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lundi, 29 juin 2009

J. J. Bachofen, Il popolo licio

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J. J. Bachofen, Il popolo licio

Prefazione a
J. J. Bachofen, Il popolo licio, Napoli 2009

di Claudio Mutti*



L'indeuropeista danese Holger Pedersen (1867-1953), autore della monumentale Vergleichende Grammatik der keltischen Sprachen (Göttingen 1909-1913), si occupò anche, tra l'altro, di albanese, di armeno, di lingue balto-slave, di tocario e di ittita. A quest'ultima lingua Pedersen dedicò un lavoro intitolato Hittitisch und die anderen indoeuropäischen Sprachen (København 1938), nel quale affermò che l'ittita, per quanto lontano sia dal tipo indeuropeo, è per certe sue caratteristiche "così arcaico che, per l'aspetto generale della famiglia linguistica, è altrettanto importante quanto l'antico indiano e il greco" (p. 191).

Fra il 1879 e il 1902, insieme coi norvegesi Sophus Bugge (1833-1907) ed Alf Torp (1853-1916), Holger Pedersen sostenne il carattere indeuropeo del licio e del lidio, due lingue parlate nell'Anatolia occidentale nel I millennio a. C. A quell'epoca si conoscevano soltanto circa 150 iscrizioni licie, risalenti ai secc. V e IV a. C., ma non erano ancora note le lingue anatoliche del II millennio, sicché l'ipotesi dei glottologi nordici non poté scuotere l'autorità della teoria allora dominante, secondo cui la popolazione pregreca dell'Asia Minore non sarebbe appartenuta alla famiglia indeuropea.

Sul finire del XIX secolo alcuni linguisti avevano infatti formulato la teoria secondo cui la lingua dei Lici e le altre antiche lingue dell'Asia Minore (misio, lidio, cario ecc.) sarebbero appartenute ad una famiglia diversa sia da quella indeuropea sia da quella semitica. Faceva eccezione il frigio, ritenuto lingua indeuropea per via dei numerosi elementi lessicali assai simili al greco contenuti nelle iscrizioni frigie. Fu così che nacque l'ipotesi di un'affinità delle lingue egeo-microasiatiche con quelle caucasiche.

Soltanto nel 1936 un professore di glottologia dell'Università di Pavia, Piero Meriggi (1899-1982), decifratore dell'ittita geroglifico, rilanciò i risultati delle ricerche compiute da Pedersen, Bugge e Torp, rafforzandoli con nuove argomentazioni. Da parte sua, basandosi su alcune analogie morfologiche nella declinazione e nella coniugazione e sulla presenza di un gruppo di elementi lessicali comuni, Pedersen metteva in luce la vicinanza del licio e dell'ittita, affermando in particolare che il licio rappresenta un più tarda fase di sviluppo del luvio: "In gewissen Beziehungen würde das Luwische sich besser als Stammutter des Lykischen empfehlen" (Lykisch und Hittitisch, Kopenhagen 1949). Tali vedute furono confermate alla fine degli anni Cinquanta dalla Comparaison du louvite et du lycien (“Bulletin de la Société de Linguistique de Paris”, 55, pp. 155-185 e 62, pp. 46-66) del francese Emmanuel Laroche (1914-1991), il quale mostrò la corrispondenza del termine ittita per 'Licia' (Lukka) con il luvio Lui-, da un più antico *Luki-, donde l'identità dei nomi Luwiya e Lykìa.

Dal fatto che nelle iscrizioni licie siano individuabili alcuni elementi tipici di una lingua satem l'indeuropeista bulgaro Vladimir Ivanov Georgiev conclude che nel licio sarebbero presenti due componenti: "la prima è probabilmente il licio, successore del luvio (e vicino all'ittita), la seconda è probabilmente il termilico, successore del pelasgico" (Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Roma 1966, p. 233), sicché la lingua licia del I millennio costituirebbe il risultato della mescolanza di queste due lingue.

Siamo dunque in presenza di un caso che giustifica la nozione di "peri-indeuropeo", in quanto nel licio, come nel lidio, gli elementi indeuropei sono innegabili, però "è difficile considerare queste lingue sullo stesso piano delle lingue indeuropee normali" (Giacomo Devoto, Origini indeuropee, Padova 2005, p. 206). Così il Devoto, per il quale il licio e il lidio, assieme alle altre lingue anatoliche più o meno vicine all'ittita, "completano l'imagine di una complessità linguistica accanto ad una etnica, intorno alla nozione etnico-linguistica ben definita dagli Ittiti" (op. cit., p. 426).

Alla componente etnolinguistica indeuropea corrisponde, nella cultura politica del popolo licio, un caratteristico "tratto delle vecchie radici indoeuropee, [ossia] che le città licie erano governate da consiglieri anziani (senati)" (Francisco Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell'Europa. Lingua e storia, Bologna 2008, pp. 352-353), mentre dal sostrato preindeuropeo proviene quell'aspetto matriarcale che non era sfuggito all'osservazione di Erodoto. "Solo questo uso è loro proprio - scrive il padre della storia - e in ciò non assomigliano a nessun altro popolo: prendono il nome dalle madri e non dai padri. Se uno chiede al vicino chi egli sia, questi si dichiarerà secondo la linea materna (metròthen) e menzionerà le antenate della madre. E qualora una donna di città sposi uno schiavo, i figli sono considerati nobili; qualora invece un uomo di città, anche il primo di loro, abbia una moglie straniera o una concubina, i figli sono perdono ogni diritto" (I, 173, 4-5).

Già in Omero, d'altronde, è attestato il singolare costume licio della discendenza matrilineare: Bellerofonte, scelto dal re di Licia come genero e reso partecipe di metà del potere regale, rappresenta una "eccezione ai normali costumi matrimoniali attestati nel mondo omerico" (Maria Serena Mirto, Commento a: Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 970); tra i suoi nipoti, l'erede del potere regale e il comandante supremo dei Lici nella guerra di Troia non è Glauco, "lo splendido figlio di Ippoloco" (Iliade, VI, 144), bensì Sarpedonte, figlio di Laodamia: "Accanto a Laodamia giacque il saggio Zeus, - ed essa generò Sarpedonte dall'elmo di bronzo, pari agli dèi" (Iliade, VI, 198-199).

Questa storia viene presa in considerazione da Bachofen nelle pagine introduttive al Mutterrecht: "Accanto ad una testimonianza assolutamente storica di Erodoto, la storia mitica del re presenta un caso di trasmissione ereditaria matrilineare. Non i figli maschi di Sarpedone [Sic. "Sarpedone" in luogo di "Bellerofonte" è ovviamente una svista del traduttore], ma Laodamia, la figlia, è l'erede legittima, e questa cede il regno a suo figlio, il quale esclude gli zii. (...) La preferenza data a Laodamia nei confronti dei suoi fratelli conduce Eustazio all'osservazione che un tale trattamento di favore della figlia rispetto ai figli maschi contraddice interamente le concezioni elleniche" (Johann Jakob Bachofen, Introduzione al "Diritto materno", a cura di Eva Cantarella, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 44-45).

Nel 1862, un anno dopo la pubblicazione del Mutterrecht, Bachofen riprende l'argomento con Das lykische Volk und seine Bedeutung für die Entwicklung des Altertums, Freiburg im Breisgau. Ne esistono due traduzioni italiane: quella di Alberto Maffi (Il popolo licio e la sua importanza per lo sviluppo dell'antichità, in: Il potere femminile. Storia e teoria, a cura di Eva Cantarella, Il Saggiatore, Milano 1977) e quella ormai irreperibile del latinista E. Giovannetti (Il popolo licio, Sansoni, Firenze 1944, che viene riproposta nel presente fascicolo.


*Claudio Mutti, redattore di "
Eurasia. Rivista di studi geopolitici", è laureato in Filologia Ugrofinnica all’Università di Bologna. Si è occupato dell’area carpatico-danubiana sotto il profilo storico (A oriente di Roma e di Berlino, Effepi, Genova 2003), etnografico (Storie e leggende della Transilvania, Oscar Mondadori, Milano 1997) e culturale (Le penne dell'Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Società Editrice Barbarossa, Milano 1994; Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1999).
Tra le pubblicazioni più recenti, citiamo: Imperium. Epifanie dell'idea di impero, Effepi, Genova 2005; L'unità dell'Eurasia, Effepi, Genova 2008.
(Per ulteriori dati bibliografici, si veda il sito informatico
www.claudiomutti.com).


mardi, 14 octobre 2008

le Grand Mufti et le nationalisme palestinien

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Ecole des cadres - SYNERGIES EUROPEENNES - Octobre 2008 - Lectures

Louis DENISTY :
Le grand mufti et le nationalisme palestinien
Hajj Amin al-Hussayni, la France et la Grande-Bretagne face à la révolte arabe de 1936-1939
préface de : Daniel Rivet
L'Harmattan , Paris - collection Comprendre le Moyen-Orient

Résumé

En 1936, éclate la première révolte arabe en Palestine, alors sous mandat britannique. Ce mouvement, entraîné par Hajj Amin al-Hussayni, revendique la constitution d'un Etat et l'arrêt de l'immigration sioniste. En s'appuyant sur les archives diplomatiques françaises et britanniques dont il fait une lecture croisée, l'auteur donne un éclairage sur cette période cruciale de l'histoire de la région.

Quatrième de couverture

En avril 1936 éclate la première grande révolte des Arabes de Palestine, qui revendiquent la constitution d'un Etat et l'arrêt de l'immigration sioniste. A la tête de ce mouvement s'impose un personnage, Hajj Amin al-Hussayni, Grand Mufti de Jérusalem. Celui-ci, banni par les Britanniques, trouve refuge au Liban où les Français le laissent jouir d'une liberté suffisante pour tenter de faire entendre la voix du peuple palestinien. Les querelles de personnes et l'incapacité des puissances dominant la région à s'entendre enfoncent la Palestine dans des années tragiques et ensanglantées. L'objet de cet ouvrage est de faire la lumière sur cette période peu connue et pourtant si cruciale de l'histoire de la Palestine, en questionnant les archives diplomatiques françaises et britanniques. Pour comprendre, pour expliciter, et non pour juger. Durant les années 1936/1939, avec la connaissance des soixante-dix années qui ont suivi, il apparaît que se mettent irrémédiablement en place tous les éléments dramatiques qui ont plongé, jusqu'à aujourd'hui encore, un peuple dans un abîme de malheur infini.

mercredi, 01 octobre 2008

Z. Sternhell blessé à Jérusalem

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L'historien Sternhell blessé à Jérusalem


Source : AFP
25/09/2008 | 

L'historien israélien Zeev Sternhell, connu pour ses positions contre la colonisation des territoires palestiniens, a été blessé la nuit dernière par l'explosion d'un engin piégé à son domicile de Jérusalem.
Zeev Sternhell, 73 ans, a été légèrement atteint à la jambe droite par des éclats lorsque l'engin a explosé alors qu'il fermait la clôture autour de sa maison. Il a été hospitalisé à Jérusalem.
Ce professeur de Sciences politiques à l'Université hébraïque de Jérusalem est un spécialiste du fascisme, en particulier de ses racines idéologiques en France où ses oeuvres ont rencontré un grand écho.
Sternhell, né en Pologne et rescapé de la Shoah, publie régulièrement des tribunes dans le quotidien israélien Haaretz. Il a pris des positions en flèche ces dernières années contre le camp ultra-nationaliste en Israël et la colonisation et prône un compromis pour faire la paix avec les Palestiniens.
Dans un article qui avait provoqué une vive polémique, il avait affirmé: "si les Palestiniens faisaient preuve de plus de clairvoyance, ils concentreraient leurs actions contre les colonies au lieu de s'en prendre à des femmes et des enfants" en territoire israélien.
Récemment, il s'est prononcé contre le blocus imposé par Israël à la bande de Gaza, jugeant cette mesure "immorale et inefficace".

jeudi, 04 septembre 2008

Les orientations géopolitiques de la Turquie

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ARCHIVES: Texte de Jean-Gilles Malliarakis datant de l'automne 2003.

 

Les orientations géopolitiques de la Turquie

 

Les orientations géopolitiques de la Turquie n’ont rien à voir avec les réalités de l’Europe

 

Article de Jean-Gilles Malliarakis extrait du site: www.europelibre.com

 

Recevant le Premier ministre turc Erdogan début septembre à Berlin, le chancelier Schroeder a-t-il cru nécessaire de qualifier de "polémique de caniveau" la volonté de la CSU bavaroise exprimée par Edmund Stoiber de faire campagne contre l’adhésion de la Turquie lors des élections européennes de 2004. Le débat relatif à la candidature de la Turquie à l’Union européenne a certes le mérite de rappeler aux Européens qu’ils relèvent d’une identité commune. Et bien entendu, toute l’offensive de la pensée unique cherche, depuis l’affirmation de cette évidence (1) à contourner cette identité. On balaye ainsi allègrement d’un trait de plume des siècles d’Histoire européenne.

 

Innombrables sont les déclarations conventionnelles de nos hommes politiques sur le thème "L’Europe n’est pas un club chrétien". Avec quelques variantes, c’est surtout la date qui change.

 

Le Premier ministre turc abonde aujourd’hui dans le même sens: "L’Union européenne, dit-il sentencieu­sement, n’est pas une communauté culturelle, religieuse ou géographique. C’est une communauté de va­leur". Si la Bolivie, la Malaisie ou le Zimbabwe prétendent partager ces "valeurs", eh bien ces pays pour­raient donc rejoindre l’Union européenne.

 

Mais ce faisant on bazarde aussi l’identité et la géopolitique spécifiques de la Turquie elle-même. Ce pays, quant à lui, n’a pas le souci de se présenter comme une "communauté de valeurs". Sa réalité nationale est à la fois culturelle, religieuse et géographique. Et, avant que de lui décerner des couronnes de fleurs et de lui dire "aloha", c’est peut-être sur l’identité géopolitique de ce candidat exotique que les Européens gagneraient à être mieux informés.

 

Selon les milieux, selon les institutions, selon les forces politiques, la vision géopolitique des Turcs n’est certes pas identique. De plus les lignes de forces évoluent : on ne pensait pas de manière identique à Ankara en 1952, quand la Turquie participait à la guerre de Corée, et, en 2002, quand pour la première fois depuis la fondation de la république kémaliste un parti musulman obtenait 35 % des voix et la majorité des sièges au Parlement.

 

Soulignons d’abord un aspect essentiel de l’État turc : il est constitutionnellement nationaliste. Il fait de la nation la valeur suprême et le Code pénal ne badine pas avec les atteintes à la sécurité nationale, à l’identité nationale, à l’unité nationale. Quelles que soient les réformes formelles, votées en 2003 (abolition de la peine de mort, progrès de la liberté d’expression, reconnaissance timide du droit des minorités), ou celles promises pour 2004, la conception turque des Droits de l’Homme demeurera longtemps (pour ne pas dire toujours) tributaire de la suprématie fondamentale du Droit de la nation.

 

L’ambition du pays est multiforme.

 

Dans un premier temps, la Turquie kémaliste a conçu sa construction comme une révolution dirigée contre les puissances européennes. Lorsqu’en 1922 l’armée grecque d’Asie mineure, soutenue puis trahie par l’Angleterre, est vaincue, la guerre victorieuse de Kemal est présentée comme une guerre de libération. Elle s’inscrit dans la grandiose vision "anticolonialiste" du congrès de Bakou. Et dans les premières années il est posé en dogme que les frontières du traité de Lausanne ne seront plus jamais remises en question.

 

Mais très vite, la politique turque se révélera expansionniste (2). Tout d’abord, elle cherche à établir des liens avec des pays où l’influence "touranienne" peut être invoquée - légitimement ou, au contraire, de manière très approximative pour ne pas dire fantaisiste : aussi bien la Bulgarie que l’Iran ou l’Irak. Le panturquisme deviendra bien vite une notion à la fois floue et sentimentale comportant des directions fort différentes.

 

Sa première caractéristique a toujours été de tourner le dos à la fois à l’Europe et aux liens du passé. Si l’Empire ottoman a laissé quelques (rares) traces de nostalgies, si certains bons esprits "occidentaux" croient possible de le reconstruire, notamment pour briser toute trace de nationalisme arabe, très peu nombreux sont les Turcs désireux de renouer avec l’espace du Croissant fertile qu’ils ont pourtant dominé pendant près de 1 000 ans. La garnison ottomane chassée d’Akaba en juillet 1917 par le colonel Lawrence l’a probablement été pour toujours.

 

Depuis les années 1950 les Turcs sont indéfectiblement alliés des Israéliens. Dans l’affaire d’Irak, leur préoccupation vise d’abord de maintenir sous tutelle les populations kurdes : il ne doit pas exister de Kurdistan irakien afin d’empêcher la contagion dans les départements kurdes du sud-est anatolien. Éventuellement, on se souviendra que les pétroles du nord de l’Irak appartenaient avant 1918 à une Turkish Petroleum Company. Et, enfin, ce qui est invoqué actuellement par les Turcs pour intervenir dans le nord de l’Irak c’est la protection des minorités turkmènes... La solidarité turco-arabe n’est donc qu’une vue de l’esprit. Accessoirement on remarquera que l’Europe est bien loin.

 

La dimension islamique de la politique extérieure turque ne doit pas non plus faire l’objet d’un malentendu. Depuis le XVIe siècle, l’islam turc est soumis à l’État (3). La prétendue laïcité kémaliste n’a fait que renforcer cette tendance en instaurant l’usage de la langue turque et en encadrant la vie religieuse par 60 000 fonctionnaires de la Diyanet (4). La religion est utilisée comme moyen de rayonnement national, certainement pas comme un courant de solidarité effective avec les coreligionnaires arabes. Elle offrait aux Kurdes, par exemple, un moyen de se mettre au service de l’Empire d’hier : c’est chez les islamistes kurdes que se recrutait la milice du sultan Abdül Hamid. De même pendant les 15 ans de lutte contre la guérilla du PKK, les milices de protecteurs de villages étaient recrutées sur la base de la religion. La vraie solidarité que ressentent et manifestent constamment aussi bien les politiciens, les milieux militaires, les hommes d’affaires ou les confréries s’exprime en direction de toutes les populations plus ou moins mythiquement, linguistiquement ou réellement apparentées aux "Turks"(5).

 

Un “monde turc de l’Adriatique à la Muraille de Chine”

 

Au début de la guerre de Yougoslavie par exemple Türgüt Özal, premier homme politique turc civil à prendre le relais du pouvoir militaire justifia son soutien aux ennemis des Serbes orthodoxes par le rêve d’un "monde turc allant de l’Adriatique à la muraille de Chine". Il se trouve que dans les Balkans la base démographique de ce rêve est très étroite et se compose de quelques rares minorités turques ou musulmanes, les groupes les plus consistants étant albanais ou bosniaques. Il est vrai que du point de vue turc ces Européens, convertis à l’islam autour du xviie siècle, sont représentés par d’importantes communautés considérées comme turques, présentes à Istanbul et dans les couches dirigeantes.

 

En 1991, George Herbert Bush déclarait ainsi, sans périphrase : "La Turquie est l’étoile montante de l’Europe". De la sorte, depuis cette date on a vu de manière systématique les hommes d’affaires d’Istanbul et les agents des services spéciaux d’Ankara servir de relais à l’expansion américaine dans la zone d’expansion "rêvée" par Özal. On les a vus dans toute l’Europe du Sud-Est, où la diplomatie turco-américaine a cherché à mettre en place la "zone de coopération de la Mer Noire". Mais on les a également observés en Asie Centrale et jusque dans le territoire chinois du Sin-jiang revendiqué par les Turks Ouïgours (6).

 

La communauté linguistique des Turks est un phénomène impressionnant. En restaurant ce qu’il appelait la "langue soleil", purgée des apports arabes et persans, Mustapha Kemal a ainsi rapproché la langue parlée par les Turcs d’Anatolie des langues parlées en Asie centrale. C’est une des bases du panturquisme. Et tout naturellement à partir de 1992 quand les républiques soviétiques dessinées artificiellement sous le stalinisme (Ouzbékistan, Kirghizstan, Turkménistan, Azerbaïdjan - le Kazakhstan est à moitié russe et le Tadjikistan est de souche iranienne) sont devenues théoriquement indépendantes. Leurs dirigeants, quoiqu’issus des appareils communistes, ont cherché à contrebalancer l’influence russe. Les agents turco-américains y ont donc été reçus à bras ouverts et il semble bien que l’enthousiasme était général. D’autre part, dans ces pays, les confréries islamiques dont l’existence n’avait jamais disparu sous le communisme ont pour la plupart retrouvé dans l’enthousiasme leurs homologues turcs (7). Certes, depuis, certaines illusions se sont dissipées (8), mais cette ambition demeure une constante de la politique d’Ankara.

 

On doit se souvenir que, dès les années 1910, la révolution jeune turque a commencé à s’intéresser à ce qu’on appelait alors le "Turkestan russe". À la même époque, les provinces arméniennes d’Anatolie représentaient un obstacle géopolitique non négligeable et se tournaient au contraire vers la Russie (9). On retiendra le destin exemplaire d’Enver Pacha. Principal chef des jeunes-turcs lors des révolutions de 1908-1909, après la défaite de l’Empire ottoman en octobre 1918, il fut chassé de Constantinople, se réfugia dans le Caucase où il prit la tête des Basmadjis, révoltés touraniens qui cherchèrent, tout d’abord, à s’allier avec les bolcheviks en Asie centrale, mais se retournèrent contre leurs alliés d’un moment. Et c’est les armes à la main qu’il fut abattu par un détachement de l’armée rouge en août 1922.

 

Les rapports de von Papen

 

Dans les années 1940, l’Axe s’intéressera beaucoup à cet héritage, et aux braises panturquistes d’aujour­d’hui sous la cendre soviétique. Toutefois les Occidentaux auraient dû prendre mieux connaissance des rapports de von Papen, ambassadeur allemand à Ankara : il concluait de manière assez négative quant aux retombées bien concrètes de cette parenté linguistique et mythique des Touraniens. Parmi les ambitions les plus réalistes de l’expansionnisme turc, fondées aujourd’hui par une démographie galopante, opposées à ses voisins du Proche Orient notamment sur la disposition des réserves d’eau, attirées par toute la géopolitique du Pétrole - dans le nord de l’Irak comme dans le Caucase - il en reste une. C’est pro­bablement l’ambition sur laquelle l’islamiste "modéré" Erdogan et le chef de l’armée "laïc", le général Ozkok, semblent être tombés d’accord pendant l’hiver 2002-2003 : à cette date on sortait du coup de tonnerre de l’élection de novembre 2002 donnant la majorité au parti d’Erdogan.

 

Il ne s’agira pas en effet, de servir l’islamisme mondial (10), mais de s’en servir, avec l’argent des Européens, afin de construire une immense puissance orientale. Et alors "l’étoile montante de l’Europe" (Bush père dixit) redeviendra pour l’Occident une menace tangible, comme elle l’était à l’époque du siège de Vienne. Mais cette fois les églises seront-elles là pour sonner le tocsin ?

 

Jean-Gilles Malliarakis.

 

Notes:

(1) Au sein de la classe politique, elle a été constatée notamment par le chancelier Kohl, par M. Giscard d’Estaing, etc.  

(2) La première entorse sera opérée en 1939 lors du traité franco-anglo-turc de 1939 aux termes duquel la France remettait avec la bénédiction de la Grande-Bretagne le sandjak d’Alexandrette détaché de la Syrie, alors sous mandat français, en échange de la promesse Turque de se joindre à la guerre contre l’Allemagne, ce qu’elle fit... en 1945.

(3) Dans l’Empire ottoman, à partir du XVIe siècle et contrairement au droit coranique, c’est le Sultan qui nommait le Cheïkh ül-islam.

(4) Direction des Affaires religieuses

(5) Un certain usage désigne comme "turks" avec un k les populations apparentées linguistiquement aux Turcs d’Anatolie, et qui n’ont pas nécessairement d’Histoire commune avec les Turcs. Nous préférons l’appellation de "Touraniens".

(6) La découverte par les Chinois d’agents militaires turcs et de militants islamistes parmi les terroristes ouïgours à la fin des années 1990 aura été un coup de tonnerre amenant Pékin à reconsidérer sa politique extérieure et ses relations, tant avec la Turquie qu’avec le Pakistan.

(7) On rappellera à ce sujet qu’un personnage comme Özal était affilié à la secte des "derviches" naqshbandi, etc...

(8) En particulier l’Ouzbekistan a la prétention au leadership en Asie centrale et ne désire point y voir la Turquie trop active.

(9) Sans justifier le moins du monde les affreux massacres de 1915, cette situation géopolitique explique une volonté d’éradication qui semble avoir épargné les Arméniens de Constantinople.

(10) Rappelons que la Turquie prétendument "laïque" appartient à l’Organisation de la Conférence Islamique. De plus en janvier 2003, le ministre des Affaires étrangères Abdüllah Gül n’a pas hésité à faire acte de candidature à... la Ligue arabe. Où est donc l’appartenance européenne dans tout celà ?

 

mardi, 10 juin 2008

Erdogan et les kémalistes

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Erdogan et les kémalistes

 

En Turquie, aujourd’hui, la lutte qui oppose kémalistes et fondamentalistes se perpétue et on n’en voit pas la fin. Récemment, une procédure a opposé la deuxième instance judiciaire turque au gouvernement d’Erdogan. Les juges reprochent au premier ministre turc actuel de porter atteinte à l’indépendance du pouvoir judiciaire; celui-ci, dans le cadre de la procédure d’interdiction lancée contre le principal parti gouvernmental, l’AKP d’Erdogan (ou “Parti de la Justice et du Progrès”), fait pression sur le tribunal constitutionnel pour qu’il mène cette procédure à terme et prononce la dissolution de l’AKP. Le parti d’Erdogan a réagi en lançant insultes et imprécations contre les juges. Le procureur suprême de l’Etat veut que l’on lance une procédure visant à examiner le comportement récent du parti. Le quotidien suisse alémanique, la “Neue Zürcher Zeitung” (NZZ) résume la situation comme suit: “Le pouvoir judiciaire dispose de trois possibilités: il peut refuser l’interdiction du parti; il peut se contenter d’un avertissement ou il peut considérer que le parti constitue le noyau dur des activités tramées contre l’ordre laïque et, subséquemment, le faire interdire. Une telle interdiction peut se contourner en procédant à la fondation d’un nouveau parti, appelé à être derechef le successeur de l’AKP. Mais, cette fois-ci, la procédure de dissolution, qui a été engagée, vise également à interdire tout activité politique à 71 personnes parmi lesquelles le président de l’Etat turc, Abdullah Gül, et le premier ministre Erdogan. Le mandat parlementaire d’Erdogan serait alors automatiquement suspendu, ce qui aurait pour effet de provoquer obligatoirement sa démission du poste de premier ministre”. Pour s’assurer malgré tout un avenir politique, Erdogan ne se préoccupe pas seulement de travailler à la fondation d’un nouveau parti politique mais aussi de renforcer son influence personnelle à l’étranger. En Allemagne, le nouvel ouvrage de Peter Winkelvoss, “Die türkische Frage” (“La question turque”), nous montre comment Erdogan cherche à instrumentaliser les Turcs d’Allemagne (et d’Europe) pour en faire l’avant-garde d’une politique étrangère turque selon ses voeux et pour influencer le destin de la République Fédérale, en manoeuvrant une fraction de l’électorat allemand, constituée de Turcs de souche. Son discours à Cologne en février dernier atteste de ce projet, dangereux pour l’ensemble de nos pays.

 

(Source: DNZ, Munich, 23/30 mai 2008; Peter Winkelvoss, Die türkische Frage, 17,90 Euro).

samedi, 31 mai 2008

Scholl-Latour: Anatolien ist kein Bestandteil Europas!

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AULA-Gespräch mit dem Islam- und Nahost-Experten Prof. Dr. Peter Scholl-Latour:

„Anatolien ist kein Bestandteil Europas!“

AULA: Mit den Anschlägen in Madrid scheint der islamistische Terror auch nach Europa gekommen zu sein. Drohen nun auch der Bundesrepublik Deutschland und Österreich derartige Anschläge?

Scholl-Latour: Das kann man nicht von vornherein sagen, aber mit der Möglichkeit muß natürlich gerechnet werden. Es geht ja im Grunde gar nicht so sehr darum, die jeweiligen europäischen Länder als solche anzugreifen als vielmehr durch islamistische Kampfgruppen Druck auf europäische Regierungen auszuüben.

AULA: Würde ein Beitritt der Türkei zur Europäischen Union das Problem des Islamismus in Mitteleuropa vergrößern?

Scholl-Latour: Vermutlich ja, denn das wäre mit einer sehr massiven Zuwanderung von Türken verbunden, und eine allmähliche Islamisierung der Türkei ist ja im Gange. Dann würde die Lage nämlich langsam unübersichtlich!

AULA: Halten Sie eine Verschärfung der Gesetze zur inneren Sicherheit für ein taugliches Mittel zur Terrorbekämpfung?

Scholl-Latour: Wenn es darum geht, Telefone abzuhören, also was hier man den „Lauschangriff“ nennt, dann schon. Im übrigen werden die Telefone schon längst abgehört – wenn nicht von den Deutschen, dann von den Amerikanern! Das ist ja alles ein Schattenboxen. Und wenn man dann nur noch einen Fingerabdruck auf die Kennkarte machen muß, dann ist das ja auch kein großer Eingriff in die persönliche Freiheit. Ich bin in der Vergangenheit kein Verbrecher gewesen und habe auch in der Zukunft nicht die Absicht, Verbrechen zu begehen. Einem normalen Menschen macht das ja nichts aus!

AULA: Sollten die Bundesrepublik Deutschland und Österreich ihre Truppen aus Afghanistan bzw. dem gesamten Krisengebiet des Nahen und Mittleren Osten abziehen?

Scholl-Latour: Ich würde das nicht so pauschal sagen. Jedenfalls sollten wir aus Afghanistan abziehen! Denn was haben wir da zu suchen? Im Moment ist es nach den Attentaten von Madrid sehr schwer, da es dann so aussähe, als ob wir irgendeiner Erpressung nachgäben bzw. Angst vor irgendwelchen Repressalien hätten, insofern sind wir in eine dumme Situation gekommen. Aber wir bräuchten diese Truppen auf dem Balkan, wo das Feuer nun wieder aufflammte, was im Grunde zu erwarten war. Es ist die Unfähigkeit der europäischen Politik, die sich in Afghanistan festlegt und das Kosovo einfach links liegen läßt, oder Bosnien, wo sie nichts richtig geregelt hat. Auch in Mazedonien können Konflikte jederzeit wieder aufflammen. Das sind doch die Gebiete, die für uns wichtig sind, und nicht der Hindukusch! Aber wenn man vernünftig vorginge, würde man natürlich eine Evakuierung deutscher und österreichischer Truppen aus Afghanistan vornehmen. Was sollten die denn da – vielleicht das Regime von Herrn Karsai stützen, das ja nicht repräsentativ ist?!

AULA: Sie halten also eine Präsenz bundesdeutscher und österreichischer Truppen auf dem Balkan, sprich im Kosovo, für durchaus sinnvoll!

Scholl-Latour: Das ist eine vernünftige Angelegenheit, aber dafür muß es erst eine politische Initiative geben! Die lassen das da alles schleifen, und der sogenannte Bevollmächtigte der „internationalen Gemeinschaft“ – was das genau ist, weiß ich nicht – in Bosnien-Herzegowina hat ja jede Vollmacht: Der kann jeden Minister absetzen, jeden Abgeordneten, jeden General, jeden Offizier – der hat ja mehr Kompetenzen als der frühere österreichische Gouverneur in Bosnien oder sogar der Pascha des Sultans. Das ist eine unglaubliche Situation, daß es auf europäischem Boden Protektorate gibt!

AULA: Könnte die Europäische Union – wie Politiker häufig erklären – durch die Aufnahme der Türkei dazu mithelfen, das Land zu demokratisieren und den Nährboden für Islamisten zu entziehen?

Scholl-Latour: Das ist völliger Quatsch! Im Gegenteil! Ich sage ja gar nicht, daß die Türkei radikal-islamisch wird, aber sie ist ein zutiefst islamisches Land und wird es mehr und mehr. Man darf sich nicht durch ein paar europäisierte Elemente in Istanbul und Ankara täuschen lassen. Es sind in den letzten zehn Jahren mehr Moscheen in der Türkei gebaut worden als im gesamten Osmanischen Reich in den ganzen Jahrhunderten! Und diese Moscheen sind voll, die Volksfrömmigkeit nimmt dort wieder sehr stark zu. Und die letzte Garantie gegen das Aufkommen einer gemäßigt islamischen Ausrichtung des Staates sind die Militärs, die ja im nationalen Sicherheitsrat bisher den Ton angaben. Würde man das im Namen der Demokratie beseitigen, dann wäre die letzte kemalistische, laizistische Hürde weggenommen. Es wäre dann so, daß es in der Türkei auf eine gemäßigt islamische Staatsform hinausliefe – und dagegen ist ja gar nichts einzuwenden, nur paßt das nicht ganz nach Europa herein, zumal die Türkei in ein paar Jahren der stärkste Staat EUropas wäre!

AULA: Teilen Sie somit nicht die Auffassung der österreichischen Außenministerin, die den Beitritt der Türkei zur EU nur davon abhängen lassen will, ob die politischen und wirtschaftlichen Rahmenbedingungen in der Türkei – Stichwort Kopenhagener Kriterien – erfüllt sind, also die Menschenrechte geachtet werden und die Abkehr vom Agrarstaat eingeläutet wird?

Scholl-Latour: Also das sagen die Deutschen ja auch. Das ist eine furchtbare Heuchelei mit den Menschenrechten! Das ist eine Beleidigung für die Türken. Ich habe übrigens ein sehr gutes Verhältnis zu den Türken, aber man muß einen ganz anderen Aspekt betrachten: Die Türken sind Erben eines großen Reiches und nicht Anhänger Europas. Wir können natürlich von gleicher Basis aus, nämlich von Europa zur Türkei, enge Beziehungen zu diesem Staat als einer großen Macht unterhalten, die ja bis zum Kaukasus und nach Zentralasien hereinreicht und eine Ordnungsfunktion im Orient hätte, aber doch nicht als Bestandteil Europas. Anatolien ist doch kein Bestandteil Europas!

AULA: Halten Sie freie und demokratische Wahlen im Irak unter US- oder UN-Mandat für realistisch?

Scholl-Latour: Unter US-Mandat bestimmt nicht, da würde getürkt und gefälscht! Und unter UN-Mandat, na ja, das wollen wir einmal hoffen. Aber das ist der einzige Weg, denn wenn man schon im Namen der Demokratie antritt, dann kann man auch nicht die Wahlen verweigern, und zwar Wahlen in dem Sinne, daß jedermann eine Stimme hat.