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jeudi, 16 octobre 2014

Julius Evola e la donna crudele

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Julius Evola e la donna crudele

Ex: http://romeocastiglione.wordpress.com

Si annida il mistero tra le impalcature dell’imponente opera evoliana Metafisica del sesso. Nei capitoli ammalianti è celato un particolare erotismo evocativo; le tematiche affrontate nel volume brillano di un’immortale e remota luce. L’archetipo femminile è denso di sacralità e spiritualità arcana. La donna è inquadrata in un’ottica tradizionale, ancestrale: è sospesa nella perenne immutabilità ed è legata in modo preponderante alla terra, alla luna, ai ritmi ciclici del mondo. È un libro spiazzante, intrigante, coinvolgente. Le righe si sovrappongono nell’immaginario. Julius Evola esalta l’aspetto segreto della femmina, il lato nero, demoniaco. Secondo l’autore la donna riesce a far coesistere dentro di sé la disposizione alla pietà e quella alla crudeltà. In virtù di ciò egli rielabora alcune convinzioni di Lombroso e Ferreno. Particolarmente pone all’attenzione un prototipo di femmina violenta e spietata; tale modello si esalta nelle rivoluzioni e nei linciaggi. L’autore argomenta le supposizioni e riporta i passaggi più improntati del volume lombrosiano La donna delinquente. Credo che sia di ausilio il lungometraggio Malena: le donne del paese si accaniscono con perfida violenza sulla bellissima protagonista del film. La sfigurano pubblicamente. È un atto di giustizia sommaria. Malena abbatte i tabù. Di conseguenza provoca un’invidia assurda. È l’altra faccia della medaglia; rappresenta l’evasione. E deve essere distrutta.

Le donne crudeli di Tornatore sono simili alla perfida Emma Smael del lungometraggio Johnny Guitar di Nicholas Ray. Come il fuoco Emma Smael avvampa la nuda pelle. Ella sprigiona nell’atmosfera un aroma tragico intriso di dolore; ha un carisma esasperato, uno charme lugubre e impersonale. Porta i segni della rabbia oscura e antisolare. È vestita di nero, non cura il suo corpo. All’apparenza è un essere insignificante e indesiderabile. Ma sotto la scorza alberga un’anima inquieta, crudele, mesta. Luccica di cattiva luce quest’antieroina lunare. Emma fomenta il popolo, aizza le masse. Combatte la crociato contro i diversi, i forestieri, i fuorilegge. È puritana: disprezza le tentazioni dei sensi. Nello stesso tempo desidera ardentemente il bandito Ballerino Kid. Nel suo corpo si affrontano gli istinti contrastanti. Questa donna vorrebbe addirittura uccidere la sua segreta passione per far allontanare i bollenti spiriti. «Desideri Kid, ti vergogni e vorresti vederlo impiccato». Ribecca così Vienna, la nemica acerrima, la rivale assoluta.

Evola tenta di mettere insieme come un puzzle i richiami evocativi. In modo particolare è dedicato alla crudeltà della donna un intero capitolo. Così denocciola una carrellata di aneddoti storici: si sovrappongono le saghe della Tradizione. I persiani intravidero nell’universo femminile una particolare dualità. Fuoco e neve, durezze e dolcezza formano la donna. Ebbene sorge un collegamento tra crudeltà e sessualità: il tipo della baccante e della mènade è un esempio lampante. Nelle pieghe affiora un prototipo femminile afroditico ambiguo. La Dolores di Swinburne, la cosiddetta Nostra signora dello Spasimo è il vessillo del peccato, del piacere, della perdizione, della crudeltà latente. E il filosofo coglie alcune sottili sfumature. Ridisegna l’eroina Mimi della Boheme di Murger in un modo diverso; in sostanza inquadra la ragazza in una dimensione perfino “brutale e selvaggia”.

Ebbene il fascino muliebre è associato alla magia e alla stregoneria. Circe, Calipso e Brunhilde rappresentano l’esasperazione, l’estremizzazione, l’attrazione malefica. Tale tipologia di donna attrae l’uomo come una calamita famelica; la fascinazione è gravida di richiami alla negromanzia, all’occultismo. È la lagnanza della terra, lo spirito del peccato, la rottura. Perfino Ulisse è incantato dalle sirene: ascolta l’eco d’estasi legato a un palo. È una lotta tra il bene e il male. Anche il valoroso Gerardo Satriano nel romanzo L’eredità della priora è sedotto dalle fattucchiere lucane. Smarrisce la concezione del tempo e annulla la sua individualità. Così come perde la cognizione del tempo il giudice salentino protagonista del film Galantuomini di Winspeare. L’uomo prova una strana attrazione nei confronti di una donna legata al mondo della malavita. Per tale ragione perde tutte le certezze e confonde il bene e il male.

La letteratura, la poesia e il cinema hanno esaltato diverse volte le donne crudeli, in altre parole quelle dotate di un fascino antisolare, demoniaco. Per alcune strane similitudini elogio Giulia Venere, la domestica del libro Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Leggo, annoto i passi del racconto. Ed elaboro il pensiero. Penso che sia un accostamento intrigante; tramite poche righe il lettore è catapultato in un anfratto antimoderno. «Giulia era una donna alta e formosa – scrive Levi – doveva aver avuto, nella gioventù una specie di barbara e solenne bellezza. Il viso era ormai rugoso per gli anni e giallo per la malaria, ma restavano i segni dell’antica venusità nella sua struttura severa, come nei muri di un tempio classico, che ha perso i marmi che l’adornavano, ma conserva intatta la forma e le proporzioni. […] Questo viso aveva un fortissimo carattere arcaico, non nel senso del classico greco, né nel romano, ma di una antichità misteriosa e crudele, cresciuta sempre sulla stessa terra senza rapporti e mistioni con gli uomini, ma legata alla zolla e alle eterne divinità animali. Vi si vedevano una fredda sensualità, una oscura ironia, una crudeltà naturale, una protervia impenetrabile e una passività piena di potenza che si legavano in un’espressione insieme severa, intelligente, malvagia». Con molta probabilità anche Levi ha subìto il fascino distruttivo della maga lucana. Emerge un ritratto sensuale, erotico, spietato.

Tale donna è un archetipo, un modello evoliano. Il filosofo della tradizione nella sua Metafisica del sesso rimarca gli oscuri aspetti. E appare con prepotenza la “dimensione fredda” evocata perfino da uno scrittore progressista come Carlo Levi. «È questa la dimensione fredda della donna – scrive Evola – quale incarnazione terrestre della Vergine, di Durgâ e in quanto essere yin. […] Che la donna sia connessa più dell’uomo alla terra, all’elemento cosmico – naturale è cosa dimostrata. […] Ma nell’antichità questa connessione si riferiva piuttosto all’aspetto yin della natura, dal dominio sovrasensibile notturno e inconscio, irrazionale e abissale, delle forze vitali. Di qui, nella donna certe disposizioni veggenti e magiche in senso stretto».

Nella rappresentazione cinematografica del libro Irene Papas veste i panni di Giulia. Avvertiamo nelle pieghe delle scene un velato erotismo colmo di allusioni estatiche. La donna nasconde il suo copro con le vesti. Soltanto i piedi sono scoperti: pertanto codesta forma di pudore primordiale si differenzia da quello delle donne orientali. Le cinesi considerano i piedi l’elemento primitivo da nascondere; le arabe, invece, coprono la bocca. E Giulia cammina scalza fra le macerie derelitte. In uno spezzone lascia intravedere una gamba nuda; la copre subito con un’aria sensuale. Magnetizza così l’uomo. Quest’ultimo è attratto dal gesto insolito della megera, dai movimenti furtivi, dal sensualismo impersonale. Proprio Evola dedica al pudore taluni passaggi coinvolgenti. «Si sa fin troppo bene quanto spesso la donna usa le vesti per produrre un maggior effetto eccitante allusivo alle promesse della sua nudità. Montaigne ebbe a scrivere che ci sono cose che si nascondono per meglio mostrarle».  Giulia Venere si è cristallizzata nelle sembianze di Irene Papas ed è difficile scindere le due figure. Il gesto insolito dell’attrice greca è un frammento penetrante e ipnotico. Con pochissime e calde movenze è riuscita a descrivere i sentieri tracciati nel libro evoliano.

mardi, 14 octobre 2014

L’uomo come potenza

L’uomo come potenza

Ex: http://romeocastiglione.wordpress.com

L'uomo-come-potenza-Evola

Sfoglio con calma le pagine del libro L’uomo come potenza di Julius Evola. Tolgo i petali di una malefica rosa e lascio cadere sul pavimento infiniti aneliti di spasimo. Leggo, rifletto. Dinanzi a me compare una realtà incontaminata: accolgo in silenzio la magia dei Tantra. E soffermo il mio sguardo su un rigo ipnotico. «Evocare una immagine. Fissarvisi, perdersi, per così dire in essa. Bruscamente, sostituirla con un’altra». Chiudo gli occhi e vedo con la mente una ragazza in una stanza. La luce penetra attraverso i buchi delle persiane. È un pomeriggio estivo. Avverto un desiderio di distruzione; l’Inquietudine assale il mio corpo. Così cambio figurazione. Sorge all’improvviso un oceano di ghiaccio. Non si avverte nessun rumore. Il desiderio è atrofizzato. È fuggita la sofferenza.

Resto attonito. Ebbene rileggo il testo altre volte. Sottolineo, scopro. Tra le mani ho un dardo infuocato. E questo idealismo magico è paurosamente meraviglioso: è la vittoria totale dell’individuo. È il superamento dell’idealismo hegeliano. È l’abbraccio mortale del romanticismo tedesco di Novalis e Fichte con il metallico pensiero di Nietzsche. È la negazione della dualità cristiana; conseguenzialmente è il rifiuto del rapporto di dipendenza tra l’Individuo e il Dio trascendente ritenuto fondamentale da Schleiermacher. L’Io è il signore assoluto.

L’uomo come potenza raccoglie nelle pagine l’impetuosa unione della migliore filosofia occidentale con le dottrine orientali. Evola porta all’attenzione del lettore un Oriente remoto e distante dagli stereotipi. Con codesto saggio è stata confutata la distinzione tra i due poli. Non alberga certamente in questo luogo l’Oriente del buddismo arcano e delle primordiali Upanishad. Non occorre fuggire dal mondo; bensì bisogna dominarlo. Proprio per siffatto motivo l’autore ha esaltato il sistema tantrico, in altre parole il sistema orientale con più assonanze con lo spirito del moderno occidente. Nell’età buia, nell’epoca del Kali Yuga non c’è spazio per la conoscenza: soltanto la potenza brutale libera l’individuo.

Quindi è possibile dominare il mondo tramite la potenza liberatrice. L’Io deve diventare un Dio. Propriamente occorre recuperare l’immensa e grandiosa signoria di sé. L’individuo è sovrano ed è una “super monade”. La via dell’azione è salvifica. L’individuo è come un nero cavallo demoniaco libero dai lacci e dalle leggi morali. È il nero cavallo dell’auriga di Platone; è il dionisiaco puledro dalle sembianze tenebrose. È il sole, è la potenza distruttiva. Agire unicamente per l’azione è l’obiettivo. Di conseguenza si oltrepassa la soglia del bene e del male. Non c’è più il bene, non c’è più il male. L’individuo decide ciò che è bene e ciò è male. «Non si tratta cioè – dice Evola – né di violare le leggi, né di conformarvisi, bensì di elevarsi al livello di ciò per cui ogni legge e condizione non ha senso alcuno». Orbene le cupe e ipnotiche parole sembrano vampe immaginifiche. Cerca Dio chi è debole. L’individuo che cerca la libertà diventa Dio.

Proprio con la pratica dei Tantra (precisamente del ҫakti – tantra) l’individuo si libera nel mondo. La potenza divina proietta lungo un avvallamento magico. La naturale realizzazione di sé trova la sua suprema origine nel principio femminile della Shakti. Pertanto lo shaktismo mantiene talune importantissime attinenze con gli antichi culti del mondo mediterraneo pelasgico. Kali è una dea nera e nuda. La sua sagoma sprigiona una mistica sessualità intrisa di disintegrazione; ed è nera anche la Diana d’Efeso. Così come la Madonna Nera del Tindari in Sicilia. Tramite i Tantra è possibile affermare la priorità della potenza sull’esistenza. Al Principio c’è un potere e l’essere è subordinato a esso. Nella scala gerarchica tutti gli esseri vengono dopo e anche Dio viene dopo. Allora la potenza è libera e non è soggetta alle leggi razionali e a quelle morali. In pratica non ha un Dharma, un ordine più su di lei. Con il mondo c’è un rapporto di potenza e la potenza è soltanto la manifestazione. La potenza in azione è la coincidenza del desiderio e della liberazione. Proprio il mondo è il luogo materiale della liberazione. Insomma, bisogna porsi «faccia a faccia con la legge, resisterle e non esserne spezzati ma dominarla e spezzarla; osare di strappar via i veli con la realtà originaria e prudentemente coperta, osare di trascendere la forma per mettersi a contatto con l’atrocità originaria di un mondo in cui bene e male, divino e umano, giusto e ingiusto non hanno alcun senso. […] Ostacoli uno solo: paura. È una lotta terribile. Vi può essere vittoria e vi può essere catastrofe». L’autore individua nei Tantra un titanismo indomito e velato di allusioni nietzschiane. Evola rivendica la possibilità di «poter vivere tragicamente».

Bisogna mantenere la schiena dritta fino al momento di lasciare sé. Per farlo serve la potenza di distrazione, la rinuncia, l’auto crudeltà, la durezza, e la pratica occulta. Per di più bisogna essere coerenti e lineari. Il pentimento è vietato: non esiste alcun rimorso. Una “colpa” voluta non è una reale colpa. È necessario evitare il piacere; in linea di massima la strada maestra è quella della maggior resistenza. Non bisogna giustificare le proprie azioni. Non sussiste la condotta morale: soltanto nel dualismo la morale ha un’importanza. Per il superamento dei paҫa, in altre parole dei legami affettivi è fondamentale mantenere una dura condotta. La pietà, la delusione, il peccato, il disgusto, la famiglia e le convenzioni non hanno alcun valore. È una lotta atroce. Spunta tra i riflessi dell’opera un crepuscolare catastrofismo. Si dipanano le tenebre della perversa realtà. L’Individuo sfida il Dharma, il cosmos. Raccoglie dentro di sé il caos e sprigiona la volontà di potenza. Si arrampica a mani nude sopra una rocciosa parete; il senso di vertigine minaccia la stabilità. Sotto c’è il vuoto. Egli può soltanto andare avanti. Le pietre si sbriciolano intorno a lui. Soltanto in cima c’è la libertà.

In pratica nel volume il tantrismo è spiegato alla stregua di una “scienza positiva”. E l’idealismo magico di Evola è un frullato robusto e ammaliante. Nell’idealismo di Evola, in altre parole nell’idealismo “magico” l’Io si mette in rapporto diretto con le cose. Supera così la conciliazione astratta di spirito e mondo, di soggetto e oggetto figurata da Hegel. Codesto idealismo trae linfa da Novalis: il pensatore romano, in un certo senso, enfatizza ancor di più l’individuo. L’uomo come potenza rientra nel novero delle opere evoliane a carattere filosofico speculativo. L’autore con la successiva Teoria dell’individuo assoluto esaspera ulteriormente la “tragica dimensione dell’esistenza”. Il Superuomo di Nietzsche è oltrepassato sul filo del rasoio. La potentissima “vettura” evoliana percorre una strada stregata. Il singolo sceglie un eccezionalissimo percorso e procede a velocità elevate. Pertanto il poetico “solipsismo” non incute nessun timore. L’individuo assoluto determina ciò che è vero e ciò che è falso. Pare Humpty Dumpty, il personaggio ideato da Lewis Carroll che incontra Alice; Humpty cambia dispoticamente il significato delle parole poiché si sente un padrone. E nell’epoca della dissoluzione, nell’ultima epoca il corpo cerca la sua liberazione. Non è più il tempo della conoscenza. L’ascetismo non alberga fra le righe del libro. Ebbene non subire il fascino distruttivo del volume equivale a non scottarsi i piedi sui carboni ardenti: è impossibile. Di là dai Tantra è possibile scorgere un codice crittografato dal sapore robusto. L’uomo come potenza potrebbe diventare una sorta di nuovo “manuale di sopravvivenza” per gli uomini estranei al proprio tempo. Ma è un manuale algido, rigido, severo. È la vittoria di Dioniso è la consequenziale sconfitta di Apollo; è la vittoria del disordine sull’ordine morale devastatore della potenza dell’individuo. Dopo aver letto L’uomo come potenza il mondo non sarà più lo stesso e i problemi saranno analizzati con distacco. È un libro per pochi eletti. È un libro elegantemente antidemocratico.

E nei nostri giorni esiste l’individuo assoluto. Ad esempio le frange estreme del pianeta ultras corrono lungo una linea invisibile e peccaminosa. Nel cinema ho ritrovato diverse volte tale figura. Il Principe del film Ultrà è un individuo assoluto; così come Jena Plissken di Fuga da New York. È un individuo assoluto Saverio lo skinhead del lungometraggio Teste Rasate. Ebbene anche il generale Kurtz di Apocalypse Now è un individuo assoluto. Chi domina il mondo e chi non riconosce le leggi morali è un Dio. È un Dio chi obbedisce soltanto a sé stesso. Oggi codesti pensieri fanno male. Pesano come frammenti di roccia gravidi di rabbia.

dimanche, 12 octobre 2014

Il sapere tradizionale di Evola e la scienza ermetica di Hegel

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Il sapere tradizionale di Evola e la scienza ermetica di Hegel

Il sapere tradizionale di Evola e la scienza ermetica di Hegel

Giandomenico Casalino

Ex: http://www.ereticamente.net

La comparazione di natura filosofica tra Julius Evola e Giorgio F. G. Hegel, pensatori di natura sapienziale tanto lontani nel tempo e, quindi, apparentemente, così differenti, sia nel lessico da loro adottato che in relazione al contesto storico-culturale in cui hanno vissuto ed operato, impone rigorosamente la ricerca di ciò che realmente abbia significato per gli stessi la Cosa del pensiero, l’oggetto di cui e su cui hanno tematizzato, al di là delle modalità e cioè delle divergenze attraverso le quali, tutto ciò, loro malgrado, si è espresso. Quindi il lavoro deve essere caratterizzato da un approccio di natura ermeneutica, che privilegi non tanto la dimensione filologica quanto quella teoretica che, data la sua natura, abbia l’ambizione di varcare i limiti del tempo e delle stagioni culturali e, per dirla con il Kerenyi, entri in Idea nel cuore del Pensiero, che, nella sua inten­zionalità, li ha guidati nel percorso dello Spirito. Quanto dedotto vuol significare che, come intorno ad Evola il discorso deve superare la “vulgata” del suo preteso “abbandono” della Filosofia, con la co­siddetta “chiusura” del periodo ad essa dedicato e l’ “apertura” nei confronti di ciò che tout court si è definito Tradizione, così per lo Hegel è necessario emendare radicalmente quanto certa critica pigra e conformista ha dedotto sulla sua pretesa modernità e sul concetto di razionale confuso e mistifi­cato con quello cristiano e/o moderno di razionalismo individualistico e quindi astratto. At­tesa la complessa vastità del tema, faremo in modo di esaminare e di indicare sinteticamente alcuni nodi essenziali comuni alla prospettiva sia di Evola che di Hegel, al fine di offrire quelli che, secondo noi, pos­sono essere i percorsi di ricerca e di studio relativi alla quaestio sollevata.

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L’autentica “svolta” spirituale esperita da Evola alla fine degli anni venti del Novecento non è con­sistita, a ben riflettere, in un “abbandono” della Fi­losofia e del suo orizzonte di ricerca e di visione, del suo oggetto di amore e dei suoi itinerari aristo­telicamente dovuti, ma bensì in un lasciare al suo destino di impotenza gnoseologica e di inefficacia spirituale la Filosofia moderna o meglio il concetto moderno della stessa (che è poi quello cristiano…). La frase di Lagneau sulla Filosofia considerata una sorta di “…riflessione tesa a riconoscere la sua propria insufficienza e la necessità di un’azione assoluta che conduca al di là della medesima…” (Rev. de Met. et de Mor., Mars 1898, p. 127), posta da Evola come “incipit” ai Saggi sull’idealismo ma­gico (1925), in concreto vuol significare che per realizzare il suo logos, la sua ragione, la Filosofia nel momento attuale, deve superare, andare al di là, effettuare un salto di natura ontologica per collo­carsi nel luogo dello spirito che, e qui sta l’autenticità ermeneutica del percorso evoliano, è il luogo di pertinenza da sempre della Filosofia nel suo unico e autentico significato che è quello premo­derno e cioè greco: percorso spirituale, di natura iniziatica, in un télos che è l’omòiosis theò! Ciò è quanto Evola ha compiuto nella sua azione realiz­zativa e di paidéia dei fondamenti della Scienza dello Spirito, sin dalla costituzione del Gruppo di UR, la cui natura, nel significato di essenza e quindi la sua virtus come finalità, è alquanto simile a ciò che è stata l’Accademia Platonica dagli inizi sino a Proclo: palestra rigorosa del Sapere che è ascesi filosofico-rituale e non cerimoniale, la cui finalità, pertanto, è l’assimilazione al Divino. Tutto ciò cosa ha a che fare con il concetto e la prassi moderni della Filo­sofia? Cosa ha a che fare la vera ricerca del sapere che è essere con, al di là di rare eccezioni, un sedicente “insegnamento” di natura sterilmente nozionistica e stupida­mente specialistica, da “dotti ignoranti”, come si esprime lo stesso Evola, vera caricatura mistificante di quanto l’uomo cerca sin dall’alba del suo spirito? Nulla, desolatamente nulla! Tale concetto moderno e quindi degradato di ciò che Aristotele afferma essere l’atteggiamento più naturale per l’uomo, cosa ha in comune con la definizione espressa dallo Hegel sull’essere la Fi­losofia “… la considerazione esoterica di Dio…”? (Enc. Scienze Fil.) e con il principio di Platone che il filosofo è solo colui il quale vede il Tutto, confermato dallo stesso Hegel quando insegna che “il Vero è l’Intero”?Assolutamente niente, ma le affermazioni hegeliane come quella di Platone hanno tutto in comune invece con quanto Evola enuncia in quella autentica e maestosa professione di fede platonica che è l’inizio di Rivolta contro il mondo moderno, quando edifica tutta la sua opera sul Sapere intorno alle due nature del Mondo, la naturale e la sovrannaturale, come medesime dimensioni e dello Spirito e della Phýsis, tanto che, platonicamente, in Evola la Fisica è Teologia in quanto il Mondo “è pieno di Dei!” E la Teologia in quanto Teosofia, Sapere intorno al Divino, è la stessa Logica che ha per oggetto il Nous come intelletto che è il Dio dormiente nell’uomo e quindi nel cosmo: l’intero Logos evoliano ha per fine, in guisa esclusiva, la rimozione attiva di quel “quindi” in quanto impedimento effettuale all’oscuramento dello Spirito; è, pertanto, opera di realizzazione del Sé, perseguita ed indicata come Via iniziatico-solare, di natura platonico­apollinea e non nientificazione orfico-dionisiaca dell’Io che, avendo la natura spirituale del pathèin e non del  mathéin (Aristotele, Perì philosophias, fr. 15), non è conoscenza dell’autentica essenza dello Spirito in quanto realtà Divina trascendentemente immanente che è come dire la realtà dell’Individuo Assoluto, vera sublimazione dell’Io; “…la filosofia ha lo scopo di riconoscere la verità, di conoscere Dio, poiché Dio è la verità assoluta…”, afferma Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della religione; (vol. II).  Allora è d’uopo affermare, senza alcun timore, che sia in Evola che in Hegel, riappare, in piena modernità, il senso e il significato greco della Filosofia, stru­mento per il conseguimento del Risveglio, che è la rinascita, dopo la caduta-oblio, in quanto anàmnesi di ciò che si è e lo si è sempre stati pur  non avendone scienza (ignoranza come avidya), quindi riconquista di un Sa­pere che coincide con l’Essere in senso ontologico. Talché la Filosofia, nel suo vero ed unico significato, che è quello platonico-iniziatico (Lettera VII), nocciolo esoterico della stessa esperienza spirituale dei Misteri (Fedone, 69c-d), è quindi  Scienza Sacra in senso eminente e autentica Tradizione, avente ad “oggetto” solo ed esclusivamente il Divino, che è la Verità in quanto essenza e dell’uomo e del Mondo, come Cosmo; è pertanto Sapere per pochi, è gnosi, è Teosofia, conoscenza del Dio che si rivela, nella completezza del percorso rituale-filosofico, come theopoìesis (deificatio) (Platone, Teeteto, 176 b 1; Repubblica, 613 a b; Timeo, 90 d; Leggi, 716 c s; Plotino, Enneadi, I, 2, 6, 25; Proclo, Elementi di Teologia, 127; 112, 31; Corpus Hermeticum, I, 26; 16, 12), significando ciò il rammemo­rare la consapevolezza quale Sapere, aldilà ed oltre sia il Mito che il Simbolo (livelli di conoscenza sa­pientemente riconosciuti, sia da Evola che da Hegel, inefficaci ai fini della Scienza, in relazione allo stato intellettivo-noetico puro che è l’apolli­neo), che il Dio è “oggetto” da superare, da negare,  andando oltre il dualismo soggetto-oggetto per “osare” essere Lui! Tale identificazione, sia in Hegel che in Evola, è la stessa autoconoscenza del Sé quale Assoluto nella sua natura solare, in totale estraneità, pertanto, ad ogni confusione panteistica e ad ogni vedantino acosmismo spirituale. In tale guisa, pertanto, anche se mediante linguaggi diffe­renti e in contesti storico-culturali lontani, Evola ed Hegel dicono il Medesimo e la Filosofia, quindi, nella loro opera non è più quell’insulsa propaggine della teologia dogmatica (cristiana), né quella serva ti­mida delle cosiddette scienze moderne, cioè della concezione parziale, riduttiva e quindi irreale, in quanto galileiana, della natura, ormai desacraliz­zata e ridotta ad oggetto di calcolo matematico e ciò al di là della autentica rivoluzione epistemologica operata nel XX secolo dalla fisica dei quanti e dalla sua meccanica che, invece, ritornando ad una visione platonica del reale (vedi Heisenberg ed il suo concetto della chòra platonica…) non fa che confermare, tutto sommato, il sapere sia di Evola che di Hegel. La Filosofia torna così ad essere ciò che non può non essere, consistendo, secondo Aristotele, nel Destino che gli Dei hanno affidato all’uomo; non “fede”, non “credenza”, ma Sapere che è esposizione del Mondo in quanto Pensiero puro, sono “le idee di Dio prima della “creazione” del mondo e di ogni oggetto finito” (Hegel); è speculazione (da specu­lum) dove il Pensiero si specchia nel Mondo, in senso oggettivo e vede se stesso come Idea e quindi Unità (Hegel); è la realtà dell’Oro ermetico, che è la Cosa più vicina e nel contempo più lontana (Evola), è la certezza sen­sibile, è il concreto esistente che è da sempre Spirito, solo che non lo sa, (medesimo concetto esprime Plotino in riferimento all’esperienza del “toccare”  il Dio [Enneadi, VI, 9, 7]); l’Oro si trova infatti nella più oscura Tenebra o Feccia (Ermetismo) da cui l’uomo fugge, proprio perché non sa che l’Opera deve iniziare da quello stato come riconquista eroica che corporizza lo Spirito e spiritualizza il corpo, ed è la grande fatica del concetto (Hegel). Tutto ciò Evola lo rende manifesto nella sua opera  La Tradizione ermetica che è la summa circolare del viaggio iniziatico (dal Corpo come impietramento del principio Fuoco allo stesso Corpo però rinato come rosso Cinabro, solfuro di mercurio) simile alla circolarità triadica della Scienza della Logica di Hegel: il Logos qui non è una conoscenza astratta e quindi profana cioè falsa ma, come per gli antichi maestri neoplatonici, è l’apertura dell’occhio dello Spirito sul Mondo come è, e quindi come appare, ciò significando che  essenza ed esistenza sono il Medesimo che è l’Essere, nel “momento”, che non è temporale, ma logico cioè ontologico, in quanto riguarda la natura profonda dell’uomo, in cui lo stesso, acquisito il medesimo livello di essere-conoscenza, è nella capacità di vedere, attesa la natura epoptica della filosofia evoliana. La veneranda Tradizione Platonica, a cui appartengono sia Hegel che Evola, è il filone aureo che da Plotino, Proclo ed Eckhart sino a Nicola da Cusa, Giorgio Gemisto Pletone, Marsilio Ficino, Benedetto Spinoza e Jacob Boehme, non è altro che Introduzione alla Scienza dell’ Io, come spirito Universale, come Atto puro, proprio nel significato dell’autoctisi gentiliana che è poi il causa sui di Spinoza, che, nel Sapere Assoluto, che è filosofico, realizza il Sapere del Dio, dove quel “del” è tanto il Sapere che ha il Dio come “oggetto” che il Sapere che appartiene al Dio stesso.

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Il situarsi sia di Evola che di Hegel nella Tradizione Platonica, ci conduce in immediato nella evidenza relativa ad una fondamentale verità presente nel loro orizzonte sapienziale: la polare identità tra Pensiero ed Essere, intesi in senso cosmico e quindi oggettivo e non certo nel significato individuale e soggettivo che è come dire cartesiano e quindi moderno; identità che è da costruire, con fatica eroica, in quanto cammino catartico (Feno­menologia dello Spirito in Hegel; Rivolta contro il mondo moderno in Evola) per la riacquisita co­scienza che è poi Inizio dell’altro percorso, avente il Fine della identificazione plotiniana, che è il mònos pros mònon, come mutamento della propria natura (metànoia), principio noetico ormai desto, non più e non mai “esterno” all’Io ma Sé autentico che è al contempo (e da sempre) il Lògos del mondo (Tradizione Ermetica in Evola; Scienza della Logica in Hegel). Il Sapere (Nous) che coin­cide anzi è l’Essere (Phýsis) è ciò che, in guisa auro­rale, afferma la sapienza indoeuropea, ad iniziare da Parmenide e dai Veda (Atman è Brahman). Il Mi­stero di tale verità è l’Inesprimibile del Pensiero che si riconosce nel Tutto come i Molti che è visto nell’Istante- exàiphnes come Uno (Platone, Parmenide, 156, c) ed è il fondamento della conoscenza comune sia ad Evola che ad Hegel: ad uno stadio di consape­volezza, che è un “momento” (“temporale” ma che non si svolge nel tempo…) della coscienza e quindi un essere della stessa, in senso ontologico, corri­sponde uno stadio o livello di conoscenza-sapere che è il vivere-essere lo stadio o livello equiva­lente e corrispondente nel Mondo; tale processo spirituale in Evola è da situare in guisa manifesta dopo la catarsi dialettica che certamente coincide con la fase del suo pensiero preparatoria della teoresi dell’Idealismo magico che è il salto nella gnosi platonica. La realtà dello spirito che, come qui appare evidente, è circolare, e va dall’io al mondo e dal mondo all’io vuol significare che si conosce ciò che si è e si è ciò che si conosce e, quindi, si conosce ciò che si diviene, equivalendo ciò al ritorno anamnestico verso l’Inizio, dove si è sempre stati, nella natura in cui si è sempre consistiti ma della quale si è presa coscienza, solo dopo aver perfezionato l’Opera filosofica. Evola ed Hegel, nel solco del platonismo, ci inducono pertanto a meditare sulla dimensione dello Spirito, nel “momento” in cui il Pensiero, pensando il suo “passato” (l’Anima, il suo sonno…), si riconosce tale ed il Mondo, gli Dei (l’oggetto) appare quello che è sempre stato, cioè il Pen­sato, la dimensione dell’Anima, il movimento, la Vita, la dialettica (essere-non essere; vita-morte; dolore-gioia…). Evola lo afferma in tutta la sua opera: se si è forma, si vede la forma, che è sempre, ma anche colui che “ora” la vede lo è sempre stato solo che lo aveva dimenticato. Secondo Evola ed Hegel, ovviamente, non è questione di ideologie o di modi di vedere il mondo, cioè di stati soggettivi, poiché di soggettivo, nel senso di personale o individuale-psicologistico, qui non è dato parlare, ma di stati molteplici, differentemente gerarchici, dell’Essere (sia in senso microcosmico che macrocosmico, cioè quello che ignorantemente chiamiamo ancora tanto “soggetto” quanto “oggetto”)!

Hegel, infatti, nella Scienza della Logica, quando parla di meccanicismo, chimismo, organicismo, non sta enunciando determinate visioni del mondo o punti di vista, ma sta dicendo che una natura, in senso ontologico, meccanicistica conosce solo il meccanicismo o meglio il livello o “momento” meccanicistico del mondo e quindi sta trattando filosoficamente degli stati della coscienza, come li­velli del pensiero a cui corrispondono gli stessi stati della natura poiché questa è il medesimo Pensiero uscito da sè (proodòs plotiniana); essi sono pertanto il percorso del Sapere come Idea a cui corrispondono stati equivalenti della natura poiché la Verità cioè il Divino è l’Intero cioè l’Uno (e questo non è lo stesso principio di corrispondenza magica tra uomo e Metalli-Mondo cioè Astro-Nume-Metallo tanto in senso microcosmico quanto macrocosmico che è il fondamento della Tradizione sia nella forma Er­metica che in quella Platonica?). Evola dice il medesimo quando afferma che Inferno e Paradiso, esotericamente, sono stati della coscienza nei quali e attraverso i quali si conoscono le tenebre infernali o le luminosità celesti che sono livelli o dimensioni dell’Essere dello stesso mondo o dimensioni del Tutto, il chiuso Athanòr, che una natura corrispondente andrà a co­noscere o tenebroso come assenza di Luce o luminoso. Pertanto un essere che è, come spiritualità autentica, o il primo o il se­condo, può conoscere solo o uno o l’altro, cre­dendo, nel momento ingenuo (mitico, secondo Evola), intellettivo-astratto (direbbe Hegel), del percorso di conoscenza, che si tratti di un “altro” mondo a sé medesimo opposto e definito dualisticamente non-Io. Gli Dei non esistono a priori per fede… se non si cono­scono e si conoscono solo esperimentando e quindi essendo lo stato corrispondente. Se in Evola tutto ciò è definito identificazione iniziatico-­solare in cui è manifesto che Io sono Te, ricono­scendo pertanto l’irrealtà dello stato religioso-devozionale, in Hegel è il percorso dello Spirito che supera l’oggettivazione del Sé (Dio), come Altro e, con la semplificazione filosofica ed il suo Sapere apicale, è l’Assoluto che conosce se stesso, “accadendo” come evento logico, cioè fuori dal tempo, “dopo” lo stato-essere spirituale rappresentativo che è il religioso-dualistico. È la realizzazione della conoscenza che il soggetto è l’oggetto, il Pensiero come Atto puro cosmico è l’Essere che è il Dio, e si ritorna ad Aristotele, al Pensiero di Pensiero, al Pensiero che pensa Se stesso ed è poi l’Autarca di Evola! In sostanza ed in termini filosofici, cioè concettuali, è il Risveglio buddistico (vedi La dottrina del risveglio) che in Evola è la realizzazione della vera natura  dell’uomo, rendendo manifesta quella occulta o incosciente (Aristotele, Etica nicomachea, 1177b 33) idea di origine platonica (Timeo, 90c) che è l’athanatìzein di Proclo, cioè il rendersi immortali in quanto si assume piena consapevolezza e quindi Sapere di esserlo sempre stati. Corollario di tale Tradizione gnosica è, in Evola, La Scienza dell’Io che si riconosce, quale atto magico di anamnesi, come Idea eterna del Sé: “…Io alla seconda persona, alter ego celeste dell’uomo: è ancora l’uomo ma nello stesso tempo non è più solo l’uomo…” (Henry Corbin) ed è l’affermazione che la conoscenza del Dio è l’autoconoscenza del Dio come Divino nell’uomo e dell’uomo: il Dio si conosce e si vede nell’uomo, come l’uomo, nel doversi conoscere, conosce Se medesimo quale il Divino stesso. È il sapere di natura apollinea, di cui enigmaticamente parla Platone nell’Alcibiade Maggiore (133 c)…!

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In riferimento a tale Sapere Pavel Alexandrovic Florenski ne Le radici universali dell’Idealismo rileva la natura primordiale dello stesso e trae la conclusione che il Platonismo è la Conoscenza originaria presente nelle Tradizioni religiose e sapienziali di tutti i popoli del Mondo, cioè a dire, nella sue essenza metafisica, la Tradizione Unica di tutte le Civiltà, nella forma tanto mitico-religiosa nei primordi delle stesse, quanto magica ed unitivo-sapienziale al tramonto del ciclo.

Pertanto il Sapere, la Gnosi, di cui non solo parlano o scrivono sia Evola che Hegel, ma che sono e realizzano come mutamento della natura, essendo lo stesso Sapere, è in virtù di “qualcosa” di arcaico, di ancestrale, di originario, di non classificabile nelle e con le comuni categorie dello Spirito non solo di questo tempo ma di ogni tempo; “qualcosa” che è una realtà vivente, un fuoco che brucia nella continuità della loro vita, nel loro athanòr, come fiamma che consuma tutti i residui, le scorie, le impurità tanto che “magicamente” loro appaiono quello che sono in quanto Essere come identità di essenza ed esistenza; dai contemporanei sono infatti veduti come autentici maghi, nel significato arcaico e quindi vero del termine, chiarito, quasi nello stesso periodo di tempo, sia da Florenski che da Evola in questi termini: natura attiva dello Spirito nei confronti delle Forze e dei Numi cosmici e tanto intensa da apparire quasi naturale, come innata identificazione con gli stessi, mediante riconoscimento anamnestico!

Allora il Sapere tradizionale, che equivale a dire metafisico e che stiamo tentando di delineare per brevi cenni, è di natura magico-sacrale!

E non può essere diversamente, atteso il fatto che Evola non è lo scrittore, lo studioso o l’erudito, figlio di una sclerotica civilizzazione ma è frutto di una Kultur che, proprio nel senso spengleriano, è qualcosa di vivente che emerge maestosa e luminosa, vasta e complessa nella sua cosmica valenza, da tutta la sua opera che è principalmente ed in guisa essenziale, la sua stessa presenza e la sua vita come Simbolo e Mito. Non si può negare la presenza della Luce di questa forza magico-sacrale, quasi sciamanica, in uomini, in Sapienti Solfurei, autentiche trasparenze della doxa omerica, cioè della gloria del Pensiero, inteso in senso Vivente e Divino, in tutti coloro i quali, con linguaggi diversi ed in tempi storico-culturali oltremodo differenti,  hanno osato dire, vivere ed essere Verità, autenticamente rivoluzionarie e destabilizzanti per tutte le Chiese, i Dogmi e le Istituzioni dominanti, quasi come Vie della mano destra di ogni epoca, Verità che hanno sempre incusso paura, tremore e financo terrore nell’uomo, inducendo e provocando mistificazione del loro Dire, calunnie sul loro Fare, negazione del loro Essere e tentativi, peraltro vani, di oscuramento della Verità da loro eroicamente difesa. È la vicenda, non solo di un Evola, criminalizzato e mistificato o di un Hegel, incompreso e pertanto trasferito tout court, nonostante la geniale intuizione di un Feuerbach sull’essere il sapiente Svevo “…il Proclo tedesco…”, nel positivismo e nel laicismo immanentista o nel soggettivismo postcartesiano, ma è la storia umana anche di Eckhart, di Giorgio Gemisto Pletone, di Boehme, di Spinoza, cioè è il destino comune, la risposta, la reazione di chi, in buona sostanza, rifiuta, ne ha paura e non comprende insegnamenti come questi di Plotino: “…Il compito non è essere virtuosi o buoni ma essere Dei!…”; “…Non devo andare io agli Dei ma gli Dei venire a me…!”; che equivalgono a ciò che dice Eckhart nei Sermoni: “…Dio ed io siamo una cosa sola…!”; a quanto afferma Hegel: “…Si crede usualmente che l’Assoluto debba trovarsi molto al di là mentre è invece proprio ciò che è del tutto presente e che, in quanto pensanti, anche senza averne espressamente coscienza, portiamo sempre con noi…!” o a ciò che rivela Boehme nel De Signatura rerum: “…tra la Nascita Eterna, la Redenzione dalla Caduta e la scoperta della Pietra dei Filosofi non c’è alcuna differenza…!”.

Si tratta, quindi, di un Sapere primordiale, è la Tradizione iniziatica regale, è la originaria via indoeuropea agli Dei, nel senso spirituale e realizzativo del Risveglio del Re che dorme nel profondo dell’anima, ed è, innanzitutto ed essenzialmente il Rito filosofico quotidiano e costante onde realizzare il Katèchon che, difendendo il principio superiore della coscienza e quello animico ad esso orientato, costituisca invalicabili barriere nei confronti delle potenze tenebrose provenienti dal basso; al fine di “ricostruire” eroicamente la natura autentica dell’uomo: la libertà dello Spirito, nella divinificazione che è l’Eghemonicòn stoico, di cui parla Evola, la liberazione dell’uomo dalle catene invisibili con cui egli stesso si è reso prigioniero di sé medesimo! Tale Conoscenza suprema che è di una semplicità fanciullesca (gli antichi Ermetisti parlano di “gioco di bambini”) mai come nella fase presente, di palese e drammatica decadenza spirituale da fine di un ciclo di civiltà, come rivela Aristotele (Metafisica, XII, 8,1074a, 38-b 14), è di straordinaria ed inattuale attualità, poiché, essendo la Conoscenza della maturità avanzata di un epoca, proprio come precisa Aristotele nel passo su citato, è l’ultima àncora di salvezza sia per coloro che vogliono percorrere tale unica ed ineludibile Via dello Spirito, per tornare ad essere, come precisa Evola, quanto meno e come base di partenza, uomini, sia per la conservazione e la trasmissione dei Fondamenti della stessa da “tràdere” cioè consegnare a coloro i quali saranno i protagonisti del ciclo successivo: non altro concetto ha, infatti, espresso lo stesso Hegel quando ha definito la filosofia il Sapere del meriggio che nasce quando s’invola la nottola di Minerva!

Ci chiediamo, alla fine di questa nostra riflessione, la ragione per cui la Tradizione magico-arcaica, la Sapienza antica, il Platonismo come eterno Idealismo, il Logos di Evola come quello di tutti i Sapienti che nei secoli e nei millenni hanno rivelato sempre e soltanto la medesima Cosa, avente ad “oggetto” il Pensiero pensante che è già e da sempre Pensiero pensato e cioè il Divino come Mondo che ritorna ciclicamente e liberamente, in quanto sapientemente, in se stesso, appaiono tanto irrimediabilmente inattuali da essere invece così indiscutibilmente attuali; la risposta a tale domanda risiede nella natura protervamente materialista e quindi antiumana di questa epoca in cui dello Spirito nulla si sa e si deve sapere, dell’Anima non se ne deve parlare  più, affidando il suo semantema residuo ed umbratile a forme di stregonerie e ciarlatanerie definitesi, molto appropriatamente, “psicoanalisi” (vedi J. Evola, L’infezione psicanalista, Quaderni della Fondazione Evola, Napoli 2012); il corpo  è ignorato in quanto “pensato” come un assemblaggio di pezzi meccanici da riparare e, nel caso, da sostituire; epoca in cui, infine, ci si è fatti convincere che l’uomo non sia e non debba essere altro che un “tubo digerente” avente solo una finalità: il disciplinato e silenzioso consumo planetario, in quanto “naturalmente”  privo di idee, sentimenti e passioni,  che pericolosamente abbiano o conservino qualcosa che ricordi l’umano; nessun Discorso, religioso o filosofico contemporaneo, che può pur apparire radicale e liberatorio lo può mai essere, in verità e nella dimensione universale, così come lo è manifestamente e dall’eternità la Luce della Tradizione, per la semplice ragione che tutti i “discorsi” che non appartengono alla sua Verità, appartengono alla Modernità, come categoria dello Spirito; e non si può nemmeno tentare di superare l’effetto coniugandolo con la sua causa!

Solo la Scienza dello Spirito, l’atto supremo ineludibile di Rivolta contro il mondo moderno, può aprire gli occhi,  prima dell’anima e poi dello Spirito, dell’uomo della presente età, sì da fargli riacquistare la stazione eretta che, come insegna Platone, gli consente di guardare il Cielo e quindi gli Dei!

Di una sola cosa, comunque, siamo certi e serenamente consapevoli e quindi convinti: il potere unico della Chiesa dogmatica tecno-finanziaria del capitalismo mondialista, apparentemente trionfante al crepuscolo del presente ciclo, ha di fronte, alle spalle ed intorno a sé medesimo, una sola ed invincibile nonché semplice e luminosa Verità, espressa da Julius Evola nei termini seguenti: “…Tutto si potrà fare sull’uomo e nell’uomo ma mai strappare dal fondo del suo animo la presenza del Divino!…”.

Giandomenico Casalino

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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The Differentiated Man

The Differentiated Man

Ex: http://aryan-myth-and-metahistory.blogspot.com

10857064-l-39-homme-de-vitruve-sous-les-rayons-x-isole-sur-noir.jpgIn the days when I used to post on white nationalist websites one of the most recurring themes that people would argue about is the declining levels of Aryans vis a vis other races. I argued then as I argue now ratios are not relevant. Lower animals and races of men will breed at a faster rate than higher species or races. Often the reason for this is the higher mortality rate in such species and races. This fact may also be observed amongst the soci-economic classes which are a bastardised and commercialised version of the ancient traditional Aryan caste system (the two are not to be confused or even compared!).  Individuals of lesser education (not merely formal education but general awareness and ability) tend to breed without restraint and with no consideration as to whether they (or the tax payer) can afford such indiscriminate coupling!

Of course I am not here referring to that tiny and select minority of individuals who are spiritually and racially aware who may breed in large numbers with suitable mates for the right reasons. The people I am referring to in the previous paragraph are those who live entirely by instinct and whose days are spent gratifying their every bodily need or desire. Such people are little better than the beasts of the field and I would not expect them to read blogs such as this so forgive me for lecturing to the converted! These belong to von Liebenfels' Affenmenschen (apelings) referred to in his Theozoology. The move from the rural economies of the past to the Industrial Revolution which began in the 18th century in England caused a migration of part of the rural population to the emerging industrial towns and cities to become nothing more than factory wage slaves. The new capitalist bougeoisie needed as many men (and women) as they could find to work in their sweat shops. The same impulse that drove forward the Industrial Revolution was also responsible for the creation of the British Empire which benefitted no one apart from the wealthy (and certainly not the conquered natives!).

The populations of the industrial towns and cities bred like rats but they needed to as the infant mortality rate was extremely high. Their poorly paid labour was needed by the capitalists of the day (nothing much has changed). The problem with having an expanding proletariat is that the individual monetary worth of the worker is reduced proportionately. This is why countries like Britain welcome immigrant labour because their expectations are low and this creates economic competition for British workers. Employers can pick and choose and pay a pittance for a person's toil. For this reason despite the government's protestations they have done abolutely nothing to stem the flow of immigration (legal and otherwise) and indeed the problem has got worse over the last 4 years (if such a thing were possible). Low paid workers and cannon fodder for illegal wars will always be in demand by this corrupt system.

Thus a capitalist economy relies for the production of ever increasing wealth for the 1% on a large mass of labour. Capitalism encourages and fuels population explosions. Babies are born destined to become unimportant cogs in this monstrous and inhuman machine. This and only this is the value of the 'family', much lauded by the government's MPs as women become nothing but battery hens for future workers. Nothing else is of importance. With these thoughts in mind we come to the writings of Julius Evola:

"The differentiated man cannot feel part of a 'society' like the present one, which is formless and has sunk to the level of purely material, economic, 'physical' values, and moreover lives at this level and follows its insane course under the sign of the absurd. Therefore, apoliteia requires the most decided resistance to any social myth. Here it is not just a matter of its extreme, openly collectivist forms, in which the person is not recognised as significant except as a fragment of a class or party or, as in the Marxist-Soviet area, is denied any existence of his own outside the society, so that personal destiny and happiness distinct from those of the collective do not even exist. We must equally reject the more general and bland idea of 'sociability' that today often functions as a slogan even in the so-called free world, after the decline of the ideal of the true state. The differentiated man feels absolutely outside of society, he recognises no moral claim that requires his inclusion in an absurd system; he can understand not only those who are outside, but even those who are against 'society'-meaning against this society." (Ride the Tiger. A Survival Manual for the Aristocrats of the Soul)

dimanche, 10 août 2014

Sao Paulo: IV Encontro Internacional Evoliano

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dimanche, 20 juillet 2014

The Life & Writings of Julius Evola

MERCURY RISING: THE LIFE & WRITINGS OF JULIUS EVOLA

 

The Life & Writings of Julius Evola

If the industrious man, through taking action,
Does not succeed, he should not be blamed for that –
He still perceives the truth.

                        ~The Sauptikaparvan of the Mahābhārata (2,16)

If we could select a single aspect by which to define Julius Evola, it would have been his desire to transcend the ordinary and the world of the profane. It was characterized by a thirst for the Absolute, which the Germans call mehr als leben – “more than living.” This idea of transcending worldly existence colours not only his ideas and philosophy, it is also evident throughout his life which reads like a litany of successes. During the earlier years Evola excelled at whatever he chose to apply himself to: his talents were evident in the field of literature, for which he would be best remembered, and also in the arts and occult circles.

Born in Rome on the 19th of May in 1898, Giulio Cesare Andrea Evola was the son of an aristocratic Sicilian family, and like many children born in Sicily, he had received a stringent Catholic upbringing. As he recalled in his intellectual autobiography, Il cammino del cinabro [1963, 1972, The Cinnabar's Journey], his favourite pastimes consisted of painting, one of his natural talents, and of visiting the library as often as he could in order to read works by Oscar Wilde, Friedrich Nietzsche, and Otto Weininger.[1]  During his youth he also studied engineering, receiving excellent grades but chose to discontinue his studies prior to the completion of his doctorate, because he "did not wish to be bourgeois, like his fellow students." At the age of nineteen Evola joined the army and participated in World War I as a mountain artillery officer. This experience would serve as an inspiration for his use of mountains as metaphors for solitude and ascension above the chthonic forces of the earth. Evola was also a friend of Mircea Eliade, who kept in correspondence with Evola from 1927 until his death. He was also an associate of the Tibetologist Giuseppe Tucci and the Tantric scholar Sir John Woodroffe (Arthur Avalon).
 
Sir John Woodroffe
During his younger years Evola was briefly involved in art circles, and despite this being only a short lived affair, it was also a time that brought him great rewards. Though he would later denounce Dada as a decadent form of art it was within the field of modern art that Evola first made his name, taking a particular interest in Marinetti and Futurism. His oil painting, Inner Landscape, 10:30 a.m., is hanging today on a wall of the National Gallery of Modern Art in Rome.[2]  He also composed Arte Astratta (Abstract Art) but later, after experiencing a personal crisis, turned to the study of Nietzsche, from which sprang his Teoria dell, individuo assoluto (Theory of the Absolute Individual) in 1925. By 1921 Evola had abandoned the pursuit of art as the means to place his unique mark on the world. The revolutionary attitudes of Marinetti, the Futurist movement and the so-called avant-garde which had once fascinated him, no longer appeared worthwhile to Evola with their juvenile emphasis on shocking the bourgeois. Likewise, despite being a talented poet, Evola (much like another of his inspirations – Arthur Rimbaud) abandoned poetry at the age of twenty four. Evola did not write another poem nor paint another picture for over forty years. Thus, being no longer enamored of the arts, Evola chose instead to pursue another field entirely that he would one day award him even greater acclaim.
 
To this day, the magical workings of the Ur Group and its successor Krur remain as some of the most sophisticated techniques for the practice of esoteric knowledge laid down in the modern Western era. Based on a variety of primary sources, ranging from Hermetic texts to advanced Yogic techniques, Evola occupied a prominent role in both of these groups. He wrote a number of articles for Ur and edited many of the others. These articles were collected in the book Introduction to Magic: Rituals and Practical Techniques for the Magus, which alongside Evola’s articles, are included the works of Arturo Reghini, Giulio Parese, Ercole Quadrelli and Gustave Meyrink. The original title of this work in Italian, Introduzione alla Magia quale scienza dell’lo, literally translates as Introduction to Magic as a Science of the “I”.[3]  In this sense, the 'I' is best interpreted as the ego, or the manipulation of the will – an idea which is also the found in the work of that other famous magician, Aleister Crowley and his notion of Thelema. The original format of Ur was as a monthly publication, of which the first issue was printed in January 1927.[4]
 
Contributors to this publication included Count Giovanni di Caesaro, a Steinerian, Emilio Servadio, a distinguished psychoanalyst, and Guido de Giorgio, a well-known adherent of Rudolph Steiner and an author of works on the Hermetic tradition. It was during this period, that he was introduced to Arturo Reghini, whose ideas would leave a lasting impression on Evola. Arturo Reghini (1878-1946), who was interested in speculative Masonry and the anthroposophy of Rudolf Steiner, introduced Evola to Guénon's writings and invited him to join the Ur group. Ur and its successor, Krur, gathered together a number of people interested in Guénon's exposition of the Hermetic tradition and in Vedanta, Taoism, Buddhism, Tantra, and magic.

Arturo Reghini was to be a major influence on Evola, and himself was a representative of the so-called Italian School (Scuola Italica), a secret order which claimed to have survived the downfall of the Roman Empire, to have re-emerged with Emperor Frederic II, and to have inspired the Florentine poets of the thirteenth and fourteenth centuries, up to Petrarch. Like Evola, Reghini had also written articles, one of which was entitled "Pagan Imperialism." This appeared in Salamandra in 1914, and in it Reghini summed up his anti-Catholic program for a return to a glorious pagan past. This piece had a profound impact on Evola, and it served as the inspiration for his similarly titled Imperialismo pagano. Imperialismo pagano, chronicling the negative effects of Christianity on the world, appeared in 1928. In the context of this work, Evola is the advocate of an anti-Roman Catholic pagan imperialism. According to Evola, Christianity had destroyed the imperial universality of the Roman Empire by insisting on the separation of the secular and the spiritual. It is from this separation that arose the inherent decadence and inward decay of the modern era. Out of Christianity’s implacable opposition to the healthy paganism of the Mediterranean world arose the secularism, democracy, materialism, scientism, socialism, and the "subtle Bolshevism" that heralded the final age of the current cosmic cycle: the age of "obscurity" the Kali-Yuga.[5]  Imperialismo pagano was to be later revised in a German edition as Heidnischer Imperialismus. The changes that occurred in the text of Evola’s Imperialismo pagano in its translation as Heidnischer Imperialismus five years later were not entirely inconsequential. Although the fundamental concepts that comprised the substance of Evola’s thought remained similar, a number of critical elements were altered that would transform a central point in Evola's thinking. The "Mediterranean tradition" of the earlier text is consistently replaced with the "Nordic-solar tradition" in this translation.[6]  In 1930 Evola founded his own periodical, La Torre (The Tower). La Torre, the heir to Krur, differed from the two earlier publications Ur and Krur in the following way, as was announced in an editorial insert:
"Our Activity in 1930 – To the Readers: Krur is transforming. Having fulfilled the tasks relative to the technical mastery of esotericism we proposed for ourselves three years ago, we have accepted the invitation to transfer our action to a vaster, more visible, more immediate field: the very plane of Western 'culture' and the problems that, in this moment of crisis, afflict both individual and mass consciousness […] for all these reasons Krur will be changed to the title La Torre (The Tower), a work of diverse expressions and one Tradition."[7]
La Torre was attacked by official fascist bodies such as L’Impero and Anti-Europa, and publication of La Torre ceased after only ten issues. Evola also contributed an article entitled Fascism as Will to Imperium and Christianity to the review Critica Fascista, edited by Evola's old friend Giuseppi Bottai. Here again he launches vociferous opposition to Christianity and attests to its negative effects, evident in the rise of a pious, hypocritical, and greedy middle class lacking in all superior solar virtues that Evola attributed to ancient Rome. The article did not pass unnoticed and was vigorously attacked in many Italian periodicals. It was also the subject of a long article in the prestigious Revue Internationale des Sociétés Secrètes (Partie Occultiste) for April 1928, under the title Un Sataniste Italien: Jules Evola.
 
Coupled with the notoriety of Evola's La Torre, was also another, more bizarre incident involving the Ur Group's reputation, and their attempts to form a "magical chain." Although these attempts to exert supernatural influence on others were soon abandoned, a rumour quickly developed that the group had wished to kill Mussolini by these means. Evola describes this event in his autobiography Il Cammino del Cinabro.
"Someone reported this argument [that the death of a head of state might be brought about by magic] and some yarn about our already dissolved 'chain of Ur' may also have been added, all of which led the Duce to think that there was a plot to use magic against him. But when he heard the true facts of the matter, Mussolini ceased all action against us. In reality Mussolini was very open to suggestion and also somewhat superstitious (the reaction of a mentality fundamentally incapable of true spirituality). For example, he had a genuine fear of fortune-tellers and any mention of them was forbidden in his presence."
It was also during this period that Evola also discovered something which was to become a profound influence on many his ideas: the lost science of Hermeticism. Though he undoubtedly came into contact with this branch of mysticism through Reghini and fellow members of Ur, it seems that Evola’s extraordinary knowledge of Hermeticism actually arose from another source. Jacopo da Coreglia writes that it was a priest, Father Francesco Olivia, who had made the most far-reaching progress in Hermetic science and – sensing a prodigious student – granted Evola access to documents that were usually strictly reserved for adepts of the narrow circle. These were concerned primarily with the teachings of the Fraternity of Myriam (Fratellanza Terapeutica Magica di Myriam), founded by Doctor Giuliano Kremmerz, pseudonym of Ciro Formisano (1861-1930). Evola mentions in The Hermetic Tradition that Myriam’s Pamphlet D laid the groundwork for his understanding of the four elements.[8]  Evola’s knowledge of Hermeticism and the alchemical arts was not limited to Western sources either, for he also knew an Indian alchemist by the name of C.S. Narayana Swami Aiyar of Chingleput.[9] During this era of history, Indian alchemy was almost completely unknown to the Western world, and it is only in modern times that it has been studied in relation to the occidental texts.
 
M is for Mussolini (not Murder)
 
In 1926 Evola published an article in Ultra (the newspaper of the Theosophical Lodge in Rome) on the cult of Mithras in which he placed major emphasis on the similarities of these mysteries with Hermeticism.[10] During this period he also wrote Saggi sull’idealismo magico (1925; Essays on Magic Idealism), and L’individuo ed il divenire del mondo (1926; The Individual and the Becoming of the World). This article was to be followed by the publication of his treatise on alchemy, La Tradizione ermetica (The Hermetic Tradition). Such was the scope and depth of this work that Karl Jung even quoted Evola to support his own contention that "the alchemical opus deals in the main not just with chemical experiments as such, but also with something resembling psychic processes expressed in pseudo-chemical language."[11] Unfortunately, the support expressed by Jung was not mutual, for Evola did not accept Jung's hypothesis that alchemy was merely a psychic process.
 
Taking issue with René Guénon's (1886-1951) view that spiritual authority ranks higher than royal power, Evola wrote L’uomo come potenza (Man as power); in the third revised edition (1949), the title was changed to Lo yoga della potenza (The yoga of power).[12] This was Evola's treatise of Hindu Tantra, for which he consulted primary sources on Kaula Tantra, which at the time were largely unknown in the Western world. Decio Calvari, president of the Italian Independent Theosophical League, introduced Evola to the study of Tantrism.[13] Evola was also granted access to authentic Tantric texts directly from the Kaula school of Tantrism via his association with Sir John Woodroofe, who was not only a respected scholar, but was also a Tantric practitioner himself, under the famous pseudonym of Arthur Avalon. A substantial proportion of The Yoga of Power is derived from Sir John Woodroofe's personal notes on Kaula Tantrism. Even today Woodroofe is regarded as a leading pioneer in the early research of Tantrism.
 
Evola's opinion that the royal or Ksatriya path in Tantrism outranks that of the Brahmanic or priestly path, is readily supported by the Tantric texts themselves, in which the Vira or active mode of practice is exalted above that of the priestly mode in Kaula Tantrism. In this regard, the heroic or solar path of Tantrism represented to Evola, a system based not on theory, but on practice – an active path appropriate to be taught in the degenerate epoch of the Hindu Kali Yuga or Dark Age, in which purely intellectual or contemplative paths to divinity have suffered a great decrease in their effectiveness.
 
In the words of Evola himself:
"During the last years of the 1930s I devoted myself to working on two of my most important books on Eastern wisdom: I completely revised L’uomo come potenza (Man As Power), which was given a new title, Lo yoga della potenza (The Yoga of Power), and wrote a systematic work concerning primitive Buddhism entitled La dottrina del risveglio (The Doctrine of Awakening)."[14]
Evola's work on the early history of Buddhism was published in 1943. The central theme of this work is not the common view of Buddhism, as a path of spiritual renunciation – instead it focuses on the Buddha's role as a Ksatriya ascetic, for it was to this caste that he belonged, as is found in early Buddhist records.
 
The historical Siddharta was a prince of the Śakya, a kṣatriya (belonging to the warrior caste), an "ascetic fighter" who opened a path by himself with his own strength. Thus Evola emphasizes the "aristocratic" character of primitive Buddhism, which he defines as having the "presence in it of a virile and warrior strength (the lion's roar is a designation of Buddha’s proclamation) that is applied to a nonmaterial and atemporal plane…since it transcends such a plane, leaving it behind." [15]
 
Siddharta's warrior youth.
 
The book considered by many to be Evola’s masterpiece, Revolt Against the Modern World was published in 1934, and was influenced by Oswald Spengler's Decline of the West (1918) and René Guénon's The Crisis of the Modern World (1927), both of which had been previously translated into Italian by Evola. Spengler's contribution in this regard was the plurality of civilizations, which then fell into patterns of birth, growth and decline. This was combined with Guénon's ideas on the "Dark Age" or Hindu Kali Yuga, which similarly portrays a bleak image of civilizations in decline. The work also draws upon the writings of Bachofen in regards to the construction of a mythological grounding for the history of civilizations. The original version of Julius Evola's The Mystery of the Grail formed an appendix to the first edition of Rivolta contra il mondo moderno, and as such is closely related to this work.[16]  Three years later he reworked that appendix into the present book, which first appeared as part of a series of religious and esoteric studies published by the renowned Laterza Publishers in Italy, whose list included works by Sigmund Freud, Richard Wilhelm, and C. G. Jung, among others. In this book Evola writes three main premises concerning the Grail myths: That the Grail is not a Christian Mystery, but a Hyperborean one, that it is a mystery tradition, and that it deals with a restoration of sacred regality. Evola describes his work on the Grail in the epilogue to the first edition (1937).
"To live and understand the symbol of the Grail in its purity would mean today the awakening of powers that could supply a transcendental point of reference for it, an awakening that could show itself tomorrow, after a great crisis, in the form of an “epoch that goes beyond nations.” It would also mean the release of the so-called world revolution from the false myths that poison it and that make possible its subjugation through dark, collectivistic, and irrational powers. In addition, it would mean understanding the way to a true unity that would be genuinely capable of going beyond not only the materialistic – we could say Luciferian and Titanic – forms of power and control but also the lunar forms of the remnants of religious humility and the current neospiritualistic dissipation."[17]
Another of Evola’s books, Eros and the Mysteries of Love, could almost be seen as a continuation of his experimentation with Tantrism. Indeed, the book does not deal with the erotic principle in the normal of sense of the word, but rather approaches the topic as a highly conceptualized interplay of polarities, adopted from the Traditional use of erotic elements in eastern and western mysticism and philosophy. Thus what is described here is the path to sacred sexuality, and the use of the erotic principle to transcend the normal limitations of consciousness. Evola describes his book in the following passage:
"But in this study, metaphysics will also have a second meaning, one that is not unrelated to the world's origin since 'metaphysics' literally means the science of that which goes beyond the physical. In our research, this 'beyond the physical' will not cover abstract concepts or philosophical ideas, but rather that which may evolve from an experience that is not merely physical, but transpsychological and transphysiological. We shall achieve this through the doctrine of the manifold states of being and through an anthropology that is not restricted to the simple soul-body dichotomy, but is aware of 'subtle' and even transcendental modalities of human consciousness. Although foreign to contemporary thought, knowledge of this kind formed an integral part of ancient learning and of the traditions of varied peoples."[18]
Another of Evola's major works is Meditations Among the Peaks, wherein mountaineering is equated to ascension. This idea is found frequently in a number of Traditions, where mountains are often revered as an intermediary between the forces of heaven and earth. Evola was an accomplished mountaineer and completed some difficult climbs such as the north wall of the Eastern Lyskam in 1927. He also requested in his will that after his death the urn containing his ashes be deposited in a glacial crevasse on Mount Rosa.
 
Evola's main political work was Men Among the Ruins. This was to be the ninth of Evola's books to published in English. Written at the same time as Men Among the Ruins, Evola composed Ride the Tiger which is complementary to this work, even though it was not published until 1961. These books belong together and cannot really be judged separately. Men among the Ruins shows the universal standpoint of ideal politics; Riding the Tiger deals with the practical "existential" perspective for the individual who wants to preserve his "hegomonikon" or inner sovereignty.[19]  Ride the Tiger is essentially a philosophical set of guidelines entwining various strands of his earlier thought into a single work. Underlying the more obvious sources, which Evola cites within the text, such as Nietzsche, Sartre and Heidegger, there are also connections with Hindu thoughts on the collapse of civilization and the Kali Yuga. In many ways, this work is the culmination of Evola's thought on the role of Tradition in the Age of Darkness – that the Traditional approach advocated in the East is to harness the power of the Kali Yuga, by ‘Riding the Tiger’ – which is also a popular Tantric saying. To this extent, it is not an approach of withdrawal from the modern world which Evola advocates, but instead achieving a mastery of the forces of darkness and materialism inherent in the Kali Yuga. Similarly, his attitude to politics alters here from that expressed in Men Among the Ruins, calling instead for a type of individual that is apoliteia.
"[...] this type can only feel disinterested and detached from everything that is 'politics' today. His principle will become apoliteia, as it was called in ancient times. [...] Apoliteia is the distance unassailable by this society and its 'values'; it does not accept being bound by anything spiritual or moral."[20]
In addition to Evola’s main corpus of texts mentioned previously, he also published numerous other works such as The Way of the Samurai, The Path of Enlightenment According to the Mithraic Mysteries, Il Cammino del Cinabro, Taoism: The Magic, The Mysticism and The Bow and the Club. He also translated Oswald Spengler's Decline of the West, as well as the principle works of Bachofen, Guénon, Weininger and Gabriel Marcel.
 
In 1945 Evola was hit by a stray bomb and paralyzed from the waist downwards. He died on June 11, 1974 in Rome. He had asked to be led from his desk to the window from which one could see the Janiculum (the holy hill sacred to Janus, the two-faced god who gazes into this and the other world), to die in an upright position. After his death the body was cremated and his ashes were scattered in a glacier atop Mount Rosa, in accordance with his wishes.


Gwendolyn Taunton is the editor and sole founder of Primordial Traditions. This article is reprinted from Primordial Traditions (second edition).


NOTES

[1] Julius Evola, The Yoga of Power, Shakti, and the Secret Way (Vermont: Inner Traditions, 1992) ix
[2] ibid., x
[3] Julius Evola, Introduction to Magic: Rituals and Practical Techniques for the Magus (Vermont: Inner Traditions, 2001) ix
[4] ibid., xvii
[5] A. James Gregor, Mussolini's Intellectuals (New Jersey: Princeton University Press, 2005)
[6] ibid., 201
[7] Julius Evola, Introduction to Magic: Rituals and Practical Techniques for the Magus (Vermont: Inner Traditions, 2001) xxi
[8] Julius Evola, The Hermetic Tradition: Symbols and Teaching of the Royal Art (Vermont: Inner Traditions, 1992) ix
[9] ibid., ix
[10] ibid., viii
[11] Julius Evola, The Yoga of Power, Shakti, and the Secret Way (Vermont: Inner Traditions, 1992) xii
[12] ibid., xiv
[13] ibid., xiii
[14] Julius Evola, The Doctrine of the Awakening: The Attainment of Self-Mastery According to the Earliest Buddhist Texts (Vermont: Inner Traditions, 1992) xi
[15] ibid., xv
[16] Julius Evola, The Mystery of the Grail: Initiation and Magic in the Quest for the Spirit (Vermont: Inner Traditions, 1997) vii
[17] ibid., ix
[18] Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex (Vermont: Inner Traditions, 1991) 2
[19] Julius Evola, Men Among the Ruins: Post-War Reflections of a Radical Traditionalist (Vermont: Inner Traditions, 2003) 89
[20] Julius Evola, Ride the Tiger: A Survival Manual for Aristocrats of the Soul (Vermont: Inner Traditions, 2003) 174-175

jeudi, 10 juillet 2014

Conversación sin complejos con el "Último Gibelino"

Représentation_de_Julius_Evola.jpg

Tradición y Sabiduría Universal

Conversación sin complejos con el "Último Gibelino":

Julius Evola

entrevista de Enrico de Boccard

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

La Página Transversal recoge este texto, publicado en su día por la ya desaparecida, pero siempre recomendable revista de Fernando Márquez, El Zurdo, "El Corazón del Bosque", en su número doble 16/17 (Otoño 97 - Invierno 98), por su indudable interés. Cuestiones tales como: sexo, psicoanálisis, satanismo, contestación y otras, tratadas desde la particular cosmovisión de Julius Evola (1898-1974).

La presente entrevista, rescatada por nuestro colaborador Gianni Donaudi (que también nos ha facilitado unos datos de introducción), se publicó en la revista erótico/intelectual "PLAYMEN" en enero del 70. "PLAYMEN" era propiedad de la edirtora Adelina Tattilo, políticamente cercana al PSI/PSU, quien, apoyándose en el radicalizante Attilio Battistini como director de la publicación, buscó (al menos en el plano cultural) dar amplio espacio a autores de muy diferente tendencia política e ideológica.

Eran los años de la contestación y, tras el espontaneísmo inicial del 68, donde los enemigos principales eran el capitalismo, el consumismo (según la definición de Marcuse y Fromm) y el dominio americano sobre el planeta, se llegó, a través de infiltrados demoliberales (a veces situados por los mismos americanos) a reducir la lucha contestataria en términos exclusivamente "antifascistas", colocando el anticapitalismo en un segundo plano (como lúcidamente analizaban las publicaciones de signo internacionalista y bordiguista). Una estrategia que dura hasta hoy, sobre todo gracias a la obra de la izquierda chic, virtual, políticamente correcta.

A pesar de esto, Adelina Tattilo, en coherencia con su radicalismo extremo, no sólo aceptó la entrevista con Evola sino que se enorgullecía de la misma, por protagonirala alguien que sabía escribir, sin importar su procedencia.

El periodista que entrevistó a Evola fue Enrico de Boccard (1921-1981)quien, también para "PLAYMEN", había escrito una hermosa semblanza sobre Céline. Boccard era un ex-oficial de la Guardia Nacional Republicana (de Saló) y fue autor del libro, en parte autobiográfico, Donne e mitra (reeditado recientemente con el título Le donne non ci vogliono piu bene. Por cierto,Boccard no fue el único vinculado a la República Social Italiana que colaboró con "PLAYMEN". También lo hicieron Giose Rimanelli, autor de Tiro al piccione (obra adaptada al cine en el 61 por el director filosocialista Giuliano Montaldo -autor, entre otros films, de Sacco e Vanzetti y Giordano Bruno-), que en la postguerra se acercaría a los comunistas y más tarde involucionaría a la derecha; y Mario Gandini, autor de La caduta di Varsavia (obra sobre sus recuerdos de guerra en el Este y la RSI).

Por razones de espacio, hemos seleccionado los fragmentos que consideramos más interesantes y válidos según la perspectiva corazonesca, y como toque metalingüístico quasi felliniano (habida cuenta de buena parte de la temática de la entrevista), resulta procedente señalar la publicidad que la acompañaba: un vibrador ("novitá della Svezia" en dos modelos -con una y dos velocidades-), un catálogo ilustrado de productos estimulantes (escribir a la empresa sueca "Ekberg Int.") y unos potingues vigorizantes (incluido el, por entonces, mítico Gerovital de la doctora rumana Aslan, así como polen -también "della Svezia"- ideal para... los males de próstata-).

En el último piso de un viejo edificio del centro de Roma vive su intensa jornada uno de los últimos hombres verdaderamente libres en un tiempo en que la libertad se ha convertido en un lujo que se paga cada día, personal y colectivamente, siempre más caro. Este hombre, que ha sobrepasado no hace mucho los setenta años de una existencia riquísima en experiencias intelectuales, artísticas y personales, marcado contsantemente por el signo del más declarado y valeroso anticonformismo, tiene un nombre de resonancia mundial, pese a que la llamada "cultura oficial" italiana, tanto en el Ventennio fascista como después, siempre ha procurado por todos los medios de sofocarlo con una impenetrable cortina de silencio. Este hombre es el filósofo y escritor Julius Evola, autor de unos treinta libros nada superfluos, "revolucionario conservador" por temperamento y por trayectoria. Julius Evola: un aristócrata del espíritu más que de la sangre, que gusta definirse a sí mismo como "el Último Gibelino".

Pregunta - Es bien conocido que usted concede raramente entrevistas y le agradecemos, en nombre de nuestros lectores, por el privilegio gentilmente concedido. Por otra parte, usted es un escritor, un estudioso dotado de tal doctrina y preparación, y con tal bagaje de experiencias que nos encontramos un poco embarazados en el momento de plantearle preguntas, las cuales son tantas en nuestra mente como vasto es el campo de sus intereses (metafísica, crítica de la política, historia de las religiones, orentalismo, etc.). Trataremos de restringirnos a los argumentos que consideramos puedan interesar más a los lectores de la revista o que presenten un carácter de actualidad. Empecemos con una obra, recientemente reeditada (y también con dos ediciones francesas y otra alemana), sistemática y sugestiva, Metafísica del sexo (hay edición en castellano). Usted precisa, a propósito del título, haber usado el término "metafísica" en un doble sentido. ¿Puede aclararnos esto? Respuesta - El primer sentido es el corriente en filosofía, donde por metafísica se entiende una búsqueda de los principios o significados últimos. Una metafísica del sexo será, por tanto, el estudio de lo que, desde un punto de vista absoluto, significa el eros y la atracción de los sexos. En segundo lugar, por metafísica se puede entender una exploración en el campo de lo que no es físico, de lo que está más allá de lo físico. Es unpunto esencial de mi búsqueda el sacar a la luz lo que el eros y la experiencia del sexo supone de trascendencia de los aspectos físicos, carnales, biológicos y también pasionales o convencionalmente sentimentales o "ideales" del amor. Esta dimensión más profunda fue considerada en otro tiempo, en múltiples tradiciones, y constituye el presupuesto para un posible uso "sacro", místico, mágico y evocatorio del sexo; pero ello también influye en muchos actos del amor profano, revelándose a través de una variedad de signos que yo he tratado de individuar sistemáticamente. En mi libro señalo también cómo hoy, en una inversió quasidemoníaca, cierto psicoanálisis resalta una primordialidad infrapersonal del sexo, y opongo a esta primordialidad otra, de carácter "metafísico" o trascendente, pero no por esto menos real y elemental, de la que la anterior sería la degradación propia de un tipo humano inferior.

P - Usted también ha afrontado el problema del sexo sobre el terreno de la costumbre y de la ética, y siempre de manera anticonformista. ¿Qué piensa, por tanto, de lo que hoy se denomina "revolución sexual"?

R - A mí, qué cosa significa esta "revolución" no lo veo nada claro. Parece que se busca la absoluta libertad sexual, la completa superación de toda represión social sexófoba y de toda inhibición interna. Pero aquí hay un gravísimo malentendido, debido a las instancias llamadas "democráticas". Una libertad semejante no puede reivindicarse para todos: solamente pocos se la pueden permitir, no por privilegio sino porque, para no ser destructiva, hace falta una personalidad bien formada. En particular, el problema debe ser situado en modo distinto para el hombre y para la mujer, insisto, no por prejuicio sino por el distinto significado que la experiencia erótica, la auténtica e intensa, tiene para la mujer. Justamente Nietzsche había indicado que la "corrupción" (aquí, la "libertad sexual") puede ser un argumento sólo para quien no puede permitírsela, por ejemplo, para quienes no pueden hacer suyo el principio de querer sólo las cosas a las cuales también son capaces de renunciar.

La "revolución sexual" en clave democrática comporta, pues, una consecuencia gravísima, hacer del sexo una especie de género corriente, de consumo de masas, lo que significa necesariamente banalizarlo, superficializarlo, acabando en un insípido "naturalismo". En otro libro mío, "L´Arco e la Clava" ("El Arco y la Clava", existe traducción al castellano), he mostrado cómo las nuevas reivindicaciones sexuales son paralelas a una concepción siempre más primitiva de la sensualidad por parte de sus principales teóricos, a partir de Reich. Un caso particular es la falta de pudor femenina, vinculada con similares propuestas antirepresivas. A fuerza de ver mujeres desnudas o casi en espectáculos teatrales y cinematográficos, en locales porno, en top-less, etc, este desnudo acaba por convertirse en una banalidad que poco a poco dejará de producir efecto, al margen de los directamente dictados por el primitivo impulso biológico. Este impudor debería ser despreciado no desde el punto de vista de la "virtud" sino del exactamente opuesto. Por ese camino se puede llegar a un resultado de "naturalidad" e indiferencia sexual mucho mayor al soñado por cualquier sociedad puritana. (...)

P - De su exposición, parece que su juicio sobre el psicoanálisis sea negativo (...)

R - Evidentemente que no puedo profundizar exhaustivamente en esta argumentación. Pero sí señalaré que ante todo ha de relativizarse la idea de que el psicoanálisis descubre por vez primera la dimensión subterránea del Yo, el subconsciente y el inconsciente psíquico. Ya antes de Freud la psicología occidental, conectada con la fenomenología de la hipnosis y del histerismo, había prestado atención sobre este "subsuelo" del alma. Bastante más profundamente, y en muy diversa amplitud, ello estaba considerado en Oriente desde siglos, gracias al Yoga y técnicas análogas. El psicoanálisis puede ser una psicoterapia, y ofrecer resultados singulares en un plano clínico especializado. Pero no más: en su esncia es una concepción absolutamente desviada y mutilada del ser humano. Al colocar la verdadera fuerza motriz del hombre sobre el plano del inconsciente infrapersonal e instintivo, Freud concretamente bajo el signo de la libido, niega la existencia de un superior principio consciente, autónomo y soberano, porque en su lugar pone cualquier cosa del exterior, el llamado SuperYo, que sería una construcción social y el producto de la asunción de formas inhibitorias creadas por el ambiente o las estructuras sociales. Ello equivale a decir que el psicoanálisis niega en el hombre lo que lo hace verdaderamente tal, y su imagen, la cual querría aplicar al hombre de manera genérica, o es una mixtificación o vale únicamente para un tipo humano dividido, neurótico, espiritualmente inconsistente. Es bien posible que el éxito del psicoanálisis sea debido a la gran difusión que en la época moderna ha tenido este tipo. Como praxis y como tendencia, el psicoanálisis propicia esencialmente aperturas hacia abajo y significa una capitulación más o menos explícita de todo lo que es verdadera personalidad. La posible existencia de un "superconsciente", opuesto al "inconsciente", luminoso frente a lo turbio y "elemental" es ignorada por completo. (...)

P - Ha mencionado antes a Wilhelm Reich. Queremos conocer su opinión sobre su persona y su obra. ¿Reich le parece un estudioso serio o un exaltado? ¿Y qué piensa de las aplicaciones de los principios de él y de sus seguidores en el plano sociológico y político/sociológico, de sus denuncias de los sistemas "autoritarios"?

wilhelmreich.jpgR - Reich me parece afectado por una variedad de paranoia. Su mérito es haber intuido que en el sexo existe algo trascendente, más allá de lo individual. Ello concuerda con las enseñanzas de múltiples tradiciones. pero esta intuición está muy desviada. No debe decirse que el sexo es algo trascendente, sino que en ello se manifiesta (potencialmente y en ciertas circunstancias, incluso hoy día) algo trascendente, que como tal no pertenece al plano físico. Este elemento Reich lo concibe en términos materialistas como una energía natural, como la electricidad o algo así, al punto que, como "energía orgónica", ha buscado dotarla (gastando verdaderos capitales) de sustancia física, construyendo finalmente "condensadores" de la misma. Todo esto no son sino divagaciones. A lo que hemos de añadir una "teoría de la salvación", en cuanto que Reich ve en la obstrucción de dicha energía la cuas de todos los males, individuales y sociales (hasta el mismo cáncer) y, en su completa y desenfrenada explicación, el orgasmo sexual integral como una especie de medicina universal, presupuesto para un orden social sin tensiones, armonioso, pacífico.

Es interesante detenernos un momento sobre el presupuesto de esta concepción, porque así podremos comprender las aplicaciones político/sociales de los reichianos. Freud en su madurez había admitido la existencia, junto al impulso de placer, la libido, de un opuesto, el instinto de destrucción (o "de muerte"). Reich niega esta dualidad y deduce el segundo instinto, el destructivo, del impulso único de placer. Cuando este instinto resulta impedido o "bloqueado", nacería una tensión, una angustia y sobre todo una especie de "rabia", de furia destructiva (en caso de no tomar la vía del "principio del nirvana": una evasión, una fuga de la vida). Este impulso destructivo (y agresivo) cuando se vuelve contra sí, da al hombre la orientación masoquista, y cuando se dirige a los otros, al orientación sádica.

De todo ello resulta en primer lugar que sadismo y masoquismo serían fenómenos patológicos, causados por la represión sexual. Lo que es una estupidez: existen ciertamente formas de sadismo y masoquismo vinculadas a la psicopatología sexual (según el concepto normal, no ya psicoanalítico), pero también existe un sadismo (masculino) y un masoquismo (femenino) como elementos constitucionales intrínsecos y en un cierto modo normales en toda experiencia erótica intensa. De hecho, esta experiencia tiene siempre algo de destructivo y autodestructivo (por las relaciones, múltiplemente demostradas, entre voluntad y muerte, entre la divinidad del amor y la divinidad de la muerte); y es en este aspecto que se piensa cuando, en ciertas escuelas, se cree que el clímax adecuadamente conducido puede tener, en su momento "fulgurante", algo que destruye por un momento los límites de la conciencia mortal individual. Pues bien, con la concepción de Reich, toda esta intensidad desaparece, y la consecuencia es una concepción pálida, blandamente dionisíaca, o idílica (como en Marcuse) de la sexualidad: es una de las paradojas de la llamada "revolución sexual".

No menos absurda es, en particular, la deducción de la agresividad por la inhibición del impulso primordial del sexo a cristalizar en un orgasmo completo, según la cual, cuando la obstrucción remite (en el individuo o en una sociedad "permisiva" y no "represiva" o "patriarcal") no habrá más agresividad, guerra, violencia, etc; lo que viene al mismo tiempo a decir que todo lo que hace referencia a actitudes guerreras, de conquista (en la jerga moderna, de "agresión") tendrñia la represión sexual por causa y origen. Ante esto, sólo puedo reír. La actitud agresiva es en primer lugar comprobada en los animales, evidentemente no sometidos a tabúes sexófobos y "patriarcales". En segundo lugar ya el mito ha indicado el perfecto acuerdo entre Marte y Venus, y la historia nos muestra como todos los más grandes conquistadores carecían de complejos de frustración sexual y hacían un libre y amplío uso del sexo. En la práctica, la consecuencia de la teoría de Reich es un ataque contra elementos fundamentales congénitos en todo tipo "viril" de humanidad o ser humano, que son presentados grotescamente en clave de patología sexual.

En cuanto a las conclusiones político/sociales. Proyectada sobre ese plano, la tendencia masoquista daría lugar al tipo del gregario, de aquel que gusta de servir y obedecer, que se pone al servicio de un jefe, con o sin "culto a la personalidad", y está siempre dispuesto a sacrificarse. La tendencia sádica daría lugar al tipo del dominador, de quien ejercita una autoridad, autoridad evidentemente concebida en los exclusivos términos parasexuales de una libido. De la unión de estas dos tendencias nacerían las estructuras "autoritarias" y "fascistas". Una vez más, se deforman grotescamente los datos reales de la conciencia. Del obedecer y del mandar pueden darse desviaciones. Pero, en general, se trata de disposiciones normales: existe una autoridad que tiene por contrapartida una superioridad, como existe una obediencia debida no a un servilismo masoquista sino al orgullo de seguir libremente a gentes a quienes se reconoce una superioridad. Así, mientras por un parte Reich proclama una mística mesiánica del abandono integral al orgasmo, al mismo tiempo ello actúa como preciosas coartadas para un puro anarquismo.

P - En relación con el asesinato de la actriz Sharon Tate y otros se ha hablado de "satanismo" y en los periódicos hoy se insiste en buscar conexiones entre sexo, magia y satanismo. ¿Nos puede aclarar esto?

R - En principio, existen conexiones posibles entre magia y sexo. Considerando la dimensión "trascendente" del sexo, a la que ya me he referido, se recoge en diversas tradiciones que por medio de la unión sexual conducida de determinado modo y con una orientación particular es posible destilar energías y usarlas mágicamente. La continuidad de estas tradiciones hasta un tiempo relativamente reciente es testimoniada, entre otros, en un libro, Magia sexualis de P. B. Randolph. Un ejemplo ulterior lo constituyen las prácticas mágico/sexuales y orgiásticas de Aleister Crowley, figura interesante que, por desgracia, se suele presentar con los colores más "negros" posibles. Pero en este campo se debe distinguir entre las mixtificaciones y lo que tiene un valor auténtico y una realidad. Ante todo ha de verse, por ejemplo, si se hace el amor para hacer magia o si se hace magia (o pseudomagia) para hacer el amor, o sea, si se usa la magia como un pretexto para montar orgías o para darle al acto un aire más excitante. Es cierto también que existe una tercera posibilidad, la de usar medios siríamos "secretos" con el concurso de fuerzas suprasensibles para dar un particular desarrollo paroxístico a la experiencia del coito, sin forzar por ello la naturaleza: esta vía es algo extremadamente peligroso, por razones que no viene al caso indicar ahora.

En cuanto al "satanismo" señalaré que donde predomina un clima "sexófobo" (como en el cristianismo) es fácil calificar de "diabólico" todo lo que suponga potenciar la experiencia sexual. Más genéricamente, es obvio que un "satán" existe sólo en las religiones donde ello es la contraparte "oscura" de un Dios con características "morales"; cuando como vértice del universo, en vez de Dios, se pone una "Potestad" como tal superior y más allá del bien y del mal, evidentemente un "Satán" a la cristiana no es concebible. Hay lugar sólo para la idea de una fuerza cósmica destructora, presente en el mundo y en la vida, en lo sensible y lo suprasensible, al lado de las fuerzas creadoras y conservadoras, como la "otra mitad" del Absoluto. Y existen tradicones sacras -la más característica es la tántrico/shivaica- que tienen por objeto asumir esa fuerza, diversamente concebida. Característica es la llamada "Vía de la Mano Izquierda", donde, por ejemplo, el uso de la mujer, de sustancias embriagadoras y eventualmente de la orgía, se asocia a una moral del "más allá del bien y del mal" que haría palidecer de envidia al "superhombre" Nietzsche. De dicha vía, que algunos timoratos occidentales han calificado como la "peor de las magias negras" he hablado en mi libro Lo Yoga della Potenza. Pero el punto importante es que en sus formas auténticas tales prácticas están concebidas en los mismos términos del Yoga, y no son elementos disociados, como los hippies americanos, quienes pueden permitírselas. Volvemos aquí, pero aumentadas, a poner las mismas reservas que he hecho acerca de la "revolución sexual" y sus reivindicaciones. En las tradiciones la base para darse a estas prácticas está constituida por una disciplina de autodominio profundo similar a la de los ascetas, tras una regular "iniciación".

P - Pasando a un campo distinto pero en parte relacionado, me llama la atención cómo en algunos libros históricos o pseudohistóricos sobre el III Reich hitleriano se habla de un fondo oculto, mágico/tenebroso, del nacionalsocialismo alemán. ¿Puede decime brevemente qué le parece este argumento?

R - Para quien busque los supuestos trasfondos "ocultos" del III Reich, el argumento me llevaría más allá de los límites en los cuales estoy manteniendo esta entrevista. Me limitaré a decir que, como persona que ha tenido oportunidad de conocer bastante de cerca la situación del III Reich, puedo declarar que se trata de puras fantasías, y así se lo dije a Louis Pauwels, quien en su libro El retorno de los brujos ha contribuido a defender tales rumores; él vino una vez a conocerme, hablamos y en ningún momento me presentó dato alguno mínimamente serio que apoyase su tesis. Se puede hablar no de "iniciático" sino de "demoniaco", en un sentido general, en el caso de todo movimiento que en base a una fanatización de las masas creer cualquier cosa cuyo centro será el jefe demagógico que produce esta especie de hipnosis colectiva usando tal o cual mito. Dicho fenómeno no está relacionado con lo "mágico" o con lo "oculto", aunque tenga un fondo tenebroso. Es un fenómeno recurrente en la Historia, por ejemplo, la Revolución Francesa o (en parte) el maoísmo.

P - Usted es autor de una obra considerada como fundamental por cuantos siguen atentamente su actividad, Revuelta contra el mundo moderno. Se afirma por muchos que usted, con este libro (publicado por vez primera en 1934), anticipó en varios lustros las visiones, hoy tan en boga, expresadas por Marcuse. En otras palabras, desde posiciones absolutamente distintas a la del profesor germano/americano, usted habría sido el primero en tomar postura contra "el sistema". ¿Le parece válida esta comparación con Marcuse? Y, de otra parte, ¿dado el papel que Marcuse tiene en las actuales formas de "contestación" juvenil contra el mundo moderno, qué significado y qué imagen tiene para usted este movimiento contestatario?

R - En verdad, como precedentes de Marcuse, y planteando cosas bastante más interesantes, muchos otros autores deberían ser nombrados: un Tocqueville, un John Stuart Mill, un A. Siegfried, el mismo Donoso Cortés, en parte Ortega y Gasset, sobre todo Nietzsche, y aún más el insigne escritor tradicionalista francés René Guenón, especialmente en su Crisis del mundo moderno que yo traduje al italiano en su momento. A finales del siglo pasado Nietzsche había previsto uno de los rasgos destacados de las tesis de Marcuse, con las breves, incisivas frases dedicadas al "último hombre": "próximo está el tiempo del más despreciable de los hombres, que no sabe más que despreciarse a sí mismo", "el último hombre de la raza pululante y tenaz", "nosotros hemos inventado la felicidad, dicen, satisfechos, los últimos hombres", que han abandonado "la región donde la vida es dura". Y esta es la esencia de la "civilización de masas, del consumo y del bienestar" pero también la única que el mismo Marcuse ve como perspectiva en términos positivos, cuando los desarrollos ulteriores de la técnica unidos a una cultura de transposición y sublimación de los instintos habrán sustraído a los hombres de los "condicionamientos" del actual sistema y de su "principio de prestación". La relación con mi libro no es tal porque, en primer lugar, el contenido de éste no corresponde con el título: no es mi obra de naturaleza polémica, sino una "morfología de la civilización", una interpretación general de la Historia en términos no "progresistas", de evolución, sino más bien de involución, indicando sobre estas premisas el nacimiento y el declive del mundo moderno. Sólo por caminos naturales y consecuentes se propone una "revuelta" a los lectores y, más concretamente, tras un estudio comparado de las más diversas civilizaciones, he procurado indicar lo que en diversos dominios de la existencia puede reivindicar un carácter de norma en sentido ascendente: el Estado, la ley, la acción, la concepción de la vida y de la muerte, lo sagrado, las relaciones sociales, la ética, el sexo, la guerra, etc. Esta es la primera diferencia fundamental respecto a las diversas contestaciones de hoy: no se limita a decir "no", sino que indica en nombre de qué debe decirse "no", aquello que puede verdaderamente justificar el "no". Y un "no" auténticamente radical, que no se restrinja a los aspectos últimos del mundo moderno, a la "sociedad de consumo", a la tecnocracia y demás, sino mucho más profundo, denunciando las causas, considerando los procesos que han ejercido desde hace tanto tiempo una acción destructiva sobre todos los valores, ideales y formas de organización superior de la existencia. Todo esto ni Marcuse ni los "contestatarios" en general lo han hecho: no tienen la capacidad ni el coraje. En particular, la sociología de Marcuse es absolutamente rechazable, determinada por un grosero freudismo con tonalidades reichianas. Así, no resulta extraño que sean tan escuálidos e insípidos los ideales que se proponen para la sociedad que siga a la "contestación" y a la superación del llamado "sistema".

Naturalmente, quien comprenda el orden de ideas expuesto en mi libro no puede permitirse el menor optimismo. Por ahora encuentro solamente posible una acción de defensa individual interior. Es así que en otro libro mío, Cabalgar el tigre, he procurado señalar las orientaciones existenciales que debería seguir un tipo humano diferenciado en una época de disolución como la actual. En él, he dado particular relieve al principo de la "conversión del veneno en medicina", según la medida en que, a partir de una cierta orientación interior, de experiencias y procesos mayormente destructivos se puede extraer cierta forma de liberación y autosuperación. Es una vía peligrosa pero posible. (...)

(entrevista: Enrico de Boccard)
(traducción: Fernando Márquez. Página "Linea de Sombra")

Nota de la Página Transversal:
Existen traducciones al castellano de todas las obras mencionadas en el texto.
Evola, Julius. Metafísica del sexo. Col. Sophia Perennis. José J. de Olañeta, Editor. Palma de Mallorca, 1997.
- El arco y la clava. Ediciones Heracles, Buenos Aires, 1999.
-El yoga tántrico. Un camino para la realización del cuerpo y el espíritu. Madrid, Edaf, 1991.
- Rebelión contra el mundo moderno. Ediciones Heracles, Buenos Aires, 1994.
- Cabalgar el tigre. Ediciones Heracles, Buenos Aires, Buenos Aires, 1999.
Guenon, René. La crisis del mundo moderno. Ed. Obelisco, Barcelona, 1987
Pauwels, Louis; Bergier, Jacques. El retorno de los brujos. Plaza & Janés, Barcelona, 1971.

dimanche, 01 juin 2014

J. Evola: Metafisica del sesso e idealismo magico

 

samedi, 31 mai 2014

Julius Evola

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Tradizione e rivoluzione: intervista con Renato Del Ponte

Tradizione e rivoluzione: intervista con Renato Del Ponte

In occasione della scorsa festa nazionale di CasaPound Italia, il professor Renato del Ponte ci ha gentilmente concesso la presente intervita. Presente alla festa di CPI per presentare in anteprima un libro da lui curato su Adriano Romualdi e il periodo della contestazione negli anni '70: "Lettere ad un amico" Ed. Arya.
 
Il Professore è tornato per noi sul suo percorso universitario, metapolitico e culturale. Ha trattato del suo rapporto con Julius Evola, della sua visione del mondo, delle vie che l'uomo differenziato può ancora percorrere nella presente epoca di fine ciclo.
 
Un'intervista introduttiva per chi vuole conoscere il lavoro di chi ha dedicato le proprie energie a vivificare e trasmettere quella fiamma mai assopita nella nostra identità: la Tradizione Romana.
 
Questo è il nostro primo video in italiano.
 
Un ringraziamento alle sezioni di CasaPound Liguria e Cuneo per aver reso possibile il presente incontro.
 
I Non Allineati.
 
Inizio :
Dalla Tradizione allo studio delle religioni.
4 min 30 : 
L'incontro con Julius Evola. 
7 min 15 :
L'influenza e il ruolo di Evola.
15 min 59 :
Tradizione e politica

 

jeudi, 13 mars 2014

Evola on Meditation

Evola on Meditation: Four Techniques for Controlling the Thoughts

Julius Evola, “Astrazione,” c. 1920

Julius Evola’s guide to Theravāda Buddhism, The Doctrine of Awakening, is divided into two sections. The first part covers the theories and doctrines of primitive Buddhism, and the second half delves into practical techniques for the disciple. (See my review of The Doctrine of Awakening.)

These practical techniques give the modern-day disciple a detailed guide from a trusted source, for Evola relies solely on the teachings of the Buddha and his disciples (unlike modern-day Buddhist guides for the layman, which tend to ignore certain ideas).

This post highlights Evola’s instructions for the “four instruments” that can help control the thought. Mental control must be the first urgent concern of a disciple, for “in its fluid, changeable, and inconsistent character, normal thought reflects, moreover, the general law of samsāric consciousness” (pg. 109).

According to Buddhist doctrine, thought is located in the “cavern of the heart,” meaning that it isn’t merely a mental or psychological process. Thus, the entire body must be engaged in its control. Rather than “forcing” oneself into a false mental control, Evola says one must:

simultaneously, proceed to an act of conversion of the will and of the spirit; interior calm must be created, and one must be pervaded by intimate, sincere earnestness. (pg. 109)

Based on this description, it can be suggested that the disciple contact a metaphysical energy to help manifest the will and spirit in order to better control the thoughts and other aspects of samsāric existence.

The result of mental control is a state called appamada, which means “conscientious” or “concern.” This is the state of consciousness in which one is master of oneself, by virtue of being centered in oneself. Rather than letting your thoughts control you or run wild, it is the “first form of entry into oneself, of an earnestness and of a fervid, austere concentration” (pg. 110). According the Max Muller, appamada forms the base of every virtue. The being who possesses appamada is said to not die, while those who let their thoughts run wild are as if already dead:

From his heights of wisdom he will look down on vain and agitated beings, as one who lives on a mountaintop looks down on those who live in the plains. (pg. 110)

All of this requires an incredible strength of will. Control of the thoughts should be the first step in developing the will and control required for the path of awakening. Here are the four techniques (“instruments”) that can be used to control the thoughts:

The First Instrument: Substitution

This technique should be used when harmful and unworthy thoughts arise–those that are manifestations of the asava, that is, thought-images of craving, aversion, or blindness. When these thoughts arise, one should replace them with a beneficial idea. This beneficial thought will dissolve the harmful one and in the process, “the intimate spirit will be fortified, will become calm, unified, and strong.”

There are several characteristics of an unworthy thought. Basically, any thought that encourages desires, cravings, errors in thinking (i.e., thoughts not in keeping with the Four Noble Truths and Noble Eightfold Path), and thoughts that serve to bind the thinker to the world could all be said to be unworthy. Here is a description:

That, whereby fresh mania of desire sprouts and the old mania is reinforced; fresh mania of existence sprouts and the old mania is reinforced; fresh mania of error sprouts and the old mania is reinforced.

Part of this first technique involves creating a “chain of beneficial thoughts.” When a thought of “ill will or cruelty” arises, here is what one should think:

It leads to my own harm, it leads to others’ harm, it leads to the harm of both, it uproots wisdom, it brings vexation, it does not lead to extinction, it leads to self-limitation.

If this process of thought-replacement is performed with sufficient sincerity and intensity, then the harmful thought will dissolve.

The Second Instrument: ‘Expulsion Through Horror or Contempt’

This practice involves getting rid of harmful thoughts by associating them with things that fill you with disgust and loathing. Evola cites a simile for the technique from a Buddhist text:

‘Just as a woman or a man, young, flourishing and charming, round whose neck were tied the carcass of a snake, or the carcass of a dog, or a human carcass, would be filled with fear, horror, and loathing,’ so, the perception of the unworthy character of those images or thoughts should produce an immediate and instinctive act of expulsion, from which their dispersion or neutralizing would follow. Whenever an affective chord is touched, then by making an effort one must be able to feel contempt, shame, and disgust for the enjoyment or dislike that has arisen. (pg. 111)

Evola is adament that this repulsion should not be an act of struggling, but should arise naturally from a sense of superiority over states of mind that are unworthy. One should be filled with an “earnestly lived sense of the ‘indignity’ and irrationality of the images and inclinations that appear” (113).

The Third Instrument: Dissociation

The third technique for controlling thoughts is to not become attached to them–simply ignore them. Evola recounts a simile for this technique as well:

As a man with good sight, who does not wish to observe what comes into his field of view at a particular moment can close his eyes or look elsewhere. When attention is resolutely withheld, the images or the tendencies are again restrained. (pg. 112-113)

Evola cautions that the practitioner should be careful to not merely “chase away” a thought–doing so could have the opposite effect of causing the thought to come back even stronger. One must instead have the strength of will to not even see or acknowledge the thought.

This practice is especially useful for a normal but active state of mind (rather than when obsessed with a particular thought). This is the “monkey mind” referred to by Buddhists, in which a man is merely a passive participant of the images, emotional states, and thoughts that overtake him. Evola says these “psychoaffective aggregates of fear, desire, hope, despair, and so on, fascinate or hypnotize [the] mind, subtly tying it, they ‘manipulate’ it by their influence and feed on its energies like vampires” (pg. 113).

The Fourth Instrument: Gradual Dismemberment

The fourth technique is the practice of making the thoughts vanish, one after the next. It is a means of stopping desire by analyzing it down to its roots, so that it disappears. By examining the reasons behind every thought, behavior, and desire, a person can effectively halt any obsession.The simile is:

Just as a man walking in haste might think: ‘Why am I walking in haste? Let me go more slowly’ and, walking more slowly, might think: ‘But why am I walking at all? I wish to stand still’ and, standing still, might think: ‘For what reason am I standing up? I will sit down’ and, sitting down, might think: ‘Why must I only sit? I wish to lie down’ and might lie down; just so if harmful and unworthy thoughts, images of craving, of aversion and of blindness, again arise in an ascetic in spite of his contempt and rejection of them, he must make these thoughts successively vanish one after another.’ . . . [this way considers] them with a calm and objective eye one after another. (pg. 113)

This practice is based on what Buddhists texts call “the conditioned nature of desire.” This refers how a chain of thoughts is created, such as an obsession that feeds itself, but that can be broken if the conditions it depends and feeds upon are broken.

Direct Action (The ‘Fifth’ Instrument)

This technique is advised if none of the four instruments will work. The method is to clench the teeth and press the tongue hardly against the roof of the mouth (the palate) and, with your will, “crush, compel, beat down the mind.” The simile is:

As a strong man, seizing another weaker man by the head or by the shoulders, compels him, crushes him, throws him down. (pg. 114)

The same precaution applies for this technique as the others: It must not be performed from a place of weakness, but from a place of superiority. Evola says the practitioner must be able to call on the illumination and energy that exists outside of the samsāric current. Only then, he writes, ”is there no danger that the victory will be merely exterior and apparent, and that the enemy, instead of being destroyed, has disengaged and entrenched himself in the subconscious” (pg. 114).

*  *  *

For more on the four instruments, see Evola’s Doctrine of Awakening. For a general background on the Buddhist theories behind these instruments, see my review of The Doctrine of Awakening.

mercredi, 12 mars 2014

The Paintings of Julius Evola

The Paintings of Julius Evola

 

Julius Evola, "Paesaggio interiore, illuminazione," 1919

Julius Evola, “Paesaggio interiore, illuminazione,” 1919

 

The esotericist Julius Evola came to view Dadaism as decadent later in his life, and only spent a few years as a painter. But for fans of his writing and philosophy, the paintings he did in his youth hold a special fascination, and provide insights into his later philosophy.

 

Evola has been called “Italy’s foremost exponent on Dadaism between 1920 and 1923″ (according to Roger Griffin’s Modernism and Fascism, pg. 39). Fifty-four of his paintings were exhibited in Rome in 1920, and an exhibition in Berlin included 60 paintings by Evola. and According to an essay on Dada on the website of New York’s Museum of Modern Art, Evola launched a Rome Dada season in April 1921, which included an exhibition at the Galleria d’Arte Bragaglia that included works by Mantuan Dadaists Gino Cantarelli and Aldo Fiozzi, as well as performances at the Grotte dell’Augusteo cabaret. Evola did readings from Tristan Tzara’s Manifeste dada 1918 and said that Futurism was dead, causing an uproar.

 

Evola’s intellectual autobiography, The Path of Cinnabar, provides insights into Evola’s foray into the art world in the chapter “Abstract Art and Dadaism.” He was attracted to Dada for its radicalism, since it “stood for an outlook on life which expressed a tendency towards total liberation, conjoined with the upsetting of all logic, ethic and aesthetic categories, in the most paradoxical and baffling ways” (pg. 19). He quotes Tzara: “What is divine within us, is the awakening of an anti-human action” and cites a Dadaist philosophy with a premise in keeping with Evola’s thoughts on the Kali Yuga:

 

Let each person shout: there is a vast, destructive, negative task to fulfil. To swipe away, and blot out.In a world left in the hands of bandits who are ripping apart and destroying all centuries, an individual’s purity is affirmed by a condition of folly, of aggressive and utter folly. (pg. 19)

 

Evola says that such an emphasis on the absurd seems, at an external level, analogous methods used by schools of the Far East such as Zen, Ch’an, and Lao Tzu’s writings.

 

If some of Evola’s paintings seem ugly, it’s not without purpose and intent from the artist. In 1920′s Arte astratta, Evola outlined his theory that “passive aesthetic needs were subordinate to the expression of an impulse towards the unconditioned.” Dadasim, as Evola understood it, was not to create art as it’s usually understood, but “signalled the self-dissolution of art into a higher level of freedom” (Cinnabar, pg. 20-21).

 

It was during the Dadaist period of his life that Evola started reading about esotericism. He met neo-Pythagorean occultist Arturo Reghini in the early 1920s. He quit painting in the early 1920s, and stopped writing poetry in 1924–not to pursue either again for more than 40 years (according to Gwendolyn Toynton’s essay “Mercury Rising” at Primordial Traditions). Although Evola left the Dadaist movement after a few years, in an interview in 1970 he said that the movement even today “remains unsurpassed in the radicalism of its attempt to overturn not only the world of art, but all aspects of life” (Cinnabar, pg. 257).

 

The following paintings are compiled from numerous sites on the Internet. I believe this is the most complete and detailed collection of Evola paintings on the web (in English, at least).

 

Early works (1916-1918):

 

Julius Evola, “Tendenze di idealismo sensoriale” (“The tense of aesthetic idealism”), 1916-18

 

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Julius Evola, “Sequenza dinamica (etere)” (“Dynamic synthesis (ether)”), 1917-18

 

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Julius Evola, “Tendenze di idealismo sensoriale” (“The tense of aesthetic idealism”), 1916-18

 

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Julius Evola, “Five o’clock tea,” 1917

 

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Julius Evola, “Mazzo di fiori” (“Bunch of flowers”), 1918

 

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Julius Evola, “Fucina, studio di rumori” (“The Forge, study on noise sounds”), 1917-18

 

The painting below appears to have sold at Christie’s for $43,152. A different source gives the date as 1920-21:

 

Julius Evola, “Paesaggio interiore ore 3 A.M.” (“Inner Landscape, 3 a.m.”), 1918

 

The following painting, according to the book Alchemical Mercury: A Theory of Ambivalence by Karen Pinkus, is now in the Kunsthaus of Zurich. On one of the many geometric blocks, Evola has written “Hg” (the symbol for Mercury) in red ink. According to Pinkus, “this is a very interesting gesture, especially as the inscription seems entirely disjoined from the composition itself, as if it had been an afterthought, and a reflection of the troubled relationship between modern chemistry as abstraction and alchemical materiality.”

 

Julius Evola, “Paesaggio interiore, illuminazione,” 1919

 

This oil painting is hanging on a wall of the National Gallery of Modern Art in Rome (according to Guido Stucco’s introduction to The Yoga of Power, pg x):

 

Julius Evola, “Paesaggio interiore ore 10,30″ (Inner Landscape, 10:30 a.m.”), 1918-20

 

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Julius Evola, “Senza titolo,” 1919

 

This oil-on-cardboard painting comes up in past auction searches for Evola’s work:

 

Julius Evola, “Portrait cubiste de femme,” 1919-20

 

The following two works were published in Evola’s 1920 book Arte astratta: Posizione teorica, 10 poemi, 4 composizioni (Rome: P. Maglione & G. Strini). You can see the other two compositions in a online scan of the book at the website of The International Dada Archive at the University of Iowa Libraries. Evola’s essay “Abstract Art” is available in English translation in the book Dadas on Art.

 

Julius Evola, “Composizione N. 3,” c. 1920

 

* * *

 

Julius Evola, “Composizione,” c. 1920

 

Middle Works (early 1920s):

 

Julius Evola, “Composizione (Paesaggio) dada N. 3″ (“Composition (Landscape) dada N. 3″), c. 1920

 

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Julius Evola, “Astrazione” (“Abstraction”), 1920

 

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Julius Evola, “Astrazione” (“Abstraction”), 1920

 

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Julius Evola, “Composizione Dada,” 1920

 

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Julius Evola, “Composizione n. 19,” 1918-20

 

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Julius Evola, “Piccola tavola (vista superiore)” (“Small table (upper surface)”), 1920

 

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Julius Evola, “Paesaggio interire, aperture del diaframma” (“Interior landscape, the opening of the diaphragm”), 1920-21

 

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Julius Evola, “La libra s’infiamma e le piramidi” (“The book in flames and the piramides”), 1920-21

 

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Julius Evola, “Senza titolo,” 1921

 

Late paintings:

 

Numerous sources on the web, including academic papers and art auction houses, show paintings by Evola that he did much later in his life, several which are shown below. If any readers know where to find information about Evola’s later works in English, I would greatly appreciate being contacted in order to update this section.

 

This painting was listed at an art auction website, and said to be painted in 1945:

 

Julius Evola, “Paesaggio interiore”

 

The following two paintings are cited in Julius Evola: L’Altra Faccia Della Modernita by Francesca Ricci and on the website of the Fondazione Julius Evola.

 

Julius Evola, “Nudo di donna (afroditica)” (“Nude of aphrodite beauty”), 1960-70

 

*  *  *

 

Julius Evola, “La genitrice dell’universo” (“The generator of the Universe”), 1968-70

 

*  *  *

 

Readers interested in seeing more of Evola’s artwork can check out this video, which has additional images:

 

http://youtu.be/gVIJ_1JZs-8

 

And this French TV interview, with English subtitles, is Evola on Dada:

 

http://youtu.be/mS-a4KvZH_o

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dimanche, 17 novembre 2013

L'uomo che cavalcava la tigre

L'uomo che cavalcava la tigre. Il viaggio esoterico del barone Julius

di Andrea Scarabelli

Ex: http://www.juliusevola.it

img781.jpgQuello che presentiamo è un autentico viaggio, realizzato attraverso le opere pittoriche evoliane, che ripercorre le tappe fondamentali della vita di quello che è uno dei protagonisti della cultura novecentesca. Un viaggio nel quale Evola non è una semplice comparsa ma autentico medium delle sue opere, trascinando il lettore all'interno del suo mondo, biografico ma soprattutto metabiografico.

Un passo per volta, però. Lo sfondo di queste pagine è il vernissage di un'ipotetica esposizione: “Ea, Jagla, Julius Evola (1898-1974), poeta, pittore, filosofo. Il barone magico. Attraverso questa Mostra, promossa dalla Fondazione Julius Evola, conosceremo l'Evola pittore futurista e dadaista. È questa la prima retrospettiva a lui dedicata nel XXI secolo” (p. 13). Henriet ci invita a questa esposizione immaginaria, all'interno della quale ogni dipinto prende vita, inaugura una dimensione metatemporale e ci conduce attraverso le sillabe alchemiche dell'universo pittorico evoliano. Senza però fermarsi alle tele, a futurismo e dadaismo ma estendendosi all'interezza della “tavolozza dai molti colori dell'Irrazionalismo evoliano” (p. 13), momento altresì fondamentale per accedere alla cultura continentale novecentesca. E chi conosce il pensiero di Evola sa bene che tipo di valenza conferire al termine “irrazionale”...

Ad accompagnare il lettore altri non è che Evola stesso, a volte sostituito dal suo doppio Ea (uno degli pseudonimi con cui questi firmava taluni dei suoi contributi su Ur e Krur, alla fine degli anni Venti). Ogni dipinto “esposto” in quella che può considerarsi una galleria anzitutto interiore ridesta nel filosofo ricordi, universi, dimensioni – realtà. In ognuno dei ventisei capitoli che costituiscono il volumetto – molti dei quali recano, non casualmente, i titoli di opere evoliane, come Five o' clock tea, Nel bosco e Truppe di rincalzo sotto la pioggia – il lettore percorre i labirinti di Evola, ognuno dei quali avente una via d'accesso differente ma tutti diretti verso il cuore della sua Weltanschauung.

In questa dimensione, a metà tra la realtà fisica ed una onirico-allucinatoria, personaggi reali interagiscono con figure fantastiche – questo l'intreccio, abilmente restituito dalle pagine di Henriet. Non è difficile così scorgere un Evola intento a leggere recensioni dei suoi dipinti sulle colonne di riviste intemporali, intrattenere conversazioni con personaggi fantastici, percorrere dimensioni ontologiche ultraterrene. Ma, al contempo, a questi itinerari sono accostati momenti storici ben precisi, con il loro corollario umano - appaiono allora Arturo Reghini, Sibilla Aleramo, Arturo Onofri, Giulio Parise e gli iniziati del Gruppo di Ur.

Ed ecco evocati, come d'incanto, gli anni Venti, delle avanguardie e dei cenacoli esoterici. Ecco le feste organizzate dagli aristocratici, frequentate dal giovane Evola, nella fattispecie una, tenutasi per festeggiare la fine della Prima Guerra Mondiale: “Julius è vestito di nero, ed ha il volto coperto da una maschera aurea, provvista di un lungo naso conico” (p. 16). È l'unico, in Italia, tra i futuristi, ad apprezzare l'arte astratta. Il futurismo non è che una maschera, gli rivela la duchessa de Andri, organizzatrice della festa, liberatevene. E, tra le boutade di Marinetti e gli abiti disegnati da Depero, “egli andò oltre” (p. 22).

Non è che l'inizio: la realtà onirica diviene visione “vera” e simboli percorrono le trame dei vari capitoli, rendendoli interdipendenti tra loro: l'ape austriaca che, muovendosi a scatti con un ritmo metallico, si posa sulla tela appena conclusa di Truppe di rincalzo sotto la pioggia è la stessa che accompagna il giovane poeta Arturo Onofri tra i colpi delle granate della Grande Guerra, nella quale “la voce di Evola è a favore degli Imperi Centrali: l'Austria e la Germania” (p. 26).

Attraversati gli scandalismi e i manifesti futuristi, percorso il nichilismo dadaistico, il cammino del cinabro evoliano procede: “In un dorato pomeriggio autunnale, in Roma, nel 1921, alle ore 17, infine Evola capì. Aveva da poco smesso di dipingere. Quell'esperienza artistica era giunta alla fine, nel senso che le sue potenzialità creative si erano esaurite: tutto quel che poteva fare attraverso i quadri per procedere nella sua ricerca interiore, ebbene, lo aveva fatto” (p. 28). Alle 17.15, Evola si libera del suo doppio dadaista per procedere oltre, dopo l'abisso delle avanguardie per poi risalire, senza incappare nell'impasse dell'inconscio freudiano surrealista e della scrittura automatica. Via, verso Ur e Krur, La Torre e la sua rivolta contro la tirannia della modernità.

Come già detto, il percorso tracciato da Henriet non si arresta all'esaurimento della fase artistica, ma procede, percorrendo tutte le sue fasi fondamentali. Un altro frammento di realtà, trasfigurato e sublimato nelle serpentine dell'ermetismo pittorico del futuro filosofo: il XXI aprile 1927, dies natalis Romae, coglie il Nostro affacciato alla finestra di una torre – non d'avorio ma “di nera ossidiana” – mentre assiste da lontano ad una parata. “Tutta l'Urbe è in festa, ma Ea preferisce restarsene da solo, nel proprio salone. Per lui, in fondo, il fascismo è troppo plebeo” (p. 41). Ed ecco comparire, a cavallo di farfalle che sorvolano la Città Eterna, gli altri membri del Gruppo di Ur, quasi a formare una delle loro catene nei cieli liberi sopra la città, sopra il mondo intero, al di sopra della storia. Henriet rievoca qui le vicende legate alla celebre Grande Orma (episodio con retroscena ancora da scoprire, come testimonia il recente ottimo libro di Fabrizio Giorgio, Roma Renovata Resurgat, Settimo Sigillo, Roma 2012): “Nel 1923 hanno donato al capo del Governo un fascio formato da un'ascia di bronzo che proviene da una misteriosa e antica tomba etrusca, e dodici verghe di betulla, legate con strisce di cuoio rosso” (p. 42). La Tradizione porge la mano alla Storia, aspettando una risposta. Sono anni cruciali, questi, nei quali in poche ore possono decidersi non solo i destini di un decennio ma le sorti di un'intera civiltà. Riuscirà il fascismo a farsi depositario del proprio destino romano? Sono in molti a chiederselo. Attonito, Evola assiste al Concordato, al vanificarsi di un sogno, “ancora una volta è solo”, “uno spirito libero e aristocratico, fuori tempo e fuori luogo” (p. 42): in una parola, inattuale, in senso nietzschiano. Così, mentre le piazze gorgogliano dei singhiozzi gioiosi di quegli stessi che all'indomani del fallimento del fascismo prepareranno le forche e accenderanno i roghi, Evola se ne rimane in disparte. Alla fine della scena, una camicia nera emerge dal buio della notte, gli si avvicina, pronunciando, con una voce d'acciaio, queste parole: Il Natale romano è finito, barone. Da ora in poi, il destino degli eventi a venire è già scritto.

Ed ecco la Seconda Guerra Mondiale, la guerra civile europea, l'inizio di un nuovo ciclo, sul quale già pesa il presagio dell'ipoteca. Il viaggio nella prima mostra evoliana del XXI secolo continua, tra anticipazioni e retrospettive. Nella camera magica, Evola vede quello che sarà il suo destino: “In piedi, tra le rovine fumanti d'Europa, al termine della Seconda Guerra Mondiale, si aggira per Vienna. 1945. Una visione di morte. La tigre diventa metallo: la carne si solidifica” (p. 47). Sbalzato contro un muro dallo spostamento d'aria causato da una bomba, trascorrerà il resto della sua esistenza affetto da una semiparalisi degli arti inferiori.

Il Barone è costretto su una carrozzella, novella tigre d'acciaio. Il secondo dopoguerra. Con una certa ironia (che non sarebbe dispiaciuta al Barone ma che forse non piacerà a certi “evolomani”, come scrive Gianfranco de Turris nella sua Introduzione) l'autore immagina che proprio a cavallo di questa nuova tigre il Nostro continui la sua battaglia. Inizia a dipingere copie dei suoi dipinti degli anni Venti, dispersi (ossia venduti) durante la celebre retrospettiva del 1963. Eppure, anche in questa nuova situazione, si profilano nuovi attacchi, nuove situazioni da superare, come i Rivoluzionari del Sesso (evidente richiamo alle dottrine di Wilhelm Reich). Ed ecco gli Anti-Veglianti, Signori dell'Occhio, che tentano di impiantare un Occhio televisivo al posto di quelli biologici, teso ad uniformare Evola al mondo moderno, alla tirannia dell'homo oeconomicus e dei Mezzi di Comunicazione di Massa, che al terzo occhio ne sostituiscono uno artefatto e anestetizzante, che riduce l'uomo a Uomo Banale e Mediocre. Ma Evola riesce a fuggire.

Ennesima anticipazione: questa volta in alta montagna, molti passi sul mare, ancora di più sull'uomo, come aveva scritto Nietzsche. Eccolo assistere in anteprima alla deposizione delle sue ceneri sul ghiacciaio del Lys. Allucinato da uno dei suoi quadri, Evola ha una visione di quel che sarà: “Il vento spira freddo, la luce del sole è netta, brillante. Il silenzio domina tutto. I ghiacci eterni scintillano. V'è una gran quiete, tesa, nervosamente carica di energia in potenza” (p. 36). Per disposizione testamentaria, il suo corpo viene cremato, le ceneri disperse sulle Alpi. Così vive la propria morte Ea, Jagla, il Barone – nel libro non la conoscerà mai più, fisicamente. Si addormenterà, sognando un'intervista realizzata per la televisione svizzera nei primi anni Ottanta. Il “diamante pazzo” che scaglia bagliori qua e là, illuminando ora l'uno ora l'altro frammento del firmamento occidentale, è seduto “sulla sua tigre a dondolo, in legno aromatico e dai colori smaltati in vernice brillante” (p. 67). Certo, pensa Evola beffardamente, parlare di certe cose nel mondo moderno, servendosi dei media (chissà che avrebbe pensato oggi, nell'epoca della Rete...), non è certo ottimale. Comincia a dubitare della sua decisione di concedere l'intervista. Questa posizione a cavallo della tigre comincia ad apparirgli un po' scomoda. Risponde alle domande, ribadendo le proprie posizioni di fronte al neospiritualismo, alle censure di certe cricche intellettuali e via dicendo. Ma la realtà del suo sogno inizia a sfaldarsi. Il suo pellegrinaggio nel kali-yuga lo ha prosciugato: “Evola non immaginava che sarebbe stato così difficile. Il sogno della realtà è diventato un caos indistinto di colori acidi” (p. 71). Abbandonandosi al disfacimento dell'architettura onirica nella quale si vive morente, si spegne, “gli occhi accecati da una radianza aurea intensissima” (Ibid.). Il confine tra sogno e realtà è disciolto per sempre: Evola, che aveva visto la propria fine vivente in uno dei suoi quadri, ora vive la propria morte in un sogno.

Scritto con un registro stilistico iperbolico ed evocativo, il libro di Henriet, come messo a fuoco da de Turris nella già citata introduzione, non è però solo una rassegna di queste esperienze, quanto piuttosto una ricognizione sul senso dell'interezza del sentiero del cinabro, portato a stadio mercuriale durante il corso della vita del Nostro. Come è noto, a partire peraltro dalla sua biografia spirituale, il Cammino del cinabro, Evola diede pochissimo spazio a dettagli di ordine personale, preferendo ad essi un'impersonalità attiva fatta di testimonianze ed opere. In uno degli ultimi capitoli, Henriet scrive: “Della vita privata di Ea si sapeva poco, era come se non gli fosse accaduto nulla di personale. Egli era semplicemente il mezzo, uno dei possibili, attraverso i quali l'Io originario – la Genitrice dell'Universo, una delle Madri di Goethe – operava su quel piano della realtà, governato dalle regole del tempo e dello spazio” (p. 62). In questo può risolversi l'esercizio della prassi tradizionale, per come interpretata dal filosofo romano. Una azione nella quale l'essere un mezzo di istanze sovraindididuali non annichilisce l'Io, come vorrebbero invece talune spiritualità fideistiche sempre avversate da Evola, ma lo potenzia, finanche a realizzarlo in tutti i suoi molteplici stati. Un monito, questo, quanto mai attuale, tanto per accedere all'universo evoliano quanto per attraversare illesi il mondo moderno, sopravvivendo alle sue chimere e fascinazioni.

Alberto Henriet, L'uomo che cavalcava la tigre. Il viaggio esoterico del barone Julius. Presentazione di Gianfranco de Turris, Gruppo Editoriale Tabula Fati, Chieti 2012, pp. 80, Euro 8,00.

 



titolo: L'uomo che cavalcava la tigre. Il viaggio esoterico del barone Julius

autore/curatore: Andrea Scarabelli
fonte: Fondazione Julius Evola
tratto da: http://www.fondazionejuliusevola.it/Documenti/recensioneScarabelli_Sito.doc
lingua: italiano
data di pubblicazione su juliusevola.it: 10/06/2013

lundi, 07 octobre 2013

Julius Evola y Hakim Bey

   

por Juan Manuel Garayalde – Bajo los Hielos –

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Charla dictada el día 16 de Diciembre de 2004 en el Centro de Estudios Evolianos, Buenos Aires, Argentina.

I – Anarquismo Mítico y Filosófico

Julius+Evola.jpgComo todo pensamiento político, el anarquismo ha tenido diferentes puntos de vista. Una importante cantidad de intelectuales sitúan al nacimiento del anarquismo en el siglo XIX, cuando podemos hallar en la Metamorfosis de Ovidio, una mención a un sistema político de similares características que se lo hallaría en el inicio de una Edad de Oro, donde no habría leyes, jueces ni nada que se le parezca para sancionar a los ciudadanos, puesto que entre ellos existía una visión del mundo similar. Asimismo, no podemos olvidar a las comunidades anarquistas como los seguidores del Patriarca Gnóstico Carpócrates de Alejandría que fundó comunidades cristianas en el norte de Africa y en España en el siglo II. Diferente al anarquismo filosófico del siglo XIX, que sitúa al anarquismo al final de la historia humana, como un proceso evolutivo, tal como fue formulado de manera similar el paraíso comunista de Karl Marx.

Dentro de esta corriente del siglo XIX, se destacaron autores como William Godwin, Proudhon, Max Stirner, Bakunin, etc.. Stirner, el más importante exponente del individualismo anarquista, fue en contra no sólo del Estado, sino en contra de la Sociedad; fue mas lejos que cualquier pensador anarquista convirtiendo al hombre en el Absoluto, la nada creadora, en ser belicoso por naturaleza que lucha por la propiedad de si mismo, la “propiedad del único”, rechazando al Estado, la burguesía, las instituciones sociales y educativas, la familia, las leyes. Destruir las ilusiones para descubrirse a sí mismo y ser dueño de sí mismo.

Su principal obra, “El único y su propiedad”, fue recibida con hostilidad por Karl Marx, quien lo ve como una amenaza a todo su materialismo dialéctico, a lo que se dedicará con esmero a refutar sus ideas. Así, el anarquismo filosófico comienza a verse como amenaza al marxismo.

Posteriormente, será Bakunin el que desafiará el crecimiento del comunismo. Este pensador anarquista, marcará la diferencia con los otros, puesto que si dicho movimiento logró cierta presencia en la lucha social, será gracias a él. Es impensable el sindicalismo anarquista sin Bakunin (recordemos a FORJA en la historia Argentina, y la famosa “Semana Trágica” de 1919). Europa quizás nunca habría presenciado un movimiento político anarquista organizado, sino hubiese sido por la labor activa de Bakunin.

 

II – Anarquismo, Liberalismo y Socialismo

 

El surgimiento del anarquismo filosófico, está enlazado a la crisis social post-medieval. La burguesía comienza a establecer relaciones con las viejas aristocracias, en tanto se demolían los gremios y asociaciones que protegían a los pequeños productores. Ante el crecimiento del comercio y las manufacturas, los viejos gremios medievales eran una traba a ese nuevo desarrollo. Los pequeños artesanos y productores agrícolas, comenzaban a quedar desamparados ante el crecimiento de la competencia, en tanto crecían los derechos monopolistas en manos de grandes compañías industriales, agrícolas y comerciales.

Surgieron en esa época de transición dos corrientes de protesta: el Liberalismo Radical, que pretendía reformas parlamentarias para frenar el poder del Estado, y el Anarquismo. Los liberales (Locke) consideraban a la propiedad como un derecho natural, y le legaban la responsabilidad al Estado para que protegiera la misma de ataques internos y externos, permitiendo así el libre intercambio de mercaderías. Los anarquistas en cambio, decían que el Estado protege la propiedad de los ricos, y que las leyes favorecen la concentración de la propiedad. Para los anarquistas, se debía crear una sociedad igualitaria de productores pequeños y económicamente autónomos, libres de privilegios o distinciones clasistas, donde el Estado sería innecesario.

Se considera al Anarquismo una ampliación radical del Liberalismo. Esto significa, que tiene mas similitudes con el Liberalismo que con el Socialismo. Sin embargo, con este último hubo alianzas, siendo que lo único en que coincidían era en la estrategia revolucionaria contra el poder burgués. Durante el siglo XX, el anarquismo participó en dos importante acontecimientos: la Revolución Rusa de 1917 y la Guerra Civil Española de 1936. En ambas, el enemigo principal que se les manifestó, fueron los comunistas, los que llegaron a hacer ejecuciones en masa de militantes anarquistas.

El anarquismo tuvo su primera gran derrota cuando Marx se adueña de la Primera Internacional, luego de acalorados debates con Bakunin. Dicha hegemonía se mantuvo hasta 1991, con la desintegración de la URSS. Desde entonces, surgirán nuevas corriente del pensamiento anarquista, pero de todas ellas, la que aquí queremos rescatar por su nueva orientación, es el anarquismo ontológico, que tiene al británico Peter Lamborn Wilson, mas conocido como Hakim Bey como su principal exponente.

 

III – El Anarquismo Ontológico de Hakim Bey

 

hakimbey.jpgSe torna dificultoso poder definir el concepto del anarquismo ontológico, puesto que es una forma de encarar la realidad, donde no se necesitan teorías que cierren en si mismas, sino acciones que tienden a despojar al hombre de preconceptos modernos. El anarquismo ontológico es un desafío abierto a la sociedad actual, donde el Yo es puesto a prueba, para ver si es capaz de cuestionarse ciertos comportamientos y pensamientos que se manifiestan mecánicamente. Su lenguaje principal, es lo que Hakim Bey denomina el “terrorismo poético”, una forma brusca pero profunda de rechazar las convenciones de toda sociedad organizada en torno a ilusiones.

Ante la crisis espiritual que afecta principalmente a Occidente, propone Hakim Bey un nomadismo psíquico, un retorno al paleolítico, siendo mas realista que simbólico este último concepto. Como él dice, “se busca la transmutación de la cultura basura en oro contestatario”. Su frase principal es “El Caos nunca murió”, donde para él, seria el espacio donde la libertad se vive a pleno, en tanto que ve al Orden como la presentación de una serie de estructuras políticas, sociales, culturales, educativas, policiales; en sí, límites impuestos a la mente que debe poseer una naturaleza de libertad plena. Ese Orden actual, no hace más que aprisionar al hombre poniéndole por encima, leyes de una civilización que se detiene en el tiempo, para congelar y matar el Espíritu.

Bey nos dice que el Caos es derrotado por dioses jóvenes, moralistas, por sacerdotes y banqueros, señores que quieren siervos y no hombres libres. Seguidor de grupos sufíes no muy ortodoxos, plantea la jihad espiritual, la rebelión contra la civilización moderna.

El modelo social de lucha que plantea Hakim Bey, es la de la pandilla, del grupo de salteadores que tiene su propia ley. Ese es el sentido del paleolítico, la banda de cazadores y recolectores que erraban por los bosques y desiertos de una tierra antigua sin dioses tiranos.

Hace pocos años, se estrenó una película, en la cual, uno de sus realizadores, estuvo influido por los escritos de este autor. La película se llamaba “El Club de la Pelea” donde se describe un hombre sumiso al sistema económico y moral, que se le plantea una ruptura mental que lo lleva a crear un mundo real donde podía estar fuera del sistema atacándolo, burlándose del mismo continuamente.

Esto nos lleva a estudiar el aporte que consideramos el mas interesante de la obra de Hakim Bey: el concepto de TAZ, es decir, la Zona Temporalmente Autónoma.

 

IV – Zona Temporalmente Autónoma (TAZ)

 

Existe una coincidencia semántica con el pensador tradicionalista italiano, Julius Evola: Ambos autores utilizan el término “rebelión” como forma de reacción ante los síntomas de la decadencia espiritual y material del Hombre.

Para Hakim Bey, el planteo de una Revolución, implica un proceso de transformaciones donde se va de una situación caótica a un nuevo Orden, pero, un Orden al fin. El escritor nos dice: “¿Cómo es que todo mundo puesto patas arriba siempre termina por enderezarse? ¿Por qué siempre a toda revolución sigue una reacción, como una temporada en el infierno?” (1). De esta manera, un Orden dentro del Kali Yuga, implicaría retornar a una forma de conservadurismo decadente. Implica la frustración de ideales revolucionarios iniciales, ante las reacciones naturales de los que quieren volver las cosas a su cause normal, saliendo del CAOS.

H.B. utiliza los términos de “rebelión”, “revuelta” e “insurrección”, que implicaría “un momento que salta por encima del tiempo, que viola la “ley” de la historia”. En este caso, estamos muy cercanos al concepto evoliano del “idealismo mágico”.

Redondeando estas ideas: en tanto la Revolución es un proceso que va del CAOS a un Orden determinado, la rebelión que plantea H.B. es temporal: es un acto extra-ordinario, que busca cambiar el mundo y no adaptarse a él, que busca vivir la utopía y no conformarse con un Orden a medias.

Pero, si no hay un Orden determinado a crearse por parte de los anarquistas ontológicos, ¿de dónde parte la rebelión y a dónde retorna la misma una vez desatada? Allí H.B. nos habla de la TAZ, las Zonas Temporalmente Autónomas, que es un lugar físico que permite justamente un desarrollo de la libertad interior. Hay que aclarar, que la TAZ no es un concepto abstracto, sino real e histórico .. aunque esta siempre quiso manifestarse por fuera de la Historia.

Uno de los ejemplos que trata H.B., es la utopía pirata. Menciona fundamentalmente el período comprendido entre el siglo XVI y XVII. En América, la zona del Caribe es muy conocida por su historia de piratas, y el autor nos habla de la famosa Isla de la Tortuga que fue el refugio de los barcos piratas y de todo delincuente que transitó esos rumbos alejados de la civilización. Era una isla al norte de Haití, de 180 km. Cuadrados, con un mar rodeado de tiburones. En dicha isla, no existía ninguna autoridad, leyes, códigos de comercio, impuestos, y todo aquello a lo que hoy estamos sometidos para poder pertenecer a un determinado sistema social. Ellos supieron crear un sistema por fuera del Sistema, o sea, un anti-sistema, el CAOS, el lugar donde un anarquismo ontológico podía encontrar cause para su desarrollo. Si hablamos de la gente que componía los barcos piratas, hallaremos que eran de distintas razas: negros, blancos, asiáticos; distintas religiones, diferente educación y clase social de la cual quedaron desheredados: todos estaban en pie de igualdad, pero no una igualdad colectivista, sino guerrera.

Esta TAZ, esa Zona Temporalmente Autónoma que fue la Isla de la Tortuga, no duro muchos años; y esa es justamente la característica de la TAZ, su limitación en el tiempo, que según H.B. como mucho, puede durar la vida de una persona, no mas de eso, puesto que el Sistema ira en su búsqueda para destruirla. Veamos como el autor define la TAZ:

El TAZ es como una revuelta que no se engancha con el Estado, una operación guerrillera que libera un área – de tierra, de tiempo, de imaginación- y entonces se autodisuelve para reconstruirse en cualquier otro lugar o tiempo, antes de que el Estado pueda aplastarla”. (2)

Es la estrategia de la barricada, que cuando esta viene a ser destruida, es abandonada, y levantada en otro lugar. Es el ámbito de la Internet, donde uno ingresa para criticar el sistema a través de una página web, y cuando esta cae, vuelve a aparecer en otro lugar.

Pero, sigamos con los ejemplos históricos que H.B. utiliza para describir su concepto de TAZ. En este caso, citamos un párrafo completo, con el objetivo de que puedan apreciar todos los elementos vulgares, artísticos, esotéricos, poéticos del pensador, que parece mezclar la realidad con la fantasía, con la utopía y con lo oculto. Esta forma de escribir, que como hemos dicho anteriormente, él ha definido como “terrorismo poético”:

“Por tanto, de entre los experimentos del periodo de Entreguerras me concentraré si no en la alocada república de Fiume, que es mucho menos conocida, y no se organizó para perdurar.”

“Gabriele D’Annunzio, poeta decadente, artista, músico, esteta, mujeriego, atrevido pionero aeronáutico, mago negro, genio y canalla, emergió de la I Guerra Mundial como un héroe con un pequeño ejército a sus órdenes: los “Arditi”. A falta de aventuras, decidió capturar la ciudad de Fiume en Yugoslavia y entregársela a Italia. Después de una ceremonia necromántica junto a su querida en un cementerio de Venecia partió a la conquista de Fiume, y triunfó sin mayores problemas. Sin embargo Italia rechazó su generosa oferta; el primer ministro lo tachó de loco.”

“En un arrebato, D’Annunzio decidió declarar la independencia y comprobar por cuanto tiempo podría salirse con la suya. Junto a uno de sus amigos anarquistas escribió la Constitución, que declaraba la música como el fundamento central del Estado. Los miembros de la marina (desertores y anarcosindicalistas marítimos de Milán) se autodenominaron los Uscochi, en honor de los desaparecidos piratas que una vez vivieron en islas cercanas a la costa saqueando barcos venecianos y otomanos. Los mudemos Uscochi triunfaron en algunos golpes salvajes: las ricas naves italianas dieron de pronto un futuro a la república: dinero en las arcas! Artistas, bohemios, aventureros, anarquistas (D’Annunzio mantenía correspondencia con Malatesta) fugitivos y expatriados, homosexuales, dandis militares (el uniforme era negro con la calavera y los huesos pirata; robada más tarde por las SS) y reformistas chalados de toda índole (incluyendo a budistas, teósofos y vedantistas) empezaron a presentarse en Fiume en manadas. La fiesta nunca acababa. Cada mañana D’Annunzio leía poesía y manifiestos desde el balcón; cada noche un concierto, después fuegos artificiales. Esto constituía toda la actividad del gobierno. Dieciocho meses más tarde, cuando se acabaron el vino y el dinero y la flota italiana se presentó, porfió y voleó unos cuantos proyectiles al palacio municipal, nadie tenia ya fuerzas para resistir.”

(…). En algunos aspectos fue la última de las utopías piratas (o el único ejemplo moderno); en otros aspectos quizás, fue muy posiblemente la primera TAZ moderna.” (3)

 

V – La TAZ en la Historia Argentina

 

Llegados a este punto, nos preguntamos: ¿puede hallarse un ejemplo de la TAZ en nuestra historia argentina? ¿Pudo haber hallado H.B. un ejemplo para aportar a su trabajo?. La respuesta es afirmativa, y ello lo encontramos nada mas y nada menos, que en nuestra obra cumbre de la literatura argentina: El Martín Fierro.

Esta obra, cuyo protagonista es una creación del autor, representa la confrontación entre la “Civilización” y la “Barbarie”, y forzando un poco los términos, entre la Modernidad y la Tradición. El tiempo en que se desarrolla este poema guachesco es durante el período de la organización nacional, entendido este como la adaptación de un país de carácter católico, libre y guerrero, al sistema constitucional liberal, laico, de desacralización del poder político en post de las ideologías que apuntalaron, reforzaron a la Modernidad.

Martín Fierro es el arquetipo de la “Barbarie”; el Hombre que no acepta una “Civilización” ajena a su cultura, que quiere obligarle a adoptar una nueva forma de vida, a riesgo de perderla si no obedece. Por tal motivo, Martín Fierro huye más allá de la frontera sur, a vivir con los indios. Leemos en esta obra:

“Yo sé que los caciques

amparan a los cristianos,

y que los tratan de “hermanos”

Cuando se van por su gusto

A que andar pasando sustos …

Alcemos el poncho y vamos”.

La Frontera, las tolderías, son la TAZ que supo existir en la Argentina. Allí, los hombres que estaban fuera de la ley, encontraron la libertad: fueron quienes desertaban del nuevo ejército constitucional, ladrones de ganado, asesinos, esclavos, muchachos jóvenes que huían de sus casas optando por la libertad que se vivía mas allá de la frontera. También existieron ejemplos de mujeres que cautivas de los indios, tuvieron familia, y que al regresar a la civilización, no pudieron acostumbrarse y regresaron con los indios. Martín Fierro nos describe la vida libre, hasta holgazana de vivir con los indios:

“Allá no hay que trabajar

Vive uno como un señor

De cuando en cuando un malón

Y si de él sale con vida

Lo pasa echado panza arriba

Mirando dar güelta el sol.”

Lo cierto es, que no existía mucha diferencia entre la toldería y el medio rural. La diferencia comenzó a ampliarse a medida que crecían las leyes y la coerción y se perdía la libertad que el gaucho conocía. La frontera pasa a convertirse no solo en una válvula de escape para las tensiones sociales, sino también, para las existenciales.

Pero del arquetipo, pasemos también a un ejemplo concreto, a un hombre que la literatura retrató varias veces en novelas, cuentos y obras de teatro, a lo que se le sumará muchos relatos acerca del lugar que utilizó para escapar de la “civilización”. Este hombre que hemos elegido al azar, se llamó Cervando Cardozo, conocido como Calandria por su hermosa voz para el canto. Fue un gaucho que nació en 1839 y fallece -muerto por la policía- en 1879. Tuvo una vida como cualquiera de su tiempo, pero a diferencia que decidió luchar cuando la institucionalización política del país comenzó a querer robarle su libertad. Él se incorpora a la última montonera de la historia nacional, la comandada por el caudillo entrerriano Ricardo López Jordán, al que la historia oficial, lo acusa de haber participado en asesinar al caudillo Justo J. de Urquiza, quién para entonces, era el principal responsable de las transformaciones políticas del país. Calandria peleará junto a López Jordán, y al ser derrotado su levantamiento, es obligado a incorporarse a un ejército de frontera. Calandria no acepta, y deserta. Nace así su vida de matrero, que la vivirá dentro de la provincia de Entre Ríos en la denominada Selva de Montiel, donde las fuerzas policiales jamás podrían capturarlo.

Aquí nos adentramos a una nueva TAZ: el monte. En muchas tradiciones, los bosques representan lugares prohibidos, donde abundan espíritus, criaturas fantásticas, y en donde se corría peligro de hallar una muerte horrenda. Uno de los ejemplos mas conocidos por todos, son los bosques de Sherwood donde encontraron refugio varios “fuera de la ley” que luego seguirían al famoso Roobin Hood.

En nuestra tierra, los montes representaban el lugar donde los gauchos matreros se escondían, donde hechiceros, curanderos, brujas, opas y deformes tenían su guarida. Es también el sitio donde los aquelarres se realizaban, que bien expresados están en nuestras canciones populares; por ejemplo en La Salamanca de Arturo Dávalos, dice su estribillo: “Y en las noches de luna se puede sentir, / a Mandinga y los diablos cantar”, o Bailarín de los Montes de Peteco Carabajal, en su estribillo también dice: “Soy bailarín de los montes / nacido en la Salamanca”.

Aquí haremos una breve profundización de este tema de La Salamanca: originalmente, la leyenda parte de España, de la región de Salamanca. Allí, se encontraban las famosas cuevas donde alquimistas, magos, kabbalistas, gnósticos, y otros, se reunían en secreto para eludir las persecuciones de la Inquisición. Como allí se efectuaban todo tipo de enseñanzas de carácter iniciático, quedo una leyenda negativa impulsada desde el clero católico de la época, donde allí se invocaba al demonio; y es por eso, que todo el proceso del que ingresa a la Salamanca hasta llegar frente al Diablo, es de carácter iniciático .. pero, hacia lo inferior. Es por eso, que se dice, que en la actualidad, hay dos entradas a la Salamanca con resultados diferentes, uno de ascenso y otro de descenso. La Salamanca, es para la TAZ argentina, el modelo de iniciación, en tanto se logre hallar “la otra puerta”.

Retomando, la Selva de Montiel (llamada así, por lo impenetrable de la misma) fue el refugio de muchos, como Calandria, que se resistieron al cambio, a perder su libertad y apego a la tradición a causa – como dice un motivo popular entrerriano – de la reja del arado, de la división de la tierra y del alambrado. Estos matreros conservaron en pequeña escala parte de la figura que representaron en otro momento los Caudillos, puesto que tenían un respeto y comprensión hacia los pobladores, y estos terminaban siendo cómplices silenciosos de las aventuras de estos outsiders.

Cito aquí, un párrafo de la obra de teatro “Calandria” de Martiniano Leguizamón, estrenada en 1896. En este fragmento que leeré, habla el gaucho matrero frente a la tumba de su Madre:

“¡Triste destino el mío! …. ¡Sin un rancho, sin familia, sin un día de reposo! … ¡Tendré al fin que entregarme vensido a mis perseguidores! … Y ¿pa qué? ¿Por salvar el número uno? … ¿Por el placer de vivir? … ¡No, si la libertad que me ofrecen no had ser más que una carnada! No; no agarro. ¡Qué me van a perdonar las mil diabluras que le he jugao a la polesía! ¡Me he reído tanto de ella y la he burlao tan fiero! … (Riendo) ¡La verdá que esto es como dice el refrán: andar el mundo al revés, el sorro corriendo al perro y el ladrón detrás del jues! … ¡Bah … si el que no nació pa el cielo al ñudo mira pa arriba!” (4)

Calandria no fue el único de estos gauchos matreros. Nuestro Atahualpa Yupanqui fue un gaucho matrero en los años ´30. Luego de una fallida revolución radical en la que participó, huyo a Entre Ríos y se ocultó en la Selva de Montiel. Fue en esa época que compuso la canción “Sin caballo y en Montiel”.

Pero avancemos más en esta construcción de la TAZ en nuestra tierra. Si el gaucho matrero es una representación, en pequeña escala, del Caudillo, ¿dónde podemos hallar una figura de tal magnitud que cuadre con el modelo del anarquismo ontológico?. Podremos hallar verdaderas sorpresas en nuestra historia nacional. Una de ellas, es la del joven Juan Facundo Quiroga, el “Tigre de los Llanos”, que por las descripciones que se hicieron sobre su persona, nos atrevemos a decir que fue uno de los primeros líderes anarcas que hubo en nuestra historia nacional.

Sarmiento, que conoció a Quiroga en su etapa juvenil -no ya la adulta donde se comenzaría a preocuparse por la forma organizativa que debía lograrse con la Confederación Argentina-, en su “Facundo”, entre el odio y la admiración escribe estas palabras sobre Quiroga:

“Toda la vida publica de Quiroga me parece resumida en estos datos. Veo en ellos el hombre grande, el hombre genio a su pesar, sin saberlo él, el César, el Tamerlán, el Mahoma. Ha nacido así, y no es culpa suya; se abajará en las escalas sociales para mandar, para dominar, para combatir el poder de la ciudad, la partida de la policía. Si le ofrecen una plaza en los ejércitos la desdeñará, porque no tiene paciencia para aguardar los ascensos, porque hay mucha sujeción, muchas trabas puestas a la independencia individual, hay generales que pesan sobre él, hay una casaca que oprime el cuerpo y una táctica que regla los pasos ¡todo es insufrible!. La vida de a caballo, la vida de peligros y emociones fuertes han acerado su espíritu y endurecido su corazón; tiene odio invencible, instintivo, contra las leyes que lo han perseguido, contra los jueces que lo han condenado, contra toda esa sociedad y esa organización de que se ha sustraído desde la infancia y que lo mira con prevención y menosprecio. (…) Facundo es un tipo de barbarie primitiva; no conoció sujeción de ningún género; su cólera era la de las fieras …” (5)

Y como todo anarca, Quiroga no era de los hombres que querían sentarse en un escritorio a gobernar lo que mucho le había costado conseguir. Sus batallas nunca finalizaron. Citamos nuevamente a Sarmiento:

“Quiroga, en su larga carrera, jamás se ha encargado del gobierno organizado, que abandonaba siempre a otros. Momento grande y espectable para los pueblos es siempre aquel en que una mano vigorosa se apodera de sus destinos. Las instituciones se afirman o ceden su lugar a otras nuevas más fecundas en resultados, o más confortables con las ideas que predominan. (…)

“No así cuando predomina una fuerza extraña a la civilización, cuando Atila se apodera de Roma, o Tamerlán recorre las llanuras asiáticas; los escombros quedan, pero en vano iría después a removerlos la mano de la filosofía para buscar debajo de ellos las plantas vigorosas que nacieran con el abono nutritivo de la sangre humana. Facundo, genio bárbaro, se apodera de su país; las tradiciones de gobierno desaparecen, las formas se degradan, las leyes son un juguete en manos torpes; y en medio de esta destrucción efectuada por las pisadas de los caballos, nada se sustituye, nada se establece”. (6)

Aquí se ven con claridad los conceptos de H.B. de psiquismo nómade y de un retorno al paleolítico.

 

VI – Anarquismo Ontológico y Tradición

 

Hasta aquí, hemos trazado un paralelismo entre el concepto de la TAZ de H.B. y nuestra historia nacional. Nuestra tarea a continuación es ver a donde nos puede llevar el anarquismo ontológico.

Esta postura, la creemos positiva para el impulso de un Nihilismo Activo, que consistirá en construir bases de acción que son la TAZ: su acción es decontructora, de rechazo a los valores y estructuras de pensamiento de la Modernidad. El anarquismo ontológico ha sabido descubrir en la historia a los outsiders del sistema, y este tema, es una eterna preocupación de la filosofía política contemporánea. Por ejemplo, uno de los pensadores mas importantes del neoliberalismo, Robert Nozick, (7) recientemente fallecido, nos habla de un estado de naturaleza donde paso a paso se va construyendo el Estado Liberal ideal para la sociedad actual. Nos habla de una Asociación de Protección Dominante, donde unos trabajan y otros toman el papel de defender a la comunidad de los agresores externos. De allí, se pasa al Estado Ultramínimo, que tiene como objetivo, justamente, incorporar a los outsiders .. a los fuera de la ley. Supuestamente, para Nozick, los outsiders se integrarían a la sociedad al ofrecerles protección gratuita para que puedan vivir en paz, lo que denominó principio de compensación. Dicho intento teórico fracaso, sobrándonos ejemplos reales para comprobarlo históricamente. El anarca no necesita que nadie lo proteja. El es libre de vivir y morir en su propia Ley. (8)

El Anarquismo Ontológico ha tenido una importante repercusión en los jóvenes, y esta idea de la TAZ hasta fue llevada al cine. La película “El Club de la Pelea” con Eduard Norton y Brad Pitt como actores principales, nos presenta la atmósfera de una generación de jóvenes sin ideales, con futuro incierto y, sobre todo, la revelación absoluta de su propia soledad en el mundo. Allí, como en Doctor Jekill y Mister Hyde, hay un hombre que no se atreve a liberarse de sus propias cadenas, a vivir el mundo sin tratar de controlarlo.

Una película como el Club de la Pelea nos muestra que estamos solos, que no hay nadie allá afuera con los brazos abiertos esperándonos. Uno de los personajes de esta película, Tyler Durden, en su discurso donde inaugura su TAZ, el Club de la Pelea, viviendo en un edificio abandonado en ruinas y rodeado de jóvenes rebeldes, dice: Veo en el Club a los hombres más listos y fuertes, veo tanto potencial y veo que se desperdicia. Dios mío, una generación vendiendo gasolina, sirviendo mesas, esclavos de cuello blanco y todos esos anuncios que promueven el desear autos y ropas con marcas de un tipo que nos dicta cómo debemos vernos. Hacemos trabajos odiosos para comprar lo innecesario, hijos en medio de la Historia sin propósito ni lugar…

Como nos dice con certeza H.B.: “El capitalismo, que afirma producir el Orden mediante la reproducción del deseo, de hecho se origina en la producción de la escasez, y sólo puede reproducirse en la insatisfacción, la negación y la alienación.” (9)

Y, en ese Club de la Pelea, los que lo integran, justamente, aprenden a pelear y no a huir … aprenden a reconciliarse con su propio pasado, a vencer el miedo y la angustiosa realidad materialista; y en el fondo, siempre manifestándose una lucha existencial.

Julius Evola, en su obra “El Arco y la Clava”, en oposición a ciertos movimientos juveniles modernos, describe una nueva orientación denominada anarquismo de derecha: aquí, nos habla de muchachos que no pierden su idealismo luego de pasar los 30 años. Jóvenes con un entusiasmo e impulso desmesurados, “con una entrega incondicionada, de un desapego respecto de la existencia burguesa y de los intereses puramente materiales y egoístas” (10). Una generación que puede hallarse en el presente, que asuman valores como el coraje, la lealtad, el desprecio a la mentira, “la incapacidad de traicionar, la superioridad ante cualquier mezquino egoísmo y ante cualquier bajo interés” (11); todos valores que están por encima del “bien” y del “mal”, que no caen en un plano moral, sino ontológico. Es mantenerse de pie con principios inmerso en un clima social desfavorable, agresivo; capaz de luchar por una causa perdida con una fuerza y energía sobrenatural, que termina inspirando el terror en sus rivales, y entre estos quizás, uno que logre despertar ante lo que creyó como una amenaza. Pocos hombres como estos, serían capaces de detener ejércitos en algún acantilado de la antigua Grecia, o, en los tiempos que hoy vivimos, tomar una Isla del Atlántico Sur sin matar ningún civil o soldado enemigo.

Pero, a diferencia de H.B., la TAZ, el anarquismo ontológico sólo puede ser considerado como una estrategia para la aceleración de los tiempos; pero, dentro de esa TAZ, deberán recrearse los principios de una Orden, que deberá reconstruir el mundo arrasado basándose en los principios de la Tradición Primordial.

Lo que nos separará siempre de la postura anarquista frente a la tradicional, es la aspiración de edificar un Estado Orgánico, Tradicional, y a confrontar un igualitarismo de proclama con las Jerarquías Espirituales. Como en un tiempo estuvieron unidos el Socialismo y el Anarquismo en la estrategia revolucionaria, en el presente, el Anarquismo Ontológico sigue el mismo camino postulado por el pensador italiano Julius Evola, de cabalgar el tigre, de controlar el proceso de decadencia para estar presentes el día en que el Tiempo se detenga. Quizás, cuando llegue ese día, ambas posturas estén unidas en la tarea de construir una nueva Civilización que sea inicio de una nueva Era.

En similitud el caso argentino, sin un Juan Facundo Quiroga que comenzó a desafiar la autoridad iluminista del Partido Unitario, en los años ´20 del siglo XIX, sumergiendo al país en la anarquía junto con otros Caudillos, no hubiese llegado una década mas tarde, un Juan Manuel de Rosas a comenzar a edificar la Santa Confederación Argentina: ambos son parte del Ser y del Devenir; ambos parte de la “Barbarie” en oposición al anti – espíritu alienante de la “Civilización”. El anarca y el Soberano Gibelino terminan juntos trayendo el alma del Desierto a las ciudades sin Luz interior.

No queremos concluir esta exposición sin volver a retrotraernos a nuestra tradición folclórica, a la TAZ que intentó resistir el avance de la Modernidad. Hoy, aquí reunidos, hemos conformado una TAZ. Y cuando cada uno de nosotros se haya marchado y las luces de este lugar se apaguen, la TAZ se disolverá para luego crearse en otros lugares. El espíritu rebelde del Martín Fierro, está en nosotros viviendo a través de todos estos años.

Concluimos con un fragmento de un poema con el cual nos identificamos, dedicado al gaucho Calandria, que murió peleando en su propia ley y soñando permanecer por siempre libre en su Selva de Montiel:

“En mí se ha reencarnado el alma de un matrero,

como la de Calandria, el errabundo aquél,

que amaba la espesura, igual que el puma fiero,

y que amplió las leyendas del bravío Montiel”

* * *

Notas:

(1) Hakim Bey. TAZ. Zona Temporalmente Autónoma. http://www.merzmail.net/zona.htm

(2) Hakim Bey. Ob. Cit.

(3) Idem.

(4) Leguizamón, Martiniano. Calandria. Del Viejo Tiempo. Edit. Solar/Hachette – Buenos Aires 1961. P..47.

(5) Sarmiento, Domingo F. Facundo. Civilización y Barbarie. Ed. Calpe – Madrid, 1924. p.106-107.

(6) Sarmiento, Domingo F. Ob. Cit. p. 123.

(7) Nozick, Robert. Anarquia, Estado y Utopía. FCE – Buenos Aires, 1991.

(8) Existe una diferencia entre el anarquismo (los “ismos”) y el anarca, concepción que esta mas cercana a la filosofía de Max Stirner. El escritor mexicano José Luis Ontiveros, nos da una explicación del mismo: “El anarca es un autoexiliado de la sociedad. El anarca es, también, un solitario, que cree en el valor incondicional y absoluto de los actos. A diferencia del anarquista, el anarca ha dejado de confiar en la bondad natural del ser humano, y en utopías y fórmulas filantrópicas que salven o rediman a la humanidad. Su ser se funda, en el sentido original de la voz griega anarchos “sin mando”, pero su autoridad individualista reconoce principios como la disciplina y la moral de la guerra, su combate se libra contra cuando menos dos o tres enemigos, su ámbito es el bosque, el fuego, la montaña en donde el hombre debe abandonar la máscara de la sociabilidad, para retornar a la experiencia primigenia, al ser que se otorga a sí mismo la voluntad”. Ontiveros, José Luis. Apología a la Barbarie. Ediciones Barbarroja – España 1992. p. 38.

(9) Hakim Bey. Ob. Cit.

(10) Evola, Julius. El Arco y la Clava. Editorial Heracles – Buenos Aires 1999. p. 244.

(11) Evola, Julius. Ob. Cit. p. 245.

Fuente: Bajo los Hielos

vendredi, 23 août 2013

Libre Journal des Lycéens: Guénon, Evola

mercredi, 03 juillet 2013

Le baron von Ungern vénéré dans les temples mongols

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Le baron von Ungern vénéré dans les temples mongols

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Depuis peu, on ne cesse d’écrire sur une figure qui, malgré sa stature extraordinaire, était passée presque inaperçue dans le tumulte consécutif à la précédente guerre: celle du baron Ungern-Sternberg. Ossendovski avait été le premier à s’intéresser à lui, à grands renforts d’effets dramatiques, dans son célèbre et très controversé Bêtes, hommes et dieux. Il a été suivi par une vie «romancée» du baron von Ungern, publiée par Vladimir Pozner sous le titre de La Mort aux dents; puis, par une seconde vie romancée, de B. Krauthoff: Ich befehle: Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg.

Ces livres semblent toutefois donner une image inadéquate du baron von Ungern, dont la figure, la vie et l’activité sont susceptibles de laisser une grande latitude à la fantaisie en raison de leurs aspects complexes et énigmatiques. René Guénon, le célèbre écrivain traditionaliste, contribua à mieux faire connaître le baron en publiant des passages de lettres écrites en 1924 par le major Alexandrovitch, qui avait commandé l’artillerie mongole en 1918 et en 1919 sous les ordres directs de von Ungern; et ces données, d’une authenticité incontestable, laissent à penser que les auteurs de ces vies romancées se sont souvent appuyés sur des informations inexactes, même en ce qui concerne la fin du baron.

Descendant d’une vieille famille balte, von Ungern peut être considéré comme le dernier adversaire acharné de la révolution bolchevique, qu’il combattit avec une haine implacable et inextinguible. Ses principaux faits d’armes se déroulèrent dans une atmosphère saturée de surnaturel et de magie, au cœur de l’Asie, sous le règne du dalaï-lama, le «Bouddha vivant». Ses ennemis l’appelaient «le baron sanguinaire»; ses disciples, le «petit père sévère» (c’est le tsar que l’on appelait «petit père»). Quant aux Mongols et aux Tibétains, ils le considéraient comme une manifestation de la force invincible du dieu de la guerre, de la même force surnaturelle que celle de laquelle, selon la légende, serait «né» Gengis Khan, le grand conquérant mongol. Ils ne croient pas à la mort de von Ungern – il semble que, dans divers temples, ils en conservent encore l’image, symbole de sa «présence».

Lorsqu’éclata la révolution bolchevique, von Ungern, fonctionnaire russe, leva en Orient une petite armée, la «Division asiatique de cavalerie», qui fut la dernière à tenir tête aux troupes russes après la défaite de Wrangel et de Kolchak et accomplit des exploits presque légendaires. Avec ces troupes, von Ungern libéra la Mongolie, occupée alors par des troupes chinoises soutenues par Moscou; après qu’il eut fait évader, par un coup de main extrêmement audacieux, le dalaï-lama, celui-ci le fit premier prince et régent de la Mongolie et lui donna le titre de prêtre. Von Ungern devait entrer en relation, non seulement avec le dalaï-lama, mais aussi avec des représentants asiatiques de l’islam et des personnalités de la Chine traditionnelle et du Japon. Il semble qu’il ait caressé l’idée de créer en grand empire asiatique fondé sur une idée transcendante et traditionnelle, pour lutter, non seulement contre le bolchevisme, mais aussi contre toute la civilisation matérialiste moderne, dont le bolchevisme, pour lui, était la conséquence extrême. Et tout laisse à penser que von Ungern, à cet égard, ne suivit pas une simple initiative individuelle, mais agit dans le sens voulu par quelqu’un qui était, pour ainsi dire, dans les coulisses.

Le mépris de von Ungern pour la mort dépassait toutes les limites et avait pour contrepartie une invulnérabilité légendaire. Chef, guerrier et stratège, le «baron sanguinaire» était doté en même temps d’une intelligence supérieure et d’une vaste culture et, de surcroît, d’une sorte de clairvoyance: par exemple, il avait la faculté de juger infailliblement tous ceux qu’il fixait du regard et de reconnaître en eux, au premier coup d’œil, l’espion, le traître ou l’homme le plus qualifié pour un poste donné ou une fonction donnée. Pour ce qui est de son caractère, voici ce qu’écrit son compagnon d’armes, Alexandrovitch: «Il était brutal et impitoyable comme seul un ascète peut l’être. Son insensibilité dépassait tout ce que l’on peut imaginer et semblait ne pouvoir se rencontrer que chez un être incorporel, à l’âme froide comme la glace, ne connaissant ni la douleur, ni la pitié, ni la joie, ni la tristesse». Il nous paraît ridicule d’essayer, comme l’a fait Krauthoff, d’attribuer ces qualités au contrecoup occasionné par la mort tragique d’une femme qu’aurait aimée von Ungern. C’est toujours la même histoire: les biographes et les romanciers modernes n’ont point de cesse qu’ils n’aient introduit partout le thème obligatoire de l’amour et de la femme, même là où il est le moins justifié. Même si l’on tient compte du fait que von Ungern était bouddhiste par tradition familiale (c’était la religion à laquelle s’était converti un de ces ancêtres, qui était allé faire la guerre en Orient), tout laisse à penser que les qualités indiquées par Alexandrovitch se rapportent au contraire à une supériorité réelle et qu’elles sont celles qui apparaissent dans tous ceux qui sont en contact avec un plan vraiment transcendant, supra-humain, auquel ne peuvent plus s’appliquer les normes ordinaires, les notions communes du bien et du mal et les limitations de la sentimentalité, mais où règne la loi de l’action absolue et inexorable. Le baron von Ungern aurait probablement pu devenir un «homme du destin», si les circonstances lui avaient été favorables. Il n’en fut rien et c’est ainsi que son existence fut semblable à la lueur fugace et tragique d’un météore.

Après avoir libéré la Mongolie, von Ungern marche sur la Sibérie, prenant tout seul l’initiative de l’attaque contre les troupes du «Napoléon rouge», le général bolchevique Blücher. Il devient la terreur des bolcheviques, qu’il combat impitoyablement, jusqu’au bout, même s’il comprend que son combat est sans espoir. Il obtient d’importants succès, occupe plusieurs villes. Finalement, à Verchnevdiusk, attaqué par des forces bolcheviques plus de dix fois supérieures aux siennes et décidées à en finir avec leur dernier antagoniste, il est contraint de se replier après un long et âpre combat.

À partir de ce moment, on ne sait plus rien de précis sur le sort de von Ungern. D’après les deux auteurs de sa biographie «romancée», Pozner et Krauthoff, il aurait été trahi par une partie de son armée, serait tombé dans un état de prostration et de démoralisation et, fait prisonnier, il aurait été fusillé par les rouges. Krauthoff imagine même une entrevue dramatique entre le «Napoléon rouge» et von Ungern, au cours de laquelle celui-ci aurait refusé la proposition que celui-là lui aurait fait de lui laisser la vie sauve s’il servait la cause des rouges comme général soviétique. Il semble toutefois que tout cela ne soit que pure invention: d’après les informations publiées par Guénon et auxquelles nous avons fait allusion plus haut, von Ungern n’aurait nullement été fait prisonnier, mais serait mort de mort naturelle près de la frontière tibétaine. *

Cependant, les diverses versions concordent singulièrement sur un détail, c’est-à-dire sur le fait que von Ungern aurait connu avec exactitude le jour de sa mort. D’ailleurs, un lama lui avait prédit qu’il aurait été blessé – au cours de l’attaque des troupes rouges à la station de Dauria. Et ce ne sont pas là les seuls éléments qui rendent suggestive l’étrange figure du «baron sanguinaire». Voici un curieux témoignage sur les effets que, à certains moments, son regard produisait sur ceux qu’il fixait: «Il éprouva une sensation inconnue, inexplicable, de terreur: une sorte de son emplit sa poitrine, semblable à celui d’un cercle d’acier qui se resserre de plus en plus». Le fait est que, pour ceux qui étaient proches de lui, son prestige et le caractère irrésistible de sa force de commandement revêtaient quelque chose de surnaturel et le distinguaient ainsi d’un simple chef militaire.

Encore un fait singulier: d’après ce que rapporte Guénon, des phénomènes énigmatiques, de nature «psychique», se sont produits ces derniers temps dans le château de von Ungern, comme si la force et la haine de celui qui fut considéré au Tibet comme une manifestation du «dieu de la guerre» brandie contre la subversion rouge avait survécu à sa mort, sous forme de résidus agités de cette figure tragique, qui a, sous plus d’un aspect, les traits d’un symbole.

* * *

* Les archives soviétiques indiquent que von Ungern fut effectivement trahi, capturé, jugé et fusillé sur les ordres de Lénine.

De La Stampa, 15.III.1943 – XXI E.F.

source: Evola As He Is

mardi, 04 juin 2013

Colloque sur Julius Evola

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Un colloque sur Julius Evola près de Lyon samedi 15 juin

 

"Seul compte, aujourd'hui, le travail de ceux qui savent se tenir sur les lignes de crête."

Ces mots de Julius Evola illustrent toute son oeuvre, immense et complexe, souvent citée mais en fait plus souvent encore mal connue. D'où l'intérêt de l'éclairer par quelques coups de projecteur. C'est dans cet esprit que nous vous convions à venir participer à ce colloque.

Intervenants et thèmes :

Professeur Jean Haudry, directeur d'études à l'Ecole Pratique des Hautes Etudes (Paris) : "Révolte contre le monde moderne" : tradition primordiale et tradition indo-européenne.

Docteur Pierre Krebs, écrivain et conférencier : "Julius Evola et l'Allemagne".

Georges Feltin-Tracol, rédacteur en chef du site Europe Maxima : "Evola et la politique".

Professeur Pierre Vial, président de Terre et Peuple : Evola et le Moyen Age".

Des ouvrages d'Evola ou consacrés à son oeuvre seront en vente sur les stands. Vous pouvez également vous faire dédicacer les ouvrages des intervenants.

Conférence à 1 heure de Lyon (campagne bressane).

5 euros l'entrée ou 25 euros avec repas du midi dans une auberge. Possibilité d'amener son casse-croûte et de manger dans les environs.

Réservation obligatoire avant le 10 juin pour le repas : conferenceslyon@yahoo.fr

mardi, 09 avril 2013

An Introduction to Guido de Giorgio

An Introduction to Guido de Giorgio

Guido de Giorgio

Guido Lupo Maria De Giorgio, pseudonym “Havismat” (San Lupo, October 3 1890 – Mondovi, December 27, 1957) was an esoterist and Italian writer.

After graduating with a degree in philosophy, he went to Tunisia where he worked as a teacher of Italian. There, he came into contact with Islamic esoterism through a local brotherhood. He then moved to Paris after WW I, where he got to know Rene Guenon. He back his friend, collaborated with him by writing articles for the two major French esoteric journals of the time: Le Voile d’Isis and L’initiation.

He returned to Italy in the 1920’s and participated in the Gruppo di Ur, writing under the name Havismat. In 1930, he joined with Julius Evola in promoting the journal La Torre, in which he came up with a theory of a type of Sacred Fascism with the effort to universalize the Fascist movement in an esoteric way.

In “La Tradizione romana” (The Roman Tradition), de Giorgio accused Europe in the aftermath of WW II of have become scientistic and of stifling the spiritual research of man. The solution, according to de Giorgio, lay in returning to an ancient conception of spiritual and temporal authority. A typescript version of this work, whose original title was “The dead badge of power. Introduction to the doctrine of Roman Sacred Fascism”, was given to Benito Mussolini for Christmas in 1939.

In Dio e il Poeta (God and the Poet), de Giorgio poured out his mystical experience arising from his ascetical practices.

None of his works was published during his lifetime, some posthumously and others still unpublished.

Julius Evola

In Cammino del Cinabro, Julius Evola describes Guido de Giorgio.

He was a type of initiate in the wild and chaotic state, he had lived among the Arabs and personally knew Guenon, who held him in high esteem. He was a man of exceptional culture, he knew several languages, but he had a rather unstable temperament and strong passionate positions, emotive and lyrical almost like Nietzsche.

Evola goes on to describe de Giorgio’s erratic personal and love life, his strong personality, then describes their collaborations and even trips together to the Alps. (They both loved the mountains.) Evola conceded that towards the end, they grew apart somewhat due to de Giorgio’s “indulgence in a sort of Vedanta-ized Christianity”. (Apparently, Evola was unaware of “La Tradizione romana”, which was never published during his lifetime.

From La Tradizione romana

The restoration that we propose, taking up again the thought, aspiration and ideal of Dante, is a return to the spirit of Rome, not the pure and simple repetition of the past that would unrealizable, because nothing of the contingencies of the world ever repeats itself, but the adhesion to those eternal principles of truth that are contained in the Sacred Books and expressed by ancient symbols.
[To save Europe and the West from catastrophe,] it would depend not as much on the external material things that are of scant value in themselves, but on those deep, internal, spiritual values … the catastrophe of the life of the spirit, the collapse of the truth.


References:

 

lundi, 08 avril 2013

La Tradition dans la pensée de Martin Heidegger et de Julius Evola

Le primordial et l’éternel :
La Tradition dans la pensée de Martin Heidegger et de Julius Evola

par Michael O'Meara 

Ex: http://www.counter-currents.com/

heidegger.jpgL’opposé de la tradition, dit l’historien Dominique Venner, n’est pas la modernité, une notion illusoire, mais le nihilisme [1]. D’après Nietzsche, qui développa le concept, le nihilisme vient avec la mort des dieux et « la répudiation radicale de [toute] valeur, sens et désirabilité » [2]. Un monde nihiliste – comme le nôtre, dans lequel les valeurs les plus élevées ont été dévaluées – est un monde incapable de canaliser les courants entropiques de la vie dans un flux sensé, et c’est pourquoi les traditionalistes associés à l’éternalisme guénonien, au traditionalisme radical, au néo-paganisme, au conservatisme révolutionnaire, à l’anti-modernisme et à l’ethno-nationalisme se rassemblent contre lui.

La tradition dont les vérités signifiantes et créatives sont affirmées par ces traditionalistes contre l’assaut nihiliste de la modernité n’est pas le concept anthropologique et sociologique dominant, défini comme « un ensemble de pratiques sociales inculquant certaines normes comportementales impliquant une continuité avec un passé réel ou imaginaire ». Ce n’est pas non plus la « démocratie des morts » de G. K. Chesterton, ni la « banque générale et le capital des nations et des âges » d’Edmund Burke. Pour eux la tradition n’avait pas grand-chose à voir avec le passé comme tel, des pratiques culturelles formalisées, ou même le traditionalisme. Venner, par exemple, la compare à un motif musical, un thème guidant, qui fournit une cohérence et une direction aux divers mouvements de la vie.

Si la plupart des traditionalistes s’accordent à voir la tradition comme orientant et transcendant à la fois l’existence collective d’un peuple, représentant quelque chose d’immuable qui renaît perpétuellement dans son expérience du temps, sur d’autres questions ils tendent à être en désaccord. Comme cas d’école, les traditionalistes radicaux associés à TYR s’opposent aux « principes abstraits mais absolus » que l’école guénonienne associe à la « Tradition » et préfèrent privilégier l’héritage européen [3]. Ici l’implication (en-dehors de ce qu’elle implique pour la biopolitique) est qu’il n’existe pas de Tradition Eternelle ou de Vérité Universelle, dont les vérités éternelles s’appliqueraient partout et à tous les peuples – seulement des traditions différentes, liées à des peuples différents dans des époques et des régions culturelles différentes. Les traditions spécifiques de ces histoires et cultures incarnent, comme telles, les significations collectives qui définissent, situent et orientent un peuple, lui permettant de triompher des défis incessant qui lui sont spécifiques. Comme l’écrit M. Raphael Johnson, la tradition est « quelque chose de similaire au concept d’ethnicité, c’est-à-dire un ensemble de normes et de significations tacites qui se sont développées à partir de la lutte pour la survie d’un peuple ». En-dehors du contexte spécifique de cette lutte, il n’y a pas de tradition [4].

Mais si puissante qu’elle soit, cette position « culturaliste » prive cependant les traditionalistes radicaux des élégants postulats philosophiques et principes monistes étayant l’école guénonienne. Non seulement leur projet de culture intégrale enracinée dans l’héritage européen perd ainsi la cohésion intellectuelle des guénoniens, mais il risque aussi de devenir un pot-pourri d’éléments disparates, manquant de ces « vues » philosophiques éclairées qui pourraient ordonner et éclairer la tradition dont ils se réclament. Cela ne veut pas dire que la révolte de la tradition contre le monde moderne doive être menée d’une manière philosophique, ou que la renaissance de la tradition dépende d’une formulation philosophique spécifique. Rien d’aussi utilitaire ou utopique n’est impliqué, car la philosophie ne crée jamais – du moins jamais directement – « les mécanismes et les opportunités qui amènent un état de choses historique » [5]. De telles « vues » fournissent plutôt une ouverture au monde – dans ce cas, le monde perdu de la tradition – montrant la voie vers ces perspectives que les traditionalistes radicaux espèrent retrouver.

Je crois que la pensée de Martin Heidegger offre une telle vision. Dans les pages qui suivent, nous défendrons une appropriation traditionaliste de la pensée heideggérienne. Les guénoniens sont ici pris comme un repoussoir vis-à-vis de Heidegger non seulement parce que leur approche métaphysique s’oppose à l’approche historique européenne associée à TYR, mais aussi parce que leur discours possède en partie la rigueur et la profondeur de Heidegger. René Guénon représente cependant un problème, car il fut un apostat musulman de la tradition européenne, désirant « orientaliser » l’Occident. Cela fait de lui un interlocuteur inapproprié pour les traditionalistes radicaux, particulièrement en comparaison avec son compagnon traditionaliste Julius Evola, qui fut l’un des grands champions contemporains de l’héritage « aryen ». Parmi les éternalistes, c’est alors Evola plutôt que Guénon qui offre le repoussoir le plus approprié à Heidegger [6].

Le Naturel et le Surnaturel

Etant donné les fondations métaphysiques des guénoniens, le Traditionalisme d’Evola se concentrait non sur « l’alternance éphémère des choses données aux sens », mais sur « l’ordre éternel des choses » situé « au-dessus » d’elles. Pour lui Tradition signifie la « sagesse éternelle, la philosophia perennis, la Vérité Primordiale » inscrite dans ce domaine supra-humain, dont les principes éternels, immuables et universels étaient connus, dit-on, des premiers hommes et dont le patrimoine (bien que négligé) est aujourd’hui celui de toute l’humanité [7].

La « méthode traditionaliste » d’Evola vise ainsi à recouvrer l’unité perdue dans la multiplicité des choses du monde. De ce fait il se préoccupe moins de la réalité empirique, historique ou existentielle (comprise comme un reflet déformé de quelque chose de supérieur) que de l’esprit – tel qu’on le trouve, par exemple, dans le symbole, le mythe et le rituel. Le monde humain, par contre, ne possède qu’un ordre d’importance secondaire pour lui. Comme Platon, il voit son domaine visible comme un reflet imparfait d’un domaine invisible supérieur. « Rien n’existe ici-bas », écrit-il, « …qui ne s’enracine pas dans une réalité plus profonde, numineuse. Toute cause visible n’est qu’apparente » [8]. Il refuse ainsi toutes les explications historiques ou naturalistes concernant le monde contingent de l’homme.

Voyant la Tradition comme une « présence » transmettant les vérités transcendantes obscurcies par le tourbillon éphémère des apparences terrestres, Evola identifie l’Etre à ses vérités immuables. Dans cette conception, l’Etre est à la fois en-dehors et au-delà du cours de l’histoire (c’est-à-dire qu’il est supra-historique), alors que le monde humain du Devenir est associé à un flux toujours changeant et finalement insensé de vie terrestre de sensations. La « valeur suprême et les principes fondateurs de toute institution saine et normale sont par conséquent invariables, étant basés sur l’Etre » [9]. C’est de ce principe que vient la doctrine évolienne des « deux natures » (la naturelle et la surnaturelle), qui désigne un ordre physique associé au monde du Devenir connu de l’homme et un autre ordre qui décrit le royaume métaphysique inconditionné de l’Etre connu des dieux.

Les civilisations traditionnelles, affirme Evola, reflétaient les principes transcendants transmis dans la Tradition, alors que le royaume « anormal et régressif » de l’homme moderne n’est qu’un vestige décadent de son ordre céleste. Le monde temporel et historique du Devenir, pour cette raison, est relégué à un ordre d’importance inférieur, alors que l’unité éternelle de l’Etre est privilégiée. Comme son « autre maître » Joseph de Maistre, Evola voit la Tradition comme antérieure à l’histoire, non conditionnée par le temps ou les circonstances, et donc sans lien avec les origines humaines » [10]. La primauté qu’il attribue au domaine métaphysique est en effet ce qui le conduit à affirmer que sans la loi éternelle de l’Etre transmise dans la Tradition, « toute autorité est frauduleuse, toute loi est injuste et barbare, toute institution est vaine et éphémère » [11].

La Tradition comme Überlieferung

Heidegger suit la voie opposée. Eduqué pour une vocation dans l’Eglise catholique et fidèle aux coutumes enracinées et provinciales de sa Souabe natale, lui aussi s’orienta vers « l’ancienne transcendance et non la mondanité moderne ». Mais son anti-modernisme s’opposait à la tradition de la pensée métaphysique occidentale et, par implication, à la philosophie guénonienne de la Tradition (qu’il ne connaissait apparemment pas).

La métaphysique est cette branche de la philosophie qui traite des questions ontologiques majeures, la plus fondamentale étant la question : Qu’est-ce que l’Etre ? Commençant avec Aristote, la métaphysique tendit néanmoins à s’orienter vers la facette non-physique et non-terrestre de l’Etre, tentant de saisir la transcendance de différents êtres comme l’esprit, la force, ou l’essence [12]. En recourant à des catégories aussi généralisées, cette tendance postule un royaume transcendant de formes permanentes et de vérités inconditionnées qui comprennent l’Etre d’une manière qui, d’après Heidegger, limite la compréhension humaine de sa vérité, empêchant la manifestation d’une présence à la fois cachée, ouverte et fuyante. Dans une formulation opaque mais cependant révélatrice, Heidegger écrit : « Quand la vérité [devient une incontestable] certitude, alors tout ce qui est vraiment réel doit se présenter comme réel pour l’être réel qu’il est [supposément] » – c’est-à-dire que quand la métaphysique postule ses vérités, pour elle la vérité doit se présenter non seulement d’une manière autoréférentielle, mais aussi d’une manière qui se conforme à une idée préconçue d’elle-même » [13]. Ici la différence entre la vérité métaphysique, comme proposition, et l’idée heideggérienne d’une manifestation en cours est quelque peu analogue à celle différenciant les prétentions de vérité du Dieu chrétien de celles des dieux grecs, les premières présupposant l’objectivité totale d’une vérité universelle éternelle et inconditionnée préconçue dans l’esprit de Dieu, et les secondes acceptant que la « dissimulation » est aussi inhérente à la nature polymorphe de la vérité que l’est la manifestation [14].

Etant donné son affirmation a-historique de vérités immuables installées dans la raison pure, Heidegger affirme que l’élan préfigurant et décontextualisant de la métaphysique aliène les êtres de l’Etre, les figeant dans leurs représentations momentanées et les empêchant donc de se déployer en accord avec les possibilités offertes par leur monde spécifique. L’oubli de l’être culmine dans la civilisation technologique moderne, où l’être est défini simplement comme une chose disponible pour l’investigation scientifique, la manipulation technologique et la consommation humaine. La tradition métaphysique a obscurci l’Etre en le définissant en termes essentiellement anthropocentriques et même subjectivistes.

Mais en plus de rejeter les postulats inconditionnés de la métaphysique [15], Heidegger associe le mot « tradition » – ou du moins sa forme latinisée (die Tradition) – à l’héritage philosophique occidental et son oubli croissant de l’être. De même, il utilise l’adjectif « traditionell » péjorativement, l’associant à l’élan généralisant de la métaphysique et aux conventions quotidiennes insouciantes contribuant à l’oubli de l’Etre.

Mais après avoir noté cette particularité sémantique et son intention antimétaphysique, nous devons souligner que Heidegger n’était pas un ennemi de la tradition, car sa philosophie privilégie ces « manifestations de l’être » originelles dans lesquelles naissent les grandes vérités traditionnelles. Comme telle, la tradition pour lui n’est pas un ensemble de postulats désincarnés, pas quelque chose d’hérité passivement, mais une facette de l’Etre qui ouvre l’homme à un futur lui appartenant en propre. Dans cet esprit, il associe l’Überlieferung (signifiant aussi tradition) à la transmission de ces principes transcendants inspirant tout « grand commencement ».

La Tradition dans ce sens primordial permet à l’homme, pense-t-il, « de revenir à lui-même », de découvrir ses possibilités historiquement situées et uniques, et de se réaliser dans la plénitude de son essence et de sa vérité. En tant qu’héritage de destination, l’Überlieferung de Heidegger est le contraire de l’idéal décontextualisé des Traditionalistes. Dans Etre et Temps, il dit que die Tradition « prend ce qui est descendu vers nous et en fait une évidence en soi ; elle bloque notre accès à ces ‘sources’ primordiales dont les catégories et les concepts transmis à nous ont été en partie authentiquement tirés. En fait, elle nous fait oublier qu’elles ont eu une telle origine, et nous fait supposer que la nécessité de revenir à ces sources est quelque chose que nous n’avons même pas besoin de comprendre » [17]. Dans ce sens, Die Tradition oublie les possibilités formatives léguées par son origine de destination, alors que l’Überlieferung, en tant que transmission, les revendique. La pensée de Heidegger se préoccupe de retrouver l’héritage de ces sources anciennes.

Sa critique de la modernité (et, contrairement à ce qu’écrit Evola, il est l’un de ses grands critiques) repose sur l’idée que la perte ou la corruption de la tradition de l’Europe explique « la fuite des dieux, la destruction de la terre, la réduction des êtres humains à une masse, la prépondérance du médiocre » [18]. A présent vidé de ses vérités primordiales, le cadre de vie européen, dit-il, risque de mourir : c’est seulement en « saisissant ses traditions d’une manière créative », et en se réappropriant leur élan originel, que l’Occident évitera le « chemin de l’annihilation » que la civilisation rationaliste, bourgeoise et nihiliste de la modernité semble avoir pris » [19].

La tradition (Überlieferung) que défend l’antimétaphysique Heidegger n’est alors pas le royaume universel et supra-sensuel auquel se réfèrent les guénoniens lorsqu’ils parlent de la Tradition. Il s’agit plutôt de ces vérités primordiales que l’Etre rend présentes « au commencement » –, des vérités dont les sources historiques profondes et les certitudes constantes tendent à être oubliées dans les soucis quotidiens ou dénigrées dans le discours moderniste, mais dont les possibilités restent néanmoins les seules à nous être vraiment accessibles. Contre ces métaphysiciens, Heidegger affirme qu’aucune prima philosophia n’existe pour fournir un fondement à la vie ou à l’Etre, seulement des vérités enracinées dans des origines historiques spécifiques et dans les conventions herméneutiques situant un peuple dans ses grands récits.

Il refuse ainsi de réduire la tradition à une analyse réfléchie indépendante du temps et du lieu. Son approche phénoménologique du monde humain la voit plutôt comme venant d’un passé où l’Etre et la vérité se reflètent l’un l’autre et, bien qu’imparfaitement, affectent le présent et la manière dont le futur est approché. En tant que tels, Etre, vérité et tradition ne peuvent pas être saisis en-dehors de la temporalité (c’est-à-dire la manière dont les humains connaissent le temps). Cela donne à l’Etre, à la vérité et à la tradition une nature avant tout historique (bien que pas dans le sens progressiste, évolutionnaire et développemental favorisé par les modernistes). C’est seulement en posant la question de l’Etre, la Seinsfrage, que l’Etre de l’humain s’ouvre à « la condition de la possibilité de [sa] vérité ».

C’est alors à travers la temporalité que l’homme découvre la présence durable qui est l’Etre [20]. En effet, si l’Etre de l’homme n’était pas situé temporellement, sa transcendance, la préoccupation principale de la métaphysique guénonienne, serait inconcevable. De même, il n’y a pas de vérité (sur le monde ou les cieux au-dessus de lui) qui ne soit pas ancrée dans notre Etre-dans-le-monde – pas de vérité absolue ou de Tradition Universelle, seulement des vérités et des traditions nées de ce que nous avons été… et pouvons encore être. Cela ne veut pas dire que l’Etre de l’humain manque de transcendance, seulement que sa possibilité vient de son immanence – que l’Etre et les êtres, le monde et ses objets, sont un phénomène unitaire et ne peuvent pas être saisis l’un sans l’autre.

Parce que la conception heideggérienne de la tradition est liée à la question de l’Etre et parce que l’Etre est inséparable du Devenir, l’Etre et la tradition fidèle à sa vérité ne peuvent être dissociés de leur émergence et de leur réalisation dans le temps. Sein und Zeit, Etre immuable et changement historique, sont inséparables dans sa pensée. L’Etre, écrit-il, « est Devenir et le Devenir est Etre » [21]. C’est seulement par le processus du devenir dans le temps, dit-il, que les êtres peuvent se déployer dans l’essence de leur Etre. La présence constante que la métaphysique prend comme l’essence de l’Etre est elle-même un aspect du temps et ne peut être saisie que dans le temps – car le temps et l’Etre partagent une coappartenance primordiale.

Le monde platonique guénonien des formes impérissables et des idéaux éternels est ici rejeté pour un monde héraclitien de flux et d’apparition, où l’homme, fidèle à lui-même, cherche à se réaliser dans le temps – en termes qui parlent à son époque et à son lieu, faisant cela en relation avec son héritage de destination. Etant donné que le temps implique l’espace, la relation de l’être avec l’Etre n’est pas simplement un aspect individualisé de l’Etre, mais un « être-là » (Dasein) spécifique – situé, projeté, et donc temporellement enraciné dans ce lieu où l’Etre n’est pas seulement « manifesté » mais « approprié ». Sans « être-là », il n’y a pas d’Etre, pas d’existence. Pour lui, l’engagement humain dans le monde n’est pas simplement une facette située de l’Etre, c’est son fondement.

Ecarter la relation d’un être avec son temps et son espace (comme le fait la métaphysique atemporelle des guénoniens) est « tout aussi insensé que si quelqu’un voulait expliquer la cause et le fondement d’un feu [en déclarant] qu’il n’y a pas besoin de se soucier du cours du feu ou de l’exploration de sa scène » [22]. C’est seulement dans la « facticité » (le lien des pratiques, des suppositions, des traditions et des histoires situant son Devenir), et non dans une supra-réalité putative, que tout le poids de l’Etre – et la « condition fondamentale pour… tout ce qui est grand » – se fait sentir.

Quand les éternalistes interprètent « les êtres sans s’interroger sur [la manière dont] l’essence de l’homme appartient à la vérité de l’Etre », ils ne pourraient pas être plus opposés à Heidegger. En effet, pour eux l’Etre est manifesté comme Ame Cosmique (le maître plan de l’univers, l’Unité indéfinissable, l’Etre éternel), qui est détachée de la présence originaire et terrestre, distincte de l’Etre-dans-le-monde de Heidegger [23]. Contre l’idée décontextualisée et détachée du monde des métaphysiciens, Heidegger souligne que la présence de l’Etre est manifestée seulement dans ses états terrestres, temporels, et jamais pleinement révélés. Des mondes différents nous donnent des possibilités différentes, des manières différentes d’être ou de vivre. Ces mondes historiquement situés dictent les possibilités spécifiques de l’être humain, lui imposant un ordre et un sens. Ici Heidegger ne nie pas la possibilité de la transcendance humaine, mais la recherche au seul endroit où elle est accessible à l’homme – c’est-à-dire dans son da (« là »), sa situation spécifique. Cela fait du Devenir à la fois la toile de fond existentielle et l’« horizon transcendantal » de l’Etre, car même lorsqu’elle transcende sa situation, l’existence humaine est forcément limitée dans le temps et dans l’espace.

En posant la Seinsfrage de cette manière, il s’ensuit qu’on ne peut pas partir de zéro, en isolant un être abstrait et atomisé de tout ce qui le situe dans un temps et un espace spécifiques, car on ignorerait ainsi que l’être de l’homme est quelque chose de fini, enraciné dans un contexte historiquement conditionné et culturellement défini – on ignorerait, en fait, que c’est un Etre-là (Dasein). Car si l’existence humaine est prisonnière du flux du Devenir – si elle est quelque chose de situé culturellement, linguistiquement, racialement, et, avant tout, historiquement –, elle ne peut pas être comprise comme un Etre purement inconditionné.

Le caractère ouvert de la temporalité humaine signifie, de plus, que l’homme est responsable de son être. Il est l’être dont « l’être est lui-même une question », car, bien que située, son existence n’est jamais fixée ou complète, jamais déterminée à l’avance, qu’elle soit vécue d’une manière authentique ou non [24]. Elle est vécue comme une possibilité en développement qui se projette vers un futur « pas encore réel », puisque l’homme cherche à « faire quelque chose de lui-même » à partir des possibilités léguées par son origine spécifique. Cela pousse l’homme à se « soucier » de son Dasein, individualisant ses possibilités en accord avec le monde où il habite.

Ici le temps ne sert pas seulement d’horizon contre lequel l’homme est projeté, il sert de fondement (la facticité prédéterminée) sur lequel sa possibilité est réalisée. La possibilité que l’homme cherche dans le futur (son projet) est inévitablement affectée par le présent qui le situe et le passé modelant son sens de la possibilité. La projection du Dasein vient ainsi « vers lui-même d’une manière telle qu’il revient », anticipant sa possibilité comme quelque chose qui « a été » et qui est encore à portée de main [25]. Car c’est seulement en accord avec son Etre-là, sa « projection », qu’il peut être pleinement approprié – et transcendé [26].

En rejetant les concepts abstraits, inconditionnés et éternels de la métaphysique, Heidegger considère la vérité, en particulier les vérités primordiales que la tradition transmet, comme étant d’une nature historique et temporelle, liée à des manifestations distinctes (bien que souvent obscures) de l’Etre, et imprégnée d’un passé dont l’origine créatrice de destin inspire le sens humain de la possibilité. En effet, c’est la configuration distincte formée par la situation temporelle, l’ouverture de l’Etre, et la facticité situant cette rencontre qui forme les grandes questions se posant à l’homme, puisqu’il cherche à réaliser (ou à éviter) sa possibilité sur un fondement qu’il n’a pas choisi. « L’histoire de l’Etre », écrit Heidegger, « n’est jamais le passé mais se tient toujours devant nous ; elle soutient et définit toute condition et situation humaine » [27].

L’homme n’affronte donc pas les choix définissant son Dasein au sens existentialiste d’être « condamné » à prendre des décisions innombrables et arbitraires le concernant. L’ouverture à laquelle il fait face est plutôt guidée par les possibilités spécifiques à son existence historiquement située, alors que les « décisions » qu’il prend concernent son authenticité (c’est-à-dire sa fidélité à ses possibilités historiquement destinées, son destin). Puisqu’il n’y a pas de vérités métaphysiques éternelles inscrites dans la tradition, seulement des vérités posées par un monde « toujours déjà », vivre à la lumière des vérités de l’Etre requiert que l’homme connaisse sa place dans l’histoire, qu’il connaisse le lieu et la manière de son origine, et affronte son histoire comme le déploiement (ou, négativement, la déformation) des promesses posées par une prédestination originelle [28]. Une existence humaine authentique, affirme Heidegger, est « un processus de conquête de ce que nous avons été au service de ce que nous sommes » [29].

Le Primordial

Le « premier commencement » de l’homme – le commencement (Anfangen) « sans précédent et monumental » dans lequel ses ancêtres furent « piégés » (gefangen) comme une forme spécifique de l’Etre – met en jeu d’autres commencements, devenant le fondement de toutes ses fondations ultérieures [30]. En orientant l’histoire dans une certaine direction, le commencement – le primordial – « ne réside pas dans le passé mais se trouve en avant, dans ce qui doit venir » [31]. Il est « le décret lointain qui nous ordonne de ressaisir sa grandeur » [32]. Sans cette « reconquête », il ne peut y avoir d’autre commencement : car c’est en se réappropriant un héritage, dont le commencement est déjà un achèvement, que l’homme revient à lui-même, s’inscrivant dans le monde de son propre temps. « C’est en se saisissant du premier commencement que l’héritage… devient l’héritage ; et seuls ceux qui appartiennent au futur… deviennent [ses] héritiers » [33]. L’élève de Heidegger, Hans-Georg Gadamer dit que toutes les questions concernant les commencements « sont toujours [des questions] sur nous-mêmes et notre futur » [34].

Pour Heidegger, en transmettant la vérité de l’origine de l’homme, la tradition défie l’homme à se réaliser face à tout ce qui conspire pour déformer son être. De même qu’Evola pensait que l’histoire était une involution à partir d’un Age d’Or ancien, d’où un processus de décadence, Heidegger voit l’origine – l’inexplicable manifestation de l’Etre qui fait naître ce qui est « le plus particulier » au Dasein, et non universel – comme posant non seulement les trajectoires possibles de la vie humaine, mais les obstacles inhérents à sa réalisation. Se déployant sur la base de sa fondation primordiale, l’histoire tend ainsi à être une diminution, un déclin, un oubli ou une dissimulation des possibilités léguées par son « commencement », le bavardage oisif, l’exaltation de l’ordinaire et du quotidien, ou le règne du triomphe médiocre sur le destin, l’esprit de décision et l’authenticité des premières époques, dont la proximité avec l’Etre était immédiate, non dissimulée, et pleine de possibilités évidentes.

Là où Evola voit l’histoire en termes cycliques, chaque cycle restant essentiellement homogène, représentant un segment de la succession récurrente gouvernée par certains principes immuables, Heidegger voit l’histoire en termes des possibilités posées par leur appropriation. C’est seulement à partir des possibilités intrinsèques à la genèse originaire de sa « sphère de sens » – et non à partir du domaine supra-historique des guénoniens – que l’homme, dit-il, peut découvrir les tâches historiquement situées qui sont « exigées » de lui et s’ouvrir à leur possibilité [35]. En accord avec cela, les mots « plus ancien », « commencement » et « primordial » sont associés dans la pensée de Heidegger à l’essence ou la vérité de l’Etre, de même que le souvenir de l’origine devient une « pensée à l’avance de ce qui vient » [36].

Parce que le primordial se trouve devant l’homme, pas derrière lui, la révélation initiale de l’Etre vient dans chaque nouveau commencement, puisque chaque nouveau commencement s’inspire de sa source pour sa postérité. Comme Mnémosyne, la déesse de la mémoire qui était la muse principale des poètes grecs, ce qui est antérieur préfigure ce qui est postérieur, car la « vérité de l’Etre » trouvée dans les origines pousse le projet du Dasein à « revenir à lui-même ». C’est alors en tant qu’« appropriation la plus intérieure de l’Etre » que les origines sont si importantes. Il n’y a pas d’antécédent ou de causa prima, comme le prétend la logique inorganique de la modernité, mais « ce dont et ce par quoi une chose est ce qu’elle est et telle qu’elle est… [Ils sont] la source de son essence » et la manière dont la vérité « vient à être… [et] devient historique » [37]. Comme le dit le penseur français de la Nouvelle Droite, Alain de Benoist, l’« originel » (à la différence du novum de la modernité) n’est pas ce qui vient une fois pour toutes, mais ce qui vient et se répète chaque fois qu’un être se déploie dans l’authenticité de son origine » [38]. Dans ce sens, l’origine représente l’unité primordiale de l’existence et de l’essence exprimées dans la tradition. Et parce que l’« appropriation » à la fois originelle et ultérieure de l’Etre révèle la possibilité, et non l’environnement purement « factuel » ou « momentané » qui l’affecte, le Dasein n’accomplit sa constance propre que lorsqu’il est projeté sur le fondement de son héritage authentique [39].

La pensée heideggérienne n’est pas un existentialisme

Evola consacre plusieurs chapitres de Chevaucher le tigre (Calvacare la Tigre) à une critique de l’« existentialisme » d’après-guerre popularisé par Jean-Paul Sartre et dérivé, à ce qu’on dit, de la pensée de Heidegger » [40]. Bien que reconnaissant certaines différences entre Sartre et Heidegger, Evola les traitait comme des esprits fondamentalement apparentés. Son Sartre est ainsi décrit comme un non-conformiste petit-bourgeois et son Heidegger comme un intellectuel chicanier, tous deux voyant l’homme comme échoué dans un monde insensé, condamné à faire des choix incessants sans aucun recours transcendant. Le triste concept de liberté des existentialistes, affirme Evola, voit l’univers comme un vide, face auquel l’homme doit se forger son propre sens (l’« essence » de Sartre). Leur notion de liberté (et par implication, celle de Heidegger) est ainsi jugée nihiliste, entièrement individualiste et arbitraire.

En réunissant l’existentialisme sartrien et la pensée heideggérienne, Evola ne connaissait  apparemment pas la « Lettre sur l’Humanisme » (1946-47) de Heidegger, dans laquelle ce dernier – d’une manière éloquente et sans ambiguïté – répudiait l’appropriation existentialiste de son œuvre. Il semble aussi qu’Evola n’ait connu que le monumental Sein und Zeit de Heidegger, qu’il lit, comme Sartre, comme une anthropologie philosophique sur les problèmes de l’existence humaine (c’est-à-dire comme un humanisme) plutôt que comme une partie préliminaire d’une première tentative de développer une « ontologie fondamentale » recherchant le sens de l’Etre. Il mettait donc Sartre et Heidegger dans le même sac, les décrivant comme des « hommes modernes », coupés du monde de la Tradition et imprégnés des « catégories profanes, abstraites et déracinées » de la pensée. Parlant de l’affirmation nihiliste de Sartre selon laquelle « l’existence précède l’essence » (qu’il attribuait erronément à Heidegger, qui identifiait l’une à l’autre au lieu de les opposer), le disciple italien de Guénon concluait qu’en situant l’homme dans un monde où l’essence est auto-engendrée, Heidegger rendait le présent concret ontologiquement primaire, avec une nécessité situationnelle, plutôt que le contexte de l’Etre [41]. L’Etre heideggérien est alors vu comme se trouvant au-delà de l’homme, poursuivi comme une possibilité irréalisable [42]. Cela est sensé lier l’Etre au présent, le détachant de la Tradition – et donc de la transcendance qui seule illumine les grandes tâches existentielles.

La critique évolienne de Heidegger, comme que nous l’avons suggéré, n’est pas fondée, ciblant une caricature de sa pensée. Il se peut que l’histoire et la temporalité soient essentielles dans le projet philosophique de Heidegger et qu’il accepte l’affirmation sartrienne qu’il n’existe pas de manières absolues et inchangées pour être humain, mais ce n’est pas parce qu’il croit nécessaire d’« abandonner le plan de l’Etre » pour le plan situationnel. Pour lui, le plan situationnel est simplement le contexte où les êtres rencontrent leur Etre.

Heidegger insiste sur la « structure événementielle temporelle » du Dasein parce qu’il voit les êtres comme enracinés dans le temps et empêtrés dans un monde qui n’est pas de leur propre création (même si l’Etre de ces êtres pourrait transcender le « maintenant » ou la série de « maintenant » qui les situent). En même temps, il souligne que le Dasein est connu d’une manière « extatique », car les pensées du passé, du présent et du futur sont des facettes étroitement liées de la conscience humaine. En effet, c’est seulement en reconnaissant sa dimension extatique (que les existentialistes et les métaphysiciens ignorent) que le Dasein peut « se soucier de l’ouverture de l’Etre », vivre dans sa lumière, et transcender son da éphémère (sa condition situationnelle). Heidegger écrit ainsi que le Dasein est « l’être qui émerge de lui-même » – c’est le dévoilement d’une essence historique-culturelle-existentielle dont le déploiement est étranger à l’élan objectifiant des formes platoniques [43].

En repensant l’Etre en termes de temporalité humaine, en le restaurant dans le Devenir historique, et en établissant le temps comme son horizon transcendant, Heidegger cherche à libérer l’existentiel des propriétés inorganiques de l’espace et de la matière, de l’agitation insensée de la vie moderne, avec son évasion instrumentaliste de l’Etre et sa « pseudo-culture épuisée » – et aussi de le libérer des idéaux éternels privilégiés par les guénoniens. Car si l’Etre est inséparable du Devenir et survient dans un monde-avec-les-autres, alors les êtres, souligne-t-il, sont inhérents à un « contexte de signification » saturé d’histoire et de culture. Poursuivant son projet dans ces termes, les divers modes existentiels de l’homme, ainsi que son monde, ne sont pas formés par des interprétations venant d’une histoire d’interprétations précédentes. L’interprétation elle-même (c’est-à-dire « l’élaboration de possibilités projetées dans la compréhension ») met le présent en question, affectant le déploiement de l’essence. En fait, la matrice chargée de sens mise à jour par l’interprétation constitue une grande part de ce qui forme le « là » (da) dans le Dasein [44].

Etant donné qu’il n’y a pas de Sein sans un da, aucune existence sans un fondement, l’homme, dans sa nature la plus intérieure, est inséparable de la matrice qui « rend possible ce qui a été projeté » [45]. A l’intérieur de cette matrice, l’Etre est inhérent à « l’appropriation du fondement du là » [46]. Contrairement à l’argumentation de Chevaucher le tigre, cette herméneutique historiquement consciente ne prive pas l’homme de l’Etre, ni ne nie la primauté de l’Etre, ni ne laisse l’homme à la merci de sa condition situationnelle. Elle n’a rien à voir non plus avec l’« indéterminisme » radical de Sartre – qui rend le sens contextuellement contingent et l’essence effervescente.

Pour Heidegger l’homme n’existe pas dans un seul de ses moments donnés, mais dans tous, car son être situé (le projet qu’il réalise dans le temps) ne se trouve dans aucun cas unique de son déploiement (ou dans ce que Guénon appelait « la nature indéfinie des possibilités de chaque état »). En fait, il existe dans toute la structure temporelle s’étendant entre la naissance et la mort de l’homme, puisqu’il réalise son projet dans le monde. Sans un passé et un futur pas-encore-réalisé, l’existence humaine ne serait pas Dasein, avec un futur légué par un passé qui est en même temps une incitation à un futur. A la différence de l’individu sartrien (dont l’être est une possibilité incertaine et illimitée) et à la différence de l’éternaliste (qui voit son âme en termes dépourvus de références terrestres), l’homme heideggérien se trouve seulement dans un retour (une « écoute ») à l’essence postulée par son origine.

Cette écoute de l’essence, la nécessité de la découverte de soi pour une existence authentique, n’est pas une pure possibilité, soumise aux « planifications, conceptions, machinations et complots » individuels, mais l’héritier d’une origine spécifique qui détermine son destin. En effet, l’être vient seulement de l’Etre [47]. La notion heideggérienne de la tradition privilégie donc l’Andenken (le souvenir qui retrouve et renouvelle la tradition) et la Verwindung (qui est un aller au-delà, un surmonter) – une idée de la tradition qui implique l’inséparabilité de l’Etre et du Devenir, ainsi que le rôle du Devenir dans le déploiement de l’Etre, plutôt que la négation du Devenir [48].

« Le repos originel de l’Etre » qui a le pouvoir de sauver l’homme du « vacarme de la vie inauthentique, anodine et extérieure » n’est cependant pas aisément gagné. « Retrouver le commencement de l’existence historico-spirituelle afin de la transformer en un nouveau commencement » (qui, à mon avis, définit le projet traditionaliste radical) requiert « une résolution anticipatoire » qui résiste aux routines stupides oublieuses de la temporalité humaine [49]. Inévitablement, une telle résolution anticipatoire ne vient que lorsqu’on met en question les « libertés déracinées et égoïstes » qui nous coupent des vérités en cours déploiement de l’Etre et nous empêchent ainsi de comprendre ce que nous sommes – un questionnement dont la nécessité vient des plus lointaines extrémités de l’histoire de l’homme et dont les réponses sont intégrales pour la tradition qu’elles forment » [50].

L’histoire pour Heidegger est donc un « choix pour héros », exigeant la plus ferme résolution et le plus grand risque, puisque l’homme, dans une confrontation angoissante avec son origine, réalise une possibilité permanente face à une conventionalité amnésique, auto-satisfaite ou effrayante [51]. Les choix historiques qu’il fait n’ont bien sûr rien à voir avec l’individualisme ou le subjectivisme (avec ce qui est arbitraire ou volontaire), mais surgissent de ce qui est vrai et « originel » dans la tradition. Le destin d’un homme (Geschick), comme le destin d’un peuple (Schicksal), ne concerne pas un « choix », mais quelque chose qui est « envoyée » (geschickt) depuis un passé lointain qui a le pouvoir de déterminer une possibilité future. L’Etre, écrit Heidegger, « proclame le destin, et donc le contrôle de la tradition » [52].

En tant qu’appropriation complète de l’héritage dont l’homme hérite à sa naissance, son destin n’est jamais forcé ou imposé. Il s’empare des circonstances non-choisies de sa communauté et de sa génération, puisqu’il recherche la possibilité léguée par son héritage, fondant son existence dans sa « facticité historique la plus particulière » – même si cette appropriation implique l’opposition à « la dictature particulière du domaine public » [53]. Cela rend l’identité individuelle inséparable de son identité collective, puisque l’Etre-dans-le-monde reconnaît son Etre-avec-les-autres (Mitsein). L’homme heideggérien ne réalise ce qu’il est qu’à travers son implication dans le temps et l’espace de sa propre existence destinée, puisqu’il se met à « la disposition des dieux », dont l’actuel « retrait demeure très proche » [54].

La communauté de notre propre peuple, le Mitsein, est le contexte nécessaire de notre Dasein. Comme telle, elle est « ce en quoi, ce dont et ce pour quoi l’histoire arrive » [55]. Comme l’écrit Gadamer, le Mitsein « est un mode primordial d’‘Etre-nous’ – un mode dans lequel le Je n’est pas supplanté par un vous [mais] …englobe une communauté primordiale » [56]. Car même lorsqu’elle s’oppose aux conventions dominantes par besoin d’authenticité individuelle, la recherche de possibilité par le Dasein est une « co-historisation » avec une communauté – une co-historisation dans laquelle un héritage passé devient la base d’un futur plein de sens [57]. Le destin qu’il partage avec son peuple est en effet ce qui fonde le Dasein dans l’historicité, le liant à l’héritage (la tradition) qui détermine et est déterminé par lui [58].

En tant qu’horizon de la transcendance heideggérienne, l’histoire et la tradition ne sont donc jamais universelles, mais plurielles et multiples, produit et producteur d’histoires et de traditions différentes, chacune ayant son origine et sa qualité d’être spécifiques. Il peut y avoir certaines vérités abstraites appartenant aux peuples et aux civilisations partout, mais pour Heidegger il n’y a pas d’histoire ou de tradition abstraites pour les inspirer, seulement la pure transcendance de l’Etre. Chaque grand peuple, en tant qu’expression distincte de l’Etre, possède sa propre histoire, sa propre tradition, sa propre transcendance, qui sont sui generis. Cette spécificité même est ce qui donne une forme, un but et un sens à son expérience d’un monde perpétuellement changeant. Il se peut que l’Etre de l’histoire et de la tradition du Dasein soit universel, mais l’Etre ne se manifeste que dans les êtres, l’ontologie ne se manifeste que dans l’ontique. Selon les termes de Heidegger, « c’est seulement tant que le Dasein existe… qu’il y a l’Etre » [59].

Quand la métaphysique guénonienne décrit la Vérité Eternelle comme l’unité transcendante qui englobe toutes les « religions archaïques » et la plupart des « religions terrestres », elle offre à l’homme moderne une hauteur surplombante d’où il peut évaluer les échecs de son époque. Mais la vaste portée de cette vision a pour inconvénient de réduire l’histoire et la tradition de peuples et de civilisations différents (dont elle rejette en fait les trajectoires singulières) à des variantes sur un unique thème universel (« La pensée moderne, les Lumières, maçonnique », pourrait-on ajouter, nie également l’importance des histoires et des traditions spécifiques).

Par contre, un traditionaliste radical au sens heideggérien se définit en référence non à l’Eternel mais au Primordial dans son histoire et sa tradition, même lorsqu’il trouve des choses à admirer dans l’histoire et la tradition des non-Européens. Car c’est l’Europe qui l’appelle à sa possibilité future. Comme la vérité, la tradition dans la pensée de Heidegger n’est jamais une abstraction, jamais une formulation supra-humaine de principes éternels pertinents pour tous les peuples (bien que ses effets formatifs et sa possibilité futurale puissent assumer une certaine éternité pour ceux à qui elle parle). Il s’agit plutôt d’une force dont la présence illumine les extrémités éloignées de l’âme ancestrale d’un peuple, mettant son être en accord avec l’héritage, l’ordre et le destin qui lui sont singuliers.

Héraclite et Parménide

Quiconque prend l’histoire au sérieux, refusant de rejeter des millénaires de temporalité européenne, ne suivra probablement pas les éternalistes dans leur quête métaphysique. En particulier dans notre monde contemporain, où les forces régressives de mondialisation, du multiculturalisme et de la techno-science cherchent à détruire tout ce qui distingue les peuples et la civilisation de l’Europe des peuples et des civilisations non-européens. Le traditionaliste radical fidèle à l’incomparable tradition de la Magna Europa (et fidèle non pas au sens égoïste du nationalisme étroit, mais dans l’esprit de l’« appartenance au destin de l’Occident ») ne peut donc qu’avoir une certaine réserve envers les guénoniens – mais pas envers Evola lui-même, et c’est ici le tournant de mon argumentation. Car après avoir rejeté la Philosophie Eternelle et sa distillation évolienne, il est important, en conclusion, de « réconcilier » Evola avec les impératifs traditionalistes radicaux de la pensée heideggérienne – car l’alpiniste Evola ne fut pas seulement un grand Européen, un défenseur infatigable de l’héritage de son peuple, mais aussi un extraordinaire Kshatriya, dont l’héroïque Voie de l’Action inspire tous ceux qui s’identifient à sa « Révolte contre le monde moderne ».

Julius-Evola_7444.jpgBien qu’il faudrait un autre article pour développer ce point, Evola, même lorsqu’il se trompe métaphysiquement, offre au traditionaliste radical une œuvre dont les motifs boréens demandent une étude et une discussion approfondies. Mais étant donné l’argument ci-dessus, comment les incompatibilités radicales entre Heidegger et Evola peuvent-elles être réconciliées ?

La réponse se trouve, peut-être, dans cette « étrange » unité reliant les deux premiers penseurs de la tradition européenne, Héraclite et Parménide, dont les philosophies étaient aussi antipodiques que celles de Heidegger et Evola. Héraclite voyait le monde comme un « grand feu », dans lequel tout était toujours en cours de consumation, de même que l’Etre fait perpétuellement place au Devenir. Parménide, d’autre part, soulignait l’unité du monde, le voyant comme une seule entité homogène, dans laquelle tous ses mouvements apparents (le Devenir) faisaient partie d’une seule universalité (l’Etre), les rides et les vagues sur le grand corps de la mer. Mais si l’un voyait le monde en termes de flux et l’autre en termes de stase, ils reconnaissaient néanmoins tous deux un logos unifiant commun, une structure sous-jacente, une « harmonie rassemblée », qui donnait unité et forme à l’ensemble – que l’ensemble se trouvât dans le tourbillon apparemment insensé des événements terrestres ou dans l’interrelation de ses parties innombrables. Cette unité est l’Etre, dont la domination ordonnatrice du monde sous-tend la sensibilité parente animant les distillations originelles de la pensée européenne.

Les projets rivaux de Heidegger et Evola peuvent être vus sous un éclairage similaire. Dans une métaphysique soulignant l’universel et l’éternel, l’opposition de l’Etre et du Devenir, et la primauté de l’inconditionné, Evola s’oppose à la position de Heidegger, qui met l’accent sur le caractère projeté et temporel du Dasein. Evola parvient cependant à quelque chose qui s’apparente aux vues les plus élevées de la pensée heideggérienne. Car quand Heidegger explore le fondement primordial des différents êtres, recherchant le transcendant (l’Etre) dans l’immanence du temps (le Devenir), lui aussi saisit l’Etre dans sa présence impérissable, car à cet instant le primordial devient éternel – pas pour tous les peuples (étant donné que l’origine et le destin d’un peuple sont inévitablement singuliers), mais encore pour ces formes collectives de Dasein dont les différences sont de la même essence (dans la mesure où elles sont issues du même héritage indo-européen).

L’accent mis par Heidegger sur le primordialisme est, je crois, plus convainquant que l’éternalisme d’Evola, mais il n’est pas nécessaire de rejeter ce dernier en totalité (en effet, on peut se demander si dans Etre et Temps Heidegger lui-même n’a pas échoué à réconcilier ces deux facettes fondamentales de l’ontologie). Il se peut donc que Heidegger et Evola approchent l’Etre depuis des points de départ opposés et arrivent à des conclusions différentes (souvent radicalement différentes), mais leur pensée, comme celle d’Héraclite et de Parménide, convergent non seulement dans la primauté qu’ils attribuent à l’Etre, mais aussi dans la manière dont leur compréhension de l’Etre, particulièrement en relation avec la tradition, devient un antidote à la crise du nihilisme européen.

Notes

[1] Dominique Venner, Histoire et tradition des Européens : 30.000 ans d’identité (Paris : Rocher, 2002), p. 18. Cf. Michael O’Meara, « From Nihilism to Tradition », The Occidental Quarterly 3: 2 (été 2004).

[2] Friedrich Nietzsche, The Will to Power, trad. par W. Kaufmann et R. J. Hollingdale (New York: Vintage, 1967), pp. 9-39 ; Friedrich Nietzsche, The Gay Science, trad. par W. Kaufmann (New York: Vintage, 1975), § 125. Cf. Martin Heidegger, Nietzsche : 4. Nihilism, trad. par F.A. Capuzzi (San Francisco: Harper, 1982).

[3] « Editorial Prefaces », TYR : Myth – Culture – Tradition 1 et 2 (2002 et 2004).

[4] M. Raphael Johnson, « The State as the Enemy of the Ethnos », at http://es.geocities.com/sucellus23/807.htm. Dans Humain, trop humain (§ 96), Nietzsche écrit : La tradition émerge « sans égard pour le bien ou le mal ou autre impératif catégorique, mais… avant tout dans le but de maintenir une communauté, un peuple ».

[5] Martin Heidegger, Introduction to Metaphysics, trad. par G. Fried et R. Polt (New Haven: Yale University Press, 2000), p. 11.

[6] Bien que Guénon eut un effet formatif sur Evola, qui le considérait comme son « maître », l’Italien était non seulement suffisamment indépendant pour se séparer de Guénon sur plusieurs questions importantes, particulièrement en soulignant les origines « boréennes » ou indo-européennes de la Tradition, mais aussi en donnant au projet traditionaliste une tendance nettement militante et européaniste (je soupçonne que c’est cette tendance dans la pensée d’Evola, combinée à ce qu’il prend à Bachofen, Nietzsche et De Giorgio, qui le met – du moins sourdement – en opposition avec sa propre appropriation de la métaphysique guénonienne). En conséquence, certains guénoniens refusent de le reconnaître comme l’un des leurs. Par exemple, le livre de Kenneth Oldmeadow, Traditionalism : Religion in Light of the Perennial Philosophy (Colombo : The Sri Lanka Institute of Traditional Studies, 2000), à présent le principal ouvrage en anglais sur les traditionalistes, ne fait aucune référence à lui. Mon avis est que l’œuvre d’Evola n’est pas aussi importante que celle de Guénon pour l’Eternalisme, mais que pour le « radical » européen, c’est sa distillation la plus intéressante et la plus pertinente. Cf. Mark Sedgwick, Against the Modern World: Traditionalism and the Secret History of the Twentieth Century (New York: Oxford University Press, 2004) ; Piero Di Vona, Evola y Guénon: Tradition e civiltà (Naples: S.E.N., 1985) ; Roger Parisot, « L’ours et le sanglier ou le conflit Evola-Guénon », L’âge d’or 11 (automne 1995).

[7] L’attrait tout comme la mystification du concept évolien sont peut-être le mieux exprimés dans l’extrait suivant de la fameuse recension de Révolte contre le monde moderne par Gottfried Benn : « Quel est donc ce Monde de la Tradition ? Tout d’abord, son évocation romancée ne représente pas un concept naturaliste ou historique, mais une vision, une incantation, une intuition magique. Elle évoque le monde comme un universel, quelque chose d’à la fois céleste et supra-humain, quelque chose qui survient et qui a un effet seulement là où l’universel existe encore, là où il est sensé, et où il est déjà exception, rang, aristocratie. A travers une telle évocation, la culture est libérée de ses éléments humains, historiques, libérée pour prendre cette dimension métaphysique dans laquelle l’homme se réapproprie les grands traits primordiaux et transcendants de l’Homme Traditionnel, porteur d’un héritage ». « Julius Evola, Erhebung wider die moderne Welt » (1935), http://www.regin-verlag.de.

[8] Julius Evola, « La vision romaine du sacré » (1934), dans Symboles et mythes de la Tradition occidentale, trad. par H.J. Maxwell (Milan : Arché, 1980).

[9] Julius Evola, Men Among the Ruins, trad. par G. Stucco (Rochester, Vermont: Inner Traditions, 2002), p. 116 ; Julius Evola, « Che cosa è la tradizione » dans L’arco e la clava (Milan: V. Scheiwiller, 1968).

[10] Luc Saint-Etienne, « Julius Evola et la Contre-Révolution », dans A. Guyot-Jeannin, ed., Julius Evola (Lausanne : L’Age d’Homme, 1997).

[11] Julius Evola, Revolt against the Modern World, trad. par G. Stucco (Rochester, Vermont: Inner Traditions International, 1995), p. 6.

[12] En accord avec une ancienne convention des études heideggériennes de langue anglaise, « Etre » est utilisé ici pour désigner das Sein et « être » das Seiende, ce dernier se référant à une entité ou à une présence, physique ou spirituelle, réelle ou imaginaire, qui participe à l’« existence » de l’Etre (das Sein). Bien que différant en intention et en ramification, les éternalistes conservent quelque chose de cette distinction. Cf. René Guénon, The Multiple States of Being, trad. par J. Godwin (Burkett, N.Y.: Larson, 1984).

[13] Martin Heidegger, The End of Philosophy, trad. par J. Stambaugh (Chicago: University of Chicago Press, 1973), p. 32.

[14] Cf. Alain de Benoist, On Being a Pagan, trad. par J. Graham (Atlanta: Ultra, 2004).

[15] On dit que la métaphysique guénonienne est plus proche de l’identification de la vérité et de l’Etre par Platon que de la tradition post-aristotélicienne, dont la distinction entre idée et réalité (Etre et être, essence et apparence) met l’accent sur la seconde, aux dépens de la première. Heidegger, The End of Philosophy, pp. 9-19.

[16] Martin Heidegger, Being and Time, trad. par J. Macquarrie et E. Robinson (New York: Harper & Row, 1962), § 6 ; aussi Martin Heidegger, “The Age of the World Picture”, dans The Question Concerning Technology and Others Essays, trad. par W. Lovitt (New York: Harper & Row, 1977).

[17] Heidegger, Being and Time, § 6.

[18] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 47.

[19] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 41.

[20] Heidegger, Being and Time, § 69b.

[21] Martin Heidegger, Nietzsche: 1. The Will to Power as Art, trad. par D. F. Krell (San Francisco: Harper, 1979), p. 22.

[22] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 35.

[23] Martin Heidegger, “Letter on Humanism”, dans Pathmarks, prep. par W. McNeil (Cambridge: Cambridge University Press, 1998).

[24] Heidegger, Being and Time, § 79.

[25] Heidegger, Being and Time, § 65.

[26] Certaines parties de ce paragraphe et plusieurs autres plus loin sont tirées de mon livre New Culture, New Right: Anti-Liberalism in Postmodern Europe (Bloomington: 1stBooks, 2004), pp. 123ff.

[27] Heidegger, “Letter on Humanism”.

[28] Martin Heidegger, Plato’s Sophist, trad. par R. Rojcewicz et A. Schuwer (Bloomington: Indiana University Press, 1976), p. 158.

[29] Heidegger, Being and Time, § 76.

[30] Martin Heidegger, Contributions to Philosophy (From Enowning), trad. par P. Emad et K. Mahy (Bloomington: Indiana University Press, 1999), § 3 et § 20.

[31] Martin Heidegger, Parmenides, trad. par A. Schuwer et R. Rojcewicz (Bloomington: Indiana University Press, 1992), p. 1.

[32] Martin Heidegger, “The Self-Assertion of the German University”, dans The Heidegger Controversy, prep. par Richard Wolin (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1993). Aussi : « Seul ce qui est unique est recouvrable et répétable… Le commencement ne peut jamais être compris comme le même, parce qu’il s’étend en avant et ainsi va chaque fois au-delà de ce qui est commencé à travers lui et détermine de même son propre recouvrement ». Heidegger, Contributions to Philosophy, § 20.

[33] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 101.

[34] Hans-Georg Gadamer, Heidegger’s Ways, trad. par J. W. Stanley (Albany: State University of New York Press, 1994), p. 64.

[35] Gadamer, Heidegger’s Ways, p. 33.

[36] Martin Heidegger, Hölderlin’s Hymn “The Ister”, trad. par W. McNeil et J. Davis (Bloomington: Indiana University Press, 1996), p. 151.

[37] Martin Heidegger, “The Origin of the Work of Art”, dans Basic Writings, prep. par D. F. Krell (New York: Harper & Row, 1977).

[38] Alain de Benoist, L’empire intérieur (Paris: Fata Morgana, 1995), p. 18.

[39] Heidegger, Being and Time, § 65.

[40] Julius Evola, Ride the Tiger, trad. par J. Godwin et C. Fontana (Rochester, Vermont: Inner Traditions, 2003), pp. 78-103.

[41] Cf. Martin Heidegger, The Basic Problems of Phenomenology, trad. par A. Hofstader (Bloomington: Indiana University Press, 1982), pt. 1, ch. 2.

[42] Quand Evola écrit dans Ride the Tiger que Heidegger voit l’homme « comme une entité qui ne contient pas l’être… mais [se trouve] plutôt devant lui, comme si l’être était quelque chose à poursuivre ou à capturer » (p. 95), il interprète très mal Heidegger, suggérant que ce dernier dresse un mur entre l’Etre et l’être, alors qu’en fait Heidegger voit le Dasein humain comme une expression de l’Etre – mais, du fait de la nature humaine, une expression qui peut ne pas être reconnue comme telle ou authentiquement réalisée.

[43] Heidegger, Parmenides, p. 68.

[44] Heidegger, Being and Time, § 29 ; Contributions to Philosophy, § 120 et § 255.

[45] Heidegger, Being and Time, § 65.

[46] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 92.

[47] Heidegger, Being and Time, § 37.

[48] Gianni Vattimo, The End of Modernity, trad. par J. R. Synder (Baltimore: The John Hopkins University Press, 1985), pp. 51-64.

[49] Heidegger, Introduction to Metaphysics, pp. 6-7.

[50] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 117 et § 184 ; cf. Carl Schmitt, Political Theology, trad. par G. Schwab (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1985).

[51] Heidegger, Being and Time, § 74.

[52] Martin Heidegger, “The Onto-theo-logical Nature of Metaphysics”, dans Essays in Metaphysics, trad. par K. F. Leidecker (New York: Philosophical Library, 1960).

[53] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 5.

[54] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 5.

[55] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 162.

[56] Gadamer, Heidegger’s Ways, p. 12.

[57] Heidegger, Being and Time, § 74.

[58] Heidegger, Being and Time, § 74.

[59] Heidegger, Being and Time, § 43c.

Source: TYR: Myth — Culture — Tradition, vol. 3, ed. Joshua Buckley and Michael Moynihan (Atlanta: Ultra, 2007), pp. 67-88.


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mercredi, 03 avril 2013

La Corporation chez Julius Evola

La Corporation chez Julius Evola

par Stéphane Blanchonnet

Ex: http://a-rebours.ouvaton.org/

Article paru dans L'Action Sociale Corporative numéro 5.

evolapapa.jpgDans Le Fascisme vu de Droite – ouvrage disponible en français aux éditions Pardès – Julius Evola (1898-1974) propose une critique, au sens d'une analyse rigoureuse, méthodique et sans concession à l'égard de ses détracteurs comme de ses admirateurs, d'un régime et d'une idéologie dont il fut un compagnon de route atypique (Evola s'opposa notamment, dans un esprit contre-révolutionnaire, à l'importation du racisme biologique allemand, à l'abaissement du rôle de la monarchie, aux dérives étatistes et totalitaires). Ce livre publié en 1964 bénéficie à la fois de la proximité avec son sujet que donne à l'auteur sa qualité de témoin et d'acteur, ainsi que de la hauteur de vue que lui procurent la distance dans le temps et sa riche réflexion politique d'après-guerre, dont témoignent des œuvres comme Orientations (1950) ou Les hommes au milieu des ruines (1953). Deux chapitres du Fascisme vu de Droite retiendront particulièrement notre attention dans le cadre de cet article : le chapitre VIII consacré aux institutions fascistes en général et le chapitre IX consacré plus précisément au problème de la corporation et de l'organisation économique.

Une nouvelle forme de représentation

    Le chapitre VIII reconnaît d'abord au fascisme le mérite d'avoir abattu le parlementarisme. Outre la restauration de l'Etat, cette opération permet d'envisager une nouvelle forme de représentation qui tranche avec celle procurée par les partis parlementaires, structures dont le moyen est le clientélisme le plus vulgaire et la fin, non le service de l'Etat mais celui de leurs idéologies respectives : « ils se présentent dans une sorte de concours ou de compétition pour la meilleure défense des intérêts de tel ou tel groupe d'électeurs, mais en réalité ils ont chacun une dimension politique, chacun une idéologie ; ils ne connaissent ni intérêts ni exigences les dépassant, ils agissent dans l'état vide et visent chacun à la conquête du pouvoir : d'où une situation on ne peut plus chaotique et inorganique » (p. 75-76 de l'édition Pardès).
    Evola voit immédiatement dans l'abolition de ce système l'occasion de rétablir une représentation qualitative et organique (des groupes, en fonction de leur rôle dans le corps social) et non plus quantitative (des individus selon le principe : un homme, une voix), sur le modèle des institutions de l'Europe d'avant 1789 : « parce que ce n'était pas la simple force numérique des groupes, des corps ou des unités partielles ayant au Parlement leurs propres représentants qui était considérée, mais leur fonction et leur dignité. » (p. 77).
     Idéalement pour Evola, le nouveau régime aurait dû promouvoir une forme de bicaméralisme ainsi conçu : une Chambre basse représentant la société sur un mode qualitatif, différencié et organique (représentants des corporations professionnelles, de l'armée, de la magistrature et des autres corps) et une Chambre haute, un « Sénat, avec des membres exclusivement désignés d'en haut, choisis surtout en fonction de leur qualité politique, qualité de représentants de la dimension transcendante de l'état, donc aussi de facteurs spirituels, méta-économiques et nationaux » (p. 79) ayant pour but de faire prévaloir le plan des fins sur celui des moyens et proche en cela de l'idée d'un Ordre, au sens supérieur, traditionnel et religieux du terme. Hélas ce programme ne sera pas mis en œuvre, en tout cas pas dans toute la pureté de sa conception.

L'échec du fascisme

    Le chapitre IX s'intéresse plus précisément à l'un des composants de la Chambre basse : la corporation professionnelle. Evola y affirme d'abord la nécessité de « s'opposer à une fonction de la corporation soit comme instrument d'étatisation centralisatrice, soit comme instrument de conquête de l'état par l'économie. » (p. 82). En effet, il décèle deux premiers écueils dans le programme corporatiste : celui du dirigisme qui tue la libre initiative du chef d'entreprise, la corporation étant alors conçue comme une courroie de transmission au service d'un contrôle étatique de l'économie, et celui de "l'état corporatif", la corporation devenant alors l'instrument d'une dissolution du politique dans l'économie.
    A cela s'ajoute, le danger consistant à concevoir le corporatisme comme une superstructure nationale où les employeurs et les employés enverraient séparément et par branche leurs représentants, ce qui ne ferait qu'aggraver les antagonismes de classe. Sur ce dernier point, Evola constate l'échec du fascisme : « Le système institua […] sur le plan législatif le double front des employeurs et des travailleurs, dualité qui ne fut pas surmontée là où il aurait fallu, c'est-à-dire dans l'entreprise elle-même, au moyen d'une nouvelle structuration organique de celle-ci (donc dans sa structure interne), mais dans des superstructures étatiques générales affectées d'un lourd centralisme bureaucratique et, en pratique, souvent parasitaires et inefficaces. » (p. 85).
    L'auteur oppose à ce modèle bureaucratique, la « reconstruction organique infrastructurelle » (p. 90) des corporations, c'est-à-dire, l'idée d'une entreprise-communauté conçue de manière analogue à la nouvelle vision organique de la nation. C'est dans chaque entreprise donc qu'il conviendrait d'organiser la représentation de tous selon sa fonction : le chef d'entreprise, les cadres, les différents services et ateliers. Cette communauté de travail et son chef seraient alors responsables devant l'Etat.

Nécessité d'une transcendance

    Ce dernier point, la responsabilité devant l'Etat, manifeste l'ultime difficulté envisagée par Evola : sans un esprit commun, sans une transcendance politique et spirituelle, la corporation est vouée à l'échec. D'où la nécessaire reconnaissance du « caractère non seulement économique mais aussi éthique de la corporation » (p. 86), de la responsabilité morale du chef d'entreprise devant l'Etat « comme contrepartie de la reconnaissance de sa libre initiative » (p 87), de la lutte nécessaire contre un capitalisme « parasitaire » (le chef d'entreprise devant être le « premier travailleur » de son entreprise par opposition au simple bénéficiaire de dividendes), de la participation des employés aux bénéfices mais aussi aux pertes de l'entreprise.
    L'argumentation d'Evola sur la question sociale dans Le Fascisme vu de Droite présente l'intérêt de confronter les principes contre-révolutionnaires en la matière avec l'histoire de l'une des tentatives, partielle et insatisfaisante, mais réelle, de leur mise en œuvre au XXe siècle. L'idée la plus forte que l'on en retiendra est que le projet de restauration d'un ordre vraiment traditionnel et hiérarchique ne peut se mener sur un seul terrain, qu'il soit politique ou social et économique, mais correspondre à un changement complet de direction dans tous les domaines et d'abord au plan spirituel. Tout constructivisme politico-économique qui ne tient pas compte de la dimension anthropologique du problème posé par la Modernité se condamne à l'échec.

Stéphane BLANCHONNET

samedi, 17 novembre 2012

Julius Evola et la Modernité

Julius Evola et la Modernité

 

00:05 Publié dans Philosophie, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : julius evola, tradition, traditionalisme, italie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 11 novembre 2012

J. Evola: Der Adelige Geist (1942)

Julius Evola:

Der Adelige Geist (1942)

Ex: http://www.velesova-sloboda.org/

Julius Evola (1898-1974) gilt als bedeutendster antimoderner Denker und Theoretiker der Tradition. Er stammte aus einem sizilianischen-normannischen Adelsgeschlecht und nahm als Artillerieoffizier am I. Weltkrieg teil. Während des Krieges schrieb er für die futuristische Zeitschrift Noi. Evola versuchte sich auch selbst als Künstler und begann als Futurist um 1915 mit dem Malen (eine erste Werkschau fand 1918 im Palazzo Cova in Mailand statt). Aus dem Krieg kehrte Evola 1920 nach Rom zurück und widmete sich neben der Malerei (Kunsttheoretisches Werk: Arte astratta, posizione teoretica, 1920) bis Mitte der 1920er verstärkt der Esoterik und Philosophie und schrieb zahlreiche Aufsätze. Später leitete er die Zeitschriften UR (hinter der eine okkulte Gruppierung stand) und Torre. Seit 1925 in Italien als Autor tätig, gelang es ihm 1928 mit dem Werk imperialismo pagano (Heidnischer Imperialismus, deutsch: Leipzig 1933) von 1928 erstmals außerhalb Italiens größere Aufmerksamkeit zu erregen, insbesondere weil er von den bisher gewählten esoterisch-philosophischen Themenstellungen abweichend, deutlich politischer wurde und scharfe Kritik an der Moderne übte. Die Rückkehr zu der von Evola kulturanalytisch beschriebenen Tradition mit ihren vorchristlichen Mythen und Lebensgesetzen wurde darin zur politischen Forderung erhoben. Im Jahr 1934 veröffentliche Evola sein Schlüsselwerk Rivolta contro il mondo moderno (Revolte gegen die moderne Welt), in der er seine Kulturanalyse erweiterte und eine Gesamtschau der Traditionen aller Indogermanischen Kulturen anbot (Die „Welt der Tradition“). Evola beschrieb die Moderne kulturkritisch als „Zeitalter des Wolfes aus der nordischen Welt“, die der verlorenen Welt der Tradition gegenübersteht.

„Der aristokratische Pessimismus“ (Alain de Benoist) der aus dem Schlüsselwerk spricht machte Evola nicht nur Freunde. Viele Köpfe des seit 1927 in Italien unangefochten herrschenden Faschismus kritisieren seine elitäre Haltung. Neben weiteren esoterischen Studien über den Yoga und den Buddhismus, veröffentlicht Evola 1937 die Studie Il mistero del Graal (Das Mysterium des Grals), die sich mit der Gralsidee als vorchristlichem Weistum auseinandersetzt. 1945 hielt sich Evola in Wien auf und wurde bei einem Bombenangriff schwer verletzt. Er kehrte 1948 nach Italien zurück und blieb trotz vielfacher Anfeindungen schriftstellerisch tätig. Sein Spätwerk Cavalcare la tigre (Den Tiger reiten, 1961) darf als Fortsetzung der Revolte angesehen werden, ist aber auf das ‚Überleben’ des Traditionalisten in der Moderne ausgelegt und wurde von der Rechten Italiens vielfach positiv aufgenommen, weil es eine lebbare antimoderne Haltung zum Ausdruck bringt. Evola starb am 11. Juni 1974 in Rom. Seine Asche wurde von Freunden, die seinem letzten Wunsch folgten, auf den 4634m hohen Monte Rosa in den Walliser Alpen getragen und in einer Gletscherspalte versenkt. [Eine längere Einführung bietet: Alain de Benoist: Aus rechter Sicht. Bd.2. Tübingen 1984. S.343-S.354.]

 

Julius Evola: Grundlagen eines Ordens: Der Adelige Geist (1942)

[Orden: von lat. Ordo (Stand, Verfassung, richtige Reihenfolge und Ordnung) ist ein für Evolas Denken zentraler Begriff. Er benennt damit die männerbündische Organisationsform, die zum ältesten kulturellen Erbe der Indogermanischen Welt gehört. Anzuführen sind die Kşhatriya, die in einer Kaste organisierten Krieger der Indo-arischen Kultur. Als Spätformen die weltlichen und „geistlichen“ Ritterorden des abendländischen Mittelalters wie den der Templer (gegründet 1120) und den Deutschen Orden (gegründet 1198). Im Herbst des Mittelalters der im Zuge der Türkenabwehr in Rumänien gegründete Drachenorden (1408) sowie der im Großherzogtum Burgund gegründete Orden vom Goldenen Vlies (1430), der sich bewußt auf die griechisch-heroischen Argonauten-Mythos berief. Im Mythos: Die Marut, die Jungmannengefolgschaft des Indo-arischen Kriegsgottes Indra. Die germanische Kampf- und Kultgemeinschaft der Asgardsrei oder Einherjer, gehört ebenso dieser Tradition an (Odin-Wodan als Gott der Männerbünde). Zu den Überresten in der Volkskultur vgl. Otto Höfler: Kultische Geheimbünde der Germanen. Bd. I. Frankfurt 1934.]

Da der Adelige Geist allen seinen Äußerungen vorangeht und über sie hinausragt, setzt die Frage jedes konkreten aristokratischen Gebildes die vertiefte Kenntnis vom Wesen dieses Geistes voraus. Man soll sich jedenfalls darüber klar sein, daß es sich für einen Wiederaufbau nicht um eine bloß politische, mehr oder weniger mit dem verwaltenden und gesetzgebenden Körper des Staates verbundene Klasse handelt. Es handelt sich vor allem um ein an bestimmte Schichten gebundenes Prestige und Beispiel, die eine Atmosphäre gestalten, einen höheren Lebensstil herauskristallisieren, besondere Formen des Empfindens wecken und damit tonangebend für eine neue Gemeinschaft sein sollen. Man könnte daher an eine Art Orden denken, in dem männlichen und asketischen Sinn, der diesem Ausdruck in der ghibellinischen, [Ein Schlüsselbegriff des Europäischen Mittelalters. Der Begriff Ghibellinen taucht Anfang des 13. Jht. in Reichsitalien auf. Er leitet sich von der Stammburg des salischen Kaiserhauses Waiblingen ab und wurde als Schlachtruf zu ‚ghibellino’ italienisiert. Mit diesem gaben sich die Parteigänger des staufischen Kaiserhauses zu erkennen. Hintergrund waren die Machtkämpfe um das Reich, in denen die staufische Partei sich gegen eine Reichsopposition (die Welfen, italienisiert ‚Guelfen’) und gegen ein anti-staufisches Papstum behauptete. Später wurde der Sinngehalt erweitert und löste sich von der Benennung einer Fraktion im imperialen Thronstreit, so daß mit ghibellinisch klar und deutlich die pars imperatoris (die Partei des Kaiserhauses) im Gegensatz zur Partei des Papstes bezeichnet wurde. Der Begriff wurde in der ersten Hälfte von Kaiser Friedrich II. (1194-1250) in den politischen Wortschatz in Reichsitalien aufgenommen und wurde in der Moderne von Parteigängern einer traditional verankerten imperialen Idee für sich in Anspruch genommen.] mittelalterlichen Kultur innewohnte.

Kaiser Friedrich II. Zeitgenössische Miniatur auf Pergament (1230), Domschatz von Salerno.

Kaiser Friedrich II. Zeitgenössische Miniatur
auf Pergament (1230), Domschatz von Salerno.

Noch besser könnte man aber an die alt-arischen und indo-arischen [Evola bezieht sich auf die für ihn vorbildhafte Kultur des alt-arischen bzw. Indo-arischen Indien. Um 1500 v.d.Z eroberten Indogermanische Stämme (Arier) den Subkontinent und unterwarfen seine Urbevölkerung (Drawiden). Auf erstere gehen die Sprachen Vedisch und Sanskrit zurück. Neben den kriegerischen, sind vor allem die kulturellen Leistungen der Indo-arischen Kultur wertvolle Anknüpfungspunkte, so z.B. die Verfassung der Veden, philosophisch-mythologischen Texten, die noch heute die Grundlagen des Hinduismus darstellen.] Gemeinschaften denken, wo bekanntlich die Elite in keiner Weise materiell organisiert war, wo sie ihre Autorität nicht aus der Vertretung irgendeiner greifbaren Gewalt oder einem abstrakten Prinzip herleitete, sondern durch einen unmittelbaren, von ihrer Essenz ausstrahlenden Einfluß ihren Rang bewahrte und tonangebend für die entsprechende Kultur war. Die moderne Welt kennt viele Nachahmungen des Elitismus, von denen man Abstand nehmen muß. Der Adelige Geist ist in seinem Wesen antiintellektualistisch. Er ist auch nicht mit einer unbestimmten autoritären oder diktatorischen Idee zu verwechseln. Schon der Umstand, daß man von einer "Diktatur des Proletariats" sprechen konnte, zeigt uns heute die Notwendigkeit einer näheren Bestimmung hinsichtlich Diktaturen und Autoritätsgedanken. Man hat übrigens versucht, das Phänomen des Elitismus - d.h. einer führenden Minderheit - als ein historisches Schicksal hinzustellen. Vilfredo Pareto [1848-1923; Der italienische Ökonom und Soziologe arbeitete zu den Themen ‚Ideologie-Kritik’ und ‚Elitenkreislauf’. Er gilt als einer der bedeutendsten Soziologen und lehrte ab 1891 an der Universität Lausanne. Laut Pareto ist die Geschichte ‚ein Friedhof der Aristokratien’. Revolutionäre und evolutionäre Systemwechsel beschrieb er aus soziologischer Perspektive. Er ging dabei davon aus, daß bei diesem einen Ablösung der Elite durch eine Reserveelite erfolgte, die Masse jedoch nicht zum Zuge komme.] hat diesbezüglich von einem "Kreislauf der Eliten" gesprochen, die einander ablösen, indem sie durch eine mehr oder weniger gleichartige Technik des Herrschens abwechselnd aufsteigen und sich verschiedener Ideen bedienen, die aber in diesem Zusammenhang weniger eigentliche Ideen sind als Suggestionen, bzw. zweckmäßig vorbereitete Kristallisationszentren für irrationale Suggestivkräfte. Elitismus erscheint hier also als ein rein formaler Begriff: eine gewisse Schicht ist insofern Elite, als sie die Macht ergriffen hat und es ihr gelingt, eine gewisse Suggestion auszuüben, während nach normaler Auffassung dies nur insofern der Fall sein sollte, als die Elite eine auserwählte Gruppe ist (Elite kommt von lat. eligo - wählen), der Überlegenheit, Prestige und Autorität innewohnen, die von gewissen unveränderlichen Grundsätzen, einem bestimmten Lebensstil und einer bestimmten Essenz untrennbar sind. Der wahre Adelige Geist kann daher nichts mit den Spielarten eines Herrschens auf machiavellistischer [Nicolo Machiavelli (1469-1527) kann als Begründer der Politikwissenschaft angesehen werden. Er schrieb mit Il Principe (Der Fürst) 1513 (gedruckt postum 1532) ein die politische Verhältnisse des territorial zersplitterten Italiens beschreibendes Handbuch für den Fürsten bzw. Territorialherrn. Machiavellis Fürstenhandbuch erläutert ohne Pathos nach größtmöglichem politischem Nutzen orientiertes Handeln. Ideale soll der Fürst bei der Ausübung von Macht hinten anstellen und sich ganz dem Machterwerb und Machterhalt widmen.] oder demagogischer Grundlage gemeinsam haben, wie es bei den antiken Volkstyranneien und im Tribunal des Plebs [Kurzform für die Plebejer, die Angehörigen der römischen Volksmasse] der Fall war. Er kann auch nicht nur auf einer Lehre des "Übermenschen" beruhen, wenn man in der Beziehung nur an ein wild gewachsenes Führertum denkt, d.h. an eine Macht, die nur auf die rein individuellen und naturverhafteten Gaben gewalttätiger und furchterregender Gestalten gestützt ist. In seinem Wesenskern ist hingegen der wahre Geist "olympisch" [Die ursprüngliche Bedeutung von olympisch geht auf den griechisch-antiken Mythos und seine Kosmogonie zurück. Dieser lag ein Urkampf zwischen den olympischen Göttern (Zeus, Ares, Apollon) und den Titanen als machtvollen Gegenspielern zu Grunde, der mit der Niederlage der „reinen titanischen Kraftwesen“ und der Herrschaft der Olympier, den Schöpfern, endete. Die olympischen Spiele der griechischen Antike waren deshalb als Bestandteile des Kultus den Göttern Zeus und Apollon gewidmet, denen in Olympia Altäre geweiht waren. Mit olympisch meint Evola: im Geiste des ursprünglichen, also kämpfend und siegreich für eine höhere Idee. Olympisch steht ferner für heroisch und schöpferisch. Vgl. Julius Evola: Grundrisse d.f.R. Berlin 1943. S.167 und 169.]

Rückbesinnung auf die Antike: Skulpturengruppe, Rom.

Rückbesinnung auf die Antike: Skulpturengruppe, Rom.

- wir sagten, daß er für uns aus einer schon metaphysischen Ordnung erwächst. Die Grundlage des adeligen Typs ist vor allem geistig. Der Sinngehalt des Geistigen hat aber, wie schon angedeutet, wenig mit dem modernen Begriff desselben zu tun: er verbindet sich mit einem eingeborenen Sinn der Souveränität, einer Verachtung für die profanen, gemeinen, erworbenen, aus Geschicklichkeit, Schlauheit, Gelehrsamkeit und sogar Genialität herrührenden Dinge, einer Verachtung, die sich gewissermaßen der des Asketen nähert, sich jedoch von dieser durch die restlose Abwesenheit von Pathos und Feindseligkeit unterscheidet. Man könnte das Wesen der wahren adeligen Natur in dieser Form umfassen: eine Überlegenheit dem Leben gegenüber, die zur Natur, zur Rasse [Evolas Rassenbegriff ist weniger biologisch als charakterlich begründet. Der Evola-Kenner Martin Schwarz deutete den Terminus ‚Rasse’ in Evolas Denken als „Nähe zum Ursprung“. Diese Nähe ist zu allererst seelisch und charakterlich bedingt und findet erst dann ihren Ausdruck im Körperlichen. Vgl. Martin Schwarz: Biographisch-bibliographische Vorbemerkungen, in: Julius Evola: Tradition und Herrschaft. Aufsätze von 1932-1952. Aschau  i. Ch. 2003. S.10.] geworden ist. Diese Überlegenheit, die wohl Asketisches an sich hat, schafft jedoch im adeligen Typ keine Zwiespälte: wie eine zweite Natur überragt und durchdringt sie in ruhiger Weise den niederen menschlichen Teil und setzt sich in gebieterische Würde, Kraft, Linie, in ruhige und beherrschte Haltung der Seele, der Worte und der gebärden um. So ruft sie einen Menschentyp ins Leben, dessen ruhevolle, unantastbare innere Macht im schärfsten Gegensatz zu der des titanischen, prometheischen und tellurischen [Diese Begriffe stammen aus Evolas Lehre von den Rassen als „Rassen des Geistes“. Evola trägt den „Völkervermischungen im mittelmeerischen Raum“ Rechnung und stellt insbesondere die „pelasgisch-mittelmeerischen“ und die „afrikanisch-mittelmeerischen“ Einschläge (Grundrisse, S. 31f.) ebenso wie einen „orientaloiden Einschlag“ (T.16) in Italien fest. Bezugspunkt bleibt für ihn die arisch-nordische Rasse als „aktive Rasse“ (T.12) bzw. „sonnenhafte Rasse“ (T.1), die er im republikanischen Rom als „treibende und vorherrschende Kraft“ (S. 36) wirken sieht. Ein frühes Bildnis des Buddha (T.8) zieht er als Beleg für ein übergreifendes Wirken dieser geistigen Rasse in der Indogermanischen Welt heran. Die in Der Adelige Geist genannten Begriffe, nämlich „tellurisch“ oder „titanisch“, „promethisch“ (mit Bezug auf den Titanen Prometheus) müssen vor eben skizzierten Hintergrund als rassisch-bedingte Geisteshaltungen verstanden werden. Mit „tellurisch“ (von lat. tellus: Grund und Boden, ursprüngl. von Tellus, der altrömischen Göttin der Saatfelder. Für Evola: auf den Ertrag ausgerichtet, matriarchalisch) bezieht er sich auf eine aktive geistige Haltung, die am „Selbstzweck“ (T.14) ausgerichtet ist und „keinen höheren Anhaltspunkt“ (ebda) besitzt und damit nicht als arisch-römisch angesprochen werden kann. Ebenso die Adjektive „titanisch“ und „promethisch“, die eine aktive Geisteshaltung beschreiben, die machtstrebend ist, ohne einer höheren Idee verhaftet zu sein.] Typs steht.

Diskurswerfer. Menschen und Marmorbilder.

Diskurswerfer. Menschen und Marmorbilder.

 

(Veröffentlichung in: Die neue Rundschau, 1942)

 

Nachwort:

Der von Evola eingeführte Terminus Adeliger Geist ist nicht mit dem historisch-politischen Herrschaftsanspruch und dem Lebensstil des Adels als herrschender Schicht (Aristokratie) in der europäischen Geschichte gleichzusetzen – diese sind höchstens Ausdrucksformen, die Verfall und Entartung unterworfen sind. Es geht Evola darum, die grundlegende geistige Haltung bzw. das ihm innewohnende Wesen (die ‚Essenz’), die sich trotz vieler Brüche in Überresten bis zum Verfall der Aristokratie bzw. dem beginnenden politischen Ende des aristokratischen Zeitalters (Französische Revolution von 1789) erhalten hat, von seinem Ursprung aus und als geistige Grundlage zu betrachten. Man könnte den Begriff Adeliger Geist auch allgemein als charakterlich ‚edel’ oder ‚elitär-heroisch’ bzw. ‚höheren Idealen verpflichtet’ deuten. Evola wendet sich hier besonders scharf gegen den in der Verfallszeit der Moderne propagierten Elitebegriff, der eine durch Finanzmittel und anstudierte Bildung (Funktions- bzw. Herrschaftswissen ohne Bindung an höhere Ideale) herrschende und kulturell unfruchtbare Clique bezeichnet. ‚Antimaterialistisch’ und ‚Antiintellektualistisch’ in reiner Haltung, dazu ein Leben nach dem Grundsatz ‚Das beste Wort ist die Tat’ sind die für Evola vom Adeligen Geist durchdrungene Elite kennzeichnende Tugenden.

Der Adelige Geist ist damit das geistige Fundament auf dem sich traditionale, männerbündische Organisationsformen gründen müssen. Hier schwebt Evola als historisches Beispiel der Ritterorden vor, der im europäischen Mittelalter eine zentrale Stellung einnahm. Evola analysiert bei seinen Betrachtungen Rittertum und Ritterorden mit durchdringender Schärfe: „Das Rittertum verkündet als Ideal mehr den Helden als den Heiligen, mehr den Sieger als den Märtyrer; es anerkennt als Wertmaßstab mehr Treue und Ehre als caritas [Nächstenliebe] und Liebe … in seinen Scharen duldet es den nicht, der das christliche Gebot ‚Du sollst nicht töten’ buchstäblich befolgen wollte. Als Grundsatz anerkennt es nicht Liebe zum Feind, sondern Kampf mit ihm und Großmut nur im Siege. So behauptete das Rittertum in einer nur dem Namen nach christlichen Welt eine fast ungemilderte heldisch-heidnische und arische Ethik“ [Julius Evola: Die Unterwelt des christlichen Mittelalters. Europäische Revue Juli/September 1933, in: Julius Evola: Tradition und Herrschaft. Aufsätze von 1932-1952. Aschau i. Ch. 2003. S.37.]. Ähnlich die Deutung des deutschen Philosophen Peter Sloterdeijk, der die „Unerträglichkeit des Widerspruchs zwischen dem christlichen Liebesgebot und der feudalen Kriegerethik“ feststellt und weiter ausführt: „Im Heiligen Krieg wurde aus dem unlebbaren Gegeneinander einer Liebesreligion und einer Heldenethik ein lebbarer Aufruf: Gott will es“ [Peter Sloterdeijk: Kritik der zynischen Vernunft. Frankfurt a. M. 1983. S.436f.]

Wie gelesen: Ein Bezugspunkt im evolianischen Denken ist die Indo-arische Kultur Indiens, die durch ihre sakralen Texte spricht. Der heute oft mißverstandene Begriff Arier muß jedoch in seiner ursprünglichen Bedeutung verstanden und scharf von dem politisierten späteren Sinngehalt getrennt werden. Zunächst als Aryá (als Adjektiv „arisch“) stellte er einen Volksnamen dar. So bezeichneten die Dichter der Götterpreislieder der Rig-Veda (sanskr. „Wissen von den Versen“, 1200 v.d.Z.) ihre Götter und sich selbst. Trotzdem besteht ein übergeordneter Deutungsgehalt, denn „arisch“ bedeutet in der Rig-Veda zudem „rechtmäßig, in Ehren stehend, edel“ und das Substantiv „Arier“ demnach „Edler, Gebieter“. In erster Linie Kultur- und auch Sprachbegriff, darf aber nicht übersehen werden, daß schon damals der Begriff auch zur Abgrenzung von der unterworfenen Urbevölkerung verwendet wurde. Später wurde der Begriff in den politischen Bereich überführt und verengte sich zusehends politisch und kulturell („nordeuropäisch“ oder „nordisch“), wobei es zur einer Verballhornung und Beliebigkeit der Anwendung bzw. Mißbrauch im Dritten Reich kam [Vgl. Ingo Leither: Der Hinduismus als Ausdruck arischen Geistes, in: Hagal. Studien zu Tradition, Metaphysik und Kultur 2 (2005). S.30f.]

Die Anschauungen Machiavellis sind für Evola Ausdruck einer titanischen Idee: Machtgewinn und Machterhalt durch eine „Technik der Macht“ und nicht an eine höhere Idee gebunden. Man spricht heute allgemein auch von „machiavellistischer“ Politik, wenn diese skrupellos und ohne Ideale bzw. Werte ist. Dabei kommt etwas zu kurz, daß Machiavelli, der selbst nicht adelig und ein zeitlebens ein Dienstmann war, eine klare und durchdringende Studie gelungen ist, die sich auch dem Kriegswesen widmet. Was Evola an dessen Werk kritisiert, sind die profanen Nützlichkeitserwägungen, denen laut Machiavelli Herrschaft folgen soll. Diesen steht eben jener Adelige Geist als geistige Grundhaltung unversöhnlich gegenüber. Wohl gemerkt: es geht hier um zwei geistige Prinzipien, die herrschendes Handeln bestimmen sollten. Betrachtet man aus historischem Blickwinkel gerade die Epoche in der Machiavelli lebte (Renaissance) so findet sich in dieser neben dem Wirken des machiavellistischen Prinzips auch das des Adeligen Geistes. Als historisches Beispiel möchte ich Kaiser Maximilian I. (1459-1519) anführen, der seine Herrschaft und Herrschaftsausübung ganz deutlich an der imperialen Idee eines göttlich legitimierten Kaisertums ausrichtete und deshalb sich – entgegen vieler politischen Erwägungen – nicht von dieser Idee lossagte, obwohl diese der Hausmachtpolitik des Habsburgers oftmals im Wege stand. Die Idee des Kaisers als semper augustus (ewiger Mehrer des Reichs) war für Maximilian sicherlich eine ganz bedeutende Motivation und hierin ist das Wirken des von Evola skizzierten Adelige Geistes zu beobachten. Auf dieses Wirken deutet auch die Tatsache hin, daß Maximilian, der in die burgundische Dynastie einheiratete und danach tief von der kulturell ungeheuer fruchtbaren burgundischen Feudalkultur beeinflußt wurde, ein begeisterter Mäzen und Teilnehmer spätmittelalterlicher Ritterturniere war und bereits früh als „letzter Ritter“ angesprochen wurde. Auch der Ordensgedanke wurde von Maximilian aufgegriffen und transformiert. Selbst Ritter des burgundischen Ordens vom Goldenen Vlies [vgl. Anmerkung zu „Orden“] schwebte Maximilian, der früh die Bedeutung der Landsknechte und ihrer Kampfformationen in der spätmittelalterlichen Schlacht erkannte, ein „Landsknechtsorden“ vor. Dieser sollte die Landsknechte aus dem Söldnerdasein lösen und sie durch eine ideelle Grundhaltung und Ordensverfassung unter Maximilians Führung an die Reichsidee binden [Vgl. Günther Franz: Vom Ursprung und Brauchtum der Landsknechte, in: MIÖG 41 (1953). S.79-98]. Auf der anderen Seite war Maximilian aber auch ein skrupelloser Machtpolitiker, der bereit war, erreichtes hohen Risiken auszusetzen und gerne Bündnisse wechselte, wenn dieses politisch opportun wurde. In diesem Sinne muß auch die Heiratspolitik des Habsburgerkaisers gedeutet werden, die Macht und Reichtum des Hauses Habsburg vergrößerte, sich aber zuletzt für das Reich teilweise negativ auswirkte (machiavellistische Haltung).

© Edition des Textes, Nachwort, Kurzbiographie von Siegling (Juli/Heuert 2006)

 

Filippo Sgarlata: Pflug vom Schwert beschützt (XXI. Biennale der Modernen Kunst, Venedig 1938).

Filippo Sgarlata: Pflug vom Schwert beschützt.
(XXI. Biennale der Modernen Kunst, Venedig 1938)

De las "Ruinas" al "Cabalgar"...

De las "Ruinas" al "Cabalgar"...

Ernesto Mila

Ex: http://infokrisis.blogia.com/

Es hora de cambiar Los Hombres y las Ruinas por Cabalgar el Tigre

PD.- Dedico estas líneas a Carlos Oriente Corominas, muy querido camarada, diez o doce años más joven que yo, que ha fallecido en Barcelona este fin de semana de manera inesperada. El hecho de que los “amados de los dioses mueran jóvenes” no implica que muchos dejemos de lamentar su pérdida. Él era uno de esos “tipos humanos superiores” capaces de comprometerse con cualquier causa con una completa entrega. Valiente, con un sentido del humor que impedía aburrirse a su lado, también él pertenecía a otro tiempo.

198457692.jpgEste artículo será entendido perfectamente por los evolianos (gentes familiarizadas con el pensamiento de Julius Evola) y acaso sonará raro a quienes no se hayan aproximado hasta este autor que es considerado como el maestro de la “derecha tradicional” del siglo XX. En efecto, cuando Evola regreso a Italia en 1949 tras su periplo hospitalario tras la II Guerra Mundial, inmovilizado por las heridas en su médula, empezó a relacionarse con los medios activistas de la derecha radical, los neofascistas que formaban en las filas del entonces recientemente constituido Movimiento Social Italiano.

Percibía en ellos las mismas componentes que habían estado presentes en el fascismo de los orígenes con su activismo y su militantismo desenfrenado y en el fascismo de la República Social Italiana, con su fideísmo y su compromiso con una causa irremisiblemente perdida. En ambos casos se entregaba todo a cambio de nada. Evola había identificado en las primeras generaciones del MSI el mismo estado de ánimo y por eso se comprometió con ellos. A finales de los años 40 escribió un pequeño folleto, Orientamenti (Orientaciones), que con 14 breves puntos anticipaba lo que en 1954 iba a ser el verdadero manifiesto político de la “derecha tradicional” en la postguerra: Gli uomini e le rovine (Los hombres y las ruinas). Los dedica a los hombres que representan a un “tipo humano superior”, dotados de un carácter que hace de la acción el centro de su vida casi como si los antiguos guerreros hubieran resucitado entre las ruinas morales y materiales herederas del segundo conflicto mundial.

El libro iba dirigido a los militantes que creían que todavía podía hacerse algo, a aquellos en cuyos cerebros ardía un ideal. En el marasmo de la postguerra, esa generación se preocupaba mucho más de las actitudes que de la doctrina, pero en ese gesto estaba implícito su valía. Evola les facilitó elementos doctrinales y una ideología coherente, completa y orgánica. Muchos, desde las columnas de las múltiples revistas neofascistas de aquellos tiempos asumieron esos ideales y salieron a la calle desarrollando un activismo frenético con el respaldo de un proyecto político.

Pasaron 10 años, en ese tiempo (entre 1950 y 1960) Evola siguió colaborando con los generaciones del MSI, pero también tuvo entre sus alumnos (los que le iban a visitar a su domicilio romano) a cuadros de las organizaciones juveniles que se habían ido desgajando del MSI. Evola colaboró con Ordine Nuovo y con Avanguardia Nazionale. A partir del congreso de Bari del MSI (1950), fueron habituales la presentación de mociones evolianas que intentaron siempre encarrilar a esta organización sobre rieles tradicionalistas.

Justo cuando la “contestación” empezó a despuntar en los primeros años 60 desde los EEUU, Evola que con el tiempo se había configurado como un agudo observador de la sociedad norteamericana entendió cuál iba a ser el signo de los tiempos que estaba por llegar: fue el primero en analizar el pensamiento de Herbert Marcusse y percibió en el underground algo que ya había visto en sus escritos sobre la beat-generation, entendió que la revolución sexual de los 60 y el descubrimiento de la píldora anticonceptiva iban a revolucionar los usos sociales. Entrevió también los contenidos de la agitación estudiantil y empezó a preguntarse si todos estos elementos de crisis afectaban a quienes defendían ideas tradicionales. El fruto de estas reflexiones le llevó a establecer importantes conclusiones que cristalizarían, primero en la publicación de ensayos y artículos en las revistas próximas al MSI y a los grupos extraparlamentarios y luego en la publicación de un libro que todavía hoy no ha perdido actualidad: Cabalcare la tigre (Cabalgar el Tigre).

Esta nueva obra va dirigida a otro público: si Los hombres y las ruinas iba dirigido a los hombres que todavía querían hacer algo, Cabalgar el Tigre lo está a los “hombres diferenciados”, esto es, a aquellos que se sienten alejados de la modernidad, que no tienen sitio en la modernidad, que se reclaman “ciudadanos” de otra realidad (el mundo tradicional) y de otros valores y que no están dispuestos a la “acción exterior” simplemente porque ya no creen que pueda hacerse nada en este terreno. ¿De qué manera hombres así pueden vivir en el seno de la modernidad? Y Evola responde a lo largo de 250 intensas páginas.

El título, como se sabe, responde a la antigua idea oriental de que la única forma con la que alguien puede escapar del ataque de un tigre es… subiéndose a sus espaldas, cabalgándolo. En esa situación el tigre no puede atacar con sus garras y, finalmente, cansado con el peso de alguien que es invulnerable a sus espaldas, se sentirá agotado y se le podrá derrotar. De lo que se trata es, pues, de no dejarse ganar por la virulencia y la omnipresencia del “tigre”, sino vivir en una especie de permanente exilio interior. Evola utiliza entonces una frase de Hoffmansthal para definir un futuro en el que se darán la mano los que han estado en vela en la noche oscura con los que hayan nacido en el nuevo amanecer. Y plantea una imagen evocadora: la modernidad es como un alud que desciende por una montaña cada vez arrastrando más masa y a mayor velocidad: nadie puede detenerlo y situarse ante él para intentar frenarlo constituye la forma más directa de suicidarse. Evola, ya no está hablando de “mantenerse en pie entre las ruinas”, la actitud de aquellos jóvenes de la postguerra que intentaban detener el alud con la mera fuerza de su activismo. Está hablando a otro tipo humano, a los “hombres diferenciados”, aquellos que ESTÁN EN EL SENO DE LA MODERNIDAD, pero que NO SON DE LA MODERNIDAD.

Cabalgar el Tigre es hijo de dos influencias: la de Ernst Jünger, de sus Tempestades de acero y de su Trabajador, y de la experiencia acumulada por Evola a lo largo de su extenso periplo por las doctrinas tradicionales y especialmente por la llamada “Vía de la Mano Izquierda”. Así como en la “Vía de la Mano Derecha” de lo que se trata es de rechazar el mal y combatir las destrucciones, contraponiendo un programa positivo, en la “Via de la Mano Izquierda” de lo que se trata es de “convertir el veneno en remedio”, ver en todos los procesos de disolución, puntos de apoyo. Es evidente que la primera vía es la que corresponde a lo redactado para el “tipo humano superior”, mientras que la segunda es propia del “tipo humano diferenciado”. La primera es la propia de los lectores identificados con el proyecto político de Los hombres y las ruinas, y los segundos con los contenidos de Cabalgar el Tigre.

Evola explica que las destrucciones presentes en la modernidad no deben ser tenidas por el hombre que vive su exilio interior como algo negativo: a fin de cuentas, ese no es su lugar, no es la “sociedad tradicional” la que está en crisis sino la “sociedad moderna”, no es la “familia tradicional” sino la “familia burguesa” y las “nuevas fórmulas familiares” las que están en crisis, no es la “metafísica” la que experimenta una crisis terminal, sino las viejas fórmulas religiosas agotadas e inadaptadas por su dogmatismo y su rigidez; no es la economía orgánica y comunitaria la que vive su período postrero, sino la economía liberal que después de su fase industrial, luego multinacional y finalmente globalizadora, ha llegado a su última etapa; así pues, es la totalidad del mundo moderno lo que está en crisis, no los valores, las ideas y el mundo tradicional. El “hombre diferenciado” no debe entristecerse por estas desintegraciones que no son las de su mundo, sino las de una estructura que no tiene nada que ver con él. No debe hacer, por tanto, nada para defender ese mundo: su hundimiento es garantía de la próxima renovación, del “nuevo amanecer” al que aludía Hofmansthal.

Durante cuarenta años de mi vida he creído que “aún podía hacerse algo”, incluso que era posible hacerlo disponiendo de cuadros políticos perfectamente formados doctrinal y técnicamente. He creído que era posible, utilizando técnicas políticas, generar un movimiento de masas capaz de detener el proceso de disolución de la modernidad y revertirlo. He creído que en la misma lucha política operaría a modo de “fuego purificador” que afectaría en primer lugar a los “combatientes” (los “hombres en pie”, aquellos en cuyo cerebro arde un proyecto político que quieren dar vida) y que sería posible operar una transmutación del mundo: que el poder no estuviera en manos de una casta política degenerada y miserable que considera la política como la mejor relación “esfuerzo-beneficio”, que la comunidad nacional se viera libre de las ideas nacidas en 1789 con la revolución liberal, la ley de la cantidad (la democracia numérica) y el marxismo que vino luego, que desaparecieran partidos y sindicatos como sujetos políticos y fueran las estructuras intermedias de la sociedad quienes asumieran la representatividad en el marco de un Estado Orgánico y Comunitario. He creído incluso que la “construcción de Europa” superaría las carencias de los Estados Nacionales surgidos tras el Renacimiento lograría un marco con “dimensión adecuada” para responder a las necesidades de un tiempo en el que los “bloques” han condicionado le mundo y que una Europa surgida de la hermandad entre combatientes de distintos países estaría en condiciones de ser “primera fuerza” o bien un “espacio cerrado” a la economía globalizada. He creído que la “lucha cultural” era un complemento de la lucha política y que en ese terreno podía realizarse un trabajo que afectaría a toda la sociedad y construiría las bases de un “nuevo orden”. A fin de cuentas, combatir los “productos culturales” que llegan de la “cultura americana”, supone hoy una prioridad en la medida en que se trata de meros productos de intoxicación  contaminación. Todo eso (y mucho más) valdría la pena hacerlo y se podría hacer a través de la lucha política. Nadie me podrá reprochar que no lo intentara hasta el punto de que mi propia vida se ha visto comprometida y que incluso he recibido ataques (en Internet las mentiras sobre mí son uno más de los motivos que inducen a pensar que hoy calumniar salen gratis) de personajillos irrelevantes que jamás me han interesado ni preocupado. Pero todo esto ha llegado demasiado lejos y vale la pena detenerse un momento y reconocer, no solo mi fracaso personal, sino el de todo el ambiente que en un tiempo ya lejano pensó que era posible combatir “a la bestia” e incluso, vencerla.

Cuando escribí las Ultramemorias resultaba evidente mi alejamiento de la extrema-derecha y el análisis crítico que vertía en relación a los últimos 40 años de este ambiente político. Pero no quedaba cerrada la puerta a una acción política posterior. La puerta para desembocar en ella cada vez se ha ido estrechando más y más, y no creo que en la actualidad haya motivos para ser optimista: el percibir en España 7.000.000 de inmigrantes y un signo de desfiguración de la identidad nacional no implica que ese fenómeno vaya a generar una reacción y una respuesta a partir de la cual se vaya a construir un movimiento político sólido y en condiciones de responder a las exigencias de la lucha contra la modernidad, quiere decir solamente que la tierra sobre la que he nacido perderá su rostro y el pueblo al que he pertenecido puede desaparecer… La actual crisis económica es de una envergadura suficiente como para que no nos hagamos ni la más mínima esperanza sobre cómo va a desembocar: en Grecia se ha vivido en los últimos tres años una situación igual y la reacción ha sido mínima, a través del Amanecer Dorado, casi como una respuesta exclusivamente económico-social y el problema trasciende con mucho esa dimensión. En España ni siquiera ha aparecido un fenómeno similar. La economía liberal en su última etapa de desarrollo deglutirá naciones y pueblos enteros y estas naciones y pueblos solamente pensarán –solamente están pensando- como sucumbir antes y de manera más extrema, pues los gobiernos que han elegido democráticamente, ni tienen interés en defender otros intereses que los suyos propios, es decir, los de meros siervos del gran capital financiero internacional. En la modernidad y en la España actual no existen intelectuales y “hombres de tipo humano superior” como para establecer un pensamiento que alguien afecto a los principios tradicionales puede compartir ni mínimamente, ni existe tampoco un “pensamiento crítico” que abarque siquiera a una pequeña élite cultural en condiciones de repercutir sobre un sector social con claridad e impacto suficiente como para hacerse ilusiones de que algo pueda cambiar.

Introducirse en los circuitos culturales y políticos de la modernidad (y, por tanto, tener repercusiones y ver que el trabajo realizado sirve para algo) implica tal nivel de compromisos, renuncias y adaptaciones que, simplemente, no vale la pena ni abordarlo. En cuanto a los que hoy todavía tienden a presentarse como “intransigentes” y activistas que responderían a un “tipo humano superior”, o se engañan, o están en la lucha política por alguna carencia, o simplemente, por una dinámica endiablada, casi como si una fuerza de inercia les impulsase desde el pasado.

Evola me enseñó dos cosas: en primer lugar la necesidad de esforzarse en todo momento, a toda hora, en percibir los rasgos de un tiempo. A eso se le llama “objetividad” (y a definir una “nueva objetividad” utiliza 40 páginas de su Cabalgar…). Hay que esforzarse  continuamente en percibir el mundo tal cual es, intentando sobre todo no engañarse queriéndolo ver tal como a nosotros nos gustaría (o nos interesaría) ver. Objetividad siempre, objetividad ante todo. En segundo lugar me enseñó la importancia de la claridad: renuncias las mínimas, compromisos solamente cuando sean inevitables, calidad anterior y superior a cantidad, élite antes que masa, pero la élite es tal solamente cuando lo demuestra, no cuando se califica así misma como tal; la política no es un fin en sí mismo sino un medio para alcanzar un fin, la construcción de un marco orgánico para la Comunidad del Pueblo, de otra manera no es más que una forma para satisfacer egocentrismos de pobres tontos, carencias afectivas o simplemente para llenar el tiempo libre…

Lo esencial. Lo importante, lo auténticamente importante, es ser “de verdad” o bien un “tipo humano superior” o un “hombre diferenciado”, y demostrárselo a uno mismo, todo lo demás es completamente secundario.  

*     *     *

Por todo esto, estos días, mientras estaba escribiendo un ensayo sobre Julius Evola y el neofascismo que se publicará en los dos próximos meses en la Revista de Historia del Fascismo, he caído en todas estas reflexiones que transmito a los lectores de esta página. Los textos de apoyo pueden encontrarse en http://juliusevola.blogia.com en la Biblioteca Evoliana. No se trata de un debate nuevo sino de la continuación de una conversación que tuve en el invierno de 1980 con Philipe Baillet en París. Era Baillet traductor al francés de los textos de Julius Evola y autor de una notable biografía de Evola que traduje y edité al regresar a España. Un reciente viaje a Sardegna este mes de septiembre me ha dado la ocasión de meditar nuevamente sobre aquella conversación y de realizar una relectura de los textos de Evola para la confección del ensayo sobre las relaciones de Evola con los grupos neofascistas entre 1949  y 1974. Y esas líneas que he escrito suponen un hablar sólo en voz alta. Porque, en realidad, estamos solos, nacemos solos, aunque nos veamos rodeados de seres queridos, mantengamos una vida social intenta, en realidad, siempre estamos solos: dentro de mí no hay nadie… si hubiera alguien no sería yo, sería otro. Y si fuera otro estaría alienado, por tanto, cuando escribimos hablamos sólo para nosotros mismos. Evola lo sabía y sus libros no son más que las reflexiones interiores de un hombre preocupado por el tiempo en el que le había tocado vivir y que, en realidad, no era su tiempo.

© Ernesto Milà – infokrisis – Ernesto.mila.rodri@gmail.com

mercredi, 17 octobre 2012

Julius Evola e l’esperienza del Gruppo di Ur

Julius Evola e l’esperienza del Gruppo di Ur.

La storia “occulta” dell’Italia del Novecento

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Evola_l-res.jpgIn Italia gli anni fra il 1927 ed il 1929 sono segnati da una vicenda spirituale, esoterica e culturale, sconosciuta al grande pubblico e poco esaminata dagli storici, ma che, nondimeno, è una esperienza importante perché é la più significativa della cultura esoterica italiana (ed anche europea) del Novecento: il Gruppo di Ur, diretto dal filosofo Julius Evola – e l’omonima rivista Ur negli anni 1927-28, poi divenuta Krur nel 1929. Di questo gruppo esoterico facevano parte le personalità più significative dell’esoterismo italiano di quel tempo, quali Arturo Reghini (studioso del pitagorismo e fondatore del Rito Filosofico Italiano), Giulio Parise, Giovanni Colazza (antroposofo, interlocutore diretto e fiduciario di Rudolf Steiner in Italia), insieme ad altri insigni esoteristi quali, ad esempio, Guido De Giorgio, il poeta Girolamo Comi, forse lo psicanalista Emilio Servadio (ma la partecipazione di quest’ultimo è controversa), il kremmerziano Ercole Quadrelli e vari altri altri.

La peculiarità di questo sodalizio stava nell’essere un momento ed un tentativo di sintesi fra varie correnti di spiritualità esoterica, quindi élitaria, selettiva, non accessibile a tutti. Tale sintesi veniva cercata anzitutto sul piano spirituale, “magico-operativo”, poi anche su quello dell’elaborazione culturale, in termini di dottrina esoterica, quale si esprimeva sulla rivista Ur-Krur. Erano infatti presenti nel gruppo una certa corrente massonica (impersonata da Reghini e Parise) che intendeva riportare la massoneria ai suoi significati originari, depurandola delle degenerazioni profane e mondane che l’avrebbero caratterizzata dall’illuminismo francese in poi, insieme alla corrente di ispirazione kremmerziana (impersonata dall’esoterista che sulla rivista Ur si firmava Abraxa), richiamantesi cioè agli insegnamenti di Giuliano Kremmerz (fondatore della Fratellanza Terapeutica di Myriam) alla corrente antroposofica, fino a quella dell’esoterismo cristiano. Evola impersona la linea di un paganesimo integrale distante sia dall’indirizzo massonico (col quale vi fu una rottura nel 1928), sia dall’esoterismo cristiano.

Ciò che noi conosciamo di questa esperienza lo evinciamo dai contenuti della rivista, nonché da quanto lo stesso Evola racconta nel suo libro autobiografico Il Cammino del Cinabro.

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Diamo al lettore un sia pur sommario inquadramento storico-culturale per contestualizzare il senso e la funzione di Ur. Siamo nell’Italia del fascismo-regime, per dirla col linguaggio di Renzo De Felice. Le leggi speciali che introducono il regime a partito unico sono del 1926. Gli anni di Ur sono quelli delle trattative fra Stato e Chiesa per risolvere la questione romana, rimasta irrisolta dal 1870 con l’annesso problema del rapporto fra cattolici e Stato unitario.

Sul piano internazionale, il Trattato di Versailles del 1919 ha messo in ginocchio la Germania ed ha lasciato nell’opinione pubblica italiana un profondo e diffuso senso di frustrazione per quella che viene considerata la “vittoria mutilata”. L’economia internazionale è alla vigilia di una crisi – quella di Wall Street del 1929, che influirà profondamente sullo sviluppo delle relazioni fra gli Stati. La nascita del fascismo nel 1919 – ossia di un movimento che si richiama al simbolo romano del fascio littorio – e i primi anni del governo Mussolini dal 1922 in poi segnano un momento importante di apertura di nuovi spazi di influenza della cultura esoterica nei confronti del nuovo indirizzo politico e quindi nei confronti dello Stato.

E’ un tema complesso, inedito fino a pochi anni orsono ed approfondito in modo scientifico, per la prima volta, nel libro Esoterismo e Fascismo (a cura di Gianfranco De Turris, Mediterranee, Roma, 2006), cui hanno contribuito ben 35 studiosi, di diversa provenienza culturale e delle più diverse specializzazioni e che ha rappresentato lo sviluppo elaborativo di una monografia della rivista Hera (al tempo in cui era diretta da Adriano Forgione) sullo stesso tema, pubblicata nel 2003, dallo stesso curatore.

Per entrare meglio in argomento, è bene lasciare la parola allo stesso Evola, in un suo brano significativo nel Cammino del Cinabro: “Già il Reghini, quale direttore della rivista Atanor e poi Ignis… si era proposto di trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, con riferimenti a fonti autentiche e con uno spirito critico. Il “Gruppo di Ur” riprese la stessa esigenza, però accentuandone maggiormente il lato pratico e sperimentale. Sotto la mia direzione esso fece uscire dei fascicoli mensili di monografie destinate ad essere riunite in volumi epperò coordinate in modo che si avesse, in buona misura, uno sviluppo sistematico e progressivo della materia… Fu adottato il principio dell’anonimia dei collaboratori perché – era detto nell’introduzione – “la loro persona non conta, quel che possono dire di valido non è loro creazione o escogitazione ma riflette un insegnamento superindividuale e oggettivo”… Nell’introduzione, come punto di partenza veniva posto ancora una volta il problema esistenziale dell’Io, la crisi di chi non crede più ai valori correnti e a tutto ciò che dà abitualmente, sul piano sia intellettuale, sia pratico, sia umano, un senso all’esistenza. Il presupposto ulteriore era che di fronte a tale crisi non si scartasse, non si ricorresse a dei lenitivi, ma nemmeno si crollasse, che in base al fatto irreversibile ormai determinatosi si fosse invece decisi assolutamente a “dissipare la nebbia, ad aprirsi una via”, volgendo verso la conoscenza di sè e, in sé , dell’Essere” (J.Evola, Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, pp.83-84).

Questa conoscenza ha il carattere di una scienza che, pur non avendo a che fare con cose e con fenomeni esteriori, ma concernendo le forze più profonde dell’interiorità umana, procede in modo sperimentale, con gli stessi criteri di obiettività e di impersonalità delle scienze esatte. Ad essa si lega “una tradizione unica che, in varie forme di espressione, si può ritrovare in tutti i popoli, ora come sapienza di antiche élites regali e sacerdotali, ora come conoscenza adombrata da simboli sacri, miti e riti le cui origini si perdono in tempi primordiali, da Misteri e da iniziazioni”.

Il punto di partenza è quindi il rifiuto dei valori correnti, di tutto ciò che abitualmente dà un senso alla vita; il riferimento è ai valori del mondo cattolico-borghese, verso i quali si avverte una profonda insoddisfazione esistenziale. E’ un tema che già compariva, in forme diverse, nella fase artistica di J. Evola, quella del dadaismo, di cui fu il maggiore esponente italiano; il linguaggio artistico del dadaismo si configura infatti, come una rottura verso i canoni tradizionali dell’arte dell’800 e di tutto il mondo che quell’arte esprimeva.

Tale rifiuto non è però fine a se stesso, ma sfocia in una ricerca costruttiva di diversi e più alti orizzonti,verso una conoscenza di sé e, in sé, dell’Essere, che non è una speculazione astratta, ma una concreta e sperimentale ricerca interiore, secondo una precisa metodica che non è una escogitazione individuale di questo o quell’autore, ma il frutto di una scienza antica, millenaria e universale, al di là delle sue varie forme espressive, secondo le diversità di tempo e di luogo.

Il fine di Ur, sul piano operativo-spirituale, è dunque quello di evocare una forza metafisica, attirandola col magnete psichico costituito dalla “catena” di Ur e dalle correlative operazioni di catena sulle quali, nella rivista omonima, si leggono precise istruzioni. Questa “forza” doveva poi trovare un suo sbocco, una sua estrinsecazione sul piano dell’azione culturale ed anche su quello politico.

urflauto5.jpgLe monografie della rivista furono poi raccolte in volume col titolo della rivista e poi, nella loro prima riedizione (1955, a cura dell’editore Bocca di Milano, poi per le Edizioni Mediterranee di Roma nel 1971) presero il titolo di Introduzione alla Magia, aggiungendo come sottotitolo “quale Scienza dell’Io”.

Nell’introduzione del testo si precisava che il termine “Magia” non era adoperato nel senso popolare e nemmeno in quello adoperato nell’antichità, perché non si trattava di certe pratiche, reali o superstiziose, volte a produrre fenomeni extra-normali. Il Gruppo di Ur si riferiva essenzialmente al senso etimologico del termine (nella lingua iranica la radice “Mag” vuol dire sapiente), ossia ci si riferiva al sapere iniziatico in una sua speciale formulazione, ispirata ad un atteggiamento “solare”, ossia attivo e affermativo rispetto alla sfera del sacro. A tal riguardo si può ricordare una celebre frase di Plotino “Sono gli Déi che devono venire a me, non io agli Déi”, per rendere l’idea di questo peculiare orientamento spirituale. Peraltro la radice Ur in caldaico significa fuoco, ma vi era anche un senso aggiuntivo, quello di “primordiale, di “originario” che esso ha come prefisso in tedesco.

I contributi del Gruppo di Ur davano dunque orientamenti, spunti, sollecitazioni con l’esposizione di metodi, di discipline, di tecniche, insieme ad una chiarificazione del simbolismo tradizionale; inoltre con relazioni di esperienze effettivamente vissute e infine con la traduzione e la ripubblicazione di testi delle tradizioni occidentali e orientali integrati da opportuni commenti, quali, ad esempio, il Rituale Mithriaco del Gran Papiro Magico di Parigi, i Versi aurei di Pitagora, testi ermetici come la Turba Philosophorum, alcuni canti del mistico tibetano Milarepa, passi del canone Buddhista, brani scelti di Kremmerz, di Gustav Meyrink, di Crowley. Un quarto profilo di Ur riguardava i contributi di inquadramento dottrinario sintetico nonché puntualizzazioni critiche.

Evola scrive al riguardo “Indirizzi molteplici di scuole varie venivano presentati, a che il lettore avesse modo di scegliere in base alle sue particolari predisposizioni o inclinazioni”.

Ur si presenta quindi come una elaborazione critica della spiritualità esoterica tradizionale e, correlativamente, della cultura esoterica sia sul piano tecnico-operativo che su quello dell’esegesi testuale e dell’inquadramento dottrinario. Esso è, al tempo stesso, un momento di confronto pluralistico fra vari indirizzi iniziatici, in modo che il lettore possa scegliere avendo una panoramica generale, una visione d’insieme dei molteplici indirizzi operativi presenti nella spiritualità esoterica della prima metà del Novecento.

Va peraltro evidenziato che Ur fu il primo sodalizio a pubblicare il Rituale Mithriaco, fuori da ogni consorteria accademica e fu la prima rivista a pubblicare in Italia alcune pratiche del Buddhismo Vajrayana sotto il titolo La Via del diamante-folgore (si tratta della pratica di Vajrasattva – il Buddha della purificazione – e della sua “Sposa”, cioé la sua Shakti), dimostrando una apertura mentale ed una lucidità che ne facevano una vera e propria avanguardia sia sul piano spirituale-operativo, che su quello dell’elaborazione culturale che anticipava di gran lunga, cioè di molti decenni, la diffusione in Italia delle religioni orientali…

Peraltro la pubblicazione del Rituale Mithriaco si inseriva in un disegno – cui lo stesso Evola accenna espressamente nel Cammino del Cinabro – volto ad esercitare una influenza sul regime politico allora vigente, per svilupparne le potenzialità legate all’assunzione del fascio littorio come simbolo. In altri termini, una influenza volta a radicalizzare e potenziare l’anima “pagana” del fascismo, con ripercussioni concrete in termini politici e di orientamento culturale. Il commento di Ur al Rituale Mithriaco non sembra lasciare dubbi al riguardo, visto che si parla di un conflitto fra paganesimo e cristianesimo tuttora attuale e non confinato nella lontana antichità del IV secolo d.C. E’ un tema che, in altra sede, ho già ampiamente approfondito, poiché il disegno spirituale e di sistematizzazione dottrinaria aveva anche un suo profilo politico preciso, forse contando anche sul sostegno di alcune componenti interne al Partito nazionale fascista, sull’anticlericalismo di una certa area liberal-risorgimentale e, come ho già dimostrato altrove, sul tacito sostegno – quantomeno in termini di tolleranza – dello stesso Mussolini, poiché altrimenti non si spiega la libertà di movimento di questa rivista che, in un momento delicatissimo del rapporto diplomatico fra Stato e Chiesa, interviene con una affermazione di antagonismo nei confronti della religione cristiana. Le confidenze del Duce al suo biografo Yvon De Begnac sono eloquenti al riguardo (Y. De Begnac, Taccuini Mussoliniani (con prefazione di Renzo De Felice), Il Mulino, Bologna, 1990). Negli stessi anni – e precisamente nel 1928 – Evola pubblica Imperialismo Pagano, col significativo sottotitolo Il fascismo dinnanzi al pericolo eurocristiano. Le tesi del libro – ossia la necessità per il fascismo di attuare una rivoluzione spirituale in senso “pagano” – suscitarono le proteste dell’Osservatore Romano e contrasti anche nell’area della pubblicistica fascista.

Ur e Imperialismo Pagano si collocano quindi nell’ambito del medesimo disegno – poi storicamente fallito – volto a influire sulla direzione spirituale e politica del regime fascista (cfr. J. Evola, La Via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mithra (a cura di Stefano Arcella), Fondazione J.Evola-Controcorrente, Napoli, 2007).

Al di là di questo profilo esoterico-politico, intendo soffermarmi sui contributi di Giovanni Colazza (che si firmava Leo) e sull’influenza che il suo orientamento ebbe sulla formazione di Evola.

I contributi di questo esoterista si distinguono per una impostazione tutta concentrata sulla interiorizzazione personale di una visione animata e attiva della realtà, del mondo e della vita. Il primo contributo, dal titolo “Barriere”, è molto eloquente in questo senso. Non vi sono riferimenti a rituali magici, né a cerimoniali, ma tutto è imperniato sulla elaborazione cosciente di una visione e percezione più sottile e profonda delle cose. Si insiste quindi sulla responsabilità personale, sullo sviluppo di un percorso di consapevolezza in cui l’uomo opera su sé stesso per trasformarsi.

Nella prospettiva di Colazza, gioca quindi un ruolo fondamentale la volontà unita all’autoosservazione con la calma interiore di un critico. E’ una via dell’anima cosciente in cui ci si osserva come se si stesse osservando un altro. E’ evidente che sulla formazione di Colazza gioca un ruolo fondamentale l’influenza di Steiner e delle sue opere nelle quali viene tramandata la “scienza dello spirito”, che l’esoterista austriaco definisce antichissima e millenaria, non confondibile quindi con una escogitazione intellettuale soggettiva.

I contributi successivi di Leo vanno nella stessa direzione e sono un ulteriore approfondimento della medesima impostazione. Peraltro egli contribuisce all’introduzione ed al commento del Rituale Mithriaco insieme a Pietro Negri (Reghini), a Luce (Parise) e ad EA (Evola), come in Ur è esplicitamente attestato.

Ho avuto modo, già in altra sede, di evidenziare come la lettura evoliana dei Misteri di Mithra risenta dei contenuti della Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner soprattutto nel punto in cui parla di questa volontà individuale che afferma la centralità di una coscienza calma ed autosufficiente e rifiuta la dimensione dell’agitazione e della perenne insoddisfazione della vita profana e ordinaria. E l’incontro con Colazza contribuì sicuramente a questo ampliamento di orizzonti del giovane filosofo romano.

E’ degno di attenzione che, nel III volume di Introduzione alla Magia (che corrisponde alla raccolta della rivista Krur del 1929) venga pubblicato un contributo non firmato – e quindi riferibile al direttore di Ur, ossia ad Evola – che si intitola “Liberazione delle facoltà”; si tratta di una sequenza metodica di esercizi personali, che riguardano il dominio del pensiero, il dominio dell’azione, l’equanimità, la positività come nuovo stile di pensiero, l’apertura mentale o spregiudicatezza e, infine, il riepilogo contestuale dei 6 esercizi.

Ognuno di questi esercizi dura 1 mese e vanno praticati nell’ordine in cui li abbiamo menzionati. Il primo riguarda la fortificazione del principio cosciente rispetto al flusso dei pensieri e consiste nella “concentrazione sull’oggetto insignificante”. Il secondo concerne la fortificazione della volontà cosciente rispetto al proprio agire che da agire abitudinario deve trasformarsi in agire consapevole. Il terzo riguarda lo sviluppo di un calmo distacco rispetto agli eventi, piacevoli o spiacevoli che siano, della propria vita, senza che ciò implichi insensibilità o indifferenza, ma la capacità di non lasciarsi trascinare né dalla gioia né dal dolore. Il quarto esercizio attiene allo sviluppo del pensiero positivo, ossia la capacità di saper cogliere gli aspetti positivi, benefici, di ogni cosa e di ogni evento, senza che ciò significhi scadere in un ingenuo ottimismo o non vedere gli aspetti negativi della realtà, ma sapendo valorizzare ciò che, in ogni cosa, può aiutare la nostra evoluzione di coscienza. Il quinto concerne l’apertura mentale, la capacità di saper uscire fuori dagli schemi ordinari, ammettendo la possibilità che della realtà facciano parte altri aspetti non ordinari. Il sesto è un momento di sintesi e di coordinamento dei 5 esercizi precedenti. Ognuno di questi esercizi è integrato da una precisa pratica di visualizzazione di una corrente eterica allo scopo di mettere in movimento le nostre energie che, nella fisiologia occulta, sono quelle del cosiddetto “corpo eterico” e dei “centri energetici”(i “chakra” della tradizione esoterica indiana).

Orbene tali esercizi di liberazione delle facoltà del pensiero, dell’agire, della calma e della solarità nel modo di affrontare la vita, sono esattamente, con un sola variante tecnica nel 1° esercizio, i sei esercizi fondamentali insegnati da Rudolf Steiner e ripubblicati in Italia dall’editrice Antroposofica di Milano. Steiner muore nel 1925 mentre il Gruppo di Ur si colloca negli anni fra il 1927 ed il 1929, per cui l’influenza di Steiner su Ur, sotto questo particolare aspetto, è storicamente documentata.

Eppure lo stesso Evola, nel suo libro Maschera e Volto dello spiritualismo contemporaneo (ora: Mediterranee, Roma, 2008), critica chiaramente e duramente la visione storica e cosmologica di Steiner che giudica come una visione evoluzionista e quindi antitradizionale (Evola si richiamava infatti alla dottrina dei cicli e della “regressione delle caste”, la storia venendo vista come un processo regressivo) ma in Krur riprende un preciso insegnamento operativo steineriano, anche se non cita Steiner.

Orbene, è evidente, a questo punto che, sotto alcuni specifici aspetti operativi, Evola risentì dell’influenza di Steiner attraverso la mediazione e l’insegnamento di Colazza che partecipava ad Ur con precisi insegnamenti di carattere operativo. A volte, i rapporti fra gli studiosi di esoterismo e fra i ricercatori spirituali sono più complessi di quanto possa apparire a prima vista.

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Articolo originariamente pubblicato su Hera di settembre 2012.

mercredi, 26 septembre 2012

The Sexual Aesthetics and Metaphysics of Julius Evola

 

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Keith Preston:

Beyond Prudery and Perversion: The Sexual Aesthetics and Metaphysics of Julius Evola

Of course, the ongoing institutionalization of the values of the sexual revolution is not without its fierce critics. Predictably, the most strident criticism of sexual liberalism originates from the clerical and political representatives of the institutions of organized Christianity and from concerned Christian laypeople. Public battles over sexual issues are depicted in the establishment media as conflicts between progressive-minded, intelligent and educated liberals versus ignorant, bigoted, sex-phobic reactionaries. Dissident conservative media outlets portray conflicts of this type as pitting hedonistic, amoral sexual libertines against beleaguered upholders of the values of faith, family, and chastity. Yet this “culture war” between liberal libertines and Christian puritans is not what should be the greatest concern of those holding a radical traditionalist or conservative revolutionary outlook.

Sexuality and the Pagan Heritage of Western Civilization

The European New Right has emerged as the most intellectually progressive and sophisticated contemporary manifestation of the values of the conservative revolution. Likewise, the overlapping schools of thought associated with the ENR have offered the most penetrating and comprehensive critique of the domination of contemporary cultural and political life by the values of liberalism and the consequences of this for Western civilization. The ENR departs sharply from conventional “conservative” criticisms of liberalism of the kind that stem from Christian piety. Unlike the Christian conservatives, the European New Right does not hesitate to embrace the primordial pagan heritage of the Indo-European ancestors of Western peoples. The history of the West is much older than the fifteen hundred year reign of the Christian church that characterized Western civilization from the late Roman era to the early modern period. This history includes foremost of all the classical Greco-Roman civilization of antiquity and its legacy of classical pagan scholarship and cultural life. Recognition of this legacy includes a willingness to recognize and explore classical pagan attitudes towards sexuality. As Mark Wegierski has written:

The ENR’s “paganism” entails a naturalism towards mores and sexuality. Unlike still traditionalists, ENR members have a relatively liberated attitude towards sexuality…ENR members have no desire to impose what they consider the patently unnatural moralism of Judeo-Christianity on sexual relations. However, while relatively more tolerant in principle, they still value strong family life, fecundity, and marriage or relations within one’s own ethnic group. (Their objection to intraethnic liaisons would be that the mixture of ethnic groups diminishes a sense of identity. In a world where every marriage was mixed, cultural identity would disappear). They also criticize Anglo-American moralism and its apparent hypocrisy: ” . . . In this, they are closer to a worldly Europe than to a puritanical America obsessed with violence. According to the ENR: “Our ancestral Indo-European culture . . . seems to have enjoyed a healthy natural attitude to processes and parts of the body concerned with the bringing forth of new life, the celebration of pair-bonding love, and the perpetuation of the race.”

In its desire to create a balanced psychology of sexual relations, the ENR seeks to overcome the liabilities of conventional conservative thought: the perception of conservatives as joyless prudes, and the seemingly ridiculous psychology implied in conventional Christianity. It seeks to address “flesh-and-blood men and women,” not saints. Since some of the Left’s greatest gains in the last few decades have been made as a result of their championing sexual freedom and liberation, the ENR seeks to offer its own counter-ethic of sexual joy. The hope is presumably to nourish persons of the type who can, in Nietzsche’s phrase, “make love alter reading Hegel.” This is also related to the desire for the reconciliation of the intellectual and warrior in one person: the reconciliation of vita contemplative and vita activa.1

It is therefore the task of contemporary proponents of the values of conservative revolution to create a body of sexual ethics that offers a genuine third position beyond that of mindless liberal hedonism or the equally mindless sex-phobia of the Christian puritans. In working to cultivate such an alternative sexual ethos, the thought of Julius Evola regarding sexuality will be quite informative.

The Evolan Worldview

Julius Evola published his Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex in 1958.2This work contains a comprehensive discussion of Evola’s views of sexuality and the role of sexuality in his wider philosophical outlook. In the book, Evola provides a much greater overview of his own philosophy of sex, a philosophy which he had only alluded to in prior works such as The Yoga of Power (1949)3 and, of course, his magnum opus Revolt Against the Modern World (1934)4. Evola’s view of sexuality was very much in keeping with his wider view of history and civilization. Evola’s philosophy, which he termed merely as “Tradition,” was essentially a religion of Evola’s own making. Evola’s Tradition was a syncretic amalgam of various occult and metaphysical influences derived from ancient myths and esoteric writings. Foremost among these were the collection of myths found in various Greek and Hindu traditions having to do with a view of human civilization and culture as manifestation of a process of decline from a primordial “Golden Age.”

It is interesting to note that Evola rejected modern views of evolutionary biology such as Darwinian natural selection. Indeed, his views on the origins of mankind overlapped with those of Vedic creationists within the Hindu tradition. This particular reflection of the Vedic tradition postulates the concept of “devolution” which, at the risk of oversimplification, might be characterized as a spiritualistic inversion of modern notions of evolution. Mankind is regarded as having devolved into its present physical form from primordial spiritual beings, a view that is still maintained by some Hindu creationists in the contemporary world.5 Comparable beliefs were widespread in ancient mythology. Hindu tradition postulates four “yugas” with each successive yuga marking a period of degeneration from the era of the previous yuga. The last of these, the so-called “Kali Yuga,” represents an Age of Darkness that Evola appropriated as a metaphor for the modern world. This element of Hindu tradition parallels the mythical Golden Age of the Greeks, where the goddess of justice, Astraea, the daughter of Zeus and Themis, lived among mankind in an idyllic era of human virtue. The similarities of these myths to the legend of the Garden of Eden in the Abrahamic traditions where human beings lived in paradise prior the Fall are also obvious enough.

It would be easy enough for the twenty-first century mind to dismiss Evola’s thought in this regard as a mere pretentious appeal to irrationality, mysticism, superstition or obscurantism. Yet to do so would be to ignore the way in which Evola’s worldview represents a near-perfect spiritual metaphor for the essence of the thought of the man who was arguably the most radical and far-sighted thinker of modernity: Friedrich Nietzsche. Indeed, it is not implausible to interpret Evola’s work as an effort to place the Nietzschean worldview within a wider cultural-historical and metaphysical framework that seeks to provide a kind of reconciliation with the essential features of the world’s great religious traditions which have their roots in the early beginnings of human consciousness. Nietzsche, himself a radical materialist, likewise regarded the history of Western civilization as involving a process of degeneration from the high point of the pre-Socratic era. Both Nietzsche and Evola regarded modernity as the lowest yet achieved form of degenerative decadence with regards to expressions of human culture and civilization. The Nietzschean hope for the emergence of anubermenschen that has overcome the crisis of nihilism inspired by modern civilization and the Evolan hope for a revival of primordial Tradition as an antidote to the perceived darkness of the current age each represent quite similar impulses within human thought.

The Metaphysics of Sex

a30655.jpgIn keeping with his contemptuous view of modernity, Evola regarded modern sexual mores and forms of expression as degenerate. Just as Evola rejected modern evolutionary biology, so did he also oppose twentieth century approaches to the understanding of sexuality of the kind found in such fields as sociobiology, psychology, and the newly emergent discipline of sexology. Interestingly, Evola did not view the reproductive instinct in mankind to be the principal force driving sexuality and he criticized these academic disciplines for their efforts to interpret sexuality in terms of reproductive drives, regarding these efforts as a reflection of the materialistic reductionism which he so bitterly opposed. Evola’s use of the term “metaphysics” with regards to sexuality represents in part his efforts to differentiate what he considered to be the “first principles” of human sexuality from the merely biological instinct for the reproduction of the species, which he regarded as being among the basest and least meaningful aspects of sex. It is also interesting to note at this point that Evola himself never married or had children of his own. Nor is it known to what degree his own paralysis generated by injuries sustained during World War Two as a result of a 1945 Soviet bombing raid on Vienna affected his own reproductive capabilities or his views of sexuality.

Perhaps the most significant aspect of Evola’s analysis of sex is his rejection of not only the reproductive instinct but also of love as the most profound dimension of sexuality. Evola’s thought on this matter is sharp departure from the dominant forces in traditional Western thought with regards to sexual ethics. Plato postulated a kind of love that transcends the sexual and rises above it, thereby remaining non-sexual in nature. The Christian tradition subjects the sexual impulse and act to a form of sacralization by which the process of creating life becomes a manifestation of the divine order. Hence, the traditional Christian taboos against non-procreative sexual acts. Modern humanism of a secular-liberal nature elevates romantic love to the highest form of sexual expression. Hence, the otherwise inexplicable phenomena of the modern liberal embrace of non-procreative, non-marital or even homosexual forms of sexual expression, while maintaining something of a taboo against forms of non-romantic sexual expression such as prostitution or forms of sexuality and sexual expression regarded as incompatible with the egalitarian ethos of liberalism, such as polygamy or “sexist” pornography.

Evola’s own thought regarding sexuality diverges sharply from that of the Platonic ideal, the Christians, and the moderns alike. For Evola, sexuality has as its first purpose the achievement of unity in two distinctive ways. The first of these is the unity of the male and female dichotomy that defines the sexual division of the human species. Drawing once again on primordial traditions, Evola turns to the classical Greek myth of Hermaphroditus, the son of Hermes and Aphrodite who was believed to be a manifestation of both genders and who was depicted in the art of antiquity as having a male penis with female breasts in the same manner as the modern “she-male.” The writings of Ovid depict Hermaphroditus as a beautiful young boy who was seduced by the nymph Salmacis and subsequently transformed into a male/female hybrid as a result of the union. The depiction of this story in the work of Theophrastus indicates that Hermaphroditus symbolized the marital union of a man and woman.

The concept of unity figures prominently in the Evolan view of sexuality on another level. Just as the sexual act is an attempt at reunification of the male and female division of the species, so is sexuality also an attempt to reunite the physical element of the human being with the spiritual. Again, Evola departs from the Platonic, Christian, and modern views of sexuality. The classical and the modern overemphasize such characteristics as romantic love or aesthetic beauty in Evola’s view, while the Christian sacralization of sexuality relegates the physical aspect to the level of the profane. However, Evola does not reject the notion of a profane dimension to sexuality. Instead, Evola distinguishes the profane from the transcendent. Profane expressions of sexuality are those of a non-transcendent nature. These can include both the hedonic pursuit of sexual pleasure as an end unto itself, but it also includes sexual acts with romantic love as their end.

Indeed, Evola’s analysis of sexuality would be shockingly offensive to the sensibilities of traditionalists within the Abrahamic cults and those of modern liberal humanists alike. Evola is as forthright as any of the modern left-wing sexologists of his mid-twentieth century era (for instance, Alfred Kinseyor Wilhelm Reich7) in the frankness of his discussion of the many dimensions of human sexuality, including sexual conduct of the most fringe nature. Some on the contemporary “far Right” of nationalist politics have attempted to portray Evola’s view of homosexuality as the equivalent of that of a conventional Christian “homophobe.” Yet a full viewing of Evola’s writing on the homosexual questions does not lend itself to such an interpretation. The following passage fromThe Metaphysics of Sex is instructive on this issue:

In natural homosexuality or in the predisposition to it, the most straightforward explanation is provided by what we said earlier about the differing levels of sexual development and about the fact that the process of sexual development in its physical and, even more so, in its psychic aspects can be incomplete. In that way, the original bisexual nature is surpassed to a lesser extent than in a “normal” human being, the characteristics of one sex not being predominant over those of the other sex to the same extent. Next we must deal with what M. Hirschfeld called the “intermediate sexual forms”. In cases of this kind (for instance, when a person who is nominally a man is only 60 percent male) it is impossible that the erotic attraction based on the polarity of the sexes in heterosexuality – which is much stronger the more the man is male and the woman is female – can also be born between individuals who, according to the birth registry and as regards only the so-called primary sexual characteristics, belong to the same sex, because in actual fact they are “intermediate forms”. In the case of pederasts, Ulrich said rightly that it is possible to find “the soul of a woman born in the body of a man”.

But it is necessary to take into account the possibility of constitutional mutations, a possibility that has been given little consideration by sexologists; that is, we must also bear in mind cases of regression. It may be that the governing power on which the sexual nature of a given individual depends (a nature that is truly male or truly female) may grow weak through neutralization, atrophy, or reduction of the latent state of the characteristics of the other sex, and this may lead to the activation and emergence of these recessive characteristics. And here the surroundings and the general atmosphere of society can play a not unimportant part. In a civilization where equality is the standard, where differences are not linked, where promiscuity is a favor, where the ancient idea of “being true to oneself” means nothing anymore – in such a splintered and materialistic society, it is clear that this phenomenon of regression and homosexuality should be particularly welcome, and therefore it is in no way a surprise to see the alarming increase in homosexuality and the “third sex” in the latest “democratic” period, or an increase in sex changes to an extent unparalleled in other eras.8

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In his recognition of the possibility of “the soul of a woman born in the body of man” or “intermediate” sexual forms, Evola’s language and analysis somewhat resembles the contemporary cultural Left’s fascination with the “transgendered” or the “intersexed.” Where Evola’s thought is to be most sharply differentiated from that of modern leftists is not on the matter of sex-phobia, but on the question of sexual egalitarianism. Unlike the Christian puritans who regard deviants from the heterosexual, procreative sexual paradigm as criminals against the natural order, Evola apparently understood the existence of such “sexual identities” as a naturally occurring phenomenon. Unlike modern liberals, Evola opposed the elevation of such sexual identities or practices to the level of equivalence with “normal” procreative and kinship related forms of sexual expression and relationship. On the contemporary question of same-sex marriage, for example, Evolan thought recognizes that the purpose of marriage is not individual gratification, but the construction of an institution for the reproduction of the species and the proliferation and rearing of offspring. An implication of Evola’s thought on these questions for conservative revolutionaries in the twenty-first century is that the populations conventionally labeled as sexual deviants by societies where the Abrahamic cults shape the wider cultural paradigm need not be shunned, despised, feared, or subject to persecution. Homosexuals, for instance, have clearly made important contributions to Western civilization. However, the liberal project of elevating either romantic love or hedonic gratification as the highest end of sexuality, and of equalizing “normal” and “deviant” forms of sexual expression, must likewise be rejected if relationships between family, tribe, community, and nation are to be understood as the essence of civilization.

The nature of Evola’s opposition to modern pornography and the relationship of this opposition to his wider thought regarding sexuality is perhaps the most instructive with regards to the differentiation to be made between Evola’s outlook and that of Christian moralists. Evola’s opposition to pornography was not its explicit nature or its deviation from procreative, marital expressions of sexuality as the idealized norm. Indeed, Evola highly regarded sexual practices of a ritualized nature, including orgiastic religious rites of the kind found in certain forms of paganism, to be among the most idyllic forms of sexual expression of the highest, spiritualized variety. Christian puritans of the present era might well find Evola’s views on these matters to be even more appalling than those of ordinary contemporary liberals. Evola also considered ritualistic or ascetic celibacy to be such an idyllic form. The basis of Evola’s objection to pornography was its baseness, it commercial nature, and its hedonic ends, all of which Evola regarding as diminishing its erotic nature to the lowest possible level. Evola would no doubt regard the commercialized hyper-sexuality that dominates the mass media and popular culture of the Western world of the twenty-first century as a symptom rather than as a cause of the decadence of modernity.

Originally published in Thoughts & Perspectives: Evola, a compilation of essays on Julius Evola, published by ARKTOS.

Notes:

Wegierski, Mark. The New Right in Europe. TelosWinter93/Spring94, Issue 98-99.

2 Evola, Julius. Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex. English translation. New York: Inner Traditions, 1983. Originally published in Italy by Edizioni Meditterranee, 1969.

Evola, Julius. The Yoga of Power: Tantra, Shakti, and the Secret Way. English translation by Guido Stucci. New York: Inner Traditions, 1992. Originally published in 1949.

4 Evola, Julius. Revolt Against the Modern World: Politics, Religion, and Social Order in the Kali Yuga. English translation by Guido Stucco. New York: Inner Traditions, 1995. From the 1969 edition. Originally published in Milan by Hoepli in 1934.

5 Cremo, Michael A. Human Devolution: A Vedic Alternative to Darwin’s Theory. Torchlight Publishing, 2003.

6 Pomeroy, Wardell. Dr. Kinsey and the Institute for Sex Research. New York: Harper & Row, 1972.

7 Sharaf, Myron. Fury on Earth: A Biography of Wilhelm Reich. Da Capo Press, 1994.

Evola, Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex, pp. 62-63.

Bibliography:

Cremo, Michael A. Human Devolution: A Vedic Alternative to Darwin’s Theory. Torchlight Publishing, 2003.

Evola, Julius. Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex. English translation. New York: Inner Traditions, 1983. Originally published in Italy by Edizioni Meditterranee, 1969.

Evola, Julius. Revolt Against the Modern World: Politics, Religion, and Social Order in the Kali Yuga. English translation by Guido Stucco. New York: Inner Traditions, 1995. From the 1969 edition. Originally published in Milan by Hoepli in 1934.

Evola, Julius. The Yoga of Power: Tantra, Shakti, and the Secret Way. English translation by Guido Stucci. New York: Inner Traditions, 1992. Originally published in 1949.

Pomeroy, Wardell. Dr. Kinsey and the Institute for Sex Research. New York: Harper & Row, 1972.

Sharaf, Myron. Fury on Earth: A Biography of Wilhelm Reich. Da Capo Press, 1994.

Wegierski, Mark. The New Right in Europe. TelosWinter93/Spring94, Issue 98-99.