein anderer Krieg als der, den man in den bisherigen Geschichtsbüchern antrifft.

Öl und der Schuss von Sarajevo, Öl und Pearl Harbor

Hatte nach dem Ersten Weltkrieg der britische Lord Curzon festgehalten: «Die alliierte Sache ist auf einer Woge von Öl zum Sieg geschwommen», so liess Stalin am Ende des Zweiten Weltkrieges in einem Toast gegenüber Churchill die US-Ölindustrie hochleben und sagte: «Dies ist ein Krieg der Motoren und der Oktanzahl.» Auf der anderen Seite hatte Hitler schon früh konstatiert: «Um zu kämpfen, brauchen wir Erdöl für unsere Maschinen.» Und: «Wenn wir das Öl bei Baku nicht kriegen, ist der Krieg verloren.»
Ganser hält fest, dass nicht nur für den Ersten, sondern auch für den Zweiten Weltkrieg die Rolle des Öls stark unterschätzt werde: Mit den USA kämpfen hiess, genügend Erdöl zu haben – und zu gewinnen.
Ganser geht unter Beizug der Quellen und Darstellungen ganz nahe an diverse Ereignisse heran, die in den Schulgeschichtsbüchern tunlichst umschifft werden:
Natürlich fiel in Sarajevo der weltberühmte Schuss – dass aber gerade Serbien das einzige Glied in einer Kette war, bei welchem die Briten die deutschen Bestrebungen, das Öl aus dem Irak via die Berlin–Bagdad-Bahn zu transportieren, noch unterbinden konnten, um ihre Weltmachtstellung, die Beherrschung der Ölrouten mit ihrer Flotte, zu sichern, wird plausibel dargestellt – und lässt weitergehende Schlüsse zu …
Was Pearl Harbor betrifft, lässt Ganser den 1942 bis 1946 in der US-Marine tätigen Robert Stinnett zu Wort kommen: Danach hat Roosevelt Japan mit dem Ölembargo bewusst provoziert, um die USA als Opfer einer Aggression in den Krieg führen zu können. Der Präsident «war gezwungen, zu um- und abwegigen, auch zu unsauberen Mitteln zu greifen, um ein isolationistisch gesonnenes Amerika zur Beteiligung an einem Kampf für die Freiheit zu überreden». Stinnetts Buch sei die fundierteste und umfassendste Untersuchung zu Pearl Harbor.

Einbezug von Öl taucht so manches Ereignis in ein anderes Licht …

Die Fülle des Buches von Ganser kann hier nicht andeutungsweise gewürdigt werden. Es seien hier aber weitere Kostbarkeiten aus seinem Werk in Form von Kapiteltiteln genannt:
«Der Aufstieg von Saudi-Arabien und Saudi Aramco», «Der Sturz der iranischen Regierung durch die USA 1953», «Die Suezkrise und die Angst vor Lieferunterbrüchen», «Der Bau von Pipelines in den USA und Europa», «Der italienische Erdölkonzern ENI und der Tod von Enrico Mattei», «Der Bau der Zentraleuropäischen Pipeline CEL über die Alpen», «Der Bau der Transalpinen Pipeline TAL durch Österreich», «Die Macht der Kartelle», «Die sieben Schwestern und das Kartell von Achnacarry», «Die Milliardengewinne der Erdölkonzerne», «Die Gründung der OPEC 1960», «Die erste Erdölkrise 1973» usw., usw.
Und so geht es weiter zum Club of Rome, zur zweiten Erdölkrise, den Golf-Kriegen, 9/11 und den jüngsten Kriegen bis zum ­Libyen-Krieg. Ältere Semester erleben bei der Lektüre dieser Kapitel das eine oder andere Déjà-vu, sind vielleicht einmal mehr erschüttert ob der kriminellen Energie der Akteure des Westens, während jüngere Leser, die zur Zeit von 9/11 noch im Kindergartenalter standen, sich ein Bild machen können über die Zeit, die ihre Kindheit und Jugend geprägt hat, ohne dass sie dies bisher, altersbedingt, hatten durchschauen können.

Ölkrise von 1973: US-Inszenierung vor dem Hintergrund des US-Peak-Oil

Aus der Fülle der Einsichten, die man Gansers Buch entnehmen kann, hier kurz einige Stichworte zur Erdölkrise von 1973. Worum ging es dabei noch einmal? Um Ölknappheit? Von wegen. Es war eine Preiskrise, keine Mengenkrise. Und im Hintergrund stand, so die These Gansers, die vorausgegangene Dollarkrise. Und hinter dieser Peak Oil in den USA.
Aber der Reihe nach: Als Folge des teuren Vietnam-Krieges waren mehr Dollars im Umlauf, als Gold im Keller der FED, der privaten US-Notenbank, lagerte. Viele Notenbanken verlangten deshalb Gold für ihre Dollars. Als Frankreich 1969 seine Dollarreserven in Gold einlösen will, sehen sich die USA nicht in der Lage dazu! Denn die Goldreserven der USA deckten nur noch ¼ der US-Auslandschulden. Es war also nicht das Öl knapp, sondern das Gold zur Deckung der Dollars, mit denen man Öl kaufen wollte. In dieser Situation riet Henry Kissinger – seit 1969 nationaler Sicherheitsberater, ab 1973 Aussenminister – mit anderen, Nixon solle die Golddeckung des Dollars aufheben. Und am 15. August 1971 verkündete Nixon die Aufhebung der Golddeckung des Dollars im TV und löste damit das aus, was als «Nixon-Schock» in die Geschichte einging. Europa zeigte sich verstimmt, die Erdölexporteure erhielten nun weniger für ihr Öl, für die USA hingegen hatte dieser Schritt grosse Vorteile: Bis heute kann die FED aus dem Nichts Dollars drucken und gegen Öl eintauschen!
Ben Bernanke, Chairman des FED, brachte es später auf den Punkt: «Die US-Regierung hat eine Technologie, genannt Druckpresse (bzw. heute ihre elektronische Version), die es ihr erlaubt, so viele Dollars zu drucken, wie sie will, und das praktisch gratis.»
Oder mit den Worten von Professor Walter Wittmann, Uni Freiburg, 2008: «Die US-Notenbank FED produziert, wenn nötig, Dollarscheine wie die Firma Hakle Klopapier.»

Kissinger und Bilderberger wollten höheren Ölpreis

Mögen diese Abläufe durchaus nicht unbekannt sein, so geht Ganser einen Schritt weiter in der Aufdeckung der Hintergründe, er zieht quasi einen weiteren Vorhang, der die wahren Fakten verbirgt: Hinter der Auflösung der Golddeckung von 1971 stehe die einbrechende Erdölproduktion in den USA von 1970. Das heisst, die USA mussten nun mehr Öl importieren, und dies ist nun mal viel billiger ohne Golddeckung, da man so die Dollarmenge einfach ausweiten kann.
In der weiteren Darlegung der 1973er Hintergründe folgt Ganser einem Rat von Scheich Ahmad Zaki Yamani, seines Zeichens von 1962 bis 1986 Erdölminister von Saudi-Arabien, vom US-Magazin Time zum Mann des Jahres 1973 gewählt und auch als «Stratege der Ölwaffe» tituliert. Ebendieser Yamani empfiehlt nun das Buch des US-Journalisten William Engdahl, «Mit der Ölwaffe zur Weltmacht», als einzige zutreffende Darstellung der Ölpreisentwicklung von 1973.
Demzufolge habe vom 11. bis 13. Mai 1973, vor der Krise, in Schweden ein Treffen der Bilderberger stattgefunden, der Hintergrundsgruppe, die sich 1954 zum ersten Mal im Hotel Bilderberg in Holland traf.
Am Treffen von 1973 hätten Henry Kissinger, Lord Greenhill von BP, David Rockefeller von der Chase Manhattan Bank, George Ball von Lehman Brothers und ­Zbigniew Brzezinski über den Zerfall des Dollars und die Erhöhung des Ölpreises gesprochen. Dabei sei die Rede von 400 Prozent gewesen. Effektiv stieg dann als Resultat der Ölkrise der Ölpreis auch um 400 Prozent und entschärfte so die Dollar-Krise!

Reza Pahlavi drängt OPEC auf Geheiss der USA in die Rolle des Sündenbocks

Der Plan der verschworenen Gruppe sah wie folgt aus: Ein globales Ölembargo der OPEC würde die Ölversorgung drastisch verknappen, damit stiegen die Ölpreise dramatisch an, damit auch die Nachfrage nach Dollars, und dies würde dann den Wert des Dollars stützen! So hätten trotz Rezession in den USA die USA profitiert! Die Volkswut würde sich gegen die Scheiche richten, die eigentlichen Drahtzieher blieben unerkannt und könnten sich als Opfer darstellen.
Ganser bedauert, dass diese These von Yamani und Engdahl kaum diskutiert werde, zudem seien auch die Sitzungen der Bilderberger geheim. Deswegen liesse sich die These nicht beweisen.
Aber realiter lief es genau so: Die OPEC beschliesst am 16. Oktober 1973 anlässlich des Jom-Kippur-Krieges, den Ölpreis mehr als zu verdoppeln, und zweitens Förderkürzungen plus einen Totalboykott der USA und der Niederlande sowie Lieferkürzungen für Industrieländer, bis Israel sich aus den 1967 besetzten Gebieten zurückziehe.
Das Wort «Erdölboykott» hatte eine enorme Wirkung: Die Menschen meinten, das Öl werde knapp, die westlichen Medien hetzten gegen die OPEC – aber alles stellte sich als Mythos heraus!
Im Dezember 1973 fand die Konferenz der OPEC in Teheran statt. Diskutiert wurde über den gerechten Ölpreis. Schliesslich kam es zur Versechsfachung des Preises in nur drei Monaten!
Laut US-Erdölforscher Yergin war der Schah Reza Pahlavi am aggressivsten für eine Erhöhung des Ölpreises, mehr als Yamani, der nicht wollte, dass der Westen untergehe, weil dann auch die OPEC unterginge.
Dass gerade der Schah als Statthalter des Westens – von den Briten und den USA unterstützt nach deren Sturz von Mossadegh – sich für höhere Preise stark machte, scheint paradox, denn das schadete den USA. Doch 2001 äusserte sich Yamani dazu: Der Schah habe ihm gesagt, dass Kissinger einen höheren Ölpreis wolle.
Für Yamani ist heute klar: Die USA haben die Erdölkrise von 1973 und das Anheben des Ölpreises von 2 auf 12 Dollar inszeniert. Die OPEC bekam die Rolle als Sündenbock.

Zitate, die den Chefankläger des ICC interessieren müssten …

Es seien hier einige der pointierten Äusserungen von Politikern der US-UK-Kriegsallianz zitiert – die ältere Generation kennt sie irgendwie noch alle, es ist aber das Verdienst Gansers, sie gerade auch für die jüngere Generation zusammengetragen zu haben: In ihrer Dichte, Unverfrorenheit und Chuzpe lassen sie eigentlich keine Frage offen, wer heute vor den ICC gehörte wegen flagranter Verletzung der Nürnberger Prinzipien. Damals, bei der Aburteilung der Nazi-Kriegsverbrecher, hatte ja US-Chefankläger Robert Jackson gesagt, an diesen Prinzipien wollten sich künftig auch die USA messen lassen. Und da das schlimmste aller Verbrechen der Angriffskrieg sei, und Kofi Annan zum Beispiel den Irak-Krieg 2003 als solchen bezeichnete, müssten ganze Heerscharen, angefangen von westlichen Staatsoberhäuptern bis hinunter zum einfachen Soldaten, die Untersuchungshaftzellen in Den Haag bevölkern. Man erinnert sich: Der deutsche Offizier Florian Pfaff, der während des völkerrechtswidrigen Angriffskrieg von 2003 gegen den Irak den Befehl verweigerte, genau unter Berufung auf die Nürnberger Prinzipien und die Uno-Charta, dort insbesondere Artikel 51, bekam in Deutschland recht – wurde aber dennoch militärisch degradiert …
Der Reigen der Zitate sei eröffnet mit Sätzen von Henry Kissinger. Am 22. September 1980, als der Irak mit US-Unterstützung Iran angreift, sagt Henry Kissinger: «Ich hoffe, sie bringen sich beide um, es ist zu schade, dass sie nicht beide verlieren können.» Heute ist bekannt, seit der Iran-Contra-Affäre, dass die USA auch Iran mit Waffen unterstützten – ganz im Sinne des Diktums von Friedensnobelpreisträger Kissinger …
Am 12. Mai 1996 sagte in «60 Minutes» von CBS Madeleine Albright, die damalige Uno-Botschafterin und spätere Aussenministerin der USA, in einem Interview auf die Frage, es seien schon 500 000 Kinder im Irak gestorben, mehr als in Hiroshima, ob das Embargo diesen Preis wert sei: «Ich glaube, das ist eine sehr schwierige Entscheidung, aber der Preis – wir glauben, es ist diesen Preis wert.»
Fazit Ganser: Womit klargeworden ist, dass die USA bereit sind, für Erdöl zu töten, auch Kinder!
John Bolton, Uno-Botschafter unter Bush und Senior Fellow von PNAC auf Fox News 2011: Der Nahe Osten sei «die kritische Erdöl- und Erdgas-produzierende Region der Welt, in der wir so viele Kriege geführt haben, um unsere Wirtschaft vor den negativen Folgen zu schützen, den Erdölzufluss zu verlieren oder ihn nur zu sehr hohen Preisen zu erhalten». al-Kaida wird von Bolton hier plötzlich nicht mehr erwähnt – hatte der Mohr gedient und konnte nun gehen?
Im November 1999 warnt Dick Cheney, CEO von Halliburton, anlässlich einer Rede in London explizit vor Peak Oil. Die Nachfrage werde ansteigen, die Produktion gleichzeitig zurückgehen. Woher solle also das Öl kommen, 2010 zusätzliche 50 Millionen Fass pro Tag?
Prophetisch seine Antwort: «Obschon auch andere Regionen der Welt grosse Möglichkeiten für die Erdölförderung bieten, bleibt der Nahe Osten mit zwei Dritteln der Erdölreserven und tiefen Produktionskosten die Region, wo der Hauptpreis liegt. Erdölfirmen hätten gerne besseren Zugang zu dieser Region.» Brauchte es da nicht nur noch ein «katalytisches Ereignis», um Truppen entsenden zu können? Wie der Oberkommandierende der Nato im Kosovo-Krieg, General Wesley Clark an mehreren Stellen äusserte, waren ja im Pentagon die Kriege gegen den Irak, Libyen, Syrien und andere schon lange vor 9/11 geplant …

Forschungsverbot für 9/11?

Im Januar 2001 gründete Dick Cheney die National Energy Policy Development Group (NEPDG), eine Expertengruppe zu Erdöl- und Energiefragen. Sie tagte geheim bis im Mai 2001 und plante die Energiezukunft der USA. Mit dabei sassen Konzernlobbyisten, die US-Aussen-, Energie- und Finanzminister. Ihren Befund reichten sie Präsident Bush weiter, der im Mai 2001 an die Presse geht und sagt: «Was die Leute laut und deutlich hören müssen, ist, dass uns hier in Amerika die Energie ausgeht. Wir müssen zusätzliche Energiequellen finden.»
Trotz Bemühungen von demokratischen Parlamentariern blieben die Sitzungsunterlagen und die Grosszahl der Teilnehmenden geheim, der Schlussbericht aber wurde am 17. Mai 2001 veröffentlicht: Ihm war zu entnehmen, dass die USA zuwenig Öl haben, und dies gefährde die nationale Sicherheit, die Wirtschaft und den Lebensstandard. So würden die USA immer abhängiger vom Ausland. Da im Nahen Osten zwei Drittel der Reserven lagerten, bleibe die Golfregion sehr wichtig für die US-Interessen.
Wieso ist uns heutigen Bürgern und schon den Zeitgenossen im September 2001 dieser Sachverhalt kaum mehr bewusst? Der Schock von 9/11 verdrängte das Thema des Peak Oil vollständig aus den Schlagzeilen. Wurde vorher noch klar deutlich, dass man Kriege wegen Öl führte, fanden die kommenden Kriege unter dem Label «Krieg dem Terror» und für die «Verbreitung der Demokratie» statt – ein Slogan, den Edward Bernays, Verfasser des Werkes «Propaganda» und einer der ersten Spin-doctors, schon für den Kriegseintritt der USA in den Ersten Weltkrieg kreiert hatte.
Bush und Cheney hatten sofort al-Kaida und Osama bin Ladin verantwortlich gemacht. Bush trat vor der Uno am 10. November 2001 sogenannten «Verschwörungstheorien» entgegen, wonach die USA die Anschläge manipuliert hätten, um Ressourcenkriege führen zu können.
Erstaunlicherweise hielten sich die Europäer brav an die Sprachregelung von Bush, obwohl jeder einigermassen an Geschichte Interessierte doch weiss, dass es in der Geschichte von Lügen, geheimen Absprachen und Verschwörungen nur so wimmelt. Zum Beispiel der Mord an Cäsar, der Angriff von Frankreich, Grossbritannien und Israel gegen Ägypten 1956, die Brutkastenlüge 1990, die Nato-Geheimarmeen, der Reichstagsbrand usw.
Ganser kritisiert, dass Bush mit seinem Statement vor der Uno verlangt habe, dass seine eigene Verschwörungstheorie geglaubt werde; damit habe er ein eigentliches Forschungsverbot zu 9/11 erlassen – ein Sachverhalt, der wissenschaftlich nicht haltbar sei, müsse doch Forschung immer Fragen stellen und Theorien untersuchen dürfen. Forschungsverbote kennt man ja sonst nur aus Diktaturen.

Welche Rolle spielte Dick Cheney?

Europa, so Ganser, dürfe sich der viel offener geführten Diskussion über Geostrategie in den USA anschliessen. Insbesondere müsse dabei die Rolle von Dick Cheney weiter erforscht werden.
So verlangte zum Beispiel das Project for the New American Century (PNAC), ein neokonservativer Think tank, schon im Januar 1998 einen gewaltsamen Regimewechsel im Irak: Die USA sollen die Welt dominieren, auch durch die Kontrolle von Erdöl. Mitunterzeichner waren Cheney, Rumsfeld und Wolfowitz. Der damalige Präsident Clinton hatte allerdings kein Gehör dafür.
Erst unter Präsident Bush hatten Cheney als Vizepräsident und Wolfowitz als stellvertretender Verteidigungsminister Einfluss. In dem Zusammenhang zitiert Ganser aus einer Wolfowitz-Rede in Singapur von 2003: «Der wichtigste Unterschied zwischen Nordkorea und dem Irak liegt darin, dass wir beim Irak aus wirtschaftlicher Sicht einfach keine Wahl hatten. Das Land schwimmt auf einem See aus Erdöl.» (Iraq War Was About Oil. In: «The Guardian» vom 4.6.2003) Wolfowitz offen und ehrlich: Die Kontrolle der Erdölreserven am Golf sei zentral für die USA. Und al-Kaida?
Einen US-Autor, der einen Zusammenhang zwischen 9/11 und Peak Oil sieht, würdigt Ganser besonders: Es ist Michael Ruppert, Ex-Polizist von Los Angeles. Seine These lautet: Zwischen 1998 und 2000 seien sich die US-Eliten des Peak-Oil-Problems bewusst geworden. Ab Januar 2001 hätten Cheney und andere sich entschieden, Terroranschläge zu manipulieren. Im Mai 2001 habe Bush Cheney die Verantwortung für Terrorismus übergeben, an 9/11 habe Cheney die totale Kontrolle gehabt. Sie hätten das kriminelle Vorgehen für richtig gehalten, da es ja «nur um einige tausend Menschenleben» gegangen sei. (Quelle: Michael C. Ruppert. «Crossing the Rubicon: The Decline of the American Empire at the End ot the Age of Oil.» Gabriola Island 2004.)

Hochrangige US-/UK-Zeitzeugen: Es ging ums Öl!

Und nochmals sei General Wesley Clark als Zeuge herbeigezogen: Wolfowitz habe ihm diese Pläne schon 1991 erklärt, was ihn schockiert habe. Wolfowitz habe gesagt: «Was wir aus dem Golf-Krieg gelernt haben, ist, dass wir unser Militär in dieser Region – dem Nahen Osten – einsetzen können, und die Sowjets stoppen uns nicht. Wir haben jetzt etwa fünf oder zehn Jahre, um diese alten Sowjetregime – Syrien, Iran und Irak – wegzuräumen, bevor die nächste grosse Supermacht kommt und uns herausfordert.» (Rede von Wesley Clark vom 3. Oktober 2007 beim Commonwealth Club in San Francisco. Zitiert in: Wes Clark and the neocon dream. In: «Salon News» vom 26.11.2011)
Und ein ähnlich hochrangiger Zeitzeuge, eventuell der hochrangigste, da er Mitglied der Cheney Energy Task Force war, Paul O’Neill, Finanzminister unter Bush, erklärt, es habe nie eine Verbindung des Irak zu den Terroranschlägen gegeben, und: Der Krieg gegen den Irak sei schon lange vor 9/11 geplant gewesen.
Und wie wurde die Thematik vom engsten Verbündeten Grossbritannien her betrachtet? Dort handelte sich der Umweltminister Michael Meacher seine Entlassung ein, weil er Tony Blair wie folgt kritisiert hatte: «Der Krieg gegen den Terrorismus ist ein Schwindel, das Ziel der USA ist die Weltherrschaft. Dazu brauchen sie die Kontrolle über die Ölvorräte.» Fakt sei, dass «den USA und Grossbritannien die sicheren fossilen Reserven ausgehen». Auch Grossbritannien sei «nicht uninteressiert an diesem Wettrennen um die verbleibenden Vorräte an fossilen Energieträgern, was zum Teil erklärt, warum wir Briten in diesen Militäraktionen der USA mitmachen.» («This war on terrorismus is bogus», in: «The Guardian» vom 6.9.2003)
Heutige Quellen, nach dem «Freedom of Information Act» von Greg Muttitt erstritten, geben Meacher recht: Im Oktober und November 2002, ein halbes Jahr vor der Invasion, besprachen Konzernvertreter und die britische Regierung den Zugang zum irakischen Öl.
Oder mit den Worten der US-Autorin Antonia Juhasz: Ziel des Irak-Krieges sei es gewesen, staatliches Öl zu privatisieren und Konzernen zugänglich zu machen. Denn: In 15 Jahren gingen den Konzernen die Reserven aus, deshalb sei der Zugriff auf Reserven der OPEC-Länder für sie überlebenswichtig.

Wenn es Alan Greenspan schon zugibt …

Hier sei zum Abschluss ein Mann zitiert, der durchaus als Kronzeuge gelten darf, hatte er doch den Dollardruck in der Hand: Alan Greenspan, Chairman der Federal Reserve. Ganser zitiert ihn mit folgender, alles entlarvender Aussage: «Ich finde es bedauerlich, dass es politisch unangebracht ist zuzugeben, was alle schon wissen: Im Irak-Krieg ging es vor allem um das Erdöl.» (Alain Greenspan, zitiert in: «Greenspan admits Iraq was about oil». In: «The Guardian» vom 16.9.2007.)
Dass bei solch hochkarätigen Zeugen die Forschung nicht in unzähligen Ländern darauf erpicht ist, mehr Licht ins Dunkel zu bringen, spricht Bände.

BR Couchepin und Kofi Annan: Irak-Krieg verstösst gegen die Uno-Charta

Und wie wurden diese Abläufe in der neutralen Schweiz kommentiert? Ganser bringt hier eine Aussage zum Vorschein, die wohl auch schon wieder vergessen gegangen ist und der Parteizugehörigkeit des Sprechers wegen vielleicht erstaunen mag. Am 20. März 2003 sagte Bundesrat Pascal Couchepin (FDP) vor der Bundesversammlung: Der Krieg gegen den Irak sei vom Sicherheitsrat der Uno nicht bewilligt worden und deswegen ein gefährlicher Präzedenzfall. Die USA und die Koalition hätten sich über die Uno-Charta hinweggesetzt. Es sei ein Gebot der Stunde, dass die Uno-Charta wieder mehr respektiert werde. Die Schweiz zeige sich solidarisch mit der irakischen Zivilbevölkerung, die seit den Sanktionen von 1990 leide.
Aussagen, die von höchster Uno-Ebene bestätigt wurden: So erklärte am 16. September 2004 der damalige Uno-Generalsekretär Kofi Annan den Irak-Krieg gemäss Völkerrecht als illegal.
Ganser gibt zu bedenken, dass mit dem Geld für all diese völkerrechtswidrigen Kriege problemlos und in hohem Masse erneuerbare Energien hätten gefördert werden können. Er bedauert, dass es keine Debatte über Ressourcenkriege gab. Und ganz im Gegenteil hätten diese westlichen Erdölbeutezüge die Terrorgefahr nicht etwa gemindert, sondern im Gegenteil erhöht.
Als Zeugen führt Ganser den algerischen Intellektuellen Rachid Boudjedra an: Der Westen sei in seiner Gier von korrupten arabischen Herrschern flankiert. Nicht der Islam an sich, sondern die Wunden, die durch die westliche Gewalt zugefügt worden seien, führten junge Männer den radikalen Islamisten in die Arme!
Um es mit Michel Chossudovsky von der Universität Ottawa in Kanada aktualisierend zusammenzufassen: Der Libyen-Krieg war wie der Irak-Krieg ein Erdölbeutezug. Es ging darum, die Erdölindustrie des Landes zu privatisieren.

Energiewende oder endlose Ressourcenkriege, Lügen, Leid und Not?

Gansers Fazit: Bedauerlicherweise investiere die Welt heute mehr in die Rüstung als in die Energiewende. So betrügen die weltweiten Militärausgaben im Jahre 2010 1600 Milliarden Dollar. An der Spitze stehen die grossen Erdölkonsumenten: Die USA mit 700 Milliarden, China mit 120 Milliarden Dollar. Ganser dazu: «Wer auf Gewalt setzt und bereit ist, für das Erbeuten von Erdöl und Erdgas zu töten, kann sich strategische Vorteile verschaffen. Doch das Grundproblem, dass in verschiedenen Ländern die Erdölforderung einbricht, lässt sich mit Gewalt niemals lösen. Es gilt daher, Ressourcenkriege zu vermeiden, Konflikte, wo immer möglich, ohne Gewalt zu lösen und die verfügbaren Mittel für die Energiewende einzusetzen. Nur erneuerbare Energien können letztendlich aus der Knappheit führen, weil sie über Generationen zur Verfügung stehen.» (Ganser, S. 322)
Und am Schluss seines Werkes resümiert der Autor: «Nachdem ich während Jahren die Entwicklung der Ölförderung, Rüstungsausgaben und verschiedene Lügen und Täuschungsmanöver im Umfeld von Ressourcenkriegen studiert habe, hoffe ich heute sehr, dass die Energiewende gelingen wird, und ich setze mich mit dem Swiss Institute for Peace and Energy Research (SIPER) für eine Unterstützung dieser Transformation ein. Ich bin mir aber auch bewusst, dass der Weg noch weit und die Gefahr des Scheiterns gross ist. Gelingt die Energiewende? Ich weiss es nicht, aber ich hoffe es. Oder erwarten uns, unsere Kinder und unsere Enkel Ressourcenkriege, Rezessionen, Klimawandel und Wasserknappheiten? Die Zukunft muss es weisen und unsere Wandlungsfähigkeit dokumentieren.» (S. 362)
Ein Ansatz, der voll und ganz die Unterstützung aller friedliebenden und demokratisch gesinnten Bürger verdient, ganz speziell auch in kleinen Ländern, die sonst allzuleicht zu Erpressungsopfern der Gier von Grossmächten werden könnten.     •

Quelle: Daniele Ganser. Europa im Erdölrausch. Die Folgen einer gefährlichen Abhängigkeit. Zürich 2012. ISBN 978-3-280-05474-1.

Energiefrage als Gefahr für die Souveränität der Nationalstaaten

ts. In seinen Kapiteln zur Schweizer Energiegeschichte macht Daniele Ganser deutlich, wie stark ein kleines Land, zumal ohne Ressourcen, auf den Goodwill der Global player und grösserer Staaten angewiesen ist. Im Notfall drehen sie dem Kleinen die Energiezufuhr ab. Es sei denn, der einzelne Nationalstaat, insbesondere der Kleinstaat, setze alles daran, ein grösstmögliches Mass an Energieautarkie zu erreichen. Mit fossiler Energie geht dies sicher nicht. Auch hier hilft nur die Energiewende, hin zu erneuerbaren Energien.

Die erste Erdölkrise von 1973 und die Schweiz

Zur Einordnung der Krise von 1973 gab es in der Schweizer Medienlandschaft, aber auch in der Politik kritische Stimmen zu hören: So las man, dass in erster Linie nicht die Scheichs, sondern die westlichen Konzerne und die USA an einer Ölpreiserhöhung interessiert seien. Die Verknappung sei künstlich geschürt worden. Eine Einschätzung, die sich auch auf den US-Gewerkschaftsführer Charles Levinson stützte.
    PdA-Nationalrat Jean Vincent äusserte im Parlament, es gebe überhaupt keine Erdölkrise, sondern nur «kriminelle Praktiken der Erdölmonopole». CVP-NR Edgar Oehler verwies auf eine doppelte Erpressung durch arabische Scheichtümer und die Konzerne, während SP-NR Otto Nauer festhielt, dass die Souveränität eines Landes zur Farce werde angesichts des Preisdiktats der Konzerne. Aber auch die Exekutive äusserte sich. Bundesrat Ernst Brugger räumte im Dezember 1973 Fehleinschätzungen ein und sagte: «Dieser internationale Ölmarkt ist wenig transparent, das ist tatsächlich eine Wissenschaft für sich.» Auch die USA würden das nicht durchschauen, meinte er. (vgl. Ganser, S. 188 ff.)
    1978 forderte der Schlussbericht der vom Bundesrat eingesetzten Eidgenössischen Kommission für die Gesamtenergiekonzeption (GEK) unter anderem den Ausbau der erneuerbaren Energien – auch wenn das Hauptgewicht damals noch auf den Ausbau der Atomenergie gelegt wurde. (vgl. Ganser, S. 205 ff.)

Kriegswirtschaftliche Instrumente einsetzen

Beim Ausbruch des Krieges zwischen dem Irak und Iran 1980 wies im September 1980 Bundesrat Fritz Honegger darauf hin, dass die Schliessung der Strasse von Hormuz für Eu­ropa und die Schweiz äusserst gefährlich wäre, fiele so doch ein Viertel des westlichen Öls weg. Die Schweiz habe sich vorbereitet und könnte kriegswirtschaftliche Instrumente einsetzen, sprich Rationierungen, Fahrverbote usw.
    Die Mahnung des Bundesrates im März 1981, die einseitige Abhängigkeit vom Öl zu reduzieren, blieb ohne Folgen, brach doch der Ölpreis im November 1985 wider Erwarten drastisch ein, von 32 auf 10 Dollar, da Saudi-Arabien plötzlich wieder viel mehr förderte. (vgl. Ganser, S. 225 ff.)

Nötig ist ein Paradigmenwechsel

«Der Umstieg kann nur gelingen, wenn Energiekonzerne mit Energiesparen Geld verdienen; dafür braucht es einen Paradigmenwechsel, der noch nicht eingesetzt hat.» (Daniele Ganser, S. 333)

Kann das unkonventionelle Erdöl die Lücke füllen? Nein, da EROI negativ!

ts. Der CEO von Shell, Jeroen van der Veer, gestand ein, dass im Jahre 2006 das konventionelle Erdöl den Peak erreicht habe. Aber beim unkonventionellen Öl und Gas, die schwerer zu erschliessen sind, da gebe es noch grosse Reserven. Ganser mag hier keine Entwarnung geben, denn eins müsse man wissen: Aufwand, Kosten und Geschwindigkeit der Förderung von konventionellem und unkonventionellem Öl unterschieden sich wie Tag und Nacht.
Konventionelles Öl könne mit Coca-Cola verglichen werden, das nach etwas Schütteln selbständig aus der Dose spritze. Das unkonventionelle Öl hingegen muss aus grosser Meerestiefe, mehr als 500 Meter unter dem Wasserspiegel, gefördert werden; Teersand, der nicht flüssig ist, muss abgebaggert werden; die Förderung braucht mehr Energie als bei konventionellem Öl. Das heisst, dass sich das Verhältnis Energieaufwand zu Energieertrag verschlechtert. Man spreche von «Energy Return on Investment» oder EROI. Liege der EROI bei Easy Oil bei 1:100 (1 Fass Öl aufwenden, um 100 zu gewinnen), so beträgt der EROI bei unkonventionellem Ölschiefer 1:5 oder sogar 1:2!
Mit anderen Worten, so Ganser: Die Nutzung von unkonventionellem Erdöl hilft nur, den Peak auf der Zeitachse etwas nach hinten zu schieben. Und: Es belastet die Umwelt viel stärker!
Für den Laien verkompliziert sich die Sache, da heute in den Statistiken meist konventionelles und unkonventionelles Erdöl vermischt werden. So unterscheiden sich etwa die Zahlen der OPEC und von BP: die OPEC zeigt den Peak von 2006 bei 70 Mio. Fass pro Tag. BP hingegen verzeichnet einen jährlichen Anstieg auf 83 Mio. Fass pro Tag im Jahre 2011. Des Rätsels Lösung? BP führt alle Erdölprodukte auf, auch unkonventionelle, und beim Verbrauch rechnet BP auch Biotreibstoffe dazu. Ganser verlangt von den grossen Zeitungen, dass sie dies genauer ausweisen sollen, auch die «NZZ» und die «FAZ», die das bisher nicht tun.
Immerhin: Heute bestätigt auch ExxonMobil, dass das konventionelle Öl stagniert, während andere Firmen schon einen Rückgang eingestehen. (vgl. Ganser, S. 266ff.)

Lehren in der Schweiz: Eigenes Erdöl weckt Begehrlichkeiten von Grossmächten

ts. Der CIA-Putsch in Iran im Jahre 1953 wurde auch in der Schweiz aufmerksam verfolgt. So gab SP-Ständerat Emil Klöti zu bedenken, dass der Besitz von eigenem Erdöl nicht ungefährlich sei, denn er wecke Begehrlichkeiten der Grossmächte. Deshalb müsse die Schweiz die Suche nach eigenem Erdöl auch in den eigenen Händen behalten. Und der FDP-Nationalrat Paul Kunz doppelte im März 1953 nach: Eigenes Öl könne die Unabhängigkeit und Neutralität in Gefahr bringen – wegen des Erdöldursts der anderen Länder.
Da in der Schweiz die Kantone die Konzessionen für Erdölsuche vergeben, auf Grund des sogenannten Bergregals, mussten ausländische Konzerne wie Shell im Jahre 1951 bei 17 Kantonen gleichzeitig Konzessionsgesuche einreichen. Als der Kanton Fribourg mit der Firma d’Arcy, einer Tochter von BP, handelseinig werden wollte, lud der Bund aus grosser Sorge am 6.11.1952 die Kantone zu Erdölkonferenz nach Bern ein: Dort gab der Bundesrat bekannt, die Erteilung von Konzessionen an ausländische Konzerne sei eine Gefährdung der äusseren Sicherheit, der Unabhängigkeit und der Neutralität, da BP in der Hand der britischen Marine und damit des Staates Grossbritannien war.
Im Juni 1959 wurde die Swisspetrol Holding AG gegründet, eine Dachgesellschaft mit Schweizer Aktienmehrheit, zur Kontrolle der Erdölforschung in der Schweiz. Aber die seismischen Messungen des Untergrundes des Mittellandes durch eine Tochterfirma von Swisspetrol, die Schweizerische Erdöl AG (SEAG), waren wenig ergiebig. Auch anschliessende Tiefenbohrungen blieben erfolglos, was viele Schweizer Bürger freute, da sie davon ausgingen, dass Öl immer bloss Kriege anzog. (vgl. Ganser, S. 90 ff.)

Die Lage der Schweiz im Zweiten Weltkrieg

«Unsere Lage war mit jener in einer Mäusefalle vergleichbar geworden. Es bedurfte unablässiger handelspolitischer und diplomatischer Anstrengungen, um unser Volk vor dem langsamen Hungertode zu bewahren.»
Aus dem Bericht des Bundesrates zur Lage der Schweiz nach dem Fall Frankreichs im Mai 1940, umzingelt von faschistischen Staaten. (Quelle: Eidgenössisches Volkswirtschaftsdepartement [Hrsg.]: «Die Schweizerische Kriegswirtschaft: 1939–1948». Bern. Eidgenössische Zentralstelle für Kriegswirtschaft, 1950, S. XV)

jeudi, 10 janvier 2013

De geplande gaslijnen van Qatar via de conflictgebieden in Syrië

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Het wordt steeds duidelijker dat het gasdossier de ware achtergrond vormt voor de oorlog in Syrië, vooral de gevechten die geleverd worden in de regio van de stad Homs. Een Qatarees plan voorziet in de aanleg van een gaspijplijn voor het aanvoeren van gas naar Europa, Turkije en Israël. Hierbij komt Qatar in concurrentie met een pijpleiding vanuit Iran over Iraq naar Syrië, waarvan de werken onlangs werden opgestart. We lazen voor u een analyse van Nasser Charara, een Libanees journalist voor de krant Al-Akhbar.

Dankzij lekken van een grote westerse olieonderneming is de krant in het bezit gekomen van betrouwbare details over het Qatarees project - dat op de instemming van Washington kan rekenen - voor de aanleg van de nieuwe pijplijn om gas uit Qatar via de Syrische regio van Homs naar Europa te brengen. Deze regio is het strategisch hart van het project, het biedt tegelijkertijd belangrijke strategische voordelen voor Turkije en Israël op de mondiale gasmarkt. Deze nieuwe geplande gaspijplijn zal via het territorium van Saoedi-Arabië, naar Jordanië lopen om zo het Irakese grondgebied te vermijden, om dan in Syrië in de omgeving van Homs aan te komen. Vanuit Homs zou dan de gaslijn gesplitst worden met een aftakking naar Latakia aan de Syrische kust, naar Tripoli in het noorden van Libanon en naar Turkije.

Syria-Pipeline.gifDe belangrijkste doelstelling van het project is om het gas uit Qatar en Israël naar Europa te brengen. Hiermee wil men een drievoudig objectief bereiken. Ten eerste, het breken van het Russische monopolie in Europa; ten tweede, Turkije bevrijden van afhankelijkheid van Iraans gas; ten derde, Israël de mogelijkheid geven om zijn onlangs ontdekt gas aan een geringe kostprijs over land naar Europa te exporteren.

De vraag is waarom Homs?

Globaal bekeken kunnen de bovenvermelde objectieven niet tot stand komen als de gewenste gaspijplijn niet via Homs zou aangelegd worden. Deze stad moet volgens de planning de draaischijf worden voor de verdere verdeling van het aangevoerde gas. Qatar beschikt over geen andere alternatieven richting Europa, tenzij ze haar gasuitvoer verzekert met grote gastankers via zee. Dit is duurder en niet zonder gevaar. Mocht Iran de zeestraat van Hormuz afsluiten staat Qatar voor de onmogelijkheid om zijn gas en olie te exporteren. Als door de zeepiraterij voor de in de Golf van Aden voor de Somalische kust het vervoer van gas en olie over zee ernstig gestoord wordt dan komt ook de uitvoer van olie en gas uit Saoedi-Arabië in het gedrang met alle gevolgen voor de Europese en Amerikaanse economie.

Volgens de gelekte informatie van dezelfde westerse oliemaatschappij, is Qatar anderzijds van plan om ook haar cargovloot uit te breiden met de ambitie om meer betrokken te worden in het omvangrijker Amerikaanse project dat de gashandel op de wereldmarkt grondig wil domineren.

Nieuwe ontwikkelingen

Hier zijn twee nieuwe evoluties van groot belang. Er is vooreerst de recente vondst van gasvelden in de Middellandse Zee door Israël. De tweede ontwikkeling betreft nieuwe krachtsverhoudingen in Syrië. Na de gewelddadige, door het Westen gesteunde, rebellenoorlog in Syrië hoopt men een westers gezinde stabiliteit in te stellen. Hierbij wordt van de regio Homs een belangrijke draaischijf gemaakt die de Syrische gasvelden zal exploiteren en tegelijkertijd om gas van Qatar en Israël naar Europa te brengen.

Ook volgens de gelekte bronnen, is het gebied in Syrië in het noorden van Homs en de omgeving van Damascus, waar momenteel de gewapende “Syrische oppositie” actief is, het gebied waar de geplande pijplijn moet aangelegd worden naar Turkije en Tripoli (Libanon). Wie de kaart van het pijpleidingstracé en van de ergste conflicthaarden vergelijkt ziet de relatie tussen het gewapende activisme en de doelstelling om deze delen van Syrië te controleren.

Eens aangekomen in Syrië zal de gaspijp opsplitsen in twee richtingen. De eerste gaat naar de omgeving van Damascus op 30km van twee geplande verdeelkruispunten An-Nabk en Al-Kussayr, om dan verder doorgetrokken te worden richting het Syrische Lataka en het Libanese Tripoli. De tweede aftakking zou gaan via het noorden van Syrië vanuit Homs naar Maarat al-Numan en Udlib richting Turkije. De controle over bovenvermelde Syrische steden zijn inzet van strijd tussen regime en rebellerende groepen.

Robert Ford – de teruggeroepen Amerikaanse ambassadeur - en Frederick Hoff – gelast met het gasdossier voor gas uit de Levant - zijn beiden lid van de Amerikaanse crisiscel voor Syrië, zegt Nasser Charara. De eerst genoemde organiseert de activiteiten van de gewapende oppositie in Syrië op het terrein, zodat deze zouden beantwoorden aan de pijplijnplannen waarvan het tracé door de tweede is uitgetekend. Robert Ford heeft nog een bijkomende opdracht, met name het aanstellen van een Syrische regering in het buitenland, met vertakkingen op het terrein bij de gewapende rebellen in het noorden van Syrië, in Homs en Damascus. Dit om een afscheiding mogelijk te maken mocht het regime niet volledig ten val kunnen worden gebracht. In dit verband kunnen we ook niet naast de enorme druk kijken die Parijs tracht uit te oefenen voor het erkennen van de oppositie als enige vertegenwoordiger van het Syrische volk.

De voordelen voor Turkije

Een dergelijke gaspijplijn beidt Turkije enorme strategische en economische voordelen. Het land zou dan een vitale plaats verwerven voor de doorvoer van gas en olie naar Europa. De EU wil haar gasimport diversifiëren, om minder afhankelijk te worden van het Russische gas, wat de door de VS sterk aangemoedigd wordt. Het zou ook de Turkse toetreding tot de EU club vooruit helpen. Bovendien zou de Turkse afhankelijk van het Iraanse gas verlichten en dus haar geostrategische positie versterken. Ook biedt het de mogelijkheid voor Ankara om de exorbitante energiefactuur te verminderen en het verschaft het land dan een inkomen aan dividenden betaald door Qatar en Israël voor de doorvoer van hun gas.

De voordelen voor Israël

Het biedt Israël de mogelijkheid om binnen de komende jaren een belangrijke gasleverancier te worden door de uitbating van de gasvelden “Leviathan en Tamar”. Deze vindplaatsen zouden volgens een Franse studie een grotere voorraad gas vertegenwoordigen dan het Iraans-Qatarese North Dome-South in de Perzische Golf. Dergelijke pijpleiding zorgt voor het alternatief op de huidige mogelijkheden via zeetransport die zeer kostelijk zijn en daarenboven ook het probleem kennen dat het Suezkanaal niet geschikt is als vaarroute voor grote gas en olietankschepen.

De voordelen voor Libanon

Het is ook interessant om de wijziging in de Qatarese houding ten opzichte van Libanon te noteren tijdens een recent bezoek van de Libanese regeringsleider Najib Mikati aan Doha. Niet alleen de diplomatieke en economische boycot werd opgeheven, maar ook de eerder afstandelijke, vijandige houding verdween. Qatar dreigt niet langer meer om de Libanese gastarbeiders het land uit te zetten. Men stelt voor om ontwikkelingsprojecten op te starten om zo de economische stabiliteit van Libanon te ondersteunen. Beter nog, men stelt zelf voor om financiële bijstand te leveren voor de haven van Tripoli, die uitgebouwd moet worden als gas en olieterminal om de Syrische haven Lataki te vervangen indien nodig.

Het is hier ook niet oninteressant vast te stellen dat de raffinaderij van Tripoli sinds jaren buiten bedrijf is. Er is wel nog altijd opslagcapaciteit voor petroleum, echter niet voor gas. Ook van hieruit, mits de bouw van de nodige installatie voor het vloeibaar maken van het aangevoerde gas, zou naar Europa kunnen worden uitgevoerd.

De rol van Rusland in het verhaal?

Volgens de krant heeft Rusland haar afkeuring voor dit Tripoli project aan de regering in Libanon laten weten, zolang Moskou niet de garantie krijgt dat het Westen niet uit is op een 'regime change' in Syrië. Deze eis staat uiteraard in verband met de verdere gasprospectie door Russische ondernemingen in deze sector. Moskou wil niet afwezig zijn in de gas'boom' van de Middellandse Zee.

Bron: Http//www.al-akhbar.com Nasser Charara “ Syrie: Le trajet des gazoducs Quataris decide des zones de combats

 

mercredi, 09 janvier 2013

Turkey’s Energy Challenges

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Reserves Could Lead to Resolve

Turkey’s Energy Challenges

by DANIEL WAGNER AND GIORGIO CAFIERO

Ankara will soon be confronted with some difficult foreign policy decisions that could affect its long-term energy interests. The discovery of vast reserves of natural gas off the coasts of Cyprus and Israel could oblige Turkey to resolve longstanding disputes with its neighbours.

Turkey has managed to maintain impressive growth rates over the past decade in spite of a lack of indigenous sources of energy. Ankara has pursued a foreign policy aimed at diversifying the country’s energy imports while simultaneously positioning itself as a major energy hub. Turkey’s geostrategic position makes achieving this dual objective challenging, but it has managed to strike a balance between being assertive and deferential in acquiring and managing its energy supply. While the Turkish government’s power to influence events in the region is of course limited, it will be compelled to make some difficult foreign policy decisions in the near term that could substantially impact its long-term energy interests.

Turkey imports 91 percent of its oil and 98 percent of its natural gas. In 2011, approximately 51 percent of its oil came from Iran and 55 percent of its natural gas from Russia. Iraq’s resurrection as a major oil and gas exporter to the world offers Turkey an opportunity to become an increasingly influential energy hub between the Arabian Gulf and European markets. However, the tense triangular relationship between Turkey, Iraq and the Kurdish Regional Government has greatly complicated the energy trade with Iraq. This has also cast doubt about the long-term reliability of the Iraqi-Turkish pipeline that exports nearly 400,000 barrels per day to the important port of Ceyhan in southern Turkey. Turkey’s perennial battle with Kurdish separatists has served to ensure that the relationship with Iraq remains problematic and uncertain.

The discovery of an estimated 122 trillion cubic feet of natural gas off the coasts of Israel and Cyprus could lead to another major regional energy source that could challenge Turkey’s ambition to become a major energy hub, while likely denying it an additional potential source of oil and gas. The prospect of the formation of an energy partnership in the eastern Mediterranean that excludes Turkey will not be well received in Ankara. Turkey’s logistical advantage is that any pipeline that transfers gas from Cyprus to Greece would be far less expensive if it entered distribution via Turkey’s (disputed) offshore territory. A direct Cyprus/Greece pipeline would need to be significantly longer and installed in water as deep as 1.2 miles before reaching the Dodecanese Archipelago. Greece may ultimately be pressured to cooperate with the Turks due its economic constraints and what is arguably in their own long-term interest.

The Cypriot conflict further complicates the picture for Ankara, which signed an exploration deal with the Republic of Northern Cyprus following news that the Greek Cypriot administration began exploratory offshore drilling. Whether the recent discovery of Cypriot natural gas reserves pressure Athens and Ankara to resolve these lingering territorial disputes or leads to greater friction remains an open question. If history is any guide, Turkey’s rise and Greece’s troubles will only lead to greater conflict between them.

Other unresolved territorial disputes imply that the bonanza of natural resource wealth within the Levantine Basin is more likely to spur conflict than cooperation in the future. As Israel and Lebanon remain in a technical state of war, no maritime boundaries have been agreed by either state regarding their shared offshore gas reservoir. Unless some accommodation is reached, it will be problematic for either state to develop the reserves in the near future. Given their current state of bilateral relations, the chronic state of affairs between Israel and Iran, and the ongoing morass in Syria, there seems little reason to believe that the plethora of conflicts in the region will be resolved or gas will begin to flow any time soon. Turkey’s ability to become a major energy hub would likely be undermined by a new Israel-Cyprus-Greece energy triad.

The Tabriz-Ankara pipeline offers Turkey opportunities to capitalize on the exportation of energy resources from Kazakhstan, Uzbekistan and Turkmenistan to markets in Europe. Given Turkey’s limited domestic energy resources, growing demand for energy, the proximity of Iran’s gas and oil reserves, and its aspirations to become a Eurasian energy hub, it is reasonable to conclude that Ankara will continue to place immense value on its energy partnership with Iran – its largest source of foreign oil and second largest source of natural gas.

It is within this context that Turkey has refused to participate in the West’s campaign to isolate Iran economically. Ankara’s acknowledgment in November 2011 that its skyrocketing gold exports to Iran were related to its payment for Iranian gas is indicative of the Turks’ interest in maintaining energy ties with Iran, despite Western pressure. Tehran already views Turkey as an important partner in its quest to counter isolation and sanctions. Bilateral trade increased sixteen-fold between 2000 and 2011. By 2011, Turkey was home to more than 2,000 privately-owned Iranian firms – a six-fold increase from 2002. A variety of Iranian industries depend on Turkey to provide their link to the global economy. The flip side to that is that an eruption of greater Middle Eastern turmoil, or indeed a military strike against Iran, could severely undermine Turkey’s energy and commercial interests – as occurred during and following the Gulf War in 1991.

The Syrian crisis has created tension between Iran and Turkey, which have hedged their bets on opposite sides of the conflict. Additionally, the prospect of Iran becoming increasingly connected with Asian energy markets has created unease for the Turks, who are determined to maintain a close energy trading relationship with Iran. That said, Turkey’s announcement in March 2012 that it would begin importing more Libyan and Saudi Arabian oil, while decreasing oil imports from Iran by 20 percent, suggests that Turkey may already be seeking alternative sources to Iran, given the political ramifications of continued energy dependence on Iran.

Iran’s standoff with the West, and the continuing mayhem in Syria, will force Ankara to make some difficult decisions regarding its relationship with Tehran in 2013. However, in the short-term, Turkey and Iran are unlikely to take actions that would jeopardize their partnership with respect to energy, commerce, or regional security.

Turkey is currently the world’s 17th largest economy, and is determined to expand its strategic depth among its neighbors. If Ankara can balance its security and energy interests wisely, while acting as a force for regional stability, Turkey has real potential to satisfy its domestic energy demands while maintaining substantial leverage over regional energy markets. But if Turkey misjudges its balance of power and hedges its bets poorly, or if other states find alternative energy routes that exclude Turkey, the Turks may find themselves subject to the influence of larger powers’ ambitions. Thus far, Turkey has deftly balanced its interests with the plethora of challenges that confront it, which implies stability in the regional and global energy markets as 2013 begins.

DANIEL WAGNER is CEO of Country Risk Solutions, a cross-border risk management consulting firm, and author of the book “Managing Country Risk”. GIORGIO CAFIERO is a research analyst with CRS. 

dimanche, 18 novembre 2012

Come l’Iran elude il blocco occidentale. Il Triangolo del petro-oro Turchia-Dubai-Iran

Come l’Iran elude il blocco occidentale. Il Triangolo del petro-oro Turchia-Dubai-Iran

di Tyler Durden

Fonte: aurorasito

Negli ultimi mesi vi è stata molta speculazione errata sul perché l’Iran, escluso dal regime di mediazione SWIFT sui petrodollari, vedrebbe implodere la propria economia mentre il paese non ha accesso ai verdoni, non potendo quindi effettuare scambi internazionali; il fattore trainante dietro le sanzioni internazionali che cercano di rovesciare il governo dell’Iran facendo morire la sua economica. Mentre vi sono stati periodi d’inflazione rilevante, finora il governo locale sembra essere riuscito a metterci una pietra sopra, frenando la speculazione del mercato grigio, e l’Iran continua a operare più o meno grazie ai suoi allegri metodi nel commercio internazionale, che è certamente vivo, in particolare con la Cina, la Russia e l’India quali principali partner commerciali. “Come è possibile tutto questo” si chiederanno coloro che sostengono l’embargo totale occidentale sul commercio iraniano? Semplice, l’oro. Perché mentre l’Iran potrebbe non avere accesso ai dollari, ha ampio accesso all’oro. Questo di per sé non è una novità, ne abbiamo parlato in passato: l’Iran ha importato notevoli quantità di oro dalla Turchia, nonostante le smentite del governo turco. Oggi, per gentile concessione della Reuters, sappiamo esattamente ciò che sarà l’equivalente della Grande Via della Seta del 21° secolo, e quanto sia stato efficace l’Iran, da bravo topolino da laboratorio, nel sottrarsi al grande esperimento dei petrodollari da cui, secondo la saggezza convenzionale, non ci sarebbe scampo. Vi presento il petro-oro.
Tutto inizia, contrariamente alle smentite ufficiali del governo, in Turchia. La Reuters spiega: “Corrieri che trasportano milioni di dollari in lingotti d’oro nei loro bagagli volano da Istanbul a Dubai, da dove l’oro viene inviato in Iran, secondo fonti del settore che conoscono il business. Le somme in gioco sono enormi. I dati commerciali ufficiali turchi suggeriscono che quasi 2 miliardi di dollari in oro sono stati inviati a Dubai per conto di acquirenti iraniani, ad agosto. Le spedizioni aiutano Teheran a gestire le sue finanze di fronte alle sanzioni finanziarie occidentali. Le sanzioni, imposte sul controverso programma nucleare iraniano, l’hanno in gran parte escluso dal sistema bancario globale, rendendogli difficile poter effettuare trasferimenti internazionali di denaro. Utilizzando l’oro fisico, l’Iran può continuare a muovere le sue ricchezze al di là delle frontiere.”
Quindi …. l’oro è denaro? In altre parole viene ampiamente accettato; si tratta di una riserva della ricchezza, ed è un mezzo di scambio? Huh. Qualcuno lo dica al Presidente. Potrebbe non esserne a conoscenza. Pare proprio di sì, almeno nei paesi che non vivono giorno per giorno sul bordo del quadrilione di dollari in derivati, ragione delle armi di distruzione immediata e di massa. “Ogni moneta nel mondo ha una identità, ma l’oro è un valore senza identità. Il suo valore è assoluto dovunque tu vada“, ha detto un trader di Dubai che conosce il commercio dell’oro tra la Turchia e l’Iran. L’identità della destinazione finale dell’oro in Iran non è nota. Ma la scala delle operazioni attraverso Dubai e la sua crescita improvvisa, suggeriscono che il governo iraniano vi abbia un ruolo. Il commerciante di Dubai e altre fonti familiari al business, hanno parlato con Reuters in condizione di anonimato, a causa della sensibilità politica e commerciale della questione. Che cosa ottiene in cambio la Turchia? Qualunque sia, l’Iran risponde alle esigenze della Turchia, naturalmente. “L’Iran vende petrolio e gas alla Turchia, con pagamenti effettuati a istituzioni statali iraniane. Le sanzioni bancarie statunitensi ed europee vietano i pagamenti in dollari o euro, così l’Iran viene pagato in lire turche. La lira ha un valore limitato nell’acquisto di merci sui mercati internazionali, ma è l’ideale per fare baldoria acquistando oro in Turchia.” E così, in un mondo in cui evitare il dollaro viene considerato dalla maggioranza una follia, Turchia e Iran, in silenzio ed efficacemente, hanno creato la loro scappatoia, in cui le risorse naturali sono scambiate con una valuta locale, che viene scambiata con l’oro, e che poi viene utilizzato dall’Iran per acquistare qualsiasi cosa, e tutto ciò di cui necessita, da tutti quegli altri paesi che non rispettano l’embargo imposto dagli Stati Uniti e dagli europei. Come quasi tutti i paesi dell’Africa. Perché l’oro parla, e i petrodollari camminano sempre più.
Ciò che è inquietante, è che anche Dubai sia entrato nella partita, e le tre vie di transazione potrebbero presto diventare il modello per tutti gli altri paesi che non hanno paura di subire l’ira dell’embargo dello Zio Sam: “A marzo di quest’anno, quando le sanzioni bancarie hanno cominciato a mordere, Teheran ha effettuato un forte aumento di acquisti di lingotti d’oro dalla Turchia, secondo i dati sul commercio del governo turco. L’esportazione d’oro verso l’Iran dalla Turchia, uno dei maggiori consumatori e depositari di oro, è arrivata a 1,8 miliardi di dollari a luglio, pari a oltre un quinto del deficit commerciale della Turchia di quel mese. Ad agosto, tuttavia, un improvviso crollo delle esportazioni turche d’oro dirette in Iran, è coinciso con un balzo delle sue vendite del metallo prezioso negli Emirati Arabi Uniti. La Turchia ha esportato un totale di 2,3 miliardi dollari in oro ad agosto, di cui 2,1 miliardi dollari erano in lingotti d’oro. Poco più di 1,9 miliardi, circa 36 tonnellate, sono stati inviati negli Emirati Arabi Uniti, come dimostrano gli ultimi dati disponibili dell’Ufficio di Statistica della Turchia. A luglio la Turchia ha esportato solo 7 milioni in oro negli Emirati Arabi Uniti. Nello stesso tempo, le esportazioni d’oro dalla Turchia dirette verso l’Iran, che oscillavano tra 1,2 miliardi e circa 1,8 miliardi di dollari ogni mese da aprile, sono crollate a soli 180 milioni ad agosto. Il commerciante di Dubai ha detto che da agosto, le spedizioni dirette verso l’Iran sono state in gran parte sostituite da quelle attraverso Dubai, a quanto pare perché Teheran voleva evitare la pubblicità. ‘Il commercio diretto dalla Turchia verso l’Iran si è fermato perché c’era semplicemente troppa pubblicità in giro’, ha detto il commerciante. Concessionari, gioiellieri e analisti di Dubai hanno detto di non aver notato alcun grande ed improvviso aumento dell’offerta sul mercato dell’oro locale ad agosto. Hanno detto che ciò suggerisce che la maggior parte delle spedizioni negli Emirati Arabi Uniti venga inviata direttamente in Iran. Non è chiaro come l’oro passi da Dubai all’Iran, ma vi è una corrente di scambi tra le due economie, in gran parte condotta con i dhow di legno e altre navi che attraversano il Golfo, a una distanza di soli 150 chilometri nel punto più stretto. Un commerciante turco ha detto che Teheran è passata alle importazioni indirette perché le spedizioni dirette venivano ampiamente riportate sui media turchi e internazionali, all’inizio di quest’anno. ‘Ora sulla carta sembra che l’oro vada a Dubai, non in Iran’, ha detto.”
Che cosa succede se gli Stati Uniti chiedono che lo scambio tra Dubai e l’Iran finisca? Niente: un altro paese si affretterà a sostituirlo nel triangolo d’oro, e poi un altro, e poi un altro ancora. Dopo tutto, sono pronti ad intervenire nelle condizioni molto redditizie della domanda/offerta delle transazioni. Proprio come avviene nel flusso bancario che sostiene il mercato delle obbligazioni e degli stock scambiati giorno per giorno. Che cosa accadrebbe se la stessa Turchia si ritirasse? “Gli acquirenti possono anche voler rendere i loro acquisti meno vulnerabili a qualsiasi possibile interferenza da parte del governo della Turchia. Lo stretto rapporto della Turchia con l’Iran ha cominciato a scadere da quando i due stati si trovano sui lati opposti della guerra civile in Siria, con la Turchia che sostiene la caduta del presidente Bashar al-Assad e l’Iran che rimane il più fedele alleato regionale di Assad.” Quindi, ancora la stessa cosa: l’Iran semplicemente troverebbe un paese della regionale che ha bisogno di greggio, e molti, molti di costoro sono in giro, e offrirebbe uno scambio oro-greggio che manterrebbe il mini-ciclo petro-oro a galla. Eppure assai ironicamente, nonostante tutte le ostilità palesi tra l’Iran e la Turchia sulla Siria, le due nazioni continuano a trattare, suscitando la domanda su quanto credibili siano tutte quelle storie sull’animosità medio-orientale tra questo o quel paese, o questa o quella fazione o etnia. Non c’è da sorprendersi: l’oro supera tutte le differenze. Tutte.
Infine, la realtà è che nessuno, in realtà, infrange alcuna regola. Non vi è alcuna indicazione che con il commercio di oro Dubai stia violando le sanzioni internazionali contro l’Iran. Le sanzioni delle Nazioni Unite vietano l’invio di materiali connessi al nucleare in Iran e congelano i beni di alcuni individui e imprese iraniani, ma non vietano la maggior parte del commercio. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno ancora rilasciato i dati relativi al commercio per agosto. Dai funzionari della dogana di Dubai non è stato possibile avere un commento, nonostante i ripetuti tentativi di contattarli. I dati commerciali turchi confermano che l’oro viene trasportato per via aerea a Dubai. Secondo i dati, 1450 milioni dollari di oro turco esportato, in totale, ad agosto sono stati spediti tramite l’ufficio doganale nell’aeroporto Ataturk. Quasi tutto il resto, 800 milioni, è stato spedito dal più piccolo aeroporto di Istanbul, il Sabiha Gokcen. Le esportazioni totali di tutte le merci della Turchia verso gli Emirati Arabi Uniti, sono ammontate a 2,2 miliardi di dollari ad agosto. Di tale somma, 1,19 miliardi dollari sono stati registrati presso l’aeroporto Ataturk, mentre 776 milioni dollari sono stati registrati al Sabiha Gokcen. Un broker doganale che fa affari nell’Ataturk, ha detto che i corrieri si imbarcano sui voli per Dubai della Turkish Airlines e della Emirates, portandosi il metallo nel bagaglio a mano, per evitare il rischio di perderlo o di vederselo rubato. L’importo massimo di lingotti d’oro che è permesso prendere a un passeggero è di 50 kg, ha detto. Ciò suggerisce che durante agosto, diverse centinaia di voli dei corrieri potrebbero aver portato l’oro a Dubai per conto dell’Iran. “E’ tutto legale, dichiarano, danno il loro codice fiscale e tutto viene registrato, quindi non c’è nulla di illegale in questo“, ha detto il broker. “Al momento, c’è un bel po’ di traffico a Dubai. Anche a settembre e ottobre l’abbiamo visto.”
I dati sul commercio mostrano che quasi 1400 milioni di dollari delle esportazioni dalla Turchia agli Emirati Arabi Uniti, ad agosto, provenivano da una o più società con un numero di codice fiscale registrato nella città costiera di Izmir, la terza più grande della Turchia. I funzionari doganali dell’Ataturk hanno rifiutato una richiesta della Reuters di fornire i documenti di identificazione degli esportatori, dicendo che le informazioni sono riservate. L’identità delle società che gestiscono il commercio non poteva essere confermata. I commercianti hanno detto che a causa del rischio di attirare attenzioni indesiderate da parte delle autorità statunitensi, solo poche aziende sono disposte a mettersi in gioco. E il gioco è fatto: un sistema libero perfettamente controbilanciato, in cui si fanno transazioni e nessuna traccia viene lasciata. Ancora più importante, questo è il piano per il futuro, come sempre più paesi eludono l’assoggettamento al regime dei petrodollari, così onnipresente nel secolo passato, ma che si sta lentamente e inesorabilmente spostando a beneficio dei paesi che non sono insolventi, e che in realtà producono cose necessarie per il resto del mondo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora


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vendredi, 16 novembre 2012

La France s’agenouille devant les Saoudiens!

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Sebastiano CAPUTO:

La France s’agenouille devant les Saoudiens!

 

Sur le chemin qui le menait à Ventiane (au Laos), le chef de l’Elysée s’est arrêté à Beyrouth et à Djeddah pour rencontrer ses homologues libanais et saoudiens. Hollande ignore désormais –c’est patent— les fameux discours, et autres logorrhées édifiantes, sur les “droits de l’homme”, dont la gauche française a été si friande, et prépare fébrilement ses futurs accords avec les fondamentalistes saoudiens qui n’en ont cure. La République n’est plus la vectrice des “Lumières” qu’elle prétendait apporter à la planète entière mais le vecteur en Europe occidentale du plus sinistre des obscurantismes, celui des Wahhabites saoudiens...

 

Lors de son voyage vers Ventiane au Laos, où s’est tenu le sommet Asie/Europe (ASEM), le nouveau chef de l’Elysée, François Hollande, s’est arrêté d’abord à Beyrouth puis à Djeddah en Arabie Saoudite pour rencontrer ses homologues libanais et saoudien. Lors des conversations qu’il a eues dans la capitale libanaise avec Michel Sleiman, le Président français a voulu manifester son soutien au Liban qui, au cours de ces dernières semaines, a dû affonter diverses tentatives de déstabilisation venues de l’intérieur même du pays, comme l’attentat qui a causé la mort du chef des services de renseignement libanais, ou de l’extérieur, avec la guerre civile syrienne et le problème majeur qui en découle, celui des réfugiés qui quittent la Syrie à feu et à sang pour venir camper au Liban. Hollande a dit, lors d’une conférence de presse: “Nous ne négligerons aucun effort pour garantir l’indépendance, l’unité et la sécurité du pays”, tout en soulignant sa volonté d’éviter un vide institutionnel, surtout dans un contexte politique où l’opposition sunnite dirigée par Saad Hariri (fils de Rafiq Hariri) réclame la démission du gouvernement et des élections anticipées. Si Michel Sleiman et l’actuel premier ministre Najib Mikati bénéficient encore tous deux du soutien de la “communauté internationale” et de la posture pro-gouvernementale affichée la semaine dernière par Hollande, c’est parce que le Liban représente encore et toujours la porte d’entrée du Proche- et du Moyen-Orient, une zone qui doit dès lors demeurée stable à tout prix. [Si ce n’avait pas été le cas, on aurait allègrement livré le Liban tout entier à des radicaux sunnites, stipendiés par le Qatar, comme on l’a fait pour la Libye et comme on tente de le faire en Syrie voisine, ndt].

 

Cependant, au cours de ce voyage vers l’ancienne Indochine, l’étape libanaise n’a pas été, et de loin, la plus importante dans les pérégrinations de Hollande. En effet, sa rencontre avec le Roi Abdallah d’Arabie Saoudite, le dimanche 4 novembre 2012, revêt finalement une importance bien plus considérable. Selon l’agence Fars News, le Roi saoudien a accordé au Président socialiste français (émanation du laïcisme le plus sourcilleux!) la décoration la plus élevée qu’octroie en général la monarchie saoudienne, la médaille dite du “Roi Abdulaziz”. François Hollande a déclaré: “Nous ne sommes pas venus pour signer un quelconque contrat, il s’agissait seulement d’une rencontre personnelle et confidentielle”, avant d’évoquer des thèmes généraux comme la paix au Proche-Orient, le nucléaire iranien, la crise syrienne et la coopération économico-commerciale entre la France et l’Arabie Saoudite. “Comme nous, l’Arabie Saoudite est extêmement préoccupée par les initiatives iraniennes visant à se doter de l’arme nucléaire”, soulignait l’Elysée qui, cette semaine, a fait voter de nouvelles sanctions contre Téhéran. Pour ce qui concerne Damas, Hollande, [véritable béni oui-oui qui ne tient aucun compte des réalités divergentes et conflictuelles de la région, ndt], a déclaré “poser une analyse très similaire à celle des Saoudiens”, puis a exprimé clairement les positions du Quai d’Orsay (totalement “dé-gaullisé”) sur le dossier syrien: “nous appuyons la formation, par l’opposition syrienne, d’un gouvernement de transition qui pourra donner pleine légitimité à la transition démocratique”. Quant aux rapports bilatéraux franco-saoudiens, Hollande a affirmé que “l’Arabie Saoudite a toujours démontré qu’elle savait faire preuve de responsabilité pour fixer le prix du pétrole, tout en s’intéressant, elle aussi, à l’énergie nucléaire; de ce fait, nous espérons que nos entreprises pourront s’installer sur le territoire saoudien”.

 

Notons donc que le Roi Abdallah a déjà conçu un projet national d’industrialisation du pays, pour l’essentiel centré sur de futures centrales nucléaires. Il est vrai donc que le Roi Abdallah et François Hollande n’ont pas signé d’accords mais tous deux ont d’ores et déjà tout prévu pour le futur voyage du Président français, fixé pour janvier 2013. Donc pour le nouveau pouvoir socialiste français (tout comme pour le pouvoir gaulliste falisifié qui l’a précédé, ndt), il n’y a aucun problème à ce que l’Arabie Saoudite viole chaque jour les principes fondamentaux des droits de l’homme, à ce qu’elle applique la teneur d’un proverbe saoudien qui dit “que la femme ne possède que deux choses: son voile et sa tombe”; et puis ce n’est que broutilles sans importance que Ryad persécute de manière extrêmement violente ses minorités religieuses et ses dissidents politiques. Pour les socialistes français, qui ont pourtant fait leur miel de toutes les causes visant l’abolition de la torture et de la peine de mort pour les prisonniers politiques dans les quatre coins du monde, le nouveau tandem socialisto-wahhabite ne pose donc aucun problème d’ordre éthique, [alors qu’un dialogue avec l’Autriche de Haider ou l’Italie de Berlusconi ou la Hongrie d’Orban en posait ou en pose d’incommensurables...!, ndt]! Pour la gauche française qui se réclame des révolutionnaires et des tueurs robespierristes, le fait que la monarchie saoudienne se déclare de “droit divin” ne pose donc par le moindre problème... Pour la gauche laïcarde, qui n’a jamais cessé de brailler ses inepties à nos oreilles, le fait que la société civile saoudienne soit régentée par la doctrine coraniste wahhabite, n’est rien d’autre qu’une charmante coutume orientale, délicieusement exotique, qu’il faut admirer par esprit de tolérance... Ensuite, pour la gauche française, dont les porte-paroles les plus bruyants depuis quelques décennies sont les disciples des “nouveaux philosophes” droit-de-l’hommards, doublés de bellicistes à tous crins quand il s’agit de déclencher des “guerres humanitaires”, les véritables “printemps arabes”, les véritables insurrections populaires du monde arabe, qui ont eu lieu dans les provinces orientales de la péninsule arabique, ne sont que des vétilles passagères et sans objet qu’il faut taire dans la presse et sur les ondes parce que le bon Roi Abdallah en a pris ombrage et a envoyé ses troupes pour les mater durement. Tout cela, Madame la Marquise, est sans aucune importance... A Ryad, la nouvelle incarnation du fourbi laïcard, révolutionnaire et droits-de-l’hommard français, fait de bonnes affaires avec un Roi sanguinaire de droit divin qui impose les pires élucubrations pseudo-religieuses à ses sujets. Pour oseille sonnante et trébuchante, toutes les postures droit-de-l’hommesques, tous les principaux immortels du machin “républicain”, dont on ne peut pas rire sous peine d’être considéré comme un abominable “fasciste”, passent allègrement à la trappe...

 

Sebastiano CAPUTO.

( sebastianocaputo@hotmail.it ; article paru dans “Rinascita”, Rome, 6 novembre 2012; http://rinascita.eu ).

L'Eni, Mattei e la maledizione del petrolio

L'Eni, Mattei e la maledizione del petrolio

di Benito Li Vigni

Fonte: Il Blog di Beppe Grillo [scheda fonte]

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jeudi, 15 novembre 2012

La Turquie menace l’Union Européenne et l’ENI italienne

Andrea PERRONE:

La Turquie menace l’Union Européenne et l’ENI italienne: intolérable!

 

Ankara veut entrer dans l’Union Européenne mais sa politique dite “néo-ottomane” cherche à empêcher les pétroliers italiens de l’ENI d’exploiter des gisements au large de Chypre!

 

chypre-gaz-400-de-haut_0.jpgLa Turquie réclame que l’Europe fasse un pas décisif et prenne des décisions immédiates pour faire accéder définitivement la Turquie à l’UE mais, simultanément, elle menace une importante société pétrolière européenne, l’ENI italienne, parce que celle-ci s’apprête à signer des accords avec Chypre pour exploiter les gisements de gaz au large de l’île. Pour le gouvernement d’Ankara, les mesures visant à favoriser le plus rapidement possible l’entrée de la Turquie dans l’UE devraient être prises au terme de l’actuelle présidence cypriote. De plus, la Turquie compte entrer dans le club des Vingt-Sept d’ici 2023. Ce langage fort a été tenu par le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan, flanqué de son ministre des affaires européennes, Egemen Bagis, dans les colonnes du quotidien turc “Hurriyet”: “A la fin de la présidence cypriote, nous attendons une avancée décisive de la part de l’UE. L’UE a actuellement une attitude contraire à ses propres intérêts. Elle doit se ‘repenser’ et accélérer le processus d’adhésion de la Turquie”, a conclu le ministre. “Nous avons dit qu’avant 2023, la Turquie devrait être un membre à part entière de l’UE”, a ajouté Bagis dans ses réponses au journaliste de “Hurriyet”, mais nous n’avons pas l’intention d’attendre jusqu’à la fin de l’année 2023”.

 

La République de Chypre va bientôt céder la présidence de l’UE à l’Irlande: ce sera en décembre de cette année. Le 31 octobre, Recep Tayyip Erdogan a lancé un avertissement aux technocrates de Bruxelles, en affirmant que si l’UE ne garantit pas l’adhésion d’Ankara pour avant 2023, la Turquie retirera sa candidature. Erdogan fixe ainsi pour la première fois une date-butoir pour l’adhésion définitive de son pays à l’UE. “Je ne crois pas qu’ils se tiendront sur la corde raide aussi longtemps”, a précisé Erdogan lors de sa visite récente à Berlin où il a répondu aux questions des journalistes allemands, “mais si nous retirons notre candidature, l’UE y perdra et, en bout de course, l’UE perdra la Turquie”.

 

Pour notre part, et nonobstant la croissance continue du PIB turc, qui frise aujourd’hui les 9%, nous ne pensons pas, à l’instar des derniers sondages, que les Européens et les Turcs souffriront tant que cela si Ankara s’éloigne de l’UE. Il nous semble plus intéressant d’observer les turbulences que crée le gouvernement turc lorsqu’il déclare se tenir prêt à réviser les accords actuels permettant à l’ENI de travailler sur territoire turc si l’entreprise pétrolière italienne forge un accord avec Chypre pour exploiter les gisements gaziers au large de l’île. Le ministre turc des affaires étrangères, Ahmet Davutoglu, créateur de la nouvelle politique “néo-ottomane” vient d’annoncer dans un communiqué: “Comme nous l’avons déjà envisagé à maintes reprises, ..., les entreprises qui coopèrent avec l’administration grecque-cyptriote seront exclues de tous les futurs projets turcs dans le domaine énergétique”. Le contentieux qui oppose l’ENI à la Turquie, suite à l’accord prévu entre l’entreprise italienne et Nicosie, remonte déjà au 30 octobre 2012, immédiatement après que le gouvernement cypriote ait annoncé la concession de quatre licences d’exploitation de gaz, tout en précisant qu’il en négociera les termes de partenariat avec les Italiens de l’ENI, les Sud-Coréens de Kogas, les Français de Total et les Russes de Novatek. Aujourd’hui, le ministre des affaires étrangères turc a invité les entreprises et les gouvernements de ces quatre pays à “agir selon le bon sens”, les incitant à ne pas oeuvrer dans les eaux cypriotes et à retirer leurs offres.

 

Le ministre turc de l’énergie, Taner Yildiz, sûr de lui, a déclaré hier selon le quotidien “Hurriyet” qu’il était prêt à revoir tous les investissements de la société pétrolière italienne en Turquie, si celle-ci scelle un accord avec Chypre pour exploiter les gisements de gaz des eaux cyptriotes. “Nous soumettrons à révision leurs investissements en Turquie si l’ENI est impliquée”. Déjà au cours de ces derniers mois, Ankara avait protesté à plusieurs reprises auprès du gouvernement cypriote, qualifiant d’“illégales” toutes éventuelles activités d’exploitation au large de l’île et envoyant dans les eaux cyptriotes des militaires, des sous-marins et des navires de guerre. De son côté, Chypre est déforcée car elle est divisée en deux depuis l’été 1974, lorsque les troupes turques ont envahi l’île et occupé sa partie septentrionale, en réponse à un coup perpétré par des éléments philhellènes à Nicosie, qui voulaient réaliser l’ENOSIS, l’union de Chypre à la mère-patrie grecque. Depuis lors, l’île ne s’est plus jamais recomposée et les deux entités, nées des événements de 1974, ont continué à vivre séparément, hermétisées totalement l’une par rapport à l’autre mais en paix, en dépit d’une colonisation forcée favorisée en totale illégalité par la Turquie, qui a incité une fraction de ses concitoyens à prendre possession de la partie nord de Chypre.

 

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu ; article paru dans “Rinascita”, Rome, le 6 novembre 2012; http://rinascita.eu/ ).

mardi, 06 novembre 2012

Le pétrole, le grand stratège d’hier et d’aujourd’hui

La 3ème guerre mondiale expliquée - Le pétrole, le grand stratège d’hier et d’aujourd’hui

La 3ème guerre mondiale expliquée

 

Le pétrole, le grand stratège d’hier et d’aujourd’hui



par Jean Ansar
Ex: http://metamag.fr/
 
Dans son numéro 9, daté d’Octobre 2012, la revue Guerres § histoire confirme toutes ses qualités. Des articles clairs, remarquablement illustrés, des angles originaux,  tout y est avec l’essentiel : connaitre le passé pour comprendre le présent et préparer l’avenir. Le dossier de ce numéro est au regard de ces critères une référence. Il s’intitule : « Le pétrole. L’arme noire qui a fait gagner les alliés ».
 
Une thèse incontestable

Les puissances militaires de l’axe ont perdu la guerre faute de moyens énergétiques suffisants. La hantise du manque de carburant et donc de pétrole explique des choix stratégiques qui sinon seraient incohérents comme certaines offensives allemandes, mais aussi l’entrée en guerre quelque peu précipitée du japon.
 
 
En fait, cette explication éclaire la stratégie américaine d’aujourd’hui qui consiste par la guerre ou des changements de régimes  à  se mettre en position de contrôler l’essentiel des ressources du monde en énergie fossile.
 
On peut se demander dans quel but ?

Il parait évident : isoler la Chine, le seul vrai rival et pousser ce pays à une politique militaire aventuriste. On refait à la Chine le coup du Japon- moyen orient - Asie centrale permettant un isolement énergétique, de l’empire du milieu.
 
Le Pentagone a programmé, pour permettre aux Usa de conserver leur leadership mondial, un conflit contre la Chine. Une troisième guerre mondiale est annoncée. C’est depuis longtemps la conviction  de Metamag, évoquée à plusieurs reprises. Une conviction confortée par la lecture de ce dossier exceptionnel qu’on peut lire par ailleurs comme une simple étude historique originale.
 
Les têtes de chapitre sont éclairantes. A l’orée de la seconde guerre mondiale, les alliés sont dès le départ dans une position dominante dans le jeu pétrolier, impératif pétrolier qui va vite s’imposer à la stratégie des belligérants. L’Italie par exemple n’a pas les moyens de ses ambitions. Elle a une belle flotte de guerre, mais dès 1941 la moitié est à quai, faute de carburants. C’est de toute évidence l’embargo pétrolier qui a provoqué Pearl Harbour et le manque de carburant qui a mis en échec Rommel.
 
 
L’ouverture du deuxième front soviétique s’explique par une offensive préventive par rapport aux plans de Staline mais aussi par la nécessité d’atteindre les réserves du Caucase puis de faire la jonction avec l’Afrika Corps en Irak. Si Hitler avait réussi, tout aurait changé.

 
En 1941, l’Amérique a le pétrole sur son propre territoire. Elle n’a aucun risque de manque. Sa stratégie est libre. Elle peut de plus bombarder le tissus industriel allemand et rester hors de portée. L 'Europe centrale allemande n’a jamais atteint à l’autarcie énergétique, même avec l’apport du charbon. La puissance s’est tarie et n’a pu se renouveler.
Ce n’est pas le courage qui a manqué au soldat allemand ou japonais pour gagner, c’est le manque d’énergie fossile, ce sang noir indispensable à la guerre mécanisée.
Les dirigeants ne l’ont pas suffisamment anticipé et n’ont pas réussi à briser les anneaux de l’encerclement énergétique. Quand on regarde la carte, c’est évident. Rommel n’arrive pas au Caire et le front de l’est est figé avant Grozny. Entre les deux se trouvent les principales réserves mondiales de pétrole, hors Usa et Urss. 
 
Tout est dit. Voilà une remarquable leçon à tirer du passé…. C’est sans doute ce que sont en train de faire les stratèges du pentagone mais aussi ceux de… Pékin. Ce n’est guère rassurant.

mercredi, 10 octobre 2012

En Syrie l’OTAN vise le gazoduc

L’art de la guerre : en Syrie l’OTAN vise le gazoduc

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La déclaration de guerre, aujourd’hui, n’est plus d’usage. Pour faire la guerre il faut par contre encore trouver un casus belli. Comme le projectile de mortier qui, parti de Syrie, a fait 5 victimes en Turquie. Ankara a riposté à coups de canons, tandis que le parlement a autorisé le gouvernement Erdogan à effectuer des opérations militaires en Syrie. Un chèque en blanc pour la guerre, que l’Otan est prête à encaisser. Le Conseil atlantique a dénoncé « les actes agressifs du régime syrien à la frontière sud-orientale de l’Otan », prêt à déclencher l’article 5 qui engage à assister avec la force armée le pays membre attaqué. Mais déjà est en acte le « non-article 5 » -introduit pendant la guerre contre la Yougoslavie et appliqué contre l’Afghanistan et la Libye- qui autorise des opérations non prévues par l’article 5, en dehors du territoire de l’Alliance.

Eloquentes sont les images des édifices de Damas et Alep dévastés par de très puissants explosifs : œuvre non pas de simples rebelles, mais de professionnels de la guerre infiltrés. Environ 200 spécialistes des forces d’élite britanniques Sas et Sbs –rapporte le Daily Star-  opèrent depuis des mois en Syrie, avec des unités étasuniennes et françaises. La force de choc est constituée par un ramassis armé de groupes islamistes (jusqu’à hier qualifiés par Washington de terroristes) provenant d’Afghanistan, Bosnie, Tchétchénie, Libye et autres pays. Dans le groupe d’Abou Omar al-Chechen –rapporte l’envoyé du Guardian à Alep- les ordres sont donnés en arabe, mais doivent être traduits en tchétchène, tadjik, turc, en dialecte saoudien, en urdu, français et quelques autres langues. Munis de faux passeports (spécialité de la Cia), les combattants affluent dans les provinces turques d’Adana et du Hatay, frontalières de la Syrie, où la Cia a ouvert des centres de formation militaire. Les armes arrivent surtout par l’Arabie saoudite et le Qatar qui, comme en Libye, fournit aussi des forces spéciales. Le commandement des opérations se trouve à bord de navires Otan dans le port d’Alexandrette. Pendant ce temps,  sur le Mont Cassius, au bord de la Syrie, l’Otan construit une nouvelle base d’espionnage électronique, qui s’ajoute à la base radar de Kisecik et à celle aérienne d’Incirlik. A Istanbul a été ouvert un centre de propagande où des dissidents syriens, formés par le Département d’état Usa, confectionnent les nouvelles et les vidéos qui sont diffusées par des réseaux satellitaires.

La guerre Otan contre la Syrie est donc déjà en acte, avec le motif officiel d’aider le pays à se libérer du régime d’Assad. Comme en Libye, on a fiché un coin dans les fractures internes pour provoquer l’écroulement de l’état, en instrumentalisant la tragédie dans laquelle les populations sont emportées. Le but est le même : Syrie, Iran et Irak ont signé en juillet 2011 un accord pour un gazoduc qui, d’ici 2016, devrait relier le gisement iranien de South Pars, le plus grand du monde, à la Syrie et ainsi à la Méditerranée. La Syrie où a été découvert un autre gros gisement près de Homs, peut devenir un hub de couloirs énergétiques alternatifs à ceux qui traversent la Turquie et à d’autres parcours, contrôlés par les compagnies étasuniennes et européennes. Pour cela on veut la frapper et l’occuper.

C’est clair, en Turquie, pour les 129 députés (un quart) opposés à la guerre et pour les milliers de gens qui ont manifesté avec le slogan « Non à l’intervention impérialiste en Syrie ».

Pour combien  d’Italiens est-ce clair, au parlement et dans le pays ?[1]

 

Edition de mardi 9 octobre 2012 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20121009/manip2pg/14/manip2pz/329867/

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

[1] Même question, évidemment, pour les députés et population français –et britanniques- qui participent par leurs impôts notamment aux opérations clandestines des forces spéciales en Syrie, NdT.

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Historique du grand jeu gazier

Une première lecture de la carte du gaz révèle que celui-ci est localisé dans les régions suivantes, en termes de gisements et d’accès aux zones de consommation :

  1. Russie : Vyborg et Beregvya
  2. Annexé à la Russie : Turkménistan
  3. Environs plus ou moins immédiats de la Russie : Azerbaïdjan et Iran
  4. Pris à la Russie : Géorgie
  5. Méditerranée orientale : Syrie et Liban
  6. Qatar et Égypte.

Carte des gisements de gaz et de pétrole, des infrastructures ainsi que des gazoducs et oléoducs du Moyen-Orient

Moscou s’est hâté de travailler sur deux axes stratégiques : le premier est la mise en place d’un projet sino-russe à long terme s’appuyant sur la croissance économique du Bloc de Shanghai ; le deuxième visant à contrôler les ressources de gaz. C’est ainsi que furent jetées les bases des projets South Stream et Nord Stream, faisant face au projet étasunien Nabucco, soutenu par l’Union européenne, qui visait le gaz de la mer Noire et de l’Azerbaïdjan. S’ensuivit entre ces deux initiatives une course stratégique pour le contrôle de l’Europe et des ressources en gaz.

Pour la Russie :

Le projet Nord Stream relie directement la Russie à l’Allemagne en passant à travers la mer Baltique jusqu’à Weinberg et Sassnitz, sans passer par la Biélorussie.

Le projet South Stream commence en Russie, passe à travers la la mer Noire jusqu’à la Bulgarie et se divise entre la Grèce et le sud de l’Italie d’une part, et la Hongrie et l’Autriche d’autre part.

Pour les États-Unis :

Le projet Nabucco part d’Asie centrale et des environs de la Mer Noire, passe par la Turquie où se situent les infrastructures de stockage, puis parcours la Bulgarie, traverse la Roumanie, la Hongrie, arrive en Autriche et de là se dirige vers la République Tchèque, la Croatie, la Slovénie et l’Italie. Il devait à l’origine passer en Grèce, mais cette idée avait été abandonnée sous la pression turque.

Nabucco était censé concurrencer les projets russes. Initialement prévu pour 2014, il a dû être repoussé à 2017 en raison de difficultés techniques. À partir de là, la bataille du gaz a tourné en faveur du projet russe, mais chacun cherche toujours à étendre son projet à de nouvelles zones.

Cela concerne d’une part le gaz iranien, que les États-Unis voulaient voir venir renforcer le projet Nabucco en rejoignant le point de groupage de Erzurum, en Turquie ; et de l’autre le gaz de la Méditerranée orientale : Syrie, Liban, Israël.

Or en juillet 2011, l’Iran a signé divers accords concernant le transport de son gaz via l’Irak et la Syrie. Par conséquent, c’est désormais la Syrie qui devient le principal centre de stockage et de production, en liaison avec les réserves du Liban. C’est alors un tout nouvel espace géographique, stratégique et énergétique qui s’ouvre, comprenant l’Iran, l’Irak, la Syrie et le Liban. Les entraves que ce projet subit depuis plus d’un an donnent un aperçu du niveau d’intensité de la lutte qui se joue pour le contrôle de la Syrie et du Liban. Elles éclairent du même coup le rôle joué par la France, qui considère la Méditerranée orientale comme sa zone d’influence historique, devant éternellement servir ses intérêts, et où il lui faut rattraper son absence depuis la Seconde Guerre mondiale. En d’autres termes, la France veut jouer un rôle dans le monde du gaz où elle a acquis en quelque sorte une « assurance maladie » en Libye et veut désormais une « assurance-vie » à travers la Syrie et le Liban.

Quant à la Turquie, elle sent qu’elle sera exclue de cette guerre du gaz puisque le projet Nabucco est retardé et qu’elle ne fait partie d’aucun des deux projets South Stream et Nord Stream ; le gaz de la Méditerranée orientale semble lui échapper inexorablement à mesure qu’il s’éloigne de Nabucco.

L’axe Moscou-Berlin

Pour ses deux projets, Moscou a créé la société Gazprom dans les années 1990. L’Allemagne, qui voulait se libérer une fois pour toutes des répercussions de la Seconde Guerre mondiale, se prépara à en être partie prenante ; que ce soit en matière d’installations, de révision du pipeline Nord, ou de lieux de stockage pour la ligne South Stream au sein de sa zone d’influence, particulièrement en Autriche.

La société Gazprom a été fondée avec la collaboration de Hans-Joachim Gornig, un allemand proche de Moscou, ancien vice-président de la compagnie allemande de pétrole et de gaz industriels qui a supervisé la construction du réseau de gazoducs de la RDA. Elle a été dirigée jusqu’en octobre 2011 par Vladimir Kotenev, ancien ambassadeur de Russie en Allemagne.

Gazprom a signé nombre de transactions avec des entreprises allemandes, au premier rang desquelles celles coopérant avec Nord Stream, tels les géants E.ON pour l’énergie et BASF pour les produits chimiques ; avec pour E.ON des clauses garantissant des tarifs préférentiels en cas de hausse des prix, ce qui revient en quelque sorte à une subvention « politique » des entreprises du secteur énergétique allemand par la Russie.

Moscou a profité de la libéralisation des marchés européens du gaz pour les contraindre à déconnecter les réseaux de distribution des installations de production. La page des affrontements entre la Russie et Berlin étant tournée, débuta alors une phase de coopération économique basée sur l’allégement du poids de l’énorme dette pesant sur les épaules de l’Allemagne, celle d’une Europe surendettée par le joug étasunien. Une Allemagne qui considère que l’espace germanique (Allemagne, Autriche, République Tchèque, Suisse) est destiné à devenir le cœur de l’Europe, mais n’a pas à supporter les conséquences du vieillissement de tout un continent, ni celle de la chute d’une autre superpuissance.

Les initiatives allemandes de Gazprom comprennent le joint-venture de Wingas avec Wintershall, une filiale de BASF, qui est le plus grand producteur de pétrole et de gaz d’Allemagne et contrôle 18 % du marché du gaz. Gazprom a donné à ses principaux partenaires allemands des participations inégalées dans ses actifs russes. Ainsi BASF et E.ON contrôlent chacune près d’un quart des champs de gaz Loujno-Rousskoïé qui alimenteront en grande partie Nord Stream ; et ce n’est donc pas une simple coïncidence si l’homologue allemand de Gazprom, appelé « le Gazprom germanique », ira jusqu’à posséder 40 % de la compagnie autrichienne Austrian Centrex Co, spécialisée dans le stockage du gaz et destinée à s’étendre vers Chypre.

Une expansion qui ne plait certainement pas à la Turquie qui a cruellement besoin de sa participation au projet Nabucco. Elle consisterait à stocker, commercialiser, puis transférer 31 puis 40 milliards de m³ de gaz par an ; un projet qui fait qu’Ankara est de plus en plus inféodé aux décisions de Washington et de l’OTAN, d’autant plus que son adhésion à l’Union européenne a été rejetée à plusieurs reprises.

Les liens stratégiques liés au gaz déterminent d’autant plus la politique que Moscou exerce un lobbying sur le Parti social-démocrate allemand en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, base industrielle majeure et centre du conglomérat allemand RWE, fournisseur d’électricité et filiale d’E.ON.

Cette influence a été reconnue par Hans-Joseph Fell, responsable des politiques énergétiques chez les Verts. Selon lui quatre sociétés allemandes liées à la Russie jouent un rôle majeur dans la définition de la politique énergétique allemande. Elles s’appuient sur le Comité des relations économiques de l’Europe de l’Est —c’est-à-dire sur des entreprises en contact économique étroit avec la Russie et les pays de l’ex Bloc soviétique—, qui dispose d’un réseau très complexe d’influence sur les ministres et l’opinion publique. Mais en Allemagne, la discrétion reste de mise quant à l’influence grandissante de la Russie, partant du principe qu’il est hautement nécessaire d’améliorer la « sécurité énergétique » de l’Europe.

Il est intéressant de souligner que l’Allemagne considère que la politique de l’Union européenne pour résoudre la crise de l’euro pourrait à terme gêner les investissements germano-russes. Cette raison, parmi d’autres, explique pourquoi elle traine pour sauver l’euro plombé par les dettes européennes, alors même que le bloc germanique pourraient, à lui seul, supporter ces dettes. De plus, à chaque fois que les Européens s’opposent à sa politique vis-à-vis de la Russie, elle affirme que les plans utopiques de l’Europe ne sont pas réalisables et pourraient pousser la Russie à vendre son gaz en Asie, mettant en péril la sécurité énergétique européenne.

Ce mariage des intérêts germano-russes s’est appuyé sur l’héritage de la Guerre froide, qui fait que trois millions de russophones vivent en Allemagne, formant la deuxième plus importante communauté après les Turcs. Poutine était également adepte de l’utilisation du réseau des anciens responsables de la RDA, qui avaient pris soin des intérêts des compagnies russes en Allemagne, sans parler du recrutement d’ex-agents de la Stasi. Par exemple, les directeurs du personnel et des finances de Gazprom Germania, ou encore le directeur des finances du Consortium Nord Stream, Warnig Matthias qui, selon le Wall Street Journal, aurait aidé Poutine à recruter des espions à Dresde lorsqu’il était jeune agent du KGB. Mais il faut le reconnaitre, l’utilisation par la Russie de ses anciennes relations n’a pas été préjudiciable à l’Allemagne, car les intérêts des deux parties ont été servis sans que l’une ne domine l’autre.

Le projet Nord Stream, le lien principal entre la Russie et l’Allemagne, a été inauguré récemment par un pipeline qui a coûté 4,7 milliards d’euros. Bien que ce pipeline relie la Russie et l’Allemagne, la reconnaissance par les Européens qu’un tel projet garantissait leur sécurité énergétique a fait que la France et la Hollande se sont hâtées de déclarer qu’il s’agissait bien là d’un projet « européen ». À cet égard, il est bon de mentionner que M. Lindner, directeur exécutif du Comité allemand pour les relations économiques avec les pays de l’Europe de l’Est a déclaré, sans rire, que c’était bien « un projet européen et non pas allemand, et qu’il n’enfermerait pas l’Allemagne dans une plus grande dépendance vis-à-vis de la Russie ». Une telle déclaration souligne l’inquiétude que suscite l’accroissement de l’influence Russe en l’Allemagne ; il n’en demeure pas moins que le projet Nord Stream est structurellement un plan moscovite et non pas européen.

Les Russes peuvent paralyser la distribution de l’énergie en Pologne dans plusieurs pays comme bon leur semblent, et seront en mesure de vendre le gaz au plus offrant. Toutefois, l’importance de l’Allemagne pour la Russie réside dans le fait qu’elle constitue la plate-forme à partir de laquelle elle va pouvoir développer sa stratégie continentale ; Gazprom Germania détenant des participations dans 25 projets croisés en Grande-Bretagne, Italie, Turquie, Hongrie et d’autres pays. Cela nous amène à dire que Gazprom – après un certain temps – est destinée à devenir l’une des plus importantes entreprises au monde, sinon la plus importante.

Dessiner une nouvelle carte de l’Europe, puis du monde

Les dirigeants de Gazprom ont non seulement développé leur projet, mais ils ont aussi fait en sorte de contrer Nabucco. Ainsi, Gazprom détient 30 % du projet consistant à construire un deuxième pipeline vers l’Europe suivant à peu près le même trajet que Nabucco ce qui est, de l’aveu même de ses partisans, un projet « politique » destiné à montrer sa force en freinant, voire en bloquant le projet Nabucco. D’ailleurs Moscou s’est empressé d’acheter du gaz en Asie centrale et en mer Caspienne dans le but de l’étouffer, et de ridiculiser Washington politiquement, économiquement et stratégiquement par la même occasion.

Gazprom exploite des installations gazières en Autriche, c’est-à-dire dans les environs stratégiques de l’Allemagne, et loue aussi des installations en Grande-Bretagne et en France. Toutefois, ce sont les importantes installations de stockage en Autriche qui serviront à redessiner la carte énergétique de l’Europe, puisqu’elles alimenteront la Slovénie, la Slovaquie, la Croatie, la Hongrie, l’Italie et l’Allemagne. À ces installations, il faut ajouter le centre de stokage de Katrina, que Gazprom construit en coopération avec l’Allemagne, afin de pouvoir exporter le gaz vers les grands centres de consommation de l’Europe de l’ouest.

Gazprom a mis en place une installation commune de stockage avec la Serbie afin de fournir du gaz à la Bosnie-Herzégovine et à la Serbie elle-même. Des études de faisabilité ont été menées sur des modes de stockage similaires en République Tchèque, Roumanie, Belgique, Grande-Bretagne, Slovaquie, Turquie, Grèce et même en France. Gazprom renforce ainsi la position de Moscou, fournisseur de 41 % des approvisionnements gaziers européens. Ceci signifie un changement substantiel dans les relations entre l’Orient et l’Occident à court, moyen et long terme. Cela annonce également un déclin de l’influence états-unienne, par boucliers antimissiles interposés, voyant l’établissement d’une nouvelle organisation internationale, dont le gaz sera le pilier principal. Enfin cela explique l’intensification du combat pour le gaz de la côte Est de la Méditerranée au Proche-Orient.

Nabucco et la Turquie en difficulté

Nabucco devait acheminer du gaz sur 3 900 kilomètres de la Turquie vers l’Autriche et était conçu pour fournir 31 milliards de mètres cubes de gaz naturel par an depuis le Proche-Orient et le bassin caspien vers les marchés européens. L’empressement de la coalition OTAN-États-unis-France à mettre fin aux obstacles qui s’élevaient contre ses intérêts gaziers au Proche-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, réside dans le fait qu’il est nécessaire de s’assurer la stabilité et la bienveillance de l’environnement lorsqu’il est question d’infrastructures et d’investissement gaziers. La réponse syrienne fût de signer un contrat pour transférer vers son territoire le gaz iranien en passant par l’Irak. Ainsi, c’est bien sur le gaz syrien et libanais que se focalise la bataille, alimentera t-il Nabucco ou South Stream ?

Le consortium Nabucco est constitué de plusieurs sociétés : allemande (REW), autrichienne (OML), turque (Botas), bulgare (Energy Company Holding), et roumaine (Transgaz). Il y a cinq ans, les coûts initiaux du projet étaient estimées à 11,2 milliards de dollars, mais ils pourraient atteindre 21,4 milliards de dollars d’ici 2017. Ceci soulève de nombreuses questions quant à sa viabilité économique étant donné que Gazprom a pu conclure des contrats avec différentes pays qui devaient alimenter Nabucco, lequel ne pourrait plus compter que sur les excédents du Turkménistan, surtout depuis les tentatives infructueuses de mainmise sur le gaz iranien. C’est l’un des secrets méconnus de la bataille pour l’Iran, qui a franchi la ligne rouge dans son défi aux USA et à l’Europe, en choisissant l’Irak et la Syrie comme trajets de transport d’une partie de son gaz.

Ainsi, le meilleur espoir de Nabucco demeure dans l’approvisionnement en gaz d’Azerbaïdjan et le gisement Shah Deniz, devenu presque la seule source d’approvisionnement d’un projet qui semble avoir échoué avant même d’avoir débuté. C’est ce que révèle l’accélération des signatures de contrats passés par Moscou pour le rachat de sources initialement destinées à Nabucco, d’une part, et les difficultés rencontrées pour imposer des changements géopolitiques en Iran, en Syrie et au Liban d’autre part. Ceci au moment où la Turquie s’empresse de réclamer sa part du projet Nabucco, soit par la signature d’un contrat avec l’Azerbaïdjan pour l’achat de 6 milliards de mètres cubes de gaz en 2017, soit par l’annexion de la Syrie et du Liban avec l’espoir de faire obstacle au transit du pétrole iranien ou de recevoir une part de la richesse gazière libano-syrienne. Apparemment une place dans le nouvel ordre mondial, celui du gaz ou d’autre chose, passe par rendre un certain nombre de service, allant de l’appui militaire jusqu’à l’hébergement du dispositif stratégique de bouclier antimissiles.

Ce qui constitue peut-être la principale menace pour Nabucco, c’est la tentative russe de le faire échouer en négociant des contrats plus avantageux que les siens en faveur de Gazprom pour North Stream et South Stream ; ce qui invaliderait les efforts des États-Unis et de l’Europe, diminuerait leur influence, et bousculerait leur politique énergétique en Iran et/ou en Méditerranée. En outre, Gazprom pourrait devenir l’un des investisseurs ou exploitants majeurs des nouveaux gisements de gaz en Syrie ou au Liban. Ce n’est pas par hasard que le 16 août 2011, le ministère syrien du Pétrole à annoncé la découverte d’un puits de gaz à Qara, près de Homs. Sa capacité de production serait de 400 000 mètres cubes par jour (146 millions de mètres cubes par an), sans même parler du gaz présent dans la Méditerranée.

Les projets Nord Stream et South Stream ont donc réduit l’influence politique étasunienne, qui semble désormais à la traîne. Les signes d’hostilité entre les États d’Europe centrale et la Russie se sont atténués ; mais la Pologne et les États-Unis ne semblent pas disposés à renoncer. En effet, fin octobre 2011, ils ont annoncé le changement de leur politique énergétique suite à la découverte de gisements de charbon européens qui devraient diminuer la dépendance vis-à-vis de la Russie et du Proche-Orient. Cela semble être un objectif ambitieux mais à long terme, en raison des nombreuses procédures nécessaires avant commercialisation ; ce charbon correspondant à des roches sédimentaires trouvées à des milliers de mètres sous terre et nécessitant des techniques de fracturation hydraulique sous haute pression pour libérer le gaz, sans compter les risques environnementaux.

Participation de la Chine

La coopération sino-russe dans le domaine énergétique est le moteur du partenariat stratégique entre les deux géants. Il s’agit, selon les experts, de la « base » de leur double véto réitéré en faveur de la Syrie.

Cette coopération ne concerne pas seulement l’approvisionnement de la Chine à des conditions préférentielles. La Chine est amenée à s’impliquer directement dans la distribution du gaz via l’acquisition d’actifs et d’installations, en plus d’un projet de contrôle conjoint des réseaux de distribution. Parallèlement, Moscou affiche sa souplesse concernant le prix du gaz, sous réserve d’être autorisé à accéder au très profitable marché intérieur chinois. Il a été convenu, par conséquent, que les experts russes et chinois travailleraient ensemble dans les domaines suivants : « La coordination des stratégies énergétiques, la prévision et la prospection, le développement des marchés, l’efficacité énergétique, et les sources d’énergie alternative ».

D’autres intérêts stratégiques communs concernent les risques encourus face au projet du « bouclier antimissiles » US. Non seulement Washington a impliqué le Japon et la Corée du Sud mais, début septembre 2011, l’Inde a aussi été invitée à en devenir partenaire. En conséquence, les préoccupations des deux pays se croisent au moment où Washington relance sa stratégie en Asie centrale, c’est-à-dire, sur la Route de la soie. Cette stratégie est la même que celle lancée par George Bush (projet de Grande Asie centrale) pour y faire reculer l’influence de la Russie et de la Chine en collaboration avec la Turquie, résoudre la situation en Afghanistan d’ici 2014, et imposer la force militaire de l’OTAN dans toute la région. L’Ouzbékistan a déjà laissé entendre qu’il pourrait accueillir l’OTAN, et Vladimir Poutine a estimé que ce qui pourrait déjouer l’intrusion occidentale et empêcher les USA de porter atteinte à la Russie serait l’expansion de l’espace Russie-Kazakhtan-Biélorussie en coopération avec Pékin.

Cet aperçu des mécanismes de la lutte internationale actuelle permet de se faire une idée du processus de formation du nouvel ordre international, fondé sur la lutte pour la suprématie militaire et dont la clé de voute est l’énergie, et en premier lieu le gaz.

Le gaz de la Syrie

Quand Israël a entrepris l’extraction de pétrole et de gaz à partir de 2009, il était clair que le bassin Méditerranéen était entré dans le jeu et que, soit la Syrie serait attaquée, soit toute la région pourrait bénéficier de la paix, puisque le 21ème siècle est supposé être celui de l’énergie propre.

Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme les plus grandes réserves de gaz et c’est en Syrie qu’il y aurait les plus importantes. Ce même institut a aussi émis l’hypothèse que la bataille entre la Turquie et Chypre allait s’intensifier du fait de l’incapacité Turque à assumer la perte du projet Nabucco (malgré le contrat signé avec Moscou en décembre 2011 pour le transport d’une partie du gaz de South Stream via la Turquie).

La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient. Et à partir de la Syrie, porte de l’Asie, il détiendra « la clé de la Maison Russie », comme l’affirmait la Tsarine Catherine II, ainsi que celle de la Chine, via la Route de la soie. Ainsi, il serait en capacité de dominer le monde, car ce siècle est le Siècle du Gaz.

C’est pour cette raison que les signataires de l’accord de Damas, permettant au gaz iranien de passer à travers l’Irak et d’accéder à la Méditerranée, ouvrant un nouvel espace géopolitique et coupant la ligne de vie de Nabucco, avaient déclaré « La Syrie est la clé de la nouvelle ère ».

Source : Mecanoblog

vendredi, 21 septembre 2012

Problématique et prospective géopolitiques de la question pakistanaise

 

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Andrea Jacopo SALA:

Problématique et prospective géopolitiques de la question pakistanaise

 

Ce sont les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la seconde guerre mondiale qui constituent le point de départ à analyser pour comprendre les tensions qui ont affecté la zone la plus méridionale du continent asiatique. La fin des empires coloniaux et la volonté d’émancipation des nations émergentes ont entraîné un partage nouveau des territoires, tenant compte des réalités culturelles qui, auparavant, avaient cohabité sous une hégémonie étrangère unique, britannique en l’occurrence. On ne peut nullement se référer au découpage arbitraire que les puissances dominantes et coloniales ont imposé car elles sont une des causes premières des tensions qui ont ensanglanté ces pays, lesquels, aujourd’hui encore, présentent des cicatrices difficilement guérissables. Ces cicatrices, béantes, sont autant de bonnes opportunités pour tous ceux qui veulent s’immiscer dans les querelles intérieures et dans les contentieux diplomatiques qui affectent ces pays du Sud et du Sud-est de l’Asie, comme si les castes dirigeantes de l’Occident avaient la nostalgie du statut colonial d’antan, que ces jeunes nations ont rejeté; ces castes préfèrent encore et toujours contrôler ces pays indirectement, au bénéfice de leurs prorpes intérêts, plutôt que de prendre acte, sereinement, des maturations et des changements qui se sont effectués au fil du temps.

 

Il faut donc esquisser un bref panorama historique des événements les plus marquants qui ont accompagné la désagrégation de l’ancien “Raj” britannique, ainsi que de leurs conséquences directes, puis il faut passer au tamis toutes les problématiques liées au terrorisme, car ce terrorisme est un des moyens les plus utilisés pour intervenir dans et contre les choix politiques posés par les anciennes colonies britanniques, aussi pour s’immiscer dans les potentialités émergentes germant dans ces pays mêmes et pour freiner ou ralentir les nouvelles perspectives géopolitiques qui se révèlent réalisables depuis quelques temps.

 

Après le “Raj” britannique

 

Le “Raj” britannique des Indes (au pluriel!), on le sait, a été subdivisé en deux pays, le Pakistan et l’Inde, en 1947. C’était l’aboutissement de cette longue lutte indienne pour l’indépendance qui s’était radicalisée dans les années 20 et 30 du 20ième siècle, lutte dont les vicissitudes sont bien connues du public occidental grâce à la fascination qu’avait exercée sur bien des esprits la forte personnalité politique et spirituelle que fut Mohandas Karamchand Gandhi. Parallèlement au Parti du Congrès National Indien (PCNI), dont le “Mahatma” (Gandhi) était le membre le plus influent, existait aussi le Parti de la Ligue Musulmane (PLM), dirigé par Mohammed Ali Jinnah, tout aussi âpre dans sa lutte contre le colonialisme britannique. Dans une première phase de la lutte pour l’indépendance indienne, le PLM était allié au PCNI puisqu’ils avaient des objectifs communs. Mais, dès que les Britanniques promirent de résoudre la question indienne en renonçant à toutes prérogatives coloniales dans la région, les rapports entre le leader musulman et Gandhi se sont détériorés: tandis que le “Mahatma”, inspiré par les thèses théosophiques, rêvait d’une seule et unique nation indienne où coexisteraient pacifiquement plusieurs religions, Mohammed Ali Jinnah revendiquait l’instauration d’un Etat exclusivement islamique. La résolution du problème fut confiée à Lord Mountbatten qui a accepté la requête des Musulmans et a, par voie de conséquence, partagé le territoire du “Raj” britannique entre les dominions du Pakistan et de l’Inde.

 

Le plan Mountbatten contenait toutefois beaucoup d’approximations et de concessions arbitraires (et parfois inutiles), si bien qu’on ne pouvait guère le faire appliquer tout en voulant maintenir la paix: la zone d’influence du Pakistan était divisée fort maladroitement en un Pakistan occidental et un Pakistan oriental, séparé l’un de l’autre par un immense territoire sous juridiction indienne; de nombreux territoires, comme le Cachemire, n’avaient été attribués officiellement à aucun des deux nouveaux Etats souverains; malgré la volonté affichée d’attribuer aux uns et aux autres des territoires sur base de critères religieux et culturels, la partition laissait des zones à majorité hindoue au Pakistan et des zones à majorité musulmane au nouveau “dominion” de l’Inde.

 

 

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A cette situation délicate s’ajoutaient les prétentions chinoises sur quelques territoires de l’ancien “Raj” britannique. Le tout a enflammé la région pendant la seconde partie du 20ème siècle, aux dépens des populations. Pas moins de quatre guerres ont sévi et, suite à l’une d’elles, la zone baptisée par Lord Mountbatten “Pakistan oriental” est devenue indépendante, avec l’aide des Indiens, pour devenir l’actuel Bengladesh; la région du Cachemire a été divisée selon les lignes des fronts où s’étaient successivement affrontés Pakistanais, Indiens et Chinois. Il ne faut pas oublier non plus les nombreuses migrations qui ont suivi la partition, où les Hindous quittaient en masse les territoires sous juridiction pakistanaise-musulmane et où les Musulmans quittaient les zone attribuées à la nouvelle Inde indépendante, majoritairement hindoue. Ces transferts de population ont eu des effets fortement déstabilisants pour les équilibres internes des deux nouveaux Etats. Entretemps, alors que l’Inde optait pour la voie de la modernisation sous l’impulsion du gouvernement de Nehru, le Pakistan fut secoué par une série de coups d’Etat militaires, renversant à intervalles réguliers les régimes démocratiques.

 

Terrorisme et guerre au terrorisme

 

Après avoir déployé une politique fièrement hostile aux Etats-Unis sous la houlette de Zulfiqar Ali Bhutto, qui a ouvert le Pakistan aux technologies nucléaires, le pays tombe ensuite sous une nouvelle dictature militaire, dirigée par le Général Muhammad Zia-ul-Haq et fortement inspirée par le fondamentalisme musulman. La période de la dictature de Zia-ul-Haq fut celle d’une collaboration étroite avec les bandes anti-soviétiques actives dans le conflit afghan; ensuite, l’amitié entre Zia-ul-Haq et le chef d’une faction insurrectionnelle afghane, Gulbuddin Hekmatyar —appuyée par un financement d’au moins 600 millions de dollars en provenance des circuits de la CIA et transitant par le Pakistan— favorisait un soutien direct à la puissante guérilla intégriste qui luttait contre les Soviétiques (1).

 

L’existence même d’Al-Qaeda est issue de ce contexte conflictuel entre, d’une part, le gouvernement légal afghan, soutenu par l’Union Soviétique, et, d’autre part, l’insurrection des “moudjahiddins”. D’après l’ancien ministre britannique des affaires étrangères, Robert Cook, Al-Qaeda serait la traduction en arabe de “data-base”. Et ce même Cook affirmait dans un entretien accordé à “The Guardian”: “Pour autant que je le sache, Al-Qaeda était, à l’origine, le nom d’une ‘data-base’ (base de données) du gouvernement américain, contenant les noms des milliers de moudjahiddins enrôlés par la CIA pour combattre les Soviétiques en Afghanistan” (2). Ce que confirme par ailleurs Saad al-Fagih, chef du “Movement for Islamic Reform” en Arabie Saoudite: Ben Laden s’est bel et bien engagé, au départ, pour s’opposer à la présence soviétique en Afghanistan (3). Si cet appui initial des Américains à de telles organisations (qui seraient ensuite partiellement passées dans les rangs du terrorisme anti-occidental) explique les raisons stratégiques qui ont forcé les Etats-Unis à se rapprocher des organisations fondamentalistes islamiques, celles-ci, dès qu’elles ne fournissent plus aucun avantage stratégique et ne servent plus les intérêts géopolitiques immédiats de Washington, deviennent automatiquement “ennemies” et sont donc combattues en tant que telles.

 

Dans cette logique, on peut s’expliquer la ruine actuelle du Pakistan, sombrant dans le chaos sous le regard des Américains. Après la chute du régime de Zia-ul-Haq et pendant toute la durée du régime de Pervez Mucharraf, le gouvernement du Pakistan a été continuellement accusé de soutenir les talibans (4), surtout depuis l’opération, parachevée avec succès, visant l’arrestation du troisième personnage dans la hiérarchie d’Al-Qaeda, Khalid Shaykh Muhammad. Dans un tel contexte (et un tel imbroglio!), le ministre indien des affaires étrangères n’a pas hésité à déclarer “que le Pakistan a échoué dans ses projets d’éradiquer le terrorisme qui puise ses racines sur son prorpe territoire”: c’était immédiatmeent après les attentats de Mumbai (Bombay) (5). Ce bref rapprochement entre l’Inde et les Etats-Unis, prévisible et dirigé contre le Pakistan, ne devrait pourtant pas mener à une éventuelle intervention occidentale dans la zone du Cachemire, vu que tous les Etats impliqués dans cette zone se sont toujours montrés très rétifs à des interventions extérieures, même si de telles interventions pouvaient faire pencher la balance dans le sens de leurs propres intérêts géopolitiques. Il me paraît inutile, ici, d’évoquer la prétendue exécution du terroriste Osama Ben Laden, justement sur le territoire du Pakistan lui-même.

 

Mais pourquoi les relations américano-pakistanaises se sont-elles détériorées à ce point, et de manière assez inattendue?

 

Le tracé des gazoducs

 

La Pakistan est devenu membre observateur de l’OCS (Organisation de Coopération de Shanghai) en 2005, ce qui constitue déjà un motif d’inquiétude pour les pays inféodés à l’OTAN. Cependant, ce qui constitue probablement la cause principale de la mobilisation des énergies et des médias pour discréditer la République Islamique du Pakistan est la proposition des Iraniens, séduisante pour les Pakistanais, de construire un gazoduc qui reliera les deux pays et dont Islamabad a prévu la parachèvement pour 2014. Le projet initial aurait dû également impliquer l’Inde, dans la mesure où un terminal du gazoduc y aurait abouti, mais les pressions américaines ont empêché l’adhésion de l’Inde au projet suggéré par l’Iran.

 

 

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Le projet déplait à l’évidence aux Etats-Unis non seulement parce qu’il renforce les relations entre deux pays islamiques mais aussi et surtout parce que le nouveau choix du Pakistan est diamètralement contraire aux plans prévus pour un autre gazoduc, le gazoduc dit “TAPI”, qui devrait partir du Turkménistan et passer par l’Afghanistan et le Pakistan pour aboutir en Inde, tout en étant étroitement contrôlé par des investisseurs américains.

 

Dans ce jeu, la région du Beloutchistan joue un rôle de premier plan, région habitée majoritairement par une ethnie très apparentée aux Pachtouns. Les Pachtouns sont un peuple originaire de régions aujourd’hui afghanes et se sont rendus tristement célèbres pour leurs violences et pour leurs velléités indépendantistes (tant en Iran qu’au Pakistan), sans oublier leurs trafics d’opium et d’héroïne qui posent quantité de problèmes au gouvernement pakistanais.

 

Les jeux stratégiques demeurent toutefois peu clairs et peu définis jusqu’à présent, si bien qu’il me paraît difficile de se prononcer d’une manière définitive sur les problèmes de la région. Le Pakistan reçoit encore et toujours un soutien financier de la part des Etats-Unis, en provenance directe du Pentagone; officiellement, cet argent sert à lutter contre le terrorisme mais, forcément, on peut très bien imaginer qu’il s’agit surtout de convaincre Islamabad de refuser l’offre iranienne.

 

Andrea Jacopo SALA,

Article paru sur le site italien http://www.eurasia-rivista.org/ en date du 6 août 2012.

 

Notes:

 

(1)   http://it.wikipedia.org/ Entrée sur Gulbuddin Hekmatyar.

(2)   http://www.guardian.co.uk/ , 8 juillet 2005

(3)   http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/shows/binladen/interviews/al-fagih.html/

(4)   http://www.asiantribune.com/index.php?q=node/3231/

(5)   http://www.repubblica.it/2008/11/sezioni/esteri/india-attentato-3/dimissioni-capo-provincia/dimissioni-capo-provincia.html/

 

vendredi, 15 juin 2012

De la géopolitique du pétrole à celle du gaz La Syrie se trouve au centre de la guerre du gaz

De la géopolitique du pétrole à celle du gaz

La Syrie se trouve au centre de la guerre du gaz

par Imad Fawzi Shueibi,* Damas

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

L’attaque médiatique et militaire à l’encontre de la Syrie est directement liée à la compétition mondiale pour l’énergie, ainsi que l’explique le professeur Imad Shueibi dans l’article magistral que nous publions. A un moment où la zone euro menace de s’effondrer, où une crise économique aiguë a conduit les Etats-Unis à s’endetter à hauteur de 14 940 milliards de dollars, et où leur influence s’amenuise face aux puissances émergentes du BRICS, il devient clair que la clé de la réussite économique et de la domination politique réside principalement dans le contrôle de l’énergie du XXIe siècle: le gaz. C’est parce qu’elle se trouve au cœur de la plus colossale réserve de gaz de la planète que la Syrie est prise pour cible. Les guerres du siècle dernier étaient celles du pétrole, mais une nouvelle ère commence, celle des guerres du gaz.

Avec la chute de l’Union soviétique, les Russes ont réalisé que la course à l’armement les avait épuisés, surtout en l’absence des approvisionnements d’énergie nécessaires à tout pays industrialisé. Au contraire, les USA avaient pu se développer et décider de la politique internationale sans trop de difficultés grâce à leur présence dans les zones pétrolières depuis des décennies. C’est la raison pour laquelle les Russes décidèrent à leur tour de se positionner sur les sources d’énergie, aussi bien pétrole que gaz. Considérant que le secteur pétrolier, vu sa répartition internationale, n’offrait pas de perspectives, Moscou misa sur le gaz, sa production, son transport e t sa commercialisation à grande échelle.
Le coup d’envoi fut donné en 1995, lorsque Vladimir Poutine mis en place la stratégie de Gazprom: partir des zones gazières de la Russie vers l’Azerbaïdjan, le Turkménistan, l’Iran (pour la commercialisation), jusqu’au Proche-Orient. Il est certain que les projets Nord Stream et South Stream témoigneront devant l’histoire du mérite et des efforts de Vladimir Poutine pour ramener la Russie dans l’arène internationale et peser sur l’économie européenne puisqu’elle dépendra, durant des décennies à venir, du gaz comme alternative ou complément du pétrole, avec cependant une nette priorité pour le gaz. A partir de là, il devenait urgent pour Washington de créer le projet concurrent Nabucco, pour rivaliser avec les projets russes et espérer jouer un rôle dans ce qui va déterminer la stratégie et la politique pour les cents prochaines années.
Le fait est que le gaz sera la principale source d’énergie du XXIe siècle, à la fois comme alternative à la baisse des réserves mondiales de pétrole, et comme source d’énergie propre. Par conséquent, le contrôle des zones gazières du monde par les anciennes et les nouvelles puissances est à la base d’un conflit international dont les manifestations sont régionales.
De toute évidence, la Russie a bien lu les cartes et a bien retenu la leçon du passé, car c’est le manque de contrôle au niveau des ressources énergétiques globales, indispensables à l’injection de capital et d’énergie dans la structure industrielle, qui fut à l’origine de l’effondrement de l’Union soviétique. De même la Russie a compris que le gaz serait la ressource énergétique du siècle à venir.

Historique du grand jeu gazier

Une première lecture de la carte du gaz révèle que celui-ci est localisé dans les régions suivantes, en termes de gisements et d’accès aux zones de consommation: 

1.    Russie: Vyborg et Beregovaya 

2.    Annexé à la Russie: Turkménistan 

3.    Environs plus ou moins immédiats de la Russie: Azerbaïdjan et Iran 

4.    Pris à la Russie: Géorgie
5.    Méditerranée orientale: Syrie et Liban
6.    Qatar et Egypte.
Moscou s’est hâté de travailler sur deux axes stratégiques: le premier est la mise en place d’un projet sino-russe à long terme s’appuyant sur la croissance économique du Bloc de Shanghai; le deuxième visant à contrôler les ressources de gaz. C’est ainsi que furent jetées les bases des projets South Stream et Nord Stream, faisant face au projet étasunien Nabucco, soutenu par l’Union européenne, qui visait le gaz de la mer Noire et de l’Azerbaïdjan. S’ensuivit entre ces deux initiatives une course stratégique pour le contrôle de l’Europe et des ressources en gaz.

Pour la Russie:

Le projet Nord Stream relie directement la Russie à l’Allemagne en passant à travers la mer Baltique jusqu’à Weinberg et Sassnitz, sans passer par la Biélorussie.
Le projet South Stream commence en Russie, passe à travers la mer Noire jusqu’à la Bulgarie et se divise entre la Grèce et le Sud de l’Italie d’une part, et la Hongrie et l’Autriche d’autre part.

Pour les Etats-Unis:

Le projet Nabucco part d’Asie centrale et des environs de la mer Noire, passe par la Turquie où se situent les infrastructures de stockage, puis parcourt la Bulgarie, traverse la Roumanie, la Hongrie, arrive en Autriche et de là se dirige vers la République tchèque, la Croatie, la Slovénie et l’Italie. Il devait à l’origine passer en Grèce, mais cette idée avait été abandonnée sous la pression turque.
Nabucco était censé concurrencer les projets russes. Initialement prévu pour 2014, il a dû être repoussé à 2017 en raison de difficultés techniques. A partir de là, la bataille du gaz a tourné en faveur du projet russe, mais chacun cherche toujours à étendre son projet à de nouvelles zones.
Cela concerne d’une part le gaz iranien, que les Etats-Unis voulaient voir venir renforcer le projet Nabucco en rejoignant le point de groupage de Erzurum, en Turquie; et de l’autre le gaz de la Méditerranée orientale: Syrie, Liban, Israël.
Or en juillet 2011, l’Iran a signé divers accords concernant le transport de son gaz via l’Irak et la Syrie. Par conséquent, c’est désormais la Syrie qui devient le principal centre de stockage et de production, en liaison avec les réserves du Liban. C’est alors un tout nouvel espace géographique, stratégique et énergétique qui s’ouvre, comprenant l’Iran, l’Irak, la Syrie et le Liban. Les entraves que ce projet subit depuis plus d’un an donnent un aperçu du niveau d’intensité de la lutte qui se joue pour le contrôle de la Syrie et du Liban. Elles éclairent du même coup le rôle joué par la France, qui considère la Méditerranée orientale comme sa zone d’influence historique, devant éternellement servir ses intérêts, et où il lui faut rattraper son absence depuis la Seconde Guerre mondiale. En d’autres termes, la France veut jouer un rôle dans le monde du gaz où elle a acquis en quelque sorte une «assurance maladie» en Libye et veut désormais une «assurance-vie» à travers la Syrie et le Liban.
Quant à la Turquie, elle sent qu’elle sera exclue de cette guerre du gaz puisque le projet Nabucco est retardé et qu’elle ne fait partie d’aucun des deux projets South Stream et Nord Stream; le gaz de la Méditerranée orientale semble lui échapper inexorablement à mesure qu’il s’éloigne de Nabucco.

L’axe Moscou-Berlin

Pour ses deux projets, Moscou a créé la société Gazprom dans les années 1990. L’Allemagne, qui voulait se libérer une fois pour toutes des répercussions de la Seconde Guerre mondiale, se prépara à en être partie prenante; que ce soit en matière d’installations, de révision du pipeline Nord, ou de lieux de stockage pour la ligne South Stream au sein de sa zone d’influence, particulièrement en Autriche.
La société allemande Gazprom Germania a été fondée avec la collaboration de Hans-Joachim Gornig, un Allemand proche de Moscou, ancien vice-ministre du charbon et de l’industrie minière pour l’énergie, qui a supervisé la construction du réseau de gazoducs de la RDA. Gazprom Germania a été dirigée jusqu’en octobre 2011 par Vladimir Kotenev, ancien ambassadeur de Russie en Allemagne.
Gazprom a signé nombre de transactions avec des entreprises allemandes, au premier rang desquelles celles coopérant avec Nord Stream, tels les géants E.ON pour l’énergie et BASF pour les produits chimiques; avec pour E.ON des clauses garantissant des tarifs préférentiels en cas de hausse des prix, ce qui revient en quelque sorte à une subvention «politique» des entreprises du secteur énergétique allemand par la Russie.
Moscou a profité de la libéralisation des marchés européens du gaz pour les contraindre à déconnecter les réseaux de distribution des installations de production. La page des affrontements entre la Russie et Berlin étant tournée, débuta alors une phase de coopération économique basée sur l’allégement du poids de l’énorme dette pesant sur les épaules de l’Allemagne, celle d’une Europe surendettée par le joug étasunien. Une Allemagne qui considère que l’espace germanique (Allemagne, Autriche, République tchèque, Suisse) est destiné à devenir le cœur de l’Europe, mais n’a pas à sup­porter les conséquences du vieillissement de tout un continent, ni celle de la chute d’une autre superpuissance.
Les initiatives allemandes de Gazprom comprennent le joint-venture de Wingas avec Wintershall SA., une filiale de BASF, qui est le plus grand producteur de pétrole et de gaz d’Allemagne et contrôle 18% du marché du gaz. Gazprom a donné à ses principaux partenaires allemands des participations inégalées dans ses actifs russes. Ainsi BASF et E.ON contrôlent chacune près d’un quart des champs de gaz Loujno-Rousskoïé qui alimenteront en grande partie Nord Stream; et ce n’est donc pas une simple coïncidence si l’homologue allemand de Gazprom, appelé «le Gazprom germanique», ira jusqu’à posséder 40% de la compagnie autrichienne Austrian Centrex Co., spécialisée dans le stockage du gaz et destinée à s’étendre vers Chypre.
Une expansion qui ne plaît certainement pas à la Turquie qui a cruellement besoin de sa participation au projet Nabucco. Elle consisterait à stocker, commercialiser, puis transférer 31 puis 40 milliards de m3 de gaz par an; un projet qui fait qu’Ankara est de plus en plus inféodé aux décisions de Washington et de l’OTAN, d’autant plus que son adhésion à l’Union européenne a été re­jetée à plusieurs reprises.
Les liens stratégiques liés au gaz déterminent d’autant plus la politique que Moscou exerce un lobbying sur le Parti social-démocrate allemand en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, base industrielle majeure et centre des conglomérats allemands RWE et E.ON.
Cette influence a été reconnue par Hans-Joseph Fell, responsable des politiques énergétiques chez les Verts. Selon lui, quatre sociétés allemandes liées à la Russie jouent un rôle majeur dans la définition de la politique énergétique allemande. Elles s’appuient sur le Comité des relations économiques de l’Europe de l’Est – c’est-à-dire sur des entreprises en contact économique étroit avec la Russie et les pays de l’ex-Bloc soviétique –, qui dispose d’un réseau très complexe d’influence sur les ministres et l’opinion publique. Mais en Allemagne, la discrétion reste de mise quant à l’influence grandissante de la Russie, partant du principe qu’il est hautement nécessaire d’améliorer la «sécurité énergétique» de l’Europe.
Il est intéressant de souligner que l’Allemagne considère que la politique de l’Union européenne, pour résoudre la crise de l’euro, pourrait à terme gêner les investissements germano-russes. Cette raison, parmi d’autres, explique pourquoi elle traîne pour sauver l’euro plombé par les dettes européennes, alors même que le bloc germanique pourrait, à lui seul, supporter ces dettes. De plus, à chaque fois que les Européens s’opposent à sa politique vis-à-vis de la Russie, l’Alle­magne affirme que les plans utopiques de l’Europe ne sont pas réalisables et pourraient pousser la Russie à vendre son gaz en Asie, mettant en péril la sécurité énergétique européenne.
Ce mariage des intérêts germano-russes s’est appuyé sur l’héritage de la Guerre froide, qui fait que trois millions de russophones vivent en Allemagne, formant la ­deuxième plus importante communauté après les Turcs. Poutine était également adepte de l’utilisation du réseau des anciens responsables de la RDA, qui avaient pris soin des intérêts des compagnies russes en Allemagne, sans parler du recrutement d’ex-agents de la Stasi. Par exemple, les directeurs du per­sonnel et des finances de Gazprom Germania, ou encore le directeur des finances du Consortium Nord Stream, Matthias Warnig qui, selon le Wall Street Journal, aurait aidé Poutine à recruter des espions à Dresde, lorsqu’il était jeune agent du KGB. Mais il faut le reconnaître, l’utilisation par la Russie de ses anciennes relations n’a pas été préjudiciable à l’Allemagne, car les intérêts des deux parties ont été servis sans que l’une ne domine l’autre.
Le projet Nord Stream, le lien principal entre la Russie et l’Allemagne, a été inauguré récemment par un pipeline qui a coûté 4,7 milliards d’euros. Bien que ce pipeline relie la Russie et l’Allemagne, la reconnaissance par les Européens qu’un tel projet garantissait leur sécurité énergétique a fait que la France et la Hollande se sont hâtées de déclarer qu’il s’agissait bien là d’un projet «européen». A cet égard, il est bon de mentionner que M. Lindner, directeur exécutif du Comité allemand pour les relations économiques avec les pays de l’Europe de l’Est a déclaré, sans rire, que c’était bien «un projet européen et non pas allemand, et qu’il n’enfermerait pas l’Alle­magne dans une plus grande dépendance vis-à-vis de la Russie». Une telle déclaration souligne l’inquiétude que suscite l’accroissement de l’influence russe en Alle­magne; il n’en demeure pas moins que le projet Nord Stream est structurellement un plan moscovite et non pas européen.
Les Russes peuvent paralyser la distribution de l’énergie en Pologne et dans plusieurs autres pays comme bon leur semble, et seront en mesure de vendre le gaz au plus offrant. Toutefois, l’importance de l’Allemagne pour la Russie réside dans le fait qu’elle constitue la plate-forme à partir de laquelle elle va pouvoir développer sa stratégie continentale: Gazprom Germania détient des participations dans 25 projets croisés en Grande-Bretagne, Italie, Turquie, Hongrie et d’autres pays. Cela nous amène à dire que Gazprom – après un certain temps – est destinée à devenir l’une des plus importantes entreprises au monde, sinon la plus importante.

Dessiner une nouvelle carte de l’Europe, puis du monde

Les dirigeants de Gazprom ont non seulement développé leur projet, mais ils ont aussi fait en sorte de contrer Nabucco. Ainsi, Gazprom détient 30% du projet consistant à construire un deuxième pipeline vers l’Europe suivant à peu près le même trajet que Nabucco, ce qui est, de l’aveu même de ses partisans, un projet «politique» destiné à montrer sa force en freinant, voire en bloquant le projet Nabucco. D’ailleurs Moscou s’est empressé d’acheter du gaz en Asie centrale et en mer Caspienne dans le but de l’étouffer, et de ridiculiser Washington politiquement, économiquement et stratégiquement par la même occasion.
Gazprom exploite des installations gazières en Autriche, c’est-à-dire dans les environs stratégiques de l’Allemagne, et loue aussi des installations en Grande-Bretagne et en France. Toutefois, ce sont les importantes installations de stockage en Autriche qui serviront à redessiner la carte énergétique de l’Europe, puisqu’elles alimenteront la Slovénie, la Slovaquie, la Croatie, la Hongrie, l’Italie et l’Allemagne. A ces installations, il faut ajouter le centre de stockage de Katharina en Saxe-Anhalt, que Gazprom construit en coopération avec l’Alle­magne, afin de pouvoir exporter le gaz vers les grands centres de consommation de l’Europe occidentale.
Gazprom a mis en place une installation commune de stockage avec la Serbie afin de fournir du gaz à la Bosnie-Herzégovine et à la Serbie elle-même. Des études de faisabilité ont été menées sur des modes de stockage similaires en République tchèque, Roumanie, Belgique, Grande-Bretagne, Slovaquie, Turquie, Grèce et même en France. Gazprom renforce ainsi la position de Moscou, fournisseur de 41% des approvisionnements gaziers européens. Ceci signifie un changement substantiel dans les relations entre l’Orient et l’Occident à court, moyen et long terme. Cela annonce également un déclin de l’influence étasunienne, par boucliers antimissiles interposés, voyant l’établissement d’une nouvelle organisation internationale, dont le gaz sera le pilier principal. Enfin cela explique l’intensification du combat pour le gaz de la côte Est de la Méditerranée au Proche-Orient.

Nabucco et la Turquie en difficulté

Nabucco devait acheminer du gaz sur 3900 kilomètres de la Turquie vers l’Autriche et était conçu pour fournir 31 milliards de mètres cubes de gaz naturel par an depuis le Proche-Orient et le bassin caspien vers les marchés européens. L’empressement de la coalition OTAN – Etats-Unis – France à mettre fin aux obstacles qui s’élevaient contre ses intérêts gaziers au Proche-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, réside dans le fait qu’il est nécessaire de s’assurer la stabilité et la bienveillance de l’environnement lorsqu’il est question d’infrastructures et d’investissement gaziers. La réponse syrienne fut de signer un contrat pour transférer vers son territoire le gaz iranien en passant par l’Irak. Ainsi, c’est bien sur le gaz syrien et libanais que se focalise la bataille, alimentera-t-il Nabucco ou South Stream?
Le consortium Nabucco est constitué de plusieurs sociétés: allemande (REW), autrichienne (ÖMV), turque (Botas), bulgare (Energy Holding Company) et roumaine (Transgaz). Il y a cinq ans, les coûts initiaux du projet étaient estimés à 11,2 milliards de dollars, mais ils pourraient atteindre 21,4 milliards de dollars d’ici 2017. Ceci soulève de nombreuses questions quant à sa viabilité économique étant donné que Gazprom a pu conclure des contrats avec différents pays qui devaient alimenter Nabucco, lequel ne pourrait plus compter que sur les excédents du Turkménistan, surtout depuis les tentatives infructueuses de mainmise sur le gaz iranien. C’est l’un des secrets méconnus de la bataille pour l’Iran, qui a franchi la ligne rouge dans son défi aux USA et à l’Europe, en choisissant l’Irak et la Syrie comme trajets de transport d’une partie de son gaz.
Ainsi, le meilleur espoir de Nabucco demeure dans l’approvisionnement en gaz d’Azerbaïdjan et le gisement Shah Deniz, devenu presque la seule source d’approvisionnement d’un projet qui semble avoir échoué avant même d’avoir débuté. C’est ce que révèle l’accélération des signatures de contrats passés par Moscou pour le rachat de sources initialement destinées à Nabucco, d’une part, et les difficultés rencontrées pour imposer des changements géopolitiques en Iran, en Syrie et au Liban d’autre part. Ceci au moment où la Turquie s’empresse de réclamer sa part du projet Nabucco, soit par la signature d’un contrat avec l’Azerbaïdjan pour l’achat de 6 milliards de mètres cubes de gaz en 2017, soit en s’emparant de la Syrie et du Liban avec l’espoir de faire obstacle au transit du pétrole iranien ou de recevoir une part de la richesse gazière libano-syrienne. Apparemment une place dans le nouvel ordre mondial, celui du gaz ou d’autre chose, passe par rendre un certain nombre de service, allant de l’appui militaire jusqu’à l’hébergement du dispositif stratégique de bouclier antimissiles.
Ce qui constitue peut-être la principale menace pour Nabucco, c’est la tentative russe de le faire échouer en négociant des contrats plus avantageux que les siens en faveur de Gazprom pour Nord Stream et South Stream; ce qui invaliderait les efforts des Etats-Unis et de l’Europe, diminuerait leur influence, et bousculerait leur politique énergétique en Iran et/ou en Méditerranée. En outre, Gazprom pourrait devenir l’un des investisseurs ou exploitants majeurs des nouveaux gisements de gaz en Syrie ou au Liban. Ce n’est pas par hasard que le 16 août 2011, le ministère syrien du Pétrole a annoncé la découverte d’un puits de gaz à Qara, près de Homs. Sa capacité de production serait de 400 000 mètres cubes par jour (146 millions de mètres cubes par an), sans même parler du gaz présent dans la Méditerranée.
Les projets Nord Stream et South Stream ont donc réduit l’influence politique étasunienne, qui semble désormais à la traîne. Les signes d’hostilités entre les Etats d’Europe centrale et la Russie se sont atténués; mais la Pologne et les Etats-Unis ne semblent pas disposés à renoncer. En effet, fin octobre 2011, ils ont annoncé le changement de leur politique énergétique suite à la découverte de gisements de charbon européens qui devraient diminuer la dépendance vis-à-vis de la Russie et du Proche-Orient. Cela semble être un objectif ambitieux mais à long terme, en raison des nombreuses procédures nécessaires avant commercialisation; ce charbon correspondant à des roches sédimentaires trouvées à des milliers de mètres sous terre et nécessitant des techniques de fracturation hydraulique sous haute pression pour libérer le gaz, sans compter les risques environnementaux.

Participation de la Chine

La coopération sino-russe dans le domaine énergétique est le moteur du partenariat stratégique entre les deux géants. Il s’agit, selon les experts, de la «base» de leur double véto réitéré en faveur de la Syrie.
Cette coopération ne concerne pas seule­ment l’approvisionnement de la Chine à des conditions préférentielles. La Chine est amenée à s’impliquer directement dans la distribution du gaz via l’acquisition d’actifs et d’installations, en plus d’un projet de contrôle conjoint des réseaux de distribution. Paral­lèlement, Moscou affiche sa souplesse concernant le prix du gaz, sous réserve d’être autorisé à accéder au très profitable marché intérieur chinois. Il a été convenu, par conséquent, que les experts russes et chinois travailleraient ensemble dans les domaines suivants: «La coordination des stratégies énergétiques, la prévision et la prospection, le développement des marchés, l’efficacité énergétique, et les sources d’énergie alternative».
D’autres intérêts stratégiques communs concernent les risques encourus face au projet du «bouclier antimissiles» américain. Non seulement Washington a impliqué le Japon et la Corée du Sud mais, début septembre 2011, l’Inde a aussi été invitée à en devenir partenaire. En conséquence, les préoccupations des deux pays se croisent au moment où Washington relance sa stratégie en Asie centrale, c’est-à-dire, sur la Route de la soie. Cette stratégie est la même que celle lancée par George Bush (projet de Grande Asie centrale) pour y faire reculer l’influence de la Russie et de la Chine en collaboration avec la Turquie, résoudre la situation en Afghanistan d’ici 2014, et im­poser la force militaire de l’OTAN dans toute la région. L’Ouzbékistan a déjà laissé entendre qu’il pourrait ac­cueillir l’OTAN, et Vladimir Poutine a estimé que ce qui pourrait déjouer l’intrusion occidentale et empêcher les USA de porter atteinte à la Russie serait l’expansion de l’espace Russie–Kazakhstan–Biélorussie en coopération avec Pékin.
Cet aperçu des mécanismes de la lutte internationale actuelle permet de se faire une idée du processus de formation du nouvel ordre international, fondé sur la lutte pour la suprématie militaire et dont la clé de voute est l’énergie, et en premier lieu le gaz.

Le gaz de la Syrie

Quand Israël a entrepris l’extraction de pétrole et de gaz à partir de 2009, il était clair que le bassin méditerranéen était entré dans le jeu et que, soit la Syrie serait attaquée, soit toute la région pourrait bénéficier de la paix, puisque le XXIe siècle est supposé être celui de l’énergie propre.
Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think-tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme les plus grandes réserves de gaz et c’est en Syrie qu’il y aurait les plus importantes. Ce même institut a aussi émis l’hypothèse que la bataille entre la Turquie et Chypre allait s’intensifier du fait de l’incapacité turque à assumer la perte du projet Nabucco (malgré le contrat signé avec Moscou en décembre 2011 pour le transport d’une partie du gaz de South Stream via la Turquie).
La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient. Et à partir de la Syrie, porte de l’Asie, il détiendra «la clé de la Maison Russie», comme l’affirmait la ­Tsarine Catherine II, ainsi que celle de la Chine, via la Route de la soie. Ainsi, il serait en capacité de dominer le monde, car ce siècle est le Siècle du Gaz.
C’est pour cette raison que les signataires de l’accord de Damas, permettant au gaz iranien de passer à travers l’Irak et d’accéder à la Méditerranée, ouvrant un nouvel espace géopolitique et coupant la ligne de vie de Nabucco, avaient déclaré: «La Syrie est la clé de la nouvelle ère».    •

*Philosophe et géopoliticien. Président du Centre de documentation et d’études stratégiques (Damas, Syrie)


Source: http://www.voltairenet.org/La-Syrie-centre-de-la-guerre-du 
(Traduction Réseau Voltaire avec Sega Ndoye)

mardi, 05 juin 2012

Azerbaïdjan: pas de sanctions!

 

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Bernhard TOMASCHITZ:

Azerbaïdjan: pas de sanctions!

L'Azerbaïdjan est candidat à l'adhésion à l'OTAN!

 

L’emprisonnement de Ioulia Timochenko, chef de l’opposition ukrainienne, fait que Kiev, juste avant la Coupe européenne de football, essuie un feu roulant de critiques. Ce n’est pas le cas de l’Azerbaïdjan où a eu lieu, le 26 mai, la finale du concours de l’Eurovision. Le président autoritaire Ilham Aliyev n’a rien à craindre: le ministère allemand des affaires étrangères a fait savoir qu’il n’y aurait pas de “campagne systématique” contre cette ancienne république soviétique.

 

Pourtant l’Azerbaïdjan devrait faire rugir de colère cet Occident si zélé à défendre les droits de l’Homme: les manipulations électorales y sont à l’ordre du jour tout comme les entorses lourdes à ces mêmes droits de l’Homme. Amnesty International estime que le nombre de prisonniers politiques est de 75 à 80; quant à l’organisation indépendante “Reporters sans frontières”, qui établit une liste des pays selon qu’ils accordent ou non une liberté de la presse pleine et entière, elle classe l’Azerbaïdjan à la 162ème place sur les 179 Etats qui ont été passés au crible de la grille d’analyse. L’Ukraine, elle, est au 116ème rang. Ensuite, il me paraît opportun d’ajouter que le clan Aliyev a fondé une sorte de dynastie post-communiste (Ilham Aliyev a succédé à son père Heydar en octobre 2003).

 

Mais contrairement à l’Ukraine, l’Azerbaïdjan n’a commis aucune grosse faute: il ne s’est jamais heurté de front aux intérêts géostratégiques des Etats-Unis. Enfin, ce pays caucasien, riche en ressouces et d’une grande importance stratégique, se trouve, depuis l’effondrement de l’Union Soviétique, tout en haut sur la liste des Etats prioritaires bénéficiant de l’aide américaine. Dans un rapport de planification stratégique édité par l’organisation d’aide au développement USAID, inféodée au ministère américain des affaires étrangères, on a pu lire le constat suivant dès juin 2000: “L’Azerbaïdjan possède d’énormes réserves prouvées de pétrole et de gaz naturel. De plus, il se situe dans une zone géostratégique cruciale entre la Russie et l’Iran”. Par voie de conséquence, Washington ne néglige rien pour mettre Bakou de son côté, tandis que les Azéris louvoient, depuis leur indépendance en 1991, entre les Etats-Unis et la Russie. Si les plans américains réussissent, Washingon pourra tuer deux mouches d’un seul coup de savatte: d’une part, la Russie sera encore un peu plus houspillée hors du Caucase mériodional; ce sera le deuxième revers après la Géorgie. D’autre part, les Américains pourraient créer une pierre d’achoppement entre Moscou et Téhéran.

 

Le but principal des stratèges de Washington est donc de favoriser une adhésion à l’OTAN de l’Azerbaïdjan. Le 3 juin 2009, dans le magazine “Eurasianet”, qui s’affiche sur la grande toile, on pouvait lire un article de Shahin Abbasov, conseiller du spéculateur en bourse Georges Soros, financé par l’”Open Society Institute Azerbaidjan”, où l’auteur évoquait une rencontre avec un responsable très haut placé de l’OTAN, dont il ne citait pas le nom, selon qui l’Azerbaïdjan aurait plus de chance d’adhérer rapidement à l’OTAN que la Géorgie. “Il y a quelque temps, au quartier général de l’OTAN à Bruxelles comme à Bakou, on pensait que la Géorgie serait la première à adhérer au Pacte nord-atlantique et que l’Azerbaïdjan ne suivrait qu’ultérieurement”. Mais la donne a changé depuis la guerre entre la Géorgie et la Russie en août 2008; voilà pourquoi “l’Azerbaïdjan pourrait plus vite devenir membre de l’OTAN que la Géorgie ou l’Ukraine”. Ensuite, dit-on dans l’article, l’Azerbaïdjan dispose de “quelques atouts particuliers”, notamment ses “liens culturels étroits” avec la Turquie, partenaire à part entière de l’OTAN et son importance stratégique cardinale sur le tracé prévu de l’oléoduc Nabucco.

 

Mais avant que les démarches ne soient entreprises en vue de l’adhésion de l’Azerbaïdjan au Pacte nord-atlantique, il faut d’abord briser les bonnes relations qui existent entre Bakou et Moscou. La Russie a conservé, depuis la fin de l’Union Soviétique, la station de radar de Gabala en Azerbaïdjan, une station de haute importance stratégique. Le bail se termine à la date du 24 décembre 2012. A l’heure actuelle, les deux Etats négocient un prolongement de ce bail jusqu’en 2025, mais Bakou exige comme prix de la location non plus la somme de sept millions de dollars par an mais celle de 300 millions! Jusqu’en novembre 2011, on parlait de quinze millions de dollars.

 

Apparemment le prix a été réévalué à la hausse afin que Gabala soit trop cher pour la Russie et qu’ainsi la voie soit ouverte à l’OTAN. En janvier 2010, le politologue Vafa Guluzade, conseiller de l’ancien président Heydar Aliyev, soulignait dans un article: “Le territoire et le peuple de l’Etat d’Azerbaïdjan s’avèrent idéaux pour une coopération avec l’OTAN. Le pays dispose d’une situation géostratégique favorable, sa population est éduquée et capable de se servir de nouvelles technologies. L’Azerbaïdjan dispose aussi de terrains d’aviation militaires, qui pourraient servir de bases à l’OTAN”.

 

Bien sûr, il faut également tenir compte de solides intérêts économiques. A ce propos, on a pu lire les lignes suivantes dans le texte qui exposait en juin 2000 la planification stratégique de l’USAID: “La participation de firmes américaines dans le développement et l’exportation du pétrole et du gaz naturel azerbaïdjanais s’avère importante pour la diversification des importations américaines d’énergie et pour la promotion des exportations américaines. Les Etats-Unis soutiennent l’utilisation de divers tracés d’oléoducs pour faciliter l’exportation du pétrole d’Azerbaïdjan”. Il s’agit surtout de contourner la Russie et l’Iran dans l’acheminement du pétrole et du gaz naturel. Le tracé Bakou/Tiflis (Tbilissi)/Ceyhan achemine déjà le gros du pétrole de la zone caspienne via la Géorgie en direction de la côte méditerranéenne de la Turquie. Cet oléoduc est contrôlé par un consortium anglo-américain sous la direction du géant pétrolier britannique BP.

 

D’autres tracés d’oléoducs devront être construits à court ou moyen terme. On est actuellement en train de boucler les négociations quant à la construction de l’oléoduc TANAP (“Trans-Anatolian Pipeline”) qui devrait acheminer le gaz naturel azerbaïdjanais en Europe via la Turquie. Le projet TANAP, qui aura coûté sept milliards d’euro, devrait avoir une capacité de 16 milliards de m3 par an, ce qui constitue une concurrence majeure pour la Russie, et aussi, bien sûr, pour l’Iran.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°21-22/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

dimanche, 06 mai 2012

Tokyo envisage la construction d'un gazoduc vers la Russie

Accord énergétique entre la Russie et le Japon. La construction d'un gazoduc sous-marin est prévu partant de Vladivostok. La démarche nippone se justifie par la fermeture des centrales nucléaires suite à l'accident de Fukushima.

Tokyo envisage la construction d'un gazoduc vers la Russie

 

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Le Japon étudie la possibilité de construire un gazoduc qui le relierait à la Russie, a annoncé jeudi Seiji Maehara, président du conseil de recherche politique du Parti démocrate du Japon (PDJ) et ex-ministre nippon des Affaires étrangères.

" Nous étudions de nouvelles possibilités de construction d'un gazoduc, mais son itinéraire est encore à définir ", a-t-il déclaré lors d'une conférence de presse, précisant que le futur pipeline pourrait intégrer un tronçon sous-marin.

Selon M. Maehara, les recherches effectuées dans ce domaine ont montré la faisabilité technique du projet.

" Tout dépend du montant des investissements que le Japon pourrait engager, ainsi que des perspectives de développement du nucléaire nippon ", a ajouté le responsable du PDJ.

Le Japon, qui se classe au quatrième rang mondial pour la consommation d'énergie, ne possède pas de ressources nationales en hydrocarbures. Le pays consomme près de 80 milliards de m3 de gaz par an, soit 14 % de son bilan énergétique. Le Japon importe également l'intégralité du gaz naturel liquéfié (GNL) qu'il consomme.

En mars dernier, le Premier ministre Vladimir Poutine a enjoint aux autorités compétentes russes d'accélérer la mise en œuvre de projets prévoyant la production d'hydrocarbures dans l'Extrême-Orient. Cette décision s'explique par la fermeture des centrales nucléaires au Japon après le séisme dévastateur du 11 mars 2011.

A l'heure actuelle, le conglomérat russe Gazprom et le groupe Japan Far East Gas réunissant les sociétés nippones Itochu, Japex, Marubeni, Inpex et Cieco étudient un projet de construction d'une usine de liquéfaction de gaz naturel dans la région de Vladivostok (Extrême-Orient russe).

lundi, 30 avril 2012

Le prétexte du réchauffement climatique au service des multinationales dans l’Arctique

Les dessous de la course à l'exploitation de l'Arctique prétextant de la pseudo fonte des glaces pour un projet purement commercial sont dénoncés.

Le prétexte du réchauffement climatique au service des multinationales dans l’Arctique
 

 

La Presse publiait un article le 19 avril dernier intitulé “Les changements climatiques en Arctique s’accélèrent” dans le but d’alarmer la population et de faire la promotion de la Conférence de l’année polaire internationale 2012 qui se déroule à Montréal du 22 au 27 avril. Deux jours plus tard, ce même journal récidivait avec un autre article, « Les mondes polaires en mutation » dans lequel on peut lire un entretien avec le directeur d’ArcticNet, le Québécois Louis Fortier. Cet entretien est révélateur quant aux véritables objectifs d’ArcticNet et de la recherche sur les changements climatiques en Arctique.

D’abord, voyons un peu ce que dit Louis Fortier dans cet entretien : “L’Année polaire internationale, qui s’est étalée en fait sur 2007 et 2008, est la quatrième de l’histoire. La précédente était en 1958″. Ceci est intéressant, puisque l’Année polaire internationale n’a jamais été liée auparavant aux changements climatiques.

Un peu d’histoire…



La première Année polaire internationale (API), qui a eu lieu en 1882, avait pour but d’envoyer des expéditions de scientifiques aux deux pôles afin de mesurer les températures, mais surtout d’étudier le magnétisme terrestre et le phénomène des aurores boréales. Il s’agissait de la première entreprise scientifique internationale initiée par un certain Karl Weyprecht et commanditée par la Royal Geographic Society et la Royal Society, deux vieilles institutions mondialistes qui existent toujours. Douze nations y avaient alors participé : l’Empire austro-hongrois, le Danemark, la Finlande, la France, l’Allemagne, les Pays-Bas, la Norvège, la Russie, la Suisse, le Royaume-Uni, les Etats-Unis et le Canada. Satisfaite de l’entreprise, cette élite scientifique décide alors d’organiser une Année polaire internationale tous les 50 ans.

C’est ainsi que la deuxième API s’organisa entre 1932 et 1933 avec pour objectifs l’étude du Jet Stream, de la météorologie, du magnétisme et de la compréhension des phénomènes ionosphériques qui perturbent les communications radios. Plus de 40 nations y participent. Toutes les données obtenues lors des expéditions scientifiques polaires seront réunies par une nouvelle institution : l’Organisation météorologique internationale. Il faut noter que cette institution sera remplacée plus tard par l’Organisation météorologique mondiale (OMM) après la formation de l’ONU. L’OMM participera par la suite à la fondation (en 1988) du Groupe intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC), le groupe scientifique qui affirme (sans donner de véritables preuves) depuis 1990 que l’activité humaine est responsable d’un réchauffement climatique planétaire à travers ses émissions de CO2.



La troisième API est devancée de 25 ans afin de tenir compte des nouvelles technologies disponibles à l’époque (fusées, radars, etc.) et se déroule sous le nom Année géophysique internationale. Elle est proposée par Lloyd Viel Berkner et est organisée lors d’une période d’activité solaire maximum. Selon le site officiel de l’API, « l’AGI fut l’occasion d’un effort sans précédent à l’échelle mondiale pour l’étude de notre planète. 61 nations participèrent aux différentes campagnes, des dizaines de navires, des milliers d’hommes, des avions sont mobilisés. Les pays coopérèrent étroitement et échangèrent leurs données scientifiques. Les décennies de recherche qui ont suivi reposent à l’évidence sur la dynamique initiée au cours de cette année. Ce fut par exemple la confirmation de la théorie très discutée de la dérive des continents, le début des mesures de CO2, ou encore le début de la conquête spatiale avec le lancement des premiers satellites. »

La première et la deuxième API avait comme objectif scientifique de déterminer s’il était possible de franchir l’Arctique par bateau et de créer un passage du nord-ouest à vocation militaire et commerciale. La troisième maintenait ces mêmes objectifs de domination commerciale et militaire (voire spatiale) à travers de nouvelles technologies issues de la deuxième guerre mondiale.



Aujourd’hui pour la quatrième API, les objectifs restent les mêmes. L’objectif commercial est bien défini : exploitation des ressources alimentaires, pétrolières et minières. L’objectif militaire est aussi clair : le Canada, par exemple, veut y exercer sa souveraineté territoriale. Les changements climatiques, eux, ne semblent qu’un prétexte pour justifier les dépenses considérables nécessaires à l’exploitation de l’Arctique. Que les glaces fondent ou non, l’Arctique est maintenant une région à exploiter. Cela peut être prouvé.

Retournons à notre entretien avec Louis Fortier pour voir ce qu’il en est.

Mine, gisements pétrolier et brise-glace géant

Louis Fortier révèle à la Presse dans son entretien que le but de ses recherches n’est pas purement scientifique (sur les changements climatiques), mais à vocation commerciale. Ses recherches sur les écosystèmes de l’Arctique sont importantes, dit-il, « parce que c’est là qu’on envisage de faire de l’exploration pétrolière. L’Office national de l’énergie devra en tenir compte avant d’autoriser des forages dans la mer de Beaufort. » Il affirme plus loin : « On peut dire la même chose pour […] les autres ressources minérales ». On peut parier que rien n’empêchera le forage ou l’exploitation des ressources minérales, surtout pas les recherches de monsieur Fortier. Comment le savoir ? C’est facile, il n’y a qu’à identifier les sources de financement d’ArcticNet, l’organisme que dirige Louis Fortier.

Lorsque l’on consulte la liste des partenaires de l’organisme ArcticNet, on n’est pas surpris de tomber sur des pétrolières de grandes envergures : BP Exploration Operating Company Ltd. (British Petroleum), Imperial Oil Resources Ventures Limited (Esso), ConocoPhillips Canada (gaz naturel), l’Association canadienne des producteur de pétrole (lobby).

On y trouve aussi des compagnies minières : Xstrata Nickel, Baffinland Iron Mines (ArcelorMittal), Diavik Diamond Mine (Rio Tinto), Vale Inco.

Sur la liste, il y a aussi des compagnies de transport : OmniTRAX, Kongsberg Maritime, First Air, Canadian North .

Il y a une société de gestion de capital : Axys Group.

Figure sur la liste plus de 75 universités dont il faut noter la Balsillie School of International Affairs (fondée par James Balsillie à l’époque où il était membre de la Commission Trilatérale) et l’Université Oxford.

Aussi, parmi les autres organismes cités on peut trouver évidemment des riches familles mondialistes et membre de la franc-maçonnerie :

- Garfield Weston Foundation de la famille Weston (2e famille la plus riche du Canada) qui possède le pain Weston et les supermarchés Loblaws et Maxi.

- Kenneth M. Molson Foundation de la famille Molson, membre de la franc-maçonnerie depuis des générations (et propriétaire du Canadien de Montréal).

- World Wildlife Fund : organisme fondé par le Prince Bernhard des Pays-Bas (également fondateur du groupe Bilderberg) qui a eu comme premier directeur l’eugéniste Julian Huxley (frère d’Aldous Huxley, auteur du livre « Le meilleur des mondes »).

La liste est encore longue …



La Russie et le Canada développe en ce moment des brise-glaces géants polaires qui pourront traverser l’Arctique, que les glaces fondent ou non. On peut lire sur le site officiel du gouvernement canadien que « le nouveau brise‑glace polaire sera conçu pour rompre des glaces de 2,5 m d’épaisseur. Bien que cette donnée puisse être supérieure à la valeur maximale en ce qui a trait à l’épaisseur des glaces dans l’océan Arctique, cette caractéristique permettra la construction d’un bâtiment ayant la force et la capacité nécessaires à une exploitation dans quasi toutes les conditions telles que les dorsales, les champs de glace en crête et la glace sous pression ». Ce brise-glace géant portera le nom de NGCC John G. Diefenbaker, en l’honneur de l’ancien Premier ministre franc-maçon. L’achèvement de sa construction est prévu pour l’année 2017.

Le prétexte des changements climatiques

Nous devrions plutôt dire ici le réchauffement climatique si nous voulons être honnêtes. Bien que la terminologie a changé depuis, l’argument reste le même : semble-t-il que le climat de la terre se réchaufferait. Ce n’est pas pour rien que la terminologie a changé, car les organismes qui prédisent ce réchauffement n’ont pas réussi à prouver de façon acceptable leurs prédictions alarmistes.

Premièrement, parce que la totalité de la science du réchauffement climatique s’appuie sur des modèles informatiques de prédiction du climat. Le problème, c’est que l’on peut faire dire n’importe quoi à un logiciel informatique. Une des preuves de cela fut le quatrième rapport publié par le GIEC où l’on pouvait retrouver dans ses pages un graphique en forme de bâton de hockey qui montrait l’accélération rapide de la montée de la température globale du climat terrestre. Ce graphique fut entre-autres utilisé par Al Gore dans son film « Une vérité qui dérange », un film qui a reçu un Oscar rien de moins. C’est ce graphique, discrédité à plusieurs reprises par de nouvelles études scientifiques, qui a été à l’origine du désormais célèbre Climategate. Aujourd’hui, ce sont encore les modèles informatiques qui font la loi dans la science du réchauffement climatique.

Prenons un exemple de prédiction ratée à ce sujet. Le docteur David Barber, qui est le directeur du Centre for Earth Observation Science de l’Université du Manitoba, a prédit en 2008 qu’il n’y aurait plus de glace au Pôle Nord durant l’été de cette même année (2008). Evidemment, cela s’est avéré complètement faux cet été là. Aujourd’hui, Mr Barber récidive en affirmant que la glace estivale de l’Arctique pourrait disparaître “aussi tôt que l’an prochain”, du moins c’est ce qu’on pouvait lire dans la Presse du 19 avril de cette année. Ceci risque fort peu d’arriver, car selon les observations faites par satellite, la surface de la glace estivale de l’Arctique augmente depuis l’année 2007, année où elle avait atteint son plus bas des dix dernières années. L’objectif des fausses prédictions de David Barber ? : alarmer le public et, probablement surtout, préserver ses millions de dollars de financement qui proviennent de multinationales du pétrole et de l’exploitation minière.

Un autre article a été publié dans la Presse du 24 avril qui avait pour titre : « Le sous-sol du Grand nord fond ». Encore une fois, à la lecture de l’article, on se rend bien compte du véritable objectif des recherches, soit comment les multinationales vont exploiter l’Arctique. On peut lire que ces « problèmes vont hanter les mégaprojets énergétiques et miniers de l’Arctique canadien et du Plan Nord québécois. » Et qui prévoit ces mégaprojets ? Ceux-là même que l’on retrouve sur la liste des partenaires de l’organisme ArcticNet cités plus haut. L’équation est facile à faire.

La question se pose alors : le sous-sol du Grand nord fond-il vraiment ? Selon des études faites dans le nord Eurasien, il n’existe aucun indice comme quoi le pergélisol serait en train de fondre dû à une hausse des températures et encore moins à cause des émissions de CO2 dans l’atmosphère. Les chercheurs notent que la baisse des températures du sol entre les années 70 et 90 aurait sans aucun doute été causée par le phénomène de l’oscillation nord-atlantique et non pas le réchauffement climatique.

Revenons maintenant à notre entretien avec le directeur d’ArcticNet, Louis Fortier.

Le Plan Nord

La Presse a posé la question à Louis Fortier : que pensez-vous du Plan Nord du gouvernement Charest ? La réponse ne devrait pas vous étonner : « Moi, je l’aime, le Plan Nord. »

Pourquoi ne pas être surpris ? Parce que les multinationales qui vont exploiter le Plan Nord sont les mêmes qui financent ses recherches. Disons qu’ils sont tous dans la même équipe. D’ailleurs, une simple visite sur le site Internet officiel de la Conférence sur l’année polaire internationale 2012 de Montréal révèle que l’évènement est commandité par le Plan Nord.

Les preuves s’accumulent aujourd’hui comme quoi le Plan Nord est une entreprise pour déposséder les Québécois de leurs ressources naturelles et de les donner à rabais aux multinationales. Faut-il vraiment donner plus de preuves à ce sujet ?

Conclusion

Le prétexte du réchauffement climatique sert la cause d’une élite internationale qui voit dans ce stratagème la méthode ultime pour dominer la planète entière. Les projets sont nombreux: la taxe mondiale sur la carbone, le contrôle des populations, la destruction de la petite entreprise, la dictature scientifique, la gouvernance mondiale tant convoitée par l’élite mondialiste et même l’établissement d’une religion planétaire basée sur le culte de la Terre-Mère.

Une citation résume bien l’objectif du réseau mondialiste. Une citation que l’on peut lire dans un ouvrage publié en 1991 par un think tank mondialiste puissant, le Club de Rome, qui a pour titre « The First Global Revolution ». Concluons sur cette citation du livre:

«Dans la recherche d’un nouvel ennemi commun, nous sommes arrivés avec l’idée que la pollution, la menace d’un réchauffement climatique, les pénuries d’eau, la famine et autres pouvaient remplir ce mandat. Tous ces dangers sont causés par l’intervention humaine et c’est seulement à travers les changements d’attitudes et de comportements qu’ils peuvent être surmontés. Le véritable ennemi dans ce cas est l’humanité même.»

Éric Granger

Pour en savoir plus au sujet de l’histoire du réchauffement climatique, regardez le documentaire du DECODEUR en 2 parties :


Crise environnementale et gouvernance mondiale Histoire de la politique climatique

samedi, 21 avril 2012

Intrigas y petróleo: a propósito de YPF

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Intrigas y petróleo: a propósito de YPF

Alberto Buela (*)

En estos días llegó a mis manos una nueva edición de Del poder al exilio: quiénes y como me derrocaron, un texto de 1955 del general Perón, quien ya en su primera página afirma: “nosotros fuimos víctimas de la sorda lucha por el petróleo… el objetivo era impedir que los recursos petrolíferos argentinos fuesen explotados de manera de concurrir al desarrollo industrial del país... No es difícil comprender que en materia de petróleo, los capitales definidos como europeos son esencialmente británicos” 
Esta cita de Perón viene como anillo al dedo porque en estos días el gobierno de CFK expropió el 51 % de YPF (yacimientos petrolíferos fiscales) en la parte que poseía la empresa Repsol, dejando al resto de los accionistas en posesión de sus acciones sin incomodarlos.

El periodismo, como patria locutora que se encarga diariamente de  estupidizar a los pueblos planteó el tema como una cuasi guerra entre Argentina y España o como una medida stalinista de estatizar YPF.
Nada de esto es cierto. Primero, porque Repsol, como muy bien observa Antonio Mitre   no es, técnicamente, ni una empresa española ni mucho menos del Estado español. El 42% pertenece a BP (british petroleum) cuando en el 2000 termina de comprar la Amoco, originaria fundadora de Repsol, el 9,5% es de la estatal mejicana Pemex. Repsol declara en España solo el 25% de sus beneficios, y solamente es ésta,  la participación que puede llamarse estrictamente española.
En segundo lugar, el gobierno argentino expropia el 51% pero ni estatiza ni nacionaliza, hablando técnicamente. Pues de este 51%, el 49% pasa a manos de las diez provincias argentinas que poseen petróleo y solo el 51% restante queda en manos del Estado nacional.
Resumiendo entonces, el capital accionario de YPF queda constituido de la siguiente manera:
26% propiedad del Estado nacional
25% propiedad de diez Estados provinciales
24,5% propiedad del grupo Eskenazi
6,5% propiedad de Repsol
6% de la secular banca Lazard freres
5% de la banca Eton Park (Goldman Sachs, Mindich y Rosemberg)
5% de inversores no identificados
2% de la Bolsa de Valores de Buenos Aires (grupo Werthein)

Vemos como el Estado nacional posee solo el 26% y nadie nos asegura que los diez Estados provinciales funcionen al unísono y de acuerdo con él.
Pero por otra parte, y esto es lo que nos llama la atención, el grupo financiero Eskenazi que posee en Argentina la constructora Petersen (contratista del Estado) y los Bancos de las provincias de Santa Fe, San Juan, Entre Ríos y Santa Cruz (la provincia de los Kirchner) es abiertamente pro sionista. Prueba de ello es que al salón principal de la Amia (la mutual israelita) le fue cambiado el nombre por el de “Gregorio Eskenazi”, el abuelo de Sebastián el último gerente de YPF y padre de Enrique, la cabeza del grupo.
Además la sociedad del grupo que controla el 24,5% de YPF tiene su domicilio en Nueva Zelanda y no en Argentina.
Si a este porcentaje sumamos el 2% del grupo Werthein más el 6 % de la banca Lazard y el 5% de Goldman Sachs, dos bancas internacionales abierta y declaradamente sionistas, vemos que el 37,5% de YPF está controlado por el sionismo internacional.

Podrá el interventor por el Estado argentino Axel Kicillof, nieto de un reconocido rabino, lidiar en contra de los intereses de sus “paisanos” y a favor de los intereses de nuestro país?
Es una pregunta muy difícil de responder.
Este es uno de los motivos por los cuales la CGT sacó un comunicado avalando la expropiación de YPF pero afirmando, al mismo tiempo, “esperamos que no haya pícaros, como en la privatización, que quieran sacar provecho personal de este acto de soberanía”. Ojalá podamos recuperar el control y manejo de nuestros recursos naturales para beneficio del pueblo argentino.

Volvamos a la cita de Perón “los capitales del petróleo son esencialmente británicos”. Y esto ha sido históricamente así, al menos en el caso argentino. País que ya antes de liberarse del dominio español había caído bajo el domino británico, pues con motivo de las primeras invasiones inglesas de 1806 y aún cuando Inglaterra fue derrotada, nos dejaron de regalo a los comerciantes y prestamistas ingleses. En 1824 el gobierno de Rivadavia pidió un empréstito a los hermanos Baring y nunca más nos liberamos de “Incalaperra”, como dice el Martín Fierro.
Respecto del petróleo sabemos que fue descubierto en 1913 en la zona costera de la Patagonia y que en 1922  , y al negarse Gran Bretaña a vender gasolina para los aviones argentinos, el gobierno de Yrigoyen decide fundar YPF y pone al frente al General Mosconi quien, terminado su mandato es reemplazado por el General Alberto Baldrich hasta que el golpe de Estado de 1930 lo desplaza de la dirección de la empresa.
En 1958 el presidente Frondizi, contradiciéndose de lo afirmado en su libro Petróleo y política abre las puertas de par en par a la inversión privada extranjera.
En 1963, el gobierno radical de la misma raigambre ideológica de Yrigoyen, anula los contratos petroleros. Y comienza una burocratización de YPF que llega a 50.000 empleados. Llegando a ser la única compañía petrolera del mundo que daba pérdidas.
En 1974, el gobierno de Isabel Perón nacionaliza las bocas de comercialización de petróleo.
En 1992, bajo la nefasta presidencia Menem, se privatiza la empresa y en 1999 Repsol adquiere la casi totalidad de las acciones.
En 2007, el grupo Eskenazi de estrecha vinculación con Néstor Kirchner, adquiere el 14,5% de las acciones que le vende Repsol y en 2010 compra otro 10%.

Es digno de destacar que en la historia del siglo XX, ninguna empresa petrolera del mundo se ha vendido sin una guerra mediante. Ningún Estado nacional, teniendo una empresa propia, la entregó sin haber antes ido a una guerra para defenderla.
En América del Sur, norteamericanos e ingleses desataron una guerra en 1935 entre Bolivia y Paraguay para dirimir sus cuestiones petroleras en zona del Chaco boreal. Es que habían chocado los intereses de las compañías petroleras.
Vimos como Inglaterra nos niega a nosotros en 1922 combustible para nuestro desarrollo aeronáutico.
Modernamente las guerras de Afganistán e Irak son guerras por el control del petróleo.
Incluso países militarmente débiles como México o Venezuela no cedieron a las infinitas presiones para privatizar sus empresas nacionales de petróleo.
El único caso es la Argentina de Menem que vendió a precio de desgüase la petrolera, en esa época, estatal. Paradójicamente, en esa entrega estuvieron los Kirchner, él como gobernador de Santa Cruz y ella como diputada nacional.

La vida te da sorpresas
Sorpresas te da la vida.

Dicen que la esperanza es lo último que se pierde. Saludemos esta medida pero estemos prevenidos.
Sería de esperar que esta expropiación de YPF se enmarque en un plan nacional de manejo de los hidrocarburos. Que no quede en una medida coyuntural. Que no se limite a algo circunstancial como expropiar para expoliar. Qué los directores sean honestos y austeros. En definitiva, que esta medida heroica, por lo riesgosa, tomada por el gobierno nacional  ayude a la recuperación de los valores patrios y al logro de la buena vida de los argentinos.



(*) arkegueta, eterno comenzante
buela@disenso.org
www.disenso.org

vendredi, 06 avril 2012

Pétrole : Pourquoi une telle hausse des prix ? Pic pétrolier ou spéculation de Wall Street ?

W. Engdahl. Les variations de prix du baril brut à la hausse ne sont pas l'effet de la crainte qu'une guerre imminente entre l'Iran et Israël ou/et USA s'enclenche mais bien le fruit d'une spéculation criminelle à Wall Street, notamment de Goldman Sachs.

Pétrole : Pourquoi une telle hausse des prix ? Pic pétrolier ou spéculation de Wall Street ?

Mondialisation.ca, Le 2 avril 2012

Les actuelles fluctuations du prix du pétrole sont-elles d’ordre structurel ou bien sont-elles dues à la spéculation de quelques grands acteurs ? Quelle est la part de responsabilité des banques et des sociétés pétrolières et celle de ce que l’on appelle le "pic pétrolier" ? Et surtout, quels sont les garde-fous mis en place au niveau international et aux États-Unis par le Congrès US pour se prémunir contre d’éventuelles hausses "artificielles" des cours du brut ? Pour William Engdahl, auteur de l’article ci-dessous, la réponse est claire.

 

 

ICE Brent Crude [indice d'échange intercontinental du brut]
Clôture quotidienne des 12 mois précédents

Source: oilnergy.com

Depuis octobre l’an dernier, le prix du brut sur le marché mondial des contrats à terme a véritablement explosé. Chacun avance sa propre explication. La plus commune est la croyance, parmi les marchés financiers, qu’une guerre est imminente entre Israël et l’Iran, ou entre les USA et l’Iran, ou entre ces trois pays. Une autre explication veut que le prix augmente irrémédiablement du fait que l’on aurait dépassé ce qu’on appelle le « pic pétrolier » – le point sur une courbe de Gauss imaginaire (voir le graphique ci-dessous) où la moitié de toutes les réserves mondiales connues de pétrole ont été épuisées et où l’exploitation de ce qui reste va diminuer en quantité mais à un rythme et à des prix croissants.

 

 

Les justifications par le risque de guerre et par le pic pétrolier sont toutes les deux à côté de la plaque. Comme lors de l’escalade vertigineuse des prix au cours de l’été 2008 lorsque le pétrole avait brièvement atteint 147 $ le baril sur les marchés de contrats à terme, le prix actuel du pétrole augmente en raison d’actions spéculatives conduites sur les marchés par des Hedge Funds [fonds spéculatifs] et certains grandes banques comme Citigroup, JP Morgan Chase et surtout, Goldman Sachs, que l’on retrouve chaque fois qu’il y a des gros sous à se faire sans trop d’efforts, et en pariant sur quelque chose de sûr à 100%. Elles bénéficient en cela de l’aide généreuse de l’agence du gouvernement états-unien chargée de réguler les produits financiers dérivés, la Commodity Futures Trading Corporation (CFTC).

Depuis le début octobre 2011, il y a six mois, le prix des contrats à terme du Brent Crude lors des échanges de contrats à terme ICE est passé d’un peu moins de 100 $ le baril à plus de 126 $, une augmentation de plus de 25%. En 2009 le baril était à 30 $.

 

Source : LeMonde.fr

Pourtant la demande mondiale de brut n’augmente pas, au contraire, elle décroit pendant cette même période. L’Agence Internationale de l’Énergie (AIE) rapporte que l’offre mondiale de pétrole a augmenté de 1,3 million de barils quotidiens les trois derniers mois de 2011, alors que pour la m6eme période, la demande mondiale n’a augmenté que de la moitié de cette valeur. L’utilisation de l’essence a décru de 8% aux États-Unis, de 22% en Europe, et même chose en Chine. La récession dans une grande partie des pays de l’Union européenne, la récession/dépression croissante aux États-Unis, accompagné par le ralentissement [de l'économie] au Japon ont réduit la demande mondiale de pétrole, tandis que de nouvelles découvertes sont faites quotidiennement et que des pays comme l’Irak augmentent leur offre après plusieurs années de guerre. Le bref pic d’achats de pétrole par la Chine en janvier et février 2012 était lié à la décision prise en décembre dernier de constituer une réserve stratégique de pétrole, un retour à un niveau d’importation plus normal est attendu pour la fin de ce mois.

Alors pourquoi cet énorme pic dans les prix du pétrole ?

En jouant avec du « pétrole papier ».

Un rapide coup d’œil sur le fonctionnement actuel des marchés de « pétrole papier » aide à y voir plus clair. Depuis le rachat par Goldman Sachs dans les années 1980 de la société J. Aron & Co, un opportuniste négociant en matières premières, le commerce du brut est passé d’un domaine d’acheteurs et de revendeurs ponctuels de pétrole réel à un marché où ce ne sont pas l’offre et la demande courante de pétrole réel qui déterminent les prix journaliers, mais la spéculation non régulée dans les contrats pétroliers à terme, et les paris sur les prix d’un brut donné à une date donnée, ordinairement à 30, 60 ou 90 jours.

Depuis quelques années, un Congrès US accommodant pour Wall Street (et financé par lui) a voté plusieurs lois pour aider les banques intéressées par le négoce de contrats pétroliers à terme, dont un établissement en particulier qui a, en 2001, permis à Enron qui était alors en faillite de s’en tirer avec une combine "à la Ponzi" pour plusieurs milliards, et ce, avant qu’elle ne fasse faillite.

La loi de 2000 sur la modernisation des contrats à terme sur les matières premières (CFMA) a été ébauchée par l’actuel Secrétaire au Trésor du président Obama, Tim Geithner. La CFMA a en réalité donné carte blanche au commerce en vente libre (entre les institutions financières) de dérivés de contrats à terme sur l’énergie, sans aucune supervision du gouvernement des États-Unis, en raison de la pression financièrement influente du lobby des banques de Wall Street.

Le pétrole et d’autres matières énergétiques furent exemptés sous ce que l’on appela « l’échappatoire Enron ».

En 2008, alors que l’implication des banques de Wall Street dans la crise financière faisait scandale, le Congrès a dû voter une loi permettant d’outrepasser le veto du président George Bush, et de mettre fin à « l’échappatoire Enron ». À partir de janvier 2011, en vertu de la loi Dodd-Frank réformant Wall Street, la CFTC a reçu le pouvoir d’imposer immédiatement un plafonnement aux négociants de pétrole.

Étrangement, ces limitations n’ont pas encore été implémentées par la CFTC. Lors d’une récente interview, le sénateur Bernie Sanders du Vermont a déclaré que la CFTC n’avait pas « la volonté » d’appliquer ces plafonds mais qu’elle « devait se conformer à la loi ». Il a ajouté, « Ce que nous devons faire… c’est limiter la quantité de pétrole qu’une compagnie peut détenir sur le marché des contrats pétroliers à terme. En réalité, ces spéculateurs n’utilisent pas le pétrole, ils ne font que tirer profit de la spéculation, en faisant grimper les prix de vente. »[1] Alors qu’il affirmait haut et fort vouloir remédier à ces lacunes, le président de la CFTC Gary Gensler n’a toujours rien fait dans ce sens.

Notons au passage que Gensler est un ancien cadre de – vous l’aviez deviné – Goldman Sachs. Et la mise en application [de cette loi] par la CFTC n’est toujours pas faite.

Plusieurs sources ont relevé, l’automne dernier, le rôle central de certaines banques ou grandes sociétés pétrolières, comme BP, dans la constitution d’une nouvelle bulle des prix pétroliers qui se sont détachés de la réalité physique des calculs basés sur l’offre et la demande de barils.

Un « casino de jeux… »

Une estimation courante veut que les spéculateurs, c’est-à-dire les négociants de contrats à terme comme les banques ou les Hedge Funds, qui n’ont nullement l’intention de se faire livrer du pétrole, mais veulent seulement réaliser un profit sur le papier, contrôlent aujourd’hui près de 80% du marché des contrats pétroliers à terme, contre 30% il y a 10 ans.

L’an dernier, le président de la CFTC, Gary Gensler, peut-être pour conserver un semblant de crédibilité au moment où son agence ignorait encore le mandat légal du Congrès, a affirmé que « d’énormes apports d’argent spéculatif créent une prophétie auto-réalisatrice qui fait monter les prix des matières premières »[2], en référence aux marchés pétroliers. Début mars, le ministre koweïtien du pétrole, Hani Hussein, a déclaré lors d’une interview à la télévision d’État que « selon la théorie de l’offre et de la demande, les prix actuels du pétrole ne sont pas justifiés. »[3]

Michael Greenberger, professeur à l’Université de droit du Maryland, et ancien régulateur de la CFTC, qui avait essayé d’attirer l’attention du public sur les conséquences de la décision du Gouvernement états-unien de permettre une spéculation débridée et la manipulation des prix de l’énergie par les grandes banques et les fonds spéculatifs, a noté récemment qu’ « il y a 50 études montrant que la spéculation fait monter les prix du pétrole de façon incroyable, mais d’une manière ou d’une autre, cela n’a pas été intégré par les peuples. » Greenberger disait, « Une fois que le marché est dominé par les spéculateurs, ce que vous avez vraiment, c’est un immense casino de jeux. »[4]

Le résultat d’une régulation permissive des marchés pétroliers par le gouvernement états-unien a créé les conditions idéales par lesquelles une poignée de grandes banques et d’institutions financières – qui sont d’ailleurs, chose intéressante, les mêmes qui dominent le commerce mondial des contrats pétroliers à terme, et qui détiennent les actions du principal négociant pétrolier à Londres, ICE Futures – sont capables d’orchestrer d’énormes variations à court terme des prix que nous payons pour le gazole, l’essence et d’innombrables autres produits dérivés du pétrole.

Nous sommes maintenant au beau milieu d’une de ces variations, amplifiées par la rhétorique guerrière d’Israël sur le programme nucléaire iranien. Laissez-moi déclarer catégoriquement ma ferme conviction qu’Israël ne va pas s’engager directement dans une guerre avec l’Iran, et Washington non plus. Mais l’effet de la rhétorique guerrière est de créer la toile de fond idéale pour un pic spéculatif massif du pétrole. Certains spécialistes parlent du baril à 150 $ cet été.

Hillary Clinton s’est récemment assurée que le prix du pétrole continuerait de se maintenir à un niveau élevé pendant plusieurs mois grâce à la peur d’une guerre contre l’Iran, en lui lançant un nouvel ultimatum concernant son programme nucléaire lors de débats avec Sergeï Lavrov, le ministre russe des Affaires étrangères : « À la fin de l’année, ou sinon… »[5]

Curieusement, un des vrais moteurs de la bulle financière pétrolière provient des sanctions économiques imposées par l’Administration Obama sur les transactions pétrolières de la Banque Centrale d’Iran. En faisant pression ces dernières semaines à la fois sur le Japon, la Corée du Sud et l’Union Européenne pour qu’ils n’importent plus de pétrole iranien sous peine de sanctions, Washington a déclenché une énorme chute de l’offre de pétrole par l’Iran vers les marchés mondiaux, et a ainsi considérablement favorisé le jeu des contrats pétroliers à terme à Wall Street. Dans un récent article d’opinion paru dans le Financial Times de Londres, Ian Bremmer et David Gordon du groupe Eurasia écrivaient, « … même si cela cause effectivement quelques dégâts financiers à l’Iran, enlever trop de pétrole Iranien de l’offre mondiale d’énergie pourrait causer un pic du prix du pétrole et bloquerait la reprise. Pour la première fois peut-être, des sanctions ont le potentiel "de trop bien marcher", impactant autant ceux qui les subissent que ceux qui les appliquent. »

Selon Bloomberg, l’Iran exporte 300 000 à 400 000 barils de moins par jour que ses 2,5 millions habituels. La semaine dernière, l’Administration états-unienne de l’Information sur l’Énergie indiquait dans son rapport que la majeure partie de ce pétrole iranien n’était plus exporté parce que les assureurs refusent d’assurer les cargaisons.[6]

Pour les produits financiers dérivés du marché pétrolier, le problème de la spéculation illimitée et non réglementée, par une poignée de grandes banques n’est pas chose nouvelle. Un rapport datant de juin 2006 du sous-comité états-unien permanent d’Enquête sur « le rôle de la spéculation des marchés dans l’augmentation des prix du pétrole et du gaz » faisait remarquer : « …il existe des preuves solides permettant de conclure qu’une forte spéculation sur les marchés courants a considérablement augmenté les prix. »

Le rapport relevait que la CFTC avait été mandatée par le Congrès US pour garantir que les prix sur les marchés de contrats à terme reflétaient l’offre et la demande, et n’étaient pas victime des pratiques de manipulation ou des excès de la spéculation. La loi états-unienne sur l’Échange des Matières premières (Commodity Exchange Act, ou CEA) stipule que « toute spéculation excessive sur les matières premières sous contrat de vente faisant l’objet d’une livraison différée… qui cause des fluctuations soudaines ou déraisonnables, ou des changements infondés du prix de ces matières premières, est une charge indue et non nécessaire pour le commerce inter-États d’une de ces matières premières. » De plus la Commodity Exchange Act a ordonné à la CFTC d’établir des limites au commerce « que la Commission juge nécessaire pour diminuer, éliminer ou prévenir une telle charge. »[7]

Où en est la CFTC maintenant que nous avons besoin de ces plafonds ? Comme le sénateur Sanders l’a très justement fait remarquer, la CFTC semble ignorer la loi, et préférer les intérêts de Goldman Sachs et de ses amis de Wall Street qui dominent le commerce des contrats pétroliers à terme.

Au moment où il apparaîtra clairement que l’Administration Obama a agi pour prévenir une guerre avec l’Iran en utilisant différents moyens diplomatiques détournés, et que Netanyahu a simplement essayé de consolider sa position tactique pour marchander âprement avec une administration Obama qu’il méprise, le prix du pétrole est assuré dans les jours qui suivent de connaître une véritable chute libre. A ce jour, les principaux protagonistes de ces manipulations de produits financiers dérivés du marché pétrolier se frottent les mains et engraissent leurs comptes en banque, et l’effet de cette envolée des prix du pétrole sur la croissance de notre économie mondiale déjà fragilisée, surtout dans des pays comme la Chine, est également très préjudiciable.

William Engdahl

Article original en anglais :

 

Why The Huge Spike in Oil Prices? "Peak Oil" or Wall Street Speculation?
- by F. William Engdahl - 2012-03-16
 

 


Traduction Perry pour ReOpenNews

Notes :

  1. Oil Speculators Must Be Stopped and the CFTC “Needs to Obey the Law”: Sen. Bernie Sanders par Morgan Korn, pour le Daily Ticker, le 7 mars 2012
  2. Ibid.
  3. Kuwait’s oil minister believes current world oil prices are not justified, adding that the Gulf state’s current production rate will not affect its level of strategic reserves sur UpstreamOnline, le 12 mars 2012
  4. Behind Gas Price Increases, Obama’s Failure To Crack Down On Speculators par Peter S. Goodman, pour The Huffington Post, le 15 mars 2012
  5. US tells Russia to warn Iran of last chance par Tom Parfitt, sur The Telegraph, le 14 mars 2012
  6. Obama administration brushes off oil price impact of Iran sanctions, par Steve Levine, dans le Foreign Policy, le 8 mars 2012
  7. Perhaps 60% of today’s oil price is pure speculation’, par F. William Engdahl, pour Global Research, le 2 mai 2008

dimanche, 25 mars 2012

Les États-Unis sont-ils la nouvelle Arabie Saoudite ?

Les USA vont rétablir leur économie et finances grâce à l'or noir US qu'ils ont décidé d'exploiter. Ainsi l'Arabie Saoudite perdra de son importance géostratégique et pourra, à son tour, subir les affres de la déstabilisation pour le remodelage régional.

Assis sur un tas d’or (noir) : Les États-Unis sont-ils la nouvelle Arabie Saoudite ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Pas plus tard que fin 2013, les Etats-Unis pourraient être devenus le plus important producteur mondial d'énergie, estiment les économistes de Citi. 

 
Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles.

Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles. Crédit Reuters

Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles, s'accordent à dire les observateurs. Le seul point sur lequel ils divergent est la question du "quand". 2017 pour Goldman Sachs, fin 2013 pour Citi. La réalité est probablement quelque part entre les deux.

En tout cas, même les plus raisonnables s'accordent sur ce point : dans les huit années à venir, grâce à des progrès technologiques considérables, la production de pétrole et gaz naturel va exploser en Amérique du Nord. Aux Etats-Unis plus particulièrement, mais aussi au Canada et au Mexique. A tel point que Citi en vient à appeler la région "le nouveau Moyen-Orient".

Les principaux gisements nord-américains.

Dans le même temps, l'Arabie Saoudite et de la Russie, qui sont actuellement les deux plus gros producteurs mondiaux, vont voir leur production se tasser, à mesure que se rapproche l'épuisement de leurs réserves, comme l'indique le graphique ci-dessous, présenté par Citi.

Ci-dessus, les perspectives de croissance des principaux producteurs énergétiques évaluées par Citi.

Cette petite révolution pour le marché mondial de l'énergie, qui pourrait bien faire enfin baisser le prix du pétrole, devrait aussi profondément bouleverser la physionomie de l'économie américaine. "Pour le mieux", assure Citi.

Dans le "meilleur des cas", estiment les analystes du groupe, le PIB américain devrait augmenter de 2 à 3,3% - c'est à dire de 370 à 624 milliards de dollars. A l'horizon 2020, le boom de l'énergie devrait avoir contribué à la création de 3,6 millions d'emplois, 600 000 directement dans le secteur de l'extraction du gaz naturel et du pétrole et 1,1 million dans l'industrie. C'est 1,1% de chômeurs en moins, note Citi. L'export d'énergies fossiles devrait permettre au pays de réduire de 80 à 90% son déficit commercial, à 0,6% du PIB en 2020 contre 3% aujourd'hui. De ce simple fait, la valeur du dollar pourrait augmenter de 1,6 à 5,4 %.

"Si notre analyse est bonne", écrivent les analystes de Citi, "alors dans à peine huit ans, l'état de l'économie américaine pourrait être à l'exact opposé de ce qu'elle est aujourd'hui". Cela pourrait même bénéficier à l'économie mondiale dans son ensemble. En effet, la domination américaine dans la production énergétique pourrait provoquer, à elle seule, la baisse de 14% du prix du pétrole. Le cours de l'or noir pourrait également baisser de 2,5% supplémentaires grâce à la réduction de la consommation d'énergie.

L'augmentation régulière des prix du baril de pétrole au cours de la dernière décennie et la dépendance accrue de l'économie occidentale face aux ressources des pays du Moyen-Orient semblent avoir malgré tout profité aux Etats-Unis. La recherche américaine s'est concentrée de manière agressive sur l'amélioration des méthodes de détection et de forage des nappes de pétrole, en réservant leur application à l'Amérique du Nord. L'administration américaine n'a jamais été dupe sur le potentiel énergétique du pays, et l'exploitation relativement limitée de ses ressources en énergies fossiles ressemble aujourd'hui, et de plus en plus, à une sage gestion. L'utilisation des nouvelles techniques de prospection au Texas, notamment, démontrent actuellement toute leur finesse.

Selon le New York Times, les cinq dernières années ont permis de perfectionner considérablement le forage horizontal et la fracturation hydraulique, utilisés depuis des décennies par l'industrie pétrolière. Et ils sont désormais assistés d'instruments électroniques et informatiques de pointe, capable de simuler la structure et le potentiel des puits avant même leur excavation. La fibre optique joue un rôle majeur dans le travail des ingénieurs, qui peuvent déterminer, grâce à elle, l'orientation des couronnes, des tricônes et autres trilames, ainsi que de déterminer où, quand, et avec quelle pression injecter l'eau de forage. Les instruments de mesure sismique utilisés durant le travail de creusage permettent de déterminer la fragilité et la porosité des sous-sols, afin de ne pas endommager les puits en cours d'exploitation, et d'éviter de provoquer des failles et des infiltrations dans les autres nappes attenantes. Fini les puits noyés sous le sable, les roches l'eau. Le forage par étapes permet de consolider les puits et de creuser avec plus de précision, pour une exploitation plus durable et, paradoxalement, plus rapide.

Les roches dures du Bassin Permien du Texas de l'ouest, actuellement creusées par Apache Corporation, étaient jugées trop résistantes pour les lames diamantées des outils de forage il y a encore quelques années. Leur viabilité économique était même remise en question. Aujourd'hui, les 40 000 hectares du champ de pétrole de Deadwood, encore presque inexploités en 2010, font figure de mine d'or, grâce aux nouveaux adhésifs et alliages, qui renforcent l'efficacité du diamant des outils. Les moteurs souterrains, plus puissants, peuvent ainsi permettre un creusage plus rapide. Un puits creusé en 30 jours peut à présent être foré en moins de 10 jours, avec des économie de 500 000 dollars. Le vice-président d'Apache, en charge de l'exploitation du bassin Permien, ne se cache pas des opportunités offertes par ces nouveaux procédés. "En épargnant cet argent, explique-t-il, nous pouvons passer plus de temps sur le forage et améliorer notre productivité."

Le champ de Deadwood, symbole de ces innovations et des nouvelles méthodes d'exploitation pétrolière à l'Américaine, a permis à Apache de creuser 213 puits et de produire 9 000 barils par jour. Avec 13 derricks en action, la société espère forer plus de 1 000 puits sur le secteur, et atteindre un chiffre de 20 000 barils par jour. Au minimum.

 

NOTA BENE :

Je vous avais déjà posté en mars/avril 2011, tout juste un an, les affirmations de Lindsay Williams qui avait prédit le "printemps arabe", fondées sur des informations divulguées par des sources éminemment placées dans l'industrie pétrolière. Au vu de l'information d'aujourd'hui sur Atlantico, il semble que ces informations s'avèreraient exactes. Je vous relivre, en cette date anniversaire, ce document PDF.

Lindsey Williams avait prédit les Révolutions Arabes en 1980.pdf

mercredi, 21 mars 2012

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

 

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre - Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

Jean Bonnevey
Ex: http://www.metamag.fr/
 
Les apprentis sorciers de l’exportation démocratique dans le monde arabo-musulman par la subversion technologique ou la guerre sont en train de récolter les fruits de leur irresponsabilité libyenne. Comme annoncé, ici et ailleurs, par tous les esprits critiques non sclérosés par un sectarisme idéologique, la Libye, sans Kadhafi, se dirige vers tout, sauf vers la démocratie.
 
Elle se dirige vers une nouvelle guerre civile, alors même que les islamistes les plus durs prêtent main forte à leurs compagnons de route syriens, sous les yeux attendris d'Alain Juppé. Bengazi. La capitale cyrénaïque s'est doté d'un conseil autonome, étape vers l’indépendance souhaitée. A Tripoli, le CNT menace donc d'utiliser la force pour empêcher l'Est du pays de se soustraire à son influence. L'Est du pays veut profiter de son pétrole et se débarrasser de cet Ouest et ce Sud coûteux et suspects au regard des premiers révolutionnaires.
 

La Cyrénaïque a proclamé son autonomie
 
Promise par Alain Juppé et d’autres à un avenir stable, fondé sur des bases démocratiques, la Libye post-Kadhafi va de fait de mal en pis. Jusque-là, c'est en grande partie la situation sécuritaire qui était la plus préoccupante. C’était la loi des milices et des tribus dans le chaos.
 
 
Le Conseil national de transition, qui fait déjà face à une situation plus que délicate, se voit confronté aux aspirations séparatistes, ou officiellement autonomistes, des chefs de tribus et de milices de l'Est libyen à Benghazi, d'où est partie la révolte. Les «autonomistes» revendiquent un système fédéral. Dans un communiqué conjoint, ils avaient fait état de l'élection d'Ahmed Zoubaïr el-Senoussi à la tête de la Cyrénaïque.
 
La Cyrénaïque autonome : une forte odeur de pétrole
 
La région s’estime marginalisée durant les 42 années de règne du colonel. Des milliers de personnes ont assisté à la cérémonie, au cours de laquelle a également été nommé un Conseil chargé de gérer les affaires de cette région, qui fut longtemps indépendant de la Tripolitaine. Ce Conseil reconnaît toutefois le Conseil national de transition, qualifié de «symbole de l'unité du pays et représentant légitime aux sommets internationaux».
 
A cette prétention d’éloignement, le président du Conseil national de transition, Moustapha Abdeljalil, a répondu «Nous ne sommes pas préparés à une division de la Libye», dans des propos diffusés par la télévision, appelant ses frères de cette région baptisée «Cyrénaïque» au dialogue. Il les a ainsi mis en garde contre les «restes» de l’ancien pouvoir, en précisant qu'ils devraient savoir que des «infiltrés» et des restes du régime déchu tentaient de les utiliser. «Nous sommes prêts à les en dissuader, même par la force», a averti Abdeljalil.
 
Soutien officialisé des Islamistes libyens au rebelles syriens
 
Ce n’est pas tout. Les Islamistes, bien présents comme l’avait dit le défunt colonel, sont actifs déjà en dehors des frontières. L'ambassadeur russe à l'ONU a accusé le gouvernement libyen d'abriter un camp d'entraînement pour des rebelles syriens qui ont mené des actions contre le régime de Damas.
 
"Nous avons reçu des informations selon lesquelles il existe en Libye, avec le plein soutien des autorités, un centre d'entraînement spécial pour des rebelles syriens; ces personnes sont ensuite envoyées en Syrie pour attaquer le gouvernement en place", a lancé Vitali Tchourkine, lors d'une réunion du Conseil de sécurité dédiée à la Libye, en présence du Premier ministre par intérim, Abdel Rahim al-Kib. "Cette situation est totalement inacceptable sur le plan légal et de telles activités sapent la stabilité au Moyen-Orient", a renchéri l'ambassadeur, provoquant la fureur du responsable libyen.
 
Le diplomate a, par ailleurs, souligné que son pays était certain que l'organisation extrémiste, Al-Qaïda, est présente en Syrie. D'où cette question à présent: est-ce que l'exportation de la rébellion démocratique libyenne va se transformer en une exportation du terrorisme dans le moyen orient? Question accessoire, BLH et Juppé sont-ils toujours aussi contents d’eux ?

lundi, 19 mars 2012

L'Inde menacée de sanctions pour le refus de réduire les achats de pétrole à l'Iran

L'arrogance des Etats-Unis met à l'index l'Inde pour ses achats pétroliers à l'Iran. Ils envisagent des sanctions contre l'Inde à partir de l'été. Il serait temps qu'une politique commune de rétorsion économique se prenne au BRICS contre les USA.

L'Inde menacée de sanctions pour le refus de réduire les achats de pétrole à l'Iran

  Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Photo: EPA
 
     
Les États-Unis pourraient imposer des sanctions contre l'Inde, si elle ne restreint pas les importations du pétrole iranien, rapporte Bloomberg.

La loi, qui est entrée en vigueur aux États-Unis, pénalise tout pays pour le règlement du pétrole iranien par le biais de la Banque centrale d'Iran, si ce pays ne réduit pas significativement le volume des achats de pétrole à Téhéran dans la première moitié de cette année. Et si l'Inde ne le fait pas, le président des États-Unis sera obligé d'introduire des sanctions contre ce pays à partir du 28 juin, a indiqué l'agence en citant des responsables américains.

L'Inde achète à l'Iran, en moyenne 328.000 barils de pétrole par jour. Le pays est le troisième plus grand importateur de pétrole iranien, après la Chine et le Japon.