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dimanche, 18 novembre 2012

Come l’Iran elude il blocco occidentale. Il Triangolo del petro-oro Turchia-Dubai-Iran

Come l’Iran elude il blocco occidentale. Il Triangolo del petro-oro Turchia-Dubai-Iran

di Tyler Durden

Fonte: aurorasito

Negli ultimi mesi vi è stata molta speculazione errata sul perché l’Iran, escluso dal regime di mediazione SWIFT sui petrodollari, vedrebbe implodere la propria economia mentre il paese non ha accesso ai verdoni, non potendo quindi effettuare scambi internazionali; il fattore trainante dietro le sanzioni internazionali che cercano di rovesciare il governo dell’Iran facendo morire la sua economica. Mentre vi sono stati periodi d’inflazione rilevante, finora il governo locale sembra essere riuscito a metterci una pietra sopra, frenando la speculazione del mercato grigio, e l’Iran continua a operare più o meno grazie ai suoi allegri metodi nel commercio internazionale, che è certamente vivo, in particolare con la Cina, la Russia e l’India quali principali partner commerciali. “Come è possibile tutto questo” si chiederanno coloro che sostengono l’embargo totale occidentale sul commercio iraniano? Semplice, l’oro. Perché mentre l’Iran potrebbe non avere accesso ai dollari, ha ampio accesso all’oro. Questo di per sé non è una novità, ne abbiamo parlato in passato: l’Iran ha importato notevoli quantità di oro dalla Turchia, nonostante le smentite del governo turco. Oggi, per gentile concessione della Reuters, sappiamo esattamente ciò che sarà l’equivalente della Grande Via della Seta del 21° secolo, e quanto sia stato efficace l’Iran, da bravo topolino da laboratorio, nel sottrarsi al grande esperimento dei petrodollari da cui, secondo la saggezza convenzionale, non ci sarebbe scampo. Vi presento il petro-oro.
Tutto inizia, contrariamente alle smentite ufficiali del governo, in Turchia. La Reuters spiega: “Corrieri che trasportano milioni di dollari in lingotti d’oro nei loro bagagli volano da Istanbul a Dubai, da dove l’oro viene inviato in Iran, secondo fonti del settore che conoscono il business. Le somme in gioco sono enormi. I dati commerciali ufficiali turchi suggeriscono che quasi 2 miliardi di dollari in oro sono stati inviati a Dubai per conto di acquirenti iraniani, ad agosto. Le spedizioni aiutano Teheran a gestire le sue finanze di fronte alle sanzioni finanziarie occidentali. Le sanzioni, imposte sul controverso programma nucleare iraniano, l’hanno in gran parte escluso dal sistema bancario globale, rendendogli difficile poter effettuare trasferimenti internazionali di denaro. Utilizzando l’oro fisico, l’Iran può continuare a muovere le sue ricchezze al di là delle frontiere.”
Quindi …. l’oro è denaro? In altre parole viene ampiamente accettato; si tratta di una riserva della ricchezza, ed è un mezzo di scambio? Huh. Qualcuno lo dica al Presidente. Potrebbe non esserne a conoscenza. Pare proprio di sì, almeno nei paesi che non vivono giorno per giorno sul bordo del quadrilione di dollari in derivati, ragione delle armi di distruzione immediata e di massa. “Ogni moneta nel mondo ha una identità, ma l’oro è un valore senza identità. Il suo valore è assoluto dovunque tu vada“, ha detto un trader di Dubai che conosce il commercio dell’oro tra la Turchia e l’Iran. L’identità della destinazione finale dell’oro in Iran non è nota. Ma la scala delle operazioni attraverso Dubai e la sua crescita improvvisa, suggeriscono che il governo iraniano vi abbia un ruolo. Il commerciante di Dubai e altre fonti familiari al business, hanno parlato con Reuters in condizione di anonimato, a causa della sensibilità politica e commerciale della questione. Che cosa ottiene in cambio la Turchia? Qualunque sia, l’Iran risponde alle esigenze della Turchia, naturalmente. “L’Iran vende petrolio e gas alla Turchia, con pagamenti effettuati a istituzioni statali iraniane. Le sanzioni bancarie statunitensi ed europee vietano i pagamenti in dollari o euro, così l’Iran viene pagato in lire turche. La lira ha un valore limitato nell’acquisto di merci sui mercati internazionali, ma è l’ideale per fare baldoria acquistando oro in Turchia.” E così, in un mondo in cui evitare il dollaro viene considerato dalla maggioranza una follia, Turchia e Iran, in silenzio ed efficacemente, hanno creato la loro scappatoia, in cui le risorse naturali sono scambiate con una valuta locale, che viene scambiata con l’oro, e che poi viene utilizzato dall’Iran per acquistare qualsiasi cosa, e tutto ciò di cui necessita, da tutti quegli altri paesi che non rispettano l’embargo imposto dagli Stati Uniti e dagli europei. Come quasi tutti i paesi dell’Africa. Perché l’oro parla, e i petrodollari camminano sempre più.
Ciò che è inquietante, è che anche Dubai sia entrato nella partita, e le tre vie di transazione potrebbero presto diventare il modello per tutti gli altri paesi che non hanno paura di subire l’ira dell’embargo dello Zio Sam: “A marzo di quest’anno, quando le sanzioni bancarie hanno cominciato a mordere, Teheran ha effettuato un forte aumento di acquisti di lingotti d’oro dalla Turchia, secondo i dati sul commercio del governo turco. L’esportazione d’oro verso l’Iran dalla Turchia, uno dei maggiori consumatori e depositari di oro, è arrivata a 1,8 miliardi di dollari a luglio, pari a oltre un quinto del deficit commerciale della Turchia di quel mese. Ad agosto, tuttavia, un improvviso crollo delle esportazioni turche d’oro dirette in Iran, è coinciso con un balzo delle sue vendite del metallo prezioso negli Emirati Arabi Uniti. La Turchia ha esportato un totale di 2,3 miliardi dollari in oro ad agosto, di cui 2,1 miliardi dollari erano in lingotti d’oro. Poco più di 1,9 miliardi, circa 36 tonnellate, sono stati inviati negli Emirati Arabi Uniti, come dimostrano gli ultimi dati disponibili dell’Ufficio di Statistica della Turchia. A luglio la Turchia ha esportato solo 7 milioni in oro negli Emirati Arabi Uniti. Nello stesso tempo, le esportazioni d’oro dalla Turchia dirette verso l’Iran, che oscillavano tra 1,2 miliardi e circa 1,8 miliardi di dollari ogni mese da aprile, sono crollate a soli 180 milioni ad agosto. Il commerciante di Dubai ha detto che da agosto, le spedizioni dirette verso l’Iran sono state in gran parte sostituite da quelle attraverso Dubai, a quanto pare perché Teheran voleva evitare la pubblicità. ‘Il commercio diretto dalla Turchia verso l’Iran si è fermato perché c’era semplicemente troppa pubblicità in giro’, ha detto il commerciante. Concessionari, gioiellieri e analisti di Dubai hanno detto di non aver notato alcun grande ed improvviso aumento dell’offerta sul mercato dell’oro locale ad agosto. Hanno detto che ciò suggerisce che la maggior parte delle spedizioni negli Emirati Arabi Uniti venga inviata direttamente in Iran. Non è chiaro come l’oro passi da Dubai all’Iran, ma vi è una corrente di scambi tra le due economie, in gran parte condotta con i dhow di legno e altre navi che attraversano il Golfo, a una distanza di soli 150 chilometri nel punto più stretto. Un commerciante turco ha detto che Teheran è passata alle importazioni indirette perché le spedizioni dirette venivano ampiamente riportate sui media turchi e internazionali, all’inizio di quest’anno. ‘Ora sulla carta sembra che l’oro vada a Dubai, non in Iran’, ha detto.”
Che cosa succede se gli Stati Uniti chiedono che lo scambio tra Dubai e l’Iran finisca? Niente: un altro paese si affretterà a sostituirlo nel triangolo d’oro, e poi un altro, e poi un altro ancora. Dopo tutto, sono pronti ad intervenire nelle condizioni molto redditizie della domanda/offerta delle transazioni. Proprio come avviene nel flusso bancario che sostiene il mercato delle obbligazioni e degli stock scambiati giorno per giorno. Che cosa accadrebbe se la stessa Turchia si ritirasse? “Gli acquirenti possono anche voler rendere i loro acquisti meno vulnerabili a qualsiasi possibile interferenza da parte del governo della Turchia. Lo stretto rapporto della Turchia con l’Iran ha cominciato a scadere da quando i due stati si trovano sui lati opposti della guerra civile in Siria, con la Turchia che sostiene la caduta del presidente Bashar al-Assad e l’Iran che rimane il più fedele alleato regionale di Assad.” Quindi, ancora la stessa cosa: l’Iran semplicemente troverebbe un paese della regionale che ha bisogno di greggio, e molti, molti di costoro sono in giro, e offrirebbe uno scambio oro-greggio che manterrebbe il mini-ciclo petro-oro a galla. Eppure assai ironicamente, nonostante tutte le ostilità palesi tra l’Iran e la Turchia sulla Siria, le due nazioni continuano a trattare, suscitando la domanda su quanto credibili siano tutte quelle storie sull’animosità medio-orientale tra questo o quel paese, o questa o quella fazione o etnia. Non c’è da sorprendersi: l’oro supera tutte le differenze. Tutte.
Infine, la realtà è che nessuno, in realtà, infrange alcuna regola. Non vi è alcuna indicazione che con il commercio di oro Dubai stia violando le sanzioni internazionali contro l’Iran. Le sanzioni delle Nazioni Unite vietano l’invio di materiali connessi al nucleare in Iran e congelano i beni di alcuni individui e imprese iraniani, ma non vietano la maggior parte del commercio. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno ancora rilasciato i dati relativi al commercio per agosto. Dai funzionari della dogana di Dubai non è stato possibile avere un commento, nonostante i ripetuti tentativi di contattarli. I dati commerciali turchi confermano che l’oro viene trasportato per via aerea a Dubai. Secondo i dati, 1450 milioni dollari di oro turco esportato, in totale, ad agosto sono stati spediti tramite l’ufficio doganale nell’aeroporto Ataturk. Quasi tutto il resto, 800 milioni, è stato spedito dal più piccolo aeroporto di Istanbul, il Sabiha Gokcen. Le esportazioni totali di tutte le merci della Turchia verso gli Emirati Arabi Uniti, sono ammontate a 2,2 miliardi di dollari ad agosto. Di tale somma, 1,19 miliardi dollari sono stati registrati presso l’aeroporto Ataturk, mentre 776 milioni dollari sono stati registrati al Sabiha Gokcen. Un broker doganale che fa affari nell’Ataturk, ha detto che i corrieri si imbarcano sui voli per Dubai della Turkish Airlines e della Emirates, portandosi il metallo nel bagaglio a mano, per evitare il rischio di perderlo o di vederselo rubato. L’importo massimo di lingotti d’oro che è permesso prendere a un passeggero è di 50 kg, ha detto. Ciò suggerisce che durante agosto, diverse centinaia di voli dei corrieri potrebbero aver portato l’oro a Dubai per conto dell’Iran. “E’ tutto legale, dichiarano, danno il loro codice fiscale e tutto viene registrato, quindi non c’è nulla di illegale in questo“, ha detto il broker. “Al momento, c’è un bel po’ di traffico a Dubai. Anche a settembre e ottobre l’abbiamo visto.”
I dati sul commercio mostrano che quasi 1400 milioni di dollari delle esportazioni dalla Turchia agli Emirati Arabi Uniti, ad agosto, provenivano da una o più società con un numero di codice fiscale registrato nella città costiera di Izmir, la terza più grande della Turchia. I funzionari doganali dell’Ataturk hanno rifiutato una richiesta della Reuters di fornire i documenti di identificazione degli esportatori, dicendo che le informazioni sono riservate. L’identità delle società che gestiscono il commercio non poteva essere confermata. I commercianti hanno detto che a causa del rischio di attirare attenzioni indesiderate da parte delle autorità statunitensi, solo poche aziende sono disposte a mettersi in gioco. E il gioco è fatto: un sistema libero perfettamente controbilanciato, in cui si fanno transazioni e nessuna traccia viene lasciata. Ancora più importante, questo è il piano per il futuro, come sempre più paesi eludono l’assoggettamento al regime dei petrodollari, così onnipresente nel secolo passato, ma che si sta lentamente e inesorabilmente spostando a beneficio dei paesi che non sono insolventi, e che in realtà producono cose necessarie per il resto del mondo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora


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jeudi, 15 novembre 2012

La Turquie menace l’Union Européenne et l’ENI italienne

Andrea PERRONE:

La Turquie menace l’Union Européenne et l’ENI italienne: intolérable!

 

Ankara veut entrer dans l’Union Européenne mais sa politique dite “néo-ottomane” cherche à empêcher les pétroliers italiens de l’ENI d’exploiter des gisements au large de Chypre!

 

chypre-gaz-400-de-haut_0.jpgLa Turquie réclame que l’Europe fasse un pas décisif et prenne des décisions immédiates pour faire accéder définitivement la Turquie à l’UE mais, simultanément, elle menace une importante société pétrolière européenne, l’ENI italienne, parce que celle-ci s’apprête à signer des accords avec Chypre pour exploiter les gisements de gaz au large de l’île. Pour le gouvernement d’Ankara, les mesures visant à favoriser le plus rapidement possible l’entrée de la Turquie dans l’UE devraient être prises au terme de l’actuelle présidence cypriote. De plus, la Turquie compte entrer dans le club des Vingt-Sept d’ici 2023. Ce langage fort a été tenu par le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan, flanqué de son ministre des affaires européennes, Egemen Bagis, dans les colonnes du quotidien turc “Hurriyet”: “A la fin de la présidence cypriote, nous attendons une avancée décisive de la part de l’UE. L’UE a actuellement une attitude contraire à ses propres intérêts. Elle doit se ‘repenser’ et accélérer le processus d’adhésion de la Turquie”, a conclu le ministre. “Nous avons dit qu’avant 2023, la Turquie devrait être un membre à part entière de l’UE”, a ajouté Bagis dans ses réponses au journaliste de “Hurriyet”, mais nous n’avons pas l’intention d’attendre jusqu’à la fin de l’année 2023”.

 

La République de Chypre va bientôt céder la présidence de l’UE à l’Irlande: ce sera en décembre de cette année. Le 31 octobre, Recep Tayyip Erdogan a lancé un avertissement aux technocrates de Bruxelles, en affirmant que si l’UE ne garantit pas l’adhésion d’Ankara pour avant 2023, la Turquie retirera sa candidature. Erdogan fixe ainsi pour la première fois une date-butoir pour l’adhésion définitive de son pays à l’UE. “Je ne crois pas qu’ils se tiendront sur la corde raide aussi longtemps”, a précisé Erdogan lors de sa visite récente à Berlin où il a répondu aux questions des journalistes allemands, “mais si nous retirons notre candidature, l’UE y perdra et, en bout de course, l’UE perdra la Turquie”.

 

Pour notre part, et nonobstant la croissance continue du PIB turc, qui frise aujourd’hui les 9%, nous ne pensons pas, à l’instar des derniers sondages, que les Européens et les Turcs souffriront tant que cela si Ankara s’éloigne de l’UE. Il nous semble plus intéressant d’observer les turbulences que crée le gouvernement turc lorsqu’il déclare se tenir prêt à réviser les accords actuels permettant à l’ENI de travailler sur territoire turc si l’entreprise pétrolière italienne forge un accord avec Chypre pour exploiter les gisements gaziers au large de l’île. Le ministre turc des affaires étrangères, Ahmet Davutoglu, créateur de la nouvelle politique “néo-ottomane” vient d’annoncer dans un communiqué: “Comme nous l’avons déjà envisagé à maintes reprises, ..., les entreprises qui coopèrent avec l’administration grecque-cyptriote seront exclues de tous les futurs projets turcs dans le domaine énergétique”. Le contentieux qui oppose l’ENI à la Turquie, suite à l’accord prévu entre l’entreprise italienne et Nicosie, remonte déjà au 30 octobre 2012, immédiatement après que le gouvernement cypriote ait annoncé la concession de quatre licences d’exploitation de gaz, tout en précisant qu’il en négociera les termes de partenariat avec les Italiens de l’ENI, les Sud-Coréens de Kogas, les Français de Total et les Russes de Novatek. Aujourd’hui, le ministre des affaires étrangères turc a invité les entreprises et les gouvernements de ces quatre pays à “agir selon le bon sens”, les incitant à ne pas oeuvrer dans les eaux cypriotes et à retirer leurs offres.

 

Le ministre turc de l’énergie, Taner Yildiz, sûr de lui, a déclaré hier selon le quotidien “Hurriyet” qu’il était prêt à revoir tous les investissements de la société pétrolière italienne en Turquie, si celle-ci scelle un accord avec Chypre pour exploiter les gisements de gaz des eaux cyptriotes. “Nous soumettrons à révision leurs investissements en Turquie si l’ENI est impliquée”. Déjà au cours de ces derniers mois, Ankara avait protesté à plusieurs reprises auprès du gouvernement cypriote, qualifiant d’“illégales” toutes éventuelles activités d’exploitation au large de l’île et envoyant dans les eaux cyptriotes des militaires, des sous-marins et des navires de guerre. De son côté, Chypre est déforcée car elle est divisée en deux depuis l’été 1974, lorsque les troupes turques ont envahi l’île et occupé sa partie septentrionale, en réponse à un coup perpétré par des éléments philhellènes à Nicosie, qui voulaient réaliser l’ENOSIS, l’union de Chypre à la mère-patrie grecque. Depuis lors, l’île ne s’est plus jamais recomposée et les deux entités, nées des événements de 1974, ont continué à vivre séparément, hermétisées totalement l’une par rapport à l’autre mais en paix, en dépit d’une colonisation forcée favorisée en totale illégalité par la Turquie, qui a incité une fraction de ses concitoyens à prendre possession de la partie nord de Chypre.

 

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu ; article paru dans “Rinascita”, Rome, le 6 novembre 2012; http://rinascita.eu/ ).

mercredi, 14 novembre 2012

Le numéro d’Erdogan à Berlin

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Anton BESENBACHER (“ ’t Pallieterke”):

Le numéro d’Erdogan à Berlin

 

Grüß Gott,

En novembre 2011, le premier ministre turc Erdogan s’est rendu en Allemagne, pour fêter le cinquantième anniversaire du traité germano-turc de 1961, qui portait sur l’engagement de travailleurs immigrés pour l’industrie allemande. L’ambiance, à l’époque, en cette fin d’année 2011, n’était pas trop à la fête car le chef de la nouvelle Turquie délaïcisée n’y a pas été avec le dos de la cuiller dans un entretien accordé au journal le plus populaire d’Allemagne, le “Bild-Zeitung”. “Les hommes politiques allemands ne prennent pas assez en considération l’imbrication (socio-économique) de trois millions de Turcs en Allemagne”. D’après Erdogan, 72.000 employeurs d’origine turque donneraient du travail à quelque 350.000 personnes. “Les travailleurs immigrés d’hier sont progressivement devenus des employeurs, des universitaires et des artistes”, estimait Erdogan. Il se sentait délaissé par les Allemands dans le dossier en souffrance de l’adhésion turque à l’UE. En novembre 2011, il y avait un fait qu’Erdogan ne parvenait pas à digérer: l’obligation pour les immigrants d’apprendre la langue allemande. “Qui prétend que la condition première (à l’intégration) est la connaissance de la langue allemande, enfreint les principes des droits de l’homme”, estimait le premier ministre turc qui, par la même occasion, accusait implicitement les Allemands de ne pas respecter les droits de l’homme!

 

Quelques mois auparavant, Erdogan, dans un discours tenu à Düsseldorf, avait exhorté les Turcs d’Allemagne à ne pas aller trop loin dans l’adaptation à la société allemande et surtout à ne pas s’assimiler. Il pensait que la création d’écoles turques en Allemagne était une bonne idée. Il s’insurgeait aussi contre le soutien (tout théorique) que l’Allemagne aurait apporté aux séparatistes kurdes. Pour faire bref, on a eu la fête, mais en bémol...

 

La semaine dernière, fin octobre, début novembre 2012, Erdogan était une nouvelle fois sur le sol allemand. Il est venu inaugurer la nouvelle ambassade de Turquie à Berlin. Ce bâtiment a coûté 30 millions d’euro et il est le plus grand de tous ceux qui abritent des diplomates turcs dans le monde. Erdogan a donc tranché le ruban, de concert avec le ministre allemand des affaires étrangères, Guido Westerwelle. La nouvelle ambassade se trouve sur un terrain que l’Empire Ottoman avait acheté en 1918. Les sultans n’ont jamais pu en bénéficier, car, au début des années 20 du 20ème siècle, Mustafa Kemal, surnommé plus tard “Atatürk”, a chassé de Turquie le dernier de ces sultans, avec tout son harem. L’ambassade de la jeune république turque s’est alors installé sur ce terrain à Berlin mais en 1944 le bâtiment n’a pas résisté aux bombardements des alliés. D’après Erdogan, le lieu prouve toutefois que les liens anciens subsistent entre les deux pays.

 

Le lendemain de cette inauguration, quelque 3000 personnes ont manifesté contre la visite du premier ministre turc. Cette foule était surtout composée d’Alévites, de Kurdes et d’Arméniens qui ne sont pas d’emblée favorables à la politique d’Erdogan. Les hommes politiques allemands qui ont pris la parole lors de cette manifestation venaient de la gauche et de l’extrême-gauche. “Vous êtes les représentants des opprimés” a déclaré Memet Çilik, membre du Bundestag et élu des Verts, venu soutenir les manifestants. Le communiste Gregor Gysi, chef de la fraction “Die Linke” (= “La Gauche”) au parlement allemand, s’est tout d’un coup révélé un “Volksnationalist” pur jus: “Pourquoi les Kurdes ne peuvent-ils pas vivre en Turquie comme ils l’entendent?”. Gysi a demandé à Erdogan de respecter et de garantir la culture et l’ethnicité propre des Kurdes. Il a exprimé ensuite sa solidarité à tous ceux qui croupissent dans les prisons turques parce qu’ils s’étaient engagés à faire respecter les droits de l’homme.

 

Ce langage n’a pu que déplaire dans les salons officiels où les corps constitués des deux pays se serraient la main. Les corps constitués, un peu inquiets, voulaient connaître la teneur du discours qu’Erdogan allait prononcer dans les locaux de la nouvelle ambassade. “Nous voulons”, a-t-il déclaré, “que les Turcs d’Allemagne parlent l’allemand couramment”. Nouveau son de cloche, contraire au précédent, à celui de l’an passé. Erdogan semble avoir oublié qu’il a déclaré naguère qu’une telle exigence était contraire aux droits de l’homme. Mieux encore: les Turcs d’Allemagne ne doivent pas seulement lire des auteurs turcs mais aussi Hegel, Kant et Goethe!! Oui, on a bien entendu: on verra bientôt, sous l’injonction de l’islamisant Erdogan, tous les Turcs d’Allemagne avec, entre les mains, la “Critique de la raison pure” de Kant. Les imams ne seront assurément pas très contents.

 

D’où vient donc cette volte-face? Qu’on y croit encore ou que l’on n’y croit plus, Erdogan veut encore et toujours que son pays fasse partie de l’UE. Bon nombre d’Européens se demandent qui veut encore faire partie de cette Union qui prend eau de partout. Erdogan, apparement, le veut. Et pour y parvenir, il ne faut pas froisser les Allemands outre mesure, du moins pas trop souvent. Merkel est officiellement une adversaire de l’adhésion pure et simple de la Turquie à l’UE. Mais la dame, dans le passé, a souvent opéré des virages à 180°, donc cette posture actuelle n’est pas garantie longue durée...

 

Il ne faut toutefois pas croire qu’Erdogan soit venu mendier l’adhésion de son pays. Ce serait ne rien comprendre à l’affaire et mal connaître le premier ministre turc. Celui-ci est un homme très sûr de lui. La Turquie se porte bien sur le plan économique et cherche à s’imposer comme grande puissance régionale, avec des frontières situées dans une région hautement instable, où Ankara veut apparaître comme un havre de paix et de fiabilité. “La Turquie n’est pas une charge pour l’Europe. La Turquie veut prendre une partie du fardeau (européen) à sa charge”, à déclaré Erdogan avec toute l’assurance qu’on lui connait. La Turquie, en effet, a pratiquement payé toutes ses dettes au FMI et, ajoute Erdogan, “aujourd’hui nous pouvons prêter de l’argent à l’UE”.

 

Donc, s’il faut croire Erdogan, c’est une bénédiction d’Allah pour nous tous que la Turquie veut encore devenir membre de cette UE mitée. Et si l’UE refuse l’adhésion turque sous prétexte que la Turquie est un pays musulman, alors, affirme Erdogan, “l’UE y perdra mais, nous, non car nous devenons de jour en jour plus forts”. Ce ne sont pas là les paroles d’un quémandeur bredouillant. C’était plutôt Madame Merkel, qui a la réputation d’être forte, qui faisait piètre figure. Elle avait été houspillée au second plan par un homme politique turc bien habile.

 

Anton BESENBACHER.

(article paru dans “ ’t Pallierterke”, Anvers, 7 nomvembre 2012).

samedi, 10 novembre 2012

Histoire : le Kurdistan et les Kurdes

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Histoire : le Kurdistan et les Kurdes

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

1) Heurts et malheurs de l’Histoire kurde

Avant le 16ème siècle, le Kurdistan tel qu’il est connu et reconnu aujourd’hui, avec son découpage en quatre parties, était une des régions de l’Iran. Il fut abandonné par les rois safavides à l’empire Ottoman en 1514, lors de la bataille de Tchâldorân, avant d’être partagé entre l’Iran, la Syrie, la Turquie et l’Iran à la fin de la Première Guerre Mondiale. Malgré les hauts et les bas de leur histoire, les Kurdes continuent cependant à pratiquer une langue commune qui témoigne de leur unité culturelle. Jusqu’à présent, et malgré l’adversité, ces derniers sont parvenus à conserver leur union, leur solidarité, et leur identité transnationale. Durant l’Antiquité, les Kurdes habitaient les régions orientales de la Mésopotamie et l’Iran-vitch. Leur territoire n’a jamais cessé de changer d’appellation au cours de l’histoire. Il fut nommé Kura Gutium par les Sumériens, Kurdasu par les Elamites, Qardu par les Babyloniens et Carduchoi par les Grecs. Sous les Seldjoukides, à l’époque du Sultân Sandjar, le nom de Kurdistan fut définitivement choisi pour cette région.

Au 7ème siècle av. J.-C le Kurdistan irakien d’aujourd’hui constituait une partie de l’empire assyrien. Lorsqu’Assurbanipal, l’empereur assyrien, mourut en 633 av. J.-C, Cyaxare le roi mède s’allia aux Babyloniens contre les Assyriens. En 614 av. J.-C, Cyaxare traversa les chaînes montagneuses du Zagros et assiégea la capitale assyrienne, Assur, en 614 av. J.-C. Après s’être emparé des autres villes assyriennes (dont Ninive, en 613 av. J.-C. où s’était caché le dernier roi assyrien), Cyaxare accepta le pacte de paix babylonien et parvint de la sorte à asseoir fermement son royaume. Désormais, cette région occupée allait devenir partie intégrante de la Perse, sous les Achéménides, les Séleucides, les Arsacides et les Sassanides. D’après Xénophon [1], les habitants kurdes de Zagros furent recrutés par l’armée achéménide pour soutenir le conflit engagé contre Alexandre le macédonien. Strabon [2] et Eratosthène [3] ont également évoqué la troupe kurde de Xerxès III qui fut en lutte contre l’armée d’Alexandre.


Certaines sources comme Noldke (1897) considèrent que les tribus kurdes du sud et du centre de l’Iran, nommés les Martis, ont émigré à la suite des conquêtes sassanides vers le nord-ouest de l’actuel Iran, dans la région de Kurdu, et qu’ils ont assimilé la culture et les noms des habitants kurdes de cette région. Ce furent eux qui participèrent aux guerres, aux côtés des Sassanides et les Arsacides contre les Romains byzantins. Pendant cette période, les Romains appelaient les Kurdes iraniens Kardukh ou Kardikh en rappelant ainsi le nom de leur région. Sous les Sassanides, l’actuel Irak se nommait Assurestân ou Irânchahr (« la ville d’Iran »). Ce pays était partagé en douze provinces et la région kurde d’Irak formait la province de Châd-pirouz. Les villes kurdes les plus importantes de l’époque étaient Garmiân (l’actuelle Karkouk) et Achap (actuellement Emâdieh).

Avec les invasions arabes (dirigée par le calife Omar) entre les années 634 et 642, les régions kurdes de l’Iran, et notamment Arbil, Mosel et Nassibine, tombèrent aux mains des Arabes. Après la mort d’Omar, son successeur Osman envahit de nouveau les régions kurdes du nord. Mais les Iraniens, et bien entendu les Kurdes, s’insurgèrent à plusieurs reprises contre le gouvernement arabe pour libérer leur région et regagner leur autonomie. Mohammad-ibn-e Tabari [4] se souvient de l’une de ces rebellions : « …le même jour on entendit dire qu’à Mosel, les kurdes s’étaient révoltés. Mossayebn-e Zohaïr, le gouverneur de Koufa, proposa à Mansour, calife abbasside, d’y envoyer son ami Khaled pour réprimer les insurgés. Mansour accepta et Khaled devint le gouverneur de Mosel. » (Histoire de Tabari, 11ème tome, p. 4977) En 1910, lors des fouilles archéologiques dans la province de Souleymanieh, les archéologues ont trouvé une peau de bête sur laquelle on pouvait lire en langue kurde et en écriture pehlevi un poème constitué de quatre vers. Ce poème qui fut plus tard nommé « Hormozgân », rappelle l’invasion arabe et le triste souvenir des destructions commises à cette époque. Selon les archéologues, ce poème fut composé aux premiers jours de l’occupation arabe. La traduction qui suit est tout d’abord issue du pehlevi, avant d’être traduit du persan vers le français (par l’auteure de ces lignes) :

Les temples sont détruits et les feux sont éteints
Les grand mo’bed [5] se sont cachés
Le cruel arabe a ruiné
Les villages ouvriers, jusqu’à la ville de Sour
Ils ont capturé les femmes et les enfants pour l’esclavage
Les hommes braves s’éteignent dans leur sang
Le culte de Zarathoustra resta sans tuteur
Ahoura-Mazda n’a plus de pitié pour personne

Sous les Abbassides, le pouvoir du gouvernement central ne cessa de diminuer, offrant ainsi une bonne occasion aux gouvernements non-alignés de se révolter et de réclamer leur autonomie à l’est et à l’ouest de l’Iran. Les Tâhirides, les Samanides et les Saffârides s’emparèrent de l’est de l’Iran tandis que les Hassanouyehs, les Bani-Ayyârâns, les Buyides, les Hézâr-Aspiâns, les Mavânides et les Ayyubides occupèrent l’ouest du pays. Durant cette période, le terme « kurde » s’appliquait à une tribu iranienne sous l’emprise arabe.

Au 11ème siècle, avec l’arrivée au pouvoir des turcomans Seldjoukides, sous le règne du Sultân Sandjar en 1090, les Kurdes fondèrent pour la première fois de leur histoire, un Etat à proprement parler kurde, qui prit le nom de Kurdistan. Hamdollâh Mostowfi fut le premier, en 1319, à mentionner dans son livre Nezha-t ol-Gholoub le nom du Kurdistan et de ses seize régions : « …le Kurdistan et ses seize régions, Alâni, Alichtar, Bahâr, Khaftiân, Darband, Tâj-khâtoun, Darband-Rangi, Dezbil, Dinvar, Soltân-Abâd, Tchamtchamâl, Cahrouz, Kermânchâh, Hersin, Vastâm sont limités aux Etats arabes, au Khûzistân, à l’Irak et à l’Azerbaïdjan… ». Les atabegs turcomans gouvernèrent également le territoire kurde pendant une très longue période. Les descendants de Saboktakin prirent en main les affaires de la ville et de la région d’Arbil entre 1144 et 1232, et les Ourtukides régnèrent à Halab et à Mardine entre 1101 et 1312.

Pendant l’invasion mongole et suite à sa défaite, le roi Jalâl-eddin Khârezmchah, poursuivi par les mongols, s’enfuit vers les territoires kurdes. Ces derniers détruisirent toutes les provinces kurdes afin de débusquer le roi iranien. Ce qui ne l’empêcha pas de régner pendant un certain temps à l’ouest de l’Iran, mais aussi, d’être finalement assassiné en 1213. Houlâkou-khân le Mongol, après avoir conquis les régions centrales de l’Iran, prit le chemin de Hamedân et de Kermânchâh à destination de Baghdâd. Une fois de plus en 1259, en chemin pour conquérir l’Arménie, les Mongols assiégèrent les régions kurdes de l’Iran. Sous le règne des Ilkhanides (branche mongole constituée de convertis à l’Islam) les Kurdes s’emparèrent d’Arbil en 1297. Progressivement, après la mort du roi mongol Mohammad Khodâbandeh, le pouvoir des Kurdes s’intensifia, et ce, jusqu’à la chute des Mongols en 1349. Malgré leurs efforts, les Kurdes ne parvinrent pas à former un gouvernement autonome. A peine libérés de l’emprise mongole, ils se retrouvèrent sous la coupe des Turcomans Gharâ-ghoyunlous qui cédèrent leur place aux Agh-ghoyunlous. Avec l’arrivée de Tamerlan en Iran, les régions kurdes ne tardèrent pas à tomber, et cette fois, en obligeant les Kurdes à s’enfuirent à travers monts et vaux, simplement pour préserver leur vie.

Sous les Safavides, le roi Chah Ismaël propagea le chiisme partout en Iran. Les Kurdes, sunnites, devinrent méfiants envers le roi et adhérèrent à l’empire Ottoman, ennemi sunnite des Safavides. Après la défaite de Chah Ismaël face au Sultan Selim au cours de la bataille de Tchâldorân en 1514, vingt-cinq gouverneurs kurdes rallièrent l’empire Ottoman en ouvrant ainsi un nouveau chapitre de l’histoire des Kurdes. L’Iran perdit de ce fait, l’essentiel de ses régions kurdes. Désormais, le problème territorial rendait les Kurdes conscients de leur importance politique dans la région. Pendant de longues années, l’empire Ottoman gouverna la majorité des contrées kurdes (jusqu’à la fin de la Première Guerre mondiale et jusqu’à la chute des Ottomans en 1918, qui rendit l’autonomie et la liberté à la région de Kurdistan, aux territoires arabes, à l’Asie mineure et aux Balkans).

Quant à la région du Kurdistan, bien qu’un jour elle ait appartenue à l’Iran dans sa totalité, elle se retrouva partagée entre quatre pays, l’Iran, la Syrie, la Turquie et l’Irak mais, également, entre l’Azerbaïdjan et l’Arménie.

Le Kurdistan n’est jamais parvenu à proclamer son autonomie, et jusqu’à présent, le peuple kurde reste aux prises avec les problèmes politiques. Aujourd’hui, le nombre des habitants kurdes dans les quatre pays est de vingt-cinq millions, dont sept millions sont de nationalité iranienne. En Iran, les régions où l’on communique en langue kurde comprennent les provinces de l’Azerbaïdjan de l’est, l’Ilâm, le Kurdistan, Kermânchâh et le Khorâssân du nord. Pourtant, d’autres provinces de l’Iran comprennent des populations kurdes qui ne constituent cependant qu’une minorité, à l’exemple des provinces du Guilân, des villes de Ghazvin et de Qom, de la région de Fars, du Mazandarân, de Hamedân et du Baloutchistan.

2) Géographie historique du Kurdistan

Les tribus kurdes sont parmi les tribus aryennes ayant émigré sur le plateau iranien il y a quelques millénaires. L’histoire pré islamique de ce peuple n’est pas connue avec précision. Le poète Ferdowsi les considérait comme les descendants des jeunes hommes ayant échappé au mythologique roi Zahâk, qui s’étant réfugiés dans la montagne, n’en étaient jamais redescendus. La langue persane moderne des premiers siècles de l’Hégire quant à elle, donne le sens pasteur et montagnard au mot « kurde ». On a retrouvé dans des documents sumériens, akkadiens, babéliens et assyriens, des noms de peuples qui rappellent les noms kurdes. Le plus proche d’entre ces noms de peuples, dont la situation géographique et la description justifient également l’origine kurde, est le nom des « Kordoukhoy », nom que l’on croise également dans l’ouvrage de Xénophon. Ce peuple vivait dans les montagnes situées entre l’Irak et l’Arménie, en particulier en un lieu aujourd’hui appelé « Zekhou », situé à soixante kilomètres au nord-ouest de Mossoul en Irak.

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Montagnes du Kurdistan situées en Irak

Polybius (200-120 av. J.-C.) parle également de peuples vivant dans le sud de l’actuel Azerbaïdjan, nommés les « Kourtivi » ou « Kortii ». Strabon et Tite-Live précisaient que certaines tribus appartenant à ce peuple vivaient également dans la province du Fars. Effectivement, depuis l’époque antique jusqu’à aujourd’hui, des nomades kurdes vivent dans les Fârs.

L’histoire kurde préislamique n’est pas connue avec précision mais après l’islam, les géographes et historiens musulmans qui ont compilé l’histoire du monde islamique n’ont pas manqué de citer les Kurdes. Cela dit, les Kurdes étant considéré comme un peuple parmi d’autres, les détails historiques ou une histoire uniquement focalisée sur ce peuple n’existent pas. Et c’est uniquement à l’époque safavide qu’un premier livre historique, de langue persane, le Sharaf nâmeh de Badlisi, se concentre uniquement sur le peuple kurde.

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Pont safavide, Sanandadj

Au moment de l’invasion arabe, c’est en l’an 637 ou 641 que les Arabes occupèrent les fortifications kurdes. En l’an 643, au moment de la conquête du Fârs, les Kurdes de cette province participèrent à la défense des villes de Fasâ et de Dârâbjerd. La conquête des villes de Zour et de Dârâbâd, villes kurdes de la région, se fit en l’an 642. Abou Moussa Ash’ari vainquit les Kurdes en l’an 645, et en l’an 658, les Kurdes de la région d’Ahwâz dans le sud participèrent à la révolte de Khariat Ibn Râshed contre l’Imâm Ali et après la mort de Khariat, nombre d’entre eux furent également tués.

En l’an 708, les Kurdes du Fârs se soulevèrent et cette révolte fut réprimée dans le sang par le cruel gouverneur Hojjâj Ibn Youssef. En l’an 765, les Kurdes de Mossoul se soulevèrent à leur tour et le calife abbasside Mansour envoya Khâled Barmaki les réprimer encore une fois durement. En l’an 838, l’un des chefs kurdes des alentours de Mossoul, Ja’far Ibn Fahrjis se révolta contre le calife abbasside Mu’tasim et le calife envoya son célèbre chef de guerre Aytâkh pour l’écraser. Aytâkh, après une violente guerre, tua Ja’far, ainsi que beaucoup de ses hommes et prit en esclavage de nombreux Kurdes, emportant avec lui les chefs tribaux et les femmes. L’un de capitaines turcs du calife, au nom de Vassif qui avait participé à cette guerre, se réserva à lui seul pour tribut 500 Kurdes. En l’an 894, sous la direction du chef Hamdan Ibn Hamdoun, les bédouins arabes passèrent une alliance avec les Kurdes des régions de Mossoul et Mardin et déclarèrent la guerre à Mu’tadid, le calife abbasside de l’époque, ce qui conduisit à la mort et à la défaite de nombre d’entre eux.

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Pont de Gheshlâgh, Sanandadj

En l’an 926, sous le califat d’Al-Muqtadir bi-llah et l’émirat de Nâsser-o-Dowleh Hamdâni, les Kurdes de Mossoul se révoltèrent de nouveau. Entre les années 938 et 956, un dénommé Deyssâm, membre des kharijites, de père arabe et de mère kurde, rassembla sous son égide les Kurdes de l’Azerbaïdjan et déclara la guerre aux Al-e Mosâfer et autres émirs locaux de la région. Sa révolte fut réprimée et il mourut en prison. Aux Xe, XIe et XIIe siècles, les Shaddâdian, dynastie kurde, régnèrent en tant que suzerains locaux sur la plupart des régions kurdes. Cette dynastie appartenait à la grande tribu kurde des Ravardi, également tribu d’origine des dynasties ayyoubides, fondée par Saladin, lui-même kurde, qui régnèrent en Syrie, dans le Croissant fertile et en Egypte.

En l’an 1004, Azed-o-Dowleh Deylami, fatigué des raids kurdes sur son territoire, déclara la guerre aux Kurdes de Mossoul et après les avoir vaincus, ordonna la destruction de leurs fortifications et l’exécution de la majorité des chefs kurdes. En l’an 983, dans la région de Ghom, Mohammad Ibn Ghânem se rallia aux Kurdes Barzakani et se révolta contre le roi Fakhr-o-Dowleh Deylami. Ce dernier envoya d’abord Badr Ibn Hosnouyeh en mission de paix, mais les négociations traînèrent en longueur et la révolte fut finalement réprimée. Mohammad Ibn Ghânem mourut donc en captivité. L’un des importants événements du règne de Sharaf-o-Dowleh Deylami (982-989) fut sa bataille contre Badr Ibn Hosnouyeh à Kermânshâh qui se termina par la victoire de Badr, qui prit alors le contrôle d’une grande partie de l’ouest iranien. Il fut tué en 1014 par la tribu kurde des Jowraghân. Shams-o-Dowleh, le fils de Sharaf-o-Dowleh profita de cette occasion pour annexer l’ensemble des territoires que son père avait perdu. Il y avait les régions Shâpourkhâst (actuelle ville de Khorramâbâd), Dinvar, Boroujerd, Nahâvand, Asad Abâd et une partie d’Ahwâz.

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Vue générale de la ville de Bâneh

Il semble que l’expression Kurdistan fut pour la première fois utilisée par les Seldjoukides pour distinguer les régions kurdes de la région du Jebâl qui comprenait l’Azerbaïdjan, le Lorestân, et une partie des montagnes du Zagros dont le centre était à l’époque la région de Bahâr, situé à dix huit kilomètres au nord-ouest de Hamedân, puis Tchamtchamâl, près de l’actuelle ville de Kermânshâh. Le Kurdistan n’échappa pas non plus aux massacres et aux ravages de l’invasion mongole. Cette région fut ravagée une autre fois à l’époque des Tatars et de Tamerlan.

Shâh Esmâïl, premier roi de la dynastie chiite safavide, n’essaya guère de se rapprocher des Kurdes, sunnites. Les Ottomans sunnites tentèrent ainsi de s’allier aux Kurdes. Sous le règne safavide, la majorité des territoires kurdes appartenaient à l’Iran.

Après les Safavides, avec la prise de pouvoir par les Zend, famille aux racines kurdes, pour la première fois les Kurdes devinrent les dirigeants de l’Iran. Vers la fin du règne des Zend, la tribu des Donbali, grande tribu kurde, régnait sur une bonne partie de l’Azerbaïdjan de l’Ouest. Leur capitale était la ville de Khoy. Au XIXe siècle, les Kurdes vivant sur le territoire ottoman exprimèrent plusieurs fois leur désir d’indépendance au travers la création des gouvernements locaux kurdes. En 1878, le Sheikh Obbeydollâh Naghshbandi eut l’idée de créer un Etat indépendant kurde sous l’égide de l’Empire ottoman. En 1880, ses partisans occupèrent les régions des alentours d’Oroumieh, Sâvojbolâgh, Marâgheh et Miândoâb et l’armée iranienne eut à les repousser hors des frontières. En 1946, Ghâzi Mohammad profita de l’occupation alliée en Iran et avec l’appui de l’armée soviétique, – qui occupait la moitié nord de l’Iran -, annonça la création de la République Populaire du Kurdistan, avec pour capitale Mahâbâd. Cette république éphémère tomba après le retrait des Forces Alliées.

 Afsâneh Pourmazâheri (1) Heurts et malheurs de l’Histoire kurde

et Arefeh Hedjazi 2) Géographie historique du Kurdistan

Bibliographie :
- MINORSKII Vladimir Fedorovich, trad. TABANI Habibollâh, le Kurde, Kord, ed. Gostareh, Téhéran, 2000
- MOHAMMADI, Ayat, Survol de l’histoire politique kurde, Seyri dar târikh-e siâsi kord, ed. Porsémân, Téhéran, 2007
- RINGGENBERG Patrick, Guide culturel de l’Iran, Iran, ed. Rozaneh, Téhéran, 2005

Notes

[1] Historien, essayiste et chef militaire grec (430-352 av. J.C.) il naquit dans une famille riche et reçut les enseignements d’Isocrate et de Socrate.

[2] Géographe grec (58- 25 av. J.-C.) ses mémoires historiques ne nous sont guère parvenues, mais sa géographie fut en grande partie conservée. Il y pose certaines questions relatives à l’origine des peuples, à leurs migrations, à la fondation des empires et aux relations de l’homme et de son milieu naturel.

[3] Astronome, mathématicien et géographe grec (276-196 av. J.-C) auteur de travaux en littérature, en philosophie, en grammaire et en chronologie, directeur de la bibliothèque d’Alexandrie, il est surtout connu par son « crible » une méthode pour trouver les nombres premiers et par l’invention d’un instrument de calcul, le « mésolabe ».

[4] Historien et théologien arabe (838-923) il passa l’essentiel de sa vie à Baghdâd et fut ensuite professeur de droit et de Hadith. Il écrivit une histoire universelle de la Création jusqu’à 915. Sa deuxième grande œuvre est son commentaire du Coran.

[5] Prêtre zoroastrien.

mercredi, 24 octobre 2012

Number 2 U.S. Military Commander In Turkey

Number 2 U.S. Military Commander In Turkey

Hürriyet Daily News
October 23, 2012

US admiral in Turkey to discuss closer cooperation in anti-PKK fight

Sevil Küçükkoşum

Admiral_James_A__Winnefeld,_Jr.jpgANKARA: A top U.S. admiral is visiting Turkey today amid increasing military cooperation between Washington and Ankara on the fight against the outlawed Kurdistan Workers’ Party (PKK) and mounting tension on the Turkish-Syrian border to Syria’s crisis.

Adm. James Winnefeld, the vice chairman of the Joint Chiefs of Staff, is in Turkey as part of a previously scheduled counterpart visit with Deputy Chief of the Turkish General Staff Gen. Hulusi Akar, an official from the U.S Embassy to Turkey said.

“Admiral Winnefeld will participate in a series of discussions on military-to-military cooperation and mutual defense issues impacting both Turkey and the United States,” U.S. embassy spokesman in Ankara, T.J. Grubisha, told the Hürriyet Daily News today.

The fight against the PKK will top the agenda of the talks, while the Syrian crisis will also be discussed, a Turkish official told Daily News prior to the talks with the U.S. admiral. The Turkish side is also set to brief Winnefeld about problems related to intelligence-sharing between the U.S. and Turkey, the official said.

Francis Ricciardone, the U.S. ambassador to Ankara, told the Turkish media last week that a U.S. official would visit Turkey in the upcoming days to discuss cooperation between the two countries on the issue of fight against the PKK.

Ricciardone expressed his disappointment with frequent references to Washington’s unwillingness in the fight against the PKK and said he felt sorry and angered by such suspicions. “This makes our enemy successful in placing suspicion between allies. This might give hope to our enemies,” he said.

Ricciardone also said Washington had suggested that Turkey implement “tactics, techniques and procedures” (TTP), a multidisciplinary military maneuver that paved the way for the killing of Osama bin Laden, the architect of the Sept. 11 terrorist attack.

mardi, 23 octobre 2012

Turkey leads US-sponsored Military Encirclement of Syria

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Turkey leads US-sponsored Military Encirclement of Syria

Despite widely reported concerns of blowback in Syria due to the arming of jihadist groups, a military build-up on Syria’s borders is proceeding apace.

Racep Tayyip Erdogan’s Islamist government in Turkey is leading the way, using the pretext of stray mortar fire from Syria that killed five civilians to legitimise the deployment of 250 tanks, jets, helicopter gunships, troops, artillery emplacements and antiaircraft batteries on the border.

The Turkish Parliament recently granted war powers to Erdogan to send troops into Syria. Daily targeting of Syrian facilities was followed last week by the use of F16s to force down a civilian Syrian Airlines Airbus en route to Damascus from Moscow, with claims that it was carrying Russian weaponry.

Erdogan used the United Nations Security Council as a platform to attack Russia and China—“one or two members of the permanent five”—for vetoing anti-Syrian resolutions and demand an overhaul of the Security Council.

Turkey, along with the Gulf States led by Qatar, is also behind a push to unite Syria’s divided opposition forces, with the explicit aim of overcoming the qualms of the Western powers over arming the opposition and backing it militarily. There is an agreement to announce a joint leadership on November 4 at a conference in Qatar, just two days before the US presidential elections.

Foreign supporters “are telling us: ‘Sort yourselves out and unite, we need a clear and credible side to provide it with quality weapons,’” a source said.

Ensuring an effective command structure under the nominal discipline of the Free Syrian Army (FSA) and the actual control of Turkey and its allies requires the inclusion of rival military leaders Riad al-Asaad, Mustafa Sheikh and Mohammad Haj Ali (all defectors from the regime of Syrian President Bashar al-Assad), as well as various leaders of provincial military councils inside Syria. Funds are also being funneled into the Local Coordinating Committees—hitherto held up by various ex-left groups around the world as being independent of the imperialist powers.

UN Arab League mediator Lakhdar Brahimi is making great play of urging Iran to arrange a four-day cease-fire beginning October 25 to mark the Muslim religious holiday of Eid al-Adha. He is saying less about a proposal, more indicative of the UN’s role, to dispatch a 3,000-strong troop force to Syria.

The Daily Telegraph reported that Brahimi “has spent recent weeks quietly sounding out which countries would be willing to contribute soldiers” to such a force, ostensibly to be made operable following a future truce.

The direct involvement of US and British forces would be “unlikely”, given their role in Iraq, Afghanistan and Libya, so Brahimi “is thought to be looking at more nations that currently contribute to Unifil, the 15,000-strong mission set up to police Israel’s borders with Lebanon.”

These include Germany, France, Italy, Spain and Ireland—“one of which would be expected to play a leading role in the Syria peacekeeping force.”

The proposal was leaked by the Syrian National Council (SNC), with whom Brahami met in Turkey at the weekend. On Monday, the SNC was meeting for a two-day summit in the Qatari capital, Doha. Qatar’s prime minister, Sheikh Hamad bin Jassem al-Thani, took the occasion to push for military intervention in Syria. He told reporters, “Any mission that is not well armed will not fulfil its aim. For this, it must have enough members and equipment to carry out its duty.”

The SNC’s 35-member general secretariat was meeting in Doha to discuss “the establishment of mechanisms to administer the areas which have been liberated” in Syria, according to sources.

Discussions of the direct involvement of European troops in Syria are in line with confirmed reports that the US and Britain have despatched military forces to Jordan, for the purported purpose of policing its border and preventing a spill-over of the conflict.

US Defense Secretary Leon Panetta acknowledged the move at an October 10 meeting of NATO defence ministers in Brussels. The US has repeatedly issued denials of a growing military presence in Turkey located at the Incirlik airbase, but Panetta confirmed that Washington had “worked with” Turkey on “humanitarian, as well as chemical and biological weapons issues.”

The next day, the Times of London and the New York Times reported that Britain too has upward of 150 soldiers and military advisors in Jordan. Jordanian military sources said France may also be involved.

Anonymous senior US defence officials told Reuters that most of those sent to Jordan were Army Special Operations forces, deployed at a military centre near Amman and moving “back and forth to the Syrian border” to gather intelligence and “plan joint Jordanian-US military manoeuvres.”

There is “talk of contingency plans for a quick pre-emptive strike if al Assad loses control over his stock of chemical weapons in the civil war,” Reuters added.

Turkey’s bellicose stand has produced widespread media reports that the US and other NATO powers risk being “dragged into” a wider regional war. This in part reflects real concerns and divisions within imperialist ruling circles and in part an effort to conceal the Western powers’ instrumental role in encouraging military conflict.

Attention has been drawn to the refusal of NATO to heed appeals by Turkey for it to invoke Article 5 of its charter authorising the military defence of a member nation. But despite this, NATO has publicly gone a long way towards endorsing Turkey’s actions.

NATO Secretary-General Anders Fogh Rasmussen told reporters at the same Brussels summit that “obviously Turkey can rely on NATO solidarity… Taking into account the situation at our southeastern border, we have taken the steps necessary to make sure that we have all plans in place to protect and defend Turkey,” [emphasis added].

The previous day, a senior US defence official said, “We engage with Turkey to make sure that should the time come where Turkey needs help, we’re able to do what we can.”

In an indication of the type of discussions taking place in the corridors of power, several policy advisers have gone into print to outline their proposals for a proxy military intervention by Turkey to which the US could then lend overt support.

Jorge Benitez, a senior fellow at the Atlantic Council, urged in the October 15 Christian Science Monitor: “To preserve its credibility in Turkey and the region, NATO should offer radar aircraft and/or rapid reaction forces.”

“Too much attention has been focused on the question of invoking Article 5, the alliance’s mutual defence clause,” he added. Other options were available. Before the US-led war against Iraq in 2003, he noted, Turkey had requested a consultative meeting under Article 4 of the NATO treaty “to discuss how the alliance could help Turkey deter an attack from Iraq.”

Using this pretext, NATO approved Operation Display Deterrence, including the dispatch of four AWACS radar aircraft, five Patriot air defence batteries, equipment for chemical and biological defence, and “more than 1,000 ‘technically advanced and highly capable forces’ to support Turkey during the Iraq conflict.”

Soner Cagaptay of the Washington Institute for Near East Policy published an article in the October 11 New York Times on a three-point strategy he called “the right way for Turkey to intervene in Syria.”

He urged Turkey to “continue the current pattern of shelling across the border every time Syria targets Turkey” in order to “weaken Syrian forces” and let the FSA “fill the vacuum;” to “combine shelling with cross-border raids to target Kurdish militants in Syria;” and, if things “get worse along the border,” to stage “a limited invasion to contain the crisis as it did in Cyprus in the 1970s.”

lundi, 22 octobre 2012

Siria: L’emiro, Erdogan e Hollande… combattono la stessa guerra!

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Siria: L’emiro, Erdogan e Hollande… combattono la stessa guerra!

di Mouna Alno-Nakhal

Fonte: aurorasito  

Alla vigilia del quattordicesimo vertice francofono tenutosi a Kinshasa, il 12-14 ottobre 2012, il presidente francese François Hollande ha indicato i buoni e i cattivi… la Palma d’oro è andata a due paesi: Qatar e Turchia, che ha omaggiato per il loro atteggiamento e/o comportamento, in quanto campioni della democrazia e/o dell’azione umanitaria in relazione al “conflitto siriano!”

I meriti dell’emiro del Qatar fanno colare molto inchiostro nel nostro bell’esagono, lasciamo che i nostri parlamentari e funzionari democratici, come il signor Yves Bonnet, ex prefetto ed ex direttore della DST, dibattano, come ha fatto su France 5. Poi, dopo aver sentito o letto i punti chiave dell’intervento del nostro Presidente su France 24, date un’occhiata qui sotto alle “cartine”, soprattutto quella corrispondente alla famosa “zona cuscinetto”, corridoio umanitario, area protetta, o come volete, lento a materializzarsi per i nostri governi, precedente e attuale, desiderosi di porre fine allo stato siriano, alla sua geografia, al suo popolo, alla sua cultura, alla sua storia e alle sue infrastrutture che non si è finito di demolire…


Un pezzo di carta, tra le altre carte, ridisegnato per le esigenze occidentali, un secolo dopo l’altro… semplice “ri-partizione” di un Medio Oriente da sempre ambito, e che sperano materializzarsi al momento convenuto, costi quel che costi! 

I. I punti chiave dell’intervento di Yves Bonnet su France 5 [1]
[...] C’è ancora la propaganda salafita. Dobbiamo ancora chiamare le cose con il loro nome! Ci sono paesi stranieri, due in particolare: Qatar e Arabia Saudita… non si limitano solo pagare i calciatori del Paris Saint Germain! Quando vedo il Qatar preoccupato per la situazione nella nostra periferia… Di che s’immischia? É una grande democrazia il Qatar! Tutti sanno che è una democrazia… ero Prefetto, trovo assolutamente intollerabile che un certi paesi stranieri vengano a far fronte alla situazione delle nostre periferie … E l’Arabia Saudita? Qual’è la tolleranza religiosa in questo paese? Si tratta di paesi che sono la negazione stessa dell’espressione democratica. E questi sono i paesi che vengono ad occuparsi dei nostri affari… è propaganda salafita! Tutti sanno che si tratta di propaganda salafita oggi, non solo in Francia, ma anche nei paesi dell’Africa sub-sahariana è pagata da Arabia Saudita e Qatar! Credo che tutti dovremmo porci chiaramente delle domande su questi paesi che si pretendono nostri alleati, nostri amici… [...]
Quello che vorrei anche dire, se mi permettete di chiarire. Questo è quello che siamo, siamo una democrazia, cerchiamo di assimilare in qualche modo, con i vecchi processi francesi, nuove popolazioni musulmane e che in genere non pongono problemi… E siamo nella confluenza di due strategie principali. C’è la strategia americana per la demolizione di tutti i regimi arabi laici. Ciò è stato fatto in modo sistematico. Ne vediamo i risultati meravigliosi! Con, vorrei dire e lo dirò in ogni caso, il problema dei cristiani d’Oriente di cui nessuno parla… scomparsi… che stanno scomparendo dall’Iraq … che scompariranno dalla Siria! E mi dispiace, non vedo perché non prestarvi attenzione! Penso che ci sia un problema troppo grave… [...]


Quindi c’è questa strategia americana per demolire i regimi arabi laici, sospettati di aver avuto rapporti più o meno amichevoli con l’Unione Sovietica. Sono ancora gli americani che hanno creato al-Qaida… Mi dispiace, questo è un fatto che non è contestato da nessuno! Seconda cosa: è la strategia dei paesi del Golfo che accresce il salafismo, lo diffonde… Penso che siamo d’accordo. Ho detto per inciso, inoltre, che il termine antisemita non mi va bene per nulla, perché gli arabi sono semiti e si sa che i due terzi degli ebrei non sono semiti… ma alla fine, andiamo! Poi parlare di giudeo-fobia… ma no, parliamo francese! Entrambe le politiche sono confluite, perché questi due paesi del Golfo, in particolare il più potente è un fedele alleato degli Stati Uniti. E siamo presi in questo tipo di vortice in cui cerchiamo di preservare la nostra identità, la nostra democrazia, con non poche difficoltà. Ma non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Credo che siamo ancora in una società che è in fase di guarigione, in termini di vita tra le comunità…
[Trascrizione parziale, ma parola per parola.]

II. I punti chiave del discorso del Presidente Holland su France 24 [2]
[...] Il Qatar sostiene l’opposizione a Bashar al-Assad, dopo, ricordo recentemente… esserne stato uno dei sostenitori. E’ con l’opposizione. Vuole aiutare l’opposizione. Anche Noi! Anche la Francia! Quindi diciamo che si deve unire l’opposizione e deve essere preparata al dopo Bashar al-Assad! E questa transizione deve essere una transizione verso la democrazia… non al caos… alla democrazia… vale a dire che il progetto deve soddisfare tutte le forze interne ed esterne, che domani vorranno un libera e democratica Siria! Il Qatar ha il suo posto. Può aiutare. E’ in grado di supportarli e noi lo facciamo con buon accordo. Ma per noi, non si tratta di fornire armi, e l’abbiamo detto ai ribelli … di cui non sapremmo nulla delle loro intenzioni. Dei “territori che sono stati liberati”, ho chiesto da chi questi territori possono essere protetti. Poi ho detto il Qatar, ma non solo il Qatar, che conduce un “lavoro umanitario” in una serie di paesi, tra cui il Mali…!

Ho detto loro: “Fate attenzione, a volte pensate di essere nel campo umanitario, ma è possibile che siate responsabili senza saperlo, e che vi ritroviate a finanziare iniziative di cui possono beneficiare i terroristi“. Hanno detto che le autorità del Qatar… e così… l’Emiro e il suo primo ministro, sono estremamente vigili in relazione a ciò, e io gli credo! Quindi… io sono in una posizione in cui non lascio passare nulla! [...] prima parte Bashar, più la transizione sarà sicura in Siria… Più a lungo dura il conflitto, più i rischi sono grandi… allora prima c’è il rischio di una guerra civile, dopo il rischio del caos… o della “partizione”. Mi rifiuto!
Quindi… la Francia, è in prima linea. E’ stata molo “osservata” negli ultimi mesi … dalla mia elezione! Guardate quello che abbiamo fatto. Siamo noi che abbiamo chiesto che l’opposizione possa riunirsi, questo è già stato fatto, a luglio, qui a Parigi… e riunirsi in un “governo provvisorio”! Siamo stati i primi a dirlo, i primi a dire che bisognava anche “proteggere le zone liberate”, i primi ad assicurare che ci potesse essere un aiuto “umanitario”… è ciò che facciamo in Giordania [3]; i primi a dire anche che dovevamo coordinarci affinché gli “sfollati e i rifugiati”  possano essere ricevuti in buone condizioni, in particolare per il prossimo inverno, i primi a dire che dobbiamo fare di tutto affinché Bashar al-Assad se ne vada e a trovare una soluzione, anche vicino a lui… ho sentito la proposta della Turchia dal suo vice presidente. [4]


Ci sono delle “personalità” in Siria che possono essere una soluzione per la transizione, ma non nessun compromesso con Bashar al-Assad! [...] La Turchia si è “trattenuta in modo particolare” e voglio elogiare l’atteggiamento dei suoi leader, perché sono stati assalti, ci sono state delle provocazioni [5]!


Quindi… La Turchia sta facendo di tutto per impedire il conflitto… che sarebbe anche nell’interesse della Siria: “la creazione di un conflitto internazionale potrebbe unire la Siria contro un aggressore che dovrebbe provenire dall’esterno!” Quindi… dobbiamo fare di tutto affinché il conflitto siriano, più esattamente, “la rivoluzione siriana” non trabocchi in Turchia, Libano, Giordania. Allora… la mia responsabilità è grande, perché la Francia vuole che il Libano mantenga la sua integrità! La mia responsabilità è grande perché condivido ciò che accade in Giordania [6]… di nuovo, un processo democratico… e i rifugiati che sono ancora molto numerosi!
[Trascrizione parziale, ma parola per parola.]

III. La mappa della “zona cuscinetto” di Erdogan che tarda a realizzarsi [7]
Il progetto di una “zona cuscinetto” in territorio siriano, che il governo turco vorrebbe stabilire con il sangue e il fuoco, ammassando e sostenendo “bande armate” che provengono da tutto il mondo e attraversano i confini nord e nord-ovest della Siria, su una regione che dovrebbe estendersi dal punto di confine siriano di al-Salama alle coste settentrionali, attraversando la regione di Idlib [8]; gli obiettivi essenziali della sua realizzazione sono i seguenti:
1. A’zaz e le piccole città a nord di Aleppo, tra cui Maaret al-Nouman, Khan Shaykhun e Jisr al-Shughour, che si trovano intorno alla città di Idlib, che l’opposizione armata vorrebbe destinare a sua capitale tramite il sostegno del vicino turco! Questa zona rappresenta il 5% della superficie della Siria, è densamente popolata [17% della popolazione] è ricco di petrolio e di zone agricole [40% dei terreni arabili]. Aprirebbe la strada verso le coste del Mediterraneo, attraversando la bellissima zona conosciuta come al-Kassatel, quindi al-Kassab e al-Hafa, e i villaggi turcomanni e curdi nella campagna circostante Latakia, senza dimenticare l’incrocio con l’atteso “Sangiaccato di Alessandretta”, usurpato con il Trattato di Losanna nel 1923. Infatti, è importante notare che questi luoghi quasi confinanti con la Turchia, sono caratterizzati da una popolazione mista araba e turcomanna, ancora influenzata da tradizioni, cultura e usanze della Turchia. Da qui l’operazione del governo turco che, prima dell’avvio delle sue ‘bande armate’, era volto a carpire la fiducia dei siriani di questa zona, facilitando il loro passaggio del confine e, strada facendo, il lucroso contrabbando di armi, poi spedite in tutto il paese come preludio per la creazione della necessaria zona cuscinetto, una volta che le operazioni armate avessero raggiunto il punto culminante ad Aleppo, nelle zone di accesso a Idlib e intorno alla città di Latakia. Così il governo Erdogan ha previsto l’isolamento di questo territorio, ricco e strategico, nel nord-ovest della Siria, prima di annetterlo alla provincia di Hatay, all’incirca corrispondente al vicino sangiaccato di Alessandretta, precedentemente già annesso. Infine, ciò avrebbe realizzato il piano del mandato francese del secolo scorso, per la partizione della Siria in tre piccoli Stati, come dimostrano le “tre stelle” della bandiera brandita dai cosiddetti valorosi rivoluzionari della libertà!
2. Jabal al-Zawiya, il cui territorio accidentato ha notevolmente aiutato le bande armate a diffondersi, cercando di controllare la regione fin dall’inizio della cosiddetta “crisi siriana”, e in cui si sono rifuggiati sottraendosi all’esercito regolare siriano quando è arrivato a Idlib.
3. Maaret al-Nouman è diventato il rifugio, l’arsenale e la base principale per la riassegnazione di queste bande, ora che Jabal al-Zawiya ha mantenuto la sua promessa. 4. la provincia di Idlib, particolarmente strategica, perché si trova alla confluenza di tre grandi città: Aleppo, Hama, Homs e financo Latakia. Questo è il piano assegnato al governo turco, che è intenzionato a creare la sua famosa zona cuscinetto sotto la copertura di un aiuto presumibilmente umanitario, per la protezione dei “profughi e dei rifugiati sul proprio territorio.” Dietro l’impegno di Ankara ad accogliere e sostenere i terroristi jihadisti, destinati alla Siria, si profila il sogno neo-ottomano di ripristinare l’egemonia sulla regione dell’impero ottomano decaduto, partendo dalla Siria!
[Traduzione completa dell'articolo originale di Salloum Abdullah per TopNews di Nasser Kandil].

IV. Mappa, tra le altre, del “Medio Oriente ridisegnato” a vantaggio dell’occidente [9]
Quanto sarebbe migliore il Medio Oriente!“, aveva detto il colonnello Ralph Peters sull’Armed Forces Journal degli Stati Uniti [10], presentando il ridisegno del Medio Oriente come un accordo “umanitario” e “giusto”. Aveva detto: “i confini internazionali non sono mai completamente giusti. Ma il grado di ingiustizia che pesa sulle spalle di quanti sono costretti a riunirsi o separarsi, fa un enorme differenza… spesso la differenza tra la libertà e l’oppressione, la tolleranza e la barbarie, l’autorità della legge e il terrorismo, o anche la pace e la guerra.” Capisca chi vuole!


Per non parlare delle tragedie palestinese, irachena, libica… a Voi giudicare le conseguenze di tale cinismo, a quanto pare condiviso da molti leader occidentali, sui cittadini siriani consegnati e martirizzati dall’”orda terrorista” sostenuta dalle potenze civili e democratiche con il pretesto della responsabilità… di proteggere!

Mouna Alno-Nakhal 16/10/2012

Riferimenti:
[1] i punti chiave dell’intervento dell’ex prefetto ed ex direttore della DST, Yves Bonnet su France 5
[2] Altri punti chiave dell’intervento di Francois Hollande
[3] Siria: manovre militari in Giordania… semplice messaggio o segni premonitori di una operazione militare congiunta di 19 paesi [Dr. Amin Hoteit]
[4] Siria: non avete trovato nulla di meglio di Faruk al-Shara? [Al-Hayat quotidiano siriano filo-opposizione!]
[5] Nessuna guerra, niente lacrime! (rriyet) [Nuray da Mert]
[6] Preparazione di una escalation della guerra in Siria, il Pentagono sta dispiegando forze speciali in Giordania [Bill VanAuken]
[7] Articolo originale del 14/10/2012, di Salloum Abdullah per TopNews di Nasser Kandil [Libano]
[8] NB: Mappa completata da quella indicata nella’rticolo originale [7] per individuare i punti chiave, in mancanza di meglio.
[9] Il progetto per un ‘Nuovo Medio Oriente’ [Mahdi Darius Nazemroava]
[10] ‘Come sarebbe migliore il Medio Oriente’ [Ralph Peters]

 Mondialisation, 16 ottobre 2012
Copyright © 2012 Global Research

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora

mardi, 16 octobre 2012

La Turquie à la croisée des chemins

La Turquie à la croisée des chemins : du « zéro-problème » au maximum d’ennuis

par Ramzy Baroud 

 
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Le consensus dans la presse a été général, ou du moins est-ce ce qui parait : la Turquie est imbriquée dans un désordre au Moyen-Orient qui n’est pas de son fait, alors que son « Zéro problème avec les voisins » – un moment la pièce maîtresse de la politique étrangère du Parti de la Justice et du Développement (AKP) – s’est avérée être une notion romantique de peu d’utilité en realpolitik.

Le but de la politique étrangère de la Turquie, « construire les liens forts économiques, politiques, et sociaux avec les voisins immédiats du pays tout en diminuant sa dépendance envers les États-Unis semblait être en vue, » écrivait Sinan Ulgen presque il y a presque un an. « Mais le Printemps arabe a exposé les vulnérabilités de la politique, et la Turquie doit maintenant chercher un nouveau principe directeur pour son engagement régional. »

Cette analyse n’était pas isolée et elle a été reprise de nombreuses fois. Elle suggère une certaine naïveté dans la politique étrangère turque et fait apparaître ses ambitions régionales comme désintéressées. Elle imagine également que la Turquie a été rattrapée par une série d’événements fâcheux, lui forçant la main pour agir de manière contradictoire avec ce qui devrait être sa véritable politique. Cette vision des choses n’est pas tout à fait exacte.

Les escarmouches récentes entre la Syrie et la Turquie qui ont commencé le 4 octobre, par des tirs d’obus de mortier depuis le côté syrien et qui ont coûté la vie à 5 personnes, dont 3 enfants, ont été « le dernier sang versé par la Turquie ». L’agence de presse turque Anadolu a rapporté les excuses syriennes officielles par le canal des Nations Unies peu après le bombardement, et le gouvernement syrien a promis une enquête, dont le sérieux demeure douteux. Mais les militaires turcs ont rapidement exercé des représailles, alors que le parlement venait de voter la prolongation d’une année le mandat qui leur permet d’exécuter des opérations trans-frontalières. Indépendamment de la violence à la frontière de la Syrie, ce mandat visait à l’origine les combattants kurdes du nord de l’Irak et il avait été déjà inscrit pour un vote mi-octobre.

L’évolution de la situation semble singulièrement irréelle. Il y a peu de temps encore, le Premier Ministre Turc Recep Tayyip Erdogan avait pris l’initiative d’un rapprochement avec la Syrie et l’Iran, au mécontentement d’Israël et des États-Unis. Il s’était référé au Président Syrien Bashar Al-Assad comme à « un frère », sachant bien toutes les implications politiques du terme employé. Quand la Turquie a voté contre des sanctions à l’égard de l’Iran aux Nations Unies en juin 2010, « elle a provoqué une crise, » selon un article du Wall Street Journal. Plus tard, la Turquie s’était disputée avec l’OTAN au sujet de l’initiative d’un nouveau système de missiles qui vise clairement l’Iran et la Syrie. « La Turquie est le opt-out [le participant qui se désengage - N.dT] de l’Alliance dans les pays Musulmans, » disait le même journal. Ces développements se produisaient dans la foulée de l’incursion militaire israélienne meurtrière contre le bateau turc Mavi Marmara, qui transportait de nombreux militants pacifistes turcs dans le cadre d’une initiative plus large – La Flotille de la Liberté de Gaza – destinée à briser le siège sur Gaza. Israël a assassiné 9 civils turcs et en a blessé beaucoup d’autres.

Erdogan comme d’autres officiels turcs, s’était élevé au rang de superstar parmi les peuples arabes, au moment ou justement l’un d’eux évinçait le Président égyptien Hosni Mubarak, lui-même complice dans le siège de Gaza. Tout naturellement, l’AKP devint un modèle politique, le sujet de débats universitaires sans fin ou à la télévision. Même culturellement et économiquement, la Turquie représentait alors une particularité dont il fallait débattre.

À l’intérieur, Erdogan et son parti étaient crédités d’une croissance économique massive et d’avoir su la gérer, et d’avoir pu – dans le cadre d’un système démocratique à présent contrôlé par des civils élus – mettre au pas un état-major militaire qui avait toujours été enclin aux coups d’État. À l’extérieur, Erdogan et son Ministre des Affaires Étrangères Ahmet Davutoglu, avaient réussi à partiellement briser l’isolement de la Turquie vis-à-vis de plusieurs dirigeants arabes, dont le libyen Mouammar Kaddafi. (Les dirigeants turcs s’étaient tout à fait rendus compte des récriminations des peuples arabes tandis qu’ils concluaient des contrats valant des milliards de dollars avec les dictateurs mêmes qu’ils ont aidé à évincer, ou encouragé à ce qu’ils soient renversés.) Bien que la sérieuse dispute d’Ankara avec Tel Aviv n’ait pas entraîné de changement côté israélien ou américain envers les Palestiniens, il y eut un sentiment de réelle satisfaction que, enfin, un pays assez fort comme la Turquie ait eu le courage de s’opposer à l’intransigeance et aux insultes israéliennes.

Puis la Tunisie renversa son président, et les cartes de la politique étrangère de la Turquie ont été mélangées comme jamais auparavant. Si les États-Unis, la France et d’autres pouvoirs occidentaux étaient en pleine contradiction dans leurs positions concernant les soulèvements, les révolutions et les guerres civiles qui ont traversé le Moyen-Orient et l’Afrique Du Nord ces 18 derniers mois, la politique étrangère de la Turquie fut particulièrement embrouillée.

Tout d’abord, la Turquie répondit d’une façon qui paru distante avec de brefs discours au sujet des droits, de la justice et de la démocratie des peuples. En Libye, les enjeux étaient plus élevés car l’OTAN était acharnée à contrôler les implications des révoltes arabes toutes les fois que cela lui était possible. La Turquie fut le dernier membre de l’OTAN à se joindre la guerre contre la Libye. Le délai s’est avéré coûteux car les médias arabes qui poussaient à la guerre s’en sont pris à la réputation et à la crédibilité de la Turquie.

Quand les Syriens se sont rebellés, la Turquie était cette fois prête. Elle s’appliqua à prendre très tôt l’initiative d’appliquer ses propres sanctions à Damas. Puis elle alla encore plus loin en refusant de voir que sa zone frontalière autrefois si bien gardée, se retrouvait inondée par la contrebande, le transport d’armes et les combattants étrangers. En plus d’accueillir le Conseil National de la Syrie, elle a également fourni un asile sûr à l’Armée Libre de la Syrie, qui a lancé sans aucun frein ses attaques depuis la frontières turque. Tandis que tout cela était justifiée au nom de la lutte contre l’injustice, c’était en fait une des principales raisons qui ont mis une solution politique hors de portée. La Turquie a transformé un conflit ensanglanté et brutal en une véritable lutte régionale. Le territoire syrien s’est retrouvé exploité pour un conflit indirect impliquant divers pays, camps politiques et idéologies. Et comme la Turquie est un membre de l’OTAN, cela signifiait que l’OTAN était aussi impliquée dans le conflit avec la Syrie, même si c’est d’une manière moindre que lors de sa guerre contre la Libye.

Naturellement, la dimension kurde dans le rôle de la Turquie en Syrie est énorme. Il est plus rarement mentionné dque la Turquie s’active en permanence à contrecarrer n’importe quel contrecoup venant des Kurdes dans la région du nord-est de la Syrie, qui risquent d’ouvrir un nouveau front, le premier étant grande partie confiné au nord de l’Irak. Écrivant dans le quotidien turc Zaman, Abdullah Bozkurt a parlé « d’une stratégie hautement risquée pour la Turquie, qui veut contrôler les rapides développements en Syrie du nord grâce aux services du Gouvernement Régional du Kurdistan dans l’Irak voisin, afin d’éviter d’être directement impliquée en Syrie. » De plus, Ankara a discrètement fait pression sur le SNC pour que celui-ci adopte une posture plus favorable vis-à-vis de la question kurde. Bozkurt a aussi rapporté que « Ankara a en toute discrétion poussé le SNC à élire en juin un indépendant kurde, Abdulbaset Sieda, en tant que dirigeant de compromis… afin que la Turquie puisse exercer son influence sur les environ 1,5 millions de Kurdes en Syrie. »

En effet, le ainsi-nommé Printemps arabe a rendu confuse la politique étrangère turque à l’égard des pays arabes, et même vis-à-vis de l’Iran, bien qu’il ait ensuite entraîné sa redéfinition. La Turquie était plutôt passive avant ou après les bouleversements. L’impression que la Turquie était restée en retrait et que les affrontements à sa frontière sud ont finalement poussé Ankara à s’impliquer, est cependant incorrecte et trompeuse. Indépendamment de la façon dont les politiciens turcs souhaitent justifier leur participation aux conflits, il n’y a aucune échappatoire possible au fait qu’ils ont participé à la guerre contre la Libye et qu’ils sont maintenant empêtrés, dans une certaine mesure volontairement, dans le brutal désordre qui règne en Syrie.

La triste ironie est que quelques heures après que la Turquie ait exercée des représailles aux tirs d’obus par la Syrie, le ministre israélien Dan Meridor se soit autorisé à déclarer aux journalistes à Paris qu’une attaque contre la Turquie était une attaque contre l’OTAN – manifestation sournoise d’une solidarité calculée. Il a ajouté que « si le régime d’Assad devait tomber, ce serait un coup déterminant contre l’Iran. » Avigdor Lieberman, le ministre israélien des Affaires Étrangères avait du mal à cacher son excitation, car ce que les néoconservateurs américains ont du mal à accomplir est maintenant mis en œuvre par procuration. Lieberman – pas vraiment ce que l’on peut appeler un visionnaire – a prédit l’irruption « d’un Printemps persan » qui selon lui, doit être soutenu. Pour Israël et les États-Unis, maintenant que la Turquie est embarquée pour de bon, les possibilités sont sans fin.

Ankara doit reconsidérer son rôle dans cette calamité qui ne cesse de s’aggraver et adopter une politique plus raisonnable. La guerre ne devrait pas être à l’ordre du jour. Trop de gens ont déjà été tués.

Ramzy Baroud (http://www.ramzybaroud.net), un journaliste international et directeur du site PalestineChronicle.com. Son dernier livre, Mon père était un combattant de la liberté : L’histoire vraie de Gaza (Pluto Press, London), peut être acheté sur Amazon.com. Son livre, La deuxième Intifada (version française) est disponible sur Fnac.com

lundi, 15 octobre 2012

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Mikhail Fomitchew

 
otan-turquie-copie-1.jpgLaut dem Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen ist die Nordatlantikallianz bereit, die Türkei zu schützen, falls dies notwendig sein sollte, und hat eine solche Maßnahme bereits geplant.

„Wir haben die notwendigen Pläne, um die Türkei nötigenfalls zu schützen“, so Rasmussen zu Journalisten vor der Eröffnung eines zweitägigen Treffens der Verteidigungsminister der 28 Nato-Mitgliedsländer.

Der Nato-Rat erörterte bei einem Treffen auf Botschafterebene am 4. Oktober den Beschuss eines Grenzterritoriums der Türkei durch die syrische Armee und verurteilte diesen Zwischenfall entschieden.

Gemäß dem Artikel 4 des Washingtoner Vertrages kann jedes Mitglied der Allianz um Konsultationen bitten, wenn seine territoriale Integrität, politische Unabhängigkeit oder Sicherheit gefährdet werden.

Zuvor hatte ein Gesprächspartner von RIA Novosti im Nato-Hauptquartier versichert, dass die Anwendung des Artikels 5 des Washingtoner Vertrages, der eine Antwort der Nato im Falle einer Aggression gegen eines der Mitgliedsländer dieses militärpolitischen Blocks vorsieht, bei dem Treffen nicht erwähnt worden sei. Der Artikel 5 wurde lediglich einmal - nach den Terroranschlägen auf die USA  am 11. September 2001 - angewendet.

Die Nato und die Uno forderten bei diesem Treffen von Syrien, jegliche Aggressionsakte gegen die Türkei  unverzüglich einzustellen. Die syrischen Behörden drückten ihrerseits den hinterbliebenen Familien der Toten ihr Beileid aus und erklärten, dass sie zu diesem Zwischenfall ermitteln.

Der Konflikt zwischen Syrien und der Türkei spitzte sich zu, nachdem vom syrischen Territorium abgefeuerte Artilleriegeschosse im Distrikt Aksakal im Südosten der Türkei explodiert waren. Im Ergebnis kamen fünf Menschen ums Leben und elf weitere wurden verletzt. Als Antwort auf den Beschuss führte die Türkei Schläge gegen das syrische Gebiet, von wo aus das Feuer geführt wurde.

Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen hatte zuvor mehr als einmal betont, die Allianz habe nicht die Absicht, sich in den syrischen Konflikt einzumischen.
 
 
 
 

dimanche, 14 octobre 2012

Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.

  
 

Enrique Ravello:
Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.
Chipre debe su nombre a la palabra latina aes Cyprium (metal de Chipre) en referencia al cobre, metal de gran importancia en la Antigüedad y del que la isla contaba con numerosos yacimientos. Esto, unido a su posición estratégica entre Europa Asia y África, ha hecho que desde los primeros tiempos de la Historia, Chipre haya sido un lugar de conflicto y conquistas entre las potencias de la zona. Siendo ocupada sucesivamente por civilizaciones africanas (egipcios) asiáticas (asirios) y europeas (minoico-micénicos y helenos) hasta pasar a formar parte del Imperio romano en el año 57 a. C. Allí predicaron San Pablo y San Barnabé y Chipre fue el primer lugar del mundo gobernado por un cristiano, aún formando parte del Imperio romano. La romanización de Chipre, supuso le llegada de administradores romanos, pero la mayoría de población siguió siendo de origen helénico establecida allí desde tiempos de Micenas y reforzada tras la invasión de la isla por Alejandro Magno en 331 a. C.
Tras la caída de Roma, la isla fue motivo de constantes disputas entre Bizancio (Imperio romano de Oriente) y los árabes. Siendo conquistada por los cruzados al mando de Ricardo Corazón de León en 1192, quien se llegó a coronar como Rey de Chipre. En las disputas mediterráneas, pasó a formar parte de la Serenísima República de Venecia en 1489 hasta que cayó definitivamente en manos tucas en 1570. Señalar que durante todos estos siglos la composición étnica de la isla se mantuvo estable, hablándose el griego en la totalidad del territorio. La llegada de los otomanos impuso una administración turca, grupos de greco-chipriotas empezaron a formar parte de la misma, varios de ellos se convirtieron al islam para no pagar los impuestos que se encargaban de recaudar al resto de la población, y se familiarizaron con el uso de la lengua turca: éste es el origen de los primeros turco-chipriotas, es decir helenos convertidos al islam, formando parte de la administración otomano y usando el turco también como lengua familiar.
La ocupación otomana terminó en 1878 cuando tras el Congreso de Viena, Chipre pasó a ser un dominio británico, con la categoría de colonia desde 1914. La población chipriota, anhelaba no la independencia de la isla sino la llamada enosis (unión a Grecia), aspiración mayoritaria aún hoy entre la mayoría greco-chipriota En Chipre es imposible ver la bandera de la isla si no es acompaña de la griega –incluso en edificios oficiales- y muy frecuentemente de una amarilla con águila negra, que es la del antiguo Imperio bizantino.  En los años posteriores de la Segunda Guerra Mundial, la enosis es liderada por el famoso arzobispo Makarios, que sería deportado a  las islas Seychelles por los británicos.
Es en 1960 cuando Reino Unido, Grecia y Turquía llegan a un acuerdo que declara independiente la isla, pero mantiene la posesión británica de varias bases militares. Una de las condiciones que puso Londres para esta independencia fue prohibir constitucionalmente la unión de Chipre con Grecia. La constante británica de evitar la creación e grandes Estados en Europa que puedan convertirse en potencias locales. De haberse unido Chipre y Grecia en ese momento, seguramente se hubiera evitado la posterior invasión turca del norte de la isla.
 
Turquía ocupa el norte de Chipre. Limpieza étnica y expolio del patrimonio greco-chipriota
En 1974 hay un golpe pro-griego en Chipre apoyado por la “Dictadura de los coroneles” desde Grecia cuya finalidad era incorporar Chipre al Estado heleno. Este hecho provocó la reacción turca, que invadió militar m ente el norte de la isla, proclamando unilateralmente la República Turca del Norte de Chipre (RTNC), estado no reconocido por ningún otro país, excepto la propia Turquía y la Conferencia Islámica. Casi 40 años después, del aquel golpe y de la dictadura de los coroneles sólo queda el recuerdo, sin embargo el norte de Chipre sigue ocupado militarmente por Ankara y esa autoproclamada RTNC se mantiene detrás de una frontera militar que el ejército turco ha trazado para defenderla.
 
El pasado 29 de septiembre tuve la oportunidad de visitar la zona junto a una delegación del Parlamento europeo compuesta por miembros del FPÖ, el VB y el Front National. Visita que sirvió para comprobar in situ la realidad de la isla, y de la limpieza étnica y expolio del patrimonio que se lleva desde la zona turca. La vista empezó en la Fundación Makarios III –el nombre del arzobispo al que hemos hecho referencia anteriormente- allí se exhibe una magnífica colección de iconos que se han logrado recuperar recientemente. Todos ellos provienen de iglesias greco-ortodoxas que en 1974 quedaron en zona turca, las iglesias fueron abandonas y sus murales e iconos bizantinos despedazados por los turcos para ser vendidos por mercaderes de arte en circuitos ilegales; el gobierno greco-chipriota pudo descubrir este expolio y recuperar gran parte de estos tesoros iconográfico que ahora son exhibidos en un museo a cargo de la mencionada fundación. La vista continúo con la recepción oficial por parte del obispo de Kernia (Karinia), cuya diócesis esta de pleno en zona turca donde tiene prohibida la entrada; él –como la mayoría de fieles de su diócesis- vive en la zona griega tras haber sido expulsados por los turcos de sus hogares y de sus iglesias, ejemplo de fe y voluntad, no dan por perdida su tierra y sueñan con volver allí cuando Chipre esté reunificado y pacificado.

Fresco bizantino roto por los turcos
Finalmente en varios coches particulares atravesamos la frontera militar que separa la zona de ocupación turca del resto de la isla. Allí pudimos comprobar cómo las iglesias y cementerios ortodoxos habían sido abandonados y profanados por los turcos. Vimos también como entre la población local los antiguos turco-chipriotas son una minoría, el grueso de la misma la constituyen turcos venidos del interior de Anatolia. Históricamente los turcófonos eran poco más del 10% de la población distribuida por toda la isla, hoy son el 18% todos concentrados en el norte, mientras que los griegos que históricamente también poblaban esa parte norte fueron expulsados en 1974.  Hoy la zona turca vive exclusivamente de las subvenciones mensuales que reciben todos sus habitantes directamente del gobierno turco, sin que tengan la más mínima producción ni actividad económica. El Gobierno de Ankara ha decidido colonizar la zona con la gente más pobre y atrasada de su país y para ello necesita subvencionarlos constantemente; ni que decir tiene que una de las primeras víctimas de este proceso de limpieza étnica y colonización han sido los propios turco-chipriotas anteriores a 1974 hoy concentrados en el norte y convertidos en una minoría respecto a los turco-anatolios con un nivel cultural y económico tremendamente más bajo que el suyo.

Icono ortodoxo recuperado por las autoridades chipriotas del expolio turco
Es necesario recordar que Chipre entró en la Unión Europea en 2004. Ese mismo año se produjo un referéndum para la posible reunificación de la isla en las condiciones actuales por parte de la ONU, la respuesta greco-chipriota fue clara el 76% votó en contra al considerar que el plan de la ONU perpetuaba el status quo de la ocupación turca y deba ventajas increíbles a esa minoría en el futuro y supuesto gobierno “unificado” de la isla. Durante el referéndum y posteriormente, los greco-chipriotas han insistido en que la opción que ellos siguen apoyando es la enosis (unión con Grecia). Por este motivo la parte de Chipre que está integrada en la UE es la greco-chipriota, aunque como oficialmente la UE no reconoce la RTNC, la parta norte es territorio comunitario que no está bajo jurisdicción europea al permanecer ocupado militarmente por Turquía. Es decir que una la UE tiene parte de su territorio bajo ocupación militar turca, lo que debería ser condición suficiente para detener cualquier diálogo mutuo hasta que dicha ocupación finalice. Esto suponiendo que la UE tenga la voluntad política y diplomática real de defender a los pueblos europeos, algo que los hechos nos demuestran permanentemente que no es así.

Pope de Karinia en el exilio
Chipre y Grecia han sido desde siempre la vanguardia de la civilización europea ante el avance oriental y musulmán. Hoy lo siguen siendo, vimos con la valentía y la determinación que los greco-chipriotas luchan día a día por recuperar un patrimonio y un territorio que es suyo. Dedicamos este artículo a todos ellos y en espacial a las autoridades civiles y religiosas que tan amablemente nos acompañaron durante nuestra visita. Ellos nos pidieron que diéramos a conocer la situación, este artículo es parte de la promesa que les hicimos.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya


vendredi, 12 octobre 2012

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen und wurde laut Zeitungsbericht von der Türkei an die Rebellen geliefert

 

Redaktion

Bei der Granate, die beim Angriff auf die türkische Stadt Akçakale abgefeuert wurde, handelt es sich um ein Modell, das nur bei der NATO verwendet wird und das über die Türkei in die Hände der syrischen Rebellen gelangte, berichtet die türkische Zeitung Yurt. Die Granate tötete am vergangenen Mittwoch eine erwachsene Frau und vier Kinder der gleichen Familie.

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mercredi, 10 octobre 2012

Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat

Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat

Paul Vanden Bavière

Ex: http://www.uitpers.be/

 
Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat
 

Peter Edel, De diepte van de Bosporus. Een biografie van Turkije, uitg. EPO, Berchem, 2012. 344 blz., met kleurenfoto’s. € 24

Sedert 2006, toen hij in Istanbul  in het huwelijk trad met een Turkse, woont Peter Edel in de voormalige Ottomaanse hoofdstad. En maakt hij daar geschiedenis mee, waarover hij in De diepte van de Bosporus, op een boeiende en vlot lezende manier verslag uitbrengt. Tien jaar nadat de islami(s)tische Partij voor Gerechtigheid en Ontwikkeling (AKP) van premier Recep Tayyip Erdogan aan de macht kwam, is ze er nu immers in geslaagd de macht van het kemalistische establishment te breken.

Het had anders gekund voor Peter Edel. Hij studeerde immers fotografie en design in Amsterdam – met succes zoals we merken aan de prachtige kleurenfoto’s in zijn boek – en was dus niet voorbestemd om een specialist in Turkse hedendaagse geschiedenis te worden. Het toeval hielp hier een handje mee. Peter Edel hield het niet bij de kunst, maar publiceerde in 2002, ook bij de uitgeverij EPO, De schaduw van de ster: Zionisme en antizionisme, een boek over Israël dat in Nederland ophef maakte. Van een Turkse vriendin in Amsterdam vernam hij dat een uitgever in Istanbul het boek in Turkse vertaling wou uitgeven. Diezelfde vriendin stelde hem voor aan een vriendin van haar uit Istanbul die op bezoek was. Toen Edel enkele maanden later zijn Turkse uitgever in Istanbul opzocht, ontmoette hij die vriendin-van-een-vriendin opnieuw. En van het een kwam het ander. Zo werd Peter Edel freelance journalist en fotograaf in Turkije.

De politieke veranderingen waren toen al aan de gang, maar ze hadden evengoed  kunnen doodbloeden, want een procureur probeerde in 2008 de AKP te doen verbieden op grond van antiseculiere activiteiten, wat net niet lukte. Stof om over te schrijven was er ook met de nu bijna muurvast zittende onderhandelingen over de toetreding van Turkije tot de Europese Unie en ook over de Koerdische kwestie, die sedert het mislukken van geheime besprekingen tussen de regering en de Koerdische Arbeiderspartij (PKK) vorig jaar opnieuw in een gewelddadige fase is beland.

Staatsideologie

De Turkse republiek werd na de ondergang van het Ottomaanse rijk ten gevolge van de eerste wereldoorlog in 1923 opgericht door Mustafa Kemal, een militair, die daarvoor beloond werd met de titel Atatürk, de vader der Turken. Het werk van de man is indrukwekkend te noemen. Hij schoeide het land op westerse leest en legde voor jaren de officiële staatsideologie vast: Turkije werd een seculiere islamitische eenheidstaat, met één volk en één taal, een populistische staat, met een door de staat geleide economie. Na de dood van Atatürk riep het leger zich uit tot de behoeder van de erfenis van de autoritaire leider, hierbij gesteund door een elite van politici, politiemannen, professoren en andere intellectuelen, journalisten, rechters enz. Samen vormden die de zgn. “diepe staat”, die ondanks de democratisering sedert de jaren 1950 alles onder controle hield en de partijen  binnen de door haar uitgezette lijnen hield. Als politici die lijnen overschreden pleegde het leger staatsgrepen, echte in 1960, 1971 en 1980 en een verkapte in 1997, waarbij de islamistische premier Necmettin Erbakan tot aftreden werd gedwongen. Turkije bleef, ondanks vrije verkiezingen, een autoritaire staat, met beperkingen op de vrijheid van mening en op de vrijheid in het algemeen.

Nochtans kwamen er al vlug afwijkingen van de leer. Vanaf de jaren 1950 maakte de islam geleidelijk aan een terugkeer. In 1980 gingen de militairen zelfs zover de islam openlijk te gaan steunen om het communisme te bestrijden. Maar eigenlijk is Turkije geen echte seculiere staat. Atatürk heeft wel de grote verdienste dat hij de Turken de kans gaf ongelovig of op zijn minst seculier te leven. Turkije was wél een islamitische staat, waarbij de staat de islam controleerde. Naast één taal en één volk moest Turkije ook één godsdienst hebben, en aanvankelijk ook één leider, Atatürk. Als islamitische staat was er nooit een gelijke status voor christenen, alevieten en andere religieuze minderheden. De christenen werden op grote schaal verdreven en weggepest. Ook nu nog worden de weinige resterenden gediscrimineerd. Als islamitische staat ligt de “Armeense kwestie”, dan ook gevoelig. Alhoewel de genocide van 1915 werd uitgevoerd door de leiders van de Ottomaanse staat, en de republiek er niets mee te maken had.

De door de staat geleide economie begon ook al in de jaren 1950 geleidelijk te wijken en is, merkwaardig genoeg, zonder veel verzet van het leger en de kemalisten vrijwel geheel verdwenen om plaats te maken voor een neoliberale economie, waarin ook geen plaats meer is voor gelijkheid.

Één volk, één taal

Het principe van één staat, één volk, één taal is de oorzaak, al van kort na de uitroeping van de republiek, geweest van talrijke opstanden van de Koerden. Dat principe is immers negationistisch: het negeert het bestaan van minderheden, die maar Turks moeten leren, hun identiteit vergeten, en zich integreren in de Turkse maatschappij. De laatste opstand, die nog altijd voortduurt, begon in 1984 toen de Koerdische Arbeiderspartij van Abdullah Öcalan een gewapende opstand begon.

In het kader van de strijd tegen de Koerden organiseerde de “diepe staat” doodseskaders en maakte die staat zich schuldig aan moord en foltering op grote schaal. Iedereen wist dat, maar dat kwam met volle geweld in het openbaar door het Susurluk-incident, ten gevolge van een auto-ongeval in 1996 in het plaatsje Susurluk. Daar botsten een dure Mercedes 600 SEL en een vrachtwagen. In de Mercedes vielen drie doden: een politieofficier en directeur van de politieacademie in Istanbul, Hüseyin Kocodag, een gezochte extreem-rechtse Grijze Wolf en gezochte gangster, Abdullah Catli, die o.a. verantwoordelijk was voor de moord op meer dan 100 Koerdische zakenmannen, die de PKK zouden hebben gefinancierd, en diens vriendin en gewezen schoonheidskoningin Gonca Us. De enige overlevende was Sedat Bucak, een Koerdische clanleider die met duizenden Koerdische dorpswachters de PKK bestreed.
Het gaf geen mooi beeld bij de publieke opinie toen bleek dat de Turkse leiders zich volop in de illegaliteit stortten en samenwerkten met maffiabazen en drugssmokkelaars. Wel toonde het aan hoever de staat wou gaan in het bestrijden van een op zich zeker gerechtvaardigd streven van een volk voor op zijn minst culturele autonomie. Was het niet Erdogan zelf die in 2008 tijdens een bezoek aan Duitsland tegen de Turken daar zei dat “assimilatie een misdaad tegen de menselijkheid” was?

Het Susurluk-incident droeg bij tot de deligitimering van de politieke klasse, die al in diskrediet was geraakt door een catastrofale economische politiek, die tot torenhoge inflatie en achtereenvolgende devaluaties van Turkse lira leidde. Zo werd de weg geopend naar de heerschappij van de AKP.
Die zorgde aanvankelijk voor enkele doorbraken in de onderhandelingen met de EU over toetreding, maar sedert 2005 ligt het proces grotendeels plat. Nochtans heeft Erdogan veel te danken aan de EU, die opkomt voor godsdienstvrijheid. Van die Europese houding heeft Erdogan geprofiteerd om islamiserende maatregelen te nemen, zoals het toelaten van de hoofddoek in openbare gebouwen zoals universiteiten. Het heeft hem electoraal geen windeieren gelegd bij de grotendeels gelovige Turkse bevolking, vooral dan in Centraal-Anatolië, waar hij op de financiële steun kan rekenen van islamitische zakenmannen, die tot dan toe altijd in de schaduw hadden gestaan van hun grootstedelijke collega’s, die gemakkelijker op staatssteun en andere voordelen konden rekenen.

Ook pleitte de EU voor toezicht van de regering op het leger, wat de positie van de militairen  verzwakte. Geen wonder dat dit tot geruchten over het beramen van staatsgrepen door ontevreden officieren leidde. Dat leidde leidde tot de zgn. Ergenekon-affaire, in het kader waarvan vele officieren en andere leden van de “diepe staat” werden opgepakt en gevangen werden gezet in afwachting van een uitspraak in hun proces, die nog lang op zich kan laten wachten. Uiteindelijk wierp de Turkse militaire top vorig jaar uit protest de handdoek in de ring. Waarvan Erdogan gebruik maakte om ze te vervangen en zijn mannen op hun plaatsen te benoemen. Als men daarbij bedenkt dat Erdogan er via een referendum in slaagde greep te krijgen op het gerechtelijk apparaat, dan weet men dat hij momenteel de sterke man is.

Opent dat de weg naar een echt democratisch Turkije? Peter Edel heeft daar sterke twijfels over. “In haar beleid suggereert de AKP dat ze de Turken een autoritair regime wil opleggen”, schrijft hij (blz. 315). En er redenen genoeg om hem te geloven. Er is de islamisering van de republiek, de repressie van alle oppositie (Koerden, militairen…) wat in Turkije mogelijk is onder een wet die “schuld door associatie” bestraft. Nu al zitten ongeveer 8.000 Koerden gevangen omdat ze het eens zijn met bepaalde princiepen van de Koerdische PKK. Hetzelfde geldt voor journalisten, intellectuelen die relaties hadden met personen die in het kader van Ergenekon-onderzoek opgepakte werden. Ook de vrijheid van mening en meningsuiting worden strak aan banden gehouden: een honderdtal journalisten zit in Turkije in de cel, honderden websites zijn geblokkeerd door de regering, en ga zo maar door.

Het ziet er naar uit dat Erdogan elk verzet tegen zijn regering en politiek wil uitschakelen. Ook vroegere medestanders moeten het volgens Peter Edel momenteel ontgelden. Zo werkte Erdogan in zijn strijd tegen de kemalisten jaren lang samen met Fethüllah Gülen de leider van een oerconservatie, anticommunistische en sterk pro-Amerikaanse Turkse organisatie met goede relaties met de CIA. Fethüllah Gülen zelf week na de staatsgreep van 1980 uit naar de Verenigde Staten omdat hij vreesde dat de militairen hem zou aanpakken. Hij woont er nog steeds. In Turkije begonnen zijn aanhangers politie, justitie en onderwijs te infiltreren. Nu de kemalisten uitgeschakeld zijn, ziet het er naar uit dat Erdogan de Gülenbeweging aan het aanpakken is. Vanuit zijn omgeving is al gesuggereerd dat er geen parallelle organisatie kan worden getolereerd. Met andere woorden concurrentie is ongewenst. Het hoofdstuk over de Gülenbeweging in het boek is niet alleen boeiend, maar ook interessant. Ook voor Europa omdat Gülen ondanks zijn fundamentalisme zich niet zonder succes heeft weten op te werpen als een gematigde islam-stem en in dat kader zelfs Israël, waarmee Erdogan op ramkoers zit, ondanks zijn vroeger openlijk antisemitisme, is gaan cultiveren. Vele Amerikaanse en Europese intellectuelen zijn, zoals ook blijkt uit opiniestukken in kranten, gecharmeerd geraakt door hem.

De vraag is of Erdogan erin zal slagen zijn project door te zetten of bij de volgende algemene verkiezingen zal worden afgestraft. Hij heeft Turkije wel een economische boost gegeven, maar Peter Edel meent dat de economie kwetsbaar blijkt. Op andere vlakken heeft Erdogan ronduit tegenslagen gehad. Hij is er niet in geslaagd van zijn “Koerdische opening” iets te maken. Ook zijn project van “zero conflict” , of de zgn. neo-Ottomaande diplomatie van zijn minister van Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu, met zijn buren staat op de helling. Zowel met Grieken als Armenen geraken de problemen maar niet uit het slop. Vooral zijn bruuske wending in de goede relaties met Syrië, door de kant van de opstandelingen te kiezen, lijkt een ramp te worden: de relaties met Syrië, Irak en Iran, drie belangrijke handelspartners, zijn verzuurd met als gevolg dat ze de PKK steun zijn gaan geven. Met als gevolg dat de Koerden een bruggenhoofd hebben veroveren in de Turkse provincie Hakkari aan de grenzen met Irak en Iran en Turkije aan de grens met Syrië onder druk zetten – de Syrische president Bashar al-Assad heeft hen daar immers feitelijke autonomie gegeven. In eigen land heeft Erdogan er naast de Koerden ook vijanden bij gekregen onder de alevieten, zowat 20% van de bevolking (waaronder ook veel Koerden).

Eigenaardig genoeg is Erdogan erin geslaagd het kemalistisch establishment zeer klappen toe te dienen, maar op een aantal punten loopt zijn politiek gelijk met deze van dat establishment. Dat is zo in de Koerdische kwestie, en uiteindelijk ook in zijn relaties met de Arabische wereld.

 

jeudi, 04 octobre 2012

Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

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Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

By Mahdi Darius Nazemroaya

Global Research, September 27, 2011

Bei ihrem Vormarsch gegen das Eurasische Herzland versuchen Washington und seine Gefolgsleute, sich den Islam als geopolitisches Werkzeug zunutze zu machen. Politisches und soziales Chaos haben sie bereits geschaffen. Dabei wird versucht, den Islam neu zu definieren und ihn den Interessen des weltweiten Kapitals unterzuordnen, indem eine neue Generation sogenannter Islamisten, hauptsächlich unter den Arabern, ins Spiel gebracht wird.

Die heutige Türkei wird den aufbegehrenden Massen in der arabischen Welt als demokratisches Modell präsentiert, dem es nachzueifern gilt. Unbestreitbar hat Ankara Fortschritte gemacht im Vergleich zu den Zeiten, als es verboten war, in der Öffentlichkeit Kurdisch zu sprechen. Dennoch ist die Türkei keine funktionsfähige Demokratie, sondern eher eine Kleptokratie mit faschistischen Zügen.

Immer noch spielt das Militär in Belangen von Staat und Regierung eine große Rolle. Der Begriff »Tiefer Staat«, der einen Staat bezeichnet, der im Geheimen von Institutionen und Personen beherrscht wird, die nicht zur Rechenschaft gezogen werden können, hat seinen Ursprung in der Türkei. Bürgerrechte werden in der Türkei auch heute nicht geachtet, die Kandidaten für öffentliche Ämter müssen nach wie vor vom Staatsapparat und den kontrollierenden Gruppen zugelassen werden – und die sind bemüht, jeden herauszufiltern, der sich gegen den Status quo in der Türkei wenden könnte.

Die Türkei wird den Arabern nicht wegen seiner demokratischen Qualifikationen als Modell dargestellt. Vielmehr wird sie den Arabern wegen eines Projekts politischer und sozio-ökonomischer »Bida« (Erneuerung), das die Manipulation des Islam einschließt, als Modell präsentiert.

Trotz ihrer großen Popularität konnte die Türkische Partei für Gerechtigkeit und Aufschwung (Adalet ve Kalkinma Partisi oder kurz AKP) 2002 ohne jeden Widerstand von Militär und Justiz in der Türkei an die Macht gelangen. Davor hatte es in der Türkei keine große Toleranz gegenüber einem politischen Islam gegeben. Die AKP wurde 2001 gegründet; der Zeitpunkt der Gründung und der Wahlsieg 2002 standen auch im Zusammenhang mit der geplanten Neuorientierung Südwestasiens und Nordafrikas.

Mit dem Projekt Manipulation und Neudefinierung des Islam soll dieser durch eine neue Welle des »politischen Islamismus«, wie die AKP, den herrschenden kapitalistischen Interessen in der Weltordnung unterworfen werden. Zu diesem Zweck wird eine neue Strömung des Islam gebildet, die man inzwischen als »Calvinistischen Islam« oder »Muslimische Version der protestantischen Arbeitsethik« bezeichnet. Genau dieses Modell wird in der Türkei gefördert, Washington und Brüssel präsentieren es Ägypten und der arabischen Welt als Modell.

Dieser »Calvinistische Islam« hat auch kein Problem mit dem »Reba-« oder Zinssystem, das im Islam verboten ist. Dieses System dient dazu, Einzelne und ganze Gesellschaften durch die Verschuldung gegenüber dem globalen Kapitalismus zu versklaven. Das ist der Hintergrund für die Forderungen der Europäischen Bank für Wiederaufbau und Entwicklung (EBRD) nach so genannten »Reformen« in der arabischen Welt.

Auch die Herrscherfamilien in Saudi-Arabien und den arabischen Öl-Scheichtümern sind daran beteiligt, die arabische Welt durch Schulden zu versklaven. Zu diesem Zweck betreiben Qatar und die Scheichtümer am Persischen Golf die Gründung einer Middle East Development Bank [Entwicklungsbank für den Nahen Osten], die arabischen Ländern Kredite für den »Übergang zur Demokratie« gewähren soll. Diese Mission der Middle East Development Bank zur Förderung der Demokratie ist paradox, denn ihre Mitgliedsländer sind allesamt stramme Diktaturen.

Genau diese Unterwerfung des Islam unter den globalen Kapitalismus führt auch zu internen Spannungen im Iran.

Einer neuen Generation von Islamisten den Weg bereiten

Washington hofft darauf, dass dieser »Calvinistische Islam« bei einer neuen Generation von Islamisten unter dem Banner neuer demokratischer Staaten Wurzeln schlägt. Diese Regierungen werden ihre Länder versklaven, indem sie sie weiter in Schulden treiben und Staatseigentum verkaufen. Sie werden dazu beitragen, die gesamte Region von Nordafrika bis Südwest- und Zentralasien zu unterwandern; die Region also, die nach dem Vorbild Israels unter ethnokratischen Systemen neu geordnet werden soll.

Auch Tel Aviv wird unter diesen neuen Staaten erheblichen Einfluss ausüben. Im Rahmen dieses Projekts werden verschiedene Formen des ethno-linguistischen Nationalismus und religiöser Intoleranz gefördert, um die Region zu spalten. Die Türkei spielt als Wiege dieser neuen Islamisten-Generation ebenfalls eine Rolle. Und Saudi-Arabien hat mit der Förderung des militanten Flügels dieser Islamisten die Hand im Spiel.

Washingtons Umstrukturierung des geostrategischen Schachbretts

Der Iran und Syrien werden im Rahmen der größeren Strategie zur Beherrschung Eurasiens ins Visier genommen. Gegen die chinesischen Interessen wird überall auf der Welt vorgegangen. Der Sudan ist bereits balkanisiert worden, sowohl Nord- als auch Süd-Sudan steuern auf einen Konflikt zu. Libyen ist angegriffen worden und wird derzeit balkanisiert. Syrien wird unter Druck gesetzt, sich zu ergeben und sich anzuschließen. Die Sicherheitsbehörden der USA und Großbritannien werden miteinander verflochten, vergleichbar den anglo-amerikanischen Einrichtungen aus der Zeit des Zweiten Weltkriegs.

Wenn Pakistan aufs Korn genommen wird, so geschieht dies im Zusammenhang mit der Neutralisierung des Iran sowie dem Angriff auf chinesische Interessen und eine künftige Einheit in Eurasien. In dieser Absicht haben USA und NATO auch das Seegebiet um Jemen militarisiert. Gleichzeitig bauen die USA in Osteuropa ihre Festungen in Polen, Bulgarien und Rumänien aus, um Russland und die ehemaligen Sowjetrepubliken zu neutralisieren. Auch Belarus und die Ukraine werden zunehmend unter Druck gesetzt. All diese Schritte sind Teil einer militärischen Strategie zur Einkreisung Eurasiens und der Kontrolle seiner Energieversorgung oder des Energietransports nach China. Selbst Kuba und Venezuela geraten immer mehr ins Visier. Washington zieht die militärische Schlinge weltweit enger.

Wie es scheint, werden von der Saud-Dynastie mit Unterstützung der Türkei neue islamistische Parteien ins Leben gerufen und entwickelt, die in den Hauptstädten der arabischen Welt die Macht übernehmen sollen. Solche Regierungen werden bemüht sein, ihre jeweiligen Staaten unterzuordnen. Für Pentagon, NATO und Israel könnten einige dieser neuen Regierungen sogar als Rechtfertigung für neue Kriege dienen.

Es sei daran erinnert, dass Norman Podhoretz, Gründungsmitglied des Project for a New American Century (PNAC), 2008 ein apokalyptisches Szenario vorgestellt hat, bei dem Israel einen Atomkrieg gegen den Iran, Syrien und Ägypten und seine übrigen Nachbarländer in Gang setzen würde. Davon wären auch Libanon und Jordanien betroffen. Podhoretz beschrieb ein expansionistisches Israel und deutete sogar an, Israel könnte die Ölfelder am Persischen Golf besetzen.

Was 2008 seltsam anmutete, war Podhoretz’ von der strategischen Analyse des Center for Strategic and International Studies (CSIS) beeinflusste Andeutung, Tel Aviv könne einen nuklearen Angriff gegen seinen strammen ägyptischen Verbündeten richten, die Regierung von Präsident Mubarak in Kairo. Das alte Regime ist zwar geblieben, aber Mubarak regiert nicht mehr in Kairo. Noch immer hat das ägyptische Militär das Kommando, doch Islamisten könnten die Macht übernehmen. Und das, obwohl der Islam von den USA und den meisten NATO-Verbündeten weiterhin verteufelt wird.

Unbekannte Zukunft: Was kommt als Nächstes?

USA, EU und Israel versuchen, die Aufstände in der türkisch-arabisch-iranischen Welt zu nutzen, um ihre eigenen Interessen zu fördern, darunter den Krieg gegen Libyen und die Unterstützung für einen islamischen Aufstand in Syrien. Zusammen mit der Familie Al-Saud versuchen sie, die »Fitna« oder Spaltung unter den Völkern Südwestasiens und Nordafrikas voranzutreiben. Die strategische Allianz Israel–Khaliji zwischen Tel Aviv und den arabischen Herrscherfamilien am Persischen Golf ist in dieser Hinsicht von entscheidender Bedeutung.

Der Aufstand in Ägypten ist noch lange nicht vorüber, die Radikalität nimmt zu, was wiederum die Militärjunta in Kairo zu Zugeständnissen veranlasst. Die Protestbewegung wendet sich jetzt gegen die Rolle Israels und dessen Beziehungen zur Militärjunta. Auch in Tunesien wird die Stimmung in der Öffentlichkeit zunehmend radikaler.

Washington und seine Verbündeten spielen mit dem Feuer. Sie mögen der Ansicht sein, diese Periode von Chaos biete ausgezeichnete Chancen für eine Konfrontation mit dem Iran und Syrien. Doch der Aufstand, der die türkisch-arabisch-iranische Welt erfasst hat, wird unabsehbare Folgen haben. Die Standfestigkeit der Menschen in Bahrein und Jemen angesichts der Bedrohung durch die wachsende, staatlich beaufsichtigte Gewalt ist ein Anzeichen dafür, dass sich eine einheitlichere anti-amerikanische und anti-zionistische Protestbewegung artikuliert.

Mahdi Darius Nazemroaya ist ein unabhängiger Schriftsteller aus Ottawa (Kanada), der sich auf den Nahen Osten und Zentralasien spezialisiert hat. Er ist wissenschaftlicher Mitarbeiter des Centre for Research on Globalization (CRG).

 

Dieser Artikel erschien unter dem Titel: The Powers of Manipulation: Islam as a Geopolitical Tool to Control the Middle East

Quelle: Global Research, Centre for Research on Globalization (CRG) vom 2.7.2011

mercredi, 03 octobre 2012

Siria: L’errore di calcolo della Turchia!

Siria: L’errore di calcolo della Turchia!

Dr Amin Hoteit, Mondialisation , al-Thawra

Ex: http://aurorasito.wordpress.com/

Quando la Turchia ha preparato il suo ruolo di “Direttore Regionale della ricolonizzazione” come “potenza neo-ottomana” o “moderno califfato islamico“, ha pensato che avrebbe fatto strada senza problemi, data la mancanza di strategia araba, l’isolamento dell’Iran e l’evoluzione delle condizioni regionali che hanno reso Israele incapace di mantenere consistente il proprio ruolo, secondo le teorie di Shimon Peres, promuovendo l’idea di un “Nuovo o Grande Medio Oriente“, basata sul “pensiero sionista” e il “denaro arabo“.

La Turchia ha veramente pensato che questo fosse il modo migliore per garantirsi la leadership della regione, per iniziare, poi del mondo musulmano … confortata in questo dai suoi punti di forza economici, dalle sue buone relazioni con i popoli di tanti stati indipendenti dell’Asia centrale, il suo passato musulmano assieme a un presente che dimostrerebbe la capacità degli “islamisti” nel prendere le redini dello Stato turco e neutralizzare l’ostacolo dell’Esercito “guardiano della laicità”, istituito da Ataturk!

In base a questa visione, la Turchia, o meglio il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha lanciato la sua strategia di “zero problemi“, pensando che le avrebbe permesso di attraversare le frontiere dei confinanti e far dimenticare le tragedie storiche commesse contro diversi popoli e stati della regione, prima di involarsi verso il suo nuovo sogno imperiale… Quindi “conquistata” la causa palestinese, causa centrale per gli arabi e i musulmani [per i popoli e i regimi non asserviti all'Occidente e ad Israele], ha iniziato a tessere relazioni strategiche con diversi paesi della regione, a partire dal più vicino e più importante: la Siria! In effetti, in un libro pubblicato nel 2001, Davutoglu, il teorico del “zero problemi” aveva sottolineato che la Turchia non poteva realizzare i propri progetti imperialistici che partendo dalla Siria, passo preliminare per assicurarsi il sogno della profondità strategica!


In questo caso, si deve rilevare che la Siria ha risposto positivamente alla nuova politica di apertura della Turchia e, in piena fiducia, aveva stabilito una partnership strategica con uno stato ancora membro della NATO, che “coltivava un rapporto speciale con Israele“, pensando che questo nuovo approccio permettesse almeno di garantirsi la sua neutralità nel conflitto con il nemico sionista e, eventualmente, affidargli alcune missioni nel quadro di questo stesso conflitto, in cui non avrebbe più dimostrato un palese sostegno verso Israele.
Ma la Turchia non è stata onesta e aveva previsto l’esatto opposto di quello che offriva, non appena l’aggressione occidentale, agli ordini dei piani degli Stati Uniti basati sulla strategia intelligente del “soft power“, si è abbattuta sulla Siria, è entrata nel suo ruolo di “regista sul campo dell’aggressione” e si è messa a “dare lezioni” avvalendosi della lingua condiscendente dei colonizzatori, come se la Siria fosse ancora parte dell’Impero Ottomano! Ciò fu chiaramente il suo primo errore di calcolo, in quanto la nuova moda neo-ottomana incontrava la resistenza araba siriana, proibendogli di ripristinare un passato che ne ignorasse la dignità e la sovranità; ciò ha innescato la furia e l’odio in cui i leader turchi si sono pubblicamente immersi, nel tentativo di minare dall’interno la Siria.


A questo punto, la Turchia ha svolto il ruolo di cospiratore su due livelli:
· A livello politico, ha sponsorizzato i gruppi di agenti dei servizi segreti di vari paesi e varie figure revansciste cariche di odio o di vendetta, assetate di potere, prima di organizzare un cosiddetto “Consiglio nazionale siriano” [CNS], che in realtà è al soldo di servizi ed interessi stranieri in Siria. In questo modo, pensava che questo falso consiglio sarebbe stata un’alternativa alle legittime autorità siriane… Secondo errore di calcolo, poiché essendo il CNS nato come strumento della discordia straniera, si è evoluto verso una discordia interna maggiore, trasformandosi in un cadavere putrefatto, così divenendo un peso per i suoi creatori, e per la Turchia per prima!


· Sul piano militare, si è trasformata in una base di raccolta dei terroristi di tutte le nazionalità, attaccando la Siria prima dell’esecuzione di un’operazione militare internazionale di cui sarebbe stata la punta di lancia, raccogliendone i frutti trasformandola nel cortile dell’impero neo-ottomano rinato dalle ceneri… Terzo errore di calcolo manifesto, dopo che una simile operazione, cosiddetta “internazionale”, si era rivelata impossibile, ciò ha spinto la Turchia a non concentrarsi che su sordide azioni terroristiche sul suolo siriano! Il partito al governo in Turchia aveva, infine, puntato tutte le sue speranze sul terrorismo internazionale, e aveva immaginato che la Siria sarebbe crollata in poche settimane, aprendo la via di Damasco al nuovo sultano ottomano… Quarto errore di calcolo, davanti a una Siria in cui tutte le componenti statali e civili resistevano alla marea terroristica, ritenuta infrangibile, la  Turchia è ritornata a quella dura realtà che non si era degnata di prevedere.
In effetti, la Turchia aveva immaginato che la difesa siriana e quella dei suoi alleati regionali dell’”asse della resistenza“, in perfetto accordo con il fronte del rifiuto emergente sulla scena internazionale, non avrebbe potuto resistere nel caso di uno scontro così ben condotto e che, in ogni caso, l’avrebbe dovuto affondare… Quinto errore di calcolo, particolarmente pericoloso vista l’evoluzione del teatro delle operazioni a scapito delle sue velleità. Non citeremo che le conseguenze fondamentali:

1. Definitivo fallimento della Turchia nella sua guerra terroristica contro la Siria, condotta congiuntamente al “campo occidentale degli aggressori“… Inoltre, ora è fermamente convinta che non è possibile rovesciare il governo siriano, il popolo siriano è l’unico in grado di deciderlo.


2. Fallimento degli sforzi della Turchia a favore di un intervento militare diretto, volto a trasformare la prova, ora che tutti i suoi tentativi di creare  “zone di sicurezza“, “zone cuscinetto“, “corridoi umanitari” o qualsiasi altra scusa che consentisse l’intervento militare straniero in Siria, sono falliti miseramente di fronte alla resistenza siriana, alla fermezza iraniana e alla coerenza russa nel loro rifiuto concertato di un tale risultato, anche se avessero dovuto arrivare a un confronto militare internazionale, mentre la Turchia ed i suoi alleati non erano preparati a tale possibilità.


3. La grave angoscia della Turchia sul futuro dei gruppi terroristici che ha accolto sul suo territorio e diretto contro la Siria sotto la supervisione degli Stati Uniti; ciò dovrebbe ricordarci che il fenomeno degli “afghani arabi” è diventato un problema per il paese che li ha spinti a combattere contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, dove una volta che le truppe sono partite sono diventati dei “veterani disoccupati“, minacciando ogni sorta di pericoli; una situazione non molto diversa da quella che potrà incontrare la Turchia, oggi! E’ per questo motivo che si è affrettata a chiedere il soccorso degli Stati Uniti nell’aiutarla a prevenire questa probabile piaga… E’ per questo motivo che recentemente le forze di sicurezza dei due paesi si sono incontrate e che, contrariamente a quanto è stato riportato dai media, non hanno parlato dello sviluppo dei preparativi finali per l’intervento militare in Siria, ma di difendere la Turchia, che teme per la propria incolumità in caso di una controffensiva lanciata dalla cittadella siriana che resiste alla sua violenta aggressione per mezzo di interposti terroristi.


4. L’ansia non meno grave della Turchia per certi dossier che sono sul punto di esplodere, mentre cerca di nasconderli con la sua presunta politica di “zero problemi” trasformata in pratica nella politica di “zero amici“; il più pericoloso di questi casi è l’ostilità dei popoli, di gran lunga superiore a quella dei governi. Così, quattro temi principali minacciano l’essenza dello Stato turco e perseguitano i suoi dirigenti:
· Il dossier settario: la Turchia ha ritenuto che accendendo il fuoco settario in Siria, si sarebbe salvata dall’incendio. Ha dimenticato che la sua popolazione è ideologicamente e religiosamente eterogenea, e che lo stesso fuoco potrebbe bruciare data la sua vicinanza geografica; cose che sembra aver capito ora…
· Il dossier nazionalista: la Turchia ha pensato che potesse contenere il movimento nazionalista curdo… un altro errore di calcolo, perché questo movimento è diventato così pericoloso che l’ha costretta a riconsiderare seriamente la sua politica globale nei confronti di esso.
· Il dossier politico: la Turchia ha immaginato che basandosi sulla NATO potesse ignorare le posizioni dei paesi della regione e d’imporre la sua visione basata sui propri interessi, ma ora è sempre più politicamente isolata, i paesi sulla cui amicizia sperava di contare nell’aggressione contro la Siria, si sono allontanati per paura della sua smisurata ambizione, e i paesi che ha trattato da nemici, al punto di pensare che potesse dettargli i propri ordini o di schiacciarli, si sono dimostrati in grado di resistere con una forza che l’ha sconcertata… lasciandola nella situazione inaspettata di “zero amici“!
· Il dossier della sicurezza: la Turchia cerca invano di negare il declino della sicurezza nel suo territorio, diventata estremamente penosa per i suoi commercianti e soprattutto per coloro che lavorano nel settore del turismo e che hanno perso più del 50% delle loro entrate normali nel corso degli ultimi sei mesi!


Tutto ciò mostra che la Turchia si trascina dietro gli USA, supplicandoli di farla uscire dal pantano in cui è sprofondata! Non solo ha fallito nella sua aggressione contro la Siria, e ha rivelato la falsità della sua politica e di tutte le sue dichiarazioni, ma non è neanche più sicura di salvare le carte che ancora pensa di detenere, ora che gli eventi di Antiochia, le rivendicazioni armene, gli attacchi curdi, gli oppositori interni alle politiche del governo attuale, e la mancanza di cooperazione assieme alla sfiducia dei paesi della regione, sono diventati fattori che, tutti insieme, possono generare turbolenze verso i piani imperialistici di Erdogan e del suo ministro degli Esteri; ricordando, in questo caso, l’aneddoto del giardiniere innaffiato!

Il dottor Amin Hoteit è un analista politico, esperto di strategia militare e generale di brigata in pensione libanese.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

lundi, 01 octobre 2012

Redessiner la carte du Moyen Orient

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Redessiner la carte du Moyen Orient

 

Entretien avec Jeremy Salt (Université Bilkent/Ankara)

 

Propos recueillis par Claudio Gallo pour http://www.eurasia-rivista.org/

 

Jeremy Salt est professeur d’histoire et de politique du Moyen Orient à l’Université de Bilkent, près d’Ankara. Son livre, intitulé “La destruction du Moyen Orient” constitue un brillant compte-rendu des cent dernières années d’histoire de la région, un ouvrage entièrement dépourvu des clichés orientalistes. La revue italienne de géopolitique “Eurasia” a demandé au Prof. Salt de nous expliquer les actuelles transformations à l’oeuvre au Moyen Orient et aussi de nous donner des précisions sur l’inextricable question kurde. Les Kurdes en Syrie, en Irak, en Iran et en Turquie ne cessent de parler de l’émergence prochaine d’un “Grand Kurdistan”.

 

Q.: Le Président syrien Bachar Al-Assad vient de donner carte blanche aux Kurdes du Nord de la Syrie. Cela pourrait-il constituer un “casus belli”, enclenchant une guerre entre Damas et Ankara?

 

JS: Il me paraît excessif de dire que Bachar Al-Assad a donné carte blanche aux Kurdes de Syrie. Il me paraît donc plus vraisemblable de dire que, dans le chaos total et diffus qui s’est abattu sur le territoire syrien tout entier, Bachar Al-Assad n’a pas pu empêcher les Kurdes de prendre le contrôle des régions où ils vivent et qui sont proches des frontières turques. Il est certain aussi qu’Al-Assad n’a nulle envie d’ouvrir un front contre les Kurdes alors qu’il essaie de neutraliser les groupes armés partout ailleurs dans le pays.

 

Si cette situation pourra ou non constituer un casus belli dépend de la lecture que fera le gouvernement turc de la situation; assurément, il sera alarmé à la perspective de voir se former une enclave kurde dans le Nord de la Syrie, qui favorisera la possibilité de créer un “Grand Kurdistan” dans un futur plus ou moins proche. Ces complications pouvaient être prévues mais elles n’ont pas été envisagées, il y a un peu plus d’un an, quand la Turquie a décidé de s’opposer au gouvernement syrien.

 

Q.: Ankara entretient un lien direct avec l’administration kurde dans le Nord de l’Irak, passant ainsi au-dessus de Bagdad. Selon vous, quel est là l’objectif de la diplomatie turque?

 

JS: Pour le moment, il me paraît difficile d’interpréter les actions de la diplomatie turque ou de saisir l’objectif qu’elle cherche à atteindre aujourd’hui dans la région. Si nous jettons un regard rétrospectif sur les aléas de la politique étrangère turque jusqu’au début de l’année 2012, nous pouvons constater que les deux politiques annoncées par le gouvernement AKP, celles du “soft power” et celle du “zero problems”, ont bien fonctionné sous l’impulsion du ministre des affaires étrangères, Ahmet Davutoglu. La Turquie développait de solides relations de coopération avec ses voisins orientaux. Or la décision d’oeuvrer à un “changement de régime” en Syrie a complètement bouleversé cette perspective.

 

Les Etats-Unis et les pays du Golfe seront certainement reconnaissants envers la Turquie pour le rôle clef qu’elle a joué dans la campagne actuelle qui vise à faire tomber le gouvernement syrien. Cependant les coûts de cette option seront énormes pour la Turquie. Outre la rupture totale avec Damas, l’option anti-Al-Assad a affaibli considérablement les relations avec l’Irak et l’Iran; de plus, la Turquie est désormais en porte-à-faux avec la Russie.

 

Tout cela aurait pu être prévu, il y a un an, au moment où la Turquie, pour la première fois, a manifesté sa volonté de s’opposer au gouvernement de Damas qui a des liens très étroits avec l’Iran, fournit des installations portuaires à la flotte russe et qui, en plus, a eu des liens forts avec la Russie (comme, dans le passé, avec l’URSS) pendant plus d’un demi-siècle.

 

L’Irak s’est toujours opposé, dès le départ, à la politique turque en Syrie. D’abord parce que l’Irak ressent encore les conséquences de l’intervention occidentale de 2003 et aussi, partiellement, parce que la Turquie a développé des relations particulières avec le “gouvernorat” kurde du Nord aux dépens du gouvernement de Bagdad.

 

La Turquie entretient désormais des relations commerciales étroites avec le Nord de l’Irak. Il est tout à fait plausible d’affirmer que cette position, adoptée par Ankara, est dictée par le commerce, le pétrole et l’importance stratégique que revêt ce Kurdistan nord-irakien dans l’alliance qui lie la Turquie à l’Occident, ainsi qu’aux Etats arabes du Golfe, et l’oppose, ipso facto, à la Syrie et à l’Iran, à rebours des critères de la diplomatie néo-ottomane, dite de “zero problems”.

 

Il faut rappeler ici que plus de 60% des Irakiens sont chiites; l’élément sectaire de la politique irakienne revient à la surface chaque fois que l’on enregistre des attentats contre des Chiites ou lorsque l’on a émis des accusations graves contre le vice-président irakien, musulman sunnite, Tareq al-Hashimi, soupçonné d’organiser des “escadrons de la mort” anti-chiites. Al-Hashimi a quitté le territoire irakien et le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan est parmi ceux qui prennent sa défense.

 

Q.: L’indépendance est-elle à l’ordre du jour dans l’agenda du Président de la région kurde nord-irakienne Massoud Barzani?

 

JS: Le “gouvernorat” kurde du Nord irakien est déjà virtuellement indépendant en tous domaines, sauf que cette indépendance ne figure pas encore sur les cartes de la région. Il dispose d’une armée puissante, officiellement décrite comme une “force de sécurité” et développe une ligne de conduite politique propre, indépendante de la volonté du gouvernement de Bagdad. Une déclaration formelle d’indépendance n’est plus, sans doute, qu’une question de temps, de trouver des circonstances propices.

 

Barzani n’a jamais dissimulé ses vues: pour lui, une grande partie de l’Anatolie orientale turque est en réalité le “Kurdistan occidental”. L’inclusion de ce territoire, dans son ensemble, à un “Etat kurde” constituerait donc l’objectif final. Tout cela ne nous permet pas de comprendre aisément la nature des relations entre la Turquie et le Kurdistan du Nord irakien, ni celles qui président aux relations entre Ankara et le gouvernement central irakien.

 

Ces derniers mois, les Kurdes ont surtout mis en avant leurs propres intérêts. On l’a vu lorsque Barzani, récemment, a joué les médiateurs lors d’un colloque des Kurdes syriens, en leur demandant la réconciliation. Dès l’instant où les Kurdes syriens ont aligné dans leurs rangs une faction du PKK (Parti des Travailleurs Kurdes), le premier ministre turc était furieux.

 

La Turquie est donc en état d’alerte depuis le réveil des Kurdes de Syrie.

 

Q.: La chute d’Al-Assad en Syrie pourrait-elle amener à créer un Etat kurde?

 

JS: Les répercussions d’un éventuel effondrement de l’Etat syrien s’avèreraient révolutionnaires dans la région et personne n’est à même, aujourd’hui, de prévoir les choses, sauf qu’il y restera bien des ruines et de la misère. Pour le moment, cet effondrement ne peut constituer un objectif sérieux et il est peut probable qu’un nouveau gouvernement syrien, issu des forces anti-Al-Assad, veuille, lui aussi, l’émergence d’un “Grand Kurdistan”, vu les effets imprévisibles qui pourraient s’ensuivre.

 

Un gouvernement post-Assad pourrait se montrer complaisant à l’égard des Kurdes mais il ne voudra certainement pas voir s’instaurer un chaos qui menacerait ses intérêts dans toute la région. Une sorte d’Etat kurde a émergé en Irak suite à l’invasion de 2003 et à l’occupation dans les années suivantes, mais je ne pense pas qu’une situation similaire sera acceptée par tous en Syrie.

 

Q.: L’Iran est-il en train de jouer la carte kurde contre la Turquie?

 

JS: Ces deux Etats ont toujours joué l’un contre l’autre les cartes qu’ils avaient à leur disposition. C’est ce que l’on appelle la diplomatie. Tant l’Iran que la Turquie ont un problème kurde que leurs gouvernements respectifs peuvent exploiter, tant dans la région qu’en dehors d’elle. Ils l’ont fait dans le passé. Pour ces deux Etats, exploiter le problème kurde peut comporter des risques de répercussions.

 

Mais il n’y a pas de preuves, actuellement, que l’Iran utilise la carte kurde contre la Turquie, à moins que quelque chose m’ait échappé. Le danger majeur vient de la partie septentrionale de l’Irak, où le PKK et son équivalent iranien entretiennent des bases opératives.

 

C’est donc d’Irak et non d’Iran que les militants kurdes —terroristes selon le gouvernement turc— ont généralement lancé leurs opérations contre la Turquie.

 

Q.: Il semble que nous soyons revenu aux temps de la destruction de l’Empire ottoman, au début du 20ème siècle. Pensez-vous que cette comparaison est valide?

 

JS: Ce que nous pouvons d’ores et déjà percevoir derrière les scènes d’horreur qui se déroulent en Syrie, c’est la tentative plus explicite de donner une forme nouvelle au Moyen Orient, exercice qui a commencé dès la première guerre mondiale. Les Accords Sykes-Picot de 1916 ont figé les paramètres géostratégiques du Moyen Orient moderne; ces paramètres ont cessé de fonctionner pour les puissances impérialistes ou post-impérialistes et pour leurs alliés dans la région.

 

Nous avons traversé des phases multiples dans cette histoire récente du Proche- et du Moyen-Orient mais, quoi qu’il en soit, c’est bien l’Etat national qui a encaissé toutes les tensions, a résisté à toutes les frictions auxquelles il a été soumis. Parmi les phases traversées, rappelons d’abord celle de la crise de Suez en 1956, puis celle de l’attaque israélienne contre l’Egypte et la Syrie en 1967, attaque soutenue par l’Occident, et, enfin, la tentative israélienne d’instaurer un gouvernement fantoche au Liban. Le point focal qui attire toutes les attentions est la région que l’on appelle depuis toujours le “Croissant fertile”; aujourd’hui, c’est dans cette région que se trouvent l’Irak, la Syrie, le Liban et la Palestine/Israël.

 

La région entière se prêterait parfaitement à un véritable effondrement ethnico-religieux si l’Occident faisait le premier pas.

 

L’invasion de l’Irak a été suivie de la destruction de l’Irak en tant qu’Etat unitaire. La nouvelle constitution irakienne, écrite à Washington (comme les constitutions irakienne et égyptienne d’avant 1940 avaient été rédigées à Londres, respectivement en 1920 et en 1930), a transformé un Etat séculier en un Etat reposant sur des bases confessionnelles et sectaires. On a établi un Etat central faible et, en même temps, on a favorisé l’émergence d’un “gouvernorat” kurde dans le Nord, devenu de plus en plus puissant au fil du temps. On a confié l’avenir de la ville pétrolière de Kirkouk à un futur référendum, ce qui a enclenché une véritable guerre démographique, dès le moment où les Kurdes ont cherché à obtenir le nombre suffisant d’habitants kurdes pour faire pencher la balance en leur faveur, tant dans la ville intra muros qu’en dehors d’elle.

 

La Syrie pourrait se prêter à un scénario similaire de démantèlement sur bases ethniques et religieuses, si la forme d’Etat actuellement au pouvoir venait à s’effondrer. En 1918, les puissances impérialistes ont divisé le Moyen Orient selon des critères qui leur paraissaient favorables à l’époque. Aujourd’hui, elles projettent un nouveau démantèlement et cherchent à redessiner la carte de la région, pour que la nouvelle donne aille dans le sens de leurs intérêts. Ce n’est pas un hasard si ce programme coïncide à la perfection avec les plans stratégiques à long terme d’Israël.

 

La Russie et la Chine sont pleinement conscientes du processus en cours. On peut donc dire que la situation actuelle peut se concevoir comme l’extension, au 21ème siècle, de la “Question d’Orient” ou du “Grand Jeu”, soit la lutte entre la Russie et la Grande-Bretagne. Il est sûr et certain que la lutte pour la Syrie donnera forme pour longtemps aux futurs Levant et Moyen Orient. Dans tous les cas de figure, les acteurs locaux peuvent d’ores et déjà être considérés comme les perdants du jeu.

 

(Claudio Gallo est rédacteur d’articles de politique internationale pour le quotidien italien “La Stampa”).

 

(Cet entretien est paru dans “La Stampa” et sur le site http://atimes.com/ en langue anglaise et sur le site http://www.ariannaeditrice.it/ en date du 13 septembre 2012).

samedi, 15 septembre 2012

Erdogan et la nouvelle Turquie

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Robert Steuckers:

Erdogan et la nouvelle Turquie

 

Conférence prononcée à la tribune de l’ASIN (“Association pour une Suisse Indépendante et Neutre”), Genève, 3 novembre 2011

 

Recension: Jürgen P. FUSS, Erdogan – Ein Meister der Täuschung – Was Europa von der Türkei wirklich zu erwarten hat, Bublies Verlag, D- 56.290 Beltheim/Schnellbach, 2011. Internet: http://www.bublies-verlag.de/

Adresse électronique pour toute commande: bublies-verlag@t-online.de .

 ISBN 978-3-937820-16-3.

 

Recep Tayyip Erdogan a fait advenir sur l’échiquier politique planétaire, et plus spécifiquement proche-oriental, une Turquie nouvelle, dans la mesure où sa politique intérieure n’est plus déterminée par le laïcisme kémaliste et par le pouvoir réel de l’armée (= l’“Etat profond”) et où sa politique étrangère n’est plus systématiquement alignée sur les concepts convenus de l’OTAN (du moins en apparence).

 

Une effervescence nouvelle

 

Ce glissement s’est opéré au moment où s’installait dans la région une effervescence plus complexe que celle impulsée jusqu’ici par le seul conflit israélo-palestinien et israélo-arabe. Cette effervescence nouvelle anime le Moyen Orient (Irak, Iran et Afghanistan compris), l’Asie mineure (avec le Caucase) et le Bassin oriental de la Méditerranée. En effet, à Chypre, le conflit greco-turc pour la maîtrise de l’île, qui avait conduit à l’invasion de l’été 1974, se double désormais d’un conflit pétrolier pour le partage des eaux territoriales et le partage des éventuelles nappes pétrolifères à découvrir dans le sous-sol de la Méditerranée. Ces nappes se situent à cheval sur les eaux territoriales libanaises et cypriotes, israéliennes et cypriotes, sur la portion de mer octroyée à la Bande palestinienne de Gaza. La Turquie, puissance occupante de la moitié septentrionale de Chypre, est le seul Etat au monde à reconnaître le “République turque de Chypre du Nord” et n’est pas autorisée à forer mais fait néanmoins valoir des “droits” sur les nappes à découvrir et exploiter, ce qui entraîne la constitution d’un nouvel axe Athènes/Nicosie/Tel Aviv, dirigé contre Ankara. Pour l’Europe, les menaces turques contre Chypre sont une menace directe contre un Etat appartenant à l’UE, qui, de surcroît, risque de devenir un fournisseur d’hydrocarbures. Ce qui ne devrait pas être pris à la légère.

 

En Syrie, en août 2011, le ministre turc des affaires étrangères, Davutoglu, a proposé au pouvoir baathiste de Bachar El Assad une alliance “néo-ottomane” afin de ré-ancrer la Turquie dans le monde arabo-musulman. Il a essuyé une fin de non recevoir car le baathisme syrien demeure une idéologie et une pratique laïques, fondées sur une option “arabiste”, excluant, modernisme oblige, toute notion archaïsante et néo-fondamentaliste de “Djalliliyâh” (n’a pas droit à l’existence toute forme d’organisation politique née en dehors de l’islam, que ce soit avant la prophétie ou après) et toute confrontation entre religions. Ensuite, Davutoglu ne proposait rien de concret pour réduire le “stress hydrique” que connaît la Syrie, où le débit des fleuves, le Tigre comme l’Euphrate, est considérablement diminué par l’installation, au temps d’Özal, de barrages en amont, sur territoire turc.

 

En Egypte, en Libye et en Tunisie, la disparition des pouvoirs laïques ou militaires semble faire place à de nouveaux pouvoirs, assez largement déterminés par les Frères Musulmans, qui peuvent prendre soit un visage “modéré”, et adopter dans ce cas le “modèle turc”, soit un visage plus radical et se rapprocher du wahhabisme saoudien voire d’Al Qaeda. Le voyage d’Erdogan en Tunisie semble avoir donné le coup d’envoi au parti “Ennahda”, posé comme “islamiste modéré”. L’exportation de ce “modèle turc” correspond souvent aux intérêts géostratégiques de la Turquie néo-ottomane.

 

Dans le Kurdistan irakien, les Kurdes d’Irak semblent vouloir, paradoxalement, devenir des vassaux de la Turquie, contrairement à leurs cousins d’Anatolie orientale, organisés par le PKK. L’alliance tacite entre l’Iran et la Turquie entraîne, semble-t-il, une alliance entre le PKK et les révoltés kurdes d’Iran.

 

Les gazoducs

 

A tout cela s’ajoutent les innombrables problèmes soulevés par le tracé des futurs oléoducs et gazoducs: 1) le North Stream qui achemine le gaz russe vers l’Allemagne via la Baltique; 2) le South Stream qui achemine le gaz russe vers l’Europe, en passant par l’Europe centrale; ces deux gazoducs ne concernent pas immédiatement la Turquie; 3) le tracé dit “Nabucco”, lui, doit acheminer du gaz de la région caspienne/caucasienne, voire des hydrocarbures en provenance d’Asie centrale ex-soviétique, vers l’Europe en passant par la Turquie, donnant ainsi à ce pays, un formidable atout géostratégique qu’il ne possédait pas auparavant; l’objectif, soutenu par les Américains, est de ne pas faire transiter de gaz ou de pétrole par l’Iran ou par la Russie, voire de verrouiller l’acheminement d’hydrocarbures vers l’Europe au cas où un éventuel conflit surviendrait entre une Europe, jugée trop russophile ou trop alignée sur le BRIC, et les Etats-Unis (où ceux-ci joueraient immédiatement, contre nous, la “carte islamique modérée”, et la “carte qatarie”, et, pour les sales travaux, la carte d’Al Qaeda, comme en Libye); enfin, 4) le tracé dit “Blue Stream”, qui doit acheminer le gaz russe en direction de la Turquie, pauvre en hydrocarbures. Le projet “Blue Stream” explique, qu’en dépit d’une inféodation à l’OTAN, d’une fidélité réelle à l’alliance américaine malgré le rideau de fumée de la diplomatie néo-ottomane et islamisante, la Turquie compose avec la Russie, même si celle-ci s’oppose au tracé “Nabucco” et privilégie le tracé “South Stream”, qu’elle estime suffisant. Les rapports russo-turcs ont toutefois été troublés par la fameuse affaire “Ergenekon” (cf. infra), mise en exergue par le gouvernement Erdogan, qui y voyait un complot contre la nouvelle orientation néo-ottomane et néo-islamisante que son parti, l’AKP, impulsait. Le mouvement “Ergenekon” aurait été une nouvelle mouture du panturquisme laïque, jadis anti-soviétique et anti-russe (avec les généraux Enver et Çakmak), mais devenu pro-russe sous l’influence du nouvel eurasisme, théorisé actuellement en Russie, notamment par le penseur politique Alexandre Douguine.

 

Voilà pour la nouvelle donne sur le théâtre proche-orientale et est-méditerranéen.

 

Du “Tanzimat” à Atatürk

 

Pour comprendre la dynamique à l’oeuvre, il faut expliciter préalablement quelques mots-clefs. Sous le sultanat, au 19ème siècle, des esprits “éclairés” (inspirés par les acquis positifs du despotisme éclairé de la seconde moitié du 18ème en Europe) suggèrent des réformes visant à redonner de la puissance à l’Empire ottoman en recul; ce train de réformes s’est appelé “Tanzimat” et s’est inspiré, dans la deuxième phase de son développement, des réformes impulsées par l’ère Meiji au Japon. C’est l’époque où les Ottomans se maintiennent dans les Balkans mais perdent la Roumanie, première puissance orthodoxe, jadis inféodée à l’Empire ottoman, qui accède à l’indépendance, avec l’appui européen mais surtout russe. La réforme “Tanzimat” vise un réaménagement intérieur sans toutefois pouvoir arrêter la déliquescence dans les Balkans, pièce maîtresse de l’Empire et principal réservoir humain (non musulman!). Cette ère de réformes culminera en 1908 avec la révolution des “Jeunes Turcs”, suite à l’annexion du centre névralgique des Balkans, la Bosnie-Herzégovine, par l’Autriche. En dépit de leur volonté première de s’aligner sur l’Occident français et anglais, les “Jeunes Turcs”, qui sont hostiles à la Russie, troisième puissance de l’Entente, basculent dans l’alliance allemande, ce qui induit Londres et Paris à faire éclore en Syrie et au Liban un “nationalisme arabe libéral” pour fragiliser l’Empire ottoman au Levant et le couper ainsi de ses possessions arabes, saoudiennes et égyptiennes. Dans le sillage des “Jeunes Turcs” naît l’idéologie panturquiste ou pantouranienne, visant l’unification en un seul bloc de tous les peuples turcs depuis l’Anatolie jusqu”au “Turkestan chinois” (le Sinkiang actuel). La première guerre mondiale, on le sait, conduit au démantèlement de l’Empire ottoman. Il est bon de le rappeler dans le contexte actuel car ce démantèlement avait contraint les Turcs à ne plus évoquer l’ottomanisme (phase de leur histoire considérée comme “révolue”). Aujourd’hui, le concept refait surface et l’abolition du califat, consécutive de la victoire des nationalistes kémalistes au début des années 20, est subrepticement rendue caduque, du moins en idée, par le recours à un “cadre islamique”, dans lequel la Turquie envisage de jouer un rôle majeur, comme au temps du califat, officiellement défunt. Au-delà de toutes les vicissitudes vécues par la Turquie de 1922 à l’avènement d’Erdogan, début du 21ème siècle, une Turquie strictement nationaliste, ethniquement turco-centrée, repliée sur le seul territoire anatolien, est une Turquie sans pétrole, sans réels débouchés pour son industrie en plein développement, puisqu’elle a renoncé aux régions kurdes et pétrolifères de Kirkouk et de Mossoul lors de la signature du Traité de Lausanne en 1923. Le néo-ottomanisme vise à renouer avec les zones ayant jadis appartenu à l’Empire ottoman et à sortir du cadre de plus en plus étroit de l’Anatolie ( vu la démographie galopante et le boom économique).

 

Laïcisme et hittitisme

 

Le sursaut kémaliste, après le désastre de la première guerre mondiale, est aussi et surtout une réaction à l’invasion grecque de 1921-22, laquelle avait annexé la Thrace et la région de Smyrne qui permettait à l’armée grecque de lancer aisément des promenades militaires dans les profondeurs territoriales anatoliennes. On lira avec profit le livre que l’historien et écrivain anglais Giles Milton a consacré à la tragédie de Smyrne, abandonnée par les Britanniques et les Américains à l’invasion turque. Pour surmonter l’émiettement potentiel du nouvel Etat turc fort hétérogène dans sa population (47 groupes ethniques et religieux) sans recourir à l’islam, qu’il détestait, Kemal Atatürk invente un “mythe hittite”: le nouvel Etat est l’héritier, non pas des hordes turques venues d’Asie centrale, non pas des bandes arabes qui y ont amené l’islam, mais d’un peuple indo-européen qui a bâti un empire en Anatolie et a fait face aux autres empires (souvent sémitiques) de son époque et à l’Egypte des Pharaons. Kemal Atatürk s’inscrivait ainsi, ou croyait s’inscrire, dans le club des nations modernes européennes. Son laïcisme et son “hittitisme”, version turque “mythologisée” du modernisme européen, doivent constituer un bastion contre l’obscurantisme arabe/sémitique, comme l’Empire hittite avait été une civilisation indo-européenne face à des empires plus autoritaires et plus hiérarchisés, en tout cas de facture non “européenne”. Cette vision sera d’abord contestée par le panturquisme ou pantouranisme qui se revendiquera des hordes de la steppe, tout en demeurant laïque comme l’était par ailleurs Atatürk. Avec Erbakan et Erdogan, l’idéologie d’Etat glisse à nouveau vers l’islam et se revendique du double héritage turc et islamique, celui où la steppe s’est alliée au Califat de Bagdad au 11ème siècle.

 

Pendant la deuxième guerre mondiale, la Turquie, au départ, proclame sa neutralité, après avoir récupéré sur la France cette portion de la Syrie que l’on appelait alors le “Sandjak d’Alexandrette” (1939). Au moment où les armées allemandes victorieuses s’enfoncent dans le territoire soviétique, s’approchent du Caucase et de la Volga lors de la “Vormarsch” de 1942, un groupe de militaires panturquistes, regroupés autour du Général Çakmak, chef de l’état-major, proposent aux Allemands à Berlin une entrée en guerre de la Turquie, moyennant cession du Caucase et de toutes les républiques soviétiques turcophones d’Asie centrale. Ces projets sont jugés délirants à Berlin. L’Allemagne aurait servi de “janissaire” pour la création d’un Empire pantouranien, sans recevoir de réelles compensations et, pire, en voyant ces conquêtes sur l’URSS menacées exactement aux mêmes points que l’était l’ancienne Russie d’Ivan le Terrible à Catherine la Grande. En 1945, au moment où la Turquie déclare la guerre à l’Allemagne, les comploteurs panturquistes sont arrêtés, condamnés à de lourdes peines de prison mais rentrent chez eux au bout de quelques semaines... Parmi eux, un homme qui fera parler de lui: le Colonel Türkes du parti MHP.

 

Après 1945: démocratie, retour du religieux et destin tragique d’Adnan Menderes

 

Après 1945, la Turquie opte pour l’inféodation à l’OTAN. Pour prouver sa bonne volonté, elle paie le prix du sang, en envoyant plusieurs bataillons en Corée pour appuyer les Américains. Les pertes ont été lourdes. L’installation en Turquie de missiles américains pointés sur la Crimée et l’Ukraine entraîne la crise de Cuba de 1962: les Soviétiques ripostent en installant chez Castro des engins ballistiques équivalents, pointés sur le Texas et la Floride. Cependant, selon leur bonne habitude, les Etats-Unis réclament dès 1945 l’installation d’une démocratie pluripartite à l’occidentale en Turquie. L’installation d’un tel régime a tout de suite impliqué le retour de la religion, auquel aspirait une bonne partie de l’électorat dans les campagnes anatoliennes. Adnan Menderes, à la tête de son “Parti Démocratique”, gouverne la Turquie de 1950 à 1960 et édulcore la rigidité des principes laïques kémalistes, à la fureur des militaires et des nationalistes panturquistes, qui ont dû lâcher du lest en abandonnant sous pression américaine leur parti unique, le “Parti Républicain du Peuple”. Ces principes kémalistes, posés comme intangibles par les fondateurs de la République, sont au nombre de six: laïcité, nationalisme, populisme, étatisme, république, révolution. En 1961, un putsch renverse Menderes: il est condamné à mort et exécuté. Le putsch de 1961 sert de modèle régulateur à la démocratie turque: si le système pluripartite génère de l’anarchie ou enfreint l’un des six “principes”, l’armée intervient, rétablit l’ordre puis réinstalle la démocratie sur des bases rénovées. En 1971, l’armée interviendra à nouveau, suite aux conflits idéologiques et aux violences entre factions d’extrême-gauche et factions d’extrême-droite. En 1981, nouveau putsch rectificateur, sous l’impulsion du Général Kenan Evren, qui fait quelques concessions en faveur de la religion, permettant notamment de l’enseigner dans les écoles et lycées d’Etat. En 1997, les chars paradent, menaçants, dans les rues pour évincer l’islamisant Erbakan. Le recours au putsch constitue donc un expédient récurrent dans le fonctionnement de la démocratie turque, imposée au pays, fin des années 40, par les Etats-Unis, qui ferment les yeux quand les chars sortent de leurs casernes car la Turquie, membre de l’OTAN, est “un Etat sur la ligne de front”.

 

Trois facteurs idéologiques majeurs

 

Toute la période de l’histoire turque, avant Erdogan, est donc déterminée par trois facteurs idéologiques majeurs: 1) le laïcisme républicain (ou “kémalisme”), très intransigeant quant au respect de ses principes, une intransigeance qui a notamment imposé au parlement et au pouvoir civil certaines prérogatives de l’armée qui, entre autres choses, soumet son budget aux députés qui n’ont pas le droit de le contester; 2) le panturquisme laïc, représenté politiquement par le MHP, mais plus diffus dans la société et dont la laïcité a été édulcorée, elle aussi, dans la mesure où ce parti déclare représenter 2500 ans d’histoire turque, mille ans d’islam turc et quelques décennies de nationalisme républicain, comme couronnement et formule définitive de l’histoire du pays; 3) la religion, qui, avant Erdogan, subit deux échecs dans sa volonté de se ré-affirmer, d’abord avec Menderes, qui a fini tragiquement suite au putsch de 1961, ensuite avec Erbakan, démissionné sous la pression de l’armée. Face à ces deux échecs, comment expliquer, dès lors, qu’Erdogan a pu prendre le pouvoir, s’y accrocher et refouler le laïcisme républicain voulu par Mustafa Kemal?

 

Erbakan, Erdogan et le mouvement “Milli Görüs”

 

Pour comprendre la révolution erdoganienne, il faut commencer par situer le personnage. Il passe sa jeunesse dans les quartiers pauvres du port d’Istanbul. A quinze ans, il adhère au mouvement national-religieux “Milli Görüs”, dont Erbakan est une figure de proue. Il fréquente ensuite une école du réseau “Hatip”. Ce réseau scolaire forme des imams et des prédicateurs et axe son enseignement sur la rhétorique. Il communique à ses étudiants une synthèse islamiste, conservatrice et nationaliste. Les activités de “Milli Görüs” en Europe sont surveillées, notamment par le “Verfassungsschutz” allemand car il compterait 87.000 adhérents rien qu’en Europe occidentale, ce qui, d’après les estimations, représenterait 300.000 électeurs au moins (qui ont presque tous la double nationalité), car dans le système turc, très patriarcal, c’est le chef de famille qui décide du comportement politique des siens. Le mouvement anime également 514 centres culturels et de prière en Europe, dont 323 en Allemagne. La force d’Erdogan, grâce aux talents de rhétoricien qu’il a acquis dans le réseau scolaire “Hatip”, c’est d’avoir réinterprété le message: la synthèse islamiste, conservatrice et nationaliste de “Milli Görüs” et du réseau “Hatip” débouchera, via Erdogan, sur l’idéal d’une “nouvelle grande Turquie”, sur un conservatisme islamisant servant de modèle à toutes les anciennes composantes musulmanes de l’Empire ottoman (cf. le néo-ottomanisme du Prof. Davutoglu) et sur une ré-islamisation de la société turque envers et contre les volontés de l’armée et des forces laïques. Pour y parvenir, dans une première phase, Erdogan donnera à son gouvernement un “masque démocratique” qui va séduire l’UE.

 

L’ouverture aux techniques et aux sciences chez Saïd Nursi

 

Erdogan a reçu d’autres influences, qu’il me paraît important d’évoquer, pour bien comprendre les ressorts qui animent aujourd’hui la “Turquie néo-ottomane et ré-islamisée”. Pour Jürgen P. Fuss, un journaliste allemand qui a vécu et publié longtemps en Turquie, Erdogan a subi également l’influence d’un penseur turc (ethniquement kurde), Saïd Nursi. Ce penseur du 19ème siècle ottoman estime que l’islam, en tant que religion et que vision du monde, doit correspondre aux temps qui courent, tirer profit des innovations techniques et scientifiques pour ne pas les laisser en exclusivité aux autres, à ses ennemis. Saïd Nursi s’aligne ainsi sur d’autres penseurs du monde musulman de son époque comme l’Egyptien Abd al-Rahman al-Djabarti (1754-1825) ou l’Indien Sayyid Ahmad Khan (1817-1898). Pour donner corps à son idée, Saïd Nursi crée le “Jama’at-Un”, mouvement réformateur et religieux qui inclut dans ses réflexions la technique et les sciences modernes (européennes), ce qui doit déboucher sur une synthèse rationnelle, appelée à fortifier le mouvement “Tanzimat”, équivalent ottoman de l’ère Meiji japonaise. Vingt millions de musulmans appartiendraient aujourd’hui à ce mouvement fondé jadis par Saïd Nursi, qui avait amorcé ses réflexions au départ d’un constat, celui du recul général de l’aire civilisationnelle musulmane au 19ème siècle, face aux puissances occidentales. Atatürk s’est inspiré de lui mais a rejeté son message religieux. Erdogan accepte le message de Nursi, tant sur le plan rationnel (technique et scientifique) que sur le plan religieux.

 

L’influence de Fethullah Gülen

 

Erdogan a ensuite bénéficié de toute l’influence de Fethullah Gülen, un industriel turc milliardaire, prônant l’ascétisme et l’appliquant à lui-même, se nourrissant exclusivement de soupe et de yoghurt. Pour Gülen, l’origine de toute décadence se trouve dans la soif de luxe, l’extravagance et le déclin spirituel. Pour faire triompher ses visions spirituelles et ascétiques, Gülen a financé 200 fondations dans 54 pays; il a sponsorisé cinq universités en Asie centrale turcophone; il dirige simultanément 500 entreprises et possède une banque, l’”Asya Finans Bankasi” (= “Banque financière d’Asie”). Il est très actif dans le secteur immobilier, contrôlant 300 agences, 46 foyers créés pour activités diverses et seize instituts d’enseignement, sans compter d’innombrables commerces. Dans le domaine des médias, Gülen contrôle 25 stations de radio, l’hebdomadaire “Aksyon” (= “Action”), sur le modèle du “Spiegel” allemand, et le quotidien “Zaman”. Il est le chef de la fraternité des “Nourdjou”, dont les racines sont profondes dans l’histoire turque et ottomane. Au départ, Gülen avait soutenu le parti “Refah” d’Erbakan puis, après sa rupture avec ce dernier car il avait des vues différentes quant aux méthodes politiques (comme par ailleurs Erdogan), il a soutenu les partis sociaux-démocrates. Il influence également le mouvement des Naksibendis, créant un lien entre “Nourdjou” et “Naksibendis”, deux mouvements religieux très influents, notamment en Bosnie. Un bon tiers des Naksibendis soutient aujourd’hui l’AKP d’Erdogan.

 

Fethullah Gülen prêche “l’amour et la tolérance”, du moins en apparence car ce masque “boniste” camoufle un discours dirigé contre les militaires, diffusé pour opérer à terme un changement de régime, une dislocation de l’“Etat profond”, dirigé par les militaires laïques: le but est révolutionnaire même si le discours peut parfois paraître lénifiant. Gülen a notamment dirigé une campagne hargneuse contre un professeur d’origine turc de l’Université de Münster en Allemagne, Muhammad Sven Kalisch, qui enseigne la théologie islamique mais dont le message était jugé trop “libéral”. Le système conceptuel pensé par Gülen se veut application de la “taqiyya”, estime Fuss, c’est-à-dire de l’art de la dissimulation, inspiré, dans toute l’aire civilisationnelle arabo-musulmane par le “Livre des ruses”. Selon cette optique, il faut travailler avec patience et opiniâtreté pour renverser un Etat dominé par l’adversaire, en l’occurrence les militaires et les laïques, sans se faire repérer par ceux-ci. D’où, il faut présenter un extérieur moderne et affable, tout en cultivant, en secret, une intériorité ultra-conservatrice (islamiste), visant le changement de régime, au nom de la religion. Toujours d’après Jürgen P. Fuss, les deux influences, celle de Nursi et celle de Gülen, sont également déterminantes dans l’éclosion de l’erdoganisme.

 

La carrière politique malheureuse d’Erbakan

 

Comment Erdogan va-t-il déployer sa carrière politique? Dans un premier temps, il se mettra dans le sillage de Necmettin Erbakan (1926-2011), décédé au début de cette année, le 27 février. Erbakan a été un politicien maladroit. Sa carrière est une longue suite d’échecs, alors qu’il avait bien des atouts en main. Jugeons-en:

En 1970, Erbakan fonde le MNP (=”Parti de l’Ordre National”), qui, un an plus tard, est interdit sous pression des militaires.

En 1973, il fonde le MSP (= “Parti du Salut National”) qui lui permettra d’être vice-premier ministre dans plusieurs gouvernements de coalition entre 1974 et 1978.

En 1980, Erbakan est arrêté après le putsch du Général Evren. Tous les partis politiques sont interdits.

En 1982, Erbakan est condamné à dix ans d’interdiction politique.

En 1987, il devient le président du “Refah” (= “Parti du Bien-être”), avec lequel il connaîtra plus de succès.

En 1996, il devient premier ministre et, l’année suivante, il est “démissionné” sous pression des militaires. Le 20 mars 1998, il est condamné à un an de prison. Il fonde ensuite plusieurs partis qui ne donnent rien et, en 2003, il est condamné pour corruption à deux ans de prison.

 

La carrière d’Erbakan se solde donc par un échec politique total, qui est aussi l’échec d’une première vague de ré-islamisation. De 1969 à 2004, soit en trente-cinq ans d’activités politiques à haut niveau, Erbakan aura été premier ministre pendant 367 jours! Conclusion de Fuss: Erbakan n’a pas appliqué le “Livre des ruses”.

 

Après Erbakan, une nouvelle politique conservatrice et islamique

 

Lorsqu’Erdogan avait trente-deux ans, il était membre du comité exécutif du “Refah”. Il se dispute alors avec Erbakan, sans doute jaloux de l’ascension rapide et de l’ascendant de son cadet. Erbakan ne cessera plus de lui mettre des bâtons dans les roues, lors de sa candidature à la mairie d’Istanbul et lors d’élections législatives pour le Parlement d’Ankara. Erdogan veut gommer les apsérités du discours de ré-islamisation sans renoncer aux principes de base, comme l’enseigne le réseau scolaire “Hatip”. Mais le but ultime est de jeter bas la constitution laïque imposée jadis par Atatürk. Erdogan va déclarer vouloir “parachever l’oeuvre d’Atatürk” pour aboutir à un “nouvel empire ottoman” réalisé “dans la paix et la démocratie”. Quelle hypothèse pourrait-on émettre face à une telle déclaration, renforcée depuis par l’accession en mai 2009 au poste de ministre des affaires étrangères d’Ahmed Davutoglu, un géopolitologue surnommé le “Henry Kissinger” turc? Ce néo-ottomanisme ne recevrait-il pas le soutien indirect des Etats-Unis, grillés dans le monde arabe et soucieux de se faire discrets dans la région? Ensuite, les Etats-Unis, qui souhaitent malgré tout renouer des liens avec l’Iran, en dépit des discours bellicistes prononcés dans les médias, ne servent-ils pas de la Turquie comme intermédiaire? Ce soutien à un néo-ottomanisme ne vise-t-il pas à restaurer sous d’autres formes et d’autres signes l’aire couverte jadis par le “Pacte de Bagdad”, prélude à une unification, sous l’égide américaine, du “Grand Moyen Orient”, comprenant les anciennes républiques musulmanes et turcophones de l’Asie centrale ex-soviétique? Edward Luttwak, historien et géopolitologue dont l’oeuvre inspire toujours les grands stratégistes américains autour de Zbigniew Brzezinski, ne vient-il pas de sortir un nouveau chef-d’oeuvre, intitulé, “La stratégie de l’Empire byzantin”, une stratégie impériale (et de résistance impériale longue face à de multiples adversités) qui a été appliquée sur l’espace même que couvrait l’Empire ottoman en pleine ascension, notamment face aux incursions arabes et face à l’Empire perse?

 

Revenons à la carrière politique d’Erdogan, bien esquissée par Fuss. A quinze ans, en 1969, il est un jeune militant de “Milli Görüs”; en 1975, à 21 ans, il est le président des jeunes du MSP d’Erbakan dans le district portuaire de Beyoglu dans le Grand Istanbul. En 1976, à 22 ans, il est le Président des jeunes de tout le Grand Istanbul. En 1983, dès que les partis politiques sont à nouveau autorisés, il rejoint le “Refah” d’Erbakan. En 1989, il se heurte à Erbakan et réussit à s’imposer. En 1994, il est élu maire d’Istanbul et le restera jusqu’en 1998. Dans la gestion de la grande ville, il montre des qualités incontestables, comme Chirac à Paris dans les années 70. Il concentre ses efforts sur la propreté (une fois de plus comme Chirac avec son armée de balayeurs africains), sur la mobilité, sur l’approvisionnement en eau, obtient des crédits remboursés par des publicités sur les bus et dans les espaces publics et inaugure le métro (même si ce n’est pas lui qui a fait commencer les travaux). Parallèlement à ces travaux d’édilité à la romaine, il tente d’imposer les premières mesures “islamistes”, en interdisant la vente et la consommation d’alcool aux terrasses, sous prétexte d’éliminer les poivrots de la rue. Ce sera un échec. Ensuite, il essaie de supprimer les bus scolaires mixtes: ce sera un nouvel échec. Pour Faruk Sen, professeur allemand d’origine turque, et président de l’“Association des Etudes Turques” à Essen dans la Ruhr, le bilan du mayorat d’Erdogan à Istanbul est marqué d’ambivalence: il a effectué d’excellents travaux d’édilité mais son projet intime, celui de ré-islamiser la ville, a été un échec. Sa popularité, il la doit à des mesures pragmatiques, non tributaires de l’idéologie religieuse néo-islamiste qu’en revanche il n’a pas réussi à imposer. Cependant, il est parvenu à se donner une excellente présence médiatique.

 

Changements en Turquie

 

En 1998, suite aux démonstrations de force des blindés de l’armée turque et la démission forcée d’Erbakan, Erdogan est jugé et condamné à dix mois de prison et à l’inéligilité à vie par un tribunal militaire qui a préséance sur tous les tribunaux civils. Le motif de la condamnation est “conspiration contre la sûreté de l’Etat”, comme pour Erbakan. Cependant ces condamnations sont prononcées dans un contexte différent de celui des décennies antérieures. La Turquie a changé: les villes, surtout à l’Ouest, étaient généralement en majorité kémalistes, tandis que les campagnes anatoliennes étaient conservatrices et islamisantes; l’exode massif des campagnards vers les villes a installé dans la frange urbaine kémaliste une forte population d’origine rurale et d’idéologie conservatrice-islamiste. C’est cela qui avait déjà fait le premier succès d’Erdogan au mayorat d’Istanbul. C’est ce même glissement d’ordre démographique qui fera également ses succès ultérieurs.

 

On sait qu’Erdogan accorde beaucoup d’importance au port du voile par les femmes (à commencer par sa propre épouse), signe d’anti-kémalisme dans la mesure ou Atatürk avait moqué le port du voile et avait préconisé une mode moderne, différente de l’Europe, turque en son essence, et turque aussi par l’incontestable talent de ses stylistes très originaux, mais forcément non islamique. Le voile est donc signe d’islamité, de refus de l’occidentalisation imposée dès les années 20, signe aussi d’incompatibilité entre styles de vie propres à deux aires civilisationnelles. Nous avons là, dans le chef d’Erdogan, un paradoxe: il se veut “européen” et réclame l’adhésion pleine et entière de son pays à l’UE: il a adopté un style politique “démocratique”, pour plaire aux eurocrates, tout en cassant, par la même occasion, la logique “militariste” et “dirigiste” du kémalisme et des militaires, logique jugée peu démocratique dans les allées des parlements de Bruxelles et Strasbourg. Mais en dépit de cette “européisme”, tout de façade, et dicté par l’intérêt matériel (obtenir des subsides européens et déverser le trop plein démographique anatolien en Allemagne et ailleurs en Europe), il affirme clairement l’incompatibilité absolue entre les deux civilisation, l’islamique et l’européenne.

 

Erdogan et la théorie huntingtonienne du “choc des civilisations”

 

Le “démocratisme” affiché par Erodgan, selon les règles préconisées par le “Livre des ruses”, annulle la possibilité d’un nouveau putsch militaire, qui gèlerait toute négociation avec l’UE. En 1945, les Etats-Unis avaient réclamé la démocratisation mais avaient, chaque fois, minimisé les coups d’Etat de l’armée, les avaient considéré comme de petits dérapages sans grande importance. Erdogan, par son attitude rusée, capable de vendre un islamisme (à la Erbakan) aux Européens séduits par les seules apparences, obtient en 2005 que s’ouvrent les pourparlers en vue de l’adhésion définitive de la Turquie à l’UE, alors que, paradoxalement, il appartient à une sphère idéologique qui souligne sans cesse l’incompatibilité entre les deux aires civilisationnelles, dans la mesure où l’AKP d’Erdogan, selon le turcologue français Tancrède Josseran, “essentialise la notion de civilisation” comme l’avait fait aux Etats-Unis Samuel Huntington, dans un article de “Foreign Affairs” d’abord (en 1993), puis dans un célèbre ouvrage, best-seller dans le monde entier. L’Europe, dans ce contexte où les Turcs s’affirment clairement pour ce qu’ils sont et affirment virilement leurs choix, ne se déclare pas chrétienne, refuse même d’être un “club chrétien” et se pose comme un “carrefour” prêt à accepter en son sein l’islam ou toute autre religion d’origine extra-européenne. Vu d’Ankara, ou de toute autre capitale musulmane, c’est là un aveu de faiblesse, une attitude “femelle” de soumission. Erdogan profite de cette brèche pour introduire, à terme, un islamisme turc virulent et intransigeant dans la sphère de l’UE. Mais simultanément, il s’ouvre au monde arabe, garde des pions en Asie centrale malgré l’échec du pantouranisme de son prédécesseur Özal face au refus du Président kazakh Nazarbaïev, négocie avec l’Iran, s’aligne parfois sur le BRIC, scelle des accords nucléaires civils avec Téhéran au nom de la politique de “zéro problèmes avec les voisins” mise en oeuvre par Ahmed Davutoglu.

 

Sur le plan des droits de l’homme, Ali Bulaç, idéologue de l’AKP, signifie à l’UE que la Turquie a le droit d’exiger un “inventaire”, donc de faire le tri dans le corpus des droits de l’homme. Bulaç rejette par exemple l’idéologie des Lumières, ou, du moins, ce que les idéologues “droit-de-l’hommistes” entendent par là. L’Europe est, dit-il, “décadente” et la Turquie doit avoir la possibilité de s’immuniser contre les bacilles de cette décadence. Chez Erdogan, cela se traduit par: “Nous ne devons pas adopter les imperfections morales de l’Occident”.

 

“Turcs blancs” et “Turcs noirs”

 

La modernisation économique, sous l’impulsion de ce que d’aucuns nomment une sorte de “calvinisme” islamique, correspondant à certains schémes de la pensée de Gülen, s’opère principalement par un assouplissement du dirigisme qui servait de praxis au nationalisme kémaliste et militaire. Elle est portée aussi par le développement récent des zones est-anatoliennes, où les “Turcs noirs”, c’est-à-dire les Turcs pauvres et ruraux du centre et de l’Est de l’Anatolie, antérieurement soumis à la férule des “Turcs blancs” laïcisés et urbains de l’Ouest, ont développé tout un nouveau réseau de petites et moyennes entreprises. C’est dans ces régions jadis excentrées et peu développées que s’est effectué le “boom” économique turc. Les bénéficiaires de ce nouveau réseau anatolien votent pour l’AKP et imposent leur conservatisme islamisant aux anciennes élites laïques des villes de l’Ouest.

 

La nouvelle donne, c’est donc cette nouvelle Turquie, plus développée que dans les décennies de la seconde moitié du 20ème siècle. Voyons quelle a été, en gros, l’histoire politique du pays pendant ce demi-siècle.

 

◊1. Le premier gouvernement de Bülent Ecevit, social-démocrate laïque, est l’amorce d’une brillante carrière, commencée sous un gouvernement de coalition en 1973, avec le CHP (socialiste) et le mouvement d’Erbakan. Ecevit gère la crise de Chypre de 1974 et se montre réticent quant à l’adhésion turque à l’UE jusqu’en 1978. Après cette date, il en sera un fervent adepte.

 

◊2. Avec Süleyman Demirel et sa coalition regroupant l’ANAP (droite libérale), le MHP (ultra-nationaliste; “Loups gris” ou “idéalistes”) et le CHP (le parti du social-démocrate Ecevit), la Turquie recule sur le plan économique, le chômage croît et l’émigration vers l’Europe augmente. Malgré l’idéologie libérale de l’ANAP, le dirigisme turc est, d’après les observateurs libéraux, trop rigide. Les tensions augmentent entre extrême-droite et extrême-gauche, avec affrontements dans les rues. Pour mettre un terme à ce désordre, le Général Kenan Evren fomente et réussit un coup d’Etat qui supprime tous les partis existants. Mais il fait quelques concessions à l’islamisme, dans lequel il perçoit un rempoart contre l’idéologie subversive des gauches radicales et contre la droite radicale, encore panturquiste et laïque. Le Général Evren déploie aussi une première mouture de diplomatie “tous azimuts” vers les pays voisins, dans les Balkans comme au Proche-0rient ou en Egypte, ainsi qu’en direction de l’URSS. En ce sens, il est un précurseur laïque et kémaliste de Davutoglu...

 

◊3. Les militaires, par le truchement du “Conseil de Sécurité Nationale” (CSN), rédigent la nouvelle constitution de 1982. Selon les termes de cette constitution, tout gouvernement doit impérativement s’aligner sur les recommandations de ce CSN, ce qui, pour les observateurs de la CEE, est anti-démocratique. La Constitution du CSN admet toutefois, pour plaire aux religieux, que des cours de religion soient dispensés dans les écoles. En 1983, Türgüt Özal, proche des Nakshibendis, de la finance islamique et de l’idéologie néo-libérale en vogue depuis l’accession de Reagan à la présidence des Etats-Unis, accède au pouvoir. Les entreprises de la nouvelle aire de développement économique en Anatolie se développent jusqu’à la fin de l’ère Özal, qui meurt en 1993. Erbakan lui succèdera brièvement.

 

◊4. Après les soubresauts de l’ère Erbakan, la Turquie vit sous le deuxième gouvernement Ecevit qui est ébranlé par la crise économique de 2001 et par la fragmentation de la gauche turque. Cependant, Ecevit avait, avant 1999, amorcé des réformes, visant à lutter contre l’inflation (qui était de 80 à 100%!). Erdogan va tirer profit des mesures envisagées et amorcées par Ecevit.

 

Les idéologues de l’AKP

 

Dans les restes pantelants du “Refah” d’Erbakan, Gül et Erdogan prennent la direction et ne la lâchent plus. C’est le départ du nouveau mouvement conservateur islamiste, l’AKP. Erdogan est certes condamné à l’inéligibilité à vie, mais il est président du parti. Parmi les autres fondateurs, nous avons: 1) Binali Yildirim, qui milite pour un “internet propre”, donc pour la censure sur la grande toile; 2) Faruk Çelik, organisateur des “Turcs de l’étranger”, qu’il entend lier à la “mère-patrie”, envers et contre toute politique d’assimilation des Etats-hôtes, accueillant une immigration turque; 3) Ali Babacan, responsable des négociations avec l’UE; 4) Abdullah Gül, l’homme de la finance islamique de Djeddah, qui a vécu une expérience professionnelle en Arabie Saoudite et qui aurait des liens avec les Frères Musulmans (comme il l’aurait avoué à Bachar El Assad en août 2011). Gül, qui deviendra président de la Turquie, est un disciple de Necip Fazil Kisakürek, éditeur de la revue “Grand Orient”, proche de “Milli Görüs” et des Nakshibendi (comme Özal), proche aussi jadis du MHP du Colonel Türkes et auteur de nombreux essais et ouvrages visant à développer une historiographie anti-kémaliste. Pour Kisakürek, une conspiration mondiale a été et est toujours à l’oeuvre contre l’Empire ottoman et contre l’islam turc. Le kémalisme fait partie de cette conspiration. Parmi ses disciples, les militants du “Front des Combattants du Grand Orient Turc”, qui, parfois, n’hésitent pas à passer à l’action violente. L’histoire turque, pour Kisakürek et ses disciples, combattants ou non, est l’histoire d’un déclin permanent, une longue succession de “trahisons” et de “démissions”, ce qui doit amener tout théoricien politique lucide à “rejeter tout ce qui est réformiste depuis le 19ème siècle”. Le kémalisme, dans le cadre de cette vaste conspiration, a détruit l’essence spirituelle de la nation turque. L’objectif de cette oeuvre critique de Kisakürek est de faire émerger une nouvelle élite et de renverser les principes et les partisans du kémalisme. Sur le plan pratique, cela signifie qu’il faut, dans l’avenir, développer les relations économiques entre la Turquie et les pays musulmans. Le kémalisme a isolé la Turquie de l’Umma. De plus, le kémalisme est un “racisme” qui détruit tout à la fois l’identité turque et l’identité kurde (Nursi était kurde mais avant tout musulman et hostile à tout conflit kurdo-turc, au nom de l’indispensable unité de l’Umma).

 

On le voit: l’alliance entre Erdogan, Gül, et tous les autres auteurs conservateurs-islamistes cités, dont Çelik, puise à des sources diverses mais convergentes. C’est cette synthèse (ouverte par définition puisqu’elle allie différences et convergences) qui prendra la succession du dernier gouvernement républicain de Bülent Ecevit, devenu impopulaire à cause des mesures d’austérité prises pour contrer la crise. Elles feront trop de mécontents. Dès l’accession de l’AKP au pouvoir, suite aux élections du 3 novembre 2002, Erdogan devient premier ministre, le 9 mars 2003. Ces victoires de l’AKP ont encore été renforcées lors du scrutin suivant du 22 juillet 2007, qui a conduit à l’élection, par le Parlement, de Gül au poste de Président de la république. Le 30 juillet 2008, la cour constitutionnelle, jadis très zélée quand il s’agissait d’interdire des partis qui enfreignaient les principes du kémalisme, décide de ne pas faire dissoudre l’AKP. Pendant cette période des premiers triomphes de l’AKP, cinquante-quatre modifications constitutionnelles sont votées pour détricoter l’héritage kémaliste, permettant notamment de suspendre l’inéligibilité d’Erdogan.

 

2002: les promesses de l’AKP et les chiffres réels

 

Lors de la campagne électorale de 2002, l’AKP promet que tout “ira mieux”. Elle promet une croissance économique, la création d’emplois, la diminution de l’inflation, la réforme de l’assurance sociale, une consolidation démocratique, le renforcement des droits de l’homme et la liberté d’opinion et de presse assortis d’une réforme de la justice (tout cela pour jeter de la poudre aux yeux des eurocrates, pour se tailler un bel alpaga de “démocrate” et pour éliminer les militaires, détenteurs du “pouvoir profond”). En réalité, le bilan du nouveau pouvoir civil et islamisant est plus mitigé: le PIB a certes augmenté (2003: +5,3%; 2004: +9,4%) puis décliné (2009: -4,7%) pour reprendre en 2010 (+4%); l’inflation était de 47% en 2002 (c’est elle qui provoque le départ du dernier gouvernement Ecevit) pour se stabiliser à 8,5% en 2010 (elle avait été au plus bas en 2005: 8,1%), alors que la Roumanie, le plus mauvais élève de l’UE affiche un taux d’inflation de 6,1%. La moyenne de l’UE était de 2,1% en 2002 (Turquie: 47%) et 1,9% en 2010 (Turquie: 8,5%). Le chômage a partout baissé en Turquie mais les emplois offerts ne sont guère durables, pour une main d’oeuvre fort peu qualifiée, vu le haut taux d’analphabétisme. La syndicalisation des travailleurs demeure faible. La démographie galopante augmente sans cesse la masse des sans emploi qui subit en plus la concurrence de l’Asie, notamment dans l’industrie textile. En 2002, le chômage était de 10,3%; en 2010, il est de 12,2%. La croissance, on oublie trop souvent de le dire, est essentiellement due aux sommes versées à la Turquie par l’UE: ainsi, en 2002, l’UE a versé 126 millions d’euros; en 2010, 654 millions d’euro; en 2011, les chiffres prévus sont de 782 millions d’euro et, pour 2013, les prévisions se chiffrent à 935 millions d’euro.

 

Sur le plan de la “démocratisation”, rappelons que l’AKP a imposé le scrutin majoritaire, lui assurant le nombre voulu de sièges. Les victoires qu’il enregistre sont importantes mais le parti ne dépassait pas au départ le tiers du total des voix. En 2007, suite à sa victoire lors des élections de juillet, l’AKP a obtenu 47% des voix mais 62% des sièges: l’écart est plus grand que dans les autres pays européens qui pratiquent le scrutin majoritaire. C’est là un déficit de “démocratie pure”. Sous l’AKP, partis et associations kurdes ont été interdites, comme auparavant sous les divers régimes kémalistes. Plusieurs journalistes kurdes ont été arrêtés et condamnés, dont, en décembre 2010, Eminé Demir, condamnée à 138 ans de prison, et Vadat Kursun, condamné à 525 ans de prison. Chaque condamné était jugé à chaque fois pour chaque exemplaire du journal, où était paru un article jugé “litigieux”, ou pour chaque article incriminé, ce qui explique le nombre impressionnant d’années de prison qu’ils écopaient.

 

En janvier 2011, l’OCDE demande à la Turquie que soit levée l’interdiction faite aux citoyens turcs de visiter 5700 sites de l’internet. A partir de 2010, tout citoyen turc reçoit gratuitement une boîte de courrier électronique mais exclusivement sur le serveur de l’Etat. L’adresse “e-mail” est donc obligatoire et figure sur la carte d’identité. L’UE et l’OCDE en sont demeurés perplexes...

 

Dans le domaine de la justice, l’AKP a nommé 4000 nouveaux procureurs (à sa dévotion?), tout en maintenant les entorses au droit de la défense; ainsi, l’avocat d’un prévenu ne peut pas faire partie d’une association proche de ce dernier, sinon il est suspendu du barreau pour deux ans...! D’où, grosso modo, nihil sub sole novi.

 

Les quatre plans d’Erdogan

 

En fait, selon Fuss, Erdogan et l’AKP visent à parfaire quatre plans.

 

PREMIER PLAN: Détruire le pouvoir des militaires.

Avant 2002, l’armée, que l’on a aussi appelé l’“Etat profond”, détenait dans le pays le pouvoir absolu, avec droit de préséance sur toute politique ou instance civiles. Les années 2002-2006 verront se dérouler les premières escarmouches puis les premiers affrontements sérieux entre le nouveau pouvoir et les restes de l’ancien régime en place. Les dernières victoires des militaires datent effectivement de 2006. Cette année-là, l’AKP lance un procès contre le général Yasar Büyükanit, commandant-en-chef des forces terrestres. Sous la pression de l’armée, la plainte est retirée. Le procureur est suspendu et ne peut même plus travailler comme simple avocat. L’armée, en 2006, est demeurée provisoirement maîtresse de la situation et a conservé sa préséance par rapport à la magistrature. L’AKP va contre-attaquer en 2008, lors de la fameuse affaire “Ergenekon”. Le 21 mars, l’affaire éclate, suivie immédiatement de treize arrestations, dont un recteur, plusieurs journalistes et le président du “Parti Ouvrier”. Le 1 juillet, nouvelle vague d’arrestations. Vingt-et-une persones sont interpellées par la police dont deux généraux d’active et quatre généraux à la retraite, ainsi que le président de l’Association “Souvenir d’Atatürk”, ce qui est très symbolique. D’autres journalistes se retrouvent dans cette “charette”, ainsi que le président de la chambre du commerce d’Ankara. Tous sont accusés de “terrorisme” et passent devant des tribunaux civils, y compris les militaires. Les eurocrates applaudissent: pour eux, c’est une manifestation de “démocratie”. En 2010, 196 officiers sont à leur tour incriminés. Le bras de fer continue. Mais d’ores et déjà, on peut prévoir la victoire de l’AKP mais, contrairement à ce que peuvent bien penser les Européens naïfs, ce n’est pas une victoire démocratique, nous explique Fuss, c’est l’arbitraire qui change de camp.

 

DEUXIEME PLAN: Renforcer l’autonomie des colonies turques en Europe (sous l’impulsion de Çelik).

Ce plan est de loin le plus inquiétant pour les Européens, les autres concernant soit la Turquie (libre d’agencer sa politique comme elle l’entend sur le plan intérieur) soit le Proche- et le Moyen Orient (sphère géopolitique dans laquelle elle se trouve et où elle a le droit de s’affirmer, même si cela contrarie des intérêts européens ou russes; c’est alors aux Européens et aux Russes de se défendre). A l’évidence, ce deuxième plan implique une ingérence directe dans la politique quotidienne de plusieurs Etats d’Europe centrale et occidentale. Les directives de cette politique d’ingérence, à pratiquer par l’intermédiaire des diasporas turques d’Allemagne, des Pays-Bas, d’Autriche, de Belgique et d’autres pays d’Europe occidentale et centrale ont été lancées par Erdogan lui-même à l’occasion de deux discours, l’un tenu à Cologne en 2008, l’autre à Düsseldorf, cette année, en 2011. Des ressortissants des diasporas belges et néerlandaises étaient présents en masse lors de ces meetings, proches des frontières entre l’Allemagne et les pays du Benelux. Ces deux discours, appelant à refuser toute forme d’intégration et/ou d’assimilation à la culture allemande ou européenne, à constituer des minorités turques de blocage dans les assemblées locales ou nationales, font bien évidemment fi des règles diplomatiques d’usage: on pourrait les interpréter comme des déclarations de guerre (et de guerre sainte, de djihad) à l’encontre des polities européennes, ou, au moins, comme un scandaleux déni des règles de bienséance diplomatique, ce qui est un indice très net que la Turquie cherche à se dégager de l’européisme que voulait lui imposer le laïcisme d’Atatürk. Erdogan, comme Çelik, appelle à créer des “communautés solidaires”, détachées du peuple-hôte et destinées à promouvoir une politique turque en Europe, envers et contre les intérêts naturels des puissances qui ont accueilli des immigrants turcs. Prôner une assimilation des immigrés turcs serait, selon Erdogan, un “crime contre l’humanité”. Les hommes et les femmes politiques d’origine turque, élus par les diasporas dans les communes belges, allemandes ou néerlandaises, doivent se mobiliser pour favoriser les plans de la “mère-patrie”, donc se constituer en “cinquième colonne”, prête à abattre tout pouvoir en place qui ne sacrifierait pas aux caprices de l’AKP. Complot contre la sûreté de l’Etat? Assurément! Mais l’inféodation à l’OTAN, qui inhibe tout réflexe sain dans les pays adhérents, n’autorise pas le lamentable personnel politique en place à réagir vigoureusement contre cette véritable déclaration de guerre, prononcée par un homme cohérent et sûr de lui, qui se permet ce coup d’éclat dans un pays gouverné par des personnages falots et “impolitiques” (Julien Freund), un “impolitisme” dû à une crédulité idéologique imbécile, cultivée depuis des décennies, qui conduit le politicien à perdre tout sens des réalités et à idolâtrer les “nuisances idéologiques” (Raymond Ruyer). A l’évidence, tous les citoyens d’origine turque ne sont pas d’accord avec cette politique d’ingérence, préconisée par Erdogan; bon nombre d’entre eux souhaitent une intégration à la culture du pays-hôte, surtout s’ils sont originaires de la quarantaine de minorités ethniques et religieuses qui compose la population turque, minorités que les pouvoirs en place n’ont jamais ménagées. Mais le poids électoral de la fraction de la diaspora favorable à Erdogan et à ses plans est néanmoins considérable: il suffit de songer aux chiffres, avancés par Fuss, que représentent les militants de “Milli Görüs” en Europe occidentale, en Allemagne en particulier. Enfin dernière remarque, non dépourvue d’ironie: que dirait Erdogan si un premier ministre européen venait à Izmir ou à Konya, voire à Van ou à Diyarbakir, exhorter une minorité anatolienne quelconque à refuser toute assimilation à la turcicité ou au sunnisme? Sous prétexte que ce serait un “crime contre l’humanité” de biffer l’identité kurde, arménienne, araméenne ou alévite?

 

TROISIEME PLAN: Faire de la Turquie une des dix premières économies du globe.

Les dix premières économies du globe sont les Etats-Unis, le Japon, l’Allemagne, la Chine, la Grande-Bretagne, la France, l’Italie, le Canada, la Russie et le Brésil. Devant la Turquie, il y a l’Inde, la Corée du Sud, le Mexique et l’Australie. Cette classification révèle deux choses: 1) d’abord que la Turquie aura bien du mal à dépasser ses concurrents, surtout l”Inde vu son poids démographique; 2) que le boom démographique turc permet l’éclosion d’une masse de consommateurs immédiats, que ne peuvent plus aligner nos vieux pays fatigués et épuisés par deux guerres mondiales où le meilleur de leur population a péri. La Turquie augmente ainsi naturellement le nombre de consommateurs sur son propre marché intérieur, tandis que les vieilles nations européennes sont de plus en plus contraintes de chercher des débouchés à l’extérieur (en Chine par exemple), où la concurrence est dure et où les succès sont toujours aléatoires, non programmables sur le très long terme.

 

QUATRIEME PLAN: Faire de la Turquie une puissance mondiale.

C’est sans doute le noyau du rêve néo-ottoman: l’Empire, créé par Othman au 14ème siècle, était effectivement la principale puissance du globe, avec la Chine, au début du 16ème siècle. Mais elle a été battue à Lépante en 1571 puis à Vienne en 1683 et à Zenta en Hongrie en 1697, notamment grâce à la modernisation des armées autrichiennes et impériales par le génie militaire d’Eugène de Savoie-Carignan. Depuis lors, l’Empire ottoman n’a connu que ressacs et déclins. Erdogan et Davutoglu rêvent de recréer les conditions de la puissance turque d’antan. L’atout majeur des Turcs est la position géostratégique de leur pays, au point d’intersection entre l’Europe, l’Asie (occidentale) et l’Afrique nilotique (avec l’Egypte qu’ils ont dominée de Soliman le Magnifique à 1882, année où l’Angleterre fait du pays un protectorat britannique). L’instrument pour redonner une place incontournable à l’Etat turc est la “diplomatie multidirectionnelle” préconisée par Davutoglu et assortie du principe dit de “zéro conflits aux frontières”. Cela implique:

1)     une alliance avec les pays arabes, battue en brèche depuis la visite d’Erdogan et de Gül en Syrie, où le pouvoir syrien n’a pas voulu renoncer à son laïcisme et à son “arabisme”.

2)     De renforcer le poids de la Turquie dans l’Union Européenne, alors que toute adhésion pleine et entière de la Turquie à l’UE risque de faire imploser celle-ci.

3)     De créer une communauté des Etats turcophones, projet fragilisé par la résistance du Président kazakh qui n’entend pas être inféodé à la Turquie anatolienne et cherche à conserver des liens étroits avec la Russie et, dans une moindre mesure, avec la Chine, au sein du groupe dit “de Shanghai”. La Turquie entend créer cette communauté turcophone pour, à toutes fins utiles, faire contre-poids aux nations arabes au sein de la “Conférence des Etats islamiques”.

 

Le projet néo-ottoman: une belle cohérence

 

On ne peut nier la belle cohérence du projet néo-ottoman d’Erdogan, Gül et Davutoglu. Leurs idées sont incontestablement une bonne synthèse des idéologies turques depuis le “Tanzimat” du 19ème siècle. Mais cette cohérence et cette synthèse sont diamétralement opposées aux intérêts les plus élémentaires de l’Europe réelle, de l’Europe profonde en état de dormition (pour ne pas parler de cette Europe sans épine dorsale qu’est l’UE). Cependant, l’Europe d’aujourd’hui marine dans l’incohérence: elle garde trop de velléités atlantistes et quand elle se veut “eurocentrique”, elle ignore les dynamiques à l’oeuvre chez ses voisins musulmans, en minimise la portée ou les considère avec une condescendance qui n’est pas de mise car ces dynamiques sont portées par des projets idéologiques ou religieux cohérents, réellement politiques, alors que les élucubrations des eurocrates sont marquées d’un impolitisme délétère. Les velléités euro-sibériennes, on les perçoit essentiellement dans les rapports gaziers entre l’Allemagne et la Russie, via la gestion des gazoducs “North Stream” qui passent par les eaux de la Baltique et que co-gère l’ancien chancelier social-démocrate Gerhard Schröder (adepte en son temps de l’Axe Paris/Berlin/Moscou, cher au théoricien de Grossouvre). Les timides rapprochements avec les Etats du groupe BRIC, et surtout avec la Chine, voire l’Inde, nous les retrouvons notamment dans la politique commerciale belge, qui multiplie les “missions” à Pékin. Quant à la chimère euro-méditerranéenne de Sarközy, —réduite à néant par les “printemps arabes”, qui, contrairement aux voeux des eurocrates impolitiques, n’ont pas amené sur les rives méridionales de la Grande Bleue de belles démocraties sur le mode scandinave et n’ont généré que le chaos surtout après la chute de la Libye— elle est désormais à ranger au placard des illusions, surtout qu’en région arabo-méditerranéenne, la politique “islamiste modérée” d’Erdogan a plus de chances d’enregistrer des succès que les rêves sarközystes, saupoudrés par les fadaises et les philosophades de Bernard-Henri Lévy. On a maintes fois souligné l’impossibilité d’une politique étrangère commune à l’Europe: les deux principales puissances occidentales, la Grande-Bretagne et la France qui ont toutes deux droit de veto à l’ONU, posent problème; l’une, parce qu’elle cultive sa “special relationship” avec les Etats-Unis; l’autre, parce qu’elle a toujours eu des velléités anti-impériales hier, anti-européennes aujourd’hui. Elles chercheront toujours à imposer aux autres Européens leurs visions particularistes, et souvent bellogènes, sans jamais tenir compte des intérêts à long terme du continent. Face à cette incohérence européenne persistante, la Turquie d’Erdogan a beau jeu...

 

La problématique des “Droits de l’Homme”

 

En mars 2011, lors de ma première conférence, ici, sur l’état actuel de la Turquie, j’avais, sur base d’un travail réalisé par le député européen Filip Claeys (qui s’occupe de l’agence Frontex), mis en exergue plusieurs facteurs: le risque d’une adhésion turque pour le budget de la PAC (“Politique Agricole Commune”), le déséquilibre démographique entre une population anatolienne sans cesse croissante et une population européenne vieillissante, le laxisme cynique des autorités turques qui laissent passer les flux migratoires en direction de l’espace Schengen, la problématique des droits de l’Homme où les Européens se bornent à appliquer ou faire appliquer la charte telle qu’elle existe depuis 1789 et 1948 (San Fransisco) et où les Turcs veulent faire coexister avec cette charte celle de la déclaration du Caire sur les droits de l’homme musulman. L’application des deux déclarations, celle de 1789/1948 et celle du Caire, s’avère impossible vu les incompatibilités entre la sharia et le droit européen actuel, d’autant plus que l’UE a expressément déclaré que cette sharia islamique était incompatible avec les droits de l’Homme, telle qu’on les entend en Europe. Les deux aires civilisationnelles, l’européenne et la musulmane, ont chacune leurs logiques propres, surtout compte tenu du fait qu’Erdogan, comme l’explique par ailleurs le turcologue français Tancrède Josseran, essentialise le concept huntingtonien de “civilisation”, posant implicitement la Turquie comme puissance-guide du monde musulman, face à un Occident décadent, dont il ne faut pas imiter les principes délétères. La Turquie cherche donc à s’hermétiser (sans doute à rebours du concept premier de “Tanzimat”) et cette hermétisation va de paire avec l’essentialisation des aires civilisationnelles, telles que les avait définies Huntington.

 

Pour devenir puissance mondiale (et non plus régionale), la Turquie possède certes des atouts d’ordre géographique non négligeables, mais elle souffre d’un handicap, celui d’avoir trop de voisins, comme l’Allemagne en 1939, avait, elle aussi, trop de voisins hostiles. Chaque voisin est source potentielle de conflits: la Grèce et Chypre n’entendent pas capituler devant les exigences turques, quoi qu’il pourrait en coûter; dans le Caucase, l’Arménie, allié inconditionnel de la Russie néo-orthodoxe, veille, surarmée et renforcée par la présence de garnisons russes, entre la Turquie et son allié azéri (turcophone), qui pourrait lui offrir une fenêtre sur la Caspienne; l’Iran est certes “neutralisé” pour le moment, au nom de la doctrine de “zéro problème avec les voisins”, mais le contentieux perse/ottoman est ancien, profondément ancré dans les réalités stratégiques régionales et surplombant le vieux conflit sous-jacent entre sunnisme hanafite (réformiste au sens du “Tanzimat”, de Nursi, de Gülen et du triumvirat Erdogan/Gül/Davutoglu) et le chiisme iranien, duodécimain et non quiétiste (depuis Khomeiny); la Syrie reproche à la Turquie de lui infliger un “stress hydrique” (cf. supra) et de mettre en danger son option arabiste et laïque; le conflit avec Israël, depuis l’affaire de la flotille humanitaire turque qui emmenait vivres et matériels vers Gaza, est davantage un “show”, à nos yeux, qu’une inimitié profonde, que ne toléreraient d’ailleurs pas les Etats-Unis. L’escalade verbale avec Israël sert à faire accepter le modèle turc au monde musulman, pour réaliser, au profit du tandem américano-turc, le fameux projet de “Greater Middle East”. La Turquie, sans le soutien discret de l’“administration” Obama, serait un pays encerclé, le “cul entre six chaises”, et sans grands espoirs de se dégager de cette cangue. Quant au pro-arabisme, annoncé par Davutoglu, on voit ce qu’il en est advenu en Syrie, où la Turquie participe désormais à l’encerclement du pays de Bachar El Assad. Et fait donc la politique que réclament les Etats-Unis et, dans une moindre mesure, Israël (qui n’aime pas les changements de donne), et que réclament aussi, dans un concert médiatique assourdissant, tous les thuriféraires du bellicisme occidental contemporain, de Fischer à Cohn-Bendit, et de Verhofstadt à Sarközy, avec la bénédiction du grand prêtre parisien de la jactance “universaliste”, Bernard-Henri Lévy.

 

Le monde est un “pluriversum”

 

Quant à l’Europe, elle oublie que la Déclaration des Droits de l’Homme est avant tout une “Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen”, un citoyen fatalement inclu dans une Cité, qui a des limites géographiques précises, non extensibles à la planète toute entière, et que, par conséquent, cette dernière n’est pas un “universum” politique mais bien un “pluriversum”. Il n’existe pas et n’existera pas de “République planétaire”: ni les Etats-Unis (très protectionnistes en maintes occasions) ni l’UE n’ont sont donc les prémisses. D’autres polities de grandes dimensions coexistent sur la planète et font reposer leurs systèmes juridiques et politiques sur d’autres valeurs ou sur les mêmes valeurs, mais articulées de manière différente pour correspondre à des sensibilités précises et non aliénables, souvent d’ordre religieux ou philosophique. La problématique des Droits de l’Homme (où la notion de “citoyen” est désormais trop souvent escamotée) suscite en Europe des discussions infinies car cette déclaration, revue à la manière simpliste et propagandiste depuis 1978 par une équipe de “nouveaux philosophes”, dont Bernard-Henri Lévy est le plus médiatisé, le plus bruyant et le plus emblématique, est contestée partiellement par certains catholiques ou par ceux qui entendent réhabiliter des libertés et des droits plus concrets, issus de systèmes juridiques vernaculaires (et efficaces) ou par certains observateurs, soucieux du sort global de la planète, qui entendent tenir compte de Déclarations autres, comme celle de Bangkok pour les pays asiatiques ou qui estiment important de réfléchir sur la vision pluraliste des Droits de l’Homme et du droit des gens qu’entend généraliser la Chine.

 

Mais les risques de déséquilibres du budget de la PAC, le risque de voir une immigration désordonnée et débridée ruiner les budgets sociaux de tous les Etats européens en cas d’adhésion pleine et entière de la Turquie à l’UE, la politique d’ingérence dans les affaires intérieures des Etats-hôtes de l‘immigration turque préconisée par Erdogan lui-même à Düsseldorf et Cologne et, enfin, la question cypriote, où la Turquie agresse un Etat membre de l’UE (alors que les principes mêmes du premier “Marché Commun” du Traité de Rome de 1957 stipulaient que les Etats membres ne pouvaient plus se faire la guerre et devaient oublier leurs contentieux antérieurs) sont des motifs suffisants pour exclure la Turquie de toute adhésion pleine et entière à l’UE qui, en revanche, devrait faire de l’“Homme guéri (?) du Bosphore” un partenaire commercial privilégié à l’Est des Balkans.

 

Robert STEUCKERS.

(Forest-Flotzenberg, octobre/novembre 2011; rédaction définitive: août 2012).

 

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-          Stéphane de TAPIA, “Un acteur du Grand Jeu – Le “monde turc” (Türk Dünyasi) existe-t-il?”, in: Diplomatie magazine, n°36, janv.-fév. 2009.

-          Stéphane de TAPIA, “Tigre et Euphrate: les positions turques”, in: Moyen-Orient, n°04, mars 2010.

-          Stéphane de TAPIA, “Comprendre le renouveau géopolitique turc” (entretien), in: Diplomatie magazine, n°52, sept.-oct. 2011.

-          Seyfi TASHAN, “La Turquie et les relations internationale après la guerre d’Irak”, in: Diplomatie magazine, n°4, juillet-août 2003.

-          Bernhard TOMASCHITZ, “La Turquie tourne le dos à l’Occident”, sur http://euro-synergies.hautetfort.com/ . original allemand, in zur Zeit, 25-26/2010.

-          Bernhard TOMASCHITZ, “Les ennuis d’Erdogan”, sur http://euro-synergies.hautetfort.com/ . Original allemand: in zur Zeit, 28-29/2010.

-          Jean-Louis TREMBLAIS, “L’incertitude démographique”, Figaro Magazine, 11 décembre 2004.

-          Jean-Louis TREMBLAIS, “L’Europe vue par les Turcs”, Figaro Magazine, 11 décembre 2004.

-          Garip TURUNÇ, “La Turquie et l’Union européenne: une relation en délitement?”, in: Diplomatie magazine, n°52, sept.-oct. 2011.

-          Sinan ÜLGEN, “La Turquie face à ses défis politiques et économiques”, in: Diplomatie magazine, n°52, sept.-oct. 2011.

-          Semih VANER, “Iran et Turquie: confluences et ambiguïtés”, in: Géopolitique, n°64, janvier 1999.

-          Carter VAUGHN FINDLEY, Turkey, Islam, Nationalism and Modernity – A History, 1789-2007, Yale UP, 2010.

-          Stéphane YERASIMOS & Turgul ARTUNKAL, “La Turquie, permanences géopolitiques et stratégies nouvelles vers le Proche- et le Moyen-Orient”, in Hérodote, n°29/30, avril-sept. 1983.

-          Bahri YILMAZ, “Regionalmacht Türkei. Hat sie ihre Führungsrolle verpasst?”, in: Internationale Politik, 5/1995.

-          Bernhard ZAND, “Scheidung vor der Hochzeit?”, in: Der Spiegel, 40/2005.

-          Aziz ZEMOURI, “Justice: encore un effort”, Figaro Magazine, 11 décembre 2004.

 

Articles anonymes:

-           “Turkey and the Middle East – Erdogan’s travels”, The Economist, May 7th-13th, 2005.

-          “Turkey and the European Union – Mountains still to climb”, The Economist, May 14th-20th, 2005.

-          “Turkish historians – When history hurts”, The Economist, August 6th, 2005.

-          “Turkey’s Kurds – Let Justice be done”, The Economist, Feb. 10th-16th, 2007.

-          “Turkey’s Kurds – Guns and Votes”, The Economist, June 23d, 2007.

-          “Turkey and the Kurds – Terror in the Mountains”, The Economist, Oct. 18th, 2008.

-          “La Turquie, pivot incontournable au Moyen-Orient”, in: Diplomatie magazine, n°44, mai-juin 2010.

-          “Nicosie et Athènes lancent un avertissement à la Turquie”, sur http://euro-synergies.hautetfort.com . Original italien: in Rinascita, 17 juillet 2010.

-          “Les métamorphoses de la Turquie”, sur http://euro-synergies.hautetfort.com/ . Original néerlandais: in ’t Pallieterke, 21 juillet 2010.

-          “Armenia e Israele – limiti e prospettive della politica estera turca”, sur http://www.eurasia-rivista.org , 24 févr. 2011.

 

Ouvrage lu après rédaction:

 

-          Peter EDEL,  De diepte van de Bosporus – Een politieke biografie van Turkije, EPO, Berchem, 2012.

 

samedi, 30 juin 2012

L’incident du F-4 vu par M K Bhadrakumar

L’incident du F-4 vu par M K Bhadrakumar

L’appréciation de l’incident du F-4 turc abattu par les Syriens, par le diplomate-devenu-commentateur, l‘Indien M K Bhadrakumar, est très intéressante, notamment à cause de ses très grandes connaissances et sources en Turquie, où il a été ambassadeur de l’Inde. M K Bhadrakumar avait déjà mis en évidence (le 30 avril 2012) les difficultés d’Erdogan avec sa politique syrienne par rapport à son opposition et à l’opinion publique. Ce facteur compte beaucoup pour l’incident du F-4, estime M K Bhadrakumar.

Les autres éléments qu’il met en évidence sont, d’une part, le jeu très appuyé de la Syrie et l’attitude extrêmement ferme de la Russie, et en constant affermissement, notamment vis-à-vis de cet incident. Pour M K Bhadrakumar, Syriens et Russes ont agi de concert, et l’incident constitue un net avertissement à la Turquie, au risque assumé d’une aggravation des relations de la Syrie avec la Turquie. De toutes les façons, pour M K Bhadrakumar, il ne semble faire guère de doute que le F-4 effectuait une mission de surveillance hors des normes internationales, et la riposte syrienne fut à mesure. M K Bhadrakumar met également en évidence que la Turquie est, dans ce jeu de la montée des tensions, assez isolée dans la région. (Son article, pour ATimes.com, est du 26 juin 2012.)

«The shooting down of a Turkish fighter aircraft by Syria on Friday has become a classic case of coercive diplomacy.

»A Turkish F-4 Phantom fighter aircraft disappeared from radar screens shortly after taking off from the Erhach airbase in Malatya province in southeastern Turkey and entered Syrian airspace. According to Syrian Arab News Agency (SANA), air-defense forces shot down the plane 1 kilometer off the coast from the Syrian port city of Latakia. A Turkish search-and-rescue aircraft rushed to the area of the crash but came under Syrian fire and had to pull out.

»The Russian naval base at Tartus is only 90 kilometers by road from Latakia. The incident took place on a day that Syrian Foreign Minister Walid al-Moualem was on a visit to Russia. It also happened within a week of Britain staging a high-profile publicity event to humiliate Russia by canceling the insurance of a ship when it was off the coast of Scotland en route to Syria from Russia's Baltic port in Kaliningrad. British Foreign Secretary William Hague scrambled to take credit for that in the House of Commons.

»The shooting down of the Turkish jet also coincides with a hardening of the Russian position on Syria. Moscow refused to comment on the incident when Turkish Foreign Minister Ahmet Davutoglu telephoned his Russian counterpart Sergey Lavrov on Sunday seeking understanding. Itar-Tass quoted the Russian Foreign Ministry as saying the two diplomats “discussed the situation around Syria, including within the context of the incident with a Turkish fighter jet”. Plainly put, Moscow was unwilling to treat Friday's incident in total isolation. Nor was it prepared to censure Damascus. […]

»It is against the totality of this background that the Syrian action against the Turkish aircraft needs to be weighed. Damascus has a reputation for “poker diplomacy”. It may have conveyed a host of signals to Turkey (and its Western allies):

»Syria's air-defense system is effective and lethal;

»There will be a price to pay if Turkey keeps escalating its interference in Syria;

»Turkey's military superiority has its limits;

»The Syrian crisis can easily flare up into a regional crisis. […]

»Davutoglu claimed that Turkey had intercepted radio communications from the Syrian side suggesting that they knew it was a Turkish aircraft. "We have both radar info and Syria's radio communications." There was no warning from Syria before the attack, he said. "The Syrians knew full well that it was a Turkish military plane and the nature of its mission.” Conceivably, Syria wanted Turkey to know that its decision to shoot down the jet was deliberate. An exacerbation of Turkish-Syrian tensions is in the cards. […]

»Knowing Erdogan's ability to whip up nationalistic sentiments, the opposition parties quickly concurred that Turkey must respond to incident. But they point out that Erdogan needlessly provoked Damascus and has destroyed Turkey's friendly ties with Syria. 

The leader of the main opposition Republican People's Party (CHP), Kemal Kilicdarglu, pointedly asked on Sunday after meeting with Erdogan: “Why have Turkey and Syria come to the brink of war?” The CHP's deputy head Faruk Logoglu, who is a distinguished former diplomat (ex-head of the Foreign Ministry and former ambassador to the US), said: “We are very critical of the way AKP [Erdogan's Justice and Development Party] is handling the situation. There should be no outside intervention of any sort and any intervention must be mandated by a resolution of the UN Security Council. In the absence of such a resolution, any intervention would be unlawful.”

»In short, the Turkish opposition will be free to dissociate from any response that Erdogan decides on, especially if things go haywire downstream… […]

»But the point is, even within Turkey, there is skepticism about what really happened. The veteran Turkish editor Yousuf Kanli wrote: “Did the plane violate Syrian airspace? ... On the other hand, why was the Turkish reconnaissance plane flying so low, in an area close to a Russian base, and why did it keep on going in and out of Syrian airspace so many times in the 15-minute period before it was downed? Was it testing the air-defense capabilities of Syria (or the Russian base) before an intervention which might come later this year?” […]

»[…T]he painful reality is that Turkey's most ardent allies in the present situation, who have encouraged Ankara on the path of intervention in Syria, are of absolutely no use today – Saudi Arabia and Qatar. They are nowhere in a position to engage Syria militarily. Turkey, in short, is left all by itself to hit back at Syria. […] […A]ny Turkish military steps against Syria would be a highly controversial move regionally. Iraqi Foreign Minister Hoshiyar Zebari (who, interestingly, visited Moscow recently for consultations over Syria) voiced the widely held regional opinion when he warned of a “spillover the crisis into neighboring countries”, including Iraq, Lebanon, Jordan and Turkey itself. […]

»The influential Turkish commentator Murat Yetkin wrote on Monday, “It is clear that the incident will result in increased pressure on Syria and its supporters, mainly Russia. But what Bashar al-Assad cares for seems to be keeping his chair and the Russian naval base in Tartus strong, whatever the cost, also knowing that neither the Turkish government, nor the opposition and people, want war.” 

Yetkin was sure that “Turkey will do everything to make Syria pay for the attack”, but “payment doesn't mean war, there are other options”.

»In reality, Damascus has put a double whammy on Turkey. It not only lost a Phantom and its two pilots but is now under compulsion to take the loss calmly, exercising self-restraint. »



 

dedefensa.org

jeudi, 28 juin 2012

Turkije loopt niet meer warm voor de EU

 

Turquie-europe.jpg

Ex: http://www.apache.be/2012/06/26/turkije-loopt-niet-meer-warm-voor-de-eu/

Turkije loopt niet meer warm voor de EU

Het Turkijke dat in 1999 de EU-kandidaatstatus heeft aangevraagd is niet hetzelfde land als het hedendaagse Turkije. De EU houdt de boot al lange tijd af en Ankara heeft zich meer dan eens afgevraagd of er wel een Europese toekomst voor het land is. Inmiddels zijn de Turkse prioriteiten veranderd. Door haar economie met hoge groeicijfers heeft Turkije ook het nodige zelfvertrouwen gewonnen. Veel Turken wijzen schamperend op de financiële problemen van de EU.

Wil Turkije nog wel een Europese toekomst?

Regelmatig onderzoekt het Europees Forum voor Democratie en Solidariteit EU-kandidaatlidstaten om de stand van zaken ten behoeve van het uitbreidingsproces te beoordelen. Een recent bezoek van een delegatie aan Istanbul en Ankara bracht aan het licht dat het EU-debat niet hoog op de Turkse agenda staat. Sterker nog, de Europese Unie is verdwenen van de voorpagina’s van de Turkse kranten.

Ook de jaarlijkse voortgangsverslagen van de Europese Commissie over de stand van het onderhandelingsproces krijgen niet meer de hoeveelheid aandacht die ze in het verleden kregen. De reden is dat het toetredingsproces tot een halt is gekomen. Een ontwikkeling, waarvan de Turken de schuld leggen bij de Europese Unie.

Cyprus

Veel van de 35 onderhandelingshoofdstukken zijn sinds 2006 door de EU geblokkeerd. Deels is dit te wijten aan de Cyprus-kwestie, waarbij Turkije weigert om Cyprus te erkennen. Op haar beurt neemt Turkije het de EU zeer kwalijk dat het de Turks-Cyprioten niet toe staat om vrije handel te drijven. Hierdoor is er een groot verschil in welvaart ontstaan tussen het Turkse noorden en het Griekse zuiden (dat wel internationale economische betrekkingen onderhoudt en is sinds 1 mei 2004 lid is van de EU).

Om dit verschil in welvaart te verkleinen heeft de Europese Unie financiële steun aan het noorden beloofd. Echter, uit protest wordt dit geblokkeerd door de Grieks-Cypriotische parlementsleden in de EU, waardoor Turkije weer vindt dat de EU te veel aan de kant van de Griekse inwoners van het eiland staat. Bovendien zijn de meeste Turken er niet van overtuigd dat de EU terecht eist dat Turkije de status van Cyprus erkent. Ankara is op dit punt dan ook niet in de stemming voor concessies.

Parijs wil Turkije geen toetreding bieden, hooguit een geprivilegieerd partnerschap

De Turkse bevolking heeft het vertrouwen in de EU verloren en zij verdenken een aantal EU-lidstaten van het spelen van politieke spelletjes. Met lede ogen ziet men hoe Frankrijk categorisch weigert te praten over uitbreiding van het EU-lidmaatschap. Parijs wil Turkije namelijk geen toetreding bieden, hooguit een geprivilegieerd partnerschap. Turkije vraagt zich dan ook openlijk af waarom het toe zou geven in de Cyprus-kwestie, als er geen garantie is dat dit ook zal leiden tot succesvolle toetredingsonderhandelingen. Waarom zou het werk maken van EU stokpaardjes als concurrentie of sociaal beleid –toetredingshoofdstukken die in principe kunnen worden geopend- als er niets voor hun tegenover staat?

Bovendien beschouwt men de Westerse publieke opinie in toenemende mate als islamofoob en verwacht men dat de negatieve houding van sommige lidstaten het zeer onwaarschijnlijk maakt dat een eventueel toetredingsverdrag ooit zal worden geratificeerd.

Het nieuwe Turkije

Het Turkije dat in 1999 vroeg om de kandidaat-status en in 2004 om de start van de toetredingsonderhandelingen, bestaat niet meer. Prioriteiten zijn gewijzigd onder de leiding van de AK-partij van premier Erdogan. Turkije is veranderd en heeft een flinke dosis zelfvertrouwen gekregen. Vooral door de hoge groeicijfers van de economie, die nauwelijks geraakt werd door de financiële en economische crisis die in 2008 begon.

Veel Turken wijzen schamperend op de financiële problemen van de EU. Natuurlijk heeft de Turkse economie ook een achilleshiel. Er is een toenemend begrotingstekort dat gefinancierd wordt met goedkope korte termijn leningen. Er is –en zeker niet voor het eerst- een risico op ineenstorting van de economie. Toch is dit niet aannemelijk gezien de structurele hervormingen die na het laatste economische debacle zijn doorgevoerd. Turkije lijkt economisch gezien een voorspoedige periode tegemoet te gaan, waarvoor het de EU helemaal niet nodig heeft.

Alleen al het schrijven van een artikel over de PKK kan een journalist in de gevangenis doen belanden

Op het vlak van hervormingen worden nog steeds de nodige slagen gemaakt, ook al is de invloed van Brussel tanende. Europese normen worden beschouwd als intrinsieke waarden en dit is één van de redenen waarom de Turkse regering een apart ministerie voor Europese Zaken in het leven heeft geroepen. Toch voldoet Ankara nog niet aan alle Europese normen en waarden. Zo blijven er gevoelige kwesties, zoals de vrijheid van meningsuiting en de onafhankelijkheid van de rechterlijke macht.

Veel journalisten zijn opgesloten onder het mom van anti-terrorisme wetgeving, omdat zij verdacht worden van steun aan de PKK. Alleen al het schrijven van een artikel over deze organisatie kan een journalist in de gevangenis doen belanden. De oppositie beschuldigt de regering er verder van zich te veel te bemoeien met de rechterlijke macht. De regering zou de controle hebben genomen over alle rechterlijke benoemingen en de oppositie ziet dit als een autoritaire tendens van de AK-Partij. Anderen in Turkije verwerpen deze visie en wijzen op het feit dat binnen de Turkse politiek altijd al sprake is geweest van een traditie van sterk leiderschap en het ontbreken van interne partijdemocratie. Toch zijn dit aspecten die de EU graag gewijzigd zou zien, maar waar Ankara zich onwelwillend opstelt.

Atatürk

Qua interne politiek lijkt Turkije meer in balans te zijn geraakt. De Cumhuriyet Halk Partisi, de Republikeinse Volkspartij of kortweg CHP, is de grootste oppositiepartij van Turkije en komt voort uit de door Mustafa Kemal Atatürk op 9 september 1923 opgerichte Halk Fırkasi. In het verleden was de partij tegen veel van de hervormingen die werden ingevoerd om Turkije aan te passen aan EU-normen. De CHP was ook fel tegen de rol van religie in de Turkse samenleving, zoals de AK-partij die voor ogen had.

De betrekkingen met Europese sociaal-democratische partijen kenmerkten zich door spanning ten gevolge van meningsverschillen over de nationalistische agenda van de CHP. Echter, de partij is in 2010 onder een nieuwe leiding komen te staan. Partijvoorzitter Kemal Kılıçdaroğlu lijkt de partij te draaien in een andere richting. Democratische hervormingen worden ondersteund en de partij heeft gekozen voor een pro-Europese houding, waarbij ook sociaal-democratische waarden meer nadruk krijgen.

Premier Erdogan stelt zich onderwijl in zijn publieke optredens charismatisch en eigentijds op. Doorgaans laat hij zich vol lof uit over het Turkse model van een seculiere staat en een religieuze gemeenschap. Sommige Turken zijn bezorgd over zijn religieuze conservatisme en zijn opvattingen over de rol van vrouwen, maar niemand in Turkije gelooft dat Erdogan een verwijzing naar de islam in de grondwet wil verankeren. Toch wordt er op dit moment wel gekeken naar de Turkse grondwet. Een commissie in Ankara is bezig met het opstellen van wijzigingen van de grondwet, iets dat overigens in een verrassend open proces van beraad plaatsvindt en de nodige publieke aandacht trekt. Één van de belangrijkste vraagstukken is of het gaat lukken om een compromis te bereiken over de definitie van de Turkse nationaliteit.

Op basis van de huidige tekst worden alle mensen in het land beschouwd als Turken. Zal dit worden vervangen door een meer neutrale formulering, of zullen de minderheden specifiek worden genoemd? Koerdische lobbyisten willen graag een verwijzing naar hun mensen, om zo ook de rechten rondom de Koerdische taal en cultuur veilig te stellen. Maar het is vrijwel zeker dat de nationalisten in het parlement niet akkoord zullen gaan met een dergelijke grondwetswijziging. Het lijkt er dan ook op dat deze kwestie niet zal worden opgelost, omdat de commissie alleen wijzigingen kan voorstellen die eensgezind worden gedragen. Toch is het feit dat er dialoog plaatsvindt over deze kwestie tekenend voor de democratische ontwikkelingen van Turkije.

Hoe nu verder?!

Turkije heeft de EU eigenlijk niet nodig. Economisch gaat het goed en Turkije blijkt prima in staat om hervorming door te voeren die goed zijn voor land en volk, zonder dat men zich aanpast aan de Europese agenda. Tel hierbij op dat de focus tegenwoordig ligt op binnenlandse aangelegenheden en dat de relatie met Brussel verslapt is, dan is het duidelijk dat de aandacht niet meer ligt bij toetreding tot de EU. Brussel en Ankara raken zo steeds verder van elkaar verwijderd. Tegelijkertijd wil niemand volledig stoppen met de onderhandelingen. Het EU-lidmaatschap blijft een strategisch doel van Turkije.

Brussel wil Ankara niet helemaal verliezen en biedt een alternatief plan voor toetreding

De Europese Commissie en de Europese Raad hebben als oplossing onlangs voorgesteld om het probleem van de toetredingsonderhandelingen te omzeilen door een positieve agenda van activiteiten te ontwikkelen. Deze agenda moet betrekking hebben op een breed spectrum aan onderwerpen, waaronder politieke hervormingen, visa, mobiliteit en migratie, energie, de strijd tegen het terrorisme etc. Ook handel en de douane-unie staan op de agenda, net als het elimineren van wrijvingen in het handelsverkeer en het ten volle gebruik te maken van het gezamenlijke economische potentieel van de EU en Turkije. Aanvullend op de toetredingsonderhandelingen wil de Commissie haar samenwerking met Turkije vergroten. De EU wil het land helpen haar hervormingen door te voeren, ook inzake onderwerpen waarover de toetredingsonderhandelingen nog niet kunnen worden geopend. Het is duidelijk; Brussel wil Ankara niet helemaal verliezen en biedt een alternatief plan voor toetreding.

De vraag is of Ankara daar genoegen mee kan nemen. Vooralsnog reageert men met scepsis op deze nieuwe benadering en vraagt zich af of de agenda niet ook meer concrete punten zou moeten bevatten, zoals actiepunten om te komen tot een versoepeling van het EU visumbeleid. De Turkse regering heeft de onderhandelingen op dit punt namelijk afgesloten en eist nu eenzelfde behandeling als eerder werd gegeven aan andere kandidaat-landen, zoals Servië. De EU is echter alleen bereid een visum-dialoog aan te gaan en wil eerst zien dat alle overeengekomen punten volledig worden geïmplementeerd. In Ankara wordt dit gezien als wéér een voorbeeld van de ongelijke behandeling van Turkije.

Spierballen

Daarnaast hebben Brussel en Ankara ook uiteenlopende agenda’s. Zo zien velen in Brussel mogelijkheden voor nauwere samenwerking op het gebied van buitenlandse zaken, met name met betrekking tot de zuidelijke Kaukasus, Noord-Afrika en het Midden-Oosten. De Turken zijn hier niet tegen, maar koesteren hun onafhankelijke rol. Dit is de reden waarom ze zich steeds minder aansluiten bij het EU buitenland beleid, zoals EU-kandidaatlidstaten dat normaliter wel doen. Dit is meteen ook de fundamentele verandering in de opstelling van Turkije. Het land is niet langer bereid om de rol van junior partner van de EU te vervullen. De Turken willen gelijke behandeling en dat betekent in hun ogen dat er geen sprake kan zijn van dubbele moraal en geen onverdiende kritiek. Het gevolg is dat ze de EU willen tonen dat het menens is: ze stellen zich hard op, bijvoorbeeld met hun weigering om zaken te doen met de Cypriotische regering, wanneer deze het EU-voorzitterschap overneemt in de tweede helft van 2012.

De door de EU afgekondigde positieve agenda is een slimme poging om de deuren open te houden en het proces van Turkse toenadering tot de EU voort te zetten. Maar voor een hervatting van de echte onderhandelingen is toch echt een politieke doorbraak nodig. Beide kanten wijzen echter naar de andere om de eerste stap te zetten.

dimanche, 17 juin 2012

Géopolitique du Moyen-Orient et de l'Afrique du Nord

Géopolitique du Moyen-Orient et de l'Afrique du Nord

Une présentation complète et structurée des grands enjeux géopolitiques et géoéconomiques du Proche-Orient et de l'Afrique du Nord, à l’heure de la mondialisation.

Caractéristiques

  • 192 pages
  • 25.00 €
  • ISBN : 978-2-13-060638-3
  • N° d'édition : 1
  • Date de parution : 25/04/2012

L'ouvrage

Du Maroc à l’Iran en passant par l’Égypte, on disait le « grand Moyen-Orient » (Middle East and North Africa pour les Anglo-Saxons) immobile. Le voilà en ébullition. L’ambition de cet ouvrage est d’offrir les outils pour comprendre cette région au cœur de l’actualité, dont l’intelligence est souvent obstruée par le flot d’idées reçues et de contre-vérités qu’elle charrie.
A contrario d’une vision simpliste qui réduirait le Moyen-Orient et l’Afrique du Nord à un univers soudé autour du dénominateur commun islamique, l’ouvrage explique en quoi la diversité, voire la fragmentation, en constitue la caractéristique fondamentale. Une pluralité qui est une inestimable richesse en termes de civilisations, mais provoque en contrepartie une très forte instabilité.
Cependant, loin de réduire le Moyen-Orient et l’Afrique du Nord à un terrain d’affrontement entre des impérialismes venus d’ailleurs, l’ouvrage montre surtout comment certains pays qui les composent s’affirment progressivement comme des acteurs à part entière de la mondialisation.

Table des matières

Un Orient simple mais pluriel. Introduction

Au centre de l’ancien monde : le Moyen-Orient. Contraintes et horizons

I.Entre montagne et désert

II.Du sable, des cailloux, de l’eau et des hommes
III.Entre terre et mer
IV.Des constances naturelles
V.Le nœud gordien

La terre des prophètes. L’empreinte de l’histoire et des religions

I.L’islam comme ciment
II.La ville et le bédouin
III.Les religions du livre
IV.La tour de Babel
V.Peuple de la steppe et peuple du désert
VI.Le choc de l’Occident

Le rejet de la soumission étrangère. Le Moyen-Orient du XIXe siècle à nos jours

I.Déclin ottoman et intrusion européenne

II.Le grand bouleversement de la Première Guerre mondiale
III.Le Moyen-Orient face aux défis des indépendances
IV.L’impossible démocratie ?

La malédiction de la rente. Des économies déficientes

I.Au pays de l’or noir : économie et géopolitique des hydrocarbures
II.Des économies rentières et peu diversifiées
III.Des économies en panne
IV.Un tropisme méditerranéen ?

Le bal des puissances. Une région en quête de leadership

I.La lutte pour le leadership régional des puissances non arabes

II.Le monde arabe en quête de leader

Sous le signe de Mars. Une zone de conflits

I.Les frontières de sang
II.Caïn contre Abel : la guerre civile
III.Briser les chaînes : les conflits pour l’indépendance
IV.Les guerriers de Dieu

Un épicentre de la géopolitique mondiale. Une région au cœur des rivalités de puissance planétaires

I.Une région au cœur d’enjeux planétaires
II.Le Moyen-Orient vu d’ailleurs

Un acteur de la mondialisation. Une intégration croissante à l’espace mondial

I.Une puissance multiforme
II.Le monde vu du Moyen-Orient

Moyen-Orient et Afrique du Nord à l’épreuve de la mondialisation

Bibliographie
Glossaire des termes arabes, hébreux et turcs
Index

A propos des auteurs

Tancrède Josseran, auteur de La nouvelle puissance turque, prix Anteios du livre de géopolitique, collabore à l’observatoire du monde turc dans la Lettre Sentinel. Analyses et solutions.

Florian Louis est agrégé d’histoire.

Frédéric Pichon est auteur d’une thèse sur la Syrie, diplômé d’arabe et enseigne l’histoire et la géopolitique en classes préparatoires.

Les directeurs

Pascal Gauchon

Où se procurer cet ouvrage ?

dimanche, 10 juin 2012

Volte-face de la Turquie sur la Syrie ?

La Turquie négocie un virage diplomatique dans la crise syrienne. Elle y est bien forcée par une contestation interne grandissante de cette prise de position alignée sur celle des USA. Mais quel voisin la croira dorénavant? L'Empire ottoman avorté?

Volte-face de la Turquie sur la Syrie ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Des indications de plus en plus précises montrent que la Turquie serait en train de réviser radicalement sa stratégie et sa politique dans la crise syrienne, vieilles de 14 mois, mises sur la même ligne que le bloc BAO. Déjà, au début mai 2012, le 7 mai 2012, M K Bhadrakumar jugeait qu’il y avait des signes convaincants de l’évolution de la Turquie…

«What gives cautious optimism is also that Turkey has been “retreating”. Notably, FM Ahmet Davitoglu has retracted from his rhetoric. He probably sensed that he crossed a red line and there has been adverse reaction in the Arab world, which is historically very sensitive about the Ottoman legacy. Besides, within Turkey itself, the government’s Syria policy has come under heavy fire. A Turkish intervention in Syria can be safely ruled out in the absence of a national consensus within Turkey.»

Le 3 juin 2012, une analyse de DEBKAFiles tend à confirmer cette évolution turque. Elle confirme par ailleurs, plus précisément, une sensation ressentie durant la semaine qui a suivi le massacre de Houla, où la Turquie s’est montrée extrêmement discrète, voire dispensatrice d’un silence assourdissant. Dans le concert humanitariste général des “Amis de la Syrie”, dont elle était un des membres les plus actifs (jusqu’à accueillir le club en mars à Istanboul), la discrétion de la Turquie a constitué un évènement remarquable… DEBKAFiles écrit :

«…In an astonishing about face, Turkey has just turned away from its 14-month support for the anti-Assad revolt alongside the West and made common cause with Russia, i.e. Bashar Assad. […]

»Washington, London and Paris began rushing forward contingency plans for this eventuality upon discovering that Ankara had secretly notified leaders of the rebel Free Syrian Army Thursday, May 31 that it had withdrawn permission for them to launch operations against the Assad regime from Turkish soil. It was then realized that Turkish Prime Minister Tayyip Erdogan and his Foreign Minister Ahmet Davutoglu had stabbed Western-Arab Syrian policy in the back and moved over to help prop Assad up at the very moment his regime was on the point of buckling under international after-shocks from the systematic massacres of his own people.

»That day, Erdogan’s betrayal was confirmed when Davutoglu announced over Turkish NTV: “We have never advised either the Syrian National Council or the Syrian administration to conduct an armed fight, and we will never do so.” He added: “The Syrian people will be the driving force that eventually topples the Syrian regime. Assad will leave as a result of the people’s will.” This was precisely the view voiced this week by Russian President Vladimir Putin, when he spoke out against violent rebellion, military intervention and sanctions to topple the Syrian ruler.

»For the time being, the pro-Assad Moscow-Tehran front, bolstered now by Ankara, has got the better of Western and Arab policies for Syria…»

Avant le texte cité plus haut, le 30 avril 2012, le même M K Bhadrakumar, lors d’un séjour en Turquie, appréciait sévèrement la position turque dans la crise syrienne, jugeant catastrophique pour ce pays de “suivre la voie des USA”, et s’interrogeant sur les choix d’Erdogan («Isn’t Turkey following the footsteps of the US — getting bogged down in quagmires some place else where angels fear to tread, and somewhere along the line losing the plot? I feel sorry for this country and its gifted people. When things have been going so brilliantly well, Erdogan has lost his way.»). La surprenante et assez incompréhensible politique syrienne de la Turquie depuis le printemps 2011 (expliquée par certains, et à notre sens d’une façon très acceptable, par des traits de caractère et d’humeur des deux principaux dirigeants turcs, Erdogan et Davutoglu , – voir le 29 février 2012) serait ainsi en train de changer et l’on pourrait à nouveau applaudir à la politique de ce pays, – parce qu’Erdogan aurait “retrouvé sa voie” un instant égaré.

DEBKAFiles parle de “la trahison d’Erdogan”, ce qui est un bon signe d’une certaine assurance qu’on pourrait avoir de la réalité de ce tournant. Il y a eu, ces derniers jours, un regain de déclarations officielles turques fortement en faveur de l’Iran (voir PressTV.com, le 31 mai 2012), et ceci va évidemment avec cela.

Dans tous les cas, on observera le caractère de volatilité extrême de la crise syrienne, avec l’apparente affirmation de “lignes” très affirmées (pro ou anti Assad), mais plutôt comme éléments de communication. Du point de vue de la politique suivie, il existe une réelle fluctuation pour la plupart des pays dont la politique n’est pas fondée sur des choix politiques clairs et explicitées par des arguments convaincants, cela montrant qu’il n’y a pas non plus de leadership politique impératif (notamment, rien de ce point de vue, pour le parti anti-Assad de la part des USA) mais des décisions suivant les perceptions générales, les intérêts, les humeurs et les influences temporaires, et les réactions des uns et des autres vis-à-vis de la pression constante et très puissante du Système. Cela rend compte de la manufacture particulière de la crise syrienne, où les facteurs d’idéologies de communication (humanitarisme, libéralisme interventionniste) et d’artificialité de certains groupes (nombre de groupes “rebelles” formés de toutes pièces, sans racines intérieures) tiennent une place très spécifique, où le caractère politique principal est la création du désordre et l’opposition aux principes structurants. Au reste, il s’agit bien d’une situation très caractéristique, d’une époque évidemment “crisique”, faite quasi exclusivement de crises diverses, où domine la dynamique d’autodestruction du Système.

samedi, 02 juin 2012

La Turquie face au front Syrie-Irak-Iran

La Turquie face au front Syrie-Irak-Iran

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/


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Après avoir «perdu» la Syrie, la Turquie serait elle en train de perdre l’Irak?


- Cérémonie de fin de formation de recrues de l’armée irakienne à Kirkourk, dans le nord du pays. REUTERS/Ako Rasheed. -

Comme un air de déjà vu, déjà entendu. Après Bachar el-Assad, c’est au tour de Nouri al-Maliki, le premier ministre irakien, de renvoyer l’ancienne puissance ottomane dans ses cordes. Alors que les Turcs pouvaient, en Irak comme en Syrie, se prévaloir de beaux succès économiques et d’une percée politico-diplomatique, le climat entre Ankara et Bagdad se dégrade à grande vitesse (après celui entre Ankara et Damas, l’année dernière). La rupture n’est, ici, pas encore totalement consommée. Mais pour combien de temps encore?

Le 9 mai, Ankara refuse de livrer à Bagdad l’ancien vice-président irakien, Tarek al-Hachémi. Recherché pour avoir commandité l’assassinat de plusieurs officiels, objet d’une «notice rouge» d’Interpol, c’est un sunnite qui a regretté que l’Irak soit devenu un véritable couloir d’acheminement d’armes iraniennes à destination de la Syrie.

En avril, un autre rival du Premier ministre irakien, le président de la région kurde autonome d’Irak Massoud Barzani, avec lequel Ankara a noué d’étroits liens (commissions conjointes, ouverture d’un consulat turc, visites de ministres et omniprésence des entrepreneurs turcs) est reçu en grandes pompes.

Il  accuse Nouri al-Maliki de se conduire en dictateur et s’oppose à la vente par les Etats-Unis de F-16 à Bagdad. On voit mal l’ancien peshmerga Barzani lancer des opérations militaires contre le PKK (mouvement séparatiste kurde en guerre contre Ankara depuis 28 ans et dont les bases arrières se situent dans les montagnes d’Irak du nord) – ce serait un suicide politique. Mais le Président de la région kurde autonome d’Irak peut resserrer l’étau logistique et psychologique autour des rebelles qui sévissent, à partir de son territoire.

Les Kurdes d’Irak, partenaires fiables

Paradoxalement, Massoud Barzani, proche des Israéliens, constitue désormais le seul partenaire vraiment fiable des Turcs dans la région.

A peine les troupes américaines parties qu’en janvier, le ton était donné: trois roquettes tirées sur l’ambassade de Turquie à Bagdad. Cette attaque faisait suite au coup de téléphone de  Tayyip Erdogan à  Nouri al-Maliki,  durant lequel le Premier ministre turc se serait inquiété du sort fait au bloc Iraqiya d’Iyad Allawi, un  ancien baassiste, chiite,  opposé à Nouri al-Maliki et soutenu par la Turquie avec financements largement saoudiens. En jeu: l’équilibre confessionnel et politique de  la coalition gouvernementale mise laborieusement sur pied à la suite des élections de mars 2010.

Depuis plusieurs années, la Turquie intervient dans la politique intérieure irakienne, et ne s’en cache pas. Elle  cherche, selon Beril Dédéoglu, professeure turque de relations internationales, à  «limiter l’emprise d’al-Qaïda sur les sunnites et à gagner le cœur des chiites pour les détourner de l’Iran». 

«C’est en prenant de telles initiatives que la Turquie pourrait conduire la région au désastre et à la guerre civile», aurait rétorqué, une fois le combiné raccroché, le Premier ministre irakien.

Nouvelle passe d’armes verbales, crescendo, en avril. Après avoir été  accusé par son alter égo turc de monopoliser le pouvoir, d’«égocentrisme» politique et de discriminations à l’égard des groupes sunnites dans son gouvernement, Nouri al-Maliki  déclare que la Turquie est sur le point de se transformer en un «Etat hostile» pour «tous».

Téhéran, puissance de référence

C’est «la fin d’une période d’innocence: les Turcs commencent à prendre des coups au Moyen-Orient, ce qui n’est pas nouveau, mais ça l’est pour l’AKP (le parti islamo-conservateur au pouvoir depuis 2002), suggère le chercheur Julien Cécillon. L’Irak et par extension le Moyen-Orient, deviennent plus une zone à risque qu’un espace d’opportunités pour la Turquie», selon le co-auteur de «La Turquie au Moyen Orient, le retour d’une puissance régionale?» (dirigé par D. Schmidt, IFRI, 2011).

En couverture de l’ouvrage publié en décembre 2011, une photo montre R .T Erdogan et N. al-Maliki, debout côte à côte et au garde-à-vous sur le tarmac de l’aéroport de Bagdad. La photo qui veut symboliser le «nouvel espace de déploiement de la puissance turque» ne remonte qu’à 2009. Elle parait pourtant presque «datée», d’une autre époque : quand certains faisaient référence au «modèle turc» et  la Turquie se flattait d’être une «source d’inspiration» pour les pays arabes.

Les Turcs sont en train de réaliser qu’ils ont aussi peu d’influence sur Nouri al-Maliki qu’ils n’en avaient sur Bachar al-Assad. Et que Téhéran reste la puissance de référence,  à Bagdad comme à Damas. Mais «Ankara a déjà les mains pleines avec Assad et  souhaite  éviter un autre scénario de choc!», analyse Sinan Ulgen, également chercheur associé à Carnegie Europe à Bruxelles. Or comme la Syrie, l’Irak est crucial pour les ambitions régionales de la Turquie.

D’abord économiquement: les routes d’Irak sont essentielles pour que les camions turcs –désormais interdits de Syrie— accèdent aux marchés proche-orientaux. L’instabilité politique irakienne empêche la croissance économique du pays sur laquelle misent les hommes d’affaires turcs (la grande majorité des compagnies étrangères en Irak sont turques et ce sont elles qui reconstruisent le pays). De même qu’elle bride l’exploitation des richesses pétrolières et gazières pour l’acheminement desquelles la Turquie constitue un important pays de transit.

Paix froide Ankara-Téhéran

Et puis, «la déstabilisation du pays, quelques mois après le rapatriement des troupes américaines est de mauvaise augure pour le maintien de l’ordre politique en Irak», prédit Sinan Ulgen, directeur d’Edam, un think-thank turc. «Les risques d’une désintégration de l’Irak sont bien plus élevés qu’en Syrie», ajoute la professeure Béril Dédéoglu, et pourraient conduire à la  constitution d’un Etat kurde indépendant au nord du pays. Une perspective que craignent les autorités civiles et militaires turques, en guerre depuis 28 ans contre «leur» propre mouvement séparatiste kurde, le PKK (parti des travailleurs du Kurdistan).

Soner Cagaptay du  Washington Institute for Near East Policy nuance: «Ankara juge que le gouvernement de Maliki est autoritaire et qu’il prend ses ordres à Téhéran. Mais elle ne s’affole pas autant qu’elle a pu le faire par le passé d’une division de  l’Irak».  

L’idée d’un Kurdistan indépendant au nord de l’Irak ne constitue donc plus un cauchemar absolu pour Ankara. «Pour autant qu’il conserve les gisements pétroliers de Kirkouk, obtienne un quasi contrôle de Mossoul, et ne s’adjoigne pas une partie du territoire kurde de Syrie!», précise Béril Dédéoglu, spécialiste de relations internationales parfois consultée par le gouvernement turc. Lequel aurait eu connaissance des plans d’indépendance «déjà prêts» de Massoud Barzani.

On assiste donc actuellement au réalignement de Bagdad aux côtés du régime syrien et de l’Iran face à une Turquie qui soutient, elle, l’opposition au régime de Bachar al-Assad. «Il est probable que Téhéran continue à encourager Bagdad contre  Ankara,  en espérant qu’en retour la Turquie s’inclinera face à Assad», avertit Soner Cagaptay. Longtemps en «paix froide», les pouvoirs turc et iranien se sont rapprochés ces dernières années, mais en 2011 Téhéran a très mal pris qu’Ankara autorise l’installation du bouclier antimissile aérien de l’Otan sur son territoire.

C’est donc peut-être un front Iran-Irak-Syrie qui se dessine face à une Turquie moins repliée sur elle-même. L’esquisse d’une recomposition régionale?

L’un des scénarios verrait la Turquie à la tête d’un bloc sunnite, peut-être allié à l’Occident, et opposé à l’Iran et son fameux «croissant chiite» dont la continuité territoriale («du Tadjikistan au sud-Liban») aurait été contrariée par la dislocation de l’Irak et la création d’un Etat kurde au nord avec une entité sunnite au centre du pays.

Un tournant stratégique «sunnite» pour la Turquie, dont la politique étrangère à l’égard de la Syrie, et dans une moindre mesure de l’Irak ne fait cependant pas du tout l’unanimité: ni dans son opinion publique (en particulier dans la minorité alévie, une branche proche des chiites) ni pour le principal parti d’opposition (CHP, le parti républicain du peuple) ni même, en ce qui concerne la Syrie, jusqu’au président de la République de Turquie, Abdullah Gül.

Ariane Bonzon

dimanche, 20 mai 2012

La Turchia minaccia rappresaglie contro chi coopera con Cipro

La Turchia minaccia rappresaglie contro chi coopera con Cipro

Il governo di Amkara vuole mantenere il controllo sulla parte settentrionale dell’isola e garantirsi anche quello sulle risorse energetiche

Andrea Perrone

Ankara minaccia chi coopera con Nicosia.
Il ministero degli Esteri turco ha chiesto ai consorzi partecipanti a una gara d’appalto per le prospezioni di idrocarburi sui fondali al largo della Repubblica greca di Cipro di ritirarsi, se non vogliono essere esclusi da ogni progetto energetico in Turchia. “Invitiamo i Paesi e le compagnie petrolifere interessati a comportarsi con buon senso, rinunciando a ogni attività in questa zona di mare all’origine delle divergenze legate alla questione cipriota, ritirandosi dalla gara d'appalto in questione”, è scritto in un comunicato del ministero.
Secondo il ministero, le società saranno ritenute “responsabili” della tensioni che potrebbero sorgere nella regione se avvieranno una cooperazione con il governo greco-cipriota “in spregio dei diritti dei turchi-ciprioti”. “Diritti” questi, o presunti tali, nati dopo aver calpestato quelli dei greco-ciprioti, legittimi proprietari delle terre invase quasi quarant’anni fa, nel lontano 1974 quando Ankara prese il controllo manu militari della parte settentrionale dell’isola. “Sarà escluso comprendere le compagnie che avranno cooperato con l’amministrazione cipriota greca nei progetti energetici futuri in Turchia”, ha proseguito il comunicato. La Repubblica di Cipro greca, membro dell’Ue, ma non riconosciuta dalla Turchia, ha annunciato venerdì che 15 società e consorzio hanno presentato offerte su 12 blocchi di esplorazione e sviluppo di petrolio e gas al largo dell’isola del Mediterraneo orientale. La Turchia ha espresso più volte la sua opposizione a queste esplorazioni, che ritiene “illegali”. Attualmente Ankara è l’unica capitale a riconoscere la Repubblica turca di Cipro nord e finora i tentativi di pacificazione e i progetti di creare uno Stato federale non ha sortito alcun effetto, perché i greco-ciprioti non intendono rinunciare ai loro diritti e alle loro proprietà perduta con l’invasione dell’area settentrionale dell’isola.
Per quanto riguarda invece il contendere sulle risorse energetiche tutto ha avuto inizio alla fine dicembre 2011, quando la major statunitense Noble Energy Inc. incaricata dal governo di Nicosia di fare delle esplorazioni nelle sue acque territoriali, aveva annunciato che il giacimento al largo delle coste di Cipro poteva contenere 8 miliardi di metri cubi di gas naturale. Ai primi di aprile del 2012 si è così svolto il secondo turno per l’assegnazione delle licenze per la prospezione nelle acque cipriote che ha attirato l’interesse – senza precedenti – di oltre 70 aziende internazionali fra cui molte statunitensi, israeliane, cinesi e russe. Le ricerche messe in campo da Nicosia avevano provocato la collera di Ankara, che le aveva giudicate illegali e che per tutta risposta ha iniziato le sue prospezioni nelle acque che considera pertinenti alla parte nord di Cipro, quella occupata nel 1974. Da fine aprile, poi, la società petrolifera statale turca Tpao ha iniziato le sue prospezioni nell’area off-shore di Gazi Magusa alla ricerca di giacimenti di petrolio e gas naturale. Ora la società petrolifera turca ha poi siglato un accordo con la major petrolifera anglo-olandese Shell per l’esplorazione del Mediterraneo nel sud della Turchia e queste le nuove prospezioni rischiano di aggravare ulteriormente le tensioni con Cipro e l’Unione europea, che nonostante tutto continua a sperare nell’ingresso della Turchia nel club dei Ventisette. E per questo nel contenzioso è intervenuta per l’ennesima volta l’Ue, che con un comunicato del commissario all’Allargamento, Stefan Fuele, ha espresso il suo appoggio ai greco-ciprioti e quindi al legittimo governo di Nicosia, affermando che la Repubblica di Cipro “ha il diritto di condurre esplorazioni di gas e petrolio nel Mediterraneo, nonostante le minacce turche” e sottolineando che l’Unione europea riconosce i diritti sovrani di tutti gli Stati membri. Belle parole, ma intanto Ankara continua a fare quel che vuole sapendo che le lobby euro-atlantiche sono dalla sua parte.  


19 Maggio 2012 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=14969

mardi, 08 mai 2012

Blanc-seing officiel d’Ankara aux sociétés parallèles turques

 

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Andreas MÖLZER:

Blanc-seing officiel d’Ankara aux sociétés parallèles turques

Nous avons une preuve supplémentaire qu’Ankara estime n’avoir aucun intérêt à l’intégration des Turcs émigrés: ceux-ci sont invités à ne pas adopter la culture dominante des pays-hôtes. La Turquie officielle cherche au contraire à mobiliser ces immigrants et à les utiliser comme “cinquième colonne”. Plusieurs dépêches provenant d’agences médiatiques signalent que le “Bureau des Turcs résidant à l’étranger” veut mobiliser encore davantage les diasporas turques pour faire valoir les intérêts de la Turquie dans le monde, surtout en Europe.

Ce “Bureau” constitue un exemple de plus qui nous indique que la politique d’Ankara est hostile à l’Europe. C’est le premier ministre Erdogan lui-même qui a déclaré que l’assimilation est un “crime contre l’humanité” et qui s’est ensuite posé comme le protecteur des sociétés parallèles turques en Europe. Le “Bureau des Turcs résidant à l’étranger” est dirigé par le vice-premier ministre d’Erdogan, Bekir Bozdag. Il a manifestement pour but de téléguider les actions des sociétés parallèles au départ d’Ankara.

La justification qu’avancent les Turcs pour activer ce “Bureau” et soutenir les sociétés parallèles est tout bonnement grotesque. Les Turcs de l’étranger seraient victimes du “racisme” et de la “xénophobie” et il faudrait les protéger. Ce qui pose problème, ce n’est pas ce racisme imaginaire, que l’on attribue aux Européens, mais, au contraire, le refus de beaucoup de Turcs d’Allemagne et d’Autriche de s’intégrer. Et si l’objectif du gouvernement turc est d’inciter les immigrés à refuser toute intégration, nous pouvons considérer que cette position constitue un acte inamical à l’égard de pays membres de l’UE par un pays qui s’affiche comme candidat à l’adhésion.

Nous avons donc une raison supplémentaire, et une raison pertinente, pour rompre les négociations en vue de cette adhésion. Bien sûr, si la Turquie devient un jour membre de l’UE, des millions de Turcs d’Anatolie pourront s’installer dans les autres pays membres et en Europe centrale: il sera alors trop tard!

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°17-18/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

jeudi, 26 avril 2012

La Turquie a perdu la confiance de l’Iran

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Ferdinando CALDA:

La Turquie a perdu la confiance de l’Iran

 

Les dernières démarches d’Ankara à l’encontre de la Syrie et sur le pétrole ont fait qu’Istanbul n’a pas été choisie comme siège des pourparlers “5 + 1”

 

“La date et le lieu des prochains pourparlers peuvent certes être importants mais le contenu de ces négociations sera encore plus significatif”. Cette phrase, que l’on pourrait prendre pour une lapalissade, a été prononcée par le ministre des affaires étrangères iranien, Ali Akbar Salehi, mais n’est vraie que pour partie. La preuve? Elle nous est fournie par la délicate question de fixer le prochain siège des pouparlers entre l’Iran et le groupe “5 + 1” (Etats-Unis, Grande-Bretagne, France, Russie, Chine, Allemagne), qui devait se tenir les 13 et 14 avril 2012.

 

Là, nous avons encore un mystère. Au départ, on semblait avoir désigné Istanbul pour site de ces nouveaux pourparlers, surtout après la visite, début avril, du premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan à Téhéran. La grande ville turque avait accueilli la rencontre précédente, au début de l’année 2011. Le gouvernement turc était tout prêt à accueillir le nouveau sommet et Salehi lui-même avait indiqué Istanbul comme “le meilleur lieu pour la reprise des négociations”.

 

Quelques jours plus tard, la secrétaire d’Etat Hillary Clinton avait annoncé publiquement que les pourparlers se tiendraient à Istanbul. Très vite, les démentis se sont succédé. De Moscou, de Bruxelles et de Téhéran sont arrivées les notes diplomatiques signalant que le siège des pourparlers n’avait pas encore été fixé. Des sources iraniennes et irakiennes ont suggéré Bagdad comme alternative possible à Istanbul. Le ministre des affaires étrangères irakien, Hoshiyar Zebari a déclaré début avril 2012 avoir reçu une requête en ce sens, provenant d’une délégation iranienne. Il s’est dit “prêt à accueillir ce sommet”. D’autres sources ont émis l’hypothèse que la Syrie pourrait être le pays-hôte.

 

De toutes les façons, Istanbul semble avoir été écartée définitivement. “La Turquie est désormais exclue des intentions du Parlement et du gouvernement (iraniens)”, a déclaré, pour sa part, le chef de la commission des affaires étrangères du Majlis (le Parlement iranien), Allaeddine Bouroujerdi à la télévision iranienne en langue arabe, Al-Alam, confirmant du même coup la proposition faite aux Irakiens.

 

Tout cela s’est passé après la visite d’Erdogan en Iran —où le premier ministre turc avait défendu bec et ongles le droit des Iraniens à développer un nucléaire civil. Qu’est-ce qui a fait qu’Istanbul, aux yeux des Iraniens, est passé du statut de siège privilégié à celui d’éventualité à éviter?

 

A coup sûr, les divergences sur la question syrienne ont joué. Téhéran défend la légitimité du régime d’Al-Assad tandis qu’Ankara cherche à exercer un contrôle sur les Kurdes de Syrie et s’est rangé sans nuance du côté des rebelles. Dans la première décade d’avril, les soi-disant “Amis de la Syrie” se sont réunis à Istanbul. Au cours de cette réunion, les “amis”, avec, en tête, les Etats-Unis, l’Arabie saoudite et le Qatar, ont décidé de fournir de l’argent et des équipements aux miliciens de l’opposition syrienne qui combattent l’armée légale de Damas. Cette initiative ne fait nullement l’unanimité: la Russie, la Chine, l’Irak et bien sûr l’Iran, ne partagent pas ce point de vue. Et aucun de ces pays n’a participé à cette réunion.

 

Mais les tiraillements entre la Turquie et la République Islamique d’Iran ne se limitent pas à cela. Quelques heures à peine après le départ d’Erdogan de Téhéran, où il n’avait rencontré que très brièvement le président Ahmadinedjad et l’ayatollah Ali Khamenei, la TUPRAS, soit la plus importante société turque de raffinement du pétrole, a annoncé une réduction de 20% dans ses importations d’hydrocarbures iraniens. Cette option est d’autant plus étonnante quand on se rappelle que la Turquie s’était vantée d’entretenir des échanges commerciaux importants avec l’Iran, dans la mesure où elle dépendait pour un bon tiers de ses besoins énergétiques du brut iranien. C’est là une décision que les Iraniens, non sans raison, ont interprété comme une soumission inacceptable aux diktats de Washington qui, depuis longtemps déjà, fait pression sur ses alliés pour qu’ils diminuent leurs importations de pétrole en provenance de l’Iran. “La Turquie est l’esclave des Etats-Unis et d’Israël et le gouvernement turc finira très bientôt par être haï par ses propres citoyens, s’il continue sur cette voie”, a dit un ancien membre de la Commission des affaires étrangères du Parlement iranien, Esmaeel Kosari.

 

En fin de compte, en prenant cette initiative de réduire ses importations de brut iranien, la Turquie risque de perdre la confiance de l’Iran qui avait pourtant été jusqu’à faire sembler d’ignorer l’appartenance turque à l’OTAN et l’affaire du bouclier anti-missiles; la Turquie perd ainsi la possibilité, qu’elle avait fait entrevoir, de devenir la puissance médiatrice entre l’Iran et les Etats-Unis, notamment dans la question fort délicate du nucléaire. Dans un passé très récent, cette position d’éventuelle médiatrice avait donné au gouvernement turc un prestige discret dans la région et au-delà. Dans un tel contexte, on ne s’étonnera pas de voir l’Irak tenter de prendre la place de la Turquie comme puissance médiatrice entre l’Iran et l’Occident.

 

Ferdinando CALDA.

( f.calda@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 avril 2012; http://www.rinascita.eu ).

mercredi, 25 avril 2012

La Turquie sur la ligne de front !

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Andreas MÖLZER:

La Turquie sur la ligne de front!

 

D’après certaines rumeurs sérieuses, la Turquie s’apprêterait à se tailler, par des moyens militaires, une zone-tampon sur le sol syrien. Par une telle action, prétendent les justifications officielles, la Turquie éviterait les violations de ses frontières par l’armée syrienne et protègerait mieux les réfugiés. Mais une autre question se pose: celle de savoir si la Turquie n’envisage pas simultanément de mettre sur le dos de l’Europe le problème des réfugiés syriens. Les masses d’illégaux qui franchissent la frontière gréco-turque pour entrer sur le territoire de l’Union Européenne et la mauvaise volonté affichée par les Turcs, qui ne veulent apparemment pas coopérer avec l’UE dans cette question importante, ne nous permettent pas d’augurer du bon...

 

Les Turcs prétendent donc qu’ils raisonnent en termes purement militaires et défensifs voire en termes humanitaires quand ils concoctent leurs plans de “zone-tampon” mais on peut en douter. Car depuis des années Ankara oeuvre à se créer au Proche-Orient une sphère d’influence, dont les limites s’inspirent des frontières de l’ancien Empire ottoman. Elle cherche également à se positionner comme une puissance génératrice d’ordre dont on ne pourrait plus se passer. Ankara semble désormais s’impliquer directement dans la guerre civile qui afflige la Syrie, menace d’intervenir dans le Nord: elle devient, par ce fait même, un pays de la ligne de front au Proche Orient. Elle a des frontières communes avec la Syrie, l’Iran et l’Irak; elle court donc en permanence le danger d’être entraînée dans le tourbillon des innombrables conflits de cette région en crise. Quelle que soit l’issue de la crise syrienne, qu’Al-Assad soit renversé ou non, la paix ne reviendra pas si vite dans cette région.

 

Tout cela ne serait peut-être pas si grave pour nous Européens si la Turquie n’était pas depuis de longues années candidate à l’adhésion à l’UE et si des forces politiques influentes en Europe même ne plaidaient pas sans discontinuité pour l’inclusion rapide de ce pays dans les structures de l’UE. Si Ankara devient membre à part entière de cette UE, celle-ci alors serait à son tour sur la ligne de front. A coup sûr, ce n’est pas dans l’intérêt de l’Europe: voilà pourquoi il faut rompre immédiatement toutes les négociations visant l’adhésion turque.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°16/2012; http://www.zurzeit.at/ ).