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dimanche, 06 mars 2011

Giochi politici, intorno alla "Grande Circassia"

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Giochi politici, intorno alla “grande Circassia”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Fonte: Strategic-culture.org [1]

Considerando il fatto che diversi centri di ricerca americani, stiano studiando il genocidio che si presume i circassi abbiano sofferto, è palese come stiano cercando di porre insieme, le basi per l’indipendenza della Circassia. Il “problema circassiano” compare sovente nell’agenda umanitaria di Washington. Un’analisi della storia di questo paese, dei suoi rapporti con la Russia, è stata effettuata dall’università Rutgers in New Jersey. Il centro universitario per lo Studio del Genocidio, Soluzione di Conflitti, e Diritti Umani è volto verso molteplici conflitti – il genocidio dei curdi in Iraq, il genocidio degli ucraini, che si presume attuato dai russi, durante la carestia del 1933- che l’amministrazione americana considera ascrivibili allo status di genocidi. Come la tendenza generale, Washington percepisce primariamente, il genocidio in regioni dove pianifica un punto di appoggio. I curdi entrarono nella guerra americana contro S. Hussein, e i nazionalisti ucraini furono utilizzati dagli USA nei giochi politici contro la Russia.

Il sito internet del Centro di studio sul Genocidio, Soluzione di Conflitti, e Diritti Umani, offre una mappa della regione caucasica, con i confini circassiani, limitati in accordo con il piano di strategia americano.

(Nella foto in alto potete vedere come Washington desiderava che fosse la Circassia: mappa della Grande Circassia con accesso al Mar Nero.)

La costa del Mar Nero è un importante territorio. La sua configurazione al momento è complessivamente semplice. La Georgia, una repubblica con accesso al Mar Nero, è totalmente dipendente dagli Stati Uniti d’America e in cerca disperatamente, di diventare membro della NATO. Bulgaria, Romania e Turchia fanno già parte dell’alleanza. Fortunatamente per la Russia, recentemente le relazioni tra Ankara e Mosca si sono scaldate considerevolmente. La Turchia non vede più la Russia come nemica, ed ha (la Turchia) in passato fatto cadere il paese per una lista di potenziali minacce, rendendo più difficile per Washington pianificare contro la Russia, attraverso il Caucaso. Tuttavia, Ankara ha serie ambizioni ed aderisce alla politica di espansione umanitaria mirando soprattutto alla Crimea e Gagauzia (quest’ultima, entità territoriale autonoma della repubblica di Moldavia). Gli strumenti di tale politica, spaziano dalle quote per i caucasici nazionali che risiedono in Turchia, ai grandi investimenti nell’economia della Crimea e della Gagauzia. I Tartari della Crimea sono rappresentati dagli haugue- quartier generali delle nazioni non rappresentate e organizzazioni popolari, e questi possono chiedere al massimo una maggiore autonomia nel panorama ucraino. Nessun dubbio, per ciò che riguarda l’acquisto del loro status, che potrebbe immediatamente risolversi nell’espulsione del Mar Nero russo dalla loro base di Sevastopol.

L’organizzazione dei popoli non riconosciuti è attualmente osservata e vede l’Abkhazia come un potenziale. Considerando che la marina russa non accoglierà la Georgia e la grande Circassia, si alzerebbe una barriera tra la Russia e gran parte della costa del Mar Nero, nel tempo l’Abkhazia potrebbe divenire l’unico sbocco del Mar Nero russo. Perdendo ciò, la Russia si troverebbe costretta all’enclave della marina, conosciuto come il Mare di Azov, dove la marina (russa) può essere facilmente bloccata da forze distribuite in Crimea e nella grande Circassia. Il progetto rumeno scompone la situazione. Diffonde la sua influenza ad est e in molti modi assorbe la Moldavia e parte dell’Ucraina, il paese sta cercando di rafforzare le sue posizioni nel Mar Nero. Come oggi, il Mar Nero è l’unico mare aperto dove la marina statunitense non è presente in pianta stabile. Se il piano dell’ovest di costruire una grande Circassia si materializzasse, la repubblica da poco indipendente, pagherà con l’operazione di separazione della Russia dal Mar Nero. Seri sforzi di buttar giù il regime pro-russo, lungo la costa del Mar Nero, dovrebbero essere visti come un processo parallelo. Il disegno è conosciuto come “l’anello di anaconda”, un piano classico per la geopolitica Usa nell’Eurasia, volto ad escludere i Russi dai mari bloccandoli nell’entroterra. L’occidente evidentemente attribuisce la massima priorità al problema circassiano, essendo la rispettabile fondazione James Town, uno dei punti interessati. Il neo presidente della compagnia RAND, Paul Hansee della rinomata comunità statunitense d’intellgence immagina Paul Globe, che è considerato come il maggior contributo allo sviluppo del progetto Ugro-finnico di separatismo nella repubblica Russa, ugro-finnica. Prende parte negli eventi della fondazione James Town concentrati intorno alla Circassia.

Paesi anglo-sassoni danno attivo supporto agli attivisti circassiani come Khachi Bairam, il leader della diaspora circassiana in Turchia, Zeyaz Hajo un rappresentante circassiano negli USA, il presidente Iyad Youghar, un istituto culturale circassiano, etc.

Ad oggi il movimento circassiano nazionalista è tenuto dai servizi d’intelligence dell’ovest lungo lo spazio post- sovietico. La fratellanza circassiana mondiale ha il suo quartier generale a Los Angeles, un suo presidente Zamir Shukhov è stato fotografato sovente con la bandiera americana sullo sfondo. Un’ideologista circassiano Akhmat Ismagyil, autore della “Guerra Caucasica”, un libro pubblicato in Siria, si apre con l’intenzione di liberare il Caucaso dalla Russia. I circassiani stanno cercando di credere che qualcuno possa far pagare la Russia -materialmente e moralmente- per gli eventi che accaddero due secoli fa.

In Israele l’ideologia è confermata dal leader del gruppo ultra-azionista Bead Artseinu, fautore di un impero israeliano che va dal Nilo all’Eufrate, Shmulevic Avraham (originariamente Nikita Dyomin, un convertito al giudaismo nato in una famiglia, da padre russo e madre ebrea a Murmansk, Russia).

Il parlamento israeliano ha concesso a Shmulevich la cittadinanza onoraria israeliana nel 1984 per il suo attivismo ebraico in URSS. Israele ospita una lunga diaspora circassiana che Tel Aviv utilizza per i propri fini in stretto contatto con Washington.

Lasciateci immaginare che -per quanto incredibile possa sembrare- la repubblica circassiana guadagni l’indipendenza dalla Russia. Il futuro sarebbe simile a quello della Cecenia sotto J.Dadaev, una regione separatista manipolata da Washington, Londra, Ankara, Karachi e Riyad. Tutto ciò, i ceceni ordinari, lo videro come risultato di un combattimento feroce sul proprio suolo. Il piano della grande Circassia muoverebbe semplicemente l’intero Caucaso di un passo più vicino alla stessa situazione.

(Traduzione di Giulia Vitolo)

mercredi, 23 février 2011

Le kémalisme, parenthèse de l'histoire turque

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Le kémalisme, parenthèse de l'histoire turque
Aymeric CHAUPRADE
Ex: http://realpolitik.tv/
Voici ce que j’écrivais il y a plus de 3 ans dans Valeurs actuelles, à propos de la Turquie et plus généralement des expériences modernisatrices dans le monde musulman. L’analyse insiste sur la question de l’identité islamique qui continue d’être occultée dans les analyses dominantes des médias lesquels se font plaisir en affirmant que les peuples tunisien et égyptien rêvent de devenir comme nous. Il faudrait ajouter à cet article centré sur l’aspect identitaire, la dimension économique. La hausse des prix des matières premières a souvent été le facteur déclencheur de révolution lorsque les conditions d’épuisement du régime politique étaient arrivées à maturité.
Article paru dans Valeurs actuelles en 2007

Depuis plus de dix ans maintenant, le parti fondé par Mustapha Kemal, instrument de la laïcisation et plus largement de l’occidentalisation de la société turque, est écarté du pouvoir au profit des islamistes.

La question fondamentale que les Européens doivent alors se poser est la suivante : est-ce l’islam politique qui apparaîtra un jour comme une courte parenthèse de l’histoire de la Turquie moderne, ou est-ce au contraire la modernité kémaliste qui sera digérée par la « longue durée » de l’islam turc ?

Depuis leur entrée dans l’islam, les destins des aires culturelles turque, iranienne et arabe sont plus que jamais liés. Au XXème siècle, ces trois mondes ont tenté de s’occidentaliser en faisant reculer l’emprise de l’islam sur leur société civile. Ils vivent désormais, en décalage, la crise des idées modernes venues d’Europe.

L’Iran, avec la Révolution islamique de 1979, a rejeté l’occidentalisation à marche forcée voulue par le Shah ; au point d’amener des courants nationalistes, religieux et marxistes à se liguer autant contre le retour à l’Iran préislamique que contre la projection dans la modernité occidentale. La Révolution s’étant faite dans un contexte de développement accéléré (le PIB par habitant est passé de 176 à 2160 dollars entre 1963 et 1977), sa principale cause est donc identitaire : la majorité des Iraniens a considéré que l’islam était indissociable de l’identité nationale iranienne.

Le monde arabe aussi, soulevé par les Nasser, Saddam Hussein et Yasser Arafat, est également revenu à l’islamisme. L’échec des chefs nationalistes arabes face à l’alliance américano-israélienne, la corruption des élites et l’argent saoudien expliquent l’effondrement du panarabisme. On oublie souvent que ce nationalisme arabe, semé par l’Expédition d’Égypte de 1798, et qui emprunta tant aux théoriciens français et allemands du nationalisme, fut largement la conséquence de la levée des Jeunes Turcs contre l’ottomanisme.

Les unes après les autres donc, les expériences modernes du monde musulman s’effondrent et, même si les choses s’y font plus lentement et plus calmement, la Turquie n’échappe pas à ce retour à l’identité islamique, pas plus d’ailleurs que l’immigration musulmane d’Europe occidentale.

Pour le comprendre, il faut revenir aux causes du surgissement des idéologies modernisatrices en terre d’islam.

A l’origine, il y a la prise de conscience par le monde musulman que la religion islamique, venue après les « premières prophéties juive et chrétienne » et jusqu’alors en tête de la course à la puissance, est en train de perdre la direction de l’histoire.

Au XVIème siècle, l’ouverture des routes maritimes et la découverte de l’Amérique privent le monde musulman de sa qualité de centre incontournable du commerce mondial.

Entré dans le déclin, l’islam doit désormais se demander pourquoi. Une partie de ses intellectuels accepte alors de se rendre à l’évidence : c’est la place privilégiée de la raison dans leur religion qui a donné aux Européens un tel avantage.
Il faut donc accepter au XVIIème siècle ce qui n’a jamais été accepté avant : ouvrir une fenêtre sur la modernité européenne. Jusque-là, l’islam n’a toléré qu’une (modeste) intrusion de la philosophie grecque préchrétienne dans son système de pensée. Désormais, il lui faut apprendre de ceux qu’il juge inférieurs, les Chrétiens.

Mais la modernité n’est admise qu’en tant que moyen de redevenir plus fort que l’Occident chrétien, non en tant que fin. On lui emprunte des éléments, mais sans adhérer au changement de perspective qu’elle contient, car alors cela signifierait une altération de l’islam.

Cette réalité historique que nos élites ne veulent pas voir est à la fois simple et terrible : le mouvement d’occidentalisation en Turquie, comme dans le reste du monde musulman, trouve sa source dans la volonté de retrouver la supériorité militaire face à l’Occident en progrès.

C’est ce qui explique que la laïcité turque n’en est pas réellement une et que le kémalisme apparaîtra un jour comme un épiphénomène de l’histoire de la civilisation turco-islamique.

On a ainsi pour habitude d’opposer, à propos de la Turquie, les partisans de la laïcité à ceux de l’islamisme. Soit, mais si la « Turquie moderne » est réellement moderne, comment expliquer l’acharnement constant de son État à faire disparaître ses minorités chrétiennes ?

Les médias parlent des assassinats de plus en plus fréquents de prédicateurs chrétiens afin de souligner qu’ils ne sont que l’expression marginale d’une frange minoritaire de radicaux, d’ailleurs condamnée par les tribunaux turcs. Mais ils passent sous silence le fait que ces même tribunaux intentent des procès aux musulmans qui se convertissent au christianisme, pour « insulte à la turcité ». Un pays où la conversion est punie par la loi est-il vraiment un pays laïc ?

Faut-il rappeler aussi, au risque de choquer, qu’après les sultans ottomans, le premier président de la Turquie moderne, comme les forces turques débarquant à Chypre en 1974, eurent droit à la qualification de « gazi » ? Ce terme honorifique qui vient de l’arabe « ghaziya » ne fait-il pas écho à la « glorieuse » époque des incursions à des fins de conquête, de pillage ou de captures d’esclaves, que pratiquaient les partisans du Prophète Mahomet ?

L’État turc est laïc parce qu’il n’est pas théocratique : ce ne sont pas des religieux qui le dirigent et la sphère politique y a gagné, grâce à Atatürk, une certaine autonomie. Pour autant, l’État turc reste bien le garant de l’identité musulmane du pays et de la propagation de l’islam à l’étranger, comme le montre son soutien à des groupes islamiques radicaux dans les Balkans, ou dans cet immense Turkestan d’Asie centrale.

« Mais les islamistes sont des démocrates ! » s’écrient certains en Occident. Ils « vaudraient même plus » que ces militaires turcs héritiers de ce jacobinisme autoritaire qu’est le kémalisme.

Logique ! Dans tous les pays musulmans les islamistes sont aujourd’hui majoritaires face à des gouvernements occidentalistes qui, menacés, « verrouillent », à des degrés divers, le champ politique. En faisant pression sur ces gouvernements modernisateurs mais autoritaires, les Européens ne font qu’accélérer la prise de pouvoir des islamistes, leurs véritables ennemis.

Hier les mouvements occidentalistes du monde musulman tentèrent de se servir de notre modernité pour redevenir plus forts que nous ; aujourd’hui, les islamistes tentent de se servir de nos idées démocratiques pour arriver au pouvoir et y appliquer leur programme de désoccidentalisation radicale, avec un seul et même objectif, obsessionnel : la revanche sur l’Occident.

Aymeric Chauprade

dimanche, 13 février 2011

Jean-Gilles Malliarakis : l'Europe et la Turquie

Jean-Gilles Malliarakis : l'Europe et la Turquie


vendredi, 11 février 2011

Pierre Vial: Obama et la Turquie (avril 2009)

Pierre Vial : Obama et la Turquie (avril 2009)


jeudi, 10 février 2011

Analyse des relations entre Turquie et Israël


Analyse des relations entre Turquie et Israël

mercredi, 09 février 2011

Erdogans Griff nach der Weltmacht - das Ende aller Integrationsträume

Erdogans Griff nach der Weltmacht - das Ende aller Integrationsträume

 

jeudi, 27 janvier 2011

La semaine des révélations en Turquie

La semaine des révélations en Turquie

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

110122

JG Malliarakis

Apostilles

  1. AKP = "Adalet ve Kalkinma Partisi" (en turc : le parti de la justice et du développement, fondé et dirigé par l'actuel premier ministre Erdogan actuellement majoritaire au parlement en attendant les résultats des élections de juin 2011).
  2. Ce nom de Bayloz correspond à l'appellation turque. Le nom anglais "Sledgehammer" apparaît couramment dans la presse. En français ce mot se traduit par "masse" [du forgeron] ; nous dirions plutôt : "massue" [avec un "e"…].
  3. MGK = "Milli Guvenlik Kurulu" (en turc : le Conseil de sécurité nationale)
  4. cf. Une scène bouleversante du très beau film "En attendant les nuages" ("Bulutlari beklerken") de la réalisatrice Yesim Ustaoglu.
  5. Voir à ce sujet les images de la manif meurtrière. Pas besoin d'avoir étudié la langue d'Omar Pamuk pour comprendre…
  6. Sur ce point, la fable de la défense des Chypriotes-Turcs contre les [très méchants] Grecs est balayée par la réalité même de la zone nord occupée, où les autochtones, devenus minoritaires dans leur propre réduit, souvent émigrés au Royaume-Uni, n'exercent plus qu'un pouvoir de façade.
  7. Ne pas confondre avec le général Çetin Dogan, ancien chef de la première armée turque et principal accusé du complot "Bayloz".
  8. PKK = "Partiya Karkerên Kurdistan" (en kurde : parti des travailleurs du Kurdistan")
  9. On se reportera à à mon petit livre sur "La Question turque et l'Europe".
  10. Voir son transport en chaise roulante au moment de ses premiers aveux en octobre 2010.
Au 4e anniversaire du meurtre, commis le 19 janvier 2007, du journaliste arménien Hrant Dink, on doit constater que le terrain judiciaire a permis à une certaine vérité d'avancer. Cela s'est surtout concrétisé d'une manière paradoxale, sans doute imprévue. Car cette affaire se rattache à un nombre impressionnant de crimes du même ordre, commis depuis plusieurs années.


Ils ont été perpétrés notamment, mais pas seulement, contre les chrétiens.

Au fil du temps, on a pu découvrir que l'intention des instigateurs s'inscrit dans le cadre d'une politique intérieure généralement mal comprise des Européens et, encore moins, des Américains. Autrefois un vieil adage du mépris de fer britannique considérait que "les nègres commencent à Calais". Heureusement les Occidentaux ont rompu avec cette erreur. Ils en commettent cependant une autre, pensant que le caractère formel des institutions démocratique de la Turquie en fait un pays en tous points semblable aux leurs.

À Istanbul et Ankara la presse que l'on qualifiera de gouvernementale, les journaux pro-AKP (1), classés à droite, mais également aussi quelques journaux de gauche, parviennent désormais à mettre en cause, et à démontrer, l'hypothèse de réseaux militaro-mafieux, stigmatisés dans ce pays sous le nom "d'État profond".

L'interminable procès du réseau serpent de mer appelé "Ergenekon" divise fortement la Turquie en deux camps. À lire respectivement "Zaman" et "Hürriyet", on en arrive à considérer que deux vérités, peut-être même deux nations se confrontent.

Le premier groupe se situe sur la défensive. Il se retrouve sur le ban des accusés du complot "Ergenekon". S'y a été ajouté le dossier du projet de coup d'État appelé "Bayloz" (2) : en tout, les officiers supérieurs, généraux, amiraux et colonels impliqués atteignaient fin 2010 le nombre de 400. Ils s'identifient au parti de la laïcité, désireuse de s'opposer à la "réaction". Mais n'oublions pas que, dans un tel pays, les militaires représentent aussi un poids économique et social considérable : avec 790 000 hommes sous les drapeaux, le taux de militarisation de la Turquie n'est dépassé dans le monde que par celui de la Corée du nord et, par ricochet, le taux de son adversaire du sud. Or, rappelons-le, contrairement aux deux parties du pays du Matin Calme, la république kémaliste n'est entourée que de petits pays. N'inversons pas les rôles : ce n'est pas la Grèce, effectivement contrainte de déployer un très coûteux effort militaire, qui menace le "pays voisin".

Depuis la rédaction de la constitution de 1982, imposée par les auteurs du coup d'État de septembre 1980, et jusqu'à l'arrivée au pouvoir de l'AKP en 2003, le pouvoir suprême était détenu par le MGK (3). Dans cet exercice, l'État-major d'Ankara, recruté par cooptation, pouvait compter aussi sur le soutien de la haute magistrature. À celle-ci l'attachaient ces tendres liens qu'on appelle "philosophiques" dans des quotidiens tels que la "Nouvelle République" de Tours, la "Dépêche" de Toulouse" ou "l'Est républicain" de Nancy. En Turquie comme en France, le jacobinisme et le laïcisme s'appuient toujours sur les mêmes réseaux.

En face d'eux se trouvent des gens, ceux du parti au pouvoir "AKP", mais également du mouvement islamo-moderniste de Fethullah Gûlen, que l'on qualifie ordinairement, mais peut-être abusivement, en tout cas vaguement, sans que les mots aient été préalablement définis, d'islamistes. À terme, ces musulmans militants et confrériques représenteraient si d'aventure leur pays entrait dans l'Europe, un danger certes beaucoup plus grand que leurs compatriotes kémalistes ou leurs coreligionnaires salafistes.

Constatons que dans le court terme, leur action a permis de mettre en lumière les faces d'ombres de l'Histoire contemporaine de leur pays.

Les occidentaux de ma génération, par exemple, avaient été bercés de la légende de ce qu'on appelait l'helléno-turquisme, les "frères ennemis Grecs et Turcs", réconciliés depuis le gouvernement de Venizelos (1928-1932). Cette rumeur optimiste prospéra jusqu'aux jours noirs de septembre 1955. Les Grecs de Constantinople furent alors victimes de violences inacceptables. Ils durent quitter une Ville, leur Ville, la Ville, que l'on disait "Immortelle", vieille comme l'Histoire humaine, et pourtant d'une beauté toujours étincelante, aujourd'hui encore sous son nom définitivement turc d'Istanbul.

Sans s'étendre sur cette page sombre et lamentable, retenons que jusqu'à une date très récente, ceux qui la connaissaient, bien peu nombreux en France, pays qui ne se connaît pas d'ennemis, en rendaient responsable le gouvernement d'Adnan Menderes. Et celui-ci avait été renversé, et pendu par les militaires kémalistes en 1961.

Or tous les documents publiés par les journaux officieux, à la faveur de la lutte entre le gouvernement civil de l'AKP et les comploteurs d'Ergenekon, prouvent le contraire de ce que nous pensions jusque-là. Tous ces crimes avaient été provoqués par "l'État profond" en vue d'une politique machiavélique.

Notre interprétation superficielle résulte précisément de la désinformation. Elle avait été fabriquée par le jacobinisme local et propagée par ses cercles de confraternité en Europe occidentale et aux États-Unis.

Le régime bipartisan avait été institué en 1946 dans le contexte de la guerre froide et du plan Marshall. Cette apparence, renforcée par l'adhésion à l'OTAN en 1952, allait certes permettre au parti démocrate de récupérer une partie du public musulman, légitimement heurté par la laïcisation à marche forcée de la République à l'époque de son fondateur.

Mais les limites de la liberté sont demeurées, cependant, étroitement surveillées par des équipes adverses, "républicaines", animées d'un nationalisme militaire ombrageux et même obsidional. "Le Turc entouré d'ennemis, inculquent-ils dès l'enfance aux petits écoliers, trahis par les siens, doit faire face et remporter la victoire". (4)

Leur habileté avait consisté à se présenter pour les sous-traitants indispensables du pacte atlantique et de la stratégie occidentale dans la région. En bons serviteurs de l'idée qu'ils se font de leur intérêt national, et d'un destin géopolitique "de l'Adriatique à la muraille de Chine", ils se préoccupent, de toute évidence, comme d'une guigne de l'Atlantique et de l'Occident. Qu'ils aient pu apparaître comme les alliés des Israéliens hier, comme les protecteurs des Arabes aujourd'hui, donne à sourire. La défunte Yougoslavie a cru aussi les compter au nombre de ses amis.

Même la Commission européenne commence à prendre conscience du sens réel des négociations. Elles ne se déroulent pas en vue de l'adhésion et ne peuvent pas aboutir à en faire vraiment un État-Membre. Elles ne sont pas menées en vue de cette fin. Les équipes rivales de l'AKP ont hérité du dossier en 2003. Elles en tirent parti, depuis, dans le sens des réformes internes, plus ou moins libérales, qu'elles souhaitent mettre en œuvre, pour des raisons spécifiques à leur islam confrérique.

Le danger à long terme que représente leur démarche réside en ceci : elle organise, beaucoup plus efficacement que ses concurrentes arabes, saoudiennes, marocaines ou égyptiennes, la propagande, le matraquage et le chantage en vue d'une reconnaissance de l'islam comme "l'une des religions de l'Europe", voire même la "deuxième religion de France". Et ces énormes mensonges s'installent peu à peu.

La thèse de l'accusation dans les procès "Ergenekon" comme dans le sous-dossier "Bayloz" tend à donner une explication commune à tous ces faits qui s'apparentent à l'assassinat de Hrant Dink, soit aussi bien :
- les persécutions du reliquat de populations chrétiennes,
- les actions directes contre les missionnaires, évalués par le MGK comme un danger stratégique pour le pays depuis 2001, et présentés comme tels par une partie de la presse,
- ainsi que les tensions perpétuelles et provocatrices avec la Grèce,
- la fermeture des frontières de l'Arménie depuis 1993,
- le refus d'une solution acceptable à Chypre depuis 1974,
- ou même la mise à mort de 37 alevis à Sivas par une foule où se mêlaient à la fois les intégristes islamistes et les loups gris (5),
- ou l'assassinat mystérieux d'un journaliste comme Ugur Mumcu :
… tout cela résultait donc d'un propos délibéré, protégé par "l'État profond".

Il s'agit, au bout du compte, de maintenir la Turquie sous le joug militaire, de présenter leur intervention comme "barrage à l'islamisme".

Les quatre coups d'État réitérés de 1960 à 1997, aux applaudissements de l'occident, trouveraient leur origine dans cette perspective ainsi que l'invasion de Chypre en 1974 et le maintien d'un régime d'occupation dans le nord de l'île. (6) Ce boulet pèse lourd, sans aucun profit pour la Turquie.

Face à cette authentique "stratégie de la tension" le fameux mot d'ordre du ministre des affaires étrangères "pas de problème avec nos voisins" remplit dès lors une fonction à usage interne.

Tout cela demeurait masqué, voilé, mis en doute par la défense des comploteurs, sûrs d'eux.

Coup de théâtre la semaine écoulée, qui correspondait au 4e anniversaire de meurtre de Hrant Dink.

Les audiences du 17 et du 18 janvier du procès ont, ainsi, mis en relief une personnalité bien significative : celle du olonel de gendarmerie en retraite Arif Dogan. (7) En septembre 2010 on apprenait ses implications dans des crimes que l'on attribue désormais à Jitem, service secret illégal de la gendarmerie turque.

Jitem, rappelons-le, correspond à une structure parallèle fonctionnant à la fois comme service de renseignement et comme "service action" exécuteur des basses besognes. En particulier, à partir des années 1980, une guerre impitoyable a ravagé le sud-est anatolien sous le drapeau du PKK, organisation marxiste-léniniste "parti des travailleurs" (8) se réclamant du Kurdistan. À la même époque l'utilisation du mot même de "Kurde" était sanctionnée par des peines très dures. Il fallait user d'un euphémisme tel que "Turc de la Montagne". En face de cette situation de négation de leur identité culturelle, les populations considérées ont représenté, dès le début de la république, et après une très courte période d'entente avec Kemal, un foyer permanent de rébellions.

Celles-ci ont pris toutes les colorations, notamment celle d'une résistance, qualifiée de féodaliste et obscurantiste. Les excès antireligieux du gouvernement d'Ankara, plaisaient beaucoup en Europe occidentale, en Union Soviétique, en Amérique et, bien entendu, au grand-orient de France.

La dernière force de révolte en date a été fondée en 1978 par un militant gauchiste appelé Abdullah Ocalan. Elle invoque, au contraire des précédantes, une idéologie révolutionnaire que l'iconographie des affiches collées dans les villes d'Europe où le PKK est implanté confirme à l'évidence. Son organisation prit les armes à partir de 1984. Le conflit doit avoir fait 44 000 victimes en un quart de siècle. Il s'agissait, il s'agit encore puisque le terrorisme a repris, d'une vraie guerre.

On ne doit donc pas s'étonner que tous les moyens pour réduire cette affaire aient semblé légitimes aux forces locales du maintien de l'ordre. Et à plusieurs reprises les "protecteurs de villages", recrutés officiellement, ont été dénoncés par les gens qui imaginent de réduire cet État aux critères de l'Europe bien-pensante et consommatrice. (9)

Dans un tel contexte, il a été révélé par le colonel Arif Dogan lui-même que, dès 1986 les réseaux du service secret turc ont suscité et armé un mouvement terroriste kurde rival lui-même, le "Hizbullah" dirigé par Husseÿn Velioglu. Ce dernier mourra en définitive, après 15 ans de violences, sous les balles de la police turque en 2000, dans le cadre d'un kidnapping qu'il avait organisé.

L'idée de recruter ainsi des musulmans fanatiques au sein de la population kurde pour servir aux fins de l'ordre turc n'a certes pas été découverte par le colonel Arif Dogan. Elle avait déjà connu une certaine notoriété à l'époque des premières exactions massives commises à l'encore des Arméniens à la fin du XIXe siècle. Fondée en 1890 sous le règne de Abdul-Hamid II l'unité de cavalerie ottomane "Hamidiyé" passe même pour avoir représenté les précurseurs, dans les années 1895-1896, du génocide de 1915. Mais la différence reste considérable entre une unité répressive d'inspiration légale et un groupe terroriste.

Or l'audience des 17 et 18 janvier a permis au colonel de se justifier, et de le faire d'une manière extrêmement violente. Tel un vieil homme usé, aosr qu'il n'est âgé que de 65 ans (10), il accédait difficilement à la barre. Mais il a explosé et rompu avec le système de défense de tout le camp kémaliste. Depuis le début, celui-ci se voulait "serein". Il nie l'existence du complot : "un simple wargame (en français : kriegspiel), une étude d'école, la réplique purement théorique du coup d'État du général Evren en septembre 1980, etc." Toutes les accusations dont nous faisons état relèveraient d'une propagande odieuse, mensongère, et, horresco referens pour les temps qui courent "islamiste". "Ergenekon" ? Une "légende urbaine" !

Patatras, ayant dirigé pendant 8 ans une lutte antiterroriste, le colonel Arif Dogan s'est mis à hurler qu'il avait défendu son pays. Effectivement. Le président lui demanda donc de se calmer. Mais la révélation était faite : oui, le Jitem avait bien orchestré une activité illégale, oui il avait suscité le Hizbullah kurde de Turquie, oui ce Hizbullah était conçu comme un "Hizb-kontra" sur le mode des "contras" latino-américains, oui ces soi-disant parangons de la laïcité et de l'intégrité du territoire avaient embrigadé des islamistes séparatistes. Sympa le colonel. Il ne restera plus à ses compagnons d'hier que la ressource de faire circuler sa photo et de nous persuader que "toute vieillesse est un naufrage".

Et puis le 19 janvier, vint le tour de l'assassin effectif de Hrant Dink. Incarcéré depuis les faits ce jeune idéaliste de 17 ans ne semble pas avoir trop souffert de son incarcération. Il semble même qu'il ait "été fêté [et nourri] comme un héros national". Or ce jour-là, Ogün Samast a reconnu avoir été envoyé vers sa victime, et encouragé dans son intention meurtrière, par des officiers de gendarmerie.

Si l'on devait croire la "fameuse" encyclopédie Wikipedia, qui ne donne guère d'autres détails à son sujet, le jeune activiste aurait eu de bonnes raisons de liquider Hrant Dink. Il prête en effet à sa victime une déclaration un peu surprenante, dont Wikipedia ne donne évidemment pas la référence : "vider un jour ce sang turc empoisonné et de remplir avec le sang neuf de l’Arménie qui après l’indépendance paraît comme l’avenir des Arméniens du monde entier". Que, quatre ans après le meurtre, Wiki demeure encore alimentée par de tels bobards, en dit long sur la source dominante des gens qui fabriquent et amplifient les rumeurs mondiales.

Rappelons aux lecteurs qu'officiellement, en Turquie, tout le monde a condamné moralement ce crime. Si ce courageux journaliste, qui se savait menacé avait prononcé une phrase pareille, aussi provocatrice, très peu de gens, y compris dans les milieux arméniens eussent pris sa défense, et il serait allé directement en prison, en application du code pénal.

La décision de le liquider semble avoir été prise à partir de 2003. Hrant Dink représentait, dans son journal "Agos", un symbole insupportable. Pour la première fois depuis les événements tragiques qui ont purgé en 1915 la Turquie de l'essentiel de sa population arménienne, puis en 1922 de l'essentiel de sa population grecque, un représentant des survivants de ces minorités osait écrire librement, revendiquant son identité sans pour autant renoncer à sa citoyenneté. Dans tous les systèmes autoritaire clos, la dissidence intérieure appuyée sur le droit, est considérée comme pire que l'exil, pire que la trahison.Quatre ans plus tard, le quotidien Zaman, proche du gouvernement, reconnaît que "Hrant Dink a été victime de la fumée".

Nous dirions plus crûment en France : de l'enfumage systématique.

Autrement dit : les inspirateurs de ses assassins ont bénéficié des puissants instruments de désinformation mis en place et protégés par la complaisance occidentale depuis l'installation en 1946 d'un bipartisme apparent. Jusqu'à l'arrivée au pouvoir de l'AKP en 2003, ce régime avait été limité par divers putschs militaires. Et ceux-ci ont jalonné l'Histoire de ce demi-siècle, y compris le coup d'État dit postmoderne de février 1997.

Comme dans d'autres pays musulmans d'ailleurs, la dictature policière glauque a produit le fumier qui permet à l'islamisme de fleurir.

La semaine des révélations en Turquie

La semaine des révélations en Turquie

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

110122Au 4e anniversaire du meurtre, commis le 19 janvier 2007, du journaliste arménien Hrant Dink, on doit constater que le terrain judiciaire a permis à une certaine vérité d'avancer. Cela s'est surtout concrétisé d'une manière paradoxale, sans doute imprévue. Car cette affaire se rattache à un nombre impressionnant de crimes du même ordre, commis depuis plusieurs années.

Ils ont été perpétrés notamment, mais pas seulement, contre les chrétiens.

Au fil du temps, on a pu découvrir que l'intention des instigateurs s'inscrit dans le cadre d'une politique intérieure généralement mal comprise des Européens et, encore moins, des Américains. Autrefois un vieil adage du mépris de fer britannique considérait que "les nègres commencent à Calais". Heureusement les Occidentaux ont rompu avec cette erreur. Ils en commettent cependant une autre, pensant que le caractère formel des institutions démocratique de la Turquie en fait un pays en tous points semblable aux leurs.

À Istanbul et Ankara la presse que l'on qualifiera de gouvernementale, les journaux pro-AKP (1), classés à droite, mais également aussi quelques journaux de gauche, parviennent désormais à mettre en cause, et à démontrer, l'hypothèse de réseaux militaro-mafieux, stigmatisés dans ce pays sous le nom "d'État profond".

L'interminable procès du réseau serpent de mer appelé "Ergenekon" divise fortement la Turquie en deux camps. À lire respectivement "Zaman" et "Hürriyet", on en arrive à considérer que deux vérités, peut-être même deux nations se confrontent.

Le premier groupe se situe sur la défensive. Il se retrouve sur le ban des accusés du complot "Ergenekon". S'y a été ajouté le dossier du projet de coup d'État appelé "Bayloz" (2) : en tout, les officiers supérieurs, généraux, amiraux et colonels impliqués atteignaient fin 2010 le nombre de 400. Ils s'identifient au parti de la laïcité, désireuse de s'opposer à la "réaction". Mais n'oublions pas que, dans un tel pays, les militaires représentent aussi un poids économique et social considérable : avec 790 000 hommes sous les drapeaux, le taux de militarisation de la Turquie n'est dépassé dans le monde que par celui de la Corée du nord et, par ricochet, le taux de son adversaire du sud. Or, rappelons-le, contrairement aux deux parties du pays du Matin Calme, la république kémaliste n'est entourée que de petits pays. N'inversons pas les rôles : ce n'est pas la Grèce, effectivement contrainte de déployer un très coûteux effort militaire, qui menace le "pays voisin".

Depuis la rédaction de la constitution de 1982, imposée par les auteurs du coup d'État de septembre 1980, et jusqu'à l'arrivée au pouvoir de l'AKP en 2003, le pouvoir suprême était détenu par le MGK (3). Dans cet exercice, l'État-major d'Ankara, recruté par cooptation, pouvait compter aussi sur le soutien de la haute magistrature. À celle-ci l'attachaient ces tendres liens qu'on appelle "philosophiques" dans des quotidiens tels que la "Nouvelle République" de Tours, la "Dépêche" de Toulouse" ou "l'Est républicain" de Nancy. En Turquie comme en France, le jacobinisme et le laïcisme s'appuient toujours sur les mêmes réseaux.

En face d'eux se trouvent des gens, ceux du parti au pouvoir "AKP", mais également du mouvement islamo-moderniste de Fethullah Gûlen, que l'on qualifie ordinairement, mais peut-être abusivement, en tout cas vaguement, sans que les mots aient été préalablement définis, d'islamistes. À terme, ces musulmans militants et confrériques représenteraient si d'aventure leur pays entrait dans l'Europe, un danger certes beaucoup plus grand que leurs compatriotes kémalistes ou leurs coreligionnaires salafistes.

Constatons que dans le court terme, leur action a permis de mettre en lumière les faces d'ombres de l'Histoire contemporaine de leur pays.

Les occidentaux de ma génération, par exemple, avaient été bercés de la légende de ce qu'on appelait l'helléno-turquisme, les "frères ennemis Grecs et Turcs", réconciliés depuis le gouvernement de Venizelos (1928-1932). Cette rumeur optimiste prospéra jusqu'aux jours noirs de septembre 1955. Les Grecs de Constantinople furent alors victimes de violences inacceptables. Ils durent quitter une Ville, leur Ville, la Ville, que l'on disait "Immortelle", vieille comme l'Histoire humaine, et pourtant d'une beauté toujours étincelante, aujourd'hui encore sous son nom définitivement turc d'Istanbul.

Sans s'étendre sur cette page sombre et lamentable, retenons que jusqu'à une date très récente, ceux qui la connaissaient, bien peu nombreux en France, pays qui ne se connaît pas d'ennemis, en rendaient responsable le gouvernement d'Adnan Menderes. Et celui-ci avait été renversé, et pendu par les militaires kémalistes en 1961.

Or tous les documents publiés par les journaux officieux, à la faveur de la lutte entre le gouvernement civil de l'AKP et les comploteurs d'Ergenekon, prouvent le contraire de ce que nous pensions jusque-là. Tous ces crimes avaient été provoqués par "l'État profond" en vue d'une politique machiavélique.

Notre interprétation superficielle résulte précisément de la désinformation. Elle avait été fabriquée par le jacobinisme local et propagée par ses cercles de confraternité en Europe occidentale et aux États-Unis.

Le régime bipartisan avait été institué en 1946 dans le contexte de la guerre froide et du plan Marshall. Cette apparence, renforcée par l'adhésion à l'OTAN en 1952, allait certes permettre au parti démocrate de récupérer une partie du public musulman, légitimement heurté par la laïcisation à marche forcée de la République à l'époque de son fondateur.

Mais les limites de la liberté sont demeurées, cependant, étroitement surveillées par des équipes adverses, "républicaines", animées d'un nationalisme militaire ombrageux et même obsidional. "Le Turc entouré d'ennemis, inculquent-ils dès l'enfance aux petits écoliers, trahis par les siens, doit faire face et remporter la victoire". (4)

Leur habileté avait consisté à se présenter pour les sous-traitants indispensables du pacte atlantique et de la stratégie occidentale dans la région. En bons serviteurs de l'idée qu'ils se font de leur intérêt national, et d'un destin géopolitique "de l'Adriatique à la muraille de Chine", ils se préoccupent, de toute évidence, comme d'une guigne de l'Atlantique et de l'Occident. Qu'ils aient pu apparaître comme les alliés des Israéliens hier, comme les protecteurs des Arabes aujourd'hui, donne à sourire. La défunte Yougoslavie a cru aussi les compter au nombre de ses amis.

Même la Commission européenne commence à prendre conscience du sens réel des négociations. Elles ne se déroulent pas en vue de l'adhésion et ne peuvent pas aboutir à en faire vraiment un État-Membre. Elles ne sont pas menées en vue de cette fin. Les équipes rivales de l'AKP ont hérité du dossier en 2003. Elles en tirent parti, depuis, dans le sens des réformes internes, plus ou moins libérales, qu'elles souhaitent mettre en œuvre, pour des raisons spécifiques à leur islam confrérique.

Le danger à long terme que représente leur démarche réside en ceci : elle organise, beaucoup plus efficacement que ses concurrentes arabes, saoudiennes, marocaines ou égyptiennes, la propagande, le matraquage et le chantage en vue d'une reconnaissance de l'islam comme "l'une des religions de l'Europe", voire même la "deuxième religion de France". Et ces énormes mensonges s'installent peu à peu.

La thèse de l'accusation dans les procès "Ergenekon" comme dans le sous-dossier "Bayloz" tend à donner une explication commune à tous ces faits qui s'apparentent à l'assassinat de Hrant Dink, soit aussi bien :
- les persécutions du reliquat de populations chrétiennes,
- les actions directes contre les missionnaires, évalués par le MGK comme un danger stratégique pour le pays depuis 2001, et présentés comme tels par une partie de la presse,
- ainsi que les tensions perpétuelles et provocatrices avec la Grèce,
- la fermeture des frontières de l'Arménie depuis 1993,
- le refus d'une solution acceptable à Chypre depuis 1974,
- ou même la mise à mort de 37 alevis à Sivas par une foule où se mêlaient à la fois les intégristes islamistes et les loups gris (5),
- ou l'assassinat mystérieux d'un journaliste comme Ugur Mumcu :
… tout cela résultait donc d'un propos délibéré, protégé par "l'État profond".

Il s'agit, au bout du compte, de maintenir la Turquie sous le joug militaire, de présenter leur intervention comme "barrage à l'islamisme".

Les quatre coups d'État réitérés de 1960 à 1997, aux applaudissements de l'occident, trouveraient leur origine dans cette perspective ainsi que l'invasion de Chypre en 1974 et le maintien d'un régime d'occupation dans le nord de l'île. (6) Ce boulet pèse lourd, sans aucun profit pour la Turquie.

Face à cette authentique "stratégie de la tension" le fameux mot d'ordre du ministre des affaires étrangères "pas de problème avec nos voisins" remplit dès lors une fonction à usage interne.

Tout cela demeurait masqué, voilé, mis en doute par la défense des comploteurs, sûrs d'eux.

Coup de théâtre la semaine écoulée, qui correspondait au 4e anniversaire de meurtre de Hrant Dink.

Les audiences du 17 et du 18 janvier du procès ont, ainsi, mis en relief une personnalité bien significative : celle du olonel de gendarmerie en retraite Arif Dogan. (7) En septembre 2010 on apprenait ses implications dans des crimes que l'on attribue désormais à Jitem, service secret illégal de la gendarmerie turque.

Jitem, rappelons-le, correspond à une structure parallèle fonctionnant à la fois comme service de renseignement et comme "service action" exécuteur des basses besognes. En particulier, à partir des années 1980, une guerre impitoyable a ravagé le sud-est anatolien sous le drapeau du PKK, organisation marxiste-léniniste "parti des travailleurs" (8) se réclamant du Kurdistan. À la même époque l'utilisation du mot même de "Kurde" était sanctionnée par des peines très dures. Il fallait user d'un euphémisme tel que "Turc de la Montagne". En face de cette situation de négation de leur identité culturelle, les populations considérées ont représenté, dès le début de la république, et après une très courte période d'entente avec Kemal, un foyer permanent de rébellions.

Celles-ci ont pris toutes les colorations, notamment celle d'une résistance, qualifiée de féodaliste et obscurantiste. Les excès antireligieux du gouvernement d'Ankara, plaisaient beaucoup en Europe occidentale, en Union Soviétique, en Amérique et, bien entendu, au grand-orient de France.

La dernière force de révolte en date a été fondée en 1978 par un militant gauchiste appelé Abdullah Ocalan. Elle invoque, au contraire des précédantes, une idéologie révolutionnaire que l'iconographie des affiches collées dans les villes d'Europe où le PKK est implanté confirme à l'évidence. Son organisation prit les armes à partir de 1984. Le conflit doit avoir fait 44 000 victimes en un quart de siècle. Il s'agissait, il s'agit encore puisque le terrorisme a repris, d'une vraie guerre.

On ne doit donc pas s'étonner que tous les moyens pour réduire cette affaire aient semblé légitimes aux forces locales du maintien de l'ordre. Et à plusieurs reprises les "protecteurs de villages", recrutés officiellement, ont été dénoncés par les gens qui imaginent de réduire cet État aux critères de l'Europe bien-pensante et consommatrice. (9)

Dans un tel contexte, il a été révélé par le colonel Arif Dogan lui-même que, dès 1986 les réseaux du service secret turc ont suscité et armé un mouvement terroriste kurde rival lui-même, le "Hizbullah" dirigé par Husseÿn Velioglu. Ce dernier mourra en définitive, après 15 ans de violences, sous les balles de la police turque en 2000, dans le cadre d'un kidnapping qu'il avait organisé.

L'idée de recruter ainsi des musulmans fanatiques au sein de la population kurde pour servir aux fins de l'ordre turc n'a certes pas été découverte par le colonel Arif Dogan. Elle avait déjà connu une certaine notoriété à l'époque des premières exactions massives commises à l'encore des Arméniens à la fin du XIXe siècle. Fondée en 1890 sous le règne de Abdul-Hamid II l'unité de cavalerie ottomane "Hamidiyé" passe même pour avoir représenté les précurseurs, dans les années 1895-1896, du génocide de 1915. Mais la différence reste considérable entre une unité répressive d'inspiration légale et un groupe terroriste.

Or l'audience des 17 et 18 janvier a permis au colonel de se justifier, et de le faire d'une manière extrêmement violente. Tel un vieil homme usé, aosr qu'il n'est âgé que de 65 ans (10), il accédait difficilement à la barre. Mais il a explosé et rompu avec le système de défense de tout le camp kémaliste. Depuis le début, celui-ci se voulait "serein". Il nie l'existence du complot : "un simple wargame (en français : kriegspiel), une étude d'école, la réplique purement théorique du coup d'État du général Evren en septembre 1980, etc." Toutes les accusations dont nous faisons état relèveraient d'une propagande odieuse, mensongère, et, horresco referens pour les temps qui courent "islamiste". "Ergenekon" ? Une "légende urbaine" !

Patatras, ayant dirigé pendant 8 ans une lutte antiterroriste, le colonel Arif Dogan s'est mis à hurler qu'il avait défendu son pays. Effectivement. Le président lui demanda donc de se calmer. Mais la révélation était faite : oui, le Jitem avait bien orchestré une activité illégale, oui il avait suscité le Hizbullah kurde de Turquie, oui ce Hizbullah était conçu comme un "Hizb-kontra" sur le mode des "contras" latino-américains, oui ces soi-disant parangons de la laïcité et de l'intégrité du territoire avaient embrigadé des islamistes séparatistes. Sympa le colonel. Il ne restera plus à ses compagnons d'hier que la ressource de faire circuler sa photo et de nous persuader que "toute vieillesse est un naufrage".

Et puis le 19 janvier, vint le tour de l'assassin effectif de Hrant Dink. Incarcéré depuis les faits ce jeune idéaliste de 17 ans ne semble pas avoir trop souffert de son incarcération. Il semble même qu'il ait "été fêté [et nourri] comme un héros national". Or ce jour-là, Ogün Samast a reconnu avoir été envoyé vers sa victime, et encouragé dans son intention meurtrière, par des officiers de gendarmerie.

Si l'on devait croire la "fameuse" encyclopédie Wikipedia, qui ne donne guère d'autres détails à son sujet, le jeune activiste aurait eu de bonnes raisons de liquider Hrant Dink. Il prête en effet à sa victime une déclaration un peu surprenante, dont Wikipedia ne donne évidemment pas la référence : "vider un jour ce sang turc empoisonné et de remplir avec le sang neuf de l’Arménie qui après l’indépendance paraît comme l’avenir des Arméniens du monde entier". Que, quatre ans après le meurtre, Wiki demeure encore alimentée par de tels bobards, en dit long sur la source dominante des gens qui fabriquent et amplifient les rumeurs mondiales.

Rappelons aux lecteurs qu'officiellement, en Turquie, tout le monde a condamné moralement ce crime. Si ce courageux journaliste, qui se savait menacé avait prononcé une phrase pareille, aussi provocatrice, très peu de gens, y compris dans les milieux arméniens eussent pris sa défense, et il serait allé directement en prison, en application du code pénal.

La décision de le liquider semble avoir été prise à partir de 2003. Hrant Dink représentait, dans son journal "Agos", un symbole insupportable. Pour la première fois depuis les événements tragiques qui ont purgé en 1915 la Turquie de l'essentiel de sa population arménienne, puis en 1922 de l'essentiel de sa population grecque, un représentant des survivants de ces minorités osait écrire librement, revendiquant son identité sans pour autant renoncer à sa citoyenneté. Dans tous les systèmes autoritaire clos, la dissidence intérieure appuyée sur le droit, est considérée comme pire que l'exil, pire que la trahison.Quatre ans plus tard, le quotidien Zaman, proche du gouvernement, reconnaît que "Hrant Dink a été victime de la fumée".

Nous dirions plus crûment en France : de l'enfumage systématique.

Autrement dit : les inspirateurs de ses assassins ont bénéficié des puissants instruments de désinformation mis en place et protégés par la complaisance occidentale depuis l'installation en 1946 d'un bipartisme apparent. Jusqu'à l'arrivée au pouvoir de l'AKP en 2003, ce régime avait été limité par divers putschs militaires. Et ceux-ci ont jalonné l'Histoire de ce demi-siècle, y compris le coup d'État dit postmoderne de février 1997.

Comme dans d'autres pays musulmans d'ailleurs, la dictature policière glauque a produit le fumier qui permet à l'islamisme de fleurir.

JG Malliarakis
2petitlogo


Apostilles

  1. AKP = "Adalet ve Kalkinma Partisi" (en turc : le parti de la justice et du développement, fondé et dirigé par l'actuel premier ministre Erdogan actuellement majoritaire au parlement en attendant les résultats des élections de juin 2011).
  2. Ce nom de Bayloz correspond à l'appellation turque. Le nom anglais "Sledgehammer" apparaît couramment dans la presse. En français ce mot se traduit par "masse" [du forgeron] ; nous dirions plutôt : "massue" [avec un "e"…].
  3. MGK = "Milli Guvenlik Kurulu" (en turc : le Conseil de sécurité nationale)
  4. cf. Une scène bouleversante du très beau film "En attendant les nuages" ("Bulutlari beklerken") de la réalisatrice Yesim Ustaoglu.
  5. Voir à ce sujet les images de la manif meurtrière. Pas besoin d'avoir étudié la langue d'Omar Pamuk pour comprendre…
  6. Sur ce point, la fable de la défense des Chypriotes-Turcs contre les [très méchants] Grecs est balayée par la réalité même de la zone nord occupée, où les autochtones, devenus minoritaires dans leur propre réduit, souvent émigrés au Royaume-Uni, n'exercent plus qu'un pouvoir de façade.
  7. Ne pas confondre avec le général Çetin Dogan, ancien chef de la première armée turque et principal accusé du complot "Bayloz".
  8. PKK = "Partiya Karkerên Kurdistan" (en kurde : parti des travailleurs du Kurdistan")
  9. On se reportera à à mon petit livre sur "La Question turque et l'Europe".
  10. Voir son transport en chaise roulante au moment de ses premiers aveux en octobre 2010.

dimanche, 16 janvier 2011

Ayméric Chauprade: l'Europe et la Turquie


Ayméric Chauprade: l'Europe et la Turquie

jeudi, 13 janvier 2011

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Giovanni Andriolo

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

I rapporti tra Israele e Turchia, nell’anno appena trascorso, sembrano essere irrimediabilmente deteriorati.

Fin dal 1949, quando la Turchia fu il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, Ankara e Gerusalemme si sono mossi nella direzione di un costante avvicinamento reciproco, accelerato negli anni ’90 e culminato nel 1996 con il primo accordo di cooperazione militare.

Il nuovo millennio si era aperto con prospettive positive. Se l’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte della “Coalizione dei Volonterosi” aveva creato una certa ulteriore turbolenza nell’area mediorientale, questa si era ripercossa anche negli equilibri strategici dei paesi vicini. In un tale scenario, la Turchia fu considerata da Israele un importante attore di mediazione tra lo Stato ebraico e i paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente. In accordo con tale prospettiva, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era impegnato nel 2008 in un notevole sforzo diplomatico come mediatore nella crisi ormai quarantennale tra la Siria e lo Stato di Israele.

Tuttavia, con la salita al potere, nel 2002, del “Partito per la giustizia e lo sviluppo”, di matrice islamico-conservatrice di centro-destra, sulla scia dei partiti cristiano-conservatori o cristiano democratici d’Europa, le relazioni tra i due paesi hanno subito un certo raffreddamento.

Se da un lato, infatti, la politica estera turca si è orientata verso un maggiore attivismo nei confronti dei vicini mediorientali, tra cui l’Iran, la Siria, e, recentemente, l’Egitto, questo fatto ha necessariamente comportato un rallentamento della cooperazione con Israele. Nel tentativo di mediare tra le istanze provenienti dall’Occidente europeo e dall’Oriente vicino, due poli che rappresentano, in ultima analisi, le due anime del tessuto storico e sociale turco, la Turchia ha cercato di ricoprire il ruolo che diversi attori si aspettavano da Ankara, ponendosi come vero e proprio ponte tra le due aree. Sotto questo punto di vista, il nuovo orientamento della politica turca ha richiesto un necessario allentamento dei rapporti con Israele, durante i primi anni del 2000.

Successivamente, alcuni eventi internazionali hanno accentuato un tale distacco. Così, se nel 2008 Erdogan era riuscito a mettere in contatto telefonico il Presidente siriano Assad e il Primo Ministro israeliano Olmert, la tragica operazione Piombo Fuso da parte delle forze israeliane verso Gaza, alla fine dello stesso anno, aveva interrotto bruscamente il tentativo di dialogo tra i due paesi, vanificando lo sforzo diplomatico turco e provocando ad Ankara delusione e disappunto.

Tuttavia, è nel 2010 che si consuma la rottura ufficiale tra i due paesi, con il grave incidente avvenuto in acque internazionali ai danni della nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, e con l’uccisione da parte delle forze israeliane di sette attivisti turchi e di uno statunitense di origini turche. In quell’occasione, il Presidente turco Erdogan descrisse l’attacco israeliano come “terrorismo di stato” e ritirò il proprio ambasciatore da Israele. Da quel momento, i rapporti tra i due paesi hanno subito una brusca interruzione.

La Turchia si rivolge ad Est, Israele ad Ovest

L’attuale governo israeliano sembra aver trovato una soluzione all’aggravarsi della crisi con la Turchia. Perseguendo la politica, che tanto cara sembra essere allo Stato di Israele, di creazione di alleanze strategiche con paesi lontani a discapito dei rapporti con i paesi vicini, il Ministro degli Esteri Avigdor Liberman, assieme ai suoi collaboratori, si è impegnato nell’ultimo anno in una serie di incontri con Ministri e Capi di Stato di diversi paesi dell’area balcanica, con i quali ha inteso creare una serie di relazioni economiche, politiche e militari in funzione anti-turca.

Pertanto, se la Turchia sembra guardare verso Oriente e verso i paesi vicini ad est dei propri confini, Israele, d’altra parte, sembra rivolgersi al lato opposto, verso occidente. Questa volta, però, Israele si sta avvicinando ad un occidente nuovo, un occidente più vicino rispetto a quello oltreoceano, un occidente malleabile, e, soprattutto, situato a ridosso della Turchia. Si tratta della penisola balcanica, dell’area geografica che va dai Mari Adriatico e Ionio fino al Mar Egeo ed al Mar Nero, che partendo dalla linea Trieste – Odessa, a Nord, scende verso Sud fino a coprire tutta la Grecia.

È su quest’area che Israele ha concentrato i propri sforzi diplomatici nell’ultimo anno, attraverso una frequenza di visite e incontri ufficiali tutt’altro che sporadica, attraverso la conclusione di accordi di natura economico-militare con diversi paesi della regione, attraverso riferimenti diretti, nei discorsi ufficiali tenuti durante tali missioni, alla Turchia e al pericolo di reviviscenza del terrorismo islamico che i paesi balcanici starebbero correndo.

Le missioni israeliane del 2010 nei Balcani

Già dai primi giorni del 2010, l’apparato diplomatico israeliano ha mosso i primi passi verso l’area balcanica.

Così, il 5 gennaio il Ministro degli Esteri Liberman ha incontrato il Primo Ministro macedone Gruevski a Gerusalemme. Durante l’incontro, Liberman ha affermato che gli Stati balcanici rappresenterebbero la prossima destinazione della “Jihad globale”, che mirerebbe a stabilire infrastrutture nella regione e centri di reclutamento di attivisti. Una settimana dopo, il 13 gennaio, Lieberman ha visitato Cipro, dal cui Presidente ha ottenuto una serie di accordi di carattere commerciale, mentre il 27 gennaio ha incontrato il Primo Ministro ungherese a Budapest. Il giorno seguente, il Vice Ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon si è recato in visita in Slovacchia, nell’intento dichiarato di creare un fronte di opposizione al Rapporto Goldstone. A febbraio, Ayalon ha siglato un protocollo di rinnovo degli accordi sul trasporto aereo con il Ministro dei Trasporti ucraino, stabilendo una serie di agevolazioni di carattere commerciale negli scambi tra i due paesi e abolendo l’obbligo del visto per le visite tra i cittadini di Israele e Ucraina. A marzo, si è svolto a Gerusalemme l’annuale incontro delle delegazioni greca e israeliana, occasione per ribadire i saldi rapporti tra i due paesi e per parlare di sicurezza nella regione mediterranea, in particolare della minaccia rappresentata dall’Iran. In aprile, Liberman si è impegnato in una visita di tre giorni in Romania, dove ha discusso con il Presidente Băsescu di questioni di sicurezza, dilungandosi sulle minacce rappresentate da Iran e Siria. In maggio, si sono svolti incontri tra Liberman e rappresentanti dei governi di Macedonia, Croazia e Bulgaria, durante i quali sono stati discussi piani di cooperazione in ambito economico e commerciale.

Fino a maggio, quindi, gli incontri tra il Ministro israeliano e i suoi colleghi dei diversi paesi balcanici sembravano presentare finalità perlopiù economico-commerciali e di creazione di un consenso in funzione anti-iraniana. Dopo l’attacco alla Freedom Flottilla, avvenuto nel maggio del 2010, e la conseguente rottura delle relazioni con la Turchia, i toni degli incontri di Liberman con i leader balcanici sono cambiati.

Durante l’estate, Liberman ha ricevuto a Gerusalemme il Primo Ministro greco Papandreou. In quell’occasione, il Ministro israeliano ha ringraziato apertamente la Grecia per aver cooperato con Israele in occasione dei recenti fatti della Freedom Flottilla e ha invitato l’Unione Europea a prendere posizione proattiva nei confronti di Libano, Siria e Turchia, affinché questi paesi evitino dannose provocazioni future. L’inclusione della Turchia tra i paesi ostili, a fianco di Libano e Siria, segna da un lato il fallimento del progetto di mediazione, da parte di Erdogan, tra Gerusalemme e Damasco e sancisce, dall’altro, la rottura ufficiale con Ankara. A luglio, si è riunito a Gerusalemme il Comitato Economico Israelo-Ucraino, durante il quale rappresentanti dei due paesi hanno discusso di questioni di carattere economico e commerciale. Con il Ministro degli Esteri ucraino Gryshchenko, poi, Liberman ha firmato un accordo di cancellazione del visto per le visite reciproche dei cittadini dei due paesi. All’inizio di settembre, Liberman si è recato a Cipro e in Repubblica Ceca per discutere con i Ministri degli Esteri locali delle relazioni tra i rispettivi paesi e della sicurezza nella regione. Ad ottobre, Liberman ha siglato un trattato sull’aviazione con il Ministro degli Esteri greco Droutsas. Il trattato prevede, tra l’altro, l’estensione del numero delle rotte aeree tra i due paesi e nuovi meccanismi di negoziazione delle tariffe reciproche. A dicembre, i giornali bulgari hanno mostrato le foto di un incontro a Sofia tra il Primo Ministro bulgaro Borisov e il capo dei servizi segreti israeliani Meir Dagan. Il Presidente bulgaro Borisov avrebbe infatti chiesto, subito dopo la propria elezione, di incontrare Netanyahu per offrire la cooperazione del proprio paese ad Israele in diversi campi: da sicurezza e intelligence al permesso per i piloti israeliani di svolgere esercitazioni sui cieli della Bulgaria. In cambio, Borisov auspicherebbe di ottenere l’aiuto israeliano nello sviluppo di più moderne tecnologie per il proprio paese e l’incremento verso la Bulgaria del flusso di turisti israeliani, che sembrano finora preferire la Turchia. Anche la Grecia avrebbe accordato all’aeronautica israeliana il permesso di esercitarsi sui propri cieli, e altrettanto avrebbe concesso la Romania.

Sempre a dicembre, Liberman ha incontrato in visite ufficiali i Capi di Stato di Bulgaria, Slovenia e Bosnia Erzegovina, ribadendo con tutti i solidi legami tra Israele e i rispettivi paesi. Inoltre, Israele ha fornito all’Albania una serie di aiuti per supportare il Governo locale nell’affrontare gli allagamenti che hanno colpito il paese all’inizio di dicembre.

I vantaggi per Israele e per i Balcani

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i paesi balcanici sarebbero favorevoli ad un avvicinamento con Israele per diversi motivi. Innanzitutto, la crisi nei rapporti tra Israele e Turchia aprirebbe per i Balcani diverse possibilità per insinuarsi e per sottrarre alla Turchia stessa le relazioni speciali che godeva con Gerusalemme. I paesi balcanici sono tendenzialmente insofferenti alla Turchia per diverse ragioni di carattere storico, religioso, culturale. Molti Stati della regione balcanica hanno subito per lunghi secoli la dominazione ottomana, alcuni (i paesi abitati da Bosniaci ed Albanesi) sarebbero preoccupati da una minaccia di diffusione del fondamentalismo islamico nei propri territori, altri hanno dispute di natura territoriale con la Turchia, altri ancora sperano di risollevare le proprie economie attraverso una stretta cooperazione con Israele.

In quest’ottica, la Bulgaria e la Grecia sembrano essere i due paesi più interessati ad approfondire i rapporti con Israele. La disputa con la Turchia in relazione al futuro di Cipro e la forte crisi economica che ha colpito la Grecia, spingerebbero il Presidente Papandreou verso una comunanza di interessi con Gerusalemme in funzione anti-turca e verso uno sbocco ad est di natura economico-commerciale. D’altra parte, Israele si trova a dover colmare il vuoto di alleanze strategiche lasciato dal deterioramento dei rapporti con la Turchia. La Grecia, in quest’ottica, risulta particolarmente attraente per Gerusalemme, poiché, oltre a presentare un’aperta ostilità nei confronti di Ankara e ad essere posizionata al confine con la Turchia, risulta essere membro dell’Unione Europea e, pertanto, potrebbe rivelarsi una risorsa strategica importante per Gerusalemme all’interno del Consiglio a Bruxelles, assieme ad altri paesi balcanici membri. Per questi motivi, Grecia e Israele hanno dichiarato il 2011 come l’anno della propria collaborazione strategica.

Alcune conclusioni

La regione balcanica assume per Israele, nella congiuntura attuale, un’importanza strategica fondamentale.

Gli ultimi eventi riguardanti Israele e l’uso della forza da parte del suo esercito (si vedano l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008 o l’attacco alla Freedom Flottilla del 2010) hanno guastato l’immagine del paese sullo scenario internazionale e lo hanno privato di un importante alleato a maggioranza musulmana, la Turchia. Risulta pertanto necessario per Israele recuperare un certo consenso internazionale e colmare il vuoto lasciato ad ovest dall’alleato turco.

La politica del governo di Netanyahu sembra attestarsi, in tali circostanze, in linea con le strategie seguite dallo Stato israeliano fin dalla sua formazione. Piuttosto di instaurare un dialogo con i propri vicini, che nella fattispecie sarebbero rappresentati da Turchia ad ovest e dai paesi mediorientali suoi confinanti ad est, Israele sembra preferire l’avvicinamento con paesi più lontani, ma in grado di effettuare una certa pressione nei confronti dei paesi vicini. In quest’ottica, i paesi balcanici si configurano come l’obiettivo ideale per Israele.

Innanzitutto per motivi geografici: la regione balcanica, infatti, rappresenta il contatto territoriale della Turchia ad ovest del Bosforo con l’Europa. Il confine terrestre turco infatti tocca la Bulgaria e la Grecia, che abbiamo visto essere i principali interlocutori di Israele nei Balcani, e anche via mare la Turchia si affaccia ad ovest sulle coste greche e cipriote. Di fatto, i Balcani rappresentano la porta d’ingresso della Turchia in Europa. Sotto questo punto di vista, l’eventuale ostilità balcanica nei confronti della Turchia rappresenterebbe un ostacolo simbolico e reale non indifferente per le prospettive future del paese di Erdogan.

Il ruolo di ponte tra Occidente ed Oriente che Ankara ha assunto e che molti leader europei ed extraeuropei auspicano non può prescindere da buone relazioni tra Turchia e gli stati confinanti ad ovest come ad est. Tale ruolo è uno degli argomenti più importanti usato dalle voci che stanno promuovendo l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Se, come è già stato sottolineato, il governo turco si è mosso negli ultimi anni verso un avvicinamento dei paesi mediorientali anche in chiave di mediazione (ne è esempio la telefonata del 2008 tra Assad e Olmert organizzata da Erdogan), un rafforzamento dei rapporti con l’Europa risulta di fondamentale importanza. In una tale ottica, uno svilimento delle relazioni tra la Turchia e la regione che rappresenta l’ingresso all’Europa, i Balcani, risulterebbe oltremodo dannosa per il processo di costituzione del ponte turco tra Oriente ed Occidente. Tra i paesi balcanici, la Slovenia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria e la Grecia sono già membri dell’Unione Europea, mentre Croazia, Montenegro e Macedonia sono, assieme alla Turchia stessa, i principali candidati. L’ostilità, da parte di questi paesi, verso la Turchia e verso il suo ingresso nell’Unione Europea potrebbe compromettere la saldatura di Ankara con Bruxelles e far crollare uno dei due lati del ponte, quello occidentale.

In quest’ottica, Israele può soltanto guadagnare da un tale scenario. Se, infatti, il progetto del ponte turco fosse portato a termine e la Turchia diventasse veramente un mezzo di mediazione delle istanze occidentali ed orientali, l’importanza del consenso dello Stato di Israele nella regione passerebbe in secondo piano. Infatti, le pressioni da parte mediorientale e da parte europea, una volta coese dalla mediazione turca, risulterebbero insopportabili per Gerusalemme, che si troverebbe costretta ad accordare condizioni di pace, magari non così vantaggiose per Israele, ai palestinesi e ai paesi vicini, come la Siria, con cui sussistono ancora dispute territoriali.


* Giovanni Andriolo, dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), collabora con la rivista Eurasia.

lundi, 10 janvier 2011

Pressions turques en faveur de l'immigration mafieuse

Jean-Gilles MALLIARAKIS:

Pressions turques en faveur de l’immigration mafieuse

Ex: http://www.insolent.fr/

dimanche, 09 janvier 2011

Nordzypern: Türkisches Militär räumt Kirchen

Saint Panteleimon1.jpg

Ex: http://www.pi-news.net/2011/01/nordzypern-tuerkisches-mil...

Nordzypern: Türkisches Militär räumt Kirchen

Im türkisch besetzten Teil der Mittelmeerinsel wurden seit Heiligabend
mindestens sieben orthodoxe Kirchen vom türkischen Militär betreten. Die
Soldaten haben die Gottesdienste abgebrochen und die Gläubigen (hier sind
die Christen gemeint) hinausgeworfen. In mindestens einem Fall wurde ein
Priester zum Ablegen seiner liturgischen Gewänder gezwungen.

(Von Florian Euring „La Valette“)

Die Regierung Zyperns hat gegen diese gesetzwidrigen Akte der
separatistischen Regierung des türkisch besetzten Nordens bei UN und EU
protestiert. Stefanos Stefanou, zyprischer
Regierungssprecher, bezeichnete die Handlungsweise als vollkommen
inakzeptabel und verurteilenswert. Sie stellt eine Verletzung des
Grundrechts auf freie Religionsausübung dar.

Außerdem bezeichnete er das Vorgehen als Anzeichen für den repressiven
Charakter des Okkupationsregimes. Es wird befürchtet, dass das türkische
Regime Nordzyperns eine vollkommene „Dehellenisierung“ und damit
Entchristianisierung des besetzten Teils der Insel anstrebt.

Dieses Verhalten nährt weiter die Zweifel an der EU-Tauglichkeit der Türkei.
Es sei denn, man wünscht sich eine Entchristianisierung und Islamisierung
der EU.

mercredi, 05 janvier 2011

Athene plant bouw van hek aan grens met Turkije

grecoturque.jpg

Athene plant bouw van hek aan grens met Turkije

       
ATHENE 01/01 (DPA) = Om de eindeloze stroom van vluchtelingen uit Turkije
tegen te houden, is Griekenland van plan een afrastering te zetten
langs het grootste deel van de 206 kilometer lange grens met Turkije.
Dit heeft de Griekse minister van Burgerbescherming, Christos
Papoutsis, volgens het Griekse persbureau ANA gezegd.
    "De samenwerking met de grenswachten uit andere EU-staten verloopt
goed", zei Papoutsis. "Nu zijn we van plan een hek te bouwen om de
illegale migratie tegen te gaan." Als voorbeeld zal de afsluiting
gelden die de Verenigde Staten langs de grens met Mexico opgetrokken hebben.
    Onduidelijk blijft wat de houding van de Europese Commissie
tegenover dit plan is. De Europese Unie voert toetredingsgesprekken met
Turkije.
    Meer dan 80 procent van de illegale migranten in de EU komt de Unie
ondertussen via Griekenland binnen. Ongeveer 300.000 mensen
verblijven illegaal in Griekenland. Ze komen vooral uit Afghanistan, Irak
en Noord-Afrikaanse landen. Griekenland krijgt hulp van EU-beambten
om de landsgrenzen met Turkije te controleren en vluchtelingen in
opvangkampen onder te brengen.

vendredi, 31 décembre 2010

Türkei und China auf Schmusekurs

Türkei und China auf Schmusekurs

MIchael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

China-Tuerkei.jpgDie Türkei war jahrzehntelange Hätschelkind der US-Außenpolitik, das die Vereinigten Staaten zu gerne auch als EU-Mitgliedsstaat gesehen hätten. Jetzt wird die Entwicklung des kleinasiatischen Staates jenseits des Ozeans mit steigendem Mißmut betrachtet.

Ein Grund dafür ist die chinesisch-türkische Annäherung, die Michael Auslin, Leiter für Japanstudien am American Enterprise Institute, in einem Artikel für die  einflußreiche, als konservativ und wirtschaftsliberal geltende Tagezeitung Wall Street Journal unter dem bezeichnenden Titel analysiert: „Kommt eine türkisch-chinesische Achse? Ankara wendet sich von Israel ab und schmeichelt sich bei China ein“.

Ausgangspunkt der Betrachtungen Auslins sind die Folgen der seit einiger Zeit gestörten israelisch-türkischen Beziehungen und die Hinwendung der Türkei zu „aufstrebenden, selbstbewußten Regimen“, darunter eben auch China, das nicht nur bemüht sei, im entlegenen Afrika eine größere Rolle zu spielen, sondern auch in anderen geopolitisch wichtigen Staaten.

Die türkisch-israelische Kooperation

Auslin gibt dann einen Überblick über die Entwicklung der israelisch-türkischen Beziehungen, angefangen bei der Anerkennung des Staates Israel durch die Türkei im Jahre 1948, bis hin zur Kooperation der beiden Staaten in Sicherheitsfragen, zum Beispiel gegenüber Staaten wie dem Iran und Syrien, in den Achtziger und Neunziger Jahren; dazu gehörte auch die Unterstützung Israels bei der Modernisierung türkischer Waffensysteme. Israel konnte im Gegenzug zum Beispiel türkische Luftwaffenstützpunkte nutzen.

Wendepunkt Gaza-Hilfsflotte

All das ist mittlerweile Geschichte: Zwar habe der türkische Premierminister Recep Tayyip Erdoğan anfänglich mit Israel kooperiert, so Auslin, dann aber begann er sich Staaten wie Syrien oder dem Iran zuzuwenden. Als Argumente für die sich abkühlenden Beziehungen zu Israel gab Erdoğan dessen Vorgehen im Gazastreifen im Jahre 2008 und vor allem die Vorgänge um die „Gaza-Hilfsflotte“ Mitte des Jahres an, bei der acht türkische Staatsbürger durch israelische Einwirkung ums Leben kamen. Seitdem liegen die Beziehungen zwischen der Türkei und Israel auf Eis.

Konsequenzen für die NATO

Erdoğans Annäherung an eine weitere „autoritäre Macht“, gemeint ist China, tangiere nun allerdings auch die Interessen der USA, konstatiert Auslin, und zwar spätestens seit der Einladung Ankaras an die chinesische Luftwaffe, am Luftwaffenstützpunkt Konya gemeinsame Manöver abzuhalten. Damit erwüchsen ernste Zweifel daran, ob es bei den engen Beziehungen der Türkei zu „liberalen Nationen“ wie den USA und Israel bleibe.

In diesem Zusammenhang spiele nicht nur eine Rolle, daß die „strategische Partnerschaft“, die Erdoğan und Chinas Staatspräsident Hu Jintao vereinbart hätten, eine Steigerung des Handelsvolumens von derzeit 17 Milliarden Dollar auf 100 Milliarden Dollar im Jahre 2020 vorsehe.

Viel schwerwiegender seien die Konsequenzen für die NATO. Wie weit nämlich könnte die chinesisch-türkische Zusammenarbeit gehen? Auslin nennt hier ein konkretes Beispiel: Die Türkei gehört unter anderem zu einem Konsortium, das am Bau des ersten Tarnkappen-Mehrzweckkampfflugzeuges Lockheed Martin F-35 Lightning II beteiligt ist. Wird die Türkei China einladen, dieses Flugzeug zu inspizieren oder gar Probe zu fliegen? Welche anderen Waffengeschäfte könnte die Türkei mit China vereinbaren?

Türkei droht Isolation

Es sei jedenfalls eine Notwendigkeit, das westliche Analytiker damit begönnen, sich nicht nur mit den Auswirkungen der chinesisch-türkischen Annäherung, sondern auch mit dem wachsenden Netzwerk antiwestlicher Staaten zu beschäftigen. Mit Blick auf Erdoğan konstatiert Auslin, falls der türkische Premier weiter Alliierte bei den „autoritären Staaten“ suche, werde er die Türkei von der liberalen westlichen Welt isolieren.

Das Gewicht der Türkei vergrößern

Auslins Artikel ist in mancherlei Hinsicht instruktiv: So spiegelt er zum Beispiel die Irritation der USA im Hinblick auf das Ausgreifen Chinas in Regionen, die die USA als ihre angestammte Einflußsphäre betrachten. Erdoğan sieht sich in der angenehmen Lage, aufgrund der Heraufkunft des neuen „global players“ China mit dem geopolitischen Pfund der Türkei zu wuchern. Der Konsens der „westlichen Wertegemeinschaft“ interessiert ihn dabei herzlich wenig; sein Ziel besteht ganz offensichtlich darin, das internationale Gewicht der Türkei weiter zu erhöhen.

Mit der Türkei bekommen die USA ganz konkret vorgeführt, daß ihre Position als „einzige Supermacht“ Geschichte ist. Ab jetzt steht mit China ein ernsthafter Herausforderer im Ring, der jede Schwachstelle, die die westliche Führungsmacht bietet, nutzen wird. Zu diesen Schwachstellen gehört, das zeigt sich mehr und mehr, die einseitige Option für Israel.

mercredi, 29 décembre 2010

Turkey "wants to repair ties with Israel"

Ex : http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-12079727

Turkey 'wants to repair ties with Israel'

Turkey-Israel.jpgTurkey's foreign minister says he wants to repair ties with Israel, damaged
when Israeli troops killed eight Turks and a Turkish-US national amid
clashes on a pro-Palestinian aid ship in May.

Ahmet Davutoglu reiterated that Israel must apologise for the deaths, which
led Turkey to withdraw its ambassador.

Israel, which insists the commandos fired in self-defence, said it was also
seeking better relations with Ankara.

Meanwhile, crowds have welcomed the ship, Mavi Marmara, back to Istanbul.

The two nations have had 15 years of good relations, including a number of
military and trade pacts, and have held talks in Geneva recently to try to
restore ties.

But the talks foundered, reportedly because Israel refused to apologise for
the 31 May raid.
'Unchanged goal'

"Turkish citizens have been killed in international waters, nothing can
cover up this truth," said Mr Davutoglu.

"We want to both preserve relations and defend our rights. If our friendship
with Israel is to continue, the way for it is to apologise and offer
compensation."

He said Turkish attempts to repair ties - including helping Israel tackle
devastating forest fires - had not been reciprocated.

Israeli foreign ministry spokesman Yigal Palmor said improving the
relationship was an "unchanged goal".

He said Israel's record in sending humanitarian aid to Turkey "speaks in a
much more truthful and friendly manner than this statement by the Turkish
foreign minister".

The Mavi Marmara, which has been undergoing repairs, sailed back to its home
port of Istanbul on Sunday afternoon.

Large crowds, including family members of the nine killed activists, greeted
the vessel in a ceremony organised by the activists who sent it.

The Mavi Marmara was part of an aid flotilla which was trying to break the
Israeli naval blockade of the Gaza Strip.

A blockade has been imposed on the Gaza Strip by Israel and Egypt since the
Islamist militant group, Hamas, seized control in 2007.

In the wake of the outcry over the raid, Israel began allowing most consumer
items into Gaza, but still maintains a complete air and naval blockade,
limits the movement of people, and bans exports.

Israel says the measures are needed to stop weapons being smuggled to
militants, but the UN says they amount to collective punishment of Gaza's
1.5 million people.

jeudi, 23 décembre 2010

Peter Scholl-Latour: La Turquie, grande puissance régionale

Pan-turanism-sv.gif

La Turquie en marche pour devenir une grande puissance régionale face à une Europe affaiblie !

 

 

Entretien avec Peter SCHOLL-LATOUR

 

Propos recueillis par Bernhard TOMASCHITZ

 

Q. : Dr. Scholl-Latour, la Turquie s’affiche de plus en plus comme une puissance indépendante, consciente d’elle-même, de sa destinée et de son histoire ; elle s’affirme ainsi sur la scène internationale. A-t-elle les potentialités nécessaires pour devenir une grande puissance régionale au Proche-Orient ?

 

PSL : La Turquie possède indubitablement de telles potentialités : elle dispose d’une armée conventionnelle qui est probablement plus forte que la plupart des armées européennes ; qui plus est, une nouvelle islamisation s’est emparée de la Turquie, ce qui confère à l’Etat de nouvelles orientations géopolitiques. Il est possible que les Turcs et Erdogan n’aient pas encore reconnu les chances réelles dont ils disposent, des chances qui ne pourront être saisies si la Turquie s’associe trop étroitement à l’Europe. Lorsque, dans des conversations avec des Turcs, on mentionne le fait qu’ils sont les héritiers d’un grand empire et non pas l’appendice d’une Union Européenne qui marine dans le vague, on rencontre tout de suite leur approbation. Et, de fait, ce serait bien le rôle de la Turquie, et non pas d’une autre puissance, de créer un minimum d’ordre dans l’espace moyen-oriental qui menace actuellement de sombrer dans le chaos.

 

Q. : Quel est le rapport qu’entretient la Turquie avec ses voisins ?

 

PSL : Les Turcs ont bien sûr un rapport tendu avec l’Irak parce que dans le Nord de l’Irak, les Kurdes, qui y forment la population majoritaire de souche, sont devenus quasiment indépendants du gouvernement de Bagdad et que cette quasi indépendance pourrait constituer un précédent pour les Kurdes de Turquie. Mais jusqu’à présent les Kurdes d’Irak, et surtout leur leader Barzani, se sont comportés de manière très adéquate et très subtile. Par ailleurs, la Turquie a accompli un grand pas en avant en direction de la Syrie, avec laquelle elle cultivait une longue inimitié : aujourd’hui les rapports ente la Syrie et la Turquie sont bons. En revanche, les rapports avec Israël, qui, auparavant, étaient excellents sur les plans de la coopération militaire et technologique, se sont considérablement détériorés. Ce fut sans doute la grande erreur des Israéliens qui n’ont rien fait pour contrer cette évolution ; on constate dès lors qu’en Turquie, hommes politiques et hommes de la rue convergent dans des attitudes nettement anti-israéliennes.

 

Ensuite, et c’est l’essentiel pour la Turquie, il y a le Caucase et l’Asie centrale. Dans le Caucase, les Azéris, habitants de l’Azerbaïdjan, sont chiites alors que les Turcs sont sunnites. Mais les deux peuples sont purement turcs de souche et parlent des langues très similaires. La zone occupés par des peuples turcs (turcophones) comprend le Turkménistan, le Kazakhstan et s’étend à tout le territoire centre-asiatique jusqu’à la province occidentale de la Chine, peuplée d’Ouïghours, également locuteurs d’une langue turque. Ce sont tous ces facteurs-là qui font que la Turquie, sur le plan culturel comme sur le plan religieux, dispose d’un potentiel très important.

 

Q. : Vous venez de nous parler des Etats turcophones d’Asie centrale : dans quelle mesure les intérêts économiques jouent-ils un rôle dans l’accroissement possible de la puissance turque ?

 

PSL : Ce sont les Américains, les Russes, les Chinois et les Européens qui convoitent les richesses de ces régions. L’Asie centrale possède de riches gisements de pétrole et de gaz naturel et les dirigeants des Etats turcophones sont passés maîtres dans l’art stratégique. Le Kazakhstan a certes proposé la construction d’un système d’oléoducs et de gazoducs qui passerait par les pays du Caucase du Sud pour aboutir en Turquie et déboucher en Méditerranée, tout en contournant et la Russie et l’Iran mais, par ailleurs, les Kazakhs ont été suffisamment futés pour conclure des accords similaires avec les Russes.

 

Q. : Et quel rôle jouent les Turcs dans les Balkans ?

 

PSL : Dans les Balkans, nous n’avons pas très bien perçu le jeu des Turcs jusqu’ici. Ce jeu se joue bien entendu, avant tout, dans les Etats qui possèdent des populations musulmanes autochtones, notamment les Albanais, représentés également au Kosovo et en Macédoine où un tiers de la population est d’ethnie albanaise. La Macédoine, dans un tel contexte, connaît déjà des tensions entre les Slaves chrétiens orthodoxes et les Albanais musulmans et deviendra sans doute une poudrière dans l’avenir. La Turquie y avancent ses pions avec grande prudence, en se posant comme l’Etat protecteur et a contribué à une ré-islamisation de la Bosnie, alors que cette région de l’ex-Yougoslavie avait été, sous Tito, complètement détachée de l’orbe musulmane.

 

Conséquence : dans tout règlement interne des Balkans, nous devons désormais prendre la Turquie en considération et tenir compte de son point de vue.

 

Q. : Quels obstacles pourraient survenir qui freineraient la montée en puissance de la Turquie ?

 

PSL : Jusqu’ici le premier ministre turc Erdogan a déployé sa stratégie de manière très raffinée et a forgé des liens étroits entre son pays et l’Iran. Cette stratégie a ceci de remarquable que la Turquie est un pays essentiellement sunnite tandis que l’Iran est majoritairement chiite, ce qui avait conduit dans le passé à une longue inimitié. Aujourd’hui un rapprochement est en train de se produire et, chose curieuse, la Turquie et l’Iran ont, de concert avec le Brésil, cherché à aplanir le conflit qui oppose l’Occident à l’Iran au sujet de son projet atomique. Ni les Américains ni les Européens n’ont réagi !

 

Q. : La Turquie, membre de l’OTAN, se rapproche de l’Iran ; cela pourra-t-il conduire à une rupture avec les Etats-Unis et avec l’Occident en général ?

 

PSL : Il n’y a que deux Etats stables dans la région : la Turquie et l’Iran. Face à ces deux pôles de stabilité, le Pakistan est au bord du chaos et est fortement sollicité par la guerre en Afghanistan. Il est aussi intéressant de constater qu’à Kaboul, où je me suis encore rendu récemment, on discute du retrait des troupes de l’OTAN et des Américains. Le retrait des Américains devrait se passer dans un contexte digne, sans que la grande puissance d’Outre Atlantique ne perde la face comme ce fut le cas au Vietnam : or la seule puissance capable de gérer ce retrait de manière pacifique et honorable, c’est la Turquie, parce qu’elle est membre de l’OTAN tout en étant un pays musulman. Les soldats turcs stationnés en Afghanistan y jouissent d’une sympathie relative.

 

Q. : La Turquie veut devenir une plaque tournante dans la distribution d’énergie. Comment jugez-vous cette volonté ?

 

PSL : Je n’aime pas beaucoup cette théorie de la « plaque tournante ». L’Europe, qui en parle continuellement, veut constituer avec la Turquie une union économique et politique étroite, alors qu’il y aura bientôt cent millions de Turcs ! Que restera-t-il alors de l’Europe, avec sa population en plein déclin démographique ? Ensuite je crois que les Turcs se sont aperçu qu’une adhésion à l’UE ne va pas vraiment dans le sens de leurs intérêts.

 

Ensuite viennent les exigences européennes en matière de respect des droits de l’homme, tel que le prévoit la Charte européenne. Si elle respecte la teneur de cette Charte, la Turquie devra accorder aux quinze millions de Kurdes, qui vivent dans le pays, une autonomie culturelle et politique. Cela conduira à de formidables tensions, voire à une guerre civile sur le territoire turc. En conséquence, les Turcs se diront qu’il est plus raisonnable de ne pas adhérer pleinement à cette Union Européenne, qui exige d’eux tant de devoirs. Mis à part cela, la Turquie, si on la compare à d’autres Etats européens, est une grande puissance.

 

Q. : Comment perçoit-on la montée en puissance de la Turquie dans les Etats qui firent jadis partie de l’Empire ottoman ?

 

PSL : De manière très différente selon les Etats. En Irak, la question kurde handicape considérablement les rapport turco-irakiens, mais il faut prendre en considération que les Chiites forment désormais la majorité au sein de l’Etat irakien et que les Chiites d’Iran s’entendent bien, aujourd’hui, avec les Turcs. J’avais rappelé tout à l’heure l’ancienne inimitié qui opposait la Syrie à la Turquie parce que les Turcs avaient annexé en 1939 la région d’Iskenderum, dont la population était majoritairement arabe. La Syrie a oublié aujourd’hui cette querelle ancienne et cherche, auprès de la Turquie, une certaine protection face à Israël. Les relations avec l’Iran se sont considérablement améliorées et Ankara cherche maintenant à étendre la Ligue islamique au Pakistan. Mais c’est là un très vaste projet et on ne pourra vraiment le prendre en considération que si les problèmes de l’Afghanistan sont résolus.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ).  

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans?

sarajevo-place-pigeons-360.jpg

Friedrich-Wilhelm MOEWE :

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans ?

 

Que se passe-t-il actuellement dans les Balkans ? Une islamisation rampante sans qu’il n’y ait une véritable immigration. Il existe bel et bien une volonté politique d’installer un noyau dur islamisé dans les Balkans : c’est ce que nous apprennent les récentes révélations de documents secrets américains et de dépêches d’ambassades ; on y trouve bon nombre de notes sur les dirigeants turcs actuels, dont les ambitions ne sont guère modestes et qui visent clairement à avancer les pions de la Turquie non seulement en direction de l’Union Européenne mais aussi et surtout en direction des Balkans. Lorsque le ministre turc des affaires étrangères déclare son opinion et dit urbi et orbi qu’une nouvelle domination ottomane dans les Balkans profiterait à la région et que, simultanément, les minorités musulmanes balkaniques croissent en nombre, on peut dire, sans risque d’exagérer, que l’islam, sous la houlette turque, est en train de gagner du terrain dans les Balkans. D’où, il nous paraît légitime de poser la question : quelles sont les raisons qui font que ce soient justement les Balkans qui posent un problème récurrent en Europe et pour l’Europe ? Les problèmes n’ont pas seulement émergé après la seconde guerre mondiale car les turbulences ethniques et politiques agitaient depuis longtemps déjà la région, qui accumulait les difficultés. Les racines de la situation actuelle, pour laquelle il n’y a pratiquement aucune solution en vue sur la scène politique internationale, datent d’il y a quelques décennies. Il faut en chercher les prémisses dans les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la dernière guerre mondiale : les pays des Balkans ont été « libérés » de manière atypique ; ils n’ont pas été libérés par les armées de l’un des grands vainqueurs mais se sont en quelque sorte « auto-libérés », par l’intermédiaire des mouvements de partisans de Josip Broz, dit « Tito », en Yougoslavie, et d’Enver Hoxha, en Albanie. Tito, qui avait du génie politique, qui était un stratège rusé, a réussit à consolider son pouvoir dans les Balkans en maintenant un certain équilibre ethno-religieux et en imposant un socialisme paternaliste, tout en se proclamant l’adepte d’une solidarité internationale avec les pays non alignés.

 

La Yougoslavie s’est effondrée après la fin du titisme et beaucoup de sang a coulé, alors que le reste de l’Europe centrale et orientale se transformait pacifiquement dans les années 90 du 20ème siècle, tandis que la question allemande trouvait sa solution dans une réunification pacifique.

 

Il y avait donc, après le communisme, une diversité religieuse et ethnique dans les Balkans, ce qui invitait les nations occidentales, elles-mêmes fort diversifiées dans leurs composantes, à se choisir des partenaires dans le processus d’intégration à l’UE et aux autres instances européennes. Les affinités électives, nées de l’histoire, entre peuples d’Europe centrale et peuples d’Europe orientale, avaient aussi des connotations religieuses : l’Allemagne et l’Autriche se sentaient plus proches de la Croatie ; la France et la Grande-Bretagne semblaient privilégier la Serbie. Les Bosniaques musulmans ont pu et peuvent toujours compter sur le soutien de la Turquie et des pays arabes, même si l’Autriche jouit en Bosnie d’un capital historique positif.

 

La crise balkanique, qui s’éternise, a montré que l’Europe eurocratique est incapable de faire la paix dans son environnement immédiat, ce qui a pour corollaire gênant de démontrer que les Etats-Unis sont « irremplaçables ».

 

Le Traité de paix de Dayton est considéré comme une sorte d’armistice ethno-religieux orchestré par les Etats-Unis, qui, à l’époque, s’étaient enthousiasmés pour le livre de Samuel Huntington, « The Clash of Civilizations » (« Le choc des civilisations »). Ce traité donne, d’une part, l’impression illusoire d’être systématique, d’avoir bétonné la séparation entre les ennemis irréductibles de la région, et, d’autre part, d’avoir voulu maintenir l’islam local sous contrôle. Ainsi, on a cru que la Fédération croato-musulmane en Bosnie-Herzégovine était une structure bien conçue et inévitable, où les musulmans allaient être placés sous le contrôle de catholiques croates intransigeants.

 

L’avenir n’a pas été aussi simple : la diplomatie internationale a commis bon nombre de bourdes depuis 2001. Ainsi, les Croates de Bosnie ont été considérablement affaiblis, au point de ne plus représenter ce qu’ils représentaient auparavant ; ensuite, la création de nouveaux Etats, comme le Monténégro et le Kosovo, qui sont tous deux des Etats à majorité musulmane réelle ou potentielle, constitue un nouvel élément contribuant à l’affaiblissement général des entités politiques non musulmanes de la région. La situation dans les Balkans n’a pas trouvé de solution et c’est là une invitation aux Turcs à restaurer les structures de feu l’Empire ottoman, puisque l’UE n’a ni stratégie ni projet pour la région et ses membres agissent de manière désordonnée et contradictoire. D’où il ne reste que deux facteurs d’ordre possibles dans les Balkans : d’une part, un islam promu par la Turquie et, d’autre part, une orthodoxie slave en phase de réorganisation. Reste à savoir si ces deux facteurs en lice se heurteront ou trouveront entre eux des intérêts convergents.

 

Force est de constater que seules des structures de domination très expérimentées, comme le furent celles des Ottomans ou des Habsbourg d’Autriche, ont pu gérer le paysage politique très fragmenté de l’Europe du Sud-Est. Tito a réussi, lui aussi, parce son idéologie communiste avait des allures impériales et que sa façon de procéder avait quelque chose de monarchique. L’UE, malgré tous ses efforts, pourra-t-elle obtenir des résultats ? Rien n’est moins sûr.

 

On peut observer très nettement une forte croissance de la population dans les régions traditionnellement habitées par des Musulmans, ce qui fait qu’aujourd’hui la Bosnie-Herzégovine, pour la première fois depuis plusieurs siècles d’histoire, possède désormais une majorité absolue musulmane. On n’en est pas encore vraiment conscient car le dernier recensement complet date de 1991. Que les Musulmans soient majoritaires maintenant ne fait toutefois aucun doute, vu les données crédibles qui sont avancées pour étayer ce fait. Le Monténégro est un autre Etat sur le point de devenir majoritairement musulman. Au Kosovo, ce sont les clivages religieux qui ont entrainé la guerre interethnique et c’est l’islam qui en est sorti vainqueur sans aucun doute possible. La Macédoine, elle aussi, a une population musulmane qui fait le tiers du total démographique du pays. Autre indicateur qu’il convient de remarquer : ce n’est pas qu’en Albanie que l’on rêve d’une Grande Albanie, mais aussi au Kosovo, où, pour atténuer l’effet négatif que pourrait avoir tout discours grand-albanais sur les Européens eurocratisés, on parle souvent d’ « Albanie naturelle ». Or tout Etat grand-albanais serait à domination musulmane et s’insèrerait parfaitement dans les plans d’hégémonie turque, de facture néo-ottomane.

 

Friedrich-Wilhelm MOEWE.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ). 

vendredi, 17 décembre 2010

Il ritorno turco nei Balcani

Il ritorno turco nei Balcani

di Alessandro Daniele

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il ritorno turco nei Balcani

 

La partecipazione, registratasi lo scorso luglio, del primo ministro turco Erdogan a fianco del presidente bosniaco Silajdžic e di quello serbo Tadic alle commemorazioni per il 15° anniversario del genocidio di Srebrenica ha segnato il ritorno della Turchia nei Balcani e l’esportazione della sua politica di “zero problemi coi vicini” anche nella ex Jugoslavia.

In particolare la presenza di Tadic all’evento ha rappresentato un grande successo per la diplomazia turca, che sin dall’autunno del 2009 aveva favorito l’inizio del dialogo tra Bosnia e Serbia con la visita del presidente turco Abdüllah Gül a Belgrado. Tale visita portò nell’aprile successivo alla firma di una dichiarazione con la quale Turchia, Bosnia e Serbia si impegnavano a promuovere una politica regionale basata sulla sicurezza ed il dialogo reciproco. Inoltre il 12 giugno scorso Erdogan, durante la sua visita nei Balcani, si recò a Belgrado per incontrare il premier serbo Cvetkovic e stipulare sei accordi di cooperazione che hanno sancito la libera circolazione delle persone tra Turchia e Serbia, nonché l’inizio di una maggiore cooperazione commerciale tra i due Paesi che culminerà nell’istituzione di una zona di libero scambio.

Altro importante tema di cui si è discusso a Belgrado è stato quello legato ai trasporti: in tale settore è stato delineato un progetto di cooperazione turco-serba in virtù del quale alcuni aeroporti militari dei due Paesi saranno aperti al traffico civile. Tale cooperazione, inoltre, porterà alla probabile acquisizione da parte della Turkish Airlines della compagnia serba Jat Airways, nonché allo stanziamento di circa 750 milioni di euro destinati a finanziare la costruzione di un’autostrada che collegherà Serbia e Montenegro passando per il Sangiaccato. Proprio quest’ultimo ha rappresentato l’ultima tappa del viaggio nei Balcani di Erdogan, il quale a Novi Pazar ha inaugurato un nuovo centro culturale turco.

La Turchia nei Balcani cento anni dopo

L’attuale attivismo turco nei Balcani coincide all’incirca con il centenario della “cacciata” dell’Impero ottomano dalla penisola. In occasione della prima guerra balcanica del 1912, infatti, un’alleanza composta da Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria sconfisse l’Impero, provocando l’inizio del ritiro definitivo della potenza ottomana dalla regione, ritiro che si sarebbe completato all’indomani della sconfitta nella Grande Guerra, combattuta dai turchi a fianco degli Imperi Centrali di Germania ed Austria-Ungheria.

Cento anni dopo è ovviamente un’altra Turchia quella che torna nei Balcani: si tratta di un Paese sostanzialmente democratico e moderno, con grandi potenzialità economiche, che si pone tra l’altro come autorevole membro della Nato e fedele alleato degli americani.

I Balcani, invece, rappresentano una realtà geopolitica per molti aspetti simile a quella di cent’anni fa: dopo una lunga parentesi storica, che andò dalla prima guerra mondiale alla fine della guerra fredda, nella regione sono “ricomparsi” piccoli Stati, chi più chi meno dipendenti dalle potenze europee, che a volte presentano caratteristiche “sui generis” come nel caso della Bosnia e del Kosovo, la prima persa dalla Turchia nel 1908 ed il secondo abbandonato dai turchi a seguito della sconfitta nella prima guerra balcanica.

Il dato davvero curioso è rappresentato dal fatto che la Turchia si trova oggi in compagnia del gruppo dei Paesi dei Balcani occidentali che aspirano ad aderire all’Unione Europea: a parte la Croazia, il cui ingresso nell’Unione sembra essere prossimo, tutti gli altri Stati (cioè Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Albania e Kosovo) sono i Paesi che per secoli hanno fatto parte dell’Impero ottomano.

La questione della stabilizzazione della regione balcanica

Al di là delle comuni radici storiche, la Turchia è attualmente impegnata in iniziative concrete volte anche a contribuire alla definitiva stabilizzazione della regione balcanica. In quest’ottica il suo interesse si è concentrato principalmente sulla Bosnia e si è concretizzato nell’ingresso effettivo della diplomazia turca sulla scena balcanica, registratosi all’indomani del fallimento del vertice di Butmir (l’aeroporto di Sarajevo) dell’ottobre 2009. Tale vertice è consistito in un incontro organizzato da europei e americani che avrebbe dovuto sbloccare l’impasse istituzionale che negli ultimi anni ha impedito le riforme in Bosnia, promuovendo il superamento degli accordi di pace di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra.

A partire dall’ottobre del 2009 l’iniziativa turca nei Balcani è dunque proseguita senza soste. Il 16 ottobre il ministro degli esteri turco Davutoglu, intervenendo ad un Convegno tenutosi a Sarajevo, parlò di una storia ed un futuro comune per la Turchia e i Balcani. Dieci giorni dopo il presidente turco Abdullah Gül dichiarò che Serbia e Turchia sono Paesi chiave nei Balcani, mentre il presidente serbo Boris Tadi parlò di collaborazione strategica tra i due Paesi.

Lo scorso 24 aprile, poi, si è svolto ad Istanbul un vertice definito storico tra i presidenti di Turchia, Bosnia Erzegovina e Serbia: tale vertice si è concluso con una Dichiarazione in cui si affermava l’impegno congiunto volto a promuovere la stabilizzazione della regione balcanica. Esso fu inoltre preceduto da un incontro, avvenuto a Belgrado, tra Davotuglu ed il suo omologo serbo Jeremic e quello spagnolo Moratinos, presidente di turno dell’Unione Europea, per discutere del vertice Ue/Balcani occidentali che si sarebbe tenuto il 2 giugno ed al quale avrebbe partecipato anche la Turchia. Vertice il cui maggior successo è stato quello di aver messo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di tutti i Paesi della regione, compresi quelli di Serbia e Kosovo. E sembra proprio che questo risultato sia stato raggiunto anche grazie alla Turchia, alla quale la Serbia aveva chiesto di adoperarsi per convincere gli esponenti kosovari a partecipare all’evento.

Considerazioni conclusive

Alcuni osservatori si chiedono se l’attivismo turco nei Balcani sia totalmente autonomo o se sia stato ispirato dagli Stati Uniti. Di certo esso è visto positivamente sia da Washington che da Bruxelles, come ha dimostrato l’invito a partecipare al vertice Ue/Balcani del 2 giugno. D’altronde ad Ankara questo ruolo non può che far piacere, non solo alla luce delle sue ambizioni di potenza regionale, ma anche perché può consentire alla Turchia di conquistare consensi preziosi soprattutto nell’ottica di una felice prosecuzione dei negoziati di adesione all’Unione europea. Negoziati il cui esito positivo è tutt’altro che sicuro anche alla luce delle resistenze di alcuni Paesi membri e delle perduranti difficoltà per l’Unione derivanti dalle adesioni del 2004 e del 2007.

Al di là comunque dell’eventuale ingresso turco nell’Ue, appare sempre più evidente come la Turchia, spesso stanca di attendere un’Europa che preferisce impegnarsi nell’opera di mediazione tra Hamas e Fatah in Palestina o nella ricerca di un accordo con Brasile e Iran sul nucleare, stia cercando in tutti i modi di assumere un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale.

Per ulteriori approfondimenti si veda dal sito di Eurasia:

La politica estera della Turchia: da baluardo occidentale a ponte tra Europa ed Asia

Riferimenti bibliografici

Franzinetti, Guido. I Balcani dal 1878 a oggi. Carocci: 2010.

Bianchini S. – Marko J. Regional cooperation, peace enforcement, and the role of the treaties in the Balkans. Longo Angelo: 2007.

Zürcher, Erik J. Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri. Donzelli, Roma: 2007.

Fiorani Piacentini, Valeria. Turchia e Mediterraneo allargato. Democrazia e democrazie. Franco Angeli: 2006.

Tremul, Francesco. La Turchia nel mutato contesto geopolitico. UNI Service: 2006.

Bozarslan, Hamit. La Turchia contemporanea. Il Mulino, Bologna: 2006.

Biagini, Antonello. Storia della Turchia contemporanea. Bompiani: 2002.

Hale, William. Turkish Foreign Policy. 1774-2000. Frank Cass, London-Portland: 2002.

* Alessandro Daniele è dottore in Relazioni e Politiche Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)

 

lundi, 13 décembre 2010

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

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Ex: http://xandernieuws.punt.nl/?id=613934&r=1

 WikiLeaks (8):

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

'Wraak op Europa vanwege nederlaag bij Wenen'

Erdogan woedend vanwege onthulling 8 geheime bankrekeningen in Zwitserland

Tayyip Erdogan: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten.'

Uit diverse door WikiLeaks gelekte documenten blijkt dat binnen de heersende
AK Partij van de Turkse premier Erdogan de wijdverspreide opvatting heerst
dat het de opdracht is van Turkije om Europa te islamiseren en om 'Andalusië
(Zuid Spanje) te heroveren en de nederlaag bij Wenen in 1683 te wreken.' De
verspreiding van de islam in Europa is volgens de belangrijkste denktank van
de AKP het werkelijke hoofddoel van het beoogde Turkse lidmaatschap van de
EU. (1)

Binnen de AKP zijn er echter ook stemmen die bang zijn dat het lidmaatschap
van de EU zal leiden tot een 'verwaterde' versie van de islam en de daarbij
behorende Turkse tradities. 'Als de EU 'ja' zegt (tegen het Turkse
lidmaatschap) zal alles er een korte tijd rooskleurig uitzien. Maar dan
ontstaan de echte moeilijkheden voor de AKP. Als de EU 'nee' zegt dan zal
dat aanvankelijk lastig zijn, maar op de lange termijn veel gemakkelijker,'
als AKP prominent Sadullah Ergin.

Erdogan wordt omschreven als een machtswellusteling die iedereen wantrouwt
en streeft naar totale alleenheerschappij. 'Tayyip (Erdogan) gelooft in
God... maar vertrouwt hem niet,' zou zijn vrouw Emine het treffend hebben
uitgedrukt. Erdogan stelt zich in het openbaar weliswaar pragmaitisch en
'gematigd' op, maar heeft wel degelijk een islamistische achtergrond. Als
burgemeester van Istanbul noemde hij zichzelf in 1994 de 'imam van Istanbul'
en een 'dienstknecht van de Sharia.' (2) In 1998 verbleef hij zelfs vier
maanden in de gevangenis vanwege het voordragen van een extremistisch
islamitisch gedicht dat sprak van de verovering van alle niet-moslimlanden
door de islam: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten...' (3)

De Turkse premier reageerde woedend toen uit een WikiLeaks document uit 2004
naar voren kwam dat hij maar liefst acht geheime bankrekeningen in
Zwitserland heeft waar hij regelmatig grote sommen geld naar wegsluist (4).
Vanzelfsprekend ontkende Erdogan alle aantijgingen, noemde hij de documenten
'geroddel' en dreigde hij om gerechtelijke stappen tegen de onthullers te
nemen. Verder omschrijven Amerikaanse diplomaten Erdogan als iemand die
Israël haat en zich omringt met gluiperige adviseurs. Ook zou hij enkel en
alleen islamistische kranten lezen. Tevens wordt zijn minister van
Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu omschreven als 'extreem gevaarlijk'.

Recent schreven we al dat uit eerdere gelekte documenten blijkt dat Turkije
zowel indirect als actief het moslimterrorisme in Irak (en tevens
Afghanistan) steunt met wapens en geld. De verwijzing binnen de AKP naar
Andalusië en de Ottomaanse nederlaag bij Wenen in 1683 is geheel volgens het
islamitische principe dat landen en streken die ooit onder moslim controle
stonden voor altijd islamitisch grondgebied blijven en verplicht moeten
worden heroverd. Alle Nederlandse politieke partijen -met uitzondering van
de PVV en de SGP- besloten onlangs om de Turkse doelstelling om Europa en
dus ook Nederland te islamiseren niet tegen te gaan.

(1) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2010/11/30/225/
(2) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2007/03/21/ANKARA...
(3) Atlas Shrugs
http://atlasshrugs2000.typepad.com/atlas_shrugs/2009/10/s...
n-of-europe-rally-december-13th-spread-the-word-save-the-world.html
(4) Ynet News http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3992628,00.html

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612882&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks (3):

Vooral Saudi's willen aanval op Iran; Turkije onbetrouwbaar

Erdogan omringt zich met 'parasitaire bedriegers' - Veel Arabische landen
zien Iran als 'existentiële bedreiging' - Geen schokkende onthullingen over
Israël

WikiLeaks 'Shocker'(?): Het enige continent waar Barack Obama nog populair
is, Europa, laat de Amerikaanse president nu juist volkomen koud.

Uit de ruim 250.000 geheime documenten die WikiLeaks op internet heeft gezet
blijkt dat vooral Saudi Arabië -nog meer zelfs dan Israël- herhaaldelijk
aandringt op een Amerikaanse militaire aanval op Iran, en dat het hoofd van
de gevreesde Israëlische geheime dienst Mossad, Meir Dagan, hier juist op
tegen is en meer ziet in strenge sancties en undercover operaties om het
regime Ahmadinejad -die onder diplomaten de bijnaam 'Hitler' heeft gekregen-
omver te werpen.

De Saudische koning Abdullah heeft de laatste jaren regelmatig van de VS
geëist Iran aan te vallen. In 2008 kreeg de Amerikaanse generaal David
Petraeus van de afgevaardigde van Abdullah in Washington te horen dat
Amerika 'het hoofd van de slang moet afhakken'. De Saudi's vrezen een Iran
met kernwapens misschien wel nog meer als Israël, waar minister van Defensie
Barak weliswaar regelmatig eveneens pleitte voor militair ingrijpen (4),
maar het machtige hoofd van de Mossad, Meir Dagan, hier juist heel
pessimistisch over was en zich wilde concentreren op het omverwerpen van het
huidige Iraanse regime door middel van sancties en geheime operaties.

Naast Saudi Arabië hebben ook officials uit Jordanië en Bahrain Amerika
openlijk opgeroepen om desnoods met militaire middelen een einde te maken
aan het Iraanse nucleaire programma. Ook de leiders van de Verenigde
Arabische Emiraten en Egypte zien Iran als 'het kwaad' en een 'existentiële
bedreiging', die 'ons in een oorlog zal doen storten'. Israëlische officials
zeggen al jaren dat wat de Arabische leiders publiekelijk meedelen iets heel
anders is dan wat ze een privé gesprekken zeggen.

Turkije onbetrouwbaar
Gisteren meldden we al dat de Arabische krant Al-Hayat schreef dat uit de
WikiLeaks publicaties blijkt dat Turkije door middel van het smokkelen van
wapens en geld steun geeft aan de moslimterroristen in Irak en zelfs
betrokken is bij het opblazen van een brug in de hoofdstad Baghdad.

Volgens het Duitse blad Der Spiegel, één van de internationale media die
vooraf inzage kreeg in de geheime documenten, karakteriseren Amerikaanse
diplomaten Turkije dan ook als onbetrouwbaar. De Turkse premier Erdogan zou
weinig begrijpen van de politiek buiten Ankara en het Turkse leiderschap is
verdeeld door de infiltratie van radicale islamisten. 'Erdogan heeft zich
omringd met een ijzering kring van sycofante (sycofant = gemene bedrieger,
beroepsverklikker, parasiet) (maar minachtende) adviseurs,' aldus een gelekt
diplomatiek bericht.

Geen schokkende onthullingen over Israël
Waar veel Israëlhaters vanzelfsprekend op hoopten, namelijk dat de Joodse
staat in de gelekte documenten bevestigd zou worden als de boeman en de
grote instigator van het kwaad in de wereld, is totaal niet uitgekomen,
precies zoals de Israëlische premier Netanyahu al voorspeld had. Er is zelfs
nauwelijks iets noemenswaardigs te vermelden, behalve dat hoge Israëlische
officials regelmatig hun grote zorg uitspreken over Iran en zeggen dat
Israël het zich niet kan veroorloven zich te laten verrassen.

Over Iran gesproken: tijdens de tweede Libanonoorlog in 2006 smokkelde het
regime Ahmadinejad onder de vlag van de Iraanse Rode Maansikkel (de
Arabische variant van het Rode Kruis) wapens en geheime agenten naar
Libanon. Dit zou blijken uit een bericht uit Dubai dat gebaseerd is op een
ontmoeting in 2008 tussen een Amerikaanse diplomaat en een niet bij name
genoemde bron.

Ander interessante onthullingen
- Donors uit Saudi Arabië blijven de belangrijkste financiers van het (Al
Qaeda) Soennitische moslimterrorisme. Het Arabische Golfstaatje Qatar blijkt
het slechtst mee te werken met anti-terreuroperaties.

- Een bijna conflict tussen de VS en Pakistan over mislukte Amerikaanse
pogingen om Pakistaans verrijkt uranium veilig te stellen voor terroristen.

- Zuid Koreaanse en Amerikaanse diplomaten speculeren over de vereniging van
de beide Korea's na het eventuele instorten van Noord Korea. China, dat hier
mordicus op tegen is, zou moeten worden overgehaald met aantrekkelijke
handelsovereenkomsten.

- Amerikaanse diplomaten deden aan handjeklap om andere landen te overtuigen
gevangenen van Guantanomo Bay over te nemen. Slovenïe kreeg te horen dat
Obama alleen (officials van) het land wilde ontmoeten als ze een gevangene
zouden overnemen. Het onafhankelijke eiland Kiribati kreeg miljoenen dollars
aangeboden voor een hele groep gedetineerden, en België kreeg te horen dat
het een goedkope manier was om een prominente plaats in Europa te verwerven.

- De Afghaanse regering wordt verdacht van corruptie. De autoriteiten van de
Verenigde Arabische Emiraten ontdekten dat de op bezoek zijnde Afghaanse
vice-president $ 52 miljoen bij zich had, van onbekende herkomst en met
onbekende bestemming. Besloten werd om het maar zo te laten. Natuurlijk
ontkent Massoud alles.

- Zoals velen al vermoedden blijkt het Chinese Politburo inderdaad achter
het blokkeren van Google in dat land te zitten. Tevens heeft de Chinese
overheid zowel eigen medewerkers als experts van buitenaf en onafhankelijke
hackers ingezet om in te breken in de de computersystemen van de Amerikaanse
overheid en andere Westerse landen. Ook de Dalai Lama en het Amerikaanse
bedrijfsleven zijn sinds 2002 het doelwit.

- Een bizarre alliantie: Amerikaanse diplomaten beschrijven de 'buitengewoon
nauwe' relatie tussen de Russische premier Vladimir Putin en de Italiaanse
premier Silvio Berlusconi -liefhebber van 'wilde feesten'-, inclusief
lucratieve energiecontracten en overdadige cadeaus. Berlusconi zou in
toenemende mate de spreekbuis van Putin in Europa aan het worden zijn.

- Over Putin zelf: alhoewel hij inderdaad met afstand de machtigste man van
Rusland is, wordt hij in toenemende mate ondermijnd door een onhandelbaar
bureaucratisch systeem dat zijn bevelen vaak negeert. Putin wordt door
diplomaten omschreven als een 'alpha mannetje'. Andere aardige bijnamen voor
wereldleiders: Angela 'Teflon' Merkel (overigens gekarakteriseerd als iemand
die geen besluiten durft te nemen), 'keizer zonder kleren' Nicolas Sarkozy
en 'lichtgewicht' David Cameron (3). De Noord Koreaanse leider Kim Jong il
zou lijden aan epilepsie en de Libische leider Muammar Gaddaffi zou zich 24
uur per dag laten verzorgen door een 'hete blonde' verpleegkundige.

- Als laatste: ontnuchterend nieuws voor de vele Obama liefhebbers in
Europa, het enige continent waar de meerderheid nog blij met hem lijkt te
zijn: volgens het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken heeft Obama
helemaal niets met Europa en kijkt hij veel liever naar het Oosten dan naar
het Westen. Amerika ziet de wereld als een conflict tussen twee
supermachten, waar de Europese Unie slechts een bijrolletje in speelt.
 
(1) Jerusalem Post http://www.jpost.com/International/Article.aspx?id=197130

(2) Arutz 7 http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140882
(3) DEBKA http://www.debka.com/article/20402/
(4) DEBKA http://www.debka.com/article/20404/

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612703&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks:

Turkije steunt moslimterroristen Irak

In 2007 werd de belangrijke Sarafiya brug in Baghdad door terroristen
opgeblazen. Turkije blijkt nu direkt betrokken bij het opblazen van
tenminste één brug in de Iraakse hoofdstad.

De ontmaskering van Turkije als anti-Westerse extremistische moslimstaat
krijgt een extra ontluisterende dimensie nu uit de nieuwe documenten die
WikiLeaks zal publiceren blijkt dat de Turken zorgden dat er wapens naar Al
Qaeda in Irak werden gesmokkeld en dat ze zelfs zowel direkt als indirekt
betrokken zijn geweest bij terreuraanslagen in Baghdad.

Volgens de Arabische krant Al-Hayat bewijzen de geheime officiële documenten
dat de Turkse autoriteiten toestemming gaven voor de smokkel van wapens en
geld naar de Al Qaeda terroristen in Irak. Ook laten de documenten zien dat
Turkije betrokken was bij onder andere het opblazen van een brug in Baghdad
en werd er in 2009 bij terroristen munitie in beslag genomen dat gemarkeerd
was met 'made in Turkey'.

Eén van de documenten die door Al Hayat worden genoemd bevat een gecodeerd
bericht dat zo te zien door een Amerikaanse inlichtingendienst werd
verzonden. De tekst 'Uit Turkije zijn grote hoeveelheden water aangekomen.
Over een paar uur zullen grote golven Baghdad treffen. Sommige mensen zijn
de irrigatiekanalen aan het verbreden' lijkt te wijzen op het arriveren van
wapens uit Turkije, bedoeld voor aanslagen en andere terreuracties in
Baghdad.

De VS probeert in het licht van de komende nieuwe WikiLeaks publicaties de
diplomatieke schade te beperken.'Deze onthullingen brengen de VS en onze
belangen schade toe. Ze zullen over de hele wereld spanning creëren in de
relaties tussen onze diplomaten en onze vrienden... Als het vertrouwen (van
andere overheden) beschadigd wordt en op de voorpagina van de kranten of in
het nieuws van radio en tv belandt, heeft dat een impact,' aldus P.J.
Crowley, woordvoerder van het Amerikaanse minister van Buitenlandse Zaken.

Het is echter maar de vraag of Amerika en Europa aandacht zullen durven
besteden aan de Turkse steun voor de moslimterroristen in Irak. Hierdoor zou
immers de conclusie moeten worden getrokken dat Turkije geen betrouwbare
bondgenoot is, dubbelspel speelt en de recente aansluiting van Turkije bij
het extremistische islamitische blok Iran-Syrië-Hezbollah-Hamas daarom
bloedserieus is en een direct gevaar oplevert voor de NAVO en het Westen.
Ook moet dan definitief worden toegegeven dat de Turken absoluut niet bij de
Europese Unie horen. (1)

(1) Arutz 7  http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140843

vendredi, 03 décembre 2010

Un coup d'Etat civil pro islamique à Ankara...

Un coup d'État civil pro islamique à Ankara...

Par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: L'Insolent

  

Les conséquences de la réunion de l'Otan à Lisbonne directes et indirectes, ne manquent pas de se faire sentir. Et cela commence par l'un des principaux alliés, la Turquie. Les années 1946-1950 avaient vu la mise en place, dans ce pays, de gouvernements démocratiques formellement civils. Plusieurs coups d'État les ont renversés successivement. Or pour la première fois depuis 60 ans, deux ministres (1) ont pris la décision d'y mettre à pied trois généraux. (2) Ceux-ci se trouvent impliqués dans le cadre du complot Bayloz remontant à 2003. Le chef du parti laïc de gauche CHP soutient de façon significative les trois putschistes, qui font appel aux tribunaux spéciaux. Cela s'est produit la semaine écoulée, qui suivait immédiatement la rencontre de l'alliance occidentale.

S'agissant de tout autre pays, on trouverait cette situation critique du point de vue journalistique et conjoncturel. L'événement serait couvert de façon dramatique par les gros moyens d'information. Et on jugerait aussi cette normalisation, sur le fond, parfaitement conforme aux principes de la gouvernance mondiale.

Il n'en va pas de même dans une société où l'élément militaire joue, ou plutôt jouait jusqu'à une date très récente, un rôle central dans tous les réseaux de pouvoir. Rappelons ainsi que le poids économique de la couche dirigeante de l'armée issue du kémalisme, en fait le principal partenaire apprécié en France par les milieux se disant de gauche et non moins laïcistes.

Les dirigeants civils, eux-mêmes disciples de l'islam moderniste (3), ont obtenu à Lisbonne de la part des Américains et des autres alliés une concession qu'ils jugent essentielle. On leur a accordé que l'Iran ne soit pas explicitement mentionné comme adversaire dans le cadre de la mise en place du bouclier anti-missiles de l'Alliance atlantique. Dans ce contexte, ils se sentent en mesure de rogner un peu plus les prérogatives des militaires laïcs.

On pourrait donc aboutir au renversement complet du rapport de forces établi par les jeunes-turcs en 1909, puis par le kémalisme en 1923, un concept paradoxal : un "coup d'État" civil.

En apparence, formellement, si cette évolution aboutit, elle ne rencontrera que des approbations, au moins dans un premier temps, sur la scène internationale.

Pour le moment d'ailleurs un seul pays, pratiquement, semble s'y opposer, émettre des réserves, agiter et alerter plus ou moins discrètement ses propres éléments d'influence. Il s'agit de l'État qui avait tissé depuis le début des années 1950 des liens très solides de coopération avec l'armée d'Ankara. Pour le moment, en effet, le gouvernement israélien actuel redoute à plus ou moins juste titre une coalition régionale des pays musulmans. Ceci ne s'était jamais produit depuis la fondation d'Israël. L'État hébreu, de guerre en guerre, et pendant ces périodes intercalaires que l'on appelle, un peu imprudemment peut-être, "la paix" avait toujours su séparer les deux puissances musulmanes régionales non arabes, l'Iran comme la Turquie, et s'employer efficacement à diviser les Arabes entre eux. Sur ce dernier terrain il n'a pas rencontré trop de difficultés.

Dans sa chronique de Zaman Today du 27 novembre M. Ergun Babahan prend à cet égard à partie l'ancien ambassadeur américain en Turquie M. Eric Edelman. Il en fait à la fois le porte-parole à Washington d'une certaine coulisse et il l'accuse de "vivre dans un monde virtuel", de se montrer "coupé du réel". Le vrai reproche porte sur l'évaluation de la durée, que ses partisans jugent illimitée, du gouvernement turc actuel.

De ce dernier point de vue nous ne disposons à vrai dire d'aucune boule de cristal. Nous les laissons au Quai d'Orsay. Contentons-nous des faits.

Lors de la sortie très spectaculaire de Erdogan à Davos en janvier 2009, puis encore lors des incidents de la flottille Mavi Marmara en mai 2010, on a pu remarquer que le gouvernement d'Ankara ne craignait pas désormais de s'aliéner les réseaux pro-israéliens du monde entier. Aux Etats-Unis, où il réside, remarquons d'ailleurs que Fethullah Gülen tient des propos apaisants. Certains observateurs mal informés ou naïfs, comme M. Gurfinkel dans Valeurs actuelles, les prennent ou tentent de les faire prendre à leurs lecteurs pour argent comptant.

Or, désormais, le quotidien officieux Zaman est monté d'un cran dans la séparation : on y met en accusation l'influence sioniste en Amérique du nord. Personne ne peut croire inconscients de la gradation, les professionnels de la communication qui fabriquent ce journal, très proche du pouvoir et techniquement très bien fait. Y compris dans l'usage des mots, il ne nomme plus d'ailleurs désormais ses adversaires pour "sionistes", il revient à un registre sémantique qui servait beaucoup à la charnière des XIXe et XXe siècles.

Or, parallèlement, les dirigeants d'Ankara haussent également le ton dans leurs négociations avec l'Europe. Ils jugent en effet que la défense du continent a été confirmée ces dernières semaines comme dépendant intégralement du bon vouloir de Washington. Plusieurs longues analyses officieuses confirment ce fait, pour tout observateur lucide, malheureusement évident. (4) Il semble pour nous humiliant, mais pour les Turcs réconfortant, que l'Union "européenne", les guillemets me paraissent désormais s'imposer, persiste à ne penser son destin qu'en tant que grosse patate consommatique.

Représentée au plan international par les glorieux Barroso, Van Rompuy et Lady Ashton l'organisation bruxelloise des 27 petits cochons roses se préoccupe plus de sauver ses banquiers que de défendre ses ressortissants.

Le projet "Eurabia" a été décrit (5) comme préparant pour les prochaines décennies, au nord de la Méditerranée la situation de dhimmitude que subissent depuis des siècles les chrétiens d'orient. Ce processus de domestication des peuples par la trahison de leurs élites économiques semble donc en bonne voie.

Les ennemis de la liberté si actifs contre notre continent s'y emploient dans les coulisses de Bruxelles.

En professionnels de la conversion par conquête, je ne doute pas que les islamistes turcs observent leurs proies, qu'ils l'hypnotisent par leurs mots d'ordre et qu'ils se régalent de leurs faiblesses. On peut cependant encore s'y opposer. (6)

 

Notes

 

1.                   Il s'agit des ministres de l'intérieur Bechir Atalay et du ministre de la Défense Vecdi Gönül

2.                   Les militaires limogés sont un général de gendarmerie, du général Abdullah Gavremoglou et du major Gürbüz Kaya.

3.                   Nous donnons à ce sujet quelques précisions dans L'Insolent du 23 novembre "Les dirigeants turcs vrais islamistes et faux bisounours".

4.                   cf. les analyses publiées dans Zaman les 24 et 27 novembre

5.                   cf. le livre de Bat Ye'or "Eurabia, the Euro-Arab Axis" 2005 ed. Farleigh Dickinson University Press, version française "Eurabia, l’axe euro-arabe" 304 pages 2006 éd. Jean-Cyrille Godefroy.

6.                   J'aurais le plaisir de signer mon livre "La question turque et l'Europe" au prochain salon du livre d'Histoire le dimanche 5 décembre. Mais vous pouvez aussi dès maintenant l'acquérir directement sur le site des Éditions du Trident. Rappel : il est plus courtois vis à vis des organisateurs, pour les personnes qui se rendraient à ce salon d'acquérir les ouvrages sur place.

jeudi, 02 décembre 2010

Summit NATO: il gioco di Ankara

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Summit Nato, il gioco di Ankara

di Alberto TUNDO

Ex: http://it.peacereporter.net/

Via il riferimento all'Iran nei documenti sullo scudo missilistico e pianificazione strategica concertata: a Lisbona la Turchia ha imposto il suo gioco

Aveva delle buone carte da giocare e alla fine della partita ha portato a casa i suoi punti. Se ha senso cercare un vincitore al termine del vertice Nato di Lisbona, allora certamente uno dei Paesi che può essere più soddisfatto del meeting è la Turchia.

Il doppio colpo di Ankara. Sono due i successi più evidenti ottenuti dalla delegazione turca, due vittorie che mettono Ankara al centro della scena e sono di fatto la consacrazione di un gioco diplomatico condotto con grande abilità dal premier Tayyip Erdogan e dal suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, da molti osservatori ritenuto l'ideologo di questo neo-ottomanesimo, cioè del ritorno ad una politica estera quasi imperiale. Com'era stato largamente previsto, i turchi hanno puntato i piedi su due temi in particolare, legati strettamente a quella che è diventata una priorità della politica di difesa Usa e, quindi, della Nato: lo scudo missilistico. La Turchia ha ottenuto che nei documenti ufficiali, lo schema difensivo a beneficio dei partner europei basato su un sistema di radar e missili intercettori, non sia diretto apertis verbis contro l'Iran. Allo stesso modo, ha imposto a Washington e ai partner dell'Alleanza un suo ruolo nella pianificazione strategica, prima dell'utilizzo dello scudo, e nella gestione delle relative strutture situate sul proprio territorio. "La questione - aveva detto Erdogan alla stampa - è chi avrà il comando e dovrebbe spettare a noi, soprattutto se è un piano che va attuato nei nostri confini, altrimenti non ci sarà possibile accettarlo". Sembra una cosa da poco ma geopoliticamente vale molto e certifica la trasformazione del brutto anatroccolo in un cigno: il membro dell'Alleanza che un tempo portava in dote la sua posizione strategica, adesso è un attore che ha una propria capacità di manovra, un proprio spazio vitale che prescinde dalla Nato. Negli ultimi anni, il governo turco si è avvicinato molto a quello iraniano, fungendo da mediatore e garante con la comunità internazionale, per la questione nucleare; ma Ankara è legata a Teheran dagli enormi interessi che riguardano la partita energetica, con la Turchia che è il principale consumatore del gas iraniano.

Una crescente indipendenza. Lo scorso luglio, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, fu proprio Ankara ad opporsi ad un inasprimento delle sanzioni contro l'Iran, sospettato dagli Stati Uniti ma non solo di lavorare ad un progetto nucleare con scopi militari. Una minaccia, quella dell'atomica degli ayatollah, contro la quale era stato progettato un sistema difensivo che prevedeva l'integrazione delle strutture dei vari Paesi dell'Alleanza in un quadro di difesa integrato, con radar e missili intercettori montati in Polonia, Romania e Turchia appunto, la quale non vuole che lo scudo missilistico sia presentato al mondo come un'arma in funzione anti-iraniana. E' una questione di interessi economici, geopolitici ma anche di sicurezza nazionale: la leadership turca sa cosa potrebbe accadere se gli Stati Uniti o Israele arrivassero ad uno scontro armato con l'Iran, con cui divide i confini orientali, quindi si è mossa per disinnescare la bomba. Ad un congelamento dei rapporti con Gerusalemme, Ankara ha accompagnato segni di distensione e normalizzazione nei confronti di due Paesi del cosiddetto "asse del male", Iran e Siria. Non è un caso che nel documento strategico sulla sicurezza nazionale, detto libro rosso, diffuso ad ottobre dall'esercito turco, questi ultimi due stati sono stati eliminati dalla lista delle potenziali fonti di pericolo. Israele, invece, vi figura ancora.

Prima veniamo noi, poi la Nato. Gli analisti aspettavano Ankara al varco, dopo il "tradimento" del voto pro-Iran al Consiglio di Sicurezza: adesso dovrà dimostrare di essere ancora un partner fedele e affidabile, hanno detto in molti nei giorni a ridosso del vertice. Ma la Turchia non si è presentata per fare un atto di contrizione, tutt'altro. La difficoltà principale stava nel far passare il messaggio che se l'Iran dovesse dimostrarsi un pericolo, non sarà il governo turco a frenare una politica di containment. Ma al momento non lo è. Lo dicono sondaggi recentissimi, secondo i quali per i turchi un Iran dotato di armi nucleari non costituirebbe comunque una minaccia, non evidente come quella terroristica. "La Turchia prende le sue decisioni in primo luogo guardando al suo interesse nazionale e solo dopo alla solidarietà dell'Alleanza", ha detto senza mezzi termini il presidente turco Abdullah Gul. Non c'è molto da dire. Questa chiarezza spiega perché Washington e gli altri alleati si siano dovuti rassegnare a eliminare qualsiasi riferimento all'Iran e a far entrare la Turchia nella stanza dei bottoni, quella in cui le linee strategiche vengono definite. Gli elementi di dettaglio, come quelli riguardanti il comando, il controllo e il posizionamento degli elementi del sistema difensivo, verranno decisi più avanti. Al momento si sa che ai governi alleati sarà chiesto uno sforzo di circa 200 milioni di euro, da qui ai prossimi dieci anni, per integrare i propri sistemi missilistici nel quadro dello scudo americano.

Alberto Tundo

dimanche, 28 novembre 2010

Nobelprijswinnaar niet welkom in Turkije

Ex: http://www.telegraaf.nl/buitenland/

Nobelprijswinnaar niet welkom in Turkije
Van onze correspondent
ISTANBOEL -  De Britse schrijver V.S. Naipaul, die in 2001 de Nobelprijs
voor de Literatuur won, kan vanwege zijn kritiek op de islam niet deelnemen
aan een internationale literaire bijeenkomst in Istanboel.

naipaul_wife_prize_photo.jpgAanvankelijk was de in Trinidad geboren Naipaul als eregast uitgenodigd voorhet European Writers Parliament, een groot internationaal literair evenement dat vandaag in Istanboel van start gaat. Toen dat bekend werd, protesteerde een groep Turkse schrijvers fel en dreigde met een boycot.

De komst van Naipaul zou "een belediging zijn voor moslims", vanwege eerdere uitlatingen van de schrijver over de islam.

Zo heeft de Nobelprijswinnaar eens gezegd dat islamisering een vorm van
kolonisatie is die rampzalige gevolgen met zich meebrengt. Dat zou volgens
Naipaul vooral gelden voor mensen die zich tot de islam bekeren, omdat ze
hun afkomst en eigen verleden moeten verloochenen.

Volgens de Turkse dichter en filosoof Hilmi Yavuz beledigt de schrijver met
zulke opmerkingen de islam en moslims. Daarom is zijn komst naar het
literaire evenement niet gewenst, aldus Yavuz. Vele andere Turkse schrijvers
zijn dezelfde mening toegedaan. "De uitnodiging aan Naipaul moet worden
ingetrokken en men moet de schrijver vertellen wat daarvan de reden is",
aldus Özdenören. "De aanwezigheid van Naipaul is een belediging voor
moslims", aldus de linkse Turkse schrijver Cezmi Ersöz.

De organisator van het evenement, Ahmet Kot, probeerde nog de protesterende
Turkse schrijvers tegemoet te komen door Naipaul niet meer als eregast te
verwelkomen. Naipaul zou alleen de openingsspeech houden. Het
compromisvoorstel mocht niet baten. De protesterende Turkse schrijvers
hielden voet bij stuk. Daarna hebben het organisatiecomité en Naipaul
gezamenlijk besloten dat het beter is dat hij thuisblijft.

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

erdogan-davutoglu-hasa-hz_-peygamber-mi-1011101200_l.jpgOn peut reprocher, certes, beaucoup de choses aux dirigeants turcs mais on doit leur reconnaître une qualité. Ils se préoccupent avant tout, pour ne pas dire exclusivement, de l'idée qu'ils se font du destin de leur pays.

On l'a vu encore à la faveur des réunions de Lisbonne du 20 novembre. Beaucoup d'observateurs croient découvrir une dérive les éloignant quelque peu de la vieille alliance atlantique. Mais en fait plus on analyse leur action et plus on finit par en considérer le sérieux.

I. Quelques mots d'abord sur le pouvoir civil en Turquie

Il existe bien évidemment, des nuances, des débats et même des contradictions parmi les dirigeants politiques d'Ankara et au sein des élites d'Istanbul.

Les détenteurs du pouvoir politique civil actuel se situent dans la mouvance d'un courant islamique précis. Ne les confondons ni avec les terroristes qui ont ouvertement déclaré la guerre au monde occidental, ni même avec les rétrogrades "salafistes" rêvant de revenir au monde de ceux qu'ils appellent leurs pieux ancêtres. Ce courant d'idées a toujours voulu rénover, moderniser un pays, et ceci dès la fin de l'Empire ottoman. La doctrine remonte Saïd Nursi et aux "nourdjous" (1). Son réformisme s'oppose à celui des jeunes-turcs et à leurs continuateurs actuels qui brandissent le drapeau du kémalisme et de sa laïcité. Essentiellement croyant, il entend refaire de sa patrie une grande puissance en s'appuyant sur l'islam et en sortant celui-ci de son archaïsme. Il tentera de convaincre, l'un après l'autre, les maîtres du pouvoir, à commencer par le sultan. Il s'adresse à une nation fondamentalement différente des peuples du Proche-Orient, soumis aux sultans-califes de Constantinople à partir du XIVe siècle. Son espace de rêve va "de l'Adriatique [et c'est en cela qu'il met l'Europe en danger] à la Muraille de Chine". Il se reflète donc aujourd'hui dans le parti "AK" qui tient le gouvernement [Ergogan] et la présidence de la république [Abdullah Gül]. Son journal "Zaman" constitue la meilleure source de données sur le pays. est inspiré depuis des années par Fethullah Gülen. Plusieurs fois arrêté dans son pays natal pour ses activités anti-laïques, celui-ci est depuis 1999 installé aux États-Unis. Certes ce chef de file se prononce, par exemple, pour le dialogue interreligieux et contre le terrorisme.

Mais il faut la naïveté, et l'ignorance sans faille des responsables occidentaux, pour le définir comme "modéré". D'ailleurs, on se souviendra que naguère cette étiquette passe-partout servait déjà à désigner les Saoudiens, mesurés certes, mais seulement dans leur modération. Pour l'avenir comprenons avant tout que ce pouvoir agit et agira en toute circonstance pour réislamiser le pays à long terme, notamment par le biais de l'éducation.

II. Les Turcs participaient donc, comme tous les autres pays membres du pacte, à la réunion de l'Otan qui s'est tenu à Lisbonne le 20 novembre.

Le traité fondateur a été signé en 1949. Il tendait alors à répondre au "coup de Prague" opéré par les Soviétiques l'année précédente. Contemporain de l'écriture par Jules Monnerot de sa "Sociologie du communisme" (2), il souffre, – par rapport à cette analyse puissante, qui vaut aujourd'hui encore pour comprendre l'entreprise islamiste, – d'une bien plus forte obsolescence.

En particulier, on se réunissait entre alliés de l'OTAN, puis on rencontrait les dirigeants russes pour adopter le "nouveau concept stratégique" impulsé par la diplomatie des États-Unis.

Celle-ci s'accroche évidemment encore, sous l'impulsion de Hillary Clinton, à l'idée d'une "alliance avec les musulmans modérés". Soulignons à cet égard que cette doctrine a notamment permis le développement, avec le soutien américain, de l'Organisation de la conférence islamique, qui réclame depuis 1970 "la libération de Jérusalem" en vue de laquelle elle a été constituée. Ceci tend sans doute à une convergence politico-financière avec les émirs du pétrole. En revanche il ne semble pas besoin de poser au spécialiste de la politologie new-yorkaise pour saisir les forces qui s'y opposent. Elles exercent une influence plus notoire encore chez les élus du parti démocrate qu'au sein des républicains.

De nombreuses et grandes questions préoccupaient les intervenants.

Selon les pays, et selon les opinions, les médias ont pu mettre ainsi l'accent sur l'évolution du conflit en Afghanistan, sur le désir d'en sortir, sur l'intervention d'unités blindées sur le terrain de ce conflit, sur la lutte anti-terroriste en général, ou sur la mise en place d'un bouclier anti-missiles destiné à lutter contre le danger nucléaire des États-voyous, désignant la Corée du nord et l'Iran.

Dans ce contexte, comment ne pas comprendre le désir des principaux participants d'associer la Russie aux efforts de l'alliance occidentale. Malgré les difficultés des dernières années, certains voudraient tenir pour un simple contretemps l'intervention dommageable contre la Géorgie et les pressions de Moscou sur ce qu'on y appelle "l'étranger proche". Ce rapprochement fait partie des évolutions incontournables à [plus ou moins long] terme.

III. Les réserves turques

On ne trouve cependant jamais de si bonne ambiance qu'on ne puisse gâcher. Cette roborative constatation du regretté Witold Gombrowicz répond à l'affirmation un peu utopique chère au ministre turc Ahmet Davutoglou, qu'on ne peut énoncer autrement qu'en basic english "no problem with out neighbours".

Avant, pendant et après la réunion de Lisbonne, Abdullah Gül, accompagné de son épouse voilée, faisait part (3) des réserves que son pays pose à l'évolution "globale" de l'alliance. À son retour il déclarait avoir "sauvé" les principes fondateurs défensifs de l'organisation. Ce disant, du reste, il ne semble pas avoir pris connaissance du traité d'origine qui, certes, prévoit une intervention en cas d'attaque contre un quelconque des alliés, ses navires ou ses aéronefs, mais fait également référence à la démocratie. L'Espagne franquiste en était tenue à l'écart. L'évolution actuelle de l'Alliance correspond à une nécessité. Il se révélera de plus en plus difficile à Ankara de vouloir ménager ses relations avec divers pays islamistes, et notamment avec l'Iran

À Lisbonne le fossé apparu depuis 2003 avec l'arrivée au pouvoir de l'équipe Erdogan-Gül, a continué de se creuser avec l'occident.

M. Gül a particulièrement voulu marquer ses distances avec l'Europe. Son ondoyante diplomatie continue à marteler son contentieux avec un membre de l'Union européenne, la république de Chypre. Il la rend toujours responsable majeur des nombreux blocages et déboires de la candidature, à laquelle on fait pourtant mine d'accorder de moins en moins d'importance.

Du point de vue européen on doit donc mesurer les dangers.

Rappelons les.

Le plus ancien péril, d'ordre territorial, porte traditionnellement sur les confins balkaniques de notre continent.

Aujourd'hui cela pèse sur l'archipel grec de la mer Égée, sur la Thrace occidentale ou sur une partie de la Bulgarie, où la Turquie revendique son droit de protéger les "pomaks". Ne doutons pas non plus que les orthodoxes des Balkans ne doivent se faire aucune illusion quant au soutien à attendre des occidentaux. Qu'il s'agisse des Américains, des Européens, des Britanniques ou même des Russes, personne ne lèvera le petit doigt pour les défendre en dépit de toutes les assurances théoriques du droit international.

Or le fait même que le Dr Ekmeleddin Ihsanoglu, secrétaire général turc de l'Organisation de la conférence islamique depuis 2004, ait fait inscrire (4) le "soutien aux musulmans" des Balkans comme objectif mondial des 56 pays membres souligne la réalité des menaces qui pèsent à terme sur les deux États européens limitrophes de la Turquie et sur la région.

Pendant de nombreuses années Bülent Ecevit était ainsi apparu comme le principal porte-parole de la gauche républicaine turque. En 1974, à la tête d'un gouvernement auquel s'associa le vieux chef islamiste Necmettin Erbakan, il commence par supprimer l'interdiction de la culture du pavot en Anatolie. Puis il envahit Chypre en invoquant son droit d'y protéger la minorité turque. Ceci en fait pendant quelque temps une sorte de héros national.

Or, c'est seulement en septembre 2002, sur la chaîne turque TRT que Bülent Ecevit le reconnut lui-même, pour la première fois depuis plus d'un quart de siècle. Cette occupation par l'armée d'Ankara en 1974 du nord de la république de Chypre, et qui dure encore, correspondait exclusivement à des motifs stratégiques. Autrement dit tous les arguments en faveur des Chypriotes musulmans servaient de simples prétextes. Cette minorité représentait 18 % de la population de l'île, colonie de la Couronne britannique. Les Anglais avaient cru bon de l'organiser et de l'instrumentaliser pour contrecarrer, après la seconde guerre mondiale, la revendication des Grecs. (5)

Mais les périls se concentrent de plus en plus sur d'autres dossiers et notamment sur l'influence que la Turquie exerce et exercera sur les communautés immigrées, revendiquant l'ensemble des gens supposés "d'origine musulmane", dans la vie politique de plusieurs pays en manipulant le poids électoral et le chantage du communautarisme.

On ne peut donc pas évaluer jusqu'où ira sa dérive hors de l'Otan.

On doit mettre dès aujourd'hui un terme à cette incongruité de la candidature à l'Union européenne. (6)
JG Malliarakis

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vendredi, 19 novembre 2010

Erika Steinbach gegen EU-Mitgliedschaft der Türkei

Steinbach gegen EU-Mitgliedschaft der Türkei

 Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Erika Steinbach spricht der Türkei die Beitrittsreife ab und sieht in der privilegierten Partnerschaft die einzige Option Foto: RG

BERLIN. Die Bundestagsabgeordnete Erika Steinbach (CDU) hat eine härte Haltung der EU-Kommission gegenüber der Türkei gefordert. Der Fortschrittsbericht über den Stand der Beitrittsverhandlungen zeige deutlich, daß in der Türkei immer noch gravierende Defizite im Bereich der Menschenrechte existierten. „Die wenigen positiven Erfolge auf dem Papier sind oftmals in der Praxis nicht wiederzufinden“, sagte Steinbach.

Die Sprecherin für Menschenrechte und Humanitäre Hilfe der Unionsfraktion im Bundestag monierte zudem die „schleichende Islamisierung des Landes in allen Lebensbereichen“ und das „Entfernen von der laizistischen Vorstellung von Mustafa Kemal Atatürk“. Statt sich der Europäischen Union anzunähern, entferne sich die Türkei immer weiter. Deshalb sei die privilegierte Partnerschaft die einzige Option für das zukünftige Verhältnis der EU zur Türkei, so Steinbach.

Ehrenmorde, Zwangsheiraten und Gewalt bleiben ernsthafte Probleme

Im Fortschrittsbericht ermahnte die EU-Kommission die Türkei vor allem, ihre Anstrengungen zum Schutz der Meinungsfreiheit, der Frauen- und Minderheitenrechte zu intensivieren. Während die Kommission die türkische Verfassungsreform positiv bewertete, verzeichnete sie keinen Fortschritt bei der Annäherung der Türkei an die griechische Republik Zypern. 

Insgesamt fiel die Bilanz nach fünf Jahren Beitrittsverhandlungen ernüchternd aus: „Ehrenmorde, Zwangsheiraten und häusliche Gewalt bleiben ernsthafte Probleme“, heißt es laut der Nachrichtenagentur AFP im EU-Fortschrittsbericht. Allein acht zentrale Beitrittskapitel sind wegen des ungelösten Zypern-Konflikts noch offen, also unverhandelt. (cs)

jeudi, 18 novembre 2010

Türkei: Oberster Religionswächter muss abtreten

Oberster Religionswächter muß abtreten

 Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Diyanet-Chef Ali Bardakoglu: Wegen zu liberaler Ansichten zum Rückzug gezwungen Foto: Wikipedia/Elke Wetzig

ANKARA. Der Chef der türkischen Religionsbehörde (Diyanet), Ali Bardakoglu, muß nach einem Streit mit der Regierung sein Amt aufgeben. Grund sei dessen liberale Auslegung des Islams, berichtet die Welt unter Berufung auf die türkische Tageszeitung Milliyet.

Der oberste Relgionswächter hatte der türkischen Führung eine klare Stellungnahme zum Streit um das islamische Kopftuch verweigert. Die radikalislamische Regierungspartei AKP will das in der laizistischen Türkei herrschende Kopftuchverbot auflockern, was Kritiker als weiteren Schritt zu einer Islamisierung der türkischen Gesellschaft sehen.

Kopftuch für Frauen keine islamische Pflicht

Bardakoglu hatte das Tragen des Kopftuchs lediglich als die persönliche Entscheidung der Frau und nicht als islamische Pflicht bezeichnet. Auch der Genuß von Alkohol sei zwar im religiösen Sinne eine Sünde „egal ob am Steuer eines Autos oder in den Bergen“, jedoch sei es eine politische Frage, wann er eine Straftat darstelle.

Erst vor kurzem sorgte Bardakoglu auch außerhalb der Türkei für Aufsehen, als er überraschend ankündigte, christliche Gottesdienste in der St.-Pauls-Kirche in Tarsus zuzulassen. Gleichzeitig bekannte sich der Diyanet-Chef zur Sicherung der Religionsfreiheit als Aufgabe seiner Behörde.

„Radikale Veränderungen“ angekündigt

Womöglich könnte sich dies rasch ändern. Der türkische Staatsminister Faruk Celik kündigte bereits „radikale Veränderungen“ in der Religionsbehörde nach dem Abtritt Bardakoglus an. Nachfolger wird sein bisheriger Stellvertreter Mehmet Görmez. (FA)