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vendredi, 27 octobre 2017

Armin Mohler und der unterschätzte Nationaljakobinismus

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Armin Mohler und der unterschätzte Nationaljakobinismus

Ich bin auf diesen Begriff bei Armin Mohler gestoßen. Dieser arbeitete von 1953 bis 1961 in Frankreich als Auslandsberichterstatter und gehörte zu den besten deutschen Kennern der französischen Rechten. In einem Aufsatz über „Frankreichs Nationaljakobinismus“ (erstmals erschienen 1972 in Rekonstruktion des Konservatismus, herausgegeben von Gerd-Klaus Kaltenbrunner) setzt Mohler damit an, warum es Unsinn ist, von „französischen Konservativen“ zu sprechen.

Für das, was wir „die Konservativen“ nennen, gibt es in Frankreich nur eine unmißverständliche Bezeichnung: „la droite“, die Rechte. Schon „les ultras“, eine Entsprechung etwa zu den „diehards“ in England, verengt die Sicht. Und mit einer „droite modérée“, einer gemäßigten Rechten, oder mit „les modérés“ schlechthin, diesem ebenso beliebten wie verschwommenen Sammelnamen für alles „rechts von der Mitte“, ist man gleich wieder nach der linken Seite hin aus dem Rahmen geraten.

Mohler weist daraufhin, daß diese französische Rechte stets im Schatten des Nationaljakobinismus stand, deren wichtigste Vertreter Georges Clemenceau und Charles de Gaulle gewesen seien. Das Dilemma beginnt aber viel früher: Es läßt sich nicht von der Hand weisen, daß die Ideale der Französischen Revolution auf´s Engste mit der Idee des Nationalstaates verbunden sind, obwohl die Idee des Nationalismus im 19. Jahrhundert in ganz Europa langsam von der Linken zur Rechten hinüberwanderte, so Mohler. „Links“ und „Rechts“ wurden in der Französischen Revolution konstituiert und doch zugleich obsolet gemacht, indem sich mit dem Nationaljakobinismus eine Mischung aus beidem durchsetzte, die sowohl die Linke als auch die Rechte klein hielt.

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Die Alte Rechte entwickelte vor diese Herausforderung gestellt eine restaurative Strategie. Sie wollte die alte Ordnung vor der Französischen Revolution wiederherstellen, was selbstverständlich unmöglich war und ist. Die Neue Rechte, die 1789 stillschweigend anerkennt, um realpolitische Optionen denken zu können, unterschreibt damit jedoch ihr Schattendasein. Dieses Problem ist bis heute nicht gelöst. Brauchen wir also eine „Alternative Rechte“, die ganz anders an das Problem herangeht?

Dazu zunächst mit Mohler ein Gedanke über die Aktualität von „links“ und rechts“ nach 1945:

Und neuerdings hat die schon nicht mehr schleichende Selbstauflösung der westlich-liberalen Gesellschaft eine Situation geschaffen, in der die beiden politischen Grundhaltungen elementar und nackt zutage treten: der Rechte sucht Bindung und Halt, der Linke will Befreiung und Ungebundenheit; für den Linken sind der Mensch und die Welt im Prinzip vollkommene Gebilde, ihre reale Unvollkommenheit eine Schuld der Umstände, die deshalb verändert werden müssen – der Rechte glaubt nicht an diese Perfektibilität, für ihn geht durch Welt und Mensch ein tragischer Zwiespalt, der nicht aufgehoben werden kann, aber bestanden werden muß.

Mit eben dieser skeptischen Haltung blicke ich auch auf den Nationalstaat. Dieser ist für mich wertlos, wenn er nicht in der Lage ist, Bindung und Halt zu bieten. Mohler stellt diese Frage nicht in dieser Deutlichkeit. Das liegt daran, daß er glaubt, das Phänomen Nationaljakobinismus lasse sich auf Frankreich beschränken. Ich vermute jedoch, daß er ein Grundmotiv der europäischen Geschichte der letzten gut 200 Jahre ist. Der unsichtbare Nationaljakobinismus ist es, der den (italienischen, real existierenden) Faschismus zu einer weder linken, noch rechten Ideologie machte, der den Nationalsozialismus in die Nähe der Linken trieb und der andersherum die DDR zu einem Staat werden ließ, der unbeabsichtigt vorbildlich die deutsche Volkssubstanz schützte.

Für die Rechte gilt der simple Satz, daß es sie nur dort in nennenswerter Form gibt, wo der Nationaljakobinismus durch eine äußere Zwangslage oder eine innere Schwäche in seiner Ausstrahlung behindert wird.

Das heißt also: Solange die Rechte den Nationaljakobinismus nicht als Gegner erkennt, bleibt sie wirkungslos. Dann gibt es die Rechte lediglich „als Kunstwerk“. Mohler nennt in diesem Zuge Joseph de Maistre, Charles Maurras, Drieu La Rochelle, Ferdinand Céline und Georges Sorel. Sie alle hatten mehr literarischen als politischen Einfluß. Das ist ein Umstand, der eben auch auf die deutsche Konservative Revolution zutrifft.

mercredi, 25 octobre 2017

Ricordo di Giorgio Locchi, che previde il “male americano” prima degli altri

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Ricordo di Giorgio Locchi, che previde il “male americano” prima degli altri

Ex: http://www.secoloditalia.it

Oggi ricorre l’anniversario della scomparsa di Giorgio Locchi, morto a Parigi, dove viveva dagli anni Cinquanta, il 25 ottobre del 1992. Oggi Giorgio Locchi, giornalista, saggista, scrittore, non è molto conosciuto in Italia, soprattutto dai giovani, ma fu uno dei pensatori che più incisero sulla comunità anticomunista europea (a lui non piaceva la definizione “destra”) dagli anni Settanta in poi. Poco si sa della sua vita privata, e quello che sappiamo lo dobbiamo alla frequentazione sistematica da parte di suoi “discepoli” italiani, ragazzi provenienti dal neofascismo degli anni Settanta. Questi ragazzi, infiammati dal sacro fuoco della politica e dalla voglia di cambiare questo mondo, andavano a Parigi, a Saint Cloud, dove Locchi viveva e si guadagnava da vivere come corrispondente del quotidiano romano Il Tempo. Tra questi ragazzi ricordiamo senz’altro Gennaro Malgieri, Giuseppe Del Ninno, Mario Trubiano, Marco Tarchi e altri. In ogni caso, per quanto misconosciuto in Italia, Giorgio Locchi fu un po’ il “padre nobile” dei grandi rivolgimenti culturali europei nella famiglia della destra (scriviamo così solo per convenzione), quando dal neofascismo puro si passò alla dimensione culturale, a una Nuova Destra, come poi in effetti fu chiamata, la Nouvelle droite, che guardava oltre il regime fascista ma pensava piuttosto alle potenzialità, peraltro in parte messe in pratica, da quella filosofia e da quella dottrina europeista e antiegalitaria, ancorché modernizzatrice, che avrebbe ancora oggi tasto da dire e da dare alla nostra civiltà un po’ decadente (a voler essere generosi). Poi, la figura di Giorgio Locchi venne allo scoperto in Francia, ma per merito degli italiani, come ricorda Del Ninno. Locchi fu tra i fondatori del Grece, Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne, creato nel 1968 insieme ad Alain de Benoist, intellettuale e scrittore francese molto noto, che fu con Locchi sin dall’inizio, pur essendo de Benoist più giovane.

Giorgio Locchi visse molti anni a Parigi

Giorgio Locchi era nato a Roma nel 1923, la famiglia aveva contiguità col mondo del cinema e dei doppiatori, lui stesso era amico della famiglia di Sergio Leone; scuole al classico del Nazareno dove, pur essendo lui completamente acattolico, conservò stima e gratitudine per i padri Scolopi, che avevano sempre rispettato la sua libertà di pensiero e che gli garantirono sempre massima autonomia di giudizio e di critica. Proseguì gli studi, orientati particolarmente verso il germanismo, la musica, la scienza della politica, ma soprattutto verso gli studi della civiltà indoeuropea, argomento sul quale ci ha lasciato un libro e numerosissimi scritti. I ragazzi del Fronte della Gioventù e del Msi degli anni Settanta e Ottanta furono letteralmente folgorati dal suo libro Il male americano (Lede editrice), dove Locchi aveva previsto tutto ciò che non sarebbe accaduto ma che sta ancora accadendo. Il fatto di essere usciti sconfitti da una guerra devastante, per Locchi, non annichilisce le idee che a quella guerra portarono. Che infatti sopravvivono nelle più disparate forme e sfumature. Dopo la realizzazione del Grece, che oggi chiameremmo un think tank, la Nuova Destra comincia a farsi conoscere non solo in Francia e in Italia, ma un po’ in tutta l’Europa occidentale. E a proposito di Europa, Locchi volle andare a Berlino nei giorni della riunificazione delle Germanie. La firma di Locchi da quel momento, che utilizzava anche lo pseudonimo di Hans-Jürgen Nigra, iniziò ad apparire sulle riviste vicine alla Nouvelle Droite, come Nouvelle Ecole, Elements, Intervento, la Destra, l’Uomo libero e naturalmente il nostro quotidiano Secolo d’Italia. Frattanto rendeva preziose informazioni ai lettori italiani con superbe corrispondenze dei fatti d’Algeria, sul ’68 francese, e anche sulla nascita dell’esistenzialismo. Come ha scritto in maniera chiara Gennaro Malgieri nel suo mirabile Hommage à Giorgio Locchi (1923-1992) in Synergies européennes nel febbraio del 1993, in realtà le idee di Locchi erano le idee di un’Europa che non esiste più, ma questa non era per lui una ragione per non difenderne o illustrarne i principi. Queste idee riguardano quell’Europa eterna a cui l’Europa economica del nostro dopoguerra non assomiglia per nulla. Ad esempio, nota ancora Malgieri, l’atteggiamento di Locchi verso il fascismo non era di semplice nostalgia o protesta, ma raccoglieva nel fermento culturale di quell’epoca e di quella esperienza tutte le idee e le iniziative che non erano e non sono obsolete. «Ha condiviso con noi i suoi pensieri su questo nella sua opera intitolata L’Essenza del fascismo (Il Tridente, 1981). Egli si riferisce alla visione del mondo che è stata l’ispirazione del fascismo storico, ma non è scomparsa con la sconfitta di quest’ultimo. Questo libro è ancora un “discorso di verità” prodigiosa nel senso greco, che cerca di rimuovere dal fascismo di tutte quelle spiegazioni frammentarie che sono attualmente in corso e tutte le forme di demonizzazione tese a generare pregiudizi».

Giorgio Locchi scrisse anche un libro sul “mito sovrumanista”

Nella sua indagine, infatti, Locchi ha sostenuto che non era possibile capire il fascismo, se non ci siamo accorti che era la prima manifestazione politica di un fenomeno spirituale di più ampia portata, le cui origini risalgono nella seconda metà del XIX secolo e ha chiamato il “surhumanisme”. I poli di questo fenomeno, che si presenta proprio come un enorme campo magnetico, sono Richard Wagner e Friedrich Nietzsche che, attraverso le loro opere, hanno mescolato il nuovo principio e lo hanno portato nella cultura europea tra la fine del XIX e all’inizio del ventesimo secolo. Su questo Locchi ha scritto il libro Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista (edizioni Akropolis), difficile ma estremamente lucido, che ebbe le lodi del critico musicale Paolo Isotta dalle colonne del Corriere della Sera. Locchi ci ha lasciato pochi libri, ma importanti. La sua vita testimonia un impegno coerente, profondo, cruciale, che oggi non sarebbe male approfondire. Su di lui (anche) pochi anni fa Francesco Germinario ha scritto un libro, Tradizione, Mito e Storia (Carocci editore) in cui l’autore definisce i connotati della destra radicale soffermandosi sui suoi esponenti più significativi. Due anni fa alla sede romana di Casapound si è svolta una conferenza su Giorgio Locchi alla presenza del figlio Pierluigi e di Enzo Cipriano, anche lui amico e seguace di Locchi da anni.

lundi, 16 octobre 2017

Unintended Consequences: How the Left Keeps Helping Us

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Unintended Consequences:
How the Left Keeps Helping Us

Jef Costello

Ex: http://www.counter-currents.com

Everything is going exactly according to plan. This is what super-villains always say, usually just before their plans are upset. (“Seize him, you fools! He’s getting away!”) So, I am may be tempting fate by saying such a thing, but actually I don’t think so. As of late it really does seem like something — Providence, the Invisible Hand, the Cunning of Reason, or what have you — has been at work behind the scenes, helping our cause. In truth, we don’t have a plan, but events are unfolding as if someone does, and as if that someone is smiling upon us (perhaps from atop his perch in Asgard). 

None of this should be particularly surprising. After all, we have the truth on our side. And the truth is reality. No individual and no civilization can exist for long in revolt against reality. Reality always finds a way to thwart our denial and our delusions, and to call attention to itself over and over again — until finally we are compelled to listen. Aristotle said that “truth seems to be like the proverbial door, which no one can fail to hit.” Actually, truth is like the proverbial Mack truck which cannot fail to hit us, if we try denying it for very long.

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Now, an important part of how this Providence/Cunning of Reason stuff works is that if there is a truth that needs to come out, or a major societal shift that needs to take place, whatever human actors do will tend to advance this. In other words, once we reach a certain set of conditions where the denial of truth is no longer viable, and the truth is just aching to get out, even those who oppose this process will wind up helping it along. Their actions, in short, have unintended consequences. We now see this playing out in a big way in how the Left is conducting itself, especially in its attempts to oppose us. Some of the ways this is happening are obvious, and have been commented on before; others are not so obvious.

The Left thinks it has scored some recent victories by “infiltrating” our private gatherings and reporting on them. This includes the London Forum and the Counter-Currents-sponsored Northwest Forum. As Greg Johnson has already pointed out, all these infiltrators succeeded in doing was proving that we say the same things in private that we do in public. (The claims of Leftists that we’ve been “exposed” are therefore especially comical.) Aside from this, what we are quoted as saying will probably attract more people than it will repulse. Of course, Leftists are constitutionally incapable of perceiving this. They think that our ideas are so self-evidently evil all they have to do is lay them bare. But to almost everyone who isn’t a committed Left-wing ideologue, at least some of our ideas seem . . . well . . . true.

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For example, Greg Johnson was secretly recorded at the London Forum quoting someone saying that “while the survivors [of the Manchester Islamic terrorist attack] were still picking bloody bits of children from their hair, Britain’s leaders were rushing toward the nearest camera to profess their undying commitment to diversity.” This is actually an extraordinarily powerful observation, which would stir many people at least to say “you know, he’s got a point.” But, of course, Leftists cannot see this: they broadcast the comment to all the world, thinking it would be summarily rejected by all right-thinking people. Umm, not quite. Thank you, Leftists! If you had but one face I would kiss it (and then get a shot of penicillin).

But this infiltration has the potential to birth an even more important, and less obvious, unintended consequence (and this one is real Cunning of Reason stuff). After the infiltration of the Northwest Forum, the organizers have now decided to make these events public. Our movement already has annual or semi-annual conferences, such as AmRen and NPI. However, the vast majority of events are private, invitation-only affairs which rely on secrecy: vetting (sometimes none-too-successful-vetting, it seems), announcing the location at the last minute, etc. These infiltrations teach us that the way forward may be to end this practice, and make many of our events open to the public. This would make us more visible — more of a regular part of the social and political landscape.

The unintended consequence of Leftist infiltration would therefore be one that Leftists desperately want to avoid: our “normalization.” Publicly-held, New Right events would simply become a “regular thing.” Going (more) public would also require many participants in our events to face a tough choice. They would have to ask themselves whether they are willing to take the risk of being seen at a public event, or forgo attending altogether. More and more of our hitherto reclusive comrades, I believe, have reached a point where they are willing to say “fuck it” and show up anyway, regardless of the consequences. And as more of these public events begin popping up, and more people show up (if only out of curiosity) it will be harder and harder to penalize attendees in some fashion or other. Again, thanks Leftists.

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To cite one specific case, Greg Johnson has hitherto been famously camera shy, due to his desire to follow the advice of Socrates and maintain as much as possible “a private life.” But Greg’s recent video exposure has forced him to confront the fact that maintaining a private life is now pretty much a lost cause — the Left (as well as some douchebags on “our side”) won’t allow it. And that’s very good for us. Greg has the best mind in the American New Right scene. Abandoning his former reclusiveness means that we will be seeing more of him: more public lectures and conference appearances, and possibly YouTube videos. Ironically, in “exposing” Greg the Left has . . . well . . . increased his exposure; it has freed him (or perhaps I should say “unleashed” him). This isn’t what the Left wanted — but, again, ideology has made them too stupid to see that they are cooperating in undermining themselves.

Then there are the growing number of “hit pieces” that have been published in recent months, targeting prominent members of our movement. These are stuffed to the gills with unintended consequences. As everyone knows by now, Mike Enoch was the subject of a recent exposé in The New Yorker. One gets the impression that the author probably tried hard to make Mike look bad — but, predictably, the article has the unintended consequence, to any unbiased reader, of making him look like rather a swell fellow. As one of my (very objective) correspondents put it: “One gets the impression that Enoch really is seeking for truth. There are also details like him taking care of his handicapped mischling brother, that make him look rather nice and caring. Also, he does not say anything bad about his (I assume soon-to-be-ex)-wife, which is usually the case with any divorce. In fact, his attachment to her comes through strongly. The overall picture is rather complex and a far cry from the usual villain caricatures.”

An even better example of the unintended consequences of Leftist exposés is the profile of the German Götz Kubitschek which appeared just before the Enoch piece in The New York Times. This is, without question, the most fair and objective article I think I have ever seen on a Right-wing figure. But I suspect that the (presumably Left-wing) reporter simply allows Kubitschek to speak for himself because he thinks that, again, our ideas are so self-evidently evil all one need do is report them accurately. This backfires in a very, very big way. Not only does Herr Kubitschek seem sweetly reasonable, we learn that he has seven children and a farm full of lovingly-tended goats and bunny rabbits. At one point, he absents himself from the interview to go and heal an ailing baby goat. The only way this could have been better for us is if Kubitschek had been depicted curing lepers or miracling bread into existence. Once again, the Left takes careful aim at its own foot and opens fire.

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Götz Kubitschek milks goat

Mention must also be made of the Left’s attempts to censor us, de-platform us, ruin our lives and careers, etc. (I have already written an essay about how to deal with these dangers on a day-to-day basis.) Every time this happens — if it gets some exposure — the Left comes off looking more and more desperate, hateful, and intolerant. A reversal is taking place very, very quickly: the Left is positioning itself as the defensive, tyrannical Establishment, and simultaneously positioning us as the rebels, the true “liberal” advocates of freedom of thought, and as the new counter-culture. Thanks! Sensible, average people cannot help but see the hateful, censorious behavior of the Left as the last gasp of a dying ideology. In other words, at some level of their awareness they see this behavior and think “What’s wrong with these people? What are they trying to hide? What are they trying to compensate for?” This is not the behavior of people confident in the truth of their views — it is the behavior of cornered rats; of criminal types who know the jig is up; of moochers who’ve realized the free lunch is over with.

Needless to say, this also applies to the violence of the Left, especially when it is perpetrated by Antifa and Black Lives Matter. Decent, average folks deeply disapprove of lawlessness, and of violence used as a tool of oppression, especially when it is directed at the underdog (this is very deeply set in the American character). Thus, Trump very wisely appealed, as did Nixon in 1968, to “law and order.” This is very probably a major part of why he won. Since the election, of course, the Left has continued to oblige us by amping up the violence. In general, as has been pointed out by many, the general bat-shit-crazy antics of the Left since the election of Donald Trump have only been helping us. More and more people are fed up with Leftism, and getting more bold about saying so.

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And we must add to this the fact that, in addition to violence and mischief of all sorts, the Left seems completely clueless about the fact that Americans in vast numbers have repudiated their policies — every one of which has been a disaster for the country, and for the electoral prospects of liberals. Just the other day the liberal-controlled Boy Scouts of America announced that it will accept girls, presumably including girls who think they are boys. But this is just an extension of the “gender madness” that seriously harmed Democrats in the last election. Now California seems poised to pass a law criminalizing the use of the wrong pronouns when dealing with “transgender” people (while simultaneously making it no longer a felony to deliberately infect someone with HIV).

It’s really like Leftists just can’t help themselves. And, indeed, they can’t. They are committed to a life-denying morality that, taken to its logical conclusion, destroys families, communities, and all the basic institutions of civilization. That includes liberal families, communities, and institutions. And the moral fanaticism of the Left requires them to carry their ideas to their logical conclusion — to the extreme. What we are seeing is the Left beginning to eat itself, in a dialectic that spells their doom. The Left cannot abandon the ideology in which it has invested so much — the ideology through which its overly-socialized adherents find their self-worth; the ideology through which its base of slave-types and defective oddballs seeks to revenge itself upon the strong and the healthy. The Left will only continue to double-down and become more insane, more extreme. And the result will be that it will destroy itself, and probably quicker than any of us think. It seems right on course to do this, and the signs are everywhere. We can help this along through our activities, but really the Left is doing all the heavy lifting for us.

Three cheers for unintended consequences!

This just in: An appearance by Martin Sellner and Martin Lichtmesz at the Frankfurt Book Fair made international news when they were accosted by Antifa. Result: 3,000 copies of Lichtmesz’s new book have sold! Thank you again, Leftists. We owe you so much!

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lundi, 09 octobre 2017

Georges Feltin-Tracol et l’Europe

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Georges Feltin-Tracol et l’Europe

par Thierry DUROLLE

Invasion migratoire, terrorisme islamique et islamisation, « Grand remplacement », guerre hybride menée par la Russie en Ukraine, retour en force de la subversion gauchiste, prédation libérale en passe de détruire les acquis sociaux en France, indépendantisme catalan… Autant de problèmes qui pourraient être réglés grâce à une Europe politique. Tel est notre avis, ainsi que celui de l’ami et camarade Georges Feltin-Tracol.

Le Lider maximo incontesté et incontestable de votre site préféré est en effet de retour avec un recueil portant sur l’Europe. Le lecteur familier de sa bibliographie constatera qu’il s’agit de son quatrième ouvrage sur le sujet si l’on compte Réflexions à l’Est (1). Le premier, L’Esprit européen entre mémoires locales et volonté continentale (2), copieux ouvrage de près de six cents pages évoquait la question dans son ensemble. Le deuxième, Bardèche et l’Europe (3), comme son titre l’indique, s’intéressait au versant proto-pan-européen de la pensée politique de « Babar ».

Ce nouvel opus s’intitule par conséquent L’Europe, pas le monde, sous-titré Un appel à la lucidité. Mais quel intérêt de revenir sur le sujet après un premier ouvrage déjà conséquent ? Contrairement au dernier, le nouveau sorti se lit très vite; il contient un peu plus de deux cents pages. De notre point de vue, c’est un livre idéal pour le militant en quête d’une solide formation politique sur le projet alter-européen que nous défendons sur Europe Maxima ou chez les Lansquenets du camarade Gabriele Adinolfi. À travers une collection de textes mis en ligne, d’allocutions faites à l’occasion de diverses conférences ainsi que quelques inédits, Georges Feltin-Tracol trace les contours d’un projet politique pour notre civilisation et son continent.

Il convient d’abord de s’intéresser aux prises de position défendues dans cet ouvrage. Nous pouvons clairement parler d’une troisième voie politique et géopolitique. Georges Feltin-Tracol, en bon tireur d’élite, ne loupe jamais ses deux cibles de prédilection : les mondialistes et les souverainistes nationaux. Concernant les premiers, il faut saluer le texte « Qu’est-ce que le mondialisme ? » qui a le mérite d’aborder les différents projets mondialistes. Les souverainistes, en ce qui les concerne, demeurent dans une obsolescence insurmontable. Pis, leur attitude envers l’Europe va à rebours des enjeux géopolitiques qu’ils pensent défendre. Effectivement le cadre étriqué de l’État-nation ne peut pas, et cela est flagrant dans le cas de la France, lutter contre les grands espaces géopolitiques, d’où la nécessité d’une véritable union européenne.

En effet, plus que jamais, à la vue des quelques défis énumérés au début de cet article (et il y en a bien d’autres : surpopulation, transhumanisme, fin des énergies fossiles, sauvegarde des écosystèmes, recherches scientifiques et technologiques, re-spritualisation, etc.), l’Europe est pour Georges Feltin-Tracol la réponse adéquate. Une Europe-puissance donc, l’auteur parlerait volontiers d’« Europe-cuirassée » pour reprendre l’expression de Maurice Bardèche, régie cependant par une Europe politique et pas seulement économique, comme cela est le cas de la pseudo-Union européenne. Comment concrétiser ce projet ? Faut-il « détourner l’avion » comme le préconisait, il y a bientôt vingt ans, Guillaume Faye ou alors faut-il faire table rase du « machin bruxellois » ? Hélas, la question de la conquête du pouvoir en des termes concrets n’est pas abordé dans cet ouvrage qui se veut métapolitique (donc théorique) et non pas politique (pratique).

Pour ce qui est de la théorie, l’auteur, en bon disciple d’Evola et d’Alain de Benoist, appelle à un empire européen. À ce titre, l’histoire de notre grande patrie possède plusieurs exemples tel le Sacrum Imperium des Carolingiens. Toujours inspiré par Julius Evola, mais aussi par Dominique Venner, Feltin-Tracol déléguerait la gestion de cet empire à un Ordre militant (Ordenstaat). En son sein, un fédéralisme appliquant le principe de subsidiarité serait la norme. Ici le soucis de l’auteur consiste à conjuguer les trois échelles que sont la région, la nation et le continent. Il est à noter que Georges Feltin-Tracol, à l’inverse de Jean Thiriart par exemple, ne se prononce jamais pour une Europe-nation centralisatrice qui aurait tendance, sur le long terme, à effacer les particularismes identitaires des différents peuples européens. Il n’appelle pas non plus à la fin des État-nations. Son fédéralisme hérité de Denis de Rougemont respecte donc les identités diverses présentes dans ces trois ensembles, en accordant un réel pouvoir au niveau local à l’inverse de l’État centralisateur français par exemple.

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L’un des intérêts d’une Europe unie résiderait aussi dans le règlement des derniers conflits intra-européens et des tensions extérieures. Georges Feltin-Tracol évoque le cas de Gibraltar, de l’Irlande du nord et des narco-États genre le Kossovo. Cela permettrait aussi de régler le cas chypriote, et pourquoi pas, soyons un instant rêveur, de reprendre Constantinople ! Georges Feltin-Tracol effleure la question russo-ukrainienne, question beaucoup plus importante qu’il n’y paraît. Nous ne pouvons que saluer l’évolution de l’auteur sur ce sujet. Georges Feltin-Tracol, sans jamais prendre position auparavant pour l’un des deux camps, semble avoir pris pleinement conscience de l’essence eurasiatique de la Russie de Poutine et de sa visée impérialiste (dommage pourtant qu’il ne condamne pas clairement cette atteinte à l’intégrité de l’État et d’une partie du peuple ukrainien). Son honnêteté vis-à-vis des néo-nationalistes ukrainiens est également à saluer au moment où certains vieux nationalistes-révolutionnaires, indécrottables amateurs d’exotisme tiers-mondiste du dimanche (à Bamako), qualifient volontiers ces jeunes patriotes albo-européens de « shabbat-nazis », les privant de facto de leur droit à l’auto-détermination parce que leur volonté d’émancipation contredirait les grandes aspirations géopolitiques et idéologiques des premiers (enfin de l’impérialisme eurasiatique auquel ils se soumettent volontiers). Bel exemple d’égoïsme !

Georges Feltin-Tracol aborde un sujet assez méconnu, celui de la langue véhiculaire en cours dans cette Union européenne refondée. L’auteur n’apporte aucune réponse; il suggère plutôt. Deux possibilités retiennent notre attention. La première serait le latin, langue autrefois usitée dans toute l’Europe. Le second choix s’orienterait, dans un esprit archéofuturiste, vers l’« europo » de Robert Dun, c’est-à-dire une langue réellement « europolite », contrairement à l’espéranto cosmopolite. Une autre question malheureusement oubliée de l’auteur réside dans la spiritualité du nouvel empire européen. Christianisme ou paganisme ? Voire véritable laïcité (et non pas laïcisme) ? La vacuité spirituelle des Européens restera l’un des engrais du nihilisme actuel. Combler ce vide n’est donc pas négligeable.

En définitive, L’Europe, pas le monde. Un appel à la lucidité est sans doute le meilleur ouvrage de Georges Feltin-Tracol depuis Réflexions à l’Est. Les deux se complètent d’ailleurs à merveille. Les propositions et les idées de ce prolixe essayiste sont pour le moins roboratives, son enthousiasme pour le projet européen demeure indéfectible. Contrairement à certains, pourtant continuateurs de l’œuvre de Dominique Venner, qui pensent que l’Europe serait fichue sans la Russie, Georges Feltin-Tracol y croit dur comme fer tout comme un « samouraï d’Occident » (4). « Je suis Français parce qu’Européen » affirme t-il, et nous nous joignons à sa déclaration ! Ce nouvel opus doit vraiment être lu et médité par tous les militants identitaires et alter-européens, mais aussi par les souverainistes ouverts au débat et plus largement par tous ceux qui se sentent européens dans leur âme.

Thierry Durolle

Notes

1 : Georges Feltin-Tracol, Réflexions à l’Est, Éditions Alexipharmaque, coll. « Les Réflexives », Billère, 2012, 280 p.

2 : Georges Feltin-Tracol, L’Esprit européen entre mémoires locales et volonté continentale, préface de Pierre Le Vigan, Éditions d’Héligoland, Pont-Authou, 2011, 543 p.

3 : Georges Feltin-Tracol, Bardèche et l’Europe. Son combat pour une Europe « nationale, libérée et indépendante », note de Roland Hélie, Les Bouquins de Synthèse nationale, Paris, 2013, 111 p.

4 : « Concernant les Européens, tout montre selon moi qu’ils seront contraints d’affronter à l’avenir des défis immenses et des catastrophes redoutables qui ne sont pas seulement celles de l’immigration. Dans ces épreuves, l’occasion leur sera donnée de renaître et de se retrouver eux-mêmes. Je crois aux qualités spécifiques des Européens qui sont provisoirement en dormition. Je crois à leur individualité agissante, à leur inventivité et au réveil de leur énergie. Le réveil viendra. Quand ? je l’ignore. Mais de ce réveil je ne doute pas. » Dominique Venner, Le choc de l’histoire, Via Romana, 2011, p. 34.

• Georges Feltin-Tracol, L’Europe, pas le monde. Un appel à la lucidité, Les Editions du Lore, 2017, 224 p., 25 €.

vendredi, 29 septembre 2017

Thor v. Waldstein – Macht und Öffentlichkeit

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Thor v. Waldstein – Macht und Öffentlichkeit

Vom 15. bis 17. September 2017 fand in Schnellroda die 18. Sommerakademie des Instituts für Staatspolitik statt. Thema war, passend zur unmittelbar bevorstehenden Bundestagswahl am 24. September, die »Parteienherrschaft«. Rechtsanwalt und Autor Dr. Dr. Thor v. Waldstein sprach über die Frage nach dem Verhältnis zwischen »Macht und Öffentlichkeit«. Beachten Sie auch Thor v. Waldsteins thematisch ergänzenden Vortrag über »Metapolitik und Parteipolitik«!
 
Hier entlang zum Mitschnitt: https://www.youtube.com/watch?v=iQSIT...
 
Weitere Informationen im Netz unter: http://staatspolitik.de
 

samedi, 23 septembre 2017

Jean Mabire par Georges FELTIN-TRACOL

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Jean Mabire

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

Jean Mabire (1927 – 2006) n’est pas un inconnu pour les auditeurs de Radio Courtoisie. Un mercredi soir au début des années 2000 dans le cadre du « Libre-Journal de Serge de Beketch » animé pour la circonstance par Bernard Lugan, Jean Mabire retraça son parcours au cours des trois heures d’émission.

Journaliste et écrivain, Jean Mabire fut souvent perçu pour ce qu’il n’était pas. Auteur d’une importante œuvre historique sur les unités, allemandes, françaises et européennes, de la Waffen SS, il passait pour germanophile alors qu’en bon Normand, il était surtout anglophile… Dans son roman fantastique, Les paras perdus, le comte Tancrède de Lisle qui « considérait l’annexion de la Normandie par Philippe Auguste en 1204 comme un simple brigandage militaire et ne reconnaissait pour souverain légitime que le roi d’Angleterre qui portait toujours officiellement le titre de duc de Normandie (Club France Loisirs, 1987, p. 23) », présente de nombreux traits de « Maît’Jean ».

Bien que né à Paris, Jean Mabire rencontre de nombreux érudits locaux et aime l’histoire normande, ses terroirs et son peuple. Dès 1949 paraît la revue régionaliste Viking. La Normandie était sa véritable patrie au point qu’il refusât toujours la carte nationale d’identité pour le passeport… Toutefois, à l’instar de son écrivain favori, Pierre Drieu La Rochelle, à qui il consacra son premier livre, Drieu parmi nous (1963), Jean Mabire se sent très tôt pleinement européen. Après son rappel en Algérie où il pourchassa le fellagha à la frontière tunisienne, il souhaite « profiter de la défaite de l’Algérie française pour engager les survivants de cette aventure sur la voie de la France européenne (La torche et le glaive. L’écrivain, la politique et l’espérance, Éditions Libres Opinions, 1994, p. 13) ». En juillet 1965, il fit paraître dans la revue de Maurice Bardèche, Défense de l’Occident, un détonnant « De l’Algérie algérienne à l’Europe européenne ».

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Il assume à partir de juin 1965 la rédaction en chef d’Europe Action. Un an plus tard, il sort aux Éditions Saint-Just, un recueil d’articles politiques : L’écrivain, la politique et l’espérance, préfacé par Fabrice Laroche (alias Alain de Benoist), et réédité en 1994 dans une version augmentée et sous un nouveau titre, La torche et le glaive. La préface de 1994 souligne que « l’Europe […] ne pouvait être que celle des régions ou, mieux encore, celle des peuples (p. 14) ». Proche du Mouvement Normand, cofondateur du GRECE et contributeur de nombreux articles littéraires pour la revue Éléments, Jean Mabire milite un temps au Parti fédéraliste européen qui présenta à la présidentielle de 1974 Guy Héraud. Président d’honneur du mouvement Terre et Peuple de Pierre Vial, il dresse jusqu’à sa disparition en 2006 le portrait de grands éveilleurs de peuples (le Provençal Frédéric Mistral, le chanteur kabyle Lounès Matoub, l’Irlandais Patrick Pearse…) dans les numéros trimestriels de la revue éponyme.

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Ami personnel de Jean-Marie Le Pen connu sur les bancs de l’université, Jean Mabire offre à National Hebdo des « Libres propos » de septembre 1990 (et non fin 1980 comme on le lit sur sa fiche du détestable Wikipedia) à mai 1991. Il doit cependant les arrêter parce que des lecteurs et des responsables frontistes n’apprécient guère sa satisfaction de voir le gouvernement socialiste de 1991 reconnaître la réalité du peuple corse. Il bifurque alors vers la littérature et entreprend les fameux Que lire ?, véritable encyclopédie de poche biographique d’écrivains français et européens.

Encyclopédiste, Jean Mabire l’était assurément. Outre la Normandie et l’histoire contemporaine, il romança entre autres l’incroyable vie du baron von Ungern-Sternberg, relata L’Été rouge de Pékin où s’unirent Européens et Américains du Nord confrontés au soulèvement des Boxers chinois en 1900, s’intéressa à la mer et aux marins (le navigateur Halvard Mabire est son fils), vanta un paganisme serein et enraciné et célébra le socialisme. « Je suis socialiste et […] serai toujours solidaire du monde du travail contre le monde de l’argent. Toujours dans le camp des mineurs en grève et jamais dans celui de la haute banque et de l’industrie lourde. […] Nous savons qu’il n’y aura jamais d’accord possible entre le travailleur et l’exploiteur, entre la ménagère et le parasite, entre les hommes qui peinent et entre les hommes qui s’enrichissent de leur peine. Proudhon le savait avant Marx, et Sorel nous le disait mieux que Marx (La torche et le glaive, op. cit., p. 78). »

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Quelques scribouillards universitaires l’accusèrent d’avoir réactivé le néo-fascisme en Europe. Or, dès 1964, il traitait de « L’impasse fasciste ». « Je ne suis pas fasciste, écrit-il, car le fascisme n’a pas réussi à surmonter ses contradictions internes et a échoué dans sa double ambition d’accomplir la révolution socialiste et d’unifier le continent européen. […] Finalement le fascisme n’a été ni socialiste ni européen (La torche et le glaive, op. cit., pp. 77 – 78). » Jean Mabire a en revanche toujours soutenu une « nouvelle Europe unifiée et fédéraliste [qui] verra la constitution d’une armée unique et d’une économie commune, elle réalisera l’intégration totale de tous les problèmes continentaux. Mais en même temps elle devra proclamer le respect absolu des cultures originales, des traditions populaires ou des langues minoritaires. Les États-Unis d’Europe verront naître ou renaître un État basque, un État breton, un État croate ou un État ukrainien (La torche et le glaive, op. cit., p. 81) ». Jean Mabire était plus qu’un formidable visionnaire, il fut lui aussi un formidable éveilleur de la longue mémoire albo-européenne.

Georges Feltin-Tracol

• Chronique n° 8, « Les grandes figures identitaires européennes », lue le 15 août 2017 à Radio-Courtoisie au « Libre-Journal des Européens » de Thomas Ferrier.

jeudi, 21 septembre 2017

Close Encounters of the Third Rome Kind: An Interview with Fenek Solère, the Author of Rising

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Close Encounters of the Third Rome Kind: An Interview with Fenek Solère, the Author of

Ex: http://www.counter-currents.com

Moscow and Peter’s grad, the city of Constantine,
these are the capitals of the Russian kingdom.
But where is their limit? And where are their frontiers
to the north, the east, the south and the setting sun?
The Fate will reveal this to future generations.
Seven inland seas and seven great rivers
from Nile to Neva, from Elbe to China,
from Volga to the Euphrates, from Ganges to Danube.
That’s the Russian kingdom, and let it be forever, 
Just as the spirit foretold and Daniel prophesied. — Fyodor Tyutchev (1803-1873)

Greg Johnson: What led you to write your second novel Rising?

Fenek Solère: I was working in St. Petersburg and my girlfriend, a student and part-time actress, was auditioning for the role of Traudl Junge in the 2004 movie Downfall (Der Untergang). A part that was eventually taken by Alexandra Maria Lara who went on to play Annik Honore, the Ian Curtis extra-marital love interest in Control (2007) and Petra Schelm in the Baader Meinhoff Complex (2008). I was mixing with the generation that had survived the economic crisis of the nineties, the more politically literate of whom were crowding into small venues like Club DADA to see Death in June and discussing the ideological merits and electoral and legal problems faced by various nationalist fringe groupings like The Movement Against Illegal Immigration, Eduard Limonov’s National Bolshevik Party, Dugin’s Eurasian Party, The Other Russia, and the Russian Imperial Movement.

It was the same demographic that had spawned Pussy Riot, thrill seeking roof-toppers like Kirill Vselensky, and Instagram celebrities like Nastasya Samburskaya. An egotistical and yet fragile generation of young people that had learned through bitter experience not to plan too far ahead. Voting for Putin because he represented stability in the face of lawlessness and economic well-being after the calamitous extravagance of the Yeltsin years. They were in effect the party-goers who had woken up with a decades-long hangover, only to discover their country had been asset-stripped of nickel, gold, and oil deposits by so-called gladiator capitalists, who were in-fact no more than ruthless, looting, self-dealing kleptomaniacs turned oligarchs like Roman Abramovich, Pyotr Aven, Boris Berezovsky, Mikhail Friedman, Vladimir Gusinsky, and Mikhail Khodorkovsky. Movers and shakers that wielded unimaginable power in the vacuous corridors of the pre-Putin Kremlin.

And although I had travelled widely and studied under an Emeritus Professor of Russian literature in London who had published extensively on Gogol and Dostoevsky and occasionally accompanied him to the Cathedral of the Dormition in Ennismore Gardens to celebrate Orthodox Christmas, nothing could have prepared me for the shabby sophistication of the museums, art galleries, and Italianate architecture of the Venice of the North, the granite-faced business mentality of Muscovites, or the burnt orange sunsets that gaped across the endless flat Steppe toward Omsk.

Rising attempts to capture some of the grandeur of that former Empire. It is a homage to St. Petersburg, a mist shrouded city of cobwebs that haunts you in much the same way as Mervyn Peake’s Gormenghast, once you have delved into its phantasmagoric underworld.

GJ: I can see it must have been a life-changing experience. Can you describe some of your activities and impressions of Russia?

FS: Russia is a land of incredible contrasts. Unimaginable wealth living side by side with extreme poverty; catastrophic rural depopulation juxtaposed with multi-billion urban construction projects like the glass towers and copper-colored shards of Moscow’s financial district; and overt commercial and governmental corruption set against acts of amazingly generous Christian piety. It is a truly exhilarating environment.

Some defining moments that I can readily recall are walking down Nevsky Prospekt and being completely overwhelmed by how homogenous the Slavic community still is in comparison to Western Europe and North America; being intellectually aware of Orthodox eschatology but still feeling surprised by the very real power and energy of resurgent religious practice; and if you will excuse my sexism, observing from a heterosexual red-blooded male perspective, the disproportionate number of attractive and slim women of child-bearing age, as they walked out of the underground stations in the cities or made their way from stall to stall in the market squares of the provincial towns and villages I occasionally visited.

Besides moshing to Arkona’s pagan riffs in concerts as far apart as Kiev and Lakewood, Ohio there were also moments of thoughtful reflection. I would stand by my friends as they filed in an orderly line to go into onion topped cathedrals, their smiling faces reflecting in the polished double-headed eagles hanging on the walls, congregating under the glistening chandeliers, crossing themselves when the chant of gospodi pomilui mixed with the crackle of wax candles and the tinkle of silver bells rose to the crescendo of ‘Vechnaia Pamiat,Vechnaia Pamiat!’ Placing flowers on the graves of the philosopher Ivan Alexandrovich Il’in and General Anton Denikin, head of the anti-Bolshevik White forces in Southern Russia during the Civil War, two figures representing the pen and sword of anti-Communism, now returned to their native soil after decades of exile. Honorable men who stood against Lenin’s doctrine of Mass Terror and the indiscriminate shooting by Cheka operatives of thousands of bourgeois hostages in the Petrograd and Kronstadt prisons; the containment of hundreds of thousands of dissidents in camps like that in Maykop, where women, children, and the elderly died of typhus, cholera, and starvation; the summary executions in Moscow, Tver, Nizhny-Novgorod, Vyatka, Perm, Tula, Odessa, Kharkov, and Kiev; the Decossakization of the Don and Kuban territories; the rounding-up of the Kulaks; and the plans to use asphyxiating gas against counter-revolutionaries in the forests around Tambov. People Lenin described as harmful insects, lice, vermin, and germs. Indicating the need to cleanse Russia of fleas, bugs, and parasites.

Inhuman crimes that continued well after the Civil War had petered out in 1921 and Lenin’s wax-like corpse lay embalmed in the Kremlin, climaxing in the extermination of the remnant of White sympathizers in the Crimea, the deliberate starving to death of at least four million Ukrainians in the Holdomor of 1932/33 under the direct supervision of Lazar Moiseyevich Kaganovich, and the construction of the Gulag system immortalized in the writings of Alexander Solzhenitsyn. In fact a body count that when you include the murderous activities of NKVD leaders like Nikolai Yezhov and Genrikh Grigoryevich Yagoda under the Stalin regime adds up to over 58,000,000 between 1922 and 1991. At least 100,000 of which were priests and nuns. Although still falling short of Mao Zedong’s estimated 73,000,000 victims, it makes an absolute mockery of fatuous claims by ‘court’ sponsored historians like Laurence Rees in his The Holocaust: A New History (2017) that the events in Central and Eastern Europe between 1939-45 were unprecedented and amount to the “most appalling atrocity in history.”

GJ: What are you trying to communicate about the Rightist Revolutionary demimonde?

FS: That it is we who hold the moral high ground, and we should continue to maintain that position against the lies, hypocrisy, and double-standards of the Left, liberals, and neoconservatives acting in the interests of the Robber-Baron globalist elites. It is we, not they, who are under constant attack by malign forces who are using every demographic, ethnic, financial, and politically correct artifice in their tool-box to first dispossess us of all that our civilization has accumulated over centuries and then eradicate us from our very homelands. Desperate attempts to deny individuals and groups advocating for whites and their constitutional and legal rights, efforts to disrupt funding streams to alternative media sites and the de-platforming of our spokespeople are symptomatic of the establishment’s anxiety and fear that our message is beginning to gain traction. Their response is reminiscent of the Soviet regime’s strategy to quell internal opposition in the dying days of communism. And if people think that is an exaggeration or an unfair comparison I would advise them to read Zhores Medvedev’s Ten Years After Ivan Denisovich (1973) and reflect on how different that is to the current situation in Russia. With Putin saying:

To forgive the terrorists is up to God. To send them to him is up to me!

And:

We see that many Euro-Atlantic states have taken the way where they deny or reject their own roots, including their Christian roots, which form the basis of Western Civilization. In these countries, the moral basis and any traditional identity is being denied. There, the politicians treat families with many children as equal to a homosexual partnership; faith in God as being equal to faith in Satan. The excesses and exaggerations of political correctness in these countries leads to serious consideration for the legitimization of parties that promote the propaganda of paedophilia.

And with the Metropolitan Hilarion Alfeev adding:

The fact is, the Catholic Church in the West exists today under an information blockade, under a very hard diktat from secular society. In this case we are without question allies. We can search together for the answer to those challenges which threaten the very existence of Christianity. I call it a strategic alliance between Orthodoxy and Catholics, that is the understanding that if there are threats, then these are common threats and if there are challenges, they are also common.

Dare we speak such truths in the West, shackled as we are by political correctness? And what would the media make of such statements? President Trump was literally shouted down at a press conference for merely pointing out that the Left had behaved violently at the recent Charlottesville debacle. What a reversal of fortune between the freedom of expression in the East and West. But having said that please do not think I am naïve enough to envisage Taras Bulba’s Cossacks riding over the horizon to save White Civilization. There is far too much suspicion and misunderstanding between Slav and Saxon for that. Rather, I see Russia as part of a larger geopolitical jigsaw, playing its part to protect, preserve, and extend a global commonwealth of independent white ethno-states that also ensures the autonomy of Baltic countries like Latvia, Lithuania, and Estonia as part of a broader Scandinavian confederation.

GJ: You comment extensively about Alexander Dugin’s philosophy in your interview with Daniel Macek on the New European Conservative website. Have you ever met Dugin and what are your current thoughts on his brand of Eurasianism?

FS: No, I have never met Dugin. I’m afraid I do not move in such exalted circles. Most of my Russian compatriots are devotees of his and have read his works like Putin vs Putin: Vladimir Putin Viewed From The Right (2014) in the original language. My Russian is too poor for that, so I am limited to the translated versions like those offered by Arktos. I see Dugin as very much part of a much longer tradition of thinkers and I would advise anyone coming to his works for the first time to familiarize themselves with L. N. Gumilev’s The Searches for an Imaginary Kingdom (The Legend of the Kingdom of Prester John) translated by R. E. F. Smith and published by Cambridge University Press (1987). A work in which the celebrated, if controversial historian, opens both the eyes and minds of the reader to the migrations and conflicts that have shaped Khazaria and the peoples and cultures living on the Eurasian steppe.

GJ: Do you in any way identify with the main character. Is the novel biographical?

FS: I think it is natural for a writer to draw to some extent on personal experience. I walked the streets, parks, and thoroughfares I write about in Rising, breathed the dry dusty air of the polluted backstreets, and drank shots of vodka in dimly lit bars listening to the dreams of young idealists. Remember what Joseph-Marie Comte de Maistre said “There is no man who desires as passionately as a Russian. If we could imprison Russian desire beneath a fortress, that fortress would explode.” I would agree. I loved every minute of it and would not change a thing. My head still spins with the excitement and hedonism, like fondly remembered moments of a misspent youth. Embracing Mokosh, the goddess of destiny and pumping my fists in the air when Masha the Scream sings “Rus Narodnyi!”

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dimanche, 17 septembre 2017

TERRE & PEUPLE Magazine n°72 - Hommage à Dominique Venner

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Communiqué de "Terre & Peuple-Wallonie" -

TERRE & PEUPLE Magazine n°72

Le numéro 72 de TERRE & PEUPLE Magazine est centré sur le message de notre maître et ami Dominique Venner, qui s'est sacrifié le 21 mai 2013 pour que nous nous maintenions en éveil.  A cet appel, nous répondons : « Présent. »

Dans son éditorial intitulé 'Le poison libéral', Pierre Vial recadre et met en relief la réflexion que Michel Onfray, philosophe inclassable, a confiée à Valeurs Actuelles sur Macron : « produit d'appel du grand capital vendu avec ses méthode marketing », « marionnette de l'Etat maastrichien placée sur le trône ».  Il était temps -car un vent de révolte se levait sur la République- et les larbins des media sont radieux, avec une pointe d'inquiétude.  En effet, le triomphe libéral est fondé sur 67,3% d'abstentions ou bulletins blancs ou nuls.  Et, sur 573 députés, les 444 élus REM le sont par moins de 25% des électeurs.  La Corse, avec ses trois élus nationaux, montre la voie qui prime : celle de la survie de l'identité.

Jean-Pierre Dereu se fonde sur le tout récent film germano-danois Under Sandet (Les oubliés) pour nous rappeler le devoir de mémoire du martyr des vaincus, ici les milliers de très jeunes (15 à 18 ans) soldats allemands faits prisonniers dans les derniers jours de la guerre et utilisés ensuite, au mépris superbe de la Convention de Genève qui interdit toute exploitation des militaires prisonniers, notamment pour le déminage !  Le film les montre réels, vulnérables et transis d'effroi.  Plus de mille seront gravement mutilés, quand ils n'auront pas perdu la vie.  L'auteur de l'article renvoie au documentaire Quand les Allemands reconstruisaient la France, eux aussi des soldats prisonniers de guerre.  La guerre étant alors finie, plus de vingt mille y laisseront leur vie !  Les mutilés n'ont même pas été répertoriés.

Jean-Patrick Arteault esquisse le portrait de Jean Monnet, puissance et domination qui trône dans l'empyrée du mondialisme occidental et est, dans le même temps, un illustre inconnu.  Qui sait qu'il a animé la reconstruction de l'économie française dans l'immédiat après-guerre et conseillé Roosevelt durant celle-ci et qu'il a été, au nom des Américains, le numéro 2 de la Société des Nations.  C'est lui qui a décidé de rester dans l'ombre, conscient que le vrai pouvoir ne s'expose pas à la lumière.  Né en Charente dans une famille de la bourgeoisie moyenne, il a été un élève intelligent, mais indiscipliné, qui n'a même pas décroché le bac !.  Son père, producteur de cognac, l'envoie en 1904 en apprentissage auprès d'un contact commercial londonien.  Il est heureusement réformé quand éclate la guerre, en août 1914. Il n'a alors que 26 ans, mais obtient aussitôt du président du Conseil René Viviani un rendez-vous , pour lui suggérer un plan d'approvisionnement unitaire franco-britannique, qui est aussitôt approuvé !  Ce prodige s'explique par les liens de confiance et d'amitié qu'il a su nouer, au cours de la décennie écoulée, avec de jeunes aristocrates anglais.  Ceux-ci, membres de structures philosophico-politiques telles que la fondation de Cecil Rhodes ou le 'Kindergarten' de Lord Alfred Milner, s'estimaient investis d'une mission quasi-messianique d'éduquer, dans le cadre d'une société ouverte (open society !), les peuples du monde entier à la culture anglo-saxonne (on notera que les deux Clinton ont tous deux été des boursiers Rhodes).   Très lié au mouvement pan-européen du comte Coudenhove-Kalergi, il va, au cours de sa période bancaire à Wall Street entre 1920 et 1940, passer d'un engagement pro-Britannique à un engagement pro-américain.  Commissaire général au Plan, il va devenir l'homme de l'américanisation de l'économie française et, ensuite, l'inspirateur des Communautés européennes conformes aux intérêts américains et à la pensée du mondialisme occidentaliste.

Avec sa générosité coutumière, Claude Valsardieu gratifie les lecteurs par une substantielle explication, richement documentée, des bonnes raisons pour lesquelles certains se sont choisi sainte Barbe comme patronne.  Il s'agit notamment des mineurs de fond ou encore des pompiers et de ceux qui protègent contre le feu néfaste, mais aussi des métallurgistes et autres manipulateurs du feu purificateur, tels les artilleurs.  C'est pour ces mêmes raisons sans doute que l'Eglise conciliaire se montre réticente à l'endroit de cette sympathique personnalité.  Un de ses attributs est une tour, que les alchimistes voient comme l'inverse de la cavité d'un puits.  L'auteur remarque que celui de la crypte de la cathédrale de Chartres, puits celtique, s'enfonce à 39 mètres et se trouve représenté sur le portail nord sous la forme d'une tour ronde, alors que, dans cette crypte, se tient encore une barbare vierge noire appelée Notre-Dame-de-Dessous-Terre.  Il n'y a pas lieu de s'étonner que soient évoquées plus loin les gravures rupestres de la Vallée des Merveilles, dans le parc du Mercantour.  Un autre attribut de sainte Barbe est sa couronne, où notre ami retrouve les consonnes de Kronos, et celles de cairn, et même celles de Coran !

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Claude Perrin remarque que ses quelques dizaines de millénaires d'occupation de la planète par l'Homo Sapiens Sapiens (qui sait qu'il sait) n'en font pas le propriétaire définitif, quand on note que les dinosaures l'ont tenue 150 millions d'années.  Des civilisations antiques, qui ont rayonné des siècles, sont aujourd'hui ensevelies dans les sables de déserts.  L'humain paraît destiné à disparaître, non pas à cause de la surproduction de CO², mais par la destruction, voire l'extinction, d'espèces végétales et animales, qu'il cause à un rythme sans cesse accéléré par la surconsommation et le gaspillages et par une explosion démographique.

Rappelant que le 21 mai est désormais la date de commémoration du geste sacrificiel de Dominique Venner, Pierre Vial introduit le dossier central qui lui est consacré avec une citation tirée du livre de Dominique Venner 'Histoire et tradition des Européens' : « Vivre selon la tradition, c'est se conformer à l'idéal qu'elle incarne, cultiver l'excellence par rapport à sa nature, retrouver ses racines, transmettre l'héritage, être solidaire des siens.  Cela veut dire également chasser de soi le nihilisme, même si l'on sacrifie en apparence aux normes pratiques d'une société qui lui est asservie par le désir.  Cela implique une certaine frugalité afin de se libérer des chaînes de la consommation.  Cela signifie retrouver la perception poétique du sacré dans la nature, l'amour, la famille, le plaisir et l'action. »

Claude Jaffres évoque Dominique Venner « jeune et charismatique chef de guerre » qu'il a côtoyé au sein du Mouvement Jeune Nation, un grand frère qui était soucieux qu'on comprenne le sens profond du combat mené, un combat avant tout politique, malgré la dimension militaire qu'il a parfois été amené à prendre.  Témoin des derniers temps, il s'émerveille que Dominique Venner ait su « garder la vertu de jeunesse ».

Alain Cagnat retrace l'histoire, au début des années '60, de la fondation de la revue Europe Action par Dominique Venner en collaboration avec Jean Mabire.  C'est le temps où les gaullistes, appelés au pouvoir pour sauver l'Algérie française, viennent de la larguer au prix du sang des Pieds-noirs et des Harkis.  L'un comme l'autre ont fait la guerre en première ligne. Venner a fait de la prison comme membre de l'OAS.  Pour lui, n'est légitime que le pouvoir qui respecte les lois non-écrites de la Nation révélées par l'histoire.  Ce sont ses buts qui caractérisent une révolution.  Les moyens utilisés sont fonction des circonstances.  Il croit, comme Georges Sorel, qu'il n'y a pas de révolution sans violence.  Celle-ci nous restitue à nous-mêmes.  Il fallait plus d'audace pour crier Europe Action à Saint-Denis que pour voyager dans l'espace.  La somme de sang et d'effort consentis exige le succès complet et durable.  Pour Jean Mabire, rédacteur en chef, le nationaliste révolutionnaire doit être bien conscient de

la réalité actuelle, « car l'histoire ne repasse jamais les plats ».  Dans un opuscule qu'il a rédigé en prison, Dominique Venner dénonçait déjà le penchant à la mythomanie de nombre de militants identitaires : « La révolution n'est pas un bal costumé. »  Il dénonçait « la dictature hypocrite du capitalisme international sur les démocraties d'Occident», au profit d'une caste nombreuse de privilégiés liés par la complicité, qui monopolisent le pouvoir politique et économique, sous couvert d'une démocratie qui est « le nouvel opium des peuples ».  Il est le premier à démasquer l'entreprise délibérée de destruction des Européens blancs par leur auto-culpabilisation : « Celui qui prêche l'amour de l'agresseur (Ils n'auront pas ma haine.) n'est pas un moraliste, mais un complice. »  Dans le même temps, Jean Mabire stigmatise, dans la liberté promise dans « l'empire mondial, universaliste et indifférencié », la plus gigantesque des tyrannies, empressée d'effacer la longue mémoire de l'identité.  Dès 1964, Dominique Venner désigne l'immigration comme l'arme fatale dirigée contre les peuples blancs, dont la démographie faiblit.  Le plan, mûrement concerté des groupes financier (qui dissimulent mal derrière des idéaux prétendument humanistes de liberté et de décolonisation leur unique objectif d'accélérer la croissance de leur puissance) est de dissoudre l'identité des peuples européens, arrogants et exigeants, « dans un grand brassage universel ».  En 1966, Jean Mabire écrit : « Des masses innombrables attendent dans l'ombre des continents exotiques l'heure de la vengeance.  Ils n'en veulent pas seulement à nos empires.  Ils en veulent d'abord à nos consciences, à notre volonté de vivre et de lutter contre le monde entier, même sans armes et même sans amis. »   Dans le numéro 47 d'Europe Action, Dominique Venner, qui pensait être devenu inaccessible au désespoir, laissait déjà un testament : « L'homme libre qui veut le rester, ou mieux le devenir et assurer la liberté de sa descendance, est voué à se battre sur tous les fronts, celui de la connaissance, de l'art, de la pensée, de la politique. (...) Nous savons bien qu'un noyau homogène, habile, tenace et audacieux peut tout espérer, car son gigantesque adversaire est atteint par son propre poison : la désintégration. »

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Pour situer la dimension mystique de l'ordre de chevalerie que postule Dominique Venner, Pierre Vial cite 'Balticum'(Laffont, 1974) et l'épopée des Corps Francs (1918-1923), les volontaires qui ont su préserver l'Allemagne de la vague rouge des bolcheviques.  Il témoigne que, en 1958, Dominique Venner avait tout d'un chef de Corps Franc, d'un pêcheur d'âmes : Pierre Vial, qui avait alors 15 ans, avait écrit une lettre enthousiaste à la revue 'Jeune Nation'.  Il n'escomptait pas une réponse et avait été surpris que Venner fasse le déplacement et, après l'avoir sondé, sorte une liasse de journaux et se mette, en plein centre de Lyon, à crier à tue-tête : « Jeune Nation pour l'Algérie française, contre De Gaulle, contre le système ».  Coupant ainsi avec ses réflexes bourgeois, il lui a montré l'exemple du militantisme de terrain.  Selon la tradition guerrière, le chef passe le premier.  C'est l'éthique du chevalier, celui qui figure en couverture de son livre-testament 'Un samouraï d'occident', le Chevalier, la Mort et le Diable, de Dürer.  Fraternité guerrière initiatique, la chevalerie s'est développée dans un moyen-âge où la culture est une synthèse des traditions grecque, romaine, celte et germanique dans un syncrétisme pagano-chrétien.  La caution morale et religieuse de la Milice du Temple est saint Bernard de Clervaux, qui définit la vocation des Templiers à réunir les fonction de la prière et de la guerre, la guerre juste où tuer n'est pas homicide, mais malicide.  Mais la guerre, totale, n'est pas que militaire et économique, elle est aussi idéologique et culturelle, c'est pourquoi Dominique Venner a choisi d'appliquer l'essentiel de son énergie au levier qu'est l'histoire : « J'étais voué à l'épée.  Il en est sûrement resté quelque chose dans l'acier de ma plume. »  Il l'a mise au service des deux revues qu'il a fondées, 'Enquête sur l'histoire' et 'La nouvelle revue d'histoire'.  Pierre Vial révèle que, avec ses voeux pour la nouvelle année 2013, Dominique Venner lui a confié : « En cette année 2013 se posera une nouvelle fois pour moi la question 'Que faire,'.  Mais je connais la réponse.  Elle sera en accord avec ce qui a soudé notre amitié combattante. »  L'Institut Iliade s'est donné pour mission de transmettre l'héritage de Dominique Venner.

Llorenç Perrié Albanell souligne le caractère agraire et aristocratique de la société des états sudistes américains.  Il en fait un peuple antinomique de celui des états nordiste, avec une morale de l'honneur et de la responsabilité du fort à l'égard du faible (auquel le nordiste dit : « Sois libre... et que le diable t'emporte ! »).  La prohibition de l'esclavage n'est que le prétexte de la guerre civile du Nord industriel, préfigurant le capitalisme débridé, contre le Sud agricole, attaché aux valeurs traditionnelles.  L'élection de Lincoln mettra le feu aux poudres.  Le génie militaire du général Lee, qui osera marcher sur Washington, donnera même une chance de victoire aux sudistes.  Le premier Ku Klux Klan mènera d'utiles opérations de représailles contre les occupants et leurs kollabos.  Dans 'Le blanc soleil des vaincus', Dominique Venner professe que si « le Sud est mort, il continue de vivre dans le coeur des hommes généreux. »

Robert Dragan effeuille 'Le coeur rebelle', récit autobiographique de la jeunesse de Dominique Venner (1935-1960).  Enfant de bonne famille, qui a vécu la guerre, il fugue à 14 ans pour rejoindre la Légion, à l'instar d'Ernst Jünger.  Au cours de la guerre d'Algérie, il monte l'opération Gerfaut, un coup de main armé sur l'Elysée.  En 1956, il anime le raid sur le siège parisien du tout-puissant parti communiste, lors de l'insurrection de Budapest.  Démobilisé, il devient combattant de rue pour l'Algérie française.  Les effectifs sont squelettiques (2 contre 10), pour des raids éclairs, dans « une petite guerre féodale, sans batailles rangées ni beaucoup de morts, une petite guerre qui s'était trompée de siècle », ou on a la révélation de l'imposture et de la calomnie.  « Défendant nos berceaux et nos cimetières, nous menions une guerre cent fois plus juste qu'en 1914 et en 1939. »  Il ressent la décolonisation  comme « un phénomène essentiellement raciste : chasser le Blanc. »  Sa violence est née de sa souffrance à voir son pays cultiver la bassesse et abandonner les siens.  Robert Dragan confie que le retrait de Dominique Venner dans le seul combat culturel, avec comme objectif de réveiller l'Europe de sa dormition, posture d'observateur, l'a plusieurs fois « énervé », ses écrits paraissant propres à endormir les lecteurs plutôt qu'à réveiller sa résistance.  Mais, à l'écart de la médiocrité du combat politique, on doit à nouveau évoquer Jünger et la position de l'anarque :  nous servons à dire la vérité qui rend libre.

Roberto Fiorini fait parler deux camarades qui ont entrepris de présenter sur leur blog et sur leur compte Facebook, à la manière de Zentropa (une image et un petit texte), l'oeuvre et la personne de Dominique Venner.  Ils soulignent d'abord que son choix de la cathédrale comme lieu de son sacrifice, loin d'être une profanation, est une 'devotio', une re-sacralisation pour réveiller notre résistance.  Pour soutenir le message de l'ouvrage posthume de Dominique Venner 'Un samouraï d'Occident, bréviaire d'un insoumis', ils ont trouvé d'admirables images, certains concepts, tels que l'excellence, leur posant plus de problèmes que d'autres, tels que la beauté, la nature, la forêt.  Nombre d'images sont miraculeusement expressives de leur texte.  Ce numéro de TP Magazine en reproduit une vingtaine et invite à aller en admirer et méditer d'autres sur http://breviaireduninsoumis.tumblr.com/ et www.facebook.com/breviaireduninsoumis/?fref-ts

samedi, 16 septembre 2017

Sur l'Europe: le dernier livre de Georges Feltin-Tracol

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Sur l'Europe: le dernier livre de Georges Feltin-Tracol

En trois quarts de siècle, le projet européen en partie formulé par les milieux non-conformistes de l’Entre-deux-guerres est devenu un cauchemar pour les peuples du Vieux Continent. Dans le cadre d’une mondialisation désormais illimitée, les sectateurs mondialistes de l’actuelle imposture européenne ne cachent même plus leur volonté d’intégrer au plus vite cet espace dans un ensemble planétaire global.

Cette terrible désillusion favorise le souverainisme national et les
revendications régionalistes. Faut-il pour autant rejeter toute idée européenne?

Non, affirme Georges Feltin-Tracol qui en appelle à une salutaire lucidité.
Ancien animateur de la revue L’Esprit européen et collaborateur naguère à Éléments pour la civilisation européenne, ce Français d’Europe (ou Européen de France) considère que l’Europe n’est pas ouvert aux populations du monde entier, mais l’héritage des peuples boréens. Se détournant à la fois de l’État-nation dépassé, du mondialisme mortifère et d’un altermondialisme parodique, il envisage un autre défi continental, soucieux de la personnalité historique de ses cultures et susceptible d’assumer un destin de puissance géopolitique.

Contribution révolutionnaire pro-européenne à la grande guerre des idées, ce recueil d’articles, d’entretiens, de conférences et de recensions démontre la persistance d’un authentique esprit européen, surtout si de nouvelles chevaleries militantes surgies des communautés populaires enracinées relèvent le nouvel enjeu civilisationnel du XXIe siècle : maintenir la spécificité albo-européenne. Pendant que se prolonge l’éclipse de l’Europe, c’est dans la pénombre que s’esquissent quelques jalons fondamentaux d’une nouvelle Europe polaire, fière et solsticiale.

Pour commander l'ouvrage:

http://www.ladiffusiondulore.fr/home/669-l-europe-pas-le-...

Né en 1970, collaborateur aux revues dissidentes Réfléchir & Agir et Synthèse nationale, rédacteur en chef et co-fondateur du site identitaire de langue française Europe Maxima, présent sur des sites Internet rebelles comme EuroLibertés, Georges Feltin-Tracol est aussi conférencier, chroniqueur radio et essayiste.
Auteur, seul ou en collaboration, d’une dizaine d’ouvrages, il a publié en 2016 aux Éditions du Lore Éléments pour une pensée extrême.

mercredi, 13 septembre 2017

Nieuw verschijnsel in Duitsland: intellectuelen die openlijk zeggen ‘rechts’ te zijn

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Götz Kubitschek thuis in zijn werkkamer, Duitsland © Sven Doring / Agency Focus / HH

Nieuw verschijnsel in Duitsland: intellectuelen die openlijk zeggen ‘rechts’ te zijn

Duitse ondergangsdenkers

‘Alleen barbaren kunnen zich verdedigen’

Een nieuw verschijnsel in Duitsland: intellectuelen die openlijk zeggen ‘rechts’ te zijn, rechtser dan de CDU, wat tot voor kort taboe was. ‘Ik voel dat echt, de ondergang van de Duitse cultuur.’

Laat het duidelijk zijn, zegt filosoof Marc Jongen, leerling van Peter Sloterdijk en over drie weken hoogstwaarschijnlijk politicus voor de AfD in het Duitse parlement: ‘We bevinden ons in een cultuurstrijd, met ons eigen overleven als inzet.’ Zacht, bedachtzaam spreekt de 49-jarige Jongen op dit terrasje in het rustieke Karlsruhe. Ver weg lijken de woedende leuzen die de aanhangers van zijn partij, de Duitse variant van de Nederlandse pvv en het Franse Front National, op bijeenkomsten scanderen, tegen Angela Merkel, tegen haar vluchtelingenbeleid. Maar, zegt Jongen: ‘Ik voel dat echt, de ondergang van de Duitse cultuur. We kunnen er nu nog iets tegen doen.’

Het is snel gegaan. Jongen was de afgelopen jaren een onbekende docent filosofie op de Hochschule für Gestaltung, even verderop. Hij schreef zijn proefschrift bij Peter Sloterdijk, Duitslands bekendste levende filosoof en tot 2015 rector van de HfG, onder de zeer academische titel Nichtvergessenheit: Tradition und Wahrheit im transhistorischen Äon (2009). Enkele jaren was hij ook Sloterdijks assistent.

Alles werd anders in 2013, toen Jongen als reactie op Merkels Europa-beleid besloot zich bij de Alternative für Deutschland te melden. Inmiddels is hij woordvoerder van de partij in de deelstaat Baden-Württemberg en wordt hij in de Duitse media groots als de ‘partijfilosoof van de AfD’ betiteld. Hij werkt aan een boek, dat de cultuurfilosofische basis van zijn politieke werk moet leveren, natuurlijk over de dreigende ‘ondergang van de Duitse cultuur’. Door zijn hoge plaats op de landelijke lijst denkt hij zeker te zijn van een plek in de Bondsdag. In de peilingen staat de AfD tussen de acht en tien procent. Ook diverse schandalen hebben dat niet veranderd, zoals net nog de uitspraak van partijleider Alexander Gauland over een Turks-Duitse staatssecretaris die wat hem betreft wel in ‘Anatolië entsorgt kon worden’, omdat ze gezegd had dat de Duitse cultuur op de taal na niet bestaat – Gaulands woordgebruik was volgens veel commentatoren ontleend aan het nazisme.

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Voor Nederlandse begrippen is dat percentage niet opzienbarend, maar voor Duitsland is het een harde breuk met de strengste ongeschreven regel van het parlement sinds de oprichting in 1949: een partij ‘rechts van de cdu’ dient, na de ervaring met het nationaal-socialisme, boven alles vermeden te worden.

Dat het nu anders loopt, heeft direct te maken met de vluchtelingencrisis van 2015, zegt Jongen, dat ‘trauma’ voor de hedendaagse Duitse samenleving: ‘Het binnendringen van cultuur-vreemde mensen was een psycho-politieke geweldsdaad, als in een oorlog.’ Maar in plaats van dat de Duitse politiek de burgers ertegen beschermde, bespeurt hij eerder een vorm van ‘resignatie’. Anderen moeten daarom de verdediging van Duitsland op zich nemen, zoals hijzelf, al is hij pas sinds 2011 Duits staatsburger. Hij is opgegroeid in Duitstalig Zuid-Tirol, was van moederszijde half Italiaans, van vaderszijde Nederlander.

Jongen past bij een nieuw fenomeen in de Duitse openbaarheid: een intellectueel die openlijk zegt ‘rechts’ te zijn, een bekentenis die nog geen drie jaar geleden onmogelijk zou zijn geweest. Je zou hen de Thierry Baudets van Duitsland kunnen noemen, of een vorm van Duitse alt-right, maar al deze varianten hebben zo hun eigen tradities, woordgebruik en gevoeligheden.

Een paar maanden geleden hield Jongen een lezing bij het ‘Instituut voor Staatspolitiek’ in het Oost-Duitse dorpje Schnellroda. Dit ‘instituut’ is in feite een soort huiskamerinitiatief dat afgelopen jaren is uitgegroeid tot het symbolische trefpunt van allerlei Duitse publicisten en activisten die zich ‘nieuw-rechts’ noemen. De bijeenkomsten worden georganiseerd door Götz Kubitschek, uitgever, publicist, officier van de Bundeswehr-reservisten, en zijn vrouw Ellen Kositza, publicist en zelfverklaard ‘rechts feministe’. Hun levensstijl hebben ze volledig aan de eigen cultuurtheorie aangepast. Het zijn zelfverzorgers, ze hoeden geiten en verbouwen groenten. Ze hebben zeven kinderen, die ‘oud-Germaanse namen’ als Brunhilde dragen, zoals het groeiend aantal media dat over het paar bericht niet nalaat te vermelden.

Kubitschek is al vijftien jaar actief, eerst als auteur, daarna als uitgever, Pegida-spreker en AfD-ondersteuner. Maar pas deze zomer beleefde hij zijn nationale finest hour, al hielp het toeval ook een handje mee. Een Spiegel-journalist plaatste als jurylid het boek Finis Germania, ‘Het einde van Duitsland’, op een eerbiedwaardige landelijke lijst van ‘boeken van de maand’. Het boek is geschreven door de historicus Rolf Peter Sieferle, en uitgegeven door Kubitschek.

Sieferle, die in 2016 stierf, gold tot voor kort als een gerespecteerd professor, historicus van de milieubeweging, van de ‘conservatieve revolutie’ in de jaren twintig, en later ook auteur over migratie. Het nagelaten Finis Germania is een verzameling notities en aforismen waarin hij de omgang van Duitsland met de eigen cultuur beklaagt, evenals de dominante positie van Auschwitz in de nationale identiteitsvorming.

Nog geen week later verwijderde de Spiegel-hoofdredactie het boek van haar eigen bestsellerlijst, waar het inmiddels op terecht was gekomen. Het zou ‘rechts-radicaal, antisemitisch en revisionistisch’ zijn. Ook ster-politicoloog Herfried Münkler beschuldigde Sieferle ervan Auschwitz te relativeren. De landelijke cultuurjournalistiek stortte zich erop, en door het schandaal kwam Finis Germania op Amazon Duitsland op de eerste plaats van best verkochte non-fictieboeken – en Schnellroda werd en masse door de pers opgezocht.

Duitsland is niet bereid, ‘zoals het voor een cultuurnatie eigenlijk logisch zou moeten zijn, het eigene te beschermen’

Een Rittergut noemen Kubitschek en Kositza hun groot uitgevallen boerderij. De term is historisch juist, maar past vooral bij de zwaarmoedig-nostalgische boodschap over de ‘naderende ondergang van de Duitse cultuur’ die men hier uitdraagt. Niet toevallig heeft Kubitschek zijn uitgeverij Antaios genoemd. Antaios is de naam van een reus uit de Griekse mythologie die, voordat hij door Hercules werd verslagen, het land van de Berbers tegen de vreemdelingen beschermde. Schrijver Ernst Jünger had in de jaren vijftig zijn tijdschrift zo genoemd.

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Met dergelijke verwijzingen echoot bij Kubitschek heel bewust een intellectuele traditie die in het openbare Duitse debat lang vergeten leek: de ‘conservatieve revolutie’ uit de jaren twintig. Hiertoe worden onder anderen auteurs als Ernst Jünger gerekend, die militarisme en een elitaire levensinstelling verheerlijkte, en Oswald Spengler met Die Untergang des Abendlandes. Ze zijn in het hedendaagse Duitsland uiterst omstreden, omdat ze de fascisten in de kaart zouden hebben gespeeld. Dit blijft nog steeds het belangrijkste argument tegen denkers die ‘conservatieve posities’ zeggen in te nemen.

In de 21ste eeuw was de politicus Thilo Sarrazin de eerste – en nog steeds de meest succesvolle – die bij de traditie van Duits ondergangsdenken aansloot. Hij constateerde de ‘afschaffing van Duitsland’ door de toename van het aantal moslims in Duitsland. Sarrazin werd in media en politiek unaniem verketterd, maar zag zichzelf als sociaal-democraat, en wees iedere band met nieuw-rechts af.

Sinds de vluchtelingencrisis is het debat echter voorzichtig losgebroken, vooral omdat het werd aangevuurd door meerdere respectabele intellectuelen. Schrijver Botho Strauß, al decennia bekennend anti-modernist, schreef een artikel over ‘De laatste Duitser’, waarin hij de ‘steeds heerszuchtiger wordende politiek-morele conformiteiten’ aanviel. Rüdiger Safranski, de gelauwerde kenner van Goethe en Schiller, keerde zich tegen het beleid van Merkel. En Peter Sloterdijk sprak van ‘Überrollung’ van Duitsland door de vluchtelingen en noemde de media een ‘Lügenäther’.

Götz Kubitschek lijkt zichzelf als een soort activistische schakel te zien tussen de Wutbürger van Pegida en de intellectueel-conservatieve traditie in Duitsland. Hij praat al even bedachtzaam als Marc Jongen, ook met een licht zuidelijk accent (Swaabs), maar kiest nog scherpere woorden. Voor Kubitschek bevindt Duitsland zich in een ‘geestelijke burgeroorlog’. De Duitsers zijn decadent geworden, schrijft hij in zijn boek Provokation (2007), ze moeten weer barbaren worden, want ‘alleen barbaren kunnen zich verdedigen’, zoals volgens hem Nietzsche gezegd zou hebben, die andere inspiratiebron van nieuw-rechts.

Alleen teksten zijn Kubitschek niet genoeg als remedie. Graag geziene gast in Schnellroda is Martin Sellner, de 29-jarige voorman van de Oostenrijkse Identitäre Bewegung. Sellner, student filosofie, is bedenker van inmiddels beruchte acties zoals de verstoring van een toneelstuk over vluchtelingen van Elfriede Jelinek in Wenen. Ook hij heeft bij Antaios een boek uitgegeven: Identitär! De Identitäre Bewegung is vorig jaar door de Duitse inlichtingendienst als ‘extreem-rechts’ ingeschaald, onder andere door haar mogelijke invloed op gewelddadige radicalen. Tot voor kort ontkenden daarom AfD’ers die nog vooruit wilden in de Duitse politiek iets te maken te hebben met het instituut van Kubitschek.

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Dat is nu voorbij. AfD’ers uit de deelstaat Saksen-Anhalt laten zich openlijk door Kubitschek adviseren en Jongen trad zonder problemen op dezelfde middag in Schnellroda op als Sellner. Sellners strijdbare taal is ook bij Jongen te horen. Een ‘avant-gardistisch conservatief’ noemt Jongen zich. Een paradox, waarmee hij wil aangeven dat hij een ‘revolutie van rechts’ beoogt, niet met geweld, maar in de mentaliteit van zijn landgenoten.

Jongen wil naar een ander tafeltje. Andere gasten op het terras zijn te dichtbij komen zitten. Hij kan dan niet meer vrij praten, is zijn ervaring. Hij wijst op de posters van de AfD in Karlsruhe, die voor het merendeel verscheurd of beklad zijn. Sterker: ook hij mag zijn mening niet eens verkondigen, meerdere keren zijn openbare debatten na protesten afgezegd. Voor Jongen is dit tekenend voor het ‘Merkel-regime’. Het intellectuele klimaat in Duitsland ziet hij als ‘onder een dictatuur in de twintigste eeuw’ – een links-liberale dominantie. Net als andere AfD-politici ziet hij dat als een gevolg van een ‘door 68’ers besmet Duitsland’. De sluipende verlinksing van het land eind jaren zestig is geculmineerd in een ‘conservatieve kanselier die radicaal-linkse beslissingen heeft genomen’.

Toen de AfD in 2016 op vijftien procent in de peilingen stond, klopten links-liberale bladen als Die Zeit en de Süddeutsche Zeitung toch gefascineerd bij hem aan voor uitgebreide interviews. Maar die opening is nu, vlak voor de verkiezingen, weer gesloten, meent Jongen: ‘Juist omdat ik genuanceerd ben, word ik van “geraffineerde demagogie” beschuldigd. Maar men wordt slechts boos op de brenger van de slechte boodschap.’ De kiezers in Duitsland leven volgens hem in een ‘illusie’ dat alles wel goed komt. Het land is een ‘Lethargocratie’ geworden, citeert hij zijn voormalige chef Sloterdijk. De shock van de vluchtelingen dringt daardoor niet in de bewuste regionen door. Over hun integratie wordt in de Duitse politiek en media niet eens meer gedebatteerd.

De stilte sterkt Jongen in zijn diagnose. Veel Duitsers lijken zelfs ‘blij te zijn dat hun Duits-zijn wordt uitgewist’, zegt hij. Duitsland is niet meer bereid, zegt hij, ‘zoals het voor een cultuurnatie eigenlijk logisch zou moeten zijn, het eigene te beschermen en te verdedigen, veel meer stelt men in een overdreven, neurotisch humanitarisme het vreemde tegenover het eigene’.

‘Multiculturalisme schept een machtsvacuüm, en dat zou betekenen dat de sterkste de macht kan grijpen: de islam’

Hij heeft er een filosofisch woord voor. Duitsland heeft naast ‘logos’ en ‘eros’ ook ‘thymos’ nodig. ‘Thymos’, ook een begrip van Sloterdijk, kun je negatief met ‘woede’ vertalen, maar ook met ‘zelfbewustzijn’ en ‘trots’. Het Duitse gebrek hieraan is een gevolg van het schuldcomplex van de holocaust. Bij zijn lezing in Schnellroda stelde Jongen daarom voor dat ‘het land aan een training wordt onderworpen die de thymos weer op peil brengt, die noodzakelijk is om te overleven’.

Vandaag op het terrasje zegt hij het meer politiek: Duitsland moet een ‘Leitkultur’ voorop stellen, in plaats van ‘multiculturalisme’. ‘Multiculturalisme schept een lege ruimte, een machtsvacuüm, en dat zou betekenen dat de sterkste de macht kan grijpen: de islam, die politieke religie.’ Zijn voorbeelden: in sommige Duitse schoolkantines wordt geen varkensvlees meer aangeboden, vanwege islamitische leerlingen; de kerstmarkt in het multiculturele Berlijn-Kreuzberg heet geen kerstmarkt meer, maar ‘wintermarkt’.

Eigenlijk had Jongen voor het gesprek over de Leitkultur een oer-Duits ‘Gasthaus’ voorgesteld, met Maultaschen-soep op het menu en genoemd naar een grote historische zestiende-eeuwse Duitser. Maar het Gasthaus bleek op zondag dicht, alleen de Italiaan op de hoek (met Poolse bediening) blijkt open. Geeft niet, zegt Jongen – culinaire versmelting, hard werkende migranten, dat is allemaal het probleem niet – een ‘kitschige situatie’ wil hij niet scheppen. Europa heeft altijd een ‘fascinatie voor het exotische’ gehad, hijzelf heeft dat ook, hij heeft zich in Sanskriet verdiept, hij was in India. ‘Maar na de uitstapjes naar het vreemde moet je ook weer terug naar het eigene kunnen komen.’ Er is een punt bereikt waar het evenwicht weg is. ‘Het eigene wordt weggedrukt door te veel vreemde invloeden.’

Hoewel meerdere cdu-politici precies hetzelfde zeggen, heeft de cdu volgens Jongen alleen maar een ‘verwaterde’ opvatting van Leitkultur in de aanbieding. De AfD is compromislozer, vindt hij, vooral ten opzichte van de islam, die volgens hem niet, zoals Merkel vindt, ‘bij Duitsland hoort’. Jongen zegt zich niet per definitie met de aanpak van Geert Wilders – of Donald Trump – verwant te voelen, maar wel wat betreft de posities tegenover de islam.

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Wat die ‘Duitse cultuur’ dan wel precies is, blijkt minder makkelijk te formuleren. Jongen noemt westerse ‘man-vrouw-verhoudingen’ en ‘christendom’. Maar dat is natuurlijk niet typisch Duits. ‘Auschwitz is de kern van de Duitse identiteit’, zei Joschka Fischer ooit. Het is dan ook precies dit heetste hangijzer van de Duitse geschiedenis dat de AfD ‘ruimer’ wil gaan zien. De nationale identificatie is te veel op dit ene moment blijven steken, zegt Jongen. Niet meer iedere schoolklas moet naar een concentratiekamp op bezoek. In Zuid-Tirol leerde hij op school toch ook gewoon over Auschwitz, zonder dat men zich daar zélf schuldig over hoefde te voelen? De blik op de Duitse geschiedenis moet breder worden. Met andere woorden: een positief zelfbeeld moet voorop komen te staan, ‘want zonder dat is iedere integratie van migranten onmogelijk’.

Nog specifieker over de ‘Duitse cultuur’ werd Jongen onlangs op een lezing voor AfD-aanhangers in Karlsruhe: ‘Duitsland is geen land voor iedereen, maar van het Duitse volk’, zei hij daar. In het AfD-partijprogramma wordt dit concreet: niet iedereen mag van de AfD meer zomaar Duitser worden. De partij wil de soepele Duitse regeling rond het staatsburgerschap uit 2000 terugdraaien. Afstamming van Duitse ouders wordt weer bepalend of je bij het Duitse volk hoort. En, als het aan politici als Gauland ligt, kunnen burgers ‘mit Migrationshintergrund’ met een gebrek aan respect voor die cultuur ook het land worden uitgezet.

De theorie van nieuw-rechts steunt hiermee op oude begrippen, zoals Die Zeit onlangs schreef: ‘gemeenschap’ staat tegenover ‘samenleving’, ‘natie’ tegenover ‘globalisering’ en het diepe ‘Kultur’ tegenover het oppervlakkige ‘Zivilisation’. Maar Jongen haast zich erbij te zeggen dat het niet, zoals bij ‘oud-rechts’, om ‘nationalisme’ gaat dat superioriteit tegenover anderen impliceert, maar om ‘patriottisme’.

Met deze cultuuropvatting past de AfD goed bij andere nieuw-rechtse bewegingen. Het oorspronkelijk Franse begrip ‘etnopluralisme’ wordt hierbij vaak aangehaald. ‘Etnopluralisme betekent dat we de culturele uitdrukking van de anderen waarderen, en niet van plan zijn op de een of andere manier missionarisch, bepalend of vormend te willen zijn’, zegt Götz Kubitschek in een interview. ‘Deze houding impliceert dat men hoopt dat de anderen ook etnopluralistisch zijn en ons met rust laten.’ Maar al is vermenging aan de grenzen van culturen mogelijk, zegt Kubitschek, die zelf afstamt van Poolse migranten uit de negentiende eeuw, het is niet nastrevenswaardig.

De nieuw-rechtse denkers zelf menen dat er na een tijd van linkse dominantie nu een rechts tijdperk zal aanbreken. Deze herfst mag Kubitschek voor het eerst meedoen op de Frankfurter Buchmesse, dat machtige symbool van het Duitse Bildungsbürgertum. En Marc Jongen bereidt zich voor op een politiek leven in Berlijn.

Midden augustus publiceerde de linkse socioloog Thomas Wagner het boek Die Angstmacher: 1968 und die Neuen Rechten. Wagner ziet de opkomst van nieuw-rechts als een verlate reactie op de linkse revolutie van 1968. In de krochten van de nieuwe linkse debatcultuur ontstond de kiem van conservatief verzet ertegen, dat nu pas echt naar buiten is getreden. Zijn verrassing: het blijkt dat nieuw-rechts veel klassiek linkse posities en activistische vormen heeft overgenomen. Ze eisen meer directe democratie, ze zijn tegen het establishment, bekritiseren de ‘Lügenpresse’ met haar ‘politiek-correcte leugens’, ze vinden dat de vrouwenrechten te weinig verdedigd worden tegen moslimmannen. Zelfs een geheel eigen rechtse vorm van antiglobalisme speelt erin mee, waarin de regionale culturele eigenheid voorop staat, tegenover mondiaal geproduceerde eenheidsproducten. ‘Echt ecologisch zijn is altijd identitair’, vindt Kubitschek: ‘Fairtrade kiwipasta uit Bolivia is niet ecologisch. Ecologisch is als we in onze eigen regio in de winter Kraut und Schlachtplatte eten.’

Wagners boek is in korte tijd het derde Duitstalige boek over dezelfde Duitstalige sleutelfiguren van de beweging. Maar Wagner neemt als eerste publicist een andere positie in. Hij laat diverse nieuw-rechtse denkers zelf aan het woord en neemt geheel on-Duits niet de positie van waarschuwende criticus in. Hij wordt er door recensenten opvallend om geprezen. Volgens Wagner heeft Duitsland een meer democratische debatcultuur nodig, waar niet alleen al het luisteren naar een rechtse gedachte als een ‘capitulatie voor het slechte’ moet worden gezien. En ondertussen blijkt het met de rechtse revolutie zo’n vaart nog niet te lopen, zegt hij.

Politiek gezien is in Duitsland bij de komende verkiezingen een Amerikaanse situatie immers ondenkbaar. De komst van de AfD in het parlement lijkt eerder een conservatieve correctie van Merkels ‘linkse’ koers van de afgelopen jaren dan een politieke aardverschuiving. Meedoen in het debat blijkt iets anders dan het te bepalen. Voor Marc Jongen is het niet genoeg. Duitsland moet van de basis af opnieuw gestructureerd worden, en de AfD moet de ‘parlementaire steun’ van de nieuwe beweging worden, met als direct doel de cdu, en daarmee het midden van Duitsland, grondig ‘om te polen’. Voordat het te laat is.

dimanche, 20 août 2017

Erkenbrand: Naar een nieuwe gouden eeuw

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jeudi, 17 août 2017

Hommage à Henning Eichberg (1942-2017)

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Arne Schimmer :

Il était le théoricien du nationalisme de libération, compagnon de route de la nouvelle gauche

Hommage à Henning Eichberg (1942-2017)

« Wer trägt die schwarze Fahne heut’ durch die gespalt’ne Nation ?

« Qui porte aujourd’hui le drapeau noir en la nation divisée ?

Wer sprengt die Ketten, wer haut darein und kämpft für die Revolution?

Qui brise les chaînes, qui cogne en avant et lutte pour la révolution?

Bist du dabei, bin ich dabei, heut’ oder morgen schon ?

Es-tu de la partie, suis-je de la partie, aujourd’hui ou peut-être demain ?

Wann stürzt im Lande die Fremdherrschaft vor der deutschen Revolution ?

Quand donc en ce pays croulera la domination étrangère devant les coups de la révolution allemande ?

Hervor, Leute, hervor – hervor !

En avant, les gars, en avant, en avant !

Die schwarze Fahne empor !

Haut le drapeau noir !

Denn überall wo das Unrecht herrscht, geht die Fahne der Freiheit empor !”

Car partout où règne le non-droit se dresse bien haut le drapeau de la liberté ! ».

 

Pour écouter la mélodie : https://www.youtube.com/watch?v=pS3tLyC3MQw

Tous les militants nationalistes connaissaient les paroles de cette troisième strophe de la chanson : elle était pour ainsi dire l’hymne non officiel de la mouvance toute entière. C’était Henning Eichberg qui en avait composé le texte, lui, le principal penseur d’avant-garde du mouvement national-révolutionnaire allemand en RFA, dans les années 1960 et 1970. Ce théoricien avait fini par émigrer au Danemark pour y devenir membre du Socialistisk Folkeparti (Parti Populaire Socialiste). A la fin de sa vie, on pouvait dire qu’il appartenait tout entier à la gauche politique de sa nouvelle patrie. Malgré cette transition étonnante dans le paysage politique germanique et scandinave, les concepts-clefs de « Nation » et de « Peuple » (« Nation » et « Volk ») demeuraient les pierres angulaires de ses intérêts scientifiques et politiques.

Ces deux concepts-clefs sont directement issus de son idiosyncrasie, de son itinéraire biographique. Henning Eichberg était né le 1 décembre 1942 à Schweidnitz en Silésie. Sa famille avait quitté la région avant la fin de la guerre et s’était fixée en Saxe. Quand Eichberg a opéré sa mutation politique et est devenu un homme de gauche plein et entier, il n’a pas pour autant  cessé de se considérer comme Silésien, comme il le rappelle d’ailleurs dans un entretien accordé à la revue Ökologie en 1998 : « Au début du projet de la modernité, les peuples se sont dressés et ont cherché à se faire sujets de l’histoire, ils marchaient au nom de la liberté, de l’égalité et de la fraternité (…) ; mais c’est cette troisième valeur qui a été oubliée : justement, la fraternité, la sororité, le sentiment communautaire, ou, pour l’inscrire en belles lettres rouges, la solidarité (…). Voilà pourquoi nous devions reprendre à zéro le projet de la modernité. Le précédent projet nous a apporté l’assassinat de peuples entiers, des épurations ethniques. Génocide et ethnocide sont les contraires diamétraux de la fraternité. Voilà pourquoi je m’en tiens à mon identité silésienne, afin que cela ne soit pas oublié. La Silésie ne meurt pas avec l’ancienne génération. L’Amérique amérindienne n’est pas morte, elle non plus, à Wounded Knee ».

De la CDU d’Adenauer au nationalisme dur et pur

En 1950, la famille du jeune Henning Eichberg déménage à Hambourg. Dans un entretien rétrospectif, accordé en 2010, il rappelle à ses lecteurs qu’il ne s’est jamais senti chez lui en République Fédérale. Dans les années 1950, le jeune homme Eichberg cherche à s’insérer dans l’ère Adenauer. Il adhère à la CDU démocrate-chrétienne et obtient un grade d’officier de réserve dans la Bundeswehr. Cependant, ses réflexions et observations le poussent à se rendre bien compte d’une chose : les partis de l’Union démocrate-chrétienne n’envisagent plus la réunification allemande que d’un point de vue tout théorique ; ensuite, l’américanisation croissante du pays le met particulièrement mal à l’aise. Au début des années 1960, Eichberg, petit à petit, se réoriente politiquement. Ce travail de réflexion le conduit à se proclamer « national-révolutionnaire ». Il attire l’attention sur sa personne car il produit, en ces années, un énorme travail de publiciste, écrivant notamment pour les revues Nation Europa, Deutscher Studenten-Anzeiger, Deutsche National-Zeitung und Soldatenzeitung mais aussi et surtout pour un organe théorique, très important en dépit de sa maquette artisanale : Junges Forum. Il acquiert, très justement, la réputation d’être devenu le principal théoricien du mouvement national-révolutionnaire en RFA. Dans un ouvrage consacré à ce mouvement, l’observateur très attentif des mouvements politiques extra-parlementaires d’Allemagne que fut Günter Bartsch le campe, dans son ouvrage de référence Revolution von rechts ? Ideologie und Organisation der Neuen Rechte, comme le « Rudi Dutschke de droite ». Certains de ses textes, écrits sous le pseudonyme de Hartwig Singer, ont réellement été fondateurs d’une théorie politique nouvelle à l’époque. Il avait alors l’ambition de développer un corpus théorique pour le nationalisme allemand qui puisse tenir la route et perdurer dans le temps. Ce corpus devait, à ses yeux, répondre à toutes les grandes questions du moment et entrer sérieusement en concurrence avec les idées proposées par la « nouvelle gauche ».

Le syndrome occidental

Heureux ceux qui possèdent encore les petits opuscules à couverture noire, intitulés Junge Kritik, qu’Eichberg éditait à l’époque et que les plus jeunes aujourd’hui ont énormément de mal à se procurer même chez les bouquinistes spécialisés ! Les possesseurs de ces précieuses brochures peuvent mesurer la qualité des réflexions eichbergiennes, inégalées dans l’Allemagne des années 1950 et 1960. Eichberg y hisse le nationalisme à un niveau théorique très respectable : dans ses démonstrations, il part du postulat d’un « syndrome occidental », matrice de la psychologie et des mœurs des peuples d’Europe, d’où l’on peut également déduire l’émergence d’un phénomène typiquement européen/occidental comme la technique. Eichberg envisageait de déployer ses efforts politiques pour maintenir intacts ces traits de la psyché européenne dans le cadre des sociétés industrielles, lesquelles avaient toutes besoin de se ressourcer dans leurs matrices identitaires.

Mais tout en étant devenu le principal théoricien innovateur du camp national en Allemagne, Eichberg, à la même époque, se branchait déjà sur certains cercles de la « nouvelle gauche » à Hambourg qui, eux aussi, luttaient contre l’impérialisme, surtout l’américain. Ces cercles étaient le « Club Lynx » ou la Galerie d’Arie Goral. Eichberg s’était pourtant affiché comme un anticommuniste radical dans les années 1960. Cela ne l’empêchait pas de trouver bon nombre d’idées positives dans le mouvement soixante-huitard émergent, parce qu’elles relevaient d’une « révolte contre l’établissement ». Une droite authentique ne saurait, disait-il, défendre cet établissement. Par voie de conséquence, il faisait sien le mot d’ordre de cette nouvelle gauche libertaire : « Le désordre est le premier des devoirs ! ». Eichberg récusait cependant, à la même époque, le « socialisme » conventionnel et plaidait pour un « socialisme européen » qui était simultanément un nationalisme moderne. Il se référait alors à l’aile gauche de la NSDAP dans les années 1920.

Autre découverte révélatrice d’Eichberg en 1966 : sa participation à un camp d’été des Français qui militaient au sein de la « Fédération des Etudiants Nationalistes » (FEN). Il fut impressionné par la détermination révolutionnaire de ces militants français mais aussi par leur volonté de renouer avec les traditions socialistes et syndicalistes de leur pays. Eichberg voyait éclore un nouveau socialisme « pour les Européens de demain ». Ces années ont vu naître, chez les nationalistes français et allemands, l’idéal d’une « Nation Europe ».

Les observateurs de la trajectoire d’Eichberg remarqueront avec intérêt qu’il n’est pas passé entièrement à la nouvelle gauche à la fin des années 1960. Il avait de bonnes raisons pour ne pas franchir le pas. En principe, il saluait le bienfondé de la révolte des gauches, qui avait fait vaciller l’édifice politique de la RFA mais il critiquait aussi l’indifférence que ces gauchistes manifestaient à l’endroit de leur propre peuple. Eichberg considérait que ces étudiants gauchistes militaient dans des « dérivations » lorsqu’ils se passionnaient pour la Chine de Mao ou pour le Vietnam d’Ho Chi Minh au lieu de lutter d’abord ou au moins simultanément pour la réunification de l’Allemagne, elle-même victime emblématique des impérialismes soviétique et américain. Eichberg déplorait que l’opposition de gauche, à l’époque, n’accordait pas sa lutte pour la libération du Vietnam à une lutte pour la libération de l’Allemagne. Eichberg est donc resté, dans un premier temps, sur ses options de base : faire éclore une « nouvelle droite » en parallèle (et non nécessairement en opposition) à une « nouvelle gauche » mais une nouvelle droite où les militants devaient être tout à la fois « nationalistes » et « socialistes », ce que rappelle d’ailleurs Günter Bartsch dans le livre que je viens de mentionner. Ce retrait d’Eichberg est demeuré tel dans les années 1960 et 1970.

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La revue « Wir Selbst » comme nouvelle tribune pour Eichberg

Parmi les actions mythiques que l’on évoque à propos d’Eichberg dans le cadre de sa « nouvelle droite », il y une protestation contre les pourparlers engagés par Willy Brandt avec le premier ministre de la RDA Willi Stroph à Kassel en 1970. Le groupe rassemblé par Eichberg distribua des tracts intitulés : « La division de l’Allemagne est la division du prolétariat allemand ». Deux ans plus tard, Eichberg rédige la programme fondateur d’un mouvement, l’ Aktion Neue Rechte, dont le principe premier devait être le « nationalisme de libération » (Befreiungsnationalismus). Ce « nationalisme de libération » devait se déployer dans une Europe et un monde divisés en deux blocs, l’un communiste, l’autre capitaliste. Cette division incapacitante et humiliante postulait la solidarité inconditionnelle avec le combat de toutes les minorités ethniques au sein des Etats, avec tous les peuples privés de leur souveraineté nationale par les superpuissances américaine et soviétique donc avec le peuple allemand, victime de ce duopole. En 1974, les militants autour d’Eichberg fondent Sache des Volkes/Nationalrevolutionäre Aufbauorganisation (Cause du Peuple/Organisation nationale-révolutionnaire de Construction – SdV/NRAO). Eichberg entendait clairement poursuivre un but : inciter la gauche politique à prendre davantage en considération la question nationale. Il fut, à partir de ce moment, persona grata dans certains cercles de gauche. Il put publier ses articles dans certains de leurs organes tels Pflasterstrand, das da et Ästhetik & Kommunikation. Il participa au congrès fondateur du mouvement des Verts en 1979 dans le Bade-Wurtemberg. Il cultivait alors l’espoir de voir émerger, à partir du mouvement écologique, une « troisième voie », éloignée des fixismes de droite et de gauche. Mais, rapidement, il a hélas dû constater que c’était une erreur : dorénavant, il allait considérer les Verts comme un nouveau parti bourgeois.

Eichberg fut fasciné par l’évolution de Rudi Dutschke. Dans ses dernières années et surtout peu avant sa mort, l’ancien leader des étudiants contestataires berlinois mettait de plus en plus souvent l’accent sur l’idée d’auto-détermination nationale allemande dans sa pensée politique. En 1979, Siegfried Bublies fonde la revue Wir Selbst, d’inspiration nationale-révolutionnaire comme l’entendait Eichberg. Bublies avait été un permanent des « Jeunes nationaux-démocrates » en Rhénanie-Palatinat. Cet organe, bien ficelé, deviendra la principale tribune d’Eichberg d’où il diffusera ses idées non conformistes.

Dans cette belle revue, Eichberg pouvait étaler ses idées toujours innovantes, qui interpellaient et provoquaient mais forçaient surtout le lecteur à réfléchir, à remettre ses convictions toujours un peu frustes sur le métier. La pensée d’Eichberg était une pensée en mouvement, nullement figée dans des concepts immobiles. Il n’affirmait pas un concept de « nation » mais cherchait, avec ses lecteurs, à définir quelque chose d’organique et de vivant : l’identité nationale.  Il cherchait toutes les pistes pour ré-enraciner le peuple en dépit du contexte déracinant de la société industrialisée du capitalisme tardif, pour pallier la perte des patries et des terroirs sous les coups de la globalisation et de l’américanisation.

A la fin, Eichberg n’a plus cherché à influencer la scène politique allemande. En 1982, il émigre définitivement au Danemark où il reçoit une chaire à l’université d’Odense.  Dans son exil danois, il rompt de plus en plus nettement avec les milieux de droite. Plus tard, ses anciens disciples apprirent avec stupeur qu’il plaidait à sa façon pour une société multiculturelle. Eichberg, depuis sa chaire danoise, avait acquis une renommée scientifique internationale. Il était devenu un spécialiste de la « culture des corps » et du sport. Tout cela l’a éloigné des théories qu’il professait dans les colonnes de Wir Selbst ou de Volkslust. Ses théories sur le sport et la culture des corps sont d’un grand intérêt mais leur caractère scientifique très pointu ne parviennent évidemment pas à électriser les militants comme les électrisaient les textes pionniers et innovateurs de facture nationale-révolutionnaire qu’il rédigeait avec fougue dans les années 1960, 1970 et 1980.

Henning Eichberg est décédé à Odense au Danemark le 22 avril 2017.

Arne SCHIMMER.

(article paru dans Deutsche Stimme, août 2017).

Pour comprendre le contexte de la « Neue Rechte » : http://robertsteuckers.blogspot.be/2012/12/neo-nationalis...

Pour comprendre le contexte dans son volet flamand : http://robertsteuckers.blogspot.be/search?q=dutoit

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Wer trägt die schwarze Fahne
Wolf in Lieder

1. Wer trägt die schwarze Fahne dort durch Schleswig und Holsteiner Land?
Das sind die Bauern, das ist Claus Heim, der trägt sie in der Hand.
Sie pfändeten ihnen die Höfe weg, da bombten sie die Behörden entzwei.
Im Jahr achtundzwanzig erhoben sie sich gegen Zinsdruck und Ausbeuterei.
/ : Hervor, Leute hervor, hervor! Die schwarze Fahne empor! Denn überall,
wo das Unrecht herrscht, geht die schwarze Fahne empor. :/

(Qui porte donc le drapeau noir dans les pays du Slesvig et du Holstein?

Ce sont les paysans, c’est Claus Heim, il le porte à la main.

Ils ont hypothéqué leurs fermes, les leur ont prises, ils ont fait sauter les bureaux !

En l’an vingt-huit, ils se sont soulevés contre les intérêts et l’exploitation (…) ».

2. Wer trägt die schwarze Fahne dort durch das Westfalenland?
Das ist der Kumpel von der Ruhr, er trägt sie in der Hand.
Sie schlossen ihnen die Zechen zu, das war das letzte mal;
im Jahr sechsundsechzig erhoben sie sich gegen Bonn und das Kapital.
/ : Hervor, Leute hervor, hervor! Die schwarze Fahne empor! Denn überall,
wo das Unrecht herrscht, geht die schwarze Fahne empor. :/
(Qui porte donc le drapeau noir en pays de Westphalie?

C’est la gueule noire de la Ruhr, il le porte en main.

Ils lui ont fermé ses mines, c’était la dernière fois ;

En l’an soixante-six, ils se sont levés contre Bonn, contre le Capital. (…) »

3. Wer trägt die schwarze Fahne heut` durch die gespalt`ne Nation?
Wer sprengt die Ketten, wer haut darein und kämpft für die Revolution?
Bist du dabei, bin ich dabei, heut` oder morgen schon?
Wann stürzt im Land die Fremdherrschaft vor der deutschen Revolution?
/ : Hervor, Leute hervor, hervor! Die schwarze Fahne empor! Denn überall,
wo das Unrecht herrscht, geht die Fahne der Freiheit empor. :

mardi, 08 août 2017

Extremists: Studies in Metapolitics

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Extremists: Studies in Metapolitics

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Jonathan Bowden

Edited by Greg Johnson
San Francisco: Counter-Currents, 2017
220 pages

Hardcover: $35

Paperback: $20 

Kindle E-book: $4.99

To order: https://www.counter-currents.com/extremists-studies-in-metapolitics/

 

Extremists: Studies in Metapolitics collects transcripts of nine of Jonathan Bowden’s most compelling orations: on Thomas Carlyle, Gabriele D’Annunzio, Charles Maurras, Martin Heidegger, Julius Evola, Savitri Devi, Yukio Mishima, and Maurice Cowling, as well as his speech “Vanguardism: Hope for the Future.” These speeches do not just explore the lives and thoughts of creative and exemplary individuals, they also illustrate three cardinal principles that Bowden repeatedly emphasized: First, political change depends upon metapolitical conditions. Second, cultural and political innovations take place on the extremes. Third, metapolitical extremists must think of themselves as vanguardists who lead the public mind to truth, not cater to illusions and folly.

CONTENTS

Editor’s Preface

1. Vanguardism: Hope for the Future
2. Thomas Carlyle: The Sage of Chelsea
3. Gabriele D’Annunzio
4. Charles Maurras & Action Franҫaise
5. Martin Heidegger
6. Savitri Devi
7. Julius Evola
8. Yukio Mishima
9. Maurice Cowling

Index

About the Author

Praise for Extremists:

“Jonathan Bowden died in 2012, just short of his fiftieth birthday. But vanguardist that he was, he continues to lead us today, through his recordings, videos, and books like the one before you, always out there on the extremes, not gone—just gone before.”

—Greg Johnson, from the Editor’s Preface

“Jonathan Bowden was the most inspiring and entertaining speaker to emerge on the British Right in the last half-century. A protean, demi-divine improvisatory power was set free in his oratory and transcended the oft sorely unsatisfactory circumstances of his life. Extremists collects nine of his best orations. Even on the printed page, the power of his voice resonates, drawing us to the words he has left behind.”

—Stead Steadman, Organizer of the Jonathan Bowden Dinner

“Jonathan Bowden was arguably the greatest orator of his generation. Part of what elevated Jonathan’s oratory was his encyclopedic knowledge of politics, philosophy, history, literature, and the arts, and his ability to verbally regurgitate vast tranches of that knowledge at will—from memory—delivering names, dates, and other details with machine-gun rapidity. Jonathan could speak for an hour and a half without notes, skillfully knitting together one pertinent argument or analysis after another in a logical sequence that would keep his audience spellbound. Another factor that elevated Jonathan’s oratory was his keen sense of the dramatic. He had the rare gift of being able to express heroic sentiments in a way that was inspirational, compelling, and infectious. Strangely, Jonathan always claimed that he never knew what he was going to say until he stood up and opened his mouth. At that moment of truth, he was transformed from a modest and affable intellectual into a bravura performer at the lectern. Although Jonathan’s voice is stilled on the printed page, volumes like Extremists allow us to pause over and ponder his words, to better appreciate and share in the ideas he so urgently wished to communicate.”

—Max Musson, Western Spring

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“This new collection of Jonathan Bowden’s speeches displays the broad-minded zest for life and infectious enthusiasm for knowledge and for wisdom that would have made him an ideal private tutor to a Prince. There was nothing at all of the pedantic pedagogue about him.  Where others failed—Plato with Dionysius of Syracuse and Seneca with Nero—Bowden I’m sure would have excelled. To describe the man is difficult, so we need a new word: ‘Bowdenesque.’ ‘Bowdenesque: a larger-than-life and warmer-than-life raconteur, conversationalist, and orator with a far-ranging and surprisingly eclectic erudition; a Brahmin with bonhomie; a Falstaff without the failings; an elitist not because he hates the masses, but because he loves them and wants what is best for his people, his culture, and indeed all peoples and cultures; a bon vivant who relishes all the good things in life, but especially culture and company; a calm, self-assured, self-contained cat that is intensely interested in and curious about literally everything and everyone, and eager to listen and learn, and, if requested, teach; a learned intellect with no illusions or limits, who knows the price of nothing, but the potential value of everything and everyone.’”

—Jez Turner, The London Forum, winner of the 2017 Jonathan Bowden Prize for Oratory

The Author

Jonathan Bowden (1962–2012) was a British novelist, playwright, essayist, painter, actor, and orator, and a leading thinker and spokesman of the British New Right. He was the author of some forty books—novels, short stories, stage and screen plays, philosophical dialogues and essays, and literary and cultural criticism—including Pulp Fascism: Right-Wing Themes in Comics, Graphic Novels, and Popular Literature, ed. Greg Johnson (Counter-Currents, 2013) and Western Civilization Bites Back, ed. Greg Johnson (Counter-Currents, 2014).

lundi, 07 août 2017

Postmodernism vs. Identity - Greg Johnson’s talk at The Scandza Forum

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Scandza Forum Oslo, 2017

Postmodernism vs. Identity

Greg Johnson’s talk at The Scandza Forum in Oslo, July 1, 2017.

jeudi, 13 juillet 2017

Terre & Peuple n°72: Dossier Dominique Venner

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Le numéro 72 de la revue de Terre et Peuple vient de paraitre!

Le dossier central est consacré à Dominique Venner!

L'éditorial de Pierre Vial  :

http://www.terreetpeuple.com/terre-et-peuple-magazine-com...

Le sommaire :

http://www.terreetpeuple.com/terre-et-peuple-magazine-com...

Numéro à commander 9 €, frais de port inclus.

Chèque à l'ordre de Terre et Peuple.

A envoyer sur papier libre à :

Terre et Peuple,

BP 38

04300 Forcalquier.

mardi, 06 juin 2017

Robert Steuckers: Ma découverte de la « Révolution conservatrice »

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Ma découverte de la « Révolution conservatrice »

Entretien avec Thierry Martin (Université Paris IV)

- Quand et dans quels cadres avez-vous découvert le courant de pensée révolutionnaire-conservateur allemand?

La découverte de la « révolution conservatrice », ou plutôt d’éléments constitutifs ou annonciateurs de celle-ci, a été, chez moi, un processus lent. Jeunes adolescents, nous étions très confusément conscients que le « système » ne fonctionnait plus. Se juxtaposaient, à cette époque, entre 1969 et 1972, des résidus que l’on nous demandait de vénérer et des innovations, mai 68 oblige, qui nous paraissaient totalement farfelues ou incongrues. Nous étions à la chasse d’auteurs alternatifs, sans trop savoir à quels saints nous vouer. Un professeur de français me conseille Un testament espagnol de Koestler. Le professeur de latin, l’Abbé Simon Hauwaert, nous baigne dans une atmosphère de culture classique, d’abord avec le De bello gallico. Hauwaert était disciple des disciples du Cardinal Mercier, grand défenseur de la culture gréco-latine, ami de Coubertin et féru de l’idéal olympique, promoteur d’un scoutisme viril et audacieux (celui qui a séduit Hergé), admirateur de Maurras. Toute cette culture classique, décriée par les soixante-huitards, s’est lentement décantée dans nos cerveaux, sans véritables références intermédiaires, sans passerelles commodes, forgées par des journalistes talentueux ou de bons vulgarisateurs. Hauwaert, bien qu’ecclésiastique, ne jurait que par la culture hellénique et la tradition politique romaine. Dans l’âme, il était un païen antique. Finalement, il ne s’en cachait guère. L’année suivante, il nous emmène en Turquie, pour visiter les sites archéologiques et les musées. En 1973, ce sera la Grèce. Delphes et Olympie en particulier. Ces voyages ont été déterminants dans l’éclosion de mon imaginaire.  

Tout naturellement, s’est ajouté à cela le tropisme germanique, qui est partout présent, en filigrane, en Belgique : en Flandre parce que les intellectuels, même simples bacheliers, comprenaient aisément l’allemand à l’époque (ce n’est plus le cas) ; en Wallonie, l’Allemagne est présente comme un fantôme dans la littérature, chez Maeterlinck (dont l’entomologie et le mysticisme naturaliste ont dû sûrement inspirer Jünger), chez Compère et bien d’autres, comme l’ex-germanophobe Pierre Nothomb (ancêtre d’Amélie Nothomb) qui imagine une petite principauté idéale dans l’Eifel, la principauté d’Olzheim, incarnant la fidélité au Saint-Empire catholique d’ottonienne mémoire. Fin des années 60, c’est la fascination générale pour le miracle économique de la RFA, pour la technique automobile et pour l’électro-ménager : le Belge moyen ne jure que par Volkswagen, Mercédès, Miele, Zeiss Ikon, Telefunken et j’en passe. Ce tropisme allemand, encore honteux mais bien présent dans les propos de table en famille, conduit notre brochette de copains à se poser des questions sur ce pays que l’on a cherché à nous faire détester pour les siècles des siècles : que se passe-t-il au-delà des Fagnes et de l’Eifel ? Je n’avais fait, enfant, que deux voyages au-delà de la frontière orientale de la Belgique, à Aix-la-Chapelle et à Monschau. A treize ans, je suis allé au zoo en plein air de Tüddern. C’était un peu court pour poser un jugement un tant soit peu cohérent. Mais, un jour, l’Abbé prononce le nom de Nietzsche, rappelant certes, avec un sourire autant complice que moqueur, qu’il était le pire des mécréants mais aussi, ce qui le sauvait, un excellent helléniste. Son but ? Je ne crois pas le trahir (à titre posthume) en disant qu’il suggérait des auteurs sulfureux pour nous inciter à les lire, même en cachette. Il fera de même avec le Satyricon de Pétrone.

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Me voilà parti sur Nietzsche. Je glane quelques bribes sur le philosophe. Et j’essaie de lire La généalogie de la morale et L’Antéchrist, que je ne relirai à fond qu’à dix-neuf ans, en parallèle au travail de Pierre Chassard, édité par le G.R.E.C.E. (cf. infra). Plus tard, vous le devinez bien, je reviendrai inlassablement vers ces deux livres essentiels, non pas parce qu’ils sont sulfureux et emplis de mécréance mais parce qu’ils jettent les bases d’une volonté de démasquer ce qui se dissimule derrière des idées ronflantes, en apparence généreuses et doucereuses, pour tisser des dispositifs de pouvoir bien plus pervers et subtils que ceux qu’ils dénoncent ou que les résidus du passé qu’ils fustigent comme des vieilleries. Pour nous, gamins de Bruxelles, cette virulence de Nietzsche contre le christianisme est une attitude à imiter pour fustiger le démocratisme chrétien belge et ses médiocrités, de même que l’hypocrisie de la bien-pensance bourgeoise et catholique, celle, disait l’Abbé, « des rombières qui tricotent des bas pour les pauvres et la réputation de leur prochain ». Le monde extérieur, le monde établi, celui du pouvoir, nous apparaissait d’un coup comme un fatras à rejeter, à moquer (avec une méchanceté d’adolescent). De ce fatras, qui fait écran, entre la vérité (grecque) et nos petites personnes, il convient de ne rien conserver mais de tout fracasser à coups de marteau. Afin de retrouver, derrière, les lumineuses vérités helléniques et les fondements mythologiques des anciennes cultures européennes. Les coups de marteau nietzschéens forçaient le dévoilement de la vérité et de l’Etre. Autre idée conservatrice et non révolutionnaire de l’Abbé : nous inciter à replonger dans le monde gréco-latin (il créera à cet effet un cours de « culture grecque ») et nous incitera à étudier la mythologie celtique (c’est ainsi que j’ai lu Markale) et les anciennes littératures germaniques (que j’ai découvertes par un ouvrage de l’Argentin Jorge-Luis Borges). L’Abbé avait incité un jeune germaniste parmi nos professeurs, un certain Buelens, venu donner cours de néerlandais, à nous introduire à ces anciennes littératures, ce qu’il fit avec brio.

Le temps passe : nous découvrons successivement la revue Nouvelle école et le G.R.E.C.E. entre août 1973 (pendant notre séjour à Athènes et notre visite à Delphes) et juin 1974, date de notre première prise de contact avec Dulière, Vanderperre et Hupin, alors militants du G.R.E.C.E. à Bruxelles. A l’école, le Frère Lucien Verbruggen avait pris le relais de l’Abbé Hauwaert et transformé son cours de religion en un cours de philosophie, dépourvu de toutes bondieuseries : Platon, Aristote, Kant, Marx, Freud, Heidegger étaient tous au programme. En fin de terminale, deux dissertations, l’une sur la pensée de Heidegger (« Le langage est la maison de l’Etre ») et l’autre sur Marcuse (« L’homme unidimensionnel »). Le professeur de français Rodolphe Brouwers nous immerge dans les grands classiques (Proust, Gide, Céline et son monologue intérieur) mais aussi dans une littérature plus récente (Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras). Nous sortons donc de nos humanités secondaires non dépourvus de bagage littéraire et philosophique. En latin, Hauwaert et son successeur Salmon nous avaient fait traduire les classiques au programme dont Salluste, Tacite et Tite-Live, sans oublier Cicéron mais, en plus, il nous fallait rédiger chaque année un travail d’approfondissement sur un auteur : pour moi et mon co-équipier Leyssens, ce furent Lucrèce, Pline et Plaute.

En septembre 1974 commence pour nous la vie universitaire. Pour moi, deux ans de philologie germanique et quatre ans de haute école des traducteurs-interprètes pour les langues allemande et anglaise. C’est aussi l’époque où Bernard Garcet, qui fut animateur de la section étudiante de Louvain du mouvement « Jeune Europe » de Jean Thiriart (alors disparu de la scène politique), nous apprend à résumer des ouvrages et à les présenter devant un public restreint. Garcet est exigeant, au-delà des exigences restreintes que réclamerait par exemple l’école des cadres d’un parti politique. Pour lui, avoir des opinions contestatrices, c’est bien, les exprimer de manière structurée et sans affects passionnels, sans dérives émotionnelles, c’est mieux et cela peut servir dans toutes les circonstances de la vie : au fil des mois, nous avons été entraînés à résumer Louis Rougier, Jules Monnerot, Julien Freund (sur Vilfredo Pareto et Max Weber), Karl Mannheim, James Burnham, Jean Baechler, Carl Schmitt (avec les rares documents dont nous disposions à l’époque !), etc. Cette formation s’est étalée sur cinq bonnes années. Elle fut déterminante.

En 1974-1975, le cours de philosophie d’Anne-Marie Dillens, dispensé aux philologues et aux juristes dans le grand auditorium du Boulevard du Jardin Botanique à Bruxelles, est profondément ennuyeux. La dame pontifiait et jargonnait, nous entraînait dans le labyrinthe opaque et gris de sa pensée confuse et désordonnée ; elle ponctuait sa logorrhée de grimaces (de la maxillaire inférieure) et d’une gestuelle du plus haut comique. En fait, il y avait la philosophie servie par le régime dont elle était l’instrument sans nul doute à son corps défendant : une soupe insipide qui déroutait, désorientait. Et la nôtre qui disait les choses, les nommait, désignait les dangers et l’ennemi. Pour préparer l’examen, je commets une première boulette de taille, qui me vaudra un échec cinglant : au lieu de tenter de déchiffrer le pesant salmigondis de Dame Dillens, je lis à fond le travail de Pierre Chassard, édité par le G.R.E.C.E. : La philosophie de l’histoire dans la philosophie de Nietzsche. Pour chaque citation de Chassard, je consulte un ouvrage de Nietzsche, en version originale allemande ou en une traduction quelconque. L’année 1975 fut donc, pour moi, une immersion totale dans la pensée de Nietzsche. Chassard a une approche claire de Nietzsche, issue de la tradition nietzschéenne française du début du 20ème siècle. Dans l’ouvrage qu’il édite au G.R.E.C.E., il insiste principalement sur l’anti-providentialisme du philosophe de Sils-Maria. L’histoire est là, avec son tissu de contradictions et de tragédies : inutile de masquer ce théâtre souvent désagréable par des discours-décors, de promettre des lendemains qui chantent car ce ne sont là que des escroqueries, colportées par des êtres bas, avides d’exercer du pouvoir (sans risques).

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Le cours de littérature allemande était donné par Paul Lebeau (1908-1982), écrivain flamand qui avait connu ses heures de gloire dans les années 1950.  Il appartenait au cercle des « scriptores catholici » et le choc des visions du monde et de l’homme qu’il décrivait dans son ouvrage romanesque le plus célèbre, Xanthippe (1959), dédié à la femme de Socrate, opposait un rationalisme purement cérébral, celui du philosophe bientôt condamné à boire la cigüe, et le vitalisme de son épouse, non dépourvu de subjectivité débridée et même d’animalité. Chez Lebeau, l’un des thèmes centraux était le conflit entre spiritualité et sexualité. Le catholicisme de Lebeau était donc un catholicisme qui privilégiait la spiritualité mais constatait l’ « incontournabilité » des sens et des instincts. Cette problématique était commune dans les pays germaniques entre les années 1890 et la fin des années 1940. Pendant notre année académique, Lebeau avait choisi de nous promener pendant de longs mois dans le Faust de Goethe où il est dit « Grise est toute théorie, vert est l’Arbre de la Vie ». Une certaine complicité flamande me liait à Lebeau, qui ne craignait pas, à ses heures, d’égratigner les canons du « politiquement correct » avant la lettre. Il aimait citer Spengler et méditer sur la notion de « déclin ».

L’année académique 1974-1975 est aussi celle de l’approfondissement de Spengler, découvert lorsque nous avions seize ans, dans L’Homme et la technique, lu pendant quelques heures au fond d’un trou de sable, par un temps vraiment frisquet, dans les dunes à Coq-sur-Mer, la plage flamande favorite d’Einstein, d’Hergé et de votre serviteur. D’autres lectures, entre 1974 et 1979, conforteront ma façon de voir le monde : le livre du professeur anglais Barnard sur Herder, Herder lui-même et les introductions à la version bilingue d’Aubier-Montaigne dues à la plume du germaniste français Max Rouché. Ensuite le panorama du conservatisme antiautoritaire de l’Américain Peter Viereck (1916-2006) m’introduit à une première approche comparative, et très didactique, de la question. Viereck est aussi celui qui, dès 1939, avait lancé le terme de « métapolitique » dans le langage académique américain.

En 1976, paraît le travail de Louis Dupeux (1931-2002), Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression « National-bolchevisme » en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933), que nous dévorons suite à un autre classique dans le même domaine, celui de Jean-Pierre Faye, Langages totalitaires (1972). L’idée était, bien sûr, de dépasser les clivages gauche/droite, socialisme/libéralisme, etc., en puisant dans des corpus qui faisaient la synthèse de toutes les idéologies, autrement vues comme antagonistes, pour recréer une harmonie viable au sein des pays européens. Le deuxième objectif de ces lectures était aussi de surmonter la dépendance à l’endroit des Etats-Unis. Pour nous, l’événement déclencheur de notre anti-américanisme fut le fameux « marché du siècle » de 1975, où les Etats-Unis imposent aux pays du Bénélux et de la Scandinavie, membres de l’OTAN, le chasseur F-16 plutôt qu’un Saab suédois ou un Mirage français. L’Europe nous apparait alors très cruellement dépendante et inefficace. Par ailleurs, comme je l’ai déjà maintes fois souligné, l’alliance de facto entre la Chine maoïste et les Etats-Unis de Nixon et de Kissinger fait que la Chine n’est plus perçue comme un allié de revers pour harceler le duopole des superpuissances né à Yalta mais comme une complice de Washington qui contribue à encercler et l’Europe occidentale et l’URSS. Du coup surgit la nécessité de développer un discours différent du précédent : non plus critiquer et rejeter les systèmes américaniste et soviétique mais rejeter l’américanisme dans toutes ses facettes et chercher un modus vivendi avec la Russie soviétique qui, à l’époque, critique le laxisme et la déliquescence de l’Occident (cette démarche sera partagée par Mohler, Parvulesco, Thiriart, Faye et bien d’autres). L’ouvrage d’Alexander Yanov, The Russian New Right, publié en Californie, montre comment, en URSS, s’articulait, à l’époque, une dialectique entre régimistes occidentalisés (via le matérialisme marxiste), régimistes russophiles (renouant avec la spécificité russe), dissidents occidentalistes (Sakharov par exemple et la tradition libérale) et dissidents russophiles (à la remorque des œuvres monumentales de Soljénitsyne). Yanov, occidentaliste, prônait une réconciliation entre régimistes et dissidents occidentalistes et craignait par-dessus tout une alliance des régimistes et des dissidents russophiles. L’objectif était donc de proposer 1) une diplomatie pareille à celle des « nationaux-bolcheviques » de la République de Weimar, impliquant un abandon de l’O.T.A.N. et de toute russophobie ; 2) une économie solidariste non libérale mais non outrancièrement soviétisée (aussi inspirée par le gaullisme des années 1960 préconisant la participation et l’intéressement) ; 3) un discours « fusionniste » et populiste appelé à supplanter le démocratisme-chrétien et la sociale-démocratie corrompus de Belgique, d’Allemagne, d’Espagne (le franquisme avait vécu, depuis la mort du Caudillo) et d’Italie. Pour la France, nous rêvions d’un retour à ce gaullisme des années 1960, de le compléter, de le parachever, contre le détricotage à l’œuvre depuis Pompidou, détricotage qu’Eric Zemmour a appelé le « suicide de la France » dans un ouvrage qui a bétonné sa célébrité. 

En 1977, nous faisons, sous la houlette du Prof. Albert Defrance un voyage à Berlin, dans le cadre des activités suggérées par le D.A.A.D. (Deutscher Akademischer Austauschdienst). J’y découvre, dans une librairie du Kurfürstendamm, l’ouvrage fondamental de Karl-Otto Schüddekopf Linke Leute von Rechts, qui me permet de compléter les arguments de Dupeux et d’illustrer les faits qu’il avançait dans sa thèse. En 1978, nous partons, toujours par l’intermédiaire du D.A.A.D., à Munich où, dès mon arrivée, je vais illico sonner à la porte du Baron Caspar von Schrenck-Notzing, éditeur de Criticon, revue où œuvre Mohler. Je suis reçu avec une amabilité exquise. Et je reviens avec une collection quasi complète de la revue. J’avais lu Von rechts gesehen de Mohler où, justement, notre auteur plaidait pour un « grand-gaullisme » européen et pour une alliance avec les Etats que les Etats-Unis ostracisaient systématiquement. A Munich, en visitant les librairies, je découvre également la collection de livres collectifs, éditée par Gerd-Klaus Kaltenbrunner, auprès de l’éditeur Herder de Fribourg-en-Brisgau. Un peu plus tard, Mohler publie dans la rubrique « Porträts »de la revue Criticon, deux articles présentant Niekisch et Haushofer, que je résume et adapte en français pour le bulletin du G.R.E.C.E.-Bruxelles, qui est toujours, en cette année 2017, confectionné par Georges Hupin. L’engouement se précise. En 1979, troisième voyage patronné par le D.A.A.D., cette fois à Hambourg et à Lübeck. Depuis notre hôtel du Pferdemarkt, je tisse les liens avec les amis de la ville hanséatique : Peter Plette de la revue Fragmente ; l’inoubliable Heinz-Dieter Hansen, l’animateur de Junges Forum et de la D.E.S.G. (Deutsch-Europäische Studien-Gesellschaft), qui rejoindra, fin des années 1990, le groupe Synergies européennes ; enfin Lothar Penz et Ullrich Behrenz des groupes solidaristes et de la revue Sol. Le courant passe à merveille : je connaissais déjà toutes ces figures grâce à un ouvrage de Günter Bartsch, Revolution von Rechts? Ideologie und Organisation der Neuen Rechten (1975) (cf. aussi : http://robertsteuckers.blogspot.be/2014/12/neo-nationalisme-et-neue-rechte-en-rfa.html ). Cet ouvrage fut déterminant pour mon évolution ultérieure. Il explicitait à merveille les ressorts de cette droite solidariste et ethnopluraliste (au bon sens du terme), grâce à la plume alerte d’un spécialiste du castrisme, du trotskisme, de l’anarchisme allemand et de la droite révolutionnaire. Un jeune ami de notre groupe, le futur slaviste autodidacte Sepp Staelmans de Vouloir, avait d’ailleurs traduit le manifeste de Junges Forum en français à l’usage des Bruxellois intéressés. Bartsch nous fait découvrir la figure d’Hennig Eichberg, décédé en ce mois d’avril 2017, théoricien de l’ethnopluralisme (façon Claude Lévi-Strauss), sociologue critique de tous les aspects de la société de consommation (les automobiles, les barres chocolatées de marques américaines, la commercialisation du sport, etc.). La pensée d’Eichberg était foisonnante : elle semblait faite d’un mercure non canalisé par le tube du thermomètre. Mais combien d’impulsions ne nous a-t-elle pas données ? Même si on ne le suivait pas dans toutes ses quêtes. Eichberg finira par honnir ce qu’il qualifiait d’ « habitus de la droite » et se consacrera entièrement à sa mission de professeur de sociologie du sport dans une université danoise. L’œuvre d’Eichberg, dans tous ses aspects, mérite une étude universitaire approfondie et les derniers articles qu’il avait confiés à Wir selbst, la revue de Siegfried Bublies, sont d’une telle densité idéologique qu’ils appellent à être complétés et actualisés. Cette recherche fébrile d’alternatives dépassant le clivage gauche/droite avait son pendant flamand, que j’esquisse dans mon hommage à l’inclassable Christian Dutoit (http://robertsteuckers.blogspot.be/2016/06/linclassable-christian-dutoit-nous.html ) qui, à la même époque, dirigeait un mouvement ethnosocialiste, ancré dans le paysage des gauches flamandes, le groupe Arbeid.

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Deux autres facteurs vont dynamiser ce tâtonnement de notre belle époque estudiantine : ma rencontre, à l’été 1977, avec cette armoire à glace à barbe de Capitaine Haddock que fut l’étudiant en journalisme Alain Derriks. Ce garçon aux origines arlonnaises va organiser chaque semaine une réunion où se tiendra un brain storming effervescent, où nous buvions sec du whisky irlandais ou du Bordeaux et fumions des cigares cubains, offerts généreusement par un membre de la bande. Derriks, qui se proclamait « barrésien », introduit un autre ouvrage fondamental dans le circuit, La droite révolutionnaire (1978) de Zeev Sternhell. Derriks est, à part moi, le seul latiniste chevronné du groupe : nous lisons tous deux l’italien. Plusieurs initiatives italiennes attirent notre attention dont les travaux de Claudio Mutti et Linea, le journal de Pino Rauti, sans oublier Diorama letterario de Marco Tarchi, qui deviendra le chef de file de la nouvelle droite italienne et un féal et obséquieux vicaire d’Alain de Benoist dans la péninsule. La haute tenue de ces publications nous séduit : pour nous, sur le plan théorique, le modèle à suivre, à imiter, est italien et non pas français ou allemand, aussi parce qu’Italiens et Allemands subissent le même spectre partitocratique que le nôtre, alors que les Français disposent encore et toujours du référent gaullien (charismatique et caudilliste) et ne subissent pas des partis aussi inamovibles. Il faut signaler aussi que les germanistes italiens, dans les universités, sont de plus zélés traducteurs que leurs homologues francophones et que la tradition wébérienne en sociologie et en sciences politiques y est plus ancrée qu’en France.

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Autre événement majeur au cours de l’année 1978 : ma rencontre avec l’un des derniers représentants du surréalisme belge, Marc. Eemans (1907-1998), éditeur, avant-guerre, de la revue Hermès, consacrée aux spiritualités alternatives, dans lesquelles il fallait se plonger pour se purger de tous les miasmes du monde bourgeois, comme pouvaient le faire imaginer certains écrits d’André Breton lui-même. Eemans avait commencé léniniste (un portrait de Lénine dû à ses pinceaux se trouve à Saint-Pétersbourg), puis surréaliste dans l’équipe bruxelloise, éditeur d’Hermès (où oeuvrait aussi Henri Michaux) et, enfin, nationaliste flamand pour terminer évolien (ce qui est logique, Evola ayant débuté comme dadaïste pour finir traditionaliste). En 1978, Eemans lance le « Centro Studi Evoliani » à Bruxelles et en Flandre, dont nous fîmes tous partie. Eemans ne nous a jamais vraiment détaillé l’aventure surréaliste belge : pour lui, cette coterie était un souvenir (assez douloureux) du passé. Ce n’est que depuis une vingtaine d’années que de solides équipes de chercheurs universitaires se penchent sur les rapports complexes entre idéologies politiques et avant-gardes artistiques en Belgique francophone et néerlandophone. Pourtant Clément Pansaers, Paul van Ostaijen, Ward van Overstraeten, Gabriel Figeys et, bien sûr, Marc. Eemans ont connu des destins étonnants, ne cadrant pas du tout avec les vulgates manichéennes que l’on manipule aujourd’hui pour plonger le public dans l’ignorance, pour lui ôter l’idée de penser en termes complexes et nuancés. Pendant toute son existence après 1945, Marc. Eemans n’a cessé d’essuyer de basses insultes (du moins dans la partie francophone du pays). Aujourd’hui, cette mauvaise comédie se termine et justice sera rendue post mortem à celui qui fut l’un des premiers à publier Heidegger en français, à avoir accueilli les premiers écrits de Corbin sur la pensée persane, à avoir employé Michaux, à avoir tenté de ressusciter les mystiques médiévales flamandes et rhénanes (comme le fait notamment Jacqueline Kelen en France aujourd’hui). Avec Eemans, nous rencontrons Piet Tommissen, spécialiste de Pareto et de Carl Schmitt mais aussi grand amateur d’avant-gardes littéraires et artistiques. Ami de longue date d’Armin Mohler, Tommissen s’intéresse aussi à la révolution conservatrice, toutes tendances confondues, y compris les filons catholiques, où Schmitt puise sa théologie politique (cf. http://robertsteuckers.blogspot.be/2011/10/entretien-avec-robert-steuckers-sur-la.html ; http://robertsteuckers.blogspot.be/2011/10/mes-rencontres-avec-marc-eemans.html ; http://robertsteuckers.blogspot.be/2011/10/mes-rencontres-avec-marc-eemans.html ; http://robertsteuckers.blogspot.be/2011/11/adieu-au-professeur-piet-tommissen.html ).

Les cadres dans lesquels j’ai été initié à des aspects de la révolution conservatrice sont donc multiples et divers. A Bruxelles, il y a certes une antenne du G.R.E.C.E., mais elle est réduite et notre groupe n’entame aucune liaison directe avec la maison-mère parisienne avant fin 1979, début 1980. Je fais certes un voyage à Paris en janvier 1976 et me rend, seul, à un colloque du G.R.E.C.E. en 1977 (où l’anthropologue autrichien Irenäus Eibl-Eibesfeldt a pris la parole). Nous y allons à trois en 1978 (où j’échange quelques brèves paroles avec Giorgio Locchi). Je suis le seul du groupe à participer au colloque de 1979, lorsque les participants sont attaqués par des nervis dans le Palais des Congrès à la Porte Maillot. Notre cercle d’étudiant (une bonne douzaine de petits originaux, pas plus) est autonome. Il y a ensuite le G.R.E.C.E.-Bruxelles (où nous prononcerons des conférences, préparées chez Garcet, sur Arnold Gehlen, la démographie, la notion de peuple, la Grèce antique, la staséologie selon Monnerot). Il y a le « Centro Studi Evoliani » d’Eemans (où je présente un article de Locchi sur la notion d’Empire en présence de l’écrivain prolétarien Pierre Hubermont). Les racines de notre vision du monde doivent être recherchées dans notre curriculum scolaire et universitaire.

- Pouvez-vous, s’ils ont joué un rôle particulier pour vous dans cette découverte, évoquer les rôles de Giorgio Locchi et d’Armin Mohler?

C’est d’abord un article de Giorgio Locchi que j’ai lu, annoté et résumé sur fiches de papier Bristol, dans le premier numéro de Nouvelle école qui m’est tombé entre les mains, le n°19. Cet article concernait Dumézil et l’idéologie trifonctionnelle chez les peuples indo-européens. Je le signale dans l’hommage que je rends à ce philosophe italien (http://robertsteuckers.blogspot.be/search?q=giorgio+locchi ). C’est lui qui provoque le déclic premier qui m’amènera à lire les publications de la mouvance néo-droitiste française. Ensuite, c’est Locchi qui dans le numéro 23 de Nouvelle école (datant de 1973 mais nous ne l’avons acquis que plus tard) résume l’ouvrage de Mohler sur la révolution conservatrice, paru en 1972. Je devrai attendre jusqu’en 1989 pour me procurer la seconde édition. Pendant longtemps donc, la recension de Locchi a été la seule référence en français à l’ouvrage de base de Mohler, sauf une édition italienne ne reprenant que l’introduction de l’auteur, magistrale d’ailleurs, où il insiste sur les « images conductrices » (la traduction est de Locchi), plus mobilisatrices que les discours ou les démonstrations intellectuelles. Créer des images est donc plus important qu’énoncer des théories : Armin Mohler est bien en cela, de par sa formation académique, un historien de l’art. Lors de ma visite chez lui à Munich pendant l’été torride de 1984, j’ai été frappé par l’abondance incroyable d’ouvrages sur l’art et les avant-gardes qui encombrait son appartement. Plus tard, Marc Lüdders me posera la question de savoir quelles influences Mohler avait exercé sur moi. Voici sa question et ma réponse : Quelle a été l’influence d’Armin Mohler sur la vision du monde de la ND ? Que restera-t-il de son approche dans l’avenir ? 

Réponse : Votre question est vaste. Très vaste. Elle interpelle la biographie d'Armin Mohler, l'histoire de sa trajectoire personnelle, qu'il a eu maintes fois l'occasion d'évoquer (dans Von rechts gesehen ou dans Der Nasenring). Votre question nécessiterait tout un livre, celui qu'il faudra bien un jour consacrer à cet homme étonnant. Je crois que Karlheinz Weißmann se prépare à cette tâche (note de 2017 : cet ouvrage est aujourd’hui disponible). Il est l'homme le mieux placé et le mieux préparé pour rédiger cette biographie. Première remarque sur les idées de Mohler, et donc sur son influence, c'est qu'il part toujours du vécu existentiel, du particulier et jamais de formules abstraites ou de grandes idées générales. Toute l'oeuvre de Mohler est traversée par ce recours constant au particulier et au vécu, corollaire d'une critique sans appel des idées générales. La préface de sa Konservative Revolution in Deutschland est très claire sur ce chapitre. Pour répondre succinctement à votre question, je dirai que l'influence de Mohler vient surtout des conseils de lecture qu'il a donnés tout au long de sa carrière, notamment dans les colonnes de Criticón et, parfois dans celles de la collection Herderbücherei Initiative, dirigée par Gerd-Klaus Kaltenbrunner, collection qui ne paraît malheureusement plus mais nous laisse une masse impressionnante de documents pour construire et affiner nos positions.  

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Le réalisme héroïque 

L'influence de Mohler s'est exercée sur moi principalement: 
1) Parce qu'il nous a enjoint de lire le livre de Walter Hof, Der Weg zum heroischen Realismus.
Pessimismus und Nihilismus in der deutschen Literatur von Hamerling bis Benn (Verlag Lothar Rotsch, Bebenhausen, 1974, ISBN 3-87674-015-0). Hof examine deux grandes périodes de transition dans l'histoire littéraire allemande (et européenne): le Sturm und Drang à la fin du XVIIIe et la Révolution Conservatrice au début du XXe. Ces deux époques ont pour point commun que des certitudes s'effondrent. Les esprits clairvoyants de ces époques se rendent compte que les certitudes mortes ne seront jamais remplacées par de nouvelles certitudes, quasi similaires, aussi solides, aussi bien ancrées. Les substantialités d'hier, auxquelles les hommes s'accrochaient, et qu'ils percevaient comme se situant en dehors d'eux, comme des bouées extérieures sûres, disparaissent de l'horizon. Les passéistes nostalgiques estiment que cette disparition conduit au nihilisme. Avec Heidegger, les révolutionnaires conservateurs, qui constatent la faillite de ces substantialités passées, disent: "La substance de l'homme, c'est l'existence". L'homme est effectivement jeté (geworfen) dans le mouvant aléatoire de la vie sur cette planète: il n'a pas d'autre lieu où agir. Les bouées substantialistes de jadis ne servent que ceux qui renoncent à combattre, qui cherchent à échapper au flux furieux des faits interpellants, qui abandonnent l'idée de décider, de trancher, donc d'exister, d'ex-sistare, de sortir des torpeurs quotidiennes, c'est-à-dire de l'inauthenticité. Cette attitude révolutionnaire conservatrice (et heideggerienne) privilégie donc le geste héroïque, l'action concrète qui accepte l'aventureux, le risque (Faye), le voyage dans ce monde immanent sans stabilité consolatrice. Dans cette optique, le "dépassement" n'est pas une volonté d'effacer ce qui est, ce qui est héritage du passé, ce qui dérange ou déplait, mais une utilisation médiate et fonctionnelle de tous les matériaux qui sont là (dans le monde) pour créer des formes: belles, nouvelles, exemplaires, mobilisatrices. Le réalisme héroïque des révolutionnaires conservateurs réside donc tout entier dans la puissance personnelle (personne individuelle ou collective) qui crée des formes, qui donne forme au donné brut (Gottfried Benn). Cette définition du réalisme héroïque par Hof rejoint le "nominalisme", tel que l'a défini Mohler (d'après sa lecture attentive de Georges Sorel) ou la conception "sphérique" de l'histoire, présentée par Mohler dans son célèbre ouvrage de référence sur la "révolution conservatrice" allemande et par Giorgio Locchi dans les colonnes de Nouvelle école. Cette conception "sphérique" du temps et de l'histoire rompt tant avec la conception réactionnaire et restauratrice de l'histoire, qui décrit celle-ci comme cyclique (retour du temps sur lui-même à intervalles réguliers), qu'avec les conceptions linéaires et progressistes (qui voient l'histoire en marche vers un "mieux" selon un schéma vectoriel). Les conceptions cycliques estiment que le retour du même est inéluctable (forme de fatalisme). Les conceptions linéaires dévalorisent le passé, ne respectent aucune des formes forgées dans le passé, et visent un télos, qui sera nécessairement meilleur et indépassable. La conception sphérique de Mohler et Locchi implique qu'il y a des retours, certes, mais jamais des retours de l'identique, et que la sphère du temps peut être impulsée dans une direction plutôt que dans une autre par une volonté forte, une personnalité charismatique, un peuple audacieux. Il n'y a donc ni répétition ni retour aux substances immobiles et handicapantes ni linéarité vectorielle et progressante. La conception sphérique admire le créateur de forme, celui qui bouscule les routines et abat les idoles inutiles, qu'il soit artiste (l'Artisten-Metaphysik de Nietzsche) ou condottiere, thérapeute ou ingénieur. Mohler nous a donc suggéré une anthropologie héroïque concrète, dérivée notamment de son amour de l'art, des formes et de la poésie de Benn. Mais, pour compléter ce réalisme héroïque de Hof et de Mohler, j'ajouterais  - aussi pour donner une plus grande profondeur généalogique à la ND -  la pensée de l'action, formulée par Maurice Blondel, où la personne est réceptacle de fragments de monde, de sucs vitaux, disait-il, qu'elle doit transformer par l'alchimie particulière qui s'opère en elle, pour poser des actions originales qui développeront et constitueront son être, lui procureront une "accrue originale", une intensité digne d'admiration (L'action, op. cit., p. 467-468).
  
Le débat réalisme/nominalisme 

2) Parce qu'il a lancé le débat réalisme/nominalisme, par le biais d'une disputatio qui l'opposait au catholique Thomas Molnar (Criticón, n°47, 1978). J'ai traduit des fragments de ce débat pour la revue néo-droitiste belge Pour une Renaissance européenne, ensuite Alain de Benoist a repris cette thématique dans Nouvelle école. La Nouvelle Droite a d'ailleurs manié l'étiquette auto-référentielle de "nominalisme" pendant de nombreuses années.


Malheureusement, l'usage du terme "nominalisme" par Alain de Benoist et ses "perroquets" a été trop souvent inapproprié et, surtout, sans référence à Blondel, Sorel et Papini, alors que Mohler, spécialiste de Sorel, connaît très bien le contexte de cette grande époque féconde de remises en questions. La critique catholique de la ND a eu beau jeu de souligner l'insuffisance du "nominalisme" médiéval, source de l'individualisme et du libéralisme ultérieurs, que de Benoist rejetait! La nouvelle droite a ainsi stagné, donnant naissance à un dialogue de sourds, où les uns et les autres ignoraient la position de Blondel, ce catholique, doctrinaire de l'action pour l'action en dehors de tout cadre dogmatique généralisant et contraignant. Le vrai débat sur le nominalisme a été lancé un jour, lors d'une "conférence fédérale des responsables" du GRECE, tenue dans la région lyonnaise. Ce jour-là, Pierre Bérard a critiqué le mauvais usage du terme "nominalisme" dans les rangs de la ND, en appelant à la rescousse les thèses de Louis Dumont qui  - je résume très schématiquement -  déplore l'érosion des ciments communautaires sous les assauts d'une modernité toute à la fois intellectuelle (l'Aufklärung), industrielle et morale. Il avait raison. Mais en entendant cette brillante argumentation, de Benoist est entré dans une vive colère et a quitté la salle, avec une ostentation assez puérile. Bérard, malgré ses diplômes et ses titres, a été rappelé à l'ordre comme un élève irrévérencieux. Modeste et conciliant, il a accepté, au nom de la discipline (!) de groupe, d'abdiquer son rôle d'universitaire critique, pour laisser le champ libre au journaliste sans qualifications académiques qu'est resté de Benoist. Quelques années plus tard, de Benoist s'alignait toutefois sur les positions de Bérard, et les faisait siennes, mais sans jamais expliquer à ses lecteurs, de manière précise, cette transition importante, entre une première interprétation maladroite du «nominalisme", laissant planer un bon paquet d'ambiguïtés, et une défense des différences (donc des particularités contre les grandes idées générales), impliquant la critique de l'individualisme des Lumières, selon la méthode de Louis Dumont. Pour revenir à l'essentiel de notre entretien, en matière de "nominalisme", Mohler nous enseignait dans son article de Criticón (n°47, op. cit.)  
- à nous méfier des conceptions trop rigides de l'«Ordre» ou de la «Nature», comme la scolastique et le rationalisme (cartésien ou non) en avaient véhiculées.  
- à sortir de la «mer morte des abstractions» pour entrer dans "les terres fertiles du réel avec ses irrégularités, ses imprévisibilités et ses surprises",  
- à concevoir toute altérité comme altérité en soi, comme altérité autonome, au-delà du “Bien” et du “Mal”, toutes démarches qui redonnent à l'homme son caractère aventureux, donc sa dignité.  Il y a derrière tous les textes de Mohler cette aspiration insatiable vers une liberté pleine et entière, non pas une liberté qui se détache des choses concrètes pour s'envoler vers des empyrées sans chair et sans épaisseur, mais une liberté de façonner (gestalten, prägen) quelque chose dans l'immense richesse immanente du monde, de l'ici-bas, sans s'occuper des admonestations des philosophes en chambre, toujours dogmatiques et poussiéreux, qu'ils se réclament d'une scolastique médiévale ou d'une modernité raisonnante/ratiocinante.
  
Le "oui" au réel de Clément Rosset

3) Parce qu'il nous a encouragé à lire Clément Rosset (Criticón, n°67, 1981), que j'avais découvert quelques années plus tôt, à vingt ans, dans L'anti-nature et La logique du pire, deux ouvrages qui m'ont très profondément marqués (pour la petite histoire: je les lisais pendant un cours d'économie politique profondément barbant et stérile, basé sur le pensum de Jacquemain et Tulkens, ce qui m'a valu un zéro à l'examen! Rapidement rattrapé en septembre, où, rêve de tout étudiant, j'ai pu expliquer en toute jovialité à la jeune enseignante, douce et rubiconde, pourquoi ce traité, trop mécanique, m'apparaissait critiquable).

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Mohler saluait en Clément Rosset le philosophe qui disait "oui" au réel (Bejahung des Wirklichen), en critiquant sans appel les pensées avançant l'existence d'un arrière-monde, qui aurait précédé ou suivrait le monde tel qu'il est. Dans le portrait qu'il croquait de Rosset, Mohler risquait un souhait: voir cette apologie du réel devenir le fondement philosophique et idéologique d'une "nouvelle droite", enfin capable de se débarrasser de tout ballast incapacitant. 

La critique de l'Occident de Richard Faber, catholique de gauche 

4) Parce qu'il a attiré mon attention sur l'importance des travaux de Richard Faber, professeur à Berlin et critique acerbe des visions historiques des droites allemandes (cf. Criticón, n°90, 1985; Robert Steuckers, "L'Occident: concept polémique", Orientations, n°5, 1984). Pour Faber, catholique de gauche, il faut universaliser le catholicisme, l'arracher à ses racines romaines, païennes et étatiques. L'exact contraire de notre position, l'exact contraire du catholicisme d'un Carl Schmitt! Mais la documentation exploitée par le professeur berlinois était tellement abondante qu'elle complétait utilement l'oeuvre maîtresse de Mohler, ce qu'il avouait volontiers et sportivement. Le travail de Faber permettait une critique de la notion d'Occident, notamment de la volonté américaine de reprendre le rôle d'une Rome impériale, mettant la vieille Europe sous tutelle. Faber critiquait par là certaines positions d'Erich Voegelin, qui entendait conjuguer ses options catholiques conservatrices, pro-caudillistes, avec la tutelle américaine dans le cadre de l'alliance atlantique. Bien qu'elle n'ait pas du tout la même optique, la critique de l'Occident par Faber est à mettre en parallèle avec celle de Niekisch, afin que nous envisagions, à terme, une nouvelle alliance germano-russe, actualisation du tandem Russie-Prusse à la fin de l'ère napoléonienne. 

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Le regard de Panayotis Kondylis sur le conservatisme 

5) Parce qu'il a encouragé les lecteurs de Criticón, puis, plus tard, de Junge Freiheit, à lire attentivement l'ouvrage de Panayotis Kondylis sur le conservatisme (Criticón, n° 98, 1986; Robert Steuckers, "Il faut instruire le procès des droites!", in Vouloir, n°52-53, 1989, sur P. Kondylis, v. p. 8). L'approche du conservatisme que l'on trouve dans l'oeuvre de Kondylis est foncièrement différente de celle de Mohler, dans le sens où Kondylis estime que la notion même de conservatisme est dépassée parce que la classe des aristocrates propriétaires terriens a disparu ou n'est plus assez puissante et nombreuse pour avoir un poids politique déterminant. Mohler a accepté et assimilé les positions de Kondylis: il reconnaît la critique du penseur grec qui dit que tout conservatisme post-aristocratique n'est qu'un esthétisme (mais pour Mohler, cet "isme" n'est pas une injure!), surtout s'il ne défend pas la societas civilis contre l'emprise dissolvante du libéralisme. Mohler y voit la nécessité, pour toute "droite" non conformiste de défendre le peuple réel, c'est-à-dire la societas civilis contre les institutions fondées sur des abstractions philosophiques donc sur des dénis de liberté. Grand mérite de Kondylis, concluait Mohler: "Son charme intellectuel consiste justement en ceci: il nous présente les concepts et les idées qu'il traite dans leur concrétude historique". 

Wolfgang Welsch et la postmodernité 

6) Parce qu'il nous a conseillé de lire les ouvrages de Wolfgang Welsch sur la postmodernité (cf. Criticón, n°106, 1988; Robert Steuckers, "La genèse de la postmodernité", Vouloir, n°54-55, 1989). A juste titre, Mohler constate que Wolfgang Welsch donne à ses lecteurs un fil d'Ariane pour se repérer dans la jungle des concepts philosophiques contemporains, souvent assez obscurs et abscons. Mieux, Welsch dégage une interprétation "affirmative" du phénomène postmoderne, qui nous permet de quitter joyeusement et sans regret la prison de la modernité. La postmodernité de Welsch, revue par Mohler, n'est ni une antimodernité véhémente et révoltée ni une transmodernité, mais une autre modernité qui se libère des limites et des rigorismes qu'elle s'est donnés jadis. La postmodernité refuse la "Mathesis Universalis" voulue par Descartes. A la suite de Jean-François Lyotard, elle ne croit plus aux "grands récits" qui promettaient une unification-universalisation du monde sous l'égide d'une seule et même idéologie rationaliste. Ce double rejet corrobore bien entendu les éternelles intuitions de Mohler. Et porte, en filigrane, la marque de Nietzsche. 

Georges Sorel: référence constante 

7) Enfin parce qu'inlassablement il nous a invité à relire Georges Sorel et à explorer le contexte de son époque (Criticón, n°20, 1973; n°154, 1997; n°155, 1997). Sorel, que l'on a parfois appelé le "Tertullien de la révolution", était allergique au rationalisme étriqué, aux petits calculs politiques mesquins, que véhicule la sociale-démocratie. A cet esprit boutiquier, porté par une éthique eudémoniste de la conviction et par une volonté de rayer des mémoires tous les grands élans du passé et de gommer leurs traces, Sorel opposait le "mythe", la foi dans le mythe de la révolution prolétarienne. L'éthique bourgeoise, malgré sa prétention d'être rationnelle, conduit à la désorganisation voire à la désagrégation des sociétés. Aucune continuité historique et étatique n'est possible sans une dose de foi, sans un élan vital (Bergson!). Plus fondamentalement, quand Sorel interpelle les socialistes embourgeoisés de son époque, il suggère une anthropologie différente: le rationalisme coupe du réel, ce qui est malsain, tandis que le mythe en épouse les flux. Le mythe, indifférent à tout "sens" posé comme définitif ou érigé comme idole, est le noyau de la culture (de toute culture). Sa disparition, son refoulement, son oblitération conduisent à une entropie dangereuse, à la décadence. Une société étouffée par le filtre rationaliste s'avère incapable de se régénérer, de puiser et de re-puiser ses propres forces dans son récit fondateur. La définition sorélienne du mythe interdit de penser l'histoire comme un déterminisme; l'histoire est faite par de rares et fortes personnalités qui lui impulsent des directions, aux périodes axiales (Armin Mohler reprend la terminologie de Karl Jaspers, que Raymond Ruyer utilisera à son tour en France). La vision mythique des personnalités impulsantes et des périodes axiales fonde la conception "sphérique" de l'histoire, propre de la ND (cf. supra, paragraphe sur le "réalisme héroïque").  

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- Quels aspects, courants, figures de la RC ont retenu votre attention et votre intérêt? De quels auteurs/courants de la RC vous sentez-vous le plus proche? 

Première remarque : Mohler lui-même, dans un entretien accordé en Allemagne à des collaborateurs de la revue Sezession de Götz Kubitschek (qui prononcera un discours lors de ses obsèques), a précisé que la masse des écrits qu’il avait classés dans la catégorie de la « révolution conservatrice » sont désormais illisibles et inexploitables. D’autres démonstrations intellectuelles doivent prendre le relais. D’autres configurations idéologiques et d’autres donnes en politique internationale doivent se substituer aux interrogations et aux constats de l’ère de Weimar : Suisse de Bâle et homme d’entre-deux, comme moi qui suis Bruxellois et bas-lotharingien, Armin Mohler ne veut plus de conflits franco-allemands et sait que toute nouvelle confrontation avec la Russie entraînerait la perte définitive de tous. Et, surtout, selon sa prédilection pour les « images directrices », d’autres images mobilisatrices doivent advenir pour bousculer l’encroûtement généralisé, situation qu’un disciple tout à la fois de Nietzsche et de Sorel ne saurait accepter. L’historien de l’art Mohler pense au muralisme mexicain (auquel il consacrera un long article traduit pour Nouvelle école), au muralisme irlandais et aux affiches maoïstes.

Il est évident que je retiens principalement Ernst Jünger comme figure de référence, de même que son frère Friedrich-Georg. Mohler ne dit pas le contraire même si son engouement pour Jünger, au départ, était essentiellement motivé par une adhésion pleine et entière aux messages nationaux-révolutionnaires qu’il avait couchés sur le papier dans les revues militantes des années 1920 à 1932. Quand Mohler devient le secrétaire de Jünger au début des années 1950, il espère réitérer ce discours, le répandre dans une République fédérale allemande qui risque de sombrer dans une mortelle indolence sous le double effet de la « rééducation » voulue par les Américains et de la tendance post bellum au matérialisme consumériste.

J’apprécie chez Jünger ses talents de mémorialiste, qui sont sans doute inégalés dans la littérature européenne. Au cours de ces dix dernières années, plusieurs ouvrages de toute première importance sont parus sur lui, nous aidant à comprendre son œuvre. Je suis en train de lire cette abondante production, afin de pouvoir publier de futurs ouvrages. Il est évident que les discours nationaux-révolutionnaires de Jünger m’ont intéressé voire fasciné, tout comme le Mohler des années 1930, 1940 et 1950. Nous voulions aussi une fusion des « cerveaux hardis », au-delà des clivages incapacitants imposés par les droites et les gauches établies. Mais cela, c’était il y a quarante ans. Dans les années 1980, nous avons cherché à traduire dans la réalité nouvelle notre option récurrente qui transcendait les clivages, en nous joignant au combat contre l’installation des missiles américains en RFA et en réclamant un « désalignement » et un retour à la neutralité (celle suggérée par Staline en 1952, celle adoptée par la Finlande, celle conservée par la Suisse et la Suède, celle adoptée par l’Autriche en 1955). Toute l’aventure de l’étonnante et irremplaçable revue Wir Selbst en Allemagne, avec Siegfried Bublies et Henning Eichberg, en témoigne, comme celle de Vouloir/Orientations (avec Ange Sampieru et votre serviteur) ou celle des initiatives de Christian Dutoit en Flandre (cf. supra).  Tous nos espoirs ont été vains : la guerre en Yougoslavie a permis une installation discrète des forces américaines dans une région hautement stratégique (le Camp Bondsteele au Kosovo) ; les bombardements contre la Serbie en 1999 ont confirmé l’impuissance européenne, le déclenchement de l’Apocalypse en Mésopotamie, au Levant et en Cyrénaïque a démontré à satiété que l’Europe était politiquement inexistante, que les partis politiques établis (libéraux, sociaux-démocrates et démocrates-chrétiens) ne servaient à rien d’autre qu’à poursuivre leur chasse insatiable aux prébendes, qu’ils n’avaient aucun projet en politique extérieure et en diplomatie (c’est-à-dire dans les domaines régaliens). Il n’y a toujours pas d’Europe indépendante et neutre, capable de suggérer une diplomatie alternative et d’offrir un modèle social cohérent au monde extérieur.

Jünger avait donc eu raison, après-guerre, d’opter pour « un recours aux forêts » ou pour l’attitude de l’« anarque ». Nous sommes effectivement, comme il le constatait avant nous, en visionnaire avisé, entrés douloureusement dans l’ère de la « post-histoire ». Nous sommes incapables ou empêchés de faire l’histoire. Celle-ci est déterminée par d’autres forces que celles qui avaient émergé jadis sur les terres de notre Europe. La tragédie yougoslave est emblématique à ce sujet : c’est elle qui nous a fait ouvrir les yeux, nous a forcé, jeunes fous, à accepter de devenir des « anarques ». Ce qui ne doit pas nous interdire de sortir de temps en temps des bois…

Spengler a été important pour moi, tant pour son Déclin de l’Occident que pour les écrits produits après 1920. D’autres auteurs, dont je m’abstiendrai de dresser la liste ici, sous peine de chavirer dans une exhaustivité non maîtrisable, ont illustré mes intuitions initiales de manière durable : ce sont ceux qui feront l’objet de courtes entrées dans l’Encyclopédie des Œuvres Philosophiques, éditée par les P.U.F. sous la houlette du Professeur Jean-François Mattéi (cf. infra).

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Enfin, mon « conservatisme révolutionnaire » ne se limite pas à l’espace linguistique germanophone, même si celui-ci est, quantitativement, le plus important en Europe, vu que l’allemand est la langue la plus parlée en Europe à l’est de l’espace russophone et est la langue philosophique par excellence, héritière du grec antique, le véhicule de bon nombre d’innovations intellectuelles depuis la moitié du 19ème siècle ; il fut la langue vernaculaire de tous les territoires entre Berlin et Moscou, de la Baltique à la Mer Noire et dans tout l’espace danubien de l’ancien Empire austro-hongrois. L’Espagne, en la personne du germanisant José Ortega y Gasset, recèle des traditions politiques très intéressantes. L’Amérique latine a beaucoup de leçons, claires et pragmatiques, à nous apprendre. L’Italie mérite toute sa place et peut se glorifier d’avoir une tradition « conservatrice-révolutionnaire », elle aussi, analysée notamment par Maurizio Veneziani (cf. La rivoluzione conservatrice in Italia. Genesi e sviluppo della ideologia italiana, Milano, SugarCo, 1987.; 1994. ISBN 88-7198-311-4; 2012. ISBN 978-88-7198-631-9 ; et : L'antinovecento. Il sale di fine millennio, Milano, Leonardo, 1996. ISBN 88-04-40843-X ). Le monde slave, qui m’est plus difficilement accessible ou seulement par des études en d’autres langues romanes ou germaniques, reste un continent immense à découvrir ou redécouvrir. Le chantier est inépuisable.

- Pouvez-vous présenter vos différents travaux sur le courant de la RC, au sein du GRECE, puis dans vos revues Vouloir et Synergies Européennes? Pourquoi avoir voulu porter cette galaxie intellectuelle à la connaissance du public (et quel public?) ?

Mes travaux sur la « révolution conservatrice » allemande sont consignés dans mon recueil paru aux éditions du Lore. Il y a certes d’innombrables traductions disséminées dans les quelque deux cents fascicules d’Orientations, Vouloir, Nouvelles de Synergies européennes, Au fil de l’épée, etc. Un numéro assez copieux de Vouloir a été consacré au sujet, de même qu’un autre à la personnalité d’Ernst Jünger à l’occasion de son centième anniversaire. Mes travaux ont donc été surtout auto-publiés dans les revues soutenues par l’E.R.O.E. de Jean van der Taelen, par « Synergies Européennes » (Gilbert Sincyr, Prof. Jean-Paul Allard, Alessandra Colla, etc.) et par l’Association « Minerve » de Robert Keil, avec l’appui d’André Wolff à Metz. A part Alessandra Colla et moi-même, tous sont aujourd’hui décédés. Au G.R.E.C.E., où j’ai surtout été personna non grata pendant des décennies, à part entre 1979 et 1981 et 1989 et 1992, j’ai publié un article sur Henri De Man dans Etudes & Recherches,  un article sur Heidegger dans Nouvelle école, un article sur Ortega y Gasset dans Eléments (qui a été caviardé sous prétexte que la référence majeure en était l’étude du Prof. Walravens de l’Université de Louvain et que ce philosophe hispaniste flamand était un ecclésiastique !!). Enfin, en 1981 toujours, j’ai co-rédigé un article sur Carl Schmitt avec Guillaume Faye pour Eléments. C’est bien peu de chose. Et tout cela remonte à plus de trente-cinq ans. J’ai prononcé deux conférences relatives à la révolution conservatrice allemande dans le cadre du G.R.E.C.E. : l’une en 1989 sur la postmodernité vue par Wolfgang Welsch dont l’ouvrage avait été chaleureusement recommandé par Mohler dans les colonnes de Criticon. Cette conférence a rencontré l’incompréhension de la majorité des stagiaires présents et une franche hostilité parce que Welsch, Mohler et moi-même avions cité positivement « le Juif Derida-da » (!). L’autre conférence concernait Friedrich-Georg Jünger et était destinée à l’Université d’été 1991. J’avais le sobriquet de « trotskiste » du mouvement ; j’ai récolté celui d’« écolo » après cette présentation succincte du frère d’Ernst Jünger, qui avait particulièrement déplu à un mécanicien-dentiste, membre de la maîtrise du G.R.E.C.E. et, à ses heures, triste chansonnier à la voix rauque et brisée et aux paroles d’une stupidité affligeante.

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Le gros de mes études sur la révolution conservatrice a été commandité par le Prof. Jean-François Mattéi pour le compte des Presses Universitaires de France. Ce travail m’a permis de me plonger pendant huit longs mois dans les archives de l’Albertine, la bibliothèque royale de Belgique, très riche en ouvrages allemands, tant le Kaiser en 1914 que le Führer en 1940 s’étaient montrés généreux dans l’espoir de « re-germaniser » le pays. Des wagons entiers de bouquins suivaient les troupes de la Reichswehr et de la Wehrmacht. Personne ne lit plus ces archives depuis 1918 et 1945.

Vous me demandez quel public était visé ? Dès le départ, dès notre groupe informel d’étudiants bruxellois des années 1975-1981, nous n’avions aucune illusion quant au public dit de « droite » (pour autant que ce terme ait une signification en Belgique, comme le soulignait déjà le Prof. Stengers de l’Université Libre de Bruxelles, dans un ouvrage collectif aujourd’hui épuisé et intitulé The European Right). Nous nous adressions à des semblables, à des curieux comme nous, à des inclassables. L’analyse du fichier des abonnés aux revues le prouve : il y avait certes dans cette liste des hommes et des femmes rencontrés lors de colloques du G.R.E.C.E. ou d’autres initiatives mais l’immense majorité était composée d’inconnus, de personnes que nous n’avions jamais vues ou qui se sont confinées dans une discrétion absolue. Quant aux raisons de vouloir parler de personnalités oubliées ou décrites comme sulfureuses, elles sont simples : 1) faire éclore une meilleure connaissance de la pensée européenne contemporaine ; 2) faire revenir du refoulé car le refoulé explique en profondeur ce que la surface acceptée signifie en fait (un de nos commensaux étudiait la psychiatrie et s’affichait « lacanien »); 3) remettre en question les établissements en place par un travail généalogique et archéologique sur les idéologies et les idéologèmes, afin de les dégager de leur cangue conformiste. Aujourd’hui, d’excellents travaux universitaires allemands, français, italiens ou anglo-saxons explorent l’époque qui va de 1870 à 1914 ou au-delà. Tous sont contraints de citer des auteurs que les deux après-guerres avaient refoulés.

- Vous publiez régulièrement sur vos blogs Synergies Européennes et Vouloir des articles sur la RC et ses principales figures; qu’est-ce qui, selon vous, reste aujourd’hui d’actualité dans la pensée conservatrice-révolutionnaire? 


Les raisons de publier des articles sur les blogs sont les mêmes que celles qui nous amenaient à les publier sur des supports en papier. Si vous me posez la question de savoir ce qui reste d’actualité dans le corpus doctrinal de la révolution conservatrice, je commencerai par vous posez une autre question. Celle-ci : que reste-t-il d’actualité de la première psychanalyse de Freud, de l’architecture Art Nouveau ou Art Déco, de la littérature victorienne, des interprétations successives du marxisme ? Le passé ne s’efface pas contrairement à ce que colporte la vulgate progressiste. Il s’estompe, semble disparaître mais ré-émerge d’une manière ou d’une autre. Pensons par exemple à la culture de la double monarchie austro-hongroise. Un auteur italien contemporain, Claudio Magris, a bien montré que le souvenir de cette construction politique et de la culture qu’elle a véhiculée demeure sous-jacent dans tous les pays qui en ont fait partie. La disparition du Rideau de Fer en 1989 a fait resurgir un passé commun que même le conflit inter-yougoslave n’a pas pu entièrement effacer. De toutes les façons, si nous étions des originaux, que l’on prenait pour des fous, il y a quarante ou trente ans, force est de constater que les travaux universitaires et les productions littéraires ou cinématographiques puisent désormais, en partie, dans ce corpus, pour mille et une raisons ; d’abord pour ne pas avoir à ânonner les poncifs lassants répétés ad nauseam par tous les établissements de la planète. Votre propre mémoire en maîtrise le prouve. Je constate que cet engouement secoue davantage le monde anglo-saxon que les autres espaces linguistiques européens ou autres. Quand je vous parle de la pertinence toujours latente de thématiques révolutionnaires-conservatrices ou autres, datant des années 1920 et 1930, je fais implicitement référence à un auteur anglo-indien, Kris Manjapra, auteur de la copieuse étude Age of Entanglement – German and Indian Intellectuals across Empire (Harvard University Press, 2014). Manjapra montre comment la modernisation de l’Inde et, simultanément, sa marche vers l’indépendance, s’est accompagnée d’une « autre modernité » que celle suggérée par l’Empire britannique, le Raj. Cette « autre modernité » était de facture allemande, tant à la fin du 19ème siècle (avec l’avènement d’une physique nouvelle) que sous la République Fédérale, en passant par les ères wilhelminienne et nationale-socialiste.

Le filon organique qui traverse toute la pensée allemande doit beaucoup aux découvertes successives de la physique pure et de la biologie animale et humaine. Bon nombre de réflexes intellectuels de la « révolution conservatrice » sont tributaires, en amont, de cette nouvelle physique et de cette nouvelle biologie (pas nécessairement darwinienne). Cette scientificité latente de tout le corpus organique a aussi été mise en exergue en France par Georges Gusdorf dans son œuvre monumentale concernant les idéologies des Lumières, le romantisme ou l’histoire de l’herméneutique. Dans cette perspective, les idéologies en place, qui se disent « progressistes », sont des vieilleries anti-scientifiques tandis que l’alternative proposée par les meilleurs des « révolutionnaires conservateurs », qui refusent de se proclamer « progressistes », ont bel et bien un fondement scientifique parce qu’organique. Les étudiants indiens de ces professeurs allemands de physique ou de biologie l’avaient bien compris : ils mettaient en exergue la conformité de cette nouvelle science physique avec les traditions de la mythologie hindoue et les Védas, tout en déployant des techniques visant à assurer, à terme, l’indépendance de leur civilisation. Par ailleurs, Wolfgang Welsch (cf. supra) définit la postmodernité comme une modernité issue des découvertes de la nouvelle physique : Mohler imaginait, après la chute du Rideau de Fer, que la modernité allait sortir des sentiers battus de l’Aufklärung, interprété par le mentor de la RFA, Jürgen Habermas, pour devenir une postmodernité calquée sur cette physique nouvelle qui avait généré les impulsions des révolutionnaires conservateurs. La postmodernité de Mohler, inspirée par la définition qu’en donnait Welsch, n’était rien d’autre que la bonne vieille « révolution conservatrice » sous des oripeaux nouveaux, « nominalistes » dans le sens où ils s’avéraient plus souples et plus plastiques que les rigidités substantialistes des philosophies scolastiques ou dégénérées en scolastique. Rien de cette transition ardemment espérée ne s’est passé et ce que l’on appelle aujourd’hui la « postmodernité » n’est qu’un carnaval terne et sans ressort, que Philippe Muray nomme le « festivisme ».

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Steuckers/Révolution conservatrice

- Vous avez publié en 2014 un ouvrage sur la RC qui regroupe plusieurs portraits de ses principaux auteurs; or, vous proposez un cadre autre que celui retenu par Mohler, en élargissant notamment la chronologie (vous remontez jusque dans les années 1875, et intégrez à la fois le courant nietzschéen et l’école allemande de géopolitique). Pourquoi cette nouvelle approche élargie? Quels sont les points forts et les points faibles de la typologie et de la chronologie retenues par Mohler?

Je ne propose nullement un cadre autre que celui retenu par Mohler, non pas dans les années 1950, quand il travaillait à sa thèse de doctorat sous la houlette de Karl Jaspers mais dans les années 1980, quand il lisait les thèses sur la France d’avant 1914 de Zeev Sternhell. Dans sa recension du livre de Sternhell, La droite révolutionnaire, pour la revue munichoise Criticon du Baron Caspar von Schrenck-Notzing, Mohler applaudit à l’idée d’élargir l’espace temporel de la révolution conservatrice. Ensuite, il ne faut pas oublier que Moeller van den Bruck, après la défaite allemande de 1918, évoque, avec l’Alsacien Stadtler, l’idée d’imiter les Français après leur défaite de 1871 : créer des clubs, des revues, des cénacles qui ne pensent qu’à une chose, la revanche. Or cet antécédent français est justement cet espace idéologique rupturaliste que décrit Sternhell dans La droite révolutionnaire. Moeller van den Bruck comme Mohler sont conscients de l’impolitisme foncier des Allemands. Se référer tout à la fois aux conquêtes scientifiques allemandes, qui n’ont été d’aucune utilité dans la mobilisation totale des forces nationales pendant la Grande Guerre, et à l’hyper-politisme des Français entre 1871 et 1914 permettra de sortir de l’impasse imposée à Versailles en 1919, pensaient Moeller van den Bruck et les membres du « Juni Klub ». Aujourd’hui, c’est l’Europe tout entière qui doit se repenser au-delà de toutes les humiliations qu’elle a subies. En France aujourd’hui, c’est aussi à Bergson et à Péguy voire à Sorel que se réfère un Patrick Buisson pour pallier le suicide français décrit par Zemmour : donc des références d’avant 1914 ! En proposant d’élargir la plage temporelle des études sur l’idéologie allemande, je n’ai nullement été à l’encontre de Mohler mais, bien au contraire, j’ai abondé dans son sens : j’ai travaillé à l’élargissement qu’il appelait de ses voeux. Il n’y a donc pas lieu, pour moi, d’évoquer des points forts ou faibles dans son argumentaire.

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- Quel regard portez-vous concernant l’actualité des publications sur la RC, universitaires ou militantes (notamment dans les milieux nationaux-révolutionnaires et ce qu’il reste de la « Nouvelle Droite ») dans l’espace francophone? 

Les publications universitaires sont toutes excellentes, à condition qu’elles ne véhiculent pas les simplismes des idéologies dominantes à l’encontre des pensées nées entre 1870 et aujourd’hui. Sur ma table de travail, outre les livres allemands d’exégèse sur l’œuvre d’Ernst Jünger et le livre de Manjapra (cf. supra), il y a celui d’Anthony Andurand, Le mythe grec allemand – Histoire d’une affinité élective, Presses universitaires de Rennes (2013). Les milieux nationaux-révolutionnaires, tels que nous les avons connus du temps d’un Jean-Gilles Malliarakis ou d’un Christian Bouchet, ont virtuellement cessé d’exister. D’autres ont pris le relais, comme « Dissidence française » de Vincent Vauclin. Ces mouvements pouvaient ou peuvent certes susciter un engouement ou des vocations mais leur tâche n’est pas de faire œuvre scientifique en ce domaine. Ils suscitent indubitablement un intérêt pour les questions révolutionnaires-conservatrices, le même que celui qui avait animé un Dominique Venner pour la geste d’Ernst von Salomon et des « réprouvés » des années 1920 en Silésie ou dans les Pays Baltes. Mais, lato sensu, la révolution conservatrice ne se limite pas aux épopées « soldatiques » comme je l’explique dans quelques chapitres de mon livre sur le sujet.

Quant à la « nouvelle droite », du moins son canal historique, elle a rejeté et exclu tous ses germanistes (Locchi, Mudry, Allard, moi-même) et son meilleur italianiste (Baillet), en adoptant le comportement des « rombières » fustigées par notre Abbé d’antan : elle nous a tissé une réputation de fainéant, de toqué, etc. avec la même hypocrisie que « celles qui tricotaient des bas pour les pauvres ». Heureusement que Jean Haudry a chaperonné la confection des derniers numéros de Nouvelle école. Quant au reste des productions, à part un ouvrage de leur chef de file sur quatre figures de la révolution conservatrice, je ne vois rien de bien particulier qui ait été publié. L’étude de cette période de l’histoire intellectuelle germanique appartient désormais à l’université. Et à elle seule. Ma tâche de « perroquet » (Maurras) et d’instituteur (Niekisch) est de répercuter bravement ce que ces savants vont produire en plus hauts lieux.

mardi, 30 mai 2017

Fundamentos Filosóficos para a Nova Direita

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Fundamentos Filosóficos 

para a Nova Direita

por 

Autor: Robert Steuckers
Título: “Fundamentos Filosóficos para a Nova Direita
Nº páginas: 64
Formato: livro de bolso
ISBN: 978-1546616146
Preço: 5 €

A primeira questão que se deve colocar hoje a qualquer pessoa interessada pelo universo da Nova Direita (ND) na Europa é saber por que razão este movimento causou escândalo, suscitou tantas reacções negativas nos círculos do pensamento convencional? (…)”
 
“(…) Afirma um mundo, um relato (da história dos povos), diferente daquele que domina a cena política ou cultural. Ela vira as costas ao vício da crítica pela crítica, da crítica como instrumento para aperfeiçoar pequenas correcções marginais, de engenharia social, sem interpelação radical e global do que está decididamente estabelecido e sufoca, oprime e oblitera as potencialidades fecundas que não esperam mais que uma coisa: manifestar-se.”
 
Robert Steuckers (1956) é um teórico belga da Nova Direita, que tem em Friedrich Nietzsche, Julius Evola, Ernst Jünger e Jean Thiriart as suas principais influências e referências. Em 1973, com 17 anos, aderiu ao GRECE (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne), também denominado Nova Direita, um movimento intelectual de cariz europeísta e que tinha por objectivo rearmar ideologicamente a direita. Fundador da revista Orientations, em 1980, passa a colaborar na revista Nouvelle École, em 1981, a convite de Alain de Benoist. Em 1983, afasta-se do GRECE e funda o EROE (Études, recherches et orientations européennes), tendo como órgão de expressão a revista Vouloir.  Robert Steuckers é autor de uma vasta obra literária e tem colaborado no campo da formação ideológica com diversos organismos políticos.
 
Edição limitada e numerada à mão.

mardi, 16 mai 2017

Guillaume Faye & Yann-Ber Tillenon: Macron président, quel avenir pour la France ?

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Guillaume Faye & Yann-Ber Tillenon:

Macron président, quel avenir pour la France ?

vendredi, 12 mai 2017

TERRE & PEUPLE Magazine n°71

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Communiqué de "Terre & Peuple - Wallonie"

TERRE & PEUPLE Magazine n°71

Le numéro 71 de TERRRE & PEUPLE Magazine est centré sur le thème 'La guerre toujours et partout'.

Dans son éditorial, Pierre Vial prophétise « Les anges iront en enfer'.  Les anges, ce sont ceux qui croient se préserver de la guerre en se contentant de la refuser.  En commençant par la nier quand elle leur crève les yeux.  Ceux qui se bousculent pour trahir les leurs, victimisant les Théo et autres fauteurs de 'petites' émeutes, qui ne sont que des répétitions pour la grande.  Il cite Ernst Jünger : « Les longues périodes de paix favorisent certaines illusions d'optique.  L'une d'elles est la croyance que l'inviolabilité du domicile se fonde sur la Constitution, est garantie par elle.  En fait, elle se fonde sur le père de famille qui se dresse au seuil de sa porte, entouré de ses fils, la cognée à la main. »

Dans son introduction au dossier central, Pierre Vial répète que la guerre n'est pas une institution humaine, mais une loi de la nature.  Il souligne qu'elle n'est pas seulement militaire, mais également militante, notamment dans la guerre culturelle, par l'information et la désinformation.  Nous faisons à présent l'objet d'une guerre de conquête, par des envahisseurs qui sont dans nos murs et pour qui nous sommes les 'croisés'.   Effectivement, nous défendons la Terre Sainte d'Europe, mais certainement pas Israël, dont nous n'avons pas à être les harkis.  C'est une guerre totale, armée mais aussi et surtout idéologique, culturelle.  Notamment, comme le souligne Patrick Buisson dans son dernier livre 'La cause du peuple', une guerre contre l'idéologie multiculturaliste venue des Etats-Unis.  C'est un guerre qui vise à paralyser sans tuer, à détruire les valeurs spirituelles au nom d'une pseudo-démocratie apatride, qui ne défend la liberté que de l'argent.  C'est dans ce climat que les fous d'Allah trouvent à s'immerger au sein de nos sociétés, notamment dans l'armée et la police.  Pierre Vial, qui cite le général Vincent Desportes (« On peut rêver un monde sans guerre : il n'existe pas. »), évoque le modèle immémorial d'une élite disposée au sacrifice, avec la tradition des compagnonnages guerriers, depuis les berserkirs germaniques jusqu'aux Templiers.  C'est la Révolution française, avec la levée de masses qu'on s'applique à fanatiser par la diabolisation de l'ennemi, qui va déboucher sur la guerre total, celle qui nous est menée.  Il n'y a pas d'autre voie de la paix que s'y préparer : para bellum.

Jean Haudry souligne que, dans l'ensemble de leur période commune, nos ancêtres indo-européens n'avaient pas de vocable pour désigner la lutte armée entre deux peuples ou deux partis.  Pour eux, il ne s'agissait pas là d'un événement particulier, mais de l'état normal de la vie durant la saison guerrière.  Le nom du héros grec Héraclès, comme son correspondant russe Yaroslav, signifie 'gloire de la belle saison'.  Mais, à la période la plus ancienne, la notion de guerre n'existe pas, alors que les squelettes de la période pré-agricole révèlent trois fois plus de morts par violences que la moyenne mondiale actuelle !  C'est la pratique de la razzia, apparue avec l'élevage au Néolithique ancien, qui préfigure la guerre des temps historiques.  Dans la société des quatre cercles (famille de trois génération-village-clan-tribu), elle est une activité de la belle saison, une fonction guerrière.  Chaque cercle sera à la base d'une unité militaire. Le premier sens du mot latin populus est armée (populare = dévaster).  Les saisons guerrière et agricole coïncidant, elles ont amené à répartir les fonctions et à distinguer les classes.  Le succès à la guerre passant pour un jugement des dieux, il importe d'avoir respecté les formes et les engagements, ce qui va conférer une  priorité à la première fonction religieuse.  La vengeance apparaît non seulement comme un droit, mais comme un devoir, mais elle fera bientôt place à la compensation par le prix du sang.  C'est vers la fin de la période commune, avec les migrations des Indo-Européens à travers l'Eurasie, qu'apparaissent des activités guerrières proprement dites, avec une sorte de contre-société héroïque de jeunes guerriers compagnons d'un roi, dans le cadre d'un engagement mutuel de fidélité qui vient se substituer à la solidarité naturelle.  Les dieux donnent alors la victoire à ceux qui honorent leur serment.  Les rituels d'initiation de ces compagnonnages, qui vont se prolonger dans la chevalerie, instituent la première forme d'armée permanente.  Avec la formation des empires, la discipline au sein de la phalange va primer l'action d'éclat héroïque.  C'est de même dans les temps historiques qu'apparaît l'affrontement de factions internes, la guerre civile 'qui glace les coeurs'.

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Thierry Thodinor rappelle que l'Hégémôn américain, en déclin, vise à rien moins qu'imposer au monde ses 'biens publics fondamentaux' (dollar et normes), par le contrôle des flux d'information et de capitaux, au moyen de chaînes d'interdépendance présentées comme une panacée morale et rationnelle.  Tout récalcitrant doit soulever l'indignation de la 'communauté internationale', avec un devoir d'ingérence, qui peut être problématique militairement (la Russie) ou symboliquement (le Vatican).  Le Nouvel Ordre Mondial agonise.  L'idéologie des Droits de l'Homme et du marché illimité patine.  Le dollar, adossé à une montagne de dettes, a perdu 98% de sa valeur par rapport à l'or.  Plus indigestes à avaler que Kadhafi et que Saddam Hussein, la Russie et la Chine manoeuvrent pour dé-dollariser     leurs transactions internationales.  Il ne reste que les sanctions et la guerre financière, totale mais furtive.  Les départements américains du Trésor et de la Justice, en application du Patriot Act, pris suite au 11Septembre pour traquer le financement du terrorisme, pénalisent d'amendes gigantesques les entreprises étrangères (BNP Paribas, Deutsche Bank, Siemens, Alcatel...) prises en défaut d'application des sanctions.  Les Russes sont menacés d'expulsion de la coopérative de transferts financiers internationaux SWIFT, instrument majeur de globalisation.  Ils ont répliqué en créant, en 2014 avec les états du BRICS, une nouvelle banque de développement et en adhérant, en 2015, à la Banque asiatique créée par la Chine.  Brisant le monopole américain en matière de notation du crédit, ils ont mis en place leur propre agence AKRA.  SWIFT, qui informe la NSA (voir Snowden), a déconnecté en 2013 le Vatican, resté fermement attaché au secret bancaire.  Son administration a été alors promptement purgée (démission de  Benoît XVI) !  L'incompétence des Néocons et l'obsolescence des organisations internationales qu'ils contrôlent encore accélèrent l'autodestruction du mondialisme américain.

Robert Dragan dresse un dossier richement documenté (arte.tv et les historiens américain Robert C. Davies et français Jacques Heers) de l'enfer qu'ont fait subir les Arabes à plus d'un million d'Européens (et d'Américains), qu'ils ont traînés en esclavage en terre d'islam à l'époque moderne.  Ce drame fait l'objet d'un silence assourdissant de la part de nos maîtres à penser.  Or la saignée a été lourde car le chiffre d'un million est d'autant plus écrasant que l'Europe était beaucoup moins peuplée :  pour quinze millions de Français, il n'y avait que cinq millions d'Espagnols et quatre millions d'Anglais.  Au moyen-âge déjà, ce fléau frappait les marins et les populations côtières européens jusqu'en Scandinavie et même en Islande.  C'est Meknès, capitale du sultanat du Maroc, qui en était le centre et le Sultan Moulay Ismaïl (1672-1727) une des figures marquantes, par sa brutale cruauté.  Des chrétiens renégats (le capitaine hollandais Jan Janszoon) et des juifs ont collaboré aux rapts, au commerce et à l'élevage du bétail humain blanc (production de métis).  Entre 1609 et 1616, les pirates barbaresques ont arraisonné 466 navires marchands anglais et ont vendus les survivants.  Moins intensive dans ses débuts, cette traite remonte au moyen-âge.  Elle durera jusqu'au XIXe siècle, jusqu'au bombardement d'Alger par une flotte anglaise en 1816 et à sa conquête, en 1830, par les troupes de Charles X.  Ce qui est reproché à crime aujourd'hui et reconnu dans les repentances d'opportunistes mondialistes.  Aujourd'hui encore, les pays de la péninsule arabique se fournissent en jeunes prostituées blanches en Europe de l'Est.

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Fabrice Lehénaire cite Macron (« L'arrivée de milliers de migrants est une opportunité économique. »), pour souligner la nécessité de bien distinguer le demandeur d'asile, réfugié qui, pour échapper à des violences extrêmes, aspire à obtenir un statut légal temporaire, d'une durée aussi brève qu'on peut l'espérer, de l'immense majorité des immigrés, migrants de plus en communément illégaux, qui ont des motivations d'opportunité personnelle, quand elles ne sont pas d'invasion conquérante, voire de violence terroriste.  C'est la flagrante infériorité numérique des premiers par rapport aux seconds qui commande d'y déceler une opération stratégique de démantèlement de la civilisation européenne.

Roberto Fiorini présente le livre de Jehan Morel 'Guerilla contre guerilla' paru aux éditions DPF-CHIRE (contact@chire.com).  C'est la honte de la débandade de l'armée français en mai 1940 qui détermine l'auteur à se laver de ce déshonneur en s'engageant pour aller combattre en Indochine, où il a « la chance d'être affecté à une unité qui pratique la contre-guerilla », des supplétifs vietnamiens que des responsables politiques carriéristes abandonneront honteusement, comme ils abandonneront ensuite les harkis.  Il achèvera sa carrière de guerillero au Katanga, contre les forces de l'ONU.  Il note au passage la réalité écrasante de l'explosion démographique créée par la bonne conscience des Européens (25% de la population mondiale en 1900, ils n'en représenteront plus que 4% avant la fin de ce siècle ).  Il a retiré de ses expériences du terrain un catalogues de principes et de recettes incomparables pour mener une guerre asymétrique, notamment la pureté morale et le dévouement par quoi mériter la loyauté.

Roberto Fiorini consacre un long article à Georges Sorel (1847-1922), fondateur du syndicalisme révolutionnaire, qui prêche l'action directe de guerre contre le monde bourgeois.  Pour lui, le suffrage universel est un piège tendu par la démocratie libérale pour confier le pouvoir aux possédants.  Il incombe aux minorités conscientes d'éduquer et d'entraîner les masses dans une démocratie de base, directe et participative.  La violence ouvrière, par la grève générale, est l'arme ultime et légitime du désespoir.  Sorel conteste aux classes la possibilité d'intérêts communs et dénonce l'oligarchie de puissants entrepreneurs, ligués aux dépens de la nation.  Comme il  dénonce l'opération des partis qui ont confisqué le mouvement ouvrier.  La première CGT était profondément sorélienne.  Pour élever intellectuellement et moralement la classe laborieuse du peuple, il préfère l'action quotidienne et le mythe mobilisateur, expression d'une poésie populaire, qui fait appel à l'intuition de préférence à la raison pour inviter à l'héroïsme désintéressé.  Pour rester en prise avec la réalité que vit le peuple, il prône la mobilité des idées, ce qui fera que Lénine, qui l'admire, le jugera « brouillon ».

Pour Alexis Arette, c'est par la voie de la presse que la bourgeoisie capitaliste a matérialisé le peuple, dans une société vouée au Veau d'or (où l'entraîneur-vedette du PSG rafle une indemnité de licenciement de 22 millions € quand les paysans sont réduits aux restos du coeur). Une société où des juges condamnent Zemmour pour avoir « dépassé les limites de la liberté d'expression » que ne dépassent pas des rappeurs qui appellent à « saigner les flics comme des porcs ».  Une société où les bulles des complots prétendument déjoués ne masquent pas ceux qui ne l'ont pas été parce qu'on a libéré des multirécidivistes,  où François Hollande ne se suicidera pas comme Allende, mais s'éteindra dans le confort bourgeois que la République garantit à ses maquereaux.  A moins que surgisse un gouvernement de salut public.  Car il y a du changement dans l'air.  La Norvège renvoie ses suspects.  Le Japon est fermé aux musulmans.  Cuba interdit une mosquée.  La Pologne s'aligne sur les Hongrois et les Tchèques.  L'Angola interdit l'islam.  Sept états des Etats-Unis jugent la charia incompatible avec la loi américaine.  Même Merkel ose réagir contre les métèques violeurs.  Erdogan confirme que les armes des djihadistes étaient d'origine occidentale.  Il reste à la si conciliante Eglise conciliaire à découvrir qu'il n'y a pas de Coran alternatif.

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Jean Haudry définit son 'Message de nos ancêtres' comme un ouvrage militant, destiné à la formation des adolescents.  Il a accepté de rédiger à l'initiative de notre Président.  Il y narre l'histoire des Braves, un peuple sédentaire indo-européen installé en Europe centrale aux temps protohistoriques  (seconde moitié du deuxième millénaire), dont le roi revendique, selon l'usage de l'époque, le titre de 'roi du monde' et qui, à défaut de conquérir le monde, le fait venir à lui.  Les Braves ne représentent pas le noyau fondateur des Indo-Européens, mais leur histoire correspond à celle des Gaulois (qui ont donné leur nom à la Gaule), des  Francs (qui ont donné leur nom à la France) et des Angles (qui ont donné le leur nom à l'Angleterre).  Un épisode se passe chez les Hyperboréens.  Le nom de ceux-ci (qui signifie 'au nord des montagnes) désigne les régions au nord de la Grèce, et non la composante arctique mise en évidence par Tilak.  Jean Haudry rappelle que l'hostilité à l'égard de l'étude de la parenté des langues de l'Europe, de l'Inde et de l'Iran trouve sa source dans l'incompatibilité de cette parenté avec le thème biblique des trois fils de Noé.  Le livre est richement illustré par Eric Heidenkopf.

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Vous servant à chaque parution de TERRE & PEUPLE Magazine une synthèse du dernier numéro, nous sommes bien placés pour apprécier la qualité altière de la recension que Jean Haudry a réalisée dans cette livraison du numéro 66 de Nouvelle Ecole consacré à Charles Maurras.  Il ne serait pas raisonnable de tenter une synthèse d'une synthèse.  Outre le sommaire, qui est déjà riche d'enseignement, nous nous en tiendrons aux réflexions de notre maître et ami sur trois axes de la pensée, très riche, du fondateur du nationalisme intégral. Aux quatre états confédérés que Maurras reconnaît à l'anti-France, juifs, francs-maçons, protestants et métèques, Jean Haudry estime qu'il fallait déjà à l'époque (condamnation de l'Action Française), et qu'il faut également aujourd'hui, ajouter les catholiques, à quelques exceptions près.  Par rapport à son mot d'ordre 'Politique d'abord', Maurras est presque toujours en porte à faux (son agnosticisme par rapport à la catholicité des rois ; sa prophétie manquée de la 'divine surprise' ; son anti-germanisme viscéral).  Sa revendication-programme « Je suis romain, je suis humain. » est à la fois pertinente et inacceptable, en ce qu'elle oublie l'héritage celte et germanique.  Jean Haudry se doit d'évoquer celui de la grande famille indo-européenne.  Il conclut avec une citation d'Alexandre Douguine sur l'eurasisme et le retour de l'Indo-Européen aux racines de sa patrie primordiale.

Sommaire du thème central de Nouvelle Ecole n°66

Maurras vu par Lucien Rebatet

Portrait de Charles Maurras (Olivier Dard)

Le jeune Maurras, félibre et fédéraliste (Rémi Soulié)

Maurras et l'Abbé Penon (Axel Tisserand)

Heidegger et Maurras à Athènes (Baptiste Rappin)

La République, la bourgeoisie et la question ouvrière (Charles Maurras)

La géopolitique selon Maurras (Martin Motte)

Maurassiens et Mai 68 (Gérard Leclerc)

Maurras et le romantisme (Alain de Benoist)

Charles Maurras et le positivisme d'Auguste Comte (Francis Moury)

Maurras en Amérique Latine (Michel Lhomme)

L'anarchiste, c'est Créon (Charles Maurras)

 

Roberto Fiorini nous envoie au cinéma, voir le dernier film de Ken Loach 'Moi Daniel Blake', sur les effet du libéralisme sur la société anglaise. 

lundi, 08 mai 2017

Marco Tarchi : "Il populismo non è sconfitto"

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Marco Tarchi : "Il populismo non è sconfitto"

Avertissement aux lecteurs francophones: Cette analyse du résultat des présidentielles françaises est due au chef de file de la "nouvelle droite" italienne, fourvoyé en France dans le canal historique de la "nouvelle droite" d'Alain de Benoist, qui n'a jamais accordé beaucoup de publicité aux thèses de son très fidèle et obséquieux vicaire florentin, pourtant séduisantes et partagées par la presse militante comme par la grande presse en Italie. La qualité de ces analyses portait ombrage à la médiocrité du gourou parisien. Rien du Prof. Tarchi (ou presque) n'a été traduit dans les officines qui lui sont servilement inféodées. Utilisez le logiciel de traduction, si vous ne maîtrisez pas correctement la langue italienne. Ces logiciels fonctionnent bien entre langues latines. 

Il Professor Tarchi analizza il risultato delle presidenziali in Francia dove il populismo che sembrava inarrestabile ha dovuto fare i conti con la scelta "moderata" di Macron

 

Il populismo sembrava essere il fenomeno più rappresentativo della nostra epoca politica. La vittoria di Donald Trump e l'affermazione della Brexit parevano aver aperto la strada ad una serie di trionfi. Invece, sia in Olanda sia in Austria, ma soprattutto in Francia, la categoria della politica in questione si è arenata.

Come mai? Lo abbiamo chiesto a Marco Tarchi, politologo e docente italiano, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell'Università di Firenze dove attualmente insegna Scienza Politica, Comunicazione politica e Teoria politica.

populisme-mc3a9lenchon-le-pen1.pngProfessor Tarchi, l'avanzata del populismo sembrava inarrestabile. Macron è davvero l'argine definitivo all'affermazione dei sovranisti in occidente?

"Non lo penso affatto. E credo siano necessarie due precisazioni. Primo: la descrizione del populismo come una valanga destinata a travolgere ogni resistenza sul suo cammino, emersa in sede giornalistica dopo il successo di Trump, è sempre stata infondata, anche se è stata cavalcata dagli avversari di questa corrente politica, che se ne sono avvalsi per sollecitare una reazione di paura – 'distruggeranno l’Europa', 'cancelleranno l’euro provocando un caos monetario', 'apriranno la caccia agli immigrati' e così via – e poter far passare i pur consistenti progressi elettorali delle formazione populiste per sconfitte clamorose. Secondo: populismo e sovranismo, pur presentandosi a volte in connessione, non sono la stessa cosa. Nel secondo c’è una componente di statalismo in genere assente nel primo. E il connubio non sempre paga".

Quali sono stati gli errori di Marine Le Pen?

"È troppo presto per trarre conclusioni su questi punti: occorrono studi sui dati, non solo impressioni. Marine Le Pen ha puntato a conquistare contemporaneamente, su due terreni diversi, elettori sensibili ad argomenti più “di destra” (difesa dell’identità nazionale, maggior rigore nella tutela dell’ordine e della sicurezza) e più “di sinistra” (denuncia del capitalismo finanziario, delle delocalizzazioni, della disoccupazione). Evidentemente il mix proposto non ha convinto del tutto i destinatari. Ma è stato il “moderato” Fillon a renderle la vita difficile, schierandosi immediatamente con Macron, che fino a poche ore prima aveva fustigato come copia conforme di Hollande. Sia la linea Philippot sia quella Marion avevano le loro ragioni e la loro utilità: non se ne è però saputa trovare la sintesi. Quanto alle critiche alle esternazioni papali sulla necessità di non porre limiti all’accoglienza degli immigrati, dubito che abbiano avuto effetto su elettori disposti a votare la candidata frontista".

Nelle grandi città il sovranismo non passa. Eppure il terrorismo ha colpito i grandi centri. La "sicurezza" non paga più?

"Paga poco rispetto a linee di divisione più acute, come quella tra vincenti e perdenti di fronte agli effetti della globalizzazione: i primi vivono perlopiù nella Francia delle metropoli, i secondi nella Francia periferica. E fra i soddisfatti chi propugna un’alternativa al sistema vigente non può trovare consensi. Il populismo, come è noto, trova nella situazioni di crisi il suo humus".

populismeggggg.jpgIl momento che sta vivendo l'Europa sembra essere socialmente travagliato. Eppure in Olanda e in Francia, alla fine, ha vinto il moderatismo. Perchè?

"Si è troppo frettolosamente fatto d’ogni erba un fascio ascrivendo ad uno stesso fenomeno episodi piuttosto diversi. La Brexit è stata legata, oltre che al timore di vari “contagi” – crisi migratoria, perdita di sovranità - che potevano trovare un canale di diffusione nell’Unione europea, alla persistente diffidenza di molti inglesi nei confronti del continente. Trump ha sfruttato soprattutto la delusione di molti verso le incerte politiche di Obama. In Olanda e in Francia la proposta dei movimenti populisti ha valorizzato soprattutto i temi dell’immigrazione e della paventata islamizzazione: due fenomeni la cui gravità è destinata ad acuirsi nel prossimo futuro ma su cui la narrazione dei grandi strumenti di comunicazione ha fatto sin qui da argine, utilizzando con successo il ricatto psicologico della compassione e della commozione (gli immigrati rappresentati solo dal “piccolo Aylan”, dagli annegati, dalle madri incinte trasportate sui fragili barconi) contro il simmetrico ricatto della paura (dietro ogni immigrato un sospetto criminale o terrorista) spesso sbandierato dai populisti".

Il leader di "En Marche!" riuscirà ad adempiere alle richieste di Bruxelles e, contemporaneamente, a sanare la ferita tra la Francia periferica e quella urbanizzata?

"Lei mi chiede una previsione che sa di vaticinio, ma i politologi non sono chiromanti. Di certo, il neopresidente dovrà render conto delle sue molte (vaghe) promesse e dell’aulica prosa sciorinata in campagna elettorale, fatta di cuore, amore, solidarietà, speranze e futuri radiosi. Chi conosce la politica sa come vanno a finire, di solito, queste ubriacature di retorica: i risvegli portano spesso un gran mal di testa. E dallo stato di grazia alla disgrazia il passo è breve".

Cosa c'è da aspettarsi per le legislative francesi di giugno?

"I motivi di curiosità sono molti e si prestano più a domande che a risposte. Sapranno i Républicains riattivare la loro forte rete di insediamento territoriale – fatta di notabilato e clientelismo – superando lo choc del caso-Fillon? I socialisti riusciranno a non soccombere all’effetto di salita sul carro del vincitore che già da un paio di mesi ha gonfiato le vele di Macron? Mélenchon saprà tradurre il successo della brillante campagna di protesta in un solido gruppo parlamentare? E, soprattutto, come si comporterà Macron nella scelta delle candidature per sfruttare il prevedibile effetto-valanga della sua elezione?"

Quale futuro per il Front National e per il populismo francese?

"Stando a ciò che ha detto a caldo, Marine Le Pen vorrebbe travasarlo in un nuovo contenitore, ma il risultato poco brillante ottenuto non le renderà facile tradurre il progetto in pratica, perché troverà più di un’opposizione. Resta poi da capire chi sarebbe disposto a farle da alleato esterno: Dupont-Aignan senz’altro, ma pare che meno del 40% dei suoi elettori ne abbiano seguito la scelta, ed è un problema non da poco. È prevedibile una raffica di critiche alla conduzione della campagna da parte di chi vorrebbe spostare l’asse del partito, o dell’alleanza, più a destra, ma se i Républicains tenessero alle legislative, sarebbe una scelta pericolosa. Marine ha più volte criticato Fini per le sue scelte, accusandolo di aver ceduto sui “fondamentali” e proclamando di preferire di essere sconfitta con le sue idee piuttosto che di vincere con le idee altrui, ma dà l’impressione di star annacquando progressivamente quelle idee. Per lei il periodo post-elettorale non sarà facile: dall’esito delle legislative dipenderà buona parte del suo futuro politico".

samedi, 18 mars 2017

José Javier Esparza "De la nueva Derecha a la "alt-right"

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José Javier Esparza

"De la nueva Derecha a la "alt-right"

Ponencia de José Javier Esparza en el Seminario de metapolítica 2017:
"De la nueva Derecha a la "alt-right"
www.seminariometapolitica.wordpress.com

samedi, 25 février 2017

JEAN-CLAUDE VALLA PRÉSENT !

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JEAN-CLAUDE VALLA PRÉSENT !

par Pierre Vial

Ex: http://www.terreetpeuple.com 

Ce soir j’allumerai sur la tour de Jul la bougie rouge qui est le signe qu’un Ami est parti avec les Oies Sauvages un 25 février.

Jean-Claude Valla était le meilleur d’entre nous. Je le revois, à l’entrée du restaurant universitaire de Lyon, distribuant les tracts de la Fédération des Etudiants Nationalistes, un sourire moqueur aux lèvres alors qu’une horde de gauchos hurlait autour de nous… sans trop s’approcher quand même car nous n’avions pas la réputation d’être des adeptes de la non-violence. Nous avions fait connaissance, quelques mois auparavant, alors que j’étais venu distribuer avec deux camarades les tracts de la FEN à la sortie du lycée du Parc de Lyon, où j’avais appartenu l’année précédente à la Corniche (classe préparatoire au concours d’entrée à l’Ecole de Saint-Cyr). Ce jour-là, la disproportion numérique entre nous et les gauchos était telle que nous n’avions pas beaucoup d’illusion sur l’issue de l’affrontement. Quand un grand gaillard est venu, sans un mot, se ranger à nos côtés. Avec une belle allonge si bien que les gauchos ont préféré aller voir ailleurs. C’est ainsi que j’ai rencontré celui qui allait devenir mon meilleur ami.

Jean-Claude a été de tous nos combats et toujours en première ligne. Quand nous fumes quelques-uns à créer le GRECE il en devint rapidement et tout naturellement le secrétaire général et lui donna un élan vigoureux. Je suis fier de lui avoir succédé à ce poste. Puis Jean-Claude se révéla un journaliste de grand talent et il accumula dans ce métier de hautes responsabilités. Il fit du Figaro-Magazine un hebdo passionnant, riche et inventif – mais surtout une véritable arme de combat métapolitique. Et Le Choc du mois a laissé aussi de beaux souvenirs à ceux qui firent partie de l’aventure.

Passionné d’Histoire, Jean-Claude donna le meilleur de lui-même, alors même qu’une terrible maladie était déjà à l’œuvre, pour rédiger « Les Cahiers Libres d’Histoire », où son culte de la vérité historique l’amena à dévoiler bien des aspects occultés de l’histoire contemporaine (entre autres, « L’extrême droite dans la Résistance » et « Ces Juifs de France qui ont collaboré » ont fait grincer bien des dents…).

Dès la naissance de Terre et Peuple Jean-Claude Valla m’avait apporté son soutien et sa participation à nos activités, comme les Journées du Soleil en Provence, ont laissé de grands souvenirs à ceux qui étaient là.

Quand j’ai certaines décisions importantes à prendre, je sais que Jean-Claude est là, à mes côtés. Et cela m’aide, beaucoup, à continuer la route. Au bout, je sais qu’il m’attend.

                                                                                     Pierre VIAL

samedi, 11 février 2017

La question allemande et l’islam

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La question allemande et l’islam

par Guillaume Faye

Ex: http://gfaye.com

Pour la première fois, l’Allemagne a été frappée par un attentat musulman d’envergure revendiqué par Dae’ch, le 19 décembre 2016, dans le symbolique marché de Noël de Berlin, après une série de moindres attaques annonciatrices. Le terme ”musulman” est préférable  à ”islamiste”, car ce dernier vocable suggère qu’il ne s’agit pas de l’islam mais de sa déformation extrémiste. Ce qui est faux : l’islamisme et toutes ses exactions, dont le terrorisme, sont le produit du véritable islam, parfaitement conforme au Coran, livre de chevet de tous les djihadistes. Cet attentat est la conséquence de la politique d’encouragement de l’invasion migratoire de son pays – et des voisins européens– de la très perverse chancelière Angela Merkel, folle vêtue de la robe des sages. Le nouveau Président Trump a parfaitement compris la nocivité de la Chancelière. 

Face à l’agression, la réponse bisounours

 Et comme toujours, à cet attentat de Berlin, on a réagi avec des larmes, des bougies, des bouquets de fleurs, des pleurs, des pardons. Les Allemands sont aussi affaiblis que les Français, voire plus. On exprime la ”tristesse”, pas la colère. On donne de soi une image de défaite, de déréliction et donc de soumission, catastrophique.

 Les viols et agressions sexuelles de masse commis à Cologne par des Maghrébins (faux réfugies et vrais envahisseurs) pour le nouvel an 2016 contre des Allemandes de souche n’ont pas tellement fait réagir l’opinion allemande (sauf une minorité diabolisée comme politiquement incorrecte), totalement abrutie par la propagande du système. Ces faits participent du début de la guerre civile ethnique qui menace l’Europe.  

Après l’attentat de Berlin ; Angela Merkel s’est dite « très fière du calme avec lequel un grand nombre de personnes ont réagi à la situation ». Ce ”calme” n’est que de l’apathie et de la soumission. Et Angela Merkel est objectivement complice – organisatrice plutôt – du processus d’invasion migratoire et donc de tous les maux que cela provoque, dont la criminalité et le terrorisme.  Le cynisme froid de cette femme de tête obéit à une logique, non pas  en fait la plus nuisible des dirigeants politiques européens depuis 1945. Et, malheureusement, la plus influente, du fait du rabaissement tragi-comique du partenaire français – entièrement de sa faute, l’Allemagne n’étant pour rien dans les clowneries de François Hollande.

En Allemagne, 168.000 clandestins déboutés du droit d’asile restent en attente d’expulsion. Ils ne risquent pas grand–chose, tout comme en France et ailleurs en Europe. Les agressions sexuelles massives du nouvel ans 2015 à Cologne par de faux réfugiés maghrébins (voir plus haut) ont été réfutées dans leur réalité par l’idéologie antiraciste du déni, dont Mme Merkel est la gardienne, elle qui a invité et fait entrer plus d’un million d’envahisseurs, appelés ”migrants”, et qui continuera à le faire si elle est réélue. Une partie de l’opinion publique allemande, abrutie et infantilisée, appelle la chancelière Mutti (”maman”), comme si elle était une protectrice du peuple allemand ; alors qu’elle en est une destructrice.

L’Allemagne, malade et  masochiste

En pleine forme économique (provisoire), l’Allemagne meurt néanmoins à petit feu, pour d’implacables raisons démographiques. Elle vit son chant du cygne, sa dernière illusion. De moins en moins de jeunes Allemand(e)s de souche naissent et se reproduisent. Le pays doit aller chercher sa main d’œuvre ailleurs. Un peuple qui vieillit est comme un capital qui s’épuise. Si rien ne change, dans deux générations, le peuple allemand aura disparu sous le double choc de la dénatalité et de l’invasion migratoire. C’est plié. Même la langue allemande deviendra doucement une langue morte.  La dégermanisation de l’Allemagne est entamée

Notons que l’Allemagne (l’oligarchie et non l’opinion populaire, le peuple allemand) qui se croyait à l’abri des frappes terroristes musulmanes parce qu’elle n’a pas de passé colonial, qui a toujours manifesté une islamophilie et une turcophilie, a été frappée par les tueurs musulmans. Ironie de l’histoire : le Troisième Reich soutenait l’islam, et le Deuxième était allié du Sultan ottoman pendant la Première guerre mondiale. Les rapports de l’Allemagne et de l’islam sont troubles ; et ce dernier montre une singulière ingratitude. C’est sa marque de fabrique. La naïveté allemande, marquée par la culpabilité, n’en est que plus tragique. 

Selon Ivan Rioufol, « la société allemande est dévastée par la culpabilisation. Ainsi meurent les civilisations émasculées et décadentes ». Comme en France, voire pis encore, « les citoyens sont anesthésiés par l’idéologie du grand mélangisme. […] L’Occident évitera la débâcle s’il renoue avec l’autorité, la force, la guerre. L’islamophilie d’Obama a accentué la vulnérabilité du monde libre, que Merkel a trahi en ouvrant les portes à plus d’un million de musulmans au nom de la ”diversité” » (Le Figaro, Janvier 2017).

L’irresponsabilité allemande menace l’Europe et le peuple allemand

La naïveté et l’angélisme règnent en Allemagne plus qu’ailleurs et cela frise la perversité. Ce pays a accueilli en un an un million de réfugiés et le flux continue. Mme Merkel est une destructrice de la civilisation européenne. Appels irresponsables à l’accueil de ”migrants” et de ”réfugiés” (à 90 % faux persécutés et envahisseurs) frontières ouvertes, contrôles déficients, laxisme judiciaire, police  molle, la liste est longue des dérapages de l’ État allemand, pires que ceux de ses voisins européens.   

Le racisme délirant de Hitler doit être mis en parallèle avec l’antiracisme délirant de Mme Merkel. Le résultat est le même : une catastrophe pour l’Europe. De nature criminelle, dans les deux cas, directe dans le premier, indirecte dans le second. Avec la bêtise en prime. Autant il y a, dans la civilisation européenne, une grandeur allemande par ses apports culturels et scientifiques, par ses réussites économiques, autant, sur le plan politique, l’Allemagne, dès qu’elle s’impose, est une catastrophe pour l’Europe. Tout faux, tout le temps, et ce, depuis…1870 !  Exactement comme la politique étrangère américaine depuis les années 60.

Allemagne-islam.jpgMilitariste ou pacifiste, raciste ou antiraciste, militariste orgueilleuse ou masochiste culpabilisée, atlantiste américanolâtre (l’ex RFA), ou stalinienne et néo-hitlérienne (l’ex RDA), la politique allemande a toujours été catastrophique. Mme Merkel, en ouvrant les frontières de l’Europe aux ”migrants” envahisseurs est dans la continuité de cette irresponsabilité allemande. Cette dernière n’est pas seulement nuisible à l’Europe mais aussi au peuple allemand lui–même

Haine raciste anti-européenne et christianophobie

Pour Gilles Kepel, « le marché de Noël qui a été visé revêt naturellement une dimension chrétienne mais présente aussi un caractère festif […], une fête de la consommation ». (Le Figaro, 21/12/2016).  Noël, symbole de tout ce qu’ils haïssent. Et la fête est le symbole de tout ce qu’ils désirent mais que, frustrés, ils sont incapables de réaliser et de vivre.

L’attentat de Berlin contre le marché de Noël, avec camion qui fonce dans la foule, réplique de celui de Nice pendant le 14 juillet, prouve que les agressions terroristes musulmanes, accomplies ou déjouées, visent les lieux festifs – symboles de notre civilisation ”corrompue”– et le christianisme. Le marché de Noël est une synthèse des deux, un symbole ethnique et de civilisation. En Autriche, un demandeur d’asile, faux réfugié, a été arrête juste avant de commettre un attentat à Salzbourg pendant les fêtes de Noël. C’est une obsession.

Complicité objective avec les tueurs djihadistes au nom de l’”antiracisme”

Depuis le début de 2015, plus d’un million de ”migrants” ou ”réfugiés”, en provenance de pays musulmans à 90%, sont arrivés en Allemagne et en Europe occidentale. Parmi eux, des centaines de guerriers et tueurs djihadistes sont infiltrés, comme Amri, l’assassin du marché de Noël de Berlin ; ce Tunisien était entré en Europe comme faux réfugié, par l’Italie, où il a fait 4 ans de prison pour des délits de droit commun. Jamais expulsé, parfaitement repéré comme candidat au djihad terroriste, connu comme voyou violent et repris de justice en situation irrégulière, demandeur d’asile débouté, il n’a été ni inquiété, ni arrêté, ni expulsé par les autorités allemandes. Des centaines d’autres terroristes musulmans potentiels sont dans son cas et actuellement en liberté dans chaque pays d’Europe.

Un sénateur Vert allemand, Till Steffen, chargé de la Justice dans le Land de Hambourg a refusé la publication de l’avis de recherche de l’assassin tunisien du marché de Noël, afin d’éviter (langue de bois) les« amalgames » avec les musulmans et la « stigmatisation » de ces derniers. Cet ”antiracisme”, qui tient de la pathologie ethnomasochiste et xénophile est la clé de voûte de la démission des élites européennes.

Le tueur tunisien  était passé au travers des contrôles des services de police allemands, non pas, comme on l’a dit par négligence,  ou par laxisme répressif motivé idéologiquement, mais par complicité. Celle-ci s’exerce au nom de l’”antiracisme”. Anis Amri, porteur de fausses identités, délinquant multirécidiviste, reconnu comme candidat au djihad meurtrier, a été libéré d’un centre de rétention en 2016 par un juge allemand. Cette mansuétude, très répandue en Europe, délivre un message – comme en matière de délinquance – d’impunité aux jeunes  musulmans attirés par le djihad. La faiblesse et la lâcheté des autorités européennes excitent leur agressivité.

Les collabos de  l’invasion migratoire et du terrorisme  

Figure de l’ethnomasochisme et de la stupidité, le pasteur de Berlin, Markus Dröge a déclaré après l’attentat musulman du marché de Noël : « Le repli sur soi ne sert à rien. Nous devons apprendre à vivre ensemble  avec des gens de religion et de culture différentes ». Il ajoute que « c’est le message de Noël ». Autrement  dit : continuons d’accueillir l’ennemi en répétant que c’est un ami. Mme Merkel  partage exactement la même idéologie. Le ”message de Noël” consiste donc à accueillir et à tolérer ceux qui  massacrent les chrétiens sur les marchés de Noël…En plus de la bêtise et de la naïveté, il y a de la perversité.

 La secrétaire d’État à l’Intégration (vocable de langue de bois synonyme d’Invasion) Mme Aydan Özoguz, a expliqué: « la diversité nous rend plus riche et pas plus pauvres, cela doit être notre devise ». Ironie tragi-comique, cette déclaration, qui rabâche en langue de bois une des contre–vérités de la vulgate idéologique officielle,  a été faite quelques minutes avant l’attentat musulman de Berlin…Ce genre de propos et de comportements mensongers et pervers est constant chez les élites et les gouvernements d’Europe de l’Ouest (surtout en Allemagne, en France et en Belgique) mais aussi dans les hiérarchies des Églises chrétiennes, jusqu’au Pape. (1)

Ces Allemands lucides qui s’insurgent

Frauke Petry, la dirigeante de l’AfD (Alternative pour l’Allemagne) a proposé d’identifier les suspects de terrorisme, dans toutes les procédures de contrôle, par leur ”ethnie”, à partir de la pigmentation, de la couleur des cheveux et des yeux, etc.. Procédure de bon sens, pratiquée sans complexe aux USA et en Israël, étant donné que 100% des terroristes depuis quelques années en Europe, en Amérique et en Israël, sont d’origine arabe, d’Asie centrale ou africaine. Il ne sert à rien de perdre son temps à contrôler tout le monde. Mieux vaut se concentrer sur une population à risques précise et bien connue. Horreur ! La proposition a fait scandale en Allemagne car Frauke Petry a été accusée d’être « raciste ». Ce genre de préjugé idéologique revient à une complicité objective avec les tueurs.  

Le parti ”populiste” allemand AfD, scandaleusement présenté comme néo–nazi, a fait une remontée dans les sondages et, surtout, a osé dire que Mme Merkel avait « du sang sur les mains »  après l’attentat de Berlin. « Ce sont les morts de Merkel » a accusé un responsable d’AfD, Marcus Pretzell. Cette image est malheureusement vraie. Angela Merkel, plus encore que les autres dirigeants européens, en favorisant l’invasion migratoire, facilite les attentats terroristes et prépare l’éclatement d’une guerre civile ethnique. Homicide par imprudence, 

« Nous sommes en état de guerre, même si certaines personnes qui ne veulent toujours voir que le bien refusent de le reconnaître » a déclaré Klaus Bouillon , ministre de l’Intérieur (CDU) de la Sarre. Sa voix est bien isolée. Cependant, Sigmar Gabriel, le vice–chancelier (SPD), candidat à la succession d’Angela Merkel, s’est tout de même prononcé pour l’interdiction des mosquées salafistes, la dissolution de leurs associations et l’expulsion de leurs prédicateurs. Ces mesures – qui ont peu de chance d’être efficaces, voire même réalisées – sont totalement secondaires face au fait menaçant majeur : le déversement migratoire invasif à 90% musulman. 

Le mouvement Pegida, très courageux, de résistance contre « l’islamisation de l’Occident » a été, bien entendu, assimilé par les médias et la classe politique à un mouvement de type fascisant ! Pour l’idéologie dominante islamophile, qui se légitime systématiquement par l’ ”antiracisme”, résister à l’invasion musulmane organisée est ”fasciste”. Incroyable inversion de la réalité : résister à l’islamo–fascisme serait… fasciste ! Les ennemis de Pegida – dont par ailleurs beaucoup sont d’origine turque, donc musulmans – qui sont Allemands de souche se comportent comme des collabos face à l’envahisseur et ne sont pas exempts d’une certaine fascination pour l’islam, ce qui était aussi curieusement le cas d’un régime passé qu’a connu l’Allemagne. Il est très important de soutenir toutes les forces de la résistance allemande contre l’islamisation et l’invasion migratoire, dont la Chancellerie, la Bundeskanzleramt du 1, Willy–Brandt Strasse à Berlin est la planificatrice – osons le mot– criminelle.

Note: 

(1) Il faut lire à ce propos, le récent essai de Laurent Dandrieu, Église et immigration, le grand malaise, avec ce sous–titre  pertinent : «  Le Pape et le suicide de la civilisation européenne ».

vendredi, 10 février 2017

Guillaume Faye: First look At Donald Trump

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First look At Donald Trump

Video interview of G. Faye

jeudi, 09 février 2017

TERRE & PEUPLE Magazine n°70 : Russie et Ukraine

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Communiqué de "Terre & Peuple - Wallonie"

TERRE & PEUPLE Magazine n°70: Russie et Ukraine 

Le numéro 70 de Terre & Peuple Magazine est centré autour du thème 'Russie et Ukraine, une fracture au coeur de l'Europe'.

Pierre Vial, dans son éditorial, professe que notre mission essentielle est de dire la vérité, la loi du réel.  Dans notre monde de tricheurs, dire la vérité rend libre.  C'est un acte révolutionnaire de résistance aux lois liberticide, aux tabous imposés au mépris des réalités et du respect des différences, notamment les différences culturelles et raciales entre les peuples.  Il est regrettable à ce propos qu'Alain de Benoist recommande : « Evitons de 'racialiser' la victoire de Trump ! »

Pierre Vial recense le dernier livre de Patrick Buisson, consacré, non pas à la présidence de Sarkozy, mais à sa critique fondamentale, afin de mieux illustrer le sujet 'La cause du peuple'.  Eminence grise de ce président de la République, c'est à cette cause qu'il s'est inlassablement attaché à le convertir, pour le service du bien commun, à lui faire accepter avec la 'ligne Buisson' l'idée d'une rupture avec la ligne anti-France, celle qui met « à genoux, puis à plat ventre, puis à baiser la babouche : ce n'est jamais suffisant. »  Et à lui ouvrir les yeux sur les véritables enjeux de cette guerre, qui met en question le fonds ethno-culturel et racial du peuple français.  Quand il croyait l'avoir convaincu, il l'entendait, empressé de se montrer politiquement correct, déclarer au Monde : « Le métissage, c'est la volonté de vivre ensemble. Ce n'est pas la négation des identités ! »  Jusqu'à la révolte des identitaires à laquelle appelle aujourd'hui Patrick Buisson : on veut leur peau, celle de leur âme.

Robert Dragan saute sur l'occasion de re-fusiller Jean-Paul Demoule, l'archéologue qui, sans être lui-même linguiste, s'est mêlé de contester, dans son livre 'Mais où sont passés les Indo-Européens ?', la réalité d'une origine commune aux langues européennes vivantes !  Cette occasion est l'exécution en règle de Demoule dans la revue d'études indo-européennes WEKwOS, laquelle l'accuse d'ignorer délibérément les dernières synthèses scientifiques et de s'en tenir à la science du XIXe siècle !

Le même Robert Dragan enchaîne, dans sa tâche de justicier, en tordant le cou à l'accusation de voltairianisme qui, dans les milieux patriotes, est proférée à l'encontre des païens, lesquels fondent pourtant leur identité sur la communauté du peuple avec le peuple.  Alors que Voltaire, comme nombre de philosophes des Lumières, affecte pour le peuple un souverain mépris.  Le portrait, documenté, qu'il campe de Voltaire est dévastateur.  Notamment sa détestation pour Rousseau, contre qui il portera plainte devant des juges suisses, réclamant qu'on le punisse « capitalement » !  Il l'écrit à d'Alembert : « Jean-Jacques sera charmé qu'on le pende, pourvu qu'on mette son nom dans la sentence. »

Pierre Vial salue la réapparition du Crapouillot qui, pour sa résurrection, a choisi de déshabiller les clowns désabusés de EELV (Europe-Ecologie-Les Verts), pour la plupart des arrivistes étrangers à la nature et dont des marchands ont récupéré les bons slogans.  Mathilde Gibelin les avertit que la révolution est en marche et qu'ils ont des comptes à lui rendre.

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Roberto Fiorini, présentant le dossier Russie-Ukraine, rappelle que son importance pour notre avenir ne doit pas nous faire perdre de vue que nous sommes sans prise sur l'événement et que c'est ici que se mène le combat pour notre survie.  La Russie nous procure un modèle dont s'inspirer, voire des opportunités à exploiter, mais elle n'est pas le vecteur de notre salut, lequel ne tient qu'à nous.

Alain Cagnat présente un relevé détaillé de l'histoire de l'Ukraine, depuis les Varègues, colonisateurs Vikings qui, dès le VIe siècle, rejoignent, par les voies d'eau la Mer Baltique à la Mer Noire et fondent Novgorod et Kiev, jusqu'à la guerre civile actuelle fomentée par les ong 'humanitaires' de Soros et autres, en passant par les vagues d'invasions, Tatars, Mongols, Lituaniens, Polonais, Ottomans, et les réactions, les Cosaques et les grands tsars, Pierre Ier et Catherine II.  Il conclut : « Que ressort-il de tout ceci ?  Que Kiev est le berceau de la Russie.  Que Russes et Ukrainiens ne forment en réalité qu'un même peuple.  Et que l'Ukraine est, comme tant d'autres pays, instrumentalisée par les Anglo-Saxons dans leur tentative de contrôler le monde. »

Pour Jean-Patrick Arteault, la guerre civile larvée qui ronge depuis près de trois ans l'Ukraine est une guerre régionale, qui oppose la Russie et l'Union européenne, et une guerre mondiale, qui oppose l'occidentalisme américano-centré et le souverainisme eurasiatique.  C'est un conflit interne entre deux peuples frères, compliqué par des ingérences externes. Le nom de l'Ukraine, qui signifie marche frontalière, lui a été donné par ses voisins au long d'une histoire fournie en fluctuations territoriales, jusqu'au démembrement de l'URSS, en 1991.  La victoire de 1945 lui a procuré des gains territoriaux sur des zones historiquement autrichiennes ou polonaises parlant ukrainien, à côté de zones historiquement russes parlant ukrainien, de zones parlant russe mais à forte majorité d'Ukrainiens et de zones à majorité de Russes.  La Crimée, conquise sur les Ottomans par Catherine II est alors peuplée massivement de Russes ethniques.  La fragmentation est également culturelle et religieuse.  La décision, lors de la pseudo-révolution du Maïdan en 2014, de retirer au russe son statut de langue officielle a mis le feu aux poudres.  Aux élections présidentielles de 2010, la pro-occidentale ultra-corrompue Ioulia Tymochenko a été largement battue par le pro-russe Ianoukovitch, contre qui les occidentaux (notamment Bernard-Henry Levy et Georges Soros) ont alors déclenché le coup d'état.  Dans ce pays, les facteurs de division ne manquaient pas, notamment la mémoire de l'Holodomor, la famine organisée par les bolcheviques, pour l'essentiel des commissaires politiques juifs, qui fit des millions de morts.  Dans la 'Grande Guerre Patriotique' de 1941-1945, les Ukrainiens non-russophones s'en trouvèrent plus motivés à combattre aux côtés des Allemands.  La guerre civile dans le Donbass n'a pas été déclenchée à l'initiative de la Russie, mais du nouveau pouvoir de Kiev, qui s'inscrit dans la stratégie de l'Amérique d'empêcher, pour réaliser sa fameuse 'destinée manifeste', l'empire russe d'accéder aux mers libres.

Robert Dragan rappelle que, à l'issue de la première guerre mondiale, la résistance victorieuse de la Pologne à l'armée des soviétiques lui a permis de s'approprier un cinquième de l'Ukraine, le reste de cette région de l'empire des tsars subissant par la suite un sort particulièrement atroce, du fait à la fois de la résistance des paysans ukrainiens à la collectivisation des terres et à la présence dans le pays d'une forte minorités de Juifs (lesquels avaient même constitué jusqu'alors une nationalité à part).  Les récoltes sont réquisitionnées (semences comprises), par priorité pour l'exportation, et les récalcitrants sont punis avec une sauvage sévérité (la déportation ou pire).  Il s'ensuit une famine épouvantable, qui a fait plus de six millions de morts, dont d'innombrables enfants.  L'opération, qualifiée de Holodomor, est attribuée par la population aux Juifs qui, il est vrai, constituent l'essentiel des commissaires et policiers politiques communistes.  Les gens se répétaient que les juifs se vengeaient pour « les années Khmelnytski », du nom de l'etman des cosaques zaporogues qui, au XVIIe siècle, a libéré l'Ukraine du joug des Polonais (lesquels avaient jusque là confié aux Juifs la perception des impôts...).  Cet héritage historique convaincra de nombreux Ukrainiens à s'engager contre les soviétiques dans la Waffen SS.  L'implacable épuration qui s'ensuivit entraînera des centaines de milliers de déportations.  On comprend bien que cela obère la relation des Ukrainiens avec les Russes, mais pas que cela les amène à soutenir des oligarques cosmopolites, parmi lesquels de très nombreux juifs !

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Pierre Koenig relève que c'est le 25 juillet dernier que Poutine a consacré le Club Stolypine.  Animé par son conseiller Sergueï Glaziev, il vise à donner à l'économie russe un modèle de développement qui tranche sur l'idéologie globaliste du libre marché à l'occidentale d'Alexei Koudrine, dans un retour à la conception westphalienne des rapports entre les nations.  Pour le même Pierre Koenig, la Perestroïka de Gorbatchev et la Glasnost sont des opération de déstabilisation menées par l'occident, jusqu'au pillage généralisé et à la sécession des pays baltes, de la Biélorussie, de l'Ukraine et des républiques d'Asie centrale.  Cela s'inscrit dans une ligne que la thalassocratie anglo-saxonne a amorcée à l'époque élisabéthaine contre l'Espagne et le Portugal, pour empêcher qu'une puissance continentale domine le continent, et qu'elle a poursuivie contre la France jusqu'à Waterloo, pour briser ensuite les empires austro-hongrois et allemand.  Et contre la Russie, à la Guerre de Crimée, alors que l'enjeu était nul pour la France.  Depuis la fin de l'URSS, cette oligarchie a gagné une guerre idéologique et s'apprête à réduire l'humanité dans un esclavage culturel. Il est vital de promouvoir, contre ce totalitarisme rampant, la liberté des peuples et la pluralité des cultures.

Pour Thierry Thodinor, à la faveur de l'état de choc dans lequel les peuples européens ont été placés, le 'Consensus de Washington' (FMI/Banque Mondiale...) vise à imposer ses réformes, lesquelles seraient rejetées en temps ordinaire.  Dans l'Ukraine d'aujourd'hui, livrée aux maladies infectieuses et au pillage par les prédateurs locaux et par ceux qu'on y a importés (tel ce Hunter Biden, propre fils du vice-président US sortant !), la 'Révolution de la Dignité' s'est transformée en de sordides règlements de compte.

Petrus Agricola, correspondant habituel de Rivarol pour le monde agricole, note au sujet des sanctions prises à propos de l'Ukraine à l'encontre de la Russie de Poutine que, depuis l'arrivée de celui-ci au pouvoir, les Russes ont développé de manière spectaculaire leurs productions agricoles.  Notamment en mettant en culture des millions d'hectares de 'tchernozioms', les fameuses terres noires.  La Russie est ainsi devenue, devant les Etats-Unis, le premier exportateur mondial de blé, son client le plus important étant l'Egyte.  Pendant ce temps, les paysans européens paient la facture de leurs élites donneuses de leçons : avec les fournitures qu'ils destinaient aux Russes, ils noient les marchés qui voient les prix s'effondrer, tant pour leurs fruits et légumes que pour leurs porcs.  La Russie est incitée à devenir auto-suffisante, ce qu'elle réalisera très prochainement.

Ancien président de l'Association française de l'Agriculture, l'écrivain Alexis Arette, qui avait dans son livre 'Les damnés de la terre' dénoncé le programme agricole des puissances financières et la trahison de la démocratie chrétienne, des Jeunesses Agricoles Catholiques et des syndicats d'agriculteurs, rappelle que le génocide du monde agricole, initié par le Général De Gaulle, a été concomitant à celui des Harkis et a conduit les résistants (dont lui-même) dans les prisons de la République.  Mais qu'il en est sorti 'in-converti' !  Opportunistes, « les syndicalistes agricoles mériteraient, dans un bon régime, d'être pendus ».  Des six millions trois cent mille paysans français qui vivaient de la terre à la sortie de la guerre, il en subsiste moins d'un million, dont plus de deux cent mille exploitations de « subsistance » de paysans misérables qui s'accrochent par amour de la terre.  Avec une productivité énorme de basse qualité, sur des sols stérilisés, avec des économies d'échelle qui ne compensent pas la fragilisation, notamment celle des cheptels, touchés par des pandémies et gavés d'antibiotiques.  Dans le même temps, Poutine mise sur la qualité de la production d'une agronomie biologique.

Claude Valsardieu égraine toute une théorie d'images suggestives et de symboles évocateurs, confirmés par des étymologies, certaines fermes comme le roc, d'autres émouvantes et vertigineuses, pour inviter à se réapproprier les mystères de la lumière virginale de l'aurore : le coq, Mithra et Epona, Athéna et l'étoile du matin.  Et il rappelle comment, à l'époque romane, l'Eglise a investi la majesté païenne de l'aurore avec la crèche de Noël, avec le Petit-Jésus, symbole de la naissance du soleil, et avec la Sainte Vierge, vêtue de bleu-pâle et de blanc comme la lumière aurorale.  Il établit ensuite la coïncidence entre sainte Barbe, la barbare Berbère que Vatican II a éjectée du calendrier, et Danaé, princesse d'Argos qui fut comme Barbe enfermée par son père dans une tour, où Zeus vint la féconder par une pluie d'or, afin qu'elle enfante Persée et que celui-ci puisse tuer la Méduse.  Qui donc restituera leur benoîte patronne aux mineurs et aux géologues, aux puisatiers et aux artificiers, aux artilleurs et aux pompiers.