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dimanche, 20 novembre 2011

L’Arabia Saudita gioca un ruolo chiave nell’alleanza anti-iraniana degli Stati Uniti

 

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L’Arabia Saudita gioca un ruolo chiave nell’alleanza anti-iraniana degli Stati Uniti

 

Jean Shaoul, Global Research,

Ex: http://aurorasito.wordpress.com/

World Socialist Web Site

Il ruolo chiave dell’Arabia Saudita nel tentativo di destabilizzare il regime baathista di Bashir Assad, è al centro del tentativo di Washington di mettere insieme una alleanza anti-iraniana, più in generale, volto a reprimere le masse mediorientali.
L’Arabia Saudita, principale produttore ed esportatore di petrolio al mondo, ha le maggiori riserve di petrolio conosciute al mondo. Questo ha portato una ricchezza incalcolabile alla famiglia regnante saudita e ai suoi oltre 20.000 capi. La Casa dei Saud mantiene il potere con un sistema di repressione brutale che vieta ogni  protesta pubblica, sciopero e manifestazione di dissenso, combinata con la sua difesa di una versione estrema dell’Islam sunnita, il wahhabismo.
Dal 10 al 15 per cento della popolazione, è sciita ed è perseguitata. Questo crea profonde tensioni sociali, tanto più che gli sciiti vivono principalmente nella Provincia Orientale, dove si trova il 90 per cento dei 260 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate saudite.
La maggior parte della popolazione ha tratto scarso beneficio dalla ricchezza petrolifera. La disoccupazione tra gli uomini sauditi è ufficialmente all’11,6 per cento, ma è più volte questa cifra. Un gran numero di donne è escluso dal mercato del lavoro. I giovani sotto i 30 anni, che costituiscono i due terzi della popolazione di 26 milioni di abitanti, sono colpiti; il 40 per cento dai 20 ai 24enni è disoccupato. Anche i laureati non trovano lavoro, non possono sposarsi e mettere su casa.
L’aumento del prezzo del petrolio ha creato 2,2 milioni nuovi posti di lavoro nel settore privato, ma solo il 9 per cento è andato a cittadini sauditi. Quasi 6 milioni di lavoratori, o l’80 per cento della forza lavoro, non sono cittadini, ma soprattutto lavoratori migranti provenienti dal Sud o Sud-Est asiatico, che lavorano per una miseria, senza diritti o protezione.
A gennaio, a seguito dei movimenti sociali di massa in Tunisia ed Egitto, scoppiò la protesta per chiedere la liberazione dei “prigionieri politici dimenticati“, che sono stati imprigionati per 16 anni senza accuse o processi.  Ciò ha indotto il re Abdullah a tornare a casa subito, dopo mesi di ricovero negli Stati Uniti.
Un punto di riferimento delle proteste è stata Qatif, una zona prevalentemente sciita nella parte orientale petrolifera del paese. Proteste, tutte ignorate dai media internazionali, sono in corso da mesi, con i dimostranti che denunciano l’intervento militare saudita nel vicino Bahrain, chiedono la liberazione di persone arrestate durante le proteste, e denunciano il regime di oppressione delle donne.
Essi sono stati colpiti dalla repressione e da un massiccio pacchetto di riforme da 130 miliardi di dollari USA, un importo pari al 36 per cento del Pil saudita. Il pacchetto comprendeva un salario minimo mensile di 3.000 riyal (800 dollari), due mesi di paga extra per i dipendenti pubblici, più borse di studio agli studenti universitari, l’indennità di disoccupazione di circa 260 dollari al mese, 500.000 case a prezzi accessibili, 4,3 miliardi di dollari in investimenti nelle strutture mediche, 60.000 posti di lavoro nelle forze di sicurezza e una commissione anti-corruzione.
Tale generosità è sostenibile soltanto se il prezzo del petrolio, attualmente a più di 85 dollari al barile, rimane alto.
L’aumento della spesa sociale si aggiunge a un pesante disegno di legge sulla difesa, che trattiene circa un terzo del bilancio saudita. Questo è destinato ad aumentare, in linea con l’atteggiamento sempre più bellicoso del regno verso l’Iran, col suo coinvolgimento nello Yemen e in Pakistan, e col finanziamento segreto delle forze sunnite in Iraq e in Siria. Inoltre, l’Arabia Saudita è impegnata a pagare la maggior parte dei 25 miliardi di dollari del Gulf Cooperation Council (GCC), con cui si è impegnata ad acquietare il malcontento sociale in Bahrain, Egitto, Giordania e Oman. Riyadh fornisce anche grosse somme ai palestinesi e all’Afghanistan.
La morte, il mese scorso, dell’86enne principe ereditario Sultan bin Abdul Aziz, ha sollevato preoccupazioni circa il futuro politico del regno. L’88enne re Abdullah è in condizioni di salute estremamente precarie. Abdullah ha ritardato il funerale del principe Sultan, fino a quando ha ottenuto l’accordo del Consiglio dell’eredità, composto da rappresentanti di ciascuna delle famiglie degli Ibn Saud, fondatrice del regno, nel nominare il principe Nayif, ministro degli interni, nuovo principe ereditario. Ma Nayif, 78 anni, soffre di cattiva salute e non c’è accordo nella nuova generazione per la successione.
L’Arabia Saudita ha funzionato come perno centrale della reazione sociale durante le proteste di massa che hanno scosso il Medio Oriente, quest’anno. Il suo obiettivo principale è distruggere tutte le proteste prima che si diffondano in Arabia Saudita e negli altri Stati del Golfo, che affrontano tutte il dissenso della propria irrequieta popolazione sciita.
Furiosa verso Washington, che ha ritirato il proprio sostegno all’egiziano Hosni Mubarak e all’ex presidente della Tunisia, Zine al-Abidin Ben Ali, che ha accolto, l’Arabia Saudita ha aiutato a schiacciare le proteste contro il vicina Bahrain della dinastia al-Khalifa.
Riyadh ha anche sostenuto il re di Giordania Abdullah, che affronta le proteste in corso, guidate dai Fratelli Musulmani, con contanti e l’offerta di aderire al GCC, incluso il suo supporto militare.
Nel vicino Yemen, Riyadh ha appoggiato la 30ennale dittatura del presidente Ali Abdullah Saleh, contribuendo a reprimere la filiale locale di al-Qaida e i ribelli sciiti, vicino al confine con l’Arabia Saudita. L’elite saudita è preoccupata che le proteste prolungate in Yemen si riversino oltre il confine. Nonostante cerchino di far dimettere Saleh attraverso un accordo mediato dal GCC, i sauditi gli hanno permesso di tornare nello Yemen, dopo mesi durante i quali era a Riyadh, per curarsi delle ferite subite a seguito di un tentativo di assassinio. Questo perché non possono contare su alcun successore.
L’Arabia Saudita ha inoltre collaborato agli “omicidi mirati” degli Stati Uniti di Anwar al-Awlaki, un religioso statunitense musulmano, nello Yemen, e più tardi di suo figlio.
La dinastia saudita gareggia con l’Iran per l’influenza regionale. Usa la sua tutela di due dei tre luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina, per sostenere la sua pretesa di difendere la fede musulmana, sostenendo un conflitto religioso contro gli “eretici” sciiti, con il sostegno delle altre monarchie del Golfo.
Per decenni, Riyadh ha usato la sua enorme ricchezza petrolifera per coltivare i religiosi sunniti e i gruppi salafiti, e le campagne di finanziamento dell’educazione religiosa e i programmi televisivi trasmessi in tutto il Medio Oriente e l’Asia centrale. Ha scatenato l’ostilità verso le minoranze sciite, per dividere ogni dissenso interno, impedendo la crescita di partiti politici sciiti  filo-iraniani e contrastare l’influenza iraniana. Ed incolpa di routine l’”interferenza” iraniana in Bahrain e nello Yemen, per i disordini che vi sono, ma senza produrre alcuna prova.
In Libano, i sauditi sostengono la fazione filo-occidentale di Saad Hariri e Rafik Hariri, suo padre ed ex primo ministro assassinato nel 2005, quale un baluardo contro l’influenza siriana e iraniana. Hezbollah, il partito sciita appoggiato da Siria e Iran, ha un ampio richiamo popolare al di fuori del Libano, per la sua opposizione ad Israele.
Nel 2002, l’allora re Fahd aveva presentato il suo piano per normalizzare le relazioni con Israele, in cambio di uno stato palestinese accanto a Israele, entro i confini del 1967, per disinnescare la rabbia diffusa in tutta la regione. La roadmap del presidente George W. Bush, annunciata nel 2002, è stato un tentativo di contrastare l’impatto politico dell’invasione dell’Iraq nel 2003, da cui l’allora principe ereditario Abdullah aveva messo in guardia, poiché avrebbe rafforzato l’Iran.
L’Arabia Saudita è implacabilmente ostile al governo iracheno, che è vicino all’Iran. Riyadh s’è rifiutata di inviare un ambasciatore a Baghdad e insiste sul rimborso dei suoi 30 miliardi di dollari di prestito dati a Saddam Hussein per perseguire gli otto anni di guerra contro l’Iran, negli anni ’80.
Secondo il Dipartimento di Stato USA, nei documenti pubblicati da Wikileaks, il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki ha accusato l’Arabia Saudita di “fomentare conflitti settari” e di “finanziamento di un esercito sunnita.” Il suo intervento in Iraq rischia di degenerare dopo che le truppe USA si ritireranno, alla fine di quest’anno.
Riyadh ha giocato un ruolo chiave nell’annuncio della Lega Araba, il 13 marzo, di supporto a una ‘no-fly zone’ sulla Libia, che ha aperto la strada alla guerra della NATO per rimuovere il colonnello Muammar Gheddafi e installare il Consiglio di transizione nazionale fantoccio.
Negli ultimi anni, Riyadh ha riparato i rapporti con la Siria, mentre Damasco cercava relazioni più strette con Washington. Insieme, i due paesi hanno cercato di impedire che le tensioni in Libano degenerassero in un conflitto armato. Ma mentre Riyadh aveva originariamente sostenuto il presidente Bashar al-Assad contro il movimento di protesta guidato soprattutto dalla Fratellanza musulmana e dai salafiti, per mantenere la stabilità nella regione, ha cambiato bandiera, vedendo nei disordini  un’opportunità per ridurre l’influenza dell’Iran in Medio Oriente.
Lo scorso agosto, ha ritirato il proprio ambasciatore da Damasco. Alcuni degli oppositori, molti armati, hanno il supporto dell’Arabia Saudita e delle forze intorno l’ex primo ministro Saad Hariri in Libano. Sono rappresentati nel Consiglio nazionale siriano, istituito con il sostegno della Turchia, nel tentativo di fornire un governo embrionale in esilio siriano e legittimare l’intervento turco per conto delle potenze occidentali.
In Pakistan, Riyadh è stato uno dei principali donatori di Islamabad, secondo solo agli Stati Uniti, e appoggia i suoi sforzi verso la riconciliazione con i taliban in Afghanistan, a scapito delle fazioni rivali più vicine a Teheran. Secondo il Center for Global Development, Riyadh fornito al Pakistan quasi 140 milioni di dollari all’anno tra il 2004 e il 2009. L’anno scorso, Islamabad ha dato 100 milioni di dollari per gli aiuti sul diluvio, e quest’anno altri 114 milioni di dollari.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

samedi, 19 novembre 2011

Scandale à la mosquée de Cologne

Scandale à la mosquée de Cologne

L'architecte en charge de la construction de l'édifice a été remercié après la découverte d'étranges symboles gravés sur les murs.

La construction de la nouvelle mosquée de Cologne a été arrêtée en urgence il y a quelques jours, stoppée nette par le scandale. Son architecte, licencié depuis, est accusé d'avoir caché des symboles chrétiens - de petites croix et le monogramme grec du Christ - partout dans le bâtiment.

Aucun des symboles en question ne figurant sur les plans de l'édifice, la presse locale a très largement pris fait et cause pour l'architecte et choisi de tourner au ridicule la décision de le licencier et de stopper les travaux.

"Jetons un second coup d’œil aux plans", écrit Lucas Wiegelmann, du quotidien allemand Die Welt. "La salle de prière est orientée vers l'Est, officiellement parce que c'est la direction de la Mecque - mais Jérusalem et le tombeau du Christ ne sont-ils pas aussi dans cette direction ? Et la coupole, ne peut-on pas y voir la forme de deux poissons ? Le poisson était le symbole secret des premiers chrétiens. Si DITIB [l'association turque qui finance la construction de la mosquée, NDLR] voit les choses de cette manière, autant détruire le bâtiment et le reconstruire entièrement".

 

vendredi, 11 novembre 2011

La Libye sous le pouvoir des milices islamistes. Point de situation

La Libye sous le pouvoir des milices islamistes

Point de situation.

 
 
Bernard LUGAN

Ex: http://bernardlugan.blogspot.com/

Les nouvelles images du lynchage du colonel Kadhafi qui commencent à être diffusées sur le net annoncent un « hiver libyen » plein de douceurs et de mièvreries… Mais au-delà de la mort atroce de l’ancien chef de l’Etat libyen, quelle est la situation sur le terrain au moment où ces lignes sont écrites ?
 
Plus que jamais, le CNT ne représente que lui-même et c’est d’ailleurs pourquoi il  demanda avec une grande insistance, mais en vain, que l’Otan maintienne sa présence. Ce pseudo gouvernement sait en effet qu’il porte un péché originel : celui d’avoir été mis en place par l’Otan, donc par les « impérialistes » et les « mécréants ». Ses lendemains vont donc être difficiles. D’autant que ses principaux dirigeants, tous d’anciens très hauts responsables de l’ancien régime et donc des « résistants de la dernière heure », commencent à être mis en accusation par certains de ces chefs de guerre qui détiennent désormais les vrais pouvoirs.
 
Le président du CNT, Mustapha Abd el Jalil, a déclaré que la charia serait désormais la base de la Constitution ainsi que du droit, que la polygamie, interdite sous Kadhafi, serait rétablie et que le divorce, autorisé sous l’ancien régime, était désormais illégal. Enfermé dans leur européocentrisme, les Occidentaux ont considéré que ces déclarations étaient « maladroites ». Leur erreur d’analyse était une fois de plus totale car ces propos à but interne étaient destinés à amadouer les milices islamistes auxquelles le pouvoir du CNT est suspendu. Pour mémoire, Mustapha Abd el Jalil, l’ami de BHL, était le président de la Cour d’appel de Tripoli qui, par deux fois, confirma la condamnation à mort des infirmières bulgares et en 2007, le colonel Kadhafi le nomma ministre de la Justice. En dépit de son passé kadhafiste, Abd el Jalid est pourtant respecté par certains islamistes car il est proche des Frères musulmans, mais son pouvoir ne dépasse pas son tapis de prière.
 
La Libye est en effet éclatée entre plusieurs zones contrôlées par des chefs de guerre jaloux de leur autonomie et prêts à s’entre-déchirer, comme en Somalie. Ces territoires ont tous une ouverture sur la mer et une profondeur vers l’intérieur pétrolier ou gazier, ce qui fait que, comme je le disais il y a déjà plusieurs semaines déjà, le pays est aujourd’hui découpé en « touches de piano ».
 
Benghazi est sous le contrôle de plusieurs milices islamistes, elles-mêmes éclatées en un grand nombre de petits groupes plus ou moins autonomes, mais c’est à Tripoli que se joue l’unité de la Libye.
 
Dans la capitale, le chef du CNT, Mustapha Abd el Jalid s’appuie sur le TMC (Tripoli Military Council) qui engerbe plusieurs milices islamistes pouvant mobiliser entre 8000 et 10 000 combattants. Le chef du TMC, originaire de Tripoli, est Abd el-Hakim Belhaj dit Abu Abdullah Assadaq. Ayant combattu en Afghanistan, ce partisan du califat supra frontalier fonda le Libyan Islamic Fighting Group dans les années 1990. Ayant fui la répression anti islamique du régime Kadhafi, il retourna en Afghanistan où il fut arrêté en 2004 puis remis à la police libyenne avant d’être libéré au mois de mars 2010, à la veille de l’insurrection de Benghazi.
 
Durant la guerre civile, le TMC fut armé et encadré par les services spéciaux du Qatar et il reçut une aide « substantielle » de la part de certaines unités « spécialisées » de l’Otan. Ce fut lui qui prit d’assaut  le réduit de Bab al-Aziya à Tripoli. Plusieurs autres milices islamistes se partagent la ville et n’acceptent pas le leadership reconnu au TMC par Mustapha Abd el Jalil. Pour encore compliquer l’embrouille locale, le 2 octobre, fut fondé le Tripoli Revolutionists Council ou TRC, par Addallah  Ahmed Naker al-Zentani, originaire de Zentan mais indépendant des milices berbères de cette dernière ville.
 
A Misrata, les milices se considèrent comme l’élite des révolutionnaires et leur prestige est immense depuis qu’elles ont capturé le colonel Kadhafi. Ce furent certains de leurs hommes, gentils démocrates si chers aux médias français, qui lynchèrent et sodomisèrent vivant l’ancien guide et qui, comme « trophée », emportèrent son corps dans leur ville.
 
Misrata est sous le contrôle du Misurata Military Council (MSR), qui engerbe plusieurs milices dont la principale est la Misurata Brigade. La situation est cependant confuse car les combattants sont divisés en plusieurs dizaines de groupes commandés par des chefs indépendants rassemblant au total plusieurs milliers d’hommes. A la différence du TMC, le MSR n’a pas besoin d’aide étrangère car il dispose d’énormes quantités d’armes pillées dans les arsenaux de l’ancienne armée.
 
Les miliciens de Misrata ont une forte tendance à l’autonomie et ils ne semblent pas vouloir accepter de se soumettre au CNT. De plus, ils se méfient des originaires de Benghazi. Pour pouvoir espérer prendre le contrôle de la ville, le CNT devra donc, comme à Tripoli, s’appuyer sur certaines milices contre les autres, ce qui promet bien des « incidents ». Des tentatives de rapprochement ont été faites en direction de Salim Joha, chef de l’Union on Libya’s Revolutionary Brigades, mais rien de concret ne s’est produit pour le moment. Le CNT pourrait également tenter d’amadouer Misrata en nommant Abdul Rahman Swehli Premier ministre, ce qui lui permettrait du même coup d’échapper à la main-mise des clans de Benghazi.
 
Autre zone ayant échappé au contrôle du CNT, le pays berbère de Zentan avec sa puissante milice ancrée sur djebel Nefuza. Ce furent les Berbères qui permirent l’assaut sur Tripoli en prenant à revers les forces de Kadhafi, opération préparée par les forces spéciales de l’Otan.
 
Zentan  est contrôlée par le Zentan Military Council (ZMC), dont les milices arborent le drapeau amazigh. Militairement, les milices berbères sont les mieux formées de toute la Libye, leurs cadres étant d’anciens officiers libyens. Les deux principales unités berbères sont la Zentan Brigade commandée par Muktar al-Akdhar et la Kekaa Brigade, chacune forte d’environ 1000 combattants. Ces milices ont refusé de quitter Tripoli en dépit des ordres du CNT, ce qui provoqua de graves tensions. Le 3 octobre, après un ultimatum du CNT, la Brigade Kekaa se livra même à une véritable tentative d’intimidation, paradant dans Tripoli et attirant la réplique des islamistes. La guerre civile fut alors évitée de justesse, mais ce n’est que partie remise…
 
Ceux qui, poussés par BHL, décidèrent d’intervenir en Libye et de s’immiscer dans une guerre civile qui ne concernait en rien la France, vont désormais porter la très lourde responsabilité des évènements dramatiques qui s’annoncent et qui vont se dérouler à quelques heures de navigation de nos côtes.
 
Bernard Lugan
29/10/11

jeudi, 10 novembre 2011

Dutch Halal Ban—A Lesson from Europe?

Dutch Halal Ban—A Lesson from Europe?

By Alex Kurtagic
 
Ex: http://www.alternativeright.com/
 

The BBC reports:

Next month the Dutch parliament is expected to approve a ban on halal and kosher methods of slaughtering animals for food.

Those who proposed the ban say it is simply an issue of animal welfare, but it received strong support from the right-wing Freedom Party.

Many see it as a violation of their religious freedom, and among the Jewish community it is a worrying echo of a similar ban brought in by Hitler.

One of the Muslims interviewed moaned that the Dutch desire Muslims to be Muslims at home, but not in society. I think that is correct. And, what is more, I venture that many would also define 'home' as 'not in the Netherlands'—meaning, overseas, far away, where the Muslims came from originally and ought to have remained.

It is disappointing that the Nethelands' chief Rabbi, Benjamin Jacobs, hauls in Hitler and the Holocaust to bolster his complaint (see video in the BBC report). Could he not have voiced his displeasure without doing that?

Be that as it may, this ban on halal butchery shows what is still possible to achieve in contemporary politics, despite the state-sponsored policies of immigration and multiculturalism.

Animal welfare has preoccupied both the liberals and traditionalists, and because this common ground exists, it has been possible for anti-immigration politicians to use arguments processable by their opponents to slow down the damage caused… by their opponents.

This is not the only example of how the very ideology of the Left can be turned against them—with Leftists' approval.

Another has been criticism of Israel's human rights record, which has resulted in academic boycotts of Israel. Although progress on that front has been somewhat slow.

Yet another should be opposition to the debt racket ran by the banksters of Goldman Sachs and their ilk. There have been screams of disgust from both extremes of the political spectrum, but no tactical coalition has been formed in order to achieve fundamental reform in this area.

I bears noting, however, that policies or practices that indirectly exclude non-European immigrants and their descendants are, from the point of view of tactical politics, not entirely reliable, and ought to be formulated with care.

In December 2005, for example, Soulidarieta, a charity group with alleged links to Identity Bloc, began distributing pork soup to the needy at locations close to soup kitchens. Alsace Solidarity launched a similar initiative in Strasbourg a few weeks later. The traditional soup was designated 'Identity Soup' by its chefs.

Within less than two months officials banned the handouts in Strasbourg and the police closed down offending soup kitchens Paris. This, at the urging of an anti-racism group, the rather Orwellian Movement Against Racism and for Friendship Between Peoples, whose lobbyists urged the then Interior Minister Nicolas Sarkozy to impose a country-wide ban.

Strasbourg's mayor, alerted to the racial subtext, pontificated: 'Schemes with racial subtexts must be denounced'.

The weakness of this scheme was that the Left does not care about traditional cuisine or traditional anything, the way that they think they care about things like animal welfare and human rights. Thus, although the anti-racists' complaint was eventually rejected in the courts, it was easy initially to impose a ban. 

It seems it has been less easy to argue against banning halal butchery, even if there is a racial subtext, when animal welfare is concerned. Note that a supporter of the Dutch ban is Marianne Thieme's Party for Animals, a party that for modern standards is considered to be of the 'centre-Left'.

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Perhaps there are lessons for identity politicians here.

mercredi, 26 octobre 2011

Le monde arabe à l’heure des islamistes

Bernhard TOMASCHITZ:

Le monde arabe à l’heure des islamistes

Après les révolutions du “printemps arabe”, les islamistes gagnent du terrain et l’Occident gonfle le danger terroriste

La “jeunesse de Facebook” a fait son temps dans les pays arabes après les soubresauts politiques qui les ont secoués. Ainsi s’évanouissent également les espoirs des Etats-Unis et de l’UE de voir émerger, après la chute des dictateurs en Egypte, en Tunisie et en Libye, des “démocraties libérales” de modèle occidental. Le vide de pouvoir dans ces pays d’Afrique du Nord est comblé —c’est désormais patent— par les islamistes. L’histoire accouchera sans doute d’une de ces boutades de mauvais goût et nous dira bientôt que les bombes de l’OTAN, lancées sur la Libye, auront aidé le droit islamique, la Sharia, à s’installer dans le pays. En effet, à la mi-septembre, le président du Conseil National de Transition, Moustafa Abd Al-Djalil, a fait savoir qu’on “construira en Libye un Etat de droit, un Etat social, bref un Etat dans lequel la jurisprudence islamique, soit la Sharia, constituera la source de toutes les lois”. L’affirmation d’Al Djalil, qui disait “ne tolérer aucune idéologie extémiste”, apparaît désormais comme une simple pillule tranquilisante destinée à l’Occident.

La situation est quasi la même dans la Tunisie voisine, où, au début de cette année 2011, le “printemps arabe” a réellement commencé lorsque la population en colère a chassé Zine el-Abidine Ben Ali, au pouvoir depuis fort longtemps. En Tunisie, le parti islamiste Ennahda a quasiment toutes les chances de devenir la force politique la plus puissante dès les premières élections libres qui auront lieu fin octobre. Le parti “Ennahda” fait certes semblant de suivre la ligne modérée de l’AKP turc, aujourd’hui au pouvoir à Ankara: il serait ainsi “occidentalisé” et “moderne” pour se présenter aux observateurs extérieurs mais, en dépit de cette façade, les islamistes ont vraisemblablement en tête de transformer la Tunisie en un Etat islamiste, qui n’aurait plus rien d’“occidental” ou de “moderne” en ses fondements. Dans cette optique, le juriste et constitutionaliste tunisien Djaouar Ben Moubarak estime “que l’Ennahda parle bel et bien d’un Etat séculier, tout en voulant se servir de la Sharia comme source d’inspiration première pour la future constitution tunisienne”. A cela s’ajoute que l’Arabie Saoudite, où le wahhabisme, une forme particulièrement rétrograde de l’islam, est religion d’Etat, a soutenu généreusement les “révolutions” dans les Etats d’Afrique du Nord, dans l’intention évidente d’exporter son propre modèle qui n’est en rien compatible avec les valeurs occidentales comme la démocratie ou les droits de l’homme.

En Egypte aussi les islamistes marquent des points. Dans ce pays qui compte aujourd’hui 80 millions d’habitants, les frères Musulmans, qui constituaient sous Moubarak la principale force d’opposition, ont le vent en poupe. Leur parti, qui se présente aux élections et se nomme “Liberté et Justice”, gagnera vraisemblablement les élections prévues pour le 28 novembre 2011, ainsi que l’estiment bon nombre d’observateurs. Cela ne sera pas sans conséquences pour le pays arabe le plus peuplé. En effet, lorsque le Premier Ministre turc Recep Tayyip Erdogan a visité l’Egypte en septembre 2011, il a plaidé en faveur de l’émergence d’un modèle islamo-démocratique; les Frères Musulmans ont aussitôt pris leurs distances. Dans une déclaration faite à la presse, les Frères Musulmans ont précisé: “Les expériences réalisées en d’autres pays ne peuvent pas purement et simplement être importées en Egypte”.

L’objectif, affiché au départ par les Etats-Unis, qui était de “démocratiser” le monde arabe selon des conceptions proprement américaines, est remis aux calendes grecques... Toutefois les Etats-Unis semblent tout aussi prêts à accepter l’apparition de nouvelles formes autoritaires. Dans ce sens, la ministre américaine des affaires étrangères, Hillary Clinton, a loué le travail des militaires égyptiens qui, depuis la chute de Moubarak en février dernier, ont pris en mains les affaires de l’Egypte et ont assumé un “rôle stabilisateur”.

C’est justement ce souci de “stabilité” qui pourrait servir de prétexte aux Etats-Unis, dans les années à venir, pour empêcher les populations de la région de forger leur avenir selon leurs propres voeux et selon leurs conceptions musulmanes. Dans ce contexte, il me paraît bon de rappeler un fait, rapporté récemment: en Libye, quelque 10.000 missiles sol-air ont disparu des arsenaux de l’armée, en dépit des gardes. Ces missiles, d’après la sonnette d’alarme que tire l’OTAN, pourraient tomber aux mains des terroristes et constituer à terme “un danger sérieux pour la navigation aérienne civile”. D’autant plus que bon nombre de missiles sol-air sont désormais pourvus de senseurs détectant les sources de chaleur, ce qui leur permet de frapper directement les turbines des avions.

Les indices se multiplient qui nous permettent d’émettre l’hypothèse suivante: les Etats-Unis constatent que les chances de succès d’une démocratisation à l’occidentale dans les pays arabes sont fort limitées à court terme et misent de plus en plus sur la lutte anti-terroriste. L’idée d’une lutte planétaire contre le terrorisme jouit d’une franche popularité aux Etats-Unis, encore aujourd’hui, comme l’attestent les réactions à l’occasion du dixième anniversaire des attentats du 11 septembre 2001. Le Président Barack Obama a déclaré ainsi, dans l’une de ses allocutions: “ne nous faisons pas d’illusions, les terroristes tenteront encore et toujours de nous attaquer mais, comme nous l’avons à nouveau démontré ce week-end, nous restons sans cesse vigilants. Nous entreprenons tout ce qui est en notre pouvoir pour protéger notre peuple”. Le prédécesseur d’Obama, George W. Bush, ne se serait pas exprimé autrement.

Pour les Etats-Unis donc, la lutte contre le terrorisme est loin d’être terminée: on peut l’affirmer dès lors que nous voyons des branches d’Al Qaida se multiplier à des échelles régionales comme prolifèrent les champignons dans un sol humide. Parmi ces émanations d’Al-Qaida, citons notamment “Al Qaida pour un Maghreb islamique”, qui semble vouloir se développer dans un avenir proche en Tunisie, en Libye et en Egypte, ce qui permettra aux Etats-Unis d’intervenir à tout instant, sous prétexte de lutte anti-terroriste.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°41/2011 – http://www.zurzeit.at ).

 

dimanche, 23 octobre 2011

Egypte : du « printemps arabe » à l’hiver chrétien

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Egypte : du « printemps arabe » à l’hiver chrétien

 
 
Pour les Coptes, le « printemps arabe » s’est vite transformé en un « hiver chrétien », à telle enseigne qu’il est possible de se demander s’ils pourront survivre dans leur propre pays.
Les 6 à 10% d’Egyptiens coptes sont les ultimes survivants de l’ancienne chrétienté égyptienne qui rassemblait quasiment 100% de la population avant la conquête arabo-musulmane du VII° siècle. Aujourd’hui, en dépit des discours lénifiants de certains responsables politiques et religieux, ils subissent un véritable apartheid. Ils sont en effet considérés comme des étrangers, la fonction publique leur est de plus en plus fermée et il leur est de plus en plus difficile de faire de la politique, ou du moins de briguer avec une quelconque chance de succès des mandats électifs.
L’actuelle vague de violences anti Copte a commencé à Alexandrie, dans la nuit du Nouvel An à l’église des Saints, quand une bombe explosa en plein office, faisant 21 morts et 80 blessés.
Depuis la chute du président Moubarak, la violence anti chrétienne a pris la forme de véritables pogroms, les Coptes subissant des exactions quotidiennes et plusieurs de leurs églises ayant été attaquées ou incendiées.
 
Ce qui s’est passé le dimanche 9 octobre au Caire marque cependant un tournant dans la persécution que subit cette communauté. Ce fut en effet l’armée, pourtant théoriquement gardienne de l’ordre et chargée de les protéger qui a froidement massacré les manifestants coptes protestant contre l’incendie d’une de leurs églises. Lançant dans une foule pacifique ses véhicules blindés à pleine vitesse, elle broya 24 personnes et en mutila 200 autres. Face à ce massacre d’Etat les médias officiels ont menti, faisant croire aux Egyptiens que les Coptes avaient attaqué l’armée, laquelle s’était donc trouvée en situation de légitime défense.
 
Pourquoi de tels mensonges, pourquoi de tels évènements ? La réponse est hélas claire : le total échec du prétendu « printemps arabe » étant désormais une évidence, les dirigeants officiels ou officieux de l’Egypte sont dans une impasse politique, économique et sociale cependant que les islamistes sont en embuscade. Ils cherchent donc un bouc émissaire afin de tenter de lui faire porter la responsabilité de la situation. Les Coptes vont donc jouer ce rôle...
 
La tragique situation de cette communauté semble moins émouvoir le président de la république française que les islamistes de Benghazi au bénéfice desquels il a fait intervenir l’armée française… 
 
Bernard Lugan
11/10/11

vendredi, 16 septembre 2011

11 septembre : nouvelles révélations sur les réseaux Anglo-saoudiens

11 septembre : nouvelles révélations sur les réseaux Anglo-saoudiens

 
12 septembre 2011 (Nouvelle Solidarité) – Deux semaines avant les attentats du 11 septembre 2001, une riche famille saoudienne ayant été en contact avec Mohamed Atta et d’autres terroristes du 11 septembre, a soudainement quitté sa luxueuse villa près de Sarasota en Floride pour fuir le pays, selon un récit d’Anthony Summers et du journaliste Dan Christensen, publié dans le Miami Herald du 7 septembre 2011. Rappelons que l’administration Obama conserve toujours sous scellé le rapport officiel démontrant l’implication directe du Prince saoudien Bandar bin Sultan, un agent britannique au cœur de l’opération BAE, dans le financement de deux autres kamikazes.

Cette villa était la propriété du financier saoudien Esam Ghazzawi et était occupée par sa fille Anoud et son mari Abdulazzi al-Hiijii. Les autorités américaines ont facilement établi la relation avec les terroristes puisque de nombreux appels téléphoniques ont été échangés entre la résidence et Mohamed Atta, et les vidéos de sécurité de la résidence montrent également les allés et venus de véhicules appartenant à Atta et à un autre pirate de l’air, Ziad Jarrah.

Atta, Jarrah et Marwan al-Shehhi habitaient tous dans un périmètre de 15 km autour de la villa des Ghazzawi et prenaient des cours de pilotage à proximité, dans la ville de Venice. Les analyses des enregistrements téléphoniques montrent des contacts avec onze autres terroristes présumés, y compris Walid al-Shehhi, qui était avec Atta sur le premier vol qui a percuté le World Trade Center.

L’ancien sénateur américain Bob Graham, qui a co-présidé l’enquête bi-partisane du Congrès sur le 11 septembre, a affirmé au Miami Herald qu’on aurait dû lui parler de ces découvertes, affirmant que « cela ouvre la porte à une nouvelle série d’enquête sur l’amplitude du rôle saoudien dans les attentats du 11 septembre. » Graham a immédiatement dressé le parallèle entre cette non-communication par le FBI et le fait que l’agence fédérale américaine n’avait rien communiqué non plus sur le financement saoudien de deux kamikazes en Californie (c’est en effet les enquêteurs du Congrès qui refirent cette découverte).

Bien que la commission du Congrès ait accumulé un très volumineux dossier sur les activités des kamikazes aux Etats-Unis et l’ait communiqué à la Commission sur le 11 septembre, « ils s’en sont très peu servis » a dit Graham, « et leur référence à l’Arabie Saoudite est presque énigmatique parfois… Je n’ai jamais su pourquoi ils n’avaient pas creusé cette piste. » Graham a également cité la suppression de la section finale de 28 pages du rapport de son enquête dans la version finale publiée par la Commission spéciale. Ces 28 pages ont été classifiées sur ordre de la Présidence Bush et le secret est perpétué par Obama, malgré ses promesses de campagne.

Un autre article récent, intitulé « Preuve de la complicité britannique et pakistanaise sur le 11 septembre » par Behrouz Saba, qui se réfère également à Mohamed Atta en Floride, est paru dans Nation of Change et d’autres sites. Malgré les aspects très obsessifs de l’article, Saba écrit qu’un des événements clés qui se déroula sous le nez des officiels de Washington D.C. a été ignoré. En octobre 2001, ABC News , Fox et CNN faisaient toutes état d’un transfert de fonds de 100.000 dollars au début du mois d’août 2001, en provenance de Dubaï et au bénéfice de deux comptes en banques de Floride, détenus par Atta. Le 6 octobre, CNN identifiait l’homme qui avait envoyé l’argent comme étant le Cheikh Ahmed Omar Saeed.

Questionnée à ce propos, la Maison-Blanche fit en sorte d’empêcher que cette partie de l’histoire n’attire trop l’attention, en jouant avec différentes orthographes du nom du Cheikh. Mais l’ancien président du Pakistan Pervez Musharraf a identifié le Cheikh comme agent du MI6. Dans ses mémoires, Musharraf écrit : « Le Cheikh Omar est un britannique né à Londres le 23 décembre 1973 de parents pakistanais (…) Il est allé à la London School of Economics mais a quitté l’école avant d’obtenir son diplôme. Il semble (…) qu’il ait été recruté par le service de renseignement britannique MI-6. »

Saba affirme que l’administration Bush savait que le Cheikh avait été envoyé par le MI-6 au Pakistan pour coopérer avec ses homologues de l’ISI, mais « protéger l’alliance entre britanniques et le Pakistan avait plus d’importance que de dévoiler la vérité. »

 

mardi, 13 septembre 2011

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il legame strategico tra Pechino e Islamabad è sempre più forte. Il tradizionale rapporto diplomatico tra i due paesi si è consolidato recentemente con l’intensificarsi dei legami economici, commerciali, energetici e militari, unitamente all’allontamento pakistano nei confronti degli Stati Uniti. La stabilità dell’alleanza sino-pakistana è però messa alla prova dalle sfide poste dai gruppi armati degli estremisti islamici operanti nello Xinjiang cinese.

La crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi mesi ha comportato il rafforzamento dello storico legame esistente tra Islamabad e Pechino. Le relazioni tra i due paesi sono in realtà ottime da circa un trentennio, a differenza di quelle pakistano-statunitensi; il proficuo rapporto diplomatico tra Stati Uniti e Pakistan ha, infatti, ricoperto un ruolo fondamentale nelle rispettive politiche estere durante l’intervento sovietico in Afghanistan tra anni ’70 e ’80, per poi subire un deciso deterioramento all’inizio degli anni ’90. Il rapporto tra Washington e Islamabad è tornato ad essere importante in seguito all’invasione afghana statunitense del 2001, nella quale il Pakistan è stato utilizzato come fondamentale punto d’appoggio per il controllo di Kabul. L’unilaterale bombardamento dei territori nord-occidentali del Pakistan, la crescente ingerenza statunitense nella politica interna pakistana, mediante mezzi militari e servizi d’intelligence, e i comportamenti ambigui pakistani in alcune questioni di primaria importanza hanno comportato un deciso peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Questo deterioramento ha raggiunto l’apice tra maggio e giugno, in seguito alla rivendicazione statunitense dell’uccisione di Osama Bin Laden in Pakistan.

I sempre più tesi rapporti tra i due paesi sono legati, inoltre, all’avvicinamento statunitense nei confronti dell’India, il quale ha raggiunto il proprio culmine nel 2007, mai così evidente rispetto al passato; l’amminsitrazione Bush e l’attuale governo di Manmohan Singh avevano delle ottime relazioni diplomatiche. Il Pakistan non gradisce, inoltre, il ruolo affidatogli dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, nel quale osserva un pericoloso calo del proprio ascendente strategico su Kabul. L’Afghanistan è tradizionalmente considerato da Islamabad una propria area d’influenza, strategicamente importante nel caso di un conflitto con l’India, poiché visto come territorio di supporto o di ritirata nell’ipotesi di una massiccia invasione del Pakistan dell’esercito di Nuova Delhi.

Il primo paese a difendere il rispetto dell’integrità territoriale di Islamabad in seguito alla notizia della morte di Bin Laden è stata la Cina; visitata poche settimane dopo dal primo ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe, inoltre, permesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato dagli Stati Uniti nel territorio pakistano.

Il legame sino-pakistano rappresenterà un importante elemento delle future relazioni internazionali, in particolar modo nel confronto tra Stati Uniti e Cina, tra quest’ultima e l’India, nonché negli interessi cinesi in Afghanistan e nel più generale contesto del cosiddetto “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale. Mentre il Pakistan nel corso degli anni ’80 fu un importante alleato degli Stati Uniti durante la guerra sovietica in Afghanistan, fondamentale territorio di transito per i rifornimenti militari destinati ai combattenti anti-sovietici, oggi Islamabad non garantisce, nell’ottica nordamericana, il medesimo contributo per il tentativo statunitense di controllare l’Afghanistan. La relazione con Islamabad rappresenta per gli Stati Uniti un elemento di vitale importanza per i propri interessi a Kabul. Basta considerare l’importanza strategica del paese pakistano, dotato degli unici punti d’accesso via mare per le truppe statunitensi e della NATO e per i rifornimenti militari, nonché territorio di collegamento geostrategico nel cuore dell’Eurasia. Il porto di Karachi è fondamentale per l’arrivo e invio di truppe e materiale bellico, passante poi in territorio pakistano mediante trasporto su strada, giungendo successivamente a Kabul e Kandahar. Gli Stati Uniti stanno ricercando una possibile alternativa ai rifornimenti via Pakistan, data l’insicurezza di Karachi e del confine lungo la linea Durand. Gli altri collegamenti ai porti situati in paesi confinanti con l’Afghanistan, Iran e Cina, sono impraticabili per evidenti motivi politici. Una via d’accesso alternativa è potenzialmente quella passante attraverso le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale: esiste un discorso aperto con l’Uzbekistan, dal quale passerebbero i rifornimenti provenienti dal porto di Riga, in Lettonia, passando per il territorio russo e kazako. Esiste un’altra opzione, probabilmente maggiormente fattibile rispetto a quella precedente, vista la lunghezza del percorso e la possibile inclusione della Russia nell’affare afghano, prospettiva non gradita a Washington. E’ quella attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, il Mar Caspio e il Turkmenistan oppure via Kazakistan e Uzbekistan. L’attenzione statunitense nei confronti di Baku, Ashagabat, Astana e Tashkent è in ogni caso in costante aumento.

Negli ultimi mesi è comunque evidente come il Pakistan punti maggiormente ad adottare una politica estera più autonoma nei confronti di Washington, attivandosi, inoltre, nel potenziamento delle relazioni con i vicini, soprattutto con la Cina, ma anche con Iran e Russia.

L’importanza strategica del Pakistan, unito al suo attivismo in politica estera, ha reso il governo del paese molto più convito nel richiedere il termine dei bombardamenti dei droni statunitensi nelle province nord-occidentali. Nel caso in cui ciò non avvenga, il Pakistan è pronto ad adottare una politica ancor più marcatamente filo-cinese, avendo, inoltre, l’appoggio della Cina, critica nei confronti delle azioni statunitensi nel paese. Un ulteriore fattore è legato al termine dell’aiuto economico statunitense, unito al declinare dei rifornimenti militari: il Pakistan guarda anche in questo caso a incrementare i propri legami economici e militari con la Cina.

Un’altra arma spendibile a livello diplomatico dal Pakistan è legata alle risorse energetiche. Lo stretto rapporto con Pechino, oltre ad aumentare l’influenza cinese in Asia Meridionale e Centrale, comporterebbe un’importante vittoria per la Cina nella competizione riguardante l’approvigionamento di petrolio e gas naturale.

La Cina è interessata a investire massicciamente in Pakistan. I punti chiave della strategia energetica sino-pakistana sono rappresentati dal potenziamento del porto di Gwadar, dalla quale possono passare i gasdotti e oleodotti provenienti dall’Iran. I progetti d’investimento cinese nel paese sono legati alla realizzazione del gasdotto IP, al quale potrebbe partecipare in sostituzione dell’India, con evidenti vantaggi in termini economici per il Pakistan grazie ai diritti di transito. La Cina è interessata al potenziamento di infrastrutture, strade e ferrovie pakistane, unitamente alla costruzione dei collegamenti per il petrolio e il gas naturale lungo il territorio pakistano partendo dalla città beluca per arrivare al Gilgit-Baltistan. I progetti sino-pakistani sono legati al potenziamento degli assi viari che assieme alle pipeline collegherebbero il Pakistan allo Xinjiang. A questo proposito sono in progetto la costruzione di diversi collegamenti stradali e ferroviari tra Kashgar e Abbotabad, e tra la città dello Xinjiang e Havelian. Un ulteriore collegamento tra i due paesi lungo confine è quello delle fibre ottiche, mentre il più importante e ambizioso progetto caratterizzante la cooperazione sino-pakistana è il collegamento stradale, ferroviario ed energetico tra Gwadar e Urumqi.

La recente visita di Gilani a Pechino si è conclusa con la firma di importanti accordi commerciali, finanziari e tecnologici, seguito dei colloqui del dicembre 2010, nei quali erano previsti il potenziamento della cooperazione in diversi settori: energia, sistema bancario, tecnologia, costruzione, difesa e sicurezza. Il crescente legame economico tra Pechino e Islamabad è unito alla tradizionale e comune avversione verso l’India, la quale può essere ostacolata nella sua ascesa in Asia Meridionale dall’azione comune dei due paesi asiatici. La Cina aiutò militarmente il Pakistan in seguito alla guerra sino-indiana del 1962, così come fornì la tecnologia nucleare al paese dopo che l’India nel 1974 iniziò i suoi primi test nucleari. Tra gli anni ’80 e ’90 la Cina ha stabilito un’alleanza militare e nucleare con Islamabad, ancora oggi molto forte. Più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinate al Pakistan. I due paesi hanno in progetto la produzione congiunta degli aerei da combattimento JF-17 Thunder (FC-1 Fierce in Cina). Durante il mese di marzo 2011 si è svolta un’importante esercitazione aereonautica tra la Pakistan Air Force (PAF) e la People’s Liberation Army Force (PLAFF) denominata Shaheen 1 (in urdu significa aquila). Si tratta della prima manovra militare tra PAF e PLAFF, alla quale si aggiungeranno nel corso del 2011 delle esercitazioni tra il PLA e l’esercito pakistano. Un simile legame militare tra i due paesi, oltre ad essere un importante fattore all’interno degli equilibri asiatici, dimostra come oggi la Cina possa agire molto più attivamente rispetto al passato in uno Stato considerato strategico per gli Stati Uniti per la propria politica in Afghanistan, ma anche in Asia Meridionale. Dato il lento declino economico statunitense, il Pakistan ha individuato nella Cina un’alternativa importante, la quale, a differenza di Washington, è in costante ascesa economica e militare. La cooperazione militare sino-pakistana è valutata da Islamabad e Pechino anche come una forma di bilanciamento nell’area nei confronti delle simili politiche militari adottate da Russia e India.

Inoltre, mentre gli Stati Uniti premono sul Pakistan per il proprio arsenale nucleare, la Cina rappresenta un’importante fonte di tecnologia in questo settore. A questo proposito Pechino sarebbe intenzionata a finanziare i progetti di costruzione per nuovi reattori nucleari in Pakistan.

Per quanto riguarda un fattore negativo legato alle relazioni tra Cina e Pakistan, è possibile fare riferimento all’attuale situazione dello Xinjiang. La regione cinese è un’area ricca di gas e petrolio, confinante con le repubbliche centro-asiatiche e con una considerevole presenza di abitanti di religione musulmana. Il territorio è attraversato da decenni dalla spinta indipendentista degli uiguri. La Cina ha sostenuto che i responsabili degli attentati avvenuti nello Xinjiang poche settimane fa sono estremisti islamici dello East Turkestan Islamic Movement (ETIM) o Turkistani Islamic Party (TIP) provenienti da campi d’addestramento situati nelle zone tribali del Pakistan. L’ETIM ha legami con la rete Haqqani e con il Tehrik – e – Taliban Pakistan (TTP). L’accusa cinese di simili resposabilità pakistane per le violenze degli uiguri rappresentano un campanello d’allarme per Islamabad. Secondo l’intelligence pakistana la Cina starebbe premendo il Pakistan affinché crei delle basi militari nelle aree tribali in modo da controllare la possibile azione degli estremisti e il loro successivo sconfinamento in territorio cinese. La Cina avrebbe anche intenzione di inviare delle proprie truppe nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa, senza comunque l’intenzione di creare delle basi militari permanenti. Sarà da valutare come gli Stati Uniti considereranno la possibile presenza militare cinese in Pakistan.

I media cinesi hanno criticano significativamente le autorità pakistane per l’incapacità dell’esercito di controllare le aree tribali del paese. Il quotidiano pakistano “Dawn” ha sostenuto come gli attentati possano portare a della conseguenze negative nelle relazioni bilaterali tra Islambad e Pechino, comportando delle serie ripercussioni soprattutto per il Pakistan. Allo stesso modo l’incapacità di Islamabad nel prevenire l’azione dei terroristi può risultare controproducente per la potenziale cooperazione sino-pakistana in Afghanistan. Una possibile azione congiunta delle autorità pakistane assieme a quelle cinesi potrebbe garantire, invece, nell’ottica di Pechino, un possibile miglioramento della condizione delle aree nord-occidentali del Pakistan, avendo come conseguenza dei possibili benifici per la situazione dello Xinjiang. Una condizione importante per la Cina è rappresentata dal contemporaneo termine dei bombardamenti statunitensi nell’area, i quali possono fomentare l’estremismo islamico. Senza dubbio la cooperazione tra Islamabad e Pechino nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa renderà ancora più evidente lo stretto legame sino-pakistano, foriero di interessanti conseguenze nel contesto dell’attuale competizione in corso nella regione.

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il Pakistan è scosso da una considerevole spirale di violenza. Ai bombardamenti statunitensi lungo il confine con l’Afghanistan si sono aggiunti gli scontri etnici nelle province del Belucistan e del Sindh. Per quanto riguarda quest’ultima regione, il carattere d’indiscriminata conflittualità contraddistingue soprattutto la sua capitale, Karachi. L’estrema violenza caratterizzante la città potrebbe comportare delle conseguenze imprevedibili per l’intero Pakistan, mettendo in seria discussione l’unità e l’intregrità territoriale del paese. La conflittualità interna è strettamente connessa agli interessi dei paesi limitrofi e degli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni anche per l’Afghanistan.

Karachi rappresenta il centro urbano e portuale economicamente più importante del Pakistan. La città è il traino dell’industria, del commercio e delle comunicazioni, in particolar modo per quanto riguarda i settori tessile e automobilistico, l’editoria, l’informatica e la ricerca medica. Il centro urbano è, inoltre, un fondamentale nodo geostrategico affacciato sul Mar Arabico. Data l’importanza economica di Karachi, già florido centro prima della nascita del Pakistan, la capitale del Sindh ha attirato nel corso degli ultimi due secoli un gran numero di migranti provenienti da diverse aree del Subcontinente, trasformandosi in una città multietnica e multilinguistica. Nella città, prima del 1947, convivevano diverse etnie, attirate dalle possibilità commerciali; erano presenti differenti comunità religiose, principalmente musulmani, hindu, parsi e cristiani. Karachi e il Sindh intero, in seguito alla partizione tra India e Pakistan, sono stati contraddistinti da una massiccia migrazione di musulmani provenienti dall’India, demominati mohajirs e di lingua urdu (mohajirs in urdu significa “migrante”). Rispetto ad altre aree del Pakistan, nel Sindh la migrazione urdu è stata più evidente ed ha generato una situazione di maggiore criticità. Mentre nelle restanti zone del paese la minoranza dei mohajirs è stata assimilata perché il suo numero era inferiore rispetto alla popolazione autoctona, nel Sindh, molto più vicino geograficamente all’India, i nuovi arrivati di lingua urdu superarono numericamente le etnie locali, modificando considerevolmente il carattere etnico della provincia.

Una delle cause scatenanti l’attuale stato di violenza della città è da ricercare nel composito carattere etnico del Sindh, complicato a partire dal 1947. La conflittualità tra etnie a Karachi e nella regione circostante non è, infatti, un problema che caratterizza il Pakistan da pochi anni, ma è invero una situazione perdurante da decenni. Tra gli anni ’50 e ’80 la regione era contraddistinta in particolare dagli scontri tra la popolazione di lingua urdu, rappresentanti solitamente la classe urbana, commerciale e maggiormente istruita della provincia, e i sindhi, gruppo etnico per la maggior parte dei casi rurale e meno istruito, trasformatosi minoranza nel proprio territorio storico. Gli scontri vennero, inoltre, utilizzati a seconda dei mutevoli interessi delle autorità centrali di Islamabad, tradizionalmente intenti a privilegiare l’etnia punjabi. La presenza a Karachi dei mohajirs è, inoltre, considerevolmente aumentata a partire dal 1971, in seguito alla migrazione di ulteriori gruppi musulmani di lingua urdu provenienti dall’ex Pakistan orientale dopo l’indipendenza del Bangladesh.

 

I motivi degli scontri etnici a Karachi e le possibili conseguenze per l’integrità territoriale del Pakistan

 

Le violenze quotidiane che hanno trasformato Karachi in un pericoloso centro, teatro di scontro tra bande, mafie locali e gruppi armati artefici di rapimenti, estorsioni ed esecuzioni sommarie, è dovuto principalmente alla conflittualità tra i mohajirs e i pashtun, questi ultimi di recente immigrazione. Il nesso tra criminalità e politica è molto forte, mentre le forze di sicurezza locali e le autorità centrali di Islamabad non sono in grado, per il momento, di riportare la città in una situazione di normalità. I partiti politici più importanti di Karachi, il Muttahida Quami Movement (MQM) rappresentante gli urdu, 45% della città, e l’Awami National Party (ANP), partito della minoranza pashtun, 25% degli abitanti di Karachi, si accusano a vicenda per la responsabilità delle violenze; i due gruppi politici, assieme al partito nazionale e governativo del Pakistan People’s Party (PPP), che a Karachi rappresenta gli interessi sindhi, sono i diretti responsabili delle violenze. Queste sono esplose soprattutto a partire dal 27 giugno, quando l’MQM decise di uscire dalla coalizione di governo del Sindh per l’avversione nei confronti dell’ANP e per incompresioni politiche con il governo nazionale di Islamabad guidato dal PPP. Il carattere etnico della città è complicato ulteriormente dalla presenza di altre minoranze, in particolare balochi, punjabi, kashmiri, saraiki e numerose altri gruppi etnici. A Karachi è presente anche una minoranza sciita, la quale si è sovente scontrata con la maggioranza sunnita. I sindhi, 60% della popolazione di Karachi nel 1947, oggi rappresentano il 7% della città.

La massiccia presenza pashtun a Karachi è recente ed è dovuta soprattutto alla considerevole migrazione verso sud delle popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali del Pakistan, soprattutto dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e dalle Federally Administered Tribal Areas (FATA), ma anche dall’Afghanistan; le migrazioni sono state causate dall’invasione sovietica del 1979, da quella USA nel 2011 e dai bombardamenti statunitensi lungo la linea Durand. Le recenti migrazioni di pashtun, ma anche di tagiki, hazara, turkmeni e uzbeki provenienti dall’Afghanistan, hanno modificato considerevolmente il carattere etnico di Karachi, la quale unitamente alle violenze tra urdu e sindhi, è diventata teatro di scontri tra urdu e pashtun, e tra questi ultimi e i sindhi. Senza dimenticare i punjabi, rappresentanti gli interessi dei militari e delle autorità centrali pakistane, attente a favorire una o l’altra etnia a seconda delle circostanze politiche. La recente storia del paese è caratterizzata da questa particolare linea di politica interna.

L’attuale importanza dell’MQM, terzo gruppo politico a livello nazionale, è derivata, infatti, dall’azione governativa del regime di Zia ul-Haq tra anni ’70 e ‘80. Avendo come fine l’indebolimento del PPP e del suo capo, Zulfiqar Ali Bhutto, di etnia sindhi e il cui governo venne rovesciato proprio da Zia, il generale favorì la nascita e il consolidamento politico del partito urdu. L’MQM si rafforzò nel corso degli anni ’80, trasformandosi in un’importante forza di equilibrio nel panorama politico pakistano, alleandosi, a seconda delle circostanze, con il PPP o con la conservatrice Pakistan Muslim League (PML). Dopo il crollo di Zia, l’ISI accusò l’MQM di essere una forza cospirativa filo-indiana, finanziata dai servizi segreti di Nuova Delhi e avente come obiettivo primario la creazione di uno Stato autonomo di lingua urdu, il Jinnahpur con Karachi capitale. Durante gli anni ’90, infatti, l’MQM ha subito una violenta repressione da parte del governo centrale di Islamabad, in particolar modo quando salirono al potere Nawaz Sharif (PML-N) e Benazir Bhutto (PPP). Il partito degli urdu contò invece sull’appoggio del generale Pervez Musharraf, anch’esso di etnia mohajirs. Nell’ultimo decennio, infatti, l’MQM ha registrato una considerevole espansione, aumentando la propria influenza nell’intero paese, ma soprattutto in Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. Diversi analisti sostengono il fatto che l’MQM possa contare attualmente sul decisivo appoggio dell’apparato militare pakistano e dell’ISI, vicini all’etnia punjabi, in modo da poter controbilanciare l’influenza pashtun nel Sindh, ma soprattutto nell’intero Pakistan.

Le violenze a Karachi sono dunque legate alla complicata situazione della politica interna pakistana, ricalcante le differenze etnico-linguistiche del paese. La forza politica dell’MQM non è attualmente riscontrabile solo nella città portuale, ma è evidente nell’intero paese. In questa fase politica è necessario per gli altri partiti, soprattutto per il PPP, scendere a patti con l’MQM, il quale si è trasformato in un indispensabile partito, garante del mantenimento dell’equilibrio politico del Pakistan. A Karachi le violenze sono aumentate in seguito all’abbandono da parte dell’MQM del governo federale del Sindh: i mohajirs accusano Zardari e il PPP di essere troppo vicini all’ANP. Lo scontro tra MQM e governo centrale è legato anche ai recenti arresti di attivisti mohajirs di Karachi accusati di terrorismo.

Una spiegazione delle violenze che stanno attraversando Karachi è connessa certamente alle migrazioni di popolazione pashtun nella città. Non si tratta solamente di un problema sociale ed economico, per l’evidente accresciuta competizione tra etnie diverse nella ricerca di lavoro e nell’acquisto di terre. Una questione fondamentale riguarda una problematica di tipo politico, ovvero quale gruppo etnico assumerà il controllo di Karachi, la città economicamente più importante del Pakistan che garantisce il 68% delle entrate nazionali. Le preoccupazioni dei diversi gruppi etnici sono evidenti: gli abitanti di lingua urdu temono la “talebanizzazione” della città ad opera della minoranza pashtun; questi ultimi denunciano l’eccessiva violenza dei mohajirs; i sindhi osservano negativamente sia i pashtun sia i mohajirs. Tutti e tre i gruppi etnici maggioritari di Karachi accusano il governo centrale di Islamabad di privilegiare l’etnia punjabi, favorendo lo sviluppo del solo Punjab a discapito degli altri territori dello Stato.

Le violenze fra etnie, fomentate dall’MQM, dall’ANP e dal PPP, possono portare a della serie conseguenze non solo per la città, ma anche per il resto del paese, generando una potenziale situazione d’instabilità. Se si pensa all’attuale situazione del Belucistan, tale scenario non sembra lontano dalla realtà. Di fondamentale importanza sono i risvolti geopolitici connessi alla stabilizzazione del paese e l’azione che intraprenderanno i diversi attori internazionali attenti alle sorti del Pakistan e dell’Afghanistan.

 

I collegamenti internazionali delle violenze a Karachi e nel Pakistan

 

Secondo l’ottica pakistana, una delle cause della situazione di completa anarchia e settarismo di Karachi deriva dall’appoggio esterno alle diverse fazioni in lotta. Questo sarebbe garantito in primo luogo dall’India, ma anche da Stati Uniti e Israele. Una delle spiegazioni offerte dal governo nel passato per descrivere la conflittualità del Sindh, ripresa recentemente, è connessa all’azione svolta da attori esterni, i quali aizzano le diverse etnie del paese una contro l’altra, in modo da favorire la destabilizzazione e lo smembramento del Pakistan.

La situazione in Belucistan, zona ricca di gas naturale e minerali, ma molto povera, è particolarmente tesa. Secondo Islamabad, i servizi segreti dell’India appoggerebbero le spinte indipendentiste dei beluci e le violenze anti-punjabi. Il Belucistan è teatro, inoltre, del violento scontro tra governo centrale e movimenti sciiti della regione. Secondo la visuale pakistana, oltre ai servizi segreti indiani, agirebbero in Belucistan la CIA e l’MI6 britannico, i quali fomenterebbero le azioni anti-governative dei beluci. Il Pakistan guarda con sospetto all’attivismo indiano nella città iraniana di Chabahar, anch’essa beluca. L’azione statunitense potrebbe avere dei chiari risvolti negativi per gli interessi cinesi nell’area e per l’Iran, dato l’indipendentismo beluco presente nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan.

Sempre secondo Islamabad, la RAW indiana, il Mossad e la CIA favorirebbero il traffico illegale di armi nell’emporio di Karachi, la cui zona portuale è controllata dall’MQM. All’indomani della visita di Karzai e Zardari a Tehran lo scorso giugno, il ministro degli interni pakistano Rehman Malik ha riferito pubblicamente alla stampa del ritrovamento di armi di fabbricazione israeliana a Karachi.

Il Pakistan, se da una parte ha visto deteriorarsi i propri legami con gli Stati Uniti, ha migliorato i propri rapporti con l’Iran, testimoniati concretamente dal possibile avvio dei lavori in territorio pakistano del gasdotto di collegamento tra Tehran e Islamabad. L’Arabia Saudita osserva con particolare preoccupazione l’avvicinamento tra i due paesi, foriero di una pericolosa messa in discussione del teorema dell’inevitabile scontro e competizione tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano. Un problema comunque di primo piano da risolvere nel dialogo iraniano-pakistano sarà legato al finanziamento del gruppo terroristico Jandullah, il quale opera nel Sistan-Belucistan e, secondo l’Iran, ha legami diretti con l’ISI. L’Iran ha sospetti anche sull’Afghanistan, mentre la stessa Islamabad ritiene che ci siano dei collegamenti tra Tehran e l’indipendentismo beluco in Pakistan. Islamabad ha, inoltre, intensificato i propri rapporti con la Cina. In questo modo il governo pakistano, legandosi maggiormente a Tehran e Pechino, sta aumentando considerevolmente il proprio potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. Un altro fattore da considerare è, inoltre, il crescente interesse di Russia, Iran e Cina per la questione afghana. Gli Stati Uniti guardano naturalmente con estremo interesse l’evolversi della situazione interna del Pakistan, un paese del quale non possono fare a meno per la propria strategia in Afghanistan. Vista la recente intenzione di mantenere una base militare a Kabul fino al 2024 è necessario, nell’ottica statunitense, sostenere un dialogo con i talebani, i quali non appaiono comunque troppo favorevoli alla presenza di truppe nordamericane in Afghanistan; del medesimo parere sono Russia, Cina, Pakistan e Iran. Islamabad, possibile canale privilegiato per il dialogo con i talebani, diventa dunque fondamentale per l’azione statunitense in Afghanistan, data anche l’attuale debolezza politica di Karzai.

La destabilizzazione del Pakistan e il suo potenziale controllo si collegano alle recenti violenze di Karachi, connesse a una strategia volta al favorire lo smembramento del paese asiatico discussa in diversi think tank nordamericani (vedi l’articolo http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Tutto ciò è collegabile alla notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il controllo diretto dell’arsenale nucleare pakistano, alle richieste di Islamabad di poter disporre del diritto di veto per gli unilaterali bombardamenti statunitensi sul proprio territorio e alle schermaglie tra CIA e ISI, con l’insolito avvicendarsi nel giro di pochi mesi di tre diversi capi del servizio segreto statunitense a Islamabad. Se da una parte, inoltre, gli Stati Uniti vogliono ricercare un dialogo con i talebani, dall’altro lato non si curano dei bombardamenti nei confronti di quei gruppi che hanno già raggiunto una pacificazione con il Pakistan, ma che operano in Afghanistan, vedi la rete Haqqani, con possibili ripercussioni negative per la sicurezza interna di Islamabad. Un’altra fondamentale questione riguarda il temine degli aiuti finanziari di Washington nei confronti del Pakistan, uniti alla crisi finanziaria e all’impossibilità da parte degli Stati Uniti di mantenere un costoso apparato militare in Afghanistan, vista anche l’attenzione crescente per il Vicino Oriente e il Nord Africa. Resta da capire se le strategie sul Pakistan discusse nei think tank statunitensi verranno concretamente messe in azione. Sta di fatto che un’interpretazione dell’attuale fase critica del Pakistan è connessa al teatro afghano, poiché il carattere di estrema precarietà del paese può essere valutato come una diretta conseguenza dell’invasione e destabilizzazione dell’Afghanistan, propagatasi successivamente in territorio pakistano. Il collasso del sistema statale è concretamente in atto lungo il confine tra i due paesi e le migrazioni dei pashtun verso Karachi degli ultimi anni rendono la situazione della città e del paese in generale sempre più complicata.

E’ da valutare, inoltre, quanto le violenze a Karachi possano favorire gli interessi statunitensi, vista la sua posizione strategica come unico porto in grado di supportare le truppe NATO in Afghanistan. Kabul non ha collegamenti via mare e risulta essenziale l’attenzione nordamericana su Karachi, importante porto sul Mar Arabico e attualmente punto strategico per il riformimento di mezzi e truppe via mare da indirizzare in Afghanistan. Nell’emporio di Karachi si può individuare un ulteriore elemento che testimonia l’importanza del Pakistan per gli Stati Uniti. Collegato alla questione della città e alle sue minoranze, saranno da valutare anche gli impatti sull’etnia pashtun del potenziale dialogo che potrebbe stabilirsi tra i talebani e gli Stati Uniti, così come il ruolo che ricoprirà il Pakistan nei colloqui.

Dialogo valutato negativamente dall’India e dall’Iran. Per quanto riguarda Nuova Delhi è da valutare quanto convenga all’India fomentare l’indipendentismo delle minoranze etniche presenti in Pakistan. La destabilizzazione dell’Afghanistan, avvenuta a partire dal 2001, con la successiva caotica situazione pakistana, non è detto che non si espanda anche in India. Se da una parte, con l’annichilimento del Pakistan si conorerebbe il sogno della definitiva sconfitta del nemico, da una diversa prospettiva tutto ciò potrebbe comportare delle serie ripercussioni per l’autonomismo e l’indipendentismo di vaste aree interne del paese, soprattutto in Kashmir e nel nord-est indiano. Se da una parte gli Stati Uniti hanno come obiettivo il caos per poi controllare la situazione, sembra che recentemente Nuova Delhi stia addontando una politica più accorta nei confronti del Pakistan.

 

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

samedi, 10 septembre 2011

La diplomatie des mosquées

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La diplomatie des mosquées

Ex: http://www.insolent.fr/

Les faits et les photos peuvent passer avant les commentaires. Ici le ministre turc des affaires étrangères M. Ahmet Davutoglou fête la fin du Ramadan à Sarajevo. On le voit entouré de Bakir Izetbegovic, membre de la présidence collégiale de Bosnie-Herzégovine et du chef religieux, le "reis ul islam" Mustafa Ceric. Cela se passe en la mosquée édifiée au XVIe siècle par Gazi Husrev-beg (1480-1541) gouverneur ottoman de la Bosnie, puis de la Syrie, à l'époque de Soliman le Magnifique.

 

Les jours précédents le même professeur de géopolitique, devenu maître d'œuvre de la politique extérieure d'Ankara s'était rendu dans deux autres pays des Balkans. Au Kossovo, il avait accompli ses dévotions d'abord à la mosquée impériale de Pristina. Celle-ci est également connue sous le nom de "Mehmed Fatih", en l'honneur du conquérant de Constantinople Mehmet II qui en avait ordonné la construction en 1461. Puis, dans le même territoire majoritairement albanais, il avait visité l'élégante mosquée édifiée au XVIIe siècle par Sofi Sinan Pacha et dont une légende veut qu'elle aurait été bâtie avec les matériaux du monastère des Saints-Archanges. Enfin en Roumanie, il avait accompli les mêmes gestes en un lieu édifié en 1910, aujourd'hui centre de l'implantation islamique locale, à la frontière bulgare, la mosquée "Hinkar" de style maure mais dont les guides aiment à souligner qu'elle copie son homologue de Konya, capitale des derviches tourneurs en Anatolie.

Commentant ce qu'il appelle la "diplomatie des mosquées" le journal pro gouvernemental turc Zaman Today (1)⇓ souligne que, jusqu'en 2002, les diplomates turcs visitaient traditionnellement leurs compatriotes mais que, depuis l'arrivée au pouvoir de l'AKP ils se tournent désormais au-delà des Turcs, au mépris de la laïcité, vers l'ensemble de leurs coreligionnaires.

Ne doutons pas une seconde que, pour un nombre non négligeable de Turcs, le souvenir de ce grand passé impérial représente une perspective de réimplantation dans les Balkans. Davutoglou, du reste, avait fait sensation à l'automne 2009 en y proclamant "Sarajevo est notre ville". Il s'agissait là, remarquions-nous à l'époque, du premier membre d'une phrase qu'il complétait en ajoutant, à l'attention des musulmans balkaniques : "Istanbul est votre Ville". (2)⇓

La même semaine écoulée, les journalistes français présents à Tirana pour la rencontre de podosphère entre les "bleus" et l'équipe nationale albanaise ne remarquaient guère un incident ayant justifié l'intervention de la Police. En effet, les irrédentistes locaux avaient déployé dans le stade une immense banderole de 30 mètres sur 40 figurant une carte de la Grande Albanie occupant des territoires actuellement situés dans divers pays voisins dans le sud de la Serbie, au Monténégro, ou dans l'ancienne république yougoslave de Macédoine. Le moment venu, ce genre d'étincelles, montées en épingle, pourrait justifier une intervention de l'armée turque, sans même que soit levée l'hypothèque du PKK, et avec la bénédiction du Département d'État.

Il était évidemment beaucoup plus encourageant, pour nos excellents moyens hexagonaux de désinformation, de mettre en exergue les quelques gestes, attendus depuis des années et promis désormais par le chef du gouvernement Erdogan en faveur des minorités non-musulmanes qui n'ont pas encore fui le pays. Quelques hôpitaux et écoles en bénéficieront. Un bon point, pensera-t-on. Il faut se pencher attentivement sur "Zaman" pour relever qu'au moins deux catégories de chrétiens échapperont apparemment à cette libéralisation : les Syriaques et les Turcs protestants (3)⇓. Les premiers souffrent sans doute de témoigner de l'injustifiable annexion du sandjak d'Alexandrette, les seconds indiscutablement coupables de prosélytisme.

Certes on peut se féliciter de voir normaliser certains aspects des relations entre l'État turc et les organismes de bienfaisance ou religieux arméniens, grecs ou juifs. Mais on n'omettra pas non plus de remarquer que cela aussi fait partie des traditions ottomanes et des théories islamiques : les gens du Livre ont droit à un statut spécial à la fois protégé et inférieur. Ils payent un impôt particulier et sont généreusement "dispensés" du service militaire. Beaucoup d'autres choses leur sont interdites, mais ils survivent. Les lecteurs de mon livre sur "La Question turque et l'Europe" ont compris que les crimes commis au XXe siècle ont été inspirés, dans ce pays comme ailleurs, par les adeptes d'une idéologie jacobine. Aujourd'hui le mouvement de Fethullah Gulen, qui inspire le pouvoir AKP, milite pour un retour aux principes antérieurs à la république et, donc, à une plus grande tolérance à l'égard des chrétiens. On ne doit pas l'ignorer.

L'expert géopolitique Ahmet Davutoglou a jusqu'à maintenant échoué dans son programme poudre aux yeux "pas de problèmes avec nos voisins". Les problèmes existants ne sont pas résolus. D'autres sont même apparus. Mais il ne renoncera pas à sa vision tridimensionnelle de l'expansion turque, à la fois vers le Proche Orient en posant au protecteur des Arabes, vers l'Asie centrale en rivalisant avec les Russes, et en utilisant contre l'Europe les minorités islamiques.

Ne nous méprenons pas sur les bonheurs passagers de l'économie turque actuelle. Ce triple rêve tourne évidemment le dos aux derniers lambeaux des principes légués par Mustafa Kemal. Mais il confirme encore plus la grave erreur que développent encore les négociations d'adhésion de ce pays aux institutions encore fragiles de l'Union européenne.

JG Malliarakis
        
Apostilles

  1. cf. Zaman Today du 4 août 2011 article "Ahmet Davutoğlu conducts ‘mosque diplomacy’ in Balkans".
  2. cf. L'Insolent du 4 janvier 2010 "Comment les Turcs regardent leurs alliances".
  3. cf. cf. Zaman Today du 4 août 2011 article "Non-Muslims praise law to return properties, await its implementation".

    Vous pouvez entendre l'enregistrement de nos chroniques
    sur le site de

     

     

    Lumière 101

 

vendredi, 02 septembre 2011

Aux sources de l'islamisme allemand contemporain

Wolfgang KAUFMANN:

Aux sources de l’islamisme allemand contemporain

 

L’islamisme allemand contemporain trouve ses racines chez les volontaires musulmans levés contre l’URSS de Staline

 

Depuis un discours controversé du Président fédéral Wulff, on discute de plus en plus intensément en Allemagne pour savoir si l’islam est propre à ce pays ou non. Les débatteurs ne sont à l’unisson que sur un point: l’islam est désormais présent en terre germanique. La même remarque vaut pour l’islamisme. Ce qui conduit tout naturellement à la question: comment l’islamisme est-il arrivé en Allemagne?

 

Vu l’immigration de plusieurs millions de Turcs musulmans, on peut supposer que l’islamisme présent aujourd’hui en terre allemande provient de cette vague migratoire. Toutefois, on doit bien constater que l’infiltration initiale d’un islamisme en Allemagne n’est pas un effet de l’immigration, après 1945, de travailleurs de confession musulmane. Deux livres publiés récemment le démontrent:

Stefan MEINING,

Eine Moschee in Deutschland. Nazis, Geheimdienste und der Aufstieg des politischen Islam im Westen, Verlag C. H. Beck, München, 2011, 316 pages, 19,95 euro.

 

&

 

Ian JOHNSON,

Die vierte Moschee. Nazis, CIA und der islamische Fundamentalismus, Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 2011, 360 pages, 22,95 euro.

 

Ces deux livres sont parus quasi simultanément, leurs titres se ressemblent fort et leurs couvertures également: ce qui pourrait faire penser à une action concertée. Cependant, à la lecture, on s’aperçoit quand même qu’il s’agit d’un hasard.

 

Les deux ouvrages décrivent le même phénomène. Stefan Meining, rédacteur du magazine politque “Report München”, dépendant de l’ARD, se concentre sur la responsabilité des services allemands dans l’émergence de l’islamisme, tandis que Ian Johnson, Prix Pulitzer, met surtout l’accent sur celle des services secrets américains. La lecture de ces deux ouvrages nous donne une belle image d’ensemble et nous permet de constater, en plus, que l’islamophilie peut prendre de multiples visages. La direction nationale-socialiste —rien moins!— fut la première a faire venir délibérément en Allemagne des représentants de la haute hiérarchie de l’islam politique, à commencer par Hadj Mohammed Amin al-Husseini, Grand Mufti de Jérusalem et chef religieux de la communauté musulmane de Palestine. Le motif de cette démarche se trouve dans la ferme résolution de Hitler lui-même, de son Ministre des affaires de l’Est Alfred Rosenberg, ainsi que des chefs de la Wehrmacht et de la Waffen-SS, d’utiliser et d’engager l’islam comme arme secrète contre l’URSS. Dans le cadre de cette politique, plusieurs centaines de milliers de musulmans du Caucase et d’Asie centrale ont été, jusqu’en 1945, enrôlés dans des unités de volontaires comme la “Division SS musulmane Nouveau Turkestan”. Ces unités avaient tout naturellement beoin d’un accompagnement politique et religieux.

 

La plupart de ces légionnaires musulmans, qui ont eu la chance, après la défaite de l’Allemagne, de ne pas avoir été rapatriés de force et d’avoir ainsi échapper à la mort par fusillade, se sont installés à Munich et ses environs. Parmi eux: quelques imams qui avaient auparavant servi dans les unités de la Wehrmacht ou de la Waffen-SS. Trois cents de ces “oubliés” fondèrent en 1953 la “Religiöse Gemeinschaft Islam” (“Communauté religieuse islamique”). Dès ce moment, le jeu a repris car le gouvernement fédéral allemand avait, lui aussi, l’intention d’utiliser à son profit les émigrants de confession musulmane. L’acteur principal de cette politique, côté allemand, fut le “Ministère fédéral des expulsés, réfugiés et victimes de la guerre”. A cette époque-là, ce ministère était placé sous la houlette de Theodor Oberländer (membre du parti “Gesamtdeutscher Block”/”Bund der Heimatvertriebenen und Entrechten” – “Bloc pour toute l’Allemagne”/”Ligue des Expulsés et Spoliés”). Pendant la guerre, Oberländer avait été le commandeur d’une unité spéciale de la Wehrmacht, la “Bergmann”, au sein de laquelle servaient d’assez nombreux volontaires musulmans venus du Caucase. L’objectif d’Oberländer était d’utiliser la “Religiöse Gemeinschaft Islam” pour faire éclater l’Union Soviétique en provoquant une révolte généralisée des peuples non russes, ce qui aurait entraîné, comme effet second, la réunification de l’Allemagne dans les frontières de 1937. C’est la raison pour laquelle, par l’entremise d’Oberländer, l’association musulmane de Munich a reçu le soutien financier du gouvernement fédéral allemand.

 

L’islam politique a été une arme pendant la Guerre Froide

 

Parallèlement aux tentatives ouest-allemandes d’enrôler l’association musulmane de Bavière, la CIA, et son organisation satellite, l’AMCOMLIB (“American Committee for Liberation from Bolshevism”) commencent, elles aussi, à s’intéresser aux exilés ex-soviétiques et musulmans de Munich et de sa grande banlieue. Or les Américains paient beaucoup mieux que les Allemands: les membres de la “Communauté Religieuse Musulmane”, fixés à Munich, vont progressivement se faire recruter pour agir dans le cadre de la guerre psychologique menée par les Etats-Unis. Ils vont commencer par une collaboration au micro de “Radio Liberty” où ils vitupèreront contre la politique soviétique à l’égard des nationalités et de la religion islamique. L’islam politique allemand s’est donc transformé en un instrument américain dans la Guerre Froide, chargé de “tordre le cou” au communisme athée, avec, pour corollaire, d’amener à une révision générale des conséquences de la seconde guerre mondiale.

 

Les ex-légionnaires anti-soviétiques, qui se laisseront embrigader dans les services allemands ou américains, ne se présenteront pas, à l’époque, comme des fondamentalistes musulmans, à l’instar de ceux que nous connaissons aujourd’hui: ces anciens soldats de la Wehrmacht ou de la Waffen-SS s’étaient assimilés au mode de vie allemand; ils aimaient boire de l’alcool et se livrer à de joyeuses libations; leurs femmes et leurs filles ignoraient délibérément les prescriptions vestimentaires islamiques; toutes les autres consignes religieuses n’étaient pas davantage prises au pied de la lettre. Chose curieuse et digne d’être rappelée: c’est justement cette liberté par rapport aux prescrits rigoureux de la religion musulmane qui va provoquer une mutation décisive de la situation. Elle a eu lieu à l’occasion de la première “conférence islamique d’Allemagne”, tenue le 26 décembre 1958 dans la salle paroissiale catholique Saint-Paul à Munich.

 

Lors de cette manifestation, pour la première fois, des étudiants très croyants et très rigoristes, venus des pays arabes, rencontrent les émigrés issus des régions islamisées de l’URSS. Au départ, il n’y a pas de confrontation directe entre les deux groupes: tous s’accordent pour que soit réalisé un premier objectif, celui de construire un lieu central de prière à Munich. Pour y parvenir, ils créent au début du mois de mars de l’année 1960, une “Commission pour la Construction de la Mosquée”. Le directeur de cette commission, que les participants ont élu, n’était pas un ancien légionnaire issu du Turkestan ou du Caucase mais l’Egyptien Said Ramadan, figure de proue du mouvement des “Frères musulmans” qui était aussi, à l’époque, secrétaire général du “Congrès islamique mondial”. La raison principale qui a justifié l’élection de Said Ramadan fut qu’on espérait qu’il ramènerait des subsides en provenance des pays arabes pour la construction de l’édifice religieux. C’est ce qu’il fit. Mais, simultanément, il entama une campagne de dénigrement des anciens légionnaires des armées allemandes, parce que leur mode de vie n’était plus “pur”, ce qui conduisit à leur marginalisation totale.

 

Au bout de ce processus d’éviction, qui se situe en mars 1962, les protagonistes arabes d’une interprétation pseudo-traditionaliste et rigide de l’islam ont pris le contrôle de la Commission, qui, quelques mois plus tard, allait se dénommer “Islamische Gemeinschaft in Süddeutschland” (“Communauté Islamique d’Allemagne du Sud”). Depuis le 4 décembre 1982, elle s’appelle, en bout de course, “Islamische Gemeinschaft in Deutschland”. Depuis lors, l’organisation établie à Munich a servi de plaque tournante à un réseau islamiste qui n’a cessé de croître à la manière d’un rhizome sur tout le territoire de la République fédérale, sans que les autorités allemandes ne s’en alarment outre mesure.

 

Celles-ci n’ont montré de l’intérêt pour ce réseau qu’à partir du 11 septembre 2001, lorsque le troisième président en fonction, le Syrien Ghaleb Himmat, fut soupçonné de terrorisme: d’après les renseignements fournis par le “Financial Crimes Enforcement Network”, une instance dépendant du Ministère américain des finances, il aurait fonctionné comme fournisseur de fonds pour al-Qaïda.

 

Wolfgang KAUFMANN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°35/2011; http://www.jungefreiheit.de ).

 

lundi, 15 août 2011

Europe's Enemy: Islam or America?

Europe’s Enemy: Islam or America?
Guillaume Faye’s Le coup d’Etat mondial

Michael O'MEARA

Ex: http://www.counter-currents.com/

Guillaume Faye
Le coup d’Etat mondial:
Essai sur le Nouvel Impérialisme Américain
(Global Coup d’Etat: An Essay on the New American Imperialism)
Paris: L’Æncre, 2004

 Fas est ab hoste doceri. (It is permitted to learn from the enemy.) — Ovid

This past spring, for the sixth time in six years, Guillaume Faye has published a book that redefines the political contours of European nationalism (“nationalism” here referring not to the defense of the nineteenth-century “nation-state,” but of Magna Europa). Like each of his previous works, Coup d’Etat mondial speaks to the exigencies of the moment, as well as to the perennial concerns of the European ethnos. In this spirit, it offers a scathing critique of the “new American imperialism” and the European anti-Americanism opposing it, while simultaneously contributing to a larger nationalist debate over Europe’s destiny. Framed in terms of Carl Schmitt’s Freund/Feind designation, this debate revolves around the question: Who is Europe’s enemy? For Schmitt, this question is tantamount to asking who threatens Europe’s state system and, by implication, who threatens its unique bioculture.

During the Cold War, the more advanced nationalists rejected the conventional view that Soviet Communism was the principal enemy and instead designated the United States. This is evident in the works of Francis Parker Yockey, Jean Thiriart, Adriano Romualdi, Otto Strasser, Alain de Benoist, and in the politics of the sole European statesman to have defended Europe’s independence in the postwar period: Charles de Gaulle.

It was not, however, America’s occupation of postwar Europe that alone aligned these nationalists against the U.S.—though this was perhaps cause enough. Rather, it was the liberal democratic basis of America’s postwar order, whose deculturating materialism was seen as corrupting the biocultural foundations of European life. The Soviets’ brutal occupation of Eastern Europe may therefore have broken the bodies of those opposing them, but America, for nationalists, threatened their souls.

Today, this anti-American opposition persists, but has come to signify something quite different. What has changed, and this starts to be evident in the late 1980s and even more so in the ’90s, is Third World immigration, which puts the American threat in an entirely altered perspective. In nationalist ranks, Faye stands out as the principal proponent of the view that Islam and its nonwhite immigrants now constitute Europe’s enemy and that America, though still an adversary, has become a less threatening menace.

For Faye, the New American Imperialism (NAI) associated with the Bush administration supplants the earlier, more implicit imperialism of the Cold War era. This imperialism, though, is not specifically Bush’s creation, for it arose in the Cold War’s wake and took form in subsequent aggressions on Somalia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan, and now Iraq.

The older imperialism had a Wilsonian facade, legitimated with moral pronouncements and a naive, but occasionally sincere, effort to regulate the world according to its liberal principles. By contrast, the NAI rejects this “softer” (and actually more effective) variant of American power for a policy that aggressively asserts U.S. military might irrespective of “world opinion.” It ceases thus to pursue its interests through international organizations embodying its liberal world view and instead embraces a militaristic unilateralism that defies international convention in the name of America’s “vital interests.”

Against the arguments of its apologists, Faye claims the NAI is not the hard-headed, morally clear assertion of American power that they make it out to be, but rather a puerile, utopian, and unrealistic one based on the notion that tout est permis!— anything goes. The United States may be the world’s dominant power, but it lacks what Aristotle and the conservative tradition of statecraft understood as the enduring basis of power: prudence. For in confusing dominance with omnipotence, the NAI’s neoconservative executors, like all who draw the wages of hubris, inadvertently earn themselves—and America—the likelihood of a tragic fall.

In this vein, U.S. vital interests (what the present administration defines in Zionist, militarist, and globalist terms) are treated as the sole permissible basis of national sovereignty. A state—”rogue” or otherwise—that exercises its autonomy, fabricates weapons of mass destruction (i.e., weapons capable of ensuring its sovereignty), or resists Washington’s dictates is deemed an enemy and risks reprisal. Implicit in this redefinition of America’s world role is the assumption that the United States is the world’s gendarme, its lone sovereign power, obliged to uphold a law which is synonymous with its own strategic interests.

Moreover, the NAI’s assumption that the United States has the capacity to dominate the planet is, if nothing else, simpleminded. Its proponents might think they are breaking with the legalistic or Kantian postulates of liberal internationalism by pursuing hegemonist objectives with military methods (which, in itself, would be unobjectionable), but this readiness to substitute raw power for other forms of power (that is, for power exercised in the “thieves’ den” of the United Nations or through international regulatory agencies the United States created after 1945) is informed by the Judeo-Protestant illusion that America does God’s work in the world. This cannot but disconnect them from all they seek to dominate, for in applying their illusory principles to an intractable reality, they cannot but lurch from disaster to disaster.

The NAI’s peculiar mix of political Machiavellianism and millennial Calvinism has been especially prominent in Iraq, the conquest of which was to be a cakewalk. Not only did Bush and his advisers have no idea of what they were getting into, they completely misread the capacities of American power. If the U.S. Air Force possesses unparalleled firepower, the modern American soldier cannot fight on the ground. With half its army occupying a country with no military capacity and its helicopter gunships, Bradley Fighting Vehicles, and body-armored ground troops arrayed against lightly-armed and untrained insurgents, it is stretched to the breaking-point.

Despite its imperialist ambitions, America is not Rome. Faye argues that it is more like a house of cards—an ephemeral economic-political enterprise—lacking those ethnic, religious, and cultural traits that go into making a great people and a great power.

As any white Californian will attest, there is, in fact, no longer anything particularly American about America, only people like the turbaned Sikh who drives the local cab, the Mexican illegal who mows our neighbors’ lawn, the Indian programmer who replaces his higher-paid white counterpart, the Chinese grocer who sells us beer and cigarettes late at night, the African who empties the bedpans in our nursing homes, the Africans of American birth who run our cities and public agencies, and the white zombies insulated in distant, manicured suburbs, where the voices of children are rarely heard. For Faye, this disparate hodgepodge is not a nation in any historical sense, only an artificial social system, whose members, as Lewis Lapham has written, are “united by little else except the possession of a credit card and password to the internet.” Why, it seems almost unnecessary to ask, would an American Gurkha risk his life for such an entity?

The military technology of Imperial America undoubtedly lacks an equal, but its centrality to U.S. power, Faye claims, testifies to nothing so much as the enfeebled cognitive abilities of its elites, who think their computerized gadgetry is a substitute for those primordial human qualities that go into making a people or a nation—qualities such as those that steeled not just Rome’s republican legions, but the Celtic-Saxon ranks of the Confederacy, the gunmen of the IRA, the indomitable battalions of the Wehrmacht, and the Red Army of the Great Patriotic War. In the absence of these qualities forged by blood and history, the NAI’s space-age military (whose recruiters now slip beneath the border to find the “volunteers” for its imperial missions) is a paper tiger, no match for a nation in arms—not even a pathetic, misbegotten nation like Iraq.

The hubris-ridden neoconservatives leading America into this costly adventure from which it is unlikely to recover did so without the slightest consideration of the toll it would take on the country’s already stressed and overtaxed institutions. Fighting for objectives that are everywhere challenged and with troops that are not only afraid to die, but have no idea of what they are dying for, the only thing they have actually accomplished is what they set out to combat: For they have inflamed the Middle East, enhanced Islam’s prestige, augmented bin Laden’s ranks, accelerated the proliferation of weapons of mass destruction, and turned the whole world against them.

Finally, Faye depicts the NAI as America’s last bloom. Both domestically and internationally, the signs of American decline, he observes, are more and more evident. For all that once distinguished America is now tarnished. Its melting pot no longer assimilates, its mixed-race population is inextricably Balkanized, its state is increasingly maniacal in its anti-white, anti-family, anti-community policies, and its market, the one remaining basis of social integration, is in serious difficulty, burdened by massive trade imbalances, unable to generate industrial jobs, hampered by astronomical debts and deficits, and increasingly dependent on the rest of the world. Even the country’s fabled democracy has ceased to work, with elections decided by the courts, fraudulent polling practices, and a pervasive system of spin and simulacrum. The virtuality of the political process seems, actually, to reflect nothing so much as the increasingly illusory authority of its reigning elites, whose oligarchic disposition and incompetent management necessitates a system of smoke and mirrors.

Internationally, America faces a no less bleak situation. Faye points out that the almighty dollar, for sixty years the world’s reserve currency, is now threatened by the euro (which means the country will soon no longer be able to live on credit); the European Union and Asia’s rising economic colossus are undermining its primacy in world markets; it faces the wrath of a billion Muslims worldwide and does nothing to stem the Muslim immigration to the United States; its occupation of Iraq is causing it to hemorrhage monetarily, morally, and militarily; and, not least, its image and integrity have been so damaged that raw power alone sustains its fragile hegemony.

Unlike the implicit imperialism of the Cold War era, the NAI is openly anti-European. In this vein, it opposes the continent’s political unification; treats its allies, even its British poodle, with contempt; practices a divide and conquer tactic which pits the so-called New Europe against the Old; and pursues a strategic orientation aimed at containing Europe and keeping it dependent on the U.S. security system.

In parallel with this anti-Europeanism, there has developed in Europe what Faye calls an “obsessional and hysterical anti-Americanism” (OHAA). He sees this development as so destructive of Europe’s self-interest that he factitiously suggests that it is probably subsidized by the CIA. For this anti-Americanism bears little relation to earlier forms of French anti-Americanism, which sought to defend France’s High Culture from the subversions of America’s culture industry. Nor are its right-wing proponents firmly in the pale of the “new revolutionary nationalism,” which designates liberalism’s cosmopolitan plutocracy as the chief enemy and resists its denationalization of capital, population, and territory. Instead, this OHAA not only does nothing to advance the European project, its fixation on the NAI inadvertently contributes to the Islamization and Third Worldization of the continent, hastening, in effect, its demise as a civilizational entity.

Touching the government and numerous nationalist tendencies, in addition to the perennially anti-identitarian Left, this OHAA is informed by a simpleminded Manichaeanism, which assumes that America’s enemy (Islam) is Europe’s friend. By this logic, America is depicted as a source of evil and Islam as a possible savior. In effect, these anti-Americans adopt not just Islam’s Manichaean world view, but that of the Judeo-Protestants who make up Bush’s political base. For like the neoconservative publicists and propagandists advising the administration and like the mullahs shepherding their submissive, but fanatical flocks, they too paint the world in black and white terms, the axis of good versus the axis of evil, with the enemy (America or Islam) seen as the source of all evil and our side (America or Islam) as the seat of all virtue.

And just as the liberal/neocon image of America is Hebraic, not Greco-European, these European anti-Americans carry in their demonstrations the flags of Iraq, Palestine, Algeria, and Morocco, shout Allah Akbar, and affirm their solidarity with Islam—all without the slightest affirmation of their own people and culture. This simple-minded Manichaeanism influences not only left-wing immigrationists bent on subverting Europe’s bioculture, but French New Rightists around Alain de Benoist, revolutionary nationalists around Christian Bouchet, traditionalists around the Austrian Martin Schwartz and the Italian Claudio Mutti, and various Eurasianists, as well as many lesser known tendencies. Worse, the politicians catering to this anti-Americanism oppose the NAI less for the sake of Europe’s autonomy than for that of its large Muslim minority. They thus refuse to be an American protectorate, but at the same time display the greatest indifference to the fact that they are rapidly becoming an Islamic-Arabic colony: Eurabia.

The economic and cultural war the United States wages on Europe, Faye stresses, ought to warrant the firmest of European ripostes, but to feel the slightest solidarity with Islam, even when “unjustly” attacked, is simply masochistic—for, if the last 1400 years is any guide, it seeks nothing so much as to conquer and destroy Europe. American plutocratic liberalism may be responsible for fostering transnational labor markets that import millions of Third World immigrants into the white Lebensraum, but if the latter are ignored for the sake of resisting the former, the end result may soon be that there will no Europeans left to defend. (Medically, this would be equivalent to fighting typhoid by ignoring the infectious bacillus assaulting the sufferer and instead concentrating exclusively on eliminating the contaminated food and water that transmit it —in which case the disease would be eradicated, but the patient not live to appreciate it).

The OHAA’s simpleminded politics, Faye argues, ends up not just misconceiving Europe’s enemy, but sanctioning its colonization, including the colonization of its mind. Like the “poor African” who is routinely portrayed as the victim of white colonialism, this sort of anti-Americanism makes the European the victim of U.S. imperialism. As we know from experiences on our side of the Atlantic, such a mentality takes responsibility for nothing and attributes everything it finds objectionable to the white man, in this case the American.

More pathetically still, in designating the United States as an irreconcilable enemy and Islam as a friend, these anti-Americans inadvertently dance to Washington’s own tune. Based on his La colonisation de l’Europe: Discours vrai sur l’immigration et l’Islam (2000) and in reference to Alexander del Valle’s Islamisme et Etats-Unis: Une alliance contre l’Europe (1999), Faye contends that since the early 1980s U.S. policy has aggressively promoted Europe’s Third Worldization—through its ideology of human rights, multiculturalism, and multiracialism, through its unrelenting effort to force the European Union to admit Turkey, but above all through its intervention on behalf of Islam in the Yugoslavian civil war. In all these ways fostering social, religious, cultural, and ethnic divisions that neutralize Europe’s potential threat to its own hegemony, it seeks to subvert European unity.

Looking to the Arab world to counter U.S. imperialism can only lead to national suicide. Those who advocate Europe’s alliance with the Third World are thus for Faye not simply naive, but neurotic. America may be a competitor, an adversary, a culturally distorting force, it may even be the principal international force for liberal cosmopolitanism, but in relation to the ethnocidal threat posed by Islam it is almost entirely innocuous. Europeans can always recover from the deculturation that comes from American domination, but not from the destruction of their genetic heritage, which Islam promises. Faye suggests that this anti-American neurosis, like the classic textbook pathology, designates America as its enemy for fear of acknowledging the danger looming under its very nose. As such, the anti-American Islamophiles refuse to see what’s happening in Europe, whose soft, dispirited white population is increasingly cowed by Islam’s conquering life-force. For however much American policy assaults Europe, it does not constitute the life-and-death danger which the invading Islamic colonizers do. To think otherwise is possible only by ignoring the primacy of race and culture. Instead, then, of pursuing chimerical relations with people whose underlying motive is the destruction of Europe as we know it, it would be wiser, Faye claims, for Europeans to view what’s happening in Iraq as the Chinese and Indians do: with cynical detachment and an eye to their own self-interest.

The greatest danger to Europe, and this idea is the axis around which Faye’s argument revolves, comes from the Islamic lands to the “South,” whose nonwhite immigrants are presently colonizing the continent, assuming control of its biosphere, and altering the foundations of European life. For European nationalists and governments to treat America, with its shallow, provisional power, as the enemy and Islam, with its nonwhite multitudes pressing on Europe’s borders, as its friend is the height of folly.

Not coincidentally, such an anti-Americanism is first cousin to the anti-white sensibility one finds in American liberal and neoconservative ranks. For just as those who try to convince us that America is a “creed,” not a white nation, these anti-Americans allying with Islam to fight the ricains betray their patrie—treating it as an abstraction and not a people. If Americans would be better off using their troops to defend their porous border instead of playing cowboy in Mesopotamia, as we white nationalists believe, Europeans loyal to their heritage would do better, Faye advises, to resist rather than to make common cause with those who are presently invading their lands.

To Faye, there can never be a total rupture between Europe and white America, given the blood bonds linking them. They might pursue divergent interests, over which dispute is inevitable, but the racial and cultural differences separating Europe from the Islamic world are insurmountable. In this spirit, he predicts that “the great clashes of the 21st century will not pit the United States against the rest of the world, but rather the Whitemen of the North against all the other racial-civilizational blocs.”

The culturally noxious effects of the liberal-democratic order of money imposed on Europe after 1945 caused European nationalists to define themselves in opposition not just to American-style liberalism, but to America as a nation. For those nationalists who continue to uphold this line, Third World immigration (which they do not favor) is viewed as an offshoot of a techno-economic system that dismisses biocultural qualities for the quantifying ones of the liberal market.

Only in fighting this system, and its chief sponsor, the United States, will Europe, they believe, be able to defend its heritage and its destiny. The Third World immigrants experiencing the deracination that comes with transnational labor markets cannot, then, be Europe’s enemy, for they too are its victim. Besides, their traditionalist, premodern culture makes them prospective allies in what is seen as a common struggle against America’s “cultureless civilization.”

But even in granting that there is a certain logic—even a certain justice—to this position, it rests upon two false premises, which Guillaume Faye has been almost alone in Europe in polemicizing: 1) that culture trumps race and 2) that race is unrelated, if not irrelevant, to culture.

His Coup d’Etat mondial offers, then, a powerful antidote to this false and potentially fatal reasoning. It demystifies the new American imperialism, revealing its tenuous character. It exposes the self-destructive character of an opposition refusing to recognize Europe’s real enemy. And, most important, in designating this enemy—the nonwhite colonizers who hope to turn Europe into a dar-al-Islam—it designates what is the single, most unavoidable, and absolutely necessary duty of white people everywhere: the defense of their homelands.

Source: TOQ, vol. 5, no. 3 (Summer 2005)


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/08/europes-enemy-islam-or-americaguillaume-fayes-le-coup-detat-mondial/

jeudi, 11 août 2011

Inacceptable ingérence turque et menace conttre nos libertés!

Attentats de Norvège : la liberté d'expression en danger

 

Inacceptable ingérence turque et menace contre nos libertés!

PARIS (NOVOpress) — Les crises violentes, les attentats terroristes les plus graves, fragilisent les opinions publiques et offrent une fenêtre d’opportunité à des lobbies influents ou à des minorités agissantes pour faire avancer leurs intérêts. Les musulmans les plus radicaux et les plus politisés veulent tirer profit du drame norvégien pour attenter à la liberté d’expression des adversaires de l’expansion de l’islam en Europe.

Ibrahim Kalin, l’un des conseillers séniors du Premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan, exige dans un commentaire paru il y a quelques jours dans le journal panarabiste Asharq Al-Awsat la criminalisation de l’« islamophobie » au titre de crime contre l’humanité. Kalin émet une violente critique vis-à-vis des chefs de gouvernement européens, qui selon lui n’ont rien fait jusqu’ici pour faire cesser la critique de l’islam.

« Le massacre norvégien a récusé les affirmations selon lesquelles l’islamophobie serait non violente et donc, contrairement à l’antisémitisme, relèverait de la liberté d’opinion et du droit à la critique. Après l’acte meurtrier d’Anders Behring Breivik, on ne peut plus traiter à la légère l’idéologie qui sous-tend cet acte, l’islamophobie », affirme Kalin, qui déplore – tout comme la gauche – le renforcement des partis de droite en Europe : « La montée de partis conservateurs hostiles à l’immigration et situés à d’extrême droite est devenue la principale tendance de la politique européenne depuis quelques années et a trouvé une base particulièrement forte en France, en Allemagne, aux Pays-Bas, en Autriche et en Suisse. »

Kalin reproche aux chefs d’État et de gouvernement des plus grands États de l’Union européenne de céder à l’état d’esprit de la population, en déclarant (Angela Merkel, comme Nicolas Sarkozy et David Cameron), que le multiculturalisme était terminé. Kalil attribue le phénomène de l’islamophobie essentiellement à des préjugés et des stéréotypes par rapport à l’islam et aux musulmans… qu’il ne prend pas la peine de réfuter.

Source: http://fr.novopress.info/93855/attentats-de-norvege-la-liberte-dexpression-en-danger/

mercredi, 10 août 2011

Der mysteriöse Tod Osama bin Ladens

Der mysteriöse Tod Osama bin Ladens: manipulierte Beweise, wo es eigentlich keine gibt

Paul Craig Roberts

 

Das Magazin The New Yorker veröffentlichte am 8. August einen Artikel von Nicholas Schmidle, der auf den Informationen einer nicht identifizierten Quelle beruht, die behauptet, mit der angeblichen amerikanischen Operation zur Ermordung Osama bin Ladens bestens vertraut zu sein. Eigentlich enthält der Artikel keine nützlichen Informationen. Sein Sinn scheint darin zu bestehen, Lücken in der ursprünglichen Darstellung wegzuerklären oder zu vertuschen. Im Kern geht es um die Frage, warum die Spezialeinheit SEALS einen unbewaffneten, keinen Widerstand leistenden Osama bin Laden töteten, dessen Gefangennahme sich doch als Goldmine an Informationen über Terrorismus hätte erweisen und dessen Schauprozess die in sich zusammenbrechende regierungsamtliche Darstellung der Ereignisse vom 11. September 2001 hätte retten können?

 

Dazu teilt uns der leichtgläubige Schmidle mit: »Es war niemals geplant, ihn einzusperren oder festzunehmen – diese Entscheidung wurde nicht in Sekundenbruchteilen vor Ort getroffen. ›Niemand wollte, dass Gefangene gemacht werden‹, erklärte der Offizier für Spezialeinsätze mir gegenüber.«

Und warum warfen die SEAL-Soldaten bin Ladens Körper in das Meer, anstatt der skeptischen Weltöffentlichkeit diesen Beweis vorzulegen?

MEHR: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/paul-craig-roberts/der-mysterioese-tod-osama-bin-ladens-manipulierte-beweise-wo-es-eigentlich-keine-gibt.html

samedi, 06 août 2011

Le cauchemar pakistanais

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Le cauchemar pakistanais

Afghanistan, Pakistan, Inde: Pourquoi la guerre dans l’Hindou-Kouch va durer encore longtemps

par Jürgen Rose*

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

AFPAK: c’est ainsi que les géostratèges appellent le théâtre des hostilités dans l’Hindou-Kouch qui oppose deux acteurs étroitement liés: l’Afghanistan et le Pakistan. Ces deux Etats sont davantage liés que séparés par une frontière longue de 2640 kilomètres qui traverse le territoire de 40 millions de Pachtounes, divisés en 65 tribus, qui vivent le long de cette ligne. Cette frontière est traversée quotidiennement par quelque 200 000 de ces personnes. C’est sous le couvert de cet incessant flux humain que tous les combattants irréguliers peuvent se déplacer entre leurs zones d’opérations en Afghanistan et leurs zones de repli au Pakistan, combattants qui, par leur guérilla, infligent depuis des années des pertes de plus en plus importantes aux troupes d’occupation internationales dans l’Hindou-Kouch.
Cette situation constitue la raison principale pour laquelle le président George W. Bush avait déjà ordonné des opérations de commando de ses Special Forces et des attaques de drones sur le territoire du Pakistan. Fraîchement entré en fonctions, Barack Obama, couronné du prix Nobel de la paix à Oslo, a ordonné d’intensifier ces lâches attaques de drones – pilotées depuis des postes de commandement inattaquables aux Etats-Unis, loin du théâtre des hostilités – qui font des quantités de victimes civiles innocentes. En outre, le chef de guerre du Bureau ovale exerce des pressions de plus en plus fortes sur Islamabad pour que l’armée pakistanaise «enfume» les nids de résistance et les zones de repli de la guérilla dans les zones tribales de la North West Frontier Province (NWFP) afin de mettre fin au conflit en Afghanistan.
Toutefois, cette stratégie, qui mise sur une victoire militaire sur la guérilla semble condamnée à l’échec. En effet, elle ignore des paramètres fondamentaux qui déterminent la politique pakistanaise, surtout la situation difficile dans laquelle se trouve enfermé le Pakistan entre l’Afghanistan à l’ouest et l’Inde à l’est. Cette situation conflictuelle a été désignée par l’acronyme plus approprié d’AFPAKIND. Ce «dilemme sandwich» résulte du conflit existentiel dans lequel se trouve le Pakistan, depuis sa fondation, avec la grande puissance nucléaire qu’est l’Inde dont la manifestation la plus visible est le conflit à propos du Cachemire qui a fait l’objet de trois guerres mais n’est toujours pas résolu.
L’engagement indien en Afghanistan ne peut qu’inquiéter les généraux pakistanais qui voient de toute façon leur pays menacé en permanence sur son front oriental. C’est que là-bas, pour ainsi dire à l’arrière du Pakistan, l’Inde n’a pas seulement créé un réseau de bases de ses Services secrets RAW appelées officiellement «consulats» ou «centres d’information». De là elle apporte notamment un soutien à des rebelles séparatistes dans la province pakistanaise du Béloutchistan et pilote des attaques de cibles situées au Pakistan. En outre, Delhi amène ses conseillers militaires à former également les forces armées afghanes (ANA) et investit d’importantes sommes d’argent dans la reconstruction et le développement de cet Etat d’Asie centrale. Dans ce but, elle coopère surtout avec les forces de l’Alliance du Nord que les Etats-Unis ont catapulté au pouvoir en 2001 et en même temps avec le régime taliban pachtoune soutenu par les Services de renseignements «Inter Services Intelligence» (ISI) et l’armée qui sert de représentant des intérêts stratégiques du Pakistan.
Il n’y a donc rien d’étonnant à ce qu’Islamabad associe le régime de Kaboul, de plus en plus lié à l’Inde, avec le développement d’un «Front occidental» visant à soutenir le terrorisme au-delà de la frontière du Pakistan et le considère comme un ennemi. L’importante menace pour ses intérêts stratégiques qui en résulte a pour conséquence que les militaires pakistanais, avec l’aide de l’ISI, continuent de soutenir de toutes leurs forces la résistance afghane selon la devise «L’ennemi de mon ennemi est mon ami.» Robert D. Blackwill, analyste américain réputé, a noté récemment à ce sujet dans un article de Foreign Affairs ce qui suit: «L’Armée pakistanaise, dominée par son attitude hostile à l’Inde et le désir de profondeur stratégique ne va ni cesser de soutenir les talibans afghans qui, pendant de nombreuses années, ont défendu leurs intérêts et de leur offrir un sanctuaire, ni accepter un Afghanistan vraiment indépendant.» Cette résistance, constituée avant tout des talibans, du réseau Haqqani et des combattants de Gulbuddin Hekmatyar, se recrute avant tout parmi les Pachtounes vivant de part et d’autre de la frontière afghano-pakistanaise. En sous-main, les militaires pakistanais concèdent sans détours qu’ils collaborent naturellement avec ces groupements parce qu’ils ont besoin en Afghanistan d’alliés sur lesquels ils puissent compter.
Pour Islamabad, le caractère fâcheux de cette situation consiste dans le fait qu’il doit d’une part soutenir la lutte des résistants afghans contre les troupes d’occupation internationales jusqu’à ce qu’elles s’en aillent afin que les forces valables pour une alliance contre l’Inde reprennent le pouvoir à Kaboul. L’ex-chef de l’ISI, le général de division Asad M. Durrani, a déclaré à ce sujet lors d’une interview menée par l’auteur de ces lignes: «Nous essayons naturellement de maintenir absolument le contact avec toutes les forces de la résistance et en particulier avec les talibans depuis qu’ils sont venus au pouvoir en 1995 en Afghanistan. Mais je serais personnellement très reconnaissant si l’ISI soutenait la résistance afghane. En effet, c’est seulement si la résistance afghane – celle des «nouveaux talibans», pas celle du mollah Omar – demeure suffisamment forte que les troupes étrangères se retireront. Sinon, elles resteront. […] Même si, depuis 2001, cela ne correspond plus à la position officielle du gouvernement pakistanais, les talibans, qui s’opposent aux forces d’occupation en Afghanistan, mènent à mon avis notre guerre au sens où, s’ils réussissent, les troupes étrangères se retireront. Mais s’ils échouent et si l’Afghanistan reste sous domination étrangère, nous continuerons d’avoir des problèmes. Si L’OTAN, la puissance militaire la plus forte du monde, s’incruste pratiquement à la frontière pakistanaise pour des raisons d’intérêts économiques et géopolitiques – songez au new great game – cela créera un énorme malaise au Pakistan.»
D’autre part cependant les forces armées pakistanaises, pour empêcher, en territoire pakistanais, des opérations militaires de plus grande ampleur que la guerre des drones et les opérations de commando des Special Forces, se voient contraintes, en tant qu’alliées des Etats-Unis dans la «guerre contre le terrorisme», d’intervenir contre les combattants irréguliers. Cette situation conflictuelle constitue en quelque sorte la garantie fatale que la guerre dans l’Hindou-Kouch durera aussi longtemps que les troupes occidentales d’occupation resteront dans le pays et que le conflit existentiel pakistano-indien ne sera pas résolu, celui-ci n’étant certes pas forcément dans l’intérêt absolu des généraux pakistanais car la paix avec l’Inde exposerait l’Etat et la société à une pression de légitimité durable et mettrait en péril l’aide considérable des Etats-Unis en matière d’armement. Dans ce contexte, l’assassinat du chef terroriste Oussama ben Laden, salué par le gouvernement Obama comme un succès politique éclatant, n’aura que peu d’influence sur la guerre en Afghanistan, d’autant plus que la politique d’occupation de l’«unique grande puissance» va de toute façon se poursuivre indéfiniment étant donné ses intérêts stratégiques et géoéconomiques à long terme, malgré toutes les déclarations sur le retrait des troupes. Par conséquent tout laisse penser que ces prochaines années, on va continuer à mourir et à tuer copieusement dans le lointain Hindou-Kouch, avec la participation fidèle de la vassale des Etats-Unis qu’est la Bundeswehr, cela s’entend.    •

Il faut cesser de livrer des armes a Benghazi

Le ministre russe des Affaires étrangères, Lavrov, a reproché à son homologue français Juppé, lors d’une visite à Moscou la semaine passée, d’avoir interprété les résolutions de l’ONU d’une manière très libre. […]
Lundi, le président d’Afrique du Sud, Zuma, avait présenté le nouveau plan de paix de l’Union africaine au président russe Medvedjew et au secrétaire général de l’OTAN Rasmussen lors de pourparlers à Sotchi. Des diplomates ont rapporté, qu’un cessez-le-feu était prévu, qui pourrait aboutir, par un dialogue national et une phase transitoire, finalement à une démocratie et des élections.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 6/7/11

L’Union africaine: Ne pas arrêter Kadhafi

Tripolis, le 3 juillet (dapd). Le Président de la Commission de l’Union africaine, Jean Ping, a invité tous les gouvernements du continent à ignorer le mandat d’arrêt de la Cour pénale internationale contre le chef d’Etat libyen Kadhafi. Le tribunal de la Haye a été «discriminatoire» et poursuit uniquement des crimes commis en Afrique tout en ignorant ceux que les puissances occidentales ont commis en Irak, en Afghanistan ou au Pakistan, a déclaré Ping vendredi soir.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 4/7/11

mercredi, 13 juillet 2011

Der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

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Die Kräfte der Manipulation: der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

Mahdi Darius Nazemroaya

Bei ihrem Vormarsch gegen das Eurasische Herzland versuchen Washington und seine Gefolgsleute, sich den Islam als geopolitisches Werkzeug zunutze zu machen. Politisches und soziales Chaos haben sie bereits geschaffen. Dabei wird versucht, den Islam neu zu definieren und ihn den Interessen des weltweiten Kapitals unterzuordnen, indem eine neue Generation sogenannter Islamisten, hauptsächlich unter den Arabern, ins Spiel gebracht wird.

Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

Die heutige Türkei wird den aufbegehrenden Massen in der arabischen Welt als demokratisches Modell präsentiert, dem es nachzueifern gilt. Unbestreitbar hat Ankara Fortschritte gemacht im Vergleich zu den Zeiten, als es verboten war, in der Öffentlichkeit Kurdisch zu sprechen. Dennoch ist die Türkei keine funktionsfähige Demokratie, sondern eher eine Kleptokratie mit faschistischen Zügen.

Mehr:http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mahdi-darius-nazemroaya/die-kraefte-der-manipulation-der-islam-als-geopolitisches-werkzeug-zur-kontrolle-des-nahen-und-mitt.html

lundi, 11 juillet 2011

Die Destabilisierung Syriens und der Krieg in der Grossregion Naher und Mittlerer Osten

Die Destabilisierung Syriens und der Krieg in der Großregion Naher und Mittlerer Osten

Prof. Michel Chossudovsky

In Syrien entwickelt sich mit verdeckter Unterstützung ausländischer Mächte, einschließlich der USA, der Türkei und Israels, ein bewaffneter Aufstand. Bewaffnete Aufständische, die islamischen Organisationen zuzurechnen sind, haben die Grenze nach Syrien aus Richtung Türkei, des Libanon und Jordaniens überschritten. Das amerikanische Außenministerium bestätigte, dass es die Aufständischen unterstützt. 

»Die USA sind dabei, ihre Kontakte zu Syrern auszuweiten, die auf einen Regimewechsel in ihrem Land setzen. Dies erklärte die Vertreterin des amerikanischen Außenministeriums Victoria Nuland. ›Wir haben damit begonnen, unsere Kontakte zu Syrern auszuweiten, die sowohl in Syrien selbst wie im Ausland zu einem Regimewechsel aufrufen‹, erklärte sie. Zugleich wiederholte sie, Barack Obama habe bereits zuvor den syrischen Präsidenten Baschar al-Assad aufgefordert, Reformen einzuleiten oder seine Machtposition zu räumen.« (Voice of Russia, 17. Juni 2011)

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/prof-michel-chossudovsky/die-destabilisierung-syriens-und-der-krieg-in-der-grossregion-naher-und-mittlerer-osten.html

vendredi, 10 juin 2011

J. P. Fuss: Erdogan, Meister der Täuschung

Jürgen P. Fuß,

Erdogan - ein Meister der Täuschung

Was Europa von der Türkei wirklich zu erwarten hat

ISBN 978-3937820-16-3 - Verlag Siegfried Bublies

278 Seiten, gebunden, Hardcover, 19,80 euro

Erscheinungstermin: 15 Juni 2011

Mehr als sechs Jahre haben Jürgen P. Fuß und seine Frau in der Türkei gelebt und dabei Land und Leute kennen gelernt. Im April 2004 gründeten sie die erste deutschsprachige Wochenzeitung für die Türkei. In insgesamt 222 Ausgaben berichtete die „Aktuelle Türkei Rundschau" über die Türkei und kommentierte die politischen Ereignisse. Als Herausgeber und Chefredakteure konnten Fuß und seine Frau hautnah miterleben, wie Recep Tayyip Erdogan den Einfluss der islamisch-konservativen AKP (deutsch: Partei für Gerechtigkeit und Entwicklung) immer weiter festigte. Gleichzeitig gelang es Erdogan, seine Machtposition innerhalb und außerhalb der Partei so stark auszubauen, dass er mit einigen ihm treu ergebenen Weggefährten mittlerweile alle Fäden des türkischen Staates in der Hand hält.

Jürgen P. Fuß liefert mit „Erdogan – ein Meister der Täuschung" eine umfassende Biografie des türkischen Machtpolitikers und eine entlarvende Analyse seiner politischen Aktivitäten als Parteivorsitzender der AKP und Ministerpräsident der Türkei.

Bereits 1998 wurde der frühere Istanbuler Bürgermeister Erdogan wegen öffentlichen Zitierens der folgenden Verse zu einer Gefängnisstrafe verurteilt: Die Demokratie ist nur der Zug, auf den wir aufsteigen, bis wir am Ziel sind. Die Minarette sind unsere Bajonette... die Moscheen sind unsere Kasernen." Erst nach einer Verfassungsänderung konnte Erdogan für das türkische Parlament kandidieren und am 11. März 2003 Ministerpräsident werden. Seit dieser Zeit beherrscht Erdogan die hohe Kunst des Verstellens, Verschleierns und Täuschens als erfolgreiche Methode eines schleichenden Machterwerbs. Fuß’ faktenreiche und auf intimer Kenntnis der türkischen Verhältnisse basierende Arbeit zeigt: Erdogan, der aus der radikal-islamischen und autoritären Milli Görüs-Bewegung Erbakans kommt, strebt für die Türkei eine Führungsrolle in Europa, Vorderasien und im Nahen Osten an. Und der Islam soll die alle Lebensbereiche beherrschende Religion werden. Für Fuß gibt es deshalb nur eine zwingende politische Schlußfolgerung: Die Türkei darf nicht Mitglied im europäischen Staatenverbund werden.

Zum Autor:

Jürgen P. Fuß, geboren 1946, studierte Elektrotechnik, Abschluß als Diplom-Ingenieur. Von 1979 bis 2009 Dozent für Betriebswirtschaft an einer Fachhochschule. Herausgeber und Chefredakteur der einzigen deutschsprachigen Wochenzeitung in der Türkei in den Jahren 2004 bis 2009.

Im Februar 2009 verließen Jürgen P. Fuß und seine Frau die Türkei, weil sie nicht länger in einem Land leben wollten, das Recep Tayyip Erdogan nach seinen islamisch-konservativen Vorstellungen umbaut. Hinzu kam, dass das Risiko, ins Visier der Polizei oder der Justiz zu geraten, für die Herausgeber und Chefredakteure der „Aktuellen Türkei Rundschau" immer größer wurde. Eine verantwortungsvolle journalistische Arbeit war nicht mehr möglich. Mittlerweile leben sie an verschiedenen Orten in Europa.

Inhaltsverzeichnis

Vorwort

1 Recep Tayyip Erdogan (Kindheit, Jugend, Lehrmeister)
1.1 Erdogan – von ganz unten nach ganz oben
1.2 Erdogans Vorbilder und Lehrer
1.2.1 Wer hat Erdogans Weltbild geprägt?
1.2.2 Milli-Görüs - Meinungsbildung in jungen Jahren
1.2.3 Fazit: Wie Milli-Görüs Erdogan geprägt hat
1.2.4 Said Nursi - Islamischer Vordenker wirkt bis heute
1.2.5 Nursis Kritik an der muslimischen Gemeinschaft
1.2.6 Fethullah Gülen - geistiger Lehrmeister oder mehr?
1.2.7 Erbakans politischer Weg - Lehrstück mit nachhaltiger Wirkung
1.2.8 Erdogans Motive - eine erste Zwischenbilanz

2 Erdogans Weg zur Macht (1994 bis 2002)
2.1 Erdogans erste politischen Schritte (1975 bis 1998)
2.2 Türkei im Aufbruch (1997 bis 2001)
2.3 Die AKP wird Regierungspartei (2001 bis 2002)
2.4 Erdogan wird Regierungschef (2003)
2.5 Regierungsantritt der AKP - ein Sieg der Demokratie?
2.6 Erdogan festigt seine Position
2.7 Keine Frage: Die AKP steht und fällt mit Erdogan

3 Erdogan weckt hohe Erwartungen (2003 bis 2010)
3.1 Wahlversprechen 2002: Alles soll besser werden
3.2 Erdogan verspricht: Wirtschaftlicher Aufschwung
3.2.1 Bruttoinlandsprodukt seit 2002 gestiegen
3.2.2 Inflationsrate weit über dem europäischen Niveau
3.2.3 Grundlegende Probleme des türkischen Arbeitsmarktes nicht gelöst
3.2.4 Bilanz: Türkei wäre wirtschaftlich betrachtet ein schwaches Mitglied in der EU
3.3 Erdogan verspricht: Mehr Demokratie
3.3.1 Rückblick auf sechs Jahrzehnte Demokratie in der Türkei
3.3.2 Das türkische Wahlrecht verzerrt das Wahlergebnis
3.3.3 Stärkt die AKP die Demokratie in der Türkei?
3.4 Erdogan verspricht: Mehr Meinungs- und Pressefreiheit
3.4.1 Die Lage vor dem Regierungswechsel 2002
3.4.2 AKP-Regierung schafft vorübergehend Verbesserungen
3.4.3 Erdogan verändert die Medienlandschaft
3.4.4 Bilanz: Keine Fortschritte, sondern Rückwärtsgang im Medienbereich
3.5 Erdogan verspricht: Rechtsreform und bessere Justiz
3.5.1 Neues Strafvollzugsgesetz - ein Stück Etikettenschwindel
3.5.2 4.000 neue Staatsanwälte und Richter - Justizreform oder: mehr Einfluss für die AKP?
3.5.3 Türkisches Anti-Terrorgesetz – Mehr Rechte für Militär und Polizei
3.5.4 Justizreform führt zu mehr Einfluss durch die Politik
3.6 Bilanz: Hohe Erwartungen kaum erfüllt

4 Erdogans wahre Pläne (ab 2008)
4.1 Will Erdogan eine Türkei nach europäischem Muster?
4.2 Erdogans "Schöne Neue Welt"
4.2.1 Erdogans 1. Plan: Die Entmachtung des türkischen Militärs
4.2.2 Erdogans 2. Plan: Türkische Kolonie Europa
4.2.3 Erdogans 3. Plan: Türkei eine der zehn größten Volkswirtschaften
4.2.4 Erdogans 4. Plan: Weltmacht Türkei
4.2.5 Erdogan auf den Weg zum zweiten Atatürk?
4.2.6 Statt einer Bilanz - Versuch einer Prognose 2023

5 Resümee: Was Europa von der Türkei wirklich zu erwarten hat


Literaturverzeichnis

mardi, 07 juin 2011

I. Shamir: Pourquoi Ben Laden devait-il mourir?

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Pourquoi Ben Laden devait-il mourir ?

 

Entretien avec Israel Shamir

 

Propos recueillis par Maître Gerhard Frey jr

 

Depuis 2005, les Américains savaient où Ousama Ben Laden se cachait à Abbottabad. C’est ce que nous a révélé récemment Israel Shamir, un journaliste russo-israélien qui vit en Suède et qui coopère dans le dossier « WikiLeaks ». Ses dires ont été confirmés par l’agence de presse « dapd » : la CIA surveillait la cachette de Ben Laden « depuis environ six ans », « avant qu’Obama ne donne l’ordre d’intervenir ». Maître Gerhard Frey s’est entretenu avec Israel Shamir pour qu’il nous éclaire sur ses thèses.

 

Q. : Monsieur Shamir, comment cela se fait-il que les autorités américaines savaient depuis 2005 où se trouvait Ben Laden ?

 

IS : Les Américains ont arrêté Abu al-Libi en 2005 et ont ainsi appris  —et cela ressort des documents de Guantanamo—  que Ben Laden s’était installé à Abbottabad, lorsqu’il est devenu le messager de ce dernier. Abbottabad est une ville relativement petite, elle ne compte que 80.000 habitants. Il est évident que les services secrets américains ont vérifié qui étaient les voisins d’Al-Libi. Ensuite, les Américains ont attrapé Abdul Hadi al-Iraqi qui se trouvait, lui aussi, en liaison avec Abbottabad. Des forces américains et pakistanaises ont mené des attaques dans la région d’Abbottabad. Mais Ousama Ben Laden, au milieu de toute cette effervescence, a continué à vivre en paix parce que les Américains savaient qu’il se trouvait là-bas.

 

Q. : Selon vous, Monsieur Shamir, quels étaient les motifs pour le laisser en vie dans un premier temps ?

 

IS : Ils l’ont laissé en vie parce qu’il a été jadis leur agent, et sans doute plus longtemps qu’on ne le croit. Il faut dire que Ben Laden ne s’est que rarement attaqué aux intérêts américains, sauf sans doute à une exception près  —et une exception de taille !—  les fameux attentats du 11 septembre. L’organisation d’Ousama Ben Laden a fait, ce que les autorités américaines voulaient qu’elle fasse. Elle a combattu les Russes en Afghanistan et elle a ruiné ce pauvre pays. Elle a conspiré contre le Hizbollah et l’a combattu. Elle a massacré des Chiites en Irak. Elle a contribué à miner le pouvoir de Kadhafi. Elle hait le Hamas et l’Iran. Elle a soutenu les épurations ethniques menées en Tchétchénie et dans les Balkans contre les « Infidèles ». Jamais elle ne s’est attaqué à Israël. Elle réservait toutes ses énergies à combattre Hassan Nasrallah, secrétaire général du Hizbollah libanais. Comme un golem effrayant, fabriqué dans les laboratoires de la CIA, elle ne s’est insurgée qu’une seule fois contre ses « fabricateurs » impitoyables : le 11 septembre 2001. Ben Laden a certes été un pion important sur les terrains de guerre récents mais il ressemble, à ce titre, à bon nombre d’ « amis » des Américains comme Jonas Savimbi en Angola ou Chamil Bassaïev en Tchétchénie : son organisation disparaîtra après sa mort comme l’Unità angolaise et les bandes à Bassaïev ont quitté le terrain.

 

Q. : Mais pourquoi a-t-on tué Ben Laden maintenant et non pas plus tôt ?

 

IS : Ils l’ont tué tout simplement parce la publication des documents de Guantanamo dévoilait clairement la piste menant à Abbottabad. Deux solutions étaient possibles : ou bien on l’enlevait d’Abbottabad et on l’escamotait ailleurs ou bien on le tuait car aucune cachette, pour un témoin gênant, n’est aussi sûre que les profondeurs infernales. C’est la deuxième option que l’on a choisi pour faire disparaître véritablement toutes les traces. Ce que nous ne savons pas, en revanche, c’est la nature et la teneur des contacts entre les autorités américaines et Ben Laden. Ce dernier a-t-il ou non été téléguidé dans ses actions par la CIA ? Voilà la question principale qu’il faut se poser. De toutes les façons, on n’a pas exhibé devant les caméras ses gencives violacées comme on l’a fait pour Saddam Hussein après sa capture ; on ne l’a pas revêtu de la tunique orange humiliante des détenus de Guantanamo ; on ne l’a pas torturé par le procédé du « waterboarding » jusqu’à ce qu’il tombe dans l’inconscience et il n’a pas été humilié.

 

Q. : La campagne pour les présidentielles, qui commence déjà aux Etats-Unis, a-t-elle déterminé le moment de cette exécution ?

 

IS : Dans ce cas, on aurait attendu le mois d’octobre.

 

Q. : Pensez-vous que l’exécution de Ben Laden est juste ?

 

IS : Je pense qu’on lui a accordé une sorte de grâce. Finalement, il vaut mieux être tué d’une rafale de pistolet-mitrailleur que d’être trainé à Guantanamo pour y être torturé.

 

Q. : Il est une chose curieuse : sur l’affiche du FBI, qui met la tête de Ben Laden à prix, ne figure aucune mention du 11 septembre. Comment expliquez-vous cela ?

 

IS : Manifestement il n’existe aucune preuve de sa participation.

 

Q. : Récemment, vous avez rédigé un article où vous dites que la « gauche » et la « droite » ne signifient quasiment plus rien aujourd’hui. Pouvez-vous nous préciser votre point de vue ?

 

IS : Ces concepts n’ont plus grand chose à nous dire, après Blair et Clinton. Ce qui compte désormais, c’est l’attitude que l’on adopte face aux guerres et aux interventions militaires que les Américains (et leurs alliés) lancent au-delà des mers, c’est la capacité à repérer les machinations des services secrets, à dénoncer la soumission des citoyens à l’Etat tout puissant. En France, Marine Le Pen, classée à droite, s’oppose à l’intervention en Libye et en Côte d’Ivoire, aux paiements que les Etats effectuent au bénéfice des banquiers et à la politique aventurière de l’actuel président français, tandis que Bernard-Henri Lévy, étiqueté de « gauche », soutient toutes les initiatives guerrières et les interventions à l’étranger et s’affiche comme un ami du président étiqueté de droite. Aux Etats-Unis, un Ron Paul, considéré comme un « républicain de droite », est contre la guerre, s’oppose à la politique des banques et au soutien inconditionnel à Israël, exactement comme les communistes américains !

 

(entretien paru dans DNZ, Munich, n°20/2011).

 

* * *

 

Israel Shamir, né en 1947 à Novosibirsk, a émigré en Israël en 1969. Il a été journaliste pour la BBC et pour Haaretz. Pour les médias russes, Shamir a récemment  décrypté les dépêches de WikiLeaks. Il a attiré l’attention des médias en février 2011 pour les liens qu’il entretenait avec Julian Assange, qui, pour sa part, a considéré que les accusations d’ « antisémitisme », lancées contre Shamir, étaient injustifiées.

 

vendredi, 27 mai 2011

USA und Pakistan fast im offenen Krieg

USA und Pakistan fast im offenen Krieg. Chinesisches Ultimatum an die Adresse Washingtons: kein Angriff!

Webster G. Tarpley

US-Pak-Relations-pakistan defence news blog.jpgChina hat die Vereinigten Staaten offiziell wissen lassen, dass ein von Washington geplanter Angriff auf Pakistan als Akt der Aggression gegen Peking ausgelegt werden wird. Diese unverblümte Warnung ist das erste seit 50 Jahren – den sowjetischen Warnungen während der Berlin-Krise von 1958 bis 1961 – bekannt gewordene strategische Ultimatum, das den Vereinigten Staaten gestellt wird. Es ist ein Anzeichen dafür, dass sich die Konfrontation zwischen den USA und Pakistan zu einem allgemeinen Krieg auszuweiten droht.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/webster-g-tarpley/usa-und-pakistan-fast-im-offenen-krieg-chinesisches-ultimatum-an-die-adresse-washingtons-kein-angr.html

jeudi, 26 mai 2011

Jean Parvulesco sur la Turquie (2003)

Archives Jean Parvulesco (2003)

 

Jean PARVULESCO:

La Turquie, avant-garde de l'action secrète de l'Al Qaïda en Europe

 

Pour moi, l'entrée de la Turquie dans l'Union Européenne, ce serait la fin de celle-ci.

Valéry Giscard d'Estaing.

 

jean parvulesco.gifCe n'est pas parce que l'on se tient, comme nous le faisons nous autres, totalement aux côtés des peuples palestinien et irakien actuellement menacés de génocide par la "conspiration mondialiste" des Etats-Unis et de ce que se tient derrière celle-ci, que l'on ne doit pas moins totalement être, en même temps, contre les grands desseins subversifs de l'Islam fondamentaliste en action. Et on ne peut quand même pas nier le fait que, de tous les chefs d'Etat européens actuellement en fonction, Silvio Berlusconi soit le seul qui, au nom de l'Italie, ait dit de l'Islam fondamentaliste tout ce qu'il fallait dire, ni qu'en chaque occasion il ait ouvertement pris le parti de rappeler et de soutenir la nécessité incontournable de l'intégration de la nouvelle Russie de Vladimir Poutine à part entière —politique, militaire, économique et culturelle— dans l'Union Européenne.

 

Des récents événements décisifs dans leur affirmation et dans leurs conséquences immédiates viennent de confirmer d'une manière dramatique l'urgence extrême de l'ensemble des options politico-stratégiques à faire nôtres, contre les ingérences européennes subversives en cours de se préciser de la part de l'Islamisme fondamentaliste, à travers ses avancées en Turquie, et pour l'intégration inconditionnelle de la Russie au sein de l'Union Européenne. Quels sont ces récents événements? Avant tout, le glissement de la Turquie  —pour le moment quelque peu dissimulé encore—  vers l'islamisme fondamentaliste à travers l'arrivée au pouvoir à Ankara du AKP, le "Parti de la Justice et du Développement" de Recep Tayyip Erdogan, et l'entrée, donc, de la Turquie dans la sphère d'influence de l'Al Qaïda d'Oussama Ben Laden. Et de par cela même, l'extraordinaire danger représenté pour l'ensemble du continent européen par les projets en cours concernant l'admission  —tout à fait prochaine—  de la Turquie au sein de l'Union Européenne.

 

Les choses importantes se passent toujours dans l'ombre, aujourd'hui comme hier. Il est grand temps que l'on s'en rende compte, il y va de notre survie même.

 

Un Hiroshima politique s'est produit en Europe, le 3 novembre dernier, dont personne ne semble s'en être encore aperçu : la prise du pouvoir conspirative, à Ankara, exécutée sous des apparences démocratiques fallacieuses, par les tenants visibles et invisibles du parti soi-disant "islamiste modéré" de Recep Tayyip Erdogan. En réalité, il s'agissait d'une opération subversive "finale", absolument décisive, à l'échelle grande européenne continentale, menée dans l'ombre, en relation directe avec l'organisation conspirative islamiste planétaire d'Oussama Ben Laden, Al Qaïda.

 

S'étant emparé, alors qu'il n'était que maire de Constantinople, de l'appellation diversionniste du soi-disant "islam modéré", Recep Tayyip Erdogan, personnage secret et essentiellement ambigu, a depuis toujours promu, pratiqué et confidentiellement représenté la ligne clandestine la plus dure de l'islam extrémiste et très activement conspiratif, appartenant à la mouvance panturque engagée dans le long processus subversionnel ayant finalement abouti à la prise du pouvoir politique total du 3 novembre dernier.

 

Car, dans la perspective de la future admission de la Turquie au sein de l'Union Européenne, les plans stratégiques d'ensemble de la subversion islamiste planétaire, représentée actuellement par l'Al Qaïda, se sont trouvés brusquement changés : le centre de gravité politico-stratégique de l'action islamiste révolutionnaire étant déplacé depuis l'Asie sur l'Europe, et la Turquie devenant ainsi la plaque tournante opérationnelle de ce changement. Désormais, tout se passera en Turquie.

 

Il s'agit, en fait, d'un changement total de la "ligne géopolitique" de l'Al Qaïda, dont l'objectif stratégique fondamental apparaît donc comme étant celui d'engager la bataille pour l'investissement islamique final de l'espace intérieur géopolitique européen dans son ensemble : Europe de l'Ouest, Europe de l'Est et Russie. L'Europe en venant donc, ainsi, à être déclarée "terre de guerre sainte", nouvel espace du "Grand Jihad" islamiste en action vers la réalisation du "Khalifat final", englobant, en dernière analyse, les Etats-Unis eux-mêmes.

 

La base d'implantation fondamentale, du départ et du déploiement politico-stratégique des futures offensives islamiques en Europe se trouvera ainsi située dans le Sud-Est européen, à partir de la Turquie et des territoires islamistes européens d'Albanie, de Bosnie, du Kosovo et de la Macédoine, ainsi que, en même temps, à l'intérieur de chaque pays européen comprenant en son sein une importante colonie islamique. Dont, notamment, l'Allemagne et la France.

 

"Quoi de plus normal qu'un islamiste allemand puisse vouloir qu'un jour il vive dans une Allemagne islamique", titrait, ces derniers jours, la presse turque de Berlin.

 

Le concept d'"Allemagne islamique" vient donc d'être lancé : il va bientôt être question du concept d'"Europe islamique".

 

A ce propos, il ne faut pas oublier qu'Oussama Ben Laden est déjà allé "inspecter" les colonies islamiques d'Albanie et de Bosnie, et que, suivant les services secrets de Belgrade, il serait allé clandestinement jusqu'en Allemagne, notamment à Berlin.

 

L'Europe a donc été choisie comme le futur champ de bataille de la grande guerre sainte de l'Islam, de son "Grand Jihad" des prochaines années à venir. Les dés de fer d'un nouveau destin dramatique pour l'Europe ont été jetés.

 

Laissant les combats d'Asie aux soins de ses fondés de pouvoir clandestins, le mollah Omar et Abdel Azim Al-Mouhajar, Oussama Ben Laden et les infrastructures occultes de l'Al Qaïda vont bientôt s'installer quelque part dans le Sud-est européen, d'où seront dirigées les opérations offensives révolutionnaires et les actions terroristes de l'"Internationale islamique", engagée dans l'investissement subversif et la conquête politique finale de l'Europe grande continentale.

 

En même temps, le flanc méridional de la Russie  —la chaîne des anciennes républiques musulmanes soviétiques—  constituant le domaine réservé à la Turquie  —ce que, d'ailleurs, elles sont déjà—  verront les ingérences de moins en moins clandestines de la Turquie s'intensifier au maximum, alors que la Tchétchénie fera figure, en l'occurrence, par rapport aux actuelles entreprises offensives islamiques d'envergure européenne grande continentale, à ce qu'avait été la guerre nationale d'Espagne à la veille de la dernière guerre mondiale.

 

Soit crétinisme congénital d'une civilisation irrémédiablement destituée, soit haute trahison concertée, soit les deux ensemble, c'est aussi le moment précis où l'ensemble des actuels gouvernements démocratiques de l'Union Européenne, ainsi que l'ensemble de la grande presse et des médias européens  —de gauche et de droite—  s'acharnent plus que jamais  —comme Le Figaro, Le Monde, Le Courrier International, etc., toutes les radios et les télévisions d'Etat ou privées—  à très ouvertement soutenir les positions pro-islamistes des gouvernements irresponsables en place. Et cela non seulement en ce qui concerne le problème de l'admission de la Turquie au sein de l'Union Européenne, mais encore et surtout en entretenant d'une manière de plus en plus exacerbée un climat d'hostilité ouverte, et provocatrice très à dessein, à l'égard des engagements contre-terroristes de la Russie de Vladimir Poutine en Tchétchénie, où les forces armées de Moscou combattent, héroïquement, à l'avant-garde de l'Europe assiégée, l'islamisme tchétchène aux ordres de ses commanditaires dans l'ombre de la ligne d'Oussama Ben Laden.

 

Si rien n'est entrepris pour faire cesser abruptement cet état suicidaire des choses, pour faire prendre conscience à l'Europe dans son ensemble des plans d'investissement politico-stratégique en profondeur poursuivis à son égard par les dirigeants occultes de l'"Internationale Islamique", il sera bientôt  —très bientôt— trop tard pour tenter réellement d'endiguer, et de refouler les déversements dévastateurs des masses islamiques déjà en marche suivant les programmes prévus à cette fin.

 

Car il est certain, à présent, que l'"Internationale Islamique" conspirativement menée par Oussama Ben Laden a déjà déclaré une guerre religieuse et raciale, une guerre politico-historique totale à l'Europe, et que si elle ne se mobilise pas contre-offensivement de toute urgence, l'Europe disparaîtra en tant que telle, à terme, de l'histoire du monde : le travail obstiné, pathologique, abyssal de l'Islam pour la conquête et la soumission de l'Europe, sans cesse repris depuis des siècles, risque fort cette fois-ci d'aboutir à ses fins ultimes.

 

Ce qu'il faut avoir à l'esprit, c'est surtout le fait que l'offensive islamiste fondamentale contre l'Europe ne se fera pas depuis l'extérieur, mais de l'intérieur même de nos propres lignes, que le ver est déjà dans le fruit.

 

Ce sont les Etats-Unis et Israël qui font tout pour soutenir en force la Turquie, et c'est le régime socialisto-trotskiste de Gerhard Schröder et Joschka Fischer qui, aujourd'hui, en Allemagne, poussent avec un acharnement plus que suspect à l'admission de la Turquie dans l'Union Européenne.

 

Il faut donc que, par tous les moyens, nous entreprenions de combattre l'équipe subversive de traîtres actuellement au pouvoir à Berlin, que nous nous engagions à provoquer à brève échéance le renversement du régime socialisto-trotskiste de Gerhard Schröder et Joschka Fischer et le remplacement de celui-ci par le front national allemand et européen d'Edmund Stoiber et de sa coalition contre-stratégique pour le renouvellement de l'être profond de l'Allemagne et de ses destinées à venir.

 

C'est ainsi que, ces derniers jours, le Welt am Sonntag invitait les Allemands à se soulever contre la conspiration socialisto-trotskiste au pouvoir actuellement  à Berlin, à manifester contre "les anciens soixante-huitards au sommet dans les universités, les médias, et finalement au gouvernement".

 

Il s'agit, pour nous autres, de batailles vitales, de batailles pour la survie finale de tout ce que nous sommes.

 

Jean PARVULESCO.

vendredi, 06 mai 2011

Révolutions arabes? Non! Révoltes ethniques et religieuses!

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Révolutions arabes ? Non, révoltes ethniques et religieuses !

Bernard LUGAN

Ex: http://www.polemia.com/ 

Les médias occidentaux ont regardé dans leur propre miroir les bouleversements en cours dans le monde arabe. Ils y ont vu un mouvement irréversible vers la démocratie libérale. La réalité est infiniment plus complexe. Un seul pays, la Tunisie, s’achemine actuellement vers des élections pluralistes. Mais la situation sociale et la situation sécuritaire y sont dégradées : d’où la montée du chômage et les vagues d’émigration.
Ailleurs nous assistons surtout à des luttes ethniques et religieuses : querelles tribales au Yémen et en Libye, conflits entre majoritaires et sunnites au pouvoir à Bahrein, affrontements entre sunnites majoritaires et Alaouites au pouvoir en Syrie.
Polémia livre ici l’analyse de l’africaniste Bernard Lugan.

 

Le printemps arabe a-t-il vraiment eu lieu ?

L'histoire dira s'il y a eu un printemps arabe. Dans l'immédiat, cette expression semble hasardeuse, d'autant plus qu'elle est employée à tort et à travers.

En premier lieu il ne faut pas confondre monde arabe et monde musulman, tous les Arabes n'étant pas musulmans et tous les musulmans n'étant pas des Arabes. Ensuite, les mouvements auxquels nous assistons sont à ce point différents les uns des autres qu'il est difficile de leur trouver un fil conducteur. Superficiellement, il y a certes un point commun entre la Syrie, Bahrein, le Yémen, l'Egypte, la Libye, la Tunisie et l'Algérie : leurs habitants sont très majoritairement et parfois exclusivement musulmans. Mais là encore, des différences existent et elles sont très profondes. Certains pays sont en effet sunnites comme l'Algérie, la Tunisie, la Libye, l'Egypte et le Yemen, tandis que d'autres sont partagés d'une manière inégale entre sunnites, chiites - ces derniers régulièrement subdivisés -, et d'autres minorités, notamment chrétiennes.

La situation de chaque pays montre également que les causes profondes des soulèvements n'autorisent pas une généralisation :

- En Syrie, le problème est d'abord ethno-religieux, la minorité alaouite, environ 10% de la population, ayant de plus en plus de mal à tenir la mosaïque humaine du pays, les Kurdes constituent ainsi 8% de la population et les Arméniens 3%. Plus généralement, la majorité sunnite orthodoxe qui a perdu le pouvoir politique au profit des Alaouites cherche à le récupérer.
- Au Bahrein, la question est également ethnique et religieuse, la majorité sassano-chiite refusant la colonisation arabe incarnée par la dynastie sunnite des al-Khalifa au pouvoir depuis le XVIIIe siècle.
- Au Yémen, nous sommes dans une situation d'opposition entre les coalitions tribales du nord et celle du sud. De plus, dans le nord du pays, et à cheval sur la frontière de l'Arabie Saoudite, la minorité chiite en rébellion ouverte depuis des années constitue le fer de lance de la lutte armée contre le pouvoir d'Ali Abdullah Saleh qui gouverne depuis 1990.
- En Tunisie et en Egypte, nous avons assisté à des révolutions politiques bourgeoises et citadines dont le peuple a été largement absent, surtout en Egypte où les fellahs sont restés étrangers au mouvement. Si ces deux révolutions ont réussi ce fut en raison de l'affaiblissement de vieux dictateurs manipulés par leur entourage et abandonnés ou même trahis par le haut état-major militaire occidentalisé.
- En Algérie, les événements furent à la fois des mouvements sociaux et des émeutes de la faim. Le président Bouteflika, vieux chef malade, n'a cependant pas été renversé car le pays dispose de réserves lui permettant d'acheter la paix sociale et parce que la cleptocratie étatique militaire a serré les coudes.
- En Libye, et nous l'avons vu dans le numéro 15 de l'Afrique Réelle, l'origine des événements fut le soulèvement de la confédération tribale de Cyrénaïque contre celle de Tripolitaine. Il ne s'agit donc pas d'une révolution, mais d'une dissidence régionale qui aurait échoué sans l'intervention occidentale.

Bernard Lugan
L’afrique réelle
N°16 avril 2011


Voir aussi les articles de Polémia :

Libye, tribus et barbus : le « bobardement »... en attendant l'enlisement
« Aube de l'odyssée » contre la Libye : Grands Principes et jeux de dupes
Albanie : la dictature de la corruption, meilleur allié de l'islamisation
Le lotus et le jasmin sont-ils déjà fanés ?

Correspondance Polémia – 26/04/2011

jeudi, 05 mai 2011

L'Afrique face à l'Europe: du choc démographique au choc culturel

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L'Afrique face à l'Europe : du choc démographique au choc culturel

Communication de Jean-Yves Le Gallou, président de Polémia
Au Colloque de l’Institut de géopolitique des populations
sur : « Les prochaines guerres seront-elles démographiques ? » - 28 avril 2011

Ex: http://www.polemia.com/

Choc démographique

Un peu de géographie d’abord. Trois espaces doivent être distingués : –

L’Europe : elle a connu un baby-boom de 1945 à 1973 ; elle connaît un papy-boom aujourd’hui ; aucun pays n’y atteint plus, depuis de longues années, le taux de fécondité de 2,1 enfants par femme, nécessaire au simple renouvellement des générations.

– Le Maghreb : Maroc, Tunisie et Algérie ont connu un baby-boom jusque dans les années 1990 ; ils sont actuellement en situation de transition démographique, avec des taux de fécondité proches de 2. La proportion de jeunes actifs dans la population reste très forte.

En Algérie, 50% des 34 millions d’habitants ont moins de 25 ans. Au Maroc, 50% des 32 millions d’habitants ont moins de 27 ans. En Tunisie, 50% des 11 millions d’habitants ont moins de 30 ans. Il y a donc là les conditions démographiques de ce qu’Alfred Sauvy a appelé, dans un livre célèbre, « La Révolte des jeunes » – un élément majeur d’explication de ce que les grands médias ont baptisé les « révolutions arabes » et qui jusqu’ici n’ont été en fait que des révoltes déstabilisatrices.

Ainsi de la Tunisie, pays du Maghreb le plus développé, où le taux de chômage va passer, de 2010 à 2011, de 11% à 17%, selon le ministre tunisien de l’emploi – avec les conséquences que l’on constate de Lampedusa à Vintimille sur les flux migratoires.

– L’Afrique : la fécondité subsaharienne reste la plus élevée de la planète ; encore de 6,2 enfants par femme en 1990, elle a été ramenée en 2008 à 4.9 enfants par femme.

Le nombre des naissances de l’Afrique subsaharienne qui, en 1950, était encore comparable à celui de l’Union européenne dans ses limites actuelles, lui est aujourd’hui près de 7 fois supérieur : tous les ans, 33 millions de naissances contre 5 millions, selon les travaux de Philippe Bourcier de Carbon.

Les flux d’immigrants (réguliers et irréguliers) dans les pays de l’Union européenne en provenance de l’Afrique subsaharienne sont aujourd’hui essentiellement composés de jeunes adultes âgés de 20 à 40 ans et plus de 40% de ces flux sont désormais constitués de jeunes femmes de ces tranches d’âge. Les effectifs de ces jeunes adultes âgés de 20 à 40 ans sont donc appelés à doubler d’ici à 2040 en Afrique subsaharienne, passant de 250 millions à 500 millions en trente ans. Cela signifie – toutes choses égales par ailleurs, en particulier si la probabilité d’émigrer dans l’Union reste ce qu’elle est aujourd’hui – que la pression migratoire des jeunes adultes en provenance de l’Afrique subsaharienne sur les frontières de l’Union est appelée à doubler au cours des trois prochaines décennies.

Ce face-à-face de l’Europe (y compris la Fédération de Russie) ou de l’Union européenne avec l’Afrique subsaharienne peut donc se résumer ainsi en ce début du XXIe siècle :

  • – La zone la plus urbaine de la planète fait à présent face à la zone la plus rurale ;
  • – La zone la plus riche de la planète fait à présent face à la zone la plus pauvre ;
  • – La zone la plus stérile de la planète fait à présent face à la zone la plus féconde ;
  • – La zone où la vie est la plus longue fait à présent face à celle où elle est la plus courte ;
  • – La zone la plus âgée de la planète fait à présent face à celle où elle est la plus jeune ;
  • – La zone où le nombre des décès excède celui des naissances fait face à celle où la croissance naturelle de la population est la plus rapide.

Le constat d’échec des politiques migratoires

Depuis les années 1960, la France, la Grande-Bretagne, l’Allemagne et le Benelux subissent des vagues migratoires : de travail pour faire baisser les salaires, familiales pour des raisons « humanitaires ».

Au cours de la dernière décennie, ces migrations se sont amplifiées :

  • – tous les pays de l’Europe à quinze sont désormais concernés : les pays scandinaves et l’Irlande, au nord ; l’Italie, l’Espagne, le Portugal et la Grèce, au sud ;
  • – les mouvements d’entrées se sont accrus : 500 000 étrangers ont été régularisés en Espagne en 2005 ; de 500 000 à 800 000 en Italie depuis 2008 ; en Grande-Bretagne le solde migratoire de 1997 à 2009 s’est élevé à 2,2 millions de personnes, selon le premier ministre David Cameron ; en France, c’est plus de 1,5 million de personnes qui sont entrées de 2002 à 2010.

Dans le même temps les politiques suivies à l’égard des populations immigrées ne donnent pas les résultats attendus : qu’il s’agisse du multiculturalisme assumé de la Grande-Bretagne et des Pays-Bas, ou de l’assimilation/intégration à la française, l’échec est au rendez-vous. Et il est constaté par les principaux acteurs qui ont conduit ces politiques.

Angela Merkel a déclaré à Potsdam le 16 octobre 2010 devant les jeunes militants de la CDU et de la CSU : « L’instauration d’une société multiculturelle, où chacun prendrait plaisir à vivre côte à côte, a fait faillite. » « Nous nous sentons liés aux valeurs chrétiennes. Celui qui n’accepte pas cela n’a pas sa place ici », ajoutait-elle. La veille, le dirigeant des conservateurs bavarois, Horst Seehofer, avait lancé : « Le Multikulti est mort »

Le premier ministre belge Yves Leterme a suivi ses collègues allemands en affirmant sur RTL Belgique : « Mme Merkel a raison, en ce sens que les politiques d'intégration n'ont pas toujours eu les effets bénéfiques qu'on attendait d'elles. »

Le 5 février 2011, David Cameron, s'exprimant devant la 47e Conférence sur la sécurité, a dénoncé le multiculturalisme tel que l'a pratiqué le Royaume-Uni : « Le multiculturalisme a conduit à ce que des communautés vivent isolées les unes des autres. Ces sociétés parallèles ne se développent pas selon nos valeurs. Nous ne leur avons pas donné une vision de ce qu'est notre société. »

Vendredi 15 avril 2011, c’est au tour du ministre de l’Intérieur français Claude Guéant d’affirmer : « L’intégration est en panne » – une opinion partagée par 76% des Français qui, selon un sondage Harris interactive du 20 avril 2011, estiment que « les étrangers ne font pas suffisamment d’efforts pour s’intégrer ».

Certes, l’analyse n’est pas nouvelle : les plus lucides l’avaient déjà fait depuis… trente ans. Ce qui est nouveau, c’est que le constat émane des hommes au pouvoir, de ceux qui servent la superclasse mondiale (SCM) et dont les politiques ont consisté à promouvoir la mondialisation.

Dans la revue Le Débat de mars–avril 2011, l’essayiste André Grejbine commente ainsi la montée, à ses yeux parallèle, de l’islamisme et du populisme en Europe : « Derrière les beaux discours sur le dialogue des civilisations et la diversité des cultures, c’est un engrenage de ressentiment et de rejet réciproque qui se développe. » C’est reconnaître le choc des cultures.

Minorités visibles, minorités qui se rendent visibles

Les Américains ont créé dans les années 1960 la notion de minorités visibles pour qualifier des populations qui, même lorsqu’elles sont intégrées, apparaissent visiblement différentes : c’est le cas des Afro-Américains aux Etats-Unis ou, en France, des Antillais.

Mais en Europe, on a assisté à un phénomène différent, celui de minorités se rendant visibles, c'est-à-dire de Turcs et de Maghrébins, hommes pourtant de race blanche mais choisissant d’accentuer leurs différences par rapport aux populations d’accueil par leurs comportements et leurs exigences, tels que le voile islamique, les interdits alimentaires, les revendications religieuses ou simplement culturelles.

Choc culturel

Le choc culturel prend des formes multiples tant en raison des différences d’origine des cultures et des civilisations que des différences d’évolution historique et sociologique des sociétés.

Orient versus Occident

La fracture entre l’Orient et l’Occident est aussi profonde qu’ancienne : elle remonte aux guerres Médiques et aux guerres Puniques. Elle oppose la personne aux masses, les libertés individuelles à la soumission collective. Cette opposition se retrouve dans l’Empire romain avec la victoire de l’Occident à Actium puis la division du IIIe siècle entre Empire d’Orient et Empire d’Occident.

Islam versus Europe

L’opposition entre l’Islam et l’Europe est une structuration géopolitique majeure de l’espace euro-méditerranéen. Elle s’étend sur douze siècles : de la bataille de Covadonga (722) à la libération de la Grèce (1822/1832). Mais plus encore qu’un choc militaire, c’est un choc de mentalités : l’Islam, c’est la « soumission », l’Europe, c’est l’exercice du libre-arbitre et de la liberté. La théorie des trois « religions monothéistes » dont les sources seraient identiques fait l’impasse sur l’hellénisation et l’européanisation du christianisme.

Les différences entre l’Islam et l’Europe sont nombreuses et majeures :

  • - dans la relation avec le divin ;
  • - dans la séparation, d’un côté, la soumission, de l’autre, entre le domaine de Dieu et celui de César ;
  • - dans la représentation de la figure divine et de la figure humaine ;
  • - dans la conception et la représentation de la femme ;
  • - dans le lien avec la nature ;
  • - dans l’existence ou non d’une multitude d’interdits ;
  • - dans les pratiques et les rituels alimentaires ;
  • - dans les configurations architecturales.

Société intolérante versus société tolérante

L’Europe – et singulièrement l’Europe moderne – s’est construite autour de la liberté d’expression. L’Islam n’admet ni l’étude critique de l’histoire du prophète, ni la représentation de Mahomet (sauf chez les Persans). L’Islam exige l’application de lois sur le blasphème, ce qui heurte profondément la sensibilité européenne, comme l’a montré l’affaire des caricatures danoises de Mahomet.

Plus gravement, il est difficile de faire cohabiter sur le même sol une culture de la tolérance et une culture de l’intolérance :

  • - Que certaines femmes puissent porter le voile islamique, pourquoi pas ? Mais quand dans un quartier une majorité de femmes porte le voile islamique, il est très difficile pour les autres de ne pas en faire autant, sauf à accepter de passer pour des proies ;
  • - Que des musulmans veuillent faire ramadan, c’est leur choix ; que ceux qui veulent s’en abstenir y soient contraints, c’est insupportable ;
  • - Que des musulmans veuillent manger halal, pourquoi pas ? Mais que de plus en plus de non-musulmans soient contraints d’en faire autant, ce n’est pas acceptable ;
  • - Qu’il y ait des mariages mixtes (au regard de la religion ou de la culture), pourquoi pas ? Mais comment trouver normal que la conversion s’opère systématiquement dans le même sens, c'est-à-dire vers l’Islam ?

En fait, les relations entre une culture tolérante et une culture intolérante sont dissymétriques : car la culture intolérante finit par imposer ses règles à la culture tolérante. C’est la négation de la règle de réciprocité.

Il est d’ailleurs significatif de voir les nations européennes et chrétiennes poussées à abandonner leurs repères symboliques : crèches de Noël, œufs de Pâques, fêtes du cochon.

Afrique versus Europe : société individualiste/rationaliste versus société instinctive et tribale

Une partie des Africains noirs sont musulmans. Mais, indépendamment de leur religion – musulmane, catholique ou pentecôtiste – les Africains noirs ont généralement un rapport au monde différent de celui du rapport européen. Le collectif y pèse plus que l’individuel. Le froid rationalisme y joue un rôle moins important. Il ne s’agit pas ici de dire où est le bien, où est le mal, mais de souligner des différences de comportement qui pèsent dans la vie collective, la capacité de développement économique et la vitalité démographique.

D’autres distinctions méritent d’être abordées : indépendamment de leurs constructions mythologiques et de leur histoire, les sociétés musulmanes et africaines d’un côté, européennes de l’autre sont à des stades différents de leur évolution.

Société traditionnelle versus modernité

Depuis le XVIIIe siècle, l’Europe est entrée dans une modernité individualiste. Pour le meilleur et pour le pire. Les sociétés africaines et musulmanes – même si elles sont touchées par la modernité, surtout lorsqu’elles sont transposées en Occident – sont restées davantage holistes et traditionnelles : le salut collectif, l’attachement à la lignée, le respect des valeurs ancestrales, le maintien de codes d’honneur y jouent encore un rôle important. Or ce qui peut paraître « archaïque » à l’Européen moderniste peut être un avantage évolutif dans la compétition entre sociétés ; c’est incontestablement le cas en termes d’expansion démographique.

Droit du sol versus droit du sang

Dans leur logique « d’intégration » des immigrés, les pays européens ont tous adopté le droit du sol ou le double droit du sol. Né en Europe, l’enfant d’immigrés a donc juridiquement vocation à acquérir la nationalité du pays de son lieu de naissance. Mais cela ne l’empêche pas, lui et ses descendants, de garder la nationalité de ses pères. En terre d’Islam, nationalité et religion sont liées : acquérir la nationalité du pays d’accueil ne dispense pas de conserver la nationalité du pays d’origine, qui est irrévocable, tout comme l’apostasie est impossible. D’où l’explosion dans tous les pays européens de doubles nationaux pratiquant la double allégeance (dans le meilleur des cas !)

Société individualiste versus société communautaire

En premier lieu, l’Occidental individualiste a placé au sommet de ses valeurs : « le droit de l’enfant ». C’est au nom du droit de l’enfant (et de son intérêt supposé) que les jurisprudences européennes – et singulièrement les jurisprudences françaises – ont imposé le regroupement familial dans le pays d’accueil et non dans le pays d’origine. En France, en 1978, c’est le Conseil d’Etat, par l’arrêt GISTI, qui décide que « Les étrangers qui résident régulièrement en France ont le droit de mener une vie familiale normale, et en particulier celui de faire venir leur conjoint et leur enfant mineur. » C’est ainsi une interprétation individualiste de textes généraux qui prévaut.

En second lieu, c’est la même logique qui prévaut pour le mariage. Au nom du « mariage d’amour » entre deux individus, on autorise le déplacement de blocs de population. Deux grandes catégories de cas sont ici à distinguer :

  • - l’étranger qui cherche à venir en France ou bien le clandestin déjà présent sur le territoire qui veut obtenir une régularisation peuvent recourir à la voie du mariage : mariage arrangé, mariage gris ou simple escroquerie sentimentale ; les bénéficiaires en sont souvent des hommes jeunes ;
  • - l’immigré de deuxième génération, français au regard de la nationalité plus qu’au regard de la culture, qui veut se marier au « bled », c'est-à-dire dans le pays d’origine de sa famille ; il s’agit généralement de jeunes hommes qui se marient avec des filles du pays réputées plus respectueuses des mœurs traditionnelles ; cela concerne aussi des jeunes filles pas toujours mariées selon leur gré.

Ce comportement qui peut s’analyser comme un refus de l’intégration est un puissant facteur d’accélération de l’immigration. C’est là que se niche la cause majeure de l’immigration de peuplement subie par l’Europe : « l’immigration nuptiale ».

Société à famille nucléaire versus société à famille élargie

Les mentalités et le droit français s’inscrivent dans une vision nucléaire de la famille. Or les pays du sud de la Méditerranée ont une vision élargie de la famille. Il est encore normal de vivre avec sa belle-famille, d’où le regroupement familial des ascendants. Quant aux descendants, la vision est large : la jurisprudence française reconnaît la pratique de la Kafala (quasi-adoption) au moins pour les Algériens. Les Africains ont une conception souple de la parenté qui n’est pas uniquement biologique. D’où l’élargissement du regroupement familial aux bâtards et aux neveux (ce qu’aurait empêché le contrôle génétique) – regroupement familial d’autant plus facilement élargi que la qualité des états civils africains reste imparfaite… pendant que le système social français est généreux et donc incitatif à l’arrivée de nouveaux bénéficiaires.

Choix communautaires et cascades d’immigration…

L’immigration familiale a représenté 82 762 entrées régulières en 2009. Les dix premiers pays concernés étant l’Algérie, le Maroc, la Tunisie, la Turquie, le Cameroun, la Côte d’Ivoire, le Mali, le Sénégal, la Chine, le Congo (RDC).

La dynamique migratoire la plus commune est la suivante : un immigré de deuxième génération se marie avec quelqu’un de même origine que lui – un phénomène en voie d’accélération rapide : il y a eu 23 546 transcriptions d’actes de mariage établis par les postes français à l’étranger en 1995, 48 301, soit plus du double, en 2009. Le nouveau, plus souvent la nouvelle mariée rejoint ensuite la France, ce qui peut lui permettre d’acquérir la nationalité française et de faire venir des membres de sa famille.

Par ailleurs, ces arrivées concernent des jeunes femmes en âge d’être fécondes et dont le taux de fécondité en France est supérieur à celui des femmes nées en France, bien sûr, mais aussi à celui des femmes étrangères restées à l’étranger. Il y a donc un effet multiplicateur des populations immigrées. En 2009, d’après les chiffres du Haut Conseil à l’intégration, 7,0% des naissances provenaient de deux parents étrangers, 13,1% d’un parent français et d’un parent étranger : une « nuptialité mixte » au regard de la nationalité mais rarement mixte au regard de l’origine et de la culture. A ces naissances il faudrait ajouter les naissances d’enfants d’immigrés de la deuxième génération pour pleinement mesurer ce qui est en train de se passer en termes de substitution, au moins partielle, de population.

Quelles solutions ?

Nous sommes en face d’un choc démographique doublé d’un choc de civilisations. Un choc de civilisations qui se passe à l’intérieur des frontières des Etats. Les solutions ne sont pas techniques. Elles sont tributaires des valeurs dominantes. Plus précisément, les solutions supposent un changement radical des dogmes dominants tels qu’ils sont imposés par la superclasse mondiale à travers les médias.

Préférence de civilisation versus Big Other

L’écrivain Jean Raspail a remarquablement résumé l’idéologie dominante de l’Europe : Big Other, ce qui revient à placer l’autre – sa religion, ses mœurs, ses pratiques – au-dessus de tout. Là est la source de la formidable asymétrie dont les peuples européens souffrent. Changer, c’est revenir à la préférence de civilisation ; à la préférence pour sa civilisation ; soit parce que nous la trouvons meilleure dans l’absolu, soit tout simplement, dans une perspective plus relativiste, parce qu’elle est la nôtre. Il ne s’agit pas de haïr l’autre mais d’en finir avec la haine de soi. Il s’agit de cesser d’opposer une société innocente (celle des immigrés) à des nations européennes coupables.

Droit à la défense des libertés individuelles

Nous vivons une époque où ce n’est pas la majorité qui opprime les minorités mais des minorités communautaristes qui prétendent imposer leurs lois à la majorité. Les libertés individuelles sont au cœur de la civilisation européenne : liberté d’expression, liberté de recherche, liberté de débat, liberté de circulation, liberté de consommer, liberté de s’habiller, liberté d’ignorer le licite et l’illicite des autres, liberté de boire de l’alcool et de manger du cochon, y compris dans les transports et les cantines. Lorsque des libertés sont menacées, elles doivent être défendues. Rappelons-nous la phrase de Royer-Collard : « Les libertés ne sont pas autre chose que des résistances. »

Droit à la défense des libertés collectives

Mais ces libertés individuelles sont inséparables des libertés collectives. Sans défense des libertés collectives aujourd’hui, sans défense du modèle de civilisation européenne, il n’y aura pas de libertés individuelles demain. Les nations européennes doivent donc réaffirmer – y compris dans leur Constitution comme viennent de le faire les Hongrois – leur droit à l’identité, leur droit à des frontières, leur droit à rester eux-mêmes.

Droit à l’identité des peuples versus droit des individus à immigrer

Allons plus loin : face au choc démographique et au choc migratoire, il faut mettre en œuvre le principe de précaution, et bloquer toute immigration en provenance de pays dont beaucoup de ressortissants – même de nationalité française – sont peu ou pas assimilés. Ici le droit collectif à l’identité des peuples doit l’emporter sur le droit des individus à immigrer.

Le populisme contre le putsch des médias et des juges

En matière d’immigration (et de politique familiale), le pouvoir n’appartient plus aux hommes politiques. Il appartient aux médias et aux juges : au tribunal médiatique qui fixe les limites du licite et de l’illicite dans les discours ; aux cours internationales et aux cours suprêmes qui interprètent les principes fondamentaux des droits de l’homme à leur manière : pour le droit des étrangers contre le droit des peuples ; pour le politiquement correct contre les libertés individuelles. Mais partout en Europe de puissants courants populistes s’expriment. Ils demandent un retour aux frontières car ils savent que le sort de la civilisation européenne ne se joue pas à Benghazi mais à Lampedusa.

Jean-Yves Le Gallou
Polémia
28/04/2011

Texte en PDF cliquer ici

Voir aussi les articles Polémia :

Une lecture très protectrice des droits des étrangers par les juridictions françaises restreignant les possibilités de réaction du gouvernement face à la pression migratoire accrue à laquelle est confronté notre pays 
« Eloge des frontières », de Régis Debray 
L'immigration par escroquerie sentimentale
L'immigration noire africaine : un phénomène qui s'amplifie
L'Implosion démographique européenne face à l'explosion démographique africaine : l'Afrique déborde-t-elle sur l'Europe ?

et

Rapport au Parlement sur les orientations de la politique d’immigration et d’intégration (année 2009) 

Image : démographie en Afrique

 

Jean-Yves Le Gallou

mercredi, 13 avril 2011

CIA-Rebellen in Libyen

CIA-Rebellen in Libyen: Dieselben Terroristen, die im Irak NATO- und US-Soldaten ermordet haben

Webster G. Tarpley

West-Point Studie von 2007 ergab: Die Region Benghasi-Darnah-Tobruk ist weltweit führend im Rekrutieren von Al-Kaida-Selbstmordattentätern.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/webster-g-tarpley/cia-rebellen-in-libyen-dieselben-terroristen-die-im-irak-nato-und-us-soldaten-ermordet-haben.html

mardi, 12 avril 2011

Ramdam aux Barbaresques

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Ramdam aux Barbaresques

par Robert MASSIS

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/


Ce qui est effarant dans notre monde orwelien c’est l’uniformité dont on sait, depuis Talleyrand, qu’il engendre l’ennui. Les médias télévisuels et radiophoniques rivalisent de reportages sensationnalistes et nous montrent, qui une Tunisie en train d’accéder à une hypothétique démocratie à l’européenne, qui une Egypte peinant à extirper son épine moubaresque. Quand à la presse écrite elle nous gratifie à longueur de pages de doctes analyses expertologiques aussi mal inspirées les unes que les autres, toutes reposant implicitement sur un postulat semblable : la démocratie (forcément) émancipatrice comme condition du bonheur universel. Le discours est inlassablement le même, sans recul, ni profondeur de champ. Une actualité chassant l’autre, la Tunisie est un temps relégué aux oubliettes des pyramides égyptiennes alors que la Côte d’Ivoire est traitée de façon simpliste comme la « Belgique » de l’Afrique noire.

Toute cette polyphonie bien orchestrée par ces belles et bonnes consciences progressistes souffle pourtant un vent d’irresponsabilité et d’inconséquences sur les braises d’agitations populaires enfiévrées peu ou prou révolutionnaires aux résultats inconnus. L’alibi facile de la conquête des droits civiques et politiques est un écran de fumée abondamment entretenu par un Occident à bout de souffle qui n’a rien d’autre à offrir que ses poussiéreuses chimères droit-de-l’hommardes et démocrasseuses. Mais la Tunisie, l’Egypte, demain, peut-être, l’Algérie ou la Libye, voire, après-demain, le Yémen, la Syrie ou la Jordanie, ne sont nullement comparables à cet Occident poussif qu’ils prennent compulsivement pour modèle, oasis idéalisé de l’hédonisme consumériste, comme si l’horizon des futurs était irrémédiablement bouché.
Mythe, illusion et décors en carton-pâte avant l’implacable et inéluctable retour à la réalité. Celle d’un islamisme qui ne cherche qu’à rejaillir, trop longtemps étouffé par une parenthèse laïque que la Turquie a expérimenté avant de commencer à s’en affranchir. En 2007, les élections législatives en Egypte ont vu grossir l’influence de la confrérie des Frères musulmans. Ce 31 janvier, la synagogue d’El Hamma, près de Gabès, dans le sud tunisien a été, par le fait de criminels, la proie des flammes et l’on se souvient qu’un acte terroriste avait frappé, il y a quelques années, une synagogue sur l’île de Djerba.


Ces mêmes islamistes qui, avec le concours masochiste de nos gouvernants, envoient, depuis trente ans leurs fantassins coloniser une Europe dont la trop longue dormition (terme que nous empruntons à l’historien Dominique Venner) depuis la fin de la guerre, entraîne aujourd’hui sa perdition identitaire et démographique. C’est précisément ce que refusent de voir nos observateurs de cette médiacratie arrogante et donneuse de leçons. Bercées par les sirènes du multiculturalisme, elles bernent les peuples. Les oligarchies qui se pressent déjà localement d’aller mendier les suffrages, avant la grande étreinte des présidentielles de 2012, tournent le dos à ces Raïs qu’ils soutenaient sans scrupules hier afin de permettre les transhumances low cost du tourisme de masse. Ces mêmes oligarques tournent encore le dos à cette funeste réalité qui se présente quotidiennement à nos regards, celle d’une islamisation rampante dont l’immigration n’est que le marchepied.


Abandonner les peuples du Maghreb à leur propre sort, au prétexte d’une improbable quête démocratique, est un impensé géopolitique explosif pour l’Europe et pour la France en particulier. Sans aller soutenir jusqu’à la mauvaise foi des régimes kleptocrates et corrompus, force est de constater que le despotisme éclairé est parfois préférable à de fausses démocraties comme les nôtres. En soutenant, par réflexe crypto-marxiste les libérations des peuples du joug de la tyrannie, l’Europe ne voit pas ou feint de ne pas voir les linéaments d’un islamisme qui se répand comme une traînée de poudre dans tous le Moyen et Proche Orient. Israël ne s’y trompe pas qui appelle à négocier avec le Hamas en vue d’endiguer la remise en cause de sa spécificité dans cette région du monde. Affaire à suivre…

Robert Massis