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mardi, 05 mai 2009

Giano Accame o dell'amicizia antieconomicista

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Giano Accame o dell’amicizia antieconomicista
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di Carlo Gambescia
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Ho conosciuto di persona Giano Accame, che naturalmente leggevo da anni, in occasione di un convegno, se ricordo bene, da lui ideato e intitolato “Oltre il muro di Wall Street”, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Da poco era caduto il Muro di Berlino, mentre quello edificato dalla rapace e apolide finanza globale nel secolo americano, era rimasto in piedi, in tutta la sua arrogante imponenza.
Giano si proponeva se non di abbatterlo almeno di aprire qualche breccia, qui in Italia, grazie alle idee controcorrente di un pugno di refrattari al capitale finanziario, come si e ci definì il compianto professor Arduino Agnelli, presente tra gli invitati lì riuniti, grazie alle grandi capacità organizzative di Giuliano Borghi e ai mezzi messi a disposizione dal compianto Ivo Laghi, quale direttore all’epoca di “Pagine Libere”, autentico fiore all’occhiello della Cisnal.
Il muro però oggi è ancora lì. E noi pure, magari con qualche triste assenza legata alle inesorabili leggi della grande catena dell’Essere. Ma sempre con le spade dell’intelligenza sguainate. E con Giano al comando, pronti all’ultima carica, contro i carri armati di Wall Street… Costi quel che costi.
Non poteva perciò non nascere tra noi, già in quegli anni, un grande feeling intellettuale. Poi trasformatosi nel tempo in amicizia.
Su quali basi però? Ovviamente quelle di un rigoroso e affratellante antieconomicismo. E sicuramente ricambiato, nei nostri riguardi, dall’economia stessa. E in particolare dal denaro, che ci ha sempre “guardato”, diciamo così, con analoga antipatia.
Per entrare nel merito: in Giano, l’antieconomicismo passa attraverso il fuoco di una cultura trans-fascista, incarnatasi storicamente nella gigantesca e sempre attuale battaglia del sangue contro l’oro. Mentre nel sottoscritto l’antieconomicismo origina da una formazione di tipo sociologico, meno politicizzata o infuocata, che però designa nello studio dei fenomeni sociali le chiavi ideali per penetrare e cambiare, secondo i valori di sempre, la Città dei Moderni. Troppo sbilanciata sul piano dell’agire economico orientato al profitto, fino a sconfinare nella pirateria borsistica, oggi ancora ben insediata dietro il Muro di Wall Street.
Diciamo subito che anni di conversazioni fitte fitte, avvenute nel suo studio così affollato di libri, quadri, gatti, cani e idee antieconomiciste, hanno contribuito ad allargare i miei orizzonti. Fino al punto di riuscire a capire che l’economia non è solo sociologia, ma anche poesia e letteratura. E soprattutto politica, come capacità di immergersi con la passione dell’intellettuale “armato” (delle sue sole idee, ovviamente), anche nella trivialità, pur necessaria, della comprensione del divenire storico ed economico. Per riaffiorarne con nuove certezze sulla natura a tutto tondo dell’ uomo reale: che non è economico e ragionatore, ma antieconomico e sragionatore. E dunque capace di sacrificarsi “poeticamente”, immolandosi magari in guerra, per un’ idea come quella di patria. O semplicemente per fedeltà alle scelte fatte. E non importa se perdenti. Scegliendo così la via del più ruggente idealismo politico.
Ma devo a Giano anche numerosi suggerimenti di lettura, poi magari concretizzatisi in comuni collaborazioni. Penso al Mazzini, al Carli e al Michels, pubblicati nella collana “Contra” di Settimo Settimo Sigillo da me diretta. E da ultimo, al mio libro su Del Noce, che si avvale di un’intensa prefazione proprio di Giano. Dove, tra l’altro, ho messo a frutto alcune sue preziose notazioni esistenziali sul filosofo cattolico. Ma penso anche ai convegni, alle presentazioni di libri, alle riunioni editoriali e di redazione. Sarebbe veramente lungo fare la lista, per autori, delle suggestioni legate alla sua frequentazione e amicizia.
Un legame fatto anche di momenti ludici. E perciò di vivaci incontri conviviali, con altri valorosi quanto, alla bisogna, faceti amici. Segnati da bicchierate, squisiti manicaretti, e, a fine pasto, da esplosivi “Sgroppini”: una miscela di vodka, gelato al limone e una lacrima di spumantino. Se ci si passa l’espressione un po’ volgare: uno sturalavandini… Al quale Giano, insieme alla poesia e alla letteratura antieconomicista di Pound e di Marinetti, mi ha iniziato… Con mio grande gaudio. E ne sanno qualcosa Enzo Cipriano, il nostro grande e incosciente editore, sempre presente al rito dello Sgroppino. E il bravissimo ristoratore Michele, proprietario della “Piccola Irpinia”, nostro anfitrione romano e sapiente somministratore di “Sgroppini”…
Anche in queste occasioni conviviali, Giano non manca di suggerimenti e stimoli. La convivialità, insomma, nel senso del “vivere con” le emozioni, non solo della cultura, raggiunge il suo livello più intenso proprio durante le nostre cene. Vita e intelletto finiscono così per congiungersi felicemente.
Ecco, questa prodigalità di consigli e suggerimenti; questo donare, così candidamente se stesso, con naturalezza, senza mai far pesare la propria cultura, è tipico di quello che mi piace definire l’antieconomicismo esistenziale di Giano. Che spesso si nota nella sua pagina anche giornalistica, sempre colta, nitida, ma ricca di liberi spunti e stimoli donati al lettore, arricchendolo; si parla al mondo ma senza prevaricare. Con eleganza di cuore.
Il punto è che Giano, pur nella fermezza delle sue idee, è ancora oggi capace di ascoltare il mondo, dando così vita a una specie di circuito del dono intellettuale, tra chi legge e chi scrive. Anche se di sponde opposte. Come del resto dimostra l’attenzione che Giano ha ricevuto in ambienti lontani dalla destra. Il che deve rappresentare una lezione di vita per tutti noi, giovani e meno giovani. Quale lezione? Come essere realmente artigiani delle idee, nel senso più nobile del termine, andando al di là degli steccati politici post-1789. Pur conservando un ideale rispetto per quei “maggiori” di destra o sinistra, dai quali alcuni di noi discendono per precedenti scelte politiche.
E in questo senso mi piace parlare dell’amico Giano come di un mio “Maggiore”: vero maestro di studi, di giornalismo e di vita.
Auguri Grande Giano per i tuoi ottant’anni. Donati bene a quel mondo variegato e ribelle di spiriti liberi che ti ama intellettualmente e che non sarà mai pago di ascoltarti.
Un abbraccio affettuoso dal tuo Carlo.

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samedi, 02 mai 2009

La face cachée du développement durable

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La face cachée du développement durable

 

Ex: http://unitepopulaire.com/ (article exclusif)

 

Dans un monde qui ne cesse d’exploiter des ressources non renouvelables tout en détériorant l’environnement, il est légitime de s’interroger quant aux solutions à apporter à cette crise sans précédent. En ce moment, les politiques parlent beaucoup du développement durable comme incarnant la meilleure voie à suivre. Mais que penser de ce développement durable ? Quel est son lien réel avec l’écologie ? Le présent article s’inspire de l’ouvrage Demain la Décroissance du philosophe et intellectuel français Alain de Benoist. Celui-ci s’est longuement penché sur l’étude du système économique actuel et de l’idéologie mondialiste qui le sous-tend.

 

Le développement durable et l’écologie

Tout d'abord, définissons ce qu'est l'écologie et le développement durable et faisons la distinction entre ces deux termes. Le développement durable, pour commencer, découle de la théorie classique de la croissance. Celle-ci s’est construite sur l’idée de dématérialisation des ressources naturelles. Ces ressources seraient, en fait, substituables à un certain capital financier. En d’autres termes, un apport financier suffirait à compenser la dégradation de l’environnement. Le problème est évidement lié au fait que le patrimoine naturel n’est pas entièrement substituable au capital. Il n’est, de plus, absolument pas substituable lorsqu’il s’agit de ressources non renouvelables. On voit donc dans cette théorie une sorte de financiarisation d’un environnement qui n’est pourtant pas monétisable.

Cette marchandisation de l’environnement est comparable à la marchandisation des salaires aux premières heures de la mondialisation. En effet, autrefois, pour le patron, la dépense salariale comprenait une certaine dimension humaniste qui interdisait qu’on la manipule au même titre qu’on le ferait avec les dépenses matérielles de l'entreprise. Or – et c'est la thèse du démographe français Emmanuel Todd – la dépense salariale est aujourd’hui considérée comme une dépense comme les autres qu'il faut réduire au maximum. Cette logique s’est concrétisée par la libéralisation mondiale des marchés de la production, notamment par le phénomène délocalisation qui obéit toujours à la loi du moindre coût – et donc du salaire le plus bas.

Un autre exemple qui illustre cette théorie est le marché de la pollution. Ce marché a la caractéristique de permettre la pleine substituabilité du capital à la pollution. Une industrie polluante ne considérera pas ces rejets nocifs comme un mal devant être réparé par souci de conscience environnementale mais plutôt comme de simples "externalités négatives" devant être intégrées dans les comptes alloués aux pollutions potentielles. Il est à noter que ce fonctionnement est financièrement plus intéressant que la remise en cause du système de production…

L’écologie, quant à elle, est définie comme l’étude des milieux et des conditions d'existence des êtres vivants et des rapports qui s'établissent entre eux et leur environnement. Cette définition amène à penser l’écologie comme une science soucieuse des dégradations environnementales. L’écologie, contrairement au développement durable, est donc prête à remettre en cause n’importe quel système économique qui irait à l’encontre du bien-être de l’écosystème. Ce qui constitue ces deux doctrines est donc l’ordre des priorités, l’équilibre naturel et la préservation de l’environnement n’ayant pas la même importance primordiale pour les deux. Le développement durable n’est donc qu’une échappatoire non pas au système économique mais à la réforme nécessaire de ce système économique, celui-ci étant basé sur la croissance et la dette (la seconde engendrant la première). 


Modèle économique à remettre en cause

Comme il a été dit plus haut, le développement durable ne remet nullement en cause le dogme de la croissance infinie mais se contente d’intégrer la donnée écologique à un système économique qui demeure, lui, inchangé.

Le sociologue et philosophe français Edgar Morin évoque la nécessité d’une remise en cause des principes de la logique marchande. Il voit dans le développement durable un moyen de faire croire qu’il est possible de remédier à cette crise environnementale sans remettre en question l’imaginaire économique, le système de l’argent et l’expansion illimitée du capital financier. Cette logique se condamne elle-même à terme dans la mesure où elle continue de s'inscrire à l'intérieur d'un système de production et de consommation qui est la cause essentielle des dommages auxquels elle tente (ou prétend tenter) de remédier.

Alain de Benoist pointe du doigt le fait que tout le monde parle aujourd'hui d'écologie (le marketing industriel a même créé le concept de greenwashing qui consiste à faire vendre au moyen de pseudo-arguments écologiques), mais que depuis qu'on en parle, la situation ne s'est pas globalement améliorée, bien au contraire. Ce qui montre qu'en dépit des beaux discours et des proclamations de principe, la logique du profit reste prédominante.

Kurt Gödel, un mathématicien américain, a formulé un théorème qui démontre qu’un énoncé ne peut être ni vérifié ni réfuté dans le cadre de la théorie à laquelle il appartient. En d’autres termes, le seul moyen de résoudre les problèmes environnementaux est de sortir du système économique actuel, principal producteur de ces mêmes problèmes.



La croissance "tue" tout progrès environnemental

Un des meilleurs moyens de comprendre l’influence néfaste de la croissance sur l’écologie est l’effet rebond. Celui-ci permet de comprendre que lorsque des économies d’énergie ou des avancées environnementales sont effectuées, elles sont en fait annulées, voire aggravées, par l’incitation à consommer et l’augmentation des quantités produites qui en résultent. Par exemple, un véhicule de consommation modeste incitera son conducteur à parcourir plus de kilomètres puisqu’elle permet d’aller plus loin pour le même prix... Cette augmentation de l’utilisation du véhicule (incitation à consommer) aura comme effet d’annuler le gain obtenu par la réduction de la consommation en carburant du véhicule. Les économies d’énergie ont donc souvent comme effet d’augmenter les quantités produites et, par conséquent, le volume global de consommation.

Il est important de noter que ces effets pervers d’augmentation du volume des ventes induits par le développement durable sont, en fait, un effet voulu. Ils permettent, en effet, de stimuler la consommation et de maintenir une croissance exponentielle tout en "sauvant la face" vis-à-vis d’une opinion publique toujours plus sensible aux préoccupations écologiques.



Le développement durable et la disparition des productions locales

Le développement durable est souvent associé à une volonté humanitaire de contribuer au développement des pays pauvres. Seulement, la pauvreté du tiers-monde ne serait pas, selon Alain de Benoist, le résultat d’un développement insuffisant des ces pays mais plutôt leur insertion dans une économie de marché libérale prédatrice et inadaptée aux besoins réels desdits pays. Cette insertion, voulue par les pouvoirs occidentaux, plonge bon nombre de pays dans une logique de réduction effrénée des coûts de production. Logique qui amène ces pays non pas à développer leur production locale et à avancer vers l’auto-suffisance mais plutôt, au contraire, à importer des biens produits moins cher ailleurs.

Le développement durable aurait donc un effet pervers pour les pays pauvres qu’on pousserait à s’endetter pour rattraper leur "retard" de développement. Il serait légitime de se demander si cet endettement ne serait pas là que pour faire consommer ces pays qui, jusque là, n’étaient rentables pour l’Occident qu’à travers leurs matières premières. N’est-ce pas là un moyen d’affaiblir ces pays en les rendant plus dépendants des pays riches ?

Un autre problème engendré par la doctrine du développement durable est sa volonté d’imposer des lois restrictives à des pays jugés "non-écologiques". Ces lois, sous couvert de souci environnemental, peuvent servir à freiner la croissance de certains pays concurrents, notamment en matière d’énergie.


pour Unité Populaire, Jonathan Newton
  

 

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lundi, 27 avril 2009

Historique de la crise financière des subprimes

Historique de la crise financière des subprimes

Par Janpier DUTRIEUX

Europe Nous publions un article de notre ami Janpier Dutrieux paru sur son site prosperite-et-partage.org

1. L’étincelle

Nous sommes à la fin des années 1990. Le marché immobilier américain est tendanciellement à la hausse. Les taux d’intérêt de la FED (Réserve fédérale) sont alors peu élevés. Assurées de la hausse progressive de l’immobilier et conscientes de la faiblesse des taux d’intérêt, les banques et les sociétés de prêts immobiliers se lancent dans la distribution de crédits immobiliers hypothécaires (ou mortage), à taux variables, et à hauts risques (subprimes) auprès d’une clientèle à bas revenus, et en situation précaire.

Avec la hausse, chacun espérait revendre plus cher. Pour se procurer des liquidités et conforter leur bilan, ces banques et sociétés de prêt revendirent leurs créances à risque auprès d’autres banques et de fonds spéculatifs 1 sur les marchés boursiers internationaux en les titrisant 2. Par exemple, la Banque de Chine détenait 10 milliards de dollars en titre « subprime » en fin août 2007.

Cependant, la FED commença à relever ses taux d’intérêt dans le courant de l’année 2004. Les banques qui avaient consenti les prêts immobiliers commencèrent alors à solliciter très agressivement tous les propriétaires (par courrier, téléphone, etc.) pour les inciter à monétiser leur plus value immobilière, c’est-à-dire à reprendre un crédit pour financer la hausse du crédit en cours souscrit à taux variable. Aux Etats-Unis, en effet, le bien acheté à crédit est hypothéqué et permet de garantir de nouveaux crédits. Malgré ces nouveaux crédits, de nombreux ménages ne purent plus financer leurs crédits. Leurs biens immobiliers furent mis en vente.

Mais, conséquence de la hausse des taux d’intérêt, la valeur de l’immobilier baissa alors que les taux d’intérêt s’élevaient. Avec des prêts à taux variables, les ménages ne purent plus rembourser une valeur immobilière achetée au plus haut prix. Les banques qui avaient prêté ne purent plus recouvrer leurs créances puisque la valeur du bien baissait sur le marché. Il en fut de même des autres banques et fonds qui avaient racheté ses créances titrisées. Les premières difficultés du crédit hypothécaire américain apparurent en fin 2006.

Les procédures de saisie s’élevèrent aux Etats-Unis et dépassèrent le million dans les 6 premiers mois de 2007, soit une procédure sur 112 foyers, notamment en Californie, en Floride, au Michigan, en Ohio et en Géorgie. Les emprunteurs se retrouvèrent à la rue, les prêteurs en faillite, les titres subprimes se négociaient de moins en moins sur les marchés financiers, les banques manquaient de liquidités, les clients perdaient confiance, le crédit allait manquer, l’activité économique se réduire, les marchés s’étioler et les bourses des valeurs s’effondrer.

2. Le vent incendiaire

La titrisation des créances à risque (supprime) a permis aux banques qui avaient accordé ces crédits immobiliers à des ménages américains de s’en débarrasser et de transférer le risque de non recouvrement aux institutions financières acquéreuses (banques et fonds spéculatifs notamment) sur un marché international. « La mondialisation financière fait qu’il est bien difficile, si le feu n’est pas circonscrit au départ, de l’arrêter ensuite. Il explique que les difficultés d’un compartiment très étroit du crédit immobilier américain se transforment en une crise bancaire puis monétaire et financière sur toute la planète. Tout le monde est aujourd’hui concerné par ce qui se passe chez son voisin 3. »

La création monétaire : Le banquier joue entre les flux entrants (dépôts nouveaux et retour de crédits consentis) et sortants (crédits consentis) en créant de la monnaie (de crédit bancaire ex nihilo) par duplication monétaire (en accordant des crédits de plus long terme que les dépôts qui les couvrent). Autrement dit, il prête de l’argent qu’il ne possède pas dans ses caisses. Il prête en anticipant la rentrée de dépôts : ce sont les crédits qui font les dépôts.

Banque centrale : Quand une banque (secondaire) manque de dépôts pour couvrir les retraits, elle se refinance auprès d’autres banques (marché interbancaire) ou, à défaut, auprès de la Banque centrale, préteur en dernier ressort. La Banque centrale dispose de plusieurs instruments de régulation monétaire (taux d’intérêt, appel d’offres, prise en pension, réserves obligatoires, open market).

Création et destruction monétaires : « (…) C’est le principe fondamental de la création monétaire : si je fais un crédit papier de 100 et si je sais qu’une grande partie de ce crédit reviendra chez moi banquier, je peux multiplier le crédit bien au-delà du stock d’or dont je dispose. (…) Le mécanisme est décrit dans l’adage : « les prêts font les dépôts ». Le crédit fait les dépôts, il fait l’argent. Et non l’inverse ! Avis à ceux qui croient que l’épargne fait l’argent. Quel contresens économique ! (…) Mais la vraie garantie de la création monétaire, c’est l’anticipation de l’activité économique, du cycle production consommation. Encore faut-il que cette anticipation soit saine : toute création monétaire saine débouche sur une destruction monétaire équivalente. (…) Nous percevons mieux la nature de la monnaie : des dettes (des créances sur la banque émettrice) qui circulent. Des dettes qui, si elles sont saines, doivent, par l’activité économique, provoquer leur remboursement. Aujourd’hui, la monnaie est détachée de tout support matériel, on peut en créer à l’infini. » Bernard Maris, Anti-manuel d’économie, éd. Bréal, oct. 2003, p. 219

Les banques n’osèrent plus se prêter mutuellement des liquidités contre des titres. La crise immobilière dégénéra ainsi en crise des marchés, puis en crise du crédit. Quelques conséquences : BNP Paribas annonça le gel de 3 SICAV monétaires investies dans des titres adossés à des crédits subprimes américains le jeudi 9 août, le lendemain les Bourses mondiales enregistraient le risque : - 3,71 % à Londres, - 3,13 à Paris, - 1,48 % à Frankfort, - 3,05 à Amsterdam, - 4,20 % à Séoul. Le 16 septembre, la clientèle de la banque britannique Northern rock commença à former de longues files d’attente pour retirer leurs dépôts. Plus de 8 % de ses dépôts totaux, soit plus de trois milliards d’euros, furent retirés 4. Les Banques centrales, prêteurs en dernier ressort, prirent conscience du risque d’assèchement monétaire (credit crunch), et des conséquences systémiques (effet domino, effet papillon, contagion et récession) de la crise. La BCE fut la première à injecter des liquidités à court terme (148 milliards d’euros le 9 août) suivie par la FED (59 milliards de dollars le 10 août), qui baissa fin 2007 ses taux de 0,75 % en les ramenant à 3,50 %. En fin janvier 2008, son principal taux était raméné à 3 % contre 5,25 % en août 2007. Conséquence, le dollar baissa encore, élevant mécaniquement l’euro. Un euro valait 1,4905 dollar le 31 janvier 2008. Les Européens apprécient.

Enfin, ce furent les fonds souverains 5 qui vinrent investir dans les banques et les sociétés qui accusaient des dépréciations de capital consécutives à la crise des titres subprimes en les privant d’une partie de leur indépendance. De nombreuses banques, ébranlées par cette crise, autorisèrent l’arrivée dans leur capital de fonds souverains (Citygroup, Barclays, Fortis). Ainsi, le 11 décembre 2007, UBS, première banque suisse, qui annonçait des pertes capitalistiques de 10 milliards de dollars (6,8 milliards d’euros). fit appel à l’Agence d’investissement du gouvernement de Singapour, qui y investit 6,6 milliards d’euros, soit 9 % du capital.

Mais ces actions ne semblent pas suffire pour ramener la confiance. L’action des Banques centrales devient toujours plus délicate. Une baisse des taux d’intérêt peut être mal interprétée par les marchés ou ne profiter qu’à des opérations spéculatives avec effet de levier (LBO) 6 sans entraîner la production. Les craintes que cette crise affecte l’économie réelle, et en premier lieu, les Etats-Unis, locomotive (à crédit) du monde, et dégénère en récession mondiale, sont d’actualité.

3. Boucs émissaires et critiques

Comme dans chaque crise ou krach, on recherche des coupables. En 1929, ce furent les ventes à découvert, en 1987, les programmes automatiques d’achats et de ventes, en 2007, on accusa l’opacité des bilans des banques qui ne font pas apparaitre les crédits à risques, les agences de notation 7 accusées d’apprécier la rentabilité au détriment de la sécurité, et les fonds d’investissements et spéculatifs « hedge funds ».

Cette crise résulte de deux facteurs :

1- elle fut généré parce que l’on a prêté à des gens peu solvables lorsque les taux d’intérêt étaient bas. 2- elle s’intensifia car les prix de l’immobilier baissèrent. Baisse consécutive à la remontée des taux d’intérêt de la FED. C’est une conséquence de la baisse des prix de l’immobilier et des facilités monétaires.

La crise des subprimes est la première grande crise systémique bancaire qui trouve son origine dans les crédits des ménages.

On notera que la BCE fut a priori « la plus active, en injectant plus de 250 milliards d’euros, une opération qui a eu pour effet de provoquer un gonflement de la masse monétaire, donc en totale contradiction avec son discours de vigilance anti-inflationniste. »

Inversement, on peut se demander pourquoi dès la fin 2006, « la FED n’a rien entrepris pour tenter d’éteindre l’incendie avant qu’il ne se propage. Les Banques centrales censées veiller à la stabilité financière mondiale ne viennent pas seulement de démontrer leur impuissance à prévenir les crises, mais aussi leur incapacité à les gérer en douceur » 8.

On oublie trop souvent l’analyse de Clément Juglar : « Qu’est-ce que le crédit », soulignait-il, c’est « le simple pouvoir d’acheter en échange d’une promesse de payer », mais comme « la fonction d’une banque ou d’un banquier est d’acheter des dettes avec des promesses de payer, (….) la pratique seule du crédit amène ainsi, par l’abus qu’on est porté à en faire, aux crises commerciales » 9.

« Les banques créent de la monnaie très simplement. Lorsque le titulaire d’un compte obtient un prêt à court terme (moins d’un an), par exemple une avance sur salaire : dans ce cas, la banque inscrit au crédit du bénéficiaire la somme demandée (d’où le terme de crédit). Elle a créé de la monnaie scripturale à partir de rien. Une inscription sur un compte lui a suffit. » Denis Clerc, Déchiffrer l’économie, La découverte, Poche, 15 édit. 2004, chapitre 4 La monnaie et le crédit, p. 163.

On se permettra également de critiquer in fine le dogme monétariste de la BCE et d’une façon générale l’incapacité des Banques centrales (c’est-à-dire du politique) à discipliner les marchés. On sait ainsi que pour garantir la stabilité des prix en dessous de 2 %, la BCE a défini une norme de progression de M3 (agrégat monétaire de référence) de 4,5 %, soit 2,5 % au titre de la croissance et 2 % d’inflation tolérée. Mais, pendant le 1er semestre 2007, la progression fut de 10,9 %. M3 est l’agrégat monétaire de référence et incorpore la monnaie stricto sensu, c’est-à-à-dire les billets et les dépôts à vue (M1), les placements à court terme (M2-M1) et les placements à plus long terme (M3-M2). Le tableau ci-dessous récapitule la part de chaque agrégat incorporé dans M3. Puis, il note la contribution de chacun de ces agrégats intermédiaires la croissance de M3.

Part de la croissance de M3 dévolue à ses agrégats intermédiaires pendant le 1er semestre 2007. 10 Structure de M3 Contribution à la croissance de la masse monétaire M1 (billets, DAV) 47 % 31 % M2-M1 (placements) 38 % 44 % M3 –M2 (actifs financiers négociables) 15 % 25 % Total M3 100 % 100 %

On constate ainsi que seuls 31 % de la création monétaire vinrent abonder M1, agrégat de la monnaie stricto sensu qui alimente les échanges dans le circuit économique de la production et de la consommation des biens et services. En revanche, 69 % de cette création monétaire se sont transformés en placements et actifs financiers et vinrent ainsi alimenter les marchés financiers. Autrement dit, la BCE nourrit l’inflation des marchés financiers, les opérations de levier, la spéculation sur les marchés immobiliers mais s’avère incapable de rendre à la monnaie sa fonction initiale de faciliter l’activité économique.

4. Notre conclusion

Les crises commerciales, bancaires et financières ne datent pas d’aujourd’hui. Cependant, la responsabilité individuelle restait circonscrite aux seuls preneurs de risques (banques, épargnants trop avides, entrepreneurs). Au XIXe siècle, la discipline de l’étalon or qui exigeait la couverture intégrale de tous les crédits par des dépôts, et des dépôts par des encaisses 11, limitait, voire supprimait, le refinancement aujourd’hui contraint par le risque systémique de la Banque centrale « prêteur en dernier ressort ». Mais cette exigence de couverture intégrale de tous les crédits par des dépôts de terme aussi long qui était à l’origine de la théorie bancaire fut progressivement abandonnée. Elle n’est plus imposée aux établissements bancaires dont la fonction s’avère commerciale que d’intérêt public et social. Nombreux sont les observateurs qui déplorent que les Banques centrales si réservées pour injecter de nouvelles liquidités afin de soutenir l’activité économique et les investissements à long terme, souvent publics car peu rentables à court terme, soient en revanche d’une obséquieuse générosité pour renflouer les pertes des banques secondaires et de quelques spéculateurs. Mais pour comprendre cette immorale servilité, il convient certainement de rappeler qu’à l’origine du débat sur la fonction du prêteur en dernier ressort, au XIXe siècle en Grande Bretagne, « le comité parlementaire de 1858 avait décrit la Banque d’Angleterre comme « la banque en dernier ressort en cas de panique »12. Autrement dit, la fonction d’émission monétaire de la Banque centrale se limitait à la sauvegarde d’un système frauduleux (prêter ce que l’on ne possède pas) et au maintien des privilèges de la caste des rentiers au détriment de celle des entrepreneurs. Les choses n’ont guère changées depuis. La chrématistique est toujours bien servie.

Il faut rendre aux Etats et à leurs Banques centrales le monopole naturel et historique de création monétaire au service de l’humanité, du bien commun et de la pérennité planétaire. Il faut revenir à une couverture intégrale des crédits pas les dépôts, et des dépôts par des encaisses en monnaie de base (ou centrale). Il reste que l’accumulation des dettes dans les pays développés, aux Etats-Unis comme en Europe, provoquera encore demain d’autres chocs, crises et krachs conséquences des premiers ou totalement indépendants. De surcroît, la baisse des taux d’intérêt américains enchérira mécaniquement l’euro et pénalisera l’économie européenne. Stagnation, récession, crises bancaires et boursières, ainsi s’ouvre 2008.

Source : Europae Gentes


 

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Renoncement : aliénation, servitude et tyrannie

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Archives de "Synergies Européennes" - 1997

Renoncement : aliénation, servitude et tyrannie

 

Mai 1995 en France. Les anciens cabinets s'en vont, les nouveaux arrivent : ce sont les mêmes ou presque. Le pouvoir des commanditaires fortunés et les nouveaux riches, politiciens et technocrates, ont fait alliance avec les notables. Ce trust s'appuie sur une idéologie officielle, la « pensée unique », nouvelle désignation de la pensée pieuse des religions monothéistes, et réorganise idéologiquement la société. Le trust a mis la main sur l'Etat et, comme toute mafia, défend ses privilèges et ses richesses ; à l'abri du Pouvoir, le chemin de l'enrichissement est pavé de crapuleries heureusement effacées par les pensées pieuses affichées.

 

Un système de castes s'est constitué en France en particulier et en Europe en général grâce à l'introduction de lois obscurantistes, et par l'intermédiaire de colonies de peuplement affluant de toutes parts en raison des facilités d'établissement que le parti des ethnocideurs leur accorde et de la prodigalité avec laquelle les satrapes étatiques accordent la citoyenneté. La naturalisation de ces foules est effectuée alors même qu'elles se regroupent par "ethnos" et servent de point d'ancrage à de nouveaux trafics au détriment des Européens de vieille souche. L'éradication du peuple donne naissance à la plèbe, abrutie ou excitée par la pègre médiatique selon le pogrom du jour. Dans la course au profit, les plus malins, les plus fripons, les mieux organisés sur le plan transnational utilisent les trous noirs des paradis fiscaux et des zones franches juridiques, ainsi que la religion du droit de l'homme, ecclesia d'agitateurs sacerdotaux professionnels.

 

Pensée unique, idéologie officielle

 

L'équité dont se revendiquent les mafias installées emprunte le modèle raciste des trafiquants pieux. La pensée est interdite, remplacée par la croyance unique distillée par la race supérieure des purs et imposée au moyen des ruses de commerçants ou par violence contre les philosophes, "qui ne savent point ce qui est, mais qui savent très bien ce qui n'est pas" (1). Il apparaît qu'on n'a jamais tant craint les gens d'esprit en Europe qu'aujourd'hui. Et tous les conflits doivent être réglés par des magistrats sous contrôle, leur servilité s'obtenant par tous moyens : corruption, sélection partisane, intimidation. Ainsi les cours jugent-elles toujours comme il plaît à la Cour.

 

La pensée unique est l'anti-France. Elle s'étale à partir de cercles où règne la bassesse, et la tyrannie théocratique qui en résulte est bien pire que la discipline librement consentie dans le cadre d'un Etat. Le mensonge est permanent : faux chiffres, fausses idées, fausses solu­tions, et toujours le même catéchisme, la même idéologie : le branche­ment planétaire qui fait l'impasse sur l'organisation des savoirs, sur la structure de la pensée, sur la lente maturation de l'intelligence. La table rase des esprits est organisée au moyen de la pédagogie ludique substituée à la discipline intellectuelle, l'animation remplaçant l'instruction. Toutes les tyrannies théocratiques n'ont-elles pas pour but de liquider le passé et de le réécrire selon des principes pieux ?

 

Il existe en France une idéologie officielle, c'est-à-dire une doctrine idéologique et une organisation idéologique des hommes qui se renforcent chaque jour. L'idéologie officielle est un système dans lequel tout se tient : rejet du modèle républicain, doctrine de l'Etat minimum, franc fort, politique fiscale et rationnement budgétaire, mauvais fonctionnement de la police, de la justice, de l'école, inégalité d'accès aux services publics, chômage, rétrécissement de la protection sociale... Et aussi la désintégration du système productif, de l'armature territoriale de la ville, le déclin de l'industrie, les difficultés de l'agriculture... Chaque chapitre du livre de Henri GUAINO (2) développe un slogan pieux et en montre le ridicule ou la fausseté.

 

Ridicule et fausseté de la « pensée pieuse »

 

1 - La pensée unique dit : "La politique, c'est toujours la droite contre la gauche". Or, il existe aujourd'hui une classe dirigeante unique, qui verrouille les fonctions administratives, politiques et économiques. Le régime oligarchique est en effet très efficace pour assurer la prospérité durable des diverses factions qui s'entendent au détriment du public au lieu de s'affronter.

 

2 - La pensée unique dit : "La France vit au-dessus de ses mo­yens". D'où la désinflation compétitive. Mais un pays n'est pas une entreprise. Le travail ne saurait disparaître compte tenu de la dynamique permanente des besoins. Les chiffres de la comptabilité natio­nale sont à appréhender avec un regard critique, comme il fallait in­terpréter les statistiques du plan dans les anciens pays de l'Est... Le ser­vice des rentiers est présenté sous la forme d'une nécessité : ce serait le problème économique fondamental. Mais n'y a-t-il pas 7 millions de personnes confrontées directement aux difficultés de l'emploi ? Le coût du chômage n'atteint-il pas 1100 milliards de francs ? Les actifs entre 35 et 45 ans ne se suicident-ils pas plus que les personnes âgées ? Le produit par tête ne stagne-t-il pas depuis 1990 à un taux de croissance inférieur à 1% par an ?  Aucune importance...

 

3 - La pensée unique dit : "La France va bien, elle avance dans la bonne direction". Or, les crapuleries montent en flèche. La guerre des groupuscules, de tous contre tous, fait vivre les anciens habitants dans une insécurité permanente dont ils savent que les mafias en possession d'Etat sont dispensées. Les Européens de vieille souche sont devenus minoritaires en de multiples lieux et massivement déportés par l'avancée de la barbarie. Parallèlement, le quadrillage de la population par l'industrie de la charité l'incite à quitter les petits villages, voués à la mort. Les droits élémentaires fondamentaux, dont celui de choisir son voisin, sont effacés par l'Etat qui force ainsi à l'exode des masses avilies par une propagande haineuse intense.

 

Dans l'enseignement, les mouchards-penseurs pullulent et affirment que puisqu'ils racontent partout la vérité vraie aux frais de l'Etat, le niveau monte. Quand à la protection sociale, la rançon dont les classes moyennes doivent s'acquitter chaque mois croît alors que la couverture décroît. La France se transforme en un ramassis de sectes, bandes, mafias. L'assassinat du peuple est vu comme la meilleure façon de jouir tranquillement du pouvoir et de ne plus être dérangé.

 

4 - La pensée unique dit : "Les fondamentaux sont bons". Un pays bien géré est en excédent. Mais le monde ne peut pas être en excédent vis-à-vis de lui-même. Lorsque le FMI martèle le catéchisme de l'ajustement structurel, il aliène les peuples au profit des soviets de la finance. La croissance repose sur la dynamique interne des pays qui travaillent pour eux-mêmes. Il est criminel de sacrifier le niveau de vie à la compétitivité extérieure. L'ordre de « réduire les déficits » est une erreur en matière budgétaire. L'épargne résulte de l'investissement, non l'inverse. Le montant et la nature de la dépense déterminent la réussite, en sorte que la première décision utile serait de réduire massivement les impôts pour accroître le revenu disponible. Les mauvais choix de dépenses et la restriction budgétaire coûtent chaque année 1,2 points de croissance et 800.000 chômeurs. En matière de retraites enfin, les têtes plates et les soviets de la finance encouragent la capitalisation. Or, les actifs paient les pensions des anciens si l'investissement intellectuel et matériel dont ils ont bénéficié dans leur jeunesse a été judicieux et rentable.

 

5 - La pensée unique dit : "Une bonne monnaie est une monnaie forte". Mais la monnaie forte bloque l'expansion et exprime un fétichisme qui n'est pas sans rappeler l'attitude à l'égard de l'or au temps de Philippe II. Pour nombre d'historiens, dont Pierre VILAR (3), les entrées de métaux précieux en Europe, leurs découvertes, ne sont jamais des variables exogènes aléatoires. A l'origine, il y a toujours une baisse générale des prix exprimés en or ou en argent, qui s'explique par un développement économique, source d'une pénurie de métaux précieux. La croissance crée le besoin monétaire, non l'inverse. Et si une dévaluation du Franc empire le déficit de la balance, il faudrait en toute logique, hausser le Franc...

 

D’autres politiques sont possibles

 

Les slogans des factions en possession d'Etat se rapprochent de ceux de toute théocratie : il n'y a qu'une vérité révélée, qu'un corpus doctrinal dont elles sont les interprètes autorisés. Il n'y a qu'une politique possible : la France, petit pays, n'a pas de moyens ; l'Etat est à abandonner au profit des internationales, mieux adaptées à une société complexe, en mutation ; l'Euro sera un bon bouclier contre la mondialisation. En réalité, le problème principal tient à la constitution d'Empires financiers conquérants dirigés par un système de soviets, des consistoires multimédias pilotés par des Al Capone pieux, en sorte que la mondialisation est très spécifique : un impérialisme semblable à celui des bolcheviks d'hier et de l'Eglise d'avant-hier.

 

Or, d'autres politiques sont possibles. Henri Guaino préfère la politique inspirée du jacobinisme. Il note que le gouvernement des ju­ges s'installe sur la défaillance des dirigeants, et qu'une guerre s'en­ga­ge entre juges et Etat, mortelle pour la république. L'analyse est à com­pléter. Pour un lettré d'aujourd'hui, l'Etat ressort plutôt de la dé­rive confessionnelle. La pénurie intellectuelle règne car le parti dévot, comme il y a deux mille ans, impose l'unité d'obédience reli­gieuse : histoire sainte, dogmes absurdes, pensées pieuses ethnocidaires. La haine des humains qui pensent, l'anathème, bref l'infâme~ ont pris leur envol et l'Etat se met au service du fanatisme méticuleux.

 

« Lorsque le chevalier de La Barre, petit-fils d'un lieutenant-général des armées, jeune homme de beaucoup d'esprit et d'une grande es­pérance, mais ayant toute l'étourderie d'une jeunesse effrénée, fut convaincu d'avoir chanté des chansons impies, et même d'avoir pas­sé devant une procession de capucins sans avoir ôté son chapeau, les juges d'Abbeville... » (4) furent dénoncés par Voltaire comme n'of­frant pas de garantie d'intelligence, de compétence et d'impartialité. Il les appela des "Arlequins anthropophages". Ne revivons-nous pas cette situation ? La séparation des pouvoirs est parfaitement accessoire dans les circonstances présentes. La division du pouvoir en trois branches (exécutif, législatif, judiciaire) n'est plus qu'une commodité purement professionnelle. Elle semble plutôt protéger certaines factions contre d'autres au sein du pouvoir lui-même mais, en aucune façon, ne met la population à l'abri d'une tyrannie des pen­sées pieuses : les arrêts contre les impies sont toujours rendus par des "cannibales".

 

L'Etat est devenu la marionnette du pouvoir économique. La fusion des deux a créé un super-pouvoir, directoire informel qui n'est ni fixé dans les textes, ni reconnu comme une institution légale. Aussi, la plupart des élites "visibles" ne sont plus qu'un ramassis, une véritable sous-humanité de pantins s'agitant sous la férule de ce super-pouvoir. Félicitons M. Guaino d'avoir préféré la démission à la collaboration avec des associations de malfaiteurs.

 

PONOCRATES.

 

(1) VOLTAIRE : Progrès de la philosophie. A M. D'Alembert. Lettre du 5 avril l765. Dans : Lettres choisies de Voltaire, Classiques Larousse, 1937, p. 88.

(2) Henri GUAINO : L'étrange renoncement, A. Michel, 232 p., 98 FF.

(3) Pierre VILAR : Or et monnaie dans l'histoire (1450-1920), Champs-Flammarion, 1974.

(4) René POMEAU : Voltaire par lui-même, Le Seuil, coll. Ecrivains de toujours, 1962, p. 151.

vendredi, 24 avril 2009

Recettes pour assainir l'économie au quotidien

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Recettes pour assainir l'économie au quotidien

 

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« Il est naturel d’adopter un mode de vie économe quand les temps sont durs et que l’on craint pour son emploi. Mais, au Royaume-Uni, aux Etats-Unis et dans d’autres pays, comme l’Espagne et l’Irlande, où l’activité est tirée par la consommation, cette tendance semble annoncer un changement bien plus profond : la fin d’un mode de vie fondé sur une consommation effrénée, alimentée par le crédit facile et l’effet de richesse induit par une valorisation constante des actifs [immobilier et portefeuilles d’actions]. D’ores et déjà, les Américains, naguère si dépensiers, ont relevé leur taux d’épargne personnelle de quasiment zéro – niveau aux alentours duquel il tournait depuis des années – à presque 3 % en novembre. Il devrait prochainement atteindre au moins 8 %, du jamais-vu depuis vingt ans, prévoit David Rosenberg, le chef économiste de la banque Merrill Lynch. A l’image des banques, surendettées et sous-capitalisées, poursuit Rosenberg, les ménages assainissent leur situation en dépensant moins, en épargnant plus et en remboursant leurs dettes. Et, comme dans le secteur financier, cela ressemble de moins en moins à des ajustements temporaires et de plus en plus à un changement d’habitudes durable. […]


A en croire Bob McKee, un analyste d’Independent Strategy, un cabinet de conseil en investissement de Londres, cette prudence ralentira la croissance du crédit et les prêts iront aux entreprises qui produisent et investissent, et non plus aux opérations financières hasardeuses. Cela devrait normalement favoriser une décélération et une stabilisation de la croissance économique. […] Les signes de restriction des dépenses sont partout visibles. La consommation est en berne dans tous les pays industrialisés. […] Dans des pays traditionnellement économes comme la Chine et l’Allemagne, les taux d’épargne déjà élevés ont encore progressé. Les Chinois sont plus que jamais près de leurs sous, alors que des millions de travailleurs ayant perdu leur emploi dans les usines du littoral rentrent dans leur village natal. […] A Hong Kong, les restaurants de luxe sont désertés, tandis que les gargotes de rue sont encore plus bondées que d’habitude. Au Royaume-Uni, la chaîne de supermarchés Sainsbury’s annonce un triplement des ventes de produits à petits prix comme la viande à braiser (le morceau le moins cher) en l’espace d’un an. L’enseigne de cordonnerie minute Timpson signale un bond des réparations de montres et de chaussures dans ses magasins. “Nous voyons défiler des clients d’un genre tout à fait nouveau, des personnes qui n’ont jamais pensé faire réparer quoi que ce soit“ constate le président de la société, John Timpson. “Une nouvelle mentalité s’installe : on se débrouille et on raccommode ses affaires” […] Les entreprises ne gagneront plus rien à lever des capitaux et à s’endetter au maximum. En revanche, celles qui ont des fonds propres solides, des actionnaires patients et une trésorerie saine – celles-là mêmes dont on raillait naguère le côté pépère – disposeront d’un avantage certain. […]


Bien sûr, de nombreux économistes vous diront que la consommation va repartir, entraînant l’économie dans son sillage. Mais, pour David Rosenberg, ce rebond sera bien plus modeste que d’habitude. Car, d’une part, la dévalorisation des logements et des comptes épargne-retraite provoquera un “effet de pauvreté” durable et, d’autre part, le flot de crédit facile qui avait dopé la consommation n’est pas près de couler à nouveau. […] La croissance mondiale finira bien par repartir, mais elle ne sera plus tirée par la consommation des pays occidentaux. Elle a des chances de rester en deçà des 5 % pendant de nombreuses années, notamment parce que, partout dans le monde, les dirigeants politiques ne rateront pas l’occasion de reprendre du pouvoir aux marchés. Cela se traduira, à tort ou à raison, par un interventionnisme accru de l’Etat et des politiques de redistribution, avec un alourdissement de la fiscalité et une baisse des profits des entreprises.


Cette nouvelle frugalité fera peur à mesure que ses effets se propageront à l’économie mondiale, mais s’avérera au final bénéfique. […] Les capitaux se feront plus rares, mais ils seront investis de manière plus efficace. Les profits des entreprises représenteront une part moins élevée du revenu national, mais ils seront plus stables. Ce sera un monde plus ennuyeux, à croissance moins forte. Mais ce sera aussi un monde plus tenable, avec moins de déséquilibres, de déficits et de mauvaises surprises économiques. » 

 

Newsweek, mars 2009 

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vendredi, 17 avril 2009

Le M.A.U.S.S.: Qu'est-ce que l'utilitarisme?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Le M.A.U.S.S.: «Qu'est-ce que l'utilitarisme?»

La revue semestrielle du M.A.U.S.S. consacre son n°6 à «Qu'est-ce que l'utilitarisme? Une énigme dans l'histoire des idées». Elle le présente ainsi: «Depuis près de deux siècles, dans les pays de tradition anglo-saxonne, l'utilitarisme a constitué la philosophie morale et juridique de base. A ce titre, il a suscité de nombreux débats. Rien de tel en France où, depuis la grande thèse d'Elie Halévy, La Formation du radicalisme philosophique (1903), l'utilitarisme était oublié et ignoré. Toutefois, depuis quelques années, les philosophes et les chercheurs en sciences sociales relancent le débat sur l'utilitarisme. A en croire Halévy et la quasi-totalité des commentateurs de l'époque, le fondateur de l'utilitarisme est Jeremy Bentham (1748-1832): sa doctrine reposerait sur l'hypothèse que les sujets humains doivent être considérés comme des égoïstes calculateurs et rationnels. Pas du tout, rétorquent nombre d'interprètes contemporains: non seulement J. Bentham ne postule nullement le caractère dominant des motivations égoïstes, mais, en adoptant comme critère du juste et du bien la maximisation du bonheur du plus grand nombre, il plaide au contraire pour l'altruisme. On ne saurait rêver lectures plus radicalement opposées. Ce numéro de la Revue du M.A.U.S.S. semestrielle présente donc les diverses interprétations et suggère deux manières originales, et de surcroît probablement justes, de résoudre l'énigme. Pour la première, loin d'inventer l'utilitarisme, Bentham est celui qui achève une certaine tradition utilitariste vieille de plus de deux mille ans. Pour la seconde, cette tension insoluble entre égoïsme et altruisme est précisément ce qui caractérise l'utilitarisme moderne et post-benthamien amorcé par John Stuart Mill» (PM).

 

Editions La Découverte/La Revue du MAUSS,  9 bis rue Abel-Hovelacque, F-75.013 Paris, 290 p., 160 FF.

mardi, 14 avril 2009

L'ENI guida la missione italiana in Russia

L’Eni guida la missione italiana in Russia

Ex: htpp://www.ladestra.info/
Tratto da Rinascita
Di Andrea Angelini
Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, a margine della missione imprenditoriale italiana in Russia, in corso a Mosca, ha sottolineato che ogni passo che si fa per stringere i rapporti con la Russia finisce per andare a beneficio sia del consumatore italiano che della sicurezza dell’approvvigionamento energetico del nostro Paese. Ieri Scaroni ha firmato l’accordo che prevede il ritorno a Gazprom del 20% della quota azionaria di Gazpromneft (il ramo petrolifero del gruppo russo) attraverso l’esercizio del diritto di opzione. Eni aveva acquistato tale quota nel 2007. Gazprom sborserà la stessa cifra pagata allora da Eni più gli interessi per un totale di 4,2 miliardi di euro. Scaroni ha precisato che in nome della cooperazione strategica in materia di energia, i due gruppi svilupperanno progetti congiunti in Russia e fuori dalla Russia, sulla base del principio di reciprocità. Eni e Gazprom hanno firmato, sotto il patrocinio dei due governi, una serie di accordi di collaborazione in Russia e all’estero anche con le principali società energetiche russe come Inter Rao UES, Rosneft, Transneft e Stroytransgas, sia nel settore del cosiddetto “upstream”, cioè ricerca e produzione di idrocarburi, che della raffinazione. Scaroni ha insistito sul fatto che gli accordi dell’anno scorso con Gazprom, che fra l’altro hanno garantito al nostro Paese la fornitura di gas fino al 2035, si è ora allargato a tutte le altre compagnie energetiche russe. Soprattutto, ha sottolineato, con il colosso russo c’è anche un rapporto tecnologico. Come Eni, “investiamo in Russia e continuamo ad essere il loro partner favorito”.
In ogni caso, ieri sono stati firmati solo gli accordi più commerciali. Per gli altri che rivestono un’importanza più strategica e politica, se ne parlerà fra qualche settimana nel prossimo incontro fra Putin e Berlusconi, trattenuto in Abruzzo dal terremoto.
Tali accordi riguarderanno ad esempio il potenziamento della capacità del gasdotto South Stream, che parte dalla Russia, sotto il Mar Nero, per poi attraversare la Bulgaria, la Grecia per arrivare infine in Italia. Ma interesseranno anche l’ingresso di Gazprom con la quota di comando del 51% in Artikgas, società controllata dalla joint venture Severenergia (partecipata da Eni, 60% ed Enel, 40%). Artikgas gestisce giacimenti di gas naturale che un tempo facevano parte di Yukos, il gruppo già controllato dall’ex magnate Mikhail Khodorkovski, ora in galera sia per evasione fiscale sia per essere un prestanome della Exxon americana. Ultimo punto che dovrà essere visto da Putin e Berlusconi riguarda il giacimento Elephant in Libia situato ad 800 chilometri a sud di Tripoli il cui destino faceva parte degli accordi più generali sottoscritti l’anno scorso tra i due governi e i due gruppi.
Anche Finmeccanicasi muove
Anche la Finmeccanica ha rafforzato la propria presenza in Russia con la firma di tre nuovi accordi. Questi hanno interessato tre diversi settori. Quello della sicurezza con Selex Sistemi Integrati, quello dell’aeronautica con Alenia Aeronautica e quello del segnalamento ferroviario con Ansaldo Sts.
Alenia Aeronautica, in particolare, ha perfezionato l’acquisizione del 25% della Sukhoi Civil Aircraft Corp. (SCAC), la società che si occupa della progettazione e produzione del Sukhoi Superjet 100 (SSJ100), l’aereo ad utilizzo regionale di nuova generazione da 75-110 posti al cui sviluppo la società italiana stava già lavorando. Il nuovo aereo ha ricevuto finora ordini per un totale di 98 esemplari, ed entro la fine del 2009 è stata prevista la consegna del primo velivolo alla Aeroflot, la compagnia di bandiera russa.
Prospettive per le piccole e medie imprese

Emma Marcegaglia presidente di Confindustria, ha parlato delle grandi prospettive che si aprono per l’industria italiana nel suo complesso. Non solo quella grande ma anche la media e piccola. La Russia, ha spiegato, è interessata a sviluppare un tessuto fatto di piccole e medie imprese. Su questo l’Italia può dare “un contributo vero e forte”. Quasi il 90% delle imprese partecipanti alla missione in Russia sono piccole e medie imprese. E allora se i grandi gruppi hanno i loro canali già aperti si deve pure ammettere che hanno aiutato le piccole imprese a entrare nel mercato russo. Certo, ha ammesso, non sono tutte rose e fiori. Le imprese hanno problemi soprattutto nel sistema dei pagamenti.
Da parte sua, il ministro per lo Sviluppo Economico, Claudio Scajola, nel ricordare l’apertura dell’Italia agli investimenti russi, dimostrata dall’ingresso di Gazprom nel settore della distribuzione del gas e di Lukoil nella raffinazione, ha auspicato che si verifichi un ulteriore flusso di investimenti russi nel nostro Paese, sulla scorta di ciò che sta accadendo per il turismo. Del resto il legame strategico esistente tra i due Paesi è evidenziato dalla crescita dell’interscambio, che negli ultimi 10 anni è più che quadruplicato, passando da 6 miliardi di euro del 1999 ai 26 miliardi del 2008.

lundi, 06 avril 2009

Le G20 et l'épouvantail protectionniste

Le G20 et l'épouvantail protectionniste

Ex: http://unitepopulaire.org

 

« La spirale de la crise se déploie progressivement. Partie d'une catégorie d'actifs financiers, elle s'est étendue à la finance en général, pour atteindre de plein fouet l'économie "réelle". Le ralentissement économique fragilise un nombre croissant d'entreprises, ce qui augmente le chômage et affaiblit les bilans bancaires. La spirale est en place. Le G20 se réunit avec l'ambition affichée de la désamorcer. A-t-il la vision nécessaire pour le faire ?

 

La situation n'est pas seulement compliquée, elle est aussi complexe. La longue liste des choses "à faire" figurant dans le communiqué de la réunion du G20 de novembre est significative. Elle démontre que le G20 manque de vision d'ensemble et d'un diagnostic partagé sur les priorités. Elle accable ce même G20, dont les responsables ont laissé s'accumuler, sans réagir, tant de problèmes pendant les trois dernières décennies d'euphorie économique. Depuis 2007, alors que les pertes accumulées de la valeur d'actifs financiers sont estimées à environ 50.000 milliards de dollars, les pays du G20 ont injecté des sommes colossales dans le soutien aux banques et les plans de relance : pas loin de l'équivalent de 10% du PIB mondial, sans résultat probant. Ces sommes ont été injectées dans l'espoir de "faire repartir"  l'économie mondiale sur le sentier qu'elle aurait quitté sans raison valable, en août 2007.

 

Seulement, si la crise n'était pas un incident mais un accident ; si, pour en sortir, il ne fallait pas "réparer" mais "remplacer", c'est-à-dire infléchir de manière profonde le fonctionnement à venir de l'économie mondiale ? […] Si le G20 entend lutter contre les tentations protectionnistes, il ne précise pas le sens qu'il donne à ces termes. Or, le protectionnisme désigne tout choix qui ne se ferait pas exclusivement sur les critères du rapport qualité-prix. Aujourd'hui, d'autres critères surgissent sans être pour autant ni protectionnistes, ni déraisonnables. Quand les acteurs réduisent le périmètre de leurs activités, ils cherchent à retrouver des circuits économiques plus courts, à diminuer le nombre d'intermédiaires, à ancrer leur activité dans des réseaux de solidarité où le visage humain a sa place. Ces changements de micro-attitudes annoncent probablement une certaine déglobalisation, sans pour autant qu'il s'agisse du protectionnisme au sens propre, mais d'un changement de logique économique. Comment préparer une déglobalisation ordonnée, qui ne débouche pas sur la panique protectionniste ? C'est là encore un des défis du G20.

 

Le G20 a opté pour la voie, politiquement plus prudente, d'une longue suite de microréglages. Ce choix rend peu probables pour le moment les grandes options, dont la planète a plus besoin que jamais. Prendre le risque d'un changement de perspective demanderait, de la part du G20, un courage politique dont sont capables les leaders qui ont conscience d'avoir un rendez-vous avec l'Histoire et non pas seulement avec les caméras de CNN. Alors, vers un rendez-vous raté de plus ? »

 

 

Paul Dembinski, directeur de l'Observatoire de la finance (Genève), La Tribune, 2 avril 2009

 

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jeudi, 02 avril 2009

Pékin soutient Moscou dans sa recherche d'une alternative au dollar

Crise: Pékin soutient Moscou dans sa recherche d’alternatives au dollar

fin-du-dollar

Le président de la Banque populaire de Chine Zhou Xiaochuan appuie l’initiative russe visant à créer une monnaie de réserve alternative au dollar américain, est-il indiqué dans un article mis en ligne sur le site internet de la banque.

“Le système financier international doit avoir une monnaie de réserve supranationale qui ne serait pas liée à un pays et resterait stable à long terme”, lit-on dans l’article de M.Xiaochuan.

Le banquier soutient la proposition de Moscou de charger le Fonds monétaire international (FMI) d’étudier la création d’une monnaie de réserve supranationale. Selon la Russie, les droits de tirage spéciaux pourraient jouer ce rôle, ceux-ci constituant actuellement une monnaie de réserve pour certains pays.

Dans le même temps, il a reconnu que la mise en place d’une nouvelle monnaie de réserve était “un projet de longue haleine”, la communauté internationale devant faire preuve de perspicacité et de fermeté pour le mener à bien.

A l’heure actuelle, il convient d’améliorer “la gestion des risques dans le cadre du système financier existant”, a conclu le président de la banque.


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

URL to article: http://fr.altermedia.info/general/crise-pekin-soutient-moscou-dans-sa-recherche-dalternatives-au-dollar_21649.html

Vilfredo Pareto et la circulation des élites

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Université d'été de la F.A.C.E. (juillet 1995):

Résumé des interventions

 

Jeudi 27 juillet 1995

 

Vilfredo PARETO et la circulation des élites

(Intervention d'Enrico Galmozzi, traduite par Alessandra Colla)

 

Cet exposé est aussi une présentation de la revue Origini, éditée conjointement par Alessandra Colla, le Centro Culturale Orion  et Sinergie Europee, qui vient de sortir un gros dossier sur Vilfredo Pareto.

 

Si des institutions scientifiques, comme celles qui gravitent autour de la maison d'édition Droz ou des Cahiers Vilfredo Pareto, à Genève et à Lausanne, ont continué, imperturbables, à éditer Pareto et ses exégètes ou continuateurs, en Italie, un voile est tombé sur son œuvre, jugé trop “à droite”, voire “pré-fasciste”, alors que la sociologie était jugée, à tort, comme un héritage exclusif des gauches. Pareto a donc toujours été plus accusé que lu, plus cité (à partir de sources secondaires) qu'étudié. Après les dé­cès de Raymond Aron et de Julien Freund, qui ont été ses meilleurs disciples, l'étude de l'œuvre paré­tienne est entrée, elle aussi, en dormition; avec la récente étude de Bernard Valade, on peut espérer son retour dans l'université française (cf. Pareto: la naissance d'une autre sociologie, PUF, 1990).

 

Dans le cadre de nos travaux, il est bon de rappeler quelques termes de la sociologie de Pareto:

- L'élite est la classe élue, un petit groupe qui se détermine seul, qui se montre capable d'influencer la masse, qui devient aussi, par le truchement du phénomène de la “circulation des élites” le groupe domi­nant au sein d'une société ou d'un Etat.

- Les résidus, sont des sentiments permanents, irrationnels, qui conditionnent les hommes individuelle­ment et collectivement, et déterminent leurs actions non-logiques. Ce sont les traditions, les héritages, les stratifications dues à la religion, aux droits anciens, aux préjugés.

- Les actions logiques, sont des raisonnements dérivés de l'observation des faits.

- Les actions non-logiques, relèvent, elles, des résidus.

 

Le fondement de l'œuvre de Pareto est une critique de l'idéologie, en somme, une volonté d'arracher les masques que se donne la praxis sociale pour retrouver le fonctionnement réel de la société et l'analyser crûment, sans aucun recours aux dérivatifs idéologico-philosophiques habituels. Dans le sillage de Pareto, le terme “idéologie” a été employé dans un sens polémique: les faits réels sont recouverts par un voile de nature idéologique, qui justifie l'existence d'appareils de pouvoir qui sont souvent efficaces en phase initiale de déploiement, mais qui s'usent avec le temps, pour tomber ensuite dans une caducité problématique, enrayant la bonne marche de la société et barrant la route aux forces innovantes. Pareto veut forger une méthode d'investigation scientifique de ce processus, afin que les forces innovantes puissent disposer d'un instrument critique imparable et jeter bas les forces déclinantes avant qu'elles ne figent une société et ne finissent par la tuer. Pour Pareto, il ne s'agit pas tant de refuser a priori toutes les mystifications idéologiques, car celles-ci se justifient dans la mesure où il y a une véritable demande so­ciale de mystification. Mais il faut que cette mystification serve un fonctionnement optimal de la société. Si elle ne justifie plus qu'un fonctionnement caduc, elle doit disparaître au plus vite. La mystification effi­cace est “mythe” au sens sorélien du terme, et correspond aux besoins réels de la société, fournissant un fondement axiologique pour maintenir harmonieusement un équilibre entre la masse et les élites; la mystification déployée comme écran devant une société en déclin ou un appareil politique figé est mani­pulation.

 

La politique est donc un lieu privilégié de la fiction, une fiction qui assure un équilibre des forces en jeu entre la masse et les élites. Pareto, pessimiste, méprise la démocratie parlementaire qui oblitère les spon­tanéités populaires, y compris quand elle prévoit le plébiscite (qui est une action de violence masquée par la légalité). Ce mépris marque une rupture radicale avec la conception optimiste du contrat social, domi­nante au 19ième siècle, et avec le positivisme d'un Auguste Comte. Ce dernier pensait que l'on pouvait obtenir une connaissance rationnelle de la société, or celle-ci se développe imprévisiblement: elle est un organisme en quête d'un équilibre et, en tant que telle, elle se soustrait à tous les calculs que libéraux, optimistes, positivistes, eudémonistes, progressistes, etc. ont cru benoîtement être des lois immuables dans le fonctionnement des sociétés humaines, en tous temps et en tous lieux.

 

Le pessimisme de Pareto interdit les jugements de valeur simplistes. Quand une élite nouvelle renverse une élite caduque ou moisie, cela ne signifie pas qu'elle est moralement meilleure: plus simplement, elle fonctionne mieux au moment où elle accède au pouvoir. Elle incarne une rupture avec l'ancienne culture dominante et ses traditions. La théorie parétienne de la circulation des élites permet de penser un équi­libre dynamique, une médiation qui, si elle est acceptée comme telle, empêche un bouleversement pa­roxystique et total de la société. Si les gouvernants acceptent la théorie de la circulation des élites et donc la caducité graduelle de tout pouvoir, ils coopteront et accepteront à leurs côtés les représentants des challengeurs, induisant de la sorte une rotation souple des élites. Les élites n'ont donc jamais duré au cours de l'histoire; elles ont pris le pouvoir dans leur phase de jeunesse, elles se sont usées en cours de maturité et elles ont sombré dans leur phase de vieillesse.

 

Pareto est toutefois inquiet en voyant s'installer le pouvoir de l'argent, la ploutocratie. L'économie omni­présente vide toutes les relations sociales de sens, elle détache les hommes de la religion, des traditions, des histoires nationales, toutes instances qui conférent du sens et à l'intérieur desquelles s'opéraient les contestations amenant les changements de pouvoir. La disparition des instances porteuses de sens va figé les processus de circulation et de rotation des élites.

 

(cf. Origini,  n°11, textes consacrés à Pareto et édités sous la direction d'Enrico Galmozzi; disponible à l'adresse belge de “Synergies”, prix: 25 FF ou 150 FB, port compris).

mercredi, 01 avril 2009

El imperialismo internacional del dinero

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El imperialismo internacional del dinero


Alberto Buela (*)


La fabulosa y enorme crisis de la economía usamericana y su inusitada proyección mundial con la conmoción de todos los mercados de valores nos obliga a la siguiente meditación.


Los hechos:

A finales del 2008 la quiebra del banco de los hermanitos Lehmann, uno de los grupos financieros que fundara el Banco de la Reserva Federal de USA en 1913, le costó al tesoro norteamericano 700.000 millones de dólares y otro tanto a los gobiernos europeos en el auxilio de sus bancos también afectados con la explosión de la burbuja financiera.


Algunas sotovoces se dejaron oír en el sentido de averiguar hacia que país fueron derivados parte de semejantes fondos financieros computados como pérdidas, pero nadie lo firmaba. El hecho que llamaba la atención es que de los Estados-nación modernos organizados al estilo occidental y con peso relativo en el orden internacional, el único que no tomó ninguna medida oficial de auxilio a sus bancos fue el Estado de Israel.


El tema siguió en el más absoluto silencio, pero una vez más la fuerza de la realidad se impuso sobre el simulacro o el disimulo. Explotó el lunes 15 de diciembre, primero en los diarios de España (había perdido el Banco Santander 2500 millones de dólares), el fraude por 50.000 mil millones de dólares realizado por Bernard L. Madoff, un judío norteamericano a quien le confiaron sus ahorros organizaciones judías y judíos enriquecidos como Stiven Spielberg, Elie Wiesel, Robert Lappin, Julian Levitt, Fred Wilpon, Norman Braman, Erza Merkin, Carl Shapiro, Frank Lautenberg, Benbassat y &, y Reichmuth y &, entre tantos otros.


Hoy se sabe, en Argentina lo denunció antes que nadie Eduardo Linares comentando en un estupendo artículo titulado Steven Spielberg y “The Madoff’s list” by Tim Roth, que “Tan sólo Lehman Brothers y Berni Madoff, expatriaron, nunca mejor usado el término, 400 mil y 100 mil millones de dólares a bancos del Estado de Israel antes de declararse en bancarrota los primeros y ser apresado por fraude el segundo”, esta es la razón profunda de por qué el Estado de Israel fue el único estado de forma occidental que no se conmovió para nada por la gran crisis financiera newyorkina.


La teoría:


El imperialismo ha sido caracterizado por el marxismo desde que Lenín escribió sobre el tema en 1916 en su folleto El imperialismo la fase superior del capitalismo, donde afirma en el prólogo para franceses y alemanes: “En esta obra hemos probado que la guerra 1914-1918 ha sido, de ambos lados beligerantes, una guerra imperialista (esto es, una guerra de conquista, de bandidaje y de robo), una guerra por el reparto del mundo. Me he apoyado precisamente en estos datos generales irrefutables al describir el reparto del mundo en 1876 y en 1914 (§ VI) y el reparto de los ferrocarriles en todo el globo en 1890 y en 1913 (§ VII)… Este "botín" se reparte entre dos o tres potencias rapaces de poderío mundial, armadas hasta los dientes (Estados Unidos, Inglaterra, Japón) que, por el reparto de su botín, arrastran a su guerra a todo el mundo”. Y termina en el último párrafo afirmando: “La época del capitalismo moderno nos muestra que entre los grupos capitalistas se están estableciendo determinadas relaciones sobre le base del reparto territorial del mundo”.

Y es a partir de Lenín que para el marxismo-leninismo el imperialismo se limita a la dupla Estados Unidos-Inglaterra. No hay en el marxismo, en general, ni una sola palabra acerca del “imperialismo internacional del dinero”. Claro está, ello habría significado poner en contradicción su propia revolución bolchevique que como es sabido fue financiada por el imperialismo internacional del dinero de las bancas judeo usamericanas como la Warburg, Khun, Loeb y Cía, la Jacobo Schiff, etc. Ello lo corrobora el mismísimo León Trotsky, apellidado Bronstein, quien criticó la exagerada y desproporcionada intervención y preponderancia de los hebreos en la revolución y el partido bolchevique.


Origen del concepto:


Quien habla por primera vez del imperialismo internacional del dinero fue el papa Pío XI en su encíclica Quadragesimo Anno en 1939 quien afirma tajantemente: Por lo que atañe a las naciones en sus relaciones mutuas, de una misma fuente manan dos ríos diversos: por un lado, el nacionalismo o imperialismo económico(el mundo liberal); y del otro, el no menos funesto y execrable internacionalismo o imperialismo internacional del dinero(la finanza apartida) para el cual, donde esta el bien, allí su patria (ubi bene, ibi patria est).” 1

Esta clara distinción ubica a la sana doctrina social católica como término medio entre dos extremos opuestos: capitalismo y marxismo; liberalismo y socialismo; nacionalismo e internacionalismo.

En nuestros días se debe a ese buen pensador nacional Santiago Alonso el rescate de este tema tan actual, quien en el anexo de libro de Alan Jones Cómo funciona el mundo presenta su excelente trabajo El imperialismo internacional del dinero. Y así afirma: “Llama la atención que se haya extendido un manto de silencio o del olvido respecto de las enseñanzas sobre el imperialismo internacional del dinero, así como la poca o ninguna apelación que se hace de ella…tantas omisiones, olvidos e ignorancia nos hace sospechar de la existencia de alguna voluntad oculta que obstinadamente ignora o no quiere saber o no desea que se difunda sobre la importancia ni el rol específico que tiene el citado imperialismo en el destino de los pueblos”2.


En el orden político


Este imperialismo internacional del dinero tuvo su mejor caracterización politológica en la idea de sinarquía lanzada y utilizada por el General Perón allá por los años setenta.

El término sinarquía es una palabra griega compuesta por el prefijo “syn” que significa con, lo que da idea de convergencia y “arjé” que significa principio. El sentido etimológico menta la convergencia de profunda de de principios de poder, en apariencia contrapuesto, que gobiernan el mundo3.

Con motivo de la entrevista que le realizara el coronel Cornicielli como enviado del General Lanusse en España a Perón este respondió sobre el tema afirmando: “El problema es liberar al país para seguir libres. Es decir, que nosotros debemos enfrentar a la sinarquía internacional manejada desde las Naciones Unidas, donde están el comunismo, el capitalismo, la masonería, el judaísmo y la Iglesia Católica – que también cuando la pagan entra-. Todas estas fuerzas que tienen miles de colaterales en todo el mundo son las que empiezan a actuar” (diario La Razón, 4/7/72).

En su momento esta idea de sinarquía dio mucha tela para cortar. La izquierda marxista a través de sus múltiples voceros siempre la catalogó como una idea trasnochada de Perón, quien en el atardecer de su vida comenzaba a divagar. El mundo liberal la cuestionó como una versión más de la idea del complot político típica del mundo militar de donde provenía Perón. La Iglesia católica hizo mutis por el foro sabiendo que cualquier cuestionamiento del peronismo la ponía contra la gran masa del pueblo argentino. Y lo más grave que dentro del universo peronista no fue tomada seriamente en cuenta. Se bastardeó su uso y se abusó de un concepto político poco desarrollado. Esto último lo hace notar el historiador norteamericano, especialista en peronismo, Joseph Page quien afirma: “El tema está tratado con humor en la revista Cuestionario. Existe una descripción aparentemente seria de la sinarquía en A. Buela”4.


No podemos olvidar acá que quien trabajó con mayor asiduidad el tema desde el orden intelectual fue nuestro maestro José Luís Torres (1901-1965),el fiscal de la década infame, y en ese sentido tenemos que recordar su extraordinario trabajo Nos acechan desde Bolivia (1952) donde denuncia, según sus palabras, las andanzas y mutaciones de los “cuervos de las finanzas internacionales” y la intervención de la ONU, como organismo clave de dominación mundial, para invalidar las elecciones del 6 de mayo de 1951 que otorgaron en Bolivia el triunfo al Movimiento Nacionalista Revolucionario de Paz Estensoro.

Es interesante notar como en Iberoamérica luego del triunfo de la revolución cubana, el marxismo se apodera del monopolio del antiimperialismo al menos en su aspecto mediático y propagandístico, mientras que el nacionalismo popular se refugia más bien en la batalla por la restauración cultural de nuestros pueblos.

Triunfa así la versión marxista del imperialismo como etapa superior del capitalismo, la del imperialismo como una categoría universal plasmado en una sola nación: los Estados Unidos.

Se abandona, entonces, la idea del nacionalismo hispanoamericano del imperialismo como un “internacionalismo situado”, el imperialismo con pelos y señales, donde, si bien existe una primacía indudable de la banca judía, convergen regímenes comunistas, liberales y dictatoriales.

Esta primacía del marxismo sobre el nacionalismo hispanoamericano, incluso a pesar que éste último se adelantó en el tiempo con las denuncias pormenorizadas que realizaron Torres y tantos otros autores, y a pesar de la firme, decidida y clara definición de Perón del imperialismo como sinarquía. A pesar de todo ello el peronismo o mejor aún los peronistas vergonzantes que hacen de ideólogos, buscan en el movimiento radical de Forja el semental ideológico del peronismo. Olvidando o peor aun desconociendo o tergiversando la verdad indudable que el peronismo como nacionalismo antiimperialista de carácter hispanoamericano tiene su fuente en la profundidad de dicho nacionalismo.

Y así, y esto es significativo a tener en cuenta, mientras el nacionalismo europeo se identifica con la idea de Estado-nación, el nacionalismo popular hispanoamericano tiende a identificarse con la idea de nación-pueblo., identificación que obedece a una doble exigencia histórica: a) a la integración étnica y cultural en la formación de nuestra identidad a través del mestizaje y b) el carácter revolucionario de nuestros propios pueblos expresado en la movilidad social y política que se da en Iberoamérica a diferencia de Europa.5


Algunas conclusiones


Hoy asistimos luego de la debacle financiera internacional a una avalancha inconmensurable de artículos y libros, publicaciones y videos de todo tipo, pelo y señal que nos quieren explicar qué es lo que sucede en el mundo. De esta avalancha se destacan como es natural y habitual los intelectuales de la izquierda progresista como Noam Chomsky, James Petras, Samir Amin, Antonio Negri, Slavoj Zizek et alii quienes se desgañitan denunciado las mil tropelías del imperialismo usamericano pero sin decir no pío acerca de quienes son los gerentes responsables, ciertos y reales, de tamaño desastre financiero internacional. En una palabra, por los prejuicios de su formación marxista denuncian al imperialismo “sobre la base del reparto territorial del mundo” según afirmaba Lenín, pero no al “imperialismo internacional del dinero” que es la causa última de la gigantesca estafa internacional a todos los pueblos de la tierra, salvo a uno.

Es extraordinario ver y leer las mil y una explicaciones que nos brindan estos esforzados teóricos de lo políticamente correcto a quienes se les puede aplicar el viejo verso criollo: Que gente que sabe cosas, la gente de este albardón. Que gente que saber cosas, pero cosas que no son.


Si alguna enseñanza puede dejar semejante descalabro financiero y económico internacional es que la economía es algo demasiado serio para dejarla en manos de economistas y especuladores y que a los dueños del mundo, a aquellos que manejan los piolines detrás de los batidores, les importan un bledo los pueblos y sus padecimientos, salvo uno.


Un obrero metalúrgico como Lula, que no es un genio pero que prefiere antes que nada a su Brasil natal, lo acaba de denunciar en términos simples ante la presencia del premier inglés Brown: “La descomunal crisis actual fue causada por comportamientos irracionales de gente blanca de ojos azules, que antes parecía saber todo y ahora demostró no saber nada. No es responsabilidad de ningún negro, indio o pobre” (diario La Nación 27/3/09).



(*) alberto.buela@gmail.com

1 Pío XI: Encíclica Quadragesimo anno, parágrafo 110

2 Alonso, Santiago: en Como funciona realmente el mundo, de Alan Jones, Buenos Aires, Ed. Segunda Independencia, 2004, pp.330 y 331

3 Cfr. Buela, Alberto: La sinarquía y lo nacional, Buenos Aires, Ed. Marcos, 1983

4 Page, Joseph: Perón( segunda parte), Buenos Aires, Ed. Javier Vergara, 1984, p. 327

5 Quien más en profundidad ha trabajado esta idea en América ha sido uno de los padres de la sociología indiana don Julio Ycaza Tigerino en su libro Perfil político y cultural de Hispanoamérica, Madrid, Ed. Cultura Hispánica, 1971

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samedi, 28 mars 2009

Adam Smith et la montre qui retarde

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Adam Smith et la montre qui retarde

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Le rayon économie des librairies, habituellement désert, regorge actuellement de livres dont les titres se passent de commentaires : L’Arrogance de la Finance, Le Krach Parfait, Pour Sauver la Planète, Ssortez du Capitalisme, Les Dernières Heures du Libéralisme, Capitalisme et Pulsion de Mort, Vers un Nouveau Capitalisme… Voilà bientôt deux ans qu’a débuté une crise dont l’effondrement de la finance apparaît comme un symptôme, et non la cause profonde. Si l’on examine les ressorts du "dérèglement du monde" que décrit Amin Maalouf dans un essai au verbe lumineux et aux sombres perspectives (Le Dérèglement du Monde, publié par Grasset), on débouche vite sur une carence de valeurs. Ce mot même effraie, tant nous en avons perdu l’habitude.

Par où débuter ? Par une date anniversaire, puisque notre époque en mal de repères s’y raccroche volontiers. Prenons 1989, marquée par la chute du mur de Berlin et la naissance officielle d’Internet : le triomphe du capitalisme sur le communisme, et la généralisation de l’outil par excellence de la globalisation. On peut disserter à l’infini sur le sens du mot "capitalisme" : propriété privée des moyens de production, accroissement des richesses par l’épargne, recherche du profit, liberté des échanges… J’aimerais souligner ici une de ses composantes essentielles sans laquelle tout l’édifice s’effondre : la concurrence.

Avant 1989 déjà, mais très clairement à partir de cette date, l’économie de marché a été privée du concurrent communiste ; le socialisme lui-même traînait comme un boulet son lointain ancêtre Marx. Au même moment, l’instantanéité des moyens de communication modernes diffusait la pensée dominante sur toute la planète ; elle a gagné la Chine, l’Inde et d’autres pays. Mais elle s’est aussi fossilisée en idéologie. Elle a imposé son langage, ses codes, ses héros, ses symboles de statut social. L’économie de marché, surmultipliée par la finance échappant à toute règle autre que celle du profit immédiat, semait ainsi "les germes de sa propre destruction", comme le relève Martin Wolf dans le Financial Times. Dans ce processus, nulle pensée n’a été plus trahie que celle d’Adam Smith. Son Richesse des Nations fut cité à tort et à travers pour justifier la supériorité absolue de la "main invisible du marché". Dans ce résumé caricatural, la somme des égoïsmes individuels devenait le meilleur garant du bien commun. Vive l’égoïsme sans frein, donc ! Or, avant La Richesse des Nations en 1776, Adam Smith a écrit sa Théorie des Sentiments Moraux, publié il y a juste 250 ans. On y lit que "l’homme sage et vertueux sera en tout temps incliné à sacrifier son propre intérêt privé à l’intérêt public de sa corporation ou société". Pas vraiment un éloge de l’égoïsme…

Le texte aborde la dualité de l’homme, poussé par ses désirs et besoins personnels, ainsi que par la conscience qu’il ne vit pleinement que dans l’approbation des autres. Il digresse aussi sur l’utilité opposée à la frivolité, prenant cet exemple horloger : "Un amateur de belles montres méprisera un garde-temps retardant de deux minutes par jour, le revendra pour quelques guinées et en dépensera cinquante pour un autre variant à peine d’une minute sur quinze jours. Il n’en reste pas moins que la seule utilité des montres est de nous indiquer l’heure et d’éviter les désagréments d’un rendez-vous manqué. Or la personne si attachée à sa belle mécanique ne sera pas forcément plus ponctuelle que d’autres, plus soucieuses de respecter leurs engagements que de savoir l’heure qu’il est." Comment ne pas voir ici une allégorie de l’effondrement de la finance globale ? Ses acteurs s’étaient offert plein de montres coûteuses – au propre comme au figuré – pour donner aux clients l’impression que tout était sous minutieux contrôle. Mais ils ne se sentaient tenus par aucun engagement au fond d’eux-mêmes.

De quelle crise parlons-nous : celle du capitalisme? de l’absolutisme de l’économie de marché ? de la globalisation ? Les réponses divergent. Lors du colloque Nouveau Monde, Nouveau Capitalisme, Nicolas Sarkozy resserrait la critique sur le "capitalisme financier" qui aurait perverti la logique capitaliste faite "d’effort, de travail, d’esprit d’entreprise". Même le socialiste Michel Rocard limitait d’emblée le champ d’investigation : "Nous voulons conserver le capitalisme." A moitié d’accord, Angela Merkel a souligné que le problème numéro un des pays industrialisés est d’avoir vécu au-dessus de leurs moyens. Elle se rapproche de l’idée d’une société frugale, ménageant le climat et les ressources de la planète. Si cette vision s’impose comme nouveau concurrent du capitalisme globalisé, les bouleversements seront bien plus profonds que la récession actuelle, quels que soient les cris d’orfraie du G20 ou du Groupe d’Evian face à la "montée du protectionnisme".

Une autre analyse traditionnellement française gagne des adeptes anglo-saxons depuis l’élection de Barack Obama. Elle postule que "la crise financière n’est que le symptôme d’une crise latente qui existait depuis les années 1980 – une crise de la répartition des revenus" selon l’économiste Jean-Paul Fitoussi. "La société capitaliste a besoin d’une discussion sur un nouvel équilibre entre des gains excessifs pour quelques-uns et un énorme déficit pour les masses" dit Wouter Bos, ministre travailliste des Finances aux Pays-Bas.

Un des paradoxes est que, si le modèle dont la légitimité s’est effondrée depuis deux ans était américain, c’est encore vers les Etats-Unis que les regards se tournent pour le renouveler par la grâce d’un nouveau président messie. Ce réflexe inquiète. Plus que jamais, le monde a besoin de diversité dans les cultures, de concurrence dans les idées. En sommes-nous capables ? »

Le Temps, 16 mars 2009

mercredi, 25 mars 2009

Operatie Camille Gutt II

Ex: http://www.n-sa.be/ 

Operatie Camille Gutt II

 
IMFDe politieke en financiële gangsters van de machtskaste hebben weer een origineel plan bedacht om het geld van het eigen volk door te kunnen sluizen naar het buitenland. Of beter gezegd, hoe ze geld weg kunnen pikken uit de zakken van de gewone mensen om het daarna in de casino-jackpots (eenarmige dieven) van het wereldkapitalisme te stoppen. De  verantwoordelijke voor deze diefstal is Minister van Financiën Reynders. Hij heeft deze kostelijke grap bedacht. Mijnheer is dan ook een ware marionet  en vertegenwoordiger van een vazalstaat, een vazalstaat van de kapitaallobby die men in de Brusselse salons billenkletsend België noemt. Want inderdaad, deze Belgische rampstaat is eigenlijk geen echte in zijn hoedanigheid, maar een omhulsel, dat gebruikt wordt door machtselites voor eigen gewin en als melkkoe voor globalistische projecten van de op het wereldkapitaal en op de wereldmarkt gerichte financiële dievenbendes. Wat heeft deze mijnheer Reynders ditmaal gepresteerd (naast liegen, bedriegen en banken verkopen)? Op een bijeenkomst van de 20 belangrijkste industrie- en groeilanden, de G20 (waar België niet eens toe behoort) heeft deze parvenu zich als een dronken lor die niet goed bij zinnen is ons volk verplicht om aan het IMF (Internationaal Monetair Fonds) 4 miljard euro over te maken. "We hebben 2% van het totaalbedrag beloofd", zegt Reynders, "zo plaatsen we ons bij de eerste 20 financiers van het IMF". Voor een land dat straks weer meer dan 140% van zijn BNP tekort heeft mag deze daad zonder schroom als het werk van een gek worden gezien. Maar alleen zo kunnen de internationale bankiers aan de roulettetafels van de beurzen blijven hangen en zichzelf met vals spel verrijken.
 
In totaal wil het IMF zo een slordige 500 miljard dollar bijeenscharrelen om zo de carrousel van het lenen en ontlenen verder te doen draaien. Dat deze geldmiddelen uit louter lucht bestaan kan verder niemand een barst schelen, zolang de volkeren die daarvoor moeten opdraaien maar interest op die luchtbellen blijven betalen is alles dik in orde, daar leeft (en feest) het internationaal kapitaal tenslotte van. De beloofde 4 miljard Belgische euro's komen volgens Reynders eigen verklaringen uit de reserves van de nationale bank. Die nationale bank is het bijhuis van de Europese centrale bank, het geldmachientje van de €urocratie en de €urokapitalisten. Daar drukt men in navolging van de Federal Reserve Bank uit de VSA geld met hopen. Het is dan ook niet verwonderlijk dat de €urobank graag de wereldwijde redding van de USD en het accepteren van deze in feite waardeloze munt verder wil ondersteunen. De ECB en de Federal Reserve Bank van de VSA hebben het niet voor niks op een akkoordje gegooid in 2007. Onder de dekmantel van de Term Auction Facilite hebben de €urokapitalisten zich toen verplicht om ervoor te zorgen dat de VSA in de €urozone een constante liquiditeit bezit. Ze kunnen die waardeloze rommeldollars hier dus altijd kwijt. Je kan het vergelijken met wat de Chinezen doen, die nemen ook waardeloze Amerikaanse dollars aan in ruil voor nog waardelozere staatsobligaties.
 
Sinds Bretton Woods is alleen de dollar aan de goudstandaard gekoppeld en is meer dan 3/4 van de wereldvoorraad goud in Amerika. Alleen is er een klein probleem, dat goud is niet het eigendom van Amerika, maar van alle staten die zich bij het IMF hebben aangesloten. Ook het Belgische goud zit daar onder een wapperende Stars & Stripes, het zal nog een leuk spektakel opleveren als onze Vlaams-nationalisten (die anders zo verzot zijn op de VSA) ooit bij een mogelijke zelfstandigheid dat goud terug willen halen. Kunnen ze Beliën erop afsturen, die is nu toch al Amerikaanse ambassadeur bij de Republiek Madou-rodam. "We love Amerika", weet je wel. In ieder geval Sarkozy en Gordon Brown hebben zich al neergelegd bij de dollarhegemonie om nog maar te zwijgen van de dienstdoende Amerikaanse slippendraagster in Duitsland, DDR-Genosse Merkel. Deze drie onderbazen van €uropa (waarvan er een is die niet meedoet met het €uromonopoliegeldspel) hebben aan de Amerikanen voorgesteld om een nieuw Bretton Woods verdrag te sluiten om de huidige crisis te keren. Volgens medewerkers van deze club moet een dergelijk nieuw akkoord leiden tot één enkele wereldbank en uiteindelijk tot een wereldregering. We weten al waar die wereldregering zal gevestigd worden. Ja, juist kameraden, in Obamaland. Daar doen ze dat goed, grote stukken van dat land lijkt al op Kenia, uitgedroogd, dor en geen wegen. Obama moet zich daar als een visje in het riool voelen.
 
De vraag bij dit alles is of wij in ons land gediend zijn met het weggeven van geld waar wij uiteindelijk als gemeenschap de rentelasten van zullen mogen ophoesten. Er wordt verwacht dat het tekort op de begroting dit jaar zal oplopen tot 3,3% van het BBP wat betekent dat er ongeveer 11 miljard euro tekort zal zijn om de boel draaiende te houden, het Belgische circus incluis. De 4 miljard die wij nu aan het door Amerikaans kapitalisme gedomineerde IMF geven, betekent dat we een derde van dat tekort makkelijk hadden kunnen opvangen (het geld ligt volgens Reynders toch maar te beschimmelen in de NBB). Als we al het geld dat we dit jaar weggegeven hebben aan buitenlandse- in plaats van onze eigen sukkelaars bij elkaar tellen, zal dat nog wel enkele miljarden 'transfers' opleveren. Ook het Kriegsspiel van General Oberst Von Crem kost ons het eten uit onze bejaarden hun mond. Niet uit de mond van Von Crem en de rest van de kliek politieke gieren natuurlijk. Neen, die feesten lekker door, ze houden zelfs verkiezingsbals, waar ze zichzelf laten verkiezen. Hiep, hiep, hoera voor de democratie! De monetaire verdwijnkunsten zijn net als al de fratsen van de politieke goochelaars niet eens origineel te noemen.
 
In 1945 hadden we reeds tovenaars die geld konden wegtoveren. Dat gebeurde door inbeslagnamens, blokkering van tegoeden. Kortom, het openlijk wegpikken van andermans spaargeld. Deze gangsterstreek stond op naam van een zekere Camille Gutt en werd naar zijn naam dan ook Operatie Gutt genoemd. Al het geld lekte weg en werd voor 90% waardeloos. Enkel de kloosters werden vrijgesteld van deze maatregelen die zogenaamd tegen het 'zwartgeld' verdiend onder den Duits waren bedoeld. Maar in realiteit moest ons land zijn geldvoorraad saneren en kijken hoeveel ze met deze methode konden stelen van de burgers om zo de gedane kosten van onze bevrijders (den Amerikaan) mee te betalen. De Amerikanen waren dankbaar voor zo veel dienstbaarheid en lieten Camille Gutt benoemen tot eerste voorzitter van het IMF.
 
Een groot deel van onze politieke elite wil maar al te graag de broek afsteken om toch maar in de gunst te staan bij de Amerikanen. Altijd goed voor de carrière. Voor het volk blijft de schuldenopbouw en de last om die af te betalen. De elite vegeteert, het volk wordt economisch en sociaal gesaneerd. Er is maar één manier om die gangsters te stoppen.
 
SOLIDARISEREN !

Eddy Hermy
Hoofdcoördinator N-SA

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mardi, 17 mars 2009

Benjamin Barber : La crise: une opportunité pour le changement?

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La crise : une opportunité pour le changement ?

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Le marché pourrait-il enfin servir nos intérêts ? Ou continuerons-nous d’être à son service ? Quel type de capitalisme voulons-nous, avec quel rapport à la culture, à la démocratie et à la vie ? L’équipe économique “très Rubin” (Robert Rubin était ministre des Finances de l’administration Clinton) d’Obama semble avoir été choisie pour rassurer plutôt qu’innover, et ses membres pour réparer les dégâts qu’ils ont eux-mêmes provoqués. Même s’ils y parviennent, feront-ils beaucoup plus que restaurer le statu quo ante du capitalisme, en répétant les erreurs qui ont provoqué la débâcle actuelle ?

Même les esprits progressistes qui émettent des critiques – qu’on ne trouve pas dans l’équipe d’Obama – continuent de penser selon le prisme de l’économie. Oui, les banquiers et les hommes politiques s’accordent à dire qu’il faudrait plus de surveillance réglementaire, une plus grande prise de participation de l’Etat dans le capital des banques qu’il renfloue et une réouverture du robinet du crédit, fermé pour le moment. Un important plan de relance, accordant une place appréciable à l’environnement, aux énergies alternatives, aux infrastructures et à la création d’emplois, est dans les tuyaux – et c’est une bonne chose. Mais il est difficile d’y voir le début d’une véritable réflexion sur le rôle dominant du marché dans notre société. Personne ne remet en question le rôle dévolu à la consommation comme force motrice du commerce. Ou celui des échanges commerciaux comme fondement de la vie publique et privée, au point de les placer au-dessus d’autres valeurs telles que le pluralisme, la vie spirituelle et la poursuite du bonheur (immatériel). Les économistes et les hommes politiques de toutes allégeances persistent à dire que le défi consiste à ranimer une demande moribonde. […]

 

La crise du capitalisme mondial appelle une révolution des mentalités – des changements fondamentaux dans les attitudes et les comportements. Les réformes ne doivent pas simplement pousser les parents et les enfants à fréquenter à nouveau les centres commerciaux ; elles doivent surtout les inciter à moins acheter, à épargner plutôt qu’à dépenser. Il faut encourager des transports publics efficaces et la disparition des véhicules gourmands en carburant. Et pourquoi ne pas mettre en œuvre des politiques qui amènent les producteurs à cibler les véritables besoins des consommateurs, même si ces derniers ont peu de moyens, plutôt que de créer de faux besoins pour les riches parce que ce sont eux qui ont l’argent ?

 

Il faut repenser l’ethos culturel en prenant la culture au sérieux. Les arts jouent un rôle majeur dans le développement des aspects non commerciaux de la société. Il est temps que des subventions encouragent une véritable éducation artistique destinée à enseigner aux jeunes les joies et le pouvoir de l’imagination, de la créativité et de la culture pour qu’ils deviennent acteurs et spectateurs, et non plus consommateurs. L’activité physique et les loisirs sont également des biens publics qui ne doivent pas dépendre de l’argent qu’un individu est capable de débourser. Ils appellent la construction de parcs et de pistes cyclables plutôt que celle de complexes multisalles et de centres commerciaux.

 

Et pourquoi les nouvelles technologies de la communication sont-elles utilisées presque uniquement à des fins commerciales ? Leur architecture est démocratique, et leur capacité à créer des réseaux est profondément sociale. Pourtant, elles ont été en grande partie réservées à des usages privés et commerciaux plutôt qu’à des fins pédagogiques ou culturelles. Leurs possibilités démocratiques et artistiques doivent être explorées, et même subventionnées. Une telle transformation sera sans aucun doute très coûteuse, car elle risque de prolonger la récession. Les capitalistes devront peut-être assumer des risques qu’ils préfèrent socialiser (en faisant payer les contribuables). On leur demandera de créer de nouveaux marchés plutôt que de profiter des anciens. D’investir et d’innover, afin de créer des emplois et de participer à l’émergence d’un nouveau type de consommation, répondant enfin aux véritables besoins de la population.

 

La bonne nouvelle, c’est que les gens commencent déjà à dépenser moins, à attendre de recevoir leur salaire avant d’acheter et à se sentir soulagés par ce moratoire sur le shopping. Ils préfèrent subitement les cartes de débit aux cartes de crédit. Certains parents se rebellent contre les publicitaires, qui traitent leurs enfants de 4 ans comme de futurs consommateurs. Plutôt que de chercher à sortir à reculons de cette pagaille, pourquoi ne pas essayer de trouver une solution en allant de l’avant ? Trop idéaliste ? Si nous devons survivre à l’effondrement du capitalisme de consommation qui a pris possession du corps politique au cours des trente dernières années, l’idéalisme doit devenir notre nouveau réalisme. Car si le combat se déroule entre le corps matériel, défini par l’instinct de possession individualiste, et l’esprit humain, défini par l’imagination et la compassion, une réponse économique purement technique ne sera pas suffisante. Elle restaurera simplement l’enfer de la société de l’hyperconsommation qui a conduit au désastre actuel.

 

Il y a dans l’Histoire des moments épiques, souvent provoqués par des catastrophes, qui permettent des changements culturels fondamentaux. Nous sommes à l’un de ces tournants. Grâce à l’effondrement du crédit mondial, des changements radicaux deviennent possibles. »

 

 

Benjamin Barber, professeur de sciences politiques à l’Université du Maryland, The Nation, février 2009

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lundi, 16 mars 2009

Crisis economica, cohesion social y proyecto europeo

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Crisis económica, cohesión social y proyecto europeo

El actual proceso de degradación social representa una verdadera terapia de choque para la población trabajadora europea, con el agravante de que la crisis, en todos los escenarios diseñados por las agencias especializadas, se agravará en los próximos meses, ante la inoperancia de las políticas económicas aplicadas hasta el momento. Sin embargo, no todo se explica - ni por supuesto se ha desencadenado- por la crisis que está sacudiendo nuestras economías. Antes bien, las piezas básicas de una parcial pero significativa regresión en el modelo social ya eran claramente visibles en la Unión Europea (UE) de las últimas décadas; mucho antes, en consecuencia, de la eclosión de la actual crisis.

Veamos algunos ejemplos significativos al respecto. Desde la década de los 80 los salarios reales de la población han progresado a un ritmo moderado. La tónica general de los últimos años ha consistido en aumentos inferiores al 1%; lo que significa que, como todos los indicadores promedio ignoran las posiciones extremas, una parte de los trabajadores ha perdido capacidad adquisitiva. El vínculo salarios-productividad del trabajo que caracterizó las décadas doradas del capitalismo europeo en virtud del cual el crecimiento de ambas variables estaba relacionado, forma parte de la historia. Los salarios han tendido a “descolgarse” de la productividad; deconexión que, por cierto, ha sido un factor esencial en el crecimiento de los beneficios de las empresas, convirtiéndose de este modo en uno de los motores que ha alimentado de recursos al sector financiero.

El relativamente alto desempleo y sobre todo, el trabajo precario forman parte asimismo del paisaje europeo. Las diferentes modalidades de contratación “atípica” - contratos temporales, trabajo a tiempo parcial, contratos por obra y servicio- parece que han llegado para quedarse, al margen de cuál sea el ciclo económico; al margen, incluso, del signo político del gobierno de turno. La Confederación Europea de Sindicatos estima que en 2007 más de 100 millones de trabajadores tenían empleos de esta naturaleza. Esta situación no sólo se ha generalizado en el sector privado sino que también preside cada vez más las pautas de contratación de las administraciones públicas. Todo ello matiza la trillada afirmación de que la creación de empleo es el camino a través del que los trabajadores comparten los frutos del crecimiento. ¿Nada que decir sobre la calidad y la estabilidad de los puestos de trabajo? Y tan importante como ésto es la pérdida del trabajo como referencia para la construcción de ciudadanía. El vínculo que Europa alimentó entre trabajo-inserción social y condición ciudadana se ha quebrado hace ya algunos años, contribuyendo poderosamente al deterioro de nuestros sistemas democráticos y al incremento de la desconfianza respecto a la política.

El discreto balance en materia ocupacional, la continúa presión que las empresas y los gobiernos realizan sobre las rentas salariales, la débil posición negociadora de las organizaciones sindicales y la aceptación por parte de algunas izquierdas de lo esencial de los postulados neoliberales han contribuido a que la parte de los salarios en la renta nacional haya retrocedido desde la década de los setenta en la mayor parte de los países integrados en la UE, incluidos aquellos que mejor simbolizaban el modelo de cohesión social que, al menos en teoría, impregnaba el proyecto europeo. Si se tiene en cuenta que en el cómputo de los ingresos salariales se incluyen las remuneraciones de los directivos y de otros colectivos que disfrutan de posiciones privilegiadas, queda aún más claro el deterioro de las condiciones de vida de los trabajadores de menor cualificación.

Aunque todavía lejos de los valores alcanzados por Estados Unidos –el país desarrollado con una fractura social más profunda-, los últimos años han conocido un incremento espectacular de la desigualdad medida en términos de distribución de la renta, abanicos salariales y concentración de la riqueza. Un dato aportado por el último informe de la Organización Internacional del Trabajo “World of Work”: si se comparan las retribuciones obtenidas por los directivos de mayor nivel de las grandes empresas –salarios pactados más stock options y diferentes bonus- y los salarios medios; aquéllos percibían más de 100 veces el ingreso de éstos. Ni rastro en este tipo de ingresos –que no han dejado de aumentar de manera vertiginosa en los últimos años- de las políticas de moderación salarial tan queridas por los gobiernos para el resto de los trabajadores.

El número de personas privadas de los recursos necesarios para llevar una vida digna ha experimentado un inquietante crecimiento. En 2005 Eurostat contabilizaba 78 millones de personas en situación de pobreza, lo que representa el 16% de su población. Si bien es cierto que los desempleados y ciertas minorías son los colectivos más vulnerables, ha emergido con fuerza la categoría de “trabajadores pobres”. Esto es, personas que aún teniendo un empleo se encuentran cerca o por debajo del umbral de la pobreza, lo cual de nuevo invita a reflexionar sobre la mala calidad de una parte sustancial de las nuevas ocupaciones.

Son muy diversos los factores en liza que podrían dar cuenta de esta deriva social. No es el menos relevante de ellos la financiarización de las economías europeas. En primer término, desviando cantidades ingentes de recursos desde la economía productiva y social hacia “el casino”, donde, si los actores implicados estaban dispuestos a asumir el riesgo exigido por los mercados, se podían obtener beneficios extraordinarios. Ello no sólo ha significado desviar cantidades ingentes de recursos hacia el segmento financiero de la economía; en paralelo, como quiera que una parte del ahorro de la población se ha canalizado en esa dirección a través de las instituciones que lo gestionan, quedaba expuesto, además, a los vaivenes propios de mercados con un perfil marcadamente especulativo.

En segundo lugar, premiando (estimulando) a los ejecutivos y a los accionistas, no sólo de los establecimientos estrictamente financieros, de modo que sus decisiones se encaminen a aumentar el valor de la empresa en términos accionariales. Conseguir un alto valor en bolsa de la firma se ha convertido en el objetivo central de los gestores, en cuyo caso los accionistas y los directivos recibían cuantiosas remuneraciones, en forma de dividendos y stock options, entre otras.

En tercer lugar, abriendo nuevos espacios a la intervención de los mercados. Si antes el principio de cohesión social exigía el inexcusable compromiso de lo público, ahora, cada vez más, prevalece el criterio de que los equilibrios sociales los debe proporcionar el mercado, crecientemente sometido a la lógica financiera. Naturalmente, dado que “el campo de juego” en el que se desenvuelven las personas y los colectivos, lejos de ser plano, está muy desnivelado, los costes y las oportunidades que ofrece ese mercado se distribuyen de manera muy desigual.

En cuarto lugar, hemos conocido la expansión de un segmento del mercado considerablemente opaco, que permanece fuera del control de los estados nacionales y, por supuesto, de las autoridades comunitarias. En esos mercados operan lobbies con recursos y poder suficientes para condicionar e hipotecar las políticas económicas nacionales. Las “manos visibles” del mercado, los ganadores del casino, apuestan por un capitalismo con instituciones débiles, que contribuyan a consolidar el “campo de juego” que más conviene a sus negocios. Nada más alejado de los postulados de cohesión social y de control democrático que en teoría encarna el proyecto europeo.

Así pues, la “anomalía” financiera no constituye un fenómeno ajeno, externo, al proyecto comunitario, importado de Estados Unidos, sino que está presente en la dinámica europea. Por esa razón, el análisis de las perturbaciones financieras entra en el corazón del debate, mucho más amplio, de la Europa que queremos y de las estrategias de desarrollo sostenibles que deben alimentar este proyecto. Dicho debate por supuesto no se cierra –mejor dicho, se cierra, equivocada o interesadamente, en falso- con el “hallazgo” de que la intervención del Estado es tan urgente como necesaria. En otras palabras, ni el proyecto europeo, ni su vertiente social, quedan legitimados ni tampoco reforzados por el hecho de asistir a una masiva intervención de los Estados nacionales destinada a evitar el colapso económico. Más bien al contrario, la mínima coordinación de los planes de rescate, la privilegiada posición de buena parte de los grupos receptores de los recursos públicos, el escaso control que se ejerce sobre su utilización y su coste social arrojan serias dudas sobre la verdadera naturaleza de la revitalizada presencia de los Estados nacionales. En este contexto, no es suficiente con apelar, antes y ahora, a Más Europa, apelación que tiene todo su significado si se entra a la cuestión verdaderamente esencial: Qué Europa. La respuesta a este sencillo y atrevido interrogante nos apremia hoy aún más que ayer.

Pedro Chaves es Profesor de Ciencia Política, Universidad Carlos III de Madrid.

Fernando Luengo es Coordinador del Grupo de Investigación “Europa y Nuevo Entorno Internacional”, Instituto Complutense de Estudios Internacionales, Universidad Complutense de Madrid.

http://www.sinpermiso.info/textos/index.php?id=2407

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Neue Bücher über Werner Sombart

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Werner Sombart

Jürgen Backhaus (Hg.)

Werner Sombart (1863-1941) - Klassiker der Sozialwissenschaften

271 Seiten · 26,80 EUR
ISBN 3-89518-275-3 (Juli 2000)

 
 

Beschreibung

Ein halbes Jahrhundert nach seinem Tod erwacht ein neues und reges Interesse am wissenschaftlichen Werk des Nationalökonomen und Soziologen, ganz allgemein aber umfassend und integrierend arbeitenden Sozialwissenschaftlers Werner Sombart (1863-1943). Sogar ein regelrechter Historikerstreit hat sich kürzlich an seiner Person entzündet. Dieser Band wendet sich ausdrücklich an das deutsche Publikum, weil Sombarts Werk vor allem im deutschen Sprachraum immer wieder aufgelegt wird - daneben ist sein Werk auch in Japan in aktuellen Ausgaben präsent. Sombart ist nicht nur Volks- und Sozialwirt, sondern auch Stillist, und sein Werk hat insofern nicht nur literarische Qualität, sondern entfaltet seine Bedeutung auch insbesondere in modernen Entwicklungen in den Wirtschafts- und Sozialwissenschaften, insbesondere seit dem Zusammenbruch der staatssozialistischen Systeme und nachdem die Suche nach neuen Formen der Wirtschaftsgestaltung Sombarts Fragen wieder hat aktuell werden lassen.

Inhalt

Jürgen Backhaus
Vorwort
Helge Peukert
Werner Sombart
Wolfgang Drechsler
Zu Werner Sombarts Theorie der Soziologie und zur Betrachtung seiner Biographie
Manfred Prisching
Unternehmer und kapitalistischer Geist. Sombart psychohistorische Studie
Oskar Kurer
Die Rolle des Staates für die wirtschaftliche Entwicklung
Friedrich Lenger
Marx, das Handwerk und die erste Auflage des Modernen Kapitalismus
Karl-Heinz Schmidt
Sombarts Bevölkerungstheorie
Horst K. Betz
Sombarts Theorie der Stadt
Fritz Reheis
Zurück zum Gottesgnadentum. Werner Sombarts Kompromiß mit dem Nationalsozialismus
Shigenari Kanamori
Die Ähnlichkeiten der Ansichten von Werner Sombart und Ekiken Kaibara auf dem Gebiet der Gesundheitswirtschaft

Michael Appel

Werner Sombart

Historiker und Theoretiker des modernen Kapitalismus

339 Seiten · 24,80 EUR
ISBN 3-926570-49-0 (August 1992)

Beschreibung

Sein Werk werde Generationen überdauern, so prophezeiten die Zeitgenossen die Wirkung des großen deutschen Wirtschaftshistorikers Werner Sombart. Tatsächlich beschäftigen sich noch heute Historiker und Wirtschaftswissenschaftler mit Sombarts epocheübergreifendem Werk zur Geschichte des modernen Kapitalismus. Liebe, Luxus, Krieg, Religionen, Bevölkerungsexplosion und Unternehmenseliten - sie alle haben Platz in Sombarts umfassender Enzyklopädie von den Entstehungsursachen des Kapitalismus seit dem Mittelalter.

Die Deutungen von Werner Sombart sind aktuell und heute noch eine Quelle der Inspiration. Zu Lebzeiten war er der bekannteste und meistgelesenste Wirtschafts- und Sozialwissenschaftler und noch heute erleben viele seiner Werke Neuausgaben in hoher Auflage. Dennoch gab es bislang keine werkgeschichtliche Interpretation von Sombarts sechsbändigem Hauptwerk Der moderne Kapitalismus. Erst die Arbeit von Michael Appel bietet die Geschichte der Auseinandersetzungen und wissenschaftlichen Durchbrüche, die mit der Diskussion um Sombarts Deutung des Kapitalismus einhergingen.

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

(Günther Chaloupek in Wirtschaft und Gesellschaft, Heft 2, 1994)

dem Verlag bekannte Rezensionen (Auszüge)

Soziologische Revue, 1995, S. 573-574 (Markus C. Pohlmann)  [ nach oben ]

"Es ist ein gelungenes Stück Arbeit, mit dem uns der Autor zu einer Rückbesinnung auf grundlegende Diskussionen bei der Herausbildung der Soziologie, insbesondere der Wirtschaftssoziologie, einlädt. Er entführt uns nochmals in die für die Soziologie so wichtigen ersten Jahrzehnte nach der Jahrhundertwende, stetig einen Denker umkreisend, den diese nur schwer in den Kanon der Fachausbildung integriert hat. Werner Sombart hat eine der prominentesten Fragestellungen der Soziologie zusammen mit Karl Marx und Max Weber aus der Taufe gehoben. Eine Fragestellung, die auch heute noch von höchster Aktualität und Brisanz ist: Wie und warum welche Paradigmen des Wirtschaftens in bestimmten Gesellschaftsformationen entstehen und wie, mit welchen Geschwindigkeiten und Modifikationen sie sich in welchen Wirtschaftsräumen verbreiten und helfen, die 'mächtigen Kosmen' der Wirtschaftsordnungen zu erbauen, die den Lebensstil aller Einzelnen mit 'überwältigendem Zwange' bestimmen (Weber). Auch wenn das Webersche Pathos an dieser Stelle berühmt ist: Werner Sombart begründete diese Fragestellung in entscheidender Weise und vergessen ist häufig, wie stark Weber von Sombart beeinflußt wurde. Sombart etablierte den Begriff des 'Kapitalismus' und half mit, die genuine Leistung der Soziologie gegenüber den Geschichts- und Staatswissenschaften sichtbar zu machen. Dies herausgearbeitet und die weit verzweigten Diskussionen um Sombarts zentrale Werke, insbesondere der ersten und zweiten Fassung von 'Der moderne Kapitalismus' ausführlich dargestellt zu haben, ist das große Verdienst des Buches von Michael Appel. Appel fängt diese Diskussionen bis in die 40er Jahre hinein in hervorragender Weise ein und gibt einen schmalen Ausblick auf die Diskussionen nach dem zweiten Weltkrieg.

Nach dem sehr kurz gehaltenen Versuch einer 'intellektuellen Biographie' widmet sich Appel unter unterschiedlichen thematischen Schwerpunkten der Entstehungs- aber vor allem der Wirkungsgeschichte von Sombarts Werk. ...Er arbeitet den in Abgrenzung von Marx wichtigen Sombartschen Bezugspunkt auf die Motive der wirtschaftlich handelnden Menschen als Entscheidungszentren heraus (31), aber auch seine Anlehnung an Marx in der historischen Beurteilung des Verwertungsstrebens des Kapitals als 'letzte Ursache' der wirtschaftlichen Entwicklung (34). Er stellt Sombarts Geworfenheit in die Zeit dar, deren unterschiedlichen Strömungen der historischen Schule, des Marxismus, des Sozialismus, des Kulturpessimismus seine Positionen durch Einbezug und Abgrenzung mitbestimmten. Er zeigt seine Begegnungen und Auseinandersetzungen, seine Rezeption und seine Wirkungen bei so bekannten 'Zeitgeistern' wie Georg von Below, Lujo Brentano, Karl Bücher, Alphons Dopsch, Otto Hintze, John Maynard Keynes, Karl Korsch, Rosa Luxemburg, Friedrich Naumann, Max Scheler, Gustav Schmoller, Joseph Alois Schumpeter, Ferdinand Tönnies, Thorstein Veblen, Max Weber - um nur einige zu nennen - auf. Hier läßt Appels Buch nur noch wenig zu wünschen übrig. Spannend und neue Perspektiven aufzeigend ist vor allem das Kapitel über den Sonderweg der Kapitalismustheorie nach 1919 (217ff.), in dem gezeigt wird, wie sich Sombarts Position einer 'antimodernen, idealistischen Grundeinstellung' herausbildet und Anklang findet, wie dem 'Spätkapitalismus' sein letztes Glöcklein geläutet wird (228ff.), Sombarts Perspektive der 'autarkistischen Planwirtschaft' aufscheint und seine 'nationale, antiliberale Gesinnung' von den Nationalsozialisten dann doch nicht vorbehaltlos goutiert wird.

In diesem und in anderen Kapiteln demonstriert Appel seine Stärken und Schwächen zugleich: Er schreibt in fruchtbarer und spannender Weise Literaturgeschichte, aber weniger Soziologiegeschichte und noch weniger betreibt er Soziologie." ...



Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 4/1993, S. 539-540 (Karl Heinrich Kaufhold)  [ nach oben ]

"Wemer Sombart, lange Zeit wenig beachtet und von der Forschung allenfalls selektiv wahrgenommen, erfreut sich seit einigen Jahren wieder zunehmender Aufmerksamkeit. Doch fehlte der Diskussion bisher eine Grundlage in Form eines Überblicks über sein ausgedehntes Werk, dessen Rezeption und über die wissenschafts- wie zeithistorischen Zusammenhänge, in denen es sich bewegte und diskutiert wurde. Das Buch von Michael Appel schließt diese Lücke in einer knappen, doch eindrucksvollen und überzeugenden Form.

A. stellt in den Mittelpunkt seiner 'intellektuellen Biographie' mit Recht Sombarts Hauptwerk 'Der modeme Kapitalismus' in den beiden Fassungen von 1902 und 1916/27; er übersieht aber darüber die frühen Arbeiten der 1890er Jahre sowie die späten Studien nicht. Die beiden Hauptprobleme einer Beschäftigung mit Sombart, nämlich den Wandel seiner Grundposition von einem revisionistischen Marxismus hin zu einer antikapitalistischen 'Metaphysik des Seins" und die überaus widersprüchliche Rezeption seiner Arbeiten durch Nationalökonomen, Soziologen und Historiker, treten dabei deutlich hervor und werden in ihren verschiedenen Aspekten diskutiert. A. macht deutlich, wie konsequent Sombarts geistige Entwicklung in Auseinandersetzung mit jeweils bestimmenden Strömungen seiner Zeit verlaufen ist, doch auch, daß er ungeachtet solcher Wandlungen in bestimmten Grundauffassungen sich treu blieb.

Ein knappes Resümee zu ziehen, verbietet sich von Sombarts Werk, doch auch von der diesem gerecht werdenden Weise her, in der es hier geschildert wird: Jede Vereinfachung vergröbert, ja verfälscht. Hervorzuheben sind aber die im ganzen treffende Würdigung der jüngeren historischen Schule und die feinfühlige Art, mit der Sombart in diese eingeordnet wird (hinsichtlich Schmoller finden sich allerdings einige kleinere Mißverständnisse). Das Buch kann jedem empfohlen werden, der sich über das Werk Sombarts und dessen Wirkungen bis an die Schwelle der Gegenwart in Zuspruch und Widerspruch zum wechselnden 'Zeitgeist' informieren will."



Wirtschaft und Gesellschaft, 2/1994, S. 314-319 (Günther Chaloupek)  [ nach oben ]

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

dimanche, 15 mars 2009

L'économique: réflexions du Prof. Julien Freund

L'économique: réflexions du Professeur Julien Freund

 

Le terme “économie” désigna, pendant des temps immémoriaux, «tout ensemble d'éléments organisé en vue d'un résultat harmonieux» (1), accompagné de l'idée que cette économie atteint sa perfection par... l'économie des moyens. D'où l'ambigüité soulignée par l'historien Jean-Claude Perrot, entre l'administrateur et le “grippe-sous”. Lorsque Montchrétien emploie le titre “Traité de l'économie politique” en 1615, il accole pour la première fois des termes traditionnellement isolés. Le vocabulaire reste cependant limité jusqu'au XVIIIième siècle où commencent les grands débats sur le luxe, la population, le commerce, l'impôt, l'équilibre de la balance.

 

Montchrétien trace un domaine qui définit l'économie “en extansion”. Partant de la production domestique et de la division du travail, l'économie politique traite du commerce et des échanges internationaux, des biens et services et de la monnaie, propose des règles de politique économique. Depuis, on aborde l'économie à partir des divers actes ou opérations qui constituent l'objet de sa recherche. L'activité économique d'une société se définit par l'ensemble des opérations par lesquelles ses membres produisent, répartissent, consomment des biens et des services.

 

L'approche “en extension” soulève trois remarques:

- On emploie le terme “extension” pour souligner que l'économie est présentée à partir d'un domaine d'activités particulières: actes de production, répartition, consommation, énumérés dans un ordre correspondant à une certaine logique.

- Les activités économiques sont liées aux autres activités sociales. Toute activité sociale implique l'échange et l'usage de biens et de services. En ce sens, chacune relève, pour partie, de l'analyse économique.

- La définition oriente vers une réflexion sur les seules activités. Elle demeure insuffisante.

 

Une définition alternative, “en compréhension”, présente l'histoire de l'activité économique comme celle d'une lutte contre les conditions naturelles et la rareté des biens et services. L'objet de l'économie politique est d'expliquer la manière dont les hommes organisent leurs efforts en vue de satsifaire leurs besoins individuels et collectifs. Selon cette définition, trois notions sont à prendre en considération: l'effort et le travail organisé; les besoins; la lutte contre la rareté. On se heurte ici à deux limites:

- L'obligation de rejeter dans les ténèbres la macroéconomie keynésienne et l'œuvre de Marx. La première traite de l'emploi du facteur travail en situation d'excédent: les chômeurs. La seconde, “critique de l'économie politique”, accuse celle-ci d'être l'idéologie d'un système socio-économique. Thème que Necker avait déjà abordé dans son traité Sur la législation et le commerce des grains où il notait: «Il n'est que trop fréquent de voir confondre l'intérêt des propriétaires avec celui de l'agriculture... l'intérêt des négociants avec celui du commerce... autant d'objets qu'il est nécessaire de distinguer... Les propriétaires, de très bonne foi, célèbrent au nom du bien public toutes les lois qui ne sont faites que pour eux... Il est des libertés derrière lesquelles est placé l'esclavage de la multitude (2)».

 

- La légitimité sociale de certains désirs et de préférences particulières est posée explicitement par la notion de besoin. Un vêtement est simultanément une protection contre les intempéries, un élément de pudeur (ou d'impudeur), un signe de statut social, un outil d'ostentation, un matériau d'esthétique, etc. Un code culturel en précise l'usage, en sorte que les besoins sont imbriqués à une perception plus vaste de la place d'une personne dans la société.

 

Le domaine économique est donc difficile à définir. De grands auteurs, tels Schumpeter dans son Histoire de l'analyse économique, préfèrent, admettre d'emblée l'existence de phénomènes économiques, sans les circonscrire. La comparaison des sociétés dans le temps et dans l'espace sera toujours difficile, car s'il existe obligatoirement un aspect économique dans chaque société, il ne commence ni ne finit au même niveau.

 

Les obstacles rencontrés dans la recherche d'une définition suggèrent d'aborder la question sous un autre angle: une conceptualisation aussi rigoureuse que possible. Par là, nous entendons qu'il faut dégager le concept d'économie de tout emploi où il pourrait subsumer des éléments contradictoires. Une présentation sémantique très claire est proposée par Julien Freund dans le cadre de la théorie des essences et des dialectiques qui s'efforce de caractériser les activités humaines sur la base de leurs implications intrinsèques.

 

L'ESSENCE DE L'ÉCONOMIQUE (3)

 

Existe-t-il des critères permettant de repérer l'économique dans n'importe quelle société, indépendamment de son immersion dans les diverses activités pratiques liées à une époque ou à un espace? Les conditions préalables de l'activité économique, ou présupposés, sont ce qui lui est essentiel et qui permettent de la repérer dans la complexité des péhnomènes sociaux. Au-delà, l'essence d'une activité désigne «une réalité qui dure à travers le temps et qui ne disparaît pas sous l'action de circonstances» (4). Ce qui ne disparaît pas avec le temps ou les circonstances et contribue à faire l'histoire des hommes doit être ancré dans la nature humaine. On est fondé alors de parler d'une donnée, quelque chose d'inhérent à l'homme en tant que tel et qui ne peut se transformer en autre chose. La pratique d'une activité économique répond enfin à un but, une finalité spécifique irréductible aux autres dimensions de la nature humaine et de la trame sociale. La finalité spécifique de l'économie s'accompagne de moyens particuliers auxquels on ne peut éviter de faire appel pour la réaliser.

 

Au total, pour caractériser l'essence de l'économique, il faut en extraire trois dimensions: la donnée, les présupposés, la finalité. La donnée définit le fondement de l'activité, ses tenants. La finalité précise l'aboutissement, le but que se fixent les hommes lorsqu'ils s'adonnent à la pratique de l'économie. Les présupposés caractérisent les conditions d'exercice de l'activité économique. Le trilogie: donnée, présupposés, finalité, définit la logique interne de l'économique par rapport à l'homme.

 

1. La Donnée

 

La donnée de l'économie, son fondement, réside dans le besoin, même si la notion n'est pas explicitée par la plupart des auteurs qui se gardent bien de rien dire sur la nature du besoin et se cantonnent à une représentation purement formaliste, quoique deux courants aient consacré des développements substantiels à la notion: l'école marginaliste, dans la seconde moitié du XIXième siècle; Marx et les marxistes.

 

Un phénomène tel que le besoin ne se comprend pas à travers la question indécidable de savoir si les hommes agissent par intérêt, mais en observant la diversité et la permanence d'une notion qui se compose de deux dimensions: psychophysiologique; philosophique (5).

 

- Au plan psychophysiologique, le besoin exprime un manque accompagné d'une tendance à y faire face. On rencontre une tension entre l'intérieur de l'homme et son environnement qui se traduit par diverses manifestations et par exemple la lassitude. Dès le niveau psychosociologique émerge l'ambivalence du besoin. Le manque est indissociable de son contraire: la satiété. Les deux pôles, inséparables, entraînent les mêmes effets: violence, fatigue, etc.

 

- Au plan philosophique, le besoin, manifestation vitale, éveille l'attention vis-à-vis de la totalité de la vie. Il sort de la dimension quantitative pour entrer dans le champ de la conscience où il prend la forme du désir soumis aux châtoiements de l'évaluation. La manière de satisfaire les désirs met en branle la gamme des sentiments et l'intensité de la volonté. Le sage qui cherche à supprimer les désirs pour réduire son insatisfaction agit sur les besoins eux-mêmes et exerce sa volonté pour les moduler de façon à n'éprouver plus que ceux qu'il est effectivement possible de satisfaire. Le besoin est toujours satisfait dans un univers doté d'objets et de relations: institutions, rites, culture, etc. L'analyse du besoin est indissociable d'une bonne connaissance de l'environnement dans ses multiples dimensions.

 

Le besoin est une contrainte. En tant que donnée, il est la réalité non économique qui fonde l'économie. Le premier fait de l'histoire humaine est que l'homme mange. Mais la simple jouissance d'un objet, comme le ferait un cueilleur de fruits dormant à la belle étoile et s'abreuvant au cours d'eau, ne fonde pas l'activité économique. Celles-ci prend naissance dans l'effort et le travail nécessaire à la production. Il faut du désir pour accepter de s'astreindre à une activité conduisant à la satsifaction.

 

2. Les présupposés

 

Les présupposés sont au nombre de trois:

- La relation de la rareté et de l'abondance;

- La relation de l'utile et du nuisible;

- La relation de maître à esclave.

 

* Relation rareté/abondance. L'économie ne part pas d'une abondance donnée. Son rôle est de la produire. La plasticité des besoins donne à l'abondance le statut de problème éternel. L'abondance peut exister pour certains biens ou caractériser la vie de quelques groupes humains. Mais d'autres raretés existent ou naissent et des populations baignent dans la pénurie.

 

Les relations caractéristiques de ce présupposé sont l'échange, relation égalitaire par l'intermédiaire du prix, et la hiérarchie, en particulier celles des pouvoirs d'achat, pouvoir dans le système des échanges. La nature de l'échange importe peu. Entre individus ou organisations, de statut privé ou collectif, l'essentiel réside dans la relation.

 

* Relation utile/nuisible. L'utilité de chaque chose désigne le point de vue subjectif de l'homme: son appréciation. Mais l'économie n'est pas commandée par l'usage ou la jouissance. L'utilité à considérer est celle qui nécessite un effort pour obtenir le bien satisfaisant un besoin. Dès lors elle est relative, différentielle, car l'ascète par exemple dénie toute utilité à divers biens. Le superflu, le luxe, le gaspillage, sont du domaine économique au même titre que le non rentable, les prestations multiples telles que loisirs, vacances, protection, etc. Toutes ces dimensions font appel à l'idée d'effort d'acquisition, de comparaison entre avantages et inconvénients de leur recherche ou d'un renoncement. De plus, ils font vivre des secteurs entiers.

 

* Relation maître/esclave. Aristote fut le premier à soulever le caractère indépassable de cette relation. Il est impossible d'élaborer une économie concrète sans exploitation de l'homme par l'homme, sans servitude. La relation maître/esclave correspond à la hiérarchie présente dans toute activité organisée. Seigneur comparé à serf, patron comparé à employé, la hiérarchie est interne aux activités économiques et dépend de la division du travail, phénomène croissant avec la spécialisation technique. La question de fond: pourquoi faut-il produire? met en mouvement l'organisation du travail, l'innovation technique, la gestion efficace, les prélèvements sur l'environnement. La relation hiérarchique est le fondement de la production.

 

3: La finalité

 

Le but spécifique de l'économie est le bien-être, à distinguer des finalités abstraites et générales, atemporelles et absolues: bonheur et justice, égalité. Les fins ultimes mettent en œuvre d'autres caractéristiques de l'homme et de la société. Un but est concret et réalisable, dans un temps et sur un espace précis. Dès lors, l'idée de bien-être est une variable historique liée au niveau de développement économique d'une société. La notion prend un sens dépendant des possibilités du moment, des conditions de sa réalisation, de la représentation que nous nous en faisons. Le niveau de bien-être sera fonction de la multiplicité des besoins que nous pouvons satisfaire selon nos goûts personnels et de l'intensité des efforts à fournir pour bénéficier des moyens de satisfaire nos besoins du moment. La mesure du bien-être est donc relative aux personnes ou aux groupes, et on ne peut définir, de façon uniforme ou autoritaire, ce que doit être le bien-être pour chacun. Créer les conditions favorables est le seul but auquel peut prétendre l'économie.

 

Frédéric VALENTIN.

 

Notes:

(1) Jean-Claude PERROT, Une histoire intellectuelle de l'économie politique, Editions de l'EHESS, 1992, p.68.

(2) Jean-Claude PERROT, op. cit., p. 93.

(3) Julien FREUND, L'essence de l'économique, Presses Universitaires de Strasbourg, 1993, 160 p.

(4) Julien FREUND, Philosophie et sociologie, Cabay, Louvain-la-Neuve, 1984, p. 24.

(5) Julien FREUND, «Théorie du besoin», in: Politique et impolitique, Sirey, 1987, Chap. 23.

vendredi, 13 mars 2009

Interventie van F. Ranson ("Fête des Identitaires")

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Interventie van Frederic Ranson ("Fête des identitaires", Sint-Pieters-Leeuw, 28 februari 2009)

 

Ik heb de eer u vandaag het manifest van het nieuw-solidarisme voor te stellen. In het licht van het onderwerp van vandaag zou ik er twee ideeën in het bijzonder uit willen onthouden, ter overweging door het publiek. Eerst en vooral zou ik de deelnemers en de organisatoren willen bedanken voor hun bijdrage aan een soort gedachtewisseling die men elders in Vlaanderen niet meer kent, ondanks de veel gunstigere voorwaarden dan in Franstalig België. Identitairen die zich vandaag om sociale vraagstukken bekommeren, is al een goede manier om de nieuw-solidaristen te omschrijven.

 

In het kort gesteld is de crisis die we nu beleven deze van meer dan dertig jaar Angelsaksisch neoliberalisme. De naoorlogse internationale financiële architectuur is door de Verenigde Staten en hun hoge bankwezen altijd zodanig uitgedacht dat de lusten voor zichzelf zijn en de lasten voor de rest van de wereld. Sinds de jaren zeventig dient het neoliberalisme als nieuw instrument om hun financiële belangen veilig te stellen. De liberalisering van hun financiële markten heeft hun toegelaten de dollarheerschappij te bestendigen. Vervolgens zijn het Verenigd Koninkrijk en later de Europese Unie hen gevolgd. Het eerste gevolg ervan was dat de “sociale kapitalen” – geaccumuleerd gedurende decennia – getransfereerd zijn naar een geglobaliseerde financiële markt. Het tweede gevolg ervan was de ontwikkeling van de financiële derivaten, tegengewicht voor de risico’s op een gedereguleerde markt. De omvang van de financiële crisis is een goede indicator voor de graad van amerikanisering en globalisering.

 

Men moet goed beseffen op welke manier niet alleen de economische of financiële voorwaarden, maar daardoor evenzeer de politieke voorwaarden zijn veranderd. Ja, ze zetelen nog, onze parlementairen, maar ze zijn bijna gedegradeerd tot gemeenteraadsleden in het grote “werelddorp”. Het nationale kader, basis van ons sociale model en van de consensus arbeid-kapitaal, is bezig te verdwijnen, ondermijnd door het neoliberalisme en de vrijhandel. De verburgerlijking van rechts en links heeft hen totaal onbekwaam gemaakt om alternatieve oplossingen voor te stellen. Tegenover hun onbekwaamheid en tegenover die nieuwe voorwaarden dringen nieuwe antwoorden zich op. De huidige crisis vormt een breuk. Ofwel ziet men in deze crisis een nieuwe fase van concentratie en globalisering. Ofwel ziet men er een gelegenheid in om een legitieme volkswoede te organiseren en alternatieven te formuleren.


Het eerste idee dat ik graag wil onderstrepen is de hernationalisering van sectoren van de staat en de economie, zowel de financiële als de reële economie, van Fortis tot Opel. In de huidige toestand – waarin we worden misleid met eurocratische en andersglobalistische voorstellen die elkaar afwisselen, waarin het eenheidsdenken een “socialisme van de bankiers” aanprijst, enzovoort – is die eis reeds een revolutionaire daad. Het tweede idee om te onthouden, is dat van de monetaire soevereiniteit, wat een herdefiniëring van ons gebruikelijke begrip over geld inhoudt. Ik kom hierop terug bij wijze van kort antwoord aan de heer Robert. De ideale synthese van de tweede ideeën zou de overeenstemming zijn tussen de reële en de financiële economie. Dus: geen zeepbellen meer, geen inflatie, geen deflatie, maar een “euflatie” (neologisme van Antonio Miclavez). Helaas, dat is niet het beleidsdoel van onze centrale banken, die slechts semi-publiek zijn. Zij handelen in het belang van de bankiers en niet in het belang van de volkeren. Dezelfde kritieken – in de traditie van het populisme –  tegen de Amerikaanse Federal Reserve zijn van toepassing op de Europese Centrale Bank. De eerste banken die genationaliseerd zullen moeten worden zijn dus de centrale banken zelf!


De heer Robert heeft net het “economische mirakel” van het nationaal-socialistische Duitsland toegeschreven aan zijn minister van Economie, Schacht, en diens “politiek die zeer veraf stond van het 25-Puntenprogramma”. Anderen zullen het toeschrijven aan Keynes. Welnu, wat was het geheim van dat mirakel? De openbare werken en de Duitse herbewapening werden respectievelijk betaald met Mefo- en Öffa-wissels, dus alternatief of aanvullend geld, uitgegeven zonder de openbare schuld te doen toenemen, dat wil zeggen: gebaseerd op het begrip monetaire soevereiniteit. Deze wissels of bonnen waren op zijn minst een hybride idee, omdat ze effectief al werden voorgesteld in het 25-Puntenprogramma, onder de naam “Staatskassengutscheine” (schatkistbonnen). Vanzelfsprekend gingen de ideeën van zijn auteur, Gottfried Feder, nog veel verder. Zijn ideeën stonden zeer dicht bij de antieke en scholastieke principes die vandaag nog aanwezig zijn in het islamitische financieren. Schacht, ten gronde een bankier, heeft uiteindelijk zelfs de verdere emissie van dat geld zonder schuld geweigerd, zoals een andere beruchte bankier, Necker, méér dan een eeuw vóór hem, de emissie van assignaten had geweigerd. Is alternatief geld een utopie vandaag de dag? Nee! Wie kent bijvoorbeeld niet de dienstencheques of de maaltijdcheques, die eenvoudigweg vormen van alternatieve verloning zijn?


Misschien lijken die enkele voorstellen nog voorbarig of futuristisch, maar wij zijn er zeker van dat de verergerende situatie hen steeds meer aanvaardbaar en aanvaard zal maken. Het is dus vooral belangrijk om deze afspraak met de 21ste eeuw niet te missen of de versterking van het systeem te ondergaan door een toegenomen “global governance” die reeds gemeengoed gemaakt wordt door het eenheidsdenken. Ik dank u voor uw aandacht.

jeudi, 12 mars 2009

L'invention de la seconde armée de réserve: les femmes

L’invention de la seconde armée de réserve: les femmes

 

 

Dans les année 70, on disait que les immigrés devaient faire venir leurs femmes et leurs enfants pour éviter d’aller voir des prostituées. Mais derrière l’humanisme affiché, on trouve un solide et classique raisonnement économique. Le capitalisme « avait besoin de bras, pour faire le travail dont les français ne voulaient pas ». Le raisonnement est biaisé. Ce n’est pas tant le travail qui est en cause que le prix payé pour ce travail. Cette question se pose avec d’autant plus d’acuité à la fin des années 60, quand la croissance ininterrompue des Trente Glorieuses donne aux ouvrier des moyens de pression uniques dans l’histoire du capitalisme. La grande grève générale de Mai 68, le rêve de l’anarcho-syndicalisme à la française depuis le congrès d’Amiens en 1905, est l’apothéose de ce mouvement historique. Les salaires grimpent, grimpent, à peine rognés par l’inflation, le partage entre salaires et profits se tord au bénéfice des premiers. Face à cette baisse tendancielle du profit, déjà analysé par Marx en son temps, le capitalisme sort alors son arme traditionnel, elle aussi analysé par le barbu allemand, « l’armée de réserve », c’est-à-dire un sous-prolétariat de chômeurs, sous-qualifiés, immigrés, qui accepte des rémunération inférieur au prix du marché, et pèse mécaniquement à la baisse des salaires ouvriers. Mais cette réponse traditionnel ne suffit pas. L’immigration même massive ne permet pas de retourner cette situation défavorable aux taux de profit. Les patrons français ont encore raffiné les système puisque, avec le regroupement familiale, ils escompte trouver sur place leur main-d’œuvre de seconde génération. Jusqu’à la chute du mur de Berlin, ils ne pouvaient pas chercher leurs travailleurs bon marché n’importe où sur la planète; alors le capitalisme a sorti son joker. L’invention de la seconde armée de réserve: les femmes.

Éric Zemmour – Le premier sexe (p.118/119)

lundi, 09 mars 2009

La déréglementation du marché et ses conséquences

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LA DEREGLEMENTATION DU MARCHE ET SES CONSEQUENCES


À partir des années 70, les structures économiques relativement rigides issues de l’après-guerre ont été démantelées par les tenants d’une liberté économique sans limites. Ils sont parvenus à mettre en place une triple déréglementation, monétaire, commerciale et financière, liée par l’idéologie et des intérêts croisés. La libéralisation financière pousse ainsi celle du commerce puisque les multinationales qui investissent à l’étranger cherchent ensuite à exporter. La libéralisation monétaire pousse la libéralisation financière pour permettre aux entreprises de se couvrir contres les évolutions erratiques du cours des monnaies. On oublie aujourd’hui le rôle fondamental de la fin de la convertibilité du dollar en 1971, qui a accéléré la financiarisation de l’économie (le marché des devises est le premier au monde). Puis, les accords commerciaux se sont multipliés pour démanteler les barrières douanières et assurer une circulation la plus libre possible des biens. Enfin, les années 80 ont vu une accélération de la déréglementation financière jusqu’à ce que les échanges financiers soient 50 fois plus importants que ceux de marchandises.


La déréglementation a eu trois conséquences. La première a été un gonflement incontrôlé de l’endettement (des ménages et des Etats), permis par le manque d’encadrement des pratiques financières. Les institutions financières peuvent créer toujours plus de monnaie par rapport à leurs capitaux, que ce soit par l’effet de levier, qui permet de prêter ou placer davantage que ce qui est autorisé (par le hors bilan) ou la titrisation (qui permet de sortir le risque du bilan). Les excès de cette libéralisation sont particulièrement bien illustrés par les excès du marché de l’immobilier subprimes aux Etats-Unis, que Paul Jorion décrit si bien.


La deuxième conséquence est une amplification radicale du caractère cyclique de nos économies et la multiplication des crises. Nous vivons dans un monde économique de plus en plus instable : krach boursier en 1987, crise économique du début des années 90 (conséquence d’une bulle immobilière), crise asiatique de 1997, bulle Internet de 2001, subprimes en 2007. Et du fait de la libéralisation, la contagion est plus rapide et les crises sont plus violentes. Le repli de la régulation laisse mieux apparaître le caractère exagérément cyclique du marché, exubérant à la hausse comme à la baisse.


La troisième conséquence est une hausse des inégalités. Le libre-échange non régulé des pays développés avec les pays émergents provoque une déflation salariale et une hausse du chômage. Le système actuel ne profite au mieux qu’à 10% de la population. Et la hausse des inégalités se retrouve également dans la soumission accrue des entreprises au diktat du marché. Enfin, cette inégalité transparaît dans le rapport entre les entreprises et les citoyens puisque les premières s’accaparent une part toujours plus grande de la richesse au détriment des salaires, preuve que déréglementation ne rime pas forcément avec concurrence.


Pire, les trois conséquences de la déréglementation se renforcent entre elles. En effet, c’est bien la hausse des inégalités aux Etats-Unis qui a provoqué la catastrophe des subprimes puisque les ménages modestes ont compensé par l’emprunt la baisse de leur pouvoir d’achat à cause à la déréglementation financière. Et c’est la déréglementation monétaire et financière qui pousse les pays d’Asie à engranger des excédents colossaux pour se protéger des marchés, créant d’énormes déséquilibres financiers mondiaux.


De manière intéressante, les tenants du système ont gagné une partie de la bataille en parvenant à qualifier la destruction de la réglementation économique issue de l’après-guerre des beaux noms de mondialisation, globalisation ou déréglementation. En effet, comment être contre ces termes, porteurs de valeurs positives ? Notre combat idéologique passera également par les mots et il nous revient de qualifier ce qu’est vraiment cette évolution de ce capitalisme sauvage : la loi de la jungle, la loi du plus fort ou l’anarchie néolibérale. Pire, certains ont réussi à faire passer ce retour en arrière pour moderne. Il s’agit d’une arnaque incroyable tant cette idéologie tend à revenir au capitalisme sauvage du tournant du siècle, celui d’avant les grandes conquêtes sociales. En quelque sorte, pour reprendre Paul Jorion, il s’agit d’une volonté de retour du capitalisme à l’état de nature, d’un déni de tout ce qui fait l’humanité, l’abandon du processus de civilisation où le bien commun et la solidarité l’emportent sur les calculs égoïstes individuels. Quelques économistes darwiniens ont vendu l’idée que la somme des égoïsmes correspond à l’intérêt général et qu’une main invisible bienveillante veille sur le marché pour promouvoir le "laissez faire" et le "laissez passer"… »


Laurent Pinsolle, "La crise de l’anarchie néolibérale", Agoravox, 11 février 2009

dimanche, 08 mars 2009

Dans les coulisses de la crise, la nouvelle guerre du pétrole

Dans les coulisses de la Crise, la nouvelle guerre du pétrole

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Par Maxime Lion
Altermedia France

L’organisation des Pays exportateurs de Pétrole (Opep) pourrait procéder à une nouvelle baisse de sa production, en mars, lors de sa prochaine réunion à Vienne. C’est en tout cas ce qu’a affirmé samedi à Alger le ministre algérien de l’Énergie et des mines Chakib Khelil. Raisons invoquées : le possible maintien à la baisse des cours du brut. Ceci alors même que l’Agence internationale de l’Énergie abaissait vendredi ses prévisions de demande mondiale pétrolière, tablant désormais sur une contraction en 2009 comme en 2008. L’occasion de faire le point sur un marché fondamental de l’économie moderne où le politique n’est jamais loin.

 

Une véritable guerre « discrète » fait aujourd’hui rage sur le marché du Pétrole. Du côté des offreurs, l’Organisation des Pays Producteurs de Pétrole, qui représente 40 % de la production mondiale et qui bénéficie du soutien de la Russie, se veut le syndicats de défense des pays producteur : il rêve d’un baril de pétrole à 60 $ afin de rentabiliser l’ensemble des exploitations des ses membres, et d’assurer de confortables profits pour les plus compétitifs d’entre eux, comme l’Arabie Saoudite. La demande, quant à elle, s’organise pour l’essentiel autour des pôles occidentaux et asiatiques. Cependant, les États-Unis, premier consommateur au monde d’hydrocarbure et inventeurs de toute la filière économique du pétrole, donne le la : le prix du pétrole est actuellement gouverné par le niveau des stocks américains de pétrole. Depuis l’été dernier, il oriente les courts toujours dans le même sens, la baisse.

Si la baisse des courts s’explique avant tout par une cause objective - la chute de la demande de pétrole attestée par la litanie des rapports mensuels de l’Agence Internationale de l’Énergie annonçant une régression de la consommation de brut de 0,6 % en 2009 - elle devrait être compensée en grande partie par le diminution de la production de l’OPEP, suivie par celle opérée par la Russie. L’objectif est de relancer le baril à la hausse pour atteindre un objectif de court terme de 45 $ la baril. Or, peine perdue : alors que les consignes ont été relativement suivies par les pays membres de l’organisation, la production se maintient, voire augmente légèrement. Qui sont les coupables, augmentant leur production contre toute logique économique ? La réponse : des pays à la fois producteur et consommateur qui ont plus à perdre dans les surcoûts d’un pétrole en hausse que dans les pertes de leur propre puits… et en tout premier lieu les États-Unis, suivis de la Chine et du Brésil.

La baisse des courts du pétrole semble ainsi être devenu un objectif majeur de la politique américaine. Certains y ont vu un motif essentiel de la volonté de l’oncle Sam de freiner les ardeurs israéliennes quant à une campagne de raids aériens sur l’Iran, craignant les conséquences d’un conflit prolongé au Moyen Orient sur les courts de l’or noir. Qu’est-ce qui pousse les Américains à maintenir à grand frais les courts du pétrole à des courts les plus bas possibles, quitte à hypothéquer l’avenir de leur propre industrie pétrolière ?

La réponse est simple : le choix de la surchauffe de la planche à billet comme moyen de venir à bout de la crise, voire de la dépression économique. Le nouveau président O’Bama a promis d’injecter 850 milliards de dollars dans l’économie américaine sous forme d’infrastructures et de réduction d’impôts. D’où vient l’argent ? De bons du trésor dont la valeur repose dans la crédulité des étrangers dans la puissance de l’Oncle Sam. Si ces derniers ne suffisent pas, la planche à billet fera le reste. Or ce schéma ne fonctionne que tant que la confiance en la monnaie est maintenue par une inflation quasi nulle, garantissant, du moins à court terme, son pouvoir d’achat. Or le facteur principal de la chute de l’inflation aux Etats-unis, au point qu’elle devienne une véritable déflation, est justement la chute des courts des hydrocarbures. Une forte augmentation des courts de pétrole, ou choc exogène, suite à une crise géopolitique, aurait pour conséquence de relancer dramatiquement l’inflation et ainsi de transformer les injections massives de liquidités dans l’économie en empoisonnement du système financier mondial. A la crise - se matérialisant par la chute des valeurs des actifs, actions et immobiliers, c’est-à-dire une destruction de richesse - s’ajouterait l’effondrement du dollar, ce qui finirait de laminer le revenu des actifs… Il s’agit du pire scénario des économistes, l’hyper-inflation, qui se caractérise par une défiance générale pour la monnaie papier dite fiduciaire. Cette dernière revient à sa valeur intrinsèque, c’est-à-dire quasi-nulle, celle d’un petit papier imprimé en quadrichromie… Ceci signifierait l’arrêt de mort du dollar, et donc la fin de l’empire américain car il n’y a pas d’Empire sans impôt impérial.

Les liens entre le Politique et l’Économique ne sont jamais aussi forts qu’en tant que crise, et l’Histoire n’est jamais loin. Si la crise a aujourd’hui surtout le goût amer des licenciements et du marasme, marquant la fin d’un modèle économique, elle est aussi l’annonce de changements profonds, du mutations insoupçonnées. A nous de les décryptées afin de fêter la fin de ce « monde vétuste et sans joie… »


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

URL to article: http://fr.altermedia.info/general/dans-les-coulisses-de-la-crise-la-nouvelle-guerre-du-petrole_19607.html

jeudi, 05 mars 2009

Intervention de F. Ranson au Colloque identitaire (28-02-09)

Frédéric RANSON:

Intervention au colloque identitaire du 28 février 2009

Sint-Pieters-Leeuw (Brabant)

Il m’incombe aujourd’hui de vous présenter le manifeste du néo-solidarisme. En fonction du sujet d’aujourd’hui, j’en voudrais retenir deux idées en particulier, à méditer par le public. D’abord, je voudrais féliciter les organisateurs et les autres participants pour leur contribution à un genre de débat qu’on ne connaît plus ailleurs en Flandre, malgré des conditions plus favorables qu’en Belgique francophone. Des identitaires s’occupent aujourd’hui des questions sociales et c’est déjà une bonne description pour les néo-solidaristes.

 

En bref, la crise que nous vivons est celle de plus de trente ans de néolibéralisme anglo-saxon. L’architecture financière mondiale de l’après-guerre a toujours été conçue, par les Etats-Unis et leur haute finance, de telle manière que les profits soient pour eux-mêmes et les charges pour le reste du monde. Depuis les années septante, le néolibéralisme sert de nouvel instrument pour assurer leurs intérêts financiers. L’ouverture des marchés financiers a permis  de prolonger l’hégémonie du dollar. Ensuite, suivaient le Royaume-Uni et plus tard l’Union européenne. La première conséquence était que les « capitaux sociaux » des Etats européens, accumulés depuis des décennies, étaient alors transférés à un marché financier mondialisé. La deuxième conséquence était l’invention des produits dérivés, contrepartie pour les risques sur un marché dérégulé. L’ampleur de la crise actuelle est un indice du degré d’américanisation et de mondialisation.

 

Il faut se rendre compte de quelle manière, non pas seulement les conditions économiques ou financières, mais par là aussi les conditions politiques ont changé. Oui, ils sont encore là, les parlementaires, mais ils sont presque dégradés jusqu’au niveau de conseiller communal dans le « village global ». Le cadre national, base de notre modèle social et du consensus entre travail et capital, est en voie de disparition, sapé par le néolibéralisme et le libre-échangisme. L’embourgeoisement des droites et des gauches les a rendu totalement incapables à proposer des alternatives. Face à leur incapacité et face aux nouvelles conditions, de nouvelles réponses s’imposent. La crise actuelle est une rupture. Ou bien on voit dans cette crise une nouvelle phase de concentration et de mondialisation. Ou bien on y voit une occasion d’organiser une colère légitime et de proposer des alternatives.

 

La première idée que je veux retenir de notre manifeste est donc celle de la renationalisation de l’Etat et de l’économie, tant l’économie monétaire que l’économie réelle, de Fortis à Opel. Dans les conditions actuelles, où vous étés trompés par des propositions européanistes et altermondialistes qui se relaient, où la pensée unique prône un « socialisme des banquiers » et ainsi de suite, cette revendication est déjà un acte révolutionnaire. La deuxième idée à retenir est celle de la souveraineté monétaire, qui implique une redéfinition des notions habituelles sur l’argent. J’y reviens en brève réponse à monsieur Robert. La synthèse idéale de ces deux idées serait la correspondance entre l’économie réelle et l’économie monétaire. Donc : plus de bulles, plus d’inflation, plus de déflation, mais « euflation » (notion d’Antonio Miclavez). Hélas, nos banques centrales semi-publiques n’ont pas ce but. Elles agissent dans l’intérêt des banquiers et pas dans l’intérêt des peuples. Les mêmes critiques, dans la tradition populiste, à la Réserve fédérale américaine peuvent s’appliquer à la Banque centrale européenne. Les premières banques à nationaliser seront donc les banques centrales elles-mêmes !

 

Monsieur Robert vient d’attribuer le « miracle économique » de l’Allemagne nationale-socialiste à son ministre de l’économie Schacht et sa « politique très éloignée du programme en 25 points ». D’autres l’attribueront à Keynes. Eh bien, quel était le secret de ce miracle ? Les travaux publics et le réarmement allemands étaient payés par des « bons Öffa » et des « bons MeFo », donc de l’argent alternatif ou supplémentaire, sans accroître la dette publique, c’est à dire basé sur la notion de souveraineté monétaire. Ces bons étaient au moins une idée hybride, parce que ils étaient effectivement déjà proposée dans le Programme en 25 Points sous le nom de « Staatskassengutscheine » (bons du Trésor publique). Evidemment, les idées de son auteur, Gottfried Feder, allaient encore plus loin. Ses idées étaient très proches des principes antiques et scholastiques, aujourd’hui encore présents dans le financement islamique. Schacht, profondément banquier, a enfin même refusé l’émission ultérieure de cet argent sans dette, ainsi qu’un autre célèbre banquier, Necker, plus d’un siècle avant lui, avait refusé l’émission des assignats. L’argent alternatif est-il une utopie aujourd’hui ? Non ! Qui ne connaît pas les chèques de repas ou les chèques de service, qui sont simplement des formes de salaire alternatif ?

 

Peut-être ces quelques propositions semblent encore précoces ou futuristes, mais nous sommes surs que la situation aggravante les rendra de plus en plus acceptées. L’importance est de ne surtout pas rater ce rendez-vous avec le 21ième siècle, ou de subir le renforcement du système par une « gouvernance mondiale » accrue et répandue par la pensée unique. Je vous remercie pour votre attention.

mercredi, 04 mars 2009

E. Todd: "Le protectionnisme est l'antidote à la guerre"

EMMANUEL TODD : « LE PROTECTIONNISME EST L’ANTIDOTE A LA GUERRE »


C'est l'Europe qui doit être le moteur de ce nouveau projet économique. Le continent européen a une économie relativement saine. Il produit ce qu'il faut d'exportations pour financer ses importations de matières premières. Le protectionnisme est la meilleure manière de se protéger – ce n'est pas un gros mot – de la pression exercée par les salaires des pays émergents. Et ce, pour permettre en Europe une relance des salaires et de la demande. (...)


Le centre de gravité économique dans le monde a repassé l'Atlantique. Il est en Europe, et plus particulièrement en Allemagne. Or les Européens ne font pas preuve de responsabilité face à cette mission qui est la leur. Ils ont le prétexte de la division, mais en vérité ils sont aussi dans un état de manque de réflexion économique, qui est probablement encore pire que celui des Américains. Ils se comportent comme des enfants qui ne veulent pas devenir adultes. Ils ne peuvent pas se contenter de mettre en place un protectionnisme européen à moyen et long terme, ils doivent s'accepter en tant que régulateurs hégémoniques dans le monde sur le plan économique. (...)


La crise de 1929 a produit le Front populaire en France, le New Deal aux Etats-Unis, le nazisme en Allemagne, un conservatisme un peu mou en Angleterre. On devrait assister, compte tenu d'une certaine dérive oligarchique, avec beaucoup d'inégalités des revenus, à l'émergence d'un mélange de lutte des classes et des générations. On a vu la crise des banlieues en France, et aujourd'hui les événements de Grèce. »



Emmanuel Todd, interviewé par Le Matin, 14 décembre 2008


LE LIBRE-ECHANGE OU LA DÉMOCRATIE : IL FAUT CHOISIRLA FIN D’UN CYCLELE RÉVEIL EN FORCE DU PROTECTIONNISME CHINOIS

samedi, 28 février 2009

L'économie russe en 1994

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Archives de SYNEERGIES EUROPEENNES - 1994

 

SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Janvier 1994

Michel SCHNEIDER:

ECONOMIE RUSSE: LA LONGUE MARCHE VERS L'INCONNU

Le travail de démantèlement de l'ancien système, essentiellement mené par l'équipe d'Egor GAIDAR de fin 1991 à la fin 1992, et pour partie poursuivi depuis, a été payé par un affaiblissement extrême de l'Etat, par un grand désordre économique, par un accroissement de la corruption administrative et de la criminalité générale, par une stratification sociale séparant désormais une minorité de nouveaux riches et une majorité de nouveaux pauvres. Ce travail était généralement considéré comme indispensable au passage a l'économie de marché, à la multiplication des acteurs économiques privés (10 à 15 % de la population vivrait aujourd'hui dans le secteur privé) et à la prise du pouvoir économique par les chefs d'entreprises, les régions et les municipalités. Sur ces deux derniers points, les résultats sont tangibles.

Lors du conseil des ministres du 4 février 1993, le président YELTSIN déclarait cependant: "Le plan économique pour 1992 a pratiquement échoué... l'économie nationale s'est effondrée".

En cette fin d'année, la situation économique demeure en effet plus que jamais alarmante et les symptômes les plus visibles en sont: la poursuite de l'inflation, de la chute de la production, de la baisse du niveau de vie de la masse de la population (alors que les contraintes d'un déficit budgétaire considérable risquent d'obliger le gouvernement à libérer les quelques prix qui restent sous contrôle de l'Etat ou des municipalités: gaz, électricité, téléphone, loyers, eau, charges locatives... ), l'accroissement exponentiel de la dette interentreprises et de la dette extérieure -et de son service- qui font de la Russie, en réalité, un pays en faillite.

Début juin 1993, dans une déclaration commune, le gouvernement et la Banque Centrale fixait les objectifs de leur politique économique: abaisser le taux d'inflation à 10 °/0 par mois d'ici la fin 1993 et achever la stabilisation des prix en 1994 dans le cadre d'une accélération de l'intégration de l'économie russe au sein de l'économie mondiale. Renforcer le rôle de l'économie de marché. Au niveau des changements structurels (point 5 de la déclaration), le gouvernement entend poursuivre fermement le programme de privatisation, améliorer les bases légales des relations au sein du marché et contribuer au développement des marchés financiers. Le gouvernement soumettra par ailleurs au Soviet Suprême des projets de loi sur les sociétés, un nouveau Code Civil et un nouveau Code du commerce qui assurera la sécurité des contrats. Enfin, le gouvernement travaillera à la levée des restrictions sur la propriété de la terre et il garantira l'exécution de la loi sur les faillites.

Telles étaient donc les dernières résolutions du gouvernement...

Récemment, un institut gouvernemental a donné ses prévisions, qui donnent la mesure du chemin à parcourir. La production industrielle et la production agricole chuteront respectivement de 15 et 5% cette année. Le volume des investissements baissera de 55 à 60% sur les six derniers mois de 1993, contre 45% l'an dernier. Le niveau de vie baissera de 10% au moins et le "revenu de subsistance" devrait atteindre 70.000 roubles par mois en décembre. Début juillet était publié un sondage effectué auprès des "élites" (industriels, commerçants, experts économiques et scientifiques, députés et journalistes) qui reflétait bien le pessimisme de celles-ci: 70% d'entre eux s'attendaient a une détérioration croissante de la situation économique, financière, sociale et politique. Près de 50% se prononçait,aient pour une économie mixte (50% au privé 50% à l'Etat), 28% pour une économie strictement libérale et 19% pour un retour à l'étatisation.

Ce sondage est intéressant car il marque, comme les déclarations et articles de plus en plus nombreux de personnalités, une tendance assez nette à souhaiter des inflexions sensibles dans la politique actuellement poursuivie.

Serguëi GLAZIEV, ministre du Commerce extérieur, reconnait que si la Russie échoue a créer des structures financières et industrielles efficaces d'ici un an ou deux, elle se "désintégrera". Et il préconise des mesures urgentes:

suspendre le chapitre de la loi de privatisation qui permet aux grandes entreprises de privatiser elle-même les unités de production qui les composent, abolir les obstacles infondés à la création de holdings,

3. introduire un certificat de qualité pour les marchandises importées et moduler les tarifs douaniers en fonction des objectifs de la politique industrielle, n'accorder des subventions et la garantie du gouvernement qu'aux importations de marchandises et d'équipements qui ne peuvent être achetés sur le marché national, au lieu d'investir dans des projets locaux, il est nécessaire d'apporter le soutien de l'Etat à des programmes nationaux majeurs qui permettent des changements structurels.

Cette prise de position du ministre va dans le sens d'un certain protectionnisme et du retour à une certaine forme de planification, en tout cas d'un accroissement du rôle de l'Etat, tendances qui se confirment au fil des jours.

Beaucoup dénoncent désormais les effets pervers des instruments traditionnels de la politique de stabilisation (cf. en annexe le tableau dressé par Jacques SAPIR, maître de conférence à l'Ecole des hautes études en sciences sociales).

Oleg BOGOMOLOV, directeur de l'Institut d'économie internationale auprès de l'Académie des sciences estime ouvertement que c'est l'aventureuse "thérapie de choc" de M. GAIDAR qui est la principale responsable de la chute continue de la production et de l'inflation. La politique ruineuse du "grand saut" dans l'économie de marche a été inspirée par les économistes de "l'école monétariste de Chicago" et aussi par le FMI, déplore-t-il. Et si cette politique devait être poursuivie, elle conduirait à une situation encore plus grave. En toute hypothèse, il n'y a rien à attendre des deux années qui viennent sauf, prévoit-il, une plus grande détérioration. Pour lui, plutôt que de quémander des prêts, alors que la Russie est en cessation de paiements. le gouvernement devrait attirer les investisseurs étrangers sur des secteurs prioritaires, en créant les conditions légales et fiscales qui font aujourd'hui défaut.

Précisément, dans un rapport rendu public durant l'été 1993, un responsable du Fonds Monétaire International, M. de Groote, en vient à critiquer ses collègues américains et leur "approche fondamentaliste" des réformes fondées sur "un modèle importé qui n'existe nulle part, pas même aux Etats Unis, le seul pays pris comme référence par ces réformateurs de l'école reaganienne". Dans ce rapport, il déplore une libération des prix "prématurée et mal conduite" et préconise la restauration d'un certain contrôle des prix dans la grande industrie et l'agriculture, ainsi qu'un ralentissement des privatisations dans les industries d'Etat et le retour à un minimum de contrôle administratif des processus économiques.

Progressivement, se dessine ainsi les traits d'une politique économique alternative

Dans l'immédiat cependant, la situation est encore aggravée par "l'autonomisme économique", favorisée par les transferts de charges et de responsabilités, initiés par le gouvernement GAIDAR et poursuivis récemment par les concessions de M. ELTSINE aux "sujets" de la fédération. Les conséquences pourraient en être dramatiques pour le pays.

C'est ainsi que beaucoup de régions imposent désormais leurs propres règles de passage à l'économie de marché et tentent de constituer leur propre espace économique, instituant des règles fiscales spécifiques concernant en particulier l'exploitation de leurs ressources naturelles et l'accueil des investisseurs étrangers. Des économistes n'hésitent pas à parler de "désintégration préférentielle" estimant que celle-ci toucherait déjà l/3 du potentiel économique russe. Certaines régions ont cessé de transférer leur quote-part au budget fédéral. C'est ainsi que durant les cinq premiers mois de 1993, pas un rouble n'a été donné au budget de l'Etat par les républiques du Bachkortostan, du Tatarstan, cependant que la république du Sakka (ex-Yakoutie) payait 1% et celle de Carélie seulement 3% des impôts fédéraux, et les cas identiques se multiplient.... C'est tout le budget fédéral qui est menacé d'effondrement par "assèchement".

Le gouvernement, apparemment incapable de garder le contrôle de la situation, a néanmoins soumis au Soviet Suprême des projets de loi visant a alourdir la pression fiscale en créant de nouvelles taxes et en augmentant celles existantes, en particulier la TVA (+4%)

La fuite en avant se poursuit donc, comme les privatisations.

Mais les dernières prévisions gouvernementales n'incitent pas à l'optimisme.

A la fin de cette année, selon le Président de la Banque Centrale, le Produit National Brut sera comme en 1992, en baisse de 18 à 20% et le taux de l'inflation de 1000% ! Le ministre des Finances, M. Boris FIODOROV, prédit pour sa part que le déficit budgétaire atteindra 22 milliards de dollars soit 14% du P.N.B.

 

 

00:14 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, russie, économie, crise, déclin économique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 17 février 2009

Les sortilèges du capitalisme et le réenchantement du monde

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Les sortilèges du capitalisme et le réenchantement du monde

Trouvé sur: http://www.polemia.com/ 

Dans le monde moderne, « tout fonctionne et le fonctionnement entraîne toujours un nouveau fonctionnement, et la technique arrache toujours davantage l’homme à la terre (*). » écrit Heidegger (« Essais et conférences, la question de la technique »). Le principe de l’arraisonnement du monde s’autoalimente en dispositifs toujours plus techniques.

Kant avait déjà noté que la raison arraisonne. Dans le monde moderne la pensée se trouve coupée en deux, la pensée méditante, de plus en plus réduite, et la pensée instrumentale, de plus en plus envahissante. En d’autres termes, les arts mécaniques supplantent les arts libéraux. Au rationalisme qui calcule, met en coupe réglée le monde, il serait tentant d’opposer l’irrationalisme. Mais ce n’est pas ce dernier qui remédie aux maux du premier. Le problème est moins celui de la prédominance des arts mécaniques sur les arts libéraux que de leur disjonction. Le turbocapitalisme et sa logique financière relèvent plus de la magie que de la raison. C’est du coté du monde arraisonné par la technique marchandisante que se situent les sortilèges, et cela dans un processus qui a été bien été mis en lumière par Philippe Pignarre et Isabelle Stengers dans « La sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement » (La Découverte, 2005).

C’est pourquoi le dépassement du capitalisme ne peut se faire que dans et par le même mouvement que celui de dépassement de l’imaginaire de la marchandise, comme l’ont montré  Ludovic Duhem et Eric Verdure (« Faillite du capitalisme et réenchantement du monde, L’Harmattan », 2006). En conséquence tant de l’épuisement des ressources naturelles que, plus encore, de l’impératif de ménager les ressources humaines, Il va peut-être s’agir (« peut-être » car l’histoire est ouverte) de revenir au sens ancien du mot économie, à savoir économiser, comme le montre Bernard Perret (« Le capitalisme est-il durable ? », Carnets nord, 2008).

C’est encore Heidegger qui écrivait dans « Introduction à la métaphysique » (1935) : « Cette Europe qui, dans un incurable aveuglement, se trouve toujours sur le point de se poignarder elle-même, est prise aujourd'hui dans un étau entre la Russie d'une part et l'Amérique de l'autre. La Russie et l'Amérique sont toutes deux, au point de vue métaphysique, la même chose; la même frénésie sinistre de la technique déchaînée, et de l'organisation sans racines de l'homme normalisé.[ souligné par nous] » La disparition de la Russie soviétique comme régime économique et social rend cette réalité du déchainement sans âme de la technique asservie au profit plus nue encore. Il va falloir trouver la voie d’une réconciliation entre la raison et les techniques, hors de la toute puissance de l’argent, du court-termisme, du bougisme et de l’impératif de rentabilité immédiate. Il nous faut retrouver les deux qualités qu’Aristote (« Ethique à Nicomaque ») attribuait aux non-esclaves, les facultés de délibérer et de choisir (« to bouleutikon », la « boulè » est l’unité de base de la démocratie athénienne, c’est l’assemblée qui délibère, assemblée instituée par Solon et Clisthène), et la faculté de prévoir, l’horizon de ce que l’on souhaite (« proairesis ») – les deux étant liées, comme on le comprendra aisément, l’avenir étant fait de prévisions sur des conditions qui nous échappent en partie et d’actes qui modifient l’avenir et ses conditions mêmes.

L’historien des techniques Alain Gras relève la multiplicité des voies techniques possibles et le caractère très contestable de la notion de progrès au sens linéaire du terme. Il explique : « Ma position première est donc anti-évolutionniste y compris sur le plan de la science et de la technique ». C’est peut-être par là qu’il faut commencer.

Pierre Le Vigan
Février 2009
Correspondance Polémia
07/02/09(*) la terre ne s’entend pas au simple sens de l’éloignement du mode de vie rural bien sûr. Il s’agit de quitter le « sol » sur lequel se déploie le propre de l’homme. En ce sens ce n’est pas forcément le cosmonaute qui s’arrache plus à la terre que l’usager de clubs de vacances au bout du monde par exemple.

Pierre Le Vigan