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samedi, 06 octobre 2012

Salafismo e CIA: destabilizzare la Federazione Russa?

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Salafismo e CIA: destabilizzare la Federazione Russa?

Parte I: la Siria arriva nel Caucaso russo
Il 28 agosto Sheikh Said Afandi, noto leader spirituale della Repubblica autonoma russa del Daghestan, veniva assassinato. Un’attentatrice suicida jihadista era riuscita ad entrare in casa sua e a far esplodere un ordigno esplosivo. L’obiettivo dell’omicidio era stato accuratamente selezionato. Sheikh Afandi, 75enne leader musulmano Sufi, aveva svolto un ruolo critico nel tentativo di giungere ad una riconciliazione in Daghestan, tra i salafiti jihadisti sunniti ed altre fazioni, molti dei quali, in Daghestan, si considerano seguaci Sufi. Senza una sostituzione della sua statura morale e del suo ampio rispetto, le autorità temono un focolaio di guerra settaria nella piccola repubblica autonoma russa. [1]


La polizia ha riferito che l’assassino era una donna di etnia russa convertitasi all’Islam e legata alla rivolta fondamentalista islamica salafita contro la Russia ed i governi regionali fedeli a Mosca, nelle repubbliche autonome e in tutta l’instabile regione musulmana del Caucaso settentrionale. Le popolazioni musulmane in questa regione della Russia e nell’ex Unione Sovietica, tra cui Uzbekistan e Kirghizistan, e nella provincia cinese dello Xinjiang, sono oggetto di varie operazioni di intelligence degli Stati Uniti e della NATO dalla fine della Guerra Fredda nel 1990. Washington vede nella manipolazione dei gruppi musulmani il veicolo per indurre un caos incontrollabile nella Russia e nell’Asia centrale. Attuato dalle stesse organizzazioni impegnate nel creare caos e distruzione in Siria contro il governo di Bashar al-Assad. In un certo senso, come i servizi di sicurezza russi hanno capito chiaramente, se non riescono a fermare l’insurrezione jihadista in Siria, essa si rivolgerà in patria attraverso il Caucaso. I recenti omicidi dei leader moderati Sufi e di altri musulmani del Caucaso, fanno apparentemente parte di ciò che sta diventando sempre più chiaro come, forse, la più pericolosa operazione di intelligence degli Stati Uniti, che sempre opera a livello mondiale con il fondamentalismo islamico. In precedenza, i servizi segreti statunitensi e alleati avevano giocato a tira e molla con le organizzazioni religiose o settarie in tale o tal altro paese. Ciò che rende la situazione particolarmente pericolosa, in particolare dopo la decisione di Washington di scatenare gli sconvolgimenti della malnominata primavera araba, che hanno avuto inizio alla fine del 2010 in Tunisia, diffondendo come un incendio in tutto il mondo islamico, dall’Afghanistan in Asia centrale al Marocco, è l’ondata incalcolabile di uccisioni, odi, distruzione di intere culture che Washington ha scatenato in nome di quel sogno sfuggente chiamato “democrazia”. Utilizzando presunti gruppi salafiti di al-Qaida, sauditi o wahhabiti, o i discepoli del movimento turco di Fethullah Gülen, per incendiare l’odio religioso nell’Islam e contro le altre fedi, che potrebbe richiedere decenni per essere estinto. E che infine potrebbe facilmente sfociare in una nuova guerra mondiale.

La minaccia del fondamentalismo in Caucaso
Dopo lo scioglimento dell’URSS, i mujahidin radicali afghani, islamisti dall’Arabia Saudita, da Turchia, Pakistan e altri paesi islamici, dilagarono nelle regioni musulmane dell’ex Unione Sovietica. Uno dei meglio organizzati di questi gruppi era il movimento di Fethullah Gülen, leader di una rete globale di scuole islamiche e che risulta avere un’influenza importante sulla politica di Erdogan, del partito AKP della Turchia. Gülen si era affrettato a creare The International Daghestan-Turkey College nel Daghestan. Durante i giorni caotici del crollo sovietico, il Ministero della Giustizia della Federazione Russa aveva ufficialmente registrato e autorizzato la libera attività di una serie di fondazioni e organizzazioni islamiche. Tra queste, la Lega del Mondo Islamico, l’Assemblea Mondiale della Gioventù Musulmana, la sospetta fondazione saudita ‘Ibrahim ben Abd al-Aziz al-Ibrahim‘, vicina ad al-Qaida. La lista nera comprendeva anche la fondazione saudita al-Haramein, che sarebbe legata ad al-Qaida, e l’IHH [2], un’organizzazione turca vietata in Germania, che avrebbero raccolto fondi per i combattenti jihadisti in Bosnia, Cecenia e Afghanistan, e accusata dall’intelligence francese di avere legami con al-Qaida. [3]

Molti di questi enti di beneficenza erano coperture dei fondamentalisti salafiti e del loro ordine del giorno speciale. Molti islamisti stranieri in Cecenia e Daghestan erano coinvolti nei disordini regionali e nelle guerre civili, quindi le autorità russe revocarono il permesso per le attività alla maggior parte delle scuole e delle istituzioni islamiche. In tutto il Caucaso del Nord, al momento della guerra Cecena alla fine degli anni ’90, vi erano più di due dozzine di istituti islamici, circa 200 madrase e numerose maktabas (scuole di studio coraniche) presenti in quasi tutte le moschee. L’International Daghestan-Turkey College era stato costretto a chiudere i battenti in Daghestan. Il Collegio era gestito dall’organizzazione di Fethullah Gülen. [4] Al culmine della repressione della diffusione dell’insegnamento salafita in Russia, alla fine degli anni ’90, ci fu un esodo di centinaia di giovani del Daghestan e di studenti musulmani Ceceni in Turchia, Arabia Saudita, Pakistan e in altri luoghi del Medio Oriente, dove avrebbero ricevuto una formazione presso il movimento di Gülen e varie organizzazioni finanziate dai sauditi, tra cui quelle salafite. [5] Si ritiene che gli studenti formati in Russia dai sostenitori di Gülen o dai centri salafiti sauditi e di altri fondamentalisti, siano stati rimandati in Daghestan e nel Caucaso del Nord per diffondere il loro radicalismo islamico. Entro il 2005 la situazione nel Caucaso era così influenzata da questo intervento salafita, che il salafita ceceno Doku Umarov, citato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU per i collegamenti con al-Qaida [6], aveva dichiarato unilateralmente la creazione di ciò che chiamava ‘Emirato del Caucaso’, annunciando che aveva intenzione di creare uno stato islamico basato sulla sharia, comprendente l’intera regione del Caucaso del Nord, tra cui il Daghestan. Modestamente si proclamò emiro dell’Emirato del Caucaso. [7]

Parte II: il salafismo in guerra con la tradizione Sufi
Il salafismo, noto in Arabia Saudita come wahhabismo, è un ceppo fondamentalista dell’Islam che ha attirato l’attenzione del mondo e divenne famoso nel marzo 2001, poco prima degli attacchi dell’11 settembre. Fu allora che il governo salafita dei taliban in Afghanistan, distrusse volontariamente le storiche gigantesche statue del Buddha di Bamiyan, sulla Via della Seta, risalenti al 6° secolo. I leader salafiti taliban vietarono come “anti-islamico” anche tutte le forme di immagini, musica e sport, tra cui la televisione, in conformità con ciò che consideravano la stretta interpretazione della Sharia. Fonti afgane riferirono che l’ordine di distruggere i Buddha proveniva dal jihadista wahhabita saudita Usama bin Ladin, che alla fine convinse il Mullah Omar, leader supremo dei taliban all’epoca, ad attuarlo. [8] Mentre i Sufi incorporano il culto dei santi e le preghiere cerimoniali nella loro pratica, i salafiti condannano come idolatria qualsiasi forma di culto non tradizionale. Chiedono inoltre l’istituzione del governo politico islamico e una sharia rigorosa. Il Sufismo è la culla del grande patrimonio spirituale e musicale dell’Islam, secondo gli studiosi islamici, fornisce una dimensione interiore e mistica, o psico-spirituale, all’Islam, che risale a secoli indietro. Uno studioso Sufi ha descritto il nucleo del Sufismo: “Mentre tutti i musulmani credono di essere sul sentiero di Dio e di avvicinarsi a Dio, in Paradiso, dopo la morte e il ‘Giudizio Universale’; i Sufi credono anche che sia possibile avvicinarsi a Dio e vivere questa vicinanza, mentre si è vivi. Inoltre, il raggiungimento della conoscenza viene ottenuta con una tale intimità con Dio, affermano i Sufi, che è il vero scopo della creazione. Qui parlano del qudsi hadith, in cui Dio afferma, ‘Ero un tesoro nascosto e ho apprezzato il fatto che io sia conosciuto, così ho creato la creazione, al fine di essere conosciuto.’ Quindi, per i Sufi c’è già uno slancio, una continua attrazione esercitata nei loro cuori da Dio, trascinando, con l’amore, verso Dio“. [9]


La corrente mistica del sufismo islamico e la sua aspirazione ad avvicinarsi a Dio, è in netto contrasto con la corrente salafita jihadista o wahhabita, che è armata con armi mortali, predica la falsa dottrina della jihad, e un senso perverso del martirio, impegnandosi in innumerevoli atti di violenza. Non c’è da stupirsi che le vittime della jihad salafita siano per lo più le altre forme pacifiche dell’Islam, tra cui soprattutto i Sufi. L’autorevole 75enne Afandi aveva pubblicamente denunciato il fondamentalismo islamico salafita. Il suo omicidio fece seguito a un attacco coordinato del 19 luglio, contro due alti mufti nella Repubblica del Tatarstan russa, sul Volga. Entrambe le vittime erano capi religiosi riconosciuti dallo Stato che avevano attaccato l’Islam radicale. Quest’ultima serie di omicidi apre un nuovo fronte nella guerra salafita contro la Russia, attacca in particolare i leader sufi musulmani moderati. Se il Daghestan sprofondi o meno in una guerra civile religiosa, che poi si diffonda in tutto il Caucaso russo geopoliticamente sensibile, non è ancora certo. Ciò che è quasi certo è che gli stessi circoli che alimentano violenza e terrore in Siria contro il regime del presidente alawita Bashar al-Assad, sono dietro l’uccisione dello sceicco Afandi, così come degli atti di terrorismo o dei disordini nel Caucaso musulmano in Russia. In modo assai reale, rappresenta uno scenario da incubo per la Russia, una “Siria che arrivi in Russia.” Dimostrando drammaticamente perché Putin ha compiuto uno sforzo così determinato nel fermare la discesa nell’inferno omicida della Siria.

Salafismo e CIA
L’esistenza del cosiddetto marchio jihadista salafita dell’Islam in Daghestan è piuttosto recente. È stato anche deliberatamente importato. Il salafismo è a volte chiamato anche col vecchio nome saudita di wahhabismo. Il wahhabismo era originariamente una forma minoritaria beduina di fede originaria dell’Islam, dominante in Arabia Saudita dal 1700. Irfan al-Alawi e Stephen Schwartz del Centro per il pluralismo islamico danno la seguente descrizione delle condizioni saudite sotto il rigido marchio wahhabita dell’Islam: “Le donne che vivono sotto il governo saudita devono indossare l’abaya, il mantello totale del corpo, e il niqab, il velo sul viso, hanno scarse opportunità di istruzione e di carriera, gli è fatto divieto di guidare veicoli, di contatti sociali con uomini che non siano parenti, e tutte le attività personali devono essere sorvegliate, anche aprire i conti bancari, da un familiare di sesso maschile o da un “custode“. Queste regole wahhabite vengono applicate dal mutawiyin, o milizia morale, conosciuta anche come “polizia religiosa”, ufficialmente designata dalla Commissione per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio (CPVPV), che pattuglia le città saudite, armata di bastoni rivestiti in pelle, liberamente utilizzata contro presunti ribelli. Compiono raid nelle case alla ricerca di alcol e droghe, e molestano i musulmani non-wahhabiti e i credenti in altre fedi“. [10] E’ ampiamente noto che l’oscenamente opulenta e la non così tanto moralmente elevata famiglia reale saudita abbia stretto un accordo faustiano con i leader wahhabiti. L’accordo, presumibilmente, rende i wahhabiti liberi di esportare il propria fanatica forma d’Islam alle popolazioni islamiche del mondo, in cambio di lasciare la famiglia reale saudita al potere. [11] Vi sono, tuttavia, altri oscuri e sporchi cucchiai che agitano lo stufato wahabita-salafita saudita.


Poco conosciuto è il fatto che l’attuale forma aggressiva di wahhabismo saudita, sia in realtà una sorta di fusione tra salafiti jihadisti importati dalla Fratellanza musulmana, in Egitto, e i fondamentalisti wahhabiti sauditi. Importanti membri salafiti della Fratellanza musulmana egiziana furono introdotti dalla CIA nel regno saudita, negli anni ’50, con una complessa serie di eventi, quando Nasser usò la mano pesante contro i Fratelli musulmani, in seguito ad un tentativo di assassinio. Negli anni ’60, l’afflusso in Arabia Saudita di membri egiziani dei Fratelli musulmani in fuga dalla repressione nasseriana, aveva occupato molte importanti cattedre nelle scuole religiose saudite. Tra gli studenti vi era un facoltoso giovane saudita, Usama bin Ladin. [12] Durante il Terzo Reich, la Germania di Hitler aveva sostenuto i Fratelli musulmani come arma contro gli inglesi in Egitto e in altre parti del Medio Oriente. Marc Erikson descrive le radici naziste della Fratellanza musulmana egiziana così: “…Mentre il fascismo italiano e tedesco cercavano una maggiore presenza in Medio Oriente negli anni ’30 e ’40, per contrastare il controllo degli inglesi e dei francesi, una stretta collaborazione tra gli agenti fascisti e leader islamici ebbe inizio. Durante la Rivolta Araba del 1936-1939, l’ammiraglio Wilhelm Canaris, capo dell’intelligence militare tedesca, aveva inviato agenti e denaro per sostenere la rivolta palestinese contro gli inglesi, così come il fondatore dei Fratelli musulmani e “guida suprema”, Hassan al-Banna. Un individuo chiave nel legame fascista-islamista tra i nazisti e al-Banna fu il Gran Mufti di Gerusalemme, Haj Amin el-Husseini.” [13] Dopo la sconfitta della Germania, l’intelligence inglese si mosse per assumere il controllo della Fratellanza musulmana. In ultima analisi, per ragioni finanziarie e di altro tipo, gli inglesi decisero di consegnare le loro attività con i Fratelli musulmani ai loro colleghi della CIA, negli anni ’50. [14]


Secondo l’ex cacciatore di nazisti del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, John Loftus, “nel corso degli anni ’50, la CIA evacuò i nazisti dei Fratelli musulmani in Arabia Saudita. Ora, quando arrivarono in Arabia Saudita, alcuni dei protagonisti dei Fratelli musulmani, come il dottor Abdullah Azzam, divennero insegnanti nelle madrasse, le scuole religiose. E unirono le dottrine del nazismo con questo strano culto islamico, il wahhabismo”. [15] “Tutti pensano che l’Islam sia una religione fanatica, ma non lo è“, continua Loftus. “Pensano che l’Islam, la versione saudita dell’Islam, sia tipica, ma non lo è. Il culto wahhabita è stato condannato come eresia più di 60 volte dalle nazioni musulmane. Ma quando i sauditi divennero ricchi, comprarono un grande silenzio. Si tratta di un culto molto duro. Il wahhabismo è praticato solo dai taliban e dall’Arabia Saudita, per quanto sia estremo. Non ha davvero nulla a che fare con l’Islam. L’Islam è una religione molto pacifica e tollerante. Ha sempre avuto buoni rapporti con gli ebrei, nei primi mille anni della sua esistenza“.[16] Loftus ha individuato il significato di quello che oggi sta emergendo dall’ombra, consegnando l’Egitto al Presidente Morsi dei Fratelli musulmani, e il cosiddetto Consiglio nazionale siriano, in realtà dominato dai Fratelli musulmani e pubblicamente guidato dal più “politicamente corretto” o presentabile degli artisti del calibro di Bassma Kodmani. Kodmani, portavoce per gli Affari esteri del CNS, è stata due volte ospite al raduno dell’élite del Bilderberg, più recentemente a Chantilly, in Virginia, all’inizio di quest’anno. [17]


La caratteristica più bizzarra e allarmante dei cambi di regime finanziati dagli USA, avviati nel 2010, e che hanno portato alla distruzione del regime arabo laico di Hosni Mubarak in Egitto, di Muhammar Gheddafi in Libia e del regime laico del presidente Ben Ali in Tunisia, e che hanno portato alla distruzione selvaggia in tutto il Medio Oriente, in particolare negli ultimi diciotto mesi in Siria, è l’emergente modalità di presa di potere dei rappresentanti salafiti della torbida Fratellanza musulmana. Secondo fonti informate, i Fratelli musulmani, islamici sunniti finanziati dai sauditi, domina i membri del Consiglio nazionale siriano in esilio, sostenuti dalla Segretaria del Dipartimento di Stato USA, Clinton e dalla Francia di Hollande. La Fratellanza musulmana siriana è legata, non a caso, alla Fratellanza musulmana egiziana del presidente Mohammed Morsi, che di recente, alla riunione dei Paesi Non Allineati in Iran, aveva chiesto apertamente la rimozione di Assad dalla Siria, un passo logico affinché i suoi Fratelli musulmani in Siria, presenti nel Consiglio Nazionale, prendano le redini del potere. I sauditi dicono anche di aver finanziato l’ascesa al potere in Tunisia del governo islamista del partito Ennahda, [18] e sono documentati i finanziamenti della Fratellanza musulmana, che domina il Consiglio nazionale siriano contrario al presidente Bashar al-Assad. [19]

Parte III: il regno del terrore salafita di Morsi
Indicativo del vero programma attuale della Fratellanza musulmana e dei jihadisti collegati, è il fatto che una volta che avranno il potere, faranno cadere il velo della moderazione e della riconciliazione, e riveleranno le loro radici violentemente intolleranti. Questo è visibile in Egitto oggi, con il  presidente dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi. Non vengono trasmessi dai principali media occidentali, fino ad oggi, gli allarmanti rapporti diretti delle organizzazioni missionarie cristiane in Egitto, secondo cui i Fratelli musulmani di Morsi hanno già cominciato a far cadere il velo della “moderazione e conciliazione“, mostrando i loro colore da brutali salafiti totalitari, similmente a quanto fecero in Iran le forze radicali della Sharia di Khomeini, dopo aver preso il controllo nel 1979-81.

In una lettera diffusa dalla missione Christian Aid (CAM), un missionario cristiano egiziano ha scritto che la Fratellanza musulmana di Morsi “ha annunciato che avrebbe distrutto il paese, se Morsi non avesse vinto, ma hanno anche detto che si vendicheranno di tutti coloro che hanno votato per [il suo avversario Ahmed] Shafiq, soprattutto i cristiani, in quanto sono sicuri che abbiamo votato per Shafiq. Ieri hanno cominciato uccidendo due credenti ad al- Sharqiya, a causa di ciò“, ha aggiunto il missionario, parlando in condizione di anonimato. [20] La presente relazione è stata pubblicata poche settimane dopo che la TV di Stato egiziana (sotto il controllo di Morsi) ha mostrato le immagini del spaventoso video di un convertito dall’islam al cristianesimo ucciso da musulmani. Il filmato ha mostrato un giovane costretto da uomini mascherati con un coltello alla gola. Mentre si sente un uomo cantare preghiere musulmane in arabo, che per lo più condannavano il cristianesimo, un altro che teneva il coltello alla gola del convertito cristiano cominciava a decapitarlo, lentamente, tra grida di “Allahu Akbar” (“Allah è grande”), secondo le trascrizioni. Nella lettera, il missionario egiziano aggiungeva che, “subito dopo che Morsi ha vinto, ai cristiani in Egitto è stato impedito con la forza di andare in chiesa.” Molti musulmani, la lettera affermava, “hanno cominciato a dire alle donne, in strada, che dovevano indossare l’abbigliamento islamico compreso di copricapo. Si comportano come se avessero il controllo del paese, e lo hanno, ora“. [21]

Già nel 2011 i seguaci salafiti di Morsi hanno cominciato ad attaccare e a distruggere le moschee Sufi in tutto l’Egitto. Secondo l’autorevole quotidiano al-Masry al-Youm (l’Egiziano oggi), 16 moschee storiche di Alessandria appartenenti ad ordini Sufi, sono state contrassegnati per essere distrutte dai cosiddetti “salafiti”. Alessandria dispone di 40 moschee associate ai Sufi, ed è la sede di 36 gruppi Sufi. Mezzo milione di Sufi vive in città, su un totale di quattro milioni di persone. L’aggressione contro i Sufi in Egitto, include un raid contro la moschea più illustre di Alessandria, che prende il nome, e alloggia, la tomba del 13° secolo del Sufi Al-Mursi Abul Abbas. [22] In particolare, il cosiddetto regime “democraticamente eletto” in Libia, dopo il rovesciamento nel 2011 di Muammar Gheddafi, grazie alle bombe della NATO, è stato anch’esso zelante nel distruggere le moschee e i luoghi di culto Sufi. Ad agosto di quest’anno, la Direttrice Generale dell’UNESCO, Irina Bokova, ha espresso “grave preoccupazione” per la distruzione da parte dei jihadisti, dei siti islamici Sufi a Zliten, Misurata e Tripoli, e ha invitato gli autori a “cessare immediatamente le distruzioni“. [23] In fondo, dietro le quinte, il governo libico è dominato da jihadisti e dai seguaci dei Fratelli musulmani, come in Tunisia e in Egitto. [24]


Il cocktail esplosivo di violenze insito nel permettere l’ascesa al potere degli islamisti salafiti in tutto il Medio Oriente, è abbastanza chiaro; simbolicamente la notte dell’11 settembre scorso, una folla di sostenitori arrabbiati del gruppo salafita fanatico Ansar al-Sharia, assassinava l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia e tre diplomatici statunitensi, bruciando il consolato statunitense a Bengasi, in segno di protesta per la pubblicazione su YouTube di un film di un regista statunitense, che mostra il profeta Maometto indulgere in affari sessuali multipli e mettere in dubbio il suo ruolo di messaggero di Dio. Ironia della sorte, l’ambasciatore degli Stati Uniti aveva avuto un ruolo chiave nel rovesciare Gheddafi aprendo la porta alla conquista salafita della Libia. Allo stesso tempo, folle inferocite di migliaia di salafiti circondavano l’ambasciata statunitense a Cairo, in segno di protesta per il film degli Stati Uniti. [25] Ansar al-Sharia (Partigiani della “legge islamica” in arabo) sarebbe una derivazione di al-Qaida e reclama una presenza  in tutto il Medio Oriente, dallo Yemen alla Tunisia, Iraq, Egitto e Libia. Ansar al-Sharia afferma di voler riprodurre il modello ristretto di sharia o legge islamica abbracciato dai taliban in Afghanistan, e dallo Stato islamico dell’Iraq, un gruppo militante ombrello che comprende al-Qaida in Iraq. Il nucleo del gruppo sono dei jihadisti che provengono da uno “stato islamico”, sia  l’Afghanistan di metà degli anni ’90, o i jihadisti in Iraq, dopo l’invasione degli USA nel 2003. [26]

La detonazione deliberata, oggi, di un nuovo ciclo di terrore fondamentalista jihadista salafita nelle regioni musulmane del Caucaso russo, ha origini squisitamente politiche, in tempo per esercitare la massima pressione interna sul governo della Russia di Vladimir Putin. Putin e il governo russo sono i sostenitori più forti ed essenziali del governo siriano di Bashar al-Assad, e per la Russia il mantenimento della sola base navale del Mediterraneo della Russia, nel porto di Tartus in Siria, è di vitale importanza strategica. Allo stesso tempo, il messaggio subdolo di Obama a Medvedev di attendere la rielezione di Obama per valutare l’intenzione degli Stati Uniti nei confronti della Russia, e il recente commento criptico di Putin, secondo cui un compromesso con il ri-eletto presidente Obama potrebbe essere possibile, ma non con un Romney presidente, [27] indicano che la tattica di Washington con Mosca del “bastone e carota” o del poliziotto buono – poliziotto cattivo, potrebbe tentare la Russia a sacrificare le principali alleanze geopolitiche, forse anche la speciale e recente stretta alleanza geopolitica con la Cina. [28] Se ciò accadesse, il mondo potrebbe assistere al “reset” nelle relazioni USA-Russia, con conseguenze catastrofiche per la pace nel mondo.

*F. William Engdahl è l’autore di Full Spectrum Dominance: la democrazia totalitaria del Nuovo Ordine Mondiale

Note
[1] Dan Peleschuk, Sheikh Murdered Over Religious Split Say Analysts, RIA Novosti, 30 Agsto 2012.

[2] Mairbek  Vatchagaev, The Kremlin’s War on Islamic Education in the North Caucasus, North Caucasus Analysis Volume: 7 Issue: 34
[3] Iason Athanasiadis, Targeted by Israeli raid: Who is the IHH?, The Christian Science Monitor, 1 Giugno 2010.
[4] Ibid.
[5] Mairbek Vatchagaev, op. cit.
[6] UN Security Council, QI.U.290.11. DOKU KHAMATOVICH UMAROV, 10 Marzo 2011. La dichiarazione delle Nazioni Unite recita: “Doku Umarov Khamatovich è stato inserito il 10 marzo 2011 ai sensi del paragrafo 2 della risoluzione 1904 (2009) come associati ad al-Qaida, Usama bin Ladin o ai taliban per “aver partecipato al finanziamento, pianificazione, facilitazione, preparazione o esecuzione di atti o attività di, in collaborazione con, nel nome di, per conto di o a sostegno, reclutamento, rifornimento, vendita o trasferimento di armi e materiale bellico” e “altri atti o attività di sostegno” al Gruppo della Jihad islamica (QE.I.119.05), al Movimento islamico dell’Uzbekistan (QE.I.10.01), al Battaglione ricognizione e sabotaggio dei Martiri ceceni Riyadus-Salikhin (RSRSBCM) (QE.R.100.03) e all’Emarat Kavkaz (QE.E.131.11).”
[7] Tom Jones, Czech NGO rejects Russian reports of link to alleged Islamist terrorists al-Qaeda, 10 Maggio 2011.
[8] The Times of India, Laden ordered Bamyan Buddha destruction, The Times of India, 28 Marzo 2006.
[9] Dr. Alan Godlas, Sufism — Sufis — Sufi Orders
[10] Irfan Al-Alawi and Stephen Schwartz, Wahhabi Internal Contradictions as Saudi Arabia Seeks Wider Gulf Leadership, Center for Islamic Pluralism, 21 Maggio 2012.
[11] Irfan Al-Alawi and Stephen Schwartz, Wahhabi Internal Contradictions as Saudi Arabia Seeks Wider Gulf Leadership, 21 Maggio 2012.
[12] Robert Duncan, Islamic Terrorisms Links to Nazi Fascism, AINA, 5 Luglio 2007.
[13] Marc Erikson, Islamism, fascism and terrorism (Part 2), AsiaTimes.Online, 8 Novembre 2002.
[14] Ibid.
[15] John Loftus, The Muslim Brotherhood, Nazis and Al-Qaeda, Jewish Community News, 11 Ottobre 2006
[16] Ibid.
[17] Charlie Skelton, The Syrian opposition: who’s doing the talking?: The media have been too passive when it comes to Syrian opposition sources, without scrutinising their backgrounds and their political connections. Time for a closer look…, London Guardian, 12 Luglio 2012.
[18] Aidan Lewis, Profile: Tunisia’s Ennahda Party, BBC News, 25 Ottobre 2011.
[19] Hassan Hassan, Syrians are torn between a despotic regime and a stagnant opposition: The Muslim Brotherhood’s perceived monopoly over the Syrian National Council has created an opposition stalemate, The Guardian, UK, 23 Agosto 2012.
[20] Stefan J. Bos, Egypt Christians Killed After Election of Morsi, Bosnewslife, 30 Giugno 2012.
[21] Ibid.
[22] Irfan Al-Alawi, Egyptian Muslim Fundamentalists Attack Sufis, Guardian Online [London], 11 Aprile 2011
[23] Yafiah Katherine Randall, UNESCO urges Libya to stop destruction of Sufi sites, 31 Agosto 2012, Sufi News and Sufism World Report.
[24] Jamie Dettmer, Libya elections: Muslim Brotherhood set to lead government, 5 Luglio 2012, The Telegraph, London.
[25] Luke Harding, Chris Stephen, US ambassador to Libya, killed in Benghazi attack: Ambassador and three other American embassy staff killed after Islamist militants fired rockets at their car, say Libyan officials, London Guardian, 12 Settembre 2012.
[26] Murad Batal al-Shishani, Profile: Ansar al-Sharia in Yemen, 8 Marzo 2012 .
[27] David M. Herszenhorn, Putin Says Missile Deal Is More Likely With Obama, The New York Times, 6 Settembre 2012. Secondo un’intervista che Putin ha dato alla TV statale di Mosca RT, riferisce Herszenhorn, “Putin ha detto di ritenere che se Obama viene rieletto a novembre, un compromesso potrebbe essere raggiunto sulla questione controversa dei piani statunitensi sul  sistema di difesa antimissile in Europa, che la Russia fortemente contrasta. D’altra parte, Putin ha detto, se il signor Romney diventa presidente, Mosca dovrà temere che il sistema missilistico che è, nonostante le assicurazioni statunitensi, diretto in realtà contro la Russia, quasi certamente diventerà una realtà. “E’ possibile trovare una soluzione al problema, se l’attuale presidente Obama viene rieletto per un secondo mandato? In teoria, sì“, ha detto Putin, secondo la trascrizione ufficiale pubblicato sul sito Web del Cremlino. “Ma questo non è solo il presidente Obama. Per quanto ne so, il suo desiderio di trovare una soluzione è abbastanza sincero“, ha proseguito Putin. “L’ho incontrato di recente a margine del vertice del G-20 a Los Cabos, in Messico, dove abbiamo avuto la possibilità di parlare. E anche se abbiamo parlato per lo più della Siria, potevo ancora fare un bilancio della mia controparte. La mia sensazione è che è un uomo molto onesto, e che vuole sinceramente fare molti cambiamenti positivi. Ma può farlo? Saranno in grado di farglielo fare?”
[28] M.K. Bhadrakumar, Calling the China-Russia split isn’t heresy, Asia Times, 5 Settembre 2012.

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora

jeudi, 04 octobre 2012

Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

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Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

By Mahdi Darius Nazemroaya

Global Research, September 27, 2011

Bei ihrem Vormarsch gegen das Eurasische Herzland versuchen Washington und seine Gefolgsleute, sich den Islam als geopolitisches Werkzeug zunutze zu machen. Politisches und soziales Chaos haben sie bereits geschaffen. Dabei wird versucht, den Islam neu zu definieren und ihn den Interessen des weltweiten Kapitals unterzuordnen, indem eine neue Generation sogenannter Islamisten, hauptsächlich unter den Arabern, ins Spiel gebracht wird.

Die heutige Türkei wird den aufbegehrenden Massen in der arabischen Welt als demokratisches Modell präsentiert, dem es nachzueifern gilt. Unbestreitbar hat Ankara Fortschritte gemacht im Vergleich zu den Zeiten, als es verboten war, in der Öffentlichkeit Kurdisch zu sprechen. Dennoch ist die Türkei keine funktionsfähige Demokratie, sondern eher eine Kleptokratie mit faschistischen Zügen.

Immer noch spielt das Militär in Belangen von Staat und Regierung eine große Rolle. Der Begriff »Tiefer Staat«, der einen Staat bezeichnet, der im Geheimen von Institutionen und Personen beherrscht wird, die nicht zur Rechenschaft gezogen werden können, hat seinen Ursprung in der Türkei. Bürgerrechte werden in der Türkei auch heute nicht geachtet, die Kandidaten für öffentliche Ämter müssen nach wie vor vom Staatsapparat und den kontrollierenden Gruppen zugelassen werden – und die sind bemüht, jeden herauszufiltern, der sich gegen den Status quo in der Türkei wenden könnte.

Die Türkei wird den Arabern nicht wegen seiner demokratischen Qualifikationen als Modell dargestellt. Vielmehr wird sie den Arabern wegen eines Projekts politischer und sozio-ökonomischer »Bida« (Erneuerung), das die Manipulation des Islam einschließt, als Modell präsentiert.

Trotz ihrer großen Popularität konnte die Türkische Partei für Gerechtigkeit und Aufschwung (Adalet ve Kalkinma Partisi oder kurz AKP) 2002 ohne jeden Widerstand von Militär und Justiz in der Türkei an die Macht gelangen. Davor hatte es in der Türkei keine große Toleranz gegenüber einem politischen Islam gegeben. Die AKP wurde 2001 gegründet; der Zeitpunkt der Gründung und der Wahlsieg 2002 standen auch im Zusammenhang mit der geplanten Neuorientierung Südwestasiens und Nordafrikas.

Mit dem Projekt Manipulation und Neudefinierung des Islam soll dieser durch eine neue Welle des »politischen Islamismus«, wie die AKP, den herrschenden kapitalistischen Interessen in der Weltordnung unterworfen werden. Zu diesem Zweck wird eine neue Strömung des Islam gebildet, die man inzwischen als »Calvinistischen Islam« oder »Muslimische Version der protestantischen Arbeitsethik« bezeichnet. Genau dieses Modell wird in der Türkei gefördert, Washington und Brüssel präsentieren es Ägypten und der arabischen Welt als Modell.

Dieser »Calvinistische Islam« hat auch kein Problem mit dem »Reba-« oder Zinssystem, das im Islam verboten ist. Dieses System dient dazu, Einzelne und ganze Gesellschaften durch die Verschuldung gegenüber dem globalen Kapitalismus zu versklaven. Das ist der Hintergrund für die Forderungen der Europäischen Bank für Wiederaufbau und Entwicklung (EBRD) nach so genannten »Reformen« in der arabischen Welt.

Auch die Herrscherfamilien in Saudi-Arabien und den arabischen Öl-Scheichtümern sind daran beteiligt, die arabische Welt durch Schulden zu versklaven. Zu diesem Zweck betreiben Qatar und die Scheichtümer am Persischen Golf die Gründung einer Middle East Development Bank [Entwicklungsbank für den Nahen Osten], die arabischen Ländern Kredite für den »Übergang zur Demokratie« gewähren soll. Diese Mission der Middle East Development Bank zur Förderung der Demokratie ist paradox, denn ihre Mitgliedsländer sind allesamt stramme Diktaturen.

Genau diese Unterwerfung des Islam unter den globalen Kapitalismus führt auch zu internen Spannungen im Iran.

Einer neuen Generation von Islamisten den Weg bereiten

Washington hofft darauf, dass dieser »Calvinistische Islam« bei einer neuen Generation von Islamisten unter dem Banner neuer demokratischer Staaten Wurzeln schlägt. Diese Regierungen werden ihre Länder versklaven, indem sie sie weiter in Schulden treiben und Staatseigentum verkaufen. Sie werden dazu beitragen, die gesamte Region von Nordafrika bis Südwest- und Zentralasien zu unterwandern; die Region also, die nach dem Vorbild Israels unter ethnokratischen Systemen neu geordnet werden soll.

Auch Tel Aviv wird unter diesen neuen Staaten erheblichen Einfluss ausüben. Im Rahmen dieses Projekts werden verschiedene Formen des ethno-linguistischen Nationalismus und religiöser Intoleranz gefördert, um die Region zu spalten. Die Türkei spielt als Wiege dieser neuen Islamisten-Generation ebenfalls eine Rolle. Und Saudi-Arabien hat mit der Förderung des militanten Flügels dieser Islamisten die Hand im Spiel.

Washingtons Umstrukturierung des geostrategischen Schachbretts

Der Iran und Syrien werden im Rahmen der größeren Strategie zur Beherrschung Eurasiens ins Visier genommen. Gegen die chinesischen Interessen wird überall auf der Welt vorgegangen. Der Sudan ist bereits balkanisiert worden, sowohl Nord- als auch Süd-Sudan steuern auf einen Konflikt zu. Libyen ist angegriffen worden und wird derzeit balkanisiert. Syrien wird unter Druck gesetzt, sich zu ergeben und sich anzuschließen. Die Sicherheitsbehörden der USA und Großbritannien werden miteinander verflochten, vergleichbar den anglo-amerikanischen Einrichtungen aus der Zeit des Zweiten Weltkriegs.

Wenn Pakistan aufs Korn genommen wird, so geschieht dies im Zusammenhang mit der Neutralisierung des Iran sowie dem Angriff auf chinesische Interessen und eine künftige Einheit in Eurasien. In dieser Absicht haben USA und NATO auch das Seegebiet um Jemen militarisiert. Gleichzeitig bauen die USA in Osteuropa ihre Festungen in Polen, Bulgarien und Rumänien aus, um Russland und die ehemaligen Sowjetrepubliken zu neutralisieren. Auch Belarus und die Ukraine werden zunehmend unter Druck gesetzt. All diese Schritte sind Teil einer militärischen Strategie zur Einkreisung Eurasiens und der Kontrolle seiner Energieversorgung oder des Energietransports nach China. Selbst Kuba und Venezuela geraten immer mehr ins Visier. Washington zieht die militärische Schlinge weltweit enger.

Wie es scheint, werden von der Saud-Dynastie mit Unterstützung der Türkei neue islamistische Parteien ins Leben gerufen und entwickelt, die in den Hauptstädten der arabischen Welt die Macht übernehmen sollen. Solche Regierungen werden bemüht sein, ihre jeweiligen Staaten unterzuordnen. Für Pentagon, NATO und Israel könnten einige dieser neuen Regierungen sogar als Rechtfertigung für neue Kriege dienen.

Es sei daran erinnert, dass Norman Podhoretz, Gründungsmitglied des Project for a New American Century (PNAC), 2008 ein apokalyptisches Szenario vorgestellt hat, bei dem Israel einen Atomkrieg gegen den Iran, Syrien und Ägypten und seine übrigen Nachbarländer in Gang setzen würde. Davon wären auch Libanon und Jordanien betroffen. Podhoretz beschrieb ein expansionistisches Israel und deutete sogar an, Israel könnte die Ölfelder am Persischen Golf besetzen.

Was 2008 seltsam anmutete, war Podhoretz’ von der strategischen Analyse des Center for Strategic and International Studies (CSIS) beeinflusste Andeutung, Tel Aviv könne einen nuklearen Angriff gegen seinen strammen ägyptischen Verbündeten richten, die Regierung von Präsident Mubarak in Kairo. Das alte Regime ist zwar geblieben, aber Mubarak regiert nicht mehr in Kairo. Noch immer hat das ägyptische Militär das Kommando, doch Islamisten könnten die Macht übernehmen. Und das, obwohl der Islam von den USA und den meisten NATO-Verbündeten weiterhin verteufelt wird.

Unbekannte Zukunft: Was kommt als Nächstes?

USA, EU und Israel versuchen, die Aufstände in der türkisch-arabisch-iranischen Welt zu nutzen, um ihre eigenen Interessen zu fördern, darunter den Krieg gegen Libyen und die Unterstützung für einen islamischen Aufstand in Syrien. Zusammen mit der Familie Al-Saud versuchen sie, die »Fitna« oder Spaltung unter den Völkern Südwestasiens und Nordafrikas voranzutreiben. Die strategische Allianz Israel–Khaliji zwischen Tel Aviv und den arabischen Herrscherfamilien am Persischen Golf ist in dieser Hinsicht von entscheidender Bedeutung.

Der Aufstand in Ägypten ist noch lange nicht vorüber, die Radikalität nimmt zu, was wiederum die Militärjunta in Kairo zu Zugeständnissen veranlasst. Die Protestbewegung wendet sich jetzt gegen die Rolle Israels und dessen Beziehungen zur Militärjunta. Auch in Tunesien wird die Stimmung in der Öffentlichkeit zunehmend radikaler.

Washington und seine Verbündeten spielen mit dem Feuer. Sie mögen der Ansicht sein, diese Periode von Chaos biete ausgezeichnete Chancen für eine Konfrontation mit dem Iran und Syrien. Doch der Aufstand, der die türkisch-arabisch-iranische Welt erfasst hat, wird unabsehbare Folgen haben. Die Standfestigkeit der Menschen in Bahrein und Jemen angesichts der Bedrohung durch die wachsende, staatlich beaufsichtigte Gewalt ist ein Anzeichen dafür, dass sich eine einheitlichere anti-amerikanische und anti-zionistische Protestbewegung artikuliert.

Mahdi Darius Nazemroaya ist ein unabhängiger Schriftsteller aus Ottawa (Kanada), der sich auf den Nahen Osten und Zentralasien spezialisiert hat. Er ist wissenschaftlicher Mitarbeiter des Centre for Research on Globalization (CRG).

 

Dieser Artikel erschien unter dem Titel: The Powers of Manipulation: Islam as a Geopolitical Tool to Control the Middle East

Quelle: Global Research, Centre for Research on Globalization (CRG) vom 2.7.2011

lundi, 24 septembre 2012

Hamas wechselt die Seite

hamas.jpgHamas wechselt die Seite

http://sachedesvolkes.wordpress.com/


In den letzten Monaten hat die islamische Widerstandsbewegung der Palästinenser, die Hamas-Organisationen, einen Front- und Seitenwechseln vollzogen. Ismail Hanija, der politische Führungskopf der Hamas, machte bei einem Besuch in Ägypten deutlich, dass die Hamas sich in Syrien-Konflikt auf die Seite der von Katar, Saudi Arabien, der Türkei, der EU und den USA finanzierten salafistischen „Rebellen“ stellt.  Dies hat nun vor allem damit zu tun, dass die Hamas nun von der arabischen Golfreaktion finanziell unterstützt wird, die ihrerseits als bester Verbündeter des US-Imperialismus in der Region zu gelten hat. Damit hat sich die Hamas auch von den alten Partnern Syrien und Iran abge wendet.
 
Der reaktionären Wende der Hamas folgte die Versöhnung mit der säkularen Fatah-Organisation und die von der Hamas-Führung in Aussicht gestellte Bereitschaft den bewaffneten Kampf gegen das israelische Besatzer-und Aggressionsregime einzustellen. Am Ende dieses Prozesses könnte eine Anerkennung Israels durch den palästinensischen Ableger der Muslimbruderschaft stehen.
 
Hanija sprach vor einigen Wochen bei seinem Besuch in Kairo, wie ein Politiker der US-Administration oder der bundesrepublikanischen Regierung. „Ich möchte allen Nationen des Arabischen Frühlings und dem heldenhaften Volk Syriens, das für Freiheit, Demokratie und Reformen kämpft, Respekt zollen“, so Hanija. Dies hätte nun so auch von Sarkozy, Hillary Clinton, Westerwelle oder Angela Merkel stammen können. Seine Zuhörerschaft, die sowohl aus ägyptischen Muslimbrüdern und Salafisten bestand, äußerte sich dabei vor allem Lautstark gegen die Assad-Regierung in Syrien, den Iran und die schiitische Hisbollah im Libanon. In Ägypten hat sich nun im übrigen eine Zweckpartnerschaft aus Muslimbrüdern und Salfisten herauskristalisiert. Der aussichtseiche Präsidentschaftskandidat der Muslimbrüder wird von den Salafisten mitgetragen.
 
Die Hamas baut nun vor allem auf gute Beziehungen zu den Muslimbürdern in Ägypten, die bereits den Segen der US-Administration erhielten, zu der Golfreaktion in Katar, aber auch zu der ägyptischen Junta, die eng mit dem israelischen Geheimdienst verbunden ist. In der britischen Tagespresse konnte man zu dieser „Wende“ folgendes nachlesen: „Dass er  (Hanija) diese Rede in Kairo hielt, deutet stark darauf hin, dass die Hamas gewillt ist, ihre alten Beziehungen zu beenden und dafür in Kauf zu nehmen, dass Teheran ihnen die Gelder streicht. Stattdessen wollen sie sich offenbar mit dem aufstrebenden Machtfaktor in der arabischen Welt, der ägyptischen Moslembruderschaft, arrangieren. („Telegraph“, März 2012).
 
Zudem hat die Hamas ihre Auslandsvertretung nun von Syrien nach Katar verlegt. Weitere Außenstellen wurden in Jordanien und Ägypten eröffnet. Katar spielte und spielt eine Hauptrolle der westlichen Aggression gegen Syrien und Libyen, finanziert und bewaffnet in den genannten Ländern die salafistischen NATO-„Rebellen“. Katar hatte jüngst der Hamas in Gaza ein Hilfspaket in Höhe von etwa 250 Millionen US-Dollar zugesichert.
 
Syrien hatte die Hamas unterstützt, da man ebenfalls eine sogenannte „Zweistaatenlösung“ ablehnte, die nur Israel, den Palästinensern aber gar nichts nützen würde. Die Hamas konnte von syrischer Seite mit finanzieller und logistischer Hilfe rechnen. Zuvor hatte Syrien den radikalen Flügel der PLO unterstützt, der den von Arafat begangenen Verrat an dem palästinensischen Volk nicht mittrug. Darüber hinaus unterstützt Syrien auch die nationalmarxistische Volksfront zur Befreiung Palästinas.
 
In Israel selbst gibt es unterschiedliche Bewertungen des Hamas-Frontwechsels. Die eher liberale Tageszeitung „Haaretz“ bewertete die Hamas-Wendung als „Schwächung der antiisraelischen Achse“, während rechte Zionisten und die radikale Siedlerbewegung darin eher eine Schwächung der Position Israels sehen. Auf Seiten der israelischen Rechten glaubt man eine geheime Komplizenschaft von EU, Obama-Administration und „arabischen Frühling“, dessen Ziel die Schwächung oder gar „Zerstörung“ Israels sei. Daß Verhältnis zwischen dem rechtskonservativen Regierungschef Netanjahu und Barak Obama gilt als höchst angespannt. Der EU und den USA werfen israelische Regierungskreise „Verrat“ an dem zionistischen Verbündeten vor.
 
Der Hamas geht es nun um die Anerkennung durch die EU und USA. Darum ist man auch bereit die Position gegenüber dem israelischen Besatzer aufzuweichen. Khaled Meshaal, der scheidende Führer der Hamas, kündigte gegenüber der Fatah-Organisation an, seine Organisation sei bereit den bewaffneten Kampf gegen den zionistischen Staat einzustellen. Anerkennend berichtete die US-Presse: „Noch während in Katar über die Vereinigung (zwischen Hamas und Fatah) verhandelt wurde, war der Premierminister von Gaza, Hamas-Mitglied Ismail Hanija, auf einer Tour durch die reichen Golfstaaten Katar, Bahrain und Kuwait. Er klang mehr wie ein Vorstandschef als ein Hetzer gegen Israel, als er sich mit den Herrschern der Golfstaaten und Investorengruppen traf und über Hilfsgelder für das geplagte Gaza verhandelte.“ (Boston Globe)
 
Hanija unterstützte bei seiner Reisetour, einen der engsten und brutalsten Verbündeten des US-Imperialismus, König Hamad von Bahrain. In Bahrain rebelliert die große Mehrheit der Bevölkerung seit Monaten gegen das proamerikanische und feudalistische Regime. Bahrain besitzt eine mehrheitlich schiitische Regierung. Die Revolte wird aber auch von der großen Mehrheit der Sunniten unterstützt. Hanija aber erklärte seine Unterstützung für das Hamad-Regime: „Bahrain ist eine rote Linie, auf der es keine Kompromisse geben kann, weil es ein arabisch-islamischer Staat ist.“
 
Iranische Kommentatoren wussten die Hanija-Tour richtig einzuschätzen! Hasan Hanisadeh, einer der führenden Kommentatoren zu den Geschehnissen im arabischen Raum sprach von dem „Ende der Hamas“. Die Hamas „begibt sich auf die gleichen Pfade wie Yassir Arafat“, so Hanisadeh. Der Iran setzt nun vor allem auf die Organisation „Islamischer Dschihad“ in Gaza und im Westjordanland. Deren Unterstützung durch die Palästinenser ist in den letzten Monaten vor allem in Gaza enorm angestiegen. Der „Islamische Dschihad“ hat sich auch auf die Seite Syriens gestellt und bezeichnet den Bürgerkrieg in Syrien als eine von den USA gelenkte Aktion gegen die arabische Einheit. Die Hamas hatte zuletzt versucht militante Widerstandsaktionen der pro-iranischen Gotteskrieger auf Israel zu unterbinden, was aber nur deren Beliebtheit steigerte.
 
Somit stehen auf der eine Seite Fatah und Hamas, Golfreaktion und Westliche Wertegemeinschaft, während die antiimperialistischen Kräfte, also der Islamische Dschihad und die Volksfront zur Befreiung Palästinas von Syrien und dem Iran unterstützt werden.
 
Nun rächt es sich, dass die Hamas trotz der Verarmungswelle in den Palästinensergebieten niemals eine sozialrevolutionäre Alternative zu der kapitalistischen Wirtschaftsordnung formulieren konnte oder mochte. Die soziale Unzufriedenheit mit der Hamas in Gaza kann den Meinungsschwenk der Hamas wesentlich miterklären. Die Hamas verspricht sich durch das Zugehen auf wesentliche Kräfte der Westlichen Wertegemeinschaft von jener als Wahrer der imperialistischen Entwicklung in der Region anerkannt zu werden. In Libyen und Syrien setzen Washington, Paris, London und Berlin schließlich auf salafistische Kräfte, während man in Ägypten die Muslimbrüder als Gesprächspartner akzeptiert.

vendredi, 14 septembre 2012

Arabie saoudite: l’allié problématique de Washington

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Bernhard TOMASCHITZ:

Arabie saoudite: l’allié problématique de Washington

 

C’est avec un acharnement véritablement opiniâtre que l’Arabie saoudite défend ses intérêts stratégiques. Après les soulèvements d’Egypte et de Libye, où Ryad a chaque fois soutenu l’opposition islamiste, le royaume du désert arabique s’immisce désormais dans la guerre civile syrienne. Comme le rapportait le journal britannique “The Guardian”, le 22 juin 2012, les Saoudiens s’apprêtaient à financer les combattants de la dite “Armée Syrienne Libre”. Ensuite, des pourparlers étaient en cours entre les Saoudiens, d’une part, et des représentants des Etats-Unis et d’autres pays arabes afin de fournir des armes aux rebelles syriens, tant et si bien qu’on peut dire que l’Arabie saoudite et l’émirat du Qatar “entraient de plein pied sur le théâtre des affrontements syriens”.

 

C’est donc clair désormais qu’une sorte de “division du travail” a été décidée entre les Etats-Unis et l’Arabie saoudite pour favoriser en Syrie un “changement de régime”. La réputation de Washington est bien écornée dans le monde arabe: c’est pourquoi les Etats-Unis se tiennent en apparence en dehors du conflit et font faire le travail sur le terrain par leurs alliés de la région. Dans ce contexte, les Etats-Unis cherchent à lier plus étroitement à leur politique et à celle de l’OTAN leur allié problématique qu’est l’Arabie saoudite, qui finance partout dans le monde les mouvements islamistes. Le secrétaire général de l’OTAN, Anders Fogh Rasmussen a déclaré, à l’occasion d’une visite au quartier général de l’Alliance Atlantique du ministre saoudien des affaires étrangères, Nizar Madani, à la mi-juin 2012, que l’Arabie saoudite était “un pays-clef dans la région et que l’OTAN serait ravi d’accueillir le royaume wahhabite comme partenaire lors de l’ “Istanbul Cooperation Initiative” (ICI)”. L’ICI a été créée en 2004 sous l’impulsion du Président américain George W. Bush, avec pour mission de lier les pays arabes à l’OTAN.

 

Dans le but de faire tomber le leader syrien Bachar el-Assad, les Etats-Unis parient, une fois de plus, sur un allié fort douteux. Les deux partenaires veulent certes affaiblir l’Iran, leur ennemi commun, en provoquant un changement de régime à Damas; mais, mis à part cet objectif précis et circonscrit, les intérêts des deux puissances se limitent à cela. Washington raisonne sur le court terme et veut protéger Israël du danger hypohétique d’une attaque nucléaire iranienne mais raisonne aussi à moyen terme en spéculant sur un écroulement du régime des mollahs pour s’emparer des réserves de pétrole et de gaz d’Iran. Les Saoudiens, eux, veulent devenir une puissance régionale incontestée sur les rives du Golfe Persique; ils veulent aussi devenir l’Etat arabe le plus influent et exporter leur forme d’islam, le wahhabisme, partout dans la région. Si l’Iran chiite s’affaiblit, l’Arabie saoudite en profitera pour barrer, sur son propre territoire, la route à Téhéran qui cherche à influencer les ±10% de la population saoudienne qui est d’obédience chiite.

 

Comme en d’autres points chauds du monde musulman, les Saoudiens soutiennent les djihadistes syriens, en liaison avec le réseau terroriste d’Al-Qaeda, ce qui contrarie fortement les projets américains pour une Syrie post-Assad. “Ces éléments (djihadistes) bénéficient du soutien de l’Arabie saoudite et du Qatar et joueront indubitablement un rôle en Syrie après la chute d’Assad”, écrit, sur le ton de l’avertissement, une étude publiée par le “Royal United Services Institute” (RUSI), une boîte à penser britannique qui entretient d’excellents contacts avec les ministères de la défense de Londres et de Washington.

 

Qui plus est, l’étude du RUSI retient que l’Arabie saoudite sait parfaitement bien utiliser les milliards de sa rente pétrolière pour téléguider à sa guise les bénéficiaires du “printemps arabe”. Ryad aurait essayé “avant que n’éclate la vague des soulèvements arabes de se réconcilier avec Assad”. Dans ce contexte, les Saoudiens auraient été prêts à “accepter que le Liban fasse partie de la zone d’influence syrienne”. Mais il est cependant sûr que “les Saoudiens soutiendront tout nouveau gouvernement, après la chute éventuelle d’Assad, qui travaillera pour les intérêts à long terme de l’Arabie saoudite”.

 

Néanmoins les Saoudiens peuvent toujours compter sur le soutien inconditionnel de Washington. Même si, dans leur pays, on ne trouve ni démocratie ni droits de l’Homme. On peut considérer, à première vue, que cette alliance est incongrue, mais elle est pourtant une donnée constante dans la région; dans ce cas, on peut aussi conclure que Washington, en dépit des discours répétés à satiété dans les médias, ne cherche nullement à “démocratiser” le Proche Orient mais uniquement à consolider ses intérêts économiques les plus évidents, quitte à faire de l’Arabie saoudite un “modèle”.

 

Fin décembre 2011, Washington et Ryad ont signé un accord quant à la livraison d’armes pour une valeur de 30 milliards de dollars. Les Saoudiens devraient recevoir notamment 84 avions de combat de type F15, un modèle américain. Cette coopération “en matières de sécurité” sert surtout à aider l’économie américaine qui est en train de battre de l’aile et à donner un coup de manivelle au “complexe militaro-industriel” des Etats-Unis.

 

Lors d’une conférence téléphonique, tenue le 14 juin 2012 et disponible en script sur le site du ministère américain des affaires étrangères, le sous-secrétaire d’Etat aux affaires politico-militaires, Andrew J. Shapiro, a évoqué les vraies raisons de la vente d’armes à l’Arabie saoudite. Selon Shapiro, cet accord entraîne “des effets considérables sur le développement de l’économie américaine”. Grâce à ce contrat, disent des spécialistes de l’industrie, 50.000 emplois se créeront aux Etats-Unis, impliquant 600 fournisseurs et sous-traitants dans 44 Etats de l’Union. Cela rapportera chaque année 3,5 milliards de dollars à l’économie américaine. Et Shapiro conclut: “Cela ne créera pas seulement des emplois dans le secteur de l’aéronautique mais aussi auprès de nos sous-traitants qui ont tous un rôle décisif à jouer dans le maintien de notre défense nationale”.

 

Par cette livraison d’armes aux Saoudiens, une course aux armements menace la région du Golfe Persique car on peut s’attendre à ce que l’Iran à son tour renforce son arsenal. On ne peut plus exclure l’éventualité d’une guerre irano-saoudienne à moyen terme dont le but serait d’asseoir l’hégémonie du vainqueur dans la région.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, n°33-34/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

samedi, 21 juillet 2012

Calls to Destroy Egypt’s Great Pyramids Begin

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Calls to Destroy Egypt’s Great Pyramids Begin

By Raymond Ibrahim

According to several reports in the Arabic media, prominent Muslim clerics have begun to call for the demolition of Egypt’s Great Pyramids—or, in the words of Saudi Sheikh Ali bin Said al-Rabi‘i, those “symbols of paganism,” which Egypt’s Salafi party has long planned to cover with wax.    Most recently, Bahrain’s “Sheikh of Sunni Sheikhs” and President of National Unity, Abd al-Latif al-Mahmoud, called on Egypt’s new president, Muhammad Morsi, to “destroy the Pyramids and accomplish what the Sahabi Amr bin al-As could not.”

This is a reference to the Muslim Prophet Muhammad’s companion, Amr bin al-As and his Arabian tribesmen, who invaded and conquered Egypt circa 641.  Under al-As and subsequent Muslim rule, many Egyptian antiquities were destroyed as relics of infidelity.  While most Western academics argue otherwise, according to early Muslim writers, the great Library of Alexandria itself—deemed a repository of pagan knowledge contradicting the Koran—was destroyed under bin al-As’s reign and in compliance with Caliph Omar’s command.

However, while book-burning was an easy activity in the 7th century, destroying the mountain-like pyramids and their guardian Sphinx was not—even if Egypt’s Medieval Mamluk rulers “de-nosed” the latter during target practice (though popular legend still attributes it to a Westerner, Napoleon).

Now, however, as Bahrain’s “Sheikh of Sheikhs” observes, and thanks to modern technology, the pyramids can be destroyed.  The only question left is whether the Muslim Brotherhood president of Egypt is “pious” enough—if he is willing to complete the Islamization process that started under the hands of Egypt’s first Islamic conqueror.

Nor is such a course of action implausible.  History is laden with examples of Muslims destroying their own pre-Islamic heritage—starting with Islam’s prophet Muhammad himself, who destroyed Arabia’s Ka‘ba temple, transforming it into a mosque.

Asking “What is it about Islam that so often turns its adherents against their own patrimony?” Daniel Pipes provides several examples, from Medieval Muslims in India destroying their forefathers’ temples, to contemporary Muslims destroying their non-Islamic heritage in Egypt, Iraq, Israel, Malaysia, and Tunisia.

Currently, in what the International Criminal Court is describing as a possible “war crime,” Islamic fanatics are destroying the ancient heritage of the city of Timbuktu in Mali—all to Islam’s triumphant war cry, “Allahu Akbar!”

Much of this hate for their own pre-Islamic heritage is tied to the fact that, traditionally, Muslims do not identify with this or that nation, culture, heritage, or language, but only with the Islamic nation—the Umma.

Accordingly, while many Egyptians—Muslims and non-Muslims alike—see themselves as Egyptians, Islamists have no national identity, identifying only with Islam’s “culture,” based on the “sunna” of the prophet and Islam’s language, Arabic.  This sentiment was clearly reflected when the former Leader of the Muslim Brotherhood, Muhammad Akef, declared “the hell with Egypt,” indicating that the interests of his country are secondary to Islam’s.

It is further telling that such calls are being made now—immediately after a Muslim Brotherhood member became Egypt’s president.  In fact, the same reports discussing the call to demolish the last of the Seven Wonders of the World, also note that Egyptian Salafis are calling on Morsi to banish all Shias and Baha’is from Egypt.

In other words, Morsi’s call to release the Blind Sheikh, a terrorist mastermind, may be the tip of the iceberg in coming audacity.  From calls to legalize Islamic sex-slave marriage to calls to institute “morality police” to calls to destroy Egypt’s mountain-like monuments, under Muslim Brotherhood tutelage, the bottle has been uncorked, and the genie unleashed in Egypt.

Will all those international institutions, which make it a point to look the other way whenever human rights abuses are committed by Muslims, lest they appear “Islamophobic,” at least take note now that the Great Pyramids appear to be next on Islam’s hit list, or will the fact that Muslims are involved silence them once again—even as those most ancient symbols of human civilization are pummeled to the ground?

Freedom Center pamphlets now available on Kindle: Click here.


Article printed from FrontPage Magazine: http://frontpagemag.com

URL to article: http://frontpagemag.com/2012/raymond-ibrahim/muslim-brotherhood-destroy-the-pyramids/

mercredi, 18 juillet 2012

De misvattingen van de liberaal-Westerse visie op het Nabije Oosten

De misvattingen van de liberaal-Westerse visie op het Nabije Oosten

door Filip Martens

 

Islamitisch falen en Westers succes


De islam was eeuwenlang een grote cultuur, die toonaangevend was inzake wetenschap en technologie. In de 19deeeuw ging deze cultuur echter op korte termijn ten onder door het imperialistische Europa. Militair werden de mohammedanen keer op keer verslagen en zelfs het machtige Ottomaanse Rijk werd gedwongen om door Europa gedicteerde vredesverdragen te sluiten. Tevens bleken de liberale Westerse economieën veel krachtiger dan die van de moslimwereld. Ook politiek telde het Nabije Oosten niet meer mee. Dit leidde in de mohammedaanse wereld tot een debat over wat er verkeerd gelopen was.

De verschuiving van de eeuwenoude handel en intellectuele uitwisseling tussen Europa en het Nabije Oosten naar de Atlantische Oceaan betekende de neergang van het Nabije Oosten. Door de ontdekking van Amerika in 1492 veranderden de eeuwenoude handelsroutes, waardoor die niet langer door het Nabije Oosten liepen: West-Europa dreef nu handel met Afrika (slaven) en zijn Aziatische en Amerikaanse kolonies. Ondertussen ontwikkelde Europa ook betere wapens en gaf het opkomende kapitalisme het kolonialisme een stevige impuls door grote kapitalen te mobiliseren. Tot het einde van de 16de eeuw bleef het Nabije Oosten wel nog textiel leveren aan Europa.

De moderne geschiedenis van het Nabije Oosten begint in 1798 met de invasie van generaal Napoleon Bonaparte in Egypte en Palestina. Het proces van islamitische nederlagen en terugtrekking was toen in de Balkan en Oost-Europa al begonnen. De Franse invasie leerde de moslimwereld dat een Europese macht ongestraft kon binnenkomen en doen wat hij wou. Zelfs het vertrek van de Franse troepen werd niet bewerkstelligd door de Egyptenaren of Ottomanen, maar door de Britse vloot van admiraal Nelson, wat een 2de les betekende: alleen een andere Europese macht kon een binnenvallende Europese macht weer wegkrijgen.

Vanaf de 18deeeuw verzwakte het Ottomaanse Rijk dus en begon Europa er zijn invloedssfeer uit te bouwen. De diverse religies in het Ottomaanse Rijk vormden elk een ‘millet’, waardoor iedere geloofsovertuiging zo zelfbestuur genoot op religieus vlak. Dit vergemakkelijkte de Europese infiltratie. Onder andere de ‘capitulaties’ waren hierbij heel belangrijk. Dit waren verdragen tussen het Ottomaanse Rijk en een overwonnen christelijk land, waardoor de christenen niet onder het Ottomaanse strafrecht vielen, maar volgens het recht van hun land berecht werden. Het bekendste verdrag is dat tussen Frankrijk en het Ottomaanse Rijk uit 1536, waar Frankrijk zich in de 19de eeuw terug op beriep om zich in het zwakke Ottomaanse Rijk te kunnen inmengen.

Na onderzoek van het islamitische falen en van het Westerse succes werden hervormingen ingezet: modernisering der legers (Westerse methodes, wapens en training), industrialisering van de economie en overname van het Westerse politieke systeem. Het bleek echter tevergeefs. Het Ottomaanse Rijk trachtte de hele 19deeeuw het groeiende imperialisme van het liberale en industriële Europa het hoofd te bieden. Toch werden veel Ottomaanse gebieden in Noord-Afrika en Zuidwest-Azië nu Europese kolonies of invloedszones. Er vonden dan ook diverse hervormingen van de Ottomaanse imperiale structuren plaats om het rijk beter te kunnen verdedigen tegen buitenlandse dominantie. Hoewel hierdoor tegen het begin van de 20ste eeuw de rechtspraak, het leger en de administratie grondig hervormd werden, leidde dit tevens tot een groeiende Europese economische en culturele aanwezigheid en tot het ontstaan van beginnende nationalistische bewegingen bij vele volkeren in het Ottomaanse Rijk, bijvoorbeeld bij de Armeniërs, de Arabieren en de maronietische christenen in het Libanongebergte. De islamitische wereld werd de voorbije 3 eeuwen dus niet alleen overtroffen door Europa, maar er ook door gedomineerd en gekoloniseerd.

Ook het debat van ‘ijtihad’ in de islamitische wereld duurt al 3 eeuwen en biedt steeds nieuwe verklaringen. ‘Ijtihad’ betekent rede, maar deze term slaat vooral op de diverse bewegingen die sinds het einde der 18de eeuw ontstonden en verandering eisten. Deze bewegingen waren primo het reformistische wahhabisme en het conservatieve salafisme; secundo het islamitische modernisme van Jamal ad-Din al-Afghani en Mohammed Abdu; en tertio de combinaties die Rashid Rida en Hassan al-Banna er van maakten. 

Clash of Definitions’


Samuel Huntingtons boek ‘Clash of Civilizations’ uit 1993 kondigde een totaal nieuwe wereldpolitiek aan, maar is een mythe. Huntington stelde dat oorlog tot dan gevoerd werd tussen ideologieën en dat internationale conflicten voortaan een culturele oorzaak zouden hebben. Deze ‘botsende beschavingen’ – i.e. Westerse vs. niet-Westerse beschavingen – zouden voortaan de internationale politiek domineren. Hij speelde hiermee in op het door president Bush sr. gelanceerde idee van een ‘New World Order’ en de aankomende millenniumwissel.

Huntingtons stelling is een gerecycleerde versie van de Koude Oorlogsthese dat conflicten ideologisch zijn: voor hem draait immers alles om de Westerse liberale ideologie vs. andere ideologieën. De Koude Oorlog ging met andere woorden gewoon verder, maar dan op nieuwe fronten (islam & Nabije Oosten). Volgens Huntington moest het Westen een interventionistische en agressieve houding aannemen tegenover niet-Westerse beschavingen om dominantie over het Westen te vermijden. Hij wou dus de Koude Oorlog voortzetten met andere middelen in plaats van de wereldpolitiek proberen te begrijpen of om culturen proberen te verzoenen. Deze oorlogszuchtige taal was koren op de molen van het Pentagon en van het Amerikaanse militair-industriële complex.

Huntington was echter niet geïnteresseerd in de geschiedenis van culturen en was ook erg misleidend! Veel van zijn argumenten kwamen immers uit indirecte bronnen: hij analyseerde bijgevolg niet goed hoe culturen werken, omdat hij zich vooral baseerde op journalisten en demagogen in plaats van op wetenschappers en theoretici. Zelfs de titel van zijn boek haalde hij uit Bernard Lewis’ artikel ‘The Roots of Muslim Rage’: een miljard moslims zouden woedend zijn op onze Westerse moderniteit, doch dit idee van een miljard moslims die allemaal hetzelfde denken versus een homogeen Westen, is echter simplistisch. Huntington nam dus van Lewis over dat culturen homogeen en monolitisch zijn, evenals het onveranderlijke verschil tussen ‘wij’ en ‘zij’.

Het Westen zou verder ook superieur zijn aan alle andere culturen en de islam zou per definitie anti-Westers zijn: dat de Arabieren echter al lang vóór Marco Polo en Colombus grote delen van de wereld (Europa, Zuid-Azië, Oost-Afrika) verkenden, deed er voor hem niet toe. Huntington meende tevens dat alle culturen (China, Japan, de Slavisch-orthodoxe wereld, islam, …) vijanden van elkaar zijn en hij wou bovendien deze conflicten beheren als een crisismanager in plaats van ze op te lossen. Hierbij kunnen we ons de vraag stellen of het wel verstandig is om zo’n simplistisch beeld van de wereld te schetsen en generaals en politici op basis daarvan te laten handelen. Dit mobiliseert immers nationalistisch-patriottische oorlogsstokerij. Eigenlijk moeten we ons afvragen waaróm iemand überhaupt de kans op conflict wil doen toenemen!

Groteske, vage en manipuleerbare abstracties als ‘het Westen’, ‘de islam’, ‘de Slavische cultuur’, … zijn heden alomtegenwoordig en drongen door in racistische en provocatieve ideologieën, die veel erger zijn dan die van het Europese imperialisme uit de tweedehelft der 19deeeuw. Imperialistische machten vinden dus eigen culturele theorieën uit om hun expansiedrang te rechtvaardigen, zoals de Manifest Destiny van de VS of Huntingtons ‘Clash of Civilizations’. Deze theorieën zijn gebaseerd op strijd en botsingen tussen culturen. Ook in Afrika en Azië bestaan er zo´n bewegingen, zoals het islamcentrisme, het Israëlische zionisme, het voormalige Zuid-Afrikaanse Apartheidsregime, …

In iedere cultuur definiëren cultureel-politieke leiders op dergelijke wijze wat ‘hun’ cultuur inhoudt, waardoor bijgevolg eerder van een ‘Clash of Definitions’ dan van een ‘Clash of Civilizations’ dient gesproken te worden. Deze officiële cultuur spreekt in naam van de gehele gemeenschap. Nochtans zijn er in iedere cultuur alternatieve, heterodoxe, niet-officiële cultuurvormen, die de orthodoxe officiële cultuur bekampen. Huntingtons ‘Clash of Civilizations’ houdt geen rekening met deze tegencultuur van arbeiders, boeren, bohémiens, buitenstaanders, armen, … Geen énkele cultuur is echter te begrijpen zonder rekening te houden met deze uitdaging van de officiële cultuur, want daardoor mist men net wat vitaal en vruchtbaar is in die cultuur! Zo zou volgens historicus Arthur Schlesinger de Amerikaanse geschiedenis van grote politici en ranchers moeten herschreven worden en ook rekening houden met slaven, personeel, immigranten en arbeiders, wiens verhalen doodgezwegen worden door Washington, de New Yorkse investeringsbanken, de universiteiten van New England en de industriële magnaten in de Midwest. Deze groepen beweren immers het discours van de doodgezwegen groeperingen te vertegenwoordigen.

Ook in de islam bestaat een gelijkaardig cultureel debat en het is net dát dat Huntington niet inzag! Er is géén vastomlijnde, éne cultuur! Iedere cultuur bestaat immers uit interagerende groepen én iedere cultuur wordt ook nog eens beïnvloed door andere culturen. 

Het leed van de islamitische wereld


Islamieten zien de teloorgang van het Ottomaanse Rijk in de Eerste Wereldoorlog als dé ultieme vernedering. Toch was de ondergang al voordien ingezet als een pijnlijk en langzaam proces (cfr. supra). Kernland Turkije kwam dit weliswaar te boven doordat de opstand van Mustafa Kemal (Atatürk) in Centraal-Anatolië de geallieerde bezetters verdreef, doch dit was echter géén islamitische overwinning, maar een nieuwe islamitische nederlaag! Mustafa Kemal was immers een seculier én hij schafte het sultanaat en het kalifaat af. Vooral de ondergang van het kalifaat was een ramp omdat de religieuze eenheid in de islamwereld er door teloorging. Iederéén in het Nabije Oosten beseft dit zeer goed!

Heden is het voormalige Ottomaanse Rijk verdeeld in door Frankrijk en Groot-Brittannië kunstmatig gecreëerde natiestaten. Nochtans zien islamieten zichzelf niet in nationale en regionale termen, maar wel in termen van religieuze identiteit en politieke trouw.

De profeet Mohammed werd geboren in Mekka en stichtte de islam in Medina, van waaruit hij ook Mekka veroverde. Niet-moslims mogen deze 2 heilige steden én de hele Hedjaz [1] niet betreden om de profeet niet te onteren! Volgens sommigen geldt dit verbod zelfs voor héél Arabië. Vandaar dat de aanwezigheid van Amerikaanse troepen (hoewel niet in de Hedjaz) voor islamieten zo problematisch is! Bovendien vielen die troepen vanuit het ontstaansland van de islam Irak aan, dat gedurende een half millennium – tevens de meest glorierijke periode in de islamitische geschiedenis – de zetel van het kalifaat was. De Britten begaven zich echter net om die redenen nooit in het binnenland van Arabië, maar beperkten zich tot de randgebieden (Koeweit, Bahrein, Qatar, Verenigde Arabische Emiraten, Oman, Aden). 

De misleidingen van het oriëntalisme


De Brits-Amerikaanse joodse oriëntalist Bernard Lewis poneerde dat er sinds 1990 een groeiende vijandigheid van de islamitische wereld tegen de VS bestond. Hoewel Lewis in 1986 op emeritaat ging, bleef hij toch tot zéér invloedrijk! Zowel het Witte Huis als de beide Amerikaanse partijen vroegen hem om advies over het Nabije Oosten, wat betekent dat hij een enorme invloed uitoefende op het Amerikaanse buitenlands beleid.

Bernard Lewis zag een strijd tussen ‘de’ islam en ‘het’ Westen die al 13 eeuwen duurt (kruistochten, jihad, Reconquista, …), waarbij nu eens de ene en dan weer de andere wint. Na de implosie van de USSR in 1991 bleef er volgens hem voor de islam nog één grote vijand over: de VS. Hij zwaaide daarbij zelfs met grote woorden als “de overleving van onze beschaving”. Nu de VS delen van het Nabije Oosten militair bezet en lijkt te winnen, groeit het verzet. Bijvoorbeeld het Somalische verweer tegen de VS in 1993 vermeed Amerikaanse dominantie over Somalië.

Lewis stelde tevens dat het tot dan toe gevoerde Westerse beleid tegenover het Nabije Oosten niet goed was. Zijn advies voor de Amerikaanse regering was: get tough or get out! ‘Get tough’ stond daarbij voor het voortzetten van het in Afghanistan begonnen ‘goede’ werk en dus nog meer aanvallen op zogenaamd ‘terroristische’ landen en groeperingen. Met ‘get out’ bedoelde hij dat er een vervangmiddel voor olie moest gevonden worden, zodat het Nabije Oosten niet langer belangrijk is.

Bernard Lewis’ simplistische theorie van de ‘Clash of Civilizations’ gaat terug op het oriëntalisme. Wat heden als ‘islam’ omschreven wordt in het liberale Westen door de theorie van de ‘Clash of Civilizations’, gaat terug op het discours van het oriëntalisme. Dit is een gefabriceerde constructie om vijandigheid te creëren tegen een werelddeel dat voor de VS van belang is omwille van zijn olie en concurrentiestrijd met het Westen. Oriëntalisme biedt ons een bepaald beeld van het Nabije Oosten, waardoor wij menen te weten hoe de mensen zich daar gedragen en welk soort mensen daar leeft. Daardoor gaan wij die mensen bekijken vanuit die ‘kennis’ die wij over hen menen te hebben. Oriëntalisme biedt echter geen onschuldige of objectieve kennis over het Nabije Oosten, maar weerspiegelt bepaalde belangen!

De zogezegd onafhankelijke media in een liberale maatschappij worden gecontroleerd door commerciële en politieke belangen: er is géén onderzoeksjournalistiek, maar slechts herhaling van het regeringsstandpunt en van de meest invloedrijksten binnen de regering. Zij gebruiken de islam als externe bliksemafleider om de ernstige sociale, economische en financiële problemen in onze samenleving te verdoezelen. Doordat de media zo gemakkelijk de aandacht kunnen vestigen op één negatief aspect van de islam, was het op het einde van de Koude Oorlog ook erg gemakkelijk om een nieuwe, buitenlandse vijand te creëren en om het enorme Amerikaanse leger te blijven legitimeren.

Amerikanen kennen niet veel van geschiedenis, ook hooggeschoolde Amerikanen niet. Daarom kunnen ze geen historische verwijzingen maken, noch begrijpen. Toen Osama Bin Laden het bijvoorbeeld had over “de ramp van 80 jaar geleden”, wist iedereen in het Nabije Oosten dat hij het had over de ondergang van het Ottomaanse Rijk. Amerikanen hadden echter geen flauw benul waarover Bin Laden het had. Daarnaast is het in de VS erg moeilijk om literatuur te vinden die sympathiek staat tegenover de islam, omdat de islam als een bedreiging wordt beschouwd voor de joods-protestantse natie die de VS is. 

‘Clash of Ignorance’


Edward Saïds ‘Clash of Ignorance’ weerlegde Lewis’ stellingen: ieder land in het Nabije Oosten heeft zijn eigen geschiedenis en zijn eigen interpretatie van de islam. Bovendien moet men het Nabije Oosten niet begrijpen als aparte landen, maar via de dynamieken tussen de diverse landen. Saïds ‘Clash of Ignorance’ toonde aan dat Lewis’ oriëntalisme ‘de’ islam simplistisch veralgemeent: er zijn immers meerdere soorten islam! Desondanks domineert Lewis’ Clash of Civilizations het Amerikaanse buitenlands beleid inzake het Nabije Oosten. Deze liberaal-Westerse visie op ‘islam’ is echter iets totáál anders dan hoe moslims de islam zien! Er is bijvoorbeeld een wereld van verschil tussen de islam in Algerije en in Indonesië! Het is dus bijzonder onverstandig om dat werelddeel als één islamitisch, irrationeel, terroristisch en fundamentalistisch geheel te zien. Volgens Edward Saïd is één exclusieve cultuur onmogelijk: we moeten ons dus afvragen of we willen streven naar het scheiden van culturen of naar het samenleven van culturen.

Huntingtons versie van Lewis ‘Clash of Civilizations’ verscheen eerst als tijdschriftartikel in Foreign Affairs, omdat het zo beleidsmakers kon beïnvloeden: dit discours liet de VS immers toe om het denkpatroon van de Koude Oorlog voort te zetten. Veel bruikbaarder is echter een nieuwe mentaliteit die bewust is van de gevaren die de hele mensheid momenteel bedreigen: toenemende armoede, etnische en religieuze haat (Bosnië, Congo, Kosovo, Somalië, Tsjetsjenië, …), toenemend analfabetisme én een nieuw analfabetisme (inzake elektronische communicatie, TV en de informatiesnelweg).

Geschiedenis zou moeten gedenationaliseerd worden en moeten duidelijk maken dat we in een erg complexe en vermengde wereld leven, waarin culturen niet zomaar kunnen gescheiden worden: geschiedenis moet gedoceerd worden als een uitwisseling tussen culturen, zodat duidelijk wordt dat conflicten nutteloos zijn en slechts mensen isoleren. Heden geeft geschiedenis echter nog steeds mee dat wij het centrum van de wereld zijn.

Er moet tevens verschil blijven tussen culturen: zowel het willen uitvlakken van culturen als het willen doen botsen van culturen, zijn niet goed. We moeten streven naar coëxistentie van verschillende culturen, talen en tradities en dus deze verschillen bewaren in plaats van naar één wereldcultuur of – zoals Huntington en Lewis – naar oorlog te streven.

De foutieve oriëntalistische idee van de ‘Clash of Civilizations’ dient bestreden te worden door te onthullen wat er echt achter zit, door er over te debatteren, door onderwijs en door de Amerikaanse en Europese intellectuelen te doen beseffen wat een enorme impact de buitenlandse interventies van het Westen hebben op andere culturen. 

 
Noot


[1] De Hedjaz is een landstreek in Noordwest-Arabië, waartoe de heilige islamitische steden Mekka en Medina behoren. 

Referenties:


1. Boeken:

BARBER (Benjamin), Jihad vs. McWorld: how globalism and tribalism are reshaping the world, New York, Ballantine Books, 1996, pp. 389.

HUNTINGTON (Samuel), Botsende beschavingen, Antwerpen, Icarus, 1997, pp. 412.

LEWIS (Bernard), What went wrong? Western Impact and Middle Eastern Response, Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. VII + 180.

OWEN (Roger), State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East, Londen, Routlegde, 2007, pp. XVI + 279.

POLK (William), The Arab World Today, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1991, pp. 538.

SAÏD (Edward), Orientalism, Londen, Penguin, 2003, pp. 396.

SCHLESINGER (Arthur), The Disuniting of America, New York, Norton, 1992, pp. 160.

TIBI (Bassam), Conflict and War in the Middle East: From Interstate War to New Security, New York, Palgrave Macmillan, 1998, pp. 334.

2. Tijdschriftartikel:

LEWIS (Bernard), The Roots of Muslim Rage, in: The Atlantic Monthly, 1990.

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samedi, 09 juin 2012

L'Iran et l'Algérie, cibles de Washington et Ryad

L'Iran et l'Algérie, cibles de Washington et Ryad

Manoeuvres presque ouvertes de l'impérialisme américain et wahhabite


Michel Lhomme
Ex: http://mbm.hautetfort.com/

 
Les pays du Golfe avouent ouvertement souhaiter la création d’une alliance géopolitique autonome incluant au départ deux ou trois pays, dont l’Arabie Saoudite et le Bahreïn. Pourquoi cette soudaine précipitation? Les dirigeants du Conseil de coopération des États arabes du Golfe (CCG), qui comprend l’Arabie saoudite, le Koweït, Bahreïn, le Qatar, les Emirats arabes unis et le sultanat d’Oman, ne cachent pas leur inquiétude face aux ambitions régionales de l’Iran. Le Bahreïn, dirigé par la dynastie sunnite Al Khalifa, est, en particulier, le théâtre, depuis le début du « printemps arabe », d’une contestation de la majorité chiite, soutenue en sous-main par l’Iran, qui a des vues sur le territoire insulaire.
 
Un destin commun ?
 
Par ailleurs, le Qatar, l’Arabie saoudite mais aussi les Frères Musulmans d’Egypte, semblent déterminés à faire chuter l’Algérie. Anna Marie Lisa, présidente honoraire du Sénat belge, accuse ouvertement l'Arabie Saoudite «d’œuvrer à déstabiliser volontairement les frontières sud de l'Algérie », à travers notamment, le financement des salafistes et de groupes djihadistes. Pour l’Arabie saoudite, l'Algérie devra payer, tôt ou tard, pour avoir combattu le terrorisme durant les années 1990. Ceci se produit au moment où de l'argent, provenant de paiements de rançons d’otages européens et des spoliations en Libye arrivent, de la façon la plus illégale qui soit, aux terroristes sévissant dans la région, et plus particulièrement au Nord du Mali, devenu indépendant. En tout cas, cette déclaration confirme qu’il y a bien (ce que nous vous disons ici depuis plusieurs mois déjà: affaire libyenne etc) une déstabilisation en cours de l’Algérie, entretenue par des bailleurs de fonds saoudiens.
 
Eric Denussy, directeur du Centre français de recherches sur le terrorisme, et ancien officier des services secrets, a tiré récemment la sonnette d'alarme : «La situation est très grave. L'Algérie est considérée par le Qatar et l'Arabie Saoudite, et par l'alliance entre les USA et les Frères musulmans, comme le domino du « printemps arabe » qui n'est pas tombé et qui doit tomber, coûte que coûte». L'Otan et les Américains nul doute participent en secret à cette démarche de vouloir reconfigurer le Maghreb et le Machrek, ainsi que le Sahel, par terrorisme interposé et mercenaires richement payés. D’ailleurs, certains pays auraient largué des armes, profitant aux terroristes du GIA, devenu GSPC puis AQMI, après que les terroristes eurent été défaits en Algérie et qu’ils eussent fuient vers le Sud. Pour l’instant, après des législatives sans fraude véritable, l'Algérie, qui se sent menacée, tient bon et n'a pas chuté, malgré toutes ces tentatives de déstabilisation, y compris du côté marocain (le problème du Polisario évoqué au Conseil Européen).
 
Mais au Mali, la crise s’obscurcit et il est un peu difficile d’y voir vraiment clair. La moitié septentrionale de son territoire est toujours sous le contrôle de rebelles touareg, d’islamistes armés et de divers groupes criminels. Un nouveau groupe armé, dénommé Front de Libération Nationale de l’AZAWAD (FLNA), qui revendique 500 éléments, avait annoncé, le 8 avril, sa création dans le Nord-Est du pays. Il se proclame indépendant du groupe islamiste Ansar Dine, dirigé par Iyad Ag Ghali qui a participé aux accords d’Alger de 2006 entre Bamako, la rébellion touarègue et le Mouvement National de Libération de l’AZAWAD (MNLA).
 
 
Cette nouvelle formation se présente comme un mouvement laïc et explique sa création par l’abandon” de la région par l’Etat malien depuis des années. Il aurait pour objectif la libération de l’AZAWAD, l’instauration d’un climat de confiance entre ses communautés, la sécurisation des personnes et des biens et l’instauration d’un cadre de dialogue pour une paix durable” dans la région, dont le FLNA ne définit pas les limites géographiques et qui, par voie de conséquence, pourraient inclure des territoires algériens et nigériens !
 
Aux côtés de tous ces mouvements touaregs, religieux ou laïcs, du Nord Mali, on retrouve, bien entendu, des éléments du Polisario et ceux de l’AQMI, dont un des chefs, Mokhtar Belmokhtar, vient justement de refaire surface à Gao, avec ses partisans, à la faveur des enlèvements de sept diplomates algériens. Un autre groupe, et pas des moindres, a également signalé sa présence à Gao. Il s’agit du mouvement islamiste nigérian Boko Haram, mouvement violent et extrêmement puritain, très anti-chrétien et dont au moins une centaine d’éléments ont été signalés récemment au Nord du Mali. Par ailleurs, l’exécutif MNLA aurait proposé à l’Algérie son aide pour la libération des diplomates enlevés et son leader, Bilel Ag Cherif, aurait décidé d’enquêter sur les circonstances de ces enlèvements.
 
Face à cette nouvelle donne, les Algériens ont fermé leurs frontières avec le Mali. Mais une telle décision, aussi ferme soit-elle, reste toujours problématique dans cette région : parler de « fermeture des frontières » dans une zone de nomades, cela-t-il encore un sens ? Est-ce qu’elles ont jamais existé, d’ailleurs ? N’est-ce pas comme si on voulait arrêter le vent du sud de souffler ? C’est bien connu, les terroristes d’AQMI et les narcotrafiquants passent par les postes frontières et présentent leurs papiers aux douaniers, aux gardes frontières et aux militaires algériens qui grouillent dans le secteur sans pour cela être forcément inquiétés. Les dollars circulent.
 
L'Algérie prise au piège?
 
C’est pourquoi, à moins de construire un mur sur tout le parcours de cette frontière de plus de 1200 kms, il est réellement impossible de fermer cette passoire, où immigrants, terroristes et contrebandiers se faufilent comme bon leur semble. Le Sud algérien paraît donc bel et bien le ventre mou du pays dans lequel circulent des terroristes d’AQMI et des contrebandiers mais aussi des déstabilisateurs étrangers, payés par les Etats du Golfe.
 
Le ministère algérien de la Défense a annoncé avoir déployé des avions de transport militaires et des hélicoptères aux bases de l’extrême sud et a mis en état d’alerte maximum 3 000 hommes des forces spéciales de l’armée et des unités militaires de la sixième, troisième et quatrième région militaire, notamment dans les wilayas de Tamanrasset, Ghardaïa, Biskra, Bechar et Adrar. Certains se demandent, comme de faux naïfs : pourquoi l’Algérie n'avait pas, plus tôt, lutté contre AQMI et la criminalité transnationale ?
 
Pour l’AQMI, il était, sans doute pour elle plus judicieux de refiler le bébé au Mali (consolidation d’un glacis protecteur) et quant à la drogue venue de Guinée-Bissau, elle rapporte forcément beaucoup au passage. N’oublions pas que toutes les productions du pays (l’agriculture étant moribonde) se concentrent actuellement au Sud, au Sahara où se retrouvent toutes les richesses du pays (hydrocarbures, or, fer).
 
En conclusion, s’il est possible d’émettre l’hypothèse que l’enlèvement des diplomates algériens, la proclamation de l’indépendance de l’AZAWAD par un groupe proche d’Alger et la présence d’AQMI et autres groupes islamiques radicaux sont, directement ou indirectement, liés à l’Algérie, la grande puissance régionale du coin, il est indéniable que sur le terrain, l’opération malienne n’est pas seulement une opération montée de toutes pièces par les autorités militaro-civiles algériennes pour redorer leur blason à l’approche des élections législatives en Algérie.
 
Dans ce pullulement de groupes militarisés divers, la situation sur le terrain est bien trop confuse pour ne pas déceler aussi la rivalité de courants servant d’autres intérêts, comme ceux des monarchies du Golfe ou de l’OTAN, dans la perspective d’une déstabilisation cruciale de l’Algérie ou encore, discrètement, des intérêts chinois, dans la perspective d’un contrôle par Pékin du Niger tant convoité.
 
En tout cas, la seule chose assurée, c’est que, en dehors du coup d’Etat qui a ébranlé le pouvoir légitime au Mali, tous les événements qui secouent aujourd’hui le Nord de ce pays sahélien ne sont que la conséquence trouble d’un jeu de domino dangereux engagé par l’Otan, l’Occident et les pays du Golfe dans la région (Tunisie, Lybie, Egypte). En voulant déstabiliser demain l’Algérie, c’est le Maghreb, en tant que bloc institutionnel qui serait alors géopolitiquement menacé en tant que tel. La démarche algérienne pour contrer le terrorisme au Sahel aurait besoin, à la lumière du drame malien, d’une profonde mise à jour de ses tenants et aboutissants, voire même peut-être d’une petite aide de l'ex-mère patrie. Paris ne peut, sans conséquences directes, laisser tomber aujourd’hui Alger.

samedi, 02 juin 2012

La Turquie face au front Syrie-Irak-Iran

La Turquie face au front Syrie-Irak-Iran

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/


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Après avoir «perdu» la Syrie, la Turquie serait elle en train de perdre l’Irak?


- Cérémonie de fin de formation de recrues de l’armée irakienne à Kirkourk, dans le nord du pays. REUTERS/Ako Rasheed. -

Comme un air de déjà vu, déjà entendu. Après Bachar el-Assad, c’est au tour de Nouri al-Maliki, le premier ministre irakien, de renvoyer l’ancienne puissance ottomane dans ses cordes. Alors que les Turcs pouvaient, en Irak comme en Syrie, se prévaloir de beaux succès économiques et d’une percée politico-diplomatique, le climat entre Ankara et Bagdad se dégrade à grande vitesse (après celui entre Ankara et Damas, l’année dernière). La rupture n’est, ici, pas encore totalement consommée. Mais pour combien de temps encore?

Le 9 mai, Ankara refuse de livrer à Bagdad l’ancien vice-président irakien, Tarek al-Hachémi. Recherché pour avoir commandité l’assassinat de plusieurs officiels, objet d’une «notice rouge» d’Interpol, c’est un sunnite qui a regretté que l’Irak soit devenu un véritable couloir d’acheminement d’armes iraniennes à destination de la Syrie.

En avril, un autre rival du Premier ministre irakien, le président de la région kurde autonome d’Irak Massoud Barzani, avec lequel Ankara a noué d’étroits liens (commissions conjointes, ouverture d’un consulat turc, visites de ministres et omniprésence des entrepreneurs turcs) est reçu en grandes pompes.

Il  accuse Nouri al-Maliki de se conduire en dictateur et s’oppose à la vente par les Etats-Unis de F-16 à Bagdad. On voit mal l’ancien peshmerga Barzani lancer des opérations militaires contre le PKK (mouvement séparatiste kurde en guerre contre Ankara depuis 28 ans et dont les bases arrières se situent dans les montagnes d’Irak du nord) – ce serait un suicide politique. Mais le Président de la région kurde autonome d’Irak peut resserrer l’étau logistique et psychologique autour des rebelles qui sévissent, à partir de son territoire.

Les Kurdes d’Irak, partenaires fiables

Paradoxalement, Massoud Barzani, proche des Israéliens, constitue désormais le seul partenaire vraiment fiable des Turcs dans la région.

A peine les troupes américaines parties qu’en janvier, le ton était donné: trois roquettes tirées sur l’ambassade de Turquie à Bagdad. Cette attaque faisait suite au coup de téléphone de  Tayyip Erdogan à  Nouri al-Maliki,  durant lequel le Premier ministre turc se serait inquiété du sort fait au bloc Iraqiya d’Iyad Allawi, un  ancien baassiste, chiite,  opposé à Nouri al-Maliki et soutenu par la Turquie avec financements largement saoudiens. En jeu: l’équilibre confessionnel et politique de  la coalition gouvernementale mise laborieusement sur pied à la suite des élections de mars 2010.

Depuis plusieurs années, la Turquie intervient dans la politique intérieure irakienne, et ne s’en cache pas. Elle  cherche, selon Beril Dédéoglu, professeure turque de relations internationales, à  «limiter l’emprise d’al-Qaïda sur les sunnites et à gagner le cœur des chiites pour les détourner de l’Iran». 

«C’est en prenant de telles initiatives que la Turquie pourrait conduire la région au désastre et à la guerre civile», aurait rétorqué, une fois le combiné raccroché, le Premier ministre irakien.

Nouvelle passe d’armes verbales, crescendo, en avril. Après avoir été  accusé par son alter égo turc de monopoliser le pouvoir, d’«égocentrisme» politique et de discriminations à l’égard des groupes sunnites dans son gouvernement, Nouri al-Maliki  déclare que la Turquie est sur le point de se transformer en un «Etat hostile» pour «tous».

Téhéran, puissance de référence

C’est «la fin d’une période d’innocence: les Turcs commencent à prendre des coups au Moyen-Orient, ce qui n’est pas nouveau, mais ça l’est pour l’AKP (le parti islamo-conservateur au pouvoir depuis 2002), suggère le chercheur Julien Cécillon. L’Irak et par extension le Moyen-Orient, deviennent plus une zone à risque qu’un espace d’opportunités pour la Turquie», selon le co-auteur de «La Turquie au Moyen Orient, le retour d’une puissance régionale?» (dirigé par D. Schmidt, IFRI, 2011).

En couverture de l’ouvrage publié en décembre 2011, une photo montre R .T Erdogan et N. al-Maliki, debout côte à côte et au garde-à-vous sur le tarmac de l’aéroport de Bagdad. La photo qui veut symboliser le «nouvel espace de déploiement de la puissance turque» ne remonte qu’à 2009. Elle parait pourtant presque «datée», d’une autre époque : quand certains faisaient référence au «modèle turc» et  la Turquie se flattait d’être une «source d’inspiration» pour les pays arabes.

Les Turcs sont en train de réaliser qu’ils ont aussi peu d’influence sur Nouri al-Maliki qu’ils n’en avaient sur Bachar al-Assad. Et que Téhéran reste la puissance de référence,  à Bagdad comme à Damas. Mais «Ankara a déjà les mains pleines avec Assad et  souhaite  éviter un autre scénario de choc!», analyse Sinan Ulgen, également chercheur associé à Carnegie Europe à Bruxelles. Or comme la Syrie, l’Irak est crucial pour les ambitions régionales de la Turquie.

D’abord économiquement: les routes d’Irak sont essentielles pour que les camions turcs –désormais interdits de Syrie— accèdent aux marchés proche-orientaux. L’instabilité politique irakienne empêche la croissance économique du pays sur laquelle misent les hommes d’affaires turcs (la grande majorité des compagnies étrangères en Irak sont turques et ce sont elles qui reconstruisent le pays). De même qu’elle bride l’exploitation des richesses pétrolières et gazières pour l’acheminement desquelles la Turquie constitue un important pays de transit.

Paix froide Ankara-Téhéran

Et puis, «la déstabilisation du pays, quelques mois après le rapatriement des troupes américaines est de mauvaise augure pour le maintien de l’ordre politique en Irak», prédit Sinan Ulgen, directeur d’Edam, un think-thank turc. «Les risques d’une désintégration de l’Irak sont bien plus élevés qu’en Syrie», ajoute la professeure Béril Dédéoglu, et pourraient conduire à la  constitution d’un Etat kurde indépendant au nord du pays. Une perspective que craignent les autorités civiles et militaires turques, en guerre depuis 28 ans contre «leur» propre mouvement séparatiste kurde, le PKK (parti des travailleurs du Kurdistan).

Soner Cagaptay du  Washington Institute for Near East Policy nuance: «Ankara juge que le gouvernement de Maliki est autoritaire et qu’il prend ses ordres à Téhéran. Mais elle ne s’affole pas autant qu’elle a pu le faire par le passé d’une division de  l’Irak».  

L’idée d’un Kurdistan indépendant au nord de l’Irak ne constitue donc plus un cauchemar absolu pour Ankara. «Pour autant qu’il conserve les gisements pétroliers de Kirkouk, obtienne un quasi contrôle de Mossoul, et ne s’adjoigne pas une partie du territoire kurde de Syrie!», précise Béril Dédéoglu, spécialiste de relations internationales parfois consultée par le gouvernement turc. Lequel aurait eu connaissance des plans d’indépendance «déjà prêts» de Massoud Barzani.

On assiste donc actuellement au réalignement de Bagdad aux côtés du régime syrien et de l’Iran face à une Turquie qui soutient, elle, l’opposition au régime de Bachar al-Assad. «Il est probable que Téhéran continue à encourager Bagdad contre  Ankara,  en espérant qu’en retour la Turquie s’inclinera face à Assad», avertit Soner Cagaptay. Longtemps en «paix froide», les pouvoirs turc et iranien se sont rapprochés ces dernières années, mais en 2011 Téhéran a très mal pris qu’Ankara autorise l’installation du bouclier antimissile aérien de l’Otan sur son territoire.

C’est donc peut-être un front Iran-Irak-Syrie qui se dessine face à une Turquie moins repliée sur elle-même. L’esquisse d’une recomposition régionale?

L’un des scénarios verrait la Turquie à la tête d’un bloc sunnite, peut-être allié à l’Occident, et opposé à l’Iran et son fameux «croissant chiite» dont la continuité territoriale («du Tadjikistan au sud-Liban») aurait été contrariée par la dislocation de l’Irak et la création d’un Etat kurde au nord avec une entité sunnite au centre du pays.

Un tournant stratégique «sunnite» pour la Turquie, dont la politique étrangère à l’égard de la Syrie, et dans une moindre mesure de l’Irak ne fait cependant pas du tout l’unanimité: ni dans son opinion publique (en particulier dans la minorité alévie, une branche proche des chiites) ni pour le principal parti d’opposition (CHP, le parti républicain du peuple) ni même, en ce qui concerne la Syrie, jusqu’au président de la République de Turquie, Abdullah Gül.

Ariane Bonzon

samedi, 26 mai 2012

Samuel Huntington aurait-il raison?

 
Samuel Huntington aurait-il raison  - Ardavan Amir-Aslani constate l'irruption du fait religieux en politique

Samuel Huntington aurait-il raison?

Ardavan Amir-Aslani constate l'irruption du fait religieux en politique

Ex: http://metamag.fr/
 
On avait, en même temps que Georges Bush, enterré Samuel Huntington, dont le concept du "choc des civilisations" donnait une prééminence aux oppositions culturelles-civilisationnelles , dans lesquelles le substrat religieux tiendrait une place centrale. Or, la religion reste au centre du champ  de réflexion retenu par Ardavan Amir-Aslani dans son ouvrage, "La guerre des dieux" (Nouveau Monde édition), qui a, bien entendu, intégré tous les mouvements du monde arabe.
 
Ardavan Amir-Aslani
 
Iranien d'origine, avocat dans une grand cabinet d'affaire parisien et président de la chambre de commerce France-Azerbaïdjan, il a livré quelques réflexions à la journaliste Caroline Castets pour Le Nouvel Economiste.
Flavia Labau
 
"En février dernier, tout le monde y croyait. Le Printemps arabe avait eu raison des dictatures du passé. Un formidable élan démocratique soufflait sur les pays musulmans. Un an plus tard, Ardavan Amir-Aslani rectifie. Ce n’est pas à “plus de démocratie, plus de droits de l’homme et plus de laïcité” que ces soulèvements ont abouti, mais bien “au mouvement inverse”. D’où sa suggestion de ne plus qualifier ces événements de “Printemps” mais d’ “Hiver arabe”, seule image conforme, selon lui, à “la régression inéluctable” à laquelle vont mener ces révolutions.
 
La vision est sévère. Le diagnostic, sans appel. C’est que, pour l’auteur de La Guerre des dieux, la descente du monde arabe dans ce qu’il appelle son “Moyen Age” a déjà commencé. Depuis que, par les urnes ou sous couvert de conseils de transition, les islamistes ont remplacé les dictateurs. Depuis, surtout, que le fait religieux a fait intrusion dans la vie politique. Constat d’autant plus inquiétant qu’il vaudrait pour l’ensemble de la planète où, partout, se multiplient les “irruptions du fait religieux en politique”.
 
Une tendance aux effets déjà perceptibles – repli sur soi, montée des communautarismes, peur de l’autre… – et qui devrait encore s’accentuer avec la mondialisation qui, contrairement à une autre illusion largement répandue, ne nous mènerait pas “vers un monde homogène porté par des valeurs communes” mais “vers une segmentation de la communauté planétaire par ethnies et par religions”. Seul espoir : voir la France assumer son rôle essentiel de “lien entre l’Orient et l’Occident” en se souvenant, pendant qu’il en est encore temps, de ses convictions républicaines. Celles-là mêmes qui, il y a plus de deux siècles, lui ont permis, précisément, de séparer fait religieux et vie politique.
 
“Il y a un an, tout le monde a voulu voir dans le Printemps arabe une formidable avancée démocratique mais pour moi, c’est le mouvement inverse qui s’est produit. Loin d’avoir l’effet escompté, ces révolutions ont poussé le monde arabe vers une régression en permettant l’intrusion du fait religieux dans la vie politique. Et malheureusement, c’est un constat qui, loin de se limiter à ces pays, doit être généralisé puisque partout dans le monde, les réactions et les orientations politiques apparaissent de plus en plus marquées par le fait religieux.
 
Michele Bachmann : un message dicté par dieu
 
L’Amérique – où l’on pourchasse le médecin qui pratique l’IVG et où de plus en plus de candidats font campagne sur un message ultra-conservateur, à commencer par Michele Bachmann qui disait son message dicté par Dieu – en est un exemple. La Russie où l’Eglise orthodoxe est de plus en plus présente, en est un autre. Même chose en Chine, où le pouvoir s’efforce d’amoindrir le rôle de l’Eglise catholique sur place et bien sûr en Afrique où le cas de la Libye, entre autres, est particulièrement saisissant, les trois premières décisions du CNT ayant eu pour effet de rétablir la charia, de légaliser la polygamie et d’interdire la mixité à l’école publique. Ce qui n’est pas ce que j’appellerais du progrès.
 
Religion et vie civile
 
Autres exemples de cette poussée religieuse dans la vie civile comme dans le domaine politique : la Syrie, au sujet de laquelle l’archevêque de Beyrouth avait déclaré : “pourvu que Bachar al-Assad ne tombe pas, sinon, cela sera le massacre des chrétiens de Syrie”, l’Egypte, où la minorité chrétienne fait régulièrement l’objet de massacres, ou encore le Bahreïn dont personne ne parle parce qu’il s’agit d’un royaume plus petit que Manhattan mais qui est le théâtre d’une quasi-apartheid. Le pays compte 25 % de sunnites, face à 75 % de chiites et cette majorité fait l’objet d’un racisme absolu avec interdiction de servir dans l’armée, d’exercer des fonctions importantes dans la fonction publique, etc.
 
En Pologne, l’Eglise est omniprésente sur le dossier de l’avortement et en France, on constate quasi quotidiennement cette incursion de plus en plus marquée du religieux dans la vie publique. Que ce soit lorsque les Musulmans de France manifestent autour de la polémique sur le port du voile ou lorsqu’une pièce de théâtre déchaîne la colère d’extrémistes chrétiens. Quelle que soit la zone géographique, il suffit de regarder l’actualité pour constater que le fait religieux est en constante éruption.
 
Hiver arabe
 
Cette poussée religieuse est récente. Prenez un Larousse des années 1977-78 : le terme de fondamentaliste n’y figurait pas. Pas plus que celui d’islamiste. Ce n’est qu’au début des années 80, avec la révolution iranienne, que ces termes font leur apparition dans le langage public. Parce que l’ayatollah Khomeyni est arrivé au pouvoir et qu’il a instauré une théocratie. Pour moi, il est clair que tous les problèmes du monde musulman découlent de cet événement. La guerre en Iran-Irak, l’opposition sunnites-chiites… Jusqu’au Printemps arabe qui devait aboutir à plus de démocratie, plus de droits de l’homme, plus de laïcité mais qui, au final, avec cette nouvelle mixité religieux-politique, a débouché sur le mouvement inverse. C’est pourquoi il faut cesser de parler de Printemps arabe et utiliser l’expression adéquate pour qualifier ces événements.
 
En l’occurrence, même le terme d’“Automne arabe” apparaît trop optimiste. Seul celui d’Hiver arabe” reflète la réalité de ce qui va suivre. La régression inéluctable vers laquelle va mener ces révolutions. Ce qui n’est en réalité une surprise pour personne puisque toutes les différentes dictatures de ces pays n’étaient maintenues au pouvoir qu’afin d’empêcher la montée de l’islamisme. Moubarak le disait : “Si ce n’est pas moi, ce sera les Frères musulmans.” Et la suite a prouvé qu’il avait raison. On a donc mis fin aux dictatures pour voir arriver au pouvoir des gens qui réintroduisent la charia dans la société civile. Des gens qui prennent par les urnes ou sous couvert de conseils de transition un pouvoir que, bien évidemment, ils ne restitueront jamais ; si bien qu’ils vont détruire le schéma démocratique qui les a eux-mêmes amenés au pouvoir. Et pour légitimer leur action, ils diront tenir leur pouvoir de Dieu.

La montée de l’islamisme
 
C’est l’un des grands avantages de l’islamisme : dès lors que vous vous positionnez comme étant celui qui matérialise la parole divine sur terre, comme une autorité de fait, personne ne peut plus s’opposer à vous. Celui qui le ferait serait un mécréant, un infidèle. Hors de l’islam, pas de salut. Voilà pourquoi cette religion implique forcément une forme prosélytisme, de guerre sainte…
 
 
L’autre atout des islamistes tient évidemment au fait qu’ils sont les seuls à être organisés et prêts à exercer le pouvoir, mais aussi au fait qu’ils sont souvent la seule forme de gouvernement qui n’a pas encore été essayée par ces pays. Les Irakiens, par exemple, ont essayé le baasisme, le socialisme, le capitalisme, le soviétisme, l’occidentalisme… et chaque fois, ils ont fini avec la même corruption, les mêmes tragédies de société, la même absence de démocratie. La seule chose qu’ils n’ont pas essayée, c’est l’islam. Et comme le Coran est censé détenir les réponses à toutes les questions qu’on peut se poser, cela apparaît très rassurant.
 
C’est pourquoi les pays arabes jusqu’alors dotés de régimes pro-occidentaux et séculiers vont désormais connaître des régimes anti-occidentaux et religieux. Prenez le cas de l’Egypte où les chrétiens coptes sont pourchassés dans les rues d’Alexandrie et abattus par dizaines ; prenez celui du Pakistan et de l’Afghanistan où, une fois les Américains partis, les talibans vont revenir… Il n’y a pas un exemple qui aille à l’encontre de cette vision des choses. C’est pourquoi j’en suis convaincu : exception faite de l’Iran qui a été le premier à entrer dans l’islamisme et sera le premier à en sortir en grande partie parce que 75 % de sa population a moins de 35 ans et est à la fois éduquée et connectée, le monde arabe va s’orienter vers le fanatisme religieux.
 
La double tragédie
 
A l’origine de ce mouvement, il y a la double tragédie du monde arabe. La première est une tragédie philosophique qui tient au fait que l’islam a connu sa Renaissance – avec l’astronomie, les grands mathématiciens… – avant de basculer dans le Moyen Age tel qu’il s’apprête à le vivre aujourd’hui : avec la polygamie, l’idée qu’un homme vaut plus qu’une femme et un musulman plus qu’un chrétien ou un juif, etc. Si bien que contrairement à l’Occident, l’évolution de ces pays prend la forme d’une régression. La seconde tragédie du monde arabe est liée au népotisme qui a longtemps caractérisé ces différents Etats. Ben Ali est resté au pouvoir 27 ans, Moubarak, 32 ans, Abdallah Saleh, au Yemen, 33 ans, Kadhafi, 42 ans. A cela s’ajoute l’extrême corruption, dans des pays qui sont riches et dont la population est jeune, éduquée et sans avenir.
 
Ce qui explique qu’en Algérie et au Maroc, les gens préfèrent nager à travers le détroit de Gibraltar pour être ensuite pourchassés en Espagne plutôt que de rester chez eux. Encore une fois ces pouvoirs-là étaient maintenus par les dirigeants du monde entier pour une unique raison : leur effet stabilisateur. Aujourd’hui que l’on voit ces régimes disparaître et le changement arriver, à défaut de pouvoir s’y opposer, mieux vaut l’accompagner dans l’espoir de retarder l’éclatement du conflit. Celui-ci aura lieu, c’est inéluctable. Car pendant que le monde arabe va vivre son Moyen Age, le reste du monde va continuer à se mondialiser et à se moderniser si bien que c’est un véritable conflit de civilisations qui se profile.
 
Conflit de civilisations
 
Je crois qu’on est parti au moins pour un siècle d’hostilités. Celles-ci ne devraient pas prendre la forme d’une guerre ouverte – l’Occident a aujourd’hui encore quelques atouts qui font que la guerre n’est pas une option envisageable – mais plutôt d’un refus marqué de l’Occident en Orient et d’un nombrilisme croissant en Occident. C’est déjà ce que l’on voit aux Etats-Unis où les Américains cherchent aujourd’hui à se replier sur eux-mêmes et affichent, dans leurs discours, un certain rejet de l’Europe et de ses difficultés actuelles. Un redressement économique aurait probablement un effet apaisant, mais il y a d’autres critères à prendre en compte. L’argent seul ne suffit pas. Aujourd’hui, ce que les gens veulent retrouver en priorité, c’est leur dignité. Cette dignité que nous prenons pour un acquis en Occident et qui reste un rêve pour eux. Que la police ne les gifle pas quand ils passent dans la rue, qu’elle ne leur fasse pas payer la rançon pour leur commerce…
 
A cette revendication naturelle s’ajoute une incapacité à accepter et à respecter la différence qui fait que les musulmans entre eux, sur leur propre territoire, ne parviennent pas à cohabiter. Comment pourraient-ils le faire avec le reste de la planète ?
 
Dernier élément aggravant : le fait que le monde arabe a une revanche à prendre sur son passé. Ces pays ont été colonisés, ils ont été humiliés, ils estiment qu’ils continuent à l’être au travers du conflit Israël-Palestine. Ils veulent s’affirmer. Et aujourd’hui, ils le font en rejetant nos valeurs. Le foulard dans les rues de Paris ou dans les rues du Caire, c’est bien cela : le rejet patent d’une valeur d’égalité entre l’homme et la femme et, à travers lui, un déni de l’accès de la femme au travail, à l’éducation. C’est un refus de ce qu’est l’Occident. Et face à cela nous ne pouvons rester indifférents.
 
La mondialisation
 
Encore une fois cette tendance à la politisation du fait religieux est générale. Partout dans le monde, la religion entre en politique. Les gens se retranchent. Et loin de freiner cette tendance, la mondialisation a pour effet de l’accentuer. Contrairement à ce qu’on pense, on ne va pas vers un monde homogène porté par des valeurs universelles communes mais vers une segmentation de la communauté planétaire par ethnies, par religions. Pour moi, cela s’explique par le fait que la religion est devenue un élément identitaire et que, à l’heure actuelle, on manque d’autres éléments d’identification. Le port du voile est un cri identitaire, tout comme la croix visible. Sauf que chez certains, ce n’est que cela et chez d’autres, c’est l’élément dominant d’une personnalité, ce qui prime et l’emporte sur toutes les valeurs occidentales.
 
 
Si bien qu’on ne va pas vers un melting-pot mais vers des séparations de plus en plus marquées, avec tous les risques que cela comporte en matière de montée des communautarismes et l’éventualité d’aboutir à une situation où les gens ne s’identifient que par leur communauté religieuse. Pour l’heure, la position européenne face à ces mutations est teintée d’angélisme. C’est pourquoi il faut se ressaisir : penser aux droits de l’homme, à la république, aux valeurs de la révolution qui ont permis de séparer gouvernance politique et fait religieux ; et parallèlement, être conscient d’un monde qui change et dans lequel on n’est plus les premiers. Puisque quand on en est à envisager de faire appel à la Chine pour renflouer les banques européennes, on cesse d’être crédible et on ne peut plus vivre sur la gloire du passé.
 
L’exclusion
 
Dans ce contexte les sentiments s’exacerbent. C’est pour cela qu’on voit resurgir les mêmes thèses supposément rassurantes et portées par le même discours anti-immigration, sécurité… Il faut bien comprendre qu’aujourd’hui, les craintes des gens ne se limitent pas à être exclus du droit au travail. Cette peur-là, on vit avec depuis 30 ans. Ce qu’ils redoutent, c’est l’exclusion du droit au logement, du droit au soin, du droit à l’éducation. Il y a 40 ans, lorsqu’on disait “exclu” on pensait “chômeur”. Aujourd’hui, on pense “SDF”, ce qui montre bien à quel point le malaise social s’est aggravé. On n’est plus seulement dans le “je n’ai pas de boulot”, on est dans “j’ai mal”.
 
A l’origine de tout cela il y a certes des facteurs économiques mais aussi cette incursion du religieux en politique et dans la vie civile qui génère une peur de l’autre. C’est cette peur qui nous alimente l’absence de dialogue et, insidieusement, nous mène au conflit.
 
Le rôle de la France
 
En dépit de cette peur rampante, la France reste sans doute le seul pays, avec les Etats-Unis, à pouvoir s’enorgueillir de porter le message universel, républicain et laïc. Ce qui explique qu’elle a un rôle majeur à jouer dans le contexte actuel : elle doit être un lien entre l’Orient et l’Occident, entre l’Est et l’Ouest, comme elle l’a d’ailleurs toujours été. Et pourtant, elle semble absente. Détachée des enjeux du moment. Sa politique étrangère est intégralement calquée sur celle des Etats-Unis et pendant ce temps, le vide qu’elle laisse n’est pas comblé. C’est dans cet espace laissé vacant, dans cette absence de lien avec l’Occident et ses valeurs que s’engouffrent les islamistes et que le ressentiment enfle. Et que se passe-t-il lorsque les véhicules de transmission de valeurs cessent d’être présents ? On s’enracine chez soi et on regarde l’autre en face avec envie.
 
Politique étrangère
 
Le malaise est encore accentué par le fait que la politique étrangère de la France sur le Moyen-Orient et sur le monde musulman dans son ensemble est une politique marquée dont les entreprises françaises paient le prix. Car il est bien clair que, pour elles, l’obtention de grands contrats au sein de ces pays du monde arabe est associée à l’image de la France là-bas. Ce qui fait du choix d’une entreprise française un choix politique autant qu’économique. Or certaines positions politiques de la France sont perçues comme injustes ou excessives. Comme le fait que le gouvernement français ait pu être proche de Ben Ali et totalement opposé à Ahmadinejad. Ou encore que Kadhafi, qui était un fou furieux, ait été reçu à Paris et ait pu planter sa tente dans les jardins de l’Elysée alors que, parallèlement, ce même gouvernement français appelle au boycott de la Banque centrale iranienne. Pourquoi composer avec certaines dictatures et se montrer inflexibles avec d’autres ? C’est ce qui, pour beaucoup, reste difficile à comprendre.

Repli sur soi
 
Pour toutes ces raisons, j’ai du mal à croire en un avenir proche apaisé entre Orient et Occident ; en une cohabitation sereine et respectueuse des différences de chacun. Ce que je vois se profiler, en revanche, c’est un monde occidental replié sur lui-même avec des échanges extrêmement difficiles avec le monde musulman. Les visas vont être de plus en plus rares et le dialogue de plus en plus ténu. Tant sur le plan culturel que militaire, parce que toute la communauté éduquée de ces pays voudra fuir et que, bien évidemment, l’Europe ne pourra accueillir tout le monde. 
 
Afghanistan : le retour des talibans
 
Et c’est pourquoi le réveil pour tous ces pays qui croyaient avoir gagné leur liberté promet d’être brutal. Lorsque les gens réaliseront que les bouleversements récents ont entraîné une forte diminution de la manne que représentait pour eux le tourisme, lorsqu’ils prendront conscience de qui détient désormais le pouvoir et des effets induits sur la vie civile et que, au final, ils se retrouveront encore plus démunis aujourd’hui, dans cette soi-disant liberté, qu’il y a un an. Pire que tout, les gens vont constater – beaucoup l’ont d’ailleurs déjà fait – que les dictateurs sont peut-être partis, mais que les dictatures demeurent. Via ce qui reste de leur gouvernement, de leur armée ou via les islamistes.”
 
Les titres et sous-titres sont de la rédaction
Caroline Castets pour lenouveleconomiste.fr

jeudi, 17 mai 2012

L'Europe est en proie à une islamisation forcée à ses portes

 

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L'Europe est en proie à une islamisation forcée à ses portes. Les Balkans sont victimes d'une radicalisation financée par l'Arabie Saoudite.

 

Des manifestations qui témoigneraient de l’émergence d’un islam radical en Macédoine

Les Albanais de Macédoine se sont rassemblés dans plusieurs villes du pays vendredi (11 mai) pour protester contre l’arrestation de suspects lors d’une opération de police dans une affaire de quintuple meurtre. La presse régionale a interprété ces manifestations comme un signe de la radicalisation des islamistes du pays.

Des milliers de personnes d'ethnie albanaise ont manifesté contre l'arrestation de trois hommes accusés d'avoir tué cinq Macédoniens le mois dernier.

Les photos montrent de nombreux manifestants qui brandissent des drapeaux saoudiens, certains portant des T-shirts avec des inscriptions comme « L'Islam dominera le monde ».

Le 13 avril dernier, les corps de cinq pêcheurs macédoniens ont été découverts près d'un lac du village de Smiljkovci, au nord de Skopje. Quatre des victimes avaient autour de 20 ans. Le cinquième homme avait environ 40 ans. Le 1ermai, la police a arrêté 20 personnes suspectées du quintuple meurtre, y compris des islamistes radicaux qui se seraient battus aux côtés des talibans en Afghanistan.

Les manifestants ont scandé des slogans tels que « UCK » (l'ancien mouvement de libération du Kosovo dans les années 1990), « On se retrouvera dans les montagnes » et « La Grande Albanie ». Ils auraient également jeté des pierres aux forces de police, a rapporté le SETimes.

Ce site d'information a en outre affirmé que les manifestants avaient attaqué les bureaux de la municipalité de Skopje dont le maire, Izet Medziti, appartient au parti albanais de l'Union démocratique pour l'intégration (DUI). « Ils ne veulent clairement pas coexister : leurs slogans trahissent l'objectif d'abuser de l'Islam pour créer un Etat purement ethnique qui alimenterait les conflits dans la région. Les slogans en faveur du Parti démocratique des Albanais trahissent également l'implication de certains partis politiques qui souhaitent profiter de cet abus de la religion », a déclaré au SETimes Ivan Babanovski, ancien professeur d'études stratégiques et de sécurités.

L'agence de presse serbe Tanjug a rapporté que les manifestants portaient des bannières critiquant le gouvernement macédonien et le premier ministre, Nikola Gruevski, qu'ils ont qualifiés de « terroriste » et de « Chetnik » en référence au mouvement nationaliste serbe qui a usé de la tactique de la terreur contre les musulmans. Ils ont traité les membres des forces de police de meurtriers.

Sur leurs bannières, les manifestants ont également écrit que les Serbes et les Macédoniens étaient responsables du meurtre des cinq hommes.

Des manifestations auraient également eu lieu dans les villes de Gostivar et Tetovo.

Nombreux sont les experts et les Macédoniens qui pensent que ces manifestations ont pour but de déstabiliser la Macédoine en amont du sommet de l'OTAN à Chicago les 20 et 21 mai prochains. L'adhésion à l'OTAN de la Macédoine a été bloquée en 2008 suite à un conflit toponymique entre Athènes et Skopje.

Certains experts craignent aujourd'hui que les Albanais de Macédoine tentent à nouveau de créer un Etat albanais à l'ouest du pays.

Selon des professionnels de la sécurité, environ 5000 islamistes aguerris des guerres en Bosnie-Herzégovine, au Kosovo et du précédent conflit en Macédoine vivent dans la région.

Dvezad Galijašević, un membre de l'équipe d'experts d'Europe du Sud-est pour la lutte contre le terrorisme et le crime organisé, a déclaré à SETimes que les adeptes du wahhabisme étaient bien plus nombreux. Il a expliqué que les pays de la région devraient rompre les circuits financiers du wahhabisme et arrêter les leaders et les membres les plus importants de ces mouvements qui promeuvent la violence.

EurActiv.com - traduit de l'anglais par Amandine Gillet

 

lundi, 14 mai 2012

Daguir Khassavov, avocat, a appelé à instaurer la charia à Moscou

Daguir Khassavov, avocat, a appelé à instaurer la charia à Moscou. "Nous estimons que nous sommes ici chez nous. Peut-être est-ce vous qui êtes les étrangers. Nous sommes chez nous, et nous allons instaurer les règles qui nous conviennent...". Fracassantes déclarations !
 
"Impressions de Russie"

par Hugo Natowicz

Ex: http://mbm.hautetfort.com/
 
Parfois, les mots ont la puissance des coups. La Russie a été sonnée la semaine dernière par les déclarations fracassantes d'un avocat, Daguir Khassavov, qui a appelé à instaurer la charia à Moscou dans une interview à la chaîne REN-TV. Dans un pays où cohabitent depuis des siècles de nombreuses ethnies et confessions, ce type de déclaration jette un froid. Mais c'est le ton, extrêmement violent, qui a en outre posé problème.


"Nous estimons que nous sommes ici chez nous. Peut-être est-ce vous qui êtes les étrangers. Nous sommes chez nous, et nous allons instaurer les règles qui nous conviennent, que cela vous plaise ou non. Toute tentative pour l'empêcher entraînera une riposte sanglante (…). Nous noierons Moscou dans le sang", a notamment lancé l'avocat, qui a par la suite jugé bon de quitter la Russie pour l'Europe, afin de se soustraire à des poursuites pour "extrémisme".


Pour arriver à ses fins, M. Khassavov compte créer une "Union musulmane" qui réunira les musulmans du monde entier, et instituer dans ce cadre un système judiciaire basé sur la charia. Le responsable expliquait dans l'interview que la justice islamique existait d'ores et déjà, la police russe déléguant régulièrement un certain nombre de dossiers aux responsables religieux dans le cas d'affaire ayant trait aux communautés caucasiennes.


Les responsables musulmans de Russie ont unanimement condamné ces propos, et évoqué une "provocation" destinée à discréditer l'islam en Russie, dans le sillage des attaques dont l'église orthodoxe a récemment été victime. Quelques recherches permettent effectivement de constater que M. Khassavov n'est pas vraiment un "extrémiste", plutôt un provocateur à la personnalité conflictuelle. La diatribe de M. Khassavov a néanmoins fait sauter un tabou, et dénote une banalisation inquiétante des discours.


Une réaction étonnante a émané, contre toute attente, de l'Eglise orthodoxe russe. Le président du Département synodal pour les relations de l'Eglise avec la société, Vsevolod Tchapline, n'a pas exclu l'hypothèse d'une légalisation des tribunaux islamiques. "Il ne faut pas brider la communauté musulmane dans ses possibilités de vivre selon ses propres règles. C'est précisément cette voie qui je pense est d'actualité aussi bien pour la Russie que pour l'Europe occidentale. Mais il est évident qu'il ne faut pas imposer ces règles à d'autres personnes, en dehors sa communauté", a-t-il indiqué. Une déclaration peut-être intéressée, à l'heure où l'Eglise orthodoxe souhaite elle-même s'impliquer plus avant dans la vie politique et morale du pays.


Islams de Russie


Les déclarations de M. Khassavov appellent quelques précisions. Y a-t-il un islam de Russie, unique et indivisible? On peut se demander s'il ne faudrait pas plutôt parler d'"islams russes". Non pas par attachement à la mode de la 'pluralisation', mais parce que l'islam des Tatars et des Bachkirs (islam "eurasiatique") est historiquement intégré à la culture russe, dont il est une composante à part entière. Un deuxième "islam", celui du Caucase, se superpose parfois à des problématiques claniques et à un contexte conflictuel ancien avec la Russie, notamment sur fond de guérilla larvée à laquelle participent des combattants étrangers. Un troisième type d'islam peut être mentionné: celui des migrants en provenance d'Asie centrale, qui alimentent la main-d'œuvre des villes russes. Il est à noter que ces courants n'ont que peu de choses en commun, doublés qu'ils sont d'importantes différences culturelles et ethniques. Au niveau organisationnel, la structure de l'islam est divisée en organisations qui entretiennent de sérieux conflits, notamment celui opposant la Direction spirituelle des musulmans de Russie et le Conseil des muftis de Russie.


Derrière des divisions évidentes, on note toutefois la porosité croissante de l'islam de Russie devant les courants fondamentalistes venus du Moyen-Orient, dont les régions du Caucase sont le principal relais. Un récent rapport consacré à la situation criminogène en Russie en 2011 réalisé par la Parquet général de Russie indiquait qu'un nombre croissant de jeunes musulmans réalisant des séjours d'étude en Arabie saoudite, en Egypte, en Turquie, en Syrie, en Iran et au Pakistan, deviennent "régulièrement à leur retour des émissaires d'organisations terroristes et extrémistes". Rien qu'en 2011, environ 100 jeunes originaires du Daguestan ont réalisé des séjours dans des centres religieux à l'étranger. Au cours de la dernière décennie, ce nombre a atteint 1.500 personnes.


L'influence croissante du Moyen-Orient et de ses dynamiques sur l'islam russe commence à soulever, comme le dénotent les déclarations de M. Khassavov, des questionnements nouveaux. Les musulmans de Russie seront-ils tentés par un islam supranational, niant frontières et cultures, dont l'objectif à terme sera la création d'un "émirat", selon les propres termes de l'avocat tchétchène dans son interview? Il semble toutefois que la polémique liée aux propos de M. Khassavov ne soit pas de nature uniquement religieuse: elle recouvre une problématique ethnique et sociale, inscrite dans le sillage du conflit ancestral opposant Russie et Caucase, et des difficultés qu'ont parfois connues ces populations à coexister.


Il est plus probable que les Russes musulmans luttent pour conserver les acquis d'une religion enracinée historiquement, qui constitue une des facettes d'une "russité" bâtie au fil des siècles. Il s'agirait alors de défendre un "islam européen" et respectueux de la laïcité, selon les mots de l'ancien président tatar Mintimer Chaïmiev. Une tendance assez forte pour constituer un contrepoids efficace aux provocations commes celles de M. Khassavov.

mardi, 01 mai 2012

Maron, Mosebach und der Islam in Deutschland

 

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Maron, Mosebach und der Islam in Deutschland

Martin LICHTMESZ

Ex: http://www.sezession.de/

Der Feind ist die eigene Frage als Gestalt, formulierte Carl Schmitt. Ob man den Islam pauschal als „Feind“ einstuft oder nicht: seine wachsende Präsenz in Deutschland wie in ganz Westeuropa wirft Fragen über die eigene Identität auf, denen kaum mehr auszuweichen ist und die über kurz oder lang einen Entschluß erzwingen werden. Insofern kann man den koranverteilenden Salafisten geradezu dankbar sein, daß sie die Öffentlichkeit mit der Nase auf eine gern verdrängte Problematik stossen – nicht zuletzt auf die Frage, wer wir eigentlich selbst sind.

Der berüchtigte Satz des unseligen Christian Wulff, wonach der Islam zu Deutschland „gehöre“, hat nun erneut von zwei verschiedenen Seiten Einspruch erhalten. Da wäre zum einen die 1941 geborene Schriftstellerin Monika Maron, die erkannt hat, daß gutgemeinte Umarmungen und Eingemeindungen dieser Art keineswegs die real bestehende Kluft überbrücken können:

Ehe dieser Satz so unkommentiert in den Boden des deutschen Grundgesetzes gerammt wird, sollte wenigstens für alle deutschen Staatsbürger hinreichend erklärt werden, welche Konsequenzen er nach sich zieht und welche Kollisionen mit anderen Selbstverständlichkeiten, die seit der Aufklärung zu Deutschland gehören, unausweichlich wären.

Die Salafisten belehren uns gerade, wie es aussieht, wenn Muslime den Koran tatsächlich so ernst nehmen, wie er es von ihnen verlangt. Wer auf YouTube gesehen hat, wie der oberste Prediger der Salafisten in Deutschland muslimische Knaben indoktriniert, kann nur erschrecken.

Und es beruhigt nicht wirklich zu hören, dass nur vier- oder fünftausend Salafisten in Deutschland leben und die wenigsten von ihnen Terroristen sind, wenn man gleichzeitig weiß, dass als Salafisten die nicht-saudischen Wahabiten bezeichnet werden, der Wahabismus aber Staatsdoktrin im reichen Saudi-Arabien ist, das seine religiös-dogmatischen Verbündeten weltweit unterstützt und finanziert.

Es ist nicht nur leichtfertig, sondern verantwortungslos, dem Islam seine Zugehörigkeit zu Deutschland zu bescheinigen, ohne gleichzeitig klar zu benennen, wie er sich reformieren muss, um kein Fremdkörper in einem säkularen und demokratischen, die Freiheitsrechte des Individuums achtenden Staat zu bleiben.

(…)

Ich frage mich auch, warum unter dem Dach der Religionsanstalt Ditib, die der Leitung, Kontrolle und Aufsicht des staatlichen Präsidiums für Religiöse Angelegenheiten der Türkei und damit indirekt dem türkischen Ministerpräsidenten untersteht, mehr als 800 türkische Beamte in Deutschland dafür sorgen dürfen, dass ihre ehemaligen Landsleute ihrem Herkunftsland und traditionellen Religionsverständnis möglichst eng verbunden bleiben, und ihnen damit die allmähliche Verschmelzung mit der deutschen Gesellschaft erschweren oder sogar unmöglich machen.

All das führt geradezu zwangsläufig zur Konfrontation mit der eigenen Identität, da die Moslems keinerlei Probleme haben, die ethnisch, kulturell und religiös „Anderen“ zu identifizieren:

Seit 20 Jahren gewöhnen wir uns nun daran, dass wir nicht mehr Bundesbürger und DDR-Bürger sind, sondern einfach Deutsche, wie die Bewohner anderer Länder einfach Polen, Engländer, Franzosen oder Türken sind.

Ich möchte nicht, dass man mich jetzt mit der rassistischen Bezeichnung Bio-Deutsche belegt, wie ich auch gerne auf die Klassifizierung „mit Migrationshintergrund“ verzichten würde, wenn die so Genannten sich auch als Deutsche verstehen wollten, weil sie hier geboren wurden, vielleicht sogar schon ihre Eltern, weil wir alle gemeinsam hier leben, und weil es mir gleichgültig ist, an welchen Gott jemand glaubt, solange es dem anderen auch gleichgültig ist.

Ja, das ist die immer wiederkehrende Melodie, „wenn“ es doch so wäre, und alle gleichermaßen mitspielen würden! Aber warum tun sie es nicht? Warum sind sie nicht so wie wir? Warum denken und fühlen sie nicht so wie wir? Es ist der immergleiche Schock des Liberalen darüber, daß die „Differenz“ eben doch mehr als ein diskursives Spiel im pluralistischen Sandkasten ist, sondern eine blutige Realität.

Maron bezeichnete bereits letztes Jahr im Spiegel  die Ausbreitung des Islam als Gefahr für den säkularen, religionsneutralen Staat. Dabei hat sie erkannt, daß das liberale System vor einer Herausforderung steht, der es kaum gewachsen ist, und die seine Lücken und Selbstwidersprüche zutage treten läßt. Maron schrieb:

Irreführend und unverständlich wird es, weil natürlich niemand der öffentlich Streitenden von sich behaupten würde, er sei ein Gegner aufklärerischen Gedankenguts.

Im Gegenteil, die glühendsten Verteidiger islamischer Sonderrechte berufen sich auf die Toleranz als oberstes Gebot der Aufklärung und erklären die Kritiker des Islam und seiner weltlichen Ansprüche für paranoid, phobisch oder aber, noch schlimmer, für fremdenfeindlich und rassistisch. Das Absurde ist, dass mit diesem Vorwurf auch islamkritische Türken, Iraner, Ägypter bedacht werden, die vom Verdacht der Fremdenfeindlichkeit und des Rassismus ja ausgeschlossen sein müssten, so dass allein ihre Kritik am Islam Anlass genug ist, sie öffentlich zu diskreditieren.

Nun kann man sich erklären, warum die Vertreter von Milli Görüs und der Ditib im Namen gläubiger Muslime ihre Anforderungen an die deutsche Gesellschaft lauthals vertreten. So verstehen sie ihre Aufgabe, auch wenn das dem Zusammenleben der Muslime mit allen anderen Bürgern des Landes nicht unbedingt zuträglich ist. Dagegen bleibt es ein Rätsel, warum die Grünen und die SPD, deren Mitglieder und Anhängerschaft des religiösen Fundamentalismus dieser oder jener Art kaum verdächtig sind, kleinstadtartige Riesenmoscheen und die Kopftuchpflicht für kleine Mädchen zu Zeichen aufklärerischer Toleranz erheben; warum der sich als links verstehende Journalismus eine geschlossene Kampffront bildet für das Eindringen einer vormodernen Religion mit ihrem reaktionären Frauenbild, ihrer Intoleranz gegenüber anderen Religionen und einem archaischen Rechtssystem. Warum stehen diese Wächter der richtigen Gesinnung nicht auf der Seite der Säkularen aller Konfessionen? Warum verteidigen sie islamische Rechte gegen europäische Werte und nicht umgekehrt?

Das sind entscheidende Fragen,deren Antworten wohl in den Untiefen eines gestörten Identitätsgefüges zu suchen sind. Schon Botho Strauß hat 1993 erkannt, daß die linken Intellektuellen nicht freundlich zum Fremden um seiner selbst willen sind, „sondern weil sie grimmig sind gegen das Unsere und alles begrüßen, was es zerstört“, woran sich utopische Hoffnungen und Wahnideen knüpfen. Was aber das „Unsere“ ist, das gerade die Deutschen so scheuen, läßt sich nicht durch einen Katalog von „Werten“ oder ein regulatives System ersetzen, denn unser gewordenes geschichtliches Sein umfaßt viel mehr als dies.

Jan Werner Müller kritisierte in der Zeit, daß der europäische Rechtspopulismus à la Wilders und Le Pen „Werte wie Freiheit und Emanzipation“ nicht „liberal-universalistisch“ verstehen würde, „sondern als Teil eines nationalen Selbstverständnisses, das die Fremden – vor allem die Muslime – nicht teilen können.“ Das kann man drehen und wenden und bewerten, wie man will: Wilders, Le Pen & Co. sind hier nicht nur faktisch im Recht: sobald diese „Werte“ tatsächlich absolut, als oberster Gott quasi, gesetzt werden, verlieren sie ihren konkreten Sinn und ihre Erdung, entorten und abstrahieren sich ins Bodenlose und Luftleere, machen ihre Gläubigen letztlich politik- und überlebensunfähig.

Das pluralistisch-liberale System, das durchaus dem europäischen Hang zum Individualistischen entgegenkommt, kann nur so lange einigermaßen bestehen, als in der Gesellschaft ein gewisser Konsens existiert, und die „kulturellen Selbstverständlichkeiten“ und Erwartungshaltungen im Großen und Ganzen geteilt werden. Wenn der pluralistische Ansatz jedoch überdehnt wird, droht das ohnehin schon recht fragile und komplizierte Gefüge auseinanderzufallen. Und dieser Fall tritt eben durch die signifkante Zuwanderung von Moslems ein, deren mentale Prägungen und primäre Loyalitäten zu einem erheblichen Teil grundverschieden von den Unseren sind. Dennoch müssen sie vom Rechtsstaat und vom Grundgesetz her als Gleiche behandelt werden. Und das wirft nun einige nicht geringe Probleme auf.

Der Staatsrechtler Ernst-Wolfgang Böckenförde äußerte in einem Interview dazu:

Den Katalog solcher verbindlicher Normen finden Sie im Grundgesetz. Jenseits dessen gehört es aber auch zur freiheitlichen Ordnung einer Gesellschaft, dass sie innere Vorbehalte gegenüber ihre Wertsetzungen akzeptiert. (…) Entscheidend ist, dass alle Bürger das geltende Recht und die Gesetze anerkennen und befolgen. Wenn aber jemand denkt, „eigentlich ist das nichts Gutes, andere Gesetze wären besser“ – dann ist ihm das unbenommen. Die Gedanken sind frei. Daran darf eine freie Gesellschaft keinen Zweifel lassen.

Ihnen genügt wirklich die formale Anerkenntnis, auch ohne innere Zustimmung?

Innere Zustimmung wäre gewiss wünschenswert. Ich darf sie aber nicht zur Voraussetzung für ein Leben in unserem Land machen. Ich halte gar nichts davon, Einwanderern irgendwelche Wertebekenntnisse abzuverlangen, zumal der Begriff „Wert“ schwammig ist und mit den verschiedensten Inhalten gefüllt werden kann. Verlangen kann und muss ich, dass sich jeder an die Gesetze hält. Mit dieser bürgerlichen Loyalität muss ich es dann aber auch bewenden lassen. Zumal auch diese mehr ist als etwas rein Formales.

Worin liegt das „mehr“?

Im pflichtgemäßen Verhalten gegenüber einer Rechtsordnung, wie sie übrigens der Islam von den Gläubigen in der Diaspora ausdrücklich erwartet.

Schon hier könnte man einwerfen: vor allem aus taktischen Gründen. Und für den gläubigen Moslem steht in jedem Fall das islamische Recht über dem jeweiligen Recht des Diaspora-Staates. Böckenförde zeigte sich dennoch optimistisch:

Das bewirkt eine bestimmte Einstellung. Rechtsgehorsam, wie es das Verfassungsgericht einmal genannt hat, hat so sehr konkrete Verhaltensweisen zur Folge, die auch geeignet sind, mentale Gegensätze auf die Dauer abzuschleifen.

Auf letzteres sollte man nicht vertrauen, zumal die Frage offen bleibt, wodurch der Rechtsgehorsam, der Respekt vor dem Gesetz, also die nicht  nur taktische Anerkennung seiner Legitimität denn erzwungen werden soll, wenn nicht von vornherein eine gewisse innere Zustimmung besteht, wie man sie eben bei den meisten Stammeuropäern voraussetzen kann. Sollte sie nur auf Gewaltandrohung beruhen, ist die Grundlage brüchig. Die Respektlosigkeit vor Staatsorganen und Polizei ist europaweit ein typisches und häufiges Phänomen unter moslemischen Einwanderern, insbesondere unter den notorisch unruhigen „Jugendlichen“.

Einspruch gegen das Wulff-Axiom kam auch in der Welt vom 20. April von Martin Mosebach. Im Gegensatz zu der aus der DDR stammenden Monika Maron, die generell mit keiner Form von Religion „behelligt“ werden will, vertritt Mosebach einen dezidiert römisch-katholischen Standpunkt traditionalistischer Prägung. Hier hat die Verteidigung des religionsneutralen, liberal-säkulären Staates, die Maron so am Herzen liegt, geringe bis keine Bedeutung. So argumentiert er auch stärker auf historischer Grundlage, weniger mit „Werten“:

 Mosebach: Wenn ein Politiker sich über den Islam äußert, kann er sagen: Die Deutschen, die sich zum Islam bekennen, haben dieselben Bürgerrechte wie die anderen Deutschen. Das ist eine Selbstverständlichkeit. Aber der Satz „Der Islam gehört zu Deutschland“ ist eine verantwortungslose und demagogische Äußerung. Was hat der Islam zu unserer politischen und gesellschaftlichen Kultur bisher beigetragen? Unser Grundgesetz fußt auf dem Christentum, auf der Aufklärung und auf weit in die deutsche Geschichte zurückreichenden Konstanten, wie etwa dem Partikularismus. Da gibt es kein einziges islamisches Element – woher sollte das auch kommen? Wenn die muslimischen Deutschen die kulturelle Kraft besitzen sollten, der deutschen Kultur islamische Wesenszüge einzuflechten, dann mag man in hundert Jahren vielleicht einmal sagen: der Islam gehört zu Deutschland.

Welt Online: Gehört das Christentum noch zu Ostdeutschland?

Mosebach: Natürlich. Dieses Land ist ein Geschöpf des Christentums. Seine Städte, seine Sprache, seine Kunst, alles. Das vergeht nicht in ein paar Jahrzehnten religiöser Ausdünnung.

Nun gibt es freilich auch hier einige Fallstricke und blinde Flecken, die man häufig bei katholischen Konservativen antrifft. Es gibt hier eine gewisse hartnäckige Verachtung jenes Blutes, das stärker als Wasser ist, all dessen, was etwas voreilig als „biologisch“ oder „nur biologisch“ abgetan hat, wie eben der Volkszugehörigkeit, die, so man es will oder nicht, ein bedeutendes, nicht aus der Welt zu schaffendes Movens unter den Menschen ist. Aber die katholische Welt, so wie ich sie sehe und liebe, ist eben auch die Welt des Konkreten, des Fleisches und der Inkarnation. Sie besteht es aus einer vertikalen und einer horizontalen Linie, Geist und Körper, und beide zusammen formen das Kreuz.  Mögen wir alle Brüder in Christo sein, wir gehören dennoch auch irdischen Ordnungen an, für die wir eine ethische Verantwortung tragen.

Mosebach spricht von „Deutschen, die sich zum Islam bekennen“: meint er damit deutsche Konvertiten, von denen es bisher nicht allzu viele gibt, oder ist er gar, nicht anders als ein durchschnittlicher Grüner oder Sozialdemokrat, der Auffassung, daß die deutsche Staatsbürgerschaft ausreiche, um etwa einen Türken, Kurden oder Araber in einen Deutschen zu verwandeln? Jedermann, und gerade der Paßdeutsche selbst, weiß, daß dies nicht der Fall ist. Ein Kalb wird kein Pferd, wenn es in einem Pferdestall geboren wird.Wenn Deutschland in den nächsten Jahrzehnten islamisch wird, dann geschieht dies ja nicht durch massenhafte Konversionen der Stammdeutschen, sondern primär auf demographischem Weg durch die Kolonisierung des Landes durch fremde Völker. Kein Affekt gegen einen „Volksbegriff“ oder die „Biologie“ sollte den Blick für diese Tatsache trüben.

Eine weitere Falle ist hier, die islamische Frage als eine reine Religions- und Konfessionsfrage mißzuverstehen. Wie es dazu kommt, liegt nahe. Ein religiöser Mensch, der die Heißen und die Kalten den Lauwarmen vorzieht, und von einer glaubens- und transzendenzlosen Welt angewidert ist, wird sich nur ungern in eine Reihe mit etwa Monika Maron oder Necla Kelek oder Henryk Broder stellen, die von den Moslems (und eben auch Christen) die Anpassung an die „säkulare, freiheitliche Gesellschaft“ fordern.  Mosebach:

Welt Online: Warum sehen so viele Menschen in Deutschland den Islam als Konkurrenz, obwohl sich immer weniger zum Christentum bekennen?

Mosebach: Die Sorge vor dem Islam in Deutschland ist weniger eine Sorge von Christen als von Leuten, die sich von der Kirche schon sehr weit entfernt haben. Die empfinden Religion an sich als gefährlich, und im Islam sehen sie eine Rückkehr der Religion.

Welt Online: Ist Ihnen aus christlicher Sicht ein Muslim lieber als ein Atheist?

Mosebach: Was heißt lieber. Er ist mir auf jeden Fall näher. Selbstverständlich.

Da fragt man sich nun, welchen „Muslim“ Mosebach hier meint. Pierre Vogel? Osama bin Laden? Mullah Krekar? Ibrahim Abou Nagie? Abu Hamza? Mohammed Merah? Allein die Vorstellung ist lachhaft. Und denkt Mosebach, daß sich diese Herren, die allesamt keine Atheisten sind und an ihren Gott glauben, umgekehrt ähnlich generös ihm gegenüber äußern würden? Nun zweifle ich nicht, daß es irgendwo auf der Welt kultivierte moslemische Pendants zu Mosebach gibt, wie es auch in der Tat so etwas wie eine universelle Wahlverwandtschaft der geistigen Menschen gibt, sein „Moslem“ ist aber eine reine Denkfigur aus einer idealisierten Nathan-der-Weise-Sphäre, und diese Aussage erscheint mir, offen gesagt, nicht konsequent für jemanden, der die Religion nicht allein „kulturalistisch“ versteht und bejaht, sondern explizit die Wahrheitsfrage stellt.

Und dann ist „Religion“ eben nicht gleich „Religion“, und dann gibt es auch kein Mehr oder Weniger der Wahrheit, sondern nur ein Entweder-Oder, und dann sind aber auch nicht alle Religionen gleichermaßen respektabel. Aus streng christlicher Sicht ist der Islam die häretische Irrlehre eines falschen Propheten, und Mohammed, den Dante nicht umsonst in der Hölle schmoren ließ, das Urbild dieser Figur. Der falsche Prophet aber ist noch schlimmer als der bloße Ungläubige oder Glaubenslose, denn er verbreitet aktiv die Lüge, wie der Antichrist. Umgekehrt macht es aus islamischer Sicht keinen Unterschied, ob ein Ungläubiger Atheist oder Christ oder Jude ist – er ist gleichermaßen verdammt und wird auch entsprechend behandelt. Der Koran ist diesbezüglich völlig eindeutig.

Mosebach liegt auch falsch, anzunehmen, daß sich die Menschen in erster Linie vor dem Islam als Religion fürchten. Sie fürchten sich viel mehr vor Gewalt, Landnahme, Repression, Erpressung, Enteignung, Entfremdung und Überfremdung. Nicht der Islam an sich ist unser Problem, sondern die Masseneinwanderung inkompatibler Völker. Die „Islamkritiker“ müssen reif werden und zu Einwanderungskritikern werden. In dieser Problematik spielt der Islam allerdings die Rolle eines aggressiven, verschärfenden und beschleunigenden Moments. Man sollte hier sich nicht von dem religiösen Element hypnotisieren lassen wie das Kaninchen von der Schlange.

Gerade viele Konservative erliegen dieser Versuchung, weil sie in dieser religionsfeindlichen Zeit dazu neigen, generell die Partei der geschmähten und hochmütig überwunden geglaubten Religion zu ergreifen. Wir alle wissen, daß uns nur noch ein Gott retten kann. So hat es Martin Heidegger 1966 gesagt. Aber nicht jeder beliebige dahergelaufene Gott. An ihren Früchten werdet ihr sie erkennen. Trotzdem kenne ich viele verzagte Konservative, unter ihnen nicht wenige dem Traditionalismus nahestehende Christen, die schon unsicher die Hand nach Allah ausstrecken oder sich ihm gegenüber zumindest aufwärmen, weil offenbar keine anderen Götter im Angebot sind.

Hier gilt es, den Skeptiker und Aufklärer einzuschalten. Eine Religion kann, wie etwa bei Canetti nachzulesen, Folge eines Massenwahns und eine Art evolutionäres Vehikel des Willens zur Macht sein, das dann letzten Endes vor allem weltlichen Dingen dient. Der Islam wäre dafür das Beispiel par excellence, und darum ist er auch ausreichend von Nietzsche und vielen Faschisten bewundert worden. Der Koran erteilt den Freibrief zum ungehemmten Willen zur Macht in einem Maße, wie es dem Neuen Testament diametral entgegengesetzt ist, wie das Leben Christi dem des Mohammed. Zu seinen Blütezeiten war der Islam eine pure, gut geölte Machtentfaltungs- und Eroberungsmaschine, und als solche funktioniert er noch heute.

Die Sorge um die Islamisierung hat mit Kirchenferne und Abfall vom Glauben also erstmal rein gar nichts zu tun. Sie ist in der Tat angesichts ihres fortgeschrittenen Stadiums immer noch allzu gering. Wären die Deutschen heute kirchentreu und gläubig, dann würde der Islam kaum so nachsichtig toleriert und verteidigt werden, wie es heute der Fall ist, dann wäre es überhaupt gar nicht erst zu einer derart massiven Landnahme gekommen, und dann würde es heute schon längst heftig krachen zwischen Christen und Moslems. Dafür spricht sowohl die historische als die zeitgenössische Evidenz. Die Glaubensstarken haben einander in der Geschichte selten toleriert, und sie standen sich gegenseitig umso ferner, je stärker ihr Glaube war. Das alte, gläubige Europa hat nicht nur den Islam als Todfeind bekriegt, es hat innerhalb der Christenheit erbittert um die Rechtgläubigkeit gekämpft. Es waren auch nicht die kirchentreuen Christen, die die Moslems in die Mauern Europas ließen, sondern die Glaubenslosen und die Anhänger diverser säkularer Ersatzreligionen, die unter anderem vom Haß auf das Christentum motiviert sind.

Auch hier antwortet Mosebach ausweichend:

Welt Online: Sie fürchten nicht, dass der Islam das Christentum in Europa verdrängt?

Mosebach: Dem Christentum ist ja nicht der historische Erfolg geweissagt. In den verschiedenen Apokalypsen ist ihm geweissagt, dass die Kirche in den letzten Tagen vor dem Ende der Welt fast vollständig verschwinden wird.

Nun gut – aber auch die Welt wird nach dieser Weissagung vollständig verschwinden, die Ernte wird eingefahren, und das große Tier, der falsche Prophet, Gog und Magog werden vernichtet werden. Kein Grund für den Christenmenschen, sich diesen in irgendeiner Weise „nahe“ zu fühlen.


 Maron, Mosebach und der Islam in Deutschland

dimanche, 15 avril 2012

Laurent Ozon sur Tariq Ramadan et Alain Finkelkraut

 

Laurent Ozon sur Tariq Ramadan et Alain Finkelkraut

vendredi, 06 avril 2012

Golfstaaten wollen Anti-Assad-Armee finanzieren

Golfstaaten wollen Anti-Assad-Armee finanzieren

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Ginge es nach dem Willen seiner Nachbarstaaten, so würde Diktator Baschar al-Assad gestürzt Foto: Wikimedia/Brasilien mit CC3-Lizenz: http://tinyurl.com/d5uvtdh

DAMASKUS. Die Vereinigten Staaten von Amerika und mehrere Golfstaaten haben sich darauf verständigt, die syrischen Rebellen mit Geld auszustatten. Die Araber alleine haben laut der New York Times bereits 100 Millionen US-Dollar für diesen Zweck zugesagt. 

In Istanbul haben sich am vergangenen Wochenende die Vertreter von sechzig Staaten zu einer Konferenz mit dem Titel „Freunde von Syrien“ getroffen. Dort sei es nach Teilnehmerberichten  Konsens gewesen, daß die Bemühungen der Uno um Frieden in dem von Bürgerkrieg erschütterten Land gescheitert sind.

Da China und Rußland mit ihrem Veto im Sicherheitsrat militärische Maßnahmen gegen die Assad-Regierung verhindern, versuchen die anderen Länder nun die humanitäre Unterstützung „auszuweiten“. Dies könne finanzielle und logistische Hilfe für die Opposition beinhalten.

Eine offizielle Erklärung über diese Unterstützung– wie von Saudi Arabien gefordert – gab  es jedoch nicht. Nicht zuletzt deshalb, weil die als „Freie Syrische Armee“ bekannte Rebellentruppe nicht genauer bekannt ist und nicht feststeht, wer die Waffen genau bekäme. Die Amerikaner beteiligen sich nach diesem Bericht nicht mit Geld, sondern mit Kommunikationsmitteln für die Rebellenarmee.

Monatelanger Bürgerkrieg

Molham al-Drobi vom oppositionellen Syrischen Nationalkongreß bestätigte die Zusagen der „Freunde von Syrien“ über 176 Millionen Dollar für humanitäre und 100 Millionen Dollar für militärische Zwecke. 500.000 Dollar seien bereits auf geheimen Wegen an die Opposition geflossen, so al-Drobi.

Die syrische Regierung hingegen erklärte den Aufstand am Wochenende für beendet. „Die Schlacht, den Staat in Syrien zu stürzen, ist ein für alle Mal vorbei“, sagte ein Sprecher des Außenministeriums, nach einem Bericht der Süddeutschen Zeitung. Seit Monaten tobt in Syrien ein Bürgerkrieg, bei dem nicht nur innerstaatliche Differenzen aufbrechen: Ausländische Staaten mischen sich ins Geschehen ein. Es sind dies die sunnitischen Nachbarstaaten wie die Türkei und die Araber sowie der Westen auf der einen Seite – Iran, China und Rußland auf der anderen Seite. Viele Todesopfer soll der Kampf um die Macht in dem Mittelmeeranrainerstaat bereits gekostet haben. (rg)

dimanche, 01 avril 2012

Le cas du Jundallah

Jundallah, groupe terroriste redoutablement djihadiste, contre lequel lutte l'Iran. Ce groupe hyper dangereux est utilisé par certains occidentaux, notamment israéliens pour l'assassinat des savants iraniens. Son danger est réel et direct alors que...

La guerre iranienne contre le terrorisme. Le cas du Jundallah

Par Didier CHAUDET*, http://mbm.hautetfort.com/

Enseignant à Sciences Po

 

Géopolitique de l’Iran: Enseignant à Sciences Po, Didier Chaudet démontre que les Iraniens mènent en ce moment leur propre guerre contre le terrorisme. Plus précisément contre un groupe utilisant des moyens terroristes, et appelé « Jundallah », « les Soldats d’Allah ». L’auteur en présente les racines et s’interroge sur les influences extérieures.

LA « guerre contre le terrorisme » a été, dès le départ, assez mal nommée. On épargnera aux lecteurs la critique la plus facile, répétée ad nauseam, qui dit qu’on ne fait pas la guerre à un moyen d’action. On rappellera plutôt qu’il s’agit d’une guerre américaine contre ce que les Américains considèrent comme du terrorisme. Ou même, parfois, comme une simple menace terroriste. De ce point de vue, en fait, tout ce qui semble s’opposer, de près ou de loin, à l’influence américaine, notamment de la part d’Etats moyens ou faibles, devient terrorisme. C’est ce qui explique pourquoi l’Iran a été inclus dans l’ « Axe du Mal », alors que le pays avait abandonné l’emploi du terrorisme comme moyen d’action, et surtout ne pouvait pas être associé ni au 11 septembre 2001, ni au djihadisme sunnite. L’inclusion de ce pays dans la liste aura été d’autant plus choquante que la République islamique a été d’une aide non négligeable dans la lutte contre les Taliban. L’insulte a été d’autant plus mal ressentie par les Iraniens qu’ils mènent en ce moment leur propre guerre contre le terrorisme. Plus précisément contre un groupe utilisant des moyens terroristes, et appelé « Jundallah », « les Soldats d’Allah ».

Les racines du Jundallah

Quelles sont les racines de ce mouvement terroriste ? Elles se confondent avec les tensions entre le centre, persan et chiite, et la périphérie à l’est, sunnite et baloutche. Plus exactement dans la province du Sud-Est appelée Sistan-Baloutchistan. C’est dans cette province artificielle, créée par Rezah Shah [1] dans les années 1930, que vivent les Baloutches iraniens (1,5 millions de personnes) [2]. Ces derniers représentent un peuple qui comme les Kurdes, est divisé entre plusieurs Etats. Ici une séparation entre l’Afghanistan, l’Iran, et le Pakistan. Encore une fois comme les Kurdes, les Baloutches ont gardé le sentiment d’une identité forte, et sont considérés par les centres qu’ils dominent comme farouchement attachés à leur indépendance. Rien d’étonnant à cela : tout comme les Pachtounes, ils ont à l’origine une structure tribale qui leur a permis historiquement de mieux résister au centre persan. Et depuis le Grand Jeu, les Baloutches, en tant que peuple transfrontalier, ont été au cœur d’un réseau de contrebande particulièrement important. Et cela est tout particulièrement vrai au niveau du trafic d’armes, qui aura été conséquent tout au long du 20ème siècle. Là aussi, on peut faire une comparaison avec les Pachtounes. Dans les deux cas, cela donne aux peuples évoqués les moyens de s’opposer physiquement au centre quand le besoin s’en fait sentir, et une grande familiarité à l’emploi des armes. De fait, l’Iran n’a réussi à contrôler ses Baloutches qu’à partir des années 1930. D’abord indirectement, en utilisant les chefs tribaux, ou « Sardars ». Puis plus directement, par la force, par une politique visant à liquider les chefs traditionnels. Et si la Révolution khomeyniste a suscité des espoirs chez les nationalistes baloutches, ils ont vite été dissipés. Au début de ladite révolution, ce sont les Gardiens de la Révolution qui ont pris en main le territoire. Téhéran s’est alors imposé particulièrement durement [3]. Malgré la chute du Chah, c’est donc la continuité qui l’a emporté : la population baloutche en périphérie se ressent, de par sa situation, comme un groupe de citoyens de seconde zone, vivant dans un environnement économique trop peu développé.

Nationaliste et djihadiste anti-chiite

Ce dangereux cocktail de tensions historiques, de manque d’influence politique, et de misère économique, est bien sûr le terrain rêvé pour un groupe violent. Cela a expliqué la naissance du PKK chez les Kurdes turcs. Et le groupe Jundallah en tant que tel a émergé à cause de cette situation locale. Mais il serait simpliste d’en rester là : le Jundallah ne se définit pas uniquement comme nationaliste. Le groupe s’est formé à partir d’une idéologie djihadiste anti-chiite proche de celle d’Al Qaïda et des Taliban. De fait, les combattants du Jundallah sont les héritiers de deux décennies d’influence extrémiste venant du voisinage de l’Iran : on pense notamment aux écoles religieuses basées au Pakistan, qui ont été financées par des activistes de la péninsule arabique, mais aussi par Saddam Hussein. Pendant la guerre Iran-Irak, en effet, l’excitation des tensions à l’intérieur de l’Iran semblait de bonne guerre [4]. Il y a eu également une influence des Taliban sur les Baloutches, surtout en territoire pakistanais. Une telle situation a eu une influence sur le nationalisme baloutche en terre iranienne. Se battant en terre chiite, certains Baloutches iraniens trouvaient dans l’extrémisme sunnite une idéologie qui pouvait être attrayante. Et surtout, une idéologie qui leur donnait des alliés naturels, parmi les groupes actifs en Afghanistan et au Pakistan. Ces liens sont très clairs dès la création du mouvement, en 2003 : « les Soldats d’Allah » auraient été créés sur un territoire contrôlé par le Taliban pakistanais le plus important du moment, Nek Mohammed Nazir (mort en 2004). Le jeune fondateur et leader du Jundallah, Abdel Malik Rigi, a d’ailleurs été formé à la mosquée Binori. C’est dans cette même mosquée que nombre de Taliban et de djihdistes pakistanais ont été endoctrinés [5]. Si on ne peut pas associer directement Al Qaïda et le Jundallah avec les sources accessibles, on sait malgré tout que le groupe a des liens avec les Taliban pakistanais combattant Islamabad. Ils ont également des relations avec le Lashkar-e-Jhangvi, un mouvement terroriste anti-chiite frappant au Pakistan [6]. Les liens avec les Taliban afghans semblent clairs également : la naissance du mouvement se fait post-2001, une fois que les combattants baloutches du mollah Omar sont revenus au pays après la chute du régime tenu par les Taliban. Ces liens avec les forces les plus extrémistes d’Asie du Sud expliquent leurs tactiques de terreur, au sens propre. Il s’agit ainsi du premier groupe ayant usé de la décapitation contre des représentants des forces de l’ordre iranien, pour mieux marquer les esprits. A partir de 2008, ils ont introduit l’utilisation de l’attentat suicide en territoire iranien. En mai 2009, le Jundallah s’est directement impliqué dans une logique de guerre sectaire : un attentat a frappé une importante mosquée chiite de Zahedan, la capitale du Sistan-O-Baloutchistan, pendant la prière du soir. 19 personnes sont mortes, et 60 ont été blessées [7]. Certes, par la suite, le leader du groupe, Rigi, a été capturé. Mais si le groupe a été décapité, il n’a pas disparu, loin de là. En fait, en décembre 2010, on a encore eu la preuve de la force de frappe sanglante du groupe, même sans Rigi à sa tête. Deux attentats suicide ont visé une procession religieuse chiite dans le port de Chabahar, et ont fait au moins 40 morts [8]. De fait, le groupe bénéficie encore d’une situation locale et régionale assez « favorable » pour continuer à exister.

Quelles influences extérieures ?

Cette analyse ne serait pas complète sans réfléchir aux possibles influences extérieures face au phénomène Jundallah. Certes, très clairement, le groupe terroriste est d’abord né de tensions locales et régionales. On ne peut pas considérer le groupe comme une créature inventée par des forces hostiles à Téhéran. Malgré tout, on connaît les tensions, parfois sanglantes, entre l’Iran d’une part, et les Etats-Unis, Israël, ou d’autres acteurs. On ne peut pas nier que l’idée d’une utilisation par des forces extérieures des ennemis intérieurs de l’Iran puisse être considéré « de bonne guerre ». Nous allons donc passer en revue les différents « suspects », et mettre en avant ce que la littérature ouverte nous dit de leur implication.

A la question : « Les Occidentaux soutiennent-ils le Jundallah ? », on peut répondre « Probablement non ». Ici, quand on parle d’Occidentaux, on pense en fait, en premier lieu, aux Américains. Il est très probable que ces derniers mènent des actions clandestines en Iran. Des ordres exécutifs, signés fin 2004 et en 2005 par le président G. W. Bush, ont donné au Pentagone la possibilité de mener des actions clandestines sans passer par la CIA. Et donc sans possibilité de contrôle de la part du Congrès. Les opérations secrètes menées par des services américains sont généreusement dotées à cette période, et on sait qu’elles ont eu lieu [9]. De même, selon certains analystes, il y aurait eu prise de contact avec le Jundallah, mais uniquement dans le cadre d’une collecte de renseignements. Selon Robert Baer par exemple, cela n’est pas allé plus loin, le groupe se montrant vite incontrôlable, et surtout, dangereusement proche d’Al Qaïda [10]. A partir de là les informations ouvertes nous amènent à penser que Washington a fait en sorte d’éviter à tout prix tout contact avec les djihadistes baloutches. Quoi qu’on pense des Américains, ils sont, tous comme les Iraniens d’ailleurs, des acteurs relativement rationnels sur ce dossier : soutenir le terrorisme en Iran amènerait le régime à revenir à ses vieux démons, et à soutenir le tourisme transnational contre les Etats-Unis et ses alliés. Mais tout le monde n’est pas aussi prudent : il semblerait que les Israéliens aient utilisé le Jundallah dans leur lutte contre le régime iranien [11]. Des « memos » de la CIA tendent à prouver que des membres du Mossad, les services secrets israéliens, se sont fait passer pour des agents de la CIA. Ils ont utilisé cette couverture pour recruter des membres du Jundallah. Plusieurs officiels liés aux services de renseignements américains, encore actifs ou à la retraite, ont confirmé les informations livrées par ces documents. On a déjà vu les services israéliens travailler avec une autre force considérée comme terroriste, le MEK, ou « Moudjahidine du Peuple ». Ces derniers auraient travaillé ensemble, notamment pour assassiner les scientifiques nucléaires iraniens [12]. Les informations de la CIA dévoilées par le journal Foreign Policy, n’ont donc, en soi, rien d’étonnant. Israël joue une partition à court terme, pour obtenir des gains rapides dans sa lutte indirecte contre Téhéran. Le problème de cette approche est qu’elle finance un groupe djihadiste potentiellement dangereux au delà de l’Iran. Et cette façon de procéder ne peut qu’avoir des répercussions régionales, et nourrir le complotisme et l’anti-américanisme autant en Iran qu’au Pakistan, et dans les pays alentours. Car même si les Américains sont responsables, des questions restent sans réponse, comme : pourquoi les Américains n’ont-ils pas stoppés leurs alliés israéliens ? Il s’agissait d’abord d’inertie politique. Mais pour les Pakistanais, les Iraniens, les Moyen-Orientaux, hélas, cela ressemble à une division des tâches entre Occidentaux, qui a un impact diplomatique désastreux.

L’influence extrémiste sunnite venant notamment de la péninsule arabique

On sait également que le groupe extrémiste est proche des Taliban, notamment de la variation pakistanaise de cette mouvance. Indirectement, l’influence extrémiste sunnite venant notamment de la péninsule arabique est donc également responsable : ici on ne fait que retrouver une énième conséquence de la « guerre froide » opposant Arabie Saoudite et Iran. Et malgré les fantasmes que ce pays suscite, si le Pakistan est indirectement impliqué aujourd’hui, c’est d’abord en tant que base de repli, et de victime des tensions entre chiites et sunnites. Il serait difficile pour Islamabad de soutenir un groupe qui s’oppose avec fermeté au pipeline Iran-Pakistan-Inde (IPI), essentiel pour la sécurité énergétique du pays [13]. Et depuis le second semestre 2011 au moins, nombreux sont ceux à Islamabad qui applaudissent au début de rapprochement entre Iran et Pakistan. Dans un tel contexte la coopération anti-terroriste existe bien entre les deux pays. Et on peut dire que Rigi a été capturé en partie grâce aux services pakistanais [14]. Mais il n’est pas impossible que pendant ses premières années, les services pakistanais aient laissé le Jundallah se développer sans objection de leur part. Après tout, l’Iran a de très bonnes relations avec l’Inde, et un tel groupe peut toujours servir comme moyen de pression. Mais quel que soit le niveau de tolérance pakistanais, voire de connivence de la part de certains individus, dans un passé proche, il faut éviter le fantasme d’un ISI tout puissant ici. Mais même en excluant Islamabad, un à deux alliés des Américains peuvent donc être considérés comme jouant, au moins indirectement, un jeu dangereux avec le Jundallah et d’autres forces utilisant le terrorisme comme moyen d’action. Une telle attitude ne fait que renforcer les faucons iraniens, mais aussi des esprits plus modérés. Pour un pays déjà frappé par des sanctions non négligeables depuis plus de deux décennies, cela ne peut être que la preuve d’une opposition radicale à l’Iran en tant que puissance moyenne. Cette politique qui ne fait que nourrir les extrêmes est bien entendu, potentiellement dangereuse pour les intérêts des Américains et de leurs alliés européens, au Proche-Orient et en Afghanistan.

Le Jundallah est d’abord le produit de tensions intérieures et régionales

En bref, à bien des égards, le Jundallah semble être le produit de tensions d’abord intérieures et régionales. Pour l’Iran aussi, tant que l’Afghanistan ne sera pas stabilisé, le terrorisme ne sera pas éradiqué sur son territoire à l’est. Et tant que le problème terroriste au Pakistan continuera à frapper ce pays, il soutiendra l’extrémisme sunnite en territoire chiite. En cela, en fait, on voit que l’Iran et les Etats-Unis ont, à bien des égards, des objectifs communs en AfPak, allant dans le sens d’une stabilisation de la région. La guerre iranienne contre le terrorisme peut offrir des points d’entente entre Téhéran et l’Occident. Un tel sujet devrait être plus au cœur des discussions avec la République islamique aujourd’hui. Toute possibilité de dialogue est impossible tant que tout est considéré comme secondaire hors le dossier nucléaire. Une victoire du djihadisme anti-chiite et anti-occidental en AfPak est sans doute un danger sécuritaire autrement plus réel qu’une arme nucléaire non encore obtenue, qui sera sans doute bien rudimentaire, et bien limité face à l’arsenal russe ou américain. Si on est sérieux dans la lutte contre les réseaux terroristes, on devrait savoir se concentrer sur les véritables menaces, et non en rester à une logique de Guerre froide en relations internationales.

Copyright Mars 2012-Chaudet/Diploweb.com

[1] Qui fut Chah d’Iran jusqu’en 1941.

[2] Cette province a spécifiquement été créée pour contrôler les Baloutches. Le Sistan se trouve au nord du Baloutchistan et sa population est persane et chiite. C’est de cette partie de la province qui nourrit l’administration pour l’ensemble du territoire. Voir Stéphane Dudoignon, Voyage au pays des Baloutches (Iran, début du XXIème siècle), Paris : éditions Cartouche, 2009, p.86.

[3] Adun Koolstadt Wiig, « Islamist Opposition in the Islamic Republic : Jundullah and the spread of extremist Deobandism in Iran », FFI Report, juillet 2009, p.11.

[4] Idem, p.19.

[5] Pepe Escobar, « Jundallah versus the mullahtariat », Asia Times, 21 octobre 2009, atimes.com

[6] Amir Rana, « Enemy of the State : Lashkar-e-Jhangvi and Militancy in Pakistan », Jane’s Information Group, 5 aout 2009, janes.com

[7] BBC News, « Iran : Many die in Zahedan mosque bombing », 28 mai 2009, news.bbc.co.uk.

[8] Al Arabiya, « Undallah remains a danger and a thorn in Iran’s side », 19 janvier 2011, alarabiya.net.

[9] Seymour Hersh, « Preparing the Battlefield », The New Yorker, 7 juillet 2008, newyorker.com.

[10] Robert Baer, « Iran’s Biggest Worry : Growing Ethnic Conflict », Time, 21 octobre 2009, time.com.

[11] Les informations ici viennent d’un article qui a particulièrement fait du bruit il y a deux mois à Washington : Mark Perry, « False Flag », Foreign Policy, 13 janvier 2012, foreignpolicy.com

[12] Muhammad Sahimi et Richard Silverstein, « Israel Iran attack ? What goes around comes around », The Christian Science Monitor, 21 février 2012, csmonitor.com.

[13] Pepe Escobar, op.cit.

[14] Conclusions sur le sujet d’entretiens menés entre Islamabad et Karachi en novembre et décembre 2011.

lundi, 05 mars 2012

L’oncle Sam et les Frères musulmans

L’oncle Sam et les Frères musulmans

Ex:  http://mediabenews.wordpress.com/

par Mohamed SIFAOUI

Lors de son récent périple dans la région du Maghreb, Hillary Clinton a fait une déclaration lourde de sens qui appelle quelques commentaires. En effet, la chef de file de la diplomatie américaine a laissé entendre que l’expérience tunisienne montrait que l’islam politique n’est pas incompatible avec la démocratie. Un chèque en blanc, s’il en est, pour des fanatiques de la politisation de la religion islamique qui, pourtant, n’en espéraient pas tant.

Au lendemain des attentats du 11-Septembre, les Américains, républicains comme démocrates, ont estimé que la démocratisation des pays arabo-musulmans était une solution, parmi d’autres, qui permettrait d’endiguer les velléités terroristes des intégristes et d’affaiblir une nébuleuse comme Al-Qaïda.

La divergence du point de vue, au sein du sérail américain, résidait, grosso modo, dans le choix de la méthode idoine. Pour les néoconservateurs, cette “démocratisation” devait s’effectuer y compris à travers l’action militaire et la projection de la force américaine sur des terrains “arabo-islamiques” où des gouvernements non hostiles aux États-Unis, parfois fantoches et non représentatifs, devaient être installés. Les démocrates, quant à eux, ont estimé que cette même “démocratisation” devait sortir des entrailles des sociétés et représenter une aspiration des peuples. Mais les deux visions se rapprochaient quant à l’impérieuse nécessité d’intégrer les islamistes dits “non-violents” dans le jeu politique.

À Washington, on estime que les tenants de la pensée des Frères musulmans, disposant d’un certain ancrage au sein des sociétés, rejetant, en apparence, la violence, seraient capables, de devenir, à terme, des interlocuteurs, voire des partenaires “sérieux”. L’objectif non avoué étant de fixer les islamistes dans leur pays d’origine et, surtout, de les empêcher de développer une quelconque hostilité à l’égard des États-Unis et/ou de ses intérêts stratégiques et ce, même si cette “neutralisation” devait passer par une reconnaissance, sinon par une légitimation politique.

Outre-Atlantique, la doctrine locale, qu’elle soit d’inspiration républicaine ou démocrate, s’est toujours allègrement accommodé aussi bien des Frères musulmans que du salafisme wahhabite. De ce point de vue, Hillary Clinton s’inscrit donc, dans une vieille tradition qui n’hésite pas à offrir une respectabilité aux mouvements religieux et aux théocraties. À Washington, on estime, depuis longtemps, qu’un islamiste ne devient “dangereux” que lorsqu’il s’attaque aux intérêts des États-Unis.

Là où l’analyse américaine tombe dans le simplisme, c’est lorsqu’elle considère que des formations politiques pourraient se suffire d’une position acceptant et respectant les processus électoraux pour gagner leur statut de « démocrates ». Il va sans dire qu’une telle approche, mettant en évidence des conditions à minima, n’est pas à même de promouvoir l’idéal démocratique dans le sens où l’entendrait n’importe quelle nation ayant fait des valeurs universelles le socle de son idéologie politique.

En vérité, les Frères musulmans n’ont jamais été hostiles aux jeux électoraux surtout lorsque ceux-ci leur sont favorables. Il est évident que dans la plupart des pays dits “arabo-musulmans”, les islamistes, osons l’image, ont un boulevard devant eux tant les dirigeants de ces mêmes pays se sont révélés être des irresponsables plus soucieux de la préservation de leur pouvoir que de la mise en place de projets de société justes, modernes et démocratiques.

À ce sujet, il est utile de souligner que la démocratie ne se résume pas à des processus électoraux, fussent-ils libres et honnêtes. Il s’agit avant tout d’un corpus idéologique qui englobe des valeurs humanistes et universelles. Depuis l’époque athénienne, la démocratie repose sur des principes essentiels tels les libertés d’expression, de conscience et d’opinion, l’alternance au pouvoir et la défense des droits humains.

Depuis ces temps anciens, des intellectuels ou des philosophes, comme Montesquieu, pour ne citer que lui, des théoriciens de la démocratie moderne ont érigé la notion de la séparation des pouvoirs comme l’un des principes sur lequel repose la démocratie. Tous ces principes furent confirmés par la révolution française et, bien sûr, par la révolution américaine. Or, ces mêmes principes ne sont ni respectés ni reconnus par les doctrines islamistes.

Partant de là, a-t-on le droit d’affirmer que des partis comme Ennahda ne sont pas incompatibles avec la démocratie? Peut-on dire ex abrupto, tout simplement parce qu’un mouvement intégriste a remporté une élection “démocratiquement”, que celui-ci n’est pas ou n’est plus extrémiste et qu’il devrait, par ce fait unique, gagner en respectabilité comme s’il s’agissait de n’importe quel mouvement politique défendant les valeurs démocratiques?

Le danger de cette exigence à minima, surtout lorsqu’elle s’exprime à travers un représentant d’une puissance démocratique, outre qu’elle légitime des mouvements, considérés, à juste titre, comme liberticides, disqualifie, par ailleurs et de fait, les musulmans progressistes qui se battent, depuis plusieurs années, contre l’idéologie portée par les Frères musulmans. Oui ! la sortie, pour le moins inopportune, d’Hillary Clinton disqualifie le combat que les (vrais) démocrates de culture ou de confession musulmane mènent contre l’obscurantisme en général et l’islamisme en particulier.

Certes, Ennahda en Tunisie, les Frères musulmans en Égypte ont remporté des élections “proprement”. N’empêche, il ne faudrait pas fermer les yeux sur les raisons qui sont à l’origine de ces résultats. Les régimes autocratiques, que ce soit en Égypte ou en Tunisie, voire encore en Algérie ou au Yémen, sont générateurs d’islamisme et donc, de votes islamistes. Il était quelque part logique que les Tunisiens accordent, au lendemain de la chute du dictateur, une majorité relative à ceux qui se sont opposés, de la manière la plus radicale, à l’autocrate.

Et de ce point de vue, au regard de la répression féroce qui s’était abattue sur eux, souvent avec la bénédiction et/ou la complaisance des Américains et des autres puissances démocratiques, les islamistes se sont érigés, aux yeux de la masse, comme une force légitime. Il convient, par ailleurs, de rappeler qu’ils furent totalement absents durant les révoltes populaires ayant donné naissance au “printemps arabe” et qu’ils ont récupéré, par escroquerie populiste, les dividendes de ce mouvement.

Last but not least, le mouvement islamiste, dans son ensemble, dispose, à travers les mosquées, là aussi avec la complaisance des régimes autocratiques qui ne cessent de l’instrumentaliser, d’une tribune régulière qui permet à ses promoteurs de rester en contact avec le peuple et de distiller ainsi des théories fumeuses. Avantage dont sont privées évidemment toutes les forces démocratiques.

Par ailleurs, les islamistes, dans d’autres cas, sont les alliés objectifs des autocrates. Il n’y a qu’à voir l’exemple de l’Algérie où le pouvoir s’est allié avec des formations islamistes, celles qui ne remettent pas en cause un système de gouvernance basé sur la fraude, le clientélisme et la corruption. Cas de figure similaire au Maroc où des islamistes proches de la monarchie sont devenus les sous-traitants désignés de celle-ci.

Au regard de tous ces éléments, serait-il juste d’affirmer que l’islamisme ne serait pas antidémocratique? Il y a un pas que la diplomatie américaine n’aurait jamais dû franchir. En effet, sans revenir sur les fondements de l’islamisme, il est utile de rappeler que cette pensée n’a jamais été en phase avec les valeurs démocratiques et notamment s’agissant de l’égalité entre les sexes, de la protection des droits des minorités religieuses et sexuelles, du respect de toutes les opinions, notamment celles des non-croyants et de toutes les questions philosophiques qui mettent en discussion ou en débat la “notion du sacré”. Idem pour le respect de la liberté de la presse qui, récemment encore, était bafouée en Tunisie lorsqu’un journal a commis le crime de lèse-islamistes en diffusant la photo d’une femme en tenue d’Ève. C’est dire…

Hillary Clinton exprime certes, un pragmatisme américain qui s’est toujours illustré par une realpolitik poussée parfois à l’extrême, mais elle aurait été mieux inspirée de trouver une autre formule pour saluer la “révolution tunisienne” que d’accorder, de facto, une respectabilité à un courant intégriste qui, depuis sa création en 1928, n’a eu de cesse de piétiner les principes élémentaires de la démocratie.

Entre les théories huntingtoniennes défendues par les républicains et les visions pragmatico-angélistes véhiculées par les démocrates, il serait nécessaire de sensibiliser les Américains et les amener à introduire plus de nuances dans leur discours officiel. Au lieu de soutenir des intégristes, l’administration américaine gagnerait à élever son niveau d’exigences à l’égard des partis islamistes.

Elle devrait soutenir plus franchement les forces progressistes qui existent bel et bien dans cette sphère dite “arabo-islamique”, car, contrairement aux Frères musulmans, ces derniers se battent réellement pour la défense des valeurs universelles. En tout état de cause, les États-Unis n’ont pas le droit de choisir la facilité et réduire la démocratie à un simple vocable à géométrie variable, utilisable comme levier au service de la diplomatie.

mercredi, 29 février 2012

Géopolitique : Islamisme et Empire: un flirt qui perdure…

Géopolitique : Islamisme et Empire: un flirt qui perdure…

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Le ciel du “printemps arabe” s’assombrit par l’ouest. Les belles et éphémères éclaircies des révoltes tunisienne et égyptienne se rembrunissent. Face à l’imminence de ce grain dévastateur, une bonne partie de l’intelligentsia arabe continue de baigner dans sa léthargie légendaire, confondant le présent avec le passé, obsédée par son fantasme du retour au sein maternel.

Qui ne se souvient de la « grande révolte arabe » contre l’empire ottoman agonisant ? L’histoire serait-elle un éternel recommencement ?!

Il y a tout juste cent ans, hypnotisés par l’Occident, manipulés par les Français et les Britanniques, les Arabes de la péninsule aidaient à porter le coup de grâce aux Ottomans. Leur nationalisme fougueux fut savamment exploité par les grandes puissances de l’époque et se transforma en piège mortel.

 

Carte: accords Sykes-Picot

Mais il n y avait pas que les arabes qui fussent instrumentalisés; usant du même stratagème, les puissances occidentales ont oeuvré à exacerber le nationalisme turc tout en poussant la communauté chrétienne à la révolte. C’est en dressant les ethnies et les confessions les unes contre les autres que l’Occident parvient à faire imploser l’*empire Ottoman. Le rêve naïf de libération arabe a vite viré au cauchemar à la suite des accords franco-britanniques de *Sykes-Picot. Balkanisé, le Proche-Orient ne se relèvera plus et continue jusqu’à nos jours à être miné par les dissensions internes, confessionnelles, ethniques et politiques entretenues par Londres, Paris et Washington.

Ayant failli aux promesses faites à Hussein ibn Ali, Chérif de la Mecque, les Britanniques et les Français s’employèrent après la première guerre mondiale à dépecer et à coloniser le Proche et Moyen Orient. Une anecdote riche en significations a marqué les péripéties de cette guerre coloniale : juste après l’occupation de Damas par l’armée française, le Général Gouraud, confondant francs et français, se rendit devant le tombeau de Saladin et prononça cette phrase demeurée célèbre : ” Nous voici de retour “. Presque mille ans d’histoire n’ont pas suffit aux Occidentaux de digérer la défaite des croisés envahisseurs face à Salah Eddine. Cette attitude revancharde continue à alimenter l’imaginaire occidental et sert depuis des siècles de substrat idéologique à tous les projets coloniaux visant l’Orient.

Dès la fin du XVIIIème siècle, les arabes répondaient à l’expansion européenne et à la domination ottomane en empruntant deux cheminements opposés. C’est au moment même où Mohammed Ali mettait en oeuvre un projet de rénovation de l’Égypte considéré par les historiens comme l’amorce de la renaissance arabe (Nahda) que se répandait en Arabie le courant salafiste, le wahhabisme.

Mohammed Ali et son fils Ibrahim Pacha adhéraient pleinement à un projet de nation arabe qui rassemblerait tous les Arabes de l’Égypte à la Mésopotamie. Ils oeuvrèrent à l’émergence d’une renaissance intellectuelle, sociale et culturelle sans précédent et aidèrent au développement de l’agriculture et de l’industrie. Mohammed Ali s’appuya sur une jeune génération d’oulémas réformistes de l’envergure du cheikh Rifa’a al-Tahtawi. Ces oulémas ne voyaient pas de contradiction entre l’islam et la modernité et soutenaient la plupart des réformes. A la fin du XIXème siècle le mouvement nationaliste arabe touche la Grande Syrie.

Le sentiment de plus en plus fort d’être dominé par les Turcs provoqua le rapprochement des chrétiens et des musulmans autour de leur identité arabe. Ce nationalisme avant tout culturel et moderniste finissait par céder le pas dès 1880 à un nationalisme politisé et revendicatif. La répression ottomane du mouvement nationaliste arabe qui a suivi la révolution Jeunes-Turcs de 1908, développa du Machrek au Maghreb une radicalisation nationaliste revendiquant un gouvernement non confessionnel sur l’ensemble des territoires arabes. A la veille de la première guerre mondiale, Paris est devenu la capitale des différents mouvements nationalistes arabes. Il faut dire que depuis un bon moment Londres et Paris ne tarissaient pas d’effort pour provoquer les dissensions entre groupes ethniques et confessionnels au sein de l’empire ottoman. En pleine guerre mondiale, le Chérif de la Mecque, Hussein ibn Ali, sollicité par les nationalistes arabes, poussé par les britanniques et les français, s’engagea militairement contre les ottomans. La création d’un État arabe unifié conduisant la nation dans la voie d’une authentique renaissance ne fut malheureusement qu’une chimère.

Trahi à la fin du conflit par les franco-britanniques, Hussein ibn Ali perd même sa province du Hedjaz que les Hachemites ont toujours gardée même sous les Mamelouks et sous les Ottomans.

Bien qu’ouvert sur son époque et moderniste, le nationalisme arabe a été tué dans l’oeuf par les Occidentaux alors que c’est sous l’oeil bienveillant des Britanniques qu’Abd al Aziz Ibn Saoud s’empare de Riyad en 1902 et se donne le titre politique d’émir du Nejd et celui religieux d’imam des Wahhabites. Il organise en 1912 les Bédouins en “ikhwan” (fratries). Cette force de frappe lui permet alors de reprendre graduellement le pouvoir dans la majeure partie de la péninsule au prix de dizaines de milliers de morts. Ayant observé la neutralité pendant la première guerre mondiale, il parachève en 1924 son oeuvre en chassant de la Mecque le chérif Hussein Ibn Ali. Il est utile de rappeler que depuis le milieu du XVIIIème siècle, l’alliance de Mohammad Ibn Saoud, chef d’une tribu du Nejd et de Mouhammad Ibnou Abdel Wahhab, fondateur de l’école wahhabite a permis de propulser les Saoud à la tête des tribus arabes qui onze siècles après la naissance de l’islam repartaient à la reconquête… du monde musulman. Il est évident que, sans son instrumentalisation politique, le wahhabisme, courant unitarien né dans le désert de Nejd, condamnant le luxe somptuaire, brandissant une piété rude et austère, prônant un retour à un Islam dégagé des subtilités des glossateurs et des dévotions adventices n’aurait été qu’un courant réformiste parmi d’autres.

Le soutien de l’Occident au nationalisme islamique est une constante de sa politique proche et moyen-orientale. En effet, tout au long du XIXème siècle, les Britanniques ne cessaient de pousser les Saoud wahhabites à porter des coups répétés aux flancs de l’empire ottoman alors qu’ils se dressaient contre toute velléité de projet nationaliste arabe.

En 1840, ces mêmes Britanniques volaient au secours de leurs ennemis jurés, les Ottomans et mettaient fin aux ambitions panarabes de Mohamed Ali qui, après avoir arraché l’Arabie aux Saoud et le Soudan aux Mamelouks, s’empara de la Grande Syrie et avança sur l’Anatolie. En aidant les wahhabites à dominer l’Arabie et ses lieux saints, les occidentaux ont cru pouvoir ainsi marginaliser le monde arabe en le poussant en quelque sorte hors de l’histoire.

L’effondrement de l’empire ottoman a conduit à son éclatement. La société impériale déstructurée se transforme en sociétés féodales malgré les apparences trompeuses.

Ce que nous voulons, disait Lord Crowe, ministre libéral de sa Gracieuse Majesté, ce n’est pas une Arabie unifiée, mais une Arabie fragmentée, divisée en principautés soumises à notre autorité“. Mais ce qu’oublie de préciser ce même Crowe est cette exception accordée à l’Arabie Saoudite : un pays créé de toutes pièces, d’une superficie de plus de deux millions de km², encensé par les vainqueurs de la première guerre mondiale et échappant à la domination coloniale!

Les dirigeants européens ont vite compris l’intérêt que représente l’intégrisme wahhabite, une idéologie qui ne peut que renforcer la dislocation du Proche et Moyen-Orient. En plus de l’hémorragie incontrôlable de Sykes-Picot qui affecte sa géographie, le monde arabe perd ses repères historiques et part au galop, à contre-sens, à la recherche de son identité… Les puissances occidentales font ainsi coup double en désorganisant du même coup l’espace et le temps de l’univers arabo-musulman. C’est cette “philosophie” qui constituera l’inlassable leitmotiv géopolitique appliqué par le monde dit “libre” à cette partie de la planète.

L’instrumentalisation de l’intégrisme musulman par le politique marquera de son sceau tout le XXème siècle.

Manipulés, les islamistes continuent de jouer (probablement à leur insu) le jeu de l’Empire. Après la conquête du Hidjaz, Abdelaziz Ibn Saoud signe le 20 mai 1927 avec les Britanniques le traité de Djeddah par lequel il renonce à toute extension du territoire saoudien. Les Ikhwân, désireux de poursuivre le jihad, désobéissent et attaquent l’Irak alors sous mandat britannique. En mars 1929, Abdelaziz écrase alors militairement ceux-là mêmes qui l’ont porté au pouvoir grâce notamment à l’appui de l’aviation britannique.

A la fin de la deuxième guerre mondiale émerge l’empire américain avalant pour ainsi dire les deux empires occidentaux européens. Le “Pacte du Quincy”, conclu en février 1945 entre le président Franklin Roosevelt et le Roi Abdel Aziz, à bord du croiseur américain Quincy, chasse pratiquement les puissances européennes du Moyen-Orient et offre en contrepartie une protection inconditionnelle au wahhabisme saoudien. Le dernier obstacle qui se dresse encore face à la fureur hégémonique de la “première démocratie occidentale” est l’Union Soviétique, le dernier empire européen…

En parfaits héritiers de la perfide Albion, les Américains poussent les islamistes contre le bloc communiste et ses satellites. En effet, le modèle “socialisant” et panarabe que propose Nasser ainsi que son rapprochement des soviétiques en pleine guerre froide affolent les yankees. Ceux-ci optent pour une diplomatie confessionnelle en consolidant les courants islamistes passéistes dans le monde arabe. L’objectif était de maintenir dans un sous-développement philosophico-économique l’ensemble du monde arabo-musulman tout en poussant les islamistes à s’engager dans une guerre sainte contre les mécréants communistes.

En juillet 1953, une délégation de musulmans est invitée aux États-Unis et reçue à la Maison Blanche. Parmi les invités se trouvait Saïd Ramadan, le gendre de Hassen El Banna, fondateur de la confrérie des Frères Musulmans. S’adressant à l’assistance, Eisenhower dit : “notre foi en Dieu devrait nous donner un objectif commun : la lutte contre le communisme et son athéisme”.Tout est dit! Fidèles aux méthodes de leurs prédécesseurs, les étasuniens usent de la même duplicité pour faire imploser cette fois-ci l’empire soviétique.

Mais c’est seulement au milieu des années 70 que Zbigniew Brzezinski, patron du Conseil national de sécurité (NSC) parvient à convaincre Carter de jouer la carte islamiste pour affaiblir l’Union soviétique.

L’invasion de l’Afghanistan par l’Union soviétique en décembre 1979 surviendra à point nommé. Il est toutefois utile de préciser que c’est l’assistance clandestine aux opposants du régime pro-soviétique de Kaboul ordonnée par Carter le 3 juillet 1979 qui a provoqué l’invasion de l’Afghanistan par les Soviétiques et non l’inverse.

Après l’élection de Ronald Reagan, la nouvelle administration accepta totalement les plans du Conseil National de Sécurité et de la CIA élaborés sous Carter, sachant pourtant que le prix de cette aventure serait la radicalisation de l’islamisme anti-occidental un peu partout dans le monde. Des fondamentalistes de tous les pays arabes sont alors encouragés à combattre les communistes et les nationalistes dans leurs propres pays. L’endoctrinement financé par l’Arabie Saoudite conduira des dizaines de milliers de jeunes à emprunter le chemin du Jihad en s’engageant dans la guerre sovieto-afghane.

Moudjahidîn, vous n’êtes plus seuls, votre combat est le nôtre”, lance Ronald Reagan en janvier 1988. Entre 1980 et 1989, la résistance afghane aura reçu des Américains près de quinze milliards de dollars d’assistance militaire. Sacrés “Moudjahidin” ou encore “combattants de la liberté“, adulés à l’unanimité par tous les médias occidentaux, les islamistes finissent, toutefois, par se retourner contre leurs commanditaires lorsqu’ils se rendent compte qu’ils n’ont été que de simples instruments entre les mains de l’Empire et de son vassal saoudien. Cette fois-ci les “Afghans” ne se laissent pas faire comme il fut le cas pour les “Ikhwan” en 1929.

De longues années de terreur vont alors secouer la planète. Terrorisme souvent gonflé par les médias, souvent romancé. Les éléments du réel et du frictionnel s’emmêlent pour balancer à la face du monde une image horrifique de l’islam. Ben Laden, une pure réplique de Belzébuth, met en échec l’infernale machine de guerre américaine et bénéficie d’une longévité pour le moins surprenante… grâce certainement à sa parfaite maîtrise de la magie noire! Les héros d’hier devenus soudain les terroristes d’aujourd’hui se retrouvent logés dans le camp de Guantánamo. Les dictatures arabes, aux ordres des Américains, après avoir lâché la bride aux islamistes pendant plus d’une décennie, se mettent à leur tour à les persécuter de la manière la plus ignoble…

L’Islamophobie orchestrée depuis une vingtaine d’années par les médias et par l’ensemble des dirigeants occidentaux annonce-t-elle la fin de cette politique confessionnelle si chère à la Grande Bretagne et aux États-Unis ?

Pour répondre à une telle question, il est nécessaire de situer la montée du terrorisme islamiste en le replaçant dans son contexte.

A partir de 1997, les néoconservateurs envahissent la scène politique américaine. Le ”Project for a New American Century’ ‘, l’association-phare des néoconservateurs avec, à sa tête, des gens comme George W. Bush, Jeb Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld ou encore Paul Wolfowitz s’est fixé pour objectif de profiter de la phase unipolaire pour assurer la suprématie américaine pour les 100 ans à venir.

L’association publie en septembre 2000 son manifeste sous le titre : “Rebuilding American Defenses“, où elle déclare entre autre :

« Les forces armées américaines autour du monde sont la preuve visible de la réalité des États-Unis en tant que superpuissance (…) Le processus de transformation (néolibéral) même s’il apporte des changements révolutionnaires sera sans doute long, sauf si un événement catastrophique et catalyseur venait à se produire comme un nouveau Pearl Harbour ».

En juin 2001, sept mois avant les attentats de septembre, Paul Wolfowitz donne une allocution à West Point dans laquelle il rappelle que 2001 est le 60e anniversaire du désastre américain à Pearl Harbor. Propos à la redondance étonnamment prophétique. Quelques semaines après l’attentat du 11 septembre, le programme de réarmement, auparavant bloqué par le congrès, est approuvé sans discussion ni modification. Grâce à l’intervention d’Oussama Ben Laden et à l’horreur des actes commis, la stratégie des néoconservateurs allait pouvoir s’appliquer, en donnant à l’administration Bush l’occasion d’exploiter à fond la menace terroriste et d’accaparer les pleins pouvoirs pour partir juste après en croisade…

On est alors en droit de se demander à qui ont réellement profité les crimes terroristes… Certainement pas à l’Irak qui a subi la vengeance des néo-croisés sans raison aucune, ou plutôt pour la simple et bonne raison qu’il a osé voler de ses propres ailes. L’Arabie Saoudite, pourtant pays d’origine de la majorité des terroristes qui ont attaqué les tours jumelles, n’a nullement été inquiétée, tout au contraire…

En vérité, l’Empire n’a point changé de stratégie, car si dans le passé les islamistes ont été instrumentalisés pour porter le coup fatal aux Ottomans puis aux Soviétiques, aujourd’hui il s’agit de les manipuler de sorte qu’ils portent directement préjudice à leur propre camp. Le terrorisme démesurément amplifié par les médias vise moins les extrémistes que l’islam en tant que civilisation et le monde arabo-musulman en tant qu’espace géographique.

Le rôle démoniaque du mythique Ben Laden et les caricatures dénigrant le prophète, pour ne citer que ces deux exemples, ont pour fonction première d’approfondir la fracture qui n’arrête pas de se creuser entre l’Europe et le monde arabe. A la haine de l’islam entretenue en Occident répond par ricochet la haine de l’Occident dans le monde arabe, poussant ainsi les classes populaires des deux camps à s’engouffrer tête baissée dans le repli identitaire.

Le “”Choc des civilisations’ ‘” de Samuel Huntington n’est en fait qu’une théorisation après coup de la stratégie néoconservatrice et vient enrichir toute une littérature servant à élargir encore plus le gouffre. La civilisation musulmane, civilisation millénaire, réduite à une simple caricature, transformée en épouvantail, est jetée en pâture à des populations désorientées par les effets de la crise économique. De l’autre coté de l’abîme, réagissant à la transe islamophobe occidentale, faisant écho à la générosité des associations caritatives islamiques (les pétrodollars du golfe y sont bien entendu pour quelque chose…), des populations majoritairement pauvres se jettent dans les bras sécurisants des islamistes. Du Maroc à la Jordanie, les islamistes s’emparent de la majorité des sièges dans les différents parlements…

Est-ce là le but des néoconservateurs?

Absolument! Dans son livre “Le Grand Échiquier” Zbigniew Brzezinski, divise le monde en « zones dures » ou « acteurs géostratégiques » tels que les États-Unis, l’Inde, la Chine, la Russie, etc., alors que les « zones molles » désignent soit « l’ensemble des nations non souveraines » à l’image des nations africaines ou latino-américaines, soit les puissances ou civilisations anciennes (européennes, islamiques, etc.) affaiblies, ou ayant partiellement abdiqué leur souveraineté, ce qui semble être le cas des États d’Europe occidentale qui s’en remettent à l’OTAN, donc aux Etats-Unis, pour la défense de leur sécurité.

La nature « molle » de l’Europe de l’Ouest est vitale pour les États-Unis dans la mesure où elle empêche qu’un bloc anti-hégémonique continental européen ne se constitue autour de l’Allemagne ou de la Russie. Il s’agit donc pour les États Unis d’imposer leur politique unipolaire en s’opposant à toute velléité d’expansion des autres « acteurs géostratégiques », tels que la Russie ou la Chine, en les encerclant jusqu’à l’étouffement.

L’Europe de l’Ouest, l’Europe centrale, les anciennes républiques socialistes, l’Afrique, le monde arabe, les Balkans eurasiens et jusqu’aux bordures de la mer Caspienne, tout cet espace couvrant la production et la circulation des hydrocarbures est condamné à ne constituer qu’un vaste ensemble de « zones molles » sous la tutelle de l’île-empire thalassocratique américaine.

Pour gérer un ensemble aussi vaste rien de moins que la bonne vieille recette : diviser pour régner. Le couple infernal, terrorisme islamiste/islamophobie, a réussi à rompre les liens historiques entre le monde arabe et l’Europe, entre les Russes et les républiques islamiques de la fédération de Russie. Dans les pays arabes, l’intégrisme sunnite, encouragé par les étasuniens, s’en prend aux chiites, aux coptes, à la gauche, aux nationalistes arabes, aux laïques…

C’est en plongeant le monde dans un tel magma incandescent que l’Amérique des néoconservateurs compte ainsi gérer la planète tout au long de ce XXIème siècle. Fidèles aux méthodes de leurs cousins britanniques mais beaucoup plus “enthousiastes”, les étasuniens tentent d’installer les fondamentalistes sunnites à la tête de l’ensemble du monde arabe tout en découpant ce dernier en soixante douze morceaux.

 

 

Carte du nouveau redécoupage des frontières

En effet, le Lieutenant-colonel retraité *Ralph Peters de l’US Army s’élève contre l’amateurisme des sieurs Sykes et Picot et nous propose en 2006 une carte remodelée du ” Nouveau Moyen-Orient ” dans laquelle chacun des pays arabes se trouve divisé en trois ou quatre mini-territoires sur des bases confessionnelles et ethniques. Ralph Peters nous assure que les frontières ainsi remodelées résoudront totalement les problèmes du Moyen-Orient contemporain. Eh bien, je ne vous apprends rien si je vous dis que ce cher Lieutenant-colonel passe pour un as dans l’art de l’antiphrase! Noyé dans l’obscurantisme, déchiqueté, déchiré par toutes sortes de dissensions confessionnelles, ethniques, politiques, le monde arabe se verra transformé in fine en « zone liquéfiée », embourbé dans la barbarie la plus abjecte.

Une année vient de s’écouler depuis les soulèvements populaires en Tunisie et en Égypte. Plus le temps passe plus les questions fusent. Le ravissement qui a accompagné les premières semaines des révoltes et les joutes oratoires enfiévrées de la Kasbah et de la place Tahrir ont cédé le pas aux palabres fastidieuses des parlementaires. Il faut cependant rendre hommage au professionnalisme de monsieur Essebsi, l’ex-Premier ministre tunisien, ainsi qu’aux généraux égyptiens qui ont su en vrais spécialistes réprimer toute cette jeunesse en ébullition et remettre de l’ordre dans les affaires.

La question qui me turlupine est : comment se fait-il que le soulèvement du bassin minier de Gafsa de 2008 qui a duré plusieurs mois ne soit jamais parvenu à inquiéter le pouvoir qui l’a d’ailleurs sauvagement réprimé?

Bien que spontanée et justifiée par les prédations du clan au pouvoir, la vague de révoltes populaires qui ont frappé la Tunisie et l’Égypte en décembre 2010 et janvier 2011 ne constitue nullement une première annonçant le réveil du monde arabe comme se plaisent à le souligner les médias occidentaux. En effet des troubles similaires s’étaient produits en Tunisie en 1969, 1978, 1984, 2008, ainsi qu’en Égypte en 1968, 1977, 1986, 1987, 1995, tous réprimés avec la plus extrême violence sans que l’Occident ne s’en émeuve outre mesure.

En réalité, ce qui distingue les révoltes de 2011, dans ces deux pays, est que l’armée a pour la première fois refusé de jouer son rôle répressif. Objectivement, c’est bien l’armée qui a renversé les deux dictateurs. On ne peut s’empêcher de se demander si les décisions prises par les armées tunisienne et égyptienne étaient bien souveraines. Dans des pays comme la Libye ou la Syrie où l’armée est restée fidèle au pouvoir, l’Empire n’a pas hésité à utiliser son arsenal infernal aidé en cela par ses vassaux européens pour “ramollir” les restes du “noyau dur” du nationalisme arabe. Pour ce faire, on n’a pas hésité à massacrer plus de soixante mille libyens et installer, en fin de compte, les fondamentalistes au pouvoir. En Syrie, on est en train d’assister un remake à peu de choses près du scénario Libyen. En attendant la décision du conseil de sécurité, les “Moudjahidines” d’Al Qu’Aïda et des Frères Musulmans s’acquittent à merveille de la tâche qui leur incombe. Étrange, quand même, ce flirt entre l’Empire et Al Qu’Aïda! C’est à n’y rien comprendre, ou alors nous avons affaire à un couple de fieffés cachottiers!

La Tunisie, sans l’avoir choisi, est condamnée à jouer le rôle de pionnier et de cobaye dans le laboratoire du remodelage du monde arabe. Le gouvernement issu du mouvement Ennahdha se veut rassurant mais laisse ses sympathisants ainsi que les salafistes envahir l’espace public en recourant souvent à la violence pour imposer leurs points de vue. Ce flou qui enveloppe la politique intérieure aussi bien que la politique étrangère ne fait qu’envenimer la situation.

Dans ce pays, où n’existe traditionnellement ni clivage ethnique ni clivage confessionnel, les graves problèmes sociaux sont éludés alors qu’on voit pointer à l’horizon un conflit entre islamistes et laïcisants qui s’aggrave de jour en jour. Le gouvernement, passif, laisse faire et ne tente rien pour éteindre cet incendie qui prend un peu partout.

Dans quel but à votre avis? En parallèle, le président de la république, Moncef Marzouki, en tournée dans les pays de l’Afrique du Nord, s’essouffle à vouloir réanimer un mort-vivant, l’Union du Maghreb Arabe (UMA). Ce cher Marzouki n’a-t-il point entendu parler du “nouveau Moyen-Orient”?! Je me demande si c’est le président tunisien qui rêve debout ou alors c’est moi qui suis en train de faire un affreux cauchemar!

Comme pour narguer l’ensemble du monde arabe, les États Unis ont choisi de se faire seconder dans leur entreprise par le minuscule Qatar. L’Empire cherche-t-il ainsi à rendre jaloux l’imposant voisin saoudien?

Manoeuvre astucieuse et rentable. De toute façon, les vassaux européens, voisins des arabes et les monarques du golfe, tous aveuglés par la puissance de leur suzerain mesurent mal le risque qu’ils encourent. Il y a, en effet, de fortes chances que ces fossoyeurs du monde arabe soient entraînés, rien qu’à cause de leur proximité, dans la tourmente du “*chaos constructeur“.

Fethi GHARBI

Lectures complémentaires (ajoutées par mes soins)
Comment l’Empire ottoman fut dépecé (accords Syles-Picot. Monde Diplo.
La nouvelle carte américaine du Proche-Orient
*Ralph Peters
Chaos constructeur

blog.emceebeulogue.fr

dimanche, 05 février 2012

Le rapport secret de l’Otan sur le double jeu pakistanais

Le rapport secret de l’Otan sur le double jeu pakistanais ou les talibans prêts à (re)prendre le contrôle de l’Afghanistan

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Ce document décrit dans le détail la collusion entre les services secrets pakistanais et les talibans afghans.

La nature incestueuse des liens qui unissent les services de renseignements pakistanais (ISI) aux talibans afghans était connue depuis de longues années par les capitales occidentales. Mais le rapport secret compilé par des officiers américains en Afghanistan, basé sur 27.000 interrogatoires de plus de 4000 détenus talibans ou membres d’al-Qaida et transmis aux commandants de l’Otan le mois dernier, est une véritable bombe.

Le document, intitulé «l’état des talibans», repris mercredi par le Times et la BBC, décrit pour la première fois en détail les relations intimes et la collusion existant entre le gouvernement et les services pakistanais d’un côté, les talibans afghans de l’autre. L’État pakistanais aurait ainsi mis en place un réseau complexe d’espions et d’intermédiaires chargés de donner des conseils stratégiques aux talibans combattant la coalition.

Un soutien concret aux insurgés

«Le gouvernement du Pakistan reste intimement engagé auprès des talibans», notent les auteurs. Y compris dans l’assistance fournie aux insurgés, selon le rapport, pour organiser leurs attaques contre les forces de la coalition et le gouvernement Karzaï en Afghanistan. Les services secrets pakistanais, écrivent les auteurs, offrent un soutien concret aux insurgés via des groupes militants basés au Waziristan et au Baloutchistan, à la frontière de l’Afghanistan. Les officiers de l’ISI «soutiennent la nécessité de poursuivre le djihad et l’expulsion des envahisseurs étrangers d’Afghanistan».

Les services pakistanais, poursuit le rapport, sont au fait de toutes les activités des talibans afghans et de leurs chefs, qu’ils reçoivent régulièrement et à qui ils fournissent profusion de conseils. «Le Pakistan sait tout. Les Pakistanais contrôlent tout», affirme un commandant d’al-Qaida interrogé par les Américains.

Le rapport affirme également que le gouvernement pakistanais et l’ISI connaissent parfaitement les lieux de résidence des plus hauts dirigeants talibans. La capture de Ben Laden, tué par les forces spéciales américaines au nord d’Islamabad en mai 2011, dans une maison qui jouxtait une grande académie militaire, avait déjà jeté un froid entre Washington et Islamabad. Mais si l’on en croit les détenus interrogés, le chef taliban Haqqani habiterait juste à côté de l’ISI, dans la capitale pakistanaise. Quand au mollah Omar, le commandant suprême des talibans, il pourrait s’être réfugié dans la région de Quetta, au sud-est du Pakistan.

«Profondeur stratégique»

Entre les deux pays, les frontières, qui s’étendent sur 2.500 kilomètres, ont toujours été poreuses et pachtounes. Depuis l’intervention des forces internationales en Afghanistan après le 11 septembre 2001, les talibans se sont réfugiés dans des bases, au sein des Zones tribales frontalières.

Le Pakistan et ses services de renseignements, qui ont besoin de la «profondeur stratégique» de leur voisin du Nord, notamment face à l’ennemi indien héréditaire, ont toujours joué un double jeu dans la région, faisant croire aux Américains qu’ils participaient à la guerre contre le terrorisme tout en encourageant les extrémistes en Afghanistan. Mais le rapport des officiers américains va encore plus loin en suggérant que les chefs talibans sont directement manipulés par le Pakistan.

Eclairage :

Soutenus par leurs alliés pakistanais, les talibans s’apprêtent à reprendre le pouvoir après le retrait des forces de l’Otan prévu en 2014. Serait-ce un échec majeur de la politique occidentale menée en Afghanistan depuis dix ans et dont l’un des buts avait été de chasser du pouvoir les talibans alliés à al-Qaida, puis d’empêcher leur retour? C’est en substance ce que suggère le contenu du rapport secret américain transmis à l’Otan le mois dernier.

Ses conclusions, en tout cas, sont en contradiction totale avec les déclarations des chefs militaires et politiques occidentaux, qui assurent au contraire que les insurgés afghans ont reculé, ­affaiblis par la nouvelle politique de contre-insurrection (surge). Et que les forces de sécurité afghanes, police et armée, seront bientôt assez fortes pour assurer la sécurité du pays et résister à la pression des talibans.

 

 

Changement de stratégie

«La force, la motivation, le financement et les succès tactiques des talibans sont demeurés intacts», précise le rapport. Les insurgés sont même davantage «confiants» dans leur victoire, que beaucoup jugent aujourd’hui «inévitable».

Après avoir été chassés du pouvoir fin 2001, les talibans ont commencé à regagner du terrain à partir de 2005, lorsque les forces américaines et britanniques étaient polarisées sur le conflit irakien. Aujourd’hui, la guérilla est active dans les deux tiers du pays. Elle mène régulièrement des actions jusqu’au cœur de la capitale.

Depuis un an, affirment les détenus interrogés dans le rapport, les talibans ont changé de stratégie. Ils privilégient désormais les efforts destinés à capitaliser sur l’impopularité du gouvernement corrompu d’Hamid Karzaï plutôt que les opérations militaires.

Afin de ne pas retarder le transfert de responsabilités aux forces afghanes, le mollah Omar aurait signé une directive demandant aux insurgés de ne pas attaquer les troupes étrangères quand elles se retirent. Et pour encourager les forces de l’Otan à quitter l’Afghanistan plus vite, les talibans auraient volontairement cessé leurs attaques dans certaines régions. Ils ont aussi, affirment les détenus interrogés par les Américains, multiplié leurs efforts pour convaincre les responsables gouvernementaux au niveau local et les soldats enrôlés dans les forces afghanes de les rejoindre. C’est la première fois qu’est ainsi décrite la coopération ­entre les insurgés talibans et les militaires de l’ANA, formés par les troupes de l’Otan.

Gouvernement de l’ombre

«Que ce soit ou non officiel, les talibans, dans tout l’Afghanistan, travaillent déjà avec le gouvernement au niveau local», affirme le rapport. Certains membres du cabinet de Kaboul auraient même repris contact avec les insurgés, anticipant leur victoire. «De nombreux Afghans se préparent à un éventuel retour des talibans», écrivent encore les auteurs.

L’émergence progressive d’un gouvernement taliban de l’ombre et l’influence grandissante des insurgés dans les zones où les forces de l’Otan se sont retirées, posent aujourd’hui des questions sur la capacité du gouvernement et des forces afghanes à contrôler le pays après 2014. Les forces de sécurité afghanes, qui formaient pourtant l’ossature de la nouvelle stratégie occidentale, seront-elles capables de résister longtemps aux talibans après le départ des troupes de combat? Rien n’est moins sûr, même si, avant de pouvoir reprendre Kaboul, les insurgés devront encore affronter les forces spéciales des pays occidentaux, qui n’ont pas prévu de se retirer en même temps que les troupes de combat, en 2014.

Isabelle Lasserre

lundi, 23 janvier 2012

Et si la Libye devenait le nouveau sanctuaire d’al-Qaïda ?

Et si la Libye devenait le nouveau sanctuaire d’al-Qaïda ?

La nébuleuse djihadiste serait-elle en passe de quitter le Pakistan pour la Libye?

Des sympathisants d’Oussama Ben Laden le 6 mai 2011. Reuters/Naseer Ahmed

 

D’après le Guardian,  qui cite des sources proches de mouvements islamistes en Afrique du Nord, Al-Qaida serait progressivement en train de migrer des zones tribales du Pakistan vers l’Afrique du Nord. Derrière cette nouvelle stratégie se cache notamment un homme, Abu Yahya al-Libi, numéro 2 officieux d’Al-Qaida qui semble suivre les événements libyens de très près. Deux membres très expérimentés d’Al-Qaida auraient déjà rejoint la Libye et plusieurs autres djihadistes ont récemment été arrêtés en chemin. Sous les coups des forces de l’OTAN en Afghanistan et au Pakistan, les militants d’Al-Qaida chercheraient à trouver refuge en Afrique du Nord et dans le Sahel, des régions qui leur offrent actuellement des conditions optimales pour prospérer.

Nébuleuse djihadiste en Afrique

L’influence d’Al-Qaida au Maghreb Islamique s’accroît en Afrique. Au Nigeria, la secte Boko Haram qui a revendiqué les attentats sanglants contre la communauté chrétienne, a vu plusieurs de ses combattants nouer des liens avec AQMI et les Shebabs en Somalie. «Les liens entre l’AQMI et Boko Haram étaient très faibles au départ, mais depuis deux ans environ on peut penser qu’il y a davantage de ramifications, notamment sur le plan logistique» explique Philippe Hugon, directeur de recherche à l’IRIS. Les enlèvements de plus en plus fréquents de ressortissants occidentaux au Mali et au Niger, ainsi que les combats en Somalie entre les milices shebab et les soldats kenyans et éthiopiens, confirment que les combattants islamistes n’ont jamais été aussi puissants dans cette partie du monde.

L’Afrique du Nord et plus précisément l’Algérie et la Libye pourraient être les prochaines destinations des djihadistes. Dans une récente vidéo datée du 5 décembre, Abu Yahya al-Libi a expliqué que la révolution libyenne ne sera réellement achevée que lorsque la charia aura été proclamée. S’adressant aux combattants libyens, il leur a ordonné de ne pas rendre leurs armes, sous peine d’être à nouveau «réduits en esclavage» comme sous le régime du colonel Kadhafi. Cette vidéo n’est pas la première. Le 29 octobre dernier, il avait exprimé le même message aux combattants libyens.

Des armes françaises aux mains d’al-Qaïda?

La question des armes apparaît primordiale. Depuis plusieurs semaines, les autorités libyennes peinent à désarmer les katibas ayant combattu les troupes de Mouammar Kadhafi. De nombreux pays, dont la France, ont fourni des armes aux combattants rebelles. Sauf que ces armes circulent rapidement via un trafic d’armes organisé en Libye et au nord du Sahel.  Mokhtar Belmokhtar, l’un des leaders d’Aqmi, a d’ailleurs affirmé en avoir «tout naturellement» récupéré une partie.

Alors que «deux membres très expérimentés d’Al-Qaida» seraient actuellement en Libye, on peut soupçonner Abu Yahya al-Libi, ressortissant libyen, d’être très attentif à leurs prochaines actions. Celui-ci (dont le vrai nom est Mohamed Hassan Qaïd) est souvent présenté comme le réel successeur d’Oussama Ben Laden.

Aussi bon théologien que grand communiquant (entre 2001 et 2002, à Karachi, au Pakistan, il occupa le poste de webmaster pour le site Internet des talibans Al-Imarah al-Islamiyah), il était à la fin des années 1980 parmi les premiers membres du Groupe de combat islamique libyen (GCIL) avant de faire l’essentiel de sa «carrière» en Afghanistan et au Pakistan. Arrêté par les services de renseignements pakistanais le 28 mai 2002 et incarcéré à la prison de Bagram en Afghanistan, il réussit à s’échapper le 10 juillet 2005, construisant ainsi une grande partie de sa légende auprès des aspirants djihadistes. Abu Yahya al-Libi, officiellement directeur du comité de droit d’al-Qaida, serait le véritable numéro 2 de l’organisation, selon Jarret Brachman, expert américain en contre-terrorisme, qui estime qu’il a l’aura et les compétences pour être le nouveau maître à penser d’Al-Qaida. «Je ne parle pas de chef au sens propre, mais d’un pouvoir bien plus important et imprévisible: le pouvoir d’inspirer.»

Des membres d’al-Qaïda parmi les combattants anti-Kadhafi?

En juillet, certains, citant la division «intelligence» de l’Otan, estimaient à 200 à 300 hommes le nombre de membres d’Al-Qaïda parmi les combattants libyens anti-Kadhafi. Ces djihadistes avaient été recrutés au début des années 1990 par deux lieutenants d’Oussama Ben Laden: Abu Laith al-Libi (sans lien de parenté), aujourd’hui décédé, et Abu Yahya al-Libi.

Plus nombreux, les anciens miliciens du GICL d’Abdelhakim Belhadj auraient rompu définitivement avec Al-Qaida en 2007 (bien que Belhadj affirme n’avoir jamais eu de lien avec Oussama Ben Laden).

«Le nouveau maître de Tripoli» et ses troupes semblent avoir joué le jeu de la coopération avec les occidentaux et le Qatar lors de la guerre civile libyenne jusqu’à devenir «l’islamiste fréquentable aux yeux des occidentaux». Une arrivée massive de combattants d’Al-Qaida et de djihadistes internationalistes dans la région pourrait donc clairement changer la donne.

Arnaud Castaignet

mardi, 10 janvier 2012

Le Qatar achète nos banlieues ou La diversité, cheval de Troie de l’islamisme

Le Qatar achète nos banlieues ou La diversité, cheval de Troie de l’islamisme

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

L’imprudence de nos dirigeants n’a décidément pas de limite; elle frôle, parfois, l’irresponsabilité. En plein débat sur le vote des étrangers aux élections locales, l’annonce de financements du Qatar dans certaines banlieues aurait du soulever bien des interrogations.

Le Qatar est, en effet, un émirat rigoriste qui achète tout: le sport, la culture. Pour améliorer son image. Mais il est aussi derrière tous les mouvements islamistes dans le monde arabe. Du Maroc à Damas, notre collègue algérien, Chems Eddine Chitour, l’a récemment rappelé dans nos pages. Il a été l’un des éléments moteurs de la guerre en Libye, derrière la France ou la poussant, selon les versions. Il finance tous les mouvements islamistes: au Maroc, en Tunisie ou en Egypte.


Le Qatar et la France : de l’amitié ?

Au Maroc, les islamistes ont remporté les élections, comme en Egypte et en Tunisie. La Syrie va connaître une guerre civile qui profitera aux religieux extrémistes. Il n’y a plus de Libye (BHL s’en félicite), mais des territoires soumis à l’autorité de chefs de guerre plus ou moins islamistes. Si un califat se constitue c’est, pour le moment, celui de Doha.

Le Qatar a pris la relève du wahhabisme saoudien dans l’exportation d’un Islam fondamentalisme qu’il fait coexister avec une économie dynamique et ultra moderniste, fondée sur l’or noir. Voilà les sauveurs des banlieues. Tout de même, cela ne choque-t-il personne ?

A quand les élus « qatari» de nationalité française?

“Le Qatar a créé un fonds d’investissement de 50 M€ pour financer des projets économiques portés par les habitants des banlieues de France”, a annoncé jeudi soir son ambassadeur à Paris, Mohamed Jahan Al-Kuwari.


L’Association nationale des élus locaux pour la diversité reçue par l’Emir du Qatar

Mais le financement des associations, l’aide aux élus de “la diversité” aura sans doute une contrepartie: la ré-islamisation, dans l’obédience, de nos banlieues. Nous aurons donc des élus « qatari» de nationalité française et des associations d’étrangers « qataris » qui pourront exiger des piscines non-mixtes et des repas halal partout, ainsi que le respect du port du voile…. Surtout, en cas d’obtention du droit de vote. Ce serait la coutume étrangère qui ferait la loi, dans les mairies par l’élection ou par pression.

Accepter le financement de nos banlieues à population immigrée, forte ou majoritaire, par le Qatar est absolument irresponsable. Que fait-on du principe de précaution ? Qui s’inquiète ou dénonce ce véritable danger d’ingérence religieuse par le canal économique ?

Ni les pouvoirs publics, qui étaient déjà restés étrangement silencieux lorsque, au printemps dernier, des membres de l’administration américaine avaient procédé avec une totale impudence à des manoeuvres d’instrumentalisation des “jeunes de banlieues” d’ascendance africaine.   Ni la presse. Tétanisée par ses complexes anti-racistes, elle ne voie que l’encouragement à “la diversité”, se contente de retranscrire la communication quatari. « Des élus de banlieue rentrent du Qatar. Leur but : promouvoir les talents des quartiers dans un pays en plein essor, où la culture franco-arabe n’est plus un handicap. Un voyage qui fait suite à deux séjours aux Etats-Unis.”

Qu’en pensent les intéressés ? « Alors que l’Europe est en crise, le Qatar explose”, répond Fouad Sari, élu écologiste et professeur à Vigneux-sur-Seine (Essonne). “Dans nos quartiers, le nouveau propriétaire du PSG et organisateur de la Coupe du monde de football 2022 fait rêver les jeunes.» « Au Qatar, les compétences comptent plus que la couleur de la peau », ajoute Houaria Hadj-Chikh, adjointe (apparentée PC) à Marseille.

Derrière les talents de la diversité, l’uniformité de l’islamisme?

Le Qatar ce n’est pas que des paroles. Il faut agir.” La bourse grande ouverte et ne cachant pas que les 50ME de l’émir n’était qu’un plancher, l’ambassadeur a été clair, devant la dizaine d’élus locaux des quartiers, tous originaires du Maghreb, en présence d’un journaliste de l’AFP “J’espère que ce partenariat sera noué très vite pour servir la relation entre le Qatar et la France“,  pays “stratégique” et “très important pour nous“, a poursuivi l’ambassadeur.  ”Les Français d’origine arabe peuvent nous aider dans notre partenariat avec la France“.

La France: objectif Qatari. Personne ne peut en douter. Attention, derrière les talents de la diversité, il peut se cacher l’uniformité de l’islamisme Qatari.

Jean Bonnevey

lundi, 09 janvier 2012

17 millions de victimes de la traite musulmane

17 millions de victimes de la traite musulmane

Entretien avec le Prof. Jacques Heers

Ex: http://anti-mythes.blogspot.com/

A partir du VIIe siècle, les musulmans ont pratiqué une traite esclavagiste touchant à la fois les Européens et les Africains. Agrégé et docteur en histoire, Jacques Heers a été professeur des universités et directeur du département d'études médiévales à la Sorbonne. Il a consacré plusieurs ouvrages à l'esclavage médiéval en Méditerranée, aux Barbaresques et aux négriers en terre d'islam (1), qui viennent d'être réédités. Autant dire que nul n'est mieux placé que lui pour parler de la traite musulmane.

Le Choc du mois : Y -a-t-il une spécificité de la traite musulmane ?

Jacques Heers : Il y en a deux. Son importance quantitative, d'abord. Les conquêtes musulmanes ont été d'une ampleur et d'une brutalité inédites. Et puis le fait que les musuhnans ont ajouté une dimension religieuse à l'esclavage, en distinguant très nettement le «fidèle», de «l'infidèle». En résumé, la théorisation du djihad et l'expansion territoriale musulmane aboutissent effectivement à l'apparition d'une forme d'esclavage tout à fait spécifique.

Même si certains exégètes affirment le contraire, le Coran tolère parfaitement l'asservissement des «chiens de mécréants». Confrontés à la question cie l'esclavage, les docteurs de la loi rendaient en général le même verdict : le prisonnier infidèle doit demeurer esclave, même s'il se convertit aussitôt ; c'est la punition de sa mécréance passée. En revanche, le captif musulman, même ramené «chargé de chaînes» doit immédiatement retrouver la liberté.

Théoriquement, le Coran interdit de réduire un musulman en esclavage, mais en pratique, les exceptions abondent, pour des raisons plus ou moins légitimes : les victimes sont de « mauvais musulmans », etc.

Quand apparaît la traite musulmane ?

Dès la naissance de l'islam, au VIIe siècle! Mahomet et ses fidèles possédaient des esclaves. C'était toutefois une pratique courante, durant toute l'Antiquité. Il n'est pas étonnant que les peuples orientaux, au cours du Haut Moyen Age, la perpétuent à leur bénéfice.

Au début de l'hégire, les esclaves sont essentiellement blancs...

Comment les musulmans se procurent-ils leurs esclaves ?

Essentiellement par la guerre. Les « cavaliers d'Allah » conquièrent, asservissent ou convertissent les populations cles Balkans, d'Asie Mineure et d'Europe. Ils ramènent d'immenses cohortes de prisonniers, hommes et femmes. On a vu des Sarrasins mener des razzias jusque dans les Alpes, au IX' siècle ! En 997, le calife al-Mansur, qui régnait sur l'Espagne arabo-musulmane - al Andalous - mena une interminable razzia dans les royaumes chrétiens du nord de la péninsule. Il s'enfonça jusqu'au cœur de la Galice, laissant Saint-Jacques-de-compostelle en ruines.

Toujours en Espagne, au XII' siècle, des flottes musulmanes croisent sur les côtes de Galice et, au petit matin, lancent des attaques sur les villages de pêcheurs. En Méditerranée, sur un autre front, les musulmans, maîtres de la Sicile, lancent des chevauchées contre les grands monastères et sur les routes de pèlerinage vers Rome. Ailleurs, les pirates musulmans ravagent les côtes du Languedoc ou de Toscane avec des flottes atteignant parfois cinquante galères ! Et chaque guerre apporte son lot de captifs, qui sont aussitôt convoyés pour être vendus sur les marchés, de l'Espagne au Maghreb et jusqu'en Orient...

Il y a une réelle préférence pour les esclaves blancs...

Les musulmans ont pratiqué la traite des Noirs, mais dans les premiers temps de l'hégire, l'ère d'expansion islamique, les esclaves étaient essentiellement des Blancs. Laissez-moi vous citer le savant Ibn Haukal, qui affirmait, au temps de l'Espagne arabo-musulmane que « le plus bel article importé d'Espagne sont les esclaves, des filles et de beaux garçons qui ont été enlevés dans le pays des Francs et dans la Galice. Tous les eunuques slaves qu'on trouve sur la terre sont amenés d'Espagne et aussitôt qu'ils arrivent, on les châtre. Ce sont des marchands juifs qui font ça ». Le géographe Ibn al-Fakih, lui, racontait que « de la mer occidentale, arrivent en Orient les esclaves hommes, romains, francs, lombards et les femmes, romaines et andalouses ».

Quand la traite musulmane cesse-t'elle en direction de l'Europe ?

Elle s'est considérablement réduite lorsque les Arabes ont passé le Sahara pour aller razzier l'Afrique noire. Mais elle a très vite repris, dès les années 800, avec la piraterie. Elle s'intensifie en 1517, lorsque Alger, véritable nid de pirates, tombe aux mains des Turcs. La guerre de course fait alors partie intégrante du plan de conquête de la Méditerranée par les Ottomans. L'esclavage des chrétiens, méthodiquement mené, redouble.

Dans le même temps, les Barbaresques assiègent Rhodes en 1522 et Malte en 1565. S'ils perdent Rhodes en 1523, les chevaliers de Malte repoussent les musulmans en 1566. L'ordre de Malte devient une véritable sentinelle de la Méditerranée. Ses marins font régner la terreur chez les musulmans et pratiquent eux-mêmes l'esclavage ! Ils jouent un rôle clef dans la bataille de Lépante en 1571, qui marque le grand coup d'arrêt aux incursions musulmanes en Europe.

En 1888, à Médine, 5.000 esclaves sont vendus dans l'année

 

Mais les musulmans poursuivent la traite des chrétiens en Afrique noire...

 

Exact. Il y a trois grandes routes de traite. La première mène en Afrique de l'Ouest sahélienne, où le commerce des esclaves fait traditionnellement partie des échanges transsahariens. La deuxième passe par la mer Rouge et le Soudan. En Arabie, en 1888, sur le seul marché de Médine, l'on peut vendre 5 000 esclaves par an. La troisième traite se passe sur la côte d'Afrique de l'Est, où Zanzibar devient le plus grand marché d'esclaves au monde.

La première traite est la plus longue et occasionne de nombreuses pertes. Elle passe par l'Egypte, dont les musulmans sont devenus maîtres, et le Sahara. Elle est d'abord faite de razzias, puis, à partir du IX' siècle, repose sur la conquête de royaumes noirs et le négoce avec les marchands d'esclaves.

Quelles sont les principales cibles ?

Le royaume chrétien d'Ethiopie. Les Egyptiens l'attaquent en passant par la vallée du Nil. Les Arabes traversent la mer Rouge. A l'ouest, les Marocains osent une traversée de cent jours de marche après Marrakech, dont au moins la moitié à travers le Sahara.

Le retour est un enfer. Le Niger, le Sénégal et le Mali sont également touchés ... Des forbans musulmans lancent des razzias le long des côtes de l'océan Indien avec des boutres - de rapides voiliers. Dans les royaumes islamiques du Soudan, les chasses aux esclaves mobilisent chaque année de forts partis de cavaliers. Ils repèrent les villages les plus intéressants et partent par petits groupes. Ils montent des chameaux de race, s'approvisionnent en eau, marchent la nuit et attaquent au petit matin. Les opérations devant être rentables, ils évitent les lieux trop bien protégés et n'attaquent qu'à coup sûr. Une fois maîtres du terrain, ils massacrent les faibles et les vieillards pour n'emmener que les malheureux en état de servir.

Pour être honnête, il faut ajouter que des négociants sont aussi sur les rangs, car des rois noirs, près du Tchad par exemple, les informent du lancement des grandes chasses aux esclaves. Ils vont s'installer dans les villages, en attendant - à leurs frais - le retour de l'expédition.

Comment les esclaves sont-ils traités ?

Très mal, car ils sont gratuits et en grand nombre. Contrairement à la traite atlantique, il n'a pas fallu négocier avec des rois esclavagistes. Il a suffi de tuer ceux qui se défendaient !

Sur la route de leur captivité, les esclave vivaient un enfer. La traite occasionne des pertes terribles tant dans leurs rangs que dans ceux des convoyeurs. Les plus faibles sont abandonnés sans pitié. Les témoignages sont horribles : les hommes et les femmes meurent de soif, en sont parfois réduits à ouvrir la panse des animaux pour y trouver de l'eau. Les esclaves malades ou affaiblis sont abandonnés en route à une mort certaine. Des négociants expliquent tranquillement à leurs associés, restés en Arabie qu'il a fallu, ici où là, égorger quatre femmes «fanées» et émasculer deux enfants pour ne pas perdre de temps dans le désert et préserver la cargaison. A l'arrivée, selon la difficulté de la traversée, les survivants sont vendus avec une marge de 200 à 300 %. C'est une façon de compenser les pertes.

De quoi se compose une cargaison d'esclaves ?

Essentiellement des jeunes femmes, blanches ou noires. Des enfants et des hommes solides. Ne restent que les personnes en bonne santé. Les autres sont morts en route. En chemin, pour ècouler les «cargaisons»: plus vite, certains campements se transforment en marché, où les grossistes viennent faire un premier choix. Puis on arrive dans les grandes places, comme Zanzibar ou Bagdad. Les acheteurs peuvent examiner leur marchandise, regarder les dent, l'élasticité d'une poitrine, constater si une jeune femme est vierge ou déflorée, mesurer la vivacité intellectuelle ou la force physique d'un esclave, son adresse...

Le Caire est un gigantesque marché, où l'on trouve toute sorte de captifs. Au XIX' siècle, Gérard de Nerval, dans son voyage au Caire(2), raconte comment plusieurs marchands «basanés» l'abordent pour lui proposer «des Noires ou des Abyssiniennes»...

Que deviennent les victimes ?

Elles servent sur les chantiers publics ou au service d'un maître.

A la Bourse aux esclaves, les négriers spéculent

Il y a également les bagnes ?
 
Là, c'est l'époque des Barbaresques et des Ottomans. Alors qu'à Bagdad ou au Caire, on trouve une majorité d'esclaves noirs, les bagnes d'Alger ou de Tunis comportent surtout des Blancs. Ils maintenaient à eux seuls toute l'activité économique locale : les chantiers navals, les fabriques, les commerces ... Alors que les villes d'Egypte achetaient aux caravaniers du désert des milliers d'esclaves venus d'Afrique, les cités corsaires du Maghreb s'épargnaient ces dépenses, grâce à la guerre.

Une fois la part du sultan mise de côté, les captifs des Barbaresques passaient directement de l'entrepont du navire au marché. Des négociants les mettaient aux enchères, à la criée. Ceux visiblement inaptes aux travaux de force, mais dont on espère tirer une bonne rançon, valent jusqu'à sept fois un homme valide. Les Turcs et les Maures spéculent quotidiennement sur la valeur de leurs esclaves. Faut-il acheter ou vendre? C'est un peu une Bourse avant l'heure...

Comment vivaient ces esclaves ?

Le plus souvent en groupes, logés dans les bagnes - sept, rien qu'à Alger. A Tunis ou Tripoli, ils portaient plus de dix kilos de fers. Les esclaves en terre d'islam n'avaient pas le droit de fonder une famille et n'avaient pas ou peu d'enfants. Pour des raisons très simples : le grand nombre d'eunuques, l'interdiction faite aux femmes de se marier et une mortalité très élevée.

Les conditions de vie étaient épouvantables. Les captifs étaient battus à la moindre occasion, dormaient dans de pauvres hamacs, pendus les uns au-Dessus des autres. Ils souffraient du froid en hiver, de la chaleur en été, de l'humidité et des vermines en toute saison.

Et l'hygiène ?

Pas d'hygiène, puisqu'ils devaient payer leur eau ! Elle leur servait essentiellement à boire. Il leur était impossible de se laver régulièrement, encore moins de laver les hardes leur servant de vêtements ... Vous imaginez que, rapidement, les frottements de tissus crasseux sur les peaux sales provoquaient des irritations, des furoncles et de nombreuses maladies, qui concourraient à la mortalité.

Et le travail ?

Le matin, à peine nourris, ils partaient vers les chantiers ou les demeures de leurs maîtres, leur atelier ou leur boutique. Les mieux lotis - une minorité - étaient loués à des diplomates chrétiens : ils menaient alors l'existence d'un domestique européen.

La condition la plus difficile, d'un certain point de vue, était celle des femmes et des enfants. Les femmes avaient généralement un sort misérable, exposées à la vente comme des bêtes, forcées de servir, en butte à tous les abus, parfois prostituées pour le compte de leur maître... Contrairement aux légencles des Mille et Une Nuits, les récits des musulmans tranchent avec les textes des juifs et des chrétiens par le nombre d'histoires et de remarques salaces sur les « qualités », sexuelles des femmes.

Des esclaves chrétiens sont brûlés vifs à Alger !

Etait-il possible de fuir ?

Difficilement. Certains captifs acceptaient de servir de mouchards en échange de menus arrangements. La surveillance était assez stricte et les punitions terribles. Un texte raconte qu'à Alger, « lorsqu'un chrétien était pris à fuir, (le sultan Hassan Pacha) le faisait saisir par ses esclaves et brûler vif en leur présence; il faisait bâtonner les autres jusqu'à la mort, et leur coupait lui-méme les narines ou les oreilles, ou faisait exécuter ce supplice devant lui ». D'autres subissaient la bastonnade, les galères ou on les envoyait aux carrières de pierres, où les travaux étaient particulièrement pénibles...

Comme Cervantès...

Cervantès illustre parfaitement votre question sur les possibilités d'évasion(3). Il a été prisonnier durant cinq ans. Il a tenté une première évasion en subornant un garde. Celui-ci n'honora pas son engagement. Direction : les carrières! En 1577, il fit une deuxième et une troisième tentatives, mais fut toujours pris et passa en tout dix mois aux chaînes, dans un cul-de-basse-fosse. Ses comparses furent pendus ou empalés. Les autres eurent les oreilles tranchées. A la quatrième tentative, il échoua encore! Il ne fut libéré que contre une rançon importante, grâce à l'action des ordres mercédaires, ces chrétiens qui achetaient les esclaves ou s'y substituaient !

Quand cesse l'esclavage musulman ?

Mais il existe encore ! La colonisation de l'Afrique au XIXe siècle a mis un terme que l'on croyait définitif à l'esclavage musulman. Mais celui-ci a repris avec la décolonisation. La traite musulmane, qui a duré mille deux cents ans, perdure, au Soudan par exemple.

Connaît-on les chiffres estimés de la traite ?

Les historiens travaillant sur l'esclavage musulman se heurtent à une désespérante absence de sources. Les registres fiscaux de Zanzibar sont les seuls répertoriés de nos jours mais ils ne remontent pas au-delà de 1850.

Les estimations moyennes se situent à un minimum de 17 millions de victimes. Mais c'est ignorer les « chiffres noirs » très importants : où sont passées les victimes mortes durant le voyage, les opérations dont on ne sait rien, les caravanes perdues dans le désert ou en mer ? Sans compter les esclaves européens que l'on « oublie » de comptabiliser et les Africains tués lors des razzias : défenseurs ou « inutiles », qui étaient des bouches inutiles à nourrir. Faut-il ou non les intégrer au bilan de la traite orientale ?


Propos recueillis par Patrick Cousteau
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1. Les Négriers en terre d'islam. La première traite des Noirs, VIl-XVI siècle, Perrin, 2003 (rééd. Perrin, coll. Tempus, 2008).
Les Barbaresques, la course et la guerre en Méditerranée, XIV-XVI siècle, Perrin, 2001 (rééd. Perrin, coll. Tempus, 2008).
Voir aussi le livre tiré de sa thèse de doctorat; Esclaves et domestiques au Moyen Age dans le monde méditerranéen, Hachette, 1981 (rééd. 2006).
2. A lire dans le Voyage en Orient, de Gérard de Nerval, que viennent opportunément de rééditer en collection Folio les éditions Gallimard.
3. Pour en savoir plus, lire ; Le Captif. Extrait de Don Quichotte, de Cervantès, préface de Jacques Heers, éditions de Paris, 2006.

Source : le Choc du Mois - Juin 2008

vendredi, 30 décembre 2011

Une grande transformation

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Une grande transformation

par Georges FELTIN-TRACOL

 

En 2009, le journaliste Christopher Caldwell faisait paraître Reflections on the revolution in Europe, clin d’œil appuyé à l’ouvrage contre-révolutionnaire du Whig Edmund Burke publié en 1790. Les Éditions du Toucan viennent de sortir sa traduction française sous le titre d’Une révolution sous nos yeux. Alors que les maisons d’éditions institutionnelles se gardent bien maintenant de traduire le moindre ouvrage qui irait à l’encontre de la pesante pensée dominante, saluons cette initiative qui permet au public francophone de découvrir un point de vue divergent bien éloigné de l’agencement ouaté des studios de radio et des plateaux de télévision.

 

caldwell.jpgÉditorialiste au Financial Times (le journal officiel de la City) et rédacteur au Weekly Standard et au New York Times Magazine, Christopher Caldwell relève du courant néo-conservateur anglo-saxon. Il en remercie même William Kristol, qui en est l’une des têtes pensantes. L’édition française est préfacée par la démographe Michèle Tribalat qui, avec son compère Pierre-André Taguieff, semble ébaucher une sensibilité néo-conservatrice dans l’Hexagone plus charpentée que les guignols de la triste revue Le meilleur des mondes.

 

On pourrait supposer qu’Une révolution sous nos yeux est un lourd pensum ennuyeux à lire composé de douze chapitres réunis en trois parties respectivement intitulées « Immigration », « L’islam » et « L’Occident ». Nullement ! Comme la plupart des enquêtes journalistiques anglo-saxonnes, les faits précis et détaillés sont étayés et argumentés. Il faut avouer que le sujet abordé est risqué, surtout en France…

 

« Ce livre, avertit l’auteur, évitera l’alarmisme et la provocation vaine, mais il évitera aussi l’euphémisme et cette façon de se coucher (à titre préventif) qui caractérise tant d’écrits sur les questions relatives à l’ethnicité (p. 53). » Qu’aborde-t-il donc ? « Ce livre, répond Caldwell, traite de l’Europe, de comment et pourquoi l’immigration et les sociétés multi-ethniques qui en résultent marquent une rupture dans son histoire. Il est écrit avec un œil rivé sur les difficultés que l’immigration pose à la société européenne (p. 52). 

 

 

Partant des déclarations prophétiques en avril 1968 du député conservateur Enoch Powell au Midland Hotel de Birmingham consacrées aux tensions raciales à venir, l’auteur estime que « l’immigration n’améliore pas, ne valorise pas la culture européenne; elle la supplante. L’Europe ne fait pas bon accueil à ses tout nouveaux habitants, elle leur cède la place (p. 47) ». Pourquoi ?


Les racines du mal

 

Avant de répondre, Christopher Caldwell rappelle que « l’immigration de masse a débuté dans la décennie postérieure à la Seconde Guerre mondiale. […] En Grande-Bretagne, en France, aux Pays-Bas et en Scandinavie, l’industrie et le gouvernement ont mis en place des politiques de recrutement de main-d’œuvre étrangère pour leurs économies en plein boom (p. 25) ». Par conséquent, « l’Europe devint une destination d’immigration, suite à un consensus de ses élites politiques et commerciales (p. 25) ». Il insiste sur le jeu du patronat qui préfère employer une main-d’œuvre étrangère plutôt que locale afin de faire baisser les salaires… Il y a longtemps que l’immigration constitue l’arme favorite du capital (1). Or « les effets sociaux, spirituels et politiques de l’immigration sont considérables et durables, alors que ses effets économiques sont faibles et transitoires (pp. 69 – 70) ».

 

Il importe d’abandonner l’image du pauvre hère qui délaisse les siens pour survivre chez les nantis du Nord… « Pour Enoch Powell comme pour Jean Raspail, l’immigration de masse vers l’Europe n’était pas l’affaire d’individus “ à la recherche d’une vie meilleure ”, selon la formule consacrée. C’était l’affaire de masses organisées exigeant une vie meilleure, désir gros de conséquences politiques radicalement différentes (p. 31, souligné par l’auteur). » Dans cette « grande transformation » en cours, en raison du nombre élevé de pratiquants parmi les nouveaux venus, l’islam devient une question européenne ou, plus exactement, le redevient comme au temps du péril ottoman et des actes de piraterie maritime en Méditerranée jusqu’en 1830… Dorénavant, « l’immigration jou[e] un rôle aussi perturbateur que le nationalisme (p. 402) ».

 

Très informé de l’actualité des deux côtes de l’Atlantique, Christopher Caldwell n’hésite pas à comparer la situation de l’Europe occidentale à celle des États-Unis. Ainsi, les remarques politiques ne manquent pas. L’auteur estime par exemple que, pour gagner les électeurs, Nicolas Sarközy s’inspire nettement des méthodes de Richard Nixon en 1968 et en 1972.

 

À la différence de Qui sommes-nous ? de Samuel P. Huntington qui s’inquiétait de l’émergence d’une éventuelle Mexamérique, Caldwell pense que les Latinos, souvent catholiques et occidentalisés, peuvent renforcer et améliorer le modèle social étatsunien. L’auteur remarque même, assez justement, que « les Américains croient que l’Amérique, c’est la culture européenne plus l’entropie (p. 447) ». En revanche, l’Europe est confrontée à une immigration pour l’essentiel musulmane. L’Europe ne serait-elle pas dans le même état si l’immigration extra-européenne était principalement non-musulmane ? L’auteur n’y répond pas, mais gageons que les effets seraient semblables. Le problème majeur de l’Europe n’est pas son islamisation qui n’est qu’une conséquence, mais l’immigration de masse. Il serait temps que les Européens comprennent qu’ils deviennent la colonie de leurs anciennes colonies…

 

L’injonction morale multiculturaliste

 

Si cette prise de conscience tarde, c’est parce que « le multiculturalisme, qui demeure le principal outil de gestion de l’immigration de masse en Europe, impose le sacrifice des libertés que les autochtones européens tenaient naguère pour acquises (p. 38) ». L’imposture multiculturaliste (ou multiculturelle) – qui est en fait un monothéisme du marché et de la consommation – forme le soubassement fondamental de l’Union européenne et des « pays occidentaux [qui] sont censés être des démocraties (p. 435) ». Néanmoins, sans la moindre consultation électorale, sans aucun débat public véritable, « sans que personne ne l’ait vraiment décidé, l’Europe occidentale s’est changée en société multi-ethnique (p. 25) ».

 

À la suite d’Alexandre Zinoviev, d’Éric Werner et d’autres dissidents de l’Ouest, Christopher Caldwell observe la démocratie régresser en Occident avec l’adoption fulgurante de lois liberticides contre les hétérodoxies contemporaines. En effet, « l’Europe de l’après-guerre s’est bâtie sur l’intolérance de l’intolérance – un état d’esprit vanté pour son anti-racisme et son antifascisme, ou brocardé par son aspect politiquement correct (p. 128) ». Après la lutte contre l’antisémitisme, l’idéologie multiculturaliste de la tolérance obligatoire s’élargit aux autres minorités raciales et sexuelles et renforce la répression. Il devient désormais tout aussi grave, voire plus, de dénigrer un Noir, un musulman, un homo ou de nier des faits historiques récents que de violer une fillette ou d’assassiner un retraité ! « Peu à peu, les autochtones européens sont […] devenus moins francs ou plus craintifs dans l’expression publique de leur opposition à l’immigration (p. 38). » Rôdent autour d’eux de véritables hyènes, les ligues de petite vertu subventionnées grassement par le racket organisé sur les  contribuables. Et garde aux « contrevenants » ! Dernièrement, une Londonienne, Emma West, excédée par l’immigration et qui l’exprima haut et fort dans un compartiment de transport public, a été arrêtée, accusée de trouble à l’ordre public et mise en détention préventive. « Le journal Metro puis un journaliste de la chaîne américaine C.N.N. ont lancé un appel à la délation sur Twitter (2) ». La police des transports a même appelé à la délation sur Internet pour connaître l’identité de cette terrible « délinquante » ! Sans cesse soumis à une propagande « anti-raciste » incessante, « les Européens ont commencé à se sentir méprisables, petits, vilains et asexués (p. 151) ». Citant Jules Monnerot et Renaud Camus, Caldwell voit à son tour l’antiracisme comme « le communisme du XXIe siècle » et considère que « le multiculturalisme est presque devenu une xénophobie envers soi-même (p. 154) », de l’ethno-masochisme ! Regrettons cependant que l’auteur juge le Front national de Jean-Marie Le Pen comme un parti « fasciste », doctrine disparue depuis 1945…

 

La mésaventure d’Emma West n’est pas surprenante, car « l’État-nation multiculturel est caractérisé par un monopole sur l’ordre moral (p. 413) ». Les racines de ce nouveau moralisme, de ce néo-puritanisme abject, proviennent du traumatisme de la dernière guerre mondiale et de l’antienne du « Plus jamais ça ! ». « Ces dernières années, l’Holocauste a été la pierre angulaire de l’ordre moral européen (p. 356) ». Il était alors inévitable que « le repentir post-Holocauste devient le modèle de régulation des affaires de toute minorité pouvant exiger de façon plausible d’un grave motif de contrariété (p. 357) ». Être victime est tendance, sauf quand celle-ci est blanche.

 

Dans cette perspective utopique d’harmonie interraciale, il paraît certain qu’aux yeux des tenants du politiquement correct et du multiculturalisme, « l’Islam serait tout simplement la dernière catégorie, après le sexe, les préférences sexuelles, l’âge et ainsi de suite, venue s’ajouter au langage très convenu qu’ont inventé les Américains pour évoquer leur problème racial au temps du mouvement des droits civiques (pp. 234 – 235) ». Pour Christopher Caldwell, c’est une grossière erreur, lui qui définit l’islam comme une « hyper-identité ».

 

Le défi musulman

 

Le choc entre l’islam et l’Occident est indéniable : le premier joue de son dynamisme démographique, de son nombre et de sa vigueur spirituel alors que le second se complaît dans la marchandise la plus indécente et la théocratie absconse des droits de l’homme, de la femme, du travelo et de l’inter… Les frictions sont inévitables entre la conception traditionnelle phallocratique musulmane et l’égalitarisme occidental moderne. Allemands et Scandinaves sont horrifiés par les « crimes d’honneur » contre des filles turques et kurdes « dévergondées » par le Système occidental. Les pratiques coutumières de l’excision, du mariage arrangé et de la polygamie choquent les belles âmes occidentales qui exigent leur interdiction pénale. Mais le musulman immigré n’est-il pas lui même outré par l’exposition de la nudité féminine sur les panneaux publicitaires ou de l’homoconjugalité (terme plus souhaitable que « mariage homosexuel ») ?

 

Caldwell rappelle que le Néerlandais Pim Fortuyn combattait l’islam au nom des valeurs multiculturalistes parce qu’il trouvait la religion de Mahomet trop monoculturelle et donc totalitaire. Des mouvements populistes européens (English Defence League, Vlaams Belang, Parti du Peuple danois, Parti de la Liberté de Geert Wilders, etc.) commettent l’erreur stratégique majeur de se rallier au désordre multiculturel ambiant et d’adopter un discours conservateur moderne (défense de l’égalité homme – femme, des gays, etc.) afin d’être bien vus de la mafia médiatique. Par cet alignement à la doxa dominante, ils deviennent les supplétifs d’un système pourri qui reste l’ennemi prioritaire à abattre.

 

Pour l’auteur d’Une révolution sous nos yeux, l’islam est dorénavant la première religion pratiquée en Europe qui connaît l’immense désaffection des églises. L’homme étant aussi un être en quête de sacré, il est logique que la foi mahométane remplit un vide résultant de décennies de politique laïciste démente. Et ce ne seront pas les tentatives désespérées de Benoît XVI pour réévangéliser le Vieux Continent qui éviteront cette incrustation exogène parce que Caldwell démontre – sans le vouloir – le caractère profondément moderniste du titulaire putatif du siège romain : l’ancien cardinal Ratzinger est depuis longtemps un rallié à la Modernité !

 

Dans ce paysage européen de l’Ouest en jachère spirituelle, « les musulmans se distinguent par leur refus de se soumettre à ce désarmement spirituel. Ils se détachent comme la seule source de résistance au multiculturalisme dans la sphère publique. Si l’ordre multiculturel devait s’écrouler, l’Islam serait le seul système de valeur à patienter en coulisse (p. 423) ». Doit-on par conséquent se résigner que notre avenir d’Européen soit de finir en dhimmi d’un quelconque califat universel ou bien en bouffeur de pop corn dans l’Amérique-monde ?

 

Puisque Caldwell souligne que « l’immigration, c’est l’américanisation (p. 446) », que « l’égalité des femmes constitu[e] un principe ferme et non négociable des sociétés européennes modernes (p. 317) » et que « vous pouvez être un Européen officiel (juridique) même si vous n’êtes pas un “ vrai ” Européen (culturel) (p. 408) », il est temps que, hors de l’impasse néo-conservatrice, le rebelle européen au Diktat multiculturel occidental promeuve une Alter-Europe fondée sur l’Orthodoxie traditionnelle ragaillardie, un archéo-catholicisme antétridentin redécouvert et des paganismes réactivés, une volonté de puissance restaurée et des identités fortes réenracinées. « L’adaptation des minorités non-européennes dépendra de la perception qu’auront de l’Europe les autochtones et les nouveaux arrivants – civilisation florissante ou civilisation décadente ? (p. 45) » Ni l’une ni l’autre; c’est la civilisation européenne qu’il faut dans l’urgence refonder !

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Pour preuve supplémentaire, lire la chronique délirante d’Ariel Wizman, « Pourquoi les immigrés sont les meilleurs alliés du libéralisme », dans L’Express, 7 décembre 2011.

 

2 : Louise Couvelaire, dans M (le magazine du Monde), 10 décembre 2011. Pour soutenir au moins moralement Emma West, on peut lui envoyer une carte postale à :

 

Mrs Emma West

co HMP Bronzfield

Woodthorpe Road

Ashford

Middlesex TW15 3J2

England

 

• Christopher Caldwell, Une révolution sous nos yeux. Comment l’islam va transformer la France et l’Europe, préface de Michèle Tribalat, Éditions du Toucan (25, rue du général Foy, F – 75008 Paris), coll. « Enquête & Histoire », 2011, 539 p., 23 €.

 


 

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jeudi, 22 décembre 2011

Après le « Printemps arabe », l’hiver du chaos, de la charia et de la dictature

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Après le « Printemps arabe », l’hiver du chaos, de la charia et de la dictature

par Marc ROUSSET

 

Les lendemains de la victoire indigne contre Mouammar Kadhafi menacent de déchanter. Seule l’Afrique du sud aura sauvé l’honneur jusqu’au bout, le vrai coupable étant le clan réformiste de Dmitri Medvedev qui, en s’éloignant de la « Realpolitik » de  Vladimir Poutine, en s’abstenant lors de la résolution 1973 qui autorisait le recours à la force pour protéger les populations civiles, aura laissé s’engouffrer dans la brèche l’impérialisme et l’hypocrisie droit-de-l’hommiste. Dmitri Medvedev ne l’aura donc pas « volé « s’il se retrouve  prochainement simple président de la Cour constitutionnelle de la Russie à Saint-Pétersbourg. Moscou a été floué. Paris et Londres ont outrepassé le mandat accordé par les Nations unies et trahi Medvedev en renversant Kadhafi, sous couvert de « responsabilité de protéger » les civils. Nicolas Sarkozy et David Cameron ont tout simplement pris parti  dans une guerre civile, comme Hitler et Mussolini pendant la guerre d’Espagne. L’intervention cynique de l’O.T.A.N. aura eu non seulement pour seul effet d’augmenter le nombre de morts libyens par rapport aux morts virtuels de Benghazi, mais en plus elle aura eu pour effet, en détruisant l’État libyen, de conduire la Libye vers l’abîme.


La réalité tribale en Libye

 

 

Le Conseil national de transition (C.N.T.) n’est pas représentatif de la Libye ! Le C.N.T. devra accorder aux rebelles de l’Ouest (la grande tribu arabe des Zintan  du djebel Nefoussa) une place conforme à leur rôle militaire. Les habitants de Misrata, descendants des Turcs, ont pris les armes contre le régime immédiatement après ceux de la Cyrénaïque car la moitié de la population de Benghazi descend d’immigrés originaires de Misrata. Le sentiment d’appartenance tribale et non les bobards démagogiques de Monsieur Bernard-Henri Levy au sujet de la  démocratie, des droits de l’homme et de la liberté individuelle, est la donnée fondamentale de compréhension des réalités libyennes. Il va s’agir de répartir la rente pétrolière en veillant à respecter les équilibres entre tribus et régions, d’où comme en Irak et surtout en Somalie le risque de conflits sans fin entre tribus menaçant l’unité et la paix du pays. L’échiquier libyen est complexe : la région de Bani Walid est le fief des Ouarfalla; Tarhoufa est le fief de l’importante confédération tribale des Tarhouna; Syrte, d’où est originaire Mouammar Kadhafi est le fief des Kadhafa; le Fezzan est le fief des populations kadhafa, magariha, hassouana et touarègues rétribuées et recrutées par le régime; les habitants de Taourgha manifestent une méfiance ancienne à l’encontre des habitants de Misrata; la population jaramna de Ghadamès, à la frontière algérienne, est toujours demeurée fidèle au pouvoir. On prend encore mieux conscience du puzzle tribal lorsqu’on apprend que Mizda, fief des Malachiya et des Aoulad Bou Saif, ainsi que les oasis d’Aoujila, Waddan, Houn, Soukna et Zliten, fief des Aoulad Shaik, se méfient de ceux de Misrata (1) !

 

Il faut savoir enfin qu’en Cyrénaïque, l’État libyen est très marqué par l’existence sous-jacente de mouvements islamistes et de la puissante secte sénoussie qui avait donné naissance à la première monarchie de 1947. Les tribus en Tripolitaine considèrent les gens de la Cyrénaïque comme des péquenauds prenant le pouvoir et imposant leur nouveau drapeau (le drapeau de la Cyrénaïque, soit un rectangle noir avec un croissant d’islam blanc, avec seulement deux bandes supplémentaires, une rouge pour le Fezzan et une verte pour la Tripolitaine). Bref, l’O.T.A.N. avec ses bombardements unilatéraux, ses porte-avions et ses hélicoptères a fait pencher la balance des armes du côté du C.N.T., sans tenir compte de l’équilibre des forces  sociologiques propres à la Libye. Les médias du politiquement correct se sont bien gardés de dire que tous les Noirs en Libye, soupçonnés d’être des mercenaires, font l’objet d’exactions de la part des fiers combattants du C.N.T. car cela ne correspondait pas aux contes de fées droit-de-l’hommistes du nouveau paysage libyen.

 

Les  risques de chaos et de  tentation islamiste en Libye

 

Dmitri Rogozine, ambassadeur de la Russie à l’O.T.A.N., a admirablement bien résumé la situation en Libye et du « Printemps arabe » : « Nous ne nous sommes pas fait d’illusion sur Kadhafi, mais nous ne partageons pas votre vision du monde arabe. Vous pensez que c’est le rendez-vous de l’islam et de la démocratie. Nous croyons que c’est un choix entre un tyran et Al-Qaïda (2) ». De son côté, le C.I.R.E.T. (Centre international de recherche et d’étude sur le terrorisme) s’est inquiété, en revenant de Libye, de l’existence d’une tentation islamiste parmi les insurgés. Son rapport dénonçait le projet d’instaurer une charia islamique dans la Libye d’après Kadhafi. Il n’est un secret pour personne que des islamistes radicaux se sont battus dans les rangs rebelles. Abdelhakim Belhadj est devenu le gouverneur militaire de Tripoli, non reconnu par les tribus de l’Ouest qui ne veulent pas se faire voler leur « victoire ». Capturé par la C.I.A. en 2003, nommé « émir » du Groupe islamique combattant libyen (G.I.C.L.), adoubé par Ben Laden en 2007, il est connu pour avoir été proche de Zarqaoui, le chef d’Al-Qaïda en Irak. Il n’est pas le seul ancien du C.I.C.L. à avoir été  propulsé à un poste militaire de premier plan en Libye. Les objectifs démocratiques des pays occidentaux sont du pain bénit pour les islamistes radicaux, comme cela a failli être le cas en Ouzbékistan si la Russie n’était pas intervenue en 2005 pour mettre en place un dictateur à poigne, Islam Karimov, seul capable d’écarter le danger islamique. La lutte en Libye va, d’ici peu, devenir féroce entre les laïcs et les islamistes. Il est également clair que si le C.N.T. ne parvient pas à démilitariser les milices, ce qui est plus que probable, ni à instituer les conditions de la stabilité et de la sécurité, des conflits lancinants entre tribus apparaîtront, tout comme en Somalie ! Voilà où nous conduit la pantomime démocratique de Nicolas Sarkozy qui, une fois encore, veut nous faire prendre les vessies libyennes pour des lanternes !

 

Tout cela n’est pas sans nous rappeler la Somalie, où après la défaite du groupe islamiste Al-Shebab, les luttes chaotiques et violentes ont commencé entre les clans pour savoir qui, après vingt années de conflit, prendra le contrôle du pays. La situation actuelle est la pagaille la plus complète et l’instabilité la plus totale avec la création de vingt mini-États surarmés non viables qui se disputent le pouvoir dans une ambiance de guerres régionales. On ne peut pas également ne pas penser à l’Irak avec la suppression des institutions solides de Saddam Hussein et l’absence totale de cohésion entre sunnites et chiites, Arabes et Kurdes. Les Irakiens reprochent aujourd’hui aux États-Unis comme demain les Libyens à la France et à la Grande-Bretagne d’avoir mis en pièces leur société et d’envisager de se retirer sans réparer les dégâts, avec en prime  pour enjoliver le tableau la disparition programmée des chrétiens !

 

L’après-« Printemps arabe » en Égypte, Libye et Tunisie

 

Je reviens personnellement d’un voyage en Égypte cet été. Les Égyptiens se fichent comme de l’an 40 de la démocratie ! Ce qu’ils veulent, c’est croûter, comme nous le répétait notre guide copte et comme me l’a montré le cocher d’une calèche à Louxor en attirant mon attention sur son estomac et la maigreur de son cheval ! Or le problème fondamental, même  si l’on tord le cou à tous les Moubarak et les oligarques égyptiens de la terre, c’est que l’Égypte, avec sa population de quatre-vingt millions d’habitants sur 4 % du territoire utile autour du Nil, entouré de toutes parts du désert, n’est pas un pays viable ! Et cerise sur le gâteau, suite à l’éviction de Hosni  Moubarak, le premier ministre égyptien Essam Charaf a jugé que le traité de paix signé en 1979 avec Israël, premier ratifié entre l’État hébreu et un pays arabe, n’était pas sacré ! La mise à sac des archives de l’ambassade d’Israël au Caire, avec destruction d’un mur d’enceinte,  est venue couronner les prémisses du désastre, de la catastrophe monumentale qui s’annonce ! Tout cela se terminera donc par une nouvelle dictature militaire ou la chape  de fer de la charia islamique pour ramener l’ordre dans les chaumières, sans remplir les estomacs pour autant !

 

Même chose en Libye, mais pays riche par rapport à sa population, contrairement à l’Égypte. Les Libyens veulent avant tout du travail, une bonne éducation pour leurs enfants, de bons hôpitaux, vivre normalement. C’est ce qu’ils avaient avec Mouammar Kadhafi qui de plus, avait amélioré la condition féminine. Les Libyens, suite aux chimères et rêveries de liberté démocratique, risquent bien de tout perdre sans jamais avoir de liberté individuelle. Pour autant les  réalités holistes de la tribu s’imposant à tous, ils risquent de tout perdre pour leur qualité de vie, avec en prime des guerres intestines incessantes et des violences sans fin. Il est fort probable que d’ici peu de temps, les Libyens vont commencer à regretter Kadhafi, nonobstant les haines tribales des gens de Benghazi et de Misrata qui, au mieux feront place aux haines nouvelles  des tribus pro-Kadhafi, soit un prêté pour un rendu .

 

Quant à la Tunisie, l’impression de gâchis de la « Révolution de jasmin » est chaque jour plus forte. En 2011, l’insécurité a nettement augmenté; les troubles, les grèves augmentent et la fréquentation touristique a baissé de 40 % tandis que les recettes baissaient de 50 %. La guerre civile avec les islamistes qui tentent de miner les institutions laïques est maintenant possible. De 1990 à 2010, la Tunisie avait augmenté de 3,4 % par an sa valeur ajoutée manufacturière par habitant, alors qu’au mieux, elle sera proche de 0 % en 2011. L’éviction de Ben Ali est donc une catastrophe pour la Tunisie, même si lui et sa famille s’en mettaient plein les poches ! En Tunisie, on ne peut pas ne pas penser aux grenouilles qui demandent un roi. La Tunisie connaîtra demain soit une dictature militaire soit la prise de pouvoir par les islamistes.

 

Quel avenir ?

 

Il est probable que les barbus tunisiens d’Ennadha et leurs compères égyptiens des Frères musulmans, tout comme leurs compères libyens, attendent le moment propice pour récolter ce qu’une main invisible a semé durant le «  Printemps arabe ». En Libye, le C.N.T. rase dores et déjà gratis ! Le C.N.T. se donne huit mois pour rédiger une constitution s’appuyant sur la charia et non pas sur la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789, ce qui était le prétexte de l’intervention occidentale ! Et avec beaucoup de chance, des élections auront lieu après environ vingt mois ! D’ici là, de l’eau aura coulé sous les  ponts dans le désert libyen ! Il semble que, dans le contexte de la « Pensée unique », Nicolas Sarkozy et les charlatans du « Politiquement correct », du droit-de-l’hommisme, de la démocratie universelle in abstracto, de l’Irrealpolitik, n’aient pas tenu compte des réalités politiques, historiques, sociologiques et économiques des pays arabes. Il leur suffisait cependant de retenir les leçons du renversement du Shah d’Iran par l’Ayatollah Khomeiny ainsi que du très difficile  rétablissement de l’ordre et de la paix par la Russie dans le Caucase, en Ouzbékistan et en Asie centrale !

 

Marc Rousset

 

Notes
 
1 : cf. « Libye, les conditions de l’unité nationale », dans Le Monde diplomatique, septembre 2011, p.16.
 
2 : dans Le Figaro, samedi 18 septembre 2010.

 

 


 

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dimanche, 04 décembre 2011

Réflexions sur la "victoire politique" des islamistes marocains

Bernard LUGAN:

Réflexions sur la "victoire politique" des islamistes marocains

Ex: http://fr.novopress.info/

Contrairement à ce qui est affirmé par les médias, c’est une victoire relative que viennent de remporter les islamistes marocains alors même qu’ils menèrent une très forte campagne de mobilisation et annonçaient un raz de marée électoral. Leur victoire apparente n’est due en effet qu’à une nouvelle disposition constitutionnelle faisant obligation au roi de nommer un Premier ministre issu du parti arrivé en tête lors des élections législatives. Sans cela, ils auraient été mathématiquement écartés du pouvoir.

Que l’on en juge :
Le parti islamiste PJD (Parti de la Justice et du développement) qui affirme à la fois sa « modération » et son attachement à la monarchie, a réuni 30 % des votants, soit 15% des inscrits, et obtenu 107 sièges sur 395 dans la nouvelle assemblée. Il est donc clairement minoritaire, à la fois dans l’absolu mais également face aux deux grandes coalitions sortantes. En renversant la perspective nous constatons en effet que 70% des votants ne lui ont pas accordé leurs suffrages et qu’au parlement, 288 députés appartiennent à des formations autres que la sienne.

Le parti arrivé en seconde position est l’Istiqlal, parti nationaliste historique ancré comme le PJD sur le terreau islamique et qui remporte 60 sièges au Parlement. En troisième et quatrième position, nous trouvons deux partis liés au Palais, à savoir le RNI (Rassemblement national des Indépendants) qui obtient 52 sièges et le PAM (Parti Authenticité et Modernité) 42 sièges, soit à eux deux quasiment autant que le PJD. En cinquième place, l’USFP (Union socialiste des Forces Populaires) poursuit son délitement avec 39 sièges, puis, arrivent le MP (Mouvement Populaire), parti berbériste monarchiste avec 32 sièges, l’Union Constitutionnelle avec 23 sièges et le PPS (Parti du progrès et du Socialisme) avec 18 sièges. Dix autres partis totalisent les sièges restants.

Les responsables du PJD ont déclaré qu’ils étaient prêts à former un gouvernement de coalition, ce que, avec sa légèreté coutumière, la presse française a salué comme une preuve de maturité politique. Or, cette « conscience démocratique » doit, elle aussi, être relativisée car le PJD n’a pas d’autre choix que de nouer des alliances. Il est même acculé à trouver des alliés puisqu’il lui manque au moins 90 sièges pour disposer d’une majorité de gouvernement.

Quelques réflexions et questions :
- On ne peut comparer le référendum du 1° juillet 2011 sur la Constitution qui a rassemblé 72% des inscrits et les dernières élections législatives, avec un taux de participation de 45,4%. Le premier fut en réalité un référendum sur la Monarchie au moment où, monté en épingle par la presse internationale, un mouvement révolutionnaire agitait la rue, demandant sa mise sous tutelle ou même sa disparition. Or, 99 % des Marocains, ont voté en faveur d’une monarchie certes modernisée, mais d’abord traditionnelle avec un roi qui continue à régner, même s’il ne dirige plus seul. Si le présent scrutin législatif n’a réuni qu’un peu plus de 45 % des citoyens inscrits sur les listes électorales – pour mémoire celui de 2002 n’en avait attiré que 37 % -, la raison de cette faible participation n’est pas à rechercher dans un désaveu du souverain, mais dans celui de la classe politique et de partis totalement discrédités.
- Le roi Mohammed VI va laisser les partis jouer le jeu constitutionnel après avoir nommé un membre du PJD comme Premier ministre. Puis, deux cas de figure se présenteront :
Une majorité de gouvernement sera constituée avec pour conséquence la dissolution des revendications du PJD qui n’aura pas la force politique lui permettant d’imposer un retour en arrière au sujet des grandes réformes entreprises par le souverain au début de son règne, notamment le code de la famille.
Un blocage du système avec anarchie parlementaire et impossibilité de constituer une véritable et stable majorité de gouvernement, ce qui contraindrait alors le roi à intervenir pour mettre fin à la crise. Ne perdons pas de vue, et le règne d’Hassan II l’a montré, que chaque tentative d’instauration d’une démocratie véritable au Maroc a, par le passé, débouché sur des évènements gravissimes obligeant le souverain à reprendre directement le contrôle des affaires [1].
- Autre question : le PJD a-t-il atteint son étiage ou bien ce scrutin n’est-il qu’une étape dans une lente et inexorable progression ? Ne va-t-il pas profiter du discrédit qui va encore davantage entourer des partis politiques s’entre-déchirant pour le pouvoir et ses avantages ? Ne risque t-il pas au contraire d’être emporté dans le tourbillon des intrigues parlementaires qui s’annoncent et dans ce cas, laisser filer ses électeurs déçus vers ces radicaux extra parlementaires qui contestent à la fois la monarchie et la notion de Commandeur des Croyants ?

[1] Voir à ce sujet les pages 327 à 332 de mon livre intitulé Histoire du Maroc, Ellipses, 2011.

vendredi, 25 novembre 2011

Enric Ravello: “Los petrodólares financian mezquitas que predican la intolerancia”

Enric Ravello: “Los petrodólares financian mezquitas que predican la intolerancia”

 

gfp-er.jpgSeguimos con nuestras particulares entrevistas relacionadas con la política internacional. Hoy tenemos el placer de colgar la entrevista que le hemos hecho a Enric Ravello, responsable de los asuntos internacionales del partido Plataforma X Catalunya. Pese a tener una agenda muy apretada, agradecemos al señor Ravello su predisposición a colaborar con nuestro blog.

PREGUNTA: Países como Guinea Ecuatorial o Venezuela cada año nos suministran petróleo a cambio de apoyar a los gobiernos de Obiang y Chávez. ¿Ven ustedes este hecho como algo aceptable?

RESPUESTA: La salida a esta situación pasa por tomar la iniciativa en materia energética y por buscar subministradores  estables con los que se pueda establecer un marco de cooperación global en el que el subministro energético sea una variable estratégica más. En este sentido volvemos a señalar la falta de visión y de capacidad de la diplomacia española. Hoy hay una apuesta clara para Europa y es la del petróleo y el gas ruso.

P: Ahora que Palestina ha entrado en la UNESCO, cada vez tiene más cerca la independencia total. ¿Su partido apoya o no la soberanía del estado palestino y por qué?

R: Nosotros apoyamos la existencia de un Estado palestino, que recientemente ha sido reconocido también por el Parlamento catalán. La creación de un Estado palestino es condición necesaria para alcanzar una paz duradera en la zona, que sólo será viable si se termina con la injusticia histórica hacia el pueblo palestino. El mayor peligro para la estabilidad en Oriente Medio es el crecimiento del fanatismo religioso, y nos referimos tanto al extremismo musulmán como al judío.

 

P: Parece que China se ha convertido en la superpotencia que sustituye a la URSS en la nueva carrera por la hegemonía mundial. ¿Qué opinión le merece a su partido este país? ¿Condenan ustedes su nula preocupación por los derechos humanos?

R: La irrupción de potencias como China muestra que estamos muy lejos del “Fin de la Historia” que anunció precipitadamente Francis Fukuyama. China, como una de las superpotencias del siglo XXI ejerce una acción expansiva global. Financieramente compra deuda europea y norteamericana con lo que se asegura una presión sobre los mercados y sobre todo una capacidad política para evitar que estos países impongan cualquier tipo de barrera arancelaria a sus productos. Desde el punto de vista industrial, el control político y social de la población por parte del gobierno chino les permite producir a precios y coste contra los que nadie puede competir, a no ser por las barreras arancelarias que citaba más arriba y que su “estrategia financiera” hacen imposibles de aplicar. Desde el punto de vista demográfico, es alarmante, las cuotas de inmigrantes chinos en Europa occidental se disparan año tras año. Nos preocupa enormemente.

Pero para oponerse a esta expansión china es necesario algo de lo que carecen los actuales dirigentes políticos españoles y europeos: Pensar y hacer una política de largo plazo.

P: Con respecto a Cuba, ¿Qué posición mantiene su partido con el gobierno de los Castro? 

R: Nuestro partido tiene una opinión muy negativa de la dictadura marxista que ha arrastrado a Cuba a la ruina y a la miseria. La imposición de modelos socio-económicos caducos y esclerotizados han llevado a la población cubana a una situación insostenible. Deseamos que el pueblo cubano pueda decidir lo antes posible sobre su futuro. Dicho lo cual, queremos añadir que el bloqueo y la actitud de los Estados Unidos hacia Cuba nos parecen intolerables, y dejar bien claro que Cuba debe evitar que su salida del comunismo signifique ponerse de rodillas ante los Estados Unidos.

P: ¿Qué opina su partido de que actualmente la política económica nacional esté sujeta a las decisiones de París o Berlín?

R: La situación es peor que la que describe en su pregunta. Las decisiones no las toman París o Berlín, sino lo que ahora se llaman eufemísticamente “mercados internacionales” y que no es más que la alta finanza especulativa situada en los centros bursátiles y financieros de todo el mundo, la misma que nos ha llevado a la actual crisis económica.

Sarkozy ha traicionado a la V República francesa, su política exterior ha dejado de ser autónoma y ha apostado por vincularse a los Estados Unidos, es un hecho objetivo y que ha tenido graves consecuencias para Europa, también en el aspecto económico. Por su parte, Angela Merkel alterna una política propia (llamémosla germano-europea) con otra proatlantista.  Sarkozy ha destrozado lo que supuso de avance y consolidación de un eje europeo, la sinergia Kohl-Mitterrand, esperemos que esa tendencia se recupere alguna vez. En ese caso las decisiones Berlín-París serían mucho más beneficiosas para el conjunto de la UE.

P: Una de las cuestiones de más trascendencia en estos últimos años de la política exterior española es el posicionamiento a favor o en contra del Sáhara Libre. ¿Están ustedes a favor o en contra y por qué?

 
R: El proceso de descolonización del Sáhara fue caótico e improvisado. La situación necesita una revisión en la que estén implicadas las potencias de la zona, Marruecos, Argelia, el Frente Polisario y España como antigua potencia colonial, que tenga el visto bueno de la ONU y que pase necesariamente por la expresión mediante referéndum de los saharauis a decidir libremente sobre su futuro. Un Sáhara independiente, con el que se tendrían que establecer las mejores relaciones diplomáticas, tendría implicaciones geopolíticas positivas para España.  Su proximidad a Canarias y a la zona pesquera vital convierten a esta zona en un área de interés básico. Una buena relación entre España y Sahara serviría de contrapeso a la constante acción hostil que desarrolla Marruecos contra nuestro Estado.
En ese sentido una política exterior española pasaría por el establecimiento de lazos estrechos con los países de la Europa mediterránea (Italia, Francia y Grecia) para liderar la política de la UE en esta zona tan sensible y de tanta importancia geopolítica en el inmediato futuro. Además este eje euromediterráneo no debería conformase con tener una posición subordinada en la dirección de la UE, sino debe ser un complemento activo del eje carolingio (franco-alemán) en la creación de un espacio europeo cada vez más compacto y con mayor presencia en la escena internacional.

P: El Consejo Nacional de Transición libio ha declarado su intención de basar la nueva constitución en la Sharia. Además en Túnez y posiblemente en Egipto los islamistas moderados han o van a ganar las elecciones. ¿Qué opinión le merece a su partido todos estos hechos?

20-21.JPGR: Es una constante contrastada que la llamada “primavera árabe” se ha constituido sobre la alianza política de dos elementos que a priori podrían parecer no compaginables: los liberales occidentalistas y los islamistas moderados y no tan moderados. Hay un tercer factor que ha tenido un protagonismo destacado en la extensión de estas revoluciones árabes la cadena televisiva Al-Yazira, que es mayoritariamente de capital saudí, catarí e israelí.

Otra constante de estas revoluciones es que han derrotado a gobiernos que mantenían una política de cierta colaboración con Europa en materia energética y de control de la inmigración, es curioso ver cómo por ejemplo a Marruecos no ha llegado este “viento de libertad”. Mucho nos tememos que los nuevos gobiernos den un giro a esta situación y el Mediterráneo se convierte en una zona de inestabilidad creciente y con tendencia al enfrentamiento entre ambas orillas, algo que entra dentro dela estrategia del Choque de las civilizaciones del Pentágono.

Todo esto demuestra una vez más la falacia del pretendido antiislamismo de los Estados Unidos pues precisamente la política de Washington en Oriente Medio consiste en usar a los islamistas para derrocar a los regímenes árabes laicos como Irak o la propia Libia.

De todas formas hay que estar atentos al papel que juega en la zona la emergente potencia turca, en tensión creciente con Estados Unidos y con Israel por la hegemonía en el mundo árabe-islámico. La reciente visita de Erdogan a El Cairo hay que entenderla en este sentido. Turquía está en una nueva y diferente pase de sus relaciones internacionales y el neo-otomomanismo de su ministro de Asuntos Exteriores, Ahmet Davotoglu, será un factor de creciente importancia.

P: Si su partido ganase las elecciones, ¿Qué posición tomaría con respecto a Gibraltar?

R: El primer objetivo en esta cuestión debería ser iniciar un proceso gradual y negociado con Londres para terminar con la situación colonial de ese territorio. A su  vez, España debe actuar de forma clara y enérgica para que Gibraltar deje de ser un punto oscuro en el tráfico de drogas y de evasión de capitales.

Como partido catalán debemos recordar que si Gibraltar pasó a manos británicas como consecuencia del Tratado de Utrecht tras nuestra Guerra de Sucesión, algo similar ocurrió con los territorios catalanes y españoles de Perpiñán y la Cerdanya, que fueron incorporados a Francia y sometidos a una política de asimilación y despersonalización. España no puede olvidar definitivamente esa cuestión y debe apoyar una política cultural de vinculación de esos territorios con Cataluña, como parte histórica de Cataluña y de España que fueron.

P: ¿Impulsará su partido las cumbres iberaomericanas como un auténtico foro de los países de habla hispana y portuguesa?

R: Sin duda. Iberoamérica se está convirtiendo cada vez más en un bloque geopolítico de creciente importancia económica, energética (recordemos el reciente descubrimiento de petróleo en el sur de Argentina) y política.

El acercamiento entre Buenos Aires y Brasilia y la llegada a varios países de la zona de gobiernos que podríamos llamar nacionalistas de izquierda, hará que Sudamérica tienda a tener voz propia y unificada en la escena internacional. España, como parte fundamental del bloque europeo, debería tiene un papel crucial para establecer relaciones de amistad y cooperación entre nuestro bloque geopolítico europeo y el bloque geopolítico sudamericano. Lograrlo podría modificar la relaciones de poder e influencia en el equilibrio geopolítico mundial.

P: ¿Le parece correcto que los Estados Unidos aun mantengan bases militares en territorio español?

R: Nos oponemos  abiertamente a la presencia de bases norteamericanas en territorio español y europeo pedimos la desmantelación de las mismas. Estados Unidos y Europa están en una dinámica de progresiva divergencia, los intereses económicos y políticos respectivos no sólo no coinciden sino que son cada vez más contrapuestos.  Europa sólo podrá ser un actor internacional de peso y defender su posición en la escena internacional, con una política exterior y militar propia, en este sentido abogamos por la creación de una Organización militar de Defensa exclusivamente europea al margen de los Estados Unidos,  y en consecuencia la desmantelación de las bases norteamericanas en España y en Europa occidental, donde la única presencia militar de fuerzas militares debe ser la propia.

P: ¿Qué opina usted de la política de inmigración de Sarkozy, que ha obligado a miles de gitanos a abandonar Francia?

R: Que es una pantomima y una farsa. La pseudoexpulsión de gitanos rumanos de Francia fue un brindis al sol y una medida cara al electorado que Sarkozy consiguió arrancar a Jean Marie Le Pen en las últimas elecciones presidenciales y que necesitará mantener a toda costa si pretende ser reelegido como Presidente de Francia en la primavera de 2012. Esos gitanos rumanos son una pequeña anécdota del gravísimo problema real que supone la avalancha migratoria y la sumersión demográfica en Francia. Sarkozy sabía perfectamente que esos gitanos de pasaporte rumano podrían volver a Francia en pocos meses –como así ha sido- en función de su ciudadanía comunitaria.

En cuanto al problema real de la inmigración en Francia, es decir los millones de árabes, subsaharianos, asiáticos instalados en el país vecino y que con los actuales ritmos de crecimiento demográficos pueden subvertir la composición étnica de la República francesa en pocos años; la política de Sarkozy ha sido de puro continuismo con la de los gobiernos anteriores, es decir:  suicida.

P: ¿Qué opina de que la OTAN actúe en los conflictos armados internos? ¿Considera que en el caso libio se ha actuado para proteger al pueblo o que ha sido un ataque a un Estado soberano con intereses ocultos?

R: Que la OTAN actúe y ataque unilateralmente a cualquier Estado soberano nos parece lo que es: un atropello a la legalidad internacional.   Con la coartada de imponer un supuesta democracia que sólo existe en la imaginación de los estrategas del Pentágono y de Wall Street, los Estados Unidos han desencadenado absurdas guerras en Oriente Medio cuyo único objetivo era el control por parte de EE UU de zonas estratégicas desde el punto de vista energético y el control de las comunicaciones y rutas comerciales euroasiáticas que siguen pasando por la antigua Ruta de la Seda por la que fluyen el petróleo y el gas. También hay que señalar la importancia que tienen el control de esta ruta en el narcotráfico a escala mundial.

P: Cómo ve su partido que países islamistas conservadores como Catar o Arabia Saudí se estén convirtiendo en los máximos inversores en España?

R: Con inquietante y creciente preocupación.  Arabia Saudí y Catar son dos regímenes islamistas-wahabitas dictatoriales que  niegan los derechos de la mujer. Son tiranías corruptas, su dinero no debe ser bienvenido en España ni en ningún país europeo.

Además sus inversiones están dentro de la lógica del expansionismo islamista que defienden mantienen y financian el gobierno saudí y el qatarí. Es intolerable que se permita que esos petrodólares sirvan para financiar mezquitas en España donde se predica el odio y la intolerancia islamista. España debería hacer como Noruega e impedir con las medidas legislativas oportunas, que ninguna mezquita sea financiada con dinero saudí.

Por lo llamativo y lo visible es vergonzoso ver cómo nuestro fútbol se vende a los intereses de estos tiranos. Que el Santiago Bernabeu vaya a llamarse el Arena, y que el Barça lleve la camiseta de la Fundación Qatar, son algo más que anécdotas, son el síntoma de la facilidad y la profundidad con el que penetra el capital wahabita en España, y eso tendrá consecuencias nefastas en los próximos años.

Hay que señalar que Arabia Saudí y Catar, precisamente los dos grandes aliados de Estados Unidos en la zona,  son los dos únicos países árabes en los que no está permitido ningún otro culto público que no sea el islámico.