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lundi, 15 mars 2010

L'Armenia tra Erdogan e Obama

armeniasvg_2.pngL'Armenia tra Erdogan e Obama

di Michele Paris

Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]

La recente condanna, da parte di una commissione parlamentare del Congresso americano, del genocidio di un milione e mezzo di armeni in Turchia nel 1915, è giunta in un momento molto delicato nei rapporti tra Washington e Ankara. Oltre a mettere a rischio la collaborazione turca su cui contano gli USA in più di una questione in Medio Oriente e in Asia sud-occidentale, il voto della scorsa settimana minaccia contemporaneamente di far saltare il complicato processo di distensione in corso tra Turchia e Armenia.

Ad agitare le acque è stato il voto (23 favorevoli e 22 contrari) con cui la Commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti americana giovedì scorso ha bollato come “genocidio” il massacro della popolazione armena durante la Prima Guerra Mondiale. Secondo la Turchia, quei fatti non rappresenterebbero invece uno sterminio di massa deliberatamente progettato, ma andrebbero piuttosto inseriti nel caos del conflitto mondiale e del crollo in atto dell’Impero Ottomano, assediato da più parti, inclusa una ribellione interna armena appoggiata dalla Russia.

La risoluzione, promossa dal deputato democratico della California Howard Berman, dovrebbe così invitare il presidente degli Stati Uniti a impiegare la parola “genocidio” per descrivere la strage del 1915 nel corso del consueto discorso annuale che si terrà il prossimo mese di aprile. Per ottenere la definitiva approvazione, tuttavia, l’iniziativa della Commissione Esteri dovrà prima assicurarsi il voto dell’aula, ipotesi piuttosto improbabile alla luce delle reazioni che essa ha immediatamente suscitato.

Per impedire il passaggio della risoluzione sul genocidio armeno, il governo turco del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan aveva inviato a Washington alcuni parlamentari del partito di maggioranza ed era ricorso anche ai servizi di una nota compagnia americana di pubbliche relazioni per influenzare i politici coinvolti nel processo di voto. Nonostante gli sforzi é arrivata però l’approvazione e Ankara ha proceduto con il richiamo del proprio ambasciatore negli USA, promettendo ritorsioni più gravi in caso di un prossimo voto dell’intera Camera dei Rappresentanti sulla questione.

“Siamo seriamente preoccupati che il voto di condanna possa danneggiare le relazioni tra Stati Uniti e Turchia e impedire gli sforzi di normalizzazione nei rapporti tra Turchia e Armenia”, ha riassunto una nota dell’ambasciata turca a Washington. Le stesse preoccupazioni devono aver turbato anche il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton, entrambi impegnati nel vano tentativo di impedire il voto in commissione - sia pure tardivamente e nonostante il loro parere favorevole alla definizione di “genocidio” espresso in campagna elettorale nel 2008.

Con l’aumentare della sua influenza su scala regionale, d’altra parte, gli USA fanno affidamento sulla Turchia in relazione a molteplici questioni, a cominciare dalla pace tra palestinesi e israeliani, per passare al nucleare iraniano, al ripristino di normali rapporti con la Siria e alla stabilizzazione dell’Afghanistan. In quest’ultimo paese, inoltre, Ankara ha da poco incrementato il proprio contingente militare, mentre consente agli americani l’accesso ad alcune basi militari sul proprio territorio per facilitare i collegamenti logistici con l’Iraq occupato.

La potente comunità armena che vive negli Stati Uniti aveva già ottenuto qualche risultato parziale in passato sulla strada verso il riconoscimento del genocidio del 1915. Nel 1975 e nel 1984 la Camera dei Rappresentanti aveva approvato risoluzioni simili, le quali non avevano però mai raggiunto il Senato. Più recentemente, nel 2007, la Commissione Esteri della Camera si era espressa ancora una volta a favore, ma la fortissima opposizione proveniente dalla Casa Bianca occupata da George W. Bush aveva impedito il voto definitivo dell’aula.

A far sentire il proprio peso in quell’occasione era stata un’altra lobby molto influente dall’altra parte dell’oceano, quella israeliana. Un’influenza pro-turca sul Congresso che era iniziata sul finire degli anni Ottanta in concomitanza con la costruzione dell’alleanza strategica tra Israele e Ankara. Il deteriorarsi dei rapporti tra i due paesi negli ultimi tempi – a partire almeno dall’operazione “Piombo Fuso” lanciata a Gaza da Israele a fine 2008 e duramente condannata dal governo di Erdogan – può in parte spiegare il nuovo voto sulla condanna del genocidio armeno. Tanto più che lo stesso deputato Berman, e altri membri della Commissione Esteri che hanno appoggiato la mozione, risultano tradizionalmente vicini alle lobby israeliane in America.

Come a Tel Aviv, in molti ambienti filo-israeliani negli USA si guarda infatti con crescente preoccupazione al sempre maggiore coinvolgimento della Turchia nelle vicende del mondo arabo. Allo stesso modo, i settori neo-conservatori vicini a Israele ritengono che il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) che governa ad Ankara stia pericolosamente indebolendo il tradizionale secolarismo delle istituzioni turche, facendo scivolare il paese verso una deriva islamista.

D’altro canto, altre associazioni filo-israeliane di destra, come l’Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale (JINSA), e giornali conservatori, come il Wall Street Journal, si sono invece opposti alla condanna del genocidio armeno, precisamente per timore di un possibile ulteriore inasprimento dei rapporti con la Turchia, un alleato troppo importante per Israele e Stati Uniti. Una divergenza di opinioni che potrebbe aver diviso il fronte pro-israeliano e dato il via libera alla condanna del genocidio.

L’altro e più immediato effetto del voto in America sulla questione armena, come già anticipato, potrebbe riguardare il congelamento del processo di riavvicinamento tra Yerevan e Ankara. Da qualche tempo, il governo di Erdogan aveva mostrato una certa disponibilità nei confronti del vicino orientale per rivedere i sanguinosi eventi del 1915. Il nuovo atteggiamento aveva portato lo scorso settembre al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Armenia e alla riapertura dei rispettivi confini, chiusi fin dal 1993.

Con la mediazione della Svizzera, e con il sostegno di Washington, era stato anche raggiunto un accordo per un trattato tra i due paesi, vincolato in ogni caso alla risoluzione della disputa territoriale tra Armenia e Azerbaijian - paese alleato della Turchia - per l’enclave territoriale del Nagorno-Karabakh. Il voto alla Commissione Esteri della Camera americana ha però spinto Ankara a bloccare la ratifica dell’accordo, assestando potenzialmente un colpo letale alle prospettive del già difficile processo di riconciliazione turco-armeno.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 11 mars 2010

België voert Turkse agenda uit

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België voert Turkse agenda uit

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Een paar dagen geleden viel de Belgische politie binnen bij Koerdische organisaties die al dan niet banden zouden hebben met de PKK, onder andere in mijn eigen geliefde Borgerhout. Tijdens 28 huiszoekingen werden 22 mensen opgepakt, waaronder 2 ex-parlementairen van een pro-Koerdische partij die momenteel verboden is in Turkije wegens het pro-Koerdische karakter van die partij. Ook de Koerdische zender ROJ TV, die al jaren perfect in orde is qua wetgeving e.d., zag hoe hun lokalen overhoop werden gehaald door de politie. Volgens Amed Dilce, directeur van ROJ TV, waren er zelfs Turkse agenten aanwezig bij deze huiszoekingen.

Het is duidelijk dat België hiermee een charmeoffensief voert naar Turkije. In de Turkse pers werden dan ook in de dagen na de huiszoekingen triomfantelijke berichten geplaatst over hoe “die vuile Koerden” eindelijk eens aangepakt werden door de Belgische politie. Dat België geen democratie is en geen bal geeft om vrijheid en vrije meningsuiting wordt hier nu nogmaals bewezen. Het is heus niet zo dat België hier de prachtige Turkse democratie verdedigt, laten we immers eens in herinnering brengen waar Turkije zoal voor staat:

De DTP, de grootste Koerdische partij van Turkije, is door de hoogste rechtbank van Turkije verboden. De partij wordt ervan beschuldigd banden te hebben hebben met de PKK, de separatistische gewapende groepering die opkomt voor de politieke rechten van Koerden in het land. [...] De Europese Unie, waar Turkije maar al te graag lid van zou worden, had eerder al laten weten dat een verbod van de DTP de rechten van de Koerdische minderheid zou schenden. Gevreesd wordt dat de uitspraak tot nieuwe spanningen tussen Turken en Koerden zal leiden.

Bron: http://www.gva.be/nieuws/buitenland/aid886329/turkse-rechtbank-verbiedt-grootste-koerdische-partij.aspx

En laten we ook niet vergeten:

Terwijl de Turkse regering haar programma van “democratische opening” verder zet en bepaalde rechten toekent aan etnische Koerden in Turkije, drijft ze de druk en de censuur op ten opzichte van pro-Koerdische kranten. Minder dan een maand nadat de overheid de krant Günlüksloot, ziet ook Demokratik Açilim zich vandaag gedwongen om de publicatie te stoppen.

Bron: http://www.gva.be/nieuws/buitenland/aid865699/turkse-censuur-tegen-pro-koerdische-kranten.aspx

Elke pro-Koerdische organisatie of partij zal in Turkije vroeger of later geconfronteerd worden met de beschuldiging dat zij banden heeft met de PKK. Het is een feit dat de PKK een gewapende organisatie is die aanslagen pleegt, maar welk alternatief hebben de Koerden nog? Elke keer als zij hun rechten op een parlementair-democratische manier willen verdedigen, dan worden ze in de cel gesmeten of gebombardeerd met rechtszaken. Dat daarna de Koerdische gemeenschap zich met geweld weert tegen de politie is dan ook 100% begrijpbaar. Het is dan ook de Belgische politie die de agenda uitvoert van Turkije en zo een wapen is in de handen van de volksonderdrukkers waar ook ter wereld.

De antifascistische dwazen zouden zich beter eens bezig houden met de rol van de Grijze Wolven en de Turkse politieke druk in de onderdrukking van de Koerdische diaspora. Daar zitten immers de echte fascisten en onderdrukkers. Maar dan zouden ze misschien wel ruzie kunnen krijgen met de allochtone Turkse gemeenschap en het zou niet lang duren of zij ook worden racisten.

Voor wie interesse heeft in de Koerdische strijd en wilt weten hoe de situatie daar momenteel is, kan ik de volgende lezing van de Vlaams-Socialistische Beweging aanraden: “Wanneer komt de Koerdische lente?“. Zelf zal ik helaas wel niet aanwezig zijn wegens andere verplichtingen.

Vlaanderen & Koerdistan: één strijd!

mercredi, 03 mars 2010

La OTAN le dicta a la Union Europea su relacion con Turquia

La OTAN le dicta a la Unión Europea su relación con Turquía

La UE debe suscribir un acuerdo bilateral en materia de seguridad, entre otros asuntos.- Catherine Ashton no asiste a la reunión

otan-turquie-copie.jpgEn materia de defensa, la OTAN -es decir, EE UU- sigue siendo quien manda. Así ha quedado de manifiesto en la reunión informal que los ministros de Defensa de la UE celebran en Palma de Mallorca. En ausencia de la Alta Representante para la Política Exterior y de Seguridad, Catherine Ashton, que ha preferido asistir a la toma de posesión del nuevo presidente ucranio, la estrella de la reunión ha sido el secretario general de la OTAN, Anders Fogh Rasmussen.

Su primera intervención en un encuentro de este tipo no se ha limitado, como se esperaba, a abordar las relaciones entre las dos organizaciones. Rasmussen se ha presentado ante los ministros europeos como el embajador de los intereses de Turquía y les ha dicho cómo deben tratar a este país islámico, miembro de la OTAN y eterno aspirante a entrar en la UE. A saber: la UE debe suscribir un acuerdo bilateral en materia de seguridad con Turquía; debe establecer mecanismos de cooperación entre Turquía y la Agencia Europea de Defensa (AED); y debe permitir que los países que participan en operaciones militares de la UE sin pertenecer a la misma intervengan en la toma de decisiones. Por si hubiera duda, ha aclarado que Turquía es el segundo contribuyente de la misión de la UE en Bosnia. Tras admitir que “se trata de un tema sensible”, ha agregado que ello “no debe servir como excusa”.


Rasmussen ha asegurado que la discusión con los ministros europeos ha sido “muy fructífera”, pero ha evitado responder si Chipre está dispuesta a dar un papel mayor en la Unión al país que ocupa el norte de su territorio desde 1974. Respecto a la ausencia de Asthon, ha asegurado que ya ha abordado este asunto con ella y que “está muy a favor de reforzar la cooperación con la OTAN”.

Preguntado por las declaraciones del jefe del Pentágono, Robert Gates, quien ha lamentado la “desmilitarización” de Europa, Rasmussen ha recordado que los europeos aportarán 10.000 soldados a Afganistán a petición de Obama, pero ha admitido que “hay un problema por la falta de capacidad [militar] en Europa”. Ha calificado de “éxito” la ofensiva en la provincia afgana de Helmand y ha dicho que “servirá como ejemplo para operaciones futuras”.

La reunión de Palma ha concluido sin que los siete países socios del avión de transporte europeo A400M (Alemania, Francia, Reino Unido, España, Turquía, Bélgica y Luxemburgo) certificaran el “principio de acuerdo” anunciado por la ministra española, Carme Chacón . El comunicado oficial es más cauto y sólo constata que se ha producido “un avance significativo en las conversaciones”. Lo cierto es que la empresa fabricante, EADS, ha aceptado la última oferta de los gobierno para compensarla por el sobrecoste del proyecto: 2.000 millones a fondo perdido y 1.500 en créditos. Aún quedan, sin embargo, notables flecos; como saber qué países participarán en el préstamo y en qué condiciones. Chacón subrayó la “voluntad inequívoca” y unánime de ir adelante con el A400M y su impresión de que “pronto” se cerrará el acuerdo.

Miguel González

Extraído de El País.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 26, 2010.

mardi, 02 mars 2010

Six milliards d'euros pour la Turquie!

6 milliards d’euros pour la Turquie

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Subventions à la Turquie dans le cadre de sa “préadhésion” à l’Union européenne. Un coût de 6 milliards pour les contribuables européens.

Le logo ci-contre est celui du Secrétariat général pour les Affaires européennes (organisme du gouvernement turc chargé des négociations d’adhésion). La couronne d’étoiles européenne s’y transforme en croissant sous l’influence de la Turquie : tout un programme.

Le 13 janvier 2009, la Cour des comptes européenne (ECA) a rendu public un rapport, intitulé “La gestion, par la communauté européenne, de l’aide de préadhésion en faveur de la Turquie”.

Dans ce rapport, un chiffre explosif : la Commission européenne a versé 6 milliards d’euros à la Turquie dans le cadre de sa “préadhésion”.

La première période d’aide à la préadhésion (2002-2007) a vu l’Europe verser à la Turquie 1,249 milliard d’euros ; la seconde (2008 – 2013) prévoit le versement de 4,873 milliards d’euros.

Si la Commission  européenne est responsable de la gestion des fonds , l’argent est confié à l’IAP,”Instrument d’aide de préadhésion” en grande partie géré par les autorités turques. Depuis 2002, l’aide de préadhésion en faveur de la Turquie permet de financer la mise en oeuvre de projets destinés à soutenir les efforts déployés par ce pays afin de remplir les conditions requises pour adhérer à l’Union européenne.

Les « documents stratégiques » fournis à la Cour par les autorités responsables démontrent que les aides de l’UE n’ont pas été affectées de manière cohérente « en fonction d’un ensemble d’objectifs réalisables ». La Cour déplore l’opacité – pour ne pas dire le gaspillage, voire la corruption pure et simple, selon Minute– des projets financés.

D’après le rapport de la Cour, « des projets bénéficient de subventions alors que la partenariat pour l’adhésion n’en mentionnait nullement l’utilité et, dans le même temps, plus de 100 autres priorités n’étaient au centre d’aucun des projets sélectionnés. Les objectifs et la portée de 4 autres projets audités ne concernaient pas directement les priorités figurant dans le partenariat pour l’adhésion”.

Observatoire des subventions

lundi, 01 mars 2010

On relance la candidature turque en pleine crise institutionnelle!

On relance la candidature de la Turquie
en pleine crise institutionnelle

par Jean-Gilles MALLIARAKIS / http://www.insolent.fr/

islatroie.jpgChef du gouvernement de Madrid, M. José-Luis Zapatero se croit autorisé à parler au nom de l'Espagne, et même de l'Europe. Les naïfs croyaient la présidence tournante de l'Union abolie par le traité de Lisbonne. Pour lui être agréable, on a accepté de maintenir cette fiction en sa faveur. De la sorte, il a proclamé, recevant son homologue turc, Recep Tayyip Erdogan le 22 février (1), une nouvelle avancée des négociations d'adhésion de la Turquie, ouvrant le "plus grand nombre de chapitres" thématiques de discussions en vue de son intégration.

"L'Espagne est fermement partisane de l'entrée de la Turquie dans l'Union européenne. Nous avons toujours maintenu fermement cette position. C'est le cas aujourd'hui et ce le sera demain".
Voilà donc relancée, de manière fort inquiétante et de mauvaise foi, un dossier essentiel pour notre identité, et auquel votre serviteur vient de consacrer un petit livre documenté. Dans cette présentation, l'auteur s'efforce d'expliquer au public francophone un certain nombre de contradictions de ce pays, candidat extra-communautaire malheureux depuis 1987.

Il se trouve aussi que celles-ci s'accroissent, se gonflent, de semaine en semaine, au point de paraître désormais explosives, à l'intérieur.

Ainsi ce 23 février, au lendemain même des embrassades de Séville, malencontreusement perturbées par un très méchant Kurde, très mal élevé (2) on procédait à Ankara, à Istanbul, à Bursa et à Izmir, à l'arrestation d’une cinquantaine d’officiers, dont 11 importants généraux à la retraite. Ceux-ci ont été gardés à vue et interrogés dans le cadre d'un nouveau dossier d'accusation de complot. Intitulé "Bayloz", les enquêteurs l'ont rattaché à l'interminable feuilleton judiciaire "Ergenekon". Le chef d'État major Illker Basbug, désormais sur la sellette, et dont certains demandent publiquement la destitution, doit annuler un déplacement officiel à l'étranger.

On ne peut pas tout de même pas tenir de tels développements pour d'anodines péripéties !

Parallèlement et paradoxalement l'environnement international accorde de plus en plus de créance au gouvernement des fameux "islamistes modérés" de l'AKP actuellement au pouvoir.

Les médiats de notre Hexagone pointent certes, de loin en loin, un certain nombre de problèmes. Ceux-ci nous sont même devenus presque familiers.

Ainsi la lancinante question des communautés d'origine et de langue kurdes a produit des milliers de morts dans l'affrontement du dernier quart de siècle. Assagie en partie seulement, depuis l'arrestation de son chef terroriste Ocalan en 1999, la révolte sanglante du PKK s'était transposée sur le plan légal. D'inspiration et de discours marxiste-léniniste, elle a généré un parti de gauche, le DTP, représenté à la Grande Assemblée nationale d'Ankara en dépit des filtres constitutionnels. Récemment dissous, il s'est aussitôt reconstitué, sous un autre nom.

Dans un autre ordre d'idées, la tension non résolue avec l'Arménie, comprenant la terrible question de la négation du génocide de 1915, se complique de l'imbroglio des relations avec l'Azerbaïdjan. On a donc communiqué à l'automne 2009, et Mme Clinton a cru triompher, sur un accord "réconciliateur" qui ne permettait même pas d'ouvrir les frontières entre les deux États.

D'autres exemples pourraient être donnés, que la presse parisienne laisse courageusement de côté. Ceux-là semblent suffire à édifier le lecteur quant aux difficultés générales que rencontre la ligne diplomatique annoncée par le ministre des Affaires étrangères apparu récemment M. Ahmet Davutoglou.

Sa formule a été énoncée en anglais de cuisine : "no problem with our neighbours". Or, cela peut se traduire en bon français par plusieurs formulations. Et, selon que l'on entendra "il n'existe aucun litige", ou au contraire "nous refusons de prendre en considération le moindre contentieux", ou enfin "qu'on cesse de nous enquiquiner avec les jérémiades de nos voisins", il ne s'agit plus de simples nuances dans l'interprétation.

Globalement une telle politique extérieure illustre l'adage "qui trop embrasse mal étreint".

Dans le sud-est européen, par exemple, Ankara prétend à la fois marquer en souplesse sa présence, affirmée comme traditionnelle, et souffler sur les braises des revendications de minorités islamiques, généralement slaves ou pomaques. Une idée nouvelle vient de germer – combien de temps durera-t-elle ? – celle de prendre appui sur la Serbie, vecteur improbable de la pénétration d'Ankara. Mais, quelques semaines auparavant, et plus naturellement, la Bosnie-Herzégovyne faisait l'objet de toutes les attentions, puis l'Albanie. Avec la Bulgarie et avec la Grèce on agite les droits des petites minorités musulmanes, etc. tout en prétendant, simultanément, aplanir la rugueuse relation turco-hellénique, "résoudre" le problème de Chypre, etc. Par ailleurs on laisse la presse gouvernementale comme elle le fait depuis plusieurs mois, révéler les manœuvres occultes de l'État-Major kémaliste. Et on les retrouve derrière toutes les provocations anti-grecques depuis 1955 jusqu'à celles des dernières années en Mer Égée, en passant par diverses affaires d'assassinats, comme celui du journaliste arménien Hrant Dink en janvier 2007, et d'attentats inexpliqués.

Car un aspect décisif de cette situation politique oppose deux tendances apparemment irréconciliables, au sein de la république post-kémaliste. Il ne s'agit pas seulement de deux secteurs de l'opinion, la gauche laïque et la droite islamisante, ou plus exactement confrérique. On doit constater aussi le conflit de plus en plus ouvert entre centres de pouvoirs institutionnels. Ils se combattent au nom de légitimités juridiques concurrentes. La constitution en vigueur depuis le référendum de 1982 a validé un rapport de force correspondant au coup d'État militaire dirigé par le général Evren en 1980. Plusieurs fois réformée depuis, elle a prévu en faveur de l'armée un certain nombre de prérogatives et de verrous. Au sein du pouvoir judiciaire, également, les forces laïques disposent de situations stratégiques, destinées à bloquer le retour en force de l'élément religieux. Chaque jour, de nouveaux épisodes, parfois tragiques, parfois savoureux, attisent les oppositions.

Or en même temps, la politique extérieure d'Ankara avance de plus en plus. Elle paraît prendre en main les revendications du Proche orient arabe. Elle tend à évincer progressivement l'influence du pays rival, l'Égypte.

Cela conduit cette diplomatie à s'exposer à des risques peut-être inconsidérés.

Lors de la dernière réunion, ce 29 janvier à Istanbul, des sociétés de pensées des 56 pays membres de l'Organisation de la Conférence islamique, s'est ainsi produit un événement bien significatif. L'assistance s'est levée, lors de l'intervention de Rachid Benaïssa (3), pour ovationner debout l’action pro-palestinienne du "nouvel empire ottoman" (4).

Cette popularité régionale de l'actuel gouvernement d'Ankara a pris son essor avec l'incident spectaculaire du 9 janvier 2009 à Davos entre le premier ministre turc Erdogan et Shimon Peres. Elle s'est vue confirmée par les nombreux déplacements des 3 principaux dirigeants dans divers pays arabes ces 12 derniers mois.

Inutile de dire qu'en contrepartie, la relation traditionnelle avec l'État d'Israël s'est dégradée d'autant. Avec les États-Unis, le refroidissement est devenu manifeste. Les choses vont beaucoup moins bien avec les alliés.

On peut certes se poser beaucoup de questions à propos de ce concept "néo-ottoman" dont les contours souffrent d'une absence de définition.

Il fait cependant son chemin. S'il s'agissait de reprendre la voie des réformes libérales de l'époque dite "Tanzimat", interrompues sous le règne d'Abdül Hamid, et plus encore par la seconde révolution jeune turque de 1909 (5), on pourrait se réjouïr.

En revanche il existe une différence de taille entre l'Histoire de cet Empire séculaire et le gouvernement de M. Erdogan apparu en 2003.

Historiquement, en effet, ni l'expansion de l'islam aux VIIe et VIIIe siècles, ni la pénétration seldjoucide en Asie mineure au XIe siècle, ni encore moins l'avènement de la maison d'Osman à partir du XIVe siècle ne se sont opérés contre l'élément militaire. Au contraire.

Tous les dirigeants politiques de ces différentes époques se sont affirmés comme chefs d'armées. Ils s'appuyaient, tous, sur une élite de cavaliers, dont ils ont fait des seigneurs territoriaux (6).

Imaginer un gouvernement islamique modéré, susceptible de changer de paradigme pour complaire à l'Europe des petits cochons roses, pour satisfaire au président universel Obama, et pour répondre aux rêves d'un monde sans conflit (7), peuplé de gentils bizounours et de schtroumpfs bleus, paraît donc un tant soit peu prématuré.
JG Malliarakis


Apostilles

 

  1. cf. Le Monde en ligne et AFP 22 février 2010 à 18h08
  2. Sur notre petite photo, on peut voir la remise du prix Nodo au premier ministre turc. Mais "Le passage du Premier ministre turc à Séville a été plus mouvementé que prévu. Recep Tayyip Erdogan était venu recevoir le prix Nodo, remis par la Fondation Séville aux personnalités qui œuvrent pour le dialogue entre les civilisations et les cultures. Une cérémonie feutrée dont le quotidien ABC raconte le déroulement... Mais, à la sortie de la mairie andalouse où se tenait cette soirée, il a été pris à partie par un manifestant qui lui a lancé une chaussure. Son geste s'est accompagné d'un slogan: "Vive les Kurdes, vive le Kurdistan!", lancé en espagnol, comme le montrent ces images de CNN." cf.le site de la Vigilance arménienne
  3. sur ce personnage franco-algérien qui fut fonctionnaire de l'UNESCO, on peut lire, avec les réserves d'usage la fiche wikipedia qu'il a peut-être rédigé lui-même
  4. cf. Think Tanks Of The Islamic Countries Come Together In Istanbul
  5. celle qui porte la responsabilité du génocide de 1915
  6. recourir au concept occidental de féodalité relève du contresens.
  7. annoncé par un faux prophète dans une conférence célèbre à Moscou en 1991.

samedi, 27 février 2010

Maniobras militares conjuntas entre Turquia e Israel

Maniobras militares conjuntas entre Turquía e Israel

Finalmente el ministro turco de defensa, Vecdi Gonül mencionó que después de la crisis del octubre de 2009 en las relaciones de este país y el régimen sionista, el ejército de este régimen ha participado dos veces en maniobras celebradas en el territorio de Turquía. El gobierno turco el mes de octubre de 2009 anuló el programa de la celebración de entrenamientos militares conjuntos con el régimen sionista en protesta a los crímenes de este régimen en la franja de Gaza.

Pero Vecdi Gonül finalmente frente las preguntas de los diputados de diferentes partidos en el parlamento, confesó que una de estas maniobras fue celebrada de forma trilateral entre Turquía, el régimen sionista y Jordania el mes de noviembre de 2009 en Ankara y la segunda en mes de diciembre en la misma ciudad.

Esta confesión de Gonül tuvo amplios ecos en los medios noticieros turcos, de forma que el diario Vakit publicado en Turquía escribió que el ejército de este país sigue actuando de forma obstinado y no acata plenamente al gobierno de este país.


Esto significa que el ejército de Turquía al contrario que los políticos de este país, persigue sus intereses en relaciones con el régimen sionista.

Al mismo tiempo algunos analistas no rechazan la posibilidad de que teniendo en cuanta las relaciones estratégicas de Turquía y el régimen sionista, haya un acuerdo entre el ejercito y el gobierno de Turquía de forma que los mandatarios de este país tomen postura contra el régimen sionista con el fin de responder las reclamaciones de la opinión publica del país ante los crímenes de este régimen en Gaza, y por otro lado, el ejercito mantenga sus relaciones militares con el régimen sionista.

De forma que algunos medios noticieros de Turquía anunciaron la ejecución del acuerdo de varios millones de dólares de este país y el régimen sionista para la compra de aviones no tripulados Heron el mes de marzo.
Otro punto de vista es que el ejército del régimen sionista, con el fin de destruir la posición y lugar del primer ministro de Turquía, Recep Tayyip Erdogan y separar este país del mundo islámico, insiste en mantener relaciones militares con Turquía.

Después de la fuerte disputa verbal el año pasado entre Erdogan y Simon Pérez, presidente del régimen sionista al margen del foro de Davos, los políticos israelíes incluso calificaron a Erdogan de anti judío.
Mientras tanto dirigente del partido Kadima del régimen sionista, Tzipi Livni, dijo de forma explicita que Turquía debe elegir entre el mundo islámico e Israel.

Parece que el Partido Republicano del Pueblo de Turquía como mas grande partido de oposición en el parlamento, teniendo en cuenta la sensibilidad de la opinión publica de la población musulmana de Turquía a la forma de la relación de su país con este régimen, intenta llevar bajo la tela de juicio la actuación del gobierno dirigido por Erdogan y aprovechar de ello a su favor en las próximas elecciones generales.

Extraído de IRIB.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 20, 2010.

vendredi, 26 février 2010

Nabucco con futuro incierto por falta de gas

Nabucco con futuro incierto por falta de gas

nabucco_pipeline_100.jpgProyectado por Europa para reducir la dependencia energética de Rusia, el gasoducto Nabucco en la región del mar Caspio está lejos aún de materializarse a causa de la escasez de carburante, afirmó hoy un experto europeo.

Para Alexander Rahr, especialista del Consejo Alemán en asuntos energéticos y los países de la Comunidad de Estados Independientes, el proyecto ideado por Estados Unidos y la Unión Europea tropieza con muchos obstáculos y el principal es la falta de gas a fin de garantizar el trasiego en los plazos previstos.

Dijo que las fuentes no podrán llenar las tuberías como se creyó y sencillamente Nabucco no tiene hoy gas disponible.


Azerbaiyán, según el experto, parece ser la única alternativa posible para el del trasiego del carburante hacia Europa, aunque recordó los grandes volúmenes de combustible azul vendidos por ese país a Rusia y a Irán.

En Occidente están esperanzados en completar las necesidades con el gas proveniente de Iraq, pero la situación de inestabilidad del país árabe pone en duda que pueda ingresar al mercado europeo, sostuvo el analista alemán.

Otro de los proveedores importantes de gas en Asia Central es Turkmenistán, que vende casi todo el carburante a Rusia y a China; además de haberse comprometido con Moscú en la construcción de un gasoducto en el Caspio para diversificar las rutas energéticas hacia Europa.

Nabucco se ha visto en un callejón sin salida porque Rusia actuó con habilidad al convencer a varios estados balcánicos de unirse al proyecto South Stream (Corriente Sur), otra de las variantes alternativas, puntualizó Rahr.

Considerado clave para la geopolítica energética de Estados Unidos y de la UE en Asia Central y la zona del Caspio, el proyecto involucra a Azerbaiyán, Bulgaria, Georgia, Hungría, Rumania y Turquía, junto a Austria, donde terminaría uno de los ramales.

El director general de esta obra, Reinhard Mitchek, aseguró recientemente que Nabucco comenzará a operar en 2014.

A un costo estimado de 7 mil 9 millones de dólares, se espera que el gasoducto bombee 31 mil millones de metros cúbicos de gas anuales desde la estación primaria en la ciudad turca de Erzurum.

Bautizada por sus iniciadores como la ruta transcaspia, Nabucco fue diseñado para acabar con el monopolio de Rusia en la exportación de hidrocarburos a Europa y controlar las principales fuentes de materia prima en Asia Central.

Extraído de Prensa Latina.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 23, 2010.

jeudi, 25 février 2010

Réflexions sur le voyage de Guillaume II en Palestine

Wilhelm_II_Auguste_Viktoria_Jerusalem_1898.jpg

Alois PRESSLER :

 

 

Réflexions sur le voyage de Guillaume II en Palestine

 

Lorsque l’on prononce les mots « Palestine » et « Proche Orient », on songe immédiatement à l’Intifada, à une guerre perpétuelle, surtout pour l’enjeu pétrolier. Le pétrole, en effet, fut l’un des motifs principaux du voyage en Palestine de l’Empereur d’Allemagne Guillaume II du 11 octobre au 26 novembre 1898.

 

Inauguration de la Basilique Saint Sauveur

 

Au cours de ce voyage, l’Empereur visita également Constantinople, Haïfa, Jérusalem, Jaffa et Beyrouth. La visite visait plusieurs objectifs : elle entendait consolider la position du Sultan turc Abdoul Hamid II et renforcer le poids de l’église protestante, évangélique et luthérienne au Proche Orient (car, à cette époque, quasi la moitié des chrétiens vivant en Palestine venaient d’Allemagne). Enfin, l’Empereur voulait inaugurer la Basilique Saint Sauveur à Jérusalem.

 

Scepticisme des Français

 

Dans l’opinion publique française, ce fut un tollé : on s’est très vite imaginé que Guillaume II voulait, par son voyage, miner la protection traditionnelle qu’offrait la France aux catholiques de Palestine. Ce reproche était dénué de tout fondement, de même que l’allusion à une éventuelle volonté allemande de s’approprier la Palestine.

 

Un sermon plein de reproches aux églises…

 

Le 25 octobre 1898, Guillaume II arrive en Palestine, premier Empereur du Reich allemand à y remettre les pieds depuis 670 ans (quand Frédéric II avait débarqué à Saint Jean d’Acre). Après avoir reproché amèrement aux représentants du clergé dans un sermon plein de reproche à Bethléem, où l’Empereur morigénait la désunion entre chrétiens (à maintes reprises, des soldats turcs avaient dû intervenir pour apaiser les querelles entre les diverses confessions chrétiennes).

 

Le rejet de l’idée d’un Etat juif

 

Le 31 octobre, enfin, eut lieu l’événement majeur du voyage de Guillaume II : l’inauguration de la Basilique Saint Sauveur à Jérusalem. Le 2 novembre, une délégation sioniste rend visite à l’Empereur dans le camp militaire, composés de tentes, qu’il occupe : elle est présidée par Theodor Herzl. L’Empereur spécifie clairement à la délégation qu’il est prêt à soutenir toute initiative visant à augmenter le niveau de vie en Palestine et à y consolider les infrastructures mais que la souveraineté du Sultan dans la région est à ses yeux intangible. L’Empereur, en toute clarté, n’a donc pas soutenu le rêve de Theodor Herzl, de créer un Etat juif en Palestine, rêve qui ne deviendra réalité qu’en 1948.

 

En grande pompe…

 

Le 4 novembre, Guillaume II embarque à Jaffa pour revenir finalement le 26 novembre à Berlin et s’y faire fêter triomphalement, ce qui ne se fit pas sans certaines contestations (sa propre sœur n’approuva pas l’ampleur des festivités).

 

Sur le plan politique, cette visite ne fut pas un succès

 

Le voyage de Guillaume II  en Palestine ne fut pas un grand succès politique. Certes, les rapports avec le Sultan furent améliorés, condition essentielle pour la réalisation du chemin de fer vers Bagdad et pour la future alliance avec l’Empire ottoman lors de la première guerre mondiale. Cependant, l’Empereur n’a pas pu assurer à l’Allemagne l’octroi de bases ou de zones d’influence. De même, les Allemands et les Juifs allemands installés en Palestine ont certes reçu un appui indirect par la construction de routes et de ponts, de façon à avantager les initiatives des sociétés touristiques mais tout cela ne constituait pas un appui politique direct, que l’Empereur n’accorda pas. En Europe, ce voyagea se heurta à bon nombre de contestations. En Allemagne même, ce voyage, sans résultats à la clef, n’a pas bénéficié de soutiens inconditionnels.

 

Sur le voyage : rapports positifs

 

L’Empereur d’Allemagne a toutefois réussi à présenter son voyage de manière attrayante et populaire, en diffusant au sein de la population des rapports positifs et flatteurs sur son voyage  au Proche Orient. Il y a 120 ans, toute politique proche orientale faisait déjà l’objet d’un travail médiatique et n’était pas assurée de succès durables.

 

Alois PRESSLER.

(article paru dans « Der Eckhart », Vienne, octobre 2007 ; trad.. franc. : Robert Steuckers, février 2010).

 

 

 

jeudi, 18 février 2010

Die Türkei und die angelsächsischen Mächte

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Robert Steuckers:

 

 

Die Türkei und die angelsächsischen Mächte

 

Geschichte der britischen und amerikanischen Einmischungen im Raum Mittel-Osten

 

Beziehungen mit der Türkei

 

Auszug aus einer Rede - Gehalten in Bayreuth für die Gesellschaft für Freie Publizistik (April 2006)

 

Wenn England 1759 Weltreich wird, nachdem Indien und Kanada völlig unter dessen Kontrolle kommen, galt von damals ab die Regel, die schwächste Macht Europas als Bundgenosse zu haben, um die Stärkste auszuschalten. Auch werden zu dieser Zeit die Landmassen zwischen den europäischen Hoheitsgebieten und Indien strategisch wichtig. Keine Macht sollte die beherrschen und somit Indien bedrohen. Nichts scheint zwischen 1759 und 1783 die Alleinherrschaft Englands in der Welt zu verhindern. Im Schicksalsjahr 1783 ändern sich die strategischen Gegebenheiten: Ludwig XVI. von Frankreich rächt sich für den Verlust Indiens und Kanadas, indem er als Ehemann der Kaiserschwester Marie-Antoinette und Bundgenosse des deutschen Kaisers, die britische Flotte in Yorktown während der amerikanischen Unabhängigkeitskrieg zerstört; zur gleichen Zeit eroberten die Armeen der russischen Kaiserin Katharina die Krim, die ein Stützpunkt im Schwarzen Meer wird, bloss sieben Jahre nachdem die russische Flotte im Mittelmeer 1779 erfolgreich die ottomanische bekämpft hatte. Zwei kontinentale Mächte behaupten sich so auf dem Meer. Die Antwort der Britten wurde 1791 dargestellt in einem anonymen Memorandum, das „Russian Armament“ als Titel trug. In diesem Dokument befanden sich schon alle Elemente und Kriterien des „containments“ Russlands. Dabei wurde das ottomanische Reich als ein Riegelterritorium gegen jede russische Ausdehnung in der Richtung des Mittelmeeres, Ägyptens, des persischen Golfes und des Indischen Ozeans betrachtet. Zehn Jahre später, im Jahre 1801, wenn der Zar Paul I. zusammen mit Napoleon eine Eroberung Indiens plant, bevor er mysteriös Opfer eines Mordes wurde, entwickelten die Londonschen Gremien die Strategie, alle mögliche Völker und Stämme des „rimlands“ als potentielle Verriegelungselemente zu benutzen, damit die Armeen des Zaren nie die Ufer des Indischen Ozeans erreichten. In 1828, wenn unter russischem Druck Griechenland unabhängig wurde, wird England systematisch die türkische Rechte auf den Seestrassen verteidigen und dabei für sich selbst das Recht, diese Seestrassen zu befahren, eisen. Wenn im gleichen Jahr Persien auch durch die russischen Armeen besiegt wurde, wurde die russische Gefahr noch grösser in den Augen Englands. Russland besetzte von jetzt ab Nord- und Südkaukasien und bedrohte damit sehr ernst die Integrität des ottomanischen Hoheitsgebietes, indem Russland sich als Aufgabe gab, die rechtsgläubige Christenheit vom türkischen Joch zu befreien. Der Krimkrieg war die Rache Englands und beim Pariser Vertrag von 1856 wurde Russland dazu behindert, seine Schiffe über die Meerstrassen fahren zu lassen. Im 1877-78, erreicht Russland einen militärischen Sieg nach einigen Feldzügen im Balkan aber eine diplomatische Niederlage in Berlin in 1878.

 

Die zweite Politik der Türkei gegenüber

 

Nachdem das ottomanische Reich ab ungefähr 1890 zusammen mit den II. Reich eine gemeinsame Politik rund der Bagdad-Bahn zu entwickeln begann, fingen die Londonschen Gremien an, eine neue türkische Politik zu entwickeln, nämlich eine, die die Zerstückelung des ottomanischen Reichsgebietes vorsah. Das Hauptinstrument, das in diesem Sinn geschmiedet wurde, war die Schaffung eines anti-türkischen arabischen Nationalismus. Die englische Unterstützung des arabischen Nationalismus entfaltete sich in zwei Stufen :  In der ersten dieser Stufen unterstützten protestantische angelsächsische Institute oder Stiftungen einen liberal-verwestlichen Arabismus, den die Türken schnell grausam niederhalten werden, mit öffentlichen Hinrichtungen von liberalen Intellektuellen in Beirut und Damas. Nach dem Scheitern dieses Versuches, wobei festgestellt musste, dass der Liberalismus überhaupt keine Anziehungskraft im arabischen Raum hatte, brauchte dringend eine neue Strategie geschmiedet zu werden. Die Stämme Arabiens sollten dann „bearbeitet“ werden und dabei ihre beduinische Identität bewahren, damit sie als „nützliche“ Barbaren der Peripherie gegen das Zentrum oder zumindest gegen Zentren des ottomanischen Reiches am rechten Zeitpunkt gebraucht werden könnten. Aber die Stämme waren gegeneinander tief befeindet seit den blutigen Ereignissen des 19. Jahrhunderts : im Norden herrschte Hussein über die Hedschas-Stämme und etwa südlicher, herrschte Saud im Neschd. Die strategischen Schwierigkeiten, die die Briten zu lösen hatten, waren hauptsächlich dazu orientiert, es zu vermeiden, dass die südlichsten Stämme als Rückenbundgenossen der Türken eventuell funktionieren könnten. Aber die wahhabitischen Neschd-Stämme waren seit der grausamen Repression von Mehmet Ali und Ibrahim Pascha von einem zu tiefen Hass den Ottomanen und Ägyptern gegenüber belebt, um sich instrumentalisieren zu können.  Hussein im Hedschas war am Anfang eher dazu geneigt, die Türken zu Hilfe zu können; Die diplomatische Fähigkeiten des Lawrences und seine guten Kenntnisse des arabischen Stammessystems erlaubten es, Hussein für die Sache der Briten zu gewinnen. So entstand was man heute wieder die „Insurgency-Strategie“ nennt; die wurde nochmals kürzlich im Afghanistan angewendet. Türken und Deutschen werden trotzdem aber erfolglos Rückenbundgenossen haben : die Schiiten des Jemens und die Senussisten entlang der ägyptisch-libyschen Grenze. Die Jemeniten werden eigentlich nicht viele britische Truppen festhalten. Die Senussisten werden „raids“ bis tief in der südalgerischen Wüste veranstalten, die dann eine Revolte im marokkanischen berbersprechenden Mittelatlas-Gebirge entzündet haben. Dort werden wohl viele französische Regimenter festgehalten.

 

Echtes Ziel der britischen Tätigkeiten in der arabischen Halbinsel war selbstverständlich, die Ölfelder zu kontrollieren und, nach der Ausschaltung der mit dem Reich befreundeten Türkei und des jungtürkischen Regimes, eine Türkei ohne Öl zu schaffen. Kennzeichnet für diesen Prozess ist die Mossul-Frage; Das an Ölfelder reiche Mossul-Gebiet im nördlichen kurdischsprechenden Teil des heutigen Iraks gehörte dem Ottomanischen Reich, wurde Frankreich im Text der 1916 Sykes-Picot-Agreements versprochen und, nach späteren Nachkriegsdiskussionen rasch dem englischen Protektorat Irak angeschlossen, weil dort umfangreiche Ölreserven von britischen Geologen entdeckt wurden. So wurden zwei Fliegen in einer Klappe erledigt: sowohl Frankreich als die neue Türkei blieben manipulierbare ölarme Mächte, die keine eventuelle Herausforderungen stellen konnten.

 

In der Zwischenkriegszeit, schlug die Stunde des Ibn Sauds. Nach langen Kämpfen und mit Hilfe der Ichwan-Bewegung, befestigte er seine Macht über das heutige Saudi-Arabien, nur mit der Ausnahme des Südens unter britischer Obhut.

 

Die Politik der Türkei gegenüber nach 1945

 

Nach der deutschen Niederlage in Europa 1945, erhielt die Türkei wieder ihre Rolle als Riegelterritorium wie zur Zeit Napoleons. In 1942 hatten die pantürkischen Nationalisten auf einem deutschen Sieg gesetzt, in der Hoffnung im Kaukasus unter den dort lebenden Türkenvölker erneut Einfluss zu gewinnen. In einem Schauprozess, unmittelbar bevor die Türkei rein formell Deutschland den Krieg 1945 erklärte, wurden die Pantürkisten zu langen Haftstrafen verurteilt aber nach ein Paar Wochen oder Monate wieder freigelassen. 1949 trat die Türkei die NATO bei, wobei die Armee die Hüterin des Laizismus und des Verwestlichungsprozesses wurde. Der Blutzoll als Eintrittspreis zahlte diese Armee während des Koreakrieges. Aber wenn der Ministerpräsident Menderes 1960 für eine lockere Haltung der Religion gegenüber plädierte, wurde er rasch durch einen Armeeputsch gestürzt, und nach einem kurzen Verfahren öffentlich gehenkt (Bild hierunten). So wurde der Türkei die am meist geliebte verbündete Macht bis Bush Junior.

 

menderes.jpgInteressant ist es, die Clintonsche Politik der Türkei gegenüber zu analysieren: der amerikanische Präsident versprach, unter anderem während eines offiziellen Besuchs in Istanbul und Ankara, die Türkei wieder eine Rolle im Balkan nach der Unabhängigkeit Bosniens spielen zu lassen, die EG-Kandidatur der Türkei zu unterstützen, eine Schlüsselrolle in der Ausschaltung des Iraks mitspielen zu lassen, und ihr eine getarnte und faktische Anwesenheit im ölreichen nordirakischen ethnisch-kurdischen Mossul-Gebiet zu garantieren.  So hätte die Türkei als Preis einer Intervention an der Seite der US-Amerikaner eine Teilnahme in der Ölförderung in diesem kurdischen Gebiet gewonnen.

 

Die Verwaltung des Bush Juniors hat diese Lösung abgelehnt, was die Beziehungen zwischen Washington und Ankara stark gekühlt hat. Zeichen dieser Verschlechterung sind die Bücher von jungen türkischen Autoren wie Burak Turna und Orkun Ucar. In einem Roman, der einen Riesenerfolg in der heutigen Türkei gekannt hat und dessen Titel „Metal Firtina“ (d. h. „Metallsturm“) ist, erwähnen einen künftigen Krieg gegen die Türkei, die am Ende durch eine deutsch-französisch-russische Allianz gerettet wird. Ein anderer Roman fantasiert über einen Bündnis zwischen Russland und der Türkei, der Europa erobert und es von der amerikanischen Einflusssphäre befreit. Die Enttäuschung in der Türkei ist sehr gross, seitdem die US-Amerikaner der Clintonschen Politik nicht gefolgt haben. Die Türkei bleibt ein ölarmes Land und gewinnt keine Ausdehnungsmöglichkeit mehr. Die Lage ist heute interessant zu beobachten. Die grösste strategische Dummheit der neokonservativen Bush-Gremien ist eben, den Verlust der türkischen Bundgenossenschaft ausgelockt zu haben.

 

(weitere Auszüge dieser Rede folgen).

 

 

dimanche, 07 février 2010

The Grand Turk

The Grand Turk

Sultan Mehmet II - Conqueror of Constantinople, Master of an Empire and Lord of Two Seas

AUTHOR:  John Freely 

TKY198.jpgSultan Mehmet II, the Grand Turk, known to his countrymen as Fatih, 'the Conqueror', and to much of Europe as 'the present Terror of the World', was once the most feared and powerful ruler in the world. The seventh of his line to rule the Ottoman Turks, Mehmet was barely 21 when he conquered Byzantine Constantinople, which became Istanbul and the capital of his mighty empire. Mehmet reigned for 30 years, during which time his armies extended the borders of his empire halfway across Asia Minor and as far into Europe as Hungary and Italy. Three popes called for crusades against him as Christian Europe came face to face with a new Muslim empire.Mehmet himself was an enigmatic figure. Revered by the Turks and seen as a cruel and brutal tyrant by the west, he was a brilliant military leader but also a renaissance prince who had in his court Persian and Turkish poets, Arab and Greek astronomers and Italian scholars and artists. In this, the first biography of Mehmet for 30 years, John Freely vividly brings to life the world in which Mehmet lived and illuminates the man behind the myths, a figure who dominated both East and West from his palace above the Golden Horn and the Bosphorus, where an inscription still hails him as, 'Sultan of the two seas, shadow of God in the two worlds, God's servant between the two horizons, hero of the water and the land, conqueror of the stronghold of Constantinople."

AUTHOR BIOGRAPHY:
John Freely was born in New York and joined the US Navy at the age of seventeen, serving with a commando unit in Burma and China during the last years of World War II. He has lived in New York, Boston, London, Athens and Istanbul and has written over forty travel books and guides, most of them about Greece and Turkey. He is author of 'The Cyclades', 'The Ionian Islands', 'Crete', 'The Western Shores of Turkey', 'Strolling Through Athens', 'Strolling Through Venice' as well as 'Inside the Seraglio', 'Jem Sultan' and the bestselling 'Strolling Through Istanbul'.

PRICE:
£18.99

COVER:
Hardback  

PAGES:
288  

PAGE SIZE:
234 x 156 mm  

ISBN:
9781845117047

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mercredi, 27 janvier 2010

La Turquie inonde l'Europe d'immigrés clandestins

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La Turquie inonde l’Europe d’immigrés clandestins

 

ANKARA (NOVOpress) – Eric Besson, ministre de l’immigration, était hier à Tolède (Espagne) dans le cadre d’une réunion avec ses homologues de l’Union européenne (UE). Pour le ministre français, l’immigration clandestine en provenance notamment de Turquie devient incontrôlable. « Un sujet prioritaire dans les relations entre l’Union européenne et la Turquie. La situation dans la mer Egée est devenue intenable. Les Grecs sont soumis à une pression intolérable. La Turquie est de toute évidence devenue un pays de transit et nous avons besoin qu’elle joue le jeu ».

Cette question est tellement brûlante qu’Eric Besson évoque une « exigence ». Mais pas question de froisser les Turcs. Les enjeux économiques planent sur les relations franco-turques à trois heures de vol de Paris, la France étant le deuxième investisseur étranger du pays… Ainsi, Jacques Barrot, commissaire européen en charge de la Justice et de la Sécurité, ne veut surtout pas « stigmatiser » la Turquie qui « doit être considérée comme un grand partenaire. Elle a un rôle à jouer dans la région et il faut la laisser décider de sa relation avec l’UE. En tout état de cause, il faut lui ouvrir le choix vers un partenariat très fort ».

Déjà une voie royale pour l’afflux de migrants afghans en Europe, avec des pays limitrophes aussi instables que l’Iran et l’Irak : outre ses propres ressortissants, la Turquie expédierait cette fois sur le continent européen des centaines de milliers d’immigrés extra-européens chaque année si elle devait intégrer l’Union européenne, véritable passoire en matière de lutte contre l’immigration massive.


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vendredi, 08 janvier 2010

Catherine II prend la Crimée

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8 janvier 1784 : Le Sultan ottoman est contraint de céder la Crimée à la Tsarine Catherine II. Celle-ci avait pour politique principale d’étendre la Russie vers le Sud, vers la Mer Noire et le monde grec. Elle avait tourné le dos à la politique russe antérieure, qui était de prendre la Baltique toute entière et d’affronter, pour y parvenir, le royaume de Suède et la Pologne. Catherine II tourne donc toutes ses forces vers le Sud. L’année précédente, elle avait protégé le khan de Crimée contre ses sujets révoltés, alors que ce khan était vassal de la Sublime Porte. Celle-ci est trop affaiblie pour réagir, et l’ambassadeur de France, Vergennes, dissuade le Sultan de riposter. Vergennes participe à une grande politique continentale : la France n’est plus l’ennemie de l’Autriche, car Louis XVI a épousé Marie-Antoinette ; et Joseph II, Empereur d’Autriche, qui a succédé en 1780 à sa mère Marie-Thérèse, souhaite la paix avec la France et avec la Russie. Implicitement, il existe à l’époque un Axe Paris/Vienne/Saint-Pétersbourg, donc une sorte de bloc eurasiatique ou eurosibérien avant la lettre. Quand Catherine II prend la Crimée, en rêvant d’y réaliser une synthèse russo-germano-grecque, l’Empereur Joseph II gagne pour l’Autriche le droit de faire circuler ses navires dans les Détroits. Contrairement à ce qui va se passer à la fin du 19ème siècle, après l’occupation de la Bosnie par les Autrichiens en 1878, il n’y avait pas, au départ, d’animosité russo-autrichienne, mais un franc partage des tâches, dans une harmonie européenne, que la révolution française, invention des services de Pitt le Jeune, va ruiner.

 

 

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8 janvier 1792: Traité de Jassy

catherine_the_great.jpg8 janvier 1792: Comme les souverains de Prusse et d’Autriche souhaitent mobiliser tous les efforts militaires de l’Europe pour vider le chancre de la révolution française, pure fabrication des services secrets de Pitt le Jeune et non soulèvement populaire et “démocratique” comme le veulent les légendes colportées depuis lors, les Autrichiens sont contraints d’abandonner toutes les conquêtes récentes qu’ils venaient de faire dans les Balkans. A cause des voyous parisiens stipendiés par l’Angleterre, la Russie se retrouve seule face aux Ottomans de Sélim III qui tentent de profiter de l’aubaine pour réaffirmer leur présence en Serbie. Le peuple serbe est l’une des premières victimes collectives du chancre sans-culottes, on l’oublie trop souvent, car les Autrichiens, pour faire face à une France dévoyée ont dû suspendre leur protection et ramener une bonne partie de leurs troupes à l’Ouest, où l’alliance implicite de la France et de l’Autriche, sous Louis XVI et Joseph II, les avait rendues inutiles. Néanmoins, l’armée de la Tsarine Catherine II parvient à écraser les troupes ottomanes à Mashin, le 4 avril 1791. Le Sultan ne peut plus formuler d’exigences. Il devra entériner le Traité de Jassy, signé le 8 janvier 1792.

 

Dans les clauses de ce Traité, les Ottomans acceptent l’annexion de la Crimée à la Russie et la suzerainté russe sur la Géorgie othodoxe, libérée du joug musulman. Le Dniestr devient la frontière entre les empires russe et ottoman. Cette extension russe permet aux Tsars de dominer la Mer Noire, ce qui leur vaudra l’inimitié tenace de l’Angleterre, une inimitié qui se concrétisera lors de la fameuse Guerre de Crimée (1853-1856), où la France sera entraînée. Ensuite, la présence russe sur le Dniestr pèse sur les “Principautés” danubiennes, la Moldavie et la Valachie, que Vienne entendait dominer afin de contrôler l’ensemble du cours du Danube, jusqu’à son delta et d’obtenir ainsi une fenêtre sur la Mer Noire. Le Traité de Jassy jette donc aussi les bases de l’inimitié entre la Russie et l’Autriche, qui compliquera considérablement la diplomatie du 19ème siècle et constituera l’un des motifs de la première guerre mondiale.

 

Si l’on jette un coup d’oeil sur la situation actuelle dans la région, nous constatons que les Etats-Unis ont repris en quelque sorte le rôle de la thalassocratie anglaise: ils sont les protecteurs de la Turquie, en dépit d’une mise en scène où celle-ci fait semblant de branler dans le manche et d’adopter, avec Davutolgu, une diplomatie autonome; en tant qu’héritiers de la politique pro-ottomane de l’Angleterre du 19ème siècle, ils veillent aussi à détacher la Crimée de la sphère d’influence moscovite, en pariant sur le contentieux russo-ukrainien et, aussi, à arracher la Géorgie orthodoxe à l’influence russe. Les Etats-Unis ont pour objectif de défaire les acquis du Traité de Jassy de 1792. Nous constatons également que la frontière sur le Dniestr constitue aujourd’hui aussi un enjeu, avec la proclamation de la  république pro-russe de Transnistrie, face à une Moldavie qui pourrait se joindre à la Roumanie et, ainsi, se voir inféodée à l’OTAN et à l’UE.

 

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mercredi, 30 décembre 2009

Turquia-Israel: una "alianza estrategica"

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Turquía-Israel: una “alianza estratégica”

Turquía fue el primer país musulmán que reconoció al Estado de Israel y el primero también en establecer relaciones diplomáticas con él. Sin embargo, más acusadamente tras el bombardeo de Gaza, dichas relaciones se encuentran deterioradas por una escalada de gestos ofensivos que las han tensado. ¿Significa esto el fin de una de las relaciones diplomáticas más estables, con altibajos, de Oriente Próximo?

La “alianza periférica”

El régimen republicano turco reconoció al Estado de Israel en 1949 y estableció relaciones diplomáticas con él en 1952. De ese modo, Turquía escenificaba su opción prioritaria por Occidente, al tiempo que daba la espalda a la antigua porción árabe del Imperio otomano, corroborando la ruptura con el pasado imperial que había comenzado con el triunfo de Atatürk. Por otra parte, las relaciones entre el sionismo y el Imperio en la época en que Palestina formaba parte de éste nunca habían sido malas, y de algún modo los otomanos habían mantenido como mínimo una neutralidad benévola durante las dos primeras aliyot [olas de inmigración judía a Israel].


Para Israel, estas relaciones tenían un interés fundamental, pues suponían una ruptura del cerco árabe. Ben Gurion, el fundador del Estado, ya había desarrollado la teoría de la “periferia estratégica”, que suponía anudar relaciones con entidades no árabes de Oriente Próximo (Turquía, Irán, maronitas libaneses, kurdos de Irak…) Uno de sus frutos fue un pacto secreto (“pacto periférico”) de 1958 entre ambos Estados. Sus términos no se conocen exactamente (incluso los signatarios niegan su existencia), pero se supone que su núcleo era el intercambio de información de seguridad y militar, así como el compromiso por parte turca de actuar de portavoz de Israel ante Estados Unidos y la OTAN.

Este pacto tuvo escasa duración, pues en torno a 1960 Ankara inició un acercamiento a la Unión Soviética y los países árabes de Oriente Próximo, hacia los que Turquía mantuvo una posición de apoyo, no muy enérgico, en su conflicto con Israel, tanto con ocasión de la nacionalización del canal de Suez y la guerra de los Seis Días como recibiendo a Yasir Arafat y autorizando la apertura de una oficina de la OLP en Ankara (1979). De hecho, desde la proclamación de la capitalidad de Jerusalén, Turquía disminuyó la actividad de su representación diplomática con Israel (1980-1985).
Con todo, no cesó la cooperación militar, sobre todo desde el golpe de Estado de 1980. Es preciso tener en cuenta que los militares turcos, que se consideran depositarios del legado de Atatürk, son los principales valedores de las relaciones con Israel, sea por razones ideológicas –Israel está firmemente anclado en Occidente– como prácticas: el israelí es el primer Ejército de la región en los planos armamentístico, de cualificación profesional y de servicios de inteligencia.

La “alianza estratégica”

Esta relación se profundizó y adquirió nuevas dimensiones a partir del colapso de la Unión Soviética (1990). Para Turquía supuso un cambio de paradigma, pues si por una parte su posición estratégica como defensora del flanco sur de la OTAN había perdido buena parte de su valor, la disolución de la URSS abría nuevos terrenos a su actuación política y económica en dirección a las repúblicas ex soviéticas de los Balcanes y, sobre todo, las turcófonas de Asia Central. Ello significaba asimismo mejorar su capacidad militar para cubrir sus propios flancos: con Grecia, con la que mantenía un antiguo contencioso aún latente a pesar de los acuerdos de buena vecindad; con Chipre, con la presencia militar en la República Turca del Norte; y con Siria, que mantenía una política de apoyo al PKK kurdo.

Parcialmente liberada de las servidumbres de la guerra fría, Turquía estaba en condiciones de ejercer de potencia regional. Israel, por su parte, tenía mucho que ganar en su alianza con Turquía: la profundidad estratégica que le daba contar con el espacio aéreo turco para entrenamiento de su aviación y como corredor hacia Siria, Irán e Irak, un excelente mercado, especialmente para su industria militar, y un proveedor de materias primas.
El instrumento de esta nueva situación fue la elevación al rango de embajadas de las representaciones diplomáticas en 1991. De ese modo, a partir de 1992 se prodigaron las visitas bilaterales de alto nivel: las de los presidentes israelíes Herzog (1992) y Weizmann (1994, 1996) y las del turco Demirel (1996, 1999), así como las de los primeros ministros Tansu Çiller (1994) y Barak (1999).
Estas visitas hablan de unas relaciones de particular densidad, que quedaron plasmadas en una catarata de acuerdos, iniciados en 1992 con un protocolo de cooperación de defensa, precedente del Acuerdo Secreto de Seguridad de 1994, y de los más amplios y decisivos Acuerdos de Cooperación y Capacitación Militares de febrero de 1996 y Acuerdo de Cooperación de Industria Militar de agosto, así como un acuerdo de libre comercio a finales del mismo año, ratificado en los primeros meses de 1997. El seguimiento de estos instrumentos se realiza a través de encuentros bimestrales.

Estos acuerdos, que contaron con el beneplácito de Estados Unidos y con la crítica de los países árabes de la región e Irán, dieron lugar a una relación de interdependencia asimétrica que colocaba a Israel en mejores condiciones, como proveedor de tecnología militar para la modernización de las fuerzas armadas turcas (1) y de seguridad avanzada para la lucha contra el PKK (es sabido que agentes del Mossad actúan en el Kurdistán), con capacidad de entrenar en el uso de ambas y con la fuerza que le da su íntima alianza con Estados Unidos, que a través de Israel ha hecho llegar armamento moderno a Turquía, superando de ese modo las limitaciones parlamentarias debidas a la mala situación de los derechos humanos en el país euroasiático.
En este sentido, son ilustrativas las declaraciones de un portavoz del Departamento de Estado de EE UU en mayo de 1997, de que era un “objetivo estratégico” de Estados Unidos que Turquía e Israel ampliaran sus relaciones políticas y su cooperación militar.
Aun siendo las más relevantes, la cooperación militar no es la única: a ella debe unirse la política, que implica un apoyo mutuo. En ese sentido, Israel y el lobby judío de Estados Unidos, por ejemplo, impidieron en todos los foros posibles una condena de Turquía por el genocidio armenio, y Turquía ha actuado de interlocutor para Israel en distintas instancias internacionales, comenzando por la OTAN y haciendo un hueco al Estado sionista en la política regional a través de la Iniciativa de Cooperación de Estambul, promovida por la OTAN para mejorar el diálogo mediterráneo, especialmente en materia de seguridad.
En el aspecto económico ha habido logros significativos: las transacciones comerciales entre ambos países han pasado de 2.000 millones de dólares en 2000 a 3.300 en 2008, el volumen más elevado de la región. Por otra parte, el capital israelí ha encontrado en Turquía una nueva tierra de promisión y, asociado al capital local, se ha embarcado en un ambicioso programa de conquista de los mercados centroasiáticos, con especial hincapié en el campo de la energía. Turquía es asimismo el destino predilecto del turismo israelí, con 700.000 visitas anuales.

Dos aspectos de esta colaboración destacan nítidamente: la busca por Israel de nuevas fuentes de energía exteriores. El petróleo y el gas encontrarían un vehículo idóneo en los dos oleoductos, procedentes del Caspio y de Asia Central, que se dirigen al puerto turco de Cehyan y que podrían tener un ramal que llegara hasta Ashkelon (sur de Israel). La otra es el agua, bien escaso y controvertido en Israel (buena parte de los acuíferos se encuentran en los territorios ocupados). En 2004 se firmó un acuerdo por el que Turquía aportaría 50 millones de metros cúbicos de agua anuales durante veinte años.

Síntomas de desapego

A partir de fines de 2000, coincidiendo con la segunda Intifada, esta luna de miel en cierto modo contra natura empezó a mostrar síntomas de agotamiento: incluso los mismos militares comenzaron a mostrar su preocupación por el hecho de que el alto nivel de intercambio pudiera debilitar a Turquía en una situación de cambio de alianzas, por ejemplo, un acuerdo entre Israel y Siria. Este cambio, que ya detectó Arabic News, órgano de la Liga Árabe, en marzo de 2001, se plasma en la suspensión del acuerdo de modernización de los carros de combate turcos por parte de Israel, en visitas y maniobras conjuntas, así como en el aumento del tono de la prensa turca respecto a la violación por parte de Israel de los derechos humanos en Gaza y Cisjordania. Para los militares turcos, no se trataba tanto de una ruptura como de una “congelación” de las relaciones estratégicas entre ambos países. Lo cierto es que, según los politólogos Kessler y Kochlender, «el sector industrial militar israelí reconoce que las exportaciones a Turquía disminuyen… reemplazadas por otras de Estados Unidos y de Europa, especialmente italianas».

Las contradicciones se agudizaron a partir de la subida al poder del AKP postislamista. El AKP mantenía desde hacía tiempo buenas relaciones con Hamas, organización a la que defendió en instancias internacionales con el argumento nada complicado –para alguien que no sea un político occidental– de que Hamas era indispensable para avanzar en la paz en Oriente Próximo. Con todo, la política de Tayyip Erdogan no está pensada tanto “contra” Israel como a favor de estrechar los lazos con los árabes, lo que, no cabe duda, conlleva un alejamiento, siquiera retórico, de un Israel excesivamente prepotente. Este juego se manifestó en 2004: mientras se firmaba el acuerdo sobre el agua citado anteriormente, el Gobierno turco protestaba airadamente por el asesinato “selectivo” del dirigente de Hamas Ahmed Yasin en Gaza.

Con todo, no debe dejar de señalarse que durante estos años se produjo un acercamiento entre Turquía y diversos países árabes, como Siria, una vez resuelta la discrepancia sobre el PKK y encarrilado el asunto de los recursos hídricos; Egipto, con el que se ha firmado un acuerdo de libre cambio, y Arabia Saudí. Actualmente los hombres de negocios turcos están presentes en todas las áreas de las economías de la región, incluida Palestina: en 2005 se constituyó el llamado Foro de Ankara, que reúne a hombres de negocios turcos, israelíes y palestinos con el propósito de canalizar inversiones hacia zonas industriales instaladas en Gaza y Cisjordania.
Esta proyección regional permitió a Turquía proponerse como mediadora entre Israel y Siria, una iniciativa que el Estado sionista aceptó de mala gana a pesar de su plausibilidad.

El invierno de Gaza: ¿un punto de inflexión?

El 17 de noviembre de 2008 se celebró la séptima reunión del Foro de Ankara en la capital turca. La ocasión estuvo revestida de particular solemnidad, pues el presidente israelí, Shimon Peretz, se dirigió al Parlamento turco; era el primer mandatario de ese país que lo hacía. En diciembre, el primer ministro israelí, Ehud Olmert, era recibido calurosamemnte en Ankara.
Pocos días más tarde de esta última visita, Israel lanzó sobre Gaza la operación Plomo Fundido, una invasión de la franja precedida de una meticulosa destrucción, no ya de la estructura militar, sino de todo el país. La brutalidad y el desprecio a las leyes de la guerra e incluso a la más elemental humanidad levantó un clamor universal de repulsa. Estas manifestaciones fueron particularmente masivas en Turquía, donde a la presencia en las calles se unieron tomas públicas de posición, ciberataques e incluso suspensiones de partidos de baloncesto.

La diplomacia turca se mostró muy activa en la búsqueda del fin de la agresión: se destacó a un alto funcionario en Israel mientras se multiplicaban los contactos con Egipto, Damasco e incluso la Conferencia Islámica, así como las presiones en las Naciones Unidas. Como primera medida, Ankara canceló su mediación con Damasco.
El 29 de enero de 2009 se reunía el Foro de Davos. Durante él se produjo un violento choque dialéctico entre Shimon Peretz y Tayyip Erdogan, que abandonó la reunión.
En la reacción de Erdogan se reflejan distintas circunstancias: el sincero horror ante lo que él mismo había calificado de «crimen contra la humanidad» y «salvajada», más cuando afectaba a una organización de algún modo «hermana»; el rechazo a una actitud discriminatoria hacia él por parte del moderador del encuentro, David Ignatius; la sensibilidad hacia la opinión pública de su país, y sobre todo la sensación de que los israelíes –hacía poco que se había celebrado la séptima sesión del Foro de Ankara y que Olmert había sido recibido con solemnidad en la capital turca– habían actuado sin prevenirlos de sus proyectos, menospreciando a los turcos y dando al traste con sus esfuerzos mediadores.

A partir de entonces se han producido una escalada de declaraciones y gestos que no han hecho sino enrarecer el ambiente, cuyo mejor exponente ha sido la suspensión por parte de Turquía de las maniobras Águila Anatolia, por la presencia, junto a Italia y Estados Unidos, de la aviación israelí, que debían celebrarse en septiembre de 2008.
Por parte israelí se multiplicaron las declaraciones hostiles: cancelación de viajes turísticos a Turquía con ocasión de las vacaciones del Pésaj (segunda pascua), protestas oficiales por la proyección en Turquía de un filme en el que se veía a soldados israelíes matando a un niño palestino («se pretende dar la impresión de que los soldados israelíes asesinan a niños», afirmó hipócritamente el portavoz israelí). La situación llegó al extremo de que el Ministerio de Exteriores turco se vio obligado a pedir a los funcionarios israelíes que «actuaran con sentido común en sus declaraciones y actitudes».

Lampedusa en el Levante

Esta escalada, aún fundamentalmente verbal, ¿significa el preludio de un cambio en las relaciones entre Ankara y Tel Aviv? Sí y no: sí en cuanto que ha roto la unidad de acción entre ambas capitales de forma definitiva («Turquía [no] se privará de hablar duramente de los errores cuando se cometan», en palabras de Abdullah Gül, presidente de Turquía), hasta el punto de que el ministro turco de Exteriores, Ahmet Davutoglu, afirmó que las relaciones entre ambos países dependían del «cese de la tragedia humanitaria» en Gaza. Las recientes visitas de Erdogan a Irak, y sobre todo a Irán –donde llegó a acusar a Israel de querer «devastar» el país y afirmó que Ahmadineyah era un «pacifista»–, así como la normalización de las relaciones con Armenia, parecen sugerir una mayor autonomía en las opciones diplomáticas.

Por parte israelí, la nueva actitud de Turquía, más que producir una autocrítica por los errores propios, ha servido para definir una nueva actitud de Ankara. Así, el Jerusalem Post afirmaba el 14 de agosto: «Como Rusia con Putin, Turquía… ha escondido su rápida transformación desde una democracia imperfecta pero prooccidental bajo los anteriores Gobiernos hacia un régimen antioccidental y, en el caso de Turquía, islamista».
Esta idea de un cambio en la política exterior turca aparece también en un reciente artículo del prestigioso ex director de Le Monde Jean-Marie Colombani, en el que habla de «deriva» para definirla. El diplomático Shlomo Ben-Ami sugiere en un artículo en El País (septiembre de 2008) que los «serios dilemas de identidad» de Turquía suponen para Israel que «su futuro en Oriente Medio no reside en alianzas estratégicas con las potencias no árabes de la región, sino en la reconciliación con el mundo árabe».
Sin embargo, a pesar de ello y de la torpeza diplomática israelí (2), no han faltado por ambas partes las declaraciones apaciguadoras, que, en última instancia, reflejan los límites del enfrentamiento: Israel sabe que no puede ir más lejos («Turquía es muy importante para el entrenamiento de nuestra aviación en espacios abiertos», según el ex comandante de la fuera aérea israelí Ben Eliyahu); en ese sentido, Ehud Barak, ministro de Defensa del anterior Gobierno de Tel Aviv, afirmó: «A pesar de los altibajos, Turquía sigue siendo un elemento central en nuestra región. No podemos dejarnos llevar por declaraciones encendidas». Y el influyente ministro de Industria, Ben Eliécer, aseguró: «Tenemos un conjunto de intereses estratégicos comunes de gran importancia. Debemos actuar con gran sensibilidad para que no se materialicen los pronósticos más sombríos».

Ankara, en cambio, ha optado por un tono más firme, lo que pone de manifiesto un mayor equilibrio en la relación de fuerzas entre ambos: «Turquía es el único país amigo de Israel en la región… Por ello se debe dar mucha importancia a que el Estado judío busque el apoyo de Ankara para sus políticas regionales» (el politólogo Erçan Citioglu en declaraciones a al-Yazira). Según el ministro de Exteriores, Davotuglu, «tenemos la esperanza de que mejore la situación en Gaza y que eso cree un nuevo ambiente para las relaciones turco-israelíes» (Hurriyet, 13 de octubre de 2008).

Conclusión: entre el republicanismo y el neootomanismo

Muchos observadores de la política exterior turca han hablado de una supuesta tensión en las relaciones exteriores turcas entre el republicanismo –anclaje firme en Occidente, desdén por la política regional– y el neootomanismo, o tendencia a convertirse en protagonista de la política próximo oriental, como había sucedido en el pasado. Los garantes de la primera opción serían los militares y el aparato del Estado; los de la segunda, los islamistas –tanto en la etapa de Erbakan, bruscamente interrumpida por los militares, como en la del AKP– y los proislamistas de Gobiernos anteriores.

Desde mi punto de vista, se trata de un falso debate: ni los militares han dejado de apoyar una menor interdependencia con Israel, por ejemplo, ni los islamistas han abandonado el eje fundamental de su política exterior: el ingreso en la Unión Europea y la OTAN; de algún modo, la nueva política exterior en relación con Oriente Próximo es una forma de hacer valer su nuevo papel estratégico ante sus aliados occidentales; los islamistas, por otra parte, son lo suficientemente conscientes de la profundidad de las relaciones turco-israelíes como para causarles un daño irreparable. Además, una excesiva dureza con Israel pondría en cuestión su papel mediador, por mucho que le mereciera simpatías entre la opinión árabe.
El nuevo Gobierno israelí ¿puede ahondar las actuales diferencias? No es fácil saberlo, teniendo en cuenta la escasa sutileza de su diplomacia. Sin embargo, es de suponer que terminará imponiéndose la cordura: en estos momentos, Israel es importante para Turquía. Pero sin duda Turquía lo es mucho más para Israel.

Alfonso Bolado

Notas:
(1) Turquía gastará 150.000 millones de dólares hasta 2020 en la modernización de su Ejército. Una parte importante de este dinero está destinada a Israel: modernización de los aviones F-4, F-5 y F-16, así como de los carros M-60; producción conjunta de misiles de medio alcance (Arrow y Delilah) y compra de otros (Popeye I), adquisición de 150 helicópteros estadounidenses (que se llevaría a cabo por intermediación israelí).
(2) La rudeza de la diplomacia israelí, consecuencia en parte de su carácter militante, en parte del complejo de superioridad moral característico del sionismo, es proverbial. El episodio turco no es único: los desplantes a políticos extranjeros que no son de su agrado –como sucedió con el enviado de la Unión Europea, Miguel Ángel Moratinos–; la sistemática denuncia de cualquier actitud, real o supuesta, de antisemitismo; la altanería con la que se dirige a las autoridades de los países huéspedes en estos casos (el Gobierno español y el catalán la han padecido con ocasión de los bombardeos de Gaza); la agresividad de las comunicaciones con la prensa internacional… la hacen antipática. Sorprende por ello la debilidad de las respuestas, que no hace sino retroalimentar esos comportamientos.

Extraído de CSCA.

~ por LaBanderaNegra en Diciembre 22, 2009.

samedi, 26 décembre 2009

Réflexions sur l'interdiction du parti kurde DTP

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Andreas Mölzer :

Réflexions sur l’interdiction du parti kurde DTP

 

Une fois de plus, les provinces kurdes de l’Est de l’Anatolie sont entrées en ébullition. Le motif de cette agitation est l’interdiction du parti kurde DTP, qui était pourtant représenté au parlement d’Ankara. Ainsi en a décidé la Cour constitutionnelle turque. Le verdict des juges de cette Cour constitutionnelle nous montre, encore une fois, que la Turquie, pays d’Asie Mineure, est bien éloignée de l’Europe. D’abord, il faut rappeler que le parti kurde a été interdit uniquement parce qu’il était un parti qui défendait une minorité, opprimée depuis des siècles, et qu’une telle démarche est impensable en Europe. Ensuite, force est de constater que la lutte pour le pouvoir entre islamistes et kémalistes revient tout à l’avant-plan de la politique intérieure turque. La Cour constitutionnelle est, avec l’armée, le dernier bastion kémaliste : elle a donc tenté d’indiquer au gouvernement d’Erdogan quelles limites il ne pouvait pas franchir, en interdisant le DTP.

 

Tous ces événements récents sont symptomatiques de l’état actuel de la Turquie. On y fait de temps en temps un tout petit pas en avant, qui est bien vite suivi d’un grand pas en arrière. Dans un premier temps, le Premier Ministre Erdogan avait annoncé, en grande pompe, en faisant sonner trompettes et buccins, son plan en quinze points pour résoudre la question kurde et voilà que maintenant la plus grande minorité ethnique du pays se voit confisquer toute représentation politique ! D’abord, ce jeu du chat et de la souris au détriment des Kurdes est indigne, ensuite, cette interdiction du DTP démontre que la Turquie n’est pas un Etat européen.

 

Dans ce jeu, la « communauté des valeurs » qu’entend être l’Union Européenne, joue un bien triste rôle. Parce que des forces politiques importantes et dominantes veulent absolument faire adhérer la Turquie à l’UE, Euro-Bruxelles se dissimule lâchement derrière les belles paroles diplomatiques habituelles et exprime son « souci »… Le comportement inacceptable de la Turquie n’amène pas les responsables de l’UE à tirer les conclusions qui s’imposent : l’interdiction du DTP aurait dû conduire à une rupture immédiate de toutes les négociations en vue de l’adhésion turque. Mais pour oser cela, il manque à l’UE, qui rêve pourtant de devenir un « acteur global », une solide dose de courage.

 

Mais il n’y a pas que l’interdiction du DTP kurde : il y aurait encore beaucoup d’autres raisons pour mettre un terme rapidement à cette folie de vouloir élargir l’Europe en direction de l’Orient : ne mentionnons, à titre d’exemple, que les discriminations auxquelles les chrétiens de Turquie sont soumis, ou encore le refus d’Ankara de reconnaître Chypre, Etat membre de l’UE, ou, enfin, les nombreuses entorses à la liberté d’opinion que commet l’Etat turc.

 

Andres MÖLZER.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°51/2009)

vendredi, 25 décembre 2009

La nouvelle feinte d'Erdogan

moelzer_fabry.jpgAndreas Mölzer:

 

La nouvelle feinte d’Erdogan

 

Début novembre 2009, le Premier Ministre turc Erdogan a présenté son plan en quinze points pour résoudre la question kurde. Parmi ces quinze points, nous découvrons qu’il serait dorénavant permis d’enseigner la langue kurde dans les écoles, à titre de branche en option. Les villages recevraient à nouveau leurs anciens noms kurdes. Toutes choses qui devraient pourtant être évidentes. Le plan d’Erdogan prouve une chose: que la Turquie, jusqu’ici, a foulé aux pieds les droits les plus élémentaires de la principale de ses minorités ethniques.

 

Mais ce plan ne s’adresse pas en premier lieu aux Kurdes, mais à l’Union Européenne. En donnant le plus grand impact médiatique à son plan, Erdogan cherche à gruger les eurocrates bruxellois, à leur jeter de la poudre aux yeux, pour qu’ils ne voient plus les vices de fonctionnement de l’Etat turc, qui s’étalent pourtant au grand jour. La petite minorité chrétienne qui subsiste dans le pays subit toujours autant de discriminations et rien, dans le plan du premier ministre islamiste, ne laisse entrevoir que leur sort sera amélioré. En outre sur le plan des droits de l’homme, surtout au niveau de la liberté d’opinion et de la liberté de la presse, la situation demeure déplorable; ensuite, Ankara refuse toujours, avec un entêtement consommé, de reconnaître un Etat membre de l’UE: Chypre.

 

En gros, on peut se poser la question: les discriminations subies par la minorité kurde en Turquie prendront-elles véritablement fin? A l’évidence, on peut annoncer beaucoup de choses mais ce qui importe, en ultime instance, c’est la traduction des promesses dans les faits. Le meilleur exemple que l’on puisse citer est le rapprochement avec l’Arménie, qu’avait promis, il y a peu, le gouvernement turc actuel. Rappelons-nous: il y a quelques semaines, l’annonce de ce rapprochement avait fait la une des quotidiens et des agences de presse dans le monde entier. Aujourd’hui, au bout de quelques semaines seulement, nous constatons que la reprise des relations diplomatiques entre Ankara et Erivan sont loin d’être devenues une réalité. La Turquie tente, par tous les moyens, de dicter ses conditions à l’Arménie, et, au Parlement d’Ankara, une résistance virulente se constitue contre la signature de tout traité avec l’Arménie voisine.

 

Il y a tout lieu de croire que le nouveau plan d’Erdogan s’enlisera de la même façon, car le chef du gouvernement turc sait trop bien quelles oppositions il suscitera en politique intérieure. Car, d’une part, les partis d’opposition en Turquie entrent en ébullition chaque fois qu’il est question d’élargir la palette des droits pour les Kurdes et, d’autre part, le gouvernement d’Erdogan n’a plus le vent en poupe, au contraire, il bat de l’aile. Les sondages lui attribuent 32%, ce qui constitue 15% de moins que lors de la victoire électorale qui l’a porté au pouvoir, il y a deux ans. Si cette tendance persistait et si l’opposition en venait encore à gagner du terrain, alors Erdogan n’aura aucun scrupule à lâcher les Kurdes.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, n°47-48/2009).

 

mercredi, 23 décembre 2009

Erdogans neue Finte

erdogan_1203110466.jpgErdogans neue Finte

Der Premier will von den Mißständen in der Türkei ablenken

Von Andreas Mölzer

Ex: http://www.zurzeit.at

Vergangene Woche hat der türkische Ministerpräsident Erdogan seinen 15-Punkte-Plan zur Lösung der Kurdenfrage vorgestellt. Unter anderem soll es künftig erlaubt sein, daß in Schulen Kurdisch als Wahlfach angeboten wird, und Dörfer sollen ihre alten kurdischen Namen zurückbekommen – also Dinge, die eigentlich selbstverständlich sein sollten. Daher ist Erdogans Plan vor allem das Eingeständnis, daß die Türkei die Rechte ihrer größten ethnischen Minderheit bislang mit Füßen getreten hat.

Eigentlicher Adressat sind aber nicht die Kurden, sondern ist die Europäische Union. Denn mit seiner medial inszenierten Ankündigung beabsichtigt Erdogan, Brüssel von all den Mißständen abzulenken, welche in der Türkei den Alltag prägen. Die kleine christliche Minderheit etwa wird weiterhin diskriminiert, und es ist nicht davon auszugehen, daß der islamistische Premier medienwirksam einen Plan zur Verbesserung ihrer Lage vorstellen wird. Außerdem liegen im Bereich der Menschenrechte, vor allem bei der Meinungs- und Pressefreiheit, die Dinge nach wie vor im Argen, und Ankara weigert sich stur, das EU-Mitglied Zypern endlich anzuerkennen.

Insgeamt ist es mehr als fraglich, ob es tatsächlich zu einem Ende der Diskriminierung der kurdischen Minderheit durch Ankara kommen wird. Bekanntlich kann man ja vieles ankündigen, aber nur auf die Umsetzung kommt es an. Bestes Beispiel dafür ist die angebliche Annäherung der Türkei an Armenien, die vor wenigen Wochen die internationalen Schlagzeilen beherrscht hatte. Heute aber steht fest, daß die Aufnahme diplomatischer Beziehungen zwischen Ankara und Eriwan alles andere als sicher ist. Denn die Türkei versucht mit allen Mitteln, Armenien die Bedingungen zu diktieren, und im Parlament in Ankara regt sich heftiger Widerstand gegen den angekündigten Vertrag mit dem Nachbarland.

Ähnlich verhält es sich mit Erdogans Plan, von dem der Regierungschef nur allzu gut wußte, welche unüberwindbaren innenpolitischen Hürden warten. Denn einerseits laufen die türkischen Oppositionsparteien gegen eine Ausweitung der Rechte für die Kurden Sturm und andererseits befindet sich Erdogans Regierungspartei im Sinkflug. Meinungsumfragen bescheinigen ihr 32 Prozent, das sind um 15 Prozent weniger als beim Wahlsieg vor zwei Jahren. Und sollte sich diese Entwicklung fortsetzen und die Opposition weiter an Boden gutmachen, dann wird es Erdogan nicht schwerfallen, die Kurden zu opfern.

Andreas Mölzer ist fraktionsloser Abgeordneter des Europäischen Parlaments. Die hier zum Ausdruck gebrachte Meinung liegt in der alleinigen Verantwortung des Verfassers und gibt nicht unbedingt den offiziellen Standpunkt des Europäischen Parlaments wieder.

dimanche, 13 décembre 2009

Parlement Européen: question orale de Morgen Messerschmidt

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Parlement Européen: QUESTION ORALE

pour l'heure des questions de la période de session de janvier 2010 posée conformément à l'article 116 du règlement par le député Morten Messerschmidt à la Commission

 

Objet: 

 

Mise en garde de la Turquie qui menace de refuser à Geert Wilders l'entrée sur son territoire

 

Le gouvernement turc menace de refuser à toute une délégation de parlementaires néerlandais l'entrée sur son territoire si Geert Wilders (parti pour la liberté) participe à la visite que celle‑ci doit effectuer en janvier 2010.

 

 

Je trouve que cette menace est ridicule quand on sait que la délégation néerlandaise entend se rendre dans un pays candidat à l'adhésion à l'Union européenne et qui, à ce titre, est censé faire siennes les valeurs fondamentales que sont la démocratie et la liberté d'expression.

 

 

Or, cette menace émane du ministre turc des affaires étrangères qui appartient au parti gouvernemental d'obédience islamique.

 

 

La Commission pense-t-elle que la menace du gouvernement turc de refuser à un élu néerlandais l'entrée sur son territoire reflète l'esprit démocratique et éclairé qui est censé constituer un des piliers inébranlables de tout pays qui aspire à adhérer à l'Union européenne? Estime‑t‑elle, en outre, que cette déclaration est compatible avec les critères de Copenhague que sont notamment la démocratie, l'État de droit et les droits de l'homme?

 

 

La Commission est invitée à lire l'article paru le 26 novembre 2009 dans le quotidien danois "Jyllands-Posten" sous le titre "Tyrkiet truer Wilders med indrejseforbud" (La Turquie menace de refuser à Wilders l'entrée sur son territoire).

 

 

Dépôt: <Date>03.12.2009</Date>

vendredi, 11 décembre 2009

Le coût de la "pré-adhésion" turque

drapeau_euro_tur.jpgLe coût de la pré-adhésion turque

Financièrement, on le verra plus loin, le statut de la pré-adhésion turque crée un coût. On chiffre celui-ci dès maintenant à 2,4 milliards de subventions. Celles-ci continueront à s'additionner. L'évaluation s'en aggravera de la sorte, indépendamment du succès ou du ralentissement des négociations. Les sommes versées resteront acquises si l'intégration se réalise. Mais il en irait de même si l'un ou l'autre des partenaires, y compris le pays candidat, y renonce finalement.

Du point de vue politique et culturel son incidence, par ailleurs, pèse d'ores et déjà lourdement sur l'Europe. Sur ce terrain aussi les conséquences se révéleront considérables dans tous les cas. Elle obère la conception que nos dirigeants cherchent à imposer de ce qu'on appelle l'identité. On est ainsi passé d'un héritage gréco-romain, judéo-chrétien, philosophique à la gestion d'un espace consommatique. Cela persistera aussi longtemps que cette hypothèque n'aura pas été levée.

Mes amis
lecteurs savent (1) ce qu'il faut exactement penser de la rhétorique des "minarets baïonnettes". Elle implique beaucoup plus d'agressivité encore qu'on ne le croit ordinairement.

En fait, la diplomatie d'Ankara ne se soucie ni de l'opinion des peuples, ni de l'information pertinente. Elle joue assez remarquablement dans le registre, mouvant et superficiel, des intrigues et des demi-vérités des hommes de pouvoir.

Ainsi le 2 décembre, les ministres de l'OSCE (2) se réunissaient à Athènes. Dans ce cadre, l'actuel ministre Ahmet Davutoglou s'est permis de faire pression sur Mme Calmy-Rey, ministre helvétique des Affaires étrangères. Il lui suggérait fermement de faire revenir en arrière la Confédération qu'elle représente à propos de la votation du 30 novembre. Celle-ci, à en croire les propos rapportés par le quotidien pro-gouvernemental turc Zaman Today, engendrerait dès maintenant un scandale "global" et préparerait un affrontement non moins "global" (3). Ce dernier épithète est utilisé par les Anglo-Américains. Il implique une connotation "mondiale" mais aussi "mondialiste", "mondialisante". Traduisez donc cela comme vous le voudrez, selon le contexte.

Ces personnalités délite évoluent dans une sphère bien particulière. Communiquant de manière péremptoire, les interlocuteurs de M. Davutoglou ne connaissent pourtant, de l'univers et des différentes peuplades qu'ils survolent, que ce qu'ils voient dans les grands hôtels internationaux, ce qu'ils comprennent au gré des statistiques administratives, et ce que leurs collaborateurs leur ont lu des rapports officiels. Le [la] ministre suisse interpellée lui a, d'ailleurs, aimablement répondu qu'on pouvait effectivement envisager, selon la Constitution helvétique, un contre référendum, en réunissant 100 000 signatures.

Au sein de l'Europe des États, dès lors donc qu'on s'y contente de l'apparence des choses, la démarche turque semble se propulser assez habilement.

Dans l'épaisseur des dossiers, il en va autrement.

En décembre 2004 l'Union européenne décidait d'ouvrir les négociations d'adhésion avec la Croatie et avec la Turquie. Techniquement les premières réunions officielles n'ont commencé qu'en octobre 2005.

On a divisé à cette fin "l’acquis communautaire", autrement dit les dizaines de milliers de pages de normes européennes que les candidats doivent intégrer dans leur propre réglementation, en 35 chapitres. En quatre ans, sur les 35, la Croatie a pu en ouvrir la quasi-totalité et elle en a clos définitivement 12.

De son côté, et durant la même période, le gouvernement d'Ankara, au contraire, n'est parvenu à ouvrir que 11 dossiers, et un seul a été clos, de façon provisoire.

Huit ont été gelés à cause du non-respect par l'État turc du protocole additionnel de l'accord d'Ankara en date du 29 juillet 2005 (4). Il s'était engagé ouvrir ses ports et ses aéroports aux navires et aux aéronefs européens. Or, il se refuse toujours à satisfaire cette exigence pour les bateaux et les avions chypriotes. La France bloque à l'heure actuelle 5 chapitres, l’Autriche et l’Allemagne 3. Enfin, Chypre, oppose son veto sur 2 dossiers supplémentaires : ceux de l'énergie et de l'éducation (5).

De tels obstacles ne doivent pas être considérés comme anecdotiques : ils révèlent, au bout du compte, l'incapacité de l'administration et des bureaucrates du pays candidat à se conformer à un minimum de vie commune.

Le précédent interlocuteur turc des pays européens a été démis de ses fonctions au printemps. Son attitude, typiquement autoritaire, indisposait. Il a été remplacé par M. Egemen Bagis (6). Celui-ci a reçu, au sein du gouvernement de son vieil ami Reccep Tayyip Erdogan, un titre de "Ministre d'État". Il faisait donc le point, ce 27 novembre, de l'avancement des discussions, trop lent à son gré.

Les déclarations pro-turques de M. Carl Bildt ne manquent pas. Ministre suédois des Affaires étrangères présidant à ce titre le conseil des ministres spécialisés, il est même encore allé en novembre jusqu'à "mettre en garde" les Européens contre une mise à l'écart de cette nation amie indéfectible. Et pourtant, ces propos n'ont été suivis d'aucun effet.

Le ministre négociateur Bagis s’est encore rendu à Stockholm, le 13 novembre. Il y a rencontré divers responsables gouvernementaux. En définitive, il a pu se dire déçu de la présidence suédoise de l'Union. Il ose quand même faire pression contre la reconnaissance du génocide arménien. "J’espère qu'elle ne sera pas approuvée pas le Parlement suédois." Sur ce point, on s'étonnera de la persistance dans la maladresse de la diplomatie d'Ankara. Elle fait exception. On se demande s'il s'agit d'aveuglement ou, plus simplement, du cynisme le plus odieux.

Finalement, et contrairement aux prometteuses déclarations de M. Bildt, avant le début du semestre écoulé, les pourparlers euroturcs n'ont pas pu avancer. Sous la précédente présidence (tchèque du 1er semestre 2009) 1 dossier (un) avait été ouvert. Et auparavant, le deuxième trimestre 2008 avait vu les représentants de l'État hexagonal, pourtant officiellement défavorable, en laisser ouvrir 2 (deux). Sous la présidence suédoise, à ce jour : zéro.

Désirant passer à la vitesse supérieure, M. Bagis se fixe un objectif volontariste. Il vise à l'ouverture de 6 nouveaux chapitres pour l’année 2010. On parlera donc de la compétitivité, des marchés publics, de l’emploi et de la politique sociale, de la sécurité alimentaire et des politiques vétérinaire et phytosanitaire, et enfin du pouvoir judiciaire et des droits fondamentaux, de la liberté et de la sécurité. Cela semble faire beaucoup mais le parti AKP majoritaire au parlement d'Ankara voudrait avoir terminé d'intégrer, au moins nominalement, l’acquis communautaire sur la période 2010-2013. Et sur ce point, le souci de sa crédibilité auprès des instances européennes compte probablement moins que son agenda de réformes internes.

Mais il n’en néglige pas, bien au contraire, les bénéfices matériels qu'il retire de la stratégie de pré-adhésion. Le vecteur principal de celle-ci demeure le financement de projets via l’Instrument d’aide de pré-adhésion - IAP, réformé en 2007.

À ce jour un tel dispositif a permis le financement de 153 projets pour un montant de 2,4 milliards d’euros de subventions.

Mais parallèlement à ces aides matérielles, ce statut de pré-adhérent permet de bénéficier d'un privilège étonnant que l'on peut mesurer avec la question de la noisette, principale exportation agricole de l'Asie mineure. À partir de l'année prochaine, en effet, par la grâce de l’instrument de pré-adhésion la production turque de noisettes va être soutenue, subventionnée au détriment de sa principale concurrente celle du Piémont. L'Italie, dont le gouvernement (mais pas la Ligue nord) a toujours soutenu pourtant la candidature d'Ankara, apparaît comme deuxième producteur mondial. Au sein de l'UE, elle reste le premier avec 1,1 million de quintaux par an. Ses arboriculteurs craignent de souffrir de cette situation nouvelle. Rien de bien extraordinaire a priori dans la sphère de la liberté des échanges.

On peut cependant s'étonner, d'abord, de voir l'Europe subventionner son concurrent. Plus encore : alors que les producteurs italiens vont créer un label de qualité, la commission de Bruxelles a impunément décidé d'abaisser ses normes sanitaires pour pouvoir homologuer la production anatolienne. Le Comité permanent de la chaîne alimentaire européen a été autorisé à doubler le taux légal de l'aflatoxine tolérée dans les noisettes commercialisées en Europe. La Turquie produit 78 % de la noisette mondiale. On exerce le monopole que l'on peut. Elle va donc accroître sa présence sur le marché européen, où elle vendra des produits, de qualité inférieure, et dangereux pour les consommateurs. La Coldiretti italienne a pu souligner en effet, qu’au cours des neuf premiers mois de 2009, 56 lots de noisettes contaminées en provenance de Turquie ont été découverts dans les différents pays de l'UE. Le marché européen va évidemment assister à des situations analogues dans d’autres secteurs de agro-alimentaires, comme les fruits et légumes et l’huile d’olive.

Et l'on doit souligner encore que ce très utile "instrument de pré-adhésion" ne prévoit aucun calendrier. Il évolue indépendamment du processus de négociation. Il prévoit seulement une clause de suspension en cas de "manquement grave" aux droits de l’homme. Là encore cette disposition bénéficie au gouvernement actuel. Elle contribue à geler une seule hypothèse : la perspective d'une intervention des militaires. La dernière en date remonte à février 1997. (7)

Au total, par les réformes internes qu'elle impose, par les subventions qu'elle distribue et surtout par l'influence qu'elle exerce dans la vie politique locale, cette "pré-adhésion" pèse très lourd en Turquie. Elle est instrumentalisée par le pouvoir actuel, et probablement par l'influence du département d'État américain qui cherche un allié permanent et un modèle pour le monde musulman. Beaucoup misent sur le fait que, tout au long de négociations qui peuvent mener jusqu'en 2023 (8), ce statut permettra de faire évoluer le pays.

Du point de vue de l'Europe, elle fait évoluer aussi le projet d'Union lui-même. Elle rend de plus en plus difficiles encore, et avant même la concrétisation éventuelle de cette candidature, la consolidation et la cohésion des institutions. En gros elle élimine l'idée d'une "Europe politique". Elle convient donc parfaitement à ceux qui se satisfont d'une Europe naine et irresponsable. Et elle a pour conséquence idéologique d'imposer la dénégation de toute référence identitaire : pas besoin d'être européen pour en faire partie. Quel club épatant. Mais pourquoi donc maintenir cette appellation légèrement discriminatoire de "l'Europe" ? Pourquoi ne pas parler de manière politiquement plus correcte de nations unies, voire d'un commonwealth ?

 

JG Malliarakis
2petitlogo

Apostilles
  1. Je renvoie pour plus d'informations au chapitre "Faux dialogue avec un faux islam" de mon livre sur La Question turque et l'Europe pages 131-134.
  2. Organisation pour la Sécurité et la Coopération en Europe, créée en 1973 dans le cadre des accords d'Helsinki. Elle regroupe aujourd'hui 56 états d'Europe, d'Asie Centrale et d'Amérique du Nord.
  3. cf. Édition en ligne du 3 décembre 2009 puis, dans l'édition du 4 décembre, un article encore plus explicite : "Davutoğlu warns of global clash after Switzerland’s minaret ban"
  4. cf. Chronologie officielle des relations entre l’Union européenne et la Turquie publiée par le Quai d'Orsay. Ce protocole comportait une clause de reconnaissance de tous les États-Membres de l'UE, et par conséquent de la république de Chypre que la Turquie n'a jamais voulu admettre.
  5. Ahmet Davutoglou trouve cette situation "injuste" : "Nous parlons de coopération sur la sécurité énergétique de l’Europe, mais nous ne pouvons toujours pas ouvrir le chapitre sur l’énergie à cause du veto chypriote grec. C’est incompréhensible". S'il mesurait que, depuis 35 ans, 40 % du territoire de Chypre est occupé par l'armée turque et que 40 % de la population totale a été expulsée du territoire ainsi occupé, peut-être ce blocage lui deviendrait-il compréhensible. Nous le savons surdoué.
  6. L'orthographe exacte, en translittération turque, est "Bağış". Mais on doit regretter l'habitude en France de répercuter l'alphabet turc (ou tchèque, ou chinois pin-yin, ou en croate, etc.) comme s'il s'agissait de l'alphabet latin. Et comme les Français (et bien d'autres) confondent le "graphème" et le "phonème", ils prononcent le "ğ" turc comme s'il s'agissait d'un "g" ou un "gu" français, le "ı" turc sans point comme s'il s'agissait d'un "i", le ş comme un "s". Cette erreur systématique provient d'un accord international absurde et irrecevable. Celui-ci dépouille inutilement la langue française de sa créativité propre face à ce qui vient de l'étranger. Je me permets donc de suggérer que l'on applique en français une translittération spécifique, y compris lorsque l'alphabet de la langue considérée dérive de l'alphabet latin. Les journaux français l'ont bien accepté s'agissant du russe, écrivant par exemple "Eltsine" (sans tenir compte d'ailleurs de la prononciation), là où les Allemands écrivent Jeltsin, les Anglo-Américains Yeltsin, les Italiens, les Portugais et même l'encyclopédie wiki en latinIeltsin. Voir à ce sujet les différents graphèmes sur le site News explorer. Cette apparente digression ne doit pas être considérée comme purement anecdotique : la Turquie kémaliste fut en effet le premier pays à promouvoir, de façon systématique, cette forme de "nationalisme linguistique" cherchant à obliger d'écrire, à l'étranger, en français, "Ankara" pour "Angora" (ant. "Ancyre"), mais aussi "Izmir" pour "Smyrne" et, bien entendu, "Istanbul" pour Stamboul [tiré du grec "stin poli"] et surtout pour Constantinople. Dans la même veine, les communistes "khmers-rouges" imposeront dans notre langue le "Kampuchéa démocratique". Bien sûr, là où l'usage s'est institué, il semblerait aussi ridicule de prétendre, inutilement le redresser. Les visiteurs du petit musée historique et des archives de Chania en Crète observeront toutefois un détail curieux. Lorsque Ismet Inönü [président turc qui succéda à Kemal] écrivait en 1928 [en français] à son homologue grec Venizelos il datait, en effet, sa correspondance d'Angora. Pour ma part, définitivement, je préfère conserver la profession de foi adoptée par les chrétiens aux conciles de Nicée et Constantinople (donc sans le "filioque") que de parler, un jour peut-être du credo "d'Iznik".
  7. Et encore cette intervention de forme virtuelle fut qualifiée par les spécialistes de "coup d'État post moderne". Car au lieu d'agir alternativement comme le [méchant] général Tapioca ou son [sympathique] rival Alcazar (cf. Hergé "L'Oreille cassée", "Le Temple du soleil", "L'Affaire Tournesol", et "Tintin et les Picaros" (ed. Castermann) les putschistes laïco-kémalistes se sont contentés à l'époque "d'exiger" du gouvernement Erbakan qu'il démissionne. L'armée turque se rouillerait-elle ? tout fout le camp… Aujourd'hui ce sont ses généraux qui se retrouvent dans le box des accusés de l'interminable procès "Ergenekon" dont les révélations quasi quotidiennes confirment les pires suspicions historiques. Nous aurons l'occasion d'y revenir.
  8. Date du centenaire de la république kémaliste. Elle a été évoquée par Ahmet Davotuglou, probablement à titre de boutade.

mardi, 01 décembre 2009

Van Rompuy face aux Turcs

Nuevas bases americanas en el mar Negro

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Nuevas bases americanas en el mar Negro

El gobierno de Estados Unidos destinará más de $ 100 millones para construir nuevas bases militares en Bulgaria y Rumanía aunque la administración Obama haya suspendido recientemente sus planes para crear un escudo defensivo anti-misiles en otras partes de Europa oriental.

Según la revista semanal del ejército de los EE.UU. “Barras y Estrellas”, este último compromiso del Pentágono consiste en una base militar de $ 50 millones en Rumanía y otra de $ 60 millones en Bulgaria, que albergarán a 1.600 y 2.500 soldados estadounidenses respectivamente.

Se espera que la base de Rumanía esté terminada en los próximos dos meses, mientras que la apertura de la base búlgara está programado para el 2011 o 2012.

Las bases, financiadas por los Estados Unidos, aunque propiedad de los gobiernos de Rumanía y Bulgaria, serán compartidas por fuerzas americanas y de los países anfitriones, según la revista semanal.

Más de 2.000 soldados se encuentran realizando maniobras cerca de las dos naciones de Europa Oriental.

Durante una reciente visita a Rumanía, el vicepresidente Joe Biden dijo que Bucarest respaldaba la nueva configuración del escudo anti-misiles americano que Washington anunció tras la suspensión de su despliegue de misiles defensivos previstos en Polonia y la República Checa.

Esto significa que elementos del complejo anti-misiles americano pueden aparecer en Rumanía.

Además, los expertos estadounidenses dicen que la construcción de dos nuevas bases en Rumanía y Bulgaria está plenamente en consonancia con la redistribución de las tropas que el ex-presidente George W. Bush anunciara en 2004. Muchos analistas creen que el movimiento de tropas americanas hacia Rumanía y Bulgaria forma parte de una estrategia de redistribución mundial que comenzó en los primeros años de la administración Bush con el objetivo de desplazarlas de Alemania hacia hacia el este.

El Pentágono explica todo esto por la necesidad de llevar sus fuerzas cerca del inestable Oriente Medio.

Rusia lo ve como una amenaza directa a sus intereses por temor a que lo que comienza con una presencia relativamente pequeña del ejército americano en Rumania y Bulgaria, pueda finalmente verse aumentada en gran medida.

Además, la aparición de bases de la OTAN en el Mar Negro se suma a las instalaciones militares que Occidente tiene en el Mar Báltico, y que pone a Rusia en un aprieto.

En otra señal alarmante, cadetes de la academia militar de West Point están ahora recibiendo un curso intensivo de cultura y lengua rusa. Al igual que hicieran en los tres años previos a la invasión de Irak.

Preparándose para apropiarse de la riqueza de petróleo del Mar Caspio, Washington lo hará apoyándose en sus bases de Rumanía y Bulgaria y aumentando la inestabilidad en el Caucaso. ¿Para qué? Para poder enviar a sus fuerzas de paz allí para garantizar la seguridad del transporte de petróleo y gas. Y aquí el contingente americano en Rumanía y Bulgaria puede ser de mucha utilidad.

Traducido por Martin (investigar11S)
New US Bases on the Black Sea, by Mike Sullivan

vendredi, 20 novembre 2009

Türkische Charmeoffensive

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Türkische Charmeoffensive

Erdogan umwirbt Araber und verteidigt das iranische Atom-Programm

Ex: http://www.ostpreussen.de/

In der türkischen Politik hat sich in den letzten Jahren ein deutlicher Wandel vollzogen – hin zu mehr Islam und pan-islamischer Solidarität. Jüngstes Anzeichen dafür war der Staatsbesuch von Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan im Iran. Dabei verteidigte Erdogan das iranische Atom-Programm, verurteilte Sanktionen und kündigte eine verstärkte türkisch-iranische Zusammenarbeit in Wirtschaft und Sicherheit an.

Die früher ausschließliche Westorientierung der Türkei, zu der auch die enge militärische Partnerschaft mit Israel gehört, geht im wesentlichen auf Kemal Atatürk zurück und wurde im Kalten Krieg durch den Beitritt zum Europarat 1949 und zur Nato 1952 verfestigt. In weiten Teilen der Bevölkerung, keineswegs nur in „bildungsfernen Schichten“, hat sich allerdings ein Umdenkprozess vollzogen, der schließlich in den Wahlsieg von Erdogans AKP 2002 mündete.

Die Ursachen sind vielfältig, haben aber primär mit der Behandlung muslimischer Staaten und Völker durch den Westen zu tun – Stichwörter Palästina, Irak, Afghanistan und Pakistan. Dazu kommt nun auch Frust über Widerstände in der EU gegen eine Aufnahme der Türkei. Aber bereits der Irak-Boykott ab 1992 hatte die Osttürkei auch wirtschaftlich schwer getroffen. Und Erdogan sieht sich durch Israel sogar persönlich mehrfach hintergangen: Vor allem durch den israelischen Luftangriff auf eine vermutete Atomanlage in Syrien 2007, der über die Türkei hinweg erfolgte, und den jüngsten Gaza-Krieg, den der damalige Premier Olmert einen Tag nach seinem Besuch bei Erdogan startete.

Die neue Linie wird von manchen Kommentatoren auch als „neo-osmanisch“ bezeichnet, weil sie im Unterschied zu dem auf die Turkvölker Asiens fixierten Pan-Turanismus „aufgeklärter“ türkischer Ultranationalisten nicht in diesem Ausmaß auf Sprache und „Türkentum“ ausgerichtet ist, sondern eben eher auf die „Umma“, die „Gemeinschaft der Gläubigen“ – sowie auf Gebiete, die einst zum Osmanischen Reich gehörten. Das erklärt etwa auch die vorsichtige Auflockerung in den Beziehungen mit dem christlichen Armenien.

Das erklärt ebenso das besondere Engagement am Balkan, nicht nur in Bosnien und Kosovo, und an verstärkter Zusammenarbeit mit Syrien und dem Irak. Nicht zu vergessen, dass der Sultan als Kalif auch Hüter der heiligen Stätten in Palästina war und dass die Anteilnahme an der Unterdrückung der Palästinenser, weil unterschwellig auf Nostalgie beruhend, sehr emotional ist. Man sah dies an den jüngsten Demonstrationen gegen die USA, als diese von ihrer Forderung nach einem israelischen Siedlungsstopp abrückten.

Die verstärkte Zusammenarbeit mit dem Iran ist angesichts der westlichen Drohungen mit einer Verschärfung des Boykotts bis hin zu Militäraktionen besonders brisant. Der bilaterale Handel, 2008 im Volumen von sieben Milliarden Dollar, soll ausgebaut und auf die Landeswährungen umgestellt werden. Die Türkei kündigte außerdem Investitionen von 3,5 bis vier Milliarden Dollar zur Erschließung des iranischen Erdgasfelds South Pars an und will iranisches Gas teils selbst konsumieren, teils über die geplante Gasleitung Nabucco nach Europa weiterliefern.

Bei der Zusammenarbeit in Sicherheitsfragen geht es nicht um Militärabkommen, sondern um den Kampf gegen gemeinsame innere Feinde. Das sind aufständische Kurden sowie sunnitische Extremisten, die vom Westen vereinfachend unter Al-Kaida zusammengefasst werden. Deren Terroranschläge waren in beiden Ländern lange Zeit ebenfalls gerne den nationalen Minderheiten zugerechnet worden, also den Kurden und im Iran auch den Belutschen – eine Propagandalüge, die sich nicht aufrechterhalten lässt.

In der Kurdenfrage hat Erdogan bereits einige bemerkenswerte Schritte gesetzt: Ein kurdisches Fernsehprogramm wurde zugelassen. Mit dem seit 1999 auf der Gefängnisinsel Imrali inhaftierten PKK-Führer Abdullah Öcalan gibt es indirekte Verhandlungen, und nun soll er sogar aus der Einzelhaft „erlöst“ werden: Er bekommt Mitgefangene. Der türkische Außenminister besuchte Erbil, was eine formelle Anerkennung der kurdischen Regierung im Nordirak bedeutet. Kurdenpräsident Masud Barzani lobte dafür Erdogan in den höchsten Tönen – was wie eine Absage an die türkischen Kurden aussieht. Umso größer ist daher das iranische Interesse, dass nun auch die iranischen Kurden nicht mehr auf Unterstützung von den Nachbarn hoffen können.    

RGK

Veröffentlicht am 12.11.2009

vendredi, 13 novembre 2009

Cambia el eje geopolitico de Medio Oriente

Turkey_to_israel_pipes.gifCambia el eje geopolítico de Medio Oriente

Las cinco derrotas consecutivas de Estados Unidos e Israel fueron directamente de Estados Unidos en Irak y Afganistán, e indirectamente a través de su aliado Israel contra las guerrillas chiíta de Hezbolá en Líbano sur y sunnita-palestina en Gaza, así como su apuntalamiento al aventurerismo de Georgia en Osetia del Sur, donde Rusia le propinó una severa paliza, lo cual desembocó, a nuestro juicio, en el cambio dramático de la geoestrategia mundial. Asistimos a la eclosión de una nueva pentapolaridad en la región medio-oriental. A la añeja triada de Israel, sumada de dos países sunnitas árabes (Egipto y Arabia Saudita), se ha agregado ahora el renacimiento de dos añejas potencias hoy islámicas no-árabes: la sunnita-mongol Turquía y la chiíta-aria Irán.

Hechos

No son los mejores momentos de Israel ni en el Medio Oriente ni a escala global. Su fracaso en aplastar a la guerrilla palestina sunnita Hamas en Gaza (apuntalada por Irán y Siria) le ha traído graves cefaleas al fundamentalista partido hebreo Likud. La opinión pública mundial (que incluye increíblemente el pleito del primer ministro “Bibi” Netanyahu con el gobierno sueco) conoce, a través del Reporte Goldstone sobre Gaza, de la Organización de las Naciones Unidas (ONU), los “crímenes de guerra” y las exacciones y agravios de Israel en contra de la humillada población civil palestina. La Comisión de Derechos Humanos en Ginebra ha amonestado a Israel.


Cabe un paréntesis: el “México neoliberal”, en su fase aciaga calderonista, optó por la política del avestruz al no haber seguido la corriente histórica, tanto global como del restante de los países suramericanos que condenaron severamente con su voto la criminalidad israelí.

Es muy probable que la postura antihistórica de Calderón, tanto a nivel local como global, a favor de Israel (aunque haya sido mediante un voto “neutral”), probablemente se deba a su estrecha amistad con el seudohistoriador Enrique Krauze Kleinbort, el ideólogo de la extrema derecha superbélica (no hay que olvidar que ha sido expuesto como miembro del siniestro Comité del Peligro Presente: Committee on the Present Danger). Cabe destacar que la progenitora de Krauze Kleinbort, la muy respetable señora Helen Krauze, funge como publirrelacionista oficiosa de la embajada de Israel en México: una de sus tareas consiste en invitar a “comunicadores” mexicanos al Estado hebreo con todos los gastos pagados.

Siempre dijimos que el barómetro del humanismo del siglo XXI lo representa el etnocidio perpetrado en Gaza por Israel, un estigma indeleble y cuyas reverberaciones impactaron, para no decir fracturaron, el otrora sólido eje militar de Turquía e Israel.

Cabe recordar cómo el combativo primer ministro turco Recip Tayyip Erdogan censuró las exacciones y crímenes de guerra de Israel directamente a su presidente Shimon Peres, en el reciente Foro Económico Mundial de Davos.

El primer ministro turco ha sido muy severo, con justa razón, con Israel–tomando en cuenta que hasta hace poco era su principal aliado militar en la región– al increpar al Estado hebreo de haber matado deliberadamente a los niños en Gaza, lo que ha valido un programa especial en la televisora estatal en horario estelar, y que ha indignado todavía más a la población islámica turca que empieza a exigir la ruptura de relaciones con el Estado etnocida e infanticida hebreo.

Entre otras varias razones del reacomodo y el surgimiento de la nueva pentapolaridad de las medianas potencias en el Medio Oriente, Turquía ha usado el estandarte de Gaza como una de sus justificaciones para alejarse espectacularmente de Israel, que pierde así a su principal aliado islámico en el seno de la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN). No es poca cosa, ya que se trata, guste o disguste, de dos importantes fuerzas militares regionales.

En fechas recientes, Turquía no solamente se ha alejado de su antiguo aliado israelí, sino que ha emprendido en paralelo un gran acercamiento con los siguientes actores regionales que incluyen al Transcáucaso: Rusia, Irán, Siria y Armenia (además de las guerrillas de Hamas, sunnita-palestina, y Hezbolá, chiíta-libanesa: dos aliadas de Irán y Siria).

Es evidente que Turquía, gobernada por un régimen democrático islámico “moderado” (de acuerdo con la clasificación muy sesgada de los multimedia occidentales para quienes “moderado” es aquel que se somete a sus designios, y “radical”, quien los confronta), entiende perfectamente su gran calidad de “país pivote” –en la encrucijada estratégica del Mar Negro, Mar Caspio, el Trancáucaso, Asia Central y el Medio Oriente–, que le ha valido ser aceptado notablemente como mediador de varios conflictos en su periferia de parte de un buen número de países (con la excepción de Israel).

Desde luego que el alejamiento de Turquía con Israel –y por extensión, con Estados Unidos, Gran Bretaña y la zona del euro– tiene otras motivaciones anteriores a Gaza, cuando prohibió, pese a ser el único miembro islámico de la OTAN, el vuelo de los aviones de la dupla anglosajona por sus cielos para bombardear a Irak, en ese entonces gobernado por Saddam Hussein.

El “factor kurdo” ha acercado notoriamente a Turquía con Irán, Siria e Irak, quienes comparten el mismo contencioso incandescente.

No hay que perder de vista que Israel (apuntalado por Estados Unidos y Gran Bretaña) busca la secesión de la zona kurda en el norte de Irak, tan pletórica en yacimientos petroleros en la región de Kirkuk.

Sin duda, la alianza subrepticia de Israel con el norte kurdo ha jugado un papel determinante en su alejamiento gradual que ha llegado hasta cesar el entrenamiento aeronáutico de las dos potencias militares.

Ahora leamos lo que dicen los israelíes de extrema derecha como Caroline Glick, en The Jerusalem Post (15 de octubre de 2009): “Turquía, la otrora apoteosis de una democracia islámica dependiente y prooccidental, abandonó oficialmente esta semana la alianza occidental y se volcó como pleno miembro del eje iraní”.

Aquí no cuenta la exactitud de los asertos de Glick, sino su exagerada emotividad que alcanza la histeria geopolítica. Se le va a la yugular al partido islámico “AKP”, que obtuvo el control del gobierno turco desde las elecciones de 2002 con su dirigente Recip Tayyip Erdogan.

En su visión hiperbólicamente israelocéntrica, la amazona Glick aduce que Turquía ha optado por “el campo islámico radical (¡super-sic!) poblado (sic) por sus similares (sic) de Irán, Siria, Hezbolla, Al-Qaeda y Hamas”. ¿A poco cree la amazona Glick que Al-Qaeda existe? ¿No sabrá, acaso, que Al-Qaeda es un montaje hollywoodense de “Al-CIA”, como demostró excelsamente un reportaje histórico de la televisora británica BBC?

En forma perturbadora, Glick tilda de “escandalosamente imbéciles (¡super-sic!) y flagelantes” a los medios que le han dado cabida a los ataques de Turquía en contra de Israel.

Para Glick, el alejamiento de Turquía y su vuelco a favor del “eje iraní” vienen desde muy atrás: desde la prohibición del vuelo de los aviones de Estados Unidos para bombardear Irak, pasando por la recepción de los líderes de Hamas por su triunfo electoral en Gaza, hasta el paso de armas iraníes por suelo turco destinadas a Hezbolá.

Para la amazona Glick, lo intolerable llegó “con el apoyo abierto (sic) al programa de armas (sic) nucleares de Irán y su galopante comercio con Teherán y Damasco, así como su hospital a los financieros de Al-Qaeda”.

Con todo nuestro respeto a la desinformadora y deformadora Glick, pero hasta ahora nadie –mucho menos, en el seno de la Agencia Internacional de Energía Atómica de la ONU– ha podido demostrar que Irán posee “armas nucleares”, como tampoco Irak, en la etapa de Saddam Hussein, las tuvo.

El colmo para la amazona Glick llegó con “la desinvitación de la fuerza aérea israelí a los ejercicios aéreos con Turquía y la OTAN” (la operación conjunta Águila de Anatolia).

Lo más interesante radica en que Turquía se aleja de Israel, mientras se acerca, en la misma proporción, a Siria, con quien ha entablado una alianza militar que será sellada con próximos ejercicios militares conjuntos, lo que establece que Ankara ha optado por jugar el papel estratégico de pivote que le corresponde y cesar de ser un aliado indefectible de Israel que no le aporta nada en la dinámica coyuntural del “Gran Medio Oriente”.

Conclusión: en una cosa tiene razón Caroline Glick, quien se cuestiona amargamente: “¿Cómo Israel perdió a Turquía?” Amén.

Alfredo Jalife-Rahme

Extraído de Red Voltaire.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 3, 2009.

vendredi, 06 novembre 2009

Genocidio armenio hoy: Las sombras de 1915

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Genocidio armenio hoy: Las sombras de 1915

 

por Garabed Arakelian

Recientes expresiones públicas del primer ministro turco Recip Erdogan, amenazando con el exilio a más de 40 mil armenios que residen en Turquía, han reavivado las heridas y el recuerdo del Genocidio cometido por el estado turco en perjuicio de la población armenia que vivía ancestralmente –antes de la llegada de los turcos- en los territorios que hoy integran los dominios de ese país.

“Vamos a terminar con la Cuestión Armenia, terminando con los armenios”, comenzaron a decir los dirigentes turcos sobre fines del siglo XIX, cuando el tema de los armenios ingresó en la agenda de los asuntos internacionales y se constituyó en la Cuestión Armenia, reconociendo y otorgando derechos de diversa índole a esa minoría.

 

Años después, luego del visible fracaso de esa política, pues Turquía no pudo eliminar a los armenios y tampoco a la Cuestión Armenia -que, aunque con otro formato, sigue existiendo y es una piedra grande en sus babuchas- el Primer Ministro turco Recep Tayyip Erdogan el pasado 16 de mayo de 2009 en Varsovia, volvió a amenazar afirmando: “Hay 40 mil armenios que viven en Turquía en la actualidad. Ellos llegaron a nuestro país porque había dificultades en Armenia (“They came to our country because they had difficulties in Armenia"), y concluyó: y si es necesario, los vamos a exiliar ("If necessary, we will exile them, but I think it will be inhuman”, ” confirmó y agregó con humor, seguro que el auditorio internacional le acompañaría en su ingeniosa deducción: “pero creo que nos podrían tachar de inhumanos” Lo cual es una forma socarrona pero indecente de decir: lo hemos hecho, sabemos como hacerlo, podemos volver a hacerlo. Pero también algo para prevenir, pues Turquía ha demostrado que no se detiene en detalles para distinguir entre exilio y deportación.

 

Pero como las cosas no se juzgan de manera aislada sino en su contexto, en el que valen también los antecedentes, a Turquía se le podría tachar no sólo de inhumana, y no sólo los armenios podrían hacerlo, también judíos, griegos, kurdos y una cantidad de minorías que han sufrido y sufren las consecuencias de la política xenófoba de Turquía pueden hacerlo recurriendo a una larga lista de excelentes adjetivos disponibles para tachar la inconducta turca con respecto a los Derechos Humanos, desde hace mucho, mucho tiempo hasta el presente.

 

Pero es interesante advertir queErdogan profiere estas amenazas en momentos en que negocia con Armenia la apertura de fronteras, cerradas unilateralmente por iniciativa turca desde 1992. Pero, mientras declara solemne que tiene interés en dicha apertura, hace lo posible, para que eso no se convierta en realidad. Con el expreso apoyo de agencias de noticias internacionales, y medios de comunicación muy poderosos, Turquía despliega desde sus dependencias gubernamentales una importante política informativa a nivel internacional para hacer creer que el tema de la liberación de fronteras está resuelto y que Armenia ya ha aceptado dichas condiciones.

 

La maniobra publicitaria turca para cercar a Armenia creando opinión pública en el terreno internacional, en la diáspora y dentro de Armenia, para hacer creer que ésta ha cedido posiciones es evidente: los ministros de Exteriores de los dos países anunciaron el pasado miércoles 22 de abril -en vísperas de un nuevo aniversario del Genocidio- que habían llegado a un acuerdo para "normalizar" sus relaciones mediante un delicado proceso de acercamiento. Citando "fuentes del ministerio de Exteriores", los principales diarios turcos, "Sabah", "Hurriyet" y "Radikal", informaron de inmediato que varias comisiones elaborarían medidas graduales para la reapertura de las fronteras y el restablecimiento de las relaciones comerciales y diplomáticas entre ambos Estados.

 

En definitiva, esto es en términos generales y con suaves matices diferenciales, lo que reprodujeron las agencias internacionales haciéndose eco de la versión aparecida en tres periódicos turcos que, curiosamente, reflejan la posición oficial, aunque tengan orientaciones políticas diferentes y no sean coincidentes con el gobierno

 

Según estas informaciones y trascendidos de fuente otomana que han hallado eco en los medios internacionales, Armenia habría aceptado las condiciones turcas que se sintetizan así: 1)designación de una comisión de “sabios” o “eruditos” que investigarán acerca de si hubo genocidio o nó; 2) Armenia renunciaría a plantear reclamos territoriales y las fronteras quedan tal como están ahora aceptando un acuerdo firmado entre Turquía y la Unión Soviética; 3) Nagorno Gharapagh pasa a ser parte de Azerbeydján y se agregan algunos detalles instrumentales de nombramientos de embajadores y otros etcéteras.

 

Obama estuvo con Erdogan antes del 24 de abril último, tuteándose cordialmente luego de intercambiar cariñosos besos islámicos en ambas mejillas y anunció que no se iba expedir sobre el tema Genocidio, respetando que los dos países estaban tratando de encontrar una vía de solución. Es decir, traicionó a los armenios a quienes prometíó en su campaña electoral que si era presidente reconocería el Genocidio y le echó una mano a su socio y amigo, argumentando que una definición en ese sentido sería como una injerencia en problemas entre dos estados soberanos. Pero además, Erdogan ya le había advertido que no debía entrometerse en ese problema que era entre Armenia y Turquía. De modo que, juicioso, Obama explicó que entrometerse no era correcto. Doble puntaje: aparece como respetuoso de esas delicadezas internacionales, que seguramente no forman parte de su menú cotidiano al tiempo que no reconoce la existencia del Genocidio y deja a Armenia a expensas de su poderoso vecino.

 

Al día siguiente, en el seno de la Unión Europea, olvidó ese fugaz principio de respeto a la soberanía y se metió de lleno en ese organismo internacional para decirle a Sarkozy que los europeos debían aceptar el ingreso de Turquía en su seno. Como se vé, siempre jugando a favor de Turquía, aunque no le sirvieron de mucho esos esfuerzos, porque su socio y amigo es como las o los amantes que retienen a su querido/a no por amor sino por chantaje: el 24 de abril se cuidó de utilizar las palabra genocidio, estuvo haciendo filigranas con el lenguaje y se hizo el simpático al referirse al hecho expresándose en idioma armenio y utilizando la expresión “Gran Tragedia” para referirse al mismo y se dolió de las muertes y los excesos, etc. etc..pero Erdogan , que lo había despedido de Ankará, la capital de Turquía, afirmando que el presidente de USA se iba con ideas más claras y definidas sobre el tema del Genocidio Armenio, se sintió defraudado y realizó declaraciones públicas manifestando su disgusto. Es que Obama no dijo lo que tenía que decir y tal como le había indicado que debía decirlo.

 

Entretanto, fiel al cariño manifestado y al compromiso aceptado, USA continúa haciendo sus deberes para con Turquía y presiona a Armenia para que entregue Gharapagh. Con ese respaldo, el jerarca turco después de haber firmado con Armenia lo que se conoce como "hoja de ruta" en torno a una posible apertura de fronteras, dice públicamente que mientras no se solucione el problema entre Armenia y Azerbaydján no habrá liberación de esos límites.

 

La posición de Armenia es débil: sin salida al mar, acosada por países vecinos con los cuales vive una histórica desconfianza mutua, siente además el asedio de Rusia, que la quiere su aliada pero sin comprometerse mucho en ello, y la de USA que desea liquidarla para satisfacer a su socio y amigo de Ankará. Hitler se preguntó y le preguntó a sus soldados, cuando iban a invadir Polonia con la orden expresa de no perdonar vidas: “quién se acuerda de Armenia ahora?" USA y sus sucesivos gobiernos guiados por cálculos "Pentagónicos", están diciendo algo semejante: "¿qué son tres millones y medio de armenios? ¿Quién se acordará de ellos cuando nuestro cine y nuestra televisión, que manejamos globalmente, hará que eso se olvide?"

 

No hay razones para dudar que esto suceda, o que ya esté planeado que suceda. Por lo tanto sí hay razones para preocuparse.

 

Esta no es una deducción vana, los datos objetivos lo demuestran: Obama asume posición de no ingerencia para perjudicar a Armenia frente a Turquía y cuando tiene que repartir la torta de su presupuesto último, rebaja la ayuda a Armenia y se la aumenta a Azerbeydján. No pueden haber equívocos ni dudas tampoco respecto a cuál es su posición.

 

Esta región del Cáucaso es una zona históricamente conflictiva donde siempre hay muchos más factores en juego que los que se dicen y ven a simple vista y para los cuales la explicación fácil suelen ser la existencia de diferencias religiosas. Sin negar que ese detalle incide no hay que olvidar que allí hay petróleo, minerales raros y escasos que se utilizan en las más modernas tecnologías, allí hay vías de cruce y acceso a esas riquezas cada vez más codiciadas y por eso el dominio allí significa tener poder en los términos actuales de la organización mundial. Y para el oocidente político significa hacer retroceder los límites del oriente, el este político.

 

Por ahora Turquía está pisando fuerte: se sabe necesaria por la posición geopolítica que detenta. Importante para los intereses de muchos que la necesitan, pero también sabe que no la quieren. Ella, Turquía, sabe que es la mal querida, y se esfuerza en ser aceptada. Casi siempre lo consigue por las malas, pues tiene, por ahora, argumentos contundentes para lograrlo. Pero por encima de estas realidades no hay que olvidar que ella ha fortalecido su posición en la medida en que juega como peón de USA quien le permite salidas de tono como las que mencionamos.

 

Pero también es cierto que los demonios que crea el imperio suelen tomar vida propia pues los sueños imperiales que sostiene el panturquismo están aún vigentes día a día en la enseñanza y en la sociedad turca. De modo que para Armenia el peligro se duplica: al asedio histórico al que la somete Turquía, se agrega el pase libre que USA le otorga a su -socio y amigo- aliado privilegiado, y la desembozada actitud negacionista que asume frente a Armenia.

 

Armenia y su diáspora deberían plantearse, y quizás lo hagan, que la hoja de ruta es el pretexto que los enemigos le ponen por delante para que se discuta lo que a ellos les conviene y que podrán concretar o nó. Quizás lo importante para Armenia sea tener un claro objetivo común que integre al pueblo armenio, el de adentro y el de la diáspora, que es lo que su bando enemigo no quiere que suceda. Quizás los armenios debieran pensar en el concepto de "pueblo armenio" y actualizar su contenido para analizar los avatares próximos de su historia. Aunque se debe reconocer que, por ahora, están jugando con las reglas que le marca el enemigo.

·- ·-· -······-·
Garabed Arakelian

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mardi, 03 novembre 2009

Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

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Andreas MÖLZER:

 

Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

 

C’est par des louanges exagérées que l’on a célébré récemment la signature de deux protocoles, où la Turquie déclare vouloir améliorer, en toute apparence mais en apparence seulement, ses relations avec l’Arménie. Très peu de temps après la signature de ces protocoles, le Premier Ministre turc Erdogan a émis une restriction: Ankara ne fera aucun pas en direction de sa voisine mal aimée, tant que l’Arménie ne  retire pas ses troupes du Haut-Karabakh, région montagneuse qui appartient de jure à l’Azerbaïdjan. Il appert donc que, pour la Turquie, la protection qu’elle entend offrir au peuple frère azéri est plus importante que l’entretien permanent de bonnes relations de voisinage avec l’Arménie, comme en entretiennent entre eux les peuples d’Europe. En émettant cette restriction par la voix de son Premier Ministre, la Turquie, faut-il l’ajouter, exprime une conception fondamentale: elle se profile, par la définition qu’elle se donne d’elle-même, comme un Etat non européen et comme la puissance d’avant-garde des peuples turcophones, dont l’aire de peuplement s’étend très profondément en Asie centrale.

 

Mais il y a un autre comportement de l’Etat turc qui prouve son immaturité à adhérer à l’UE; il a été soumis à débat vers la mi-octobre 2009 dans la Commission des affaires étrangères du parlement européen. La Turquie refuse toujours obstinément d’appliquer le protocole dit d’Ankara, qui prévoyait l’ouverture des ports et aéroports turcs aux navires et avions grecs-cypriotes, ce qui impliquait aussi de reconnaître  indirectement Chypre, Etat membre de l’UE. Cette situation a provoqué de nombreuses critiques au sein de la Commission des affaires étrangères du parlement européen. On sait que la question cypriote, depuis la fin de l’année 2006, a entraîné le gel de huit chapitres relatifs aux négociations quant à l’adhésion turque: les Turcs ont été invités à attendre et à reconsidérer leur attitude. Depuis lors, effectivement, Ankara n’a pas avancé d’un millimètre, attitude de refus pour laquelle il convient désormais de tirer les conséquences. Finalement, c’est la Turquie qui est demanderesse pour entrer dans l’UE et non le contraire. Par ailleurs, il n’est pas question d’accepter que la Turquie, comme elle le croit en apparence, dicte à Bruxelles ses conditions.

 

Fin octobre 2009, lors du Sommet de l’UE, nous aurons enfin la chance de rompre les négociations en vue de l’adhésion turque. C’est le chef des socialistes autrichiens et président de la république autrichienne, Faymann, qui devra agir. Avec ses amis rouges du parti socialiste, il a toujours promis aux Autrichiens qu’ils pourront décider par référendum s’ils acceptent ou non la candidature turque, une fois les négociations achevées. Une question demeure toutefois ouverte: pourquoi Faymann attendrait-il encore de  nombreuses années, alors que l’écrasante majorité de nos concitoyens autrichiens rejettent absolument l’adhésion turque?

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°43-44/2009).