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jeudi, 30 avril 2009

Il North Stream sempre piu un gasdotto europeo

La Finlandia ha espresso un ‘tiepido’ sostegno per Mosca , garantendo una decisione per la risoluzione del problema ecologico entro la fine dell'anno. Il sostegno di Helsinki potrebbe aprire uno spiraglio per l'approvazione dello studio di fattibilità entro la fine dell'anno, nonostante la forte opposizione dei Paesi del Baltico, che temono per i rischi ambientali della conduttura. Intanto Nord Stream AG., il consorzio internazionale che realizzerà il progetto, potrebbe avere come nuovo partner la francese Gaz de France, affiancandosi ad azionisti olandesi e tedeschi.


La Russia potrebbe a breve chiudere la partita diplomatica con il Paesi del Baltico per la realizzazione del gasdotto Nord Stream, progetto che sta divenendo più europeo che mai. Questo rappresenta lo scopo di fondo della due giorni istituzionale del Presidente russo Dmitri Medvedev in Finlandia, discutendo con il suo omologo finlandese, Tarja Halonen, le priorità dell'accordo energetico ed economico tra i due Paesi, focalizzando i colloqui sul gasdotto del Nord. Questo che dovrebbe attraversare i fondali del Mar Baltico collegando il porto russo di Vyborg al porto tedesco di Greifswald, con una conduttura di 1200 km e una capacità produttiva annua di 27,5 miliardi di metri cubi, la cui costruzione dovrebbe cominciare nel 2010; il secondo tratto dovrebbe essere pronto entro il 2012, e consentirà di trasportare una quantità pari a 55 miliardi di metri cubi. Le trattative finali con i Paesi le cui acque territoriali saranno attraversate dalla conduttura, hanno subito un brusco arresto in relazione all'impatto ambientale dell'impianto - come il caso di Finlandia, Estonia e Svezia - o alle ricadute politiche, in particolare per la Polonia, che sarebbe nei fatti aggirata con la relativa perdita delle royalties per il transito del gasdotto.

Deboli aperture sembrano profilarsi con la Finlandia, che ha espresso un ‘tiepido’ sostegno per Mosca , garantendo una decisione per la risoluzione del problema ecologico entro la fine dell'anno, come riportano AFP/LETA. "Per noi finlandesi, questo è un problema ecologico . Se la conduttura può essere costruita nel rispetto della natura, allora sarà un'ottima cosa", afferma Halonen, anticipando che la relazione sull'impatto ambientale del progetto sarà pubblicato alla fine di giugno o all'inizio di luglio, dopodiché il consorzio Nord Stream potrebbe richiedere l'autorizzazione del Governo finlandese e il permesso delle autorità della Finlandia occidentale. Medvedev, da parte sua, ha accolto con favore l'approccio positivo della Finlandia, nell'ottica che il progetto dell'oleodotto del Nord ha come scopo essenziale quello di migliorare la sicurezza energetica dell'Unione Europea. Secondo i media russi, dietro l'arretramento della Finlandia vi potrebbe essere la proposta del Cremlino di concedere migliori condizioni per l'esportazione di legname, materia prima essenziale le l'industria finlandese di trasformazione di legno e carta. Ricordiamo che società finlandesi come Stora Enso e UPM-Kymmene per anni hanno importato legno russo a buon mercato, sino al 2006, quando la Russia ha introdotto gradualmente maggiori restrizioni, fino ad imporre dazi sulle esportazioni di legname. La decisione ha avuto un forte impatto sulla produzione e un successivo calo della domanda interna, conseguenze che potrebbero acuirsi il prossimo anno, quando le tasse sulle esportazioni di legname grezzo dalla Russia dovrebbe raddoppiare per raggiungere il 20%. Il Primo Ministro russo, Vladimir Putin, ha già concordato, tuttavia, lo scorso ottobre, con il suo omologo Matti Vanhanen il blocco della crescita dei dazi per 9-12 mesi, dando così tempo ad Helsinki di elaborare bene la questione. Dunque, un provvedimento nato per stimolare l'industria del legno russa per contrastare i concorrenti stranieri, si è inaspettatamente tradotta in una leva di negoziazione a favore del Nord Stream.

Lo sviluppo del progetto ha aperto anche un fronte dalla Lettonia che propone la possibilità di costruire una pipeline sul suo territorio, connettendosi così alla conduttura del Nord di Gazprom e dando a Riga la possibilità di trarre un vantaggio commerciale dalla cooperazione russa. Il Presidente lettone Valdis Zatlers afferma infatti che, se l'oleodotto avrà una deviazione sulla terraferma, la Lettonia era in grado di offrire un sito di stoccaggio per il gas, in alternativa alla costruzione subacquea in un tratto di mare molto critico. Zatlers ha infatti osservato che i rischi ambientali connessi ad un gasdotto sotto il Mar Baltico sono elevati, perché, a differenza del Mare del Nord, non vi è un ricambio dell'acqua, tale che nei fatti può essere considerato un lago. Allo stesso tempo avverte che la Lettonia potrebbe rifiutare il suo consenso, anche se tutti i problemi ambientali legati alla posa delle condotte verranno affrontati. La rigida posizione della Lettonia, potrebbe, in questo frangente rafforzare anche le posizioni di Svezia ed Estonia, entrambe alacri avversari del progetto russo. D'altro canto, la Germania rappresenta lo Stato maggiormente favorevole, chiedendo come alternativa la creazione di gasdotti attraverso l'Ucraina e la Bielorussia. Da questo punto di vista, il gasdotto baltico, potrebbe divenire un progetto fortemente europeo. Il gestore del progetto è la Nord Stream AG., società registrata in Svizzera, il cui 51% è controllato dalla Gazprom, insieme poi alle tedesche Wintershall e E. ON Ruhrgas (20% ciascuno) e l'olandese Gasunie (9%), mentre si fa sempre più reale un ingresso della francese Gaz de France. Infatti, la tedesca E. ON Energia intende ridurre la sua partecipazione al progetto Nord Stream, in favore dei francesi, cedendo il 4,5% della quota, mentre non è da escludere che GDF possa acquisire una quota maggiore. La sua adesione darebbe al progetto ancor più credibilità agli occhi dell'Unione Europea, principale referente della Russia nell'implementazione di progetti che implicano un rapporto di approvvigionamento di gas al mercato europeo.

La tacita rivalità tra il progetto europeo del Nabucco e il Sud Stream russo ha creato all'interno dell'Unione Europa una sorta di avversione nei confronti di opere infrastrutturali che implicano una certa dipendenza dalle fonti russe. La Germania e l'Italia sono state forti sostenitrici delle cooperazioni con la Russia, sino ad ottenere la riduzione del budget per i progetti energetici di matrice europea. L'influenza russa potrebbe essere ancora più incisiva, all'indomani della proposta di riscrivere la Carta dell'Energia, ampliando l'elenco dei partecipanti e i settori regolamentati, come riportato dai media russi. Il presidente russo ha infatti promesso, durante la sua visita in Finlandia, "che i partner del G8, del G20 e del CSI, nonché i paesi vicini" presenteranno "un documento di base con riferimento alle questioni di cooperazione internazionale nel settore energetico, comprese le proposte per gli accordi sul transito ". La novità del documento risiede, inoltre, nell'ampliamento dell'elenco delle risorse energetiche, inserendo oltre al petrolio e il gas, il combustibile nucleare, l'elettricità e il carbone. La Russia prevede inoltre di ampliare l'elenco dei paesi, che dovrebbe includere i principali attori del mercato energetico, compresi gli Stati Uniti, Canada, Cina, India e Norvegia, accentrando il regolamento sullo scambio e la ripartizione delle risorse, nonché sulla risoluzione dei conflitti e la responsabilità dei paesi di transito. La Russia infatti sottolinea proprio la necessità di implementare un meccanismo efficace di sanzioni, che possono indurre ogni Stato ad evitare ogni possibile tentativo per bloccare il transito del gas. Su tale tema l'Unione Europea sembra ancora molto divisa, perché il settore energetico resta ancora sotto la giurisdizione dei singoli Paesi e non della Commissione europea, con una parziale ingerenza solo per i progetti sovranazionali. Per il resto, l'Unione Europea ha mostrato la sua grande miopia ed inadeguatezza nel rispondere alle crisi energetiche, da mettere a rischio la stabilità economica di tutta la regione.

Fulvia Novellino

mardi, 14 avril 2009

L'ENI guida la missione italiana in Russia

L’Eni guida la missione italiana in Russia

Ex: htpp://www.ladestra.info/
Tratto da Rinascita
Di Andrea Angelini
Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, a margine della missione imprenditoriale italiana in Russia, in corso a Mosca, ha sottolineato che ogni passo che si fa per stringere i rapporti con la Russia finisce per andare a beneficio sia del consumatore italiano che della sicurezza dell’approvvigionamento energetico del nostro Paese. Ieri Scaroni ha firmato l’accordo che prevede il ritorno a Gazprom del 20% della quota azionaria di Gazpromneft (il ramo petrolifero del gruppo russo) attraverso l’esercizio del diritto di opzione. Eni aveva acquistato tale quota nel 2007. Gazprom sborserà la stessa cifra pagata allora da Eni più gli interessi per un totale di 4,2 miliardi di euro. Scaroni ha precisato che in nome della cooperazione strategica in materia di energia, i due gruppi svilupperanno progetti congiunti in Russia e fuori dalla Russia, sulla base del principio di reciprocità. Eni e Gazprom hanno firmato, sotto il patrocinio dei due governi, una serie di accordi di collaborazione in Russia e all’estero anche con le principali società energetiche russe come Inter Rao UES, Rosneft, Transneft e Stroytransgas, sia nel settore del cosiddetto “upstream”, cioè ricerca e produzione di idrocarburi, che della raffinazione. Scaroni ha insistito sul fatto che gli accordi dell’anno scorso con Gazprom, che fra l’altro hanno garantito al nostro Paese la fornitura di gas fino al 2035, si è ora allargato a tutte le altre compagnie energetiche russe. Soprattutto, ha sottolineato, con il colosso russo c’è anche un rapporto tecnologico. Come Eni, “investiamo in Russia e continuamo ad essere il loro partner favorito”.
In ogni caso, ieri sono stati firmati solo gli accordi più commerciali. Per gli altri che rivestono un’importanza più strategica e politica, se ne parlerà fra qualche settimana nel prossimo incontro fra Putin e Berlusconi, trattenuto in Abruzzo dal terremoto.
Tali accordi riguarderanno ad esempio il potenziamento della capacità del gasdotto South Stream, che parte dalla Russia, sotto il Mar Nero, per poi attraversare la Bulgaria, la Grecia per arrivare infine in Italia. Ma interesseranno anche l’ingresso di Gazprom con la quota di comando del 51% in Artikgas, società controllata dalla joint venture Severenergia (partecipata da Eni, 60% ed Enel, 40%). Artikgas gestisce giacimenti di gas naturale che un tempo facevano parte di Yukos, il gruppo già controllato dall’ex magnate Mikhail Khodorkovski, ora in galera sia per evasione fiscale sia per essere un prestanome della Exxon americana. Ultimo punto che dovrà essere visto da Putin e Berlusconi riguarda il giacimento Elephant in Libia situato ad 800 chilometri a sud di Tripoli il cui destino faceva parte degli accordi più generali sottoscritti l’anno scorso tra i due governi e i due gruppi.
Anche Finmeccanicasi muove
Anche la Finmeccanica ha rafforzato la propria presenza in Russia con la firma di tre nuovi accordi. Questi hanno interessato tre diversi settori. Quello della sicurezza con Selex Sistemi Integrati, quello dell’aeronautica con Alenia Aeronautica e quello del segnalamento ferroviario con Ansaldo Sts.
Alenia Aeronautica, in particolare, ha perfezionato l’acquisizione del 25% della Sukhoi Civil Aircraft Corp. (SCAC), la società che si occupa della progettazione e produzione del Sukhoi Superjet 100 (SSJ100), l’aereo ad utilizzo regionale di nuova generazione da 75-110 posti al cui sviluppo la società italiana stava già lavorando. Il nuovo aereo ha ricevuto finora ordini per un totale di 98 esemplari, ed entro la fine del 2009 è stata prevista la consegna del primo velivolo alla Aeroflot, la compagnia di bandiera russa.
Prospettive per le piccole e medie imprese

Emma Marcegaglia presidente di Confindustria, ha parlato delle grandi prospettive che si aprono per l’industria italiana nel suo complesso. Non solo quella grande ma anche la media e piccola. La Russia, ha spiegato, è interessata a sviluppare un tessuto fatto di piccole e medie imprese. Su questo l’Italia può dare “un contributo vero e forte”. Quasi il 90% delle imprese partecipanti alla missione in Russia sono piccole e medie imprese. E allora se i grandi gruppi hanno i loro canali già aperti si deve pure ammettere che hanno aiutato le piccole imprese a entrare nel mercato russo. Certo, ha ammesso, non sono tutte rose e fiori. Le imprese hanno problemi soprattutto nel sistema dei pagamenti.
Da parte sua, il ministro per lo Sviluppo Economico, Claudio Scajola, nel ricordare l’apertura dell’Italia agli investimenti russi, dimostrata dall’ingresso di Gazprom nel settore della distribuzione del gas e di Lukoil nella raffinazione, ha auspicato che si verifichi un ulteriore flusso di investimenti russi nel nostro Paese, sulla scorta di ciò che sta accadendo per il turismo. Del resto il legame strategico esistente tra i due Paesi è evidenziato dalla crescita dell’interscambio, che negli ultimi 10 anni è più che quadruplicato, passando da 6 miliardi di euro del 1999 ai 26 miliardi del 2008.

vendredi, 27 mars 2009

Tiberio Graziani: "Les Etats-Unis utilisent l'Europe comme tête de pont pour attaquer l'Eurasie"

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Tiberio Graziani:

 

“Les Etats-Unis utilisent l’Europe comme tête de pont pour attaquer l’Eurasie”

 

Entretien accordé à http://russiatoday.ru/

 

La crise financière mondiale ne concerne pas uniquement l’argent, même si elle a commencé à Wall Street”, nous explique Tiberio Graziani, éditeur du magazine italien “Eurasia”, qui se spécialise dans les études géopolitiques. Tiberio Graziani est également l’auteur de plusieurs ouvrages de géopolitique.

 

Q.: Dans le monde entier, les gouvernements ont adopté des mesures protectionnistes. Celles-ci  touchent tous les niveaux de la société. En Italie, nous voyons que la population apporte son soutien aux politiques anti-immigrationnistes, qualifiées d’extrême-droite. Comment l’Italie peut-elle, comment pouvons-nous, tous autant que nous sommes, survivre à cette  crise financière mondiale?

 

TG: D’abord, nous devrions réflechir aux raisons de cette crise financière qui a aussi touché la production au niveau industriel, aux Etats-Unis dans un premier temps, et ensuite dans tout le monde occidental, lequel se compose de tris piliers, les Etats-Unis, l’Europe et le Japon. La crise a touché l’ensemble du marché mondial. Pour l’Italie, les effets de la crise se sont manifestés un peu plus tard et, à mes yeux, ne s’afficheront dans toute leur netteté qu’en 2009 et en 2010.

 

Parce que l’économie italienne repose essentiellement sur des petites et moyennes entreprises, nous n’avons pas affaire, chez nous, à de fortes concentrations industrielles, raison pour laquelle l’Italie fait montre de davantage de flexibilité pour affronter et contenir la crise. Quoi qu’il en soit, la crise sera fort profonde.

 

Nous serons en mesure de surmonter la crise financière si nous parvenons à oeuvrer dans un contexte géo-économique continental. Cela signifie que nous devrons concevoir des modes de fonctionnement économique où les économies de pays émergents comme la Russie, la Chine et l’Inde joueront un rôle. La crise ne pourra se résoudre seulement à l’aide de recettes étroitement nationales ou par les effets de recettes concoctées uniquement à Bruxelles par la seule Union Européenne.

 

Q.: Parlons un peu de la récente crise gazière, où l’Italie a été bien moins touchée que les Balkans ou l’Europe orientale, mais a néanmoins été prise, elle aussi, en otage. La vérité sur cette crise a été occultée. Quelle est l’origine de la querelle?

 

TG: L’origine de la querelle gazière entre Kiev et Moscou? Elle est en réalité un effet de l’élargissement de l’OTAN en direction de l’Europe de l’Est et de l’extension de l’UE dans la même région. Ces deux élargissements parallèles ont été perçus à Moscou comme une agression occidentale contre son “voisinage proche”.

 

Ce type d’élargissement a commencé dès 1989, immédiatement après la chute du Mur de Berlin. A partir de ce moment-là, les Etats-Unis ont décidé de gérer à eux seuls l’ensemble de la planète. Dans cette optique, ils ont choisi l’Europe occidentale comme base de départ pour avancer leurs pions en direction de la Russie et de l’Asie centrale, car, comme chacun sait, l’Asie centrale possède d’immenses ressources en gaz naturel et en pétrole. Les Etats-Unis ont commencé par étendre leur influence sur les pays de l’ancien Pacte de Varsovie et sur quelques pays ayant auparavant fait partie de l’Union Soviétique, comme l’Ukraine.

 

A partir de 1990, l’Ukraine a entamé un processus de séparation, a cherché à détacher son avenir géopolitique de son environnement naturel et donc à s’éloigner de Moscou et de la Russie. Si nous analysons bien la “révolution orange”, nous constatons tout de suite que derrière les réalisations de cette soi-disant “société civile” ukrainienne, se profilaient des intérêts venus en droite ligne d’au-delà de l’Atlantique, téléguidés depuis Washington. Dans ce contexte, nous ne devons pas oublier l’influence de quelques “philanthropes” auto-proclamés tels George Sörös qui ont contribué à déstabiliser l’Ukraine et aussi les républiques de l’ex-Yougoslavie.

 

Lorsque l’Ukraine a abandonné, ou tenté d’abandonner, son environnement géopolitique naturel, qui lui assignait la mission d’être le partenaire privilégié de Moscou, il devenait évident que, pour les livraisons de gaz, Moscou allait imposer à l’Ukraine les prix du marché, puisque Kiev ne pouvait plus être considéré comme un client à privilégier mais comme un client pareil à n’importe quel autre. Les prix du gaz ont donc augmenté, une augmentation qui a également touché l’Europe, parce que les dirigeants ukrainiens se sont privés d’une souveraineté propre et ne sont mus que par des intérêts occidentaux. Au lieu d’envisager un accord économique, comme on le fait généralement entre pays souverains, l’Ukraine a aggravé la situation en siphonnant le gaz destiné aux nations européennes.

 

Cette véritable raison de la crise a été délibérément ignorée par la presse des pays de l’Europe de l’Est, mais aussi par la presse italienne. Dans la querelle du gaz, la plupart des journalistes italiens n’ont pas focalisé leur attention sur les causes réelles du conflit mais se sont complus à diaboliser le gouvernement russe, en l’accusant d’utiliser les ressorts de la géopolitique comme une arme dans le conflit gazier; or le Président Medvedev et le Premier Ministre Poutine n’ont fait que facturer au prix du marché les transactions gazières, selon les règles de la normalité économique.

 

Q.: Mais l’Ukraine est sur le point de défaillir. Les Russes ne doivent pas escompter que l’Ukraine paiera le prix du marché l’an prochain...

 

TG: Je crois qu’il est toujours possible de trouver un accord économique. Moscou et Kiev peuvent négocier un moratoire. J’aimerais bien rappeler qu’il ne s’agit pas seulement d’un problème économique, d’un problème d’import-export, mais d’un enjeu géopolitique majeur. A l’évidence, si l’Ukraine choisit de rejoindre le camp occidental sous le “leadership” de Washington, cette option atlantiste affectera dans l’avenir non seulement les transactions gazières, mais toutes les autres relations économiques. De ce fait, je crois qu’il sera possible, à terme, de trouver une solution économique mais l’obstacle  vient de Kiev, parce que Kiev est inféodé aux intérêts de Washington.

 

Q.: Tournons nos regards vers Washington et évoquons les bases américaines sur le sol italien: qu’en dit l’opinion publique dans votre pays?

 

TG: La plupart des gens sont conscients que la présence effective de bases militaires américaines en Italie mais n’en tirent aucune conclusion politique. Ainsi, quand nous avons eu le cas de l’agrandissement de la base de Vicenza dans le nord de l’Italie, les arguments des adversaires de ces travaux étaient essentiellement d’ordre écologique. L’argument principal, qu’il aurait fallu développer, est demeuré occulté; en effet, l’agrandissement de cette base sert les forces armées américaines dans la mesure où elles auront l’occasion, dans l’avenir, d’entrer plus facilement en contact avec une base proche, située en Serbie, qui dépend aussi directement de Washington. Dans l’avenir, à partir de ces bases, les Américains pourront intervenir dans la périphérie de l’Europe et au Proche et au Moyen-Orient, contre des Etats comme la Syrie ou l’Iran et aussi, dans une certaine mesure, contre la Russie. La nation yougoslave, en l’occurrence la Serbie, n’a pas été choisie par hasard, mais parce qu’elle a des accointances culturelles et ethniques avec la Russie.

 

Q.: La crise gazière a tendu les rapports entre la Russie et l’UE car bon nombre de pays de l’UE sont en train de chercher des fournisseurs alternatifs. La Russie doit-elle s’en inquiéter?

 

TG: Non, je ne pense pas que la Russie doit s’en inquiéter. Je pense que chaque pays doit chercher les meilleures opportunités qu’offre le marché des ressources et viser l’autonomie énergétique. Dans un contexte géopolitique plus vaste, celui de l’Eurasie, je pense que les relations entre la Russie et l’Europe, entre la Russie et l’Italie, devrait reposer sur les intérêts économiques. Nous devons échanger de la haute technologie, des technologies militaires, des ressources énergétiques et, bien entendu, procéder à des échanges culturels. Je pense que les échanges culturels entre, d’une part, l’UE et l’Italie, et, d’autre part, la Fédération de Russie devraient être renforcés.

 

Après la seconde guerre mondiale, il y a plus de soixante ans, les relations culturelles entre l’Europe occidentale et la Russie se sont considérablement amenuisées parce qu’elles ont été sabotées par la classe intellectuelle dominante en Europe, qui soutenait le processus d’occidentalisation ou plutôt d’américanisation de la culture européenne. Si nous comparons les littératures européenne et italienne de ces récentes années avec celles des années 30, par exemple, nous constatons que beaucoup d’écrivains italiens utilisent désormais une langue viciée, incorrecte, avec trop d’emprunts à l’anglais. C’est l’un des résultats de la colonisation culturelle que nous a imposée Washington depuis la fin de la seconde guerre mondiale. Mais il serait tout aussi pertinent de remarquer que cette tendance au déclin se perçoit également dans les pays de l’ex-bloc soviétique.

 

Q.: Quelle est l’attitude globale de l’Italie à l’égard de la Russie? Les Russes peuvent-ils compter sur l’Italie pour qu’elle joue un rôle important dans l’amélioration des relations entre l’UE et la Russie?

 

TG: L’Italie est certainement, avec d’autres pays de l’UE, un partenaire potentiel de la Russie mais, pour devenir un partenaire réel et non plus seulement potentiel, l’Italie doit acquérir davantage de liberté et obtenir une souveraineté politique totale, qu’elle ne possède pas actuellement. J’aime répéter qu’il existe en Italie aujourd’hui plus de cent sites militaires dépendant directement des Américains, des sites qui sont partie prenante du projet américain d’étendre l’influence de Washington sur l’ensemble de la péninsule européenne. Dans de telles conditions, l’Italie et les autres pays européens se heurtent à des limites et ne peuvent exprimer sans filtre leurs intérêts propres sur les plans politique et économique. Il faut cependant reconnaître qu’au cours de ces dernières années, la politique économique des présidents russes successifs, Poutine et Medvedev, a jeté les bases qu’il faut pour que l’Italie devienne un véritable partenaire de la Russie, non seulement sur le plan économique mais aussi sur le plan politique et même, à mon avis, sur le plan militaire. L’Italie est au centre de la Méditerranée et occupe de ce fait une position stratégique importante. En outre, la position centrale de l’Italie est vitale au niveau géopolitique. Et ce serait une bonne chose si elle jouait de cet atout dans l’optique d’une intégration eurasienne.

 

Je crois que les relations entre l’Italie et la Russie s’améliorent; j’en veux pour preuve les initiatives d’entrepreneurs italiens, qui vont dans le bon sens, parce qu’ils contournent les limites imposées par un pouvoir politique qui réside, in fine, à Washington ou à Londres.

 

Q.: Vos critiques à l’endroit de Washington sont particulièrement sévères; vous décrivez les Etats-Unis comme une nation impériale alors que notre monde actuel n’est plus du tout unipolaire...

 

TG: Mes critiques à l’endroit de Washington sont sévères parce que les Etats-Unis ont inclu l’Europe dans leur propre espace géopolitique et la considèrent comme une tête de pont pour attaquer l’ensemble du territoire eurasien. C’est là la raison majeure de mes positions critiques. Mais, vous avez raison, il faut tenir compte de la situation réelle des Etats-Unis dans le monde actuel. Ceux-ci devraient se rendre compte que l’époque, où ils étaient la seule superpuissance, est révolue. Aujourd’hui, dans la première décennie du 21ème siècle, nous avons affaire, du point de vue géopolitique, à un système multipolaire avec la Russie, la Chine, l’Inde, les Etats-Unis et certains Etats d’Amérique du Sud, qui sont en train de créer une entité géopolitique propre; je pense au Brésil, à l’Argentine, au Chili, au Venezuela et, bien sûr, à la Bolivie. En effet, au vu des libertés que se permettent ces pays sud-américains, en constatant leurs audaces, l’UE devrait s’en inspirer pour quitter le camp occidental dominé par les Etats-Unis et la Grande-Bretagne.

 

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Q.: Vous voyagez beaucoup dans toute l’Europe et surtout dans les régions agitées et dans les points chauds. Vous avez participé à l’organisation des élections en Transnistrie. Il y a une île au large de la Sardaigne, qui faisait partie du territoire italien, et qui vient de déclarer son indépendance, en se disant inspirée par l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud. Existe-t-il une formule universelle pour affronter le problème des séparatismes?

 

TG: Chacun de ces problèmes est foncièrement différent de l’autre. En Sardaigne, il y a un mouvement politique séparatiste depuis quelques années mais les gens qui le formaient font partie du gouvernement italien aujourd’hui. Pour la Transnistrie, il faut voir la situation sous l’angle géostratégique. Des pays comme la Moldavie et la Roumanie subissent le poids des Etats-Unis et de l’OTAN. La Transnistrie représente ce que l’on appelle un “conflit gelé”. Je pense que l’indépendance de la Transnistrie serait intéressante car nous aurions, dans ce cas, un territoire auquel les Etats-Unis n’auraient pas accès. Ce serait un territoire de liberté du point de vue eurasien parce que cette Transnistrie serait souveraine. Je n’analyse pas le fait que constitue cette république au départ des attitudes ou de l’idéologie du gouvernement qu’elle possède. J’analyse son existence dans le contexte géopolitique et géostratégique général. De ce fait, je prends acte que la Transnistrie est une république souveraine et que sur son territoire réduit il n’y a aucune base de l’OTAN.

 

(entretien paru sur http://russiatoday.ru/ ; 16 mars 2009; traduction française: Robert Steuckers).

dimanche, 15 mars 2009

La Turquie exerce son chantage contre le projet européen Nabucco

La Turquie exerce son chantage contre le projet européen Nabucco

Ex: http://www.insolent.fr/

090309 Plus rapide que Phileas Fogg, Mme Clinton, en 8 jours, a survolé trois continents. Elle est allée faire des déclarations d'amour au monde entier, aux alliés comme aux adversaires, et par conséquent à la Turquie. À ce dernier pays, elle annonce une visite, et même, à l'avance, un grand discours du président américain en direction du monde musulman. On se demande d'ailleurs pourquoi, puisqu'il s'agit, nous assure-t-on, d'un pays laïc. Choisirait-on le Paris d'aujourd'hui pour s'adresser, urbi et orbi, à la chrétienté ?

Lors des émeutes, qualifiées d'ethniques, de Seine-Saint-Denis en 2005, certains journaux de Moscou avaient cru bon de conseiller aux Français, de cesser de regarder le monde "avec des lunettes roses". N'ayant pas été dite avec assez de force, cette utile recommandation est passée inaperçue. Elle ne nous a donc laissé comprendre, ni son urgence ni sa pertinence. De la sorte, en 2008, la crise géorgienne, puis l'affaire du passage par l'Ukraine des livraisons de Gazprom ont permis aux autorités publiques russes d'en administrer une leçon de choses, en direction, cette fois, de toute l'Europe occidentale. Il faut leur reconnaître dans cet exercice une forme de louable désintéressement, à moins qu'il s'agisse, de leur part, d'une contre-productivité involontaire. Visant à fragiliser l'image de leurs voisines en tant pays de transit, elles sont parvenues à ternir celle de leur propre compagnie nationale comme fournisseur stable et de confiance.

Une lueur d'intelligence, à ce moment-là, semble avoir traversé l'esprit des dirigeants de notre gros espace de consommation : il fallait, de toute évidence, diversifier les sources d'approvisionnement, ne plus dépendre des irrigations cérébrales d'un quelconque pétro-dictateur à la Chavez. Aux débuts de la Ve république, en France, il avait été fixé ainsi pour les importations de pétrole un taux maximum de 10 % par fournisseur. Aujourd'hui 41 % du gaz importé en Europe vient d'une seul provenance, vendu par une seule compagnie. L'ancien quota a explosé par l'insouciance des technocrates.

On ne s'étonnera donc pas que les 27 pays de l'Union européenne s'intéressent plus activement désormais à un nouvel accès aux ressources énergétiques de l'Asie centrale, via un tracé de "gazoduc" désigné sous le nom de projet Nabucco. Il acheminerait les fournitures de l'Azerbaïdjan, du Turkménistan et probablement aussi de l'Iran. Son tracé de 3 400 km aboutirait au nœud "Baumgarten" en Autriche, après avoir traversé la Bulgarie, la Roumanie et la Hongrie. Sa capacité de transport atteindrait 35 à 41 milliards de m3 par an. En octobre 2002 était signé à Vienne, un accord de coopération mettant en place un consortium en vue d’effectuer une étude de faisabilité. Celle-ci a été financée à 50 % par la Commission européenne en tant que projet prioritaire du programme TEN, Trans European Networks. Depuis septembre 2007 Johannes van Aartsen, ancien ministre néerlandais des Affaires étrangères, a été désigné coordinateur du dossier. Celui-ci correspond à un investissement évalué entre 4 et 6 milliards d'euros. La décision devrait être finalisée ce printemps et l'on prévoit la réalisation pour l'horizon 2012-2013.

Celui-ci, contournant l'imprévisible Russie, passerait nécessairement par la Turquie. Et comme celle-ci, membre de l'Otan, candidate à l'union européenne, réputée laïque et plus ou moins démocratique appartient, par là même à la sphère des pays amis beaucoup de monde se bouscule au portillon. Cinq compagnies participent à l'opération : la société roumaine Transgaz, l'autrichienne OMV, la hongroise Mol, Bulgargaz et l'associée turque Botas. S'y joindra en principe la compagnie allemande RWE.

Hélas, un pays se trouve écarté : le gouvernement d'Ankara a décidé de mettre un veto politique contre la France. Et GDF a officiellement confirmé (communiqué de février 2008) son renoncement et son intérêt pour le projet concurrent South Stream préféré par l'Italie et la Grèce. La raison de ce boycott tient à la loi mémorielle adoptée sous Jospin, afin de "reconnaître" le caractère génocidaire des massacres d'Arméniens commis en 1915 par le régime jeune-turc.

Mais le gouvernement, réputé "islamiste-modéré", de M. Erdoghan ne s'arrête pas en si bon chemin : il a décidé aussi d'exiger 15 % du gaz azéri et le droit de le revendre, en attendant peut-être de satelliser à 100 % les "frères touraniens d'Asie centrale" de Bakou, comme il semble bel et bien l'ambitionner par ailleurs pour les puits de pétrole du nord de l'Irak en zone kurde. De difficiles négociations se sont déroulées avec l'Iran des mollahs et avec le président de la république turkmène M. Gourbangouly Berdymoukhammedov. Rappelons que ce personnage joue un rôle clef car en 2013 à lui seul l'Azerbaïdjan ne pourrait fournir que 13 milliards de m3 soit 30 % de la capacité prévue par le projet.

Fort de sa situation géopolitique, l'excellent partenaire d'Ankara fait pression par ailleurs sur Bruxelles.

Aux autorités de l'Union européenne les demandes adressées par l'État turc portent, avec insistance, sur des conditions d'ordre politique : afin d'accélérer sa candidature, certes officiellement admise par la plupart des gouvernements sur le principe, mais qui piétine depuis 20 ans et même depuis l'accord d'association de 1963 avec ce qui ne se concevait encore que comme l'espace d'un marché commun.

D'autres concessions sont demandées, non seulement sur la question historique et symbolique du génocide arménien, mais également sur la solidarité actuelle et concrète des Européens avec Chypre, État membre de l'Union.

Puisqu'elle dispose d'un pareil allié, décidément l'Europe ne semble guère éprouver le besoin de se connaître d'autres ennemis.

JG Malliarakis

dimanche, 08 mars 2009

Dans les coulisses de la crise, la nouvelle guerre du pétrole

Dans les coulisses de la Crise, la nouvelle guerre du pétrole

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Par Maxime Lion
Altermedia France

L’organisation des Pays exportateurs de Pétrole (Opep) pourrait procéder à une nouvelle baisse de sa production, en mars, lors de sa prochaine réunion à Vienne. C’est en tout cas ce qu’a affirmé samedi à Alger le ministre algérien de l’Énergie et des mines Chakib Khelil. Raisons invoquées : le possible maintien à la baisse des cours du brut. Ceci alors même que l’Agence internationale de l’Énergie abaissait vendredi ses prévisions de demande mondiale pétrolière, tablant désormais sur une contraction en 2009 comme en 2008. L’occasion de faire le point sur un marché fondamental de l’économie moderne où le politique n’est jamais loin.

 

Une véritable guerre « discrète » fait aujourd’hui rage sur le marché du Pétrole. Du côté des offreurs, l’Organisation des Pays Producteurs de Pétrole, qui représente 40 % de la production mondiale et qui bénéficie du soutien de la Russie, se veut le syndicats de défense des pays producteur : il rêve d’un baril de pétrole à 60 $ afin de rentabiliser l’ensemble des exploitations des ses membres, et d’assurer de confortables profits pour les plus compétitifs d’entre eux, comme l’Arabie Saoudite. La demande, quant à elle, s’organise pour l’essentiel autour des pôles occidentaux et asiatiques. Cependant, les États-Unis, premier consommateur au monde d’hydrocarbure et inventeurs de toute la filière économique du pétrole, donne le la : le prix du pétrole est actuellement gouverné par le niveau des stocks américains de pétrole. Depuis l’été dernier, il oriente les courts toujours dans le même sens, la baisse.

Si la baisse des courts s’explique avant tout par une cause objective - la chute de la demande de pétrole attestée par la litanie des rapports mensuels de l’Agence Internationale de l’Énergie annonçant une régression de la consommation de brut de 0,6 % en 2009 - elle devrait être compensée en grande partie par le diminution de la production de l’OPEP, suivie par celle opérée par la Russie. L’objectif est de relancer le baril à la hausse pour atteindre un objectif de court terme de 45 $ la baril. Or, peine perdue : alors que les consignes ont été relativement suivies par les pays membres de l’organisation, la production se maintient, voire augmente légèrement. Qui sont les coupables, augmentant leur production contre toute logique économique ? La réponse : des pays à la fois producteur et consommateur qui ont plus à perdre dans les surcoûts d’un pétrole en hausse que dans les pertes de leur propre puits… et en tout premier lieu les États-Unis, suivis de la Chine et du Brésil.

La baisse des courts du pétrole semble ainsi être devenu un objectif majeur de la politique américaine. Certains y ont vu un motif essentiel de la volonté de l’oncle Sam de freiner les ardeurs israéliennes quant à une campagne de raids aériens sur l’Iran, craignant les conséquences d’un conflit prolongé au Moyen Orient sur les courts de l’or noir. Qu’est-ce qui pousse les Américains à maintenir à grand frais les courts du pétrole à des courts les plus bas possibles, quitte à hypothéquer l’avenir de leur propre industrie pétrolière ?

La réponse est simple : le choix de la surchauffe de la planche à billet comme moyen de venir à bout de la crise, voire de la dépression économique. Le nouveau président O’Bama a promis d’injecter 850 milliards de dollars dans l’économie américaine sous forme d’infrastructures et de réduction d’impôts. D’où vient l’argent ? De bons du trésor dont la valeur repose dans la crédulité des étrangers dans la puissance de l’Oncle Sam. Si ces derniers ne suffisent pas, la planche à billet fera le reste. Or ce schéma ne fonctionne que tant que la confiance en la monnaie est maintenue par une inflation quasi nulle, garantissant, du moins à court terme, son pouvoir d’achat. Or le facteur principal de la chute de l’inflation aux Etats-unis, au point qu’elle devienne une véritable déflation, est justement la chute des courts des hydrocarbures. Une forte augmentation des courts de pétrole, ou choc exogène, suite à une crise géopolitique, aurait pour conséquence de relancer dramatiquement l’inflation et ainsi de transformer les injections massives de liquidités dans l’économie en empoisonnement du système financier mondial. A la crise - se matérialisant par la chute des valeurs des actifs, actions et immobiliers, c’est-à-dire une destruction de richesse - s’ajouterait l’effondrement du dollar, ce qui finirait de laminer le revenu des actifs… Il s’agit du pire scénario des économistes, l’hyper-inflation, qui se caractérise par une défiance générale pour la monnaie papier dite fiduciaire. Cette dernière revient à sa valeur intrinsèque, c’est-à-dire quasi-nulle, celle d’un petit papier imprimé en quadrichromie… Ceci signifierait l’arrêt de mort du dollar, et donc la fin de l’empire américain car il n’y a pas d’Empire sans impôt impérial.

Les liens entre le Politique et l’Économique ne sont jamais aussi forts qu’en tant que crise, et l’Histoire n’est jamais loin. Si la crise a aujourd’hui surtout le goût amer des licenciements et du marasme, marquant la fin d’un modèle économique, elle est aussi l’annonce de changements profonds, du mutations insoupçonnées. A nous de les décryptées afin de fêter la fin de ce « monde vétuste et sans joie… »


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

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mercredi, 11 février 2009

Gaza: Blocus des hydrocarbures de Palestine

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Gaza : Blocus sur les hydrocarbures de Palestine

Trouvé sur: http://ettuttiquanti.blogspot.com/

Rivarol n°2889, 23/01/2009 : "Le sacre d'Obama — qui n'a pas une fois évoqué le Proche-Orient dans son discours d'investiture —ne devant en aucun cas être obscurci par les fumées des dévastations de Gaza, Israël décrétait un cessez-le-feu à la veille du grand événement et procédait le 20 janvier à l'évacuation de ses blindés. Ce qui ne change rien au fond du conflit, qui est le refus de l'entité sioniste de voir se constituer un Etat palestinien viable. Et pour cause.

Selon Oil & Gas Investing, le gouvernement palestinien parvenait à la fin des années 90 du XXe siècle à un accord avec le groupe British Gas (BG) afin d'effectuer des forages de pétrole et de gaz en Méditerranée. En 1999, Noble Energy, société basée à Houston, découvrait, pour le compte d'Israël, du gaz au large d'Ashkelon, dans les eaux territoriales israéliennes. Au même moment, BG annonçait que d'importantes réserves énergétiques venaient d'être repérées au large de Gaza. Pour les Palestiniens, cette découverte ouvrait la porte à l'indépendance économique et à la stabilité financière. Elle ne provoqua pourtant qu'envie et convoitise car une Palestine riche en énergie, véritablement autonome, n'était pas dans les intérêts des dirigeants sionistes.

Aussi, en 2005, Israël devait porter un coup fatal à l'industrie palestinienne en choisissant l'Egypte comme fournisseur de gaz pour ses besoins. Pour expliquer ce geste hostile, l'Etat hébreu parla de "sa crainte de voir l'argent versé à la Palestine employé plus tard à financer le terrorisme". Une manoeuvre qui devait détruire complètement l'espoir d'une industrie florissante à Gaza, par la création d'emplois et la perception de taxes par le gouvernement palestinien. «Cette réserve, 0.4 trillion de mètres cubes de gaz naturel, affirmait Triple Diamond Corporation, aurait non seulement permis à la Palestine de couvrir amplement ses besoins énergétiques mais aussi aussi de profiter à l'expansion de son commerce. » Pour parer à cet événement funeste et tenter de faire fructifier ces nouvelles ressources, le gouvernement palestinien approcha British Gas qui obtint du gouvernement égyptien la permission d'exporter ce gaz —pour une période de 50 ans — via le pipeline de Gaza-Al Arish. Hélas, cette fois, ce fut le gouvernement britannique qui mit son veto, demandant à British Gas d'offrir une autre chance à Israël pour l'obtention d'un nouvel accord avec son voisin... Mais Tel Aviv refusa de nouveau tout compromis et l'espoir des Palestiniens s'effondra. L'accord fut abandonné.

On connaît la suite : colonisation sauvage, expulsions sans états d'âme et finalement blocus de Gaza. Fait navrant : entendre certains comparer hâtivement cette situation à l'apartheid sud-africain car, comme peuvent seuls en témoigner ceux qui ont vécu cette période dans la Republik, y étaient alors inconnus les destructions d'habitations au bulldozer, l'arrachage de plantations et de vergers centenaires, la volonté insidieuse d'annihilation de l'autre qui semble aujourd'hui prédominer au Proche-Orient. Cela doit être dit et répété. On apprenait finalement fin 2007 qu'une plainte était portée devant la Haute Cour de Justice israélienne (HCJ 91 32/07 ) contre l'Etat sioniste, concernant la baisse de fourniture d'électricité et de gaz par Israël à Gaza. Dans le même temps, une pétition était déposée par Noble Energy [Méditerranée] à propos de l'approvisionnement d'énergie en sens inverse, c'est à dire de la bande de Gaza vers Israël. Cette requête HCJ 5547/07, qui faisait état d'un certains nombres de multinationales se disputant le droit d'exploiter le gaz situé dans les fonds marins palestiniens - gaz approvisionant donc le marché de la demande israélienne - , passa étrangement quasi inaperçue.

Le 25 décembre 2007, la juge Beinish de la Haute Cour rejetait la plainte, affirmant que l'Etat d'Israël n'était pas tenu de transférer une quantité illimitée de gaz et d'électricité à la bande de Gaza « dans des circonstances où certaines de ces ressources continuent d'alimenter des organisations terroristes dans le but de cibler des civils israéliens ». La résolution 3005 (XXVII) de l'Assemblée Générale de l'ONU confirme, quant à elle, « le principe de la souveraineté de la population des territoires occupés sur leur richesse nationale et leurs ressources ». De même, la résolution 3336 (XXIV) de l'AGONU affirme que l'exploitation « humaine, naturelle et de toutes les autres ressources et richesses des territoires occupés est illégale ». Avec la résolution 32/161 de l'AGONU, Israël est appelé à cesser son exploitation des ressources naturelles dans les territoires occupés palestiniens, réaffirmant que ces ressources appartiennent au « peuple dont les territoires sont encore sous occupation israélienne ».

Au regard de cette évidence choquante, n'est-il pas incroyable que depuis rien n'ait changé ? Le gouvernement d'Ehoud Olmert se croit-il vraiment au-dessus des lois ? N'est-il pas temps pour lui de faire preuve d'un peu moins d'intransigeance, et de plus d'équité, à l'égard d'un peuple qui réclame depuis soixante ans de vivre enfin libre sur sa terre ?

Michelle Favard-Jirard.

mercredi, 04 février 2009

La invasion israeli de Gaza y los yacimientos marinos de gas

La invasión israelí de Gaza y los yacimientos marinos de gas

La invasión militar de la Franja de Gaza por el ejército de Israel tiene relación directa con el control y la posesión de las reservas estratégicas de gas en la costa.

Esta es una guerra de conquista. Descubiertos en 2000, existen amplias reservas de gas frente a la costa de Gaza.

A la British Gas (BG Group) y a su socio, la Athens based Consolidated Contractors International Company (CCC), de propiedad del libanés Sabbagh Koury y su familia, se les concedió los derechos de exploración del petróleo y el gas por 25 años en un acuerdo firmado en noviembre de 1999 con la Autoridad Nacional Palestina.

Los derechos a los yacimientos de gas en alta mar son, respectivamente, de la British Gas (60 por ciento); Consolidated Contractors (CCC) (30 por ciento) y del Fondo de Inversiones de la Autoridad Palestina (10 por ciento). (Haaretz, 21 de octubre de 2007).

El Acuerdo PA-BG-CCC incluye el desarrollo del campo y la construcción de un gasoducto. (Middle East Economic Digest, 5 de enero, 2001).

La licencia a BG abarca toda la zona marina en alta mar de Gaza, que es contíguo a varias instalaciones de gas de la costa de Israel. (Véase mapa). Cabe señalar que el 60 por ciento de las reservas de gas a lo largo de la costa de Gaza e Israel pertenecen a Palestina. El Grupo BG ha perforado dos pozos en el año 2000: el Marina de Gaza-1 y el Marina de Gaza -2. Sus reservas se estiman por British Gas de ser del orden de 1,4 billones de pies cúbicos, por un valor de aproximadamente 4 mil millones de dólares. Estas son las cifras hechas públicas por British Gas. El tamaño de las reservas de gas de Palestina podría ser mucho mayor.

¿Quién es el titular de los yacimientos de gas?

La cuestión de la soberanía sobre Gaza de los campos de gas es crucial. Desde un punto de vista jurídico, la reservas de gas pertenecientes a Palestina.

La muerte de Yasser Arafat, la elección del gobierno de Hamas y la ruina de la Autoridad Palestina han permitido a Israel establecer un control de facto en Gaza y de las reservas de gas de la costa.

British Gas (BG Group) ha negociado con el gobierno de Tel Aviv. A su vez, el gobierno de Hamas ha sido puenteado en cuanto a la exploración y el desarrollo de los derechos sobre los yacimientos de gas.

La elección del Primer Ministro Ariel Sharon en 2001 fue un importante punto de inflexión. La soberanía de Palestina sobre los yacimientos marinos de gas fue impugnada en el Tribunal Supremo de Israel. Sharon declaró inequívocamente que “Israel nunca comprará gas de Palestina” de Gaza al entender que las reservas de gas en alta mar pertenecen a Israel.

En 2003, Ariel Sharon, vetó un primer acuerdo, que permitiría a British Gas para suministro de gas natural a Israel desde Gaza desde los pozos en alta mar. (The Independent, 19 de agosto de 2003)

La victoria electoral de Hamas en 2006 fue favorable a la desaparición de la Autoridad Palestina, que pasó a estar confinado en Cisjordania, en el marco del mandato de Mahmoud Abbas.

En 2006, British Gas “estaba cerca de firmar un acuerdo para el bombeo de gas a Egipto.” (Times, mayo 23, 2007). Según los informes, el Primer Ministro británico Tony Blair intervino en nombre de Israel con el fin de evitarel acuerdo con Egipto.

Al año siguiente, en mayo de 2007, el Gabinete israelí aprobó una propuesta por el Primer Ministro Ehud Olmert “para comprar el gas de la Autoridad Palestina.” La propuesta de un contrato por 3,5 mil millones de euros, con ganancias del orden de 1,6 mil millones de euros de los cuales 800 millones se destinan a los palestinos.

Tel Aviv, sin embargo, no tenía intención de compartir los ingresos con Palestina. Un equipo de negociadores de Israel fue creado por el Gabinete israelí para bloquear un acuerdo con el BG Group, evitando tanto al gobierno de Hamas y a la Autoridad Palestina:

“Las autoridades de la defensa israelíes quieren pagar con bienes y servicios, y no desean que el dinero vaya al control del Gobierno de Hamas”. (Ibid, )

El objetivo era esencialmente anular el contrato firmado en 1999 entre el BG Group y la Autoridad Palestina bajo mandato de Yasser Arafat.

En virtud de la propuesta de 2007 del acuerdo con BG, el gas de los pozos palestinos de la costa de Gaza iba a ser canalizado por una tubería submarina al puerto israelí de Askalún (Ashkelon). Así se transfería el ontrol sobre la venta de gas natural a Israel.

La operación fracasó. Las negociaciones fueron suspendidas:

“El Jefe del Mossad, Meir Dagan, se opuso al acuerdo por motivos de seguridad, dado que los productos iban a financiar el terror”. (Gilad Erdan, Discurso a la Knesset sobre el tema “La intención de la Vice-Primer Ministro Ehud Olmert para la compra de gas a los palestinos, los pagos servirán de Hamas”, 1 de marzo de 2006, citado en el Teniente General (retirado) Moshe Yaalon, ¿El Futuro de la compra de a British Gas de Gaza amenazan a las aguas costeras de la Seguridad Nacional de Israel? Centro Jerusalén para Asuntos Públicos, de octubre de 2007)

La intención de Israel fue a cerrar la posibilidad de que se paguen regalías a los palestinos. En diciembre de 2007, el Grupo BG se retiró de las negociaciones con Israel y en enero de 2008 cerró su oficina en Israel. (web BG).


Plan de invasión en la mesa de dibujo

El plan de invasión de la Franja de Gaza en virtud de la ” Operation Cast Lead ” se puso en marcha en junio de 2008, según fuentes militares israelíes:

“Según fuentes de la defensa, el ministro de Defensa, Ehud Barak, dio instrucciones a las Fuerzas de Defensa de Israel para preparar la puesta en funcionamiento hace más de seis meses [en junio o antes de junio], a pesar de que Israel estaba empezando a negociar un acuerdo de cese el fuego con Hamas.” (Operation “Cast Lead”: Israeli Air Force strike followed months of planning, Haaretz, 27 de diciembre de 2008)

Ese mismo mes, las autoridades israelíes entraron en contacto con British Gas, con miras a reanudar las negociaciones relativas a la compra de gas natural de Gaza:

“Tanto el Ministerio de Finanzas, con el director general y el Ministerio de Infraestructuras Nacionales con el director general Hezi Kugler Convinieron en informar a BG del deseo de Israel de renovar las conversaciones.”

Las fuentes agregaron que BG no ha respondido oficialmente a Israel sobre la solicitud, pero que los ejecutivos de la empresa probablemente han llegado a Israel hace un par de semanas para celebrar conversaciones con funcionarios del Gobierno.” (Globes online- Israel’s Business Arena, 23 de junio de 2008)

La decisión de acelerar las negociaciones con British Gas (BG Group) coincidió, cronológicamente, con la planificación de la invasión de Gaza iniciada en junio. Parece que Israel estaba ansioso para llegar a un acuerdo con el Grupo BG antes de la invasión, que ya estaba en una avanzada fase de planificación.

Por otra parte, las negociaciones con British Gas se llevaron a cabo por el gobierno de Ehud Olmert con el conocimiento de que había una invasión militar sobre la Mesa de Dibujo. Con toda probabilidad, un nuevo acuerdo postbélico político-territorial de la Franja de Gaza también está contemplado por el gobierno israelí.

De hecho, las negociaciones entre British Gas y los funcionarios israelíes estaban en marcha en octubre de 2008, 2-3 meses antes del comienzo de los bombardeos de 27 de diciembre.

En noviembre de 2008, el Ministerio israelí de Finanzas y el Ministerio de Infraestructuras Nacionales dieron instrucciones a la Israel Electric Corporation (IEC) para entrar en negociaciones con British Gas, para la compra de gas natural a partir de la concesión BG offshore en Gaza. (Globes, 13 de noviembre de 2008)

“El director general Yarom Ariav del Ministerio de Finanzas y director general Hezi Kugler del Ministerio de Infraestructuras Nacionales escribió a la IEC CEO Amos Lasker recientemente, informándole de la decisión del gobierno de permitir que las negociaciones avancen, en consonancia con el marco de la propuesta se aprobó a principios de este año.

El Consejo de la IEC, encabezado por el presidente Moti Friedman, aprobó los principios de la propuesta marco, hace unas semanas. Las conversaciones con la BG Group se iniciará una vez que que la junta apruebó la exención de una oferta. “(Globes de 13 de noviembre de 2008)

Geopolítica y Energía de Gaza

La ocupación militar de Gaza tiene la intención de transferir la soberanía de los yacimientos de gas a Israel, en violación del derecho internacional.

¿Qué podemos esperar a raíz de la invasión?

¿Cuál es la intención de Israel con respecto a las reservas de gas natural de Palestina?

¿Un nuevo acuerdo territorial, con la presencia de israelíes y / o “el mantenimiento de la “Tropas de paz”?

¿La militarización de toda la costa de Gaza, que es estrategia para Israel?

¿La pura y simple confiscación de campos de gas palestinos y la declaración unilateral de la soberanía israelí sobre Gaza y sus zonas marítimas?

Si esto ocurriera, el gas de los campos de Gaza quedarían integrados en las instalaciones en alta mar de Israel, que son contiguos a los a la Franja de Gaza. (Ver Mapa 1).

Estas instalaciones en alta mar también están conectadas a Israel por el corredor de transporte de energía, que se extiende desde el puerto de Eilat, que es la terminal de un oleoducto, en el Mar Rojo hasta el Terminal del puerto de Askalún (Ashkelon), al norte de Haifa, y, finalmente, la articulación a través de un proyecto de oleoducto turco-israelí con el puerto turco de Ceyhan.

Ceyhan es el terminal del oleoducto Bakú, oleoducto transcaspio Ceyhan. “Lo que se prevé es enlazar el oleoducto BTC del gaseoducto Trans-Israel Eilat- Askalún (Ashkelon), también conocido como el Israel Tipline”. (Véase Michel Chossudovsky, La guerra en el Líbano y la Batalla por el Petróleo, Global Research, 23 de julio de 2006)

Enlace con el texto original en inglés: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11680

Traducción SODEPAZ.

Global Research Articles by Michel Chossudovsky

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mardi, 20 janvier 2009

Bataille pour l'énergie, de l'Ukraine à l'Arctique

Bataille pour l'énergie, de l'Ukraine à l'Arctique

En juillet, mon article "bataille pour l'actique" repris sur Yahoo actualités prévoyait que le grand nord serait une des zones de bataille du siècle qui commence, une bataille qui pousserait les puissances dominantes actuelles (occident et russie) mais également les puissances émergentes comme la Chine a "nordiser" leur politique géo-énergétique. Cette théorie est partagée avec un certain nombre de mes confrères, géopoliticiens et bien d'autres journalistes avisés.
Les tensions vers l'arctique sont liées a la futur guerre pour l'énergie entamée il y a déjà bien longtemps mais qui va plausiblement s'intensifer de façon drastique dans les mois et/ou les années qui viennent. La situation de "tension" actuelle liés à la crise du Gaz est également un symptôme annonciateur.

Kommersant. titrait récemment que L'administration US a rendu publique le 12 janvier la directive du président Georges W. Bush sur la politique américaine en Arctique. Repris sur Ria Novosti et traduit en Francais, voila globalement le contenu de l'article que je vous retranscris ici titré : "Vers une confrontation en Arctique ? "

Le document exige que le Sénat ratifie dans le plus bref délai la convention internationale sur le droit de la mer, qui réglera le partage de l'Arctique. Seulement, le Conseil de sécurité de Russie a lui aussi élaboré une nouvelle stratégie de mise en valeur de la région. Selon le représentant spécial du président russe pour la coopération en Arctique, Artur Tchilingarov, son essence réside dans les paroles suivantes: "Nous ne cèderons l'Arctique à personne".

On ne sait pas encore au juste quels sont les réserves de gaz et de pétrole de l'océan Arctique, mais selon le Service géologique américaine, il possède 20% des hydrocarbures mondiaux.

La demande de ratifier la convention internationale sur le droit de la mer est le point le plus important de la directive du président sortant, a indiqué une source du Kommersant au ministère russe des Affaires étrangères. Les Etats-Unis restent jusqu'à présent le dernier pays arctique à n'avoir pas ratifié la convention, ce qui constitue un des obstacles au partage international de l'Arctique.

Artur Tchilingarov a confirmé hier que la présence russe dans l'océan Arctique serait activement élargie. Il a également indiqué que le travail sur l'argumentation des prétentions russes au plateau continental arctique continuait et même touchait à sa fin. Tous les documents prouvant que le Pôle nord appartient à la Russie pourraient être transmis à l'ONU dès 2010. M.Tchilingarov a déclaré auparavant que si l'ONU ne reconnaissait pas le droit de la Russie sur le Pôle nord, le pays se retirerait de la convention sur le droit de la mer.

"Il est évident qu'un "front arctique" sera une réalité dans quelques années: les enjeux sont trop importants", fait remarquer le directeur des programmes politiques du Conseil pour la politique extérieure et de défense Andreï Fedorov. "Les positions de la Russie sont pour le moment plus solides que celles des autres pays, mais il ne faut pas s'imaginer que cela va durer très longtemps".

Un signal rouge qui vire au violet alors que la Cour internationale de justice (CIJ) de l'ONU vient au même moment affirméee être "disposée" (compétente ?) à trancher les litiges susceptibles de surgir autour du plateau continental de l'océan glacial Arctique, riche en hydrocarbures et que la guerre du gaz fait rage au coeur de l'Ukraine, véritable partie d'échec a trois entre la Russie, l'Union de Bruxelles et l'Ukraine Orange. Rappellons par une carte la position pour l'instant essentielle de l'Ukraine pour le transfert du gaz Russe vers l'Europe :

C'est parceque l'Ukraine Orange (sous pression lobbiyque de forces qui tentent de saper les relations Russo-Européenes ) n'est pour l'instant pas un partenaire fiable (preuve en est les évenements actuels) que le gouvernement Russe souhaite "diversifier" les approvisionnements vers l'Europe et ne pas être dépendant des humeurs d'un président en carton nommé par la CIA et Soros ! Pour cela, les projets NORTH STREAM et SOUTH STREAM semblent être des solutions sures et fiables pour garantir l'approvisionnement vers l'Union Européenne (CF carte).

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dimanche, 18 janvier 2009

Russia e Ucraina, la vera posta in gioco

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Russia e Ucraina, la vera posta in gioco

http://www.rinascita.info - Giovedì 15 Gennaio 2009 – 17:20 – Filippo Ghira



La crisi russo-ucraina sul gas, anche ieri il metano russo non è arrivato a destinazione nell’Unione europea, sembra fatta apposta per rendere più freddi, e non è una battuta visti i rigori dell’inverno, i rapporti tra Mosca e i Paesi europei e portarli a pensare se alla fine non sia un po’ troppo rischioso dipendere in maniera così considerevole dalle forniture della Gazprom. Un’idea questa che la Casa Bianca con il duo Bush e Obama e le compagnie petrolifere anglo-americane hanno tutto l’interesse ad alimentare. Soprattutto in questa fase che ha visto ridursi drasticamente le entrate valutarie russe a causa del crollo dei prezzi del petrolio e del gas, seguiti al ridimensionamento della speculazione internazionale, e per il loro ritorno ad un livello più decente. Mosca e Kiev, Gazprom e Naftogaz, si fanno la guerra l’una con l’altra scambiandosi reciproche accuse, si limitano ad osservare i Paesi europei che pure hanno mandato i loro osservatori a monitorare la situazione. Resta il fatto che, non potendo stabilire se sia la Naftogaz che ruba gas alla Gazprom o se invece sia la Gazprom che non lo pompa verso il territorio ucraino per instradarlo verso ovest, i Paesi della Ue si trovano al freddo senza il gas russo e finiscono per mettere sotto accusa entrambi i governi definiti come “inaffidabili”. Da qui deriva la tendenza di diversi di loro ad auspicare una riduzione delle forniture di gas da parte russa e un utilizzo di fornitori alternativi attraverso vie alternative ai gasdotti provenienti da est. Che sia in corso una più generale operazione di pressione su Mosca è provato però dalla massiccia fuga di capitali esteri che ha interessato la Russia dall’inizio della guerra in agosto contro la Georgia per il controllo dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Solo nel quarto trimestre del 2008 se ne sono andati 130 miliardi di dollari. L’economia russa, che è stata ulteriormente danneggiata dalla conseguente crisi della Borsa all’interno della quale, tanto per rimanere in tema, la Gazprom ha visto crollare del 67% il valore delle sue azioni, non può quindi permettersi ulteriormente di rinunciare ad entrate che le servono come il pane. Anche, e non è un aspetto da poco, per rinnovare il proprio arsenale militare. Resta da vedere se le azioni della Naftogaz e del governo ucraino siano state eterodirette proprio per incrinare sul lungo termine il fronte filo-russo dei Paesi europei. La situazione politica interna ucraina ha infatti la sua influenza che non è poca. In autunno a Kiev ci saranno le elezioni presidenziali e se l’attuale presidente, Viktor Yushenko, al potere dal 2005 dopo la rivoluzione arancione, appare fuori gioco, alle stelle sono invece le quotazioni del suo avversario di allora, il filorusso Viktor Yanukovich (votato dalle regioni orientali più vicine a Mosca) e del primo ministro, Yulia Timoshenko, già protagonista della piazza di 4 anni fa. La Timoshenko, con interessi personali nel settore energetico, ha ammorbidito di molto negli ultimi mesi le sue posizioni anti-russe, avvicinandosi anzi al Cremino. Putin e Medvedev, tanto per indurre gli ucraini a più miti consigli, continuano a far pesare velatamente la minaccia di spaccare il Paese favorendo la scissione delle regioni orientali. Una risposta indiretta sia a Bush che ad Obama che si erano detti entrambi a favore dell’entrata dell’Ucraina nella Nato con la collegata richiesta di installarvi le basi di quello scudo stellare, pensato ufficialmente contro l’Iran, in realtà da utilizzare per premere contro la stessa Russia. Un disegno contro il quale la Russia ha già risposto militarmente nel Caucaso in estate. Due azioni decise, due segnali a nuora (Georgia e Ucraina) perché suocera (gli Usa) intenda e perché non creda di poter portare il gioco troppo in là.

La dipendenza italianaed europea

Due giorni fa Silvio Berlusconi, pur prendendo atto delle difficoltà che tutti i Paesi della Ue stanno attraversando a causa delle crisi tra Mosca e Kiev, ha ribadito la sua vicinanza all’amico Putin dicendo di capire le ragioni di Gazprom. Del resto era stato il Cavaliere il principale demiurgo dell’accordo tra Eni e Gazprom che ha garantito al nostro Paese una fornitura costante da qui fino al 2045. Nel 2007, secondo i dati del ministero dello Sviluppo, l’Italia ha importato 73.882 miliardi di metri cubi. La Russia è stato il secondo fornitore (30,7%) dopo l’Algeria (33,2%). In realtà, l’Agenzia internazionale dell’Energia parla di una dipendenza minore, pari al 27% da Mosca. Gli altri fornitori sono nell’ordine la Libia (12,5%), l’Olanda (10,9%) e la Norvegia (7,5%). Mentre il restante 5,2% proviene da altri Paesi. Mosca ci invia di media 60 milioni di metri cubi di gas, una dipendenza non eccessiva, e la cui provvisoria mancanza può essere tranquillamente coperta dalle grandi riserve che ci assicurano una copertura per diverse settimane. Più legate al carro russo sono invece Paesi come Estonia, Lettonia Lituania, Finlandia e Slovacchia, dipendenti al 100% per le proprie importazioni. Molto dipendenti Bulgaria (90%), Grecia (81%) e Repubblica Ceca (78%). Ma anche Austria (67%), Ungheria (65%) e Slovenia (51%). Sotto la soglia del 50% si trovano Polonia (46%) e Germania (39%) e Romania (31%). Mosca è invece un fornitore non indispensabile per Francia (16%) e Belgio (4%).

Chi non compra nemmeno un metro cubo di gas dai russi sono invece Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta.
Complessivamente Mosca vende all’Unione europea circa un 25% del suo fabbisogno di gas. Sul lungo termine l’Europa, esaurendosi le proprie riserve, dovrà però aumentare le importazioni e quindi la dipendenza dall’estero. Ed in tale ottica si potranno scegliere due strade. Aumentare le importazioni dagli attuali fornitori, come appunto la Russia, o da altri come Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan. E l’appestato Iran. Oppure ricorrere all’importazione di gas liquido che dovrà essere trasformato grazie agli appositi rigassificatori. Nel primo caso, la scelta di Mosca o dei tre Paesi dell’Asia centrale comporterà due diverse scelte politiche e ovviamente due diverse implicazioni geopolitiche. Già sono stati stanziati i fondi per il gasdotto Nabucco che, collegato ai Paesi dell’Asia centrale, ne porterà il gas in Europa attraverso i Balcani bypassando la Russia. Sempre in tale ottica si muove il South Stream che collegato alla stessa filiera, collegherà la Grecia all’Italia. Disegni ai quali Mosca intende rispondere con la realizzazione del North Stream nel Baltico dalla Russia alla Germania bypassando le repubbliche baltiche filo-americane. Diverso è il caso del gas naturale liquido le cui importazioni, sempre nel 2007, hanno coperto il 13% del fabbisogno europeo. I primi fornitori restano quelli soliti: Algeria, Libia, Qatar e Nigeria. Mentre restano le incertezze sullo sviluppo del settore con la realizzazione dei gassificatori che dovrà comunque ottenere il via libera delle popolazioni locali interessate.

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samedi, 10 janvier 2009

La guerra del gas

 

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La guerra del gas

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Si è tenuta oggi a Bruxelles la riunione tra il direttore esecutivo Gazprom Alexei Miller e i dirigenti della Commissione europea, per illustrare lo stato attuale della crisi di fornitura e di transito del gas attraverso il territorio ucraino. La Russia riattiverà le forniture se l'Ucraina acconsentirà l'ispezione degli osservatori europei, e garantirà successivamente il transito.

Dopo soli pochi giorni di tagli alle forniture di gas, molti Stati Europei cominciano ad essere vittima del caos e del panico, oltre che del freddo, nonostante le rassicurazioni impassibili dei rispettivi Governi.  Continua dunque ad imperversare quella che può essere definita "la guerra del gas", scatenata da Russia e Ucraina senza nessun preavviso o misura cautela per preservare tutte le controparti coinvolte, ripetendo testardamente lo stesso errore del 2006. Tra l’altro, le schermaglie dei due litiganti hanno dato vita ad una diffusa disinformazione, tra accuse reciproche e intimidazioni, sintomo evidente della reciproca responsabilità dei due operatori energetici. La regione europea orientale, e la stessa Germania, sono rimaste senza gas, e chi ne ha la possibilità ricorre alle riserve strategiche. I Balcani non hanno alcun approvvigionamento di gas, che non può essere compensato con il ricorso agli stoccaggi, ma solo alla riconversione energetica con altri combustibili più costosi. Anche l’Italia non riceve da due giorni il gas russo, registrando secondo quanto riportato dall’ENI una sostanziale interruzione del gas proveniente dal gasdotto TAG, vedendosi così costretta ad aumentare il ricorso agli stoccaggi per compensare il calo delle importazioni. Il Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola ha stimato un’autonomia non superiore alle tre settimane, in considerazione del fatto che l’apparato infrastrutturale italiano non ha avuto negli ultimi anni delle migliorie sensibili che possano compensare l’ammanco delle forniture provenienti della Russia. Si cerca dunque di massimizzare gli approvvigionamenti dagli altri Paesi fornitori (Algeria, Libia, Norvegia, Olanda, Gran Bretagna), ma anche dalla Slovenia, a cui sono stati già richiesti circa 200 mila m3 di gas al giorno.


Nel frattempo, si è tenuta oggi a Bruxelles la riunione tra il direttore esecutivo Gazprom Alexei Miller e i dirigenti della Commissione europea, per illustrare lo stato attuale della crisi di fornitura e di transito del gas attraverso il territorio ucraino. Miller ha incontrato il Commissario europeo per l'Energia Andris Piebalgs, il Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e il Presidente del Parlamento europeo Hans-Gert Pottering. Allo stesso tempo, nella nottata tra la giornata di mercoledì e giovedì, si è avuto un faccia-a-faccia tra i dirigenti  Gazprom e Naftogaz  Ukraine a Mosca, quali Alexei Miller e Oleg Dubina, per giungere ad un compromesso per porre fine alla crisi.   Mosca rimane ferma sulla tesi secondo cui Gazprom ha sospeso le forniture di gas verso l'Ucraina dopo che non era stato raggiunto nessun compromesso sull’accordo commerciale per il 2009 e la liquidazione degli arretrati: una minaccia inutile se non attuata. Pur assicurando che il taglio interessava solo le esportazioni di gas destinate al consumo interno dell’Ucraina, Gazprom si è detta costretta a sospendere tutte le forniture sul territorio ucraino, in quanto la società energetica ucraina Naftogas  ha deviato più di 86 milioni di metri cubi di gas russo destinato al mercato europeo,  mentre la società RosUkrEnergo non ha ricevuto 25 milioni di metri cubi dalla UGS Ucraina. Il gigante russo ha poi intimato la società ucraina di restituire, mediante le proprie riserve, il gas che non è stato ricevuto dai consumatori europei.  Al contrario, il Vice Presidente della  Naftogaz Vladimir Trikolich accusa apertamente Gazprom, e afferma che "la Russia non ha neanche cercanto di riaprire il deposito del transito del gas attraverso l'Ucraina",  e che "Gazprom ha completamente bloccato le forniture di gas per l'Ucraina e lo stesso transito di gas verso l'Europa".  Secondo Kiev, la propaganda russa è deliberatamente volta a screditare la Naftogas e lo stesso Stato ucraino, a cui vengono imputando tutte le responsabilità per la cessazione della fornitura di gas ai Paesi Europei.


 Ora la Russia chiede che sia garantito il transito del gas e l’autorizzazione del controllo da parte di osservatori internazionali come condizione per la ripresa delle forniture di gas alle frontiere.  Il Presidente russo Dmitri Medvedev ha infatti ribadito che, prima di riaprire le condutture, è necessario autorizzare il monitoraggio da parte di rappresentanti  Gazprom, Naftogaz, le autorità ministeriali dei due Paesi e gli osservatori della UE.  La controparte ucraina, da parte sua, si dice pronta a fornire il transito di gas russo verso l'Europa, come affermato da Oleg Dubina nel corso di una conferenza stampa con i giornalisti al termine dei colloqui a Mosca con Miller. "La situazione attuale e le incomprensioni derivano da questioni economiche, non da problemi politici. Essi devono essere risolte in conformità degli interessi economici delle parti", afferma Dubina, aggiungendo che l'Ucraina è pronta a garantire il transito di gas verso l’Europa, e che la parte russa deve comunque garantire la fornitura di una certa quantità di gas necessaria al funzionamento del compressore e delle stazioni di transito.  Allo stesso modo si dice favorevole ad ammettere l’ingresso sul territorio degli osservatori dell'Unione Europea per il monitoraggio di gas. "I nostri uomini sono pronti ad entrare sul territorio ucraino. Stiamo aspettando l'esito della riunione tra i capi di Gazprom e Naftogaz", ha riferito  Pottering dopo l'incontro con il Vice Primo Ministro d'Ucraina Grigory Nemyreem.


In un modo o nell’altro, sembra che la situazione stia lentamente tornando alla normalità, dopo che Mosca e Bruxelles hanno dettato delle precise condizione per lo sblocco della crisi energetica. Molto probabilmente l’emergenza rientrerà da qui a pochi giorni, viste le forti pressioni giunte dai vertici delle Istituzioni Europee e dei singoli Stati membri.  L'esito della grande crisi sarà comunque negativo, in quanto i prezzi saranno aumentati e i Paesi fornitori si sentiranno,  a maggior ragione, in balia della lotta perpetua di Mosca per il controllo della regione, sia dal punto di vista energetico che politico. Il rapporto fornitore-consumatore è stato in qualche modo incrinato, non essendovi nei fatti una strategia di cooperazione reale, al punto che basta una lite commerciale per decretare il taglio secco e totale dell’energia, senza la minima considerazione per i possibili danni economici e reali che si provocano. Il tutto si riduce ad un gioco-forza per ottenere il dominio delle proprie zone di influenza. La "guerra del gas" dichiara sconfitta innanzitutto l’Europa, impotente e impreparata nonostante le grandi strategie di diversificazione, ma anche l’Ucraina, che non è riuscita ancora una volta nel suo "colpo di Stato" contro la Russia.  Ogni strategia è stata dispiegata per portare a compimento il progetto dell’Opec del gas, e ribadire il fatto che l’Europa, l’Ucraina ed ogni altro Stato che dipende da tali fonti di energia, non possono fare a meno della Russia.

 

Fulvia Novellino

 

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vendredi, 12 décembre 2008

Pétrole, guerre d'un siècle

Pétrole, une guerre d’un siècle :
L’ordre mondial anglo-américain

Pétrole, une guerre d’un siècle : L’ordre mondial anglo-américain

Cet ouvrage remet radicalement en cause l’idée que l’on se fait communément de la politique internationale et de ses enjeux. Il décrit les moyens extrêmes que les Anglo-Américains sont prêts à mettre en œuvre pour conserver une suprématie née en 1815 et renforcée au prix des deux Guerres mondiales. Nous savons, depuis l’élection de George W. Bush, que la politique américaine et le pétrole entretiennent une relation intime. William Engdahl montre que l’économie des Etats-Unis repose sur un approvisionnement en pétrole bon marché illimité, et sur la suprématie du dollar sur les autres monnaies. Vous découvrirez comment le premier choc pétrolier fut une incroyable et cynique manipulation conçue par Henry Kissinger pour opérer un transfert planétaire de capitaux vers les banques de Londres et de New York, au prix de la ruine des pays du Tiers-monde ; comment ces pays en faillite, contraints de s’endetter auprès du FMI, se virent prêter à grands frais ces mêmes capitaux dont ils avaient été auparavant spoliés. Vous verrez comment la géopolitique du pétrole est à l’origine de l’effondrement de l’Union soviétique, de l’éclatement de la Yougoslavie, et de l’arrivée au pouvoir puis de la chute des Talibans. Vous serez surpris d’apprendre comment, dans les années 1970, les mouvements écologistes anti-nucléaires financés par les grandes compagnies pétrolières, devinrent le cheval de bataille visant à entraver l’indépendance que l’énergie nucléaire aurait pu procurer à nombre d’Etats, afin de les maintenir dans l’orbite des pétroliers. Vous comprendrez enfin que la décision d’envahir l’Irak fut prise pour assurer l’hégémonie de la puissance anglo-américaine et le contrôle de l’économie mondiale pour les 50 ans à venir.

William Engdahl, né en 1944, est économiste et écrivain. Il a étudié les sciences politiques à l’université de Princeton et l’économie à l’université de Stockholm. Il publie depuis plus de 30 ans sur les questions énergétiques, la géopolitique et l’économie, et intervient dans les conférences internationales. Il est conseiller indépendant pour plusieurs grandes banques d’investissement.

vendredi, 26 septembre 2008

L'or noir, bonheur et malheur du Nigeria

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Francesca DESSI:

L’or noir, bonheur et malheur du Nigeria

 

Le conseil des ministres du Nigeria  a remis de l’ordre dans l’organisation du gouvernement et de ses structures, en créant six ministères et, plus particulièrement, un département ministériel qui s’occupera du développement économique du Delta du Niger, le coeur pétrolifère du pays. Ce remaniement prévoit la constitution de pas moins de 42 ministères et, surtout, la scission du ministère de l’énergie en deux branches distinctes: l’une pour le pétrole, l’autre pour les autres formes d’énergie. Ces modifications structurelles font partie d’un plan de réaménagement de l’Etat voulu par le président Oumarou Yar’Adoua pour “garantir une plus grande flexibilité et une réelle efficacité politique”. Le président avait en effet affirmé plus d’une fois que la normalisation et le développement économique du Delta étaient des priorités pour le gouvernement. Une déclaration qui est bel et bien en contradiction avec la triste réalité de la région, marquée par un taux élevé de chômage et une extrême pauvreté. Il y a déjà des années, en effet, que la communauté du Delta dénonce la corruption qui règne dans les administrations nigerianes et l’exploitation qu’imposent les grandes puissances qui ont dépouillé la région de ses propres ressources, sans offrir aucun bien-être en échange.

 

En réponse à ce remaniement politique général, le “Mouvement pour l’émancipation du Delta” a accueilli avec “précoccupation” l’annonce, par le gouvernement nigerian, de constituer un ministère du Delta du Niger. C’est ce qu’affirme Jomo Gbomo, porte-paroles de l’organisation, dans un message envoyé par voie électronique aux principaux organes d’information.

 

Dans le document, nous pouvons lire que “la population de la région devrait recevoir cette dernière friandise avec préoccupation et ne pas accepter que les cinq prochaines décennies seront une nouvelle fois des années sombres de famine et de malnutrition, dues à un gouvernement qui gèrera à sa guise nos émotions, car ce n’est pas la première fois que l’on nous sert des “mets” soi-disant si appétissants: c’est ainsi depuis la fin des années 50”.

 

“Créer un ministère”, ajoute Gbomo, “n’équivaut pas à la venue du Messie tant attendu. Le Nigeria a créé quantité de ministères au cours de ces quarante dernières années et aucun d’entre eux n’a eu un impact positif sur la population. Ce sera une voie de plus pour la corruption et les favoritismes politiciens”. En effet, la situation pourra difficilement changer. Il y a effectivement trop d’intérêts qui tournent autour de l’Etat nigerian, premier producteur de pétrole du continent africain et septième exportateur mondial. Le Nigeria est l’une des régions du monde les plus riches en hydrocarbures, avec des réserves de pétrole équivalant à 32 milliards de barils; il est aussi le cinquième fournisseur de brut pour les Etats-Unis. Au fil des années, l’or noir du Nigeria a éveillé l’intérêt de plus d’une grande puissance.

 

Après avoir été courtisé par la Chine, l’Inde, le Brésil, la Russie, l’Europe et les Etats-Unis, l’Iran, à son tour, a commencé, ces derniers mois, à s’intéresser au pétrole nigerian. L’Iran a noué des rapports bilatéraux avec le Nigeria, promettant une coopération commerciale, politique et nucléaire.

 

Un accord a ainsi été signé début septembre à Abouja durant les rencontres de la Commission irano-nigeriane. Cet accord prévoit de fait le cession au Nigeria de technologies nucléaires à usage civil pour la production d’électricité, sans aucune implication militaire. Malgré cela, la nouvelle “amitié” entre le gouvernement d’Abouja et Téhéran, a provoqué un état d’alerte à la Maison Blanche et sur le Vieux Continent.  Les Etats-Unis ne veulent pas que le Nigeria tombe dans les bras d’Ahmadinedjad. Mais il n’y a pas que cela. Washington ne peut pas se permettre de perdre l’exclusivité de ses rapports pétroliers avec les Nigerians, sous peine de dépendre exclusivement du Moyen Orient pour ses besoins énergétiques.

 

Les Etats-Unis avaient en effet prévu d’importer, d’ici la fin de la prochaine décennie, 25% de  ses besoins en pétrole des gisements du Golfe de Guinée. Un projet où le Nigeria a évidemment un rôle important à jouer, étant le premier exportateur de brut de l’Afrique sub-saharienne. En échange, l’administration américaine a promis de fournir armes et formations à l’armée nigeriane, afin qu’elle puisse combattre les guerilleros du Delta du Niger, qui réclament le partage des revenus du pétrole pour améliorer les confitions de vie de la population. Le Nigeria, il est vrai, ne peut se permettre d’enfreindre les règles frauduleuses imposées à l’échelle internationale.

 

La région, où se situe le Nigeria, est en mesure de produire un peu plus du sixième de ses propres besoins en électricité. Le pays ne possède pas de raffineries pour pouvoir traiter le pétrole et a un besoin urgent d’électricité pour développer ses propres secteurs industriels, qui  ont été ruinés, exactement comme son agriculture. Et comme l’assistance promise par les pays occidentaux se limite à de simples paroles, le Nigeria est bien obligé d’accepter toutes les offres, quelles que soient leurs provenances, en dépit qu’elles ne soient nullement désintéressées. C’est là une faiblesse patente du pays. Les Etats-Unis et l’Europe en sont inquiets parce que le Nigeria ne fait pas la distinction entre “bons” et “méchants” partenaires potentiels sur l’échiquier international. Une preuve? Le nouvel accord commercial, pour un montant de deux milliards et demi de dollars, qui vient d’être signé, début septembre, entre Gazprom et la Compagnie Pétrolière Nationale du Nigeria. Après quasiment dix-huit ans d’absence, Moscou revient en Afrique, tente de reprendre pied sur le continent en signant toute une série d’accords pour des fournitures énergétiques et militaires avec le Maroc, la Libye et l’Algérie.

 

Les Etats-Unis sont donc contraints de se préoccuper de l’expansionisme économique russe, tandis que l’Europe sait qu’elle dépend de Moscou pour son énergie. Le récent projet de Gazprom de construire un gazoduc partant du Delta du Niger pour arriver à la Méditerranée, en traversant le Sahara, évincera en quelque sorte le Vieux Continent, car, normalement, c’est l’Europe qui, de fait, devrait avoir un lien privilégié avec l’Afrique via la Méditerranée.

 

Le Nigeria apparaît dès lors comme un partenaire fondamental sur l’échiquier géopolitique et géo-économique. Le pétrole peut tout à la fois faire son bonheur et faire son malheur. Parce  que le Nigeria est un pays pauvre et faible sur le plan politique, dont les ressources sont exploitées et emportées sans scrupules par de tierces puissances, aves lesquelles s’acoquinent une minorité locale corrompue. En fin de compte, la population du Nigeria est condamnée à la misère la plus absolue.

 

Francesca DESSI.

(article paru dans le quotidien romain “Rinascita”, 12 septembre 2008 – trad. franç. : Robert Steuckers).