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mercredi, 29 octobre 2014

Yeats tra fascismo e aristocrazia

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Yeats tra fascismo e aristocrazia

Lambert O'Manwel

Ex: http://nemicidelsistema.blogspot.com

« Che importa se le più grandi cose che gli uomini pensano di consacrare o esaltare, accolgono la nostra grandezza solo se unita alla nostra amarezza?». Così parlò William Butler Yeats nei suoi versi dedicati alle Case degli avi, nelle meditazioni in tempo di guerra civile. Alla sua amarezza composta, anzi alla sua «virile malinconia» dedicò un saggio giovanile Tomasi di Lampedusa, che anche nel suo Gattopardo subì il fascino di Yeats, quel gran cantore del Mitico Passato.

Sessant’anni fa, il ventotto gennaio del 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, il poeta irlandese si spegneva all’età di 73 anni. Era nato in un decoroso sobborgo di Dublino da una rispettabile famiglia protestante anglo-irlandese, con le estati dell’infanzia trascorse all’ombra di croci celtiche e rovine di torri nel piccolo porto di Siligo, nella costa occidentale irlandese. Suo padre alternava le sue preoccupazioni «terrene» (era un agrario benestante) con i suoi sogni celesti di pittura. E il giovane Yeats, che a vent’anni aveva già acquisito una buona notorietà per le prime composizioni poetiche pubblicate sulla Dublin University Review, aveva ben presto rigettato lo spirito vittoriano del suo tempo per sposare la tradizione dell’antica Irlanda gaelica, cattolica e romantica.


Yeats può dirsi un tradizionalista lirico, un romantico che amava il mondo antico, un cultore della bellezza cresciuto sulle orme del neoplatonismo e della magia. Da giovane si dedicò in particolare all’occultismo. Fondò la Società Ermetica di Dublino, poi aderì alla società teosofica di Madame Blavatsky e infine fu ammesso all’Ordine del Golden Dawn. Due donne ebbero grande influenza su di lui: Maud Gonne e Lady Augusta Gregory. Ma dello Yeats poeta si conoscono già molte cose; decisamente meno si sa dell’impegno civile e culturale di Yeats in chiave nazionalista, protofascista e rivoluzionario-conservatrice. Un capitolo in ombra, che destò grande imbarazzo, anche perché Yeats era stato insignito del Premio Nobel per la letteratura. Era dunque sconveniente richiamare questa sua passione politica non-conformista.

Yeats sognava un’Irlanda affrancata dalla tutela britannica ed era diventato esponente del movimento radicale feniano della Irish Republican Brotherhood; sono gli anni della sua collaborazione a giornali cattolico-nazionalisti come The Irish Monthly e The Irish Fireside. Nel 1898, Yeats fu nominato presidente dell’associazione nata per celebrare il centesimo anniversario dell’insurrezione di Wolfe Tone. Successivamente Yeats noterà con preoccupazione l’ombra sempre più lunga del radicalismo religioso che si univa ad un nascente spirito cristiano-borghese. A quest’universo, Yeats opporrà una visione eroica, pagana e mitologica dell’Irlanda, un «delirio di valorosi».

La delusione per gli sviluppi del nazionalismo in Irlanda lo porterà a viaggiare, soprattutto in Italia. Fu un amore a prima vista per la civiltà rinascimentale, per Ferrara ed Urbino (due città che fecero innamorare anche Ezra Pound, che egli incontrò più volte in Italia). Da quel confronto con le città italiane, l’accusa agli inglesi e al mondo politico irlandese che aveva lasciato distruggere le grandi residenze di Aran e Galway, «simili ad ogni antica ed ammirata città italiana». Agli inglesi attribuiva la responsabilità di aver distrutto i tratti aristocratici del paesaggio di Connaught.

Yeats divenne successivamente senatore e sostenitore del governo legittimo dello Stato libero sud-irlandese, in seguito al trattato anglo-irlandese del 1921. In quegli anni Yeats teme una propagazione del comunismo in Irlanda, che egli vede come una conseguenza diretta della rivoluzione francese. E si avvicina alla lettura di un conservatore illuminato come Edmund Burke, un controrivoluzionario che era riuscito secondo Yeats a coniugare l’ordine con la libertà. Scrisse Yeats: «Il moto centrifugo che cominciò con gli enciclopedisti e che produsse la Rivoluzione francese e le vedute democratiche di uomini come Stuart Mill, è giunto alla fine... I movimenti che avevano come scopo la liberazione dell’individuo sono risultati alla fine produttori d’anarchia». Al timore di un’epoca di brutalità, massacri e regicidi nel segno della rivoluzione marxista, Yeats dedicò un breve poema, The Second Coming.


L’amore per la tradizione nazionale, la richiesta di ordine, comunità e anticomunismo, spinsero così Yeats sulle tracce del fascismo. Un secondo viaggio in Italia con un lungo soggiorno in Sicilia, lo rafforzò in questa convinzione. Era il 1925. Yeats, che aveva già avuto il premio Nobel, si avvicinò a Roma al pensiero di Giovanni Gentile, a cui si ispirarono molti suoi interventi nel Senato irlandese dedicati alla scuola e all’educazione nazionale. Tornò in Italia altre volte: a Rapallo nel 1928 (luogo nietzscheano e poundiano), a Roma nel 1928 e ancora a Rapallo e Roma nel ‘34.

Nel luglio del 1927 l’assassinio da parte dell’Ira di Kevin O’Higgins, ministro dell’Interno del governo conservatore di Cosgrave, rafforzerà Yeats nella convinzione di fronteggiare con ogni mezzo il bolscevismo e la sovversione. L’anno successivo Yeats lasciò il Senato, esprimendo disprezzo per la democrazia parlamentare. Successivamente espresse sostegno e simpatia per le Camicie azzurre del generale O’Duffy, nate per contrastare i repubblicani dell’Ira dopo la caduta del governo conservatore.


In particolare, Yeats sostenne la necessità di formulare una teoria sociale «da contrapporre al comunismo in Irlanda». Ma il movimento aveva un‘impronta impiegatizia, cattolica e piccolo borghese; mentre il poeta sognava un movimento aristocratico, antimoderno. L’unica vera riserva che Yeats avanzava verso Mussolini era del resto proprio quella: mancava al duce del fascismo un’ascendenza aristocratica. Troppo «popolano». Il suo ideale restava una specie di Repubblica di Venezia, con il governo del Doge e il consiglio dei Dieci.

Nell’ultima opera pubblicata tre mesi prima di morire, On the boiler, Yeats lancia un messaggio alla gioventù d’Irlanda all’insegna del libro e moschetto: educatevi con armi e lettere, esortava Yeats per «respingere dai nostri lidi le prone e ignoranti masse delle nazioni commerciali» (le «plutocrazie», avrebbero detto i fascisti). Poco prima, nella Introduzione generale alla sua opera, Yeats aveva scritto parole terribili di apologia dell’odio che a suo dire avrebbe prima o poi conquistato le menti più forti: «Un’odio indefinito che cova in Europa e che tra alcune generazioni spazzerà via il dominio attuale».

«Odiava la democrazia e amava l’aristocrazia. Per aristocrazia - scrisse di lui Lady Wellesley - egli intendeva la mente orgogliosa ed eroica. Ciò voleva dire anche una furiosa ostilità verso la meschinità, l’approssimazione e l’abbassamento dei valori. Egli si ribellava alla progressiva eliminazione della gente ben nata». Nelle sue idee si ravvisano tracce di Maurras ma anche suggestioni che sembrano appartenere ad Evola. Scriverà: «Io rimango attaccato alla tradizione irlandese... Le mie convinzioni hanno radici profonde e non si adeguano alle consuetudini». La crisi delle forme cerimoniali è per Yeats un segno dell’imminente distruzione del mondo. In questa sua concezione apocalittica prende corpo la sua visione eroica e bellica: «Amate la guerra per il suo orrore - scrive un personaggio delle Storie di Micbael Robartes - così che la fede possa mutarsi, la civiltà possa rinnovarsi». Qui il richiamo alla tradizione celtica, o a volte, sulla scorta di Renan, alla «razza celtica».

Nel cimitero degli antenati dove egli è sepolto, a Drumcliff, è riportata come epigrafe un celebre verso della sua ultima poesia: «Getta uno sguardo freddo su vita e morte. Cavaliere prosegui oltre!».

Alla sua morte, Auden gli intentò un processo sulla Partizan Review, per il suo filo-fascismo. Prese le sue difese George Orwell, nel 1943, che argomenta: «Yeats è sì tendenzialmente fascista ma in buona fede, perché non si rende conto degli esiti ultimi del totalitarismo». Più recentemente Connor Criuse O’Brian ha contestato la presunta ingenuità di Yeats, sostenendo che vi fosse una vera ispirazione fascista in Yeats, una consapevole adesione.

Yeats fu in realtà un viaggiatore onirico del nostro secolo. «Quanto a vivere, i nostri servi lo faranno per noi»

mardi, 28 octobre 2014

Présence de Thierry Maulnier

Présence de Thierry Maulnier

A propos d'une monographie par Georges Feltin-Tracol
 
par Christopher Gérard
Ex: http://www.salon-littéraire.com
 
 
r069.jpegItinéraire singulier que celui de Jacques Talagrand (1909-1988), mieux connu sous son pseudonyme de L’Action française, Thierry Maulnier. Normalien brillantissime, condisciple de Brasillach, de Bardèche et de Vailland, Maulnier fut l’un des penseurs les plus originaux de sa génération, celle des fameux non conformistes des années 30, avant de devenir l’un des grands critiques dramatiques de l’après-guerre, ainsi qu’un essayiste influent, un chroniqueur fort lu du Figaro, et un académicien assidu. Un sympathique essai tente aujourd’hui de sortir Maulnier d’un injuste purgatoire, moins complet bien sûr que la savante biographie qu’Etienne de Montety a publiée naguère, puisque l’auteur, Georges Feltin-Tracol, a surtout puisé à des sources de seconde main. Moins consensuel aussi, car ce dernier rappelle à juste titre le rôle métapolitique de Thierry Maulnier, actif dans la critique du communisme en un temps où cette idéologie liberticide crétinisait une large part de l’intelligentsia, mais aussi du libéralisme, parfait destructeur des héritages séculaires. Car Maulnier, en lecteur attentif des Classiques, savait que l’homme, dans la cité, doit demeurer la mesure de toutes choses sous peine de se voir avili et asservi comme il le fut sous Staline, comme il l’est dans notre bel aujourd’hui. Feltin-Tracol souligne par exemple le fait que, peu après mai 68, Maulnier s’impliqua aux côtés d’un jeune reître au crâne ras, qui avait tâté de la paille des cachots républicains, dans l’animation d’un Institut d’Etudes occidentales qui influença la toute jeune nouvelle droite. L’activiste en question s’appelait Dominique Venner, futur écrivain et directeur de la Nouvelle Revue d’Histoire…

Le digne académicien, le ponte du Figaro, n’avait pas oublié sa jeunesse d’orage, quand, exaltant Nietzsche et Racine dans deux essais mémorables, il critiquait les mythes socialistes ou nationalistes, et analysait cette crise de l’homme européen dont nous ne sommes pas sortis, en tout cas par le haut. Héritier de Maurras, mais de manière critique et sans servilité aucune (posture moins courante qu’on ne le croit chez les intellectuels français, si friands d’obédiences et de chapelles, si perinde ac cadaver ), Maulnier prôna dans des brûlots tels que L’Insurgé (dangereusement proche de la Cagoule, comme me le dit un jour le délicieux Pierre Monnier, salué comme il se doit dans la jolie préface de Philippe d’Hugues) ou Combat une révolte spirituelle (et agnostique), aristocratique (etlibertaire), conservatrice (et personnaliste), aux antipodes des mises au pas rouges ou brunes. Son credo peut se résumer par une phrase de son vieux maître provençal : « un ordre qui est une tendresse tutélaire pour la chair et l’âme des hommes et des choses, à qui il permet de naître, de grandir, et de continuer d’être ». En un mot comme en cent, la subversion classique, celle-là même qu’illustra l’écrivain Jacques Laurent.

782273.jpgPenseur lucide et inquiet, sensible au déclin d’une Europe fracturée, Maulnier ne cessa jamais de réfléchir au destin de notre civilisation, notamment en faisant l’éloge de Cette Grèce où nous sommes nés, qui « a donné un sens bimillénaire à l’avenir par la création d’une dialectique du sacré et de l’action, de l’intelligence héroïque et de la fatalité ». Ces simples mots, aussi bien choisis qu’agencés, montrent que Maulnier ne fut jamais chrétien, mais bien stoïcien à l’antique – ce qui le rapproche de la Jeune droite des années 60.  

Insulté par la gauche idéologique, calomnié par la droite fanatique, tenu pour suspect par les bien-pensants (un sportif qui lisait Nietzsche !), Maulnier fut un homme relativement isolé, qui n’adouba nul disciple. Voilà une raison de plus pour lire Maulnier, ses Vaches sacrées, sa lumineuse Introduction à la poésie française, qu’il composa avec son amie de cœur, la future Pauline Réage.

Christopher Gérard

Georges Feltin-Tracol, Thierry Maulnier. Un itinéraire singulier, Ed. Auda Isarn, octobre 2014, 106 p., 18€

> Voir aussi Etienne de Montéty, Thierry Maulnier, Julliard.

vendredi, 24 octobre 2014

In geübten Zügen: Jünger daheim

In geübten Zügen: Jünger daheim

von Till Röcke

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Ein Leckerbissen für die andere Seite. Die Aufzeichnungen von Wilhelm Rosenkranz sind sensationell belanglos – aber auch kurzweilig. Ernst-​Jünger-​Freunde aufgepasst!

Die von Thomas Baumert herausgegebenen Erinnerungen des Herrn Rosenkranz haben in der Reihe der „Bibliotope“ (Band 5) einen liebenswürdigen Rahmen der Publikation gefunden. Wer sonst, wenn nicht Tobias Wimbauer, ist überhaupt befugt, derartige Marginalien unters Volk zu streuen?

Herausgekommen ist demnach ein exklusives Büchlein mit wenigen, behutsam ausgewählten Fotografien. Sie zeigen nicht nur Ernst Jünger beim Käferfangen, sondern auch das „nüchterne Haus“ (E. J. über seine backsteinige Heimstatt) in Kirchhorst.

Daneben besteht das Bändchen aus Berichten einiger der wenigen Zusammenkünfte von Rosenkranz und Jünger. Ersterer lebte ganz in der Nähe und kam – so mancher kriegsbedingten Einwirkung zum Trotz – des Öfteren mit dem verehrten Dichter zusammen.rosenkranz juenger

Die im Ton der sympathischen, an keiner Stelle albernen Bewunderung gegenüber dem schreibenden Klausner getragenen Aufzeichnungen dürften die entsprechende Klientel angemessen bedienen. Jüngers Frau ist herzlich und stört nicht, die Natur um Kirchhorst herum geizt nicht mit Reizen und wer mit Jünger anbandelt, der fängt irgendwann das Träumen an. Es erwischt Wilhelm Rosenkranz auf dem Fahrrad.

Ein Leben lang im Bann

Im zweiten Teil finden sich einige Briefe von Rosenkranz an Jünger, leider fehlt der Jüngersche Part vollends. Wie dem auch sei, Wilhelm Rosenkranz zeigt sich dem Leser als ein vom Werk des bewunderten Dichters vollends in den Bann gezogener. Noch Jahre nach dem Krieg hängt er den Eindrücken an jene Kirchhorster Jahre nach, und als er schließlich 1975 stirbt, erinnert man sich sogar in Wilflingen noch an jenen „Leser namens Rosenkranz“.

Kaufempfehlung für die Anhänger Ernst Jüngers und für alle, die bei Klett Cotta nichts mehr finden.

Thomas Baumert (Hrsg.): Wilhelm Rosenkranz: Die andere Seite. Begegnungen mit Ernst Jünger in Kirchhorst. 110 Seiten, Eisenhut Verlag 2014. 12,90 Euro.

mercredi, 22 octobre 2014

Le livre-hexagramme de Jean Parvulesco

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Le livre-hexagramme

 

de Jean Parvulesco

 

par Alain Santacreu

Ex: http://www.contrelitterature.com

Deux livres de Jean Parvulesco (1929-2010), La Spirale prophétique et Le Retour des Grands Temps, constituent une figure d’ensemble qui, l’un et l’autre s’entrelaçant à travers le chasse-croisé d’une lecture appropriée, suggère l’image d’un hexagramme, symbole de leur structure tantrique cachée, mandala dissimulé de l’action de la lecture.

Est-ce à dire qu’il faille se livrer à une lecture parallèle de la Spirale et du Retour ? Il semble évident qu’il y a une voie de lecture qui aimanterait tout lecteur prédisposé, une sorte de marche rituélique salomonienne.

D’un livre à l’autre, on retrouve les mêmes thèmes, en des endroits souvent inversés. Par exemple, dans La Spirale prophétique, dès les premiers chapitres, en référence à l’œuvre de Denys Roman, la Franc-maçonnerie se voyait octroyer une mission de sauvegarde des héritages traditionnels à la fin du cycle. Dans Le Retour des Grands Temps, ce rôle conservateur d’Arche vivante des symboles se verra dévolu au « roman occidental de la Fin ». En effet, s’interroge Jean Parvulesco, « depuis l’heure des plus atroces, des plus obscènes déchéances spirituelles de la Franc-Maçonnerie, qui fut, pour nous, longtemps et si heureusement l’Ordre des Refuges, le grand occultisme n’est-il pas réduit, lui aussi, à son tour, à chercher asile, à se dissimuler, provisoirement, et désormais comme faute de mieux, derrière les œuvres finales, crépusculaires, d’une certaine littérature occidentale ?  » (p. 107).

Mais, ce rôle exchatologique promis à la Franc-Maçonnerie, conservatrice des héritages, ressurgira dans les derniers chapitres du Retour des Grands Temps, dans la même perspective intégralement traditionnelle, impériale, qui s’était découverte sous l’impulsion de Denys Roman.

C’est ainsi que dans le chapitre intitulé « La mission occulte de Julius Evola », il est fait allusion à une réémergence de la Roma Principia, archétype occidental de l’idée impériale : « À cette enseigne, dira Jean Parvulesco, l’Église, la Franc-Maçonnerie et le Judaïsme s’y trouvaient directement concernés dans leur double éidétique, intact, persistant virginalement dans l’invisible, et c’est la convergence, l’intégration et les épousailles abyssales de ces Trois Instances qui constitueront alors l’immaculée concepion du Nouvel Un, de l’Un final demandant à émerger une nouvelle foi à travers l’identité suprahistorique de la "Roma Ultima". » (p. 383).

C’est par le roman que s’établit la jonction entre La Spirale et Le Retour. Durant la dizaine d’années qui les séparent, l’auteur aura écrit ses quatre premiers romans  – qui sont autant de départs clandestins vers l’Inde[1]. Le roman est le liant des deux livres et, par les recensions, en constitue la matière première.

Le Retour des Grands temps, lu en miroir avec La Spirale prophétique, donne lieu à un livre-hexagramme, étrange essai d’alchimie spirituelle.

Dès le deuxième chapitre, l’analyse d’un livre de Graham Masterton, Walkers, nous révèle la métaphore récurrente du Retour. Un long passage est consacré aux voyages souterrains pratiqués sur les lignes dites "ley" par les anciens grands initiés celtes. Cette magie de la terre supposait, dans les temps pré-chrétiens, des lieux magiques reliés entre eux par un réseau de lignes situées à l’intérieur de la terre et que l’on pouvait suivre en marchant.

Métaphoriquement, le lecteur devra lui aussi parcourir ces lignes tracées par Jean Parvulesco sur les pistes du roman occidental de la fin. Romans ardents et passes mystérieuses, romans en tant que récits et récits en tant que romans, glissements ontologiques de l’être dans sa remontée sur la spirale prophétique, les romans sont des chemins initiatiques.

Très vite, il s’établit une sorte d’identité entre le lecteur de Parvulesco et Parvulesco en tant que lecteur d’une autre instance narratrice. La lecture devient ainsi acte transmutatoire donnant lieu au mystère d’une  identité agrégative.

Si le roman est l’expérience des limites, les romanciers de la grande littérature, telle que l’entend Parvulesco, appartiennent à cette confrérie des marcheurs du ciel dont le tracé transmigratoire est une via ignis de la romance. Les compagnons de route de Jean Parvulesco, dans Le Retour des Grands Temps, s’appellent Graham Masterton, John Dickson-Carr, Erle Cox, Bram Stoker, Guy Dupré, Patrick Ferré, Maurice Leblanc, Jean Robin, Raoul de Warren, Zacharias Werner, Olivier Germain-Thomas, Talbot Mundy, John Buchan, Donna Tartt. Tous d’une seule confrérie agissant à l’intérieur d’un seul Ordre – ainsi que le montre Herman Hesse dans son Voyage en Orient.

Ces pressentis de l’outre-monde forment une confrérie héroïque, agrégat d’existences engagées vers les chemins brûlants de l’Inde intérieure ; et, les translations romanesques auxquelles ils s’adonnent, annoncent uniment le Retour des Grands Temps.

Jean Parvulesco insiste sur la correspondance du roman de la fin avec l’ Œuvre au jaune des anciens alchimistes – la Xantosis grecque, le Citredo latin –, « manière de rêve éveillé, de réalisation passagère de ce qu’un jour, plus tard, nous en viendra éternellement » (p. 389).

Cet état de supraconscience onirique, de rêve abyssal, dans un chapitre de La Spirale, « G.I. Gurdjieff et la Fraternité des Polaires », Jean Parvulesco l’avait nommé « le quatrième rêve ».

Cette assimilation du roman de la fin à l’« Œuvre au jaune » induit le regard du lecteur vers une vision chromatique. Dans Le Retour, à partir du chapitre « En réentrouvant les portes de l’Inde », il semble que le livre se teinte en bleu, d’un bleu toujours plus intense, jusqu’à atteindre l’indigo le plus marial dans les derniers chapitres.

C'est à partir de la lecture de Talbot Mundy que le livre bleuit. De ce roman, Il était une porte, Parvulesco nous dit qu'il est un mandala, « une porte induite entre ce monde-ci et l'autre monde : c'est l'"écriture même de ce roman d'aventures qui nous conduit jusqu'aux pieds de la Captive aux Cheveux bleus, qui est, elle, en elle-même, le passage vers l'autre monde, et qui, dans un certain sens, n'est faite, elle-même, que de la seule écriture qui n'en finit plus, en ce roman, d'aller vers elle et de la rejoindre en la constituant. Un mandala qu'il s'agit de savoir réactiver par une lecture appropriée »(pp. 306-307).

Nous pouvons alors prévoir, qu'entre le jaune et le bleu, le vert doit surgir. Ce lieu du passage au vert devra être recherché dans la structure d'ensemble de l'hexagramme constitué par Le Retour et La Spirale ; c'est au milieu exact de cette figure cachée que pointe le vert.

Quelle orientation donner à l'hexagramme ? Quelle lecture appropriée adopter afin d'activer ce mandala ? Le triangle pointé vers le haut, est-ce celui du Retour ? et celui pointé vers le bas, est-ce celui de La Spirale ?  Heureusement, le centre commun aux deux triangles qui s'interpénètrent, leur cœur orientant, est explicitement désigné par Jean Parvulesco dans le chapitre du Retour intitulé « La mission occulte de Julius Evola » : « Ainsi ai-je eu à susciter, au cœur même – comme on vient de le voir – du présent écrit, l'inquiétant problème d'un livre de "témoignages et de révélations" abordant "tout ce qui sans trahir peut être dit" sur Julius Evola » (p. 395).

Il suffira par conséquent de retrouver le chapitre correspondant « au cœur même » de La Spirale pour découvrir la juste orientation de l'hexagramme.

Le lecteur zélé aura déjà compris que ce lieu ne peut être que le chapitre intitulé « La réapparition du Visage Vert » – car, entre le jaune et le bleu, verte est la teinture des marcheurs du ciel, verte est la faille du centre qui les aimante. Cette faille intérieure, stigmate du cœur incendié, passage secret de la structure d'ensemble, transforme le phénomène de la lecture qui devient acte alchimique. Lire, ainsi conçu, est une prise d'arme pour l'ultime combat.


Alain Santacreu

[1] La Servante portugaise, Les Mystères de la Villa Atlantis, L'Étoile de l'Empire invisible, Le gué des Louves.

(Une première version de ce texte est parue, en 1998, dans le n°3 de la revue "Avec Regard", pp. 100-101).

mardi, 21 octobre 2014

Singulier Maulnier!

 

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Singulier Maulnier !

par Bastien VALORGUES

 

Notre rédacteur en chef adulé, Georges Feltin-Tracol, est décidément très prolifique ces derniers temps. Plus de trois semaines après la sortie aux éditions Les Bouquins de Synthèse nationale, d’un essai très remarqué, En liberté surveillée, le voici qui récidive en publiant aux éditions Auda Isarn Thierry Maulnier. Un itinéraire singulier.

 

Dense et concis, cet ouvrage évite le superflu. Il raconte le parcours de l’académicien, dramaturge, journaliste, moraliste et homme d’idées Thierry Maulnier. La concision est voulue. Il importe de donner à découvrir au jeune public, victime des programmes de « délecture » de la « rééducation non-nationale », de grandes figures intellectuelles. Il On compte même un cahier photographique.

 

Depuis sa disparition en 1988, Thierry Maulnier se trouve au purgatoire des idées. Guère réédités, ses ouvrages sont maintenant difficiles à dénicher hors des bouquinistes. Grand connaisseur de l’histoire des idées politiques contemporaines, Georges Feltin-Tracol n’évoque que brièvement l’œuvre théâtrale de ce membre de l’Académie française élu en 1964. Le préfacier Philippe d’Hugues le regrette. Le livre aborde surtout des thèmes occultés ou ignorés par le journaliste Étienne de Montety, dont le premier titre fut en 1994 un Thierry Maulnier récemment réédité.

 

 

848628.jpgNé en 1909, Thierry Maulnier est le pseudonyme de Jacques Talagrand. Issu d’une famille de professeurs, piliers de la IIIe République, il reçoit paradoxalement une instruction d’autodidacte de la part d’un père méfiant envers le système scolaire. Le jeune Jacques ne découvre donc le lycée qu’à seize ans à Nice. Il y fait preuve d’une incroyable nonchalance, qui frôle la plus grande paresse, et d’une érudition stupéfiante. Séjournant très vite chez ses grands-parents maternels en région parisienne, le lycéen à la haute taille acquiert une réputation assumée de dilettante. Bachelier, il se plie néanmoins à l’injonction conjointe de ses parents divorcés et s’inscrit en classe préparatoire : il doit intégrer l’École nationale supérieure et décrocher une agrégation, passage obligé pour une carrière d’enseignant prometteuse.

 

Là, il y côtoie des condisciples appelés Maurice Bardèche ou Robert Brasillach, et s’y fait des amitiés durables. Espiègle et facétieux, le futur Maulnier s’enthousiasme pour le théâtre, la vie nocturne parisienne et la bibliothèque de la rue d’Ulm. Lecteur de la presse militante royaliste, il se lie à l’Action française et s’approche de Charles Maurras. Il commence bientôt à rédiger dans cette presse. Afin d’éviter les foudres administratives et parentales, Jacques Talagrand collabore à des périodiques engagés et adopte un pseudonyme.

 

Lecteur avide et grand adepte de l’effort physique sportif, Thierry Maulnier apparaît dans les années 1930 comme l’un des principaux meneurs de la Jeune Droite, cette tendance post-maurrassienne des non-conformistes de la décennie 30. Sans jamais rompre avec Maurras, Maulnier s’en émancipe et développe ses propres réflexions politiques et intellectuelles, quitte à encourir parfois les vives critiques du « Vieux Maître ». Il s’implique dans des revues plus ou moins éphémères (Rempart, La Revue du XXe siècle, Combat, L’Insurgé). Cet activisme éditorial, amplifié par la parution d’ouvrages majeurs tels que La Crise est dans l’homme (1932),  Mythes socialistes (1936) ou Au-delà du nationalisme (1937), se complète par un engagement furtif dans l’Action française et dans quelques ligues. Parallèlement, il collabore au Courrier royal du comte de Paris et commence une œuvre philosophique, littéraire et poétique avec Nietzsche (1933) et Racine (1935).

 

Thierry Maulnier. Un itinéraire singulier s’attarde sur sa vie privée. Avant d’épouser l’actrice Marcelle Tassencourt en 1944, il éprouve dans la seconde moitié des années 30 une puissante passion avec Dominique Aury alias Anne Desclos, future Pauline Réage de la fameuse Histoire d’O (1954). Jacques Talagrand paraît tirailler entre ces deux femmes quand bien sûr leurs liaisons sont consécutives. Dominique Aury et Marcelle Tassencourt forment une polarité féminine stimulante pour Thierry Maulnier. En effet, Dominique Aury attise les feux de la radicalité : tous deux se passionnent pour la poésie, la polémique et le roman. Vers 1939, Thierry Maulnier commence un roman qui restera inachevé. Marcelle Tassencourt recherche pour son futur époux la renommée : ils aiment le théâtre, en dirigent un à Versailles et s’éloignent des controverses. Même après sa rupture avec Dominique Aury, Thierry Maulnier balancera toujours entre le repli théâtral et l’investissement politique.

 

Ses tergiversations sont paroxystiques au cours de la Seconde Guerre mondiale. Réfugié dès 1940 à Lyon, Thierry Maulnier écrit dans L’Action française et, sous la signature de Jacques Darcy pour Le Figaro, des contributions militaires attentivement lues par les occupants, Londres, les résistants et les responsables de Vichy. S’il approuve l’orientation générale de la Révolution nationale, il conserve néanmoins des contacts avec certains résistants et se ménage plusieurs sorties. Cet attentisme ainsi que ce double (voire triple ou quadruple) jeu sont dénoncés par ses anciens amis de Je suis partout. Cette réserve lui permet à la Libération d’échapper aux affres de l’Épuration ! Mieux, de nouveau dans Le Figaro refondé, il prend la défense publique des « réprouvés » parmi lesquels Maurice Bardèche et Lucien Rebatet.

 

Certes, l’après-guerre le détache de l’action (méta)politique. Il se lance dans la mise en scène de pièces classiques ou de ses propres pièces. Thierry Maulnier tient l’éditorial au Figaro, accepte de nombreuses préfaces et peut s’engager plus politiquement.

 

Georges Feltin-Tracol s’appesantit sur la participation de Thierry Maulnier à l’Institut d’études occidentales cofondée avec Dominique Venner au lendemain de Mai 1968. Si l’I.E.O. s’arrête trois ans plus tard avec de maigres résultats, il ne s’en formalise pas et soutient bientôt bientôt la « Nouvelle Droite ». Il assistera au XIIe colloque du G.R.E.C.E. en 1977 et acceptera de siéger dans le comité de patronage de Nouvelle École. Conservateur euro-occidental favorable à l’Europe libre et fédérale, il fustige le communisme, le gauchisme culturel et la menace soviétique sans se faire d’illusions sur la protection américaine, ni sur une véritable révolution des rapports sociaux au sein des entreprises en promouvant une véritable cogestion des travailleurs dans leurs entreprises.

 

Le soir de sa vie le fait moraliste avec sa tétralogie, Les Vaches sacrées. Dommage que l’auteur ne s’y arrête pas assez ! Mais c’est peut-être une partie remise grâce à un travail à venir d’une biographie intellectuelle complète. Beaucoup de ses détracteurs se sont gaussés d’un trajet qui, commencé aux confins du maurrassisme et du non-conformisme, s’acheva au Figaro et à l’Académie française. Et pourtant, on se surprend d’y relever plus de cohérence dans cette vie qu’on ne le croît. Georges Feltin-Tracol le démontre avec brio !

 

Bastien Valorgues

 

• Georges Feltin-Tracol, Thierry Maulnier. Un itinéraire singulier, préface de Philippe d’Hugues, Auda Isarn, 112 p., 18 €, à commander à Auda Isarn, B.P. 90825, 31008 Toulouse C.E.D.E.X. 6, chèque à l’ordre de Auda Isarn, port gratuit !

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=3990

lundi, 20 octobre 2014

Quand Chardonne enjoignait à Morand de répondre à Céline

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Quand Chardonne enjoignait à Morand de répondre à Céline

 

par Marc Laudelout

 

Attendue depuis plusieurs décennies, le premier tome de la correspondance échangée entre Paul Morand et Jacques Chardonne  vient  enfin de paraître. Un pavé d’un millier de pages édité par Gallimard avec le concours du Centre National des Lettres.

 

Autant le dire d’emblée : cette correspondance fait l’unanimité. « Du grand art » (Le Nouvel Observateur), « Le meilleur de la prose française se déploie ici » (Le Point), « Un monument de talent » (L’Express), pour ne citer que ces hebdomadaires ¹. Certes,  les mauvais sentiments des épistoliers n’ont pas manqué d’être tancés. Ils se résument en quatre mots : anticommunisme, antisémitisme, antigaullisme et homophobie, comme on ne disait pas alors. Hormis le premier, ce sont péchés irrémissibles aujourd’hui. Imagine-t-on que dans un entretien radiophonique accordé à Pierre Lhoste (autre rescapé de l’épuration), Morand énumérait placidement les personnalités qui l’avaient le plus marqué : Giraudoux, Armand Charpentier, Philippe Berthelot et… Pierre Laval, « une espèce de gitan prodigieux qui m’a beaucoup influencé » [sic] ². Le croirez-vous ? Ces propos ne furent pas censurés par la radio française. Il est vrai que cela se passait en 1967, autant dire avant le déluge.

 

Chardonne et Morand avaient, comme on le sait, ce point commun d’être tous deux, après la guerre, au ban de la littérature française pour leurs prises de position collaborationnistes. Encore faut-il préciser que Chardonne deviendra, sur certains sujets, plus modéré que son cadet : « Vous parlez des juifs comme jadis Céline ; ils ont l’honneur d’être un mythe. Pour Céline, nous étions tous des juifs, sauf lui. Chez Céline, on excuse tout. Chez un homme aussi intelligent que vous, mystère. ». Et bien plus tard, Chardonne enverra l’un de ses livres, respectueusement dédicacé, au Général de Gaulle, président de la République. La réponse courtoise et flatteuse de ce dernier annihila toutes les réserves de celui qui fit (deux fois) le voyage à Weimar.

 

Heureusement, il y a le style. Celui de Morand surtout. « Rapide, enlevé, percutant, éblouissant » note à juste titre Pierre Assouline ³. Pour ceux qui s’intéressent à l’histoire littéraire des années cinquante, ce recueil est truffé de commentaires sur les talents prometteurs qu’étaient alors Michel  Déon Jacques Laurent, Antoine Blondin, Bernard Frank et bien entendu Roger Nimier dont il est beaucoup question ici tant les liens d’estime et d’amitié entre eux étaient forts. L’hebdomadaire Arts y tient aussi une grande place. Temps hélas révolu où régnait en France une presse littéraire qui ne réduisait pas les critiques à la portion congrue.

 

CHARDONNE_Jac.jpgGrâce à la campagne de presse orchestrée de main de maître par Nimier, c’est aussi, avec D’un château l’autre, le temps de la résurrection littéraire de Céline. Morand est désarçonné par les entretiens que Céline accorde à la presse, notamment à L’Express,  et qui lui valurent la vindicte de ceux qui, quelques années auparavant, le considéraient comme l’un des leurs : « Je comprends mal la position de Céline d’après ses diverses récentes déclarations : “Je suis un pauvre type qui s’est trompé et a perdu la partie” : “J’avais tout prévu”. La logique voudrait qu’il dise : “J’ai souffert pour avoir vu trop loin, mais tout se passe comme je l’ai dit.“ ». C’est que Morand avait une vision partielle des propos que tenait Céline aux journalistes. Ainsi n’avait-il pas connaissance de l’entretien accordé à Radio-Lausanne : « Je ne renie rien du tout… je ne change pas d’opinion du tout… je mets simplement un doute, mais il faudrait qu’on me prouve que je me suis trompé, et pas moi que j’ai raison. »  Problème : Céline lui ayant envoyé son livre dédicacé, Paul Morand s’interroge : « Que dois-je faire avec Céline ?   Si  je le remercie de son livre, j’ai l’air d’en approuver les réserves et déclarations de repentance ; si je n’écris pas, je fais figure de lâcheur.  Répondre sur la forme ? ».  Chardonne le conseille sans barguigner : « Céline n’est pas si renégat. Et puis c’est dans sa ligne d’être un peu renégat (a-t-il jamais pensé quelque chose qui se tienne ?). Il mérite une chaleureuse lettre de vous. Il a souffert. »  Morand se décide alors à écrire à Céline. Et recopie sa lettre à l’intention de Chardonne :

« Je vous ai lu, pendant ce début de vacances, avec une  émotion que vous imaginez mal. J’en étais resté aux Entretiens avec le professeur Y, qui m’avaient déchiré l’âme et l’oreille ; c’était le livre d’un fauve enragé, fou de douleur : bouleversant, illisible pour moi, un cri de mort imprécatoire. Et puis, aujourd’hui, la surprise, la joie de retrouver le talent d’il y a 20 ans, aussi jeune, aussi fort, enrichi de l’appauvrissement de l’homme. Je suis loin de partager vos idées sur Sigmaringen et autres, mais vous me répondriez : “Du haut de votre Sirius helvétique cela se voyait autrement ; comme vous me diriez, en juin 44, vous autres diplomates, vous faites toujours votre plein d’essence à temps, vous en souvient-il ?” Il faudra en reparler. J’ai mille questions, sans réponse jusqu’à présent, à vous poser. Sachez que je ne vous ai pas négligé. Ici, aux heures noires, vous faisiez partie de notre légende ; très près de vous, même pendant l’épreuve danoise. Le sinistre Charbonnière (le renégat de Vichy, ambassadeur à Copenhague),  ce  lapin à grisettes 4 que j’ai pratiqué en 1939 à Londres, et dont la tête Vélasquez (il n’a que cela du XVIIe) m’exaspérait déjà, nous faisait vomir. Jusqu’au jour où Marie Bell me donna enfin de meilleures nouvelles. Votre succès est prodigieux. Les jeunes vous vénèrent. Votre message est attendu, reçu, compris. La génération qui vient est comme les autres : elle déteste ses pères mais elle aime ses grands-pères dont nous sommes. Cela nous aidera à passer le pas. »

 

Cette lettre du 29 juillet 1957 nous était déjà connue par la biographie de François Gibault qui la cite en plusieurs extraits. Y compris la fin (que ne recopie pas Morand à l’intention de Chardonne) :

« Je reviendrai plus souvent en France à la fin de l’année. Un petit coin au haut de l’avenue Floquet (plus bas, que vous connûtes). J’aimerais vous y voir souvent. Yours, ever. »

Quelle fut la réaction de Céline ? « Il en a été très content et m’a longuement répondu », révèle Morand. S’il n’a pas été détruit, cette réponse dort encore dans les archives de feu l’académicien. Chardonne, lui, n’appréciait guère les romans de Céline tout en étant tout de même épaté par sa verve. Lorsque Madeleine Chapsal réunit en volume les entretiens qu’elle réalisa pour L’Express avec divers écrivains  (dont lui-même) 5, il note ceci : « Tout ce que je pense est ramassé là, malheureusement Céline me précède et m’écrase ; écrasant ce bagout sublime. ». « Bagout de génie » écrit-il même dans une autre lettre, même si, à tout prendre, il lui préfère Miller.

 

Comme on le voit, Céline n’est pas absent de cette foisonnante correspondance. Quant aux deux épistoliers, leur destin est bien différent : l’un occupe trois volumes de la Pléiade ; l’autre, pour reprendre la formule du préfacier, connaît un humiliant purgatoire. Céline, lui, n’aura connu ce purgatoire que durant quelques années de son vivant. Tel Morand qui, avec Barbusse et Ramuz, était l’un des rares écrivains contemporains que Céline estimait pour ce qu’ils avaient apporté de neuf.

 

Marc LAUDELOUT

 

Paul MORAND, Jacques CHARDONNE, Correspondance. Tome I : 1949-1960, Gallimard, coll. « Blanche », 2013, 1168 p., édition établie et annotée par Philippe Delpuech ; préface de Michel Déon (46,50 €).

 

Notes

1. Jérôme Garcin, « Les collabos écrivent aux collabos », Le Nouvel Observateur, 15 décembre 2013 ; Jérôme Dupuis, « Paul Morand et Jacques Chardonne, gentlemen flingueurs », L’Express, 1er décembre 2013 ; Sébastien Le Fol, « Chardonne et Morand : affreux, propres et méchants », Le Point, 21 novembre 2013. Le dossier de presse comprend de nombreux autres articles, dont l’article de Jean d’Ormesson, qui a bien connu Paul Morand (Le Figaro, 20 novembre 2013).

Extrait : « Dans une préface brillante et vive, Michel Déon marque bien une certaine opposition entre les deux hommes. L’un, Chardonne, s’installe sans trop bouger dans sa maison de La Frette sur les bords de la Seine ; l’autre, Morand, n’en finit jamais de courir à travers le monde en train, en avion ou au volant de sa Bugatti. (…) Sans doute expurgées de leurs passages les plus raides, le ton de ces pages dont on pouvait craindre le pire est moins agressif et moins provocateur que celles du fameux Journal inutile de Paul Morand, qui avait fait scandale il y a quelques années et qui avait déchaîné les réactions de la presse. (…) Ce qui les unit, c'est une constante intelligence et un vrai sens et un amour de la littérature. Le lecteur d’aujourd’hui n'a pas besoin de partager toutes les aberrations des deux correspondants ni leurs prévisions controuvées – “L’Europe sera cosaque…” – pour prendre plaisir à leurs lectures, à leur agilité intellectuelle et à leur style. On peut aimer des écrivains sans adopter leurs opinions. Ce que j’admire dans la correspondance Morand-Chardonne, ce ne sont pas les idées souvent inacceptables, c'est l’écriture. Assez vite, la supériorité littéraire de l’un des deux complices s’impose. Chardonne écrit bien, mais Morand lance des flammes et règne en majesté. Chardonne s’adresse d’ailleurs à Morand comme à un maître incontesté. Il écrit de lui-même : “Si l'on veut me définir d’un mot, je crois qu’il faut dire : un homme du climat modéré et du temps variable.” Les portraits, les jugements, les raccourcis pressés de Morand tombent comme des rafales de fusil-mitrailleur. Peut-être suis-je injuste envers Chardonne ? Je ne me suis jamais compté parmi ses fanatiques. “Vous aimez Chardonne ? ” me demandait François Mitterrand. “Pas tellement, lui répondais-je. Je préfère Aragon.” “Tiens ! me disait-il d’un ton rêveur, vous préférez Aragon…” François Mitterrand et Chardonne avaient en commun leur Charente natale et un fond de culture de droite – affiché chez Chardonne, camouflé chez Mitterrand. »

Cette correspondance est passée au crible de la critique le 19 janvier dans l’émission « Le Masque et la Plume » (France Inter). Elle a aussi été commentée, le 19 décembre, par François Angelier et Pascal Ory dans l’émission « La Grande Table [“Morand et Chardonne, la correspondance enfin publiée”] » (France Culture) et, le 14 janvier 2014, dans l’émission « Le Libre Journal des Enjeux actuels [“Rebatet, Morand, Chardonne ont-ils mis de l’eau dans leur vin après-guerre ?”] » (Radio Courtoisie). Ces émissions peuvent actuellement être écoutées sur les sites internet respectifs de ces stations.

2. Émission « Une heure avec... » de Pierre Lhoste, France Culture, 18 janvier 1967. Cet entretien est disponible sur les sites internet « youtube » ou « dailymotion ». Lhoste est connu des céliniens pour avoir réalisé en mars 1944 un entretien avec Céline pour le quotidien Paris-Midi (Cahiers Céline 7 [« Céline et l’actualité, 1933-1961 »], pp. 200-202).

3. Pierre Assouline, « Pour aller de Chardonne à Morand, prendre la correspondance », La République des livres, 23 décembre 2013 [http://larepubliquedeslivres.com]

4. François Gibault, qui se base sur la lettre originale de Morand à Céline, lit « lapin à guêtres ».

5. Madeleine Chapsal, Les écrivains en personne, Julliard, 1960.

vendredi, 17 octobre 2014

François Gibault, notable hors norme

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François Gibault, notable hors norme

par Marc Laudelout

 

Né, comme Céline, sous le signe des Gémeaux, François Gibault est, par définition, un être paradoxal : réfractaire aux idées convenues, il rêve de consécration académique et se targue d’être Commandeur de la Légion d’honneur. Alerte octogénaire, il met en pratique les préceptes du docteur Destouches : une saine hygiène de vie  gouvernée  par la condamnation absolue de l’alcool et du tabac. S’il partage avec lui l’amour des voyages et de la danse, il n’apprécie pas, en revanche, la compagnie des chats et des chiens « qui ne savent dire que miaou et wouah wouah ».

 

gibault-L-x.jpgSous le titre Libera me, il signe un livre testamentaire sous la forme d’un dictionnaire émaillé de remarques acides et spirituelles.  Il y passe en revue les personnages appréciés (ils sont légion) et détestés (une poignée), mais aussi les lieux et les choses immatérielles qui comptent pour lui (justice, liberté, tolérance, vérité, volupté,...).

 

La fin des années 70 vit la naissance du célinisme. Essentiellement dû à des universitaires de gauche, il permit la consécration, au sein des facultés de lettres, d’un écrivain réprouvé. Dans ce milieu partagé entre une vive admiration pour le styliste et une franche détestation de l’individu, Gibault, libéral assumé, se singularisa. Lors d’une émission télévisée consacrée à Sartre et Céline, ne fut-il pas le seul à rappeler les complaisances de l’auteur des Chemins de la liberté envers le communisme moscoutaire ?  Lequel  aboutit  au goulag,  asséna-t-il  face  à une sartrienne pithiatique. L’hommage rendu au cimetière de Meudon, le 1er juillet 2011, défrisa certains esprits obtus. De même que cette préface où il affirme que Céline n’a jamais voulu le massacre des juifs. Le président de la SEC n’en a cure. Ce bourgeois ordinaire a du caractère. D’un bout à l’autre de cet ouvrage plane la présence du contemporain capital. Éditeur de Rigodon, biographe de l’écrivain, conseil de Lucette et président de la Société d’Études céliniennes,  François Gibault est  tout sauf un inconnu pour les lecteurs du BC. On ne s’étonnera pas que l’univers célinien se retrouve dans de nombreuses entrées de ce dictionnaire. Celle consacrée à Lucette Destouches bien entendu (« l’intelligence du cœur, le refus de toutes les fatalités, de la bêtise et de la méchanceté »), mais aussi à Marie Bell (« amoureuse de Céline, amour qu’il ne lui a sans doute jamais rendu »), Arno Breker (et son « buste raté » de Céline, réalisé post mortem), Lucien Combelle (« qui jetait sur son passé un regard critique très rare chez les anciens collaborateurs »), Robert Debré (disant de Céline que « c’était un médecin qui avait le feu sacré »), Gen Paul (« rapin alcoolique, Iago, un peu Vidocq »), Guy de Girard de Charbonnières (qu’il vit « vêtu d’une pelisse ornée d’un col de fourrure à poil long »), Karen Marie Jensen (« intelligente et de bonne éducation »),  André Lwoff, deuxième président de la SEC (« un Nobel à notre tête, membre de l’Académie des sciences et de la Française, grand-croix de la Légion d’honneur, nous avions de quoi clouer quelques becs »), Lucien Rebatet (qui « éprouvait pour Céline une admiration teintée de jalousie »), etc. Le portrait de Jeanne Loviton est le plus pittoresque. Introduit dans sa bonbonnière de l’avenue Montaigne par un maître d’hôtel en livrée, Gibault observera que « Madame était de bonne humeur, convaincue de [l’] avoir roulé dans la farine, embobiné comme elle avait embobiné tant d’autres, mis dans sa poche, anesthésié. ».

 

Marc LAUDELOUT

 

François GIBAULT, Libera me, Gallimard, 2014, 421 p. (23,90 €). Voir aussi son livre précédent, Singe (Éditions Léo Scheer, 2011), autobiographie débridée, dont la presse a salué « la prose altière, émue et rigolarde à la fois » (J. Garcin) et « une leçon de littérature dont l’auteur maîtrise tous les registres » (É. Naulleau).

 

 

 

 

jeudi, 16 octobre 2014

Ezra Pound on Endless Trial

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Ezra Pound on Endless Trial

By Alex Fontana casillo

Ex: http://www.counter-currents.com

Robert Casillo
The Genealogy of Demons: Anti-Semitism, Fascism, and the Myths of Ezra Pound [2]
Evanston, Ill: Northwestern University Press, 1988.

Robert Casillo’s The Genealogy of Demons is unique in Pound studies because the explicit purpose of it is to give critical insight into Pound’s anti-Semitism, and it accomplishes this by way of multiple techniques, which it must employ, because Pound’s anti-Semitism is prismatic. A great many games are played herein to discredit Pound’s views on the Jews, although this is sophistic liberal revisionism and intellectual masturbation at a very high level. For example: “One might view Pound’s anti-Semitism as in part a revolt against the punitive parental rival and superego, a conflict between the religion of the forbidding father Jehovah and that of the messianic son” (Casillo, p. 287).

Casillo often relies on Freudian psycho-babble. Advanced Frankfurt School techniques are not the limit of his probing deconstruction, but they are the preferred method. Nevertheless one can learn much from Casillo’s efforts — specifically his work on detailing the thought of French fellow travelers Charles Maurras and Maurice Bardèche. The earlier chapters are especially rewarding as they are the prologue to the trial, thus they are concerned with establishing the relevant background information, the intellectual anti-Semitic precedents and proto-fascistic streams of thought that foreshadowed and shaped Pound’s thinking. The later chapters then seek to wrap the a priori guilty verdict — of Pound’s insistent ‘demonological’ anti-Semitism — in a nice bow.

As a Ph.D. in literature, you might expect Casillo to shy away from social-historical analysis of the validity of anti-Semitism and instead rely upon highly creative abstract devices to explain away this “irrational phenomenon” — and you would be right. For that is exactly the type of analysis that Casillo employs. Never does Casillo ask it it is possible that Pound blamed usury first and those who monopolized the mechanism secondly, or if, by way of studying the Social Credit economic system of Major C. H. Douglas, Pound was led to what Jonathan Bowden delightfully called the opposite of philo-Semitism. For Casillo, as for those who refuse to awaken to the reality of Jewish subversion and usury, there is a missing link.

By way of illustration, take a brief snapshot of the current situation in Argentina, which I plan on detailing in a forthcoming essay for Counter-Currents. While Argentina defaulted on $81 billion in 2001, as a result of President Menem’s neoliberal (laissez-faire) reforms, which allowed for the IMF and World Bank to secure short-term investments with the accompanying liberalizing policies of privatizing state enterprises, and constriction of government monetary policy. All this really means is that by breaking down the autarky of the nationalist-socialist strain of Argentina — most fully expressed in Peronism — the IMF and the World Bank enabled the country to slide $155 billion dollars in debt through securing short-term loans which artificially inflated the value of the Peso and simultaneously disabled government control on how the loans could be withdrawn. Essentially, foreign investors poured their money into Argentina only to pull the rug out when the dividends reached a certain level of profitability. This left bonds on the market at heavily discounted prices, which the vulture capitalists (economic terrorists) then acquired.

When we observe the facts, that the debt holders came forward to claim their pound of prime triple A Argentinian flesh, it was none other than the usual suspects: Paul Elliott Singer, a real New York Jew and CEO of Elliott Management Corp, who is described by Argentinian President Cristina Fernandez as a “vulture capitalist” and whose “principal investment strategy is buying distressed debt cheaply and selling it at a profit or suing for full payment,”[1] and another tribesman Mark Brodsky of Aureilus Capital. Fellow tribesman George Soros has emerged as another of the bond buyers who is suing BNY Mellon for withholding funds from the initial settlement with Argentina. Of course calling the whole thing a criminal enterprise, which will negatively impact millions of Argentinians for generations and enrich a few investors like Soros and Singer, is beyond the pale. But not to worry, because the tribe has one of their own inside: Axel Kicillof, the economic minister of Argentina, overseeing the whole transaction of a nation’s wealth into the pockets of some Jewish hedge fund types. It is hard to avoid conclusion that the facts are anti-Semitic.

Unsurprisingly, israelnationalnews.com is quick to join a growing cacophony blaming the victim, Argentina, for the country’s woes.[2] This is not unlike the NSDAP’s post-WWI claim that Germany was stabbed in the back by Jewish financiers, who sought to gain economic leverage over the nation by plundering it into debt and destabilizing the Second Reich. But the Jewish-Bolshevik conspiracy is, according to the Frankfurt School analysis, the result of projection and scapegoating by the German people because of their loss in the war. Never mind that Bavaria fell to the Reds in 1919, first under a Jewish socialist in Kurt Eisner then into a bloody regime of Bolsheviks under the Jew Eugen Levine, with fellow tribesmen Ernst Toller and Gustav Landaver filling out the vanguard, murdering Countess Heila von Westarp [3] and Prince Gustav of Thurn and Taxis [4], among others. The strategy detailed in the Protocols of the Elders of Zion, which many commentators have suggested that despite being a “forgery” conforms to reality. But then the facts are anti-Semitic!

Now the Casillo types would point to these assertions of a Jewish strategy of domination as fanatical delusions, processes of psychological projection and scapegoating for failed artistic types (Pound and a certain Austrian corporal come to mind). Liberals (I use the term broadly) like to play the individualist card and don’t employ notions of groups or peoples or essences (stereotypes), which to them seems a highly barbaric and unenlightened form of thinking. Singer, Brodsky, and Soros are individuals who conform to negative stereotypes and not representatives of the Jewish people as a whole — while the Jews refuse to hold their own to the fire. Pound, however, understood the distinction between the “big Kikes” and the “little Yids” but still managed to see the forest as well as the trees.

Individualism vs. collectivism is the great divide between the Semitic Freud and the European Jung. Jung was able to image a collective unconscious that is a social-historical aspect of the psyche, while Freud could only imagine the isolated individual struggling with his neurosis. Jung was social, while Freud was anti-social. Pound sides with Jung, who, like Pound, would likely look upon individual Jewish usurers — Rothschilds, Soros, Kuhn, Warburgs, Sachs, etc. — and see not only individuals but archetypes or mythologized symbols of Jewish subversion of Western civilization as it has morphed into different forms through the centuries. The essence is the constant, or as Jung would write: “Because the behavior of a race takes on its specific character from its underlying images, we can speak of an archetype.”[3]

But Pound was not an individualist thinker. He did not see himself or others as isolated individuals concerned only with their own morality and conscience. Pound was a European thinker, whose thought worked in the poetic language of myth and tradition: “The Pound-Eliot ‘revolution’ was a return to the past in order to renew the links connecting past and present.”[4] Pound was a holistic thinker who entertained a certain amount of essentialism. He concerned himself with European civilization as a living, breathing entity entirely connected to the smallest of its parts, and thus objected to forces undermining its coherence. Thus, his identification of the Jews as bacillus and related imagery is a “natural” thought within the processes of racial and cultural consciousness. Correspondingly, Pound followed “Douglas’s idea that the basis of credit is social and not private.”[5]

The trick of the liberal education/indoctrination establishment today is to isolate the individual from these modes of thinking, to atomize him as a neurotic member of a diffused society – to put him on Freud’s chaise-lounge (or in a psychiatric ward in St. Elizabeths mental hospital) while the Schiffs, Warburgs, Soros, et al. plunder the public purse. Pound sought to bring the diffusion and subsequent confusion together under a fascism which Europe would be reborn (experience a renaissance) under a more unified and pagan directive.

Casillo classifies Pound’s anti-Semitism as a result of personal “pressures” and as a “poetic strategy.” This discards all of Pound’s factual, historical, social, cultural, and spiritual reasons. Pound’s anti-Semitism is thus divorced from any real manifestation of Jewish misconduct and instead grafted onto Pound’s deficient personality complex. Pound is engaged in projecting his own short-coming onto the Jews.

Pound’s anti-Semitism was multifaceted and not just limited to economic exploitation. Pound was a man of the West. He felt not just an identity with the West but a moral responsibility for its preservation. This is “totalitarianism” as viewed by a Confucian: “having a sense of responsibility” and “thinking of the whole social order” and “creating a balanced system” (Casillo, p. 128). He saw our civilization through a fascist lens as “a supra individual spiritual entity capable of infusing with heroism and purpose the lives of those who fight for it.”[6] It is essential to understand these traditional holistic foundations of Pound’s anti-Semitism.

As a general rule, whenever Casillo presents us with a “paradox” of Pound’s or fascist thinking it only appears paradoxical upon willful under-examination of their underlying principles. The Genealogy of Demons represents the most “rigorous” — i.e., niggling — attempt to deconstruct Ezra Pound’s fact-based political philosophy into “thoroughly arbitrary construct” and a psychological malfunction. But it has to be. Because the facts are anti-Semitic.

Notes

1. Michael Sheehan, “Vulture funds – the key players,” [5] The Guardian [6] (London).

2. Gil Ronen, “Argentina’s President Sees Jewish Conspiracy?”http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/185676 [7].

3. http://www.american-buddha.com/nazi.wotancarljung.htm [8]

4. Stock, Poet in Exile, p. 30. Quoted in Kerry Bolton’s Artists of the Right: Resisting Decadence (San Francisco: Counter-Currents Pub, 2012), p. 98.

5. Tim Redman, Ezra Pound and Italian Fascism (Cambridge: Cambridge University Press, 2009), p. 69.

6. Roger Griffin, Fascism (Oxford: Oxford University Press, 1995), p. 43.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2014/10/casillo.jpg

[2] The Genealogy of Demons: Anti-Semitism, Fascism, and the Myths of Ezra Pound: http://www.amazon.com/gp/product/0810107104/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=0810107104&linkCode=as2&tag=countecurrenp-20&linkId=NNXI2W5SHHID6ATP

[3] Heila von Westarp: http://en.wikipedia.org/w/index.php?title=Heila_von_Westarp&action=edit&redlink=1

[4] Prince Gustav of Thurn and Taxis: http://en.wikipedia.org/wiki/Prince_Gustav_of_Thurn_and_Taxis

[5] “Vulture funds – the key players,”: http://www.guardian.co.uk/global-development/2011/nov/15/vulture-funds-key-players?intcmp=122

[6] The Guardian: http://en.wikipedia.org/wiki/The_Guardian

[7] http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/185676: http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/185676

[8] http://www.american-buddha.com/nazi.wotancarljung.htm: http://www.american-buddha.com/nazi.wotancarljung.htm

Célébration des maudits

Célébration des maudits

 

 

Le trimestriel de la droite radicale, Réfléchir & agir, se présente comme une « revue autonome de désintoxication idéologique ». Pas moins. Cette publication militante offre à ses abonnés un « hors-série », bouquet d’hommages à une quinzaine d’écrivains ayant comme point commun d’avoir pris des risques conséquents pour leurs idées. Drieu La Rochelle, Brasillach, Saint-Loup, Bardèche, Venner, Evola, Rebatet et… Céline. Heureuse surprise : l’hommage rendu à celui-ci est signé par le professeur Jean Bastier, auteur du Cuirassier blessé (1999) que tout célinien se doit d’avoir dans sa bibliothèque. En consultant au Service historique de l’Armée de Terre  le Journal [manuscrit] des marches et opérations du 12e Cuirassiers, on se souvient que Jean Bastier avait reconstitué avec précision la guerre de Louis Destouches et l’avait comparé avec ce qu’il en dit dans Voyage au bout de la nuit. Somme malheureusement épuisée qu’il conviendrait de rééditer à l’occasion du centenaire, d’autant que c’est précisément en 1914 que Céline fut grièvement blessé.

Intitulé « Le rire de Céline », cet hommage célèbre la vis comica de l’écrivain. Texte d’autant plus attachant qu’il est très personnel : « Avec mon père, nous nous récitions de mémoire des paragraphes, et c’étaient de grands rires qui ponctuaient nos phrases  de  Céline.  Ma mère  survenait  pour  clamer  son  indignation : “ Comment ! Rire en citant du Céline ! Cet écrivain grossier, absolument illisible, qui parle dans ses livres de la merde et du vomi ! ” Cette indignation nous faisait redoubler de rire, et d’évoquer la chasse d’eau bouchée au château de Sigmaringen. ». Il ajoute : « J’étais devenu un célinien inconditionnel, un dévot, et je faisais du prosélytisme. L’on m’avait pourtant mis en garde : si j’avais l’ambition de devenir professeur des facultés de Droit, je devais plutôt me comporter en bien pensant et éviter de dire que je lisais Céline et Drieu La Rochelle, Ernst Jünger et autres auteurs maudits par la société française. »  Ayant vécu son enfance en Algérie auprès de familles juives traditionalistes, Jean Bastier confie, en revanche, n’avoir jamais compris l’antisémitisme de Céline tout en estimant qu’il ressemble à celui de Jouhandeau, ce qui peut paraître curieux car celui-ci s’apparente plutôt à l’antisémitisme d’État de l’Action Française dont l’auteur de Chaminadour était alors proche. Se référant à une réédition anastatique (et posthume) du Péril juif, Bastier ne précise pas que ce recueil parut en fait la même année que Bagatelles.  Ses digressions  sur  l’onomastique célinienne sont davantage pertinentes. Ainsi que celles sur l’argot et l’oralité. On estimera, en revanche, superfétatoires ses observations moralisantes sur la personnalité de Céline, d’autant qu’elles se fondent parfois sur des interprétations abusives ou erronées.  Il arrive qu’une morale confessionnelle fausse le jugement. Par ailleurs, s’il s’était moins fié à ses souvenirs de lecture, notre ami Bastier n’aurait pas confondu Yves et Yvon Morandat, Serge et Gilles Perrault, ou, ce qui est plus fâcheux, Doriot et Degrelle (à propos d’un discours prononcé à Sigmaringen). Vétilles. Son témoignage est précieux car il met l’accent, on l’a dit, sur le rire célinien, « au centre de la personnalité de Céline comme un noyau incandescent ».

 

Marc LAUDELOUT

 

Réfléchir & Agir, hors-série n° 1, 2014, 74 p. (textes de Éric Delcroix, Daniel Leskens, Philippe d’Hugues, Pierre Gillieth, Jean Bastier, Bruno Favrit, Georges Feltin-Tracol, Patrick Canet, Eugène Krampon, Pierre Vial). Ce numéro n’est pas vendu séparément. Il est offert aux abonnés. Abonnement simple : 26 € ; abonnement de soutien : plus de 35 € ; abonnement étranger : 40 €). Chèque à adresser à CREA, B.P. 80432, 31004 Toulouse Cedex 6.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Anarquismo de Derecha

Anarquismo de Derecha

Karlheinz Weißman 

Ex: http://www.counter-currents.com

English version here [2]

Traducido por Francisco Albanese

celine_s.jpgEl concepto de anarquismo derechista parece paradójico, de hecho, oximorónico, partiendo desde la suposición de que todos los puntos de vista políticos “derechistas” incluyen una evaluación particularmente alta del principio de orden… En efecto, el anarquismo de derecha ocurre sólo en circunstancias excepcionales, cuando la hasta ahora velada afinidad entre el anarquismo y el conservadurismo puede hacerse aparente. 

Ernst Jünger ha caracterizado esta peculiar conexión en su libro Der Weltstaat (1960):

Der Anarchist in seiner reinen Form ist derjenige, dessen Erinnerung am weitesten zurückreicht: in vorgeschichtliche, ja vormythische Zeiten, und der glaubt, daß der Mensch damals seine eigentliche Bestimmung erfüllt habe. (…)

In diesem Sinne ist der Anarchist der Urkonservative, der Radikale, der Heil und Unheil der Gesellschaft an der Wurzel sucht.

El anarquista en su forma pura es aquél, cuya memoria se remonta más en el pasado: a lo prehistórico, incluso a lo mítico, y que cree que el hombre cumplió en ese momento con su verdadero propósito. (…)

En este sentido, el anarquista es el ur-conservador, el radical, que busca la salud y la enfermedad de la sociedad en sus raíces.

Jünger más tarde llamó “Anarca” a este tipo de anarquista “conservador” o “prusiano, y refirió su propia “désinvolture” como de acuerdo con la misma: un retraimiento extremo, el cuál se nutre y se arriesga en las situaciones límites, pero sólo permanece en una relación observacional con el mundo, ya que todas la instancias del orden verdadero se disuelven y una “construcción orgánica” no es aún, o no será jamás, posible.

Aunque el mismo Jünger fue influenciado inmediatamente por la lectura de Max Stirner, la afinidad de tales pensamientos complejo con el dandismo es particularmente clara. En el dandy, la cultura de la decadencia a finales del siglo XIX personificada, que por un lado era nihilista y ennuyé, por el otro ofrecía el culto de lo heroico y el  vitalismo como alternativa a los ideales progresistas.

index.jpegEl rechazo de las jerarquías éticas actuales, la preparación para ser “no apto, en el sentido más profundo de la palabra, para vivir” (Flaubert), revelan puntos comunes de referencia del dandy con el anarquismo; su estudiada frialdad emocional, su orgullo y su aprecio por la sastrería fina y los modales, así como la pretensión de constituir “un nuevo tipo de aristocracia” (Charles Baudelaire), representan la proximidad del dandy a la derecha política. A esto se suma la tendencia de los dandies políticamente inclinados a declarar simpatía a la Revolución Conservadora o a sus precursores, como por ejemplo Maurice Barrès en Francia, Gabriele d’Annunzio en Italia, Stefan George o Arthur Möller van den Bruck en Alemania. El autor japonés Yukio Mishima pertenece a los seguidores tardíos de esta tendencia.

Además de esta tradición de anarquismo de derecha, ha existido otra tendencia, más antigua y en gran medida independiente, conectada con circunstancias específicamente francesas. Aquí, al final del siglo XVIII, en las etapas posteriores del ancien régime, se formó un anarchisme de droite, cuyos protagonistas reclamaron para sí una posición “más allá del bien y del mal,” una voluntad de vivir “como a los dioses”, y que no reconocieron valores morales más allá del honor personal y el coraje. La cosmovisión de estos libertinos se hallaba íntimamente unida con un ateísmo agresivo y una filosofía pesimista de la historia. Hombres como Brantôme, Montluc, Béroalde de Verville, y Vauquelin de La Fresnaye sostuvieron al absolutismo para ser una materia prima que lamentablemente se opuso a los principios del antiguo sistema feudal, y que sólo sirvió a deseo de bienestar económico de la gente. Actitudes, que en el siglo XIX volvieron a encontrarse con Arthur de Gobineau y Léon Bloy y también en el siglo XX con Georges Bernanos, Henry de Montherlant y Louis-Ferdinand Céline. Esta posición también apareció en una versión específicamente “tradicionalista” con Julius Evola, cuyo pensamiento giraba en torno al “individuo absoluto”.

En cualquier forma en que el anarquismo de derecha aparezca, siempre es conducido por un sentimiento de decadencia, por el desprecio a la era de las masas y por el conformismo intelectual. La relación con la política no es uniforme; sin embargo, no pocas veces el retraimiento se torna en activismo. Cualquier unidad más allá está ya negada por el individualismo altamente deseado de los anarquistas de derecha. Nota bene, el término es a veces adoptado por hombres –por ejemplo, George Orwell (anarquista Tory) o Philippe Ariès– que no exhiben signos relevantes de una ideología anarquista de derecha; mientras que otros, que exhiben objetivamente estos criterios –por ejemplo, Nicolás Gómez Dávila o Günter Maschke– no hacen uso del concepto.

Bibliography

Gruenter, Rainer. “Formen des Dandysmus: Eine problemgeschichtliche Studie über Ernst Jünger.” Euphorion 46 (1952) 3, pp. 170-201.
Kaltenbrunner, Gerd-Klaus, ed. Antichristliche Konservative: Religionskritik von rechts. Freiburg: Herder, 1982.
Kunnas, Tarmo. “Literatur und Faschismus.” Criticón 3 (1972) 14, pp. 269-74.
Mann, Otto. “Dandysmus als konservative Lebensform.” In Gerd-Klaus Kaltenbrunner, ed., Konservatismus international, Stuttgart, 1973, pp. 156-70.
Mohler, Armin. “Autorenporträt in memoriam: Henry de Montherlant und Lucien Rebatet.”Criticón 3 (1972) 14, pp. 240-42.
Richard, François. L’anarchisme de droite dans la littérature contemporaine. Paris: PUF, 1988.
______. Les anarchistes de droite. Paris: Presses universitaires de France, 1997.
Schwarz, Hans Peter. Der konservative Anarchist: Politik und Zeitkritik Ernst Jüngers. Freiburg im Breisgan, 1962.
Sydow, Eckart von. Die Kultur der Dekadenz. Dresden, 1921.

 


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samedi, 11 octobre 2014

Ernst Jünger – verdichtet

Ernst Jünger – verdichtet

von Benjamin Jahn Zschocke

Ex: http://www.blauenarzisse.de  

Ernst Jünger – verdichtet

Der Literaturwissenschaftler Matthias Schöning hat zusammen mit zahlreichen Jünger-​Kennern ein ambitioniertes Handbuch zum Gesamtwerk des Meisters herausgegeben, von A wie „Arbeiter“ bis Z wie „Zwille“.

Zunächst zu den Daten: 56 Autoren, darunter zehn Frauen, stellen auf rund 450 Seiten Exposés zu allen Werken Ernst Jüngers (18951998) zusammen. Unter den Autoren finden sich Namen wie Ulrich Fröschle, Helmuth Kiesel, Steffen Martus und Ingo Stöckmann, die typischerweise für eine literaturwissenschaftliche und eben keine vordergründig politisch-​moralische Auseinandersetzung mit dem Werk Ernst Jüngers bekannt sind.

Jünger in der BRD

Auf den Herausgeber Matthias Schöning sei ein kurzes Schlaglicht geworfen: Sein Themenspektrum reicht von Aufsätzen über die Literatur in der Romantik, im Ersten Weltkrieg, in der Weimarer Republik bis hin zur DDR, aber auch zu Betrachtungen herausgehobener Autoren wie Louis-​Ferdinand Céline, Gottfried Benn und Thomas Mann.

Seine umfangreichste Arbeit leistete Schöning aber bislang zu Ernst Jünger. Bereits 2001 gab er zusammen mit Ingo Stöckmann das Werk Ernst Jünger und die Bundesrepublik: Ästhetik, Politik, Zeitgeschichte heraus und versuchte so, den zumeist einseitigen Schriften zu Jüngers politischen Werken vor 1945 ein juenger brdernstzunehmendes Gegengewicht entgegenzustellen, nicht zuletzt in der unübersehbaren Hoffnung, den Fokus der fortwährenden Debatte um Jünger auf einen bislang stiefmütterlich behandelten Schaffensabschnitt des Autors zu lenken.

Jüngers fortwährende Metamorphosen

Zwei Verwerfungslinien im Werk Jüngers werden bei der Lektüre des Handbuches offengelegt: Einerseits sein zeitlebens betriebenes Umdichten, Umdeuten und Relativieren seiner politisch gefärbten Frühwerke, das ihm von seinem Sekretär Armin Mohler kompromißlos und unnachgiebig vorgeworfen wurde und letztlich zum Bruch zwischen den Denkern führte.

Andererseits, und das ist deutlich interessanter, die Veränderungen in Jüngers Werk nach 1945. Hier sind Schöning und Stöckmann wieder in ihrem Element, denn dort beginnt die „Debatte“ um Jünger. Für beide liegt der Gedanke nahe, daß die Debatte vor allem als Symbolbildungsort für die Prozesse sozialer Integration diente und heute noch dient. Anhand der Person Jünger wird diskutiert, was man sagen darf und was nicht, was und wie erinnert werden soll, wem man die Frage nach der „deutschen Schuld“ stellt und welche Aufgabe der Intellektuelle in der BRD haben soll.

Zäsur 1945

Die Zeitenwende nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges ist auch in Ernst Jüngers Werken überdeutlich abzulesen. Diese Zäsur besteht jedoch nicht darin, daß er auf einmal vom Tagebuch oder Essay zum erzählenden Text findet. Das hat er schon 1939 mit den Marmorklippen getan.

In den zwanziger und dreißiger Jahren stehen Jüngers Texte in einem unmittelbar zeitdiagnostischen Zusammenhang. Der Autor ist in alle wesentlichen Ereignisse dieser Zeit denkend involviert. Mit dem Ende des Krieges ändert sich das: Jünger geht zum Zeitgeschehen und zu den Hauptdiskursen der BRD auf Distanz.

Das äußert sich darin, daß er zu keinem der Gründungsmythen, die für die BRD etabliert wurden, einen Beitrag leistete. Er bedient sich weder der Auffassung der „Stunde Null“, noch jener der „Restauration“. Er blieb bis ans Ende seines Lebens auf elitärstem Niveau außen vor.

Dem heutigen Leser, dem diese Debatten vielleicht nicht einmal mehr dem Namen nach bekannt sind, ist mit dem Handbuch ein grundsolides Werk in die Hand gegeben, das zum ersten Entdecken ebenso einlädt wie zum Vertiefen der Erkenntnisse des Fortgeschrittenen.

Matthias Schöning (Hrsg.): Ernst Jünger-​Handbuch. Leben – Werk – Wirkung. 439 Seiten, J. B. Metzler Verlag 2014. 69,95 Euro.

jeudi, 09 octobre 2014

Montmédy: Orages d'acier

montmedy_article.jpg

Insérer une imageMONTMEDY & MARVILLE & plus... :
Orages d'acier - commémoration théatrale 14-18
 
  FRANCE Début : Samedi 11 Octobre 2014, 16:00
Fin : Dimanche 12 Octobre 2014, 16:00

 

L'association Transversales vous donne rendez-vous le samedi 11 octobre à 16h00 à la citadelle de Montmédy, ainsi que le dimanche 12 octobre à 16h00 dans les caves de Marville. Vous assisterez alors à un témoignage des plus saisissants de la 1ère guerre mondiale:
TRANSVERSALES propose de faire entendre les mots d'Ernst Jünger dans des lieux réels de la Première Guerre mondiale, afin que la langue de Jünger y rencontre l’épaisseur de ces pierres.


Ernst Jünger, soldat allemand, se retrouve après quelques semaines de formation dans le chaos et la folie de cette guerre si meurtrière. Pour garder conscience, il écrit un journal.
Il y décrit jour après jour le quotidien du soldat mais également la violence et l’absurdité des tranchées. Il reprendra ce journal après l’armistice. Il regroupera ces notes afin de les synthétiser et surtout afin d’en faire littérature, d’en faire « de l’art ». Seul l’Art peut faire comprendre et ressentir l’expérience des tranchées…

Un siècle après le début de cette guerre, nous nous proposons de faire entendre les mots de Jünger. Dans des caves, des forts, des lieux réels de la première guerre mondiale. Afin que la langue de Jünger y rencontre l’épaisseur de ces pierres.
Office de tourisme transfrontalier du Pays de Montmédy
Citadelle - Ville haute / 2, rue de l'hôtel de ville
F-55600 MONTMÉDY
Tél. +33 (0)3 29 80 19 52
/Lucienne0210

 

dimanche, 05 octobre 2014

Livr'Arbitres: Kleber Haedens

Ernst Jünger, contemplatore in uniforme e maestro di libertà

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Ernst Jünger, contemplatore in uniforme e maestro di libertà

Ernst Jünger fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d'intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale».
 

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di san Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali. Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito. L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti. E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin). La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte. Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Non condividiamo il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico. Ernst Jünger fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». «Le isole – insegna – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.

vendredi, 03 octobre 2014

Gog, Papini e il libro nero della modernità

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Gog, Papini e il libro nero della modernità

A vent’anni di distanza dal romanzo precedente Gog torna ad essere il protagonista di questo nuovo romanzo di Giovanni Papini intitolato “Il libro nero”.

di Valerio Alberto Menga

Ex: http://www.lintelletualedissidente.it

Gog, peregrino del mondo malato di nervi sparito nel nulla, dopo aver letto in edizione inglese il precedente racconto in cui il suo nome diede il titolo all’opera, fa recapitare un nuovo manoscritto a Papini che, per la seconda volta, decide di pubblicare. Ora, dopo la pubblicazione del precedente libro (“Gog” è del 1931, un anno prima del “Viaggio al termine della notte” di Céline) fa seguito questo romanzo alla quale Papini ha voluto dare il titolo de “Il libro nero. Nuovo diario di Gog” perché, come egli stesso afferma nell’avvertenza introduttiva, “i fogli di questo nuovo diario appartengono quasi tutti a una delle più nere età della storia umana, cioè degli anni dell’ultima guerra e del dopoguerra”.

In questo nuovo diario, oltre a nuovi incontri eccellenti – una sorta di “interviste impossibili” che Papini, attraverso la maschera di Gog, finge di aver fatto ad alcuni degli uomini più influenti della cultura, dell’arte, della scienza e della politica del tempo – con uomini del calibro di Dali, Picasso, Molotov, Hitler, Marconi, Huxley e Paul Valery, vi è anche una carrellata di una serie di (immaginari) manoscritti inediti e autografi, raccolti con zelante mania da Gog, di alcuni grandi della letteratura come Walt Whitman, Cervantes, Victor Hugo, Stendhal, Kafka, Tolstoj, Goethe e William Blake. In questo nuovo diario di Gog, migliore addirittura del primo, l’impressione che si era avuta dell’immaginario protagonista del romanzo che incarna il malato uomo moderno – quasi un demone si era detto in precedenza– muta radicalmente, quasi smentendola, con la lettura di questo nuovo lavoro.

papinigog.jpgPapini ci mostra un Gog sempre più mosso da umana pietà, che addirittura si commuove e si spaventa, mentre l’umanità pare sempre più demoniaca e priva di senno. Se nel primo romanzo Gog pareva schernire l’umanità, ora pare invece averne pena. Sempre schivo, diffidente e riservato, questo magnate giramondo, spettatore attonito delle vicende umane, non prende mai parte a nessuno dei progetti che nuovamente gli vengono proposti dagli uomini che incontra, folli o straordinari che siano. Il massimo che gli riesce di fare è finanziare, o semplicemente dare promessa di tale intento, a qualche inventore o rivoluzionario in cerca di contributi economici per portare a termine il proprio progetto innovativo. Il romanzo si apre, non per niente, con l’incontro con Ernest O. Lawrence, fisico e Premio Nobel per essere stato l’inventore e il perfezionatore del ciclotrone, il primo acceleratore circolare di particelle atomiche. L’era atomica è quella profetizzata da Papini, e la paura di una guerra nucleare il nuovo spettro che si aggira per il mondo. Ma la profezia più grande contenuta nel romanzo è quella che il nostro Gog/Papini riceve da Lin Youtang – il capitolo è infatti intitolato “Visita a Lin Youtang (o del pericolo giallo)”- di cui vale la pena riportare qualche passaggio:

“- Il popolo cinese, mi ha detto, è il popolo più pericoloso che sia al mondo e perciò è destinato a dominare la terra. Per secoli e secoli è rimasto chiuso nei confini dell’immenso impero perché credeva che il resto del pianeta non avesse alcuna importanza. Ma gli Europei e poi i Giapponesi gli hanno aperto gli occhi, gli orecchi e la mente. Hanno voluto stanarci per forza e pagheranno cara la loro cupidigia e la loro curiosità. Da un secolo i cinesi aspettano di vendicarsi e si vendicheranno.” “Il popolo cinese è astuto e paziente…In realtà i cinesi non sono né conservatori né democratici né comunisti. Sono semplicemente cinesi, cioè una specie umana a parte che vuol vivere e sopravvivere, che si moltiplica e deve espandersi per necessità biologica più che per ideologia politica.”“Il popolo cinese è immortale, sempre eguale a se stesso sotto tutte le dominazioni.” “Nessun altro popolo può sperare di sopraffarlo e di respingerlo. È un popolo scaltro e crudele, popolo di mercanti e d’imbroglioni, di briganti e di carnefici, che sa usare ai suoi fini ora l’inganno ora la ferocia. È destinato, perciò, a diventar padrone del mondo perché gli altri popoli sono più ingenui e più buoni di lui. Ci metterà il tempo che sarà necessario ma il futuro gli appartiene.”

Gog verrà ci porta a conoscenza delle conseguenze della Tecnica, del dominio della Macchina sull’Uomo, come avviene nel capitolo intitolato “Il tribunale elettronico” in cui è una macchina e non un giudice in carne e ossa a emettere le (sbrigative) sentenze; o come nel poema “Il Primo e l’Ultimo” che Gog ritrova a firma di Miguel de Unamuno, in cui il primo e l’ultimo uomo della terra (Adamo e W. S. 347926) si confrontano trovandosi in antitesi: Adamo è un uomo in carne ed ossa, pieno di emozioni, di paure e di tabù, mentre W.S. 347926 (questo è il suo nome) è una sorta di cyborg che, guardando in faccia il suo avo pronuncia le seguenti parole: “Tutto ciò che voi andate balbettando è una fila di non sensi, espressi con un gergo selvaggio, sorpassato, incomprensibile e vuoto. Per noi le parole Dio, colpa, redenzione, peccato, bene e male, non hanno più, da secoli e secoli, alcun significato.” Profetico è anche il racconto dal titolo significativo “Il nemico della natura” dove un uomo distrugge tutta la fauna che si trova davanti perché infastidito da essa, dandoci le sue insensate ragioni. Illuminante il capitolo “Ascenzia” dove viene riprodotta la commedia della democrazia; significativo il racconto “Il transvolatore solitario”, un solitario indiano che odia gli uomini e si rifugia nei cieli azzurri dell’Immenso per sfuggire alla loro mediocrità. Il capitolo “Visita a Otorikuma”, che piacerebbe tanto a Massimo Fini, sottolinea invece i paradossi della guerra moderna:

“In atlri tempi e in altre civiltà le azioni sconfitte erano obbligate a cedere territori e a pagare indennità…Ora, invece, i cpai politici e quelli militari dei paesi vinti, vengono ritenuti delinquenti e come tali processati e puniti. È questo un fatto nuovo nella storia moderna”. È da segnalare, infine, il racconto più nostalgico contenuto nel romanzo/diario intitolato “L’imbruttimento dell’Italia”, che piacerebbe tanto a un Vittorio Sgarbi, in cui viene riprodotta l’immagine di un Paese di cui, per dirla con Longanesi, non riconosciamo più né il volto né l’anima. Un romanzo da leggere, indispensabile per comprendere i mali del nostro tempo.

‘Gog’ e le profezie di Giovanni Papini

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‘Gog’ e le profezie di Giovanni Papini

Il romanzo, che facilmente si può definire nichilista, se non esistenzialista, rimane di straordinaria attualità per le problematiche esistenziali vissute dall’uomo moderno, ieri come oggi. Per chi abbia apprezzato il “Viaggio al termine della notte” di Céline questa è una lettura consigliata. Diversissimo lo stile asciutto di Papini in confronto a quell’innovazione stilistica dell’autore francese appena citato, ma si percepisce la stessa irrisione nei confronti dell’umanità, delle sue miserie, delle sue fragilità e della sua inconsistenza.

di Valerio Alberto Menga

Ex: http://www.lintelletualedissidente.it

“Satana sarà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni, Gog e Magog…”

Apocalisse, XX, 7.

Chi è Gog? Questa è la domanda dalla difficile risposta. Talmente difficile che anche arrivati a fine romanzo ci si ritrova con diversi dubbi sull’identità del personaggio che da il tiolo all’opera in questione. Ma di chi stiamo parlando?

Stiamo parlando di Giovanni Papini, scrittore talentuoso e dimenticato autore di questo vecchio romanzo, ormai fuori catalogo, ma reperibile ovunque su internet tra i buon vecchi libri usati. Fu edito dalla casa editrice Vallecchi che decise di dedicare un’intera collana “opere di Giovanni Papini” all’autore del romanzo in questione.

E chi è Papini? Questa la domanda dalla altrettanto difficile risposta.
Uno scrittore dimenticato, amico e sodale dell’altrettanto talentuoso e dimenticato intellettuale del Novecento italiano Giuseppe Prezzolini: l’anarco-conservatore, allievo di Longanesi e maestro di Montanelli. Insieme, Papini e Prezzolini, fondarono “Lacerba”, il “Leonardo” e la famosa testata “La Voce”, la più grande rivista politico-culturale dalla quale uscì il meglio del fascismo e dell’antifascismo: Benito Mussolini, Benedetto Croce, Curzio Malaparte, Piero Gobetti, Giovanni Amendola…per citarne alcuni.

papini_gog1-200x297.jpgPapini fu giornalista, scrittore, filosofo, poeta, aforista, animatore culturale e agitatore politico, come molti toscani dell’epoca. Fu nazionalista, futurista, filo-fascista, ateo e anticlericale, per poi convertirsi alla religione cattolica. Passò da Nietzsche a Gesù, percorso che si può riassumere nelle rispettive e simboliche opere “Un uomo finito” del 1913 e “Storia di Cristo” del 1921. Ed è forse proprio nella sua riscoperta spirituale, nella sua conversione cattolica, che si può spiegare il suo antisemitismo, probabile percorso nel solco di una certa tradizione cristiana che vede negli ebrei gli assassini di Cristo.

Ma la domanda rimane: chi è Gog?

Gog invece è un personaggio ambiguo, frutto di un miscuglio di razze originarie delle isole Hawaii. Un misantropo ricco sfondato che si annoia della vita e degli uomini e dopo esser stato proprietario e direttore di aziende, aver girato mezzo mondo, ed aver comprato una nazione, tenta di comprendere questi strani esseri chiamati uomini, dal quale pare prender le distanze e porsi al di fuori della stessa umanità – il che fa addirittura dubitare della natura umana del protagonista.

La citazione dall’Apocalisse con cui Papini introduce il personaggio, un essere demoniaco che si beffa dell’Uomo e delle sue miserie, fa addirittura pensare al lettore che esso sia addirittura Satana in persona, in visita sulla Terra come mero turista curioso alla ricerca della natura umana.

Il romanzo è scritto sotto forma di diario, il Diario di Gog appunto, che Papini afferma di aver ricevuto in dono dall’autore prima della sua scomparsa, e che, dopo una difficile opera di ricostruzione cronologica, ha tentato di trascrivere fedelmente. Costruzione cronologica resa difficile dal fatto che Gog nei suoi diari indica il luogo, il giorno e il mese, ma non l’anno in cui ha vissuto le esperienze descritte in quelle pagine. Forse per sottolineare l’attualità delle inquietudini umane che si raccontano nel testo.

Gog, abbreviativo di Gogin, comincia a scoprire l’umanità attraverso la letteratura delle maggiori opere della letteratura mondiale, che riterrà  “Roba assurda, noiosa: talvolta insignificante o nauseabonda”. Tali ai suoi occhi appaiono opere come L’Iliade di Omero, La Divina Commedia di Dante, Il Don Chixote di Cervantes, L’Orlando Furioso di Ariosto, il Gulliver di Swift, Il Faust di Goethe, Madam Bovary di Falubert, Il Vangelo…Insomma tutto lo annoia. Nulla è in grado di soddisfarlo, di eccitarlo, di esaltarlo e di colpirlo. Tutto lo sfiora. Proprio come “l’uomo liquido” della post-modernità.

Allora decide di partire per il Mondo cercando di conoscere uomini eccezionali, alcuni grandi del suo tempo come Lenin, Freud, Henry Ford, Einstein, Gandhi, G.B. Shaw, Edison, Wells; nessuno all’altezza delle sue aspettative. Compra per divertirsi sedicenti maghi, resuscitatori di morti, i più grandi giganti della terra, un boia sadico e nostalgico della buon vecchia tortura, e molto altro ancora… Ma nulla da fare. L’uomo rimane per Gog un miserabile buffone che inganna se stesso e gli altri,  così come l’esistenza stessa appare priva di fine.

Il romanzo, che facilmente si può definire nichilista, se non esistenzialista, rimane di straordinaria attualità per le problematiche esistenziali vissute dall’uomo moderno, ieri come oggi. Per chi abbia apprezzato il “Viaggio al termine della notte” di Céline questa è una lettura consigliata. Diversissimo lo stile asciutto di Papini in confronto a quell’innovazione stilistica dell’autore francese appena citato, ma si percepisce la stessa irrisione nei confronti dell’umanità, delle sue miserie, delle sue fragilità e della sua inconsistenza.

Scorrendo le pagine di “Gog” pare di percepire il Papini nichilista, ancora intriso delle letture di Nietzsche, sicuramente il Papini ossessionato dal “Diavolo” – figura sempre presente nelle opere dell’autore – per poi addirittura riconoscere, arrivati al capitolo finale, il Papini autore della “Storia di Cristo”.

Un libro per tutti e per nessuno.

jeudi, 02 octobre 2014

Documentaria: D'Annunzio a Fiume

dimanche, 28 septembre 2014

Hic sunt dracones: Eduard Limonows Granatenleben

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Hic sunt dracones: Eduard Limonows Granatenleben

By Nils Wegner

Ex: http://www.sezession.de

Ausgerechnet der so brave btb-Verlag, seines Zeichens immerhin Teil der Random-House-Gruppe und damit unter der Fuchtel von Bertelsmann, hat just eine Taschenbuchausgabe des biographischen Romans Limonow aus der Feder des preisge-krönten französischen Schriftstellers Emmanuel Carrère herausgebracht (hier bestellen [2], gebunden hier lieferbar [3]). Im Mittelpunkt dieses Werks steht eine der wohl schillerndsten politkulturellen Figuren Rußlands, die wohl die mediale Aufmerksamkeit verdient gehabt hätte, wie sie in diesem Jahr aus Gründen der Putin-renovatio imperii-Hysterie dem im Vergleich eher farblos-mönchshaften Alexander Dugin [4] zugekommen ist: Eduard Sawenko, genannt Limonow, in dem der Betrachter je nach eigener Verortung wahlweise einen Stalinisten, Faschisten oder halbkriminellen Irren vorfinden mag.

Sezessionisten ist der Schriftsteller und ewige Rabauke wider das politische Establishment seines Heimatlandes kein Unbekannter: Schon im ersten Jahrgang der Print-Sezession thematisierte Christian Vollradt [5] ihn (und seinen ehemaligen Weggefährten Dugin) etwas ratlos als Protagonisten der skurrilen nationalbolschewistischen Bewegung Rußlands, und vor fast genau zwei Jahren stellte Martin Lichtmesz ihn auf einem seiner Ausritte [6] gegen den Spiegel-Streber Georg Diez und dessen seltsame Sympathien für kontroverse Schriftsteller [7], solange diese keinen deutschsprachigen Hintergrund haben, hier ausführlicher vor.

Dabei kam Lichtmesz auch bereits auf das Buch Carrères zu sprechen, das damals gerade beim wiedererstandenen Matthes&Seitz-Verlag in Berlin erschienen war. So weit, so gut – ich denke nicht, daß sich heute noch allzuviele Leute an Diez‘ Hymnus auf Limonow erinnern oder sich für dessen Biographie interessieren. Immerhin ist der Mann mittlerweile 71 Jahre alt und ist parteipolitisch längst nicht mehr aktiv; auch scheint tatsächlich 1989 das letzte Mal eines seiner Werke auf Deutsch neu herausgebracht worden zu sein (die zig Auflagen seines schriftstellerischen Durchbruchs »Fuck off, Amerika« einmal außer Acht gelassen).

Nun, man sollte einfach an dem hübschen weißen Buch mit der sicherungsbügelbewehrten Zitrone auf dem Einband vorübergehen. Das in jedem einzelnen Moment unstete Leben des Geheimdienstlersohns, jugendlichen Bohemiens und leidenschaftlichen Bürgerschrecks Limonow, dessen vor Wut und Verachtung überschäumende Philippiken ihm einen Ruhm als Popliterat avant la lettre bescherten, ist für sich genommen schon für jeden lesenswert, der sich für einen sympathischen Antihelden erwärmen kann. Denn sympathisch ist und bleibt „Editschka“ das ganze Buch über, auch wenn sich angesichts der halbseidenen Punkte in dessen Biographie selbst der Autor Carrère gelegentlich mit sich und seinem Werk hadert. Etwa hinsichtlich der Schilderungen aus der Gründungsphase der nationalbolschewistischen Parteizeitung Limonka, was ein Kosename für die zitronenförmige sowjetische Splitterhandgranate ist, die Eduard Weniaminowitsch Sawenko schon in seiner Jugendzeit Pate für den Spitznamen Limonow – aufgrund seines beißenden Zynismus und polemischen Wesens – stand:

Der Bunker, Margot Führer… An diesem Punkt bin ich mir nicht mehr sicher, ob mein Leser wirklich Lust hat, die Anfänge eines Käseblatts und einer neofaschistischen Partei als mitreißendes Epos erzählt zu bekommen. Und ich selbst bin mir dessen auch nicht mehr sicher.

Und doch ist es komplizierter, als man meint.

Es tut mir leid. Ich mag diesen Satz nicht. Und ich mag nicht, wie sich die feinsinnigen Geister seiner bedienen. Unglücklicherweise ist er oft wahr. Im vorliegenden Fall ist er es. Es ist komplizierter, als man meint.

Ein gleiches gilt für die Skizze über den freiwilligen Einsatz Limonows im Jugoslawienkrieg, als Soldat auf serbischer Seite. Und auch die zahlreichen Eskapaden des Protagonisten auf seiner Odyssee durch die Welt (Charkow, Moskau, New York, Paris, Vukovar, Sarajevo…), seien sie krimineller oder gewalttätiger Natur, werden stets aus der Perspektive eines aufmerksamen, wenngleich leicht verstörten Beobachters geschildert. Ganz zu schweigen von Limonows regen Bett- bzw. vereinzelt Spielplatzgeschichten; denjenigen Lesern, die sich seinerzeit bereits über die handzahmen Liebesszenen in Raspails »Reitern« [8] ereifert haben, sei in diesem Sinne ernstlich von dem Genuß von »Limonow« abgeraten.

Nichtsdestoweniger ist das Engagement Carrères hervorzuheben, der als Mittzwanziger Limonow während dessen Pariser Zeit in den üblichen Intellektuellen- und Literatenzirkeln kennengelernt hatte und das Objekt seiner Arbeit hier ohne Verleugnen einer alten Bekanntschaft, gleichzeitig aber mit gelegentlichem eingestandenen Unverständnis beschreibt. Den Grundstock für seine literarische Arbeit bildeten Limonows Bücher sowie seine persönlichen Erinnerungen, wie der Autor dem Leser klar vor Augen führt. Gleichzeitig, und darin dürfte wohl die literarisch stärkste Seite des Romans liegen, läßt Carrère auch seine persönliche Lebens- und Familiengeschichte in die Gesamtbetrachtung miteinfließen; er stammt selbst aus einer ursprünglich weißrussischen Emigrantenfamilie – seine Mutter Hélène Carrère (d‘Encausse), geborene Zourabichvili, ist seit 1999 Secrétaire perpétuel der Académie française – und hat Rußland vor und nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion besucht.

Just diese, zwischen einzelnen Episoden des Limonowschen Lebensfeldzugs gegen alles Feige, Ehrlose und Ausbeuterische eingestreuten, Passagen der politischen und historischen Prozesse im Rußland zwischen Stalin und Putin sind es denn auch, die die genresprengende Biographie des leidenschaftlichen underdogs Limonow (und in der Tat, trotz aller schriftstellerischen Erfolge hat dieser Mann niemals ein Leben in Wohlstand geführt) gleichsam zu einem geistesgeschichtlichen Parforceritt insbesondere durch die postsowjetische Historie des Landes machen, auf das im Moment wieder einmal alle westlichen Augen in der Mehrheit verständnislos gerichtet sind.

Der btb Verlag hätte wahrlich keinen besseren Zeitpunkt wählen können, dieses in Frankreich mehrfach preisgekrönte Werk in alle Bahnhofsbuchhandlungen zu streuen; gleichwohl kommt die Aufmachung so bescheiden daher, daß man befürchten muß, viele potentiell Interessierte gingen achtlos daran vorbei und griffen stattdessen nach Zeitungen voller Jammer und Fremdscham. Das muß so nicht sein: Das »Limonow«-Taschenbuch kommt zu einem regelrechten Schleuderpreis daher und bietet sich über Jahrzehnte erstreckende Einsichten aus quasi zweimal erster Hand. Auch für den rein geschichtlich Interessierten ist also in jedem Fall etwas mit dabei, selbst im Falle mangelnder Begeisterung für heroische Schurken.

Schnell schließt sich bei der Lektüre denn auch ein gewisser Zirkel zu den zeitgenössischen Squadristen in Rom [9]: Bei einem Gutteil der Schilderungen Limonows wilderer Zeiten, auch und gerade im Zusammenhang mit seiner und Dugins pittoresker „Nationalbolschewistischer Partei“, fühlt man sich ein gutes Stück weit an die CasaPound [10] erinnert. Das beschränkt sich längst nicht auf das gar schröckliche Faschismus-Sujet, vielmehr ist es eine phänotypische Angelegenheit, wie Carrère auch ganz klar wiederum im Hinblick auf die Wirkung der  Limonka feststellt:

Er war zwanzig und furchtbar angeödet in seiner kleinen Stadt in der Oblast Rjasan, als ihm einer seiner Freunde eine seltsame Zeitung zusteckte, die mit dem Zug aus Moskau gekommen war. Weder Sachar noch sein Freund hatten je etwas Vergleichbares gesehen. […] Auch wenn es das Organ einer Partei war, ging es in der Limonka weniger um Politik als um Rock, Literatur und vor allem um Stil. Welchen Stil? Den fuck you-, bullshit- und Mittelfinger-Stil. Punk in Reinform.

Auch, wenn Limonow zur Hochzeit der NBP und der Limonka bereits sein fünfzigstes Lebensjahr weit überschritten hatte, so waren Partei und Zeitschrift doch ein Ausbund an jugendlichem Überschwang und Drang zur Unbedingtheit – durchaus nicht unähnlich der italienischen terza posizione dieser Tage. Als distinguierter deutscher Konservativer und Eichmaß des „Rechten an sich“ mag man darüber die Nase rümpfen, doch liegt dessenungeachtet genau dort das pulsierende Leben eines ganz speziellen rechten Typus. »Wer gegen uns?« und »Limonow« nebeneinandergelegt, scheint es beinahe so, als könne man synthetisierend herauslesen, weswegen derlei in der Bundesrepublik schlicht unvorstellbar war, ist und auch bleibt: Der Schlüssel liegt tatsächlich einzig im materiellen Wohlstand.

Während dem Leser in Domenico Di Tullios Roman – und auch realiter in der CasaPound – einstmals perspektivlose Jugendliche der unteren Mittelschicht begegnen, die im ehemaligen Nabel der Welt leben und zwischen drückender Wohnungsnot und politischer Repression nicht den Langmut finden, ein Leben als „angloamerikanische Normalameise“ (Thor von Waldstein) zu führen, sind es bei Carrère die vom postsowjetischen Rußland schlichtweg abgehängten und ausgeklammerten jungen Leute aus Provinz und Großstadt, die ohnehin von Kindesbeinen an nie etwas zu verlieren hatten und in Limonows seltsamer Melange aus kulturellen und geschichtlichen Anleihen erstmals ein Ideal finden, dem sie sich rückhaltlos verschreiben können. Carrère beschreibt diese Wirkung folgendermaßen:

Von seinem Alter her hätte er ihr Vater sein können, aber er hatte keine Ähnlichkeit mit irgendeinem ihrer Väter. Nichts machte ihm Angst, er hatte das Leben eines Abenteurers geführt, von dem alle Zwanzigjährigen träumen, und er sagte zu ihnen, ich zitiere: »Du bist jung. Es gefällt dir nicht, in diesem Scheißland zu leben. Du hast weder Lust, ein x-beliebiger Popow zu werden, noch so ein Arschloch, das nur ans Geld denkt, noch ein Tschekist. Du hast den Geist der Revolte in dir. Deine Helden sind Jim Morrison, Lenin, Mishima und Baader. Na also: Du bist schon ein Nazbol

Auch sonst begegnet man einigen bekannten geschichtlichen Gestalten wieder, sei es Gabriele d‘Annunzio, sei es der „blutige Baron“ Ungern-Sternberg. Von Ideologie muß man da gar nicht groß das Faseln anfangen, bei der NBP ohnehin nicht. Im Mittelpunkt stand dabei die Attitüde der Gegenkultur, der Totalopposition. Und das Zentrum, den schillernden Schwerpunkt eben dieser totalen Opposition gegen alle sogenannten Verhältnisse bildete Limonow, der sich diese Einstellung nicht für seine (recht kurzweiligen) parteipolitischen Aktivitäten zugelegt, sondern schon seit seiner Jugend eifrig zur Schau gestellt und dafür bis ins hohe Erwachsenenalter hinein manche böse Abreibung kassiert hatte.

Da fällt es denn auch absolut nicht ins Gewicht, wie man einzelnen Aspekten seiner politischen oder persönlichen Vita gegenübersteht – ebenso übrigens, wie es für die Strahlkraft der CasaPound vollends unerheblich ist, wie man dort zur Südtirolfrage steht, auch wenn einzelne Verfechter der reinen Lehre online nicht müde werden, diesbezüglich ihre Satzbausteine zu plazieren. »Limonow« ist zuallererst einmal ein höllisches Lesevergnügen, in zweiter Instanz dann eine hochinteressante Beschreibung der wechselvollen russischen und gesamteuropäischen Geschichte der letzten 40 Jahre. Und über allem ist es die akkurat (und sogar quellenkritisch!) verfaßte, geradezu romantische Lebensgeschichte eines vielleicht verrückten, aber in jedem Fall konsequenten politischen und kulturellen Hasardeurs, den als vielleicht herausragendste Charakterzüge uneingeschränkter Ehrgeiz, grenzenlose Neugier und völlige Unverfrorenheit auszeichnen: Eduard „Eddy“ Limonow, der immer mehr Punkrockstar als Literat, mehr Rüpel als Politiker, mehr Macher als Mandarin und mehr Freibeuter als Intellektueller gewesen ist. Nicht von ungefähr denn auch der Untertitel seines Internetblogs [11]: „Ich bin weder Politiker noch Philosoph. Ich bin Schriftsteller…“

Limonow in der Tschenbuch-Ausgabe hier bestellen [2].
Limonow in der gebundenen Ausgabe hier bestellen [3].

Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

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[1] Image: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2014/09/limonow.jpeg

[2] hier bestellen: http://antaios.de/detail/index/sArticle/3646

[3] hier lieferbar: http://antaios.de/detail/index/sArticle/3643

[4] Alexander Dugin: http://www.sezession.de/45820/alexander-dugin-der-postmoderne-antimoderne-1.html

[5] Christian Vollradt: http://www.sezession.de/7805/nationalbolschewismus-in-russland.html

[6] einem seiner Ausritte: http://www.sezession.de/33856/eduard-limonow-und-richard-millet-loblieder-auf-bose-jungs.html

[7] Sympathien für kontroverse Schriftsteller: http://img-fotki.yandex.ru/get/6613/85415274.1e/0_783e7_a8786124_orig

[8] Raspails »Reitern«: http://www.sezession.de/41682/mit-den-sieben-gen-nordost.html

[9] zeitgenössischen Squadristen in Rom: https://www.youtube.com/watch?v=uDU1mJieh4c&feature=youtu.be

[10] CasaPound: http://antaios.de/gesamtverzeichnis-antaios/nordost/1407/wer-gegen-uns

[11] Internetblogs: http://ed-limonov.livejournal.com/

[12] : http://tetw.org/Matt_Taibbi

[13] : http://www.rollingstone.com/politics/news/the-real-housewives-of-wall-street-look-whos-cashing-in-on-the-bailout-20110411?print=true

[14] : http://de.wikipedia.org/wiki/Aff%C3%A4re_Hildebrand

[15] : https://www.google.de/search?q=snb+hildebrand&ie=utf-8&oe=utf-8&rls=org.mozilla:us:official&client=firefox-a&channel=sb&gfe_rd=cr&ei=fZoaVOKXKsOH8QeQlYHABw&gws_rd=cr

[16] : https://www.youtube.com/watch?v=tH_v6aL1D84

Tutto il pensiero in versi dell'antifilosofo Valéry

 
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Paul Valéry è l'intelligenza più acuta del '900. Era un poeta, un filosofo, uno scienziato, uno scrittore, un giornalista o che? Valéry era un'intelligenza pura, e usava sia l'emisfero destro dell'intuizione che l'emisfero sinistro dell'analisi, penetrando il linguaggio e il pensiero.

La sua può definirsi proprio filosofia dell'intelligenza, tesa a comprendere il mondo; l'idealismo e il realismo, lo spiritualismo e il materialismo, il positivismo e il nichilismo, e ogni «ismo» che ci viene in mente, regrediscono a fantasmi, o a sciocchezze, come lui diceva, perché in Valéry c'è la tensione a capire i fenomeni e i noumeni, le cose reali e le cose pensate. Senza umanesimi né filosofemi.

È uscita di recente la prima vera biografia filosofica di Paul Valéry. La scrisse nel 1971, centenario della sua nascita, un filosofo vero, Karl Lövith, e fu il suo ultimo libro prima di morire nel '73. È bello vedere un filosofo d'accademia, già sulle tracce di Nietzsche e Heidegger, chinarsi a cogliere i frutti dell'antifilosofo Valéry e ritenerli più gustosi di quelli offerti dai filosofi di professione. Lovith non azzarda critiche ma ne espone il pensiero, notando che è «il pensatore più libero e più indipendente», più attuale e più inattuale. I Quaderni di Valéry sono uno spettacolo unico dell'intelligenza, il pensiero di una vita, un lavorìo geniale di osservazione e penetrazione durato più di mezzo secolo; cominciato quando aveva vent'anni, e finito oltre i settant'anni, con la sua morte, nel 1945, quando la metà tremenda del Novecento volgeva alla fine. Non è un diario - «mi annoierebbe troppo scrivere quello che intendo dimenticare» - né un emporio di opinioni, ma un lavoro necessario e inutile, come la tela di Penelope, un puro esercizio mentale applicato a osservare il mondo nel suo versante visibile e nel suo versante invisibile. «Avevo vent'anni e credevo alla forza del pensiero - scrive Valéry -. Stranamente soffrivo di essere e di non essere... Ero tetro, leggero, facile alla superficie, duro al fondo, estremo nel disprezzo, assoluto nell'ammirazione».

Non sposa nessun dio, nessun io, nessuna rivoluzione, nessun progresso e nessuna tradizione, né li demolisce. Valéry non ha una sua teoria, e tantomeno un sistema, è puro occhio pensante e voce poetante. Scrive oltre 26mila pagine, 261 quaderni, dalle 5 alle 8 del mattino quando gli sembra «di aver già vissuto con la mente tutta una giornata, e guadagnato il diritto di essere stupido fino alla sera». È quella l'ora al servizio della mente, il primo momento del giorno, «ancora puro e distaccato, poiché le cose di questo mondo, gli avvenimenti, i miei affari non s'impicciano ancora di me». Bisogna tentare di vivere, in raccolta solitudine. «Noi siamo il giocattolo di cose assenti che non hanno nemmeno bisogno di esistere per agire».

Valéry seguì il cammino della poesia assoluta di Mallarmé, ben sapendo che il poeta è il personaggio più vulnerabile della creazione, «cammina sulle mani». Gli dei, sostenne, ci concedono la grazia del primo verso, poi tocca a noi modellare il secondo. Valéry ritenne l'idea della morte la molla delle leggi, la madre delle religioni, l'agente della politica, l'essenziale eccitante della gloria e dei grandi amori, l'origine di tante ricerche e meditazioni. Senza di lei, la vita nuda è pura noia. Noi umani «ansiosi di sapere, troppo felici d'ignorare, cerchiamo in quel che è un rimedio a quel che non è, e in quel che non è un sollievo a quel che è». Sintesi perfetta della nostra imperfezione.
Lo splendore della sua intelligenza si acuisce nei suoi appunti dedicati all'amore, ai corpi, ai sogni. Il cammino del pensiero si accompagna alla musica che «desta e assopisce i sentimenti, si prende gioco dei ricordi e delle emozioni di cui sollecita, mescola, intreccia e scioglie i segreti comandi». Se i Quaderni, usciti in cinque volumi da Adelphi, sono la spina dorsale dell'opera di Valéry, le sue opere poetiche, incluso il poema Il cimitero marino, ne costituiscono il canto. E poi i suoi sparsi scritti, raccolti in antologie e florilegi di aforismi. Restò celebre di Valéry il richiamo alla fine delle civiltà in La crisi del pensiero: «Noi le civiltà ora sappiamo che siamo mortali», scrisse nel 1919. Così Valéry fu iscritto nella letteratura della crisi, avviata da Il tramonto dell'Occidente di Spengler. Nato a Cetty da gente di mare, metà còrso e metà italiano, Valéry colse le tre fonti dell'Europa nella Grecia, in Roma e nella cristianità e trovò nel Mediterraneo il cuore pensante dell'Europa. Per Valéry la nostra epoca è segnata dalla fine della durata, l'avvento del provvisorio e dell'ubiquità, il dominio dell'istante. Per sfuggire a questa tirannide non resterà che costruire chiostri rigorosamente isolati dai media e dalla realtà circostante: «è lì che in determinati giorni si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi». Il Medioevo venturo.

Poi c'è il lato occultato di Valéry: il suo elogio della dittatura, in una prefazione a un libro di Salazar, «risposta inevitabile dello spirito quando non riconosce più nella conduzione degli affari, l'autorità, la continuità, l'unità». La visita a Mussolini e poi sulla scia della visione fascista, la fondazione del centro universitario mediterraneo nel '33, come scrive suo figlio François introducendo il taccuino I principi d'an-archia pura e applicata (uscito nell'82 da Guerini e Associati). Vicino a Pétain e poi a de Gaulle, Valéry si sentiva «di sinistra tra quelli di destra, di destra fra quelli di sinistra», anarchico e antipartitico - «più un uomo è intelligente, meno appartiene al suo partito» -, «di nessun colore politico. Io amo solamente la luce bianca». Difatti il pensiero di Valéry non dispensa tesi ma culmina nella luce bianca del Mediterraneo. Non condensa il pensiero in un testo ma nel paesaggio e nelle sue «tre o quattro divinità incontestabili: il Mare, il Cielo, il Sole». La verità esce dalla mente, dai libri e dal tempo e abita quello spazio luminoso. E tuttavia, anche là dove l'umano attinge la sua gioiosa perfezione, nell'armonia col paesaggio e nel ristoro dell'acqua e della luce, la mente non s'abbandona; e avverte che il sole illumina il mondo tramite un atroce dolore: «il tuo bagliore è un grido acuto, e il tuo supplizio brucia i nostri occhi». Lo splendore sorge dal dolore: la gioia della luce ha una fonte dolorosa. Il mistero del sole: nel suo fulgore, il poeta coglie l'incanto divino della luce, il pensatore penetra l'essenza tragica del mondo.

(Il Giornale, 12/11/2012)

mardi, 23 septembre 2014

Naoko Inose’s Persona: A Biography of Yukio Mishima

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Naoko Inose’s Persona: A Biography of Yukio Mishima

By Riki Reipersona

Ex: http://www.counter-currents.com

Naoko Inose
Persona: A Biography of Yukio Mishima [2]
Berkeley: Stone Bridge Press, 2013

Editor’s Note:

This is a review of the Japanese edition of Persona, which is available now in English translation. I have read the translation, which appears to be much longer (864 pages) than the Japanese original. It is a treasure trove of information on Mishima.  As an aside, the book’s unselfconscious frankness about sex and meticulous cataloging of genealogy and rank give one a sense of the consciousness of pre-Christian European society. 

The Japanese version of Persona was originally published in November 1995 by Bungei Shunshu (literally meaning “the Literary Spring and Autumn”), an established and prestigious publishing house in Japan. The author, Mr. Naoki Inose, is a maverick and contentious figure who served as the vice governor of Tokyo municipality for a long time while also being a highly prolific and popular writer, having penned no less than 30 books so far, mostly on political, historical, and cultural themes. He was lately in hot water, being forced to step down from his official post due to alleged involvement in a murky financial scandal. His political and administrative stance, by post-war Japanese standards, is mainstream conservatism (center-Right).

The main body of the book has about 390 pages, including a prologue, four chapters, and an epilogue. There is also a brief postscript and an extensive bibliography which together occupy another nine pages. Considering the length of the book, it is surprising that there are only four chapters. The 17-page Prologue is a novel-like start, the main character of which is a former schoolmate of Yukio Mishima, and whose father also happened to be an old acquaintance and old schoolmate of Mishima’s father Azusa Hiraoka (Hiraoka is the real family name of Mishima), both pursuing the careers of elite imperial government officials, but with quite different fates. The author’s intention in starting the book in this way was to highlight Mishima’s family background so as to shed light on the factors, both familial and historical, that shaped and molded the early development of Mishima’s quite unorthodox and eccentric personality.

Indeed, the author goes far further than most would expect, expatiating on the overall political and social picture of Japan in the late Meiji and early Taisho periods at the very beginning of the 20th century, which, in the author’s presumed reckoning, might better disclose and clarify the political, socio-cultural, and family backdrops of Mishima’s childhood, which was characterized by a mixture of docile and rebellious elements. The first chapter, called “The Mystery of the Assassination of Takashi Hara,” lasts almost 80 pages. Here the author talks about the historical background of the time in which Mishima’s grandfather Sadataro Hiraoka saw his career blossom then wither due to larger and uncontrollable political struggles.

Sadataro was a capable functionary favored and appointed by then the Internal Minister and later the Prime Minister of Japan Takashi Hara, nicknamed the “Commoner Prime Minister,” to be the governor of Karabuto (the Southern half of the Sakhalin Island, ceded to Japan by treaty after the Russo-Japanese War of 1905 and forcibly annexed by Soviet Union at the end of WWII). However, due to some suspicious financial dealing and mishaps which were seized by political foes to attack him, and political sectarian conflicts during the Hara administration and after his assassination, Sadataro was relieved of his governorship, and from then on, Mishima’s family’s fortune started to take an abrupt and sharp downturn.

The second chapter, “The Insulated Childhood,” shifts attention from the rise and fall of the Hiraokas to Mishima himself. Mr. Inose spends 90 pages on Mishima’s complex and seeming contradictory childhood, using narration interspersed by flashbacks, and talks about the family life of the Hiraokas, the inter-relationship of family members, religion, Mishima’s grandparents and parents, especially his fastidious and arbitrary grandmother and his bemused father, against the background of decline of the family’s fortunes as a result of political failures of his grandfather. The author devotes large passages to explaining such matters as Mishima’s poor physical health, his tender, timid, and self-isolating personality as a child molded by the uncannily tense family ambience, and his father’s desperate last-ditch effort that brought about his narrow escape from the military draft in his late teen years near the end of the Second World War.

In this chapter, the author also starts to introduce Mishima’s passion for literature, which developed quite early, and his first attempts at writing, as well as his friendship and literary exchanges with several likeminded youths who gave him encouragement and inspiration. One point meriting emphasis is the influence of Zenmei Hasuda, a young imperial army officer, a steadfast traditionalist and nationalist, and a talented writer who killed a senior officer for cursing the Emperor and then committed suicide near the end of the war.

In the third chapter, that lasts almost 100 pages, the author continues to elaborate on the young Mishima’s literary and private life, culminating in his crowning literary achievement, the novel Kinkakuji translated as The Temple of the Golden Pavilion, which the author rightfully perceives as a landmark of the first phase of Mishima’s literary life, which is characterized by richly colored, minutely detailed, and often unsettling depictions of the inner lives of men among the ruins of post-war Japan — a formerly proud nation wallowing in nihilism.

It is noteworthy that Mishima’s works at this stage are rather different from the second stage of his literary activities, in which his works display a clearly nationalist and Rightist perspective. While Mishima’s exquisite writing reached its peak (or near peak) quite early in his life, his understanding of and awakening to the Japanese identity and nationalism centered on the monarchist tradition underwent a gradual process of maturation and was still immature and inchoate at his first literary stage, i.e. the time around his writing of Kinkakuji and other non-nationalist works, in contrast to his second literary phase of more virile, robust, and nationalistic works from Sun and Steel to The Sea of Fertility. In addition, Mishima’s dandyesque personal life of drinking, socializing, and mingling with fashion-conscious rich girls as described in this chapter was also indicative of his less than mature literature and personality at his stage of his life.

yukio-mishimaXXXXWW.jpgChapter four, being the longest of the four chapters at about 110 pages, stands out as a relatively independent account of Mishima’s later years, dealing with both literature and political/ideological developments, leading to his failed coup, featuring his impassioned exhortation to the military servicemen and his ritual suicide by seppuku. This part covers the Mishima most familiar and interesting to Western readers. The chapter covers his body-building practices, his continued literary endeavors, consummated by the masterpiece The Sea of Fertility,his nominations for the Nobel Prize for Literature, and his increasingly active socio-political undertakings, including organizing his private militia troop, the Tatenokai (Shield Society), his serious and strenuous military training in Jieitai (Self-Defense Force), the post-war Japanese military — with the rather naïve aim of safeguarding the Emperor in concerted effort with the military in case of domestic unrest or even sedition at the hands of the leftist or communist radicals — and the events of this final day, November 25, 1970.

Although Persona has an overly long and detailed discussion of Mishima’s family history, the book still flows and proves an engaging read on the whole. The last chapter, though a bit overshadowed by the three preceding chapters, is definitely the most pertinent and fascinating of the whole, filled with interesting facts with insightful and trenchant observations.

Mishima’s veneration of the Emperor (Tenno) and ultimately the Imperial bloodline (Kotoh) of Japan, his candid criticism of Emperor Hirohito, and his final urge toward the coup and the subsequent suicide were already implied in his Kinkakuji, albeit symbolically as the impregnable top floor of the Kinkakuji pavilion itself. These themes became explicit in Voice of the Spirits of Martyrs published in 1966, which especially demonstrates Mishima’s mixed feelings if not overtly bitter resentment of Hirohito for his ignoble role in the failed Ni-Ni-Roku (Feb. 26) Coup of 1936[1] and his abject “I-am-a-human-not-a-god” announcement in 1945.[2] In the book, Mishima speaks through the mouth of a 23-year-old blind man, giving voice to the spirits of the Ni-Ni-Roku rebels and the Kamikaze pilots, i.e., the spirits of martyrs, speaking of the post-war economic boom coupled with the moral decay of Japanese society:

Under the benevolent imperial reign, the society brims with peace and stability. People smile albeit not without conflicts of interest and confusion of friends and foes. Foreign money drives and goads people, and pseudo-humanism becomes a necessity for making a living. The world is shrouded in hypocrisy while physical force and manual labor are despised. Youthful generations feel suffocated by torpor, sloth, drugs, and meaningless fights, yet they all move along the prearranged path of mundanity like meek sheep. People think about making money, even small amounts, for which they degrade their own value. Private cars multiply, whose stupid high speed renders people soulless. Tall buildings mushroom while the righteous cause and moral principles collapse, and the glittering glass windows of those buildings are just like fluorescent lights of implacable desires. Eagles flying high in the sky and break their wings, and the immortal glories are sneered at and derided by termites. In such a time, the Emperor has become a human.[3]

According to Mishima, the daily routines under the rapid economic growth of 1960s is but an ugly and hollow sign of happiness, all attributable to the fact that the Emperor Hirohito has proclaimed himself no longer a divine figure, a sacrosanct “Arahitogami”[4] but a mere human being devoid of sanctity. Mishima expressed this view via the collective voice of the spirits of the martyrs, that the Emperor has assumed a duality of image, one being the last sacred embodiment of the national myth, and the other being one kind smiling grandfather presiding over the economic rationalism of the current age, and it is the latter, the protector of the daily routines of the post-war Japan, that Mishima found intolerable, as the voice of the martyr spirits makes quite clear:

The reign of His Majesty has been dyed in two different colors. The period of the bloody red color ends with the last day of the war, and the period of the ash grey color begins from that day. The period of the authentic red color soaked with blood starts with the day when the utmost sincerity of the brotherly spirits was thrown away, and the period of that pallid grey color starts from the day of the ‘I-am-a-human’ announcement of His Majesty. The immortality of our deaths is thus desecrated.[5]

The “brotherly spirits” here refer to the soldiers of the failed 2.26 coup of 1936, failed by the Emperor Hirohito, by his headstrong refusal to understand and sympathize with their righteous patriotism and pure sincerity. Mishima also believed that the “I-am-a-Human” announcement of Hirohito in the wake of WWII rendered the heroic sacrifices of the lives of the Kamikaze Tokkottai (Special Attack Units) utterly futile and pointless.

According to the author, Mishima’s mother Shizue revealed a little secret about the writing of Voices of the Spirits of Martyrs on the occasion of the commemoration of the seventh anniversary of Mishima’s death, namely, the work was actually written one night. She recollected that Mishima handed the manuscript to her as he had always done and uttered “I wrote this in one stroke last night, and it’s now completed.” She read through it quickly, felt her “blood curdled,” and asked Mishima how he wrote this piece. Mishima answered: “I felt my hand moving naturally and the pen sliding on the paper freely. I simply couldn’t help it even if I wanted to stop my hand. Low voices as if murmuring could be heard across my room in the midnight. The voices seemed to be from a group of men. When I held my breath to listen carefully, I found they were the voices of the dead soldiers who had participated in the 2.26 Incident.” Shizue continued to remark that “I had known the saying about haunting spirits before but didn’t paid attention until that moment when I came to realize that Kimitake (Mishima’s real first name) was perhaps haunted by something, and I felt chills down my spine.”[6]

In the summer of the same year Voices of the Spirits of Martyrs was published, Mishima went to Kumamoto Prefecture on Kyushu Island, South Japan, and this trip would prove to have a decisively catalyzing effect on the consolidation of the nationalist and traditionalist ideology that guided his later literary and political actions, provided the urge for the writing of his final work The Sea of Fertility, and eventually paved the way for his suicide. The pivot of Mishima’s interest was the local Samurai warrior group Shinpuren (The League of Divine Wind) which was violently opposed to the various policies of westernizing reform enacted by the Meiji regime in the 1870s.

The original driving force of the Meiji Restoration was the idea of “Revering the Emperor and Repelling the Foreign Barbarians” (Sonnojoi), which stipulated that legitimacy came not from the Shogun but from the Emperor and that Western forces, epitomized by the dreaded “Black Ships,” must be decisively expelled.[7] Yet after abolishing the rule of the Tokugawa Shogunate by uniting around the rallying call of “Sonnojoi,” the newly-established Meiji regime immediately and drastically changed its course and started to purse a policy of reform: opening Japan to the outside world, imitating Western ways, and curbing or eliminating the traditional customs of Japanese society deemed by the new regime as un-Western and uncivilized. New laws were promulgated by the Meiji government: the former Shizoku (Samurai aristocrats) were prohibited from carrying swords in public places, a sacred and unalienable right in their eyes, marking their distinguished status from the masses. They were also forced to change their hairstyles (cutting off the buns at the back of their heads). These were the direct causes to the Insurrection of Shinpuren in 1876 (the ninth year of the Meiji period).

The members of Shinpuren were so thoroughly alienated and infuriated by the Meiji government that they went to comical lengths to reject modernity. For example, when banknotes replaced traditional metal coins, they refused to touch them with their hands, picking them up with chopsticks instead. They made long detours to avoid walking under electrical wires. If no detour was possible, they would cover their heads with a white paper fan and pass hurriedly under the wires. They cast salt on the ground after meeting anyone dressed in western garb. When they decided to revolt against the Meiji government, they insisted on using only traditional bladed weapons like the sword (Katana), spear (Yari), and cane knife (Naginata), instead of the “dirty weapons of the western barbarians.”

This group, consisting of about 170 men, launched a night-time attack on the Kumamoto garrison. The garrison troops were caught off guard and initially panicked. But they regrouped and started to fire volleys of bullets into the armor-wearing, sword-wielding Shinpuren warriors storming at them. The samurai fell one after another, and altogether 123 warriors died in the battle or committed seppuku after sustaining serious wounds, including a dozen 16- or 17-year-old teenagers.

It was indeed a sad and heart-wrenching story. Why were they willing to die to protect their right to carry samurai swords? It is hard to comprehend it by the commonsense of our de-spiritualized modern age. The rebellion was mocked by newspapers in Tokyo as an anachronism even at the time, let alone in post-War Japan. Nevertheless, the Shinpuren samurai believed they were serving the cause of righteousness and justice, and it was their spotless sincerity and combination of faith and action that deeply impressed Mishima. The following passage his comment on Shinpuren in a dialogue with Fusao Hayashi[8]:

Talk about the thoroughness of thinking, when thinking expresses itself in an action, there are bound to be impurities entering it, tactics entering it, and human betrayals entering it. This is the case with the concept of ideology in which ends always seem to justify means. Yet the Shinpuren was an exception to the mode of ends justifying means, for which ends equal means and means equal ends, both following the will of gods, thus being exempt from the contradiction and deviation of means and ends in all political movements. This is equivalent to the relation between content and style in arts. I believe there also lies the most essential, and in a sense the most fanatical sheer experimentation of the Japanese spirit (Yamatodamashii).[9]

As hinted previously, the trip to Kumamoto and the examination of the historical record of Shinpuren gave Mishima a model and meaning for his future suicide. In fact, three years before his suicide he published a piece in the Yomiuri Shinbun, in which he stated rather wistfully the following words: “I think forty-two is an age that is barely in time for being a hero. I went to Kumamoto recently to investigate the Shinpuren and was moved by many facts pertaining to it. Among those I discovered, one that struck me particularly was that one of the leaders of theirs named Harukata Kaya died a heroic death at the same age as I am now. It seems I am now at the ceiling age of being a hero.”[10] From such clues, which are actually numerous, the author argues that Mishima started at about forty to reflection on his own death and probably settled on terminating his own life upon the completion of his four-volume lifework The Sea of Fertility.

The heavy influence of Shinpuren is manifest in the second volume of The Sea of Fertility, namely Runaway Horses, in which the protagonist Isao Iinuma, a Right-wing youth, holds a pamphlet titled The Historical Story of Shinpuren and was depicted as possessing an burning aspiration of “raising a Shinpuren of the Showa age.” And the full content of the aforementioned book was inserted into Runaway Horses in the form of a minor drama within a major drama. The historical background of the novel was set in early 1930s. The 19-year-old Isao attempts to assassinate a man called Kurahara, known as the king fixer of backdoor financial dealing, who was in Mishima’s eyes the representation of Japanese bureaucrats who considered the “stability of currency” as the ultimate happiness of the people and preached a cool-headedly mechanical if not callous way of crafting economic policies. Kurahara was quoted saying, “Economics is not a philanthropy; you’ve got to treat 10% of the population as expendable, whereby the rest 90% will be saved, or the entire 100% will die” — the self-justifying words of a typical ultra-realist and even a nihilist — a stark contrast to the pre-War ideal of the Emperor as an absolute patriarch, a profoundly benevolent feudal ruler who guarded the identity, history, and destiny of the Japanese people — a metaphysical figure that Mishima embraced, held dear, and vowed to defend and revive regardless of cost.

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In sum, Mishima’s spiritual and historical encounter with Shinpuren and his military training can be viewed as elements in the design of his own death, as steps ascending to the grand stage. Shortly after concluding his military training, Mishima wrote a short book, A Guide to Hagakure, on Jocho Yamamoto’ famous summation of Bushido doctrine, Hagakure. Mishima’s Guide also illuminates his final action:

One needs to learn the value of the martial arts to be pure and noble. If one wants to both live and die with a sense of beauty, one must first strive to fulfill necessary conditions. If one prepares longer, one will decide and act swifter. And though one can choose to perform a decisive action oneself, one cannot always choose the timing of such an action. The timing is made by external factors, is beyond a person’s powers, and falls upon him like a sudden assault. And to live is to prepare for such a fateful moment of being chosen by destiny, isn’t it?! Hagakure means to place stress on a prior awareness and a regulation of the actions for such preparations and for such moments that fate chooses you.[11]

It is exactly in such a fashion that Mishima prepared for and embraced his self-conceived and fate-ordained final moment, to serve a noble, beautiful, and righteous cause.

Notes

1. Emperor Hirohito was angry at the assassinations of his trusted imperial ministers at the hands of the rebel soldiers. He vehemently refused to lend an ear to the sincere patriotic views of the rebels, refused to side with them, and immediately ordered the suppression of the coup and had the leaders tried and executed quickly.

2. Emperor Hirohito made this announcement partly due to the pressure of the US occupation forces, i.e. the GHQ, and partly willingly, as a cooperative gesture if not an overtly eager attempt to ingratiate himself with the conqueror.

3. Naoki Inose, Persona: A Biography of Yukio Mishima (Tokyo: Bungei Shunshu Press, 1995), p. 323.

4. Meaning literally “a god appearing in human form,” a highly reverential reference to the Japanese Emperor until the end of WWII.

5. Persona, pp. 323, 324.

6. Persona, p. 324.

7. American naval fleets commanded by Commodore Matthew Perry to force Japan to open itself to the world, which first arrived in 1853 and once again in 1854.

8. A famous and highly accomplished literary figure of contemporary Japan who is known for being flamboyant and highly contentious writer and literary critic. As a young man, he was a Leftist, he turned toward the Right-wing nationalism in the 1930s and remained a staunch and steadfast nationalist during the war and throughout the post-war years until his death.

9. Persona, pp. 327, 328.

10. Persona, p. 333.

11. Persona, p. 341.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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samedi, 20 septembre 2014

Hoffmann e Jünger: La natura perturbante della tecnologia

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Hoffmann e Jünger: La natura perturbante della tecnologia

di Marco Zonetti
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]  

Leggendo il racconto “L’Uomo della Sabbia” di Ernst Theodor Hoffmann e il breve romanzo distopico “Le api di vetro” di Ernst Jünger, potremmo scoprire che i due autori non condividono soltanto il nome di battesimo e la nazionalità, bensì una peculiare e chiaroveggente diffidenza nei confronti della tecnologia, o perlomeno del suo potere manipolatore e disumanizzante.

Nel racconto di Hoffmann, scritto nel 1815, il giovane Nathanael è ossessionato dalla figura di un uomo misterioso, Coppelius, che fin dall’infanzia egli apparenta iconograficamente all’Uomo della Sabbia (o Mago Sabbiolino), una sorta di uomo nero delle tradizioni popolari che getta la sabbia negli occhi dei bambini, strappandoli e portandoli nel suo rifugio sulla “falce di luna” per darli da mangiare ai suoi “piccolini dai becchi ricurvi”.

Coppelius viene introdotto nel racconto in veste di vecchio avvocato amico del padre di Nathanael, per poi rivelarsi una specie di folle scienziato/alchimista nonché complice di un fabbricante di automi italiano, Lazzaro Spalanzani, che si spaccia per un innocuo professore di Fisica. Nathanael conosce la figlia di quest’ultimo, Olimpia, in realtà un automa costruito da Spalanzani con l’aiuto di Coppelius, e se ne innamora perdutamente finendo in un vortice di follia. Dopo una breve parentesi di serenità, accudito dalle amorevoli cure della fidanzata Clara e dell’amico Lothar, che rappresentano il focolare domestico e gli affetti sinceri non contaminati dall’unheimlich costituito dalle “diavolerie” della tecnica incarnate invece da Coppelius e Spalanzani, Nathanael sembrerà aver ritrovato brevemente la ragione, salvo poi risprofondare nelle antiche ossessioni – ridestate da un cannocchiale fabbricato da Coppelius – che lo condurranno al suicidio.

Lo stesso approccio alla scienza e alla tecnologia viste come “perturbanti” traspare dal breve romanzo di Ernst Jünger, “Le api di vetro” del 1957. Api di vetro, ovvero minuscoli automi intelligenti che popolano i giardini dell’industriale Zapparoni (un altro italiano) ove il protagonista Richard – reduce di guerra e di un mondo semplice fatto di tradizioni d’onore e di valori ormai perduti – è capitato in cerca di un impiego. Nei giardini di Zapparoni, arricchitosi grazie all'ideazione e costruzione di macchine tecnologicamente avanzate che dominano ormai il mondo, Richard osserva la “spaventosa simmetria”, per citare William Blake, delle api di vetro e della loro fisiologia ipertecnologica che, lungi dal migliorare o perfezionare la natura (imperfettibile in sé come fa notare Jünger in molte sue opere, ricordandoci che più la tecnologia progredisce più l’umanità subisce un’involuzione e viceversa), la impoveriscono, devastandola in ultima analisi – i fiori toccati dalle “api di vetro” sono infatti destinati a perire poiché deprivati dell’impollinazione incrociata..

Seppur concepite in due epoche diverse, Olimpia e le api di vetro rappresentano l’elemento perturbante di un mondo ossessionato dalla scienza, e in corsa dissennata verso un futuro ultratecnologico in cui uomini e macchine divengono intercambiabili sempre più a discapito dei primi. In cui la poesia dell’ideale romantico e dell’amore sincero, come quello di Nathanael per Clara, viene guastato dall’ossessione per la fredda e innaturale Olimpia, meccanismo perfetto ma inumano come quello degli “automi di Neuchatel” che devono aver ispirato Hoffmann per la sua protagonista. In cui uomini e animali vengono via via sostituiti distopicamente dalle macchine e dagli automi, e dove la stessa nascita, lo stesso atto d’amore che porta al concepimento dell’essere umano viene sostituito da un alambicco, da una provetta, da una miscela in laboratorio, in una sorta di “catena di montaggio” della riproduzione, di “fordismo” applicato alle nascite come nel “brave new world” di Aldous Huxley, “eccellente mondo nuovo” in cui sia Olimpia sia le api di vetro sarebbero cittadini onorari e abitanti privilegiati.

arman110.jpgAltra peculiare affinità fra le due opere è quella data dalla ricorrenza dell’elemento degli “occhi” e del “vetro”. Nel racconto di Hoffmann, troviamo per esempio il leitmotiv dei cannocchiali (“occhi” fatti di vetro come le api) costruiti dal solito Coppelius nelle vesti dell’italiano Coppola. Cannocchiali che ci riportano immediatamente a Galileo Galilei, sommo esponente dell’ambizione scientifica dell’uomo, ambizione che nel racconto di Hoffmann è tuttavia distorta dagli ambigui scopi di Coppelius, intenzionato a deprivare Nathanael degli occhi, per renderlo un cieco automa come la stessa Olimpia. Paradossalmente, anziché donargli una visione amplificata della realtà rendendolo più “lungimirante”, il cannocchiale che Nathanael acquista da Coppelius lo fa sprofondare in una follia primordiale che non riconosce affetti, amore, amicizia, né tantomeno connotati umani, portandolo infine all’annullamento di sé, ovvero al suicidio.

Come lo stesso Richard protagonista de “Le api di vetro”, Nathanael perde a poco a poco la propria umanità e l’attaccamento alle proprie tradizioni e ai propri valori, travolto dalla tecnologia malvagia di due esseri votati alla creazione di marionette e pagliacci destinati a divertire le folle, fenomeni da baraccone come Olimpia, o come gli automi di Zapparoni finiti a sostituire gli attori in carne e ossa nei film, quali li descrive Jünger nel suo romanzo.

Per tornare al tema degli occhi, il protagonista de “Le api di vetro” capirà a poco a poco che, per l’incarico che intende assumere, occorrono occhi disumanizzati, asettici, (occhi di vetro?) che devono vedere senza guardare, senza discernere, così da passar sopra alle atrocità perpetrate nel giardino (e nella società) degli orrori tecnologici di Zapparoni. Per poter sopravvivere nel mondo ipertecnicizzato e inumano insediatosi grazie alla perdita dei valori e della tradizione, Richard si renderà dunque conto che è necessario lasciarsi cavare metaforicamente gli occhi dall’Uomo della Sabbia rappresentato dall’ambizione e della protervia dell’uomo.

Con le derive della tecnologia, con il sacrificio dell’etica sull’altare della Hýbris, con la corsa dissennata a voler piegare la natura al nostro volere, sembrano quindi preconizzarci Hoffmann e Jünger, l’essere umano diventa simulacro di se stesso, automa (fintamente) perfetto, “ape di vetro” senz’anima, senza cuore, senza sesso. Transgender e ultragender costruito in serie come una marionetta, al punto che – nella nostra realtà più vicina – i genitori risultano tanto spersonalizzati da abdicare perfino al nome di padre e di madre per diventare “genitore 1” e “genitore 2”, espressioni che tanto piacerebbero all’ambiguo Zapparoni – che deve il suo successo al tramonto dell’etica e della tradizione – ma anche all’infido Coppelius, sorta di “tormento del capofamiglia” kafkiano, non meno inquietante del “rocchetto di filo” Odradek, protagonista del celebre racconto dello scrittore praghese. Ma soprattutto al mostruoso Uomo della Sabbia che, dal suo antro nella “falce di Luna”, non potrebbe che compiacersi oltremodo della nostra cieca ambizione, che ci impedisce di vedere la realtà distopica nella quale, superbi e protervi, ci stiamo gettando a capofitto inseguendo le derive della tecnologia e dell’ingegneria genetica.

La Hýbris demiurgica della tecnica rappresentata da Coppelius e Zapparoni, ovvero l’aspirazione a replicare la potenza creatrice divina, racchiude necessariamente l’annullamento di sé e dell’umanità, per questo il Nathanael di Hoffmann non può che suicidarsi e il Richard di Jünger tradire i propri princìpi per assoggettarsi al nuovo status quo e al nuovo regime di spersonalizzazione dell’uomo.

Privi degli occhi dell’etica, dei valori e del sacro rispetto della natura, accecati dalla nostra arroganza, siamo solo bambini sprovveduti destinati a diventare cibo della progenie di occulti “uomini della sabbia” o schiavi di scaltri e spietati “Zapparoni”.


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vendredi, 19 septembre 2014

D'Annunzio ou le roman de la Belle Epoque

" Considéré comme le plus grand écrivain italien de son époque, Gabriele d’Annunzio (1863-1938) est l’une des figures centrales de la Belle Époque, de la Grande Guerre 1914-1918 et des Années Folles. Enfant surdoué, poète sublime, romancier mondialement reconnu, auteur d’œuvres de théâtre jouées par les plus grands, il multiplie les aventures amoureuses avec les plus belles femmes de son époque, duchesses et comtesses, artistes et comédiennes, fréquente les personnalités les plus illustres de son époque, comme Edmond Rostand, Marcel Proust, Maurice Barrès, Anna de Noailles, André Gide, Anatole France, Pierre Loti, Robert de Montesquiou, Marie de Régnier, Romaine Brooks, Jean Cocteau, Ida Rubinstein, Claude Debussy. Il mène la vie la plus mondaine qui soit, allant de réceptions en spectacles, mais peut également s’isoler dans la recherche d’une authentique quête mystique. Ami des humbles et des pauvres, il rencontre des personnages pittoresques comme une célèbre guérisseuse en Gironde, ou l’un des derniers bergers échassiers des Landes. D’Annunzio joue un rôle déterminant dans l’entrée en guerre de l’Italie en 1915, aux côtés des Alliés. Aviateur, marin et fantassin, il se couvre de gloire sur le front austro-italien, lors d’exploits militaires retentissants. A Fiume, il rédige une constitution révolutionnaire, refuse de rejoindre le fascisme de Mussolini, prend sa retraite au bord du lac de Garde. Il fait tout son possible pour empêcher une alliance italo-allemande contre la France et va même le payer de sa vie en 1938. "

lundi, 15 septembre 2014

Ernst Jünger, un autore da rileggere oltre la gabbia destra/sinistra

Ernst Jünger, un autore da rileggere oltre la gabbia destra/sinistra

di Luciano Lanna

Fonte: Segnavia

 
junger1xx.jpgUn’operazione analoga a quella che ha riguardato sul Garantista Céline dovrebbe a nostro avviso coinvolgere anche Ernst Jünger, il decano novecentesco della letteratura tedesca, nato nel 1895 e scomparso nel 1998 alla veneranda età di 103 anni. Al di là della sua militanza adolescenziale tra i nazionalisti, infatti, della sua partecipazione da volontario alla Grande Guerra e la stessa strumentalizzazione che il regime hitleriano fece della sua opera L’operaio, dedicata alla società della mobilitazione di massa, lo scrittore – nonostante i suoi scritti giovanili militaristi – non solo arrivò ben presto a esporsi esplicitamente contro la dittatura nazista e a partecipare addirittura al complotto del 1944 per far fuori Hitler ma, sin dagli anni ’30, produsse tutta una serie di opere inequivocabilmente di natura libertaria. Sarà lui, e non Brecht, ad esempio a scrivere: “L’obbligo scolastico è, essenzialmente, un mezzo di castrazione della forza naturale, e di sfruttamento. Lo stesso vale per il servizio militare obbligatorio. Respingo come una scemenza l’obbligo scolastico, come ogni vincolo e ogni limitazione alla libertà”. Non solo: Jünger negli anni ’60 del Novecento descriverà con benevolenza e simpatia “i figli dei fiori della California, i provos di Amsterdam, gli hippies multicolori accoccolati sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui bordi della Barcaccia, gli indefinibili che emergono dappertutto e che parlano un nuovo gergo. Compagni simili esplorano il sottosuolo: è una buona cosa poi se sono anche colti”.  Del resto, lui stesso negli anni ’20 aveva aderito ai Wandervögel, il movimento giovanile tedesco che per la passione ecologista, la ricerca di una nuova spiritualità anticonformista e la sensibilità comunitaria anticipava i beatnik e il libertarismo della generazione “on the road”. Si pensi anche alla sua vicinanza senile ai Verdi che manifestavano in Germania per il neutralismo e contro il nucleare, al suo libro sul fenomeno degli stupefacenti e alla sua teorizzazione della figura dell’anarca nel suo romanzo Eumeswil
 
Insomma, la più profonda vocazione di Jünger fu eminentemente libertaria, ed è stata così esplicitata negli anni ’90 da studiosi come Antonio Gnoli e il compianto Franco Volpi. Una conferma significativa di ciò è stata poi, più recentemente, fornita dalla pubblicazione, anche in Italia, del suo libro La capanna nella vigna (Guanda, pp. 279, € 20,00), un diario che raccoglie le impressioni quotidiane di Jünger dall’11 aprile del ’45 al 20 novembre del ’48. Sono gli anni della disfatta della Germania, della capitolazione, dei suicidi dei gerarchi hitleriani, dell’occupazione da parte delle potenze straniere...
 
«L’importante per me resta il Singolo», spiegherà lo scrittore tedesco già ultracentenario intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare di burocrazie autoritarie spersonalizzanti si era espressa quasi tutta la sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario Sulle scogliere di marmo del 1939. Ma già nel mezzo della seconda guerra mondiale, il libertarismo di Jünger diventava via via più esplicito. E anche nel diario ’45-48 emergono pagine fortissime di attacco al totalitarismo. Lo scrittore ricorda, ad esempio, l’accozzaglia di “luoghi comuni” che scandiva i raduni di massa: “Era la stessa voce dei pubblicitari, delle macchine per vendere, che arrivano per decantare assicurazioni complicate, le cui visite si concludono in genere lasciandoci invischiati in contratti di pagamento interminabili”. La libertà, aggiunge, appartiene invece alla singola persona: “Solo la vista del singolo può dischiudere il dolore del mondo, perché un singolo può farsi carico del dolore di milioni di altri, può compensarlo, trasformarlo, dargli un senso. Rappresenta una barriera, una segreta inaccessibile, nel mondo di un mondo statistico, privo di qualità, plebiscitario, propagandistico, piattamente moralistico”.
 
L’attacco jüngeriano al cuore del totalitarismo non si nasconde – e siamo nella prima metà del 1945 – alla necessità di dover condannare l’antisemitismo e l’Olocausto. Lo scrittore incontra alcuni sopravvissuti ai lager: “L’impressione è di uno sconforto paralizzante, un sentimento che i loro discorsi trasmisero anche a me. Il carattere razionale, progredito della tecnica adottata nelle procedure getta sui processi una luce particolarmente cruda, in quanto emerge l’ininterrotta componente consapevole, meditata, scientifica che li ha determinati. Il segno dell’intenzione si imprime fin nei minimi dettagli, costituisce l’essenza del delitto”. Jünger parla esplicitamente di scene degne di Caino e il suo giudizio è assai vicino a quello successivo di Hannah Arendt sulla “banalità del male”. Parlando di Himmler commenta: “Ciò che mi ha colpito di questo individuo era il suo essere profondamente borghese. Vorremmo credere che chi mette in opera la morte di molte migliaia di uomini si distingua vistosamente da tutti gli altri, che lo avvolga un’aura spaventosa, un bagliore luciferino. E invece queste facce sono le stesse che ritrovi in tutte le metropoli quando cerchi una stanza ammobiliata e ti apre un ispettore in prepensionamento. Tutto questo mette in evidenza quanto ampiamente il male sia dilagato nelle nostre istituzioni. È il progresso dell’astrazione. A uno sportello qualsiasi può affacciarsi il tuo carnefice. Oggi ti recapita una lettera raccomandata, domani una sentenza di morte. Oggi ti fora il biglietto, domani la nuca. Ed esegue entrambe le cose con la stessa pedanteria e lo stesso senso del dovere”.
 
Si tratta di riflessioni che Jünger continuerà negli anni ’50 e oltre. E non a caso un suo scritto – La ritirata nella foresta – apparirà, prima ancora di svilupparsi in un vero e proprio manuale di resistenza libertaria (tradotto in italiano come Il trattato del ribelle), sulla rivista Confluence nell’ambito di un seminario internazionale sulla minaccia totalitaria. Pubblicata in Italia nel ’57 dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, l’antologia di quegli scritti vedrà, accanto a quello di Jünger, i nomi e le firme della stessa Arendt, di James Burnham e di Giorgio de Santillana. Un’ottima compagnia per uno scrittore di cui purtroppo si è sempre teso invece a sottolinearne solo gli aspetti estetizzanti. Il fatto, purtroppo, è che in Italia si è sempre avuto difficoltà a concepire una via postliberale e immaginifica alla libertà. Fenomeno che viene confermato, d’altronde, dal fatto che in Italia si sia equivocato sulla figura jüngeriana del Waldgänger (alla lettera l’uomo-che-si-dà-alla-macchia, il libertario allo stato puro) traducendola con il termine di “ribelle” che evoca un atteggiamento diverso, non proprio quello che l’immagine di Jünger voleva suggerire.


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jeudi, 11 septembre 2014

Pound poeta

mardi, 02 septembre 2014

INTOLERANCIA… O AXIS MUNDI DE LA SOCIEDAD ORWELLIANA

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INTOLERANCIA… O AXIS MUNDI DE LA SOCIEDAD ORWELLIANA

 
 
El mundo libre: eje de lo políticamente correcto, representante máximo del bien estar, ejemplo de democracia y ésta como sinónimo de buenrollismo y parloteo de todo aquel que lo desee. Pilar de la alianza de civilizaciones, de la integración, de la tolerancia, del porvenir y un largo etcétera de vocablos que solo un loco podría posicionarse en contra de ellos.
 
Yo mismo, me considero un defensor acérrimo de las libertades, pero también de los sacrificios y más aún, de las responsabilidades.
 
La cuestión que se nos plantea ante estas “enigmáticas” palabras que resuenan como pan nuestro de cada día y se repiten —y las repetimos— una y otra vez de manera automática, es su significado… ¿Sabemos cuál es? ¿O las repetimos como autómatas sin saber a qué nos referimos? ¿Quizás si no las admitimos ni decimos es que nos encontramos “fuera de circulación” y por lo tanto se nos consideraría antiguos?
 
No pasa nada, el significado de las palabras no importa, lo único que importa es el repetirlas, pues como seres sociales que somos deseamos estar en el grupo, decir lo que todos repiten, no destacar en éste aspecto, puesto que ya se han inventado ciertas palabras para el que destaque fuera del conocido Pensamiento Único. Destacar implica ser: un intolerante, intransigente, antiguo, facha, antisistema (en ocasiones), racista, homófobo… y otro largo etc. de adjetivos calificativos que todo ciudadano de bien quiere evitar. Como el caso de la reciente denuncia por racismo y antisemitismo que emitió la Comunidad Judía de España al escritor Antonio Gala, por desviarse un poco de lo “políticamente correcto”.
 
Por lo tanto, se debe, como imperativo categórico, repetir una y otra vez lo escrito en el primer párrafo de este artículo, asimilándolo de una manera positiva, hacer auto-conciencia de ello y aplicarlo. 
Nadie se dará cuenta de que indirectamente lo esté haciendo, pero una frase que todos pronunciamos determina el que somos inconscientemente parte de este juego impuesto por el $istema, una frase que todo caucásico dice antes de hablar de alguien de otra raza: “yo no soy racista pero…” ¿Por qué esa necesidad de disculparse antes de hacer una crítica referente a un individuo de otro tipo racial? ¿Nos damos cuenta que con ello estamos pidiendo perdón antes de hablar?
 
No nos damos cuenta ni nos daremos, porque no nos cuestionamos nada y menos aún, no deseamos ser cómplices de pronunciar palabras que nos puedan llevar a que se nos tache de “políticamente incorrectos”… ¿miedo al aislamiento social quizás? Posiblemente en parte sea eso, y también, posiblemente nos estén reeducando para no cuestionarnos nada, para ser cada día más sumisos, más borreguiles... a fin de cuentas no conviene que la "mano de obra" piense por sí misma.
 
Siguiendo esta misma línea de pensamiento impuesta por el $istema nos podemos encontrar en una conversación de lo más normal, tratando un asunto que no tiene que ver con política estatal ni religión (pues son temas que siempre generan ampollas en las conversaciones) y que por llevar una opinión contraria a la impuesta por los mass media, uno de los contertulios no quiera dar opción a debate alguno y amenace con marcharse si no se para la conversación, puesto que se siente ofendido de que se hable de algo que quizás él no comparte ya que no lo ha visto en los medios de comunicación habituales.
 
Y en esos momentos es cuando uno se da cuenta que a pesar de existir periódicos y canales de TV de diversas ideologías políticas, todos mandan un solo mensaje, puesto que no se admite una réplica a la esencia de la noticia dada. Y si no existe replica por parte de un individuo sobre otro ¿Dónde podemos hallar la libertad? ¿Dónde está la tolerancia democrática del que dice ser un aperturista social? ¿O es que solo se tiene que ser tolerante para escuchar asuntos de homosexualidad y no se puede ser tolerante para tratar el tema de Gaza o el genocidio boer en la RSA? ¿Qué límites tiene entonces la tolerancia? Y si alguien da su punto de vista sobre la cuestión islámica salafista en Europa ¿Es tolerante no dar opción a replica sobre el tema expuesto en cuestión?
 
George Orwell decía en este aspecto que “La libertad es el derecho a decirle a la gente lo que no quiere escuchar” (Freedom is the right to tell people what they do not want to hear).
Lo más jocoso de este tipo de situaciones es que no hace falta ser un genio o intelectual para, por ejemplo, saber de geopolítica, sino que la clave residen en tener conocimientos básicos de historia y antropología, pues si algo es cierto en este mundo es que todo es cíclico. Por lo que un político (o ciudadano) que carezca de conocimientos de historia y un mínimo de antropología podría perfectamente caer en errores que hace 200 años se cometieron, hablar de posibles situaciones alternativas a modelos de sociedades actuales sin saber que ya existieron y fracasaron, y esto es lo que hace peligroso (e ignorante) a un político, pero también, a su vez, a un ciudadano.
 
Hace unos días un diario virtual que se hace llamar imparcial colgó una noticia que no era del todo correcta, al disponer yo de la fuente escribí en su perfil de Facebook para notificárselo y les puse el enlace oficial de la noticia para que lo subsanaran. La respuesta de esta gente fue no solo el borrar mi comentario de su muro de dicha red social, acto que no comparto pero que podría ser comprensible en cierto modo, sino que además la noticia no la subsanaron. El ego de esta gente que dirige dicho diario que es independiente de los mass media y se vende como adalid de la verdad faltó a la misma que ellos promulgan… y es que el ego en esta sociedad moderna y órquica no tiene límites y la tolerancia de los portadores de la verdad menos aún. Pues reafirman con su actitud ser parte del $istema que ellos mismos critican, predicando con su ejemplo en esos pequeños detalles, que como bien siempre ha dicho mi padre, son los que definen a las personas.
 
 
 
Llegado este punto no puedo proseguir sin analizar el vocabulario que diariamente es usado por tothom y el cual es el motivo de este artículo, vayamos de nuevo al primer párrafo:
 
Mundo Libre: Dícese de la sociedad democapitalisa que otorga a cada uno de sus ciudadanos (súbditos y/o vasallos) la libertad de endeudarse de manera cuasi hereditaria, permite trabajar de sol a sol, otorga autonomía para que sus mandatarios se corrompan y hurten a su comunidad popular. El Mundo Libre se caracteriza principalmente por “tanto tienes, tanto vales”, imponiéndose el becerro de oro (el dinero) a la persona. Por lo que: permite que millones duerman en la calle habiendo casas vacías, así como tirar millones de toneladas de comida mientras millones de personas pasan hambre.
 
Eje de lo políticamente correcto: Base del conocido “Mundo Libre” en la cual se le impone al vasallo lo que debe hacer o decir, dándole a elegir entre varias opciones para que consideré como decisión propia lo que realmente es impuesto por el $istema que dirige al “Mundo Libre”.
 
Representante Máximo del “bien estar” o “Sociedad del Bienestar”: Verborrea usada por los políticos de las últimas dos décadas para vender a los ciudadanos una moto que no tenía gasolina para encenderse y ruedas para circular —o lo que es lo mismo, hacer como un alcalde de Xàtiva, que prometió una playa en su ciudad—, sirviendo esta palabra como excusa para endeudar al Estado hasta un punto insostenible con la excusa del desarrollo (local, provincial, autonómico y estatal), pero con la carga de la deuda financiera y el “beneficio” de magnas comisiones a la casta política de turno (afincada en el poder desde 1978 e incluso antes) a costa los ciudadanos (siervos-gentiles).
 
Democrácia: Sistema establecido por el “Mundo Libre” en el que los vasallos pueden deponer a un tirano corrupto y elegir otro tirano corrupto, donde no existe una alternativa real de gobierno que represente a los ciudadanos, puesto que todos se basan en lo “políticamente correcto” (revisar la explicación anterior) y, en el caso que ésta surgiese sería vetada de todos losmass media para que no tuviese repercusión mediática ni buena ni mala —puesto que la propaganda negativa sigue siendo propaganda.
 
Buenrollismo y parloteo: Entiéndase por permitir que todos los ciudadanos-vasallos puedan balbucear con la “total libertad” que permite lo “políticamente correcto” y sin salirse un ápice de lo estipulado por el “Mundo Libre”. Si se saliese de estas pautas los mismos Buenrollistas estigmatizarían al individuo que lo haga, ya no sería necesario que el $istema actúe, pues el Pensamiento Único implantado por el $istema se encarga de actuar por sí solo.
 
Alianza de Civilizaciones: Concepto atlantista y globalizador que pretende destruir las identidades étnicas de los pueblos del mundo, fomentando los movimientos migratorios planetarios en general y sobre los países étnicamente caucásicos en particular. Slogans repetitivos que se convierten en realidades por su insistencia mediática como: “Una sola raza, la raza humana” o el reciente “somos ciudadanos de un lugar llamado mundo” lobotomizan a una población cada vez más manipulada por los designios del “Mundo Libre”.
 
Integración: Sistema de implantación de sustitución demográfica por elementos étnicamente extra-europeos, que generan (entre otros perjuicios) un estancamiento y caída en los salarios debido a su adaptabilidad como mano de obra barata de la cual se aprovechan empresarios capitalistas sin escrúpulos. Evitando así una respuesta activa por parte de los movimientos obreros para solicitar y/o exigir mejoras salariales y laborales, produciéndose en consecuencia una pérdida de las mismas.
 
Tolerancia: Dícese de escuchar y permitir que se hable o escriba sobre todo lo que el “eje de lo políticamente correcto” ha marcado como apto. En el caso de salir de dicha línea se le impide la capacidad de réplica al interlocutor que lo haya hecho, haciendo lo posible por ridiculizarle de manera jocosa sin darle opción al debate o bien cortando por la tangente y llevando sus comentarios y a la misma persona al ostracismo y si fuese necesario al presidio.
 
Porvenir: Evolución del “Mundo Libre” hacía el “eje de lo políticamente correcto” que evoque en una “Sociedad del Bienestar” en la cual se fomente “la Alianza de Civilizaciones” y donde la “Democracia”, el “Buenrollismo”, la “Integración” y la “Tolerancia” dicten como debemos de ser, vestir, pensar y actuar.
 
Una vez habiendo leído todos estos significados lo primero que pensará el lector es que seguramente perdí el norte, para ello deseo poner la definición de una última palabra que puede resultar aterradora, vamos allá:
 
Totalitarismo: Régimen que incumbe a su Estado la totalidad de los bienes y servicios estratégicos de la nación. (Diccionario de la Real Academia Española - 1933).
 Totalitarismo: Régimen político que ejerce fuerte intervención en todos los órdenes de la vida nacional, concentrando la totalidad de los poderes estatales en manos de un grupo o partido que no permite la actuación de otros partidos. (Diccionario de la Real Academia Española - 2014).
 
Cada vez más, las palabras tienen el sentido y significado que se les quiera dar, es marketing a fin de cuentas, es vender la moto y exponer a los ciudadanos lo que quieren oír, lo que desean escuchar, lo que vende y está de moda, aquella palabra que parece otorgar mayor sentido de libertad, aunque luego no lo tenga.
 
Pero repetir mil veces que se es “demócrata” actuando como un tirano no hace más demócrata a dicho individuo, eso sí, será un tirano que habla de democracia y viste como un demócrata ¿o no?.
 
Sin ir más lejos no olvidemos el uso de la palabra "democracia" que hacen ciertos países como: la República Democrática Alemana (antes de la reunificación) o la República Popular Democrática de Corea (Corea del Norte). 
 
El hábito no siempre hace al monje.

Los significados que he otorgado a las palabras que hoy día se convierten en mandamientos de la sociedad moderna, deberían ser los que use la RAE para actualizarse, pues con un poco de sentido común, nadie que lea el presente artículo y realice un poco de (auto-)crítica extrañará ninguno de los significados que expongo con relación a la realidad que vivimos.
 
La misma palabra "democracia" no tenía el mismo significado cuando se creó que en el siglo XIX, al igual que no lo tenía a principios del siglo XX en relación con la época presente. El lenguaje debe ser adaptado a la realidad presente y no usado como arma política arrojadiza haciendo mal uso del mismo.
 
Orwell decía que "el lenguaje debe ser la creación conjunta de poetas y trabajadores manuales", pero hoy día es de usureros, politicuhos y arribistas sin escrúpulos. El lenguaje esta corrompido y la población ha sido adaptada por dichos corruptores para asimilar su nuevo mensaje.
 
No nos engañemos, vamos hacia la sociedad orwelliana, hacia “1984” y la gente calla por miedo a ser estigmatizada pero llega un momento, como decía Eric Arthur Blair que: “En un tiempo de engaño universal - decir la verdad es un acto revolucionario” (In a time of universal deceit - telling the truth is a revolutionary act).
 
 
 

Con la puesta en marcha de un nuevo proyecto cultural llamado EDITORIAL EAS he redactado un artículo para una colección de libros sobre grandes autores llamada Pensamientos & Perspectivas. El presente texto correspondería a una parte del artículo completo que será publicado en el Nº 2 de esta colección que trataría sobre la figura de ORWELL. Más información en: https://www.facebook.com/pages/Editorial-Eas/621046797979596 y en editorialeas@gmail.com.
 
“La Comunidad Judía se querella contra Antonio Gala por racista y antisemita” http://www.libertaddigital.com/espana/2014-07-25/la-comunidad-judia-se-querella-contra-antonio-gala-1276524688/
 
Hace referencia al tipo racial blanco.
 
Tot home, tota persona, totes les persones”. Palabra catalana que designa a “todo el mundo”.
 
Las definiciones pueden e incluso deberían ser mucho más extensas, puesto que contenido hay de sobra para ello pero considero que el presente artículo debe ser de lectura fácil y comprensión rápida, para evitar que el lector caiga en el aburrimiento. La cuestión básica es transmitir una idea.
 
Y es que para esto los valencianos somos especiales, cuando en su momento disponíamos de cadena de televisión propia (Canal 9) se contó un chiste que definía el carácter jocoso de nuestra tierra, pero el problema es adaptarlo a la realidad política y esto se ha logrado en toda España. En el mismo se encontraban dos valencianos hablando y uno le decía al otro: Chae, saps que està mes prop, Xàtiva o el Sol? —Y el otro le contesta: Tu veus Xàtiva? ...i el Sol? Aquí tens la resposta!!
 
Para el que tenga dudas, aclarar que las razas base son tres: caucásica, mongoloide y negroide. Estos tres troncos raciales pertenecen a una especie, la especie humana. Hablar de raza humana además de no tener sentido, a una persona que se considere medianamente inteligente le tienen que chirriar los oídos como si de una ofensa a su inteligencia se tratase.
 
La capacidad de manipulación se valora en función a la debilidad del manipulado y a las causas que no frenan o incluso fomentan la manipulabilidad de los individuos que son manipulados, así como su efecto en el ambiente en el que el manipulado se educa, como por ejemplo, en el caso de España: Mayor consumo de droga de Europa y uno de los mayores del mundo; visualización de la TV una media de 4 horas por individuo; un nefasto sistema educativo; mayor abandono escolar de Europa; pérdida de valores...
 
Hay que destacar el caso de la ciudad de Londres, donde el 55% de la población no es caucásica. Entre el 45% restante se incluirían ingleses nativos y todas las nacionalidades étnicamente caucásicas que hay en la ciudad, por lo que estaríamos hablando que el inglés nativo londinense prácticamente ha desaparecido. Si a esto le añadimos que los no caucásicos suelen tener un índice de natalidad de 3 hijos por pareja frente a la media caucásica de 1.1 hijos por pareja (aprox.), estaríamos hablando que Londres en una generación posiblemente no quede población autóctona y en dos generaciones no quedará población caucásica.
 
Entiéndase como extra-europeo todo aquel que no tiene una base genética caucasoide. Considerando, por ejemplo, que más del 80% de la población de Argentina es genéticamente europea (occidental). La nacionalidad reside en la sangre y no el los documentos que emiten los gobiernos de turno. Europa no se basa en una cuestión puramente geográfica, sino genética y cultura.
 
Claramente se ve a diario, y en época de crisis se acrecienta mucho más, que el estancamiento y bajada de sueldos es un efecto rebote de aquellos que aceptan puestos de trabajo a cambio de salarios miserables. El exceso de mano de obra barata devalúa el mercado laboral y frena las huelgas (las cuales aportan mejoras laborales). Dejo constancia que el fallo recae en el $istema, en ningún caso sobre el individuo que acepta dichas condiciones laborales, que hasta en el algunos casos son infrahumanas, dicho individuo es una víctima más.