vendredi, 26 juin 2009
L'intreccio statunitense-saudita-wahhabita
![]() L’INTRECCIO STATUNITENSE-SAUDITA-WAHHABITA |
di K. Gajendra Singh* - http://www.eurasia-rivista.org/ La posizione saudita riflette la paura degli alleati arabo-sunniti degli USA di fronte alla crescente influenza esercitata in Iraq ed in Libano da Tehran, dove i suoi sodali di Hezbollah hanno avuto la meglio sulle forze di terra israeliane; il tutto con sullo sfondo le ambizioni nucleari dell'Iran. Il re Abdullah II di Giordania era stato tra i primi a mettere in guardia dall'ascesa dell'influenza sciita, e soprattutto dalla mezzaluna sciita che dall'Iran giunge in Libano via Iraq e Siria. Riyad ammonì inoltre che un governo iracheno egemonizzato dalla Shi‘a avrebbe utilizzato le sue truppe contro la popolazione sunnita; infatti, l'Arabia Saudita sostiene l'instaurazione d'un governo d'unità nazionale a Baghdad. Il "New York Times" riportava inoltre queste parole, rivolte dal sovrano saudita a Cheney: «Se vi doveste ritirare e cominciasse una pulizia etnica contro i sunniti, ci sentiremmo trascinati in guerra». Sia i funzionari sauditi sia la Casa Bianca hanno sconfessato questo resoconto. «Questa non è la politica del governo saudita», ha dichiarato ai cronisti l'addetto stampa della Casa Bianca, Tony Snow; «i Sauditi hanno chiarito di condividere i nostri stessi obiettivi, cioè la nascita d'un Iraq autosufficiente che possa sostenersi, governarsi e difendersi da solo, che riconoscerà e proteggerà i diritti d'ognuno a prescindere dalla sua setta o religione. E, oltretutto, condividono anche le nostre preoccupazioni per il ruolo che gl’Iraniani stanno giocando nella regione». Riconoscendo l'importanza regionale della Turchia, il sovrano saudita Abdullah ha visitato Ankara a fine novembre, prima visita in quattro decenni. La Turchia, dotata d'una costituzione laica e popolata per lo più da sunniti (mentre il 15% sono sciiti alauiti), è a sua volta profondamente preoccupata dall'ipotetica disgregazione dell'Iraq e dal crescente profilo dell'Iran, suo nemico storico. Mentre confronta le proprie idee con Giordania, Siria, Iraq, Qatar, Bahrein, Pakistan e Russia, Ankara condivide con Tehran la preoccupazione per un'indipendenza dell'Iraq settentrionale a maggioranza curda. Ankara e Washington, pur alleati nella NATO, hanno visioni piuttosto divergenti sul Vicino Oriente. All'inizio di dicembre il primo ministro turco Recep Erdogan ha espresso la propria opposizione al dispiegamento di truppe statunitensi nell'Iraq settentrionale: «Personalmente, trovo sbagliato il posizionamento di truppe nordamericane nel settentrione dell'Iraq, dal momento che non v'è alcun problema legato alla sicurezza in quella zona. Gli USA dovrebbero mantenere i loro soldati nelle aree problematiche del paese». Queste dichiarazioni sono state rilasciate ai giornalisti mentre si dirigeva a Tehran. Sia Ankara sia Tehran hanno relazioni problematiche con le loro minoranze curde. Ankara, con gran disappunto degli USA, ha ricevuto anche una delegazione di Hamas. Erdogan ha usato termini molti forti ed appassionati per condannare gli attacchi israeliani contro il Libano. Di lì a poco avrebbe portato il suo paese, per la prima volta nella storia, ad un colloquio con la Lega Araba, al Cairo. La situazione dell'Iran ricorda la favola del cammello e dell'arabo: eccetto le zampe anteriori, è fermamente piantato nella tenda irachena, tramite i partiti sciiti SCIRI e Dawa ed anche alcune fazioni interne all'Esercito del Mahdi. Hezbollah, finanziato, addestrato e armato da Tehran, durante gli scontri terrestri dell'ultima estate nel Libano meridionale ha inflitto una sanguinosa sconfitta ai rinomati reparti d'assalto israeliani, sfatando per sempre la cosiddetta "aura d'invincibilità" che Israele si costruì sconfiggendo gli Arabi nella Guerra dei Sei Giorni (1967), e che in seguito rafforzò con la minaccia nucleare e coll'incondizionato sostegno occidentale (ed in particolare statunitense). Israele, infatti, possiede centinaia di bombe nucleari ed ha i mezzi necessari per lanciarle. Il primo ministro sionista Ehud Olmert, sebbene inavvertitamente, l'ha anche ammesso in pubblico. Anche il nuovo segretario alla difesa statunitense, Robert Gates, durante la sua audizione al Congresso ha fatto riferimento alle bombe israeliane. Anche per questo l'opposizione israeliana (e statunitense) all'arricchimento dell'uranio, persino a scopo pacifico, da parte dell'Iran è al limite del fanatismo. Stando alla propaganda di Tel Aviv, è solo questione di tempo e l'Iran svilupperà la bomba; gli USA ritengono che siano necessari tra i cinque ed i dieci anni. Tehran sta nella bambagia. I dirigenti iraniani gongolano di fronte alla trappola irachena in cui sono caduti gli USA. Mohsen Rezai, segretario generale del potente Consiglio degli Esperti che coadiuva la guida suprema ayatollah Khamenei, s'è recentemente vantato alla televisione pubblica: «Il genere di servizio fattoci dai Nordamericani, pur con tutto il loro odio, non ha precedenti: nessuna superpotenza aveva mai fatto qualcosa di simile. Gli USA hanno distrutto tutti i nostri nemici nella regione. Hanno distrutto i Talebani. Hanno distrutto Saddam Hussein. (...) Gli Statunitensi sono così piantati in Iraq e in Afghanistan che, se anche dovessero riuscire a saltarne fuori sani e salvi, avrebbero davvero di che ringraziare Dio. Gli USA si presentano a noi più come un'opportunità che come una minaccia - non certo perché essi lo vogliano, ma perché hanno sbagliato i calcoli. Molti sono gli errori che hanno commessi». Gli USA e l'Occidente hanno persuaso la Russia e la Cina a varare sanzioni, sia pur blande, contro l'Iran, tramite la risoluzione dell'ONU del 23 dicembre rigettata da Tehran. Ma sono state proprio le cinque potenze nucleari riconosciute, aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare (TnPN) e dotate del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza, che hanno ucciso il trattato: infatti, esse non si sono mai mosse verso il disarmo - il primo degli obiettivi del TnPN - ed hanno costantemente violato altri suoi articoli, in spregio delle risoluzioni adottate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dell'opinione espressa dalla Corte Internazionale dell'Aja. Addirittura, hanno preso a costruire una nuova generazione di bombe per uso "convenzionale". La bomba nucleare nordcoreana prova semplicemente il disordine in cui versa la materia regolata dal TnPN, nonché l'irrilevanza di quest'ultimo. L'anziano statista nordamericano Jimmy Carter ha, con grande franchezza, denunciato le responsabilità degli USA per la situazione attuale. Ormai anche i membri del Consiglio del Golfo, o altri paesi arabi come Egitto e Algeria, vogliono seguire l'esempio dell'Iran ed imbarcarsi nel ciclo d'arricchimento dell'uranio. Le loro paure di lunga data e l’ormai pluridecennale opposizione all'atomica israeliana - sviluppata con l'aiuto franco-britannico e l'acquiescenza (se non il supporto) statunitense – si sono sempre scontrate col veto nordamericano, sia a New York sia a Vienna. I bulli dominano il mondo, in questo pianeta sempre più senza legge. La frattura sciita-sunnita è troppo profondamente marcata e radicata nel quotidiano in molti paesi musulmani. In numerosi Stati di tradizione sunnita gli sciiti vanno a costituire una classe subalterna; ma dopo il 1979, ispirati ed aiutati dall'Iran, hanno cominciato a guadagnare terreno in Libano e non solo. La parte occidentale dell'Arabia Saudita, molto ricca di petrolio e adiacente all'Iraq meridionale, è al pari di quest'ultimo popolata da sciiti, finora vissuti in un pesante clima di repressione. Il conflitto sciita-sunnita non può essere fermato da nessuna fatwa. Una è stata emessa lo scorso ottobre a la Mecca: ventinove chierici iracheni, appartenenti ad entrambe le confessioni, radunati durante il Ramadan per iniziativa dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), hanno pubblicato un Documento Makkah in dieci punti. Ricorrendo alla citazione di versetti del Corano e a detti tradizionali del Profeta Mohammed, la fatwa afferma che «è proibito versare sangue musulmano». Invita inoltre a salvaguardare i luoghi santi delle due comunità, difendendo l'unità e l'integrità territoriale dell'Iraq; infine, richiede il rilascio di «tutti i detenuti innocenti». Tuttavia, ancora la maggior parte degli esperti, inclusi quelli musulmani, ostentano pessimismo circa l'efficacia di simili proclami. Secondo Abdel Bari Atwan, direttore in capo del giornale arabo londinese "Al-Quds al-Arabi", gli appelli delle guide religiose all'interruzione degli spargimenti di sangue sono destinati a rimanere inascoltati. Lo si può verificare nei quotidiani bagni di sangue che si verificano in Iraq, nel mondo islamico, e che si sono verificati per tutta la loro storia. «Un tassello fondamentale della politica degli Stati Uniti nel Vicino Oriente dev'essere l'incondizionato sostegno all'integrità territoriale ed all'indipendenza politica dell'Arabia Saudita». I suoi obiettivi erano chiariti in un documento interno del 1953: «La politica statunitense consiste nel mantenere le fonti petrolifere vicino-orientali in mano nordamericana» (cit. da: Mohammed Heikal, Cutting the lion's tail). Nel 1958, un documento segreto britannico descriveva i principali obiettivi della politica occidentale nel Vicino Oriente: «1. Assicurare all'Inghilterra ed agli altri paesi occidentali il libero accesso al petrolio prodotto negli Stati affacciati sul Golfo; 2. assicurare la continua disponibilità di tale petrolio a condizioni favorevoli e per le maggiori entrate del Kuwait; 3. sbarrare la strada alla diffusione di comunismo e pseudo-comunismo nell'area, e conseguentemente difenderla dal marchio del nazionalismo arabo». Chomsky sostiene che le compagnie energetiche occidentali hanno prosperato grazie a «profitti eccedenti i sogni più avidi», con «il Vicino Oriente quale loro principale vacca da mungere». Si trattava di una parte della grande strategia statunitense, fondata sul controllo di quello che il Dipartimento di Stato, sessant'anni fa, descrisse come «la stupenda fonte di potere strategico» del petrolio vicino-orientale, e sull'immenso beneficio derivante da questo «tesoro materiale» senza precedenti? Gli USA hanno sostanzialmente mantenuto questo controllo - ma gli straordinari successi conseguiti sono derivati dal superamento d'innumerevoli barriere: quelle che, ovunque nel mondo, i documenti interni statunitensi definiscono «nazionalismo radicale»; ma che significa solo desiderio d'indipendenza. Abdul Aziz prese molte mogli, al fine di cooptare questa o quella tribù, o di ricucire quando necessario buoni rapporti; essendo però un musulmano profondamente devoto, non ebbe mai più di quattro spose contemporaneamente. Il patto tra la setta wahhabita e la casa di Saud fu sancita da numerosi matrimoni. I legami tra la famiglia saudita ed i seguaci wahhabiti non si sono sciolti ancora oggi. Il ministro saudita della religione è sempre un membro della famiglia al-Sheikh, che discende da Ibn Abdul Wahhab. L'influsso wahhabita sulle moschee è indubbio, dato che la setta dispone d'una propria polizia religiosa. Inoltre, essa ha esteso la propria portata attraverso la rete di madrasse e moschee sorte in tutto il mondo musulmano. Il wahhabismo è estremamente rigido ed austero. Non tollera molto il dialogo ed ancor meno l'interpretazione; disapprova l'idolatria, i monumenti funebri e la venerazione di statue o immagini artistiche. I seguaci preferiscono definirsi muwahhidun, cioè "unitari". I wahhabiti proibiscono il fumo, il taglio della barba, il linguaggio volgare ed i rosari, nonché molti diritti femminili. Considerano tutti coloro che non praticano la loro forma di Islam, inclusi gli altri musulmani, alla stregua di pagani e nemici. Il legame wahhabita-saudita era semplice quando il Regno era povero. Ho visto alcuni vecchi archivi degli anni '20 e '30, conservati al Ministero degli Affari Esteri di Nuova Delhi e risalenti all'era pre-petrolifera, quando insignificanti nababbi musulmani dell'India, da Pataudi, Loharu e Chhatari, versavano piccole somme alle principali cariche di Gedda, Mecca, Medina e Riyad. Le entrate derivanti dagli annuali pellegrinaggi del Hajj costituivano forse la maggior risorsa per i cittadini ed i governanti del Regno. Alcuni arabi provenienti dai regni del Golfo lavoravano come scaricatori di porto a Mumbai, ed erano coinvolti nel contrabbando di oro in India. Sono poi divenuti multimilionari col petrolio ed il commercio. L'Arabia Saudita è un grande paese: occupa un'area di 2,14 milioni di chilometri quadrati. La sua popolazione s'avvicina ai 22 milioni di persone, con un tasso di crescita del 3,49% ed un'aspettativa di vita pari a 71 anni. Più del 50% della popolazione ha meno di vent'anni e l'80% vive in centri urbani, consumando quantità colossali d'energia in aria condizionata. Non è più una nazione beduina. Il 75% degli adulti sono alfabetizzati, ma l'antiquato sistema educativo ha poca pertinenza col mercato del lavoro. Quasi il 30% della forza lavoro è d'origine straniera. Con la recente crescita del prezzo del petrolio, la sua situazione finanziaria è migliorata rispetto a qualche anno fa, quando aveva il maggior indebitamento del Golfo: 171 miliardi di dollari di debito interno e 35 miliardi di credito dall'estero, pari al 107% del PIL. L'antropologo saudita Mai Yamani nel 2000 sondò le opinioni, le speranze e le paure dei cittadini compresi tra i 15 ed i 30 anni: scoprì così che il tema dell'identità «finiva sempre più col dominare e permeare l'intero studio». Pur rimanendo ben radicata nella religione, nella cultura e nelle tradizioni nazionali, la maggior parte dei giovani aveva risentito della rapida trasformazione avvenuta intorno a loro, e metteva in questione diversi aspetti dello status quo. Si riscontrava un'identità di vedute circa «i difetti percepiti dello Stato» ed il desiderio della nuova generazione «di trovare spazio nella società saudita, per sviluppare i propri atteggiamenti e le opinioni personali senza la prepotente presenza dello Stato e degli ulema». Il quadro finale è quello d'un progresso discontinuo, con l'emergere di problemi complessi. In Arabia Saudita il petrolio fu scoperto nel 1938 dalla Standard Oil of California, la quale ottenne da Abdul Aziz una concessione cinquantennale in cambio d'un pagamento immediato di 30.000 monete d'oro: senza dubbio uno dei più grandi affari della storia! Quando la sbalorditiva estensione dei giacimenti fu ormai evidente, intervennero anche altre compagnie, come Exxon, Texaco e Mobil, per costituire il potente consorzio Aramco. Da quel momento venne a crearsi il curioso intreccio tra gli USA, la scandalosamente ricca classe dirigente saudita e, per proprietà transitiva, i puritani wahhabiti: in cambio della sicurezza della dinastia, le ricchezze e le fonti di reddito della penisola sono state cedute allo sfruttamento dell'Occidente, ed in primis agli USA. Tale intreccio ha superato la prova del tempo: ancora oggi Washington sta facendo l'impossibile per conservare quel regime feudale dalle pratiche tipicamente medievali. Il regime controlla la più grande "impresa familiare" al mondo, senza alcun mandato popolare o responsabilità verso la cittadinanza. L’intreccio precedentemente descritto incanala le ricchezze verso le madrasse, dove si studia a memoria il Corano, ma poca matematica e poca scienza, e le innovazioni sono bandite; la conseguente incapacità d'affrontare i sempre più complessi problemi dei tempi moderni ha fatto rotolare all'indietro i Musulmani. Questa cultura può produrre soltanto al-Qaede, gihadisti e distruzioni, ma non una risposta assennata e scientifica al consumismo ed all'espansione dell'Occidente, che quotidianamente copre d'umiliazioni il mondo arabo e musulmano. Certo si potranno architettare nuovi spettacolari attentati, come l'11 settembre o il 7 luglio, ma questi non libereranno l'Umma dalla dominazione e dallo sfruttamento cui è stata sottoposta negli ultimi due secoli dai cristiani occidentali. C'è un insegnamento che si può trarre dall'attuale miseria e dalle sofferenze infernali che patisce lo sventurato popolo iracheno, posto sotto il tallone dell'occupazione militare statunitense (durante la quale sono morte più di mezzo milione di persone dal marzo 2003). Si prenda l'Iran, dove la politica statunitense ha soltanto rafforzato gli elementi conservatori. Eppure sono anche garantite la libertà e l’istruzione delle donne, che possono lavorare negli uffici e guidare l'automobile. L'ammodernamento promosso dal moderato presidente Khatami è stato solo interrotto dall'irruzione statunitense a due passi da casa, che ha costretto il paese a mettersi sulla difensiva. Il popolo iraniano ha imparato che tornare indietro non risolve né i vecchi problemi né quelli nuovi proposti dall'era moderna: per questo non sopporta più il giogo soffocante dei mullah. La rottura dell’intreccio statunitense-saudita-wahhabita lascerà libere le masse musulmane, sinora tenute incatenate a idee retrive, e le avvierà verso la moderna educazione, le scienze naturali, le innovazioni ed il progresso in grado di sfidare l'Occidente. Ma lo sconvolgimento portato dalla rivoluzione khomeinista in Iran sembrerà una passeggiata, paragonata a quella che sarà la rivoluzione nell'Islam sunnita, dove l'oscurantismo e gl'interessi particolari (interni ed esterni) non s'arrenderanno facilmente. Forse i tempi tendono ad un cambiamento così cataclismatico. Prima della Grande Guerra, i Tedeschi progettavano di raggiungere Bassora con una ferrovia, grazie all'appoggio ottomano, in modo da aggirare l'Impero Britannico in India (il gioiello più prezioso della Corona inglese). Dal canto loro gli Ottomani, influenzati dai Giovani Turchi dell'eccentrico Enver Pascià, speravano d'arginare Mosca e creare un impero panturco esteso fino al Turkestan russo. I risultati, però, non corrisposero alle aspettative, ed anzi gettarono le fondamenta per una distruttiva seconda guerra mondiale, per l'ascesa della Germania nazista, per l'olocausto degli Ebrei e degli Zingari in Europa. E pure per la decolonizzazione e la fine degl'imperi britannico, francese ed europei in genere. |
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mercredi, 24 juin 2009
The Geopolitical Great Game: Turkey and Russia Moving Closer
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The Geopolitical Great Game:
Turkey and Russia Moving Closer
By F. William Engdahl - http://www.engdahl.oilgeopolitics.net/
Despite the problems of the ruble and the weak oil price in recent months for the Russian economy, the Russian Government is pursuing a very active foreign policy strategy. Its elements focus on countering the continuing NATO encirclement policy of Washington, with often clever diplomatic initiatives on its Eurasian periphery. Taking advantage of the cool relations between Washington and longtime NATO ally, Turkey, Moscow has now invited Turkish President Abdullah Gul to a four day state visit to discuss a wide array of economic and political cooperation issues.
In addition to opening to Turkey, a vital transit route for natural gas to western Europe, Russia is also working to firm an economic space with Belarus and other former Soviet republics to firm its alliances. Moscow delivered a major blow to the US military encirclement strategy in Central Asia when it succeeded earlier this month in convincing Kyrgystan, with the help of major financial aid, to cancel US military airbase rights at Manas, a major blow to US escalation plans in Afghanistan.
In short, Moscow is demonstrating it is far from out of the new Great Game for influence over Eurasia.
Warmer Turkish relations
The Government of Prime Minister Recep Erdogan has shown increasing impatience with not only Washington policies in the Middle East, but also the refusal of the European Union to seriously consider Turkey’s bid to join the EU. In the situation, it’s natural that Turkey would seek some counterweight to what had been since the Cold War overwhelming US influence in Turkish politics. Russia’s Putin and Medvedev have no problem opening such a dialogue, much to Washington’s dismay.
Turkish President Abdullah Gul paid a four-day visit to the Russian Federation from February 12 to 15, where he met with Russian president Dmitry Medvedev, Prime Minister Vladimir Putin, and also travelled to Kazan, the capital of Tatarstan, where he discussed joint investments. Gul was accompanied by his state minister responsible for foreign trade, and Minister of Energy, as well as a large delegation of Turkish businessmen. Foreign Minister Ali Babacan joined the delegation.
the largest autonomous republic in Russian Federation whose population mainly consists of Muslim Tatar Turks, is a sign how much relations between Ankara and Moscow have improved in recent months as Turkey has cooled to Washington foreign policy. In previous years, Moscow was convinced that Turkey was trying to establish Pan-Turanism in the Caucasus and Central Asia and inside the Russian Federation, a huge concern in Moscow. Today clearly Turkish relations with Turk entities inside the Russian Federation are not considered suspicious as it was once, confirming a new mood of mutual trust.
Russia elevated Gul's trip from the previously announced status of an ‘official visit’ to a ‘state visit,’ the highest level of state protocol, indicating the value Moscow now attaches to Turkey. Gul and Medvedev signed a joint declaration announcing their commitment to deepening mutual friendship and multi -dimensional cooperation. The declaration mirrors a previous ‘Joint Declaration on the Intensification of Friendship and Multidimensional Partnership,’ signed during a 2004 visit by then-President Putin.
Turkish-Russian economic ties have greatly expanded over the past decade, with trade volume reaching $32 billion in 2008, making Russia Turkey's number one partner. Given this background, bilateral economic ties were a major item on Gul's agenda and both leaders expressed their satisfaction with the growing commerce between their countries.
Cooperation in energy is the major area. Turkey's gas and oil imports from Russia account for most of the trade volume. Russian press reports indicate that the two sides are interested in improving cooperation in energy transportation lines carrying Russian gas to European markets through Turkey, the project known as Blue Stream-2. Previously Ankara had been cool to the proposal. The recent completion of the Russian Blue Stream gas pipeline under Black Sea increased Turkey’s dependence on Russian natural gas from 66 percent up to 80 percent. Furthermore, Russia is beginning to see Turkey as a transit country for its energy resources rather than simply an export market, the significance of Blue Stream 2.
Russia is also eager to play a major part in Turkey's attempts to diversify its energy sources. A Russian-led consortium won the tender for the construction of Turkey's first nuclear plant recently, but as the price offered for electricity was above world prices, the future of the project, awaiting parliamentary approval, remains unclear. Prior to Gul's Moscow trip, the Russian consortium submitted a revised offer, reducing the price by 30 percent. If this revision is found legal under the tender rules, the positive mood during Gul's trip may indicate the Turkish government is ready to give the go-ahead for the project.
Russia’s market also plays a major role for Turkish overseas investments and exports. Russia is one of the main customers for Turkish construction firms and a major destination for Turkish exports. Similarly, millions of Russian tourists bring significant revenues to Turkey every year.
Importantly, Turkey and Russia may start to use the Turkish lira and the Russian ruble in foreign trade, which could increase Turkish exports to Russia, as well as weakening dependence on dollar mediation.
Post-Cold War tensions reduced
However the main message of Gul's visit was the fact of the development of stronger political ties between the two. Both leaders repeated the position that, as the two major powers in the area, cooperation between Russia and Turkey was essential to regional peace and stability. That marked a dramatic change from the early 1990’s after the collapse of the Soviet Union when Washington encouraged Ankara to move into historically Ottoman regions of the former Soviet Union to counter Russia’s influence.
In the 1990’s in sharp contrast to the tranquillity of the Cold War era, talk of regional rivalries, revived ‘Great Games’ in Eurasia, confrontations in the Caucasus and Central Asia were common. Turkey was becoming once more Russia’s natural geopolitical rival as in the 19th Century. Turkey’s quasi-alliance with Ukraine, Azerbaijan, and Georgia until recently led Moscow to view Turkey as a formidable rival. The regional military balance developed in favor of Turkey in Black Sea and the Southern Caucasus. After the disintegration of the USSR, the Black Sea became a de facto ‘NATO lake.’ As Russia and Ukraine argued over the division of the Black Sea fleet and status of Sevastopol, the Black Sea became an area for NATO’S Partnership for Peace exercises.
By contrast, at the end of the latest Moscow visit, Gul declared, ‘Russia and Turkey are neighboring countries that are developing their relations on the basis of mutual confidence. I hope this visit will in turn give a new character to our relations.’ Russia praised Turkey's diplomatic initiatives in the region.
Medvedev commended Turkey's actions during the Russian-Georgian war last summer and Turkey's subsequent proposal for the establishment of a Caucasus Stability and Cooperation Platform (CSCP). The Russian President said the Georgia crisis had shown their ability to deal with such problems on their own without the involvement of outside powers, meaning Washington. Turkey had proposed the CSCP, bypassing Washington and not seeking transatlantic consensus on Russia. Since then, Turkey has indicated its intent to follow a more independent foreign policy.
The Russian aim is to use its economic resources to counter the growing NATO encirclement, made severe by the Washington decision to place missile and radar bases in Poland and the Czech Republic aimed at Moscow. To date the Obama Administration has indicated it will continue the Bush ‘missile defense’ policy. Washington also just agreed to place US Patriot missiles in Poland, clearly not aimed at Germany, but at Russia.
Following Gul's visit, some press in Turkey described Turkish-Russian relations as a ‘strategic partnership,’ a label traditionally used for Turkish-American relations. Following Gül’s visit, Medyedev will go to Turkey to follow up the issues with concrete cooperation proposals. The Turkish-Russian cooperation is a further indication of how the once overwhelming US influence in Eurasia has been eroded by the events of recent US foreign policy in the region.
Washington is waking up to find it confronted with Sir Halford Mackinder’s ‘worst nightmare.’ Mackinder, the ‘father’ of 20th Century British geopolitics, stressed the importance of Britain (and after 1945 USA) preventing strategic cooperation among the great powers of Eurasia.
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dimanche, 08 mars 2009
Dans les coulisses de la crise, la nouvelle guerre du pétrole
Dans les coulisses de la Crise, la nouvelle guerre du pétrole
Par Maxime Lion
Altermedia France
L’organisation des Pays exportateurs de Pétrole (Opep) pourrait procéder à une nouvelle baisse de sa production, en mars, lors de sa prochaine réunion à Vienne. C’est en tout cas ce qu’a affirmé samedi à Alger le ministre algérien de l’Énergie et des mines Chakib Khelil. Raisons invoquées : le possible maintien à la baisse des cours du brut. Ceci alors même que l’Agence internationale de l’Énergie abaissait vendredi ses prévisions de demande mondiale pétrolière, tablant désormais sur une contraction en 2009 comme en 2008. L’occasion de faire le point sur un marché fondamental de l’économie moderne où le politique n’est jamais loin.
Une véritable guerre « discrète » fait aujourd’hui rage sur le marché du Pétrole. Du côté des offreurs, l’Organisation des Pays Producteurs de Pétrole, qui représente 40 % de la production mondiale et qui bénéficie du soutien de la Russie, se veut le syndicats de défense des pays producteur : il rêve d’un baril de pétrole à 60 $ afin de rentabiliser l’ensemble des exploitations des ses membres, et d’assurer de confortables profits pour les plus compétitifs d’entre eux, comme l’Arabie Saoudite. La demande, quant à elle, s’organise pour l’essentiel autour des pôles occidentaux et asiatiques. Cependant, les États-Unis, premier consommateur au monde d’hydrocarbure et inventeurs de toute la filière économique du pétrole, donne le la : le prix du pétrole est actuellement gouverné par le niveau des stocks américains de pétrole. Depuis l’été dernier, il oriente les courts toujours dans le même sens, la baisse.
Si la baisse des courts s’explique avant tout par une cause objective - la chute de la demande de pétrole attestée par la litanie des rapports mensuels de l’Agence Internationale de l’Énergie annonçant une régression de la consommation de brut de 0,6 % en 2009 - elle devrait être compensée en grande partie par le diminution de la production de l’OPEP, suivie par celle opérée par la Russie. L’objectif est de relancer le baril à la hausse pour atteindre un objectif de court terme de 45 $ la baril. Or, peine perdue : alors que les consignes ont été relativement suivies par les pays membres de l’organisation, la production se maintient, voire augmente légèrement. Qui sont les coupables, augmentant leur production contre toute logique économique ? La réponse : des pays à la fois producteur et consommateur qui ont plus à perdre dans les surcoûts d’un pétrole en hausse que dans les pertes de leur propre puits… et en tout premier lieu les États-Unis, suivis de la Chine et du Brésil.
La baisse des courts du pétrole semble ainsi être devenu un objectif majeur de la politique américaine. Certains y ont vu un motif essentiel de la volonté de l’oncle Sam de freiner les ardeurs israéliennes quant à une campagne de raids aériens sur l’Iran, craignant les conséquences d’un conflit prolongé au Moyen Orient sur les courts de l’or noir. Qu’est-ce qui pousse les Américains à maintenir à grand frais les courts du pétrole à des courts les plus bas possibles, quitte à hypothéquer l’avenir de leur propre industrie pétrolière ?
La réponse est simple : le choix de la surchauffe de la planche à billet comme moyen de venir à bout de la crise, voire de la dépression économique. Le nouveau président O’Bama a promis d’injecter 850 milliards de dollars dans l’économie américaine sous forme d’infrastructures et de réduction d’impôts. D’où vient l’argent ? De bons du trésor dont la valeur repose dans la crédulité des étrangers dans la puissance de l’Oncle Sam. Si ces derniers ne suffisent pas, la planche à billet fera le reste. Or ce schéma ne fonctionne que tant que la confiance en la monnaie est maintenue par une inflation quasi nulle, garantissant, du moins à court terme, son pouvoir d’achat. Or le facteur principal de la chute de l’inflation aux Etats-unis, au point qu’elle devienne une véritable déflation, est justement la chute des courts des hydrocarbures. Une forte augmentation des courts de pétrole, ou choc exogène, suite à une crise géopolitique, aurait pour conséquence de relancer dramatiquement l’inflation et ainsi de transformer les injections massives de liquidités dans l’économie en empoisonnement du système financier mondial. A la crise - se matérialisant par la chute des valeurs des actifs, actions et immobiliers, c’est-à-dire une destruction de richesse - s’ajouterait l’effondrement du dollar, ce qui finirait de laminer le revenu des actifs… Il s’agit du pire scénario des économistes, l’hyper-inflation, qui se caractérise par une défiance générale pour la monnaie papier dite fiduciaire. Cette dernière revient à sa valeur intrinsèque, c’est-à-dire quasi-nulle, celle d’un petit papier imprimé en quadrichromie… Ceci signifierait l’arrêt de mort du dollar, et donc la fin de l’empire américain car il n’y a pas d’Empire sans impôt impérial.
Les liens entre le Politique et l’Économique ne sont jamais aussi forts qu’en tant que crise, et l’Histoire n’est jamais loin. Si la crise a aujourd’hui surtout le goût amer des licenciements et du marasme, marquant la fin d’un modèle économique, elle est aussi l’annonce de changements profonds, du mutations insoupçonnées. A nous de les décryptées afin de fêter la fin de ce « monde vétuste et sans joie… »
Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info
URL to article: http://fr.altermedia.info/general/dans-les-coulisses-de-la-crise-la-nouvelle-guerre-du-petrole_19607.html
00:36 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : pétrole, énergie, hydrocarbures, crise, finances, économie, géopolitiquen, géoéconomie | |
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mercredi, 11 février 2009
Gaza: Blocus des hydrocarbures de Palestine
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Gaza : Blocus sur les hydrocarbures de Palestine
Trouvé sur: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Rivarol n°2889, 23/01/2009 : "Le sacre d'Obama — qui n'a pas une fois évoqué le Proche-Orient dans son discours d'investiture —ne devant en aucun cas être obscurci par les fumées des dévastations de Gaza, Israël décrétait un cessez-le-feu à la veille du grand événement et procédait le 20 janvier à l'évacuation de ses blindés. Ce qui ne change rien au fond du conflit, qui est le refus de l'entité sioniste de voir se constituer un Etat palestinien viable. Et pour cause.
Selon Oil & Gas Investing, le gouvernement palestinien parvenait à la fin des années 90 du XXe siècle à un accord avec le groupe British Gas (BG) afin d'effectuer des forages de pétrole et de gaz en Méditerranée. En 1999, Noble Energy, société basée à Houston, découvrait, pour le compte d'Israël, du gaz au large d'Ashkelon, dans les eaux territoriales israéliennes. Au même moment, BG annonçait que d'importantes réserves énergétiques venaient d'être repérées au large de Gaza. Pour les Palestiniens, cette découverte ouvrait la porte à l'indépendance économique et à la stabilité financière. Elle ne provoqua pourtant qu'envie et convoitise car une Palestine riche en énergie, véritablement autonome, n'était pas dans les intérêts des dirigeants sionistes.
Aussi, en 2005, Israël devait porter un coup fatal à l'industrie palestinienne en choisissant l'Egypte comme fournisseur de gaz pour ses besoins. Pour expliquer ce geste hostile, l'Etat hébreu parla de "sa crainte de voir l'argent versé à la Palestine employé plus tard à financer le terrorisme". Une manoeuvre qui devait détruire complètement l'espoir d'une industrie florissante à Gaza, par la création d'emplois et la perception de taxes par le gouvernement palestinien. «Cette réserve, 0.4 trillion de mètres cubes de gaz naturel, affirmait Triple Diamond Corporation, aurait non seulement permis à la Palestine de couvrir amplement ses besoins énergétiques mais aussi aussi de profiter à l'expansion de son commerce. » Pour parer à cet événement funeste et tenter de faire fructifier ces nouvelles ressources, le gouvernement palestinien approcha British Gas qui obtint du gouvernement égyptien la permission d'exporter ce gaz —pour une période de 50 ans — via le pipeline de Gaza-Al Arish. Hélas, cette fois, ce fut le gouvernement britannique qui mit son veto, demandant à British Gas d'offrir une autre chance à Israël pour l'obtention d'un nouvel accord avec son voisin... Mais Tel Aviv refusa de nouveau tout compromis et l'espoir des Palestiniens s'effondra. L'accord fut abandonné.
On connaît la suite : colonisation sauvage, expulsions sans états d'âme et finalement blocus de Gaza. Fait navrant : entendre certains comparer hâtivement cette situation à l'apartheid sud-africain car, comme peuvent seuls en témoigner ceux qui ont vécu cette période dans la Republik, y étaient alors inconnus les destructions d'habitations au bulldozer, l'arrachage de plantations et de vergers centenaires, la volonté insidieuse d'annihilation de l'autre qui semble aujourd'hui prédominer au Proche-Orient. Cela doit être dit et répété. On apprenait finalement fin 2007 qu'une plainte était portée devant la Haute Cour de Justice israélienne (HCJ 91 32/07 ) contre l'Etat sioniste, concernant la baisse de fourniture d'électricité et de gaz par Israël à Gaza. Dans le même temps, une pétition était déposée par Noble Energy [Méditerranée] à propos de l'approvisionnement d'énergie en sens inverse, c'est à dire de la bande de Gaza vers Israël. Cette requête HCJ 5547/07, qui faisait état d'un certains nombres de multinationales se disputant le droit d'exploiter le gaz situé dans les fonds marins palestiniens - gaz approvisionant donc le marché de la demande israélienne - , passa étrangement quasi inaperçue.
Le 25 décembre 2007, la juge Beinish de la Haute Cour rejetait la plainte, affirmant que l'Etat d'Israël n'était pas tenu de transférer une quantité illimitée de gaz et d'électricité à la bande de Gaza « dans des circonstances où certaines de ces ressources continuent d'alimenter des organisations terroristes dans le but de cibler des civils israéliens ». La résolution 3005 (XXVII) de l'Assemblée Générale de l'ONU confirme, quant à elle, « le principe de la souveraineté de la population des territoires occupés sur leur richesse nationale et leurs ressources ». De même, la résolution 3336 (XXIV) de l'AGONU affirme que l'exploitation « humaine, naturelle et de toutes les autres ressources et richesses des territoires occupés est illégale ». Avec la résolution 32/161 de l'AGONU, Israël est appelé à cesser son exploitation des ressources naturelles dans les territoires occupés palestiniens, réaffirmant que ces ressources appartiennent au « peuple dont les territoires sont encore sous occupation israélienne ».
Au regard de cette évidence choquante, n'est-il pas incroyable que depuis rien n'ait changé ? Le gouvernement d'Ehoud Olmert se croit-il vraiment au-dessus des lois ? N'est-il pas temps pour lui de faire preuve d'un peu moins d'intransigeance, et de plus d'équité, à l'égard d'un peuple qui réclame depuis soixante ans de vivre enfin libre sur sa terre ?
Michelle Favard-Jirard.
00:45 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, géoéconomie, énergie, hydrocarbures, gaz, palestine, israël | |
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