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samedi, 12 septembre 2009

Knut Hamsun, l'ultimo pagano

Knut Hamsun, l’ultimo pagano

Marino Freschi / http://www.centrostudilaruna.it/

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E’ escluso che i giovani no global lo celebreranno, eppure se si dovessero rintracciare i precursori del nuovo movimento, tanto corteggiato dai vari leader della sinistra, da Cofferati a Bertinotti, affiorirebbero nomi impresentabili e tra questi vengono in mente subito Nietzsche, Hesse e Hamsun. Stranamente quest’anno ricorrono due anniversari: 40 anni della morte di Hesse, ricordati assai in sordina dai vari Goethe-Institute (rammento, invece, i due grandi convegni del 1992 promossi dai “Goethe” a Roma e a Milano, ma allora la politica culturale tedesca era in altre mani). Ma se qualche mostra e concerto per Hesse ci sarà, su Hamsun, di cui ricorre il 50° anniversario della scomparsa, cala ancora un ostinato, anacronistico silenzio, interrotto solo dal consueto coraggio culturale della casa editrice Adelphi, che ha appena ristampato Pan (pagine 190, € 13,43), il capolavoro dello scrittore norvegese, nato nel 1859 e morto il 19 febbrario 1952 nel completo isolamento a Nørholm, dopo tre anni d’internamento, dal ’45 al ’48, in un manicomio per la sua adesione al nazismo e il suo appoggio al governo collaborazionista di Quisling, e dopo un continuato ostracismo, che lo scrittore seppe squarciare con uno dei più amari e tremendi libri Per i sentieri dove cresce l’erba.

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Tutti sanno del suo attaccamento caparbio alla terra, a quel suo piccolo universo tra il fjord e il marken, la terra arabile, ma questo radicamento proviene, paradossalmente, da una conoscenza per quel tempo approfondita e vasta del mondo. Hamsun, ovvero Knut Pedersen come ancora si chiamava, era di umili origini, aveva fatto tutti i mestieri e per anni, in due riprese, era emigrato in America, insieme a tanti altri suoi ‘paesani’ alla ricerca di una improbabile fortuna, che invece incontrò in patria per la sua ostinata volontà di scrivere. Da giovane conobbe la vita randagia e se ne tornò in Norvegia, tra i boschi, con un risoluto piglio di rivolta e di anarchico rifiuto di quella modernità, sostanziata dallo sfruttamento e dalla bruttezza. Si ribellava, come Nietzsche e come Jack London (cui assomiglia anche per analoghi percorsi esistenziali) al mondo moderno, alla società capitalista, ma anche alla democrazia che omologava tutti, al socialismo massificante. E condannava e denunciava la minaccia che pesava sulla natura insidiata dai selvaggi processi dell’industrializzazione, allora (come in gran parte ancora oggi) incontrollati e distruttivi. Imbevuto di filosofia nietzschiana, affascinato dalla scrittura demonica di Dostoieewskij, nordicamente pessimista e insieme realista, senza illusioni sulle ideologie progressiste, Hamsun trova rapidamente, con Fame nel 1890, la sua originalità narrativa, incontra la sua lingua, il suo universo, cui rimase fedele, cocciutamente, nella raffigurazione epica dei suoi racconti, pervasi da brezze suggestive di animosità (più che di intellettualità) anarchica, antiborghese, reazionaria e insieme romantica, poeticissima.

Lavorava racconto dopo racconto, dramma dopo dramma, alla grande figura del vagabondo, libero e maledetto, senza meta, senza dimora, senza amore eppure col cuore gonfio di un caldo, estatico sentimento della natura. I successi si susseguono gli anni Novanta sono prodigiosamente creativi; Pan è del 1892-94; mette in cantiere due trilogie, lavora con un impeto straordinario anche a drammi, seguendo la grande lezione di Ibsen. In breve viene riconosciuto come il principale scrittore del Nord; Thomas Mann ne parla come del “più grande vivente”
e nel 1920 gli viene conferito il Premio Nobel. Ma l’orizzonte comincerà ad oscurarsi rapidamente con la sua inclinazione per il movimento hitleriano, che gli alienò numerose simpatie nel campo intellettuale.

Ma lui procede tenace nella sua ricerca con le sue scomode convinzioni. In Hamsun affiora un cosmo complesso, fosco persino tetro, disperato, ma anche robusto, tenace e irrefutabile nella sua coerenza e nella sua intima, seducente durezza. E’, il suo, un universo privo di orpelli, di facili lusinghe, di scorciatoie false, di accomodamenti e compromessi. Più che nazista, la sua fede è radicata in una sorta di mistica unione con la natura, vissuta paganamente, misteriosamente e insieme con l’ansia di chi sa, di chi prevede la prossima fine di un’epoca. Il suo credo è quello neopagano, destinato a frantumarsi non perché contraddetto o superato, ma perché è stato semplicemente ‘dimenticato’, derubricato; i vincitori non si sono nemmeno presa la briga di contrastare quel pensiero, di confutare quelle bizzarre tesi. Con lui avviene ciò che era successo con gli ultimi fedeli della religione pagana: gli dei sono morti, Pan è morto e ciò è ancora più atroce e definitivo di una contestazione, di una polemica. La divina, immensa natura madre del nord viene cancellata con le risate e le chiacchiere intorno al televisore, il nuovo idolo, il grande comunicatore. Non sembra possibile che sia esistita – ed era ancora ieri – un’epoca in cui l’uomo sapeva tacere, sapeva ascoltare la crescita dei fili d’erba.

Oggi in Italia Hamsun viene ricordato da un solitario foglio indipendente, “Margini” delle Edizioni Ar. Anche all’interno della comunità letteraria la sua lezione sembra esaurita, affondata da tutti i minimalisti globali. Ma forse non è proprio così: Peter Handke continua, come prova il suo recentissimo romanzo, la sua rivisitazione in un universo sempre più desolato e sempre meno cittadino e globale. E torna in mente uno strano giudizio di Benjamin sui personaggi di Hamsun. Nel 1929 il critico berlinese affermava che lo scrittore norvegese era “un maestro nell’arte di creare il personaggio dell’eroe sventato, buono a nulla, perdigiorno e malandato”. Ma questa strana resurrezione dell’eroe nella letteratura così antieroica del Novecento costituisce un fiume carsico che non si è mai interrotto che esplode in superficie improvvisamente con Ernst Jünger, con André Malraux o con Manes Sperber, avventurieri e scrittori di destra e di sinistra, in realtà sovranamente anarchici. Le nostre patrie lettere hanno D’Annunzio e non è poco, forse persino troppo per una letteratura che vive sempre più marginale e marginalizzata ai confini dell’impero, anche se talvolta – e lo dimostra proprio Hamsun all’estremità del mondo abitato – è proprio nelle lande più remote, in quelle meno protagoniste del grande show mediatico, che si avvertono gli scricchiolii e le nuove tendenze: penso al recente Il terzo ufficiale ( pagine 316,€15), il romanzo ‘eroico’ di Giuseppe Conte, appena uscito da Longanesi.

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Neopaganesimo, contatto con la natura, eroe, sono i temi dell’epica di Hamsun e questi racconti tramano l’eterna vicenda degli archetipi. Si può leggere la narrativa di Hamsun come una grandiosa rappresentazione sacra e insieme nudamente priva di dei, intesi quali comode speranze e arrendevoli comandamenti. Nella sua pagina affiorano, silenziosi, ostinatamente muti, gli antichi dei del Nord, i numi norreni delle saghe arcaiche, quando l’uomo vichingo si lanciava, incosciente del pericolo, su tutti i mari del mondo e la sua civiltà brillava da costa a costa, dalla Sicilia alla Normandia, dal Volga alle sponde ignote del Nuovo Mondo. E’ quel DNA che viene trasmesso dalle trilogie di Hamsun, come quella potente, intramontabile dei “Vagabondi”, intagliati nel legno duro degli outsider anarchici e dei ribelli.

L’autore intuisce nella natura la nostalgia segreta dell’anima moderna. L’uomo contemporaneo, gettato nelle metropoli di asfalto e cemento, nasconde un sogno struggente: il bosco e il mare. In tanti libri, da Fame a Pan, da La nuova terra del 1893 a Victoria del 1898 a Hamsun rincorre questo tema come il leitmotiv, che pervade la sua opera, continuamente diversa e costantemente fedele fino a una straordinaria monotonia, monomania, che ossessivamente cattura il lettore, riplasmandone l’immaginazione e la sua capacità di ricezione sia letteraria che esistenziale.

Ma il suo libro più stupefacente è Per i sentieri dove cresce l’erba del 1948, la sua ultima fatica letteraria, pubblicata a novant’anni. E’ uno scritto autobiografico, un diario stupendo e atroce, dettato dalla disperazione e da un’umiliazione tremenda. Come Ezra Pound e Céline, Hamsun fu uno dei rari intellettuali di fama mondiale ad aderire al fascismo, ad oltrepassare la frontiera, a volgere le spalle al proprio paese. Non si accorse, il grande vecchio, che il nazismo era l’estrema propaggine di quella degenerazione globalizzante che era il totalitarismo, e insieme una impotente e straziante negazione della modernità, da cui era pure completamente compenetrato. Per tutta la vita legato ai suoi dei segreti, come ricorda un altro suo libro bellissimo Misteri del 1892, ostinato e caparbio, aperto al richiamo della foresta simile a London, a D.H. Lawrence e a Hesse, anche Hamsun comprese con la sua narrativa, potentemente allucinata, visionaria, che l’uomo non può rinunciare alla natura se vuole sopravvivere. Solo che i sentieri dove cresce l’erba l’avrebbero dovuto condurre a una diversa coscienza, lontana dalla politica. Tuttavia il suo messaggio, ruvido e lirico, è ancora nella memoria antica dell’Occidente, in quel mondo senza età in cui Odino ascolta ancora gli incantesimi delle valchirie. Ecco la magia evocatoria di Hamsun.

* * *

Tratto da Il Giornale del 18 febbraio 2002.


mercredi, 02 septembre 2009

La riscoperta di Hamsun

La riscoperta di Hamsun

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

Knut Hamsun (Vågå, 4 agosto 1859 – Nørholm, 19 febbraio 1952)

A quanto pare, in Norvegia il nome di Knut Hamsun sta tornando a essere considerato come quello di un grande personaggio della nazione. Così, dopo decenni di ostracismo ideologico – Hamsun rimase germanofilo sino alla morte, avvenuta da ultranovantenne nel 1952 – in occasione del 150esimo anniversario della nascita sono in corso numerose manifestazioni ufficiali di ricordo. Inoltre gli verrà dedicata una statua.

Io ho scoperto questo autore solo l’anno scorso; naturalmente “scoperto” in senso strettamente personale. Di lui aveva detto Thomas Mann: “Mai il Premio Nobel (che Hamsun vinse nel 1920) fu conferito a scrittore più meritevole”; Gide lo accostò a Dostoevskj, “sebbene Hamsun sia probabilmente più sottile del maestro russo”; Isaac Singer affermò che Hamsun “è il padre della scuola moderna di letteratura in ogni aspetto: nella sua soggettività, nell’impressionismo, nell’uso della retrospettiva, nel liricismo. Tutta la letteratura moderna del ventesimo secolo deriva da Hamsun”.

Dopo il primo libro (una raccolta della UTET degli anni sessanta), che avevo letto incuriosito dal lusinghiero giudizio espresso da Adriano Romualdi, ho letteralmente divorato tutto quello che è stato tradotto di lui in italiano; purtroppo la maggior parte dei suoi libri non sono più in commercio, e questo limita la sua conoscenza per lo più alle due opere più famose, Pan e Fame, che sono pubblicate da Adelphi, mentre non sono più disponibili nelle librerie opere come Il risveglio della Terra, Vagabondi, Misteri, Vittoria o L’estrema gioia.

Riporto di seguito un articolo sull’attuale repechage norvegese uscito il mese scorso sul New York Times, che parla al proposito di Reconciliation Therapy. E’ significativo che anche in quel paese le parole piene di astio e risentimento vengano dagli individui in assoluto più spregevoli: i politici.

Norwegian Nobel Laureate, Once Shunned, Is Now Celebrated
By WALTER GIBBS
Published: February 27, 2009

OSLO — It’s all you would expect of a national jubilee: street theater, brass bands, exhibitions and commemorative coins. A statue is to be unveiled, and a $20 million architectural gem of a museum is under construction.

Yet the honoree is not a war hero, nor even a patriot. It is the Norwegian novelist Knut Hamsun, who welcomed the brutal German occupation of Norway during World War II and gave his Nobel Prize in Literature as a gift to the Nazi propaganda minister, Joseph Goebbels. Hamsun later flew to meet Hitler at Hitler’s mountain lair in Bavaria.

Why the festivities, then? Call it reconciliation therapy, or a national airing out.

Hamsun died in 1952 at 92, shunned by his countrymen and heavily fined for his spectacular wartime betrayal. But as the author of revered novels like “Hunger,” “Pan” and “Growth of the Soil,” Hamsun has remained on school reading lists and in the hearts of many Norwegians.

“We can’t help loving him, though we have hated him all these years,” said Ingar Sletten Kolloen, author of “Dreamer & Dissenter,” a Hamsun biography. “That’s our Hamsun trauma. He’s a ghost that won’t stay in the grave.”

With the passage of time, however, Hamsun packs less of a fright. Several years ago King Harald V of Norway set off debate just by quoting a snippet of Hamsun’s prose in a speech. Last week, by contrast, Queen Sonja opened a yearlong, publicly financed commemoration of Hamsun’s 150th birthday called Hamsun 2009. Fanfare, musical comedy and a jovial outdoor crowd of several hundred greeted the occasion, and the queen spent a highly symbolic half-hour with Hamsun family members at the National Library. Together they viewed the author’s handwritten manuscripts.

“I hope there can be forgiveness soon,” Hamsun’s grandson Leif Hamsun, 66, said afterward. “It feels like there’s a healing taking place.”

But some still see nothing to celebrate — not the man, not the books.

“Hamsun wrote great novels, but they are completely overshadowed by his behavior as a Hitler lackey,” said Jo Benkow, 84, a former president of the Norwegian parliament. “At least for my generation, it’s outrageous to give more honors. He won the Nobel Prize in 1920. That should be enough.”

Mr. Benkow, who is Jewish, fled across the Swedish border in 1942 to avoid deportation to the prison camps in Poland, where more than 700 Norwegian Jews were killed. But as the war generation has dwindled, so has the collective ill will. Even some formerly uncompromising voices here have softened.

In 2001 a prominent wartime resistance leader, Gunnar Sonsteby, helped defeat a proposal to name a street in Oslo after Hamsun. Norway should dissolve parliament and declare a dictatorship first, he said. But he now says that commemorating Hamsun is acceptable, as long as his literary talent and his dark side receive equal focus.

La casa di Hamsun ad Hamaroy

La casa di Hamsun ad Hamaroy

That double-barreled approach was evident in Oslo last week. One of the largest framed items at the National Library was the May 7, 1945, edition of a collaborationist newspaper whose lead article on Hitler’s death was by Knut Hamsun. As most collaborators lay low, preparing alibis, Hamsun wrote, “He was a warrior, a warrior for mankind, and a prophet of the gospel of justice for all nations.”

Queen Sonja, leaving the exhibition, said only, “I think we’ll have to keep two thoughts in our head at the same time.”

After the war a court-appointed psychiatrist found Hamsun too “diminished” from age, deafness and a stroke to undergo prosecution for treason, but a civil court confiscated much of his fortune. A period of weak book sales followed, and some Norwegians tossed Hamsun’s collected works over his garden fence. Yet this former “poet chieftain” of his country soon returned to the best-seller list with “On Overgrown Paths,” his postwar apologia. He has remained one of the top-selling Norwegian authors at home and abroad.

In the United States the translator Sverre Lyngstad has contributed to a modest Hamsun resurgence with new English-language editions of Hamsun’s more luminous works, including his 1890 breakthrough novel, “Hunger.” The self-conscious protagonist of “Hunger” signals the arrival of European modernist literature by trying, at one point, to eat his own index finger.

Instead of merely narrating events, Hamsun peels away layers from his unnamed character’s flickering psyche. With typical bombast the young Hamsun declared at the time that he had outwritten Dostoyevsky and annihilated the social realism of Ibsen.

The author Isaac Bashevis Singer basically agreed. “The whole school of fiction in the 20th century stems from Hamsun,” Singer wrote in 1967, citing in particular “his subjectiveness, his fragmentariness, his use of flashbacks, his lyricism.”

In “Pan” and “Mysteries” Hamsun continued writing in this fathomless new way. But in 1898 came a simple, poetic love story, “Victoria,” and by middle age Hamsun had actually turned anti-modern. “Growth of the Soil” (1917) is an Old Testament-style portrayal of stolid mountain dwellers. Goebbels was so fond of its blood-and-soil ethos that he had a special edition printed for German soldiers in the field.

Many readers today, however, agree that the crude, reactionary impulses displayed by Hamsun during World War II are scarcely evident in his novels, the last of which appeared in 1936, when he was 77.

As part of Norway’s continuing celebration, Hamsun’s publisher, Gyldendal, is rolling out a new “Collected Works” in Norwegian. Its 27 volumes contain more than 30 novels, as well as essays and travelogues, including at least one that reveals an early racist streak in Hamsun that may surprise readers of his mature works.

The Hamsun 2009 festivities are supposed to peak on the honoree’s birthday, Aug. 4. On that day a new six-story Hamsun Center is scheduled to open in Hamaroy, where Hamsun grew up, north of the Arctic Circle. Resembling a large black cube, the structure was designed by the New York-based Steven Holl Architects to house both a museum and an assembly hall. Around the same time the sculptor Skule Waksvik plans to unveil Norway’s first statue of Hamsun.

It will be in bronze, he says — and larger than life.

vendredi, 28 août 2009

Hamsun: francobollo commemorativo

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Hamsun: francobollo commemorativo

Come avevo immaginato, non una sola riga è apparsa sui giornali italiani riguardo il centocinquantesimo anniversario di Hamsun.

Intanto ieri in Norvegia è entrato in distribuzione questo francobollo commemorativo da 25 centesimi, stampato in un milione e mezzo di esemplari.

mardi, 04 août 2009

Knut Hamsun: un esprit peu commode

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Helge MORGENGRAUEN:

Knut Hamsun: un esprit incommode

 

Ses admirateurs comme ses ennemis sont d’accord sur un point: Knut Hamsun est l’un des plus importants romanciers de la littérature européenne contemporaine. Nombreux furent ses contemporains plus jeunes comme James Joyce ou Virginia Woolf qui bénéficièrent de son influence de manière décisive. Hamsun a aussi acquis une réelle importance en littérature américaine, notamment par l’influence qu’il exerça sur un écrivain comme William Faulkner: bon nombre d’historiens de la littérature le comptent dès lors parmi les pères fondateurs du roman américain moderne.

 

Des auteurs aussi différents que Maxime Gorki, Thomas Mann, Jakob Wassermann ou Stefan Zweig reconnaissent en Hamsun un géant de la littérature. Dans sa contribution à un “liber amicorum” publié en Norvège en 1929, à l’occasion du 70ème anniversaire de Hamsun, Gorki écrivit qu’il ne voyait personne dans la littérature de son temps “qui égalât Hamsun sur le plan de l’originalité et de la puissance créatrice”. L’écrivain russe alla jusqu’à écrire que “l’écriture de Hamsun relève d’une ‘écriture sainte” pour l’humanité toute entière”. Quant au style hamsunien, Gorki déclare qu’il est “sans aucune pompe artificielle” et que “sa beauté réside dans la simple, pure et aveuglante vérité qu’elle dévoile”. Gorki: “Les figures norvégiennes, qu’il dépeint, sont aussi belles que les statues de la Grèce antique”.

 

La même année, Thomas Mann prend, lui aussi, la parole, pour dire “que l’art magnifique de Hamsun est devenu l’un des ingrédients majeurs” de sa propre formation et que cet art du Norvégien l’a aidé “à déterminer sa propre notion du récit et de la poésie littéraires”. Jakob Wassermann constatait, pour sa part, que Hamsun, “comme tout grand écrivain, est capable de transformer un petit monde aux horizons réduits en un véritable cosmos”, tout “en devenant un témoin majeur de son époque”.

 

Knut Hamsun, pour Stefan Zweig, représente “la forme la plus noble de la virilité, parce qu’elle offre et une tendresse, qui sourd d’une grande force comme l’eau d’une source, et de la passion contenue, qui se dissimule derrière une rudesse abrupte”.

 

Quand certains critiques, appartenant souvent à la mouvance des littérateurs engagés à gauche, jugent d’importantes figures de la littérature universelle comme Knut Hamsun ou de grands voyageurs comme Sven Hedin, on est surtout frappé par leur absence totale de pondération et par leur esprit partisan et haineux; les propos tenus par ces gens-là sont aigres, partiaux et injustes.

 

Hamsun et Hedin sont deux Scandinaves qui, comme pratiquement personne d’autre, ont osé tenir tête à Hitler et lui demander des choses que tous imaginaient impossibles, comme de libérer certains détenus de camps de concentration, d’épargner des vies juives, etc. Lorsque Hamsun rencontra Hitler, l’interprète n’a pas osé traduire tous ses propos. Quand l’écrivain évoqua plus tard cet entretien à son fils Tore, il dira: “Il ne me plaisait pas. “Je”, “moi”, disait-il sans arrêt, “je”, “moi”, toujours “je” et “moi”!”. On ne peut pas dire qu’il s’agit là d’admiration inconditionnelle. Revenu en Norvège, l’écrivain, avec un humour au second degré, racontait “qu’il avait rencontré tant de gens lors de son voyage, qu’il ne se souvenait plus, s’il avait rencontré Hitler ou non”.

 

Sven Hedin a raconté par le menu ses tribulations dans la capitale allemande dans un remarquable livre de souvenirs, intitulé “Ohne Auftrag in Berlin” (“Sans ordre de mission à Berlin”).

 

En 1953, Pablo Picasso a pu rédiger un vibrant hommage à “son cher camarade Staline”, alors que celui-ci avait commandité des massacres à grande échelle qui ont causé la mort d’au moins 55 millions de personnes en Union Soviétique. Cet hommage ne choque pas les nigauds du “politiquement correct”. Ndlr: En revanche, l’hommage rendu par Hamsun à Hitler, quelques jours après le suicide du dictateur allemand, continue à faire des gorges chaudes, alors qu’on  sait très bien que Hamsun n’était pas un inconditionnel du national-socialisme: que seule comptait à ses yeux l’élimination du capitalisme anglo-saxon.

 

Cette hostilité hamsunienne au libéralisme et au capitalisme anglo-saxons est tirée de son propre vécu, lors de ses séjours successifs aux Etats-Unis. Hamsun n’a jamais compris l’attirance qu’éprouvaient la plupart des Norvégiens pour l’Angleterre et l’Amérique. Lors de la première guerre mondiale déjà, et dès le début des hostilités, la sympathie de Hamsun allait à l’Allemagne en guerre, au “peuple germanique frère” d’Europe centrale. Cette sympathie déplaisait à une majorité de Norvégiens.

 

Hamsun n’a jamais renoncé à cette sympathie germanophile, même quand les temps étaient très durs pour l’Allemagne: pour l’établissement marqué aujourd’hui par l’union des gauches et du “politiquement correct”, c’est en cette germanophilie constante que réside la faute majeure de Knut Hamsun. Il avait connu les affres du système américain, pseudo-démocratique et capitaliste et en avait souffert cruellement. Personne de raisonnable ne pourrait lui reprocher de préférer l’Allemagne, à qui il devait ses premiers succès éditoriaux et le lancement de sa carrière internationale, succès amorcés bien avant même que les nationaux-socialistes existèrent et n’exerçassent le pouvoir. De préférer cette Allemagne des lettres et de l’esprit à un monde anglo-saxon, dont le Dieu unique était et reste Mammon (ndlr: c’est exactement le cas de l’écrivain flamand de langue française Georges Eekhoud).

 

Hamsun est donc bien un héritier des Vikings, dans la mesure où jamais il ne choisit les chemins faciles et les pistes tracées à l’avance. Même quand il se trompait, Hamsun restait essentiellement un Germain contestataire de grand format.

 

Helge MORGENGRAUEN.

(article tiré de “zur Zeit”, Vienne, n°31-32/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

Hommage à Knut Hamsun pour son 150ème anniversaire

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Ellen KOSITZA:

 

 

 

Hommage à Knut Hamsun pour son 150ème anniversaire

 

 

 

Il y a cent cinquante ans, le 4 août 1859, naissait l’un des écrivains les plus chatoyants d’Europe. Il fut un homme fier, indocile, il cherchait la rébellion à tout prix mais demeure, malgré cela, un artiste aux sens très aiguisés.

 

Cette description ferait certes grommeler notre jubilaire: quoi, moi, un artiste? Pfff... les artistes, un ramassis qui n’a point besoin du monde! Chatoyant, moi? Fichtre, sous mes ongles, il y a de la terre sombre qui colle, alors, votre chatoyance, vos apparences... elles me laissent froid! Ecrivain, moi? Avec une rage contenue, cet homme de lettres si célèbre répondait à tous ses lecteurs qui lui écrivaient, en lui adressant leur courrier par un “A Monsieur l’Ecrivain Knut Hamsun”, qu’il était un paysan et rien de plus et que sans ses enfants, il “n’aurait même pas mérité une pierre tombale”.

 

Pour Hamsun, les hommages, qu’on lui rendait, n’avaient guère de sens. Il refusait très souvent les titres de docteur “honoris causa”, les décorations et les honneurs. Il n’avait pas l’habitude de lire les biographies qu’on lui consacrait, ni les recensions qu’on écrivait sur ses livres. Mais il s’insurgeait avec véhémence quand il voyait que la presse maltraitait un livre de sa femme Marie (en l’occurrence: “Les enfants de Langerud”, qui aujourd’hui encore reste un livre qui n’a pas pris une ride). Mieux: tout à la fin de sa carrière, il envoya la médaille du Prix Nobel, qu’il avait gagné en 1920, et qu’il jugeait “objet inutile”, à Joseph Goebbels, et, cerise sur le gâteau, rédigea une notice nécrologique pathétique à la mort d’Adolf Hitler, ce qui fit de lui, et définitivement, un personnage controversé.

 

Mais qui fut donc ce Knut Hamsun? Il était le fils d’un pauvre tailleur et d’une mère qui deviendra vite neurasthénique. Né Knud Petersen, il était le quatrième d’une famille de sept enfants, natifs du centre de la Norvège. Très jeune, il fut hébergé par un oncle, homme cultivé mais chrétien rigoriste et, par là même, incapable d’aimer, qui avait élu domicile très loin dans le Nord du pays. C’est là, parmi les animaux, les livres, en ne fréquentant qu’épisodiquement l’école, et sous des frimas qui duraient quasiment toute l’année, que Hamsun a grandi. L’adolescent était très soucieux de publier ses premiers écrits, qui n’ont pas été conservés; il en finançait l’impression et des colporteurs distribuaient ces courtes nouvelles pour quelques “öre” (quelques sous).

 

Hamsun ne s’est jamais fixé en un endroit précis: il travaillait ci et là comme instituteur, comme commis aux écritures dans l’administration ou comme ouvrier sur les chantiers des ponts et chaussées. Lorsqu’il émigra pour la première fois en Amérique en 1882 et y demeura plusieurs années, il avait déjà vécu quelques expériences à l’étranger. A vingt-neuf ans, et après de nombreuses tentatives opiniâtres, il perce enfin en littérature: un quotidien imprime son récit intitulé “La faim” (1890) en feuilleton. L’histoire se base sur les propres expériences de Hamsun à Christiana (l’actuel Oslo), où jeune artiste jeté dans les précarités de l’existence, il meurt presque de faim. Le récit attire lecteurs et critiques, qui en restent marqués à jamais.

 

Un an après, Hamsun publie un écrit polémique “Le vie intellectuelle dans l’Amérique moderne”, au ton acerbe, amer et virulent pour régler ses comptes avec l’esprit borné d’Outre-Atlantique, ressenti comme hostile à toute forme de culture. Hamsun avait demandé qu’on ne le réédite pas. Mais avec ces deux livres, son nom avait acquis célébrité. La bohème littéraire des grandes villes aimait se référer à ce poète rebelle, à ce coléreux exalté, qui, en plus,  ne mâchait pas ses mots quand il évoquait les grandes figures intellectuelles de son pays, surtout Ibsen et aussi, plus tard, son protecteur, l’écrivain national Bjørnstjerne Bjørnson. Hamsun suscitait l’intérêt parce qu’il ribouldinguait et s’avèrait un causeur spirituel de tout premier ordre.

 

Il était charmant et charmeur mais, s’il le fallait, il se montrait très combattif. Il y avait toutes sortes d’attitudes qu’il détestait: l’esprit du mouvement féministe, ensuite ceux de la réforme orthographique (“Il ne faut pas démocratiser la langue, il faut l’anoblir”), du culte des vieillards (devenu vieillard lui-même, il continuait à le mépriser: “on ne devient pas plus sage mais plus bête”), du tourisme qui était en train de se développer, de la vie urbaine (même si elle l’attirait toujours vers les métropoles), de la décadence des temps modernes et surtout l’esprit contemplatif de la bourgeoisie. Et avant toute chose, il abhorrait le monde anglo-saxon avec son “pragmatisme dépourvu d’esprit”. La Russie (parce qu’il aimait Dostoïevski), la France (parce qu’il vécut quelque temps à Paris) et surtout l’Allemagne (il y envoya sa fille Ellinor à l’école) suscitaient sa sympathie. C’est surtout la réception de ses oeuvres en Allemagne qui aida Hamsun à faire rayonner sa célébrité en dehors de la Scandinavie. Son éditeur, Albert Langen, devint l’un de ses meilleurs amis.

 

Pourtant, au départ, l’oeuvre de Hamsun a connu une réception ambigüe. Deux livres surtout ont déplu: l’énigmatique roman “Mystères” (1892), qui est considéré aujourd’hui comme un classique (récemment Helmut Krausser en a tiré une pièce de théâtre sous le titre de “Helle Nächte”/”Nuits claires”), et “Lynge, rédacteur en chef”, une critique mordante du journalisme de son époque. C’est donc avec ses romans “Pan” et “Victoria”, qui n’ont plus jamais cessé d’être édités et réédités, que Hamsun connut le succès.

 

Il eut une fille avec sa première femme en 1902, mais ce mariage fut très éphémère. S’ensuivirent des années fébriles et mélancholiques, ponctuées de crises de créativité. Hamsun en souffrit énormément. Il se soumit même à une psychothérapie de longue durée pour surmonter le syndrome de la page blanche. Son public ne s’en aperçut guère: Hamsun était un polygraphe génial; en bout de course, son oeuvre couvre trois douzaines de volumes, principalement des romans, bien sûr, mais aussi des récits, des poèmes, des drames et des souvenirs de voyage.

 

Vers 1906, plusieurs oeuvres se succèdent à un rythme rapide, comme “Sous l’étoile d’automne”, “Benoni”, “Rosa” et “Un vagabond joue en sourdine”. Une nouvelle phase dans l’oeuvre de Hamsun venait de commencer. En 1909, il épouse Marie, une actrice bien plus  jeune que lui. De ce mariage naîtront deux fils et deux filles. Amoureux de la Vie, qu’il croquait à belles dents, Hamsun savait, depuis sa plus tendre enfance, vivre et créer dans toutes les situations mais, il passait maître dans l’art de ne jamais trouver ni paix ni quiétude.

 

Dans la pauvreté, il fanchissait les obstacles; il avait l’habitude de transporter avec lui une planche qui lui servait de chevalet, son manteau lui servait d’oreiller. Quand il avait de l’argent, il le dépensait en des achats grandioses et distribuait le reste aux nécessiteux. Entouré de sa famille, il ne trouvait pas la quiétude pour écrire. Quand il se retirait, il souffrait de l’absence de sa femme et de ses enfants. Il aimait jouer avec ceux-ci. S’il vivait ici, il fallait qu’il se rende là-bas; s’il était absorbé par la rédaction d’un roman, le travail de la terre lui faisait cruellement défaut.

 

En 1911, Hamsun achète une ferme dans le Nord de la Norvège. En 1917, il retourne dans le Sud avec sa famille, où, avec l’argent que lui procurera l’attribution du Prix Nobel, il achètera une ferme parfaite selon ses voeux. Depuis des années déjà, Hamsun avait été pressenti comme candidat pour ce Prix Nobel. En 1920 aussi, les observateurs estimaient que le Nobel littéraire lui échapperait, à cause de Selma Lagerlöf, membre du jury (Hamsun se moquait d’elle, parce qu’elle était une femme célibataire et sans  enfants). Finalement, le roman de Hamsun, “L’éveil de la glèbe”, paru trois ans auparavant, fit l’unanimité. 

 

Dans ce roman, l’écrivain raconte la vie d’un paysan fruste, qui peine sur une terre ingrate, Isak: comment celui-ci se taille une place au soleil, au milieu d’une nature sauvage, comment il plante, travaille et produit; Isak est brave, fidèle et immunisé contre toute corruption de l’âme. Hamsun montre aussi comment le monde moderne, avec tout son cortège de séductions, s’approche de son héros et le frappe. Non, Hamsun n’a pas fait du romantisme à bon marché. Ne s’est pas posé comme un nostalgique qui regrette le bon vieux temps. Elle recèle chaleur et rudesse, fertilité et putréfaction: telle est la Terre sur laquelle croissent et dépérissent les créations d’Isak. De nos jours encore, “L’éveil de la glèbe” est considéré comme un jalon important dans l’histoire de la littérature mondiale.

 

Cependant, le discrédit tombera sur Hamsun. Jamais il n’avait dissimulé sa germanophilie inconditionnelle. Dans les années 30, il accumule les invectives de nature politique. En 1935, il salue le retour de la Sarre à l’Allemagne. En 1939, des semaines avant que n’éclate la guerre, il plaide pour la réintégration de Dantzig dans le Reich; et il écrit: “Les Polonais sont parfaits – en Pologne”.

 

Lorsque les Allemands occupent la Norvège en 1940 et ne précèdent les Anglais que de quelques heures, Hamsun publie plusieurs appels à son peuple, qui sympathisait avec les Anglais et l’exhortait à accepter l’occupation allemande. Hamsun n’a jamais pris position quant à l’idéologie nationale-socialiste; il n’était pas antisémite et considérait que les Juifs constituaient un peuple “très doué, formidablement musical”; pour l’antisémitisme nazi, il avait une explication toute prête: “Il y a de l’antisémitisme dans tous les pays.  L’antisémitisme succède au sémitisme comme l’effet succède à la cause”. En 1943, Hamsun rend une visite pesonnelle à Hitler, pour se plaindre de la gestion de Terboven, le Commissaire du Reich en Norvège. L’entretien se termine mal: Hamsun a failli se faire jeter dehors sans ménagement. Après cette confrontation tapageuse, Hitler aurait donné l’ordre de ne plus lui présenter des “gens pareils”.

 

A la fin de la guerre, Hamsun avait 86 ans. On le priva de liberté pendant deux ans pour “activités de trahison”: résidence surveillée à domicile, prison, asile psychiatrique. Son dernier livre, “Sur les sentiers où l’herbe repousse” (1949), raconte les péripéties de cette époque, sans aucune amertume, au contraire avec ironie et sérénité.

 

Hamsun meurt dans sa ferme à Nörholm en février 1952, réprouvé et ruiné. Contrairement à Hemingway (qui était l’un des auteurs préférés de Hamsun), notre écrivain norvégien n’a jamais tué personne; il s’est simplement agité dans le mauvais camp, celui des perdants. Voilà ce qui nous explique pourquoi des dizaines de cafés portent le nom de Hemingway. Et pourquoi, récemment encore en Norvège, une âpre polémique a éclaté pour savoir s’il fallait baptiser des rues ou des places du nom de Knut Hamsun.

 

“Je suis comme le saumon”, avait un jour écrit Hamsun, “je me sens  obligé de nager à contre-courant”.

 

Ellen KOSITZA.

(article paru dans “Junge Freiheit”, n°31-32/2009, trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 20 juillet 2009

L'épopée du Kalevala

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L'épopée du Kalevala

 

par Frithjof HALLMAN

 

En 1985, en Finlande, dans tout le pays, on a fêté, sous diverses formes, le 150ième an­­niversaire de l'épopée nationale fin­noi­se, le Kalevala. Outre la publication d'une nouvelle édition illustrée de l'é­po­pée hé­roïque, due au célèbre peintre de la mer Björn Landström, on a organisé à Helsin­ki une exposition des peintures du plus con­nu des illustrateurs du Kalevala, Gal­lén-Kallela; ensuite, on a créé un opéra sur le thème du Kalevala, mis en mu­si­que par Einojuhani Rautavaara. Ce drame musical, appuyé par des chœurs, a été joué en première à Joensuu. En parallèle à cette initiative musicale, on a rejoué les ma­gnifiques symphonies poétiques de Jean Sibelius, inspirées des thématiques du Kalevala: les suites Lemminkäinen et Karelia, le Cygne de Tuonela, Le Barde et la Fille de Pohjola.

 

En Allemagne, pour cet anniversaire, on a fait paraître une nouvelle édition de cette épopée classique en trochées à cinq pieds de 22.795 vers. De même, est parue une édition illustrée en prose d'Inge Ott (Ka­le­vala - Die Taten von Väinämöinen, Ilma­rinen und Lemminkäinen, Verlag Freies Geistesleben, Stuttgart, 1981, 288 S.) pour ceux qui, grâce à cette version simpli­fiée, pourraient avoir plus facilement ac­cès à cette œuvre magistrale. On a traduit le Ka­le­vala dans plus de cent langues dif­fé­ren­tes, preuve de la puissance sugges­tive de cette épopée héroïque finnoise. Elle a véri­ta­blement conquis le monde.

 

C'est grâce à un médecin de campagne sué­dois de Finlande, Elias Lönnrat, que le Kalevala a vu le jour en 1835. Au départ d'innombrables chants et chansons popu­laires, de rébus à connotation mytholo­gi­que et de proverbes puisant leurs ra­cines dans l'immémorial, Lönnrot a pu forger une œuvre nouvelle et originale, qui, a­vec ses 22.795 strophes est l'équivalent, pour le peuple finnois, de la Chanson des Nibelungen pour les Allemands, de l'Ed­da pour les Islandais et de la Saga de Frith­jof pour les Suédois. Un philologue alle­mand, F.A. Wolf, spécia­liste de Homère, avait affirmé et souligné, au début du sièc­le passé, que les deux grandes épopées des Grecs, l'Illiade et l'Odyssée, n'étaient pas l'œuvre d'un seul poète mais récapitu­laient en un seul ou­vrage les mythes et lé­gendes de tout un peuple. Cette idée a été retenue par le Finnois Carl Axel Gottlund, qui s'est de­mandé si l'on ne pouvait pas, éventuel­lement, forger quelque chose de semblable à l'Illiade et l'Odyssée à partir des mythes, légendes et sagas de son pro­pre peuple.

 

Zachris Topelius, qui avait exploré les vas­tes régions de la Carélie du Nord ainsi que quelques provinces septentrionales du pays, et deux femmes énergiques, Ar­hip­pa Pertunen et Larin Paraske, ras­sem­blè­rent à trois le plus grand recueil de chants et chansons populaires, de textes épars issus du peuple et non pas des let­trés. De son côté, Lönnrot, qui, en tant que médecin, allait de ferme en ferme dans l'es­pace carélien, rassemblait, lui aussi, une impressionnante collection de vers, qui deviendra, en 1835, la première ver­sion, encore brève et en 12.078 strophes et 32 chants, du Kalevala. En 1849, paraît la version définitive, avec 22.795 strophes et 50 chants.

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Dans cette énorme épopée, beaucoup d'é­lé­ments rappellent les sagas et légendes de l'Europe entière mais sous des formes dif­fé­rentes, ce qui en fait une mine fabuleuse pour les chercheurs. Elle rappelle aussi les Nibelungen, tandis que d'autres éléments, notamment ceux qui évoquent le voyage du héros Väinämöinen dans une nef de bronze, font penser à des mythes bien plus anciens encore. On a dit que peu d'autres ouvrages finlandais ont autant contribué que le Kalevala à renforcer la conscience na­tionale de ce peuple, peu nombreux mais défendant toujours son existence fa­rouchement et héroïquement. Les pein­tu­res de Gallén-Kallela, présentant des mo­tifs issus du Kalevala, et la musique de Si­be­lius ont, pour leur part, renforcé l'in­té­rêt des Finnois en ce siècle pour cette épo­pée, ancrée profondément dans l'âme du peuple, des paysans, des chasseurs et des pêcheurs. Je vais maintenant esquisser les lignes essentielles de l'épopée, pour don­ner au lecteur la clef qui l'aidera à dé­chif­frer son sens.

 

L'action réelle,

immémoriale, cesse avec

l'arrivée du christianisme

 

Dans le Kalevala, nous voyons d'abord ap­paraître trois héros masculins et deux héroïnes féminines: le sage Väinämöi­nen, le forgeron Ilmarinen et Lemmin­käinen, semblable à Ulysse, tou­jours en quê­te d'aventures et de voyages; les figu­res féminines: Louhi (la «haute femme de Pohja»), qui symbolise l'extrême-nord, et ses filles, toutes belles, qui sont l'objet des convoitises des trois héros concurrents. Sampo, sorte de mou­lin magique et my­thi­que, dont les caracté­ristiques mytho­lo­giques sont comparables à celles du trésor des Nibelungen, est au centre de l'intri­gue. Celui qui s'empare de Sampo, trouve le bonheur. Mais Sampo coule à pic, com­me l'or de Nibelungen, dans des eaux pro­fon­des. C'est alors qu'apparaît un motif chré­tien: la nais­sance d'un garçon, né d'u­ne vierge, Marjatta, et qui devient le Roi de Carélie; ce récit indique le passage d'u­ne ère païenne à l'ère chrétienne.

 

L'émergence de cette épopée remonte vrai­semblablement aux temps immémo­riaux; elle constitue un mythe cosmogo­nique. Väinämöinen est aussi vieux que le soleil. A la fin de l'épopée, nous le vo­yons, lui, le sage visionnaire, partir vers l'infini sur l'océan dans une nef de bron­ze. Du forgeron Ilmarinen, on dit qu'il a forgé la voûte céleste, et de la mère de Lem­minkäinen, le troisième héros du Ka­levala, on dit qu'elle est la créatrice du mon­de. Elle a un jour eu la force de ra­me­ner à la vie, de faire ressusciter, son fils mort et tombé dans le fleuve des morts Tuo­nela, après avoir été dépecé en huit mor­ceaux.

 

Cosmogonique aussi est le récit de la créa­tion de Väinämöinen par une «mère de l'eau». Sous sa sage direction, la création est parachevée, dans le sens où les hom­mes se mettent à cultiver la terre. Dans le défi lancé au Sage par un jeune homme, Joukahainen, nous retrouvons un motif eddique: le jeune homme pro­pose un con­cours à Väinämöinen pour savoir le­quel est le plus sage. A la re­cherche d'une épouse, Väinämöinen ren­contre une belle jeune fille, mais qui est courtisée par le forgeron Ilmarinen et par Lemmin­käi­nen, qui ne compte plus ses succès fé­mi­nins. La mère de la jeune fille, Louhi  —qui, dans l'épopée est décrite comme une vieille femme avaricieuse, laide et mé­chante—  impose aux trois hé­ros une ru­de épreuve et les oblige à exécu­ter divers travaux pour elle, comme dans le mythe grec d'Heraklès; le plus rude de ces tra­vaux consiste en la fabrication de Sampo, qui donnera une profusion de ri­chesses à son possesseur.

 

C'est évidemment le forgeron Ilmarinen qui réussit à accomplir le meilleur travail. Il est le vainqueur mais est assassiné et aboutit dans le règne des morts Tuonela. Le duel entre les frères Untamo et Kaler­vo se termine par la mort de toute la fa­mille Kalervo, tandis que la veuve de Ka­lervo donne le jour à un fils, Kullervo, une figure en apparence dotée de forces sur­humaines et divines, qui, en dépit de ses dons, échoue dans tous les travaux qui lui ont été confiés par son maître Unta­mo. Il est vendu comme esclave au for­geron Ilmarinen. Kullervo, poursuivi par la malchance, tue par inadvertance l'é­pou­se d'Ilmarinen, fille de Pohjola et doit prendre la fuite. Après qu'il ait re­trouvé le chemin qui mène à la maison de ses pa­rents, il se suicide, parce qu'il ap­prend qu'un jour, sans le savoir, il a cou­ché avec sa sœur.

 

Samo doit offrir bonheur et richesse au Grand Nord, si bien que les trois héros su­blimes (Ilmarinen, Lemminkäinen et Väi­nämöinen) décident de s'en emparer, tan­dis que Louhi poursuit leur nef, qui, au cours d'un combat, coule en mer. A la fin de l'épopée, nous voyons Väinämöinen qui libère la lune et le so­leil, caché par Lou­hi dans une montagne, tandis que le fils de Marjatta prend le pouvoir en Ca­rélie. Le crépuscule des dieux vieux-fin­nois et des héros du Kalevala correspond donc à la victoire du christianisme, dont les prêtres, plus tard, feront tout ce qui est en leur pouvoir, pour étouffer la poésie po­pulaire, qui ne cesse de vouloir percer la chape chré­tienne et véhicule les vieux mythes cos­mogoniques finnois. Politique appliquée ailleurs dans le Nord, où les au­to­rités chrétiennes ont également tenté d'é­liminer la vieille tradition des laby­rin­thes circulaires de pierre, élément d'un cul­te solaire immémorial, et des fameuses Trojaburge (cf. Combat Païen, n°19). Mais cette tentative d'éradication n'a pas plei­ne­ment réussi, car nous trouvons encore des gravures de Trojaburge de type très an­cien sur les parois intérieures des égli­ses chrétiennes.

 

Pour quelques spécialistes des symboles nor­diques, les Trojaburge ne sont pas sim­ple­ment des symboles solaires, mais des «filets», à l'aide desquels les anciens Fin­nois tentaient de repêcher du fond de la mer Sampo le symbole vieux-païen du bon­heur. On trouve encore 150 de ces la­byrinthes de pierre sur le territoire finlan­dais, souvent le long de côtes isolées, que l'on appelle aussi «ronde des vierges» ou «haies des géants». Ces vestiges témoi­gnent d'un culte solaire qui a été repris dans la grande épopée mythique finnoise qu'est le Kalevala, sous la figure de Väinä­möinen.

 

Frithjof HALLMAN.

(texte paru dans Mensch und Maß, n°3/1986 (9 Feb. 1986); adresse: MuM, Ammerseestr. 2, D-8121 Pähl). 

 

 

samedi, 18 juillet 2009

Labyrinthe et "Trojaburg"

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Labyrinthe et «Trojaborg»

Deux traits caractéristiques de la préhistoire nord-européenne

 

par le Prof. Frithjof Hallmann,

Université d'Uppsala

 

Il est une règle en archéologie qui veut que la fréquence des découvertes sur un site prouve que ce site est le site originel de l'objet en question. Dans le cas du sym­bole que sont les labyrinthes, le site d'o­rigine doit être le nord de l'Europe et non le sud. Environ 500 labyrinthes de pierre ont été découverts en Europe sep­ten­trio­nale, jusqu'aux confins de l'Océan Arcti­que. Bon nombre de ces labyrinthes datent de la préhistoire européenne, y compris ceux du Grand Nord. Dans la zone médi­terranéenne, on ne trouve que rarement ce symbole, perennisé dans les aligne­ments de pierres.

 

En règle générale, le labyrinthe est consi­déré comme une sorte de jardin, conçu pour jouer à s'égarer. Tous ceux qui ont eu l'occasion de visiter des labyrinthes de haies dans les jardins et parcs anglais, fran­çais ou italiens, sauront combien il est parfois difficile de retrouver le chemin de la sortie. Le labyrinthe, en conséquence, est considéré par la plupart de nos con­tem­porains, comme un jeu où l'on s'a­mu­se à s'égarer. Beaucoup de princes eu­ro­péens du XVIième au XIXième siècle se sont fait installer des jardins labyrin­thi­ques pour amuser et distraire leurs in­vi­tés. Parmi les plus célèbres labyrinthes fran­çais, citons ceux de Versailles, de Chan­­tilly, du Jardin des Plantes; en An­gleterre, les labyrinthes de Hatfield House, de Hertfordshire, de Hampton Court Pala­ce (à Londres), ainsi que le grand laby­rin­the de Hazlehead Park à Aberdeen; en Ita­lie, aujourd'hui, on peut encore visiter le célèbre labyrinthe de haies de la Villa Pi­sani à Stra, à l'ouest de Venise, avec une tour et une statue de Minerve au centre. Ce sont là les laby­rinthes les plus connus et les mieux con­servés aujourd'hui. 200.000 touristes par­couraient chaque an­née les allées du laby­rinthe de Stra, jus­qu'au moment où il a fallu les fermer au public qui devenait vraiment trop nom­breux et risquait d'abîmer le site.

 

Quant au touriste qui s'intéresse à l'his­toi­re de l'art, il peut visiter de nom­breux labyrinthes de mosaïques, surtout dans des églises. Ceux qui se rendent en Italie pourront en voir de très beaux dans l'é­glise Santa Maria di Trastevere à Rome, ou encore dans l'église San Vitale de Ra­venne, dont le sol présente un magni­fi­que labyrinthe. Dans la cathédrale de Luc­ca, on peut apercevoir un labyrinthe gravé dans un mur et flanqué d'une ins­cription latine signifiant "Ceci est le laby­rinthe que le Crétois Dédale a construit". En France, notons les labyrinthes de la Cathédrale de Bayeux et de l'église de Saint-Quentin, qui attirent, aujourd'hui encore, de nom­breux amateurs d'art. En territoire alle­mand, nous ne trouvons au­jourd'hui plus qu'un seul labyrinthe: dans la crypte de la Cathédrale de Cologne.

 

Mais en Allemagne, comme en divers en­droits d'Angleterre, on peut encore voir les traces, dans l'herbe, de très an­ciens la­byrinthes comme la Roue (Rad)  d'Eilen­riede près de Hannovre ou les la­byrinthes d'herbe de Steigra et de Graitschen en Thu­ringe. Malheureusement, le magnifi­que laby­rinthe de Stolp en Poméranie, l'un des plus beaux du monde, a été dé­truit.

 

En Angleterre, une bonne centaine de labyrinthes

 

En Angleterre, au contraire de l'Alle­ma­gne où l'on ne trouve plus que les trois labyrinthes que je viens de citer, le tou­riste amateur de sites archéologiques pour­ra en visiter une bonne centaine. Dans les Iles Britanniques, on les appelle Troy-town  ou Murailles de Troie (Walls of Troy),  exactement comme plusieurs la­byrinthes scandinaves encore existants (Trojaborg;  en all. Trojaburg).  A l'évi­den­ce, labyrinthes britanniques et la­by­rinthes scandinaves sont structurelle­ment apparentés. Car il ne s'agit pas de cons­truc­tions de modèle simple, édifiées pour le seul plaisir du jeu, mais d'une al­lée u­ni­que serpentant circulairement vers un centre, pour en sortir immédiatement, tou­jours en serpentant. Il est intéressant de noter que les élèves des écoles pri­maires, en Scandinavie, apprenaient en­core, dans les années 30, l'art de «dessiner des labyrinthes».

 

Avant de nous pencher sur la significa­tion étymologique des termes «laby­rin­thes» et «Trojaborg» (Troy-town; Troja­burg),  je voudrais d'abord signaler qu'au­jourd'hui, sur le territoire suédois, j'ai dé­nombré 296 Trojaborge  de pierre, dont les diamètres varient entre 4 et 24 m et qui comptent généralement 12 seg­ments cir­cu­laires; en Finlande, y compris les Iles Åland, j'en ai dénombré 150; dans le nord de l'Angleterre, 60 (dont 15 sont fouillés par des archéologues profession­nels); en Norvège, 24; en Estonie, 7; en Angleterre méridionale, 2; sur le territoire de la RFA (avant la réunification), 1. Nous arrivons ainsi au nombre de 540 Trojaborge nord-européens en pierres, auxquels il faut a­jouter la centaine de la­byrinthes en prairie des Iles Britanniques et leurs trois équi­valents allemands. Malheureuse­ment, la zone archéologique méditerranéenne ne compte plus, au­jourd'hui, de labyrinthes de ce type; seuls demeurent les labyrinthes des églises et ceux, récents et en haies, des parcs. Nous pouvons en revanche décou­vrir des laby­rinthes gravés sur des parois rocheuses, comme dans le Val Camonica dans les Alpes italiennes, ou à Pontevedra en Espagne septentrionale. Ce labyrinthe ibé­rique présente le même modèle que ce­lui découvert sur la pierre irlandaise de Wicklow et celui de Tintagel en Cor­nouailles.

 

J'ai cherché à découvrir un labyrinthe en Crète, qui confirmerait la légende de Thé­sée et Ariane. Je n'ai pas découvert le fa­meux labyrinthe de Cnossos. Or, on as­so­cie très justement la Crète au symbole du la­byrinthe, car, au British Museum et dans le Musée de l'Antiquité de Berlin, les visiteurs peuvent y voir des labyrinthes sur des monnaies crétoises du IIième et du Vième siècle avant notre ère. En Egyp­te, pays d'où nous viendrait, d'après les lin­guistes, le terme «labyrinthe» (Lope-ro-hint,  soit le palais à l'entrée du lac, allu­sion à un labyrinthe disparu, qui se serait situé sur les rives du Lac Méri), je n'ai pas eu plus de chance qu'en Crète et je n'ai pas trouvé la moindre trace d'un labyrin­the. D'autres spécialistes de l'étymologie cro­yent que l'origine du mot labyrinthe vient du terme «labrys», qui désigne la dou­ble hache crétoise.

 

Un piège pour

 l'astre solaire?

 

Quant au nom scandinave de Trojaborg,  il n'a rien à voir avec la ville de Troye en Asie Mineure, comme l'a prouvé un spé­cialiste allemand des symboles, qui vivait au siècle dernier, le Dr. Ernst Krause. Tro­jaborg  serait une dérivation d'un terme in­do-européen que l'on retrouve en sans­krit, draogha,  signifiant «poseur de piè­ges». Dans la mythologie indienne, en ef­fet, existe une figure de «poseur de piè­ges», qui pose effectivement des pièges pour attraper le soleil.

 

En langue vieille-persique, nous retrou­vons la même connotation dans la figure d'un dragon à trois têtes, du nom de dru­ja;  en langue suédoise dreja  signifie l'acte de «tourner» ou de manipuler un tour. Le sens caché du labyrinthe se dé­voile dans la légende de Thésée et d'Ariane, dans l'Ed­da et dans la Chanson des Nibelun­gen, où nous retrouvons, par­tout, une jeu­ne fille solaire gardée par un dragon ou un Minotaure, symboles des forces de l'obs­curité. Le mot «Troja» se re­trouve, outre dans le nom de la ville de l'épopée homérique, dans le nom de cen­taines de labyrinthes scandinaves et bri­tanniques, dans la danse labyrinthique française, le Troyerlais, dans la ville de Troyes en Cham­pagne, dans les trojarittes de la Ro­me antique, dans le nom de Hagen von Tronje, figure de la Chanson des Nibe­lun­gen. Des dizaines de noms de lieu en Eu­ro­pe portent la trace du vocable "troja".

 

Le Prof. Karl Kerényi, l'un des principaux spécialistes contemporains des mythes et des symboles, est l'un des très nombreux experts qui admettent aujourd'hui l'origi­ne nordique du symbole du laby­rinthe. Les pays du Nord, pauvres en so­leil, dé­ve­loppent une mythologie qui cherche à ren­dre cet astre captif, au con­traire des my­thologies du Sud de l'Europe. Les ar­chéo­logues spécialisés dans la préhistoire, sur base de leurs fouilles, datent les laby­rinthes nord-euro­péens de l'Age du Bron­ze (de 1800 à 800 avant notre ère); les la­byrinthes sur parois rocheuses de l'Europe centrale, de même que le labyrinthe en pier­res plates d'argile de Pylos dans le Pé­lo­ponèse, datent, eux, de 1200 à 1100 avant notre ère. Un laby­rinthe de vases étrusque date, lui, du VIIième ou du VIième siècle avant notre ère, tandis que les monnaies de Cnossos, sur lesquelles figurent des la­byrinthes, da­tent du Vième et du IIième siècle avant notre ère.

 

La ressemblance est frappante entre les la­byrinthes des monnaies crétoises du IIiè­me siècle avant notre ère et la configu­ra­tion du labyrinthe suédois de Visby en Got­land. Cette configuration, nous la re­trou­vons dans de nombreux sites de Suè­de, et aussi en Norvège, en Finlande et en Estonie. D'où, la question de l'origine sep­tentrionale de ces symboles labyrinthiques se pose tout naturellement.

 

Ces labyrinthes reflètent le tracé astrono­mi­que des planètes. Les mythes associés aux labyrinthes, d'après de nombreux cher­cheurs et érudits, reflètent la nostalgie du soleil chez les peuples des régions sep­tentrionales de l'Europe.

 

Dr. Frithjof HALLMAN.

(texte issu de Mensch und Maß,  23.2.1992; adresse: Verlag Hohe Warte, Ammerseestraße 2, D-8121 Pähl; parution bimensuelle, abonnement trimestriel, 35 DM).   

lundi, 13 juillet 2009

Halldor Laxness: catholique, communiste, nationaliste de libération

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Halldor Laxness: catholique, communiste, nationaliste de libération

 

Par Josef M. Rauenthal

 

Réflexions sur la vie et l’oeuvre du Prix Nobel islandais Halldor Laxness

 

Disons-le d’emblée: ce qui m’intéresse dans le cas du grand écrivain islandais Halldor Laxness, ce n’est pas tant sa conversion de jeune homme qui passe du protestantisme au catholicisme (il est baptisé le 6 janvier 1923), ni son engagement zélé, quelques années plus tard, pour la cause de Lénine et de Staline. Soit dit en passant: il a attendu longemps, jusqu’en 1938, pour adhérer au “Front Populaire Islandais”, qui regroupaient socialistes et communistes.

 

Laxness qui, dans la phase catholique de sa vie, envisageait de devenir bénédictin ou jésuite, a transféré son désir ardent de croire vers l’idéologie communiste. Ce qui m’intéresse, dans cette existence faite de ruptures et d’engagements, c’est que ce représentant d’un peuple opprimé pendant des siècles a exprimé, pendant les quelques décennies où il fut communiste, des idées que nous qualifierions aujourd’hui de “nationalistes de libération”, au sens récent du terme. Le nationalisme peut se conjuguer à d’autres idéologies. C’est ainsi que nous trouvons des courants nationaux-conservateurs, nationaux-libéraux, nationaux-socialistes, etc. Laxness interprétait le communisme comme un instrument et une doctrine efficace de libération contre l’impérialisme du 20ème siècle, qui menaçait aussi son propre peuple.

 

Laxness aurait haussé les épaules, montré son incompréhension, si l’on avait exigé de lui, au nom de la pureté doctrinale marxiste-léniniste, qu’il nie peuple et nation parce que la théorie les pose une fois pour toutes comme des “superstructures dominatrices”. Le 8 novembre 1939, Laxness écrit dans un journal islandais: “L’impérialisme n’a rien à voir avec la nationalité: il est, de par sa nature même, une conspiration internationale de voleurs, prêts à tout moment à se battre et s’entre-déchirer, pour savoir qui aura la prééminence pour piller et rançonner le monde, pour asservir des peuples  innocents, pour s’approprier les richesses des nations et de réduire celles-ci en esclavage pour servir leurs sombres desseins; et la méthode, pour poursuivre ces intérêts si ‘nobles’, c’est de noyer les peuples dans le sang”.

 

Contre l’impérialisme

 

Laxness ne percevait pas, à cette époque-là, que toutes ces facettes négatives pouvait parfaitement être attribuées aussi à l’Union Soviétique. Il ne s’en rendra compte que graduellement, dans le sillage de la dé-stalinisation après 1953. Il perdra alors son entêtement de communiste inconditionnel. En 1956, l’invasion soviétique de la Hongrie le bouleverse et le choque profondément.

 

Sur quelles bases reposait donc les prédispositions nationales (voire nationalistes) de l’Islandais Laxness? Pour Laxness, ce qui importe pour une petite nation comme la nation islandaise, ce qui doit lui servir de pôle d’orientation, c’est la culture qu’elle produit. Il se sentait appelé, en ce sens, à conduire la petite nation islandaise et sa culture dans la modernité du 20ème siècle. Dans une lettre écrite en 1932, il formule clairement sa pensée: “Pour un écrivain, c’est un malheur d’être né dans un petit pays en marge du monde, d’être condamné à utiliser une langue que personne ne comprend. Mais j’espère qu’un jour les pierres de la terre islandaise pourront parler au monde entier, grâce à moi”. Lorsqu’il reçut le Prix Nobel de littérature en 1955, il fut convaincu que son oeuvre “allait apporter gloire et honneur à son pays et son peuple”. Pour lui, nationalité et humanité vont de pair; ce qu’il souligne d’ailleurs dans son discours de réception: “Lorsqu’un écrivain islandais oublie ses origines, qui se trouvent ancrées profondément dans l’âme populaire, en ce lieu même où les sagas s’enracinent, lorsqu’il perd le lien et le devoir qui le lie à la vie menacée, à cette vie que ma vieille grand-mère m’a enseignée, alors sa gloire est dépourvue de valeur; de même que le bonheur que procure l’argent”.

 

Pour la liberté de son peuple

 

Le patriotisme de Laxness n’était nullement tapageur, ne relevait pas de ce que les Anglo-Saxons nomment le “jingoïsme”. En mai 1939, il déclare lors d’une rencontre des jeunesses socialistes en Islande: “Il n’est pas un grand patriote celui qui exalte bruyamment la geste héroïque de la nation et qui prononce sans cesse le nom des hommes les plus célèbres du pays; vrai patriote est celui qui comprend aussi les souffrances de son peuple et la lutte silencieuse que mènent dans l’existence d’innombrables anonymes, dont le nom ne figurera jamais dans un livre d’histoire... Le vrai patriote ne reconnait pas seulement les forces de son peuple, et ses succès, il sait aussi, mieux que quiconque,  quand l’humiliation a été la plus amère, la défaite la plus terrible”. C’est parce qu’il savait tout sur l’oppression qu’avaient fait peser les Danois sur l’Islande pendant des siècles,  que Laxness soutenait la lutte pour la liberté de son peuple. Il a fallu attendre le 1 décembre 1918 pour que l’Islande obtienne un statut d’indépendance  conditionnelle. Le Roi du Danemark demeurait, par le truchement d’une “union personnelle” le chef d’Etat de la République (!) d’Islande.

 

Lors des festivités pour le jour de l’indépendance en 1935, Laxness a prononcé le principal discours, retransmis par la radio. Il  profita de l’occasion, pour fondre en un seul concept l’idée du nationalisme de libération et celle du “front populaire”: “Nous sommes au point culminant de la lutte pour la liberté menée par le peuple islandais: hommes et femmes d’Islande, engagez-vous dès aujourd’hui dans le combat, considérez que ce jour de l’indépendance et de la liberté est sacré, unissez-vous au sein du front populaire, union de toutes les forces du pays... contre l’oppression extérieure et intérieure qui prend la forme du capitalisme des banques, de la haute finance, les pires ennemis de l’humanité de chair et de peine qui vit sur cette terre, ennemis qui essaient en ces jours de faire main basse sur notre pays, de planter leurs griffes en chaque poitrine qui respire”.

 

En 1944, l’Islande est définitivement séparée du Danemark. Laxness déclare en cette occasion: “C’était remarquable: chaque habitant de ce pays, en ce jour, ressentait la vie de la nation comme étant la sienne propre, comme si chaque Islandais, cultivé ou non, sentait battre en sa poitrine l’histoire vivante du pays”. Laxness, on le voit, était un communiste très particulier, car ce qu’il  décrit ici n’est rien d’autre que la concrétisation ponctuelle d’un idéal nationaliste très ancien: l’idée de communauté populaire. Pour célébrer le nationalisme de libération islandais, Laxness écrivit un livre-monument, “La cloche d’Islande” (en trois volumes de 1943 à 1946).  La “cloche” est ici le symbole de l’humiliation et de la renaissance islandaises.

 

Lutter contre les Etats-Unis

 

“La cloche d’Islande” place son intrigue dans les 17ème et 18ème siècles; en revanche, le roman “Station atomique” (1948) se déroule après la seconde guerre mondiale. Avec ce roman et de nombreux articles, Laxness entend lutter contre les “cessions de souveraineté” que concédait à l’époque l’Islande aux Etats-Unis, dans le but de permettre aux forces américaines de construire une base militaire. Son mot d’ordre à l’époque était le suivant: “L’Islande ne peut en aucun cas devenir une station atomique pour des profiteurs de guerre étrangers” et “Nous, Islandais, voulons la souveraineté illimitée sur tout notre pays”. Aujourd’hui, l’oeuvre narrative de ce grand écrivain islandais est disponible en langue allemande, dans une édition de référence en onze volumes, achevés en 2002. Sous le IIIème Reich, un seul titre de cet auteur avait pu paraître. Après la seconde guerre mondiale, Laxness fut largement promu par la RDA, même si ses fictions ne contenaient que quelques bribes du message socialo-communiste et ne  correspondaient pas aux critères du “réalisme socialiste”.

 

En 1958, à un moment de sa vie où il s’était distancié considérablement de ses premiers engouements communistes, Laxness se moquait, dans une lettre adressée à sa femme, de “l’atmosphère sinistre qui règnait en Allemagne de l’Est”. Pour la politique de la RDA, son jugement était lapidaire et sans concession: “Je crois que l’Allemagne de l’Est mérite le prix du pays le plus laid et le plus sale que j’ai jamais visité; finalement, on peut dire que rien ne va là-bas car, en l’espace de quelques années, trois millions de personnes ont fui le pays. Si l’on compare avec les chiffres de la démographie scandinave, c’est comme si, en moins de dix ans, tous les Norvégiens avaient fui la Scandinavie”.

 

En 1970, Laxness écrit à un ami des propos peu flatteurs sur la servilité qu’il découvre dans les deux morceaux de l’Allemagne divisée: “De fait, comme je le constate dans les deux parties de l’Allemagne,  tous sont contents de leurs propres troupes d’occupation”. Ce genre de remarque n’étonne guère: le regard de Laxness était lucide, aiguisé, pour ce type de situation: il avait étudié la politique d’occupation danoise, qui avait duré des siècles.

 

Josef M. RAUENTHAL.

 

(texte issu de: http://www.deutsche-stimme.de/ ; trad. franç. : Robert Steuckers).

dimanche, 12 juillet 2009

Knut Hamsun sauvé par Staline!

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Knut Hamsun sauvé par Staline!

 

Cette année 2009 célèbre le 150ème anniversaire de Knut Hamsun (1859-1952). Le romancier norvégien, né Knut Pedersen, est, avec Hendrik Ibsen, l’écrivain norvégien le plus lu et le plus traduit dans le monde. En 1890, Knut Hamsun fait ses début avec son roman “La faim” qui innove quant à la manière d’écrire. Ce roman fut d’emblée un grand succès et amorça une carrière littéraire longue et productive. En 1920, Knut Hamsun obtient le Prix Nobel de littérature. Son influence sur la littérature européenne et américaine est énorme et d’une importance inestimable. Des écrivains comme Ernest Hemingway, Henry Miller, Louis-Ferdinand Céline, Hermann Hesse, Franz Kafka, Thomas Mann et I. B. Singer ont été inspirés par le talent de Knut Hamsun. Singer l’appelait le “père de la littérature moderne”. En Flandre, deux écrivains, Felix Timmermans et Gerard Walschap, ont reçu l’inspiration du Prix Nobel norvégien.

 

En Norvège, le 150ème anniversaire de la naissance de Knut Hamsun sera célébré par des expositions, des productions théâtrales et une conférence internationale. L’une des principales places d’Oslo, située juste à côté de l’Opéra national, portera dorénavant son nom. On érigera enfin un monument en son honneur. On dirait que les Norvégiens viennent de découvrir le nom de leur très célèbre compatriote. Ces derniers temps, un grand nombre de villes et de villages ont donné son nom à une place ou à une rue. A l’endroit où il résidait, à Hamaroy, on ouvrira officiellement un “Centre Knut Hamsun”, le 4 août, jour de son anniversaire. Ce jour-là, un timbre poste spécial sera émis. Pourtant, Knut Hamsun a été conspué et vilipendé pendant des décennies par l’établissement norvégien.

 

Goebbels

 

Hamsun a mené une vie de nomade pendant la majeure partie de son existence. Il est né fils d’un pauvre tailleur. Son père, démuni, le confia à un oncle riche. Le garçonnet devait travailler pour cet oncle afin de rembourser les dettes que ses parents avaient contractées auprès de ce dernier, âpre au gain. Au bout de quatre ans, le jeune garçon, alors âgé de quatorze ans, en a eu assez de cet oncle et s’en alla de par le vaste monde. Deux fois, la faim le poussa à émigrer aux Etats-Unis où il exerça trente-six mille petits métiers. Avec, toujours, un même objectif en tête: devenir écrivain. Son modèle était son compatriote Björnstjerne Björnson.

 

Après sa percée littéraire avec “La faim”, Hamsun devint incroyablement productif. Il devait une large part de son succès aux traductions allemandes de son oeuvre. Ses livres y connaissaient des tirages fantastiques. Grâce à son éditeur allemand, Hamsun a enfin pu connaître, après tant d’années de misère noire, la sécurité financière. Mais il y eut plus. L’écrivain norvégien n’a jamais dissimulé sa germanophilie. Qui, de surcroît, prenait davantage de relief au fur et à mesure que grandissait son anglophobie. L’arrogance britannique le révulsait. Il ne put plus la tolérer après la Guerre des Boers et les interventions musclées en Irlande. A ses yeux, les Britanniques ne méritaient plus aucune attention, rien que du mépris. A cette anglophobie s’ajouta bien vite son anti-communisme.

 

Pendant l’occupation allemande de la Norvège (1940-45), il aida certes l’occupant mais demeura avant tout un patriote norvégien intransigeant. Dans ses articles, Knut Hamsun exhortait ses compatriotes à s’engager comme volontaires pour aider les Allemands à combattre le bolchevisme. Le Président américain Roosevelt était, à ses yeux, un “juif de service”. Il fut reçu par Hitler et Goebbels avec tous les honneurs. La rencontre avec Hitler eut des effets sur le long terme. D’abord, Hamsun, atteint de surdité, foula les règles du protocole aux pieds et exigea du Führer le renvoi du gouverneur allemand Terboven, craint et haï. Personne n’avait jamais eu le toupet de parler sur ce ton à Hitler et ne l’avait à ce point brusqué. L’intervention de Hamsun eut toutefois des effets: après sa visite à Hitler, les exécutions arbitraires d’otages ont cessé.

 

La potence?

 

Le 26 mai 1945, Hamsun et son épouse, une national-socialiste convaincue, sont mis aux arrêts à domicile. Pour des raisons peu claires, Hamsun est déclaré “psychiquement dérangé” et enfermé pendant un certain dans une clinique psychiatrique d’Oslo. Le gouvernement de gauche voulait se débarrasser de lui mais, mise à part sa germanophilie, on ne pouvait rien lui reprocher. Il n’avait jamais été membre de quoi que ce soit. Bien au contraire! Grâce à lui, bon nombre de vies avaient été épargnées. Certes, il avait refusé de nier la sympathie qu’il éprouvait pour Hitler. Fin 1945, le ministre soviétique des affaires étrangères, Molotov, fait savoir à son collègue norvégien Trygve Lie qu’il “serait regrettable de voir la Norvège condamner son plus grand écrivain à la potence”. Molotov avait entamé cette démarche avec l’accord de Staline. C’est après cette intervention que le gouvernement norvégien renonça à faire le procès de Hamsun et se borna à lui infliger une solide amende qui le mena quasiment à la faillite. La question reste ouverte: la Norvège aurait-elle condamné le vieillard Hamsun à la peine de mort? Les collaborateurs norvégiens ont tous été condamnés à de lourdes peines. Mais l’Union Soviétique pouvait exercer une influence forte et redoutée en Scandinavie dans l’immédiat après-guerre.

 

Jusqu’à sa mort en février 1952, le gouvernement norvégien a traité Hamsun comme un délinquent de droit commun. Il a fallu attendre soixante ans pour qu’il soit réhabilité.

 

(texte issu de l’hebdomadaire anversois “ ’t Pallierterke”, 24 juin 2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

jeudi, 09 avril 2009

La disparition des Vikings au Groenland au XVème siècle

La disparition des Vikings au Groenland au XVème siècle

La survie d’une société ne dépend pas que de sa puissance militaire ou économique mais aussi de l’attitude des adversaires et de la réponse que la société apporte à ses propres défis. C’est ce qu’analyse Jared Diamond dans « Effondrement, comment les sociétés décident de leur disparition ou de leur survie » paru en 2006. L’exemple le plus parlant du livre est celui de la société viking installée depuis plus de trois siècles au Groenland qui s’éteignit entre 1300 et 1400 après J.C et dont les Inuits ont délibérément contribué à la disparition.

Depuis la fin du VIIIème siècle après JC, les Vikings menaient une stratégie d’expansion depuis la Scandinavie, s’installant en Grande-Bretagne, Irlande, Russie, Islande, autour du Rhin et de la Loire, Espagne, Italie… D’après les documents de l’époque, Erik le Rouge fut successivement exilé de Norvège en Islande puis au Groenland où il fonda la colonie viking en 984 après J.C. Cette colonie, située à 2500 km de la Norvège, était constitué de 250 fermes regroupées autour de 14 églises. Vers l’an 1000, quatre mille personnes vivaient dans l’Etablissement de l’Est, situé au sud du Groenland et mille personnes dans l’établissement de l’Ouest, situé 500 km plus au nord. La société viking importa son modèle culturel qu’elle reproduisit à l’identique au Groenland : tenue vestimentaire à l’européenne, construction d’églises chrétiennes suivant le style norvégien, régime alimentaire… Cependant, les conditions climatiques n’étaient pas les mêmes que celles de Norvège : le climat était plus froid et plus venteux, l’environnement plus fragile. En voulant à tout prix maintenir le même type d’alimentation qu’en Norvège, les Vikings du Groenland consacrèrent beaucoup de ressources à l’élevage d’animaux qui n’étaient pas adaptés au climat local comme les vaches pour la nourriture ou les chevaux pour le transport. La duplication du modèle culturel à tout prix entraîna une fragilisation puis une destruction de l’environnement. Par conséquent, les Vikings du Groenland durent rapidement importer de Norvège du fer, du bois d’œuvre et du goudron pour la construction d’habitations, de meubles et d’outils. Ils exportaient des objets de faible volume à forte valeur comme des peaux de phoques, d’ours polaires ou de bovins, des défenses en ivoire de morses, le Groenland étant à cette époque la seule source d’ivoire pour les Européens… Les Vikings étaient donc grandement dépendants de l’Europe pour survivre.

Les Inuits étaient, tout comme les Vikings, dans une stratégie d’expansion, provenant du détroit de Béring à travers l’Arctique canadien. Ils arrivèrent au Groenland par le Nord-Ouest vers 1200 après JC et atteignirent la région de l’Etablissement de l’Ouest vers 1300 et de l’Etablissement de l’Est vers 1400. Ils maîtrisaient la vie dans l’environnement arctique, notamment les techniques de chasse à la baleine et au phoque qui leur permettaient de se nourrir, de s’éclairer et de se chauffer (utilisation de la graisse des animaux) ainsi que la construction des kayaks (utilisation de peaux sur une structure en bois plutôt qu’un bateau tout en bois comme les Vikings) et des traîneaux à chiens qui favorisaient un transport rapide des marchandises. Les Vikings rejetèrent les « sraeklings » (miséreux en vieux norrois) qu’ils considéraient comme inférieurs car non-chrétiens et comme des envahisseurs. Les contacts entre les deux peuples furent absents ou hostiles, mais en aucun cas pacifiques sur une longue durée. Les Inuits ne partagèrent donc pas avec les Vikings leurs techniques de chasse et de pêche pourtant largement plus efficaces dans un environnement arctique.

Vers 1300, début du Petit Age Glaciaire, le Groenland connu un refroidissement soudain, entraînant une raréfaction des ressources alimentaires et plaçant les peuples inuit et viking en situation de survie. Du fait des glaces, les bateaux en provenance d’Europe ne purent arriver jusqu’au Groenland et livrer les cargaisons de bois et de fer attendues par les Scandinaves. La conséquence directe de ce phénomène fut la perte pour les Vikings de leur avantage militaire ainsi qu’une moindre efficacité dans leurs activités économiques puisqu’ils ne pouvaient plus fabriquer d’outils. Les Inuits qui auparavant étaient dans un rapport du faible au fort, retournèrent la situation à leur avantage. Meilleurs chasseurs, ils purent continuer à se nourrir et à se chauffer grâce aux baleines et aux phoques. Ils allèrent même jusqu’à attaquer l’Etablissement de l’Est en 1379. Les Scandinaves, campés sur leur modèle européen de vie, se retrouvèrent démunis devant la diminution de pâturages et donc de nourriture pour leurs bêtes, de gibiers à chasser et l’absence de bois pour se chauffer en provenance d’Europe. Sans ressources, la société viking périclita et disparut vers 1400 après JC.

En conclusion, la stratégie de puissance d’un peuple ne s’exprime pas forcément dans un affrontement direct et rapide. Elle peut aussi être indirecte et durer plusieurs dizaines d’années. Ce fut le cas pour l’affrontement entre les Vikings et les Inuits entre le XIVème et XVème siècles après JC. La civilisation viking au Groenland ne mourut pas d’un affrontement direct avec le peuple inuit mais d’un affrontement indirect où les techniques de survie en milieu hostile furent l’enjeu principal. Alors que les Inuits étaient considérés comme plus faibles militairement, ils ne maîtrisaient pas la technique du fer, ils retournèrent la situation à leur avantage grâce à leur maîtrise du mode de vie en Arctique.

Virginie Monthioux

source : www.infoguerre.fr [1]


Article printed from Altermedia Canada: http://ca.altermedia.info

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[1] www.infoguerre.fr: http://www.infoguerre.fr/?p=2143

mercredi, 11 février 2009

Une pièce à l'effigie de Knut Hamsun

Trouvé sur: http://ettuttiquanti.blogspot.com/

"La Banque centrale norvégienne a annoncé vendredi le lancement d'une pièce commémorative à l'effigie de Knut Hamsun, auteur d'abord célébré dans son pays, lauréat du prix Nobel de littérature en 1920, puis tombé en déchéance après la guerre en raison de ses positions pronazies. "C'est l'auteur que nous célébrons", a déclaré Leif Veggum, un directeur de la Banque de Norvège. Il s'agit de la première pièce commémorative à être tirée en l'honneur de Hamsun. En argent et d'une valeur nominale de 200 couronnes (22,6 euros), elle sera mise en vente, au prix de 450 couronnes, le 19 février, date du 150e anniversaire de la naissance de l'auteur de La Faim (1890).

Les dernières années de Hamsun, mort en 1952, ont été marquées par la déchéance dans un pays bien embarrassé sur le sort à accorder à celui qui en 1940, à 80 ans, a choisi de soutenir le régime pronazi du collaborateur Vidkun Quisling. A la Libération, les autorités norvégiennes le déclarèrent mentalement affaibli pour ne pas avoir à le juger et le ballottèrent d'un hospice à l'autre. Bien que Hamsun ait été l'un des trois seuls Norvégiens à avoir reçu le Nobel de littérature, ni Oslo ni Grimstad, sa ville natale, n'ont encore de rue à son nom. Seulement une poignée de localités du pays scandinave lui ont pour l'instant fait cet honneur."


Source
AFP

samedi, 07 février 2009

Knut Hamsun: un itinéraire hors du commun

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - FÉVRIER 1988

Robert STEUCKERS:

Knut Hamsun: un itinéraire hors du commun

Knut Hamsun: une vie qui traverse presque un siècle entier, qui s'étend de 1859 à 1952, une vie qui a cheminé entre les premières manifestations des rythmes industriels en Norvège et l'ouverture macabre de l'ère atomique, la nôtre, celle qui commence à Hiroshima en 1945. Hamsun est donc le témoin d'extraordinaires mutations et, surtout, un homme qui s'insurge contre la disparition inéxorable du fond européen, du Grund où tous les génies de nos peuples ont puisé: le paysannat, l'humanité qui est bercée par les pulsations intactes de la Vie naturelle. Ce siècle d'activité littéraire, de rébellion constante, a permis à l'écrivain norvégien de briller de toutes les façons: tour à tour, il a été poète idyllique, créateur d'épopées puissantes ou d'un lyrisme de situation, critique audacieux des dysfonctionnements sociaux du "stupide XIXème siècle". Dans son œuvre à facettes multiples, on perçoit pourtant d'emblée quelques constantes majeures: une adhésion à la Nature, une nostalgie de l'homme originel, de l'homme face à l'élémentaire, une volonté de se libérer de la civilisation moderne d'essence mécaniciste. Dans une lettre qu'il écrivit à l'âge de vingt-neuf ans, on décèle cette phrase si significative: "Mon sang devine que j'ai en moi une fibre nerveuse qui m'unit à l'univers, aux éléments".

 

Hamsun nait à Lom-Gudbrandsdalen, dans le Nord de la Norvège, une patrie qu'il n'a jamais reniée et qui sera la toile de fond de toute son imagination romanesque; il passe son enfance et son adolescence à Hammarøy dans la province du Nordland, au large des Iles Lofoten et au-delà du Cercle Polaire Arctique. C'est une vie rurale, dans un paysage formidable, impressionnant, unique, avec des falaises gigantesques, des fjords grandioses et des lumières boréales; ce sera aussi l'influence négative d'un oncle piétiste qui conduira bien vite le jeune Knut à vivre une vie de vagabond sympathique, d'itinérant qui expérimente la vie sous toutes ses formes.

Knut Pedersen   —c'est le vrai nom de Knut Hamsun—  est le fils d'un paysan, Per Pedersen, qui, à quarante ans, décide de quitter la ferme qui appartenait à sa famille depuis plusieurs générations, pour aller se fixer à Hamarøy et y devenir tailleur. Ce changement, cette sortie hors de la tradition familiale, hors d'un contexte plusieurs fois centenaire, provoque la disette et la précarité dans cette famille ébranlée et le jeune Knut, à neuf ans, se voit confié à cet oncle sévère, dont je viens de parler, un oncle dur, puritain, qui hait les jeux, même ceux des enfants, et frappe dru pour se faire obéir.  C'est donc à Vestfjord, chez cet oncle puritain, prédicateur, amateur de théologie moralisante, que Knut Hamsun rencontrera son destin de vagabond. Pour échapper à la rudesse et à la brutalité de ce prédicateur évangélique qui cogne pour le bien de Dieu, qui brise les rires, lesquels, sans doute, ont à ses yeux l'avant-goût du péché, le jeune Knut se replie sur lui-même et a recours à la forêt du Grand Nord, si chiche, mais entourée de paysages tellement féériques... La dialectique hamsunienne du moi et de la nature prend corps aux rares moments où l'oncle ne fait pas trimer le garçonnet pour récupérer la dépense de quelques œufs et d'une tranche de pain noir.

 

Cette vie, entre la Bible et les calottes, Knut l'endurera cinq ans; à quatorze ans en effet il plie bagage et retourne à Lom, dans son Sud natal, où il devient employé de commerce. La vie itinérante commence: Hamsun acquiert son propre, celui d'être un "vagabond". De quinze à dix-sept ans, il errera dans le Nord et y vendra aux autochtones toutes sortes de marchandises, comme Edevart, personnage de son célèbre roman Les Vagabonds. A dix-sept, il apprend le métier de cordonnier et écrit son premier ouvrage: "Mystères". Il devient une célébrité locale et passe au grade d'employé, puis d'instituteur. Un riche marchand le prend sous sa protection et lui procure une somme d'argent afin qu'il puisse continuer à écrire. Ainsi naît en 1879, une deuxième œuvre, "Frida", que refusent les éditeurs. L'espoir de devenir écrivain s'évanouit, malgré une tentative d'entrer en contact avec Björnson...

Commence alors une nouvelle période de vagabondage: Hamsun est terrassier, chanteur des rues, contre-maître dans une carrière, etc..., et ses seules joies sont celles des bals du samedi soir. En 1882, à 23 ans, il part en Amérique où la vie sera aussi difficile qu'en Norvège et où Hamsun sera tour à tour porcher, employé de commerce, aide-maçon et marchand de bois. A Minneapolis, il vivra des jours meilleurs dans un foyer de prédicateurs "unitariens", des Norvégiens, immigrés, comme lui, en Amérique. Cette position lui permet de donner régulièrement des conférences sur divers thèmes littéraires: là son style s'affirme et cet homme jeune, de belle allure, énergique et costaud transforme ses déboires et ses rancœurs en sarcasmes et en un humour féroce, haut en couleurs, où pointe ce génie, qui ne sera reconnu que quelques années plus tard.

Après un bref retour en Norvège, il revient en Amérique et vit à Chicago où il est receveur de tramway. Ce deuxième séjour américain ne dure qu'une bonne année et, c'est définitivement désillusionné qu'il rentre en Scandinavie. Il s'installe à Copenhague, dans une triste mansarde, avec la faim qui lui tenaille le ventre. Cette faim, cette misère qui lui collait à la peau, va le rendre célèbre en un tourne-main. Amaigri, à moitié clochardisé, il présente une esquisse de ce roman, écrit dans sa mansarde danoise, à Edvard Brandes, le frère de Georg Brandes, ami danois et juif de Nietzsche, grand pourfendeur du christianisme paulinien, présenté comme ancêtre du communisme niveleur. Georg Brandes fait paraître cette esquisse anonymement dans la revue "Ny Jord" ("Terre Nouvelle") et le public s'enthousiasme, les journaux réclament des textes de cet auteur inconnu et si fascinant. L'ère des vaches maigres est définitivement terminée pour Hamsun, âgé de 29 ans. "La Faim" décrit les expériences de l'auteur confronté avec la faim, les fantasmes qu'elle fait naître, les nervosités qu'elle suscite... Cet écrit d'introspection bouleverse les techniques littéraires en vogue. Il conjugue romantisme et réalisme. Et Hamsun écrit: "Ce qui m'intéresse, c'est l'infinie variété des mouvements de ma petite âme, l'étrangeté originale de ma vie mentale, le mystère des nerfs dans un corps affamé!...".

Quand "La Faim" paraît sous forme de livre en 1890, le public découvre une nouvelle jeunesse de l'écriture, un style tout aussi neuf, impulsif, capricieux, d'une finesse psychologique infinie, transmis par une écriture vive, agrémentée de tournures surprenantes où s'exprime l'humour sarcastique, vital, construit de paradoxes audacieux, qu'Hamsun avait déjà dévoilé dans ses premières conférences américaines. "La Faim" dévoile aussi un individualisme nouveau, juvénile et frais. Hamsun écrit que les livres doivent nous apprendre "les mondes secrets qui se font, hors du regard, dans les replis cachés de l'âme, ... ces méandres de la pensées et du sentiment dans le bleu; ces allées et venues étranges et fugaces du cerveau et du cœur, les effets singuliers des nerfs, les morsures du sang, les prières de nos moelles, toute la vie inconsciente de l'âme".  La fin du siècle doit laisser la place à l'individualité et à ses originalités, aux cas complexes qui ne correspondent pas aux sentiments et à l'âme de l'homme moderne. Cas complexes qui ne sont pas figés dans des habitudes pesantes, des routines bourgeoises mais vagabondent et voient, grâce à leur sécession complète, les choses dans leur nudité. Ce rapport direct aux choses, ce contournement des conventions et des institutions, permet l'audace et la liberté de s'accrocher à l'essentiel, aux grandes forces telluriques et interdit le recours aux petits plaisirs stéréotypés, au tourisme conventionnel. L'individu vagabondant entre son moi et la Terre omniprésente n'est pas l'individu-numéro, perdu dans une masse amorphe, privée de tous liens charnels avec les éléments.

Dans "La Faim", l'affamé se détache donc totalement de la communauté des hommes; son intériorité se replie sur elle-même comme celle de l'enfant Hamsun qui vagabondait dans la forêt, errait dans le cimetière ou se plantait au sommet d'une colline pour boire les beautés du paysage. L'affamé ne développe aucune rancœur ni revendication contre la communauté des hommes; il ne l'accuse pas. Il se borne à constater que le dialogue entre lui et cette communauté est devenu impossible et que seule l'introspection est enrichissante.

De ces impressions d'affamés, de l'impossibilité du dialogue individu/communauté, découle toute l'anthropologie que nous suggère Hamsun. Car il est sans doute inutile de passer en revue sa biographie, d'ennumérer tous les livres qu'il a écrits, si l'on passe à côté de cette anthropologie implicite, présente partout dans son œuvre. Si on néglige d'en donner une esquisse, fût-elle furtive, on ne comprend rien à son message métapolitique ni à son engagement militant ultérieur aux côtés de Quisling.

La société urbaine, industrielle, mécanisée, pense et affirme Hamsun, a détruit l'homme total, l'homme entier, l'odalsbonde (1) de la tradition scandinave. Elle a détruit les liens qui unissent tout homme total aux éléments. Résultat: le paysan, arraché à sa glèbe et jeté dans les villes perd sa dimension cosmique, acquiert des manies stériles, ses nerfs ne sont plus en communion avec l'immanence cosmique et s'agitent stérilement. Si l'on parlait en langage heideggerien, on dirait que la déréliction urbaine, moderniste, culbute l'homme dans l'"inauthenticité". Sur le plan social, la rupture des liens directs et immédiats, que l'homme resté entier entretient avec la nature, conduit à toutes sortes de comportements aberrants ou à l'errance, au vagabondage fébrile de l'affamé.

 

Les héros hamsuniens, Nagel de "Mystères", surnommé l'"étranger de l'existence", et Glahn de "Pan", sont des comètes, des étoiles arrachées à leur orbite. Glahn vit en communion avec la nature mais des lubies urbaines, incarnées dans l'image d'Edvarda, femme fatale, lui font perdre cette harmonie et le conduise au suicide, après un voyage aux Indes, quête aussi fébrile qu'inutile. Tous deux vivent le destin de ces vagabonds qui n'ont pas la force de retourner définitivement à la terre ou qui, par stupidité, quittent la forêt qui les avait accueillis, comme le fit Hamsun à l'époque de son bref rêve américain.

Le véritable modèle anthropologique de Hamsun, c'est Isak, le héros central de "L'Eveil de la Glèbe": Isak demeure dans ses champs, pousse sa charrue, développe son exploitation, poursuit sa tâche, en dépit des élucubrations de son épouse, des sottises de son fils Eleseus qui végète en ville, se ruine, et disparaît en Amérique, de l'implantation temporaire d'une mine près de son domaine. Le monde des illusions modernes tourbillone autour d'Isak qui demeure imperturbable et gagne. Son imperméabilité naturelle, tellurique, à l'égard des manies modernes lui permet de léguer à son fils Sivert, le seul fils qui lui ressemble, une ferme bien gérée et porteuse d'avenir. Ni Isak ni Sivert ne sont "moraux" au sens puritain et religieux du terme. La nature qui leur donne force et épaisseur n'est pas une nature idéale, construite, à la mode de Rousseau, mais une âpre compagne; elle n'est pas un modèle éthique mais la source première vers laquelle retourne le vagabond que le modernisme a détaché de sa communauté et condamné à la faim dans les déserts urbains.

C'est donc dans le vagabondage, dans les expériences existentielles innombrables que le vagabond Hamsun a vécu entre ses 14 et ses 29 ans, dans la conscience que ce vagabondage a été causé par ces illusions modernistes qui hantent les cerveaux humains de l'âge moderne et les poussent sottement à construire des systèmes sociaux qui excluent sans merci les hommes originaux; c'est dans tout cela que s'est forgée l'anthropologie de Hamsun.

Avant de faire éditer "La Faim", Hamsun avait publié un réquisitoire contre l'Amérique, pays de l'errance infructueuse, pays qui ne recèle aucune terre où retourner lorsque l'errance pèse. Cet anti-américanisme, étendu à une hostilité générale envers le monde anglo-saxon, demeurera une constante dans les sentiments para-politiques de Hamsun. Sa critique ultérieure du tourisme de masse, principalement anglo-américain, est un écho de ce sentiment, couplé à l'humiliation du fier Norvégien qui voit son peuple transformé en une population de femmes de chambre et de garçons de café.

 

Si ce pamphlet anti-américain, "La Faim", "Pan", "Victoria", "Sous l'étoile d'automne", "Benoni", etc., sont les œuvres d'un premier Hamsun, du vagabond rebelle et impétueux, du déraciné malgré lui qui connait sa blessure intime, le roman "Un vagabond joue en sourdine" (1909), qui paraît quand Hamsun atteint l'âge de cinquante ans, marque une transition. La vagabond vieux d'un demi-siècle regarde son passé avec tendresse et résignation; il sait désormais que l'époque des sentiments enflammés est passée et adopte un style moins fulgurant et moins lyrique, plus posé, plus contemplatif. En revanche, le souffle épique et la dimension sociale acquièrent une importance plus grande. L'ambiance trouble de "La Faim", le lyrisme de "Pan" cède la place à une critique sociale pointue, dépourvue de toute concession.

C'est aussi à 50 ans, en 1909, que Hamsun se marie pour la seconde fois  —un premier mariage avait échoué—  avec Marie Andersen, de 24 ans sa cadette, qui lui donnera de nombreux enfants et demeurera à ses côtés jusqu'à son dernier souffle. La vagabond devient sédentaire, redevient paysan (Hamsun achète plusieurs fermes, avant de se fixer définitivement à Nörholm), retrouve sa glèbe et s'y raccroche. L'événement biographique se répercute dans l'œuvre et l'innocence anarchique se dépouille de ses excès et pose son "idéal", celui qu'incarne Isak. La trame de "L'Eveil de la Glèbe", c'est la conjugaison du passé vagabond et de la réimbrication dans un terroir, la dialectique entre l'individualité errante et l'individualité qui fonde une communauté, entre l'individualité qui se laisse séduire par les chimères urbaines et modernes, par les artifices idéologiques et désincarnés, et l'individualité qui accomplit sa tâche, imperturbablement, sans quitter la Terre des yeux. La puissance de ces paradoxes, de ces oppositions, vaut à Hamsun le Prix Nobel de Littérature. "L'Eveil de la Glèbe", avec son personnage central, le paysan Isak, constitue l'apothéose de la prose hamsunienne.

On y retrouve cette volonté de retour à l'élémentaire que partageaient notamment un Friedrich-Georg Jünger et un Jean Giono.

La modèle anthropologique hamsunien correspond aussi à l'idéal paysan du "mouvement nordique" qui agitait l'Allemagne et les pays scandinaves depuis la fin du XIXème siècle et que, plus tard, les nationaux-socialistes Darré et von Leers (2) incarneront dans la sphère politique. Dans les années 20 s'affirment donc trois opinions politisables chez Hamsun: 1) son anti-américanisme et son anglophobie, 2) sa hargne à l'égard des journalistes, propagateurs des illusions modernistes (Cf. "Le Rédacteur Lynge") et 3) son anthropologie implicite, représentée par Isak. A cela s'ajoute une phrase, tirée des vagabonds: "Aucun homme sur cette terre ne vit des banques et de l'industrie. Aucun. Les hommes vivent de trois choses et de rien de plus: du blé qui pousse dans les champs, du poisson qui vit dans la mer et des animaux et oiseaux qui croissent dans la forêt. De ces trois choses". Le parallèle est facile à tracer ici avec Ezra Pound et son maître, l'économiste anarchisant Silvio Gesell (3), en ce qui concerne l'hostilité à l'encontre des banques. La haine à l'endroit du mécanicisme industriel, nous la retrouvons chez Friedrich-Georg Jünger (4). Et Hamsun n'anticipe-t-il pas Baudrillard en stigmatisant les "simulacres", constituant le propre de nos sociétés de consommation?

 

Devant cette offensive du modernisme, il faut, écrit Hamsun à 77 ans, dans "La boucle se referme" (1936), demeurer en marge, être une énigme constante pour ceux qui adhèrent aux séductions du monde marchand.

Les quatre thèmes récurrents du discours hamsunien et la présence bien ancrée dans la pensée norvégienne des mythes romantiques et nationalistes du paysan et du viking, conduisent Hamsun à adhérer au Nasjonal Sammlung de Vidkun Quisling, le leader populiste norvégien. Celui-ci opte en 1940 pour une alliance avec le Reich qui occupe le pays à la vitesse de l'éclair lors de la campagne d'avril, parce que la France et l'Angleterre étaient sur le point de débarquer à Narvik et de violer simultanément la neutralité norvégienne afin de couper la route du fer suédois. Pendant toute la guerre, Quisling veut former un gouvernement norvégien indépendant, inclus dans une confédération grande-germanique, alliée à une Russie débarrassée du soviétisme, au sein d'une Europe où l'Angleterre et les Etats-Unis n'auront plus aucun droit d'intervention.

La "collaboration" de Hamsun a consisté à défendre par la plume cette politique, cette version-là du nationalisme norvégien, et à expliquer son engagement lors d'un congrès d'écrivains européens à Vienne en 1943. Hamsun sera arrêté en 1945, interné dans un asile d'aliénés, puis dans un hospice de vieillards et enfin traduit en justice. Pendant cette période pénible, Hamsun, nonagénaire, rédigera son dernier ouvrage, "Sur les sentiers où l'herbe repousse" (1946). Une lettre de Hamsun au Procureur Général du Royaume mérite encore notre attention car le ton qu'il y adopte est hautain, moqueur, condescendant: preuve que l'esprit, les lettres, le génie littéraire, transcendent, même dans la pire adversité, le travail méprisable et médiocre de l'inquisiteur. Hamsun le Rebelle, vieux et prisonnier, refusait encore de courber l'échine devant un Bourgeois, fût-il le magistrat suprême du royaume. Un exemple...

Robert STEUCKERS.       

 

Notes

(1) A propos de la figure de l'"odelsbonde" ou "odalsbonde", Régis Boyer écrit (cf. bibliographie): "Si le Nord, si la Norvège furent grands, disons jusqu'au XIVème siècle, c'est parce qu'ils avaient su édifier une société qui vivait en parfaite symbiose avec la nature et la terre, où régnait ce "paysan de franc alleu", l'odelsbonde,  le bóndi  des sagas islandaises, que l'on vient d'évoquer, homme libre, apte à tous les travaux et capable de tous les arts, chef de famille et agriculteur, pêcheur, chasseur, marin, forgeron, médecin, guerrier: le Viking n'était pas autre chose. c'était lui l'âme de la "vieille société" (det gamle samfunnet)  qui hante Knut Hamsun avec sa hiérarchie fondée en religion et ses structures nettes, reconnues, ses fortes valeurs éthiques, son sens du destin... Si le capitalisme et l'industrialisation doivent culbuter ces fondations sacrées, il n'est plus de modernisme acceptable... Là résidait l'essence de son patriotisme [de Hamsun], chez le grand odelsbonde  de Norvège..." (p.67). La figure de l'odelsbonde  est donc figure de liberté, d'indépendance sociale complète, d'accomplissement total.

(2) Si Darré a chanté la figure du paysan libre dans le cadre du national-socialisme allemand et a rédigé plu-sieurs livres techniques sur le problème paysan, Johann von Leers, qui fut ministre des cultes, a théorisé la question et a esquissé avec davantage de précision une vision alternative de l'histoire européenne, où le paysan libre (l'odelsbonde  de Hamsun) constitue l'idéal aliéné depuis la christianisation. Pour saisir cette problématique, mal comprise dans la sphère francophone, lire: 1) Anna Bramwell, Blood and Soil, Walther Darré and Hitler's "Green Party",  Kensal Press, Abbotsbrook, 1985, 290 p., £12,95. 2) Johann von Leers, Der deutschen Bauern: 1000jähriger Kampf um deutsche Art und deutsches Recht. 3) J. v. Leers, Odal, das Lebensgesetz eines ewigen Deutschland  (ne disposant que d'un ouvrage abîmé, sans page de garde, et d'un prospectus publicitaire, nous n'avons pu retrouver l'éditeur de ces deux ouvrages-clefs relatifs à cette problématique; nous remercions d'avance le lecteur qui pourra nous apporter ces précisions d'ordre bibliographique).

(3) L'économiste socialo-anarchiste Silvio Gesell, membre du gouvernement rouge de Bavière en 1919, a théorisé également l'idée du "sol franc", outre ses études sur la monnaie qui ont inspiré Ezra Pound. On lira sa démonstration dans: Silvio Gesell, L'ordre économique naturel, Issautier/Vromant, Paris/Bruxelles, 1948.

(4) Cf. Robert Steuckers, "L'itinéraire philosophique et poétique de Friedrich-Georg Jünger", in Vouloir,  n°45/46, pp. 10 à 12. Cf. Friedrich-Georg Jünger, Die Perfektion der Technik,  Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1968 (fünfte Auflage).

lundi, 05 janvier 2009

H. Laxness : Katholik; Kommunist, Befreiungsnationalist

Katholik, Kommunist, Befreiungsnationalist

http://www.deutsche-stimme.de/

Vor 10 Jahren starb der isländische Nobelpreisträger Halldór Laxness

Interessant an dem großen isländischen Erzähler Halldór Laxness ist nicht so sehr die Tatsache, daß er als junger Mann vom Protestantismus zum Katholizismus konvertierte (Taufe: 6. Januar 1923). Auch nicht, daß er schon wenige Jahre später ein eifriger Parteigänger der Sache Lenins und Stalins wurde (den Beitritt zur isländischen Volksfrontpartei aus Sozialisten und Kommunisten jedoch bis 1938 hinauszögerte).

Laxness, der in seiner katholischen Lebensphase mit dem Gedanken spielte, Benediktiner- oder Jesuitenpater zu werden, übertrug seine Glaubensinbrunst auf den Kommunismus. Von besonderem Interesse an seinem Leben ist eher der Umstand, daß er als Angehöriger eines jahrhundertelang unterdrückten Volkes auch in seinen kommunistischen Lebensjahrzehnten Ansichten äußerte, die man heute eher dem modernen Befreiungsnationalismus zuordnen würde.
Der Nationalismus kann sich mit anderen Ideologien verbinden. So gibt es nationalkonservative, nationalliberale, nationalsozialistische und nationalkonservative Strömungen. Laxness verstand den Kommunismus als wirksame Befreiungslehre gegen den Imperialismus des 20. Jahrhunderts, der auch sein Volk bedrohte.

Laxness hätte kein Verständnis dafür gehabt, wenn man um der Reinheit der marxistisch-leninistischen Lehre willen von ihm verlangt hätte, Volk und Nation als dominierende Lebenswirklichkeiten zu negieren. Am 8. November 1939 schrieb er in einer isländischen Zeitung: »Der Imperialismus hat nichts mit Nationalität zu tun, sondern ist seiner Natur nach eine internationale Verschwörung von Dieben, die allzeit bereit sind, sich darum zu schlagen und zu prügeln, wer das Vorrecht haben sollte, die Welt zu bestehlen und zu plündern, unschuldige Völker zu knechten, sich die Reichtümer der Nationen anzueignen und diese zu ihrem Zweck zu versklaven; und die Methode, ihre noblen Interessen zu verfolgen, ist die, die Nationen in Blut zu ertränken.«

Gegen den Imperialismus

Freilich erkannte Laxness damals nicht, daß alle diese negativen Kennzeichnungen auch auf den Sowjetimperialismus zutrafen. Dies ging ihm erst andeutungsweise auf, als er im Zuge der Entstalinisierung nach 1953 seine kommunistische Verbohrtheit verlor und 1956 durch die sowjetische Vergewaltigung Ungarns geschockt wurde.

Worauf gründete die nationale Einstellung des Isländers Laxness? Maßstab gerade für eine kleine Nation ist, so Laxness, die Kultur, die sie hervorbringt. Er selbst fühlte sich berufen, in diesem Sinne die kleine isländische Kulturnation in die Modernität des 20. Jahrhunderts zu führen. 1932 brachte er es in einem Brief auf die Formel: »Es ist ein Unglück für einen Schriftsteller, in einem kleinen Land am Rande der Welt geboren zu sein, verdammt zu einer Sprache, die keiner versteht. Aber ich hoffe, daß die Steine Islands eines Tages zur ganzen Welt sprechen werden, durch mich.«
Die Verleihung des Nobelpreises für Literatur (1955) bestätigte ihm, daß sein Werk »Land und Volk zu Ruhm und Ehre« gereichen konnte. Nationalität und Humanität gehörten für ihn, wie er beim Empfang des Preises betonte, zusammen: »Wenn ein isländischer Dichter seine Herkunft vergißt, die in der Tiefe der Volksseele liegt, dort, wo die Saga zu Hause ist, wenn er seine Verbindung und seine Verpflichtung gegenüber dem bedrohten Leben verliert, dem Leben, das mich meine alte Großmutter gelehrt hat, dann ist der Ruhm so gut wie wertlos; und ebenso das Glück, das Geld beschert.«

Für die Freiheit seines Volkes

Ein Hurrapatriotismus war nicht Laxness‘ Sache. Im Mai 1939 sagte er bei einem Treffen sozialistischer Jugendverbände auf Island: »Nicht der ist der größte Patriot, der die Heldensagen der Nation am lautesten preist und ständig die Namen der berühmtesten Männer auf den Lippen führt, sondern der, der zugleich auch die Leiden seines Volkes versteht, den schweigenden Kampf der zahlreichen namenlosen Menschen, die es nie auf die Seiten der Geschichtsbücher gebracht haben … Der Patriot erkennt nicht nur die Stärke seines Volkes und dessen Erfolge gebührend an, er weiß auch, besser als jeder andere, wo die Erniedrigung am bittersten, die Niederlage am größten war.«
Das Wissen um die jahrhundertelange dänische Unterjochung Islands sensibilisierte Laxness für den Freiheitskampf seines Volkes. Erst am 1. Dezember 1918 konnte die bedingte Unabhängigkeit Islands errungen werden; der dänische König blieb jedoch in Personalunion noch Staatsoberhaupt der Republik (!) Island.

Am Unabhängigkeitstag des Jahres 1935 durfte Laxness bei den Feierlichkeiten die Hauptrede halten, die vom Rundfunk übertragen wurde. Er nutzte die Gelegenheit, um Befreiungsnationalismus und Volksfrontpolitik miteinander zu verknüpfen: »Wir stehen jetzt am Höhepunkt des Freiheitskampfes des isländischen Volkes: Isländische Männer, isländische Frauen, nehmt den Kampf noch heute auf, haltet diesen Tag der Unabhängigkeit und der Freiheit heilig, indem ihr euch vereint in der Volksfront, der Union aller Kräfte… gegen die ausländische und inländische Unterdrückungsmacht in Form des Bankenkapitals, des Finanzgroßkapitals, dieser schlimmsten Feinde der lebendigen und sich mühenden Menschheit auf Erden, die auch in diesen Tagen danach streben, ihre Pranken auf unser Land zu legen, auf jede einzelne atmende Brust.«

Erst 1944 erlangte Island die völlige Trennung von Dänemark. Laxness: »Es war bemerkenswert, wie jeder Einwohner des Landes in diesen Tagen das Leben der Nation als sein eigenes empfand, als ob jeder Mensch, gebildet oder ungebildet, die lebendige Geschichte des Landes in seiner Brust spürte.«
Laxness war ein sehr merkwürdiger Kommunist, denn was er hier beschrieb, war nichts anderes als die punktuelle Realisierung eines uralten nationalistischen Ideals: des Gedankens der Volksgemeinschaft. Dem isländischen Befreiungsnationalismus setzte Laxness mit seinem Roman »Die Islandglocke« (3 Bde., 1943 – 1946; deutsch: 1951 bzw. 1993) ein Denkmal. Die Glocke wird darin zum Symbol für Erniedrigung und Wiederauferstehung des isländischen Volkes.

Im Kampf gegen die USA

Weist »Die Islandglocke« ins 17. und 18. Jahrhundert zurück, so spielt der Roman »Atomstation« (1948, deutsch: 1955 bzw. 1993) in der Zeit nach dem Zweiten Weltkrieg. Mit diesem Roman und zahlreichen Artikeln kämpfte Laxness gegen die Abtretung von Landrechten an die USA (zwecks Errichtung eines militärischen Stützpunktes). Seine Parolen lauteten damals: »Island darf nie eine Atomstation ausländischer Kriegsgewinnler werden« und »Wir Isländer wollen das uneingeschränkte Hoheitsrecht über unser ganzes Land«.
In deutscher Sprache ist das großartige Erzählwerk dieses Isländers inzwischen in der elfbändigen Werkausgabe (abgeschlossen 2002) leicht zugänglich. Im Dritten Reich konnte nur ein Titel des Autors erscheinen.
Nach dem Zweiten Weltkrieg wurde Laxness in der DDR stark gefördert, obwohl seine fiktionalen Werke nur in sehr begrenztem Umfang Träger einer sozialistisch-kommunistischen Botschaft waren und auch nicht den Vorgaben des sozialistischen Realismus entsprachen.

1958, zu einem Zeitpunkt, als er schon stark von seiner früheren kommunistischen Begeisterung abgerückt war, mokierte sich Laxness in einem Brief an seine Frau über die »miese Atmosphäre in Ostdeutschland«. Für die Politik der DDR hatte er nur ein vernichtendes Urteil übrig: »Ich glaube, Ostdeutschland verdient den Preis des übelsten Dreckslandes, in das ich je gekommen bin, schließlich geht es nicht mit rechten Dingen zu, daß innerhalb weniger Jahre 3 Millionen Menschen aus dem Land geflohen sind. Im Vergleich zu den Bevölkerungszahlen in Skandinavien wäre es dasselbe, wenn in weniger als zehn Jahren alle Norweger aus Skandinavien fliehen würden.«

Wenig schmeichelhaft ist auch, was Laxness 1970 einem Freund über die Untertänigkeitshaltung in beiden Teilen Rumpfdeutschlands mitteilte: »Übrigens, wie ich aus den beiden Teilen Deutschlands höre, sind alle mit ihren jeweiligen Besatzungstruppen zufrieden.« Eine solche Beobachtung verwundert nicht: Laxness´ Blick war durch die Beschäftigung mit der jahrhundertelangen dänischen Besatzungspolitik in Island hinreichend geschärft.

Josef M. Rauenthal

dimanche, 09 novembre 2008

Knut Hamsun de volta

Knut Hamsun de volta

ex: http://penaeespada.blogspot.com/

Knut Hamsun de volta

Knut Hamsun, galardoado com o Prémio Nobel da Literatura em 1920, volta ao panorama editorial português pela mão da Cavalo de Ferro, com a publicação de “Fome”, traduzido do norueguês por Liliete Martins, com prefácio de Paul Auster e com a coragem de afirmar no breve texto de apresentação sobre o escritor: “figura social controversa, acusado de ser simpatizante nazi aquando da ocupação do seu país, tal como L.-F. Céline será, também ele, perseguido pela justiça depois da II Guerra Mundial e os seus livros queimados na praça pública”. Sim, porque nem só os regimes considerados “malditos” hoje queimaram livros, como alguns nos querem impingir. E, já agora — porque nunca é demais dizê-lo —, para mim, queimar livros é um crime hediondo.

No prefácio à edição portuguesa de “Pan”, publicada em 1955 pela Guimarães, o tradutor da obra, César de Frias, escreve: “Não poucas críticas hão proclamado esta obra de Knut Hamsun como a culminante no seu avultado e precioso legado literário. Se hesitamos em assentir nisso é porque nos merece também, embora por diferentes atributos, franca admiração o romance Fome — que, diga-se por tangência, sofre do equívoco de muitos lhe atribuírem, antes de o lerem e tocados apenas pelo tom angustioso do título, o carácter de obra de intuitos panfletários, grito de revolta contra as desigualdades e injustiças sociais, quando é somente, mas em elevado grau de originalidade, um singular documento humano e como tal considerado único nos anais do género. Não há burguês, por mais egoísta e cioso de sua riqueza, que, ao lê-lo, perca o apetite e o sono, por se lhe afigurar que de aquelas páginas vão surdir acerbas invectivas e punhos cerrados contra o que mais estima no Mundo. A ordem pública não corre ali o risco de uma beliscadura sequer, nem erra por lá o acusador fantasma da miséria do povo, convocado por tantos outros romancistas. A tal respeito não se poderia exigir coisa mais inócua e mansarrona. Assim o juramos à fé de quem somos.
Agora o que Pan tem mais a seu favor, o que lhe requinta a sedução, é o facto de ser um livro trasbordante de claridade e de poéticas intuições. Tutela-o, inspira-o de lés a lés — e isso conduziu o autor a denominá-lo de tal jeito — essa divindade grotesca mas amável, simplória e prazenteira como nenhuma outra, da arraia miúda das velhas teogonias mas tão imortal como os deuses da alta, que, em se pondo a tanger a sua frauta, faz andar tudo num rodopio. Baila ele, bailam à sua volta as ninfas, não há nada que não baile. E assim também cada um de nós se sente irresistivelmente levado na alegre ronda, pois do seu teor se desprende uma sugestão optimista e festiva. E a despeito de lhe sombrear o desfecho a morte do herói, a cujo convívio nos habituára-mos e se entranhara na nossa afeição — morte que é nota esporádica da novelística do autor, um dos que menos “assassinaram” as suas personagens, preferindo deixá-las de pé e empenhadas em prosseguir sempre na grande aventura da Vida —, termina-se a leitura com o espírito deliciosamente impregnado de um súbtil, inefável sabor a Primavera.
Referências blogosféricas para saber mais sobre Hamsun:

In Pena e Espada, 01 de Novembro de 2008

samedi, 23 août 2008

Les avatars chrétiens de Wodan après la conversion des Germains

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Les avatars chrétiens de Wodan après la conversion des Germains

d'après Otto Rudolf Braun

Wodan était l'une des principales figures divines au temps de la christianisation des Germains. Il était le dieu qui donnait la sagesse aux hommes. Il était aussi le dieu des guerriers et des héros tombés au combat. Son importance était grande parmi les Germains comme le prouve la formule d'abjuration que les convertis devaient prononcer avant de recevoir le baptême. En effet, les Germains, comme tous les païens, avaient d'innombrables dieux et la formule n'en reprend que trois: Donar (Thor), Ziu (dieu primordial indo-européen; Zeus et Ziu ont la même racine) et Wodan lui-même.

Précisons que, pour les premiers Chrétiens de Germanie, les dieux ancestraux n'étaient pas perçu comme des superstitions mais comme des forces ennemies, maléfiques, qu'il s'agissait de combattre. Le spécialiste de la question Erich Jung nous l'explique: «Pendant longtemps, l'Eglise germanique primitive n'a pas nié l'existence et l'action des dieux ancestraux, mais a combattu ces derniers comme des esprits maléfiques, des monstres, des démons. Donc, pour eux, Wodan gardait toute son influence sur les âmes non baptisées. Son Armée (Heer), sa horde, était principalement composée d'âmes d'enfants morts».

C'est la raison pour laquelle l'Eglise demandait aux anciens Germains d'abjurer leurs dieux ancestraux. Mais cette injonction ne fut pas immédiatement suivie d'obéissance: le peuple continuait d'honorer ces anciens dieux. L'Eglise fut donc obligée de changer de politique et de les christianiser, d'en faire des saints. Wodan est par conséquent le dieu qui a connu le plus d'avatars chrétiens.

Il a été transformé en archange Michel, que l'on représente tantôt avec l'attribut de Ziu (l'épée), tantôt avec l'attribut de Wodan (le manteau). A son propos, Cäsarius von Heisterbach (1180-124?), chroniqueur médiéval, cite une légende allemande, où Wodan, très manifestement, entre en scène. C'est la légende du Chevalier Gerhard von Holenbach. Un jour, le diable lui apparaît, déguisé en pélerin. Il frappe à la porte du Chevalier et lui demande l'aumône. Comme il faisait froid, le Chevalier le fit entrer et, pour la nuit, lui offrit son manteau en guise de couverture. Au petit matin, le pélerin avait disparu avec le manteau. Peu après, le Chevalier décide d'entreprendre un pélérinage au tombeau de St. Thomas en Inde. Avant de partir, il brise son anneau en deux morceaux et en donne un à sa femme, afin qu'elle conserve un signe de reconnaissance. S'il ne revient pas avant cinq ans, elle sera libre. Mais le Chevalier n'atteint le tombeau de St. Thomas qu'au jour où il aurait dû rentrer chez lui. C'est alors qu'apparaît le diable vêtu de son manteau qui, en un tour, le ramène d'un coup chez lui. Gerhard retrouve sa femme en train de célébrer son repas de fiançailles avant un autre Chevalier et lance son anneau dans une coupe. Sa femme le reconnaît et le Chevalier reprend sa place.

Le Diable joue ici très nettement le rôle de Wodan. Cäsarius von Heisterbach a sans doute transformé une vieille légende wotanique. Plus tard, au 15° siècle, la chronique suisse des Seigneurs von Stretlingen, de la région du Thurnersee, remplace, dans la même légende, le Diable par l'Archange Michel.

La Sainte Lance est, elle aussi, un ancien attribut de Wodan et même l'un des principaux. Avec sa lance, Wodan désignait les guerriers les plus braves, avant que les vierges-pages ne viennent les chercher pour les conduire au Walhall. Cette sainte lance fit partie, plus tard, des insignes de la cérémonie du couronnement des Empereurs du Saint-Empire, sous le nom de Lance de St. Maurice. A la bataille du Lechfeld contre les Hongrois, on apporta à l'Empereur Othon I la lance dite de St. Michel. La Sainte Lance joua encore un rôle décisif lors d'une bataille de la première croisade quand, en 1098, devant Antioche, les guerriers francs et normands, découragés, minés par la fatigue, ne se relancèrent à l'assaut qu'après l'apparition de la Sainte Lance.

Wodan était le protecteur de Siegfried, lorsque ce dernier terrassa le dragon. Dans la Saga de Wolfdietrich, c'est St. Georges qui reprend ce rôle. Plus tard, St. Georges lui-même tue le dragon, de la même façon que St. Michel. St. George (dont l'existence historique n'est pas prouvée) est devenu ultérieurement le protecteur des armuriers et des guerriers. Son amulette protégeait contre les coups de lance malencontreux.

Les anciennes églises dédiées à St. Michel se situent toutes au sommet de montagnes ou de collines, lieux de résidence privilégiés par Wodan. C'est particulièrement patent dans le cas du Michelsberg près de Kleebronn en Allemagne. Avant que l'on ne parle de Wodan, c'est-à-dire avant la germanisation, il y avait déjà là un lieu de culte celtique. Wodan a tout simplement remplacé la divinité celtique et, après la christianisation, St. Michel a pris le relais. Wodan et St. Michel sont tous deux des détenteurs de lances miraculeuses. Tous deux tuent des dragons et servent de guide aux âmes. Les paysans de la région nomment toujours le Michelsberg de son ancien nom: Gudinsberg ou Wudinsberg, selon les variations dialectales.

L'ethnologue Gößler précise: «Cette persistance des cultes païens s'observe partout où il y a des monts ou collines portant le nom de Michel, surtout s'il s'agit de hauteurs occupées depuis la nuit des temps, comme, par exemple, sur le fameux Michelsberg près de Bruchsal, où l'on a découvert des poteries typiques de la préhistoire, poteries qui ont permis de déterminer la civilisation préhistorique indo-européenne du Michelsberg. Idem pour le Michelsberg près de Gundelsheim, le Heiligenberg de Heidelberg et le Michelsberg-en-Zabergäu».

L'histoire du Heiligenberg près de Heidelberg signale effectivement un passage direct de Wodan à St. Michel. Un acte de Konrad I, d'août 912, en parle comme d'une colline sainte, dédiée à un archange "tout-puissant". Or, pour l'église chrétienne, les archanges ne sont jamais "tout-puissants". Cet adjectif trahit la transposition...

St. Martin est aussi un avatar de Wodan. Souvent on le représente flanqué d'une oie, l'oiseau dont le sacrifice plaisait à Wodan. M. Ninck écrit: «La transposition des traits wotaniques a dû être facilitée par l'étymologie même du nom de Martin, signifiant en fait «guerrier de Mars». St. Martin est en effet Chevalier servant et, plus tard, un exorciste qui parcourt les campagnes. Sous sa forme chevaleresque, il porte un manteau, comme tous les chevaliers, mais le caractère particulièrement sacré de son manteau prouve nettement les origines wotaniques de son culte».

Les légendes prouvent, elles aussi, le rapport étroit qui existe entre Wodan et St. Martin. Dans la région de Coblence, l'homme qui blesse une cigogne (dans la symbolique païenne, animal qui équivaut au cygne, oiseau dédié à Wodan), est menacé de la Lance de St. Martin. En Bavière, lors des moissons des dernières semaines de l'été, les paysans laissent une gerbe pour le cheval de St. Martin, comme jadis ils en laissaient une pour le cheval de Wodan. Au Tyrol, la «Chasse Sauvage» s'appelle la Martinsgestämpe et l'on dit aussi que, derrière la Horde Sauvage, trotte une oie difforme, animal lié à St. Martin.

St. Martin est aussi magicien et sa fête, le 11 novembre, est célébrée à une époque de l'année où, jadis, on fêtait Wodan. Cette fête a repris à son compte bon nombre de traits du culte wotanique. Elle se célèbrait de nuit, avec des feux. On tuait des oies et l'on buvait la Minne de Wodan, comme on boit aujourd'hui la Minne de St. Martin.

Lors de la bénédiction des chiens à Vienne, célébration qui remonte au 10° siècle et est également une transposition d'un vieux rite wotanique, on évoque St. Martin comme patron protecteur des chiens (car Wodan, jadis, était accompagné de loups ou de chiens). A Bierdorf dans le Westerwald, se trouvent des tumuli germaniques, autour d'une colline nommée Martinsberg, jadis vouée à Wodan.

St. Oswald est sans doute aussi un avatar de Wodan, dont l'un des surnoms était précisément Oswald. Le passage du dieu païen au saint chrétien (?) est facilement repérable: une colonne de la nef principale de l'église abbatiale d'Alpirsbach dans le Württemberg nous montre encore Wodan accompagné de ses deux corbeaux Hugin et Munin. Une gravure sur bois datant de 1500 environ, nous présente, elle, St. Oswald avec deux corbeaux...

St. Cuthbert de Durham est représenté avec la tête tranchée d'Oswald: autour de lui, des cygnes, animaux wotaniques. Rappelons-nous que Wodan, dans l'Edda, enmenait toujours avec lui la tête tranchée de Mimir. Les cygnes sont, eux, inséparables des Walkyries, les vierges-pages de Wodan.

Mais l'avatar le plus aimé de Wodan est sans conteste St. Nicolas, qui offre des cadeaux aux enfants. Sa fête, le 6 décembre, n'a pratiquement rien à voir avec le saint historique, un évêque d'Asie Mineure. St. Nicolas est un saint qui a même réussi à résister au protestantisme dans le Nord des pays germaniques. Dans certains régions, il est assimilé à la vieille figure de Knecht Rupprecht (le «Gaillard Robert»), dans lequel on reconnaît sans difficulté Wodan. St. Nicolas porte souvent, comme lui, un bonnet de fourrure, une longue barbe soyeuse et il voyage dans un traîneau tiré par des rennes. Dans les régions catholiques, il est encore habillé comme un évêque, avec une mitre et une crosse et il accompagne Krampus, avatar du Diable.

L'Eglise chrétienne a donc pratiqué deux politiques à l'égard de Wodan: d'une part, elle a conservé son souvenir sous les oripeaux d'une quantité de saints; d'autre part, elle en a fait un diable et un méchant démon. Son surnom glorieux des temps païens, der Rabenase (L'Ase aux corbeaux), est devenu une injure, Rabenaas (carogne). Wodan est devenu le meneur de la terrible chasse sauvage, le seigneurs des démons. Dans quelques régions d'Allemagne, on brûle des effigies de Wode, Gode ou Gute lors du solstice d'été, devenu, sous l'impulsion de l'Eglise, les feux de la St. Jean. Mais Wodan, dans l'âme du peuple, a résisté à toutes les tentatives de christianisation.

Otto Rudolf BRAUN.

(Source: Germanische Götter - Christliche Heilige. Über den Kampf der Christen gegen das germanische Heidentum, Verlag Hohe Warte, Pähl/Obb., 1979; adaptation française: Robert Steuckers).

 

jeudi, 31 juillet 2008

Omero nel Baltico

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Carlo Terracciano

 

OMERO NEL BALTICO

 

Felice Vinci, Omero nel Baltico

Saggio sulla geografia omerica

Palombi Editori, Roma, 2002 (Terza edizione aggiornata), Pp.512, euro 22,50

 

Dove era situata veramente l’antica Troia che nell’Iliade destava l’ira funesta del pelìde Achille e di legioni di studenti costretti a studiarne le gesta? In Finlandia, naturalmente..! E Itaca ventosa, patria dell’astuto Ulisse (quello del “cavallo di Troia” appunto), alla quale l’eroe dell’Odissea tornò dopo anni di peregrinazioni per terra e per mare, a compiervi la nota vendetta su quei porci dei Proci, mentre Penelope [non] filava (salvo poi rifuggirsene via verso il folle volo di dantesca memoria)? Ma è ovvio: in Danimarca, patria d’origine di Nessuno ben qualche millennio prima che del principe Amleto. E l’Olimpo? A nord dello Stige e a sud dell’Ade, praticamente… sul Circolo Polare Artico! Per non parlare dell’Eden, della mitica “terra promessa”, stillante latte e miele alla confluenza dei quattro fiumi che si dipartono dal Paradiso Terrestre, il Pison, il Gihon, il Tigri e l’Eufrate; niente a che vedere con il nostro Medio Oriente oggi in fiamme. Qui siamo addirittura poco sotto Capo Nord, in piena Lapponia. Ci sono nella storia dello scibile umano delle opere, teorie, scoperte che improvvisamente ribaltano le conoscenze, presunte,  le radicate convinzioni di generazioni e generazioni durante i  secoli.

 

E la loro validità è data intuitivamente anche dal fatto che, leggendole come un romanzo appassionante, tutto ci sembra chiaro, lineare, consequenziale; e ci si meraviglia semmai di non averci pensato prima, tanto era evidente (a posteriori) quello che stava sotto gli occhi di tutti e, forse proprio per questo, non si era mai notato.  “Omero nel Baltico” di Felice Vinci (un nome un fato) è una di queste opere che con naturalezza e scientificità ribalta completamente tremila anni di cultura classica euro-mediterranea.  Il contenuto rivoluzionario di questo testo, arrivato in breve alla terza edizione, è sintetizzato dallo stesso autore in poche righe poste all’inizio delle “Conclusioni”: “Il reale scenario dell’Iliade e dell’Odissea è identificabile non nel mar Mediterraneo, ma nel nord dell’Europa. Le saghe che hanno dato origine ai due poemi provengono dal Baltico e dalla Scandinavia, dove nel II millennio a.C. fioriva l’età del bronzo e dove sono tuttora identificabili molti luoghi omerici, fra cui Troia e Itaca; le portarono in Grecia, in seguito al tracollo dell’ "optimum climatico", i grandi navigatori che nel XVI secolo a.C. fondarono la civiltà micenea: essi ricostruirono nel Mediterraneo il loro mondo originario, in cui si era svolta la guerra di Troia e le altre vicende della mitologia greca, e perpetuarono di generazione in generazione, trasmettendolo poi alle epoche successive, il ricordo dei tempi eroici e delle gesta compiute dai loro antenati nella patria perduta.

 

Ecco, in estrema sintesi, le conclusioni della nostra ricerca”. Un sintetico riassunto di cinquecento fitte pagine frutto di dieci anni di lavoro di un ingegnere romano di cinquantasette anni, appassionato ma critico conoscitore di quei classici sui quali si basa la nostra cultura europea. Felice Vinci prende spunto dalla segnalazione di Plutarco sulla collocazione geografica dell’isola di Ogigia, a lungo dimora di Odisseo trattenutovi dalla dea Calipso, “a cinque giorni dalla Britannia” per iniziare la sua indagine e ribaltare la geografia mediterraneo dei due poemi attribuiti al cieco Omero, ma notoriamente di diversi autori, spostando le gesta guerriere della conquista di Troia ed il viaggio di ritorno a casa di Ulisse dalle nostre latitudini a quelle nordiche: il Baltico in primis, la penisola scandinava, l’estremo nord circumpolare.

 

Ecco allora che ritroviamo la Colchide , le Sirene, Scilla e Cariddi e la stessa Trinacria lungo le frastagliate coste della Norvegia settentrionale, tra fiordi e la Corrente del Golfo. Mentre le originarie Cipro, Lemno, Chio, il Peloponneso, ma anche Atene o Sparta per fare solo qualche esempio, ritrovano l’originaria collocazione tutt’intorno al Mar Baltico. E Troia dalle imponenti mura, a controllare lo stretto strategico dei Dardanelli, le rotte tra Mar Nero e Mediterraneo? Uno sperduto, tranquillo paesino della Finlandia meridionale, a cento chilometri dalla capitale Helsinki: l’attuale Toija, risvegliata dalla silenziosa quiete plurimillenaria e proiettata da un ingegnere italiano dalle brume dell’oblio sotto i riflettori della cronaca. Più precisamente su un’altura boscosa tra Toija e la vicina Kisko si svolsero le battaglia tra Achei e Troiani per i begli occhi di Elena, anche se bisogna dimenticare le ciclopiche mura dell’area dell’attuale Hissarlik in Turchia e la scoperta di Schliemann, per più modesti fossati e palizzate di solido legno dei boschi circostanti, quelli dei tempi dell’età del bronzo. Biondi guerrieri nordici dagli occhi cerulei, coperti di mantelli e armature adeguate ad un clima non certo mediterraneo, anche se meno rigido dell’attuale, combattevano con spade di bronzo e asce di pietra.

 

La coalizione di popoli baltici contro Ilio era sbarcata da agili navi con doppia prua che possiamo immaginare molto simili a quelle vichinghe di duemila anni dopo. E non deve sembrare ardita l’ipotesi di marinai e guerrieri che, quattromila anni fa, corrono i flutti oceanici nord-atlantici fino all’Islanda e oltre, se solo si pensa a quello che riuscirono a fare i loro pronipoti vichinghi prima e dopo l’anno Mille; arrivare da una parte in America del nord ( la Groenlandia “Terra verde” e la Vinlandia , “Terra della vite”, a dimostrazione di un breve periodo di mutamento climatico favorevole) e dall’altra attraversare tutta la Russia fino al Mar Nero e Bisanzio. Per non parlare dell’epopea Normanna in Sicilia e nel Mediterraneo.

 

Oltre allo studio pignolo della toponomastica comparata, il Vinci poggia le basi delle sue straordinarie scoperte non solo sulle concordanze dei nomi, ma anche su solide basi geografiche, morfologiche, climatiche, descrittive, nonché storiche e mitologiche: una cultura di tipo olistico, veramente enciclopedica, che lo porta a smantellare pezzo per pezzo, passo per passo, riferimento per riferimento, mito per mito, l’ambientazione mediterranea dei poemi omerici, per ricollocarli nell’habitat originario, la Scandinavia ed il Baltico appunto. Uno dei punti di riferimento di Vinci è l’opera di Lokamanya Ba˘l Gangâdhar THILAK (1856-1920) il bramino e patriota indiano autore de “La dimora artica dei Veda” e “Orione.

 

A proposito dell’antichità dei Veda”. Secondo il Tilak il sacro testo dell’India, il più antico, come il popolo che lo creò, avrebbero avuto origine dal Polo Nord, che naturalmente in un lontano passato era terraferma ed aveva una temperatura mite. Uno sconvolgimento climatico forse dovuto allo spostamento dell’asse terrestre costrinse i nostri lontani progenitori, gli Arya, ad una migrazione ovviamente verso sud. Un ramo si diresse verso l’attuale penisola scandinava, la Finlandia ed il Baltico: proprio quello che Felice Vinci identifica con i popoli dell’elenco delle navi dell’Iliade ed i loro avversari alleati dei troiani. Altri rami sarebbero discesi, lungo i fiumi eurosiberiani sempre più a sud e ad est, dando quindi origine alle varie civiltà del Medio Oriente (i Sumeri ?), Persia (l’Avesta è quindi complementare ai Veda, sotto tale aspetto descrittivo di una sede artica originaria), India (con la sovrapposizione alle popolazioni scure precedenti, da cui nascerebbe poi il sistema castale), fino alla Cina e al Giappone (gli Ainu). E si possono ipotizzare anche scenari simili per le Americhe con il successivo sorgere di civiltà come quella Tolteca, Atzeca o pre-incaica del Lago Titicaca. Insomma in uno stesso periodo di tempo sorgono quasi d’incanto civiltà raffinate, templi imponenti, le piramidi, gli imperi da cui proviene la nostra civiltà eurasiatica.

 

Così i popoli dell’area baltico-nord atlantica, alla fine dell’optimum climatico dell’età del bronzo migrano ad ondate verso i territori più caldi ed il Mediterraneo, ma portandosi appresso la memoria storica delle aree d’origine, le saghe, le leggende, i miti e gli Dei. Un ricordo dei primordi che si riverserà in una trasposizione toponomastica dalle terre originarie  a quelle di nuova acquisizione tutt’attorno al Mediterraneo. Un’operazione di preservazione della propria memoria storica che d’altra parte non poteva essere perfettamente collimante, data la diversità sia geografica che climatica tra i due scenari geopolitici. Per tale motivo troviamo nell’Iliade e nell’Odissea una serie di riferimenti geografici, di collocazioni e ambientazioni completamente fuori luogo rispetto al Mediterraneo, ma che si adattano perfettamente alle latitudini nordiche; e questa è la grande “scoperta” di Felice Vinci destinata a rivoluzionare le nostre conoscenze classiche. E’ più che naturale, quasi ovvio, che un simile ribaltamento dell’impianto dei due poemi epici troverà una chiusura pressoché assoluta nel mondo accademico, tra i professoroni di greco e latino che hanno sempre pontificato sull’argomento.

 

Questo “Omero nel Baltico” sarà deriso e/o trattato con sprezzante sufficienza, quando non violentemente attaccato, anche perché un profano, un “ingegnere” è arrivato dove i cultori della classicità neanche supponevano si potesse ricercare. Peggio ancora  si tenterà di seppellire queste geniali intuizioni sotto il silenzio. Un’opera di ostracismo culturale già iniziata, se solo si consideri che questo testo così “sconvolgente” e rivoluzionario non è ancora stato neanche preso in considerazione dalla pseudocultura ex-cathedra. E non ultimo anche per certe implicazioni d’ordine storico e politico.

 

Per fare solo un esempio l’autore, ricollocando all’estremo nord l’area mesopotamica d’origine di Abramo e del monoteismo, la “Terra Promessa”, tende a ridare unità originaria alle stirpi “bibliche”, rispettivamente discese da Sem, Cam e Jafet. Anche il famoso “diluvio universale” potrebbe aver avuto un differente scenario, con la fine dell’optimum climatico, e l’Ararat con la sua Arca incagliata una verosimiglianza maggiore nel mutato contesto fisico e geografico. I cosiddetti “semiti” poi, ebrei compresi, sarebbero loro stessi nordici (a parte la conversione dei Cazari del VII-VIII secolo d.C.) e la loro “terra promessa” non sarebbe quindi la Palestina bensì l’estremo Nord, tra Norvegia e Finlandia: la Lapponia !

 

Tutto questo, è ovvio, non avrà particolari conseguenze politiche attuali, specie per il povero popolo palestinese d’oggi (i Filistei d’origine indoeuropea); tuttavia, fossi nei panni dei Lapponi, comincerei a preoccuparmi… Comunque sia  la verità di certe scoperte ha una tale forza d’impatto, una tale intrinseca vitalità per cui anche la congiura del silenzio sarà prima o poi destinata ad infrangersi. Lo dimostrano le tre edizioni in brevissimo tempo che hanno fatto di “Omero nel Baltico” un successo editoriale, senza bisogno di molta pubblicità o di una editrice di grido. Il testo di Felice Vinci è anche correlato di numerose cartine geografiche esplicative e, alla fine, di varie pagine di foto anche aeree che ci offrono l’immagine odierna dei luoghi trattati nel testo. Nella pianura ora allagata di Aijala correvano, tra Toija e il mare, gli eserciti di Achei e Troiani, tra un attacco ed una ritirata. Ai piedi di un’altura boscosa della Finlandia meridionale, in vista delle scure acque del Baltico Ettore e Achille si affrontavano 3500 anni or sono  in un epico duello mortale che sarebbe stato cantato attorno al fuoco dagli aedi a venire, fino ad approdare sotto un altro cielo, in un’altra terra, su un altro mare: il nostro, il Mediterraneo.

Carlo Terracciano 

 

vendredi, 02 mai 2008

Connaître et aimer Knut Hamsun

Avec Michel d’Urance, une invitation à connaître et aimer Knut Hamsun

Pierre Le Vigan

Avec Michel d’Urance, une invitation à connaître et aimer Knut Hamsun
Dans la collection Qui suis-je ? de Pardès (initiative sympathique si ce n’est son dispensable thème astral qui clôt chaque volume), le jeune essayiste Michel d’Urance, rédacteur en chef d’Eléments, aborde un homme du grand Nord, et aussi un grand homme du Nord, l’écrivain norvégien Knut Hamsun. Le petit et gracieux ouvrage constitue une introduction à l’œuvre et à l’homme très rigoureuse, très complète sans être exhaustive bien entendu, et une excellente invitation à la lecture ou à la relecture, que l’on pourra aisément compléter par le numéro de Nouvelle Ecole sur le même thème (56, 2006).

Né en 1859, mort en 1952, Hamsun – ce « personnage original et puissant » comme disait Octave Mirbeau – est déjà de notre temps, de la première modernité en tout cas, sans l’être tout à fait : il n’a connu que la première phase de son déchaînement, il est vrai significative puisqu’elle comporte Hiroshima, Dresde février 45, les camps nazis, les camps staliniens, et aussi la TSF, l’avion, le téléphone. Hamsun a connu cela, et il a connu aussi le temps d’avant, celui que chacun d’entre nous n’a pas connu, le temps des chevaux, des charrettes, des dialogues sur la place du bourg, des amours cachés dans les foins et non sur le web.

Dans une œuvre longue, ponctuée par le prix Nobel en 1920, pour Les fruits de la terre (traduit sous le nom de L’éveil de la glèbe), le héros hamsunien, note d’Urance, « figure son époque par delà l’infinité ou la différence des personnages. » « Fixer l’ambiance d’époque, devenir un mémorialiste de son temps » c’est à cela, écrit encore justement d’Urance, que l’on reconnaît un grand écrivain. Ce héros hamsunien dit, comme celui de Balzac, l’époque et l’époque qui change – et l’homme qui change avec son époque. « Nous changeons même si c’est infime, dit l’un des personnages d’Hamsun. Aucune volonté, aussi stricte soit-elle, ne peut avoir d’influence sur cette progression naturelle (…). Du point de vue historique, le changement est un signe de liberté et d’ouverture » (Crépuscule, 1898).

Knut Pedersen-Hamsun a voyagé, notamment aux Etats-Unis, et a exercé plusieurs métiers. Il a vu les nuances du monde et c’est pourquoi il convient de porter sur lui un jugement plein de nuances. En Amérique, il est frappé par la solidité des bases morales données par la religion ainsi que par le patriotisme exagéré des Américains (August le marin, 1930). Il note l’excès de morale et la faiblesse de l’analyse, la faiblesse de ce que les Français appellent « l’esprit » qui caractérise ce peuple. Il est encore frappé par quelque chose d’une extrême dureté que l’on trouve selon lui dans la mentalité des Américains. En Caucasie, au contraire, ce qui lui parait décisif c’est que plus on va vers l’est, plus on va vers le silence, plus le sort de l’homme devient non plus de parler, mais d’écouter la nature, celle-ci devenant de plus en plus massive, de plus en plus tellurique. « J’en aurais toujours la nostalgie » écrit Hamsun.

Patriote norvégien – il est pour l’indépendance de son pays en 1905, au moment de la séparation avec la Suède -, moderniste en littérature, dénué de xénophobie et d’antisémitisme, qu’est-ce qui a poussé Knut Hamsun à se « rallier », avec des nuances bien entendu, au régime pro-allemand de Quisling de 1940 à 1945 et d’une manière plus générale à la cause de l’Allemagne national-socialiste et de l’Axe (un de ses fils sera combattant dans une unité de Waffen SS comme nombre de nordiques et de Baltes).

Ce choix aventureux - dans lequel Hamsun avait beaucoup à perdre et rien à gagner - n’est de fait pas venu par hasard, et Michel d’Urance éclaire de manière fine cet épisode qui donne un caractère de souffre à l’approche d’Hamsun dont les amitiés littéraires (il fut préfacé par André Gide notamment) n’avaient strictement rien de « fasciste ». Pour autant, il est exact que Hamsun était critique quant à la modernité, il est exact qu’il souhaitait un équilibre entre celle-ci et des valeurs traditionnelles comme la proximité avec la nature, l’expérience personnelle, toutes choses qui amenaient à critiquer les sociétés de masse, à refuser le communisme, à ne pas se satisfaire non plus du libéralisme et son culte du commerce. D’où un intérêt pour tout système paraissant ouvrir une nouvelle voie.

Il est de fait aussi que, trente ans avant l’arrivée de Hitler au pouvoir, Hamsun avait manifesté sa sympathie pour l’Allemagne. Il est de fait que l’Allemagne devenue nazie, sa sympathie n’a pas faibli. Comme beaucoup, Hamsun n’a pas voulu voir la réalité de l’antisémitisme nazi et a sous-estimé son extrême violence (dont les manifestations et l’aboutissement criminel n’étaient pas forcément décelable vu de Norvège, les nazis ayant mis en place une politique du secret et du camouflage qui trompa bien des observateurs). Bien entendu, des facteurs plus personnels sont à prendre en compte : Hamsun a 81 ans en 1940, et il est sourd. Sans aller jusqu’à dire que sa surdité explique sa cécité ( !) sur le nazisme, il est certain que ce handicap l’éloigne du monde. Hamsun est toutefois parfaitement lucide durant ces années. En 1940, il souhaite publiquement l’arrêt des combats et la collaboration de la Norvège avec le Reich. Sa principale motivation est la détestation des anglo-saxons et de leur civilisation. Nulle hystérie antisémite chez lui. Très vite, Hamsun est déçu de la forme que prend la politique de collaboration. Il reste toutefois fidèle à ses prises de position initiale. Le 7 mai 1945, il rend hommage dans la presse à Hitler en des termes lyriques et quasi-christiques (on pense à Alphonse de Chateaubriand), le présentant comme un homme qui « proclamait son évangile de la justice pour toutes les nations » et « une de ces figures éminentes qui bouleversent le monde » (la seule chose que l’on ne contestera pas, c’est le fait qu’Hitler ait bouleversé le monde en parachevant la catastrophe inaugurée en 1914 et qui a vu l’Europe presque au bord de la sortie de l’histoire. Cf. Dominique Venner, Le siècle de 1914, Pygmalion, 2006). En vérité, un entretien d’Hamsun avec Hitler en 1943 avait montré l’ampleur des malentendus, comme le montre bien Michel d’Urance. Hamsun était un idéaliste et rêvait d’une Europe nordique fédérée, faisant vivre une civilisation débarrassée des excès de l’économisme et Hitler était avant tout un pangermaniste darwinien, scientiste et ultra-moderniste qui souhaitait que la Norvège lui cause le moins de souci possible.

En 1945, Hamsun est mis en résidence surveillée puis jugé. Il est libéré au bout de 5 ans, il a alors 90 ans et est complètement ruiné. Il meurt 2 ans plus tard. On ne connaît pas de personnes qui ait été arrêtées suite à des dénonciations venant de lui, par contre, plusieurs personnes lui doivent la vie ou leur libération suite à des interventions qu’il a faite durant la guerre auprès des Allemands. Il avait écrit : « Il est bon que certains gens sachent comment un homme de fer se comporte devant une morsure de serpent ».

notes

Michel d’Urance, Hamsun, Qui suis-je, Pardès, 2007, 128 p., 12 €.