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jeudi, 14 avril 2011

Die Mafia im Kosovo

Die Mafia im Kosovo: Warum die USA und ihre Verbündeten das Organisierte Verbrechen ignorierten

Matt McAllester / Jovo Martinovic

Im Herbst des Jahres 2000, etwas mehr als ein Jahr nach dem Ende des Kosovo-Krieges, legten zwei Mitarbeiter des Militärgeheimdienstes der NATO den ersten bekannt gewordenen Bericht über die dortige organisierte Kriminalität (OK) vor. Darin erklärten sie, der frühere politische Führer der Befreiungsarmee des Kosovo (UÇK) Hashim Thaci verfüge »über Einfluss auf die lokalen Strukturen der organisierten Kriminalität, die [einen] Großteil des Kosovo kontrollieren«.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/matt-mcallester-jovo-martinovic/die-mafia-im-kosovo-warum-die-usa-und-ihre-verbuendeten-das-organisierte-verbrechen-ignorierten.html

lundi, 04 avril 2011

Dal Kosovo alla Libia: il lato oscuro dell'interventismo "umanitario"

Dal Kosovo alla Libia: il lato oscuro dell’interventismo “umanitario”

di Stefano Vernole

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

balka1.gifGiunto simbolicamente a Belgrado il 23 marzo (giorno antecedente all’anniversario dell’inizio dei bombardamenti sulla Federazione Jugoslava nel 1999), il capo del governo di Mosca, Vladimir Putin, avrebbe dichiarato che tra l’attuale crisi libica e quella kosovara di 12 anni fa esisterebbero diverse differenze.

 

Sicuramente, però, vi sono anche parecchie analogie.

Preparazione mediatica all’aggressione militare: come allora, l’intervento degli aerei della coalizione occidentale è stato preceduto da una lunga campagna dell’opinione pubblica, volta a demonizzare l’avversario. Nel 1999 fu il falso massacro di Racak a fornire il pretesto per l’umiliante ultimatum di Rambouillet, oggi sono state le false fosse comuni di Tripoli (1) e gli inesistenti raid aerei (2) sui manifestanti a permettere di scaldare i motori degli aerei dell’aviazione atlantica. Anche le parole d’ordine della propaganda occidentale sono sempre le stesse: “un dittatore che uccide il suo popolo” (allora Milosevic che vinse tutte le elezioni, oggi Gheddafi che sostituì nel 1969 un regime autocratico introducendo la democrazia diretta), gli “scudi umani” a protezione dei siti da bombardare (in realtà migliaia di volontari pronti a sacrificarsi, a Belgrado a difesa dei ponti sul Danubio, a Tripoli delle città libiche), “gli insorti lottano per la libertà e la democrazia” (in realtà l’UCK era un gruppo ideologicamente marxista-leninista e le tribù ribelli della Cirenaica sventolano le bandiere monarchiche), qualche accenno alla “pulizia etnica” e ai “mercenari” (che nemmeno vale la pena commentare), “Milosevic disposto ad arrendersi dopo 3 giorni di bombardamenti” (furono alla fine 78) e “Gheddafi scappato in Venezuela o in Bielorussia” (forse sarebbe piaciuto a Washington per attaccare Chavez e Lukashenko …), preparazione “culturale” alle rivolte (apertura di un centro statunitense finanziato da Soros a Pristina e discorso di Obama al Cairo).

Sostegno esterno agli insorti e andamento del conflitto: in Kosovo l’UCK venne addestrato, armato e finanziato da BND, SAS, CIA e servizi segreti albanesi, in Libia gli insorti di Bengasi da SAS, CIA, servizi segreti francesi, egiziani e sauditi. In un primo momento l’esercito di liberazione albanese del Kosovo conquistò oltre metà della provincia serba e assunse il controllo di tutte le strade principali, per essere travolto alla prima azione seria intrapresa dalla polizia militare di Belgrado. Lo stesso può dirsi per le tribù della Cirenaica che, dopo un fantomatico successo iniziale, stavano per scappare in Egitto e perdere anche la loro roccaforte. In entrambi i casi, questi gruppi ribelli sono stati utilizzati per creare un clima bellico idoneo per l’intervento esterno, vengono fatti massacrare perché non assumano troppa influenza e verranno poi scaricati quando le potenze occidentali avranno raggiunto i loro obiettivi (nel 1999 la NATO addirittura bombardò la caserma di Koshare, unico successo militare dell’UCK).

Divisione del paese: impossibilitata a vincere davvero il conflitto vista la scarsa attitudine delle sue truppe a condurre un intervento di terra, la NATO si accontentò nel 1999 di occupare soltanto il Kosovo (ricco di minerali e in posizione strategica per la sorveglianza dei corridoi energetici), per poi destabilizzare la Serbia e far cadere Milosevic in un secondo tempo. L’obiettivo principale in Libia è impiantare i soldati dell’Alleanza Atlantica in Cirenaica e nel Fezzan (ricchi di petrolio e in ottima posizione per il controllo dell’Egitto), quali basi iniziali di una futura eliminazione di Gheddafi in Tripolitania (3). La balcanizzazione del mondo continua.

Demonizzazione dell’avversario: agli Stati Uniti, si sa, piace l’impostazione leaderistica della politica e identificano sempre un paese con la sua guida: ieri Milosevic (in realtà un grigio burocrate socialista), oggi Gheddafi (abbastanza attempato, se non altro perché si trova a capo della Libia dal 1969). Questa identificazione totale del potere con un solo uomo, oltre a voler ricordare i paralleli con i grandi avversari storici degli anglosassoni (Mussolini, Hitler, Stalin), permette agli USA di recitare la parte dei “liberatori dall’oppressione” o “dalla dittatura” (sarebbe sufficiente confrontare i parametri economici e sociali della Serbia di Milosevic con l’attuale o della Libia di Gheddafi con il resto del continente africano per capire i “vantaggi” della “liberazione”). In ogni caso le pressioni e l’armamentario ideologico-propagandistico sono identici: sequestro di fantomatici conti all’estero o di improbabili “tesori”, incriminazione al Tribunale dell’Aja (quello che ha ammesso di aver distrutto le prove dei crimini compiuti contro i serbi in Kosovo), pressioni per l’esilio dei “dittatori”. Anche il tranello per attirarli nella trappola è stato pressoché lo stesso: nel 1995 Milosevic fu acclamato a Dayton quale “uomo della pace” (e infatti oggi le clausole approvate per mettere fine alla guerra di Bosnia vengono messe in discussione dalle pressioni atlantiste), Gheddafi dopo le minacce subite da Bush jr. e le riparazioni economiche pagate per l’attentato di Lockerbie (il presunto colpevole è stato rilasciato dagli inglesi per “una grave malattia” nonostante di salute stia benissimo, pur di evitare un processo di appello che avrebbe inchiodato i suoi accusatori britannici a mostrare prove in realtà inesistenti) venne riciclato come alleato nella “guerra al terrorismo”. L’apertura all’Occidente, evidentemente, non paga.

Interessi in gioco: sono abbastanza simili e riguardano il percorso degli oleodotti nel caso kosovaro, i diritti di sfruttamento del petrolio in quello libico (e questi, almeno oggi, sono stati ammessi perfino dalla nostra classe dirigente). Nel caso kosovaro ci furono anche quelli della droga e del traffico di migranti/prostituzione, probabile che anche in Libia avvenga qualcosa del genere. Posizionamento strategico della NATO: base militare USA di Camp Bondsteel in Kosovo (quale porta d’ingresso alle aree strategiche del pianeta, Vicino e Medio Oriente, Caucaso), destabilizzazione dell’influenza russa e turca nel Mediterraneo per la Libia (4), rilancio mediatico del ruolo dell’Alleanza Atlantica quale gendarme globale.

Danni all’Italia e mediazione russa: evidenti all’epoca dell’aggressione alla Serbia (affare Telekom Srbja, investimenti commerciali, inquinamento ambientale del Mar Adriatico, conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito sui propri militari, violazione della Costituzione, invasione della droga e della mafia kosovara), addirittura clamorosi con la partecipazione ai bombardamenti sulla Libia (perdita di cospicui contratti petroliferi, accordi energetici, perdita di credibilità internazionale dopo la concessione delle basi militari per un attacco militare e violazione del trattato di amicizia italo-libico, aumento dei migranti e probabilmente del traffico di droga) (5). Nel 1999, la Russia che aveva però posto il veto all’intervento nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, favorì con Chernomyrdin la fine delle ostilità; è probabile che ora molti, Berlusconi per primo, si augurino una mediazione russa per trovare una via d’uscita vantaggiosa per tutti.

Non sappiamo, infatti, quanto durerà ancora questa coalizione improvvisata di governi che ormai non hanno più nemmeno la decenza di vergognarsi delle proprie bugie, ma, soprattutto, dopo quanto esportato in Kosovo (dove i gestori del potere organizzavano i traffici di organi umani (6)), Iraq (con nefandezze come l’embargo sul latte ai bambini e le torture di Abu Ghraib) e Afghanistan (dove si confondono trafficanti di droga e necrofili) (7), attendiamo “fiduciosi” di scorgere i frutti del loro “intervento umanitario” in Libia.

 

* Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, è autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Ed. Noctua, Molfetta, 2008.


Note

 

  1. Paolo Pazzini su “Il Giornale”: “Vengo da Tripoli e vi dico che i giornali raccontano un sacco di menzogne”, 26 febbraio 2011, www.ilgiornale.it
  2. “I militari russi: nessun attacco aereo in Libia”, 2 marzo 2011, http://www.eurasia-rivista.org/8536/i-militari-russi-nessun-attacco-aereo-in-libia
  3. LIBIA:STRATEGA, NO FLY ZONE COME BOSNIA RISCHIA DI FALLIRE PERICOLO E’ STALLO, PAESE DIVISO PREVALGONO IDENTITA’ REGIONALI (ANSA) – ROMA, 21 MAR ”Stanno tentando di far cadere Gheddafi come avvenne con Milosevic negli Anni Novanta” ma ”questa volta potremmo fallire”. E’ quanto afferma Robert Kaplan, stratega militare del Center for New American Security, intervistato da La Stampa. ”In Libia vogliono imporre una no fly zone come la Nato fece nel 1994 sui cieli della Bosnia e anche nel 1999 sul Kosovo – afferma Kaplan – conducendo una campagna aerea di 99 giorni. Ma quelle due operazioni militari non portarono alla caduta di Milosevic, perche’ una no fly zone non e’ in grado di innescare cambiamenti di regime”. In Libia, secondo l’esperto, si sta tentando di indebolire Gheddafi allo stesso modo, ”fino al punto da portare qualcuno del suo campo a prendere l’iniziativa per eliminarlo o allontanarlo dal potere”. Ma la Libia ”non e’ la Serbia”. ”La Libia, in realta’, come stato non esiste – prosegue – perche’ a prevalere sono piuttosto le identita’ regionali in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan”. ”Se una no fly zone riesce a salvare Bengasi – afferma Kaplan – e indebolisce Gheddafi in Cirenaica, non significa che cio’ avverra’ anche in Tripolitania”. Il rischio per la coalizione e’ arrivare ad una situazione di stallo: ”la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo”. (ANSA).
  4. http://www.eurasia-rivista.org/8828/libia-che-alternative-aveva-litalia
  5. http://www.eurasia-rivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia
  6. http://www.eurasia-rivista.org/7839/kosovo-il-rapporto-marty-e-stato-censurato-da-israele

 

 

 

lundi, 07 mars 2011

Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?

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“Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?”

Intervista a C. Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 Il nostro redattore Claudio Mutti è stato intervistato da Luca Bistolfi di “EaST Journal” a proposito della Romania, del suo ruolo storico in Europa e in Eurasia e delle sue miserie attuali. L’intervista originale, pubblicata con un titolo redazione da “EaST Journal”, si trova qui [1]. La riproduciamo di seguito.


***

 

 

Un’isola latina nel mare slavo dell’est Europa. La percezione generale della Romania non va oltre un paio di luoghi comuni e di tanta mancanza d’informazione.
La Romania, negli ultimi centocinquant’anni, ha attraversato momenti decisivi, incompresi e mal studiati. Uno dei pochissimi, in Italia, ad avere una visione ampia e completa della storia romena è Claudio Mutti, scrittore, editore, profondo conoscitore della storia, e molte altre cose. Lo abbiamo intercettato e gli abbiamo posto alcune domande per diradare la fitta nebbia che attorno a quella che Vasile Lovinescu chiamava la Dacia Iperborea, si è addensata come una maschera necessariamente imposta.

 

Che cosa è cambiato in Romania dopo gli avvenimenti di metà Ottocento? Come giudica quei passaggi fondamentali che, in certa misura, coincidono con il Risorgimento italiano?
In seguito all’Unione dei due principati valacco e moldavo, avvenuta due anni prima dell’Unità d’Italia, il nuovo regno di Romania attuò una serie di riforme politiche e sociali d’ispirazione democratico-borghese, che avrebbero agevolato lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Un ulteriore momento cruciale fu il 1877, quando la classe politica romena, accogliendo la pretestuosa parola d’ordine della “emancipazione dei popoli cristiani dell’Oriente”, dichiarò guerra alla Sublime Porta, subordinando il Paese agl’interessi plutocratici occidentali. La partecipazione alla guerra intereuropea a fianco dell’Intesa e la successiva adesione alla Piccola Intesa furono altri passi che fecero della Romania una delle sentinelle degl’interessi anglo-francesi nell’area balcanico-danubiana. Oggi, dopo la caduta del regime nazionalcomunista, la Romania è tornata a svolgere la funzione di sentinella dell’Occidente, ma di un Occidente che non è più rappresentato dall’Inghilterra e dalla Francia, bensì dagli Stati Uniti.

Qual è la Sua opinione sull’ingresso della Romania nell’Unione Europea?
L’Europa non è Europa se non comprende tutti i popoli europei, compreso quello che ha dato all’Europa personaggi come Eminescu, Brancuşi, Eliade e Cioran. L’Europa non è pensabile senza il Danubio, senza i Carpazi, senza la costa occidentale del Mar Nero. Anche se oggi la nostra patria europea è rappresentata da una “Unione” dominata da banchieri, burocrati liberali, politicanti traditori e collaborazionisti asserviti alla potenza d’Oltreatlantico, i “buoni Europei” di nietzschiana memoria non devono tuttavia rinunciare a sostenere la necessità di un’Europa degna di questo nome: una realtà unitaria e sovrana che, in stretta alleanza con gli altri grandi spazi del continente eurasiatico, concorra alla costruzione di un potente blocco continentale.

Dove colloca la Romania all’interno dell’idea eurasiatista?
Negli anni Trenta il geopolitico romeno Simion Mehedinţi scriveva che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata qual è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica a stabilire relazioni fra i paesi dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino Oriente dall’altra. A ciò possiamo aggiungere che la Romania, in virtù della sua appartenenza all’area ortodossa, è uno di quei paesi europei che (come la Bulgaria e la Serbia) potrebbe svolgere un ruolo analogo anche in direzione della Russia.

Sappiamo che questo Paese ha subito diversi duri colpi e oggi più che mai: a Suo avviso c’è una possibilità concreta per la Romania di risorgere? Di chi sono le principali responsabilità?
Date le condizioni in cui versa attualmente la Romania e dato il livello della sua attuale classe politica, è necessaria una notevole dose di ottimismo per prospettare una rinascita romena. Non si riesce infatti a intravedere la presenza di quelle forze che, in circostanze storiche analoghe, si assunsero le responsabilità di una riscossa nazionale.

Sappiamo che Lei è, tra le altre cose, un ottimo conoscitore del mondo islamico e della storia dell’Islam in Europa: qual è la Sua impressione sui rapporti tra l’Impero Ottomano e gli antichi principati romeni?
Nicolae Iorga ha mostrato come i principati romeni abbiano rivestito un ruolo egemone in relazione alle più importanti comunità cristiane dell’Impero Ottomano, dal Caucaso all’Egitto. Da parte loro, le autorità islamiche dell’Impero indicavano i Principi valacchi e moldavi come esempi paradigmatici per i capi della Cristianità. Oggi, in un momento in cui la Turchia sta recuperando la posizione che le compete, la Romania potrebbe far tesoro di questa eredità storica e riproporsi come tramite fra l’Europa e la potenza regionale turca.

Per approfondire l’opera di Mutti, consiglio di leggere alcuni dei numerosi articoli presenti sul suo sito [2] e quelli della rivista Eurasia [3], stampata dalle Edizioni all’insegna del Veltro [4], fondate dallo stesso Mutti.

jeudi, 03 mars 2011

Trafics d'organes de l'UçK

Trafics d'organes de l'UçK
6619a320-2853-11e0-ae41-6950fbdad06d.jpgL’ONU a disposé de témoignages précis dès 2003, sur un possible trafic d’organes organisé au Kosovo, en Albanie et dans d’autres pays étrangers, depuis l’immédiat après-guerre jusqu’en 2000.

C’est l’information révélée par la chaîne de télévision France 24 et l’agence de presse italienne TMNews, et reprise par une grande partie de la presse en Serbie.

L’information est basée sur un document confidentiel, en fait une compilation de rapports d enquêtes et un échange de lettres entre les membres importants des Nations unies au Kosovo et du Tribunal pénal international, daté du 30 octobre 2003.

Apparaissent ainsi dans les lettres les noms de Eamonn Smith, à l’époque chef de la mission du TPI en Macédoine et au Kosovo, de Patrick Lopez Terrez, responsable de la mission locale du TPI et de Paul Coffey, directeur du département justice de la Minuk.

Le document mis en ligne, dont une grande partie a été censurée dans le but évident de protéger les témoins, décrit comment des victimes d’enlèvement de la part d’éléments de l’UCK au Kosovo, ont été emprisonnés, parfois torturés, puis transportés en Albanie du nord dans des camps de detention clandestins.

Si certains prisonniers auraient été exécutés et enterrés en Albanie pour masquer les traces d exactions au Kosovo, d’autres prisonniers ont reçu un « traitement de faveur », en l’occurrence une absence de tortures et une nourriture abondante avant d’être transférés dans une clinique improvisée, la fameuse « maison jaune » des environs de Burrell, où leurs organes auraient été extraits par des médecins albanais et étrangers, dans le but d alimenter des filières internationales de trafic d organes. Les restes des victimes auraient été enterrées dans plusieurs sites, toujours en Albanie.

La plupart des victimes auraient été des Serbes du Kosovo, mais le rapport mentionne aussi des jeunes femmes originaires d Europe de l’Est et même d’Albanie, qui auraient subi le même sort.

Les organes auraient été transportes par voitures à l’Aéroport Rinas de Tirana, puis expédiés par avion vers d’autres pays.


Retrouvez notre dossier :
Trafic d’organes de l’UCK : « Au Kosovo, tout le monde est au courant »


Le trafic aurait été supervisé ou organisé avec l’assentiment de hauts responsables de l’UCK. Le rapport cite ainsi les noms de Ramush et de Daut Haradinaj, mais pas celui de l’actuel Premier ministre du Kosovo Hashim Thaçi, pourtant soupçonné de faits similaires dans le rapport du parlementaire suisse Dick Marty.

« Nous avons reçu l’ordre de ne pas frapper les prisonniers, de bien les traiter. J’ai été surpris, car c’est la première fois que j’entendais cela », raconte l’un des témoins cités par le rapport qui décrit aussi la maison de Burrell comme « très propre, avec une forte odeur de médicaments, comme dans un hôpital ». Un autre extrait fait état de l’évolution du trafic. « Seuls les reins ont été extraits des deux premiers Serbes. L’intention était de se lancer sur le marche. Ensuite, l’organisation s’est améliorée et ils recevaient 45000 dollars par personne ».

Les faits décrits dans le rapport ressemblent a ceux évoqués par Carla Del Ponte dans son livre La chasse. Moi et les criminels de guerre, paru en 2008 et qui avait pour la première fois révélé au grand jour les soupçons de trafic d organes. Des accusations très décriées au Kosovo et en Albanie, mais qui ont été renforcées depuis que le rapport d’enquête sur le sujet du parlementaire suisse Dick Marty a été approuvé par l’assemblée du Conseil de l’Europe en janvier.

Le trafic d organe a aussi été l’un des points de discussions principaux au Conseil de Sécurité de l’ONU qui s’est tenu le 16 janvier, mais les diplomates n’ont pas réussi à se mettre d’accord sur l’organisation qui devrait mener une telle enquête. D’un côté, certains pays et le Kosovo réclament une enquête menée par la mission de police et de justice européenne EULEX, d’autres, dont la Serbie, demandent la constitution d’un tribunal spécial mandaté par le Conseil de sécurité.

Quoi qu’il en soit, le rapport en question n’aurait été transmis ni à EULEX ni à Dick Marty au cours de son enquête. Si la Minuk affirme au contraire que le rapport a bien été transmis à EULEX entre fin 2008 et début 2009, le parlementaire suisse a déclaré à France 24 n’avoir jamais eu le document entre le mains, même si les faits décrits dans le rapport lui sont connus.

À l’époque des faits, les missions de l’ONU, de l’organisation pour la sécurité et la coopération en Europe (OSCE) et les militaires de l’Otan, soit plusieurs dizaines de milliers de personnes en charge de l’administration du Kosovo et de la sécurité de ses habitants, étaient déployées sur le territoire. Mais dépassées par le chaos qui y régnait, elles n’ont pas réagi aux nombreuses exactions commises sur le terrain par l’organisation séparatiste kosovar.

Retrouvez le document de l’ONU (en anglais)

Retrouvez l’article de France 24

http://balkans.courriers.info/article16928.html

samedi, 29 janvier 2011

NATO knew Hashim Thaçi was criminal

Ex: http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=201...
d=72322

"NATO knew Hashim Thaci was criminal"

Source: BBC, Guardian.co.uk

Hashim_Thaci.jpgLONDON -- A London newspaper has published leaked NATO documents that
describe Kosovo Albanian PM as one of the "biggest fish" in organized crime
in Kosovo.

The Guardian has published the article on the day the Parliamentary Assembly
of the Council of Europe is debating a draft resolution based on Dick
Marty's report on human organ trafficking in Kosovo, and Albania, writes the
BBC.

The article also incriminates Xhavit Haliti, "a former head of logistics for
the KLA who is now a close ally of the prime minister and a senior
parliamentarian in his ruling PDK party", whom the Marty report named as a
member of the so-called Drenica Group.

The newspaper says the NATO documents are marked secret, and reveal that
America and other western backing Kosovo's government "have had extensive
knowledge of its criminal connections for several years".

Haliti is linked with the Albanian mafia in the report, which also suggests
that he is the person who "exerts considerable control over Thaci".

Haliti is expected to be among Kosovo's official delegation to Strasbourg
tomorrow and has played a leading role in seeking to undermine the Marty
report in public, writes the Guardian.

The NATO papers, said to have originated in Kosovo in 2004, also suggest
that "behind his role as a prominent politician, Haliti is also a senior
organized criminal who carries a Czech 9mm pistol and holds considerable
sway over the prime minister"

It further says that Haliti "more or less ran a fund for the Kosovo war in
the late 1990s, profiting from the fund personally before the money dried
up. As a result, Haliti turned to organized crime on a grand scale."

The daily further quotes from the NATO documents to describe Haliti as
"highly involved in prostitution, weapons and drugs smuggling", who "serves
as a political and financial adviser to the prime minister". Haliti uses a
fake passport to travel abroad because he is black-listed in several
countries, including the U.S., according to this.

Haliti is further linked to the alleged intimidation of political opponents
in Kosovo and two suspected murders dating back to the late 1990s, "when KLA
infighting is said to have resulted in numerous killings".

"One was a political adversary who was found dead by the Kosovo border,
apparently following a dispute with Haliti. A description of the other
suspected murder - of a young journalist in Tirana, the Albanian capital -
also contains a reference to the prime minister by name, but does not
ascribe blame," writes the Guardian.

"Haliti is also named in the report by Marty, which is understood to have
drawn on NATO intelligence assessments along with reports from the FBI and
MI5," says the article.

jeudi, 27 janvier 2011

Kosovo's Thaçi: Human Organs Trafficker

Illegal-Organ-Harvesting-2.jpg

Kosovo's Thaçi: Human Organs Trafficker

by Srdja Trifkovic

Ex: http://www.chroniclesmagazine.org/ 

The details of an elaborate KLA-run human organ harvesting ring, broadly known for years, have been confirmed by a Council of Europe report published on January 15. The report, “Inhuman treatment of people and illicit trafficking of human organs in Kosovo” identifies the province’s recently re-elected “prime minister” Hashim Thaçi as the boss of a “mafia-like” Albanian group specialized in smuggling weapons, drugs, people, and human organs all over Europe. The report reveals that Thaçi’s closest aides were taking Serbs across the border into Albania after the war, murdering them, and selling their organs on the black market. In addition, the report accuses Thaçi of having exerted “violent control” over the heroin trade for a decade.

Deliberate Destrution of Evidence – Long dismissed in the mainstream media as “Serbian propaganda,” the allegations of organ trafficking – familiar to our readers – were ignored in the West until early 2008, when Carla Del Ponte, former Prosecutor at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY) at The Hague, revealed in her memoirs that she had been prevented from initiating any serious investigation into its merits. She also revealed – shockingly – that some elements of proof taken by ICTY field investigators from the notorious “Yellow House” in the Albanian town of Rripe were destroyed at The Hague, thus enabling the KLA and their Western enablers to claim that “there was no evidence” for the organ trafficking allegations.

In April 2008, prompted by Del Ponte’s revelations, seventeen European parliamentarians signed a motion for a resolution calling on the Assembly to examine the allegations. The matter was referred to the Assembly’s Committee on Legal Affairs and Human Rights, which in June 2008 appointed Swiss senator Dick Marty as its rapporteur. He had gained international prominence by his previous investigation of accusations that the CIA abducted and imprisoned terrorism suspects in Europe.

“Genuine Terror” – In his Introductory Remarks Marty revealed some of the “extraordinary challenges of this assignment”: the acts alleged purportedly took place a decade ago, they were not properly investigated by any of the national and international authorities with jurisdiction over the territories concerned. In addition, Marty went on,

… efforts to establish the facts of the Kosovo conflict and punish the attendant war crimes had primarily been concentrated in one direction, based on an implicit presumption that one side were the victims and the other side the perpetrators. As we shall see, the reality seems to have been more complex.  The structure of Kosovar Albanian society, still very much clan-orientated, and the absence of a true civil society have made it extremely difficult to set up contacts with local sources. This is compounded by fear, often to the point of genuine terror, which we have observed in some of our informants immediately upon broaching the subject of our inquiry.  Even certain representatives of international institutions did not conceal their reluctance to grapple with these facts: “The past is the past”, we were told; “we must now look to the future.”

The report says Thaçi’s links with organized crime go back to the late 1990’s, when his Drenica Group became the dominant faction within the KLA. By 1998 he was able to grab control of “most of the illicit criminal enterprises” in Albania itself. Thaçi and four other members of the Drenica Group are named as personally guilty of assassinations, detentions and beatings:

In confidential reports spanning more than a decade, agencies dedicated to combating drug smuggling in at least five countries have named Hashim Thaçi and other members of his Drenica Group as having exerted violent control over the trade in heroin and other narcotics… Thaçi and these other Drenica Group members are consistently named as “key players” in intelligence reports on Kosovo’s mafia-like structures of organised crime. I have examined these diverse, voluminous reports with consternation and a sense of moral outrage.

Marty notes that the international community chose to ignore war crimes by the KLA, enabling Thaçi’s forces to conduct a campaign of murdereous terror against Serbs, Roma, and Albanians accused of collaborating with the Serbs. Some 500 of them “disappeared after the arrival of KFOR troops on 12 June 1999,” about a hundred Albanians and 400 others, most of them Serbs. Some of these civilians had been secretly imprisoned by the KLA at different locations in northern Albania, the report adds, “and were subjected to inhuman and degrading treatment, before ultimately disappearing.” Captives were “filtered” in ad-hoc prisons for their suitability for organ harvesting based on sex, age, health and ethnic origin. They were then sent to the last stop – a makeshift clinic near Fushë-Krujë, close to the Tirana airport:

As and when the transplant surgeons were confirmed to be in position and ready to operate, the captives were brought out of the ‘safe house’ individually, summarily executed by a KLA gunman, and their corpses transported swiftly to the operating clinic.

Thaçi the Untouchable – The report states that Thaçi’s Drenica Group “bear the greatest responsibility” for the prisons and the fate of those held in them. It criticizes the governments supportive of Kosovo’s independence for not holding to account senior Albanians in Kosovo, including Thaçi, and of lacking the will to effectively prosecute the former leaders of the KLA. The diplomatic and political support by such powers “bestowed upon Thaçi, not least in his own mind, a sense of being untouchable.”

Marty concludes that “[t]he signs of collusion between the criminal class and the highest political and institutional office holders are too numerous and too serious to be ignored,” but “the international authorities in charge of the region did not consider it necessary to conduct a detailed examination of these circumstances, or did so incompletely and superficially.”

Following Marty’s presentation of the report to the Council of Europe in Paris on December 16 it will be debated by the Parliamentary Assembly in Strasbourg on January 25.

Media Reaction – Within days of the publication of Marty’s report, numerous of excellent articles were published in the mainstream media Europe linking his revelations with the broader problem of NATO’s war against the Serbs in 1999, the precedent it had created for Afghanistan and Iraq, and the nature of the “Kosovar” society today.

Neil Clark in The Guardian assailed “the myth of liberal intervention.” Far from being Tony Blair’s “good” war, he wrote, the assault on Yugoslavia was as wrong as the invasion of Iraq:

It was a fiction many on the liberal left bought into. In 1999 Blair was seen not as a duplicitous warmonger in hock to the US but as an ethical leader taking a stand against ethnic cleansing. But if the west had wanted to act morally in the Balkans and to protect the people in Kosovo there were solutions other than war with the Serbs, and options other than backing the KLA – the most violent group in Kosovan politics… Instead, a virulently anti-Serb stance led the west into taking ever more extreme positions, and siding with an organisation which even Robert Gelbard, President Clinton’s special envoy to Kosovo, described as “without any question, a terrorist group.”

Clark reminds us that it was the KLA’s campaign of violence in 1998 which led to an escalation of the conflict with the government in Belgrade. “We were told the outbreak of war in March 1999 with NASTO was the Serbian government’s fault,” he adds, yet Lord Gilbert, the UK defence minister, admitted “the terms put to Miloševic at Rambouillet [the international conference preceding the war] were absolutely intolerable … it was quite deliberate.” Then came the NATO occupation, under which an estimated 200,000 ethnic Serbs and other minorities from south Kosovo, and almost the whole Serb population of Pristina, have been forced from their homes. But as the Iraq war has become discredited, Clark concludes,

so it is even more important for the supporters of “liberal interventionism” to promote the line that Kosovo was in some way a success. The Council of Europe’s report on the KLA’s crimes makes that position much harder to maintain. And if it plays its part in making people more sceptical about any future western “liberal interventions”, it is to be warmly welcomed.

Tony Blair has some very bizarre friends, wrote Stephen Glover in The Daily Mail, but a monster who traded in human body parts beats the lot. The prime minister of ­Kosovo is painted by the report as a major war criminal presiding over a corrupt and dysfunctional state, Glover says, and yet this same Mr Thaci and his associates in the so-called Kosovo ­Liberation Army were put in place after the U.S. and Britain launched an onslaught in March 1999 against Serbia, dropping more than 250,000 and killing an estimated 1,500 blameless ­civilians:

This was Mr Blair’s first big war, and it paved the way for the subsequent Western invasion of Iraq. The crucial difference is that while the Left in ­general and the Lib Dems in particular opposed the war against Saddam ­Hussein, both were among Mr Blair’s main cheerleaders as he persuaded President Bill Clinton to join forces with him in crushing Serbia.

Both London and Washington tended to ignore atrocities committed by Hashim Thaci’s KLA, Glover concludes, and offered unacceptably draconian terms to the Serbs “because by that stage Blair and Clinton preferred war”:

Those were the days, of course, when most of the media thought Tony Blair could do no wrong. His military success in 1999 convinced him that Britain could and should play the role of the world’s number two policeman to the U.S. A ­messianic note entered his rhetoric, as at the 2001 Labour party conference, when he raved that ‘the kaleidoscope has been shaken… Let us ­­re-order this world about us.” … What happened in Kosovo helped shape subsequent events in Iraq and Afghanistan. It is richly ironic that ‘liberated’ Kosovo should now be a failed, gangster state… With his messianic certainties, the morally bipolar Tony Blair liked to divide the world into ‘goodies’ and ‘baddies’, having presumptuously placed himself in the first category. How fitting that this begetter of war after war should end up by receiving the Golden Medal of Freedom from a monster who traded in body parts.

U.S. Damage Limitation and Self-Censorship – Such commentary is light years away from the feeble and half-hearted reporting in the American mainstream media. The Chicago Tribune, for instance, did not deem it fit to publish a story about the Council of Europe report itself. It published two related items critical of the report instead, on the European Union expressing doubt about its factual basis and on the “government” of Kosovo planning to sue Dick Marty for libel. No major daily has published a word of doubt about Bill Clinton’s wisdom of waging a war on behalf of Thaçi and his cohorts a decade ago, or perpetuating the myth of it having been a good war today.

That Thaçi aka “The Snake” is a criminal as well as a war criminal is no news, of course. The intriguing question is who, on the European side, wanted to end his “untouchable” status, why now, and what is the U.S. Government – his principal enabler and abettor – going to do about it.

Unsurprisingly, Thaçi’s “government” dismissed the report on December 14 as “baseless and defamatory.” On that same day Hashim Thaçi wrote in a telegram to President Obama that “the death of Richard Holbrooke is a loss of a friend.” “The Snake” has many other friends in Washington, however, people like US senator (and current foe of WikiLeaks) Joseph Lieberman, who declared back in 1999 at the height of the US-led war against the Serbs that “the United States of America and the Kosovo Liberation Army stand for the same human values and principles … Fighting for the KLA is fighting for human rights and American values.” Thaçi’s photos with top U.S. officials are a virtual Who’s Who of successive Administrations over the past 12 years: Bill and Hillary Clinton, Albright, Bush, Rice, Biden, Wesley Clark…

Thaçi’s American enablers and their media minions are already embarking on a bipartisan damage-limitation exercise. Its twin pillars will be the assertion that the report rests on flimsy factual evidence, an attempt to discredit Dick Marty personally, and the claim the Council of Europe as an irrelevant talking shop.

jeudi, 13 janvier 2011

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Giovanni Andriolo

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

I rapporti tra Israele e Turchia, nell’anno appena trascorso, sembrano essere irrimediabilmente deteriorati.

Fin dal 1949, quando la Turchia fu il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, Ankara e Gerusalemme si sono mossi nella direzione di un costante avvicinamento reciproco, accelerato negli anni ’90 e culminato nel 1996 con il primo accordo di cooperazione militare.

Il nuovo millennio si era aperto con prospettive positive. Se l’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte della “Coalizione dei Volonterosi” aveva creato una certa ulteriore turbolenza nell’area mediorientale, questa si era ripercossa anche negli equilibri strategici dei paesi vicini. In un tale scenario, la Turchia fu considerata da Israele un importante attore di mediazione tra lo Stato ebraico e i paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente. In accordo con tale prospettiva, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era impegnato nel 2008 in un notevole sforzo diplomatico come mediatore nella crisi ormai quarantennale tra la Siria e lo Stato di Israele.

Tuttavia, con la salita al potere, nel 2002, del “Partito per la giustizia e lo sviluppo”, di matrice islamico-conservatrice di centro-destra, sulla scia dei partiti cristiano-conservatori o cristiano democratici d’Europa, le relazioni tra i due paesi hanno subito un certo raffreddamento.

Se da un lato, infatti, la politica estera turca si è orientata verso un maggiore attivismo nei confronti dei vicini mediorientali, tra cui l’Iran, la Siria, e, recentemente, l’Egitto, questo fatto ha necessariamente comportato un rallentamento della cooperazione con Israele. Nel tentativo di mediare tra le istanze provenienti dall’Occidente europeo e dall’Oriente vicino, due poli che rappresentano, in ultima analisi, le due anime del tessuto storico e sociale turco, la Turchia ha cercato di ricoprire il ruolo che diversi attori si aspettavano da Ankara, ponendosi come vero e proprio ponte tra le due aree. Sotto questo punto di vista, il nuovo orientamento della politica turca ha richiesto un necessario allentamento dei rapporti con Israele, durante i primi anni del 2000.

Successivamente, alcuni eventi internazionali hanno accentuato un tale distacco. Così, se nel 2008 Erdogan era riuscito a mettere in contatto telefonico il Presidente siriano Assad e il Primo Ministro israeliano Olmert, la tragica operazione Piombo Fuso da parte delle forze israeliane verso Gaza, alla fine dello stesso anno, aveva interrotto bruscamente il tentativo di dialogo tra i due paesi, vanificando lo sforzo diplomatico turco e provocando ad Ankara delusione e disappunto.

Tuttavia, è nel 2010 che si consuma la rottura ufficiale tra i due paesi, con il grave incidente avvenuto in acque internazionali ai danni della nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, e con l’uccisione da parte delle forze israeliane di sette attivisti turchi e di uno statunitense di origini turche. In quell’occasione, il Presidente turco Erdogan descrisse l’attacco israeliano come “terrorismo di stato” e ritirò il proprio ambasciatore da Israele. Da quel momento, i rapporti tra i due paesi hanno subito una brusca interruzione.

La Turchia si rivolge ad Est, Israele ad Ovest

L’attuale governo israeliano sembra aver trovato una soluzione all’aggravarsi della crisi con la Turchia. Perseguendo la politica, che tanto cara sembra essere allo Stato di Israele, di creazione di alleanze strategiche con paesi lontani a discapito dei rapporti con i paesi vicini, il Ministro degli Esteri Avigdor Liberman, assieme ai suoi collaboratori, si è impegnato nell’ultimo anno in una serie di incontri con Ministri e Capi di Stato di diversi paesi dell’area balcanica, con i quali ha inteso creare una serie di relazioni economiche, politiche e militari in funzione anti-turca.

Pertanto, se la Turchia sembra guardare verso Oriente e verso i paesi vicini ad est dei propri confini, Israele, d’altra parte, sembra rivolgersi al lato opposto, verso occidente. Questa volta, però, Israele si sta avvicinando ad un occidente nuovo, un occidente più vicino rispetto a quello oltreoceano, un occidente malleabile, e, soprattutto, situato a ridosso della Turchia. Si tratta della penisola balcanica, dell’area geografica che va dai Mari Adriatico e Ionio fino al Mar Egeo ed al Mar Nero, che partendo dalla linea Trieste – Odessa, a Nord, scende verso Sud fino a coprire tutta la Grecia.

È su quest’area che Israele ha concentrato i propri sforzi diplomatici nell’ultimo anno, attraverso una frequenza di visite e incontri ufficiali tutt’altro che sporadica, attraverso la conclusione di accordi di natura economico-militare con diversi paesi della regione, attraverso riferimenti diretti, nei discorsi ufficiali tenuti durante tali missioni, alla Turchia e al pericolo di reviviscenza del terrorismo islamico che i paesi balcanici starebbero correndo.

Le missioni israeliane del 2010 nei Balcani

Già dai primi giorni del 2010, l’apparato diplomatico israeliano ha mosso i primi passi verso l’area balcanica.

Così, il 5 gennaio il Ministro degli Esteri Liberman ha incontrato il Primo Ministro macedone Gruevski a Gerusalemme. Durante l’incontro, Liberman ha affermato che gli Stati balcanici rappresenterebbero la prossima destinazione della “Jihad globale”, che mirerebbe a stabilire infrastrutture nella regione e centri di reclutamento di attivisti. Una settimana dopo, il 13 gennaio, Lieberman ha visitato Cipro, dal cui Presidente ha ottenuto una serie di accordi di carattere commerciale, mentre il 27 gennaio ha incontrato il Primo Ministro ungherese a Budapest. Il giorno seguente, il Vice Ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon si è recato in visita in Slovacchia, nell’intento dichiarato di creare un fronte di opposizione al Rapporto Goldstone. A febbraio, Ayalon ha siglato un protocollo di rinnovo degli accordi sul trasporto aereo con il Ministro dei Trasporti ucraino, stabilendo una serie di agevolazioni di carattere commerciale negli scambi tra i due paesi e abolendo l’obbligo del visto per le visite tra i cittadini di Israele e Ucraina. A marzo, si è svolto a Gerusalemme l’annuale incontro delle delegazioni greca e israeliana, occasione per ribadire i saldi rapporti tra i due paesi e per parlare di sicurezza nella regione mediterranea, in particolare della minaccia rappresentata dall’Iran. In aprile, Liberman si è impegnato in una visita di tre giorni in Romania, dove ha discusso con il Presidente Băsescu di questioni di sicurezza, dilungandosi sulle minacce rappresentate da Iran e Siria. In maggio, si sono svolti incontri tra Liberman e rappresentanti dei governi di Macedonia, Croazia e Bulgaria, durante i quali sono stati discussi piani di cooperazione in ambito economico e commerciale.

Fino a maggio, quindi, gli incontri tra il Ministro israeliano e i suoi colleghi dei diversi paesi balcanici sembravano presentare finalità perlopiù economico-commerciali e di creazione di un consenso in funzione anti-iraniana. Dopo l’attacco alla Freedom Flottilla, avvenuto nel maggio del 2010, e la conseguente rottura delle relazioni con la Turchia, i toni degli incontri di Liberman con i leader balcanici sono cambiati.

Durante l’estate, Liberman ha ricevuto a Gerusalemme il Primo Ministro greco Papandreou. In quell’occasione, il Ministro israeliano ha ringraziato apertamente la Grecia per aver cooperato con Israele in occasione dei recenti fatti della Freedom Flottilla e ha invitato l’Unione Europea a prendere posizione proattiva nei confronti di Libano, Siria e Turchia, affinché questi paesi evitino dannose provocazioni future. L’inclusione della Turchia tra i paesi ostili, a fianco di Libano e Siria, segna da un lato il fallimento del progetto di mediazione, da parte di Erdogan, tra Gerusalemme e Damasco e sancisce, dall’altro, la rottura ufficiale con Ankara. A luglio, si è riunito a Gerusalemme il Comitato Economico Israelo-Ucraino, durante il quale rappresentanti dei due paesi hanno discusso di questioni di carattere economico e commerciale. Con il Ministro degli Esteri ucraino Gryshchenko, poi, Liberman ha firmato un accordo di cancellazione del visto per le visite reciproche dei cittadini dei due paesi. All’inizio di settembre, Liberman si è recato a Cipro e in Repubblica Ceca per discutere con i Ministri degli Esteri locali delle relazioni tra i rispettivi paesi e della sicurezza nella regione. Ad ottobre, Liberman ha siglato un trattato sull’aviazione con il Ministro degli Esteri greco Droutsas. Il trattato prevede, tra l’altro, l’estensione del numero delle rotte aeree tra i due paesi e nuovi meccanismi di negoziazione delle tariffe reciproche. A dicembre, i giornali bulgari hanno mostrato le foto di un incontro a Sofia tra il Primo Ministro bulgaro Borisov e il capo dei servizi segreti israeliani Meir Dagan. Il Presidente bulgaro Borisov avrebbe infatti chiesto, subito dopo la propria elezione, di incontrare Netanyahu per offrire la cooperazione del proprio paese ad Israele in diversi campi: da sicurezza e intelligence al permesso per i piloti israeliani di svolgere esercitazioni sui cieli della Bulgaria. In cambio, Borisov auspicherebbe di ottenere l’aiuto israeliano nello sviluppo di più moderne tecnologie per il proprio paese e l’incremento verso la Bulgaria del flusso di turisti israeliani, che sembrano finora preferire la Turchia. Anche la Grecia avrebbe accordato all’aeronautica israeliana il permesso di esercitarsi sui propri cieli, e altrettanto avrebbe concesso la Romania.

Sempre a dicembre, Liberman ha incontrato in visite ufficiali i Capi di Stato di Bulgaria, Slovenia e Bosnia Erzegovina, ribadendo con tutti i solidi legami tra Israele e i rispettivi paesi. Inoltre, Israele ha fornito all’Albania una serie di aiuti per supportare il Governo locale nell’affrontare gli allagamenti che hanno colpito il paese all’inizio di dicembre.

I vantaggi per Israele e per i Balcani

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i paesi balcanici sarebbero favorevoli ad un avvicinamento con Israele per diversi motivi. Innanzitutto, la crisi nei rapporti tra Israele e Turchia aprirebbe per i Balcani diverse possibilità per insinuarsi e per sottrarre alla Turchia stessa le relazioni speciali che godeva con Gerusalemme. I paesi balcanici sono tendenzialmente insofferenti alla Turchia per diverse ragioni di carattere storico, religioso, culturale. Molti Stati della regione balcanica hanno subito per lunghi secoli la dominazione ottomana, alcuni (i paesi abitati da Bosniaci ed Albanesi) sarebbero preoccupati da una minaccia di diffusione del fondamentalismo islamico nei propri territori, altri hanno dispute di natura territoriale con la Turchia, altri ancora sperano di risollevare le proprie economie attraverso una stretta cooperazione con Israele.

In quest’ottica, la Bulgaria e la Grecia sembrano essere i due paesi più interessati ad approfondire i rapporti con Israele. La disputa con la Turchia in relazione al futuro di Cipro e la forte crisi economica che ha colpito la Grecia, spingerebbero il Presidente Papandreou verso una comunanza di interessi con Gerusalemme in funzione anti-turca e verso uno sbocco ad est di natura economico-commerciale. D’altra parte, Israele si trova a dover colmare il vuoto di alleanze strategiche lasciato dal deterioramento dei rapporti con la Turchia. La Grecia, in quest’ottica, risulta particolarmente attraente per Gerusalemme, poiché, oltre a presentare un’aperta ostilità nei confronti di Ankara e ad essere posizionata al confine con la Turchia, risulta essere membro dell’Unione Europea e, pertanto, potrebbe rivelarsi una risorsa strategica importante per Gerusalemme all’interno del Consiglio a Bruxelles, assieme ad altri paesi balcanici membri. Per questi motivi, Grecia e Israele hanno dichiarato il 2011 come l’anno della propria collaborazione strategica.

Alcune conclusioni

La regione balcanica assume per Israele, nella congiuntura attuale, un’importanza strategica fondamentale.

Gli ultimi eventi riguardanti Israele e l’uso della forza da parte del suo esercito (si vedano l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008 o l’attacco alla Freedom Flottilla del 2010) hanno guastato l’immagine del paese sullo scenario internazionale e lo hanno privato di un importante alleato a maggioranza musulmana, la Turchia. Risulta pertanto necessario per Israele recuperare un certo consenso internazionale e colmare il vuoto lasciato ad ovest dall’alleato turco.

La politica del governo di Netanyahu sembra attestarsi, in tali circostanze, in linea con le strategie seguite dallo Stato israeliano fin dalla sua formazione. Piuttosto di instaurare un dialogo con i propri vicini, che nella fattispecie sarebbero rappresentati da Turchia ad ovest e dai paesi mediorientali suoi confinanti ad est, Israele sembra preferire l’avvicinamento con paesi più lontani, ma in grado di effettuare una certa pressione nei confronti dei paesi vicini. In quest’ottica, i paesi balcanici si configurano come l’obiettivo ideale per Israele.

Innanzitutto per motivi geografici: la regione balcanica, infatti, rappresenta il contatto territoriale della Turchia ad ovest del Bosforo con l’Europa. Il confine terrestre turco infatti tocca la Bulgaria e la Grecia, che abbiamo visto essere i principali interlocutori di Israele nei Balcani, e anche via mare la Turchia si affaccia ad ovest sulle coste greche e cipriote. Di fatto, i Balcani rappresentano la porta d’ingresso della Turchia in Europa. Sotto questo punto di vista, l’eventuale ostilità balcanica nei confronti della Turchia rappresenterebbe un ostacolo simbolico e reale non indifferente per le prospettive future del paese di Erdogan.

Il ruolo di ponte tra Occidente ed Oriente che Ankara ha assunto e che molti leader europei ed extraeuropei auspicano non può prescindere da buone relazioni tra Turchia e gli stati confinanti ad ovest come ad est. Tale ruolo è uno degli argomenti più importanti usato dalle voci che stanno promuovendo l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Se, come è già stato sottolineato, il governo turco si è mosso negli ultimi anni verso un avvicinamento dei paesi mediorientali anche in chiave di mediazione (ne è esempio la telefonata del 2008 tra Assad e Olmert organizzata da Erdogan), un rafforzamento dei rapporti con l’Europa risulta di fondamentale importanza. In una tale ottica, uno svilimento delle relazioni tra la Turchia e la regione che rappresenta l’ingresso all’Europa, i Balcani, risulterebbe oltremodo dannosa per il processo di costituzione del ponte turco tra Oriente ed Occidente. Tra i paesi balcanici, la Slovenia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria e la Grecia sono già membri dell’Unione Europea, mentre Croazia, Montenegro e Macedonia sono, assieme alla Turchia stessa, i principali candidati. L’ostilità, da parte di questi paesi, verso la Turchia e verso il suo ingresso nell’Unione Europea potrebbe compromettere la saldatura di Ankara con Bruxelles e far crollare uno dei due lati del ponte, quello occidentale.

In quest’ottica, Israele può soltanto guadagnare da un tale scenario. Se, infatti, il progetto del ponte turco fosse portato a termine e la Turchia diventasse veramente un mezzo di mediazione delle istanze occidentali ed orientali, l’importanza del consenso dello Stato di Israele nella regione passerebbe in secondo piano. Infatti, le pressioni da parte mediorientale e da parte europea, una volta coese dalla mediazione turca, risulterebbero insopportabili per Gerusalemme, che si troverebbe costretta ad accordare condizioni di pace, magari non così vantaggiose per Israele, ai palestinesi e ai paesi vicini, come la Siria, con cui sussistono ancora dispute territoriali.


* Giovanni Andriolo, dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), collabora con la rivista Eurasia.

jeudi, 23 décembre 2010

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans?

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Friedrich-Wilhelm MOEWE :

Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans ?

 

Que se passe-t-il actuellement dans les Balkans ? Une islamisation rampante sans qu’il n’y ait une véritable immigration. Il existe bel et bien une volonté politique d’installer un noyau dur islamisé dans les Balkans : c’est ce que nous apprennent les récentes révélations de documents secrets américains et de dépêches d’ambassades ; on y trouve bon nombre de notes sur les dirigeants turcs actuels, dont les ambitions ne sont guère modestes et qui visent clairement à avancer les pions de la Turquie non seulement en direction de l’Union Européenne mais aussi et surtout en direction des Balkans. Lorsque le ministre turc des affaires étrangères déclare son opinion et dit urbi et orbi qu’une nouvelle domination ottomane dans les Balkans profiterait à la région et que, simultanément, les minorités musulmanes balkaniques croissent en nombre, on peut dire, sans risque d’exagérer, que l’islam, sous la houlette turque, est en train de gagner du terrain dans les Balkans. D’où, il nous paraît légitime de poser la question : quelles sont les raisons qui font que ce soient justement les Balkans qui posent un problème récurrent en Europe et pour l’Europe ? Les problèmes n’ont pas seulement émergé après la seconde guerre mondiale car les turbulences ethniques et politiques agitaient depuis longtemps déjà la région, qui accumulait les difficultés. Les racines de la situation actuelle, pour laquelle il n’y a pratiquement aucune solution en vue sur la scène politique internationale, datent d’il y a quelques décennies. Il faut en chercher les prémisses dans les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la dernière guerre mondiale : les pays des Balkans ont été « libérés » de manière atypique ; ils n’ont pas été libérés par les armées de l’un des grands vainqueurs mais se sont en quelque sorte « auto-libérés », par l’intermédiaire des mouvements de partisans de Josip Broz, dit « Tito », en Yougoslavie, et d’Enver Hoxha, en Albanie. Tito, qui avait du génie politique, qui était un stratège rusé, a réussit à consolider son pouvoir dans les Balkans en maintenant un certain équilibre ethno-religieux et en imposant un socialisme paternaliste, tout en se proclamant l’adepte d’une solidarité internationale avec les pays non alignés.

 

La Yougoslavie s’est effondrée après la fin du titisme et beaucoup de sang a coulé, alors que le reste de l’Europe centrale et orientale se transformait pacifiquement dans les années 90 du 20ème siècle, tandis que la question allemande trouvait sa solution dans une réunification pacifique.

 

Il y avait donc, après le communisme, une diversité religieuse et ethnique dans les Balkans, ce qui invitait les nations occidentales, elles-mêmes fort diversifiées dans leurs composantes, à se choisir des partenaires dans le processus d’intégration à l’UE et aux autres instances européennes. Les affinités électives, nées de l’histoire, entre peuples d’Europe centrale et peuples d’Europe orientale, avaient aussi des connotations religieuses : l’Allemagne et l’Autriche se sentaient plus proches de la Croatie ; la France et la Grande-Bretagne semblaient privilégier la Serbie. Les Bosniaques musulmans ont pu et peuvent toujours compter sur le soutien de la Turquie et des pays arabes, même si l’Autriche jouit en Bosnie d’un capital historique positif.

 

La crise balkanique, qui s’éternise, a montré que l’Europe eurocratique est incapable de faire la paix dans son environnement immédiat, ce qui a pour corollaire gênant de démontrer que les Etats-Unis sont « irremplaçables ».

 

Le Traité de paix de Dayton est considéré comme une sorte d’armistice ethno-religieux orchestré par les Etats-Unis, qui, à l’époque, s’étaient enthousiasmés pour le livre de Samuel Huntington, « The Clash of Civilizations » (« Le choc des civilisations »). Ce traité donne, d’une part, l’impression illusoire d’être systématique, d’avoir bétonné la séparation entre les ennemis irréductibles de la région, et, d’autre part, d’avoir voulu maintenir l’islam local sous contrôle. Ainsi, on a cru que la Fédération croato-musulmane en Bosnie-Herzégovine était une structure bien conçue et inévitable, où les musulmans allaient être placés sous le contrôle de catholiques croates intransigeants.

 

L’avenir n’a pas été aussi simple : la diplomatie internationale a commis bon nombre de bourdes depuis 2001. Ainsi, les Croates de Bosnie ont été considérablement affaiblis, au point de ne plus représenter ce qu’ils représentaient auparavant ; ensuite, la création de nouveaux Etats, comme le Monténégro et le Kosovo, qui sont tous deux des Etats à majorité musulmane réelle ou potentielle, constitue un nouvel élément contribuant à l’affaiblissement général des entités politiques non musulmanes de la région. La situation dans les Balkans n’a pas trouvé de solution et c’est là une invitation aux Turcs à restaurer les structures de feu l’Empire ottoman, puisque l’UE n’a ni stratégie ni projet pour la région et ses membres agissent de manière désordonnée et contradictoire. D’où il ne reste que deux facteurs d’ordre possibles dans les Balkans : d’une part, un islam promu par la Turquie et, d’autre part, une orthodoxie slave en phase de réorganisation. Reste à savoir si ces deux facteurs en lice se heurteront ou trouveront entre eux des intérêts convergents.

 

Force est de constater que seules des structures de domination très expérimentées, comme le furent celles des Ottomans ou des Habsbourg d’Autriche, ont pu gérer le paysage politique très fragmenté de l’Europe du Sud-Est. Tito a réussi, lui aussi, parce son idéologie communiste avait des allures impériales et que sa façon de procéder avait quelque chose de monarchique. L’UE, malgré tous ses efforts, pourra-t-elle obtenir des résultats ? Rien n’est moins sûr.

 

On peut observer très nettement une forte croissance de la population dans les régions traditionnellement habitées par des Musulmans, ce qui fait qu’aujourd’hui la Bosnie-Herzégovine, pour la première fois depuis plusieurs siècles d’histoire, possède désormais une majorité absolue musulmane. On n’en est pas encore vraiment conscient car le dernier recensement complet date de 1991. Que les Musulmans soient majoritaires maintenant ne fait toutefois aucun doute, vu les données crédibles qui sont avancées pour étayer ce fait. Le Monténégro est un autre Etat sur le point de devenir majoritairement musulman. Au Kosovo, ce sont les clivages religieux qui ont entrainé la guerre interethnique et c’est l’islam qui en est sorti vainqueur sans aucun doute possible. La Macédoine, elle aussi, a une population musulmane qui fait le tiers du total démographique du pays. Autre indicateur qu’il convient de remarquer : ce n’est pas qu’en Albanie que l’on rêve d’une Grande Albanie, mais aussi au Kosovo, où, pour atténuer l’effet négatif que pourrait avoir tout discours grand-albanais sur les Européens eurocratisés, on parle souvent d’ « Albanie naturelle ». Or tout Etat grand-albanais serait à domination musulmane et s’insèrerait parfaitement dans les plans d’hégémonie turque, de facture néo-ottomane.

 

Friedrich-Wilhelm MOEWE.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ). 

vendredi, 17 décembre 2010

Il ritorno turco nei Balcani

Il ritorno turco nei Balcani

di Alessandro Daniele

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il ritorno turco nei Balcani

 

La partecipazione, registratasi lo scorso luglio, del primo ministro turco Erdogan a fianco del presidente bosniaco Silajdžic e di quello serbo Tadic alle commemorazioni per il 15° anniversario del genocidio di Srebrenica ha segnato il ritorno della Turchia nei Balcani e l’esportazione della sua politica di “zero problemi coi vicini” anche nella ex Jugoslavia.

In particolare la presenza di Tadic all’evento ha rappresentato un grande successo per la diplomazia turca, che sin dall’autunno del 2009 aveva favorito l’inizio del dialogo tra Bosnia e Serbia con la visita del presidente turco Abdüllah Gül a Belgrado. Tale visita portò nell’aprile successivo alla firma di una dichiarazione con la quale Turchia, Bosnia e Serbia si impegnavano a promuovere una politica regionale basata sulla sicurezza ed il dialogo reciproco. Inoltre il 12 giugno scorso Erdogan, durante la sua visita nei Balcani, si recò a Belgrado per incontrare il premier serbo Cvetkovic e stipulare sei accordi di cooperazione che hanno sancito la libera circolazione delle persone tra Turchia e Serbia, nonché l’inizio di una maggiore cooperazione commerciale tra i due Paesi che culminerà nell’istituzione di una zona di libero scambio.

Altro importante tema di cui si è discusso a Belgrado è stato quello legato ai trasporti: in tale settore è stato delineato un progetto di cooperazione turco-serba in virtù del quale alcuni aeroporti militari dei due Paesi saranno aperti al traffico civile. Tale cooperazione, inoltre, porterà alla probabile acquisizione da parte della Turkish Airlines della compagnia serba Jat Airways, nonché allo stanziamento di circa 750 milioni di euro destinati a finanziare la costruzione di un’autostrada che collegherà Serbia e Montenegro passando per il Sangiaccato. Proprio quest’ultimo ha rappresentato l’ultima tappa del viaggio nei Balcani di Erdogan, il quale a Novi Pazar ha inaugurato un nuovo centro culturale turco.

La Turchia nei Balcani cento anni dopo

L’attuale attivismo turco nei Balcani coincide all’incirca con il centenario della “cacciata” dell’Impero ottomano dalla penisola. In occasione della prima guerra balcanica del 1912, infatti, un’alleanza composta da Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria sconfisse l’Impero, provocando l’inizio del ritiro definitivo della potenza ottomana dalla regione, ritiro che si sarebbe completato all’indomani della sconfitta nella Grande Guerra, combattuta dai turchi a fianco degli Imperi Centrali di Germania ed Austria-Ungheria.

Cento anni dopo è ovviamente un’altra Turchia quella che torna nei Balcani: si tratta di un Paese sostanzialmente democratico e moderno, con grandi potenzialità economiche, che si pone tra l’altro come autorevole membro della Nato e fedele alleato degli americani.

I Balcani, invece, rappresentano una realtà geopolitica per molti aspetti simile a quella di cent’anni fa: dopo una lunga parentesi storica, che andò dalla prima guerra mondiale alla fine della guerra fredda, nella regione sono “ricomparsi” piccoli Stati, chi più chi meno dipendenti dalle potenze europee, che a volte presentano caratteristiche “sui generis” come nel caso della Bosnia e del Kosovo, la prima persa dalla Turchia nel 1908 ed il secondo abbandonato dai turchi a seguito della sconfitta nella prima guerra balcanica.

Il dato davvero curioso è rappresentato dal fatto che la Turchia si trova oggi in compagnia del gruppo dei Paesi dei Balcani occidentali che aspirano ad aderire all’Unione Europea: a parte la Croazia, il cui ingresso nell’Unione sembra essere prossimo, tutti gli altri Stati (cioè Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Albania e Kosovo) sono i Paesi che per secoli hanno fatto parte dell’Impero ottomano.

La questione della stabilizzazione della regione balcanica

Al di là delle comuni radici storiche, la Turchia è attualmente impegnata in iniziative concrete volte anche a contribuire alla definitiva stabilizzazione della regione balcanica. In quest’ottica il suo interesse si è concentrato principalmente sulla Bosnia e si è concretizzato nell’ingresso effettivo della diplomazia turca sulla scena balcanica, registratosi all’indomani del fallimento del vertice di Butmir (l’aeroporto di Sarajevo) dell’ottobre 2009. Tale vertice è consistito in un incontro organizzato da europei e americani che avrebbe dovuto sbloccare l’impasse istituzionale che negli ultimi anni ha impedito le riforme in Bosnia, promuovendo il superamento degli accordi di pace di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra.

A partire dall’ottobre del 2009 l’iniziativa turca nei Balcani è dunque proseguita senza soste. Il 16 ottobre il ministro degli esteri turco Davutoglu, intervenendo ad un Convegno tenutosi a Sarajevo, parlò di una storia ed un futuro comune per la Turchia e i Balcani. Dieci giorni dopo il presidente turco Abdullah Gül dichiarò che Serbia e Turchia sono Paesi chiave nei Balcani, mentre il presidente serbo Boris Tadi parlò di collaborazione strategica tra i due Paesi.

Lo scorso 24 aprile, poi, si è svolto ad Istanbul un vertice definito storico tra i presidenti di Turchia, Bosnia Erzegovina e Serbia: tale vertice si è concluso con una Dichiarazione in cui si affermava l’impegno congiunto volto a promuovere la stabilizzazione della regione balcanica. Esso fu inoltre preceduto da un incontro, avvenuto a Belgrado, tra Davotuglu ed il suo omologo serbo Jeremic e quello spagnolo Moratinos, presidente di turno dell’Unione Europea, per discutere del vertice Ue/Balcani occidentali che si sarebbe tenuto il 2 giugno ed al quale avrebbe partecipato anche la Turchia. Vertice il cui maggior successo è stato quello di aver messo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di tutti i Paesi della regione, compresi quelli di Serbia e Kosovo. E sembra proprio che questo risultato sia stato raggiunto anche grazie alla Turchia, alla quale la Serbia aveva chiesto di adoperarsi per convincere gli esponenti kosovari a partecipare all’evento.

Considerazioni conclusive

Alcuni osservatori si chiedono se l’attivismo turco nei Balcani sia totalmente autonomo o se sia stato ispirato dagli Stati Uniti. Di certo esso è visto positivamente sia da Washington che da Bruxelles, come ha dimostrato l’invito a partecipare al vertice Ue/Balcani del 2 giugno. D’altronde ad Ankara questo ruolo non può che far piacere, non solo alla luce delle sue ambizioni di potenza regionale, ma anche perché può consentire alla Turchia di conquistare consensi preziosi soprattutto nell’ottica di una felice prosecuzione dei negoziati di adesione all’Unione europea. Negoziati il cui esito positivo è tutt’altro che sicuro anche alla luce delle resistenze di alcuni Paesi membri e delle perduranti difficoltà per l’Unione derivanti dalle adesioni del 2004 e del 2007.

Al di là comunque dell’eventuale ingresso turco nell’Ue, appare sempre più evidente come la Turchia, spesso stanca di attendere un’Europa che preferisce impegnarsi nell’opera di mediazione tra Hamas e Fatah in Palestina o nella ricerca di un accordo con Brasile e Iran sul nucleare, stia cercando in tutti i modi di assumere un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale.

Per ulteriori approfondimenti si veda dal sito di Eurasia:

La politica estera della Turchia: da baluardo occidentale a ponte tra Europa ed Asia

Riferimenti bibliografici

Franzinetti, Guido. I Balcani dal 1878 a oggi. Carocci: 2010.

Bianchini S. – Marko J. Regional cooperation, peace enforcement, and the role of the treaties in the Balkans. Longo Angelo: 2007.

Zürcher, Erik J. Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri. Donzelli, Roma: 2007.

Fiorani Piacentini, Valeria. Turchia e Mediterraneo allargato. Democrazia e democrazie. Franco Angeli: 2006.

Tremul, Francesco. La Turchia nel mutato contesto geopolitico. UNI Service: 2006.

Bozarslan, Hamit. La Turchia contemporanea. Il Mulino, Bologna: 2006.

Biagini, Antonello. Storia della Turchia contemporanea. Bompiani: 2002.

Hale, William. Turkish Foreign Policy. 1774-2000. Frank Cass, London-Portland: 2002.

* Alessandro Daniele è dottore in Relazioni e Politiche Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)

 

dimanche, 12 décembre 2010

Geopolitische Hintergründe der NATO Intervention im Kosovo

Archives - 2000

 GEOPOLITISCHE HINTERGRÜNDE

DER NATO INTERVENTION IM KOSOVO

Serge TRIFKOVIC

 Ex: http://trifkovic.mystite.com/

Aussage vor dem  ständigen Komitee für auswärtige Angelegenheiten und internationalen Handel im kanadische Unterhaus, Ottawa, 17. Februar 2000

corridor8.gifDer Krieg der Nato gegen Jugoslawien im Jahre 1999 markiert einen deutlichen Wendepunkt, nicht nur für Amerika und die NATO sondern auch für den  gesamten Westen. Das Prinzip der nationalen Souveränität und sogar das Prinzip der Rechtstaatlichkeit wurde Namens einer angeblichen humanitären Ideologie untergraben. Tatsachen verdrehte man zu Erfindungen und sogar diese Erfindungen, die ausgegeben wurden um die eigene Handlungsweise zu rechtfertigen, erheben keinen Anspruch auf Glaubwürdigkeit mehr.

 

Traditionelle Systeme für den Schutz nationaler Freiheiten auf politischer, rechtlicher und wirtschaftlicher Ebene sind jetzt in Instrumente für deren Zerstörung umgewandelt worden. Aber weit entfernt davon, dass die westlichen Regierungseliten mit ihrem rücksichtslosen Durchsetzen der Ideologie einer multiethnischen Gesellschaft und internationalen Menschenrechten ihre Vitalität zeigen, könnte ihr Engreifen im Balkan möglicherweise der verstörende Ausdruck des kulturellen und moralischen Zerfalls eben dieser herrschenden Eliten sein. Ich werde darum meine Anmerkungen den Folgen des Krieges widmen, in Hinblick auf das sich bildende neue internationale System und die letztendliche Auswirkung auf die Sicherheit und Stabilität selbst der westlichen Welt.

 

Fast ein Jahrzehnt trennte Wüsten-Sturm von der Bombardierung aus humanitären Gründen. 1991 war der Vertrag von Maastricht unterzeichnet, und mit der Verlauf des restlichen Jahrzehnts hat die stückweise Usurpierung der traditionellen europäischen Souveränität durch ein Regime von kontrollierenden Körperschaften in Brüssel und nicht gewählten Beamten platzgegriffen, die sich mittlerweile dreist genug fühlen Osterreich vorschreiben zu können, wie es seine eigenen Angelegenheiten zu führen hätte. Auf dieser Seite des Ozeans (der Autor spricht in Ottawa. d. Übers.) Gab es die Einsetzung der NAFTA und 1995 brachte die Uruguay-Runde des GATT  die WTO. Die neunziger Jahre waren somit ein Jahrzehnt in dem nach und nach die neue internationale Ordnung begründet wurde. Das Anschwärzen nationaler Souveränität hypnotisierte die Öffentlichkeit derart, dass sie dem Prozess der Demontage gerade der Institutionen applaudierten, die noch alleiniger Ausdruck der Hoffnung auf Volksvertretung waren. Der Prozess ist soweit fortgeschritten, dass Präsident Clinton behaupten kann (in: Ein gerechter und notwendiger Krieg, New York Times, 23. Mai 1999): Hätte die NATO Serbien nicht bombardiert, wäre sie selbst in Hinblick auf gerade die Werte, für die sie selbst steht, unglaubwürdig geworden.

 

Tatsächlich aber war der Krieg sowohl unrecht als auch unnötig. Aber das bemerkenswerte an Clintons Aussage lag darin, dass er vor aller Öffentlichkeit das internationale System, das seit dem Westfälischen Frieden (1648) besteht, für null und nichtig erklärt hat. Es war zwar ein unvollkommenes System, dass oftmals gebrochen wurde, es  stellte aber die Grundlage für internationale Verständigung dar, an die sich lediglich einge wenige rote und schwarze Totalitaristen offenkundig nicht gehalten haben. Seit dem 24. März 1999 wird es mit der sich immer deutlicher abzeichnenden Clinton Doktrin ersetzt, die eine Blaupause der Breschnev Doktrin der eingeschränkten Souveränität darstellt und die seinerzeit die sowjetische Invasion in der Tschechoslowakei 1968 rechtfertigte. Wie sein sowjetischer Vorgänger gebrauchte Clinton eine abstrakte und weltanschaulich befrachtete Vorstellung - die der universellen Menschenrechte- als Vorwand für die Verletzung des Rechts und der Tradition. Die Clinton Doktrin hat ihre Wurzeln in der beiden Parteien eigenen Hybris der Washingoner aussenpolitischen "Elite", der ihr eigens Gebräu von ihrer Rolle als "letzter und alleiniger Supermacht" zu Kopf gestiegen ist. Rechtliche Formalitäten sind passé und moralische Vorstellungen - die in internationalen Angelegenheiten niemals sakrosankt sind - werden durch einen zynischen Gebrauch einer situationsgebundenen Moral ersetzt, je nach Lage der im Bezugsystem der Supermacht handelnden.

 

Nun ist also wieder imperiales Grossmachtdenken zurückgekehrt, aber in neuer Form. Alte Religion, Fahnen und nationale Rivalitäten spielen keine Rolle. Aber das starke Verlangen nach Aufregung [exitement] und Wichtigkeit, das die Briten bis nach Peking, Kabul und Khartum, die Franzosen nach Faschoda (s. Fussnote#1 d. Übers.)  und Saigon, die Amerikaner nach Manila trieb ist jetzt wieder aufgetaucht. Das Resultat war, dass ein unabhängiges Land mit einem Krieg überzogen wurde, weil es sich weigerte, fremde Truppen auf seinem Boden zuzulassen. Alle anderen Rechtfertigungen sind nachträgliche Rationalisierungen. Die Mächte, die diesen Krieg geführt haben, haben es begünstigt und dazu aufgehetzt, dass eine ethnische Minderheit die Loslösung betreiben konnte, eine Loslösung, die, wenn sie einmal formal vollzogen ist, manch eine europäische Grenze in Frage stellen wird. In Hinblick auf jede andere europäische Nation würde diese Geschichte surreal klingen. Die Serben wurden jedoch so weitgehend dämonisiert, dass sie nicht mehr davon ausgehen können, dass man sie so wie andere behandelt.

 

Doch die Tatsache dass der Westen mit den Serben machen kann, was er will, erklärt noch nicht, warum er das tun soll. Es ist kaum Wert, dass man es widerlegt, und dennoch: Die fadenscheinigen Ausreden für eine Intervention. Humanitäre Gründe wurden angeführt. Aber was ist mit Kaschmir, Sudan, Uganda, Angola, Sierra Leone, Sri Lanka, Algerien? Feinsäuberlich auf Video aufgenommen und amanpourisiert [s. Fussnote#2 d. Übers.], jedes hätte zwölf Kosovos leicht aufgewogen. Natürlich gab es keinen Völkermord. Verglichen mit den Schlachtfeldern der Dritten Welt war das Kosovo ein unbedeutender Konflikt auf niedriger Ebene, etwas schmutziger vielleicht als in Nordirland vor einem Jahrzehnt, aber weit geringer als Kurdistan. Bis Juni 1999 gab es 2108 Opfer auf allen Seiten im Kosovo, in einer Provinz von über 2 Millionen Menschen. Es schneidet selbst im Vergleich zu Washington D. C. (Bevölkerung: 600 000) mit seinen 450 Selbstmorden besser ab. Leichen zählen ist unanständig, aber wenn man die Brutalität und ethnischen Säuberungen bedenkt, die von der NATO ignoriert oder, wie die 1995 in Kroatien oder die in der Osttürkei, sogar geduldet wurden, dann wird deutlich, dass es im Kosovo nicht um universale Prinzipien ging. In Washington gilt Abdullah Ocalan als Terrorist, aber die UCK sind Freiheitskämpfer.

 

Worum ging es dann? Die Stabilität der Region, wurde als nächstes behauptet. Wenn wir den Konflikt jetzt nicht stoppen, greift er auf Mazedonien, Griechenland, die Türkei und praktisch den ganzen Balkan über. Gefolgt von einem  grossen Teil Eurpopas. Aber die Kur - Serbian solange bombardieren bis ein ethisch reines albanisches Kosovo unter den wohlwollenden Augen der NATO an die albanische UCK Drogen-Maffia übergeht - wird eine Kettenreaktion in der exkommunstischen Hälfte Europa auslösen.

 

Sein erstes Opfer wird die frühere jugoslawische Republik Mazedonien sein, in der die widerspenstige albanische Minderheit ein Drittel der Gesamtbevölkerung ausmacht. Wird denn das Modell Pristina nicht auch von den Ungarn in Rumänien, (die dort zahlreicher sind als Albaner im Kosovo), und in der Südslowakei gefordert werden? Was soll die Russen in der Ukraine, in Moldavien, in Lettland und im Norden Kasachstan davon abhalten sich dem anzuschliessen? Oder die Serben und Kroaten im chronisch instabilen Dayton - Bosnien? Und wenn schliesslich, die Albaner auf Grund ihrer Anzahl ihre  Trennung bekommen, trifft dass selbe dann auch auf die Latinos in Südkalifornien oder Texas zu, sobald die ihre angelsächsischen Nachbarn zahlenmässig überwiegen und eine zweisprachige Staatlichkeit verlangen könnten die zu einer Wiedervereinigung mit Mexiko führen würde? Sollen Russland und China die Vereinigten Staaten mit Bombardierung drohen, wenn es nicht einlenkt?

 

Das was jetzt im Kosovo herausgekommen ist, stellt ein äusserst unvollkommenes Modell einer neuen Balkanordnung dar, das die Ambitionen aller ethnischen Gruppen des früheren Jugoslawiens, mit Ausnahme der Serben, zu befriedigen sucht. Das ist für alle Betroffenen eine zerstörerische Strategie. Auch wenn man sie jetzt mit Gewalt zum Gehorsam gezwungen hat, sollen die Serben bei der entstehenden künftigen Ordnung der Dinge nichts einzusetzen haben. Früher oder später werden sie darum kämpfen, den Kosovo zurück zugewinnen. Der Frieden von Karthago, den man heute Serbien auferlegt, wird für künftige Jahrzehnte zu chronischer Instabilität und Streit führen. Er wird den Westen auf dem Balkan in einen Morast verstricken und, sobald Mr. Clintons Nachfolger kein Interesse mehr daran haben, für die auf üblem Wege gewonnenen Erwerbungen ihrer Balkanverbündeten gerade zu stehen, garantiert einen neuen Krieg geben.

 

Die NATO hat jetzt gewonnen, aber der Westen hat verloren. Der Krieg hat genau die Prinzipien unterminiert, die den Westen ausmachen, nämlich, die Herrschaft des Rechts. Der Anspruch auf Menschenrechte kann weder für die Herrschaft des Rechts noch der Moral jemals die Grundlage bilden. Universelle Menschenrechte, die von ihrer Verwurzelung im jeweiligen Ort und der Zeit losgelöst sind, öffnen jedem Hauch einer Empörung und jeder Laune des Augenblicks darüber, wer gerade ein Opfer darstellt, den Weg. Die fehlgeleitete Bemühung, die NATO von einer Verteidigungs-gemeinschafft in eine Mini-U.N. zu verwandeln, mit selbstverfassten Verantworlichkeiten über das Gebiet seiner Vertragspartner hinaus, ist ein sicherer Weg zu weiteren Bosniens und Kosovos. Jetzt, da die Clintonistas und die NATO im Kosovo erfolgreich waren, können wir mit weiteren neuen und noch gefährlicheren Abenteuern anderswo rechnen. Aber beim nächsten Mal werden die Russen , die Chinesen, Inder und andere schlauer sein und uns nicht mehr die Sprüche über Freie Märkte und demokratische Menschenrechte abkaufen. Die Zukunft des Westens wäre in einem dann womöglich unvermeidlichen Konflikt unsicher.

 

Kanada sollte die Folgen eines solchen Kurses gut bedenken und um seinetwillen und den Frieden und die Stabilität der ganzen Welt seinen Mut zusammentun und Nein zum weltweiten Eingreifen sagen. Muss es wirklich in widerspruchsloser Unterwerfung zusehen, wie ein langdauerndes gefährliches militärisches Experiment gestartet wird, dass uns in einen wirklichen Krieg um Zentralasien hineinzieht? Soll es demnächst neue UCKs entlang Russlands islamischen Rand gegen "Völkermord" "verteidigen", darunter ethnische Gruppen deren Namen heute noch keine westliche Presse kennt und die eine Reihe guter Begründungen für eine Intervention hergeben könnten, gut genug, soll heissen so schlecht wie die der Kosovo-Albaner.

 

War Kanadas Geschichte als Teil des englischen Weltreiches so süss, dass es ein Herrschaftszentrum in Washington braucht, als Ersatz für das verlorene London? Fühlt sich Kanada bei der Wahrheit, die sich heute langsam herausschält, wohl, dass es über Krieg und Frieden weniger die Wahl hat, als in der Zeit, als es ein freies Dominion unter dem alten Statut von Westminster war? Denn ganz ohne Zweifel kann derKrieg, den die NATO im April und Mai 1999 geführt hat von etwas, das "die Allianz" genannt werden kann, weder beabsichtigt noch gewollt worden sein, wenn 1998 innerhalb des Ringes (der oberen Kommandoebene d. Übers.) der Einsatz von Gewalt ausgeheckt worden war.

 

Wert zu fragen wäre auch, wie diese Zurückstufung Kanadas und anderen NATO-Mitglieder auf den Status einer zweitrangigen imperialen Macht, einen von den Medien angeführten politischen Prozess in Gang setzt, der dazu führt, dass nationale Meinungsbildung- und Beschlussfassung, ausser einer rein formalen Einpeitschfunktion [Cheer-leader funktion], bedeutungslos werden. Es wäre auch zu fragen wie es dazu kommen konnte, dass das Hauptkriegsziel der Nato war "die Allianz zusammen zu halten", und welche Disziplinen damit gemeint waren und wie leicht und blutig sich das wiederholen lässt. Der moralische Alleinvertretungsanspruch der von den Befürwortern der Intervention als Ersatz für eine rationale Argumentation gegeben wurde kann nicht länger aufrechterhalten werden. Ein echter Zwiespalt in Hinblick auf unsere gemeinsame menschliche Verantwortung, sollte nicht dafür herzuhalten haben, um den Virus Imperialismus eines sich wiedererweiternden Westen zu reaktivieren. Je arroganter die neue Doktrin auftritt, um so grösser die Bereitschaft für die Wahrheit zu lügen. Die Fähigkeit etwas zu tun, unterstützt die moralische Selbstachtung, wenn wir den Gedanken von uns weisen können, dass wir weniger moralisch Handelnde als Verbraucher von vorgekauten Wahlmöglichkeiten sind. Am Aufgang des Jahrtausends leben wir in einem virtuellen Collosseum in dem exotische und finstere Unruhestifter nicht von Löwen sondern von mystischen Flugapparaten des Imperiums getötet werden. Während die Kandidaten für die Bestrafung - oder das Martyrium - in die Arena gestossen werden, reagieren viele der Bevölkerung im Westen auf die Show wie imperialen Konsumenten und nicht wie Bürger mit einem parlamentarischen Recht und einer demokratischen Verpflichtung, die Vorgänge zu hinterfragen. Mögen die Ergebnisse ihrer gegenwärtigen Untersuchungen erweisen, dass ich unrecht habe. Vielen Dank.

 

FUSSNOTEN DES UEBERSETZERS  (Hartmut Gehrke-Tschudi)

 

FUSSNOTE #1: Faschoda: Stadt im Südsudan, am weissen Nil. 1898 war es der Schauplatz des Faschoda Konflikts der Frankreich und England an den Rand eines Krieges brachte und 1899 zum englisch-französischen Grenzabkommen führte, das die Grenze zwischen dem Sudan und franz. Kongo entlang der Wasserscheide des Kongo und Nil Beckens festlegte. Die Bildung einer englisch-französischen Entente 1904 veranlasste die Briten dazu, den Namen der Stadt in »Kodok« umzuändern, in der Hoffnung die Erinnerung an diesen Vorfall zu vertuschen.

FUSSNOTE #2: ein Sarkasmus des Autors, betr.: Christiane Amanpour die Leni Riefenstahl der USA, seit Golfkriegszeiten Kriegsberichterstatterin des CNN und Frau von US-Stabschef James Rubin. A. wollte wenige Wochen vor Kriegsbeginn in den Kosovo reisen, um für die westliche Wertegemeinschaft den "Beweis" zu bringen, dass dort ethn.Vertreibungen und Völkermord stattfinden. Die jugosl. Regierung erlaubte ihr aber nicht die Einreise. Sie hatte A. Art der manipulativen Berichterstattung schon kennengelernt und wollte der NATO keinen Vorwand zum Krieg geben.

lundi, 22 novembre 2010

Maschke: "Die Deutschen werden zu Vasallen der USA ohne Lohn"

Archives: 1999 - Ex: http://www.platzdasch.homepage.t-online.de/

"Die Deutschen werden zu Vasallen der USA ohne Lohn"

N-KFOR-Kosovo-1.jpgHerr Maschke, hat Gregor Gysi recht, wenn er davon spricht, daß Deutschland einen Angriffskrieg gegen Serbien führt?

Maschke: Ja – unbedingt. Die Frage eines Angriffskrieges zwischen zwei Staaten ist ja kaum zu klären. Jedoch hat in diesem Fall ein Angriff auf deutsches Territorium nicht stattgefunden, und so müßte der Paragraph 26 des Grundgesetzes greifen, wonach ein Angriffskrieg eben verboten ist. Es gibt aber auch andere juristische Probleme. Es ist durch das Eingreifen eindeutig die Charta der Vereinten Nationen verletzt. Im Artikel 2 Absatz 4 ist allen Mitgliedern die Anwendung von und Drohung mit Gewalt untersagt. Dies bezieht sich auf zwischenstaatliche Gewaltanwendung, nicht auf innerstaatliche Gewalt oder Bürgerkriegslagen. Dann ist auch wichtig, daß hier ein Bruch des Nordatlantikvertrages stattfindet. Er erlaubt nur Verteidigung für den Fall, daß ein Mitglied angegriffen worden ist. Es ist jedoch kein Nato-Mitglied angegriffen worden. Auch hinsichtlich des Gelöbnisses des deutschen Soldaten ist dieser Krieg ein Problem, da er nur dafür einstehen soll, die Bundesrepublik Deutschland zu verteidigen. Einsätze außerhalb des Bundesgebietes dürfen nicht der Kriegsführung dienen. Selbst bei einer Legalisierung des Eingriffs der Nato durch die UNO bestünde das Problem, daß der Nordatlantikpakt eben keine regionale Organisation ist wie zum Beispiel die OSZE. Die Nato darf im Auftrag der UNO eigentlich gar nicht handeln, sondern die OSZE müßte selbst ihre Truppen zusammenstellen.

Nun werden Ihnen Kritiker entgegenhalten, Sie führten eine reine Formeldiskussion. Warum kann man Rechtsfragen nicht so lässig behandeln, wie es hier geschieht?

Maschke: Man kann ja gerne den Sinn des modernen Völkerrechts bezweifeln. Das tue ich übrigens auch.

Warum?

Maschke: Weil das moderne Völkerrecht militärische Interventionen erleichtert. Es geht relativ leger mit der Einmischung um. Der momentane Bruch des Völkerrechtes durch die Nato zerstört dieses Völkerrecht jedoch, basiert aber auf einer Art radikalisierten Fortschreibung dieses Rechtes. Wenn jetzt überhaupt keine Barrieren für eine Intervention bestehen, dann ist eine völlig willkürliche Lage da, die sich einer internationalen Anarchie nähern kann. Dann kann künftig überall beliebig interveniert werden, mit Hinweis auf die äußerst deutbaren Menschenrechte. Die dienen dann als Tarnung für imperialistische Interessen.

Wenn ich die Interpretationsmacht habe und auch die notwendige militärische Interventionskraft, dann kann ich überall auf der Welt meinen politischen Willen durchsetzen. Dies wird zu einem recht merkwürdigen Rechtsnihilismus führen. Zwar ist das Völkerrecht nicht der wichtigste Faktor in einer Theorie der internationalen Beziehungen. Die langfristigen Folgen für die zwischenstaatlichen Beziehungen sind aber nicht absehbar. Man muß Gysi in diesem Punkte uneingeschränkt recht geben.

Warum legen die Politiker überhaupt so viel Wert darauf, den Begriff "Krieg" zu vermeiden, und warum sprechen sie in bestem Orwell-Deutsch von "Friedensmaßnahmen", Interventionen etc.?

Maschke: Weil nach der UN-Charta ein Krieg verboten ist! Wenn ich den Kriegszustand anerkenne, hat das auch alle möglichen wirtschaftsrechtlichen, völkerrechtlichen und auch versicherungsrechtlichen Folgen. Die Tabuisierung hat ihren Sinn, weil das Völkerrecht aufbaut auf dem Gewaltverbot, auf dem Kriegsverbot. Man will nicht wahrhaben, daß man den Krieg wieder verrechtlichen muß und daß Krieg und Frieden korrelative Begriffe sind.

Wir müssen also jetzt vom Kosovo-Krieg sprechen.

Maschke: Natürlich! Krieg ist die bewaffnete Auseinandersetzung zwischen zwei kämpfenden Parteiungen. Es gibt auch Theorien, daß der Wille des einen genügt,um Krieg zu konstituieren. Natürlich ist der Konflikt auf dem Balkan ein Krieg. Wir wissen aus der Kriegsgeschichte, daß der Krieg alle möglichen Formen annehmen kann. "Der Krieg ist ein Chamäleon", sagt Clausewitz. Es ist interessant, daß sich der common sense durchsetzt und die Menschen immer wieder ganz unbefangen von Krieg sprechen.

Sie haben Anfang der 90er Jahre die deutsche Beteiligung am Golfkrieg der Amerikaner schärfstens kritisiert. Worin unterscheidet sich der Krieg gegen Serbien wesentlich vom Krieg gegen den Irak?

Maschke: Zunächst ist es ein europäischer Krieg. Der Golfkrieg diente dazu, eine antiamerikanische, arabische Großraumbildung zu verhindern. Dies natürlich auch im Hinblick auf und im Interesse Israels. Hier geht es im Prinzip darum, daß Europa unfähig ist, amerikanische Interventionen in Europa zu verhindern. Nicht nur das – Europa macht diese Interventionen mit, jedoch eher als Juniorpartner, als Vasall. Die amerikanischen Interessen sind ganz offensichtlich: Aufbau eines Groß-Albaniens und die Produktion von Flüchtlingen. Diese sind für Europa – auch wegen ihres kriminellen Potentials – bedenklich und spielen politisch immer die fünfte Kolonne der USA. Wir, Deutschland, unterstützen diesen Prozeß, was ich für eine ganz fantastische Leistung halte.

Die Idee der Strafaktionen aus der Luft ist so alt wie der Völkerbund.

Maschke:: Die Idee entwickelte sich als sogenannte Luftpolizei im Rahmen des Völkerbundes. Als Beispiel mag da England gelten, dem es gelang, mit einer "Imperial Police" solche Strafaktionen durchzuführen. Eine französische Idee war es, eine internationale Luftpolizei zu gründen. Auch der italienische Luftkriegstheoretiker Douhet glaubte, daß man mit wenigen Schlägen aus der Luft auf die Hauptstadt den Feind in die Knie zwingen könnte. Die Idee des Luftkrieges nach den großen Schlachten des Ersten Weltkrieges war es, Kriege zu begrenzen und kontrollierbar zu machen.

Dies hat auch eine Rolle bei der Gründung der UNO gespielt. Auch hier war die Rede von integrierten Luftstreitkräften, die allerdings nicht zustande kamen. Dies ist im Prinzip die Weiterentwicklung der Idee von großen Blockade-Flotten aus dem 19. Jahrhundert. Es hängt aber auch zusammen mit der Überschätzung der Möglichkeiten der Luftwaffe. Es stellt sich schließlich jedesmal die Frage, welche Ordnung man am Boden herstellt.

In Deutschland spricht man von einer humanitären Katastrophe, die sicherlich nicht wegzudiskutieren ist und die beschämen muß. Das alleine hat aber noch selten internationale Streitkräfte auf den Plan gerufen. Um welche großräumigen Interessen geht es in diesem Konflikt?

Maschke: Ich denke, es geht einfach um die Beherrschung und Kontrolle Europas durch die Vereinigten Staaten von Amerika. Wenn dort jemand hätte intervenieren müssen, dann die Europäer – die sich bekanntlich nicht einig sind. Unter anderem, weil London und Paris der Auffassung zu sein scheinen, daß ihnen ein schwaches Deutschland bekommt. So setzen diese auch auf die amerikanische Karte. Sie glauben, auch innerhalb der Europäischen Union vorwiegend nationale Interessen verfolgen zu können. Wenn wir, die Deutschen, europäische Interessen verfolgen wollen, müßten wir jedoch alles daran setzen, die Amerikaner aus diesem Konflikt herauszuhalten. In Wirklichkeit sind wir eher die weiche Eintrittsstelle für amerikanische Intervention und Penetration aller Art in Europa. Vor diesem Hintergrund kann man auch nur die Nato-Osterweiterung sehen. Deutschland ist hier der amerikanische Lieblingsvasall, der von der Intervention gar nichts hat.

Kehren nun die Konflikte wieder zurück, die zum Ausbruch des Ersten Weltkrieges geführt haben?

Maschke: Der Balkan war stets nur in Ruhe zu halten durch einen Hegemon, und dieser mußte die Füße auch irgendwie auf dem Boden haben. Dies war Rußland, Österreich-Ungarn oder das Deutsche Reich. Auch dieser Konflikt wurzelt jedoch im Prinzip im Diktat von Versailles. Wir können nach Irak schauen und wir können nach Jugoslawien schauen: Wir finden ständig die Folgen des Diktates von Versailles und des Ersten Weltkrieges – nicht die des Zweiten. Damals hat man eben auf einem Völkerrecht aufgebaut, das dem jetzigen gleicht. Dessen jetziger Bruch ist – seine Fortsetzung! Je weiter wir gehen, um so mehr entfernen wir uns vom richtigen Standpunkt.

Gibt es Parallelen zwischen dem Ausbruch des Ersten Weltkrieges und der jetzigen Mächtekonstellation?

Maschke: Es fehlt hier der Gegenpart und die internationale Konfrontation. Es könnte eine gewisse lokale Ausweitung geben, es enthält aber keinen Zündstoff für einen Weltkrieg.

Haben die USA mit dem Nato-Einsatz nicht auch das Ziel, Rußland endgültig aus Europa herauszudrängen?

Maschke: Sicher. Das paßt auch zur Nato- und EU-Osterweiterung. Wir haben uns jetzt selbst eingekreist und können nicht mehr die russische Karte spielen – Rußland wird wieder erstarken ...! Das ist wirklich keine große Meisterleistung.

Wäre eine deutsch-russische Initiative zur Befriedung des Kosovo und Disziplinierung der Serben nicht erfolgversprechend gewesen?

Maschke: Das wirkt etwas science-fiction-haft. Hier muß man die Potenz der Regierung in Deutschland und der deutschen Politiker bedenken.Wir reden zwar davon, wir müßten Verantwortung übernehmen und erwachsen werden. Dies bedeutet jedoch nur, daß wir von der bisherigen Abstinenz Abschied nehmen. Es läuft lediglich darauf hinaus, daß wir zu Mitläufern und Vasallen geworden sind. Dies haben wir schon im Golfkrieg gesehen. Erwachsen werden heißt nun Eingliederung in uns widerstrebende fremde Interessen. Das kann ja wohl nicht Sinn der Übung sein.

Welche Auswirkungen wird dieser erste wirkliche Krieg in Europa seit 1945 auf die Kräfteverhältnisse haben?

Maschke: Dies bedeutet zunächst die ständige Präsenz der Vereinigten Staaten in Europa. Sie werden den Einigungprozeß Europas vorantreiben – und Europa wird so eine riesige, durch Grenzen nicht mehr geteilte Penetrationssphäre der USA. Dies wird bedeuten, daß sich Rußland andere Partner suchen muß, sei es China oder Indien. Man kann Rußland natürlich durch Kreditpolitik kujonieren, aber das wird Grenzen haben.

Europa ist mit der Einführung des Euro kurz davor, wirtschaftlich zum bedrohlichsten Konkurrenten der USA zu werden. Soll es da politisch ausgeschaltet wird?

Maschke: Die EU ist kein Konkurrent für die USA, denn Amerika ist auf allen Ebenen, sei es militärisch, ökonomisch und vor allem massenkulturell, in Europa präsent. Die europäische Einigung hätte Sinn, wenn man die USA ausschlösse oder zurückdrängen würde. So ist es praktisch nur ein riesiges Lateinamerika de luxe für die USA. Es ist die alte Diskussion: Wollen wir eine europäische Einigung Europas oder eine amerikanische Einigung Europas?

Warum beteiligen sich Frankreich und Großbritannien an diesem Vorgehen der USA?

Maschke: Weil beide den deutschen Einfluß auf dem Balkan fürchten.

Sie schädigen sich doch aber selbst.

Maschke: Ja, weil jede Aktion, die Amerika nach Europa hineinbringt, im Prinzip alle Europäer und eine europäische Einigung Europas schädigt.

Der Angriff der Nato mußte die UNO brüskieren. Bedeutet dies jetzt auch das Ende dieser Organisation?

Maschke: Die UNO ist in den letzten Jahren zunehmend von den Vereinigten Staaten instrumentalisiert worden. Als das nicht mehr ging, hat man versucht, sie zu umgehen. Dies kann beliebig wiederholt werden. Die UNO hat heute gar keine Vermittlungsmacht mehr. Man kann sich heute fragen, ob man nicht zum Naturzustand zurückkehrt. Man kann sagen, daß das Ganze eine größere Simplizität und Ehrlichkeit in die internationalen Beziehungen bringt. Diese nähert sich sozialdarwinistischen Vorstellungen – was nicht beruhigend sein kann.

Das Recht des Stärkeren wird also im Prinzip als Recht der Weltpolizei USA verkauft?

Maschke: Wenn ich jetzt hingehe und argumentiere, es gebe etwas jenseits des Völkerrechts, dann habe ich natürlich Probleme, anderen den Bruch des Völkerrechtes vorzuwerfen. Wenn heute eine westliche Macht den Chinesen Vorhaltungen macht wegen Tibet, dann können die nur mit einem Fragezeichen antworten – nach Kosovo.

Gäbe es überhaupt eine andere Lösung für das Problem des Kosovo, Massenvertreibungen und Massaker zu verhindern?

Maschke: Wenn man interessiert ist an einer Ordnung auf dem Balkan, müßte man mit Bodentruppen eingreifen und eine Art Protektorat errichten. Wichtig ist, welche Folgen die jetzige Handlung hat. Das jetzige Handeln verschärft das Flüchtlingsproblem – und ich vermute, daß dies den USA aus den geschilderten Gründen sehr gut zupaß kommt, aber nicht uns. Die Luftschläge werden keine Lösung bringen, und es wird auch weiter Terror geben, selbst wenn die jugoslawische Armee im Kosovo auf Null gebracht ist. Man kann nicht immer so tun, als hätten alle Konflikte eine eindeutige Lösung. Der Konflikt Israels mit seiner Umgebung hat auch keine Lösung – solche Konflikte haben allenfalls eine Geschichte.

Es gab Ideen, die Albaner – ähnlich wie die Kroaten – massiv zu bewaffnen.

Maschke: Das bedeutet natürlich, daß trotz einer massiven Bewaffnung der Albaner das Verhältnis sehr ungleichgewichtig geblieben wäre. Das zweite wäre, man hätte sich aus dem Konflikt gleichsam verabschieden müssen. Das ist etwa bei dem Konflikt in Süd-Vietnam so gewesen. Dann wäre immer noch die Frage, ob sich die Albaner aus ihren Schwierigkeiten hätten befreien können. Sie hätten immer versucht, jemanden mit in diesen Konflikt hineinzuziehen.

Sie kennen Joschka Fischer als Frankfurter Sponti und haben sich oft mit ihm gestritten. Ist die Wandlung des Friedenskämpfers und Pazifisten zum Außenminister und Angriffskrieger konsequent?

Maschke: Ja. Das ist nicht inkonsequent, denn wenn die Feindschaft der Pazifisten zu den Nicht-Pazifisten groß genug ist, müssen sie – frei nach Carl Schmitt – auch zum Krieg schreiten. Das ist hier der Fall, nur nennen sie es anders. Wir kennen auch die Formeln bereits zur Genüge, sie sind bekannt seit Wilson – wir führen keinen Krieg gegen das deutsche Volk, wir führen keinen Krieg gegen das serbische Volk etc. Im Ernstfall spaltet sich der Pazifismus: der eine Teil sagt, Gewalt kann man nur mit Gewalt begegnen, die andern reagieren wie Ströbele – und sagen, wir wollen es generell nicht. Es gab nach dem Ersten Weltkrieg die Formel "Krieg gegen den Krieg". Jetzt heißt es Aktion gegen den Krieg oder friedenserzwingende Maßnahmen gegen den Krieg. Selbst der "Krieg gegen den Krieg" ist den Pazifisten jetzt zu kriegerisch – terminologisch! Das ist nicht überraschend. Aber in der Kriegsgeschichte des Jahrhunderts war immer festzustellen, daß sich die Pazifisten in solch einer Situation spalten – und die größere Fraktion wird "kriegerisch".

Glauben Sie, daß die Grünen an dieser Frage zerbrechen werden?

Maschke: Es kommt vor allem darauf an, wie lange das dauert. Welche Folgen das für Deutschland hat, wenn es bedeutende Verluste für Deutschland gibt. Wenn es nur kurz ist, wird man dies vergessen – und es werden sich nur sehr kleine Gruppen abspalten.

Ist es nicht seltsam, daß während des Golfkrieges Anfang der neunziger Jahre massenhaft Leute gegen die USA und den Krieg auf die Straße gegangen sind und jetzt kaum jemand zu sehen ist?

Maschke: Es ist sicherlich ganz wesentlich, wer an der Regierung ist. Obwohl man versucht hat, zum Beispiel Hussein zu satanisieren, scheint das nicht so erfolgreich gewesen zu sein wie bei den Serben.Gegen die Serben existiert ein parmanenter Groll, zumal sie erklärte Deutschlandfeinde sind. Der serbische Haß auf Deutschland ist unbezweifelbar, und es gibt einen antiserbischen Affekt in den Medien und einen Affekt für Kroatien. Hinzu kommt, daß ein Entsetzen entsteht, daß die Greuel durch die Serben mitten in Europa geschehen. Wenn das bei den Irakis geschieht, ist das nicht so verwunderlich. Der Europäer ist in seinem Selbstverständnis aufgeklärt und pazifiziert. Das gilt auch für die Serben. Die haben Telefone, Autos, sprechen Deutsch oder Englisch und scheinen zivilisiert, tragen Schlipse. Dann ist man ganz erstaunt, wenn die sich irgendwelche Körperteile abschneiden. Das paßt zu einem Gelben, Braunen, Schwarzen, aber nicht zu einem Europäer. Hier ist die Empörung dann plötzlich größer.

Inwieweit ist überhaupt die Bundesregierung Herr der Lage, wer gibt den Takt vor? Von wem und wie wird über den möglichen Bodenkrieg entschieden?

Maschke: Über den Bodenkrieg werden die entscheiden, die ihn auch durchsetzen wollen – auf parlamentarischem Wege. Da sehe ich Schwierigkeiten. Entscheiden wird es der Hegemon des Bündnisses – die USA. Und dieser kann das auch alleine machen. Doch werden wir das wahrscheinlich wieder mitmachen, weil wir unfähig sind, uns gegen die Vereinigten Staaten zu stellen. Die Grundregel scheint da ganz einfach: Wir tun das, was die USA für richtig halten.

Können sich die Deutschen überhaupt noch aus dem Einsatz zurückziehen? Es heißt ja, wer sich einmischt, übernimmt Verantwortung.

Maschke: Interessant ist ja die Erklärung von Johannes Rau. Er hatte den Einsatz gebilligt und gesagt, er hoffe, daß unsere Soldaten in Zukunft nicht öfters bei solchen und ähnlichen Aktionen mitmachen müssen.Wenn man sich die Konfliktlage in der Welt ansieht und die amerikanische Forderung nach Lastenteilung betrachet, kann man sich vorstellen, daß es eine Multiplizierung ähnlicher Konflikte gibt, bei denen wir des öfteren die Gefährten der USA sein werden. Insgesamt ist dies eine Salamitaktik. Wir machen erst auf dem Niveau mit, dann auf dem Niveau u.s.w. Das bedeutet am Schluß: "Germans to the front" – ohne daß wir wirklich Einfluß nehmen können. Wir haben auch keine eigene Taktik, dies mit einer allmählichen Einflußsteigerung zu verbinden. Wir sind Vasallen ohne Lohn. Das ist unsere Form der Fellachisierung bzw. Selbst-Fellachisierung.


"Die Friedensbewegung und die immer noch zu ängstlichen Politiker und Militärs stehen dem [der totalen Erlösung]  immer noch im Wege, aber auch sie werden dem geheimen Wunsch aller, den alle leugnen, nicht mehr lange widerstehen können. Letzteres ist in etwa die Quintessenz des jungen Münsteraner Philosophen Ulrich Horstmann, dessen Essay in der moralparfümierten geistigen Landschaft der Bundesrepublik durch seine Radikalität und seine elegante Schnoddrigkeit auffällt. Der gelegentlich dekadent-pathetische Ton [...] mindert das bösartige Lesevergnügen ein wenig. Und ist es nötig, daß Horstmann, ganz braver Sohn der Alma Mater, all die Scharteken der Außenseiterphilosophen mitschleppt? Doch so leistet er immerhin eine Anthologie der Sehnsucht nach dem Ende. [...] Ist denn das Zuendeführen des Werkes in Horstmanns Sinn ohne solche Spekulationen denkbar? Die Ausrottung der Menschheit wird unter humanitären Parolen erfolgen oder sie wird nicht gelingen. Horstmann scheut leider den Gedanken, ob nicht die von ihm geforderte Ausbreitung des anthropofugalen Denkens - aufgrund der dann entstehenden Gleichgültigkeit - das größte aller Hindernisse für die anthropofugale Sehnsucht wäre. [...] Die Pointe ist [...], daß das anthropofugale Denken gerade keine Garantie dafür bietet, daß ‚unsere Spezies bis auf das letzte Exemplar' vertilgt wird. Wer will, daß die Qual aufhört, legt sich eher aufs Sofa, als daß er den Helmriemen festzieht. Horstmanns Programm wird nicht von seinesgleichen verwirklicht werden, sondern von den Täternaturen, die es immer noch gibt."

Günter Maschke: Daß wir besser nicht da wären. In: Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16.8.1983

mardi, 09 novembre 2010

La Serbia nell'UE: implicazioni geopolitiche

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La Serbia nell’UE: implicazioni geopolitiche

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Lo scorso 25 ottobre i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno scongelato la richiesta serba tesa ad integrare Belgrado nel sistema comunitario. La domanda di adesione era stata presentata dal governo Tadic lo scorso anno, quale primo passo di avvicinamento verso il percorso di piena integrazione. Sono dunque partite, a tutti gli effetti, le trattative diplomatiche fra la Commissione, i 27 membri e Belgrado. Due le questioni fondamentali sul tavolo: la prima, palese e dichiarata dall’Unione, è l’incondizionato appoggio serbo al Tribunale internazionale dell’Aja per la cattura e condanna dei generali nazionalisti Radko Mladic e Goran Hadzic. La seconda, posta sottobanco per via del veto spagnolo e greco, è il riconoscimento dell’indipendenza kosovara. Due questioni di enorme peso per un paese già umiliato e dilaniato come la Serbia.

Su entrambe il presidente Boris Tadic, leader della coalizione europeista, rischia di perdere il suo già lieve margine di consenso; infatti se da un lato, in parlamento, non può che tener conto della volontà del Partito Socialista Serbo, lo stesso che fu di Milosevic e che oggi è l’ago della bilancia della coalizione liberale, dall’altro, sul versante del riconoscimento dell’indipendenza kosovara, Tadic rischia una vera e propria sollevazione popolare e la definitiva sconfitta politica. Lo sa bene Tomislav Nikolic, leader del partito nazionalista, uscito perdente dalle presidenziali del 2008 per un pugno di voti, dopo un ballottaggio fra i più discussi nella recente vita ‘democratica’ del paese.

È in questo contesto che si devono inserire gli scontri dello scorso settembre, svoltisi a Belgrado in occasione del gay-pride e in Italia, a Genova, per la partita di qualificazione fra le due nazionali. In entrambi i casi, frange del nazionalismo serbo hanno apertamento manifestato la loro volontà di boicottare qualsiasi apertura ‘liberale’ ed europea fatta dal governo in carica.

Un governo che aveva vinto le elezioni presidenziali e parlamentari del 2008 sulla scia dell’invidia serba per gli storici “vicini”, Ungheria, Bulgaria e Romania, entrati da poco nell’Unione europea. Proprio il timore di subire un clamoroso ritardo economico rispetto all’area dell’Est Europa che si apriva agli aiuti di Bruxelles, aveva permesso a Tadic di raggiungere la Presidenza e imporre un governo di coalizione filo-europeista.

Ma le richieste di Bruxelles ora mettono Belgrado con le spalle al muro; per entrare davvero nel giro comunitario, Tadic deve spaccare il paese, isolare la metà serba che si riconosce nelle istanze conservatrici ed accettare ciò che per un serbo ortodosso risulta secolarmente inaccettabile: l’indipendenza unilaterale del Kosovo. Una scelta culturale, strategica e geopolitica assolutamente radicale, foriera di importanti conseguenze.


Fra Europa e Russia

La Serbia è da sempre una regione di faglia, è un confine fra Europa occidentale ed orientale, fra cristianesimo cattolico ed ortodosso, persino abituata al doppio uso dell’alfabeto cirillico e latino. E tuttavia, dalla dominazione ottomana giunta al termine della storica battaglia della Piana dei Merli (l’epica resistenza della cavalleria serba all’esercito islamico, nel 1389), la sua identità nazionale ha preso forma in termini eurasiatici, andando a rappresentare quel corpo di congiunzione fra mondo latino e mondo ortodosso, fra Europa e Russia, sacrificatosi a nord di Pristina per la libertà dal nemico esterno.

Per questo motivo la questione kosovara non può essere esclusivamente riferita ad uno scontro etnico e religioso, ad un mero retaggio nazionalista: la battaglia della Piana dei Merli, e dunque il Kosovo, è divenuta per i Serbi il simbolo di un’identità storica e perciò, fattualmente, geopolitica. Solo tenendo in considerazione questo elemento di continuità che rende la Serbia limes d’Europa, e non solo cerniera fra est ed ovest, è possibile analizzare le attuali problematiche internazionali legate a Belgrado.


Verso Bruxelles

Sono dunque facilmente comprensibili le relazioni che spingono le istituzioni serbe ad entrare nell’Europa che conta. Queste sono di tipo culturale, di legittimità identitaria, come detto; legate soprattutto alla comune battaglia civilistica che ha visto Vienna vincere laddove Belgrado aveva fallito.

Certo, sono anche storiche, essendo Belgrado legata a doppia mandata alle vicende imperiali austro-ungariche quale naturale area di interesse e controllo germanico; con tutti i sentimenti di rivincita e accettazione che questo elemento comporta.

Ma a tutto ciò si deve aggiungere il fattore fondamentale, quello economico. Come ribadito da molti analisti, l’Unione eruopea continua ad essere un fenomeno prettamente economico. Per nulla politico. Anzi, essa continua a rappresentare la vitalità produttiva tedesca (la vecchia area del Marco allargata), temperata dalle esigenze agricole e sceniche francesi.

È più che naturale che questo ultimo fattore, assommato ai precedenti, spinga la Serbia verso Bruxelles, senza grosse preoccupazioni per il fatto in sé, visto a Belgrado come un’ineluttabile contingenza macroregionale, priva di reali conseguenze geopolitiche ma ricca di opportunità di cassa. Lo testimonia anche l’atteggiamento politico di Nikolic, il leader nazionalista di opposizione, che verso Bruxelles non ha mai usato toni di netta ed irreversibile chiusura.


Verso Mosca

Ma la Serbia è anche la patria dei monasteri ortodossi. La resistenza serba alla dominazione ottomana fu resistenza ortodossa. L’identità serba, se riferita all’area interna dei Balcani è chiaramente slava. L’uso del cirillico, anche se accompagnato dall’alfabeto latino, ricorda quel tratto orientale che da Bisanzio giunge sino a Mosca. La stessa bandiera serba ripropone i medesimi colori della Federazione russa.

Come per altre regioni dell’Europa dell’est, dunque, anche la Serbia è legata culturalmente alla Russia. Ma ciò che più conta è legata ad essa politicamente e strategicamente. È la Russia che a livello internazionale sostiene le esigenze di Belgrado, ed è stata Mosca, nel 2008, in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ad imporre modifiche restrittive alla missione Eulex, sostenuta da Stati uniti ed Unione europea con l’intento di favorire l’indipendenza del Kosovo. Ed è sempre la Russia che, nel progetto originale del gasdotto South Stream, garantirebbe alla Serbia un ruolo economico di vitale importanza.

Da questo punto di vista è del tutto evidente quanto Belgrado non possa fare a meno del sostegno della grande madre dell’ortodossia, oggi potenza macroregionale.


Scenari geopolitici

I paletti della Ue all’ingresso serbo rivelano ancora una volta tutta l’inconsistenza politica del Vecchio continente. Più che tappe di avvicinamento, sono per Belgrado delle ulteriori prove di espiazione. Sia l’appoggio al tribunale dell’Aja, sia l’indipendenza del Kosovo, più che riferibili alle esigenze di pacificazione europee, sono tappe poste in continuità con l’intervento nordamericano ed alleato degli anni ’90.

Essendo questi i fatti, è chiaro che il futuro della Serbia resti strettamente collegato ai giochi internazionali in atto. Mosca non avrà nulla da obiettare all’ingresso di un suo alleato ‘civile e culturale’, come già accaduto per le altre realtà dell’est, sino a quando l’Unione europea manterrà la sua scarsa concretezza politica.

Cioè, fino a quando Bruxelles non sarà altro che un’unione doganale e monetaria incapace di sviluppare una sua identità politica e strategica. Anzi, la Russia di Vladimir Putin ha già dimostrato di saper cercare il dialogo con quelle realtà continentali maggiormente aperte allo scenario multilaterale. Si veda la Germania, per motivi strettamente economici. E l’Italia, attraverso una relazione politico-strategica già più strutturata, incentrata sul progetto South Stream, che potrebbe rivelarsi importante nell’equilibrio balcanico.

Due sono però gli aspetti che preoccupano Mosca. Il primo è appunto lo stretto rapporto fra UE e Nato. Dal 2004 al 2009, lo sviluppo del processo di integrazione europea è coinciso con gli ingressi nell’alleanza atlantica di gran parte degli stati dell’ex patto di Varsavia. Se ciò dovesse verificarsi anche per la Serbia, l’accerchiamento occidentale alla potenza russa diverrebbe non solo strategico-militare, ma quasi simbolico. Per Mosca significherebbe l’addio alle pretese egemoniche sul mondo ortodosso e la recisione, ancora una volta, del legame con il mito della Terza Roma.

L’altro punto si chiama appunto Ankara, o meglio Istanbul. In un’ottica multipolare, la Turchia era divenuta un obiettivo di partnership meridionale molto concreto per Putin. È opportuno ricordare che lo stesso progetto South Stream, opposto a quello euroamericano Nabucco, dal 2009 prevede proprio nella Turchia uno snodo essenziale. Qualora l’Ue, la Nato e le Nazioni Unite dovessero mai integrare a sé la Serbia, uno dei simboli delle difficoltà di relazione fra mondo europeo e musulmano, il preludio ad un riallinamento turco, auspicato da tutti gli ambienti istituzionali europei, sarebbe piuttosto chiaro. Con grande disappunto di Mosca, circondata ad est e a sud.

Da questo punto di vista, la perdita di Belgrado e l’indipendenza del Kosovo, rappresenterebbero per la Russia un precedente significativo teso alla disintegrazione dell’identità europea ortodossa e al definitivo inserimento delle realtà musulmane dell’Asia minore e centrale (Cecenia su tutte) nel quadro geopolitico statunitense. Ancora una volta, Belgrado sarà il centro di interessi globali pronti a scontrarsi.


* Giacomo Petrella è dottore in Scienze internazionali e diplomatiche (Università degli Studi di Genova)

jeudi, 04 novembre 2010

T. Sunic: "Serbes et Croates face à un danger biologique bien plus grave que leur récent conflit"

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Tomislav SUNIC :

« Serbes et Croates face à un danger biologique bien plus grave que leur récent conflit »



RIVAROL : Tomislav Sunic, né en 1953 à Zagreb, vous avez de 1989 à 1993 professé dans différentes universités américaines où vous enseigniez la philosophie politique et la politique des pays communistes avant de rejoindre le ministère des Affaires Étrangères croate sous la présidence de Franjo Tudjman. Polyglotte, vous avez publié de nombreux articles textes (que l’on peut trouver sur les sites internet www.tomsunic.info; doctorsunic.netfirms.com) en croate, anglais, allemand et français, dans notre revue Ecrits de Paris notamment, et vous connaissez assez bien la scène politique française pour citer des auteurs bien connus de nos lecteurs tels Pierre Vial, Hervé Ryssen ou Robert Faurisson. Vous publiez aujourd’hui La Croatie : un pays par défaut ? (1), dont le seul titre doit être une provocation pour les nationalistes croates qui font volontiers remonter leur État au Xème siècle. Voulez-vous nous dire que ce que vous entendez par identité « par défaut » ou « par procuration » et nous dire aussi comment l’ouvrage a-t-il été reçu dans votre pays natal ?

T. Sunic : On a beau, une fois la première extase nationale terminée, faire l’éloge du décisionnisme en politique, il n’en reste pas moins que toute décision politique, a priori valable, sera fatalement modifiée par des circonstances ultérieures. Et peut-être n’aboutit-on pas au pays des merveilles mais à la désillusion ou même à la catastrophe nationale. La Croatie actuelle est un pays par défaut dans la mesure où avant 1990, très peu de Croates croyaient en la possibilité d’un Etat indépendant. D’ailleurs, du point de vue du droit international, l’indépendance n’était nullement envisageable, et ne paraissait pas possible. D’ailleurs, l’Occident fut pendant 45 ans opposé à toute forme de sécessionnisme croate et il rechignait à toute idée de dissolution de la Yougoslavie – pour des raisons géopolitiques qui remontent à Versailles et Potsdam. Même le père fondateur de la nouvelle Croatie, l’ex-président, ex-communiste, ex-titiste, ex-historien révisionniste devenu anticommuniste, Franjo Tudjman n’envisageait pas en1990 la création d’un pays indépendant. Ce furent la Serbie et l’armée yougoslave qui propulsèrent la Croatie sur la mappemonde. Compte tenu de l’éparpillement des Serbes dans les Balkans, de leur peur légitime face à la confédéralisation de la Yougoslavie et à la poussée démographique des Albanais du Kosovo, le nationalisme jacobin des Serbes n’a pas tardé à déclencher une envolée du nationalisme croate – ce qui a entraîné, par suite et par défaut, la naissance de la nouvelle Croatie. À ce sujet, il faut renvoyer vos lecteurs à l’important petit livre du philosophe Alain de Benoist, Nous et les Autres, où il dissèque la nature suicidaire des petits nationalismes européens. Quoique considérée comme une blague, il est une triste vérité qui circule encore à Zagreb : « On devrait ériger un monument à Milosevic parce qu’il a aidé à fonder la nouvelle Croatie. » Peut-on être un « bon » nationaliste croate sans être antiserbe ? Malheureusement, à l’heure actuelle, je crois que non.

R. : Point donnant justement matière à polémique : votre relative compréhension pour les « méchants Serbes » dont vous soulignez la parenté morphologique et linguistique (que récusent beaucoup de vos compatriotes) avec les Croates. Estimez-vous également ces “monstres”, les guillemets sont de vous, victimes des terribles turbulences de la Yougoslavie post-titiste, pire bain de sang qu’ait connu l’Europe depuis la Seconde Guerre mondiale ?

T.S. : Contrairement a ce qu’on nous dit, plus les peuples se ressemblent plus ils se jalousent et détestent. Quoique grand adepte de la sociobiologie, je pense qu’il y a encore du travail à faire en matière d’étiologie des guerres civiles. Nous avons assisté à une boucherie intra-blanche lors de la guerre civile européenne de 1914 à 1945. Certes le monothéisme judéo-chrétien, avec ses retombées séculaires, a été le moteur principal du carnage entre les peuples blancs. Mais en dehors de nos incompatibles mythes nationaux, il nous reste à déchiffrer pourquoi les guerres intra-européennes sont si meurtrières. Chez les Croates et les Serbes, la dispute à propos de leur différence frise le grotesque. Dans l’optique de ces deux peuples, chacun apparaît comme le travesti de l’Un par rapport à l’Autre. Les Serbes et les Croates n’ont certes pas besoin d’interprète pour se comprendre. De surcroît, on aurait du mal à distinguer un phénotype croate qui serait différent de celui des Serbes. Certes, il y a des Croates de grande culture qui vont vous faire des exégèses sur les haplo-types croates ou bien vous parler savamment de la différence entre les vocables croates et serbes. N’empêche que les Serbes et les Croates sont deux vieux peuples européens qui vont bientôt faire face à un danger biologique autrement plus grave que leur récent conflit.



Tito, Bien plus criminel que Mladic et Karadjic

R. : Dans votre livre, vous insistez sur l’ethnocentrisme des différentes composantes ex-yougoslaves qui se sont obnubilées sur les épreuves subies en occultant par exemple le martyre concomitant des « Volksdeutsche » du Banat ou de Voïvodine et vous insistez sur une double responsabilité : celle des communistes et celle des « dictatures thalassocratiques », monde anglo-saxon et Israël, qui ont également falsifié l’histoire pour leur profit personnel. Pouvez-vous préciser ?

T.S. Votre question renvoie à la farce judicaire actuelle du Tribunal Pénal International de La Haye, où les prétendus criminels de guerre serbes et croates sont jugés. Or les récents crimes de guerre ont des antécédents bien plus graves. Les accusés serbes Ratko Mladic et Radovan Karadzic ne sont que de petits disciples du grand criminel communiste Josip Broz Tito dont les crimes en 1945 ne furent jamais ni jugés ni condamnés. On ignore en France qu’un demi-million d’Allemands de souche subirent, de 1945 à 1950, une gigantesque épuration ethnique en Yougoslavie titiste. Karadzic, Mladic et j’en passe, ont tout bonnement appliqué les principes qui furent en vigueur chez les titistes et leurs Alliés occidentaux.



Une démonisation organisée

Je trouve particulièrement grossier que les agences de voyage croates et françaises, ou bien la télévision française, montrent de la Croatie de belles images sous-titrées « un petit pays pour de grandes vacances ». En réalité et bien que la Croatie soit certes un beau coin d’Europe, c’est un pays ou chaque pierre respire la mort ; la Croatie est le plus grand cimetière de toute l’Europe. Le massacre de plusieurs centaines de milliers de soldats et de civils croates – ce que l’on appelle « Bleiburg », [NDLR. Voir l’article de Christopher Dolbeau dans la livraison de mai 2010 d’Ecrits de Paris] d’après le nom d’un petit village d’Autriche du sud – a profondément traumatisé le peuple croate. Pire, le fonds génétique croate a été totalement épuisé – au point qu’on ne peut pas comprendre les événements de 1991 à nos jours, sans se pencher au préalable sur la toponymie des champs de la mort communistes. D’ailleurs, l’ancien chéri occidental, le très libéral Eduard Benes, n’a-t-il pas indiqué le bon chemin aux futurs épurateurs balkaniques en expulsant 3,2 millions d’Allemands des Sudètes en1945, en vertu de décrets qui sont toujours en vigueur en Tchéquie ? Ceux qui portent la responsabilité de la récente guerre des Balkans ne sont ni le peuple serbe ni le peuple croate mais leurs communistes respectifs, secondés par les milieux libéraux occidentaux et par une certaine Gauche divine. Tour à tour, ceux-là ont tous démonisé les Serbes et les Croates - tout en occultant leur propre passé génocidaire durant et après la Deuxième Guerre mondiale.

La cause immédiate de la guerre meurtrière entre les Serbes et les Croates est à chercher dans les livres et les propos de feu Tudjman juste avant l’éclatement de la Yougoslavie. Il avait, en effet, osé toucher aux récits communistes et à la victimologie serbe en faisant chuter le chiffre magique et officiel de Serbes tués pendant la Deuxième Guerre mondiale par les Oustachis croates de 600.000 à 60.000, voire 6.000 ! Ces propos révisionnistes ont par suite causé une panique chez les paysans serbes de Croatie avec les conséquences que l’on connait.



Le multiracialisme, facteur de haine interraciale

R. : Vous insistez également sur l’homogénéité raciale, exceptionnelle en Europe et à laquelle vous êtes très attaché, des anciens pays de l’Est et notamment de la Croatie. Pensez-vous que cette homogénéité soit menacée par la volonté d’adhésion de votre pays à tous les rouages de la « communauté internationale », dans la mesure où l’identité historique de la Croatie est fragile ?

T.S. Aujourd’hui, le terme de race est mal vu en Occident – sauf quand on parle d’émeutes raciales bien réelles, comme celles qui ont récemment eu lieu à Grenoble ou à Los Angeles. Certes j’utilise le terme race dans un sens évolien, en me référant à « la race d’esprit », tout en sachant parfaitement bien à quelle race appartenaient les femmes sculptées par Phidias ou celles que peignait Courbet. Grace à la poigne communiste, la Croatie, comme d’ailleurs tous les pays d’Europe de l’Est, est aujourd’hui plus européenne que la France ou l’Allemagne. Le multiracialisme, qui se cache derrière l’hypocrite euphémisme du « multiculturalisme », mène à la guerre civile et à la haine interraciale. Les Serbes et les Croates, toujours immergés dans leurs victimologies conflictuelles, ignorent toujours que l’Europe occidentale a franchi depuis belle lurette le cap du Camp de Saints et que nous, les Européens, nous sommes tous menacés par une mort raciale et culturelle.



L’UE, calque hyperréelle de l’URSS

R. : Pour l’ancien dissident soviétique Boukovski, l’Union Européenne est de nature aussi totalitaire que l’était la défunte URSS et aussi funeste par son acharnement à ligoter les peuples dans le même carcan administratif, économique et surtout idéologique afin de leur ôter toute spécificité et d’en faire un troupeau soumis. Partagez-vous cette analyse ?

T.S. L’Union Européenne, c’est le calque hyperréel de l’ancien réel soviétique – si je peux emprunter quelques mots à Jean Baudrillard. Tous ces jeux de mots exotiques tels que « multiculturalisme », « communautarisme », « diversité », qui ont abouti à une sanglante débâcle en ex-Yougoslavie sont à nouveau à la mode à Bruxelles. Charles Quint ou le Savoyard Prince Eugène avaient de l’Europe unie une vision plus réelle que tous les bureaucrates incultes de Bruxelles. En observant de près la laideur des visages de cette caste infra-européenne, ses tics langagiers, sa langue de bois exprimée en mauvais français ou en « broken English », je pense à l’ancien homo sovieticus et à son Double postmoderne.

R. : Est-ce pour cela que vous êtes si sévère pour l’Establishment politique croate actuel que vous décrivez comme un ramassis d’ex-apparatchiks communistes opportunistes et corrompus ?

T.S. Bien entendu. Ce sont, sans aucune exception, d’anciens apparatchiks yougo-communistes et leur progéniture qui se sont recyclés en en clin d’œil en braves apôtres de l’occidentalisme et du capitalisme. À l’époque titiste, ils faisaient le pèlerinage obligatoire de Belgrade en passant par Moscou et La Havane. Aujourd’hui, à l’instar des anciens soixante-huitards français, ils se rendent pieusement à Washington, à Bruxelles - et bien entendu à Tel Aviv, ne serait-ce que pour obtenir un certificat de « politiquement correct ».

R. : Pendant le match pour la troisième place de la Coupe du monde 1998, j’avais été surprise d’entendre des consommateurs serbes injurier les Croates (qui avaient finalement gagné), parce qu’ils… ne marquaient pas assez de buts contre les Pays-Bas ! Et en juillet dernier, la correspondante de Libération à Belgrade évoquait le resserrement des liens culturels et surtout économiques entre la Serbie, la Croatie et la Slovénie. Ce resserrement est-il avéré ? Et, si oui, traduit-il un certain désenchantement envers l’Oncle Sam et la Grande Sœur Europe dont les pays de l’Est attendaient tant ?

T.S. Au vu du recrutement des footballeurs français dans le djebel maghrébin ou dans le Sahel sénégalais, il ne faut pas s’étonner que les sportifs serbes et croates représentent mieux une vraie européanité. Qu’on le veuille ou non, force est de constater que c’est le sport aujourd’hui qui reste le seul domaine où on peut librement exprimer son identité raciale et sa conscience nationale. Quant à l’américanolâtrie et l’américanosphère, qui véhiculent un certain complexe d’infériorité chez tous les Européens de l’Est y compris les Croates – ce mimétisme va rester fort tant que la France et l’Allemagne ne se réveilleront pas pour constituer un bloc commun et faire bouger l’Europe.

R. : Quel avenir espérez-vous raisonnablement pour la Croatie et ses voisines ?

T.S. Le même que pour la France, la Serbie, l’Allemagne et n’importe quel autre peuple européen : rejet total du capitalisme, rejet total du multiculturalisme, et prise de conscience de nos racines culturelles et biologiques européennes !

(1) La Croatie : un pays par défaut ? 256 pages avec préface de Jure Vujic, 26,00€. Collection Heartland, éd. Avatar, BP 43, F-91151 Étampes cedex ou < www.avataredtions.com >.

samedi, 30 octobre 2010

Eastern Europe versus the Open Society

by Srdja Trifkovic

Ex: http://www.chroniclesmagazine.org/
 
Excerpts from a speech to the H.L. Mencken Club, Baltimore, October 23, 2010

4886122ae5131.jpgTwo weeks ago the first “gay pride parade” was staged in Belgrade. Serbia’s “pro-European” government had been promoting the event as yet another proof that Serbia is fit to join the European Union, that is has overcome the legacy of its dark, intolerant past. Thousands of policemen in full riot gear had to divide their time between protecting a few hundred “LBGT” activists (about half of them imported from Western Europe for the occasion) and battling ten times as many young protesters in the side streets.

 The parade, it should be noted, was prominently attended by the U.S. Ambassador in Belgrade Mary Warlick, by the head of the European Commission Office, Vincent Degert of France, and by the head of the Organisation for Security and Cooperation in Europe (OSCE) Mission in Serbia, Dimitris Kipreos. Needless to say, none of them had attended the enthronment of the new Serbian Patriarch a week earlier. Two days later, Hillary Clinton came to Belgrade and praised the Tadic regime for staging the parade.

Mrs. Clinton et al are enjoying the fruits of one man’s two decades of hard work in Eastern Europe. George Soros can claim, more than any other individual, that his endeavors have helped turn the lands of “Real Socialism” in central and eastern Europe away from their ancestors, their cultural and spiritual roots. The process is far from over, but his Open Society Institute and its extensive network of subsidiaries east of the Trieste-Stettin line have successfully legitimized the notions that only two decades ago would have seemed bizarre, laughable or demonic to the denizens of the eastern half of Europe.

The package was first tested here in America. Through his Open Society Institute and its vast network of affiliates Soros has provided extensive financial and lobbying support here for

  • Legalization of hard drugs: We should accept that “substance abuse is endemic in most societies,” he says. Thanks to his intervention the terms “medicalization” and “non-violent drug offender” have entered public discourse, and pro-drug legalization laws were passed in California and Arizona in the 90s.
  • Euthanasia: In 1994 Soros—a self-professed atheist—launched his Project Death in America (PDIA) and provided $15 million in its initial funding. (It is noteworthy that his mother, a member of the pro-suicide Hemlock Society, killed herself, and that Soros mentions unsympathetically his dying father’s clinging on to life for too long.) PDIA supports physician-assisted suicide and works “to begin forming a network of doctors that will eventually reach into one-fourth of America’s hospitals” and, in a turn of phrase chillingly worthy of Orwell, lead to “the creation of innovative models of care and the development of new curricula on dying.”
  • Population replacement: Soros is an enthusiastic promoter of open immigration and amnesty & special rights for immigrants. He has supported the National Council of La Raza, National Immigration Law Center, National Immigration Forum, and dozens of others. He also promotes expansion of public welfare, and in late 1996 he created the Emma Lazarus Fund that has given millions in grants to nonprofit legal services groups that undermine provisions of the welfare legislation ending immigrant entitlements.

Soros supports programs and organizations that further abortion rights and increased access to birth control devices; advocate ever more stringent gun control; and demand abolition of the death penalty. He supports radical feminists and “gay” activists, same-sex “marriage” naturally included. OSI states innocently enough that its objectives include “the strengthening of civil society; economic reform; education at all levels; human rights; legal reform and public administration; public health; and arts and culture,” but the way it goes about these tasks is not “philanthropy” but political activism in pursuit of all the familiar causes of the radical left—and some additional, distinctly creepy ones such as “Death in America.”

Soros’s “philanthropic” activities in America have been applied on a far grander scale abroad. His many foundations say that they are “dedicated to building and maintaining the infrastructure and institutions of an open society.” What this means in practice? Regarding “Women’s Health” programs in Central and South-Eastern Europe, one will look in vain for breast cancer detection programs, or for prenatal or post-natal care. No, Soros’s main goal is “to improve the quality of abortion services.” Accordingly his Public Health Program has focused on the introduction of easily available abortion all over the region, and the introduction of manual vacuum aspiration (MVA) abortion in Macedonia, Moldova, and Russia. Why is Soros so keen to promote more abortions? Overpopulation cannot be the reason: the region is experiencing a huge demographic collapse and has some of the lowest fertility rates in the world. Unavailability of abortions cannot be the answer either: only five European countries had more abortions than live births in 2000: the Russian Federation, Bulgaria, Belarus, Romania and Ukraine. The only answer is that Soros wants as few little European Orthodox Christians born into this world as possible.

Soros’s Public Health Programs additionally “support initiatives focusing on the specific health needs of several marginalized communities,” such as “gays” and AIDS sufferers, and promote “harm reduction” focusing on needle/syringe exchange and supply of methadone to adicts. His outfits lobby governments to scrap “repressive drug policies.” Over the past decade and a half the Soros network has given a kick-start to previously non-existent “gay” activism in almost all of its areas of operation. The campaign for “LGBT Rights” is directed from Budapest, publishing lesbian and gay books in Bulgaria, the Czech Republic, Hungary, Slovenia and Slovakia, opening Gay and Lesbian Centers in Ukraine and Rumania. Its activists routinely attack the Orthodox Church as a key culprit for alleged discrimination of “LGBTs.”

Education is a key pillar of Soros’s activities. His Leitmotif is the dictum that “no-one has a monopoly on the truth” and that “civic education” should replace the old “authoritarian” model. Even under communism Eastern Europe has preserved very high educational standards, but the Soros Foundation seeks to replace the old system with the concept of schools as “exercise grounds” for the “unhindered expression of students’ personalities in the process of equal-footed interaction with the teaching staff, thus overcoming the obsolete concept of authority and discipline rooted in the oppressive legacy of patriarchal past.” The purpose of education is not “acquisition of knowledge”: the teacher is to become the class “designer” and his relationship with students based on “partnership.” Soros’s reformers also insist on an active role of schools in countering the allegedly unhealthy influence of the family on students, which “still carries an imprint of nationalist, sexist, racist, and homophobic prejudices rampant in the society at large.”

“Racism” is Soros’s regular obsession, but he had a problem finding it in racially non-diverse East European countries. This has been resolved by identifying a designated victim group—gypsies (“Roma”). His protégés now come up with policy demands to “protect” this group that could have been written by Rev. Jesse Jackson:

  • anti-bias training of teachers and administrators;
  • integration of Romani history and culture in the textbooks at all levels;
  • legally mandated arffirmative action programs for Roma;
  • tax incentives for employers who employ them;
  • access to low-interest credit for Roma small family businesses;
  • setting aside a percentage of public tenders for Roma firms;
  • legislation to fight “racism and discrimination” in housing;
  • adoption of “comprehensive anti-discrimination legislation”;
  • creation of mechanisms “to monitor implementation of anti-discrimination legislation and assist victims of racial discrimination in seeking remedies”;
  • recognition by governments of “the Roma slavery and the Holocaust through public apology along with urgent adoption of a package of reparatory measures.”

A budding race relations industry is already in place, with the self-serving agenda of finding “discrimination” in order to keep itself in place for ever.

To make his agenda appear “normal” to the targeted population, millions of East Europeans are force-fed the daily fare of OSI agitprop by “the Soros media”—the term is by now well established in over a dozen languages—such as the B-92 media conglomerate in Serbia.

The social dynamics Soros uses to penetrate the target countries is interesting. To thousands of young East Europeans to become a “Soroshite” represents today what joining the Party represented to their parents: an alluring opportunity to have a reasonably paid job, to belong to a privileged elite, for many to travel abroad. The few chosen for the future new Nomenklatura go to Soros’s own Central European University in Budapest. In all post-communist countries Soros relies overwhelmingly on the sons and daughters of the old Communist establishment who are less likely to be tainted by any atavistic vestiges of their native soil, culture and tradition. The comparison with the janissary corps of the Ottoman Army is more apt than that with the Communist Party. The new janissaries, just like the old, have to prove their credentials by being more zealous than the Master himself.

The key ideological foundation for Soros’s beliefs is the same: that all countries are basically social arrangements, artificial, temporary and potentially dangerous. A plethora of quotes from his writings will make it clear that he thinks that owing allegiance to any of them is inherently irrational, and attaching one’s personal loyalty to it is absurd. Like Marx’s proletarian, Soros knows of no loyalty to a concrete country. He could serve any—or indeed all—of them, if they can be turned into the tools of his Wille zur Macht. In 1792, it could have been France, in 1917 Russia. Today, the United States is his host organism of choice because it is so powerful, and its media scene is open to penetration by his rabidly anti-traditionalist and deeply anti-American worldview and political agenda.

Textbooks and educational curricular reforms pushed by Soros in Eastern Europe indicate that he is trying to perform crude dumbing down of the young. Within months of coming to power in October 2000 the “reformists” within Serbia and their foreign sponsors insisted that schools—all schools, from kindergarden to universities—must be reformed and turned from “authoritarian” institutions into poligons for the “unhindered expression of students’ personalities in the process of equal-footed interaction with the teaching staff, thus overcoming the obsolete concept of authority and discipline rooted in the opressive legacy of patriarchal past.” They started with primary schools, with a pilot program of “educational workshops” for 7-12 year olds. The accompanying manual, sponsored by UNICEF and financed by the Open Society, denigrades the view that the purpose of education is acquisition of knowledge and insists that the teacher has to become the class “designer” and his relationship with students based on “partnership.”

The reformers devote particular attention to the more active role of schools in countering the allegedly unhealthy influence of the family on students, which “still carries an imprint of nationalist, sexist, [anti-Roma] racist, and homophobic prejudices rampant in the society at large.” The time-honored Balkan tradition of slapping childrens’ bottoms when they exceed limits is now presented in the elementary classroom as a form of criminal abuse that should be reported and acted upon. Traditional gender roles are relativized by “special projects” that entail cross-dressing and temporary adoption of opposite gender names.

Soros’s vision is hostile even to the most benign understanding of national or ethnic coherence. His core belief—that traditional morality, faith, and community based on shared memories are all verboten—is at odds even with the classical “open society” liberalism of Popper and Hayek, by whom he swears. His hatred of religion is the key. He promotes an education system that will neutralize any lingering spiritual yearnings of the young, and promote the loss of a sense of place and history already experienced by millions of Westerners, whether they are aware of that loss or not. Estranged from their parents, ignorant of their culture, ashamed of their history, millions of Westerners are already on the path of alienation that demands every imaginable form of self-indulgence, or else leads to drugs, or suicide, or conversion to Islam or some other cult.

To understand Soros it is necessary to understand globalization as a revolutionary, radical project. In the triumph of liberal capitalism, the enemies of civilization such as Soros have found the seeds of future victory for their paradigm that seeks to eradicate all traditional structures capable of resistance. The revolutionary character of the Open Society project is revealed in its relentless adherence to the mantra of Race, Gender and Sexuality. His goal is a new global imperium based that will be truly totalitarian. But he is making a colossal miscalculation. He does not realize that the unassimilated and unassimilable multitudes do not want to be the tools of his will to power. Illegal aliens in America, Algerians in France, Turks in Germany and Pakistanis in Britain have their own, instinctive scenario, and it does not entail leaving Soros and his ilk in positions of power, or alive.

About the Author

Dr. Srdja Trifkovic, an expert on foreign affairs, is the author of The Sword of the Prophet and Defeating Jihad. His latest book is The Krajina Chronicle: A History of the Serbs in Croatia, Slavonia and Dalmatia.

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vendredi, 29 octobre 2010

Serbia Surrenders Kosovo to the EU

Serbia Surrenders Kosovo to the EU

Ex: http://www.slobodanjovanocvic.org/

Probably, the Tadic government had expected something better, and had planned to follow up a favorable ICJ opinion with an appeal to the General Assembly to endorse renewed negotiations over the status of Kosovo, perhaps enabling Serbia to recover at least the northern part of Kosovo whose population is solidly Serb. 

Diana Johnstone: In its dealings with the Western powers, recent Serbian diplomacy has displayed all the perspicacity of a rabbit cornered by a rattlesnake. After some helpless spasms of movement, the poor creature lets itself be eaten.

(September 20, Paris, Sri Lanka Guardian) On September 10, at the UN General Assembly, Serbia abruptly surrendered its claim to the breakaway province of Kosovo to the European Union. Serbian leaders described this surrender as a “compromise”. But for Serbia, it was all give and no take.

In its dealings with the Western powers, recent Serbian diplomacy has displayed all the perspicacity of a rabbit cornered by a rattlesnake. After some helpless spasms of movement, the poor creature lets itself be eaten.

The surrender has been implicit all along in President Boris Tadic’s two proclaimed foreign policy goals: deny Kosovo’s independence and join the European Union. These two were always mutually incompatible. Recognition of Kosovo’s independence is clearly one of the many conditions – and the most crucial – set by the Euroclub for Serbia to be considered for membership. Sacrificing Kosovo for “Europe” has always been the obvious outcome of this contradictory policy.

However, his government, and notably his foreign minister Vuk Jeremic, have tried to conceal this reality from the Serbian public by gestures meant to make it seem that they were doing everything possible to retain Kosovo.

Thus in October 2008, six months after U.S.-backed Kosovo leaders unilaterally declared that the province was an independent State, Serbia persuaded the UN General Assembly to submit the following question to the International Court of Justice for an (unbinding) advisory opinion: “Is the unilateral declaration of independence by the Provisional Institutions of Self-Government of Kosovo in accordance with international law?’”

The surrender has been implicit all along in President Boris Tadic’s two proclaimed foreign policy goals: deny Kosovo’s independence and join the European Union.

This was risky at best, because Serbia had more to lose by an unfavorable opinion than it had to gain by a favorable one. After all, most of the UN member states were already refusing to recognize Kosovo’s independence, for perfectly solid reasons of legality and self-interest. At best, a favorable ICJ opinion would merely confirm this, but would not in itself lead to any positive action. Serbia could only hope to use such a favorable opinion to ask to open genuine negotiations on the status of the province, but the Kosovo Albanian separatists and their United States backers could not be forced to do so.

One must stop here to point out that there are two major issues involved in all this: one is the status and future of Kosovo, and the other is the larger issue of national sovereignty and self-determination within the context of international law. If so many UN member states supported Serbia, it was certainly not because of Kosovo itself but because of the larger implications. Nobody objected to the splitting of Czechoslovakia, because the Czechs and the Slovaks negotiated the terms of separation. The issue is the method. There are literally hundreds, perhaps thousands, of potential ethnic secessionist movements within existing countries around the world. Kosovo sets an ominous precedent. An armed separatist movement, with heavy support from the United States, where an ethnic Albanian lobby had secured important political backing, notably from former Senator and Republican Presidential candidate Bob Dole, carried out a campaign of assassinations in 1998 in order to trigger a repression which it could then describe as “ethnic cleansing” and “genocide” as a pretext for NATO intervention.

This worked, because US leaders saw “saving the Kosovars” as the easy way to save NATO from obsolescence by transforming it into a “humanitarian” global intervention force.

Bombing Serbia for two and a half months to “stop genocide” was a spectacle for public opinion.

The only people killed were Yugoslav citizens out of sight on the ground.

It was the lovely little war designed to rehabilitate military aggression as the proper way to settle conflicts.

This worked, because US leaders saw “saving the Kosovars” as the easy way to save NATO from obsolescence by transforming it into a “humanitarian” global intervention force. Bombing Serbia for two and a half months to “stop genocide” was a spectacle for public opinion. The only people killed were Yugoslav citizens out of sight on the ground. It was the lovely little war designed to rehabilitate military aggression as the proper way to settle conflicts.

The reality of this cynical manipulation has been assiduously hidden from Americans and most Europeans, but elsewhere, and in certain European countries such as Spain, Greece, Cyprus and Slovakia, the point has not been missed. Separatist movements are dangerous, and whenever the United States wants to subvert an unfriendly government, it has only to incite mass media to portray the internal problems of the targeted government as potential “genocide” and all hell may break loose.

So Serbia did not really have to work very hard to convince other countries to support its position on Kosovo. They had their own motivations – which were perhaps stronger than those of the Serbian government itself.

What did Serb leaders want?

The question put to the ICJ did not spell out what Serb leaders wanted. But it had implications. If the Kosovo declaration of independence was illegal, what was challenged was not so much independence itself as the procedure, the unilateral declaration. And indeed, there is no reason to suppose that Serb leaders thought they could reintegrate the whole of Kosovo into Serbia. It is even unlikely that they wanted to do so.

What did Serb leaders want?

The question put to the ICJ did not spell out what Serb leaders wanted. But it had implications. If the Kosovo declaration of independence was illegal, what was challenged was not so much independence itself as the procedure, the unilateral declaration. And indeed, there is no reason to suppose that Serb leaders thought they could reintegrate the whole of Kosovo into Serbia. It is even unlikely that they wanted to do so.

There are very mixed feelings about Kosovo within the Serb population. It is hard to know how widespread is the sense of concern, or guilt, regarding the beleaguered Serb population still living there, vulnerable to attacks from racist Albanians eager to drive them out. The sentimental attachment to “the cradle of the Serb nation” is very strong, but few Serbs would choose to go live there, even if the province were returned to them. In former Yugoslavia, the province was a black hole that absorbed huge sums of development aid, and would certainly be a heavy economic burden to impoverished Serbia today. Economically, Serbia is probably better off without Kosovo. Nearly twenty years ago, the leading Serb author and patriot Dobrica Cosic was arguing in favor of dividing Kosovo along ethnic and historic lines with Albania. Otherwise, he foresaw that the attempt to live with a hostile Albanian population would destroy Serbia itself.

Few would admit this, but the proposals of Cosic, echoed by some others, at least suggest that in a world with benevolent mediators, a compromise might have been worked out acceptable to most of the people directly involved. But what made such a compromise impossible was precisely the US and NATO intervention on behalf of armed Albanian rebels. Once the Albanian nationalists knew they had such support, they had no reason to agree to any compromise. And for the Serbs, the brutal method by which Kosovo was stolen by NATO was adding insult to injury – a humiliation that could not be accepted.

By taking the question to the UN General Assembly and the ICJ, Serbia sought endorsement of a reopening of negotiations that could lead to the sort of compromise that might have settled the issue had it been taken up in a world with benevolent mediators.

International Court of No Justice

On July 22, the ICJ issued its advisory opinion, concluding that Kosovo’s “declaration of independence was not illegal”. In some 21,600 words it evaded the main issues, refusing to state that the declaration meant that Kosovo was in fact properly independent. The gist was simply that, well, anybody can declare anything, can’t they?

On July 22, the ICJ issued its advisory opinion, concluding that Kosovo’s “declaration of independence was not illegal”. In some 21,600 words it evaded the main issues, refusing to state that the declaration meant that Kosovo was in fact properly independent. The gist was simply that, well, anybody can declare anything, can’t they?

Of course, this was widely interpreted by Western governments and media, and most of all by the Kosovo Albanians, as endorsement of Kosovo’s independence, which it was not.

Nevertheless, it was a shameful cop-out on the part of the ICJ, which marked further deterioration of the post-World War II efforts to establish some sort of international legal order. Perhaps the most flagrant bit of sophistry in the lengthy opinion was the argument (in paragraphs 80 and 81) that the declaration was not a violation of the “territorial integrity” of Serbia, because “the illegality attached to [certain past] declarations of independence … stemmed not from the unilateral character of these declarations as such, but from the fact that they were, or would have been, connected with the unlawful use of force or other egregious violations of norms of general international law…”

In short, the ICJ pretended to believe that there has been no illegal international military force used to detach Kosovo from Serbia, although this is precisely what happened as a result of the totally illegal NATO bombing campaign against Serbia. Since then, the province has been occupied by foreign military forces, under NATO command, which both violated the international agreement under which they entered Kosovo and looked the other way as Albanian fanatics terrorized and drove out Serbs and Roma, occasionally murdering rival Albanians.

The ICJ judges who endorsed this scandalous opinion came from Japan, Jordan, the United States, Germany, France, New Zealand, Mexico, Brazil, Somalia and the United Kingdom. The dissenters came from Slovakia, Sierra Leone, Morocco and Russia. The lineup shows that the cards were stacked against Serbia from the start, unless one actually believes that the judges leave behind their national mind-set when they join the international court.

Digging Itself Deeper Into a Hole

Probably, the Tadic government had expected something better, and had planned to follow up a favorable ICJ opinion with an appeal to the General Assembly to endorse renewed negotiations over the status of Kosovo, perhaps enabling Serbia to recover at least the northern part of Kosovo whose population is solidly Serb.

Oddly, despite the bad omen of the ICJ opinion, the Tadic government went right ahead with plans to introduce a resolution before the UN General Assembly. The draft resolution asked the General Assembly to state the following:

Aware that an agreement has not been reached between the sides on the consequences of the unilaterally proclaimed independence of Kosovo from Serbia,

Taking into account the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues,

1. Acknowledges the Advisory opinion of the ICJ passed on 22 July 2010 on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law,

2. Calls on the sides to find a mutually acceptable solution for all disputed issues through peaceful dialogue, with the aim of achieving peace, security and cooperation in the region.

3. Decides to include in the interim agenda of the 66th session an item namely: “Further activities following the passing of the advisory opinion of the ICJ on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law.”

The resolution dictated by the EU made no mention of Kosovo other than to “take note” of the ICJ advisory opinion, and concluded by welcoming “the readiness of the EU to facilitate the process of dialogue between the parties.”

According to this text of the resolution, which UN General Assembly adopted by consensus; “The process of dialogue by itself would be a factor of peace, security and stability in the region. This dialogue would be aimed to promote cooperation, make progress on the path towards the EU and improve people’s lives.”

By accepting this text, the Serbian government abandoned all effort to gain international support from the many nations hostile to unilateral secession, and threw itself on the mercy of the European Union.

The key statement here was “the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues”. This was the point on which the greatest agreement could be attained. The United States made it known that it was totally unacceptable for the General Assembly to hold a debate on such a resolution. The main Belgrade daily Politika published an interview with Ted Carpenter of the Cato Institute in Washington saying that the Serbian draft resolution on Kosovo was “irritating America and the EU’s leading countries”. American diplomats were “working overtime” to thwart the resolution, he said. Carpenter said that the Serbian resolution was seen in Washington as an unfriendly act that would lead to a further deterioration in relations, and that as a result of its Kosovo policy, Serbia’s EU ambition could suffer setbacks that would have negative consequences for the Serbian government “and the Serb people”.

Carpenter conceded that this time around, the country would not be threatened militarily, but noted that the United States was influential enough to “make life very difficult” for any country that stood up against its policies. He concluded that Serbia would “have to accept the reality of an independent Kosovo”, and that Washington would thereupon leave it to Brussels to deal with the remaining problems.

The American stick was accompanied by a dangling EU carrot. Carpenter expressed his hope that the EU would consider various measures, “including adjustment of borders, regarding Kosovo, and the rest of Serbia”, but also, he noted, Bosnia-Herzegovina, suggesting that Serbs could be satisfied if a loss of Kosovo were compensated by a unification with Bosnia’s Serb entity, the Republika Srpska. Giving his own opinion, Carpenter said such a solution would at least be much better than the current U.S. and EU policy, “which seems to be that everyone in the region of the former Yugoslavia, except Serbs, has a right to secede”.

Carpenter, who was a sharp critic of the 1999 NATO bombing of Serbia, and who warned that secessionist movements around the world could use the Kosovo precedent for their own purposes, said that such a solution was possible “in the coming decades”… a fairly distant prospect.

The decisive arm twisting was perhaps administered by German foreign minister Guido Westerwelle on a visit to Belgrade. Whatever threats or promises he made were not disclosed, but on the eve of the scheduled UN General Assembly debate, the Tadic government caved in entirely and allowed the EU to rewrite the resolution.

The resolution dictated by the EU made no mention of Kosovo other than to “take note” of the ICJ advisory opinion, and concluded by welcoming “the readiness of the EU to facilitate the process of dialogue between the parties.”

According to this text of the resolution, which UN General Assembly adopted by consensus; “The process of dialogue by itself would be a factor of peace, security and stability in the region. This dialogue would be aimed to promote cooperation, make progress on the path towards the EU and improve people’s lives.”

By accepting this text, the Serbian government abandoned all effort to gain international support from the many nations hostile to unilateral secession, and threw itself on the mercy of the European Union.

Still More to Lose

In a TV interview, I was asked by Russia Today, “What does Serbia stand to gain?” My immediate answer was, “nothing”. Serbia implicitly abandoned its claim to Kosovo in return for nothing but vague suggestions of “dialogue”.

In a TV interview, I was asked by Russia Today, “What does Serbia stand to gain?” My immediate answer was, “nothing”. Serbia implicitly abandoned its claim to Kosovo in return for nothing but vague suggestions of “dialogue”.

A usual aim of all policy is to keep options open, but Serbia has now put all its eggs in the EU basket, in effect rebuffing all the member states of the UN General Assembly which were ready to support Belgrade as a matter of principle on the issue of unnegotiated unilateral secession.

Rather than gain anything, the Tadic government has apparently chosen to try to avoid losing still more than it has lost already. After the violent breakup of Yugoslavia along ethnic lines, Serbia remains the most multiethnic state in the region, which means that it includes minorities which can be incited to demand further secessions. There is a secession movement in the ethnically very mixed northern province of Voivodina, which could be more or less covertly encouraged by neighboring Hungary, an increasingly nationalist EU member attentive to the Hungarian minority in Voivodina. There is another, more rabid separatist movement in the southwestern region of Raska/Sanjak led by Muslims with links to Bosnian Islamists. Surrounded by NATO members and wide open to NATO agents, Serbia risks being destabilized by the rise of such secession movements, which Western media, firmly attached to the stereotypes established in the 1990s, could easily present as persecuted victims of potential Serb genocide.

Moreover, no matter how the Serbs vote, the US and UK embassies dictate the policies. This has been demonstrated several times. Little Serbia is actually in a position very like the Pétain government in 1940 to 1942, when it governed a part of France not yet occupied but totally surrounded by the conquering Nazis.

Moreover, no matter how the Serbs vote, the US and UK embassies dictate the policies. This has been demonstrated several times. Little Serbia is actually in a position very like the Pétain government in 1940 to 1942, when it governed a part of France not yet occupied but totally surrounded by the conquering Nazis.

It would take political genius to steer little Serbia through this geopolitical swamp, infested with snakes and crocodiles, and political genius is rare these days, in Serbia as elsewhere.

EU to the rescue?

Under these grim circumstances, the Tadic government has in effect abandoned all attempt at independence and entrusted the future of Serbia to the European Union.

Under these grim circumstances, the Tadic government has in effect abandoned all attempt at independence and entrusted the future of Serbia to the European Union. Serb patriots quite naturally decry this as a sell-out. Indeed it is, but Russia and China are far away, and could not be counted on to do anything for Serbia that would seriously annoy Washington. The fact is that much of the younger generation of Serbs is alienated from the past and dreams only of being in the EU, which means being treated as “normal”.

How will the EU reward these expectations?

Up to now, the EU has responded to each new Serb concession by asking for more and giving very little in return. At a time when many in the core EU countries feel that accepting Rumania and Bulgaria has brought more trouble than it was worth, enlargement to include Serbia, with its unfairly bad reputation, looks remote indeed.

In reality, the most Belgrade can hope for from the EU is that it will muster the courage to take its own policy line on the Balkans, separate from that of the United States.

Given the subservience of current EU leaders to Washington, this is a long shot. But it has a certain basis in reality.

United States policy toward the region has been heavily influenced by ethnic lobbies that have pledged allegiance to Washington in return for unconditional support of their nationalist aims. This is particularly the case of the rag-tag Albanian lobby in the United States, an odd mixture of dull-witted politicians and gun-running pizza parlor owners who flattered the Clinton administration into promising them their own statelet carved out of historic Serbia. The result has been “independent” Kosovo, in reality occupied by a major US military base, Camp Bondsteel, NATO-commanded pacifiers and an EU mission theoretically trying to introduce a modicum of legal order into what amounts to a failing state run by clans and living off various criminal activities. Since Camp Bondsteel is untouchable, and the grateful hoodlums have erected a giant statue to their hero, Bill Clinton, in their capital, Pristina, Washington is content with this situation.

But many in Europe are not. It is Europe, not the United States, that has to deal with violent Kosovo gangsters peddling dope and women in its cities. It is Europe, not the United States, that has this mess on its doorstep.

The media continue to peddle the 1999 fairy tale in which heroic NATO rescued the defenseless “Kosovars” from a hypothetical “genocide” (which never took place and never would have taken place), but European governments are in a position to know better.

As evidence of this is a letter written to German Chancellor Angela Merkel on October 26, 2007 by Dietmar Hartwig, who had been head of the EU (then EC) mission in Kosovo just prior to the NATO bombing in March 1999, when the mission was withdrawn. In describing the situation in Kosovo at a time when the NATO aggression was being prepared on the pretext of “saving the Kosovars”, Hartwig wrote:

“Not a single report submitted in the period from late November 1998 up to the evacuation on the eve of the war mentioned that Serbs had committed any major or systematic crimes against Albanians, nor there was a single case referring to genocide or genocide-like incidents or crimes. Quite the opposite, in my reports I have repeatedly informed that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive, their law enforcement demonstrated remarkable restraint and discipline. The clear and often cited goal of the Serbian administration was to observe the Milosevic-Holbrooke Agreement to the letter so not to provide any excuse to the international community to intervene. … There were huge ‘discrepancies in perception’ between what the missions in Kosovo have been reporting to their respective governments and capitals, and what the latter thereafter released to the media and the public. This discrepancy can only be viewed as input to long-term preparation for war against Yugoslavia. Until the time I left Kosovo, there never happened what the media and, with no less intensity the politicians, were relentlessly claiming. Accordingly, until 20 March 1999 there was no reason for military intervention, which renders illegitimate measures undertaken thereafter by the international community. The collective behavior of EU Member States prior to, and after the war broke out, gives rise to serious concerns, because the truth was killed, and the EU lost reliability.”

EU governments lied then, for the sake of NATO solidarity, and have been lying ever since.

Other official European observers said the same at the time, and in 2000, retired German general Heinz Loquai wrote a whole book, based especially on OSCE documents, showing that accusations against Serbia were false propaganda. While the public was fooled, government leaders have access to the truth.

In short, EU governments lied then, for the sake of NATO solidarity, and have been lying ever since.

Now as then, there are insiders who complain that the situation in reality is very different from the official version. Voices are raised pointing out that Republika Srpska is the only part of Bosnia that is succeeding, while the Muslim leadership in Sarajevo continues to count on largesse due to its proclaimed victim status. There seems to be a growing feeling in some leadership circles that in demonizing the Serbs, the EU has bet on the wrong horse. But that does not mean they will have the courage to confront the United States. In Kosovo itself, the most radical Albanian nationalists are ready to oppose the EU presence, by arms if necessary, while feeling confident of eternal support from their U.S. sponsors.

The Betrayal of Serbia

Pro-Western politicians in Belgrade labored under the illusion that throwing Milosevic to the ICTY wolves would be enough to ensure the good graces of the “International Community”. But in reality, the prosecution of Milosevic was used to publicize the trumped up “joint criminal enterprise” theory which blamed every aspect of the breakup of Yugoslavia on an imaginary Serbian conspiracy.

If the latest self-defeat at the UN General Assembly can be denounced as a betrayal, the betrayal began nearly ten years ago. On October 5, 2000, the regular presidential election process in Yugoslavia was boisterously interrupted by what the West described as a “democratic revolution” against the “dictator”, president Slobodan Milosevic. In reality, the “dictator” was about to enter the run-off round of the Yugoslav presidential election in which he seemed likely to lose to the main opposition candidate, Vojislav Kostunica. But the United States trained and incited the athletically inclined youth organization, Otpor (“resistance”), to take to the streets and set fire to the parliament in front of international television, to give the impression of a popular uprising. Probably, the scenarists modeled this show on the equally stage-managed overthrow of the Ceaucescu couple in Rumania at Christmas 1989, which ended in their murder following one of the shortest kangaroo court trials in history. For the generally ignorant world at large, being overthrown would be proof that Milosevic was really a “dictator” like Ceaucescu, whereas being defeated in an election would have tended to prove the opposite.

Proclaimed president, Kostunica intervened to save Milosevic, but not having been allowed to actually win the election, his position was undermined from the start, and all power was given to the Serbian prime minister, Zoran Djindjic, a favorite of the West who was too unpopular to have won an election in Serbia. Shortly thereafter, Djindjic violated the Serbian constitution by turning Milosevic over to the International Criminal Tribunal for Former Yugoslavia (ICTY) in The Hague – for one of the longest kangaroo court trials in history.

Having abandoned all attempt to assert its moral advantage, Serbia is counting solely on the kindness of strangers.

Pro-Western politicians in Belgrade labored under the illusion that throwing Milosevic to the ICTY wolves would be enough to ensure the good graces of the “International Community”. But in reality, the prosecution of Milosevic was used to publicize the trumped up “joint criminal enterprise” theory which blamed every aspect of the breakup of Yugoslavia on an imaginary Serbian conspiracy. The scapegoat turned out to be not just Milosevic, but Serbia itself. Serbia’s guilt for everything that went wrong in the Balkans was the essential propaganda line used to justify the 1999 NATO aggression, and by going along with it, the “democratic” Serbian leaders undermined their own moral claim to Kosovo.

In June 1999, Milosevic gave in and allowed NATO to occupy Kosovo under threat of carpet bombing that would destroy Serbia entirely. His successors fled from a less perilous battle – the battle to inform world public opinion of the complex truth of the Balkans. Having abandoned all attempt to assert its moral advantage, Serbia is counting solely on the kindness of strangers.

 

Diana Johnstone is author of Fools’ Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions (Monthly Review Press). She can be reached at diana.josto@yahoo.fr

www.srilankaguardian.org

Diana Johnstone, 22.09.2010.

mercredi, 27 octobre 2010

Bosnie: situation figée

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Bosnie : situation figée

 Bernhard TOMASCHITZ

 

Après les élections, l’immobilisme s’empare de la Bosnie.

 Les Etats-Unis et l’UE s’entêtent à vouloir imposer un Etat unitaire et multiethnique.

Le 5 octobre, la Bosnie-Herzégovine a élu un nouveau parlement et un nouveau « présidium d’Etat » mais les changements espérés par la « communauté internationale » ne se sont pas produits. Tous les partis ethniques représentant, chacun pour sa part, un des trois peuples porteurs de l’Etat bosniaque (les Bosniaques musulmans, les Serbes et les Croates) sont sortis vainqueurs incontestés des urnes. L’élection de Bakir Izetbegovic, fils du fondateur de l’actuel Etat bosniaque, Aliya Izetbegovic, au poste de représentant des Bosniaques musulmans, peut être considérée comme une surprise.

Les résultats de ces élections en Bosnie, pays qui, de facto, est un protectorat de l’UE, feront en sorte que la situation actuelle se maintiendra telle quelle. Aucun Etat « multiethnique », du type que souhaite voir advenir l’eurocratie bruxelloise, ne verra le jour dans l’immédiat et la « République serbe », qui représente une bonne moitié du pays, continuera à se défendre contre toute atteinte à ses compétences dans le cadre de la réforme constitutionnelle exigée par les Etats-Unis et l’UE. « La Bosnie-Herzégovine n’est possible que comme une fédération de républiques », a déclaré Milorad Dodik, ministre-président des Serbes de Bosnie, au quotidien « Danas » de Belgrade.  Cet homme politique serbe de Bosnie est sûr de savoir pourquoi l’Etat de Bosnie ne peut pas fonctionner. « La Bosnie-Herzégovine est une aberration née du processus de décomposition de l’ancienne Yougoslavie. Les étrangers veulent la maintenir, alors que chacun voit bien que rien n’en sortira, non pas à cause de Milorad Dodik, mais à cause de l’histoire et des circonstances que celle-ci a fait émerger et qui ont toujours existé ici ».

Mais il n’y a pas que les Serbes qui ruent dans les brancards. Au sein de la Fédération croato-bosniaque aussi, deuxième entité de l’Etat unitaire, on s’est mis à maugréer. Les hommes politiques croates réclament sans cesse la création d’une entité croate propre car ils craignent d’être minorisés par les Musulmans qui détiennent, dans la Fédération, une majorité de quatre cinquièmes. Ces craintes sont justifiées comme le montre l’élection du triumvirat constituant le Présidium d’Etat. Pour la Fédération croato-bosniaque, c’est le social-démocrate modéré Zeljko Komsic qui a été élu. Il doit son élection à une disposition technique: tous les citoyens de la Fédération croato-bosniaque peuvent élire leur membre du présidium, quelle que soit leur appartenance ethnique ; les Croates peuvent voter pour un Bosniaque musulman et vice-versa, les Bosniaques musulmans peuvent voter pour un Croate catholique. Donc Komsic doit sa réélection à des voix « prêtées » par des Musulmans. Il n’est dès lors pas étonnant que le candidat croate évincé, Dragan Covic, qui est d’inspiration nationaliste, ait déclaré qu’il allait « prendre des mesures », sans pour autant préciser quelles seraient ces mesures.

Sur le plan financier, les Croates, qui enregistrent davantage de succès sur le plan économique, subissent toutes sortes de désavantages. Avec l’argent de leurs impôts, ils doivent soutenir les Bosniaques. L’antenne locale de Mostar du parti croate HSP (Parti Croate du Droit) se plaint que les Croates, au cours des années écoulées, ont versé 4,3 milliards de « marks convertibles » (comme on appelle la devise du pays) de plus dans les caisses de la Fédération croato-bosniaque, au détriment de projets croates. « Les Croates sont plumés systématiquement et par des procédés légalement indiscutables, dans la mesure où ils sont minorisés quand il s’agit de voter », déclare l’antenne du HSP. La situation des Croates montre aux Serbes quelles seraient les conséquences d’une centralisation, avec une domination bosniaque-musulmane de l’appareil d’Etat. Au départ, pendant la guerre qui sévissait en Bosnie, l’expédient d’une Fédération avait du sens pour les Croates. « La Fédération est née au moment où les forces croates et bosniaques pouvaient espérer, ensemble, résister au défi que lançait la ‘République serbe’ en temps de guerre. Ensemble, Bosniaques et Croates formaient une masse critique suffisante pour maintenir la Bosnie-Herzégovine et empêcher toute sécession de cette ‘République serbe’ sur les plans financier, politique et même militaire », écrit un rapport récent de l’ « International Crisis Group ».

Cet « International Crisis Group » est un groupe de réflexion, financé notamment par des fondations américaines, qui sert de porte-voix à toutes les forces politiques qui veulent non seulement maintenir un Etat de Bosnie-Herzégovine, mais veulent le centraliser. Washington considère que cet Etat balkanique est un laboratoire expérimental pour un processus idéal de « Nation building », c’est-à-dire un processus qui mènera à la constitution d’un appareil d’Etat qui ne pourra fonctionner que vaille que vaille et constituera dès lors le lieu parfait pour y établir une base militaire importante afin que les Etats-Unis puissent continuer à exercer leur influence en Europe et sur l’Europe. A cela s’ajoute que tout Etat unitaire de Bosnie-Herzégovine serait automatiquement le meilleur garant imaginable dans la politique d’endiguement de la Serbie, allié important de la Russie. L’UE, pour sa part, essaie par tous les moyens d’instaurer en Bosnie son rêve de société multiethnique. La « communauté internationale », dont les seules composantes sont l’UE et les Etats-Unis, dépensent un argent fou pour parvenir à réaliser l’utopie d’une Bosnie unie. Depuis la fin de la guerre en Bosnie en 1995, plus de 14 milliards de dollars américains ont été injectés dans cet Etat balkanique qui ne compte environ que quatre millions d’habitants.

Vu les sommes énormes qui lui ont été consacrées et vu les intérêts qui sont en jeu là-bas, la Bosnie unitaire doit absolument être maintenue en vie. Par conséquent, l’ « International Crisis Group » exige une centralisation de l’Etat multiethnique de Bosnie. Car si la situation continue à empirer et que les combats politiques retardateurs de ceux qui ne veulent pas de cette centralisation se poursuivent, des « dommages irréparables dans les relations interethniques fragiles surviendraient et, ainsi, la viabilité de l’Etat serait remise en question ».

Mais la « communauté internationale », réduite à l’UE et aux Etats-Unis, et leurs caucus de réflexion omettent pourtant de prendre une alternative possible en considération : un démantèlement ordonné de la Bosnie-Herzégovine, en application du droit à l’auto-détermination des peuples, comme Washington et l’eurocratie bruxelloise l’ont accordé aux Albanais du Kosovo.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°41/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).  

Bernhard TOMASCHITZ:

lundi, 18 octobre 2010

Nationalism and Identity in Romania

Nationalism and Identity in Romania: A History of Extreme Politics from the Birth of the State to EU Accession
 

Radu Cinpoes (author)

Hardback £59.50

Romanian_Revolution_1989_1.jpgThe collapse of communism in Central and Eastern Europe produced a fundamental change in the political map of Europe. In Romania, nationalism re-emerged forcefully and continued to rally political support against the context of a long and difficult transition to democracy. Extreme right-wing party The Greater Romania Party gained particular strength as a major political power, and its persuasive appeal rested on a reiteration of nationalism and identity - and themes such as origins, historical continuity, leadership, morality and religion - that had been embedded in Romanian ideological discourse by earlier nationalist formations. Radu Cinpoes here examines the reasons for the strength and resilience of nationalism in Romania, from the formation of the state to its accession in the EU.

 

  • Preface * Nationalism - Conceptual Framework * Continuity and Discontinuity in the Romanian Nationalist Discourse * Tradition, Context and Transition to Post-Communism * The Greater Romania Party: Background, Competition and Significance * The Party and its Leader * The Decline of the Greater Romania Party * Romania in the EU: The Future of Nationalism * Conclusions
  • Radu CinpoeA specializes in nationalism and identity politics. He is lecturer in Politics and Human Rights at Kingston University, where he also obtained his PhD in 2006.

    Imprint: I.B.Tauris
    Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
    Series: International Library of Political Studies

    Hardback
    ISBN: 9781848851665
    Publication Date: 21 Sep 2010
    Number of Pages: 320

     

    dimanche, 12 septembre 2010

    Kosovo: le droit des gens sur la sellette

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     Kosovo: le droit des gens sur la sellette

    Question : quel est le principe du droit des gens qui est le plus important et qui doit recevoir la priorité ? Le droit à l’auto-détermination des peuples ou le principe de l’intégrité territoriale des Etats ? C’est la question à laquelle le Tribunal international devait répondre récemment dans le cas de son rapport d’expertise sur le Kosovo. Abstraction faite du contenu concret de ce rapport d’expertise et de ses effets politiques, le cas du Kosovo montre que le droit des gens n’est plus tellement une question de faire valoir le droit et de justifier celui-ci par des principes, mais n’est plus qu’une question de pouvoir et de force. Pourquoi ? Lors de la déclaration unilatérale d’indépendance du Kosovo, il y a peu d’années d’ici, on s’est réclamé du droit à l’auto-détermination des peuples, qu’il fallait octroyer aux Albanais ethniques du Kosovo ; on a également justifié ce choix du fait que l’ancien régime serbe avait commis, à l’encontre de ceux-ci, des crimes contraires aux droits de l’homme, lors de la guerre ayant précédé l’indépendance kosovare. Pour cette raison, on devait, dit-on, accorder l’indépendance aux Kosovars et leur octroyer le droit à l’auto-détermination. On n’a dès lors tenu aucun compte de l’intégrité du territoire de l’Etat de Serbie, ce qui a eu pour résultat que, jusqu’ici, le Kosovo n’a été reconnu que par un nombre très limité d’autres Etats.

     

    Il est de notoriété publique que cette indépendance du Kosovo a été rendue possible par des pressions extérieures, surtout américaines, et que les Européens, de ce fait, l’ont acceptée bon gré mal gré. Dans toutes ces démarches, on a complètement ignoré un fait : la construction qu’est le Kosovo est totalement dépendante sur le plan économique, n’est pas viable et constitue probablement le premier Etat entièrement musulman sur le sol européen.

     

    La Serbie veut que l’on entame de nouvelles négociations pour fixer un statut définitif au Kosovo mais l’opinion générale estime évidemment qu’elle ne l’obtiendra pas et que sa démarche est absurde car l’indépendance du Kosovo ne pourra plus être rendue nulle et non avenue. En vérité, le vrai problème est celui de la région du Nord du Kosovo, qui possède un peuplement serbe compact, pour lequel il conviendrait bien évidemment d’appliquer les mêmes principes du droit des gens, que nous venons de citer. Les Serbes du Kosovo sont pleinement en droit de faire valoir à leur profit le droit à l’auto-détermination. Et si l’on considère le Kosovo comme un Etat souverain à part entière, son intégrité territoriale ne doit pas être une vache sacrée, pas davantage que celle de la Serbie, puisqu’il est né précisément du rejet de ce principe d’intégrité territoriale. En clair : les Serbes vont être contraints d’accepter un compromis, dans la mesure où ils ne récupèreront que les seules régions peuplées de Serbes et devront entériner la sécession du reste du Kosovo.

     

    Ensuite, la grande question se pose à l’UE : ce territoire nouvellement indépendant, de peuplement albanais sera-t-il vraiment viable sur le long terme ou devra-t-on l’alimenter et le soutenir pour les siècles des siècles, en tant que pur protectorat de l’UE ? Ou bien se décidera-t-on d’élargir et de tester le principe de l’auto-détermination des peuples à tous les Albanais et Albanophones, en se demandant s’il ne serait pas utile de créer un Etat panalbanais, Kosovo compris, dans les Balkans occidentaux, qui serait rapidement lié à l’UE. Et comme les Européens financent déjà le tout, il faudrait tout de même veiller à ce que cet ensemble soit inclus dans une perspective géopolitique allant dans le sens des intérêts de l’Europe, en développant une vision au-delà des simples principes du droit des gens, et non pas dans une perspective allant dans le sens des intérêts, utilitaires et calculés, des Etats-Unis d’Amérique ou abondant dans le sens des visées expansionnistes et ubiquitaires du monde musulman. Si un « ordre nouveau » doit advenir dans les Balkans occidentaux et si cet « ordre nouveau » doit s’aligner sur l’UE et participer à l’intégration du continent européen, les principes du droit des gens devront obéir aux critères de la raison pragmatique. Celle-ci postule qu’il ne faut pas léser les intérêts et la fierté des autres grands peuples de cette région. Dans le cadre de cette évolution, la Serbie devra historiciser le mythe de la Bataille du Champs des Merles. Et les Kosovars musulmans devront accepter qu’ils ne resteront pas une république islamique souveraine par la grâce des Américains et aux frais des Européens.

     

    Andreas MÖLZER.

    (article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°30/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).

     

     

    mercredi, 30 juin 2010

    Lettre à un ami, trop sensible à la propagande de CNN...

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    SYNERGON - SYNERGIES EUROPÉENNES

    Bruxelles/Metz

    Mardi 20 avril 1999

    ATELIER "MINERVE"

    Lettre à un ami, trop sensible à la propagande de CNN...

    par Robert Steuckers,

    Secrétaire Général du Bureau Européen de SYNERGIES EUROPEENNES

    Mon cher Quentin,

    J'ai promis de répondre par une lettre ouverte à tes questions, traduisant l'inquiétude de nos contemporains face aux problèmes qui affectent la population albanaise du Kosovo aujourd'hui. Effectivement, plusieurs personnes m'ont posé les mêmes questions que toi: pourquoi nous sommes-nous engagés de manière aussi décisive contre l'intervention de l'OTAN, apparemment sans tenir compte des tragédies humaines qui plongent le Kosovo dans les horreurs de la guerre? Nous ne l'avons pas fait pour des raisons morales, mais pour des raisons historiques et géopolitiques, que je t'explicite dans cette lettre. Les souffrances des civils ne nous laissent pas indifférents et nous souhaitons que le programme de la Croix Rouge Internationale (CICR) pourra mettre ses structures au profit de toutes les victimes de cette guerre, dans l'esprit d'impartialité qui a fait la grandeur de Henri Dunant. Sur le plan géopolitique, je reste toutefois inébranlablement fidèle à un principe: l'espace européen, notre espace civilisationnel, ne peut en aucun cas subir des interventions américaines, chinoises, turques, islamistes ou autres. Ce doit être un axiome inébranlable dans notre pensée et notre action politiques.

     

    Dans l'un de mes derniers communiqués, j'ai dit clairement que cette guerre n'a rien à voir avec les droits de l'homme, ni même avec le Kosovo ou les Albanophones de cette province d'Europe, ni même avec les Serbes ou avec Milosevic. Mais, pour les Américains et les Européens décérébrés et félons qui servent l'OTAN, instance foncièrement anti-européenne visant la ruine de notre culture, il s'agit avant toutes choses de bloquer le Danube, de bloquer l'Adriatique, de fermer l'espace aérien dans le Sud-est européen, de contrôler à leur guise la Méditerranée orientale et, enfin, de créer et d'entretenir le chaos dans un bon quart de notre continent pendant plusieurs décennies. Je raisonne en termes géopoltiques et rien qu'en termes géopolitiques, car un cadre géographique et historique cohérent est le seul garant possible d'une convivialité politique et civilisationnelle harmonieuse. Je ne suis l'apôtre d'aucune morale toute faite, prête-à-ânonner, d'aucune éthique de la conviction qui, dans tous les cas de figure, fait la bête en voulant faire l'ange. Bien sûr, je ne vais pas aller dire que Milosevic et ses soldats sont des enfants de choeur, tout comme les combattants de l'UCK kosovar ne sont pas davantage des enfants de choeur. Mais en temps de guerre, en politique, qui ose lever le doigt et dire: "moi, m'sieur, j'suis un bon, un gentil, un tout propre". Et les généraux de l'OTAN ne font certainement pas plus partie de la confrérie des enfants de choeur que les miliciens d'Arkan ou de l'UCK. Même s'ils prétendent qu'à coups de missiles, de bombes ou de roquettes, ils vont apporter le "Bien" (avec un grand "B") dans les Balkans, comme les cloches ou le Lapin de Pâques apportent des oeufs en chocolat à nos chères têtes blondes. Croire au "kalokagathon" des militaires de l'OTAN ou du SHAPE, c'est de la pure déraison!

     

    Au lieu de hurler avec CNN, les intellectuels auto-proclamés et la sordide canaille journalistique (dont les plus répugnants exemplaires grenouillent à Paris) feraient bien mieux de lire quelques solides bouquins sur l'histoire de la péninsule balkanique. Dans les événements de ces dix dernières années, ni les Serbes ni les Croates ni les Albanais ne sont les "coupables" en dernière instance: les malheurs et les tragédies des Balkans sont le triste résultat de 500 ans de domination ottomane. Au cours de cette période horrible, les peuples des Balkans ont été écrasés, martyrisés, des populations entières ont été expulsées de leurs patries d'origine: les Serbes ont fui les armées ottomanes pour se réfugier en Croatie; les Croates se sont repliés en Slovénie, en Carinthie, en Italie et dans tout le reste de l'Europe (en France, il y avait des régiments croates), une partie des Albanais de souche ont dû s'installer en Italie du Sud. Les Ottomans et les convertis à l'Islam ont dominé sans partage. Chaque année, 10% des garçons étaient enlevés à leur famille, déportés en Anatolie, dressés dans des écoles de janissaires, transformés en mercenaires de la "Sublime Porte". Dans notre Occident pourri de confort, on a du mal à s'imaginer la profonde horreur que fut cette domination ottomane en Albanie, en Serbie, en Bosnie et en Croatie. Très tôt, les techniques de la guerre des partisans ont été appliquées contre les occupants dans les Balkans ottomanisés: les partisans de ces siècles d'oppression s'appelaient les Haiduks; en Albanie, ils ont été conduits par un capitaine sublime, surnommé Skanderbeg. Il avait été enlevé à sa famille, éduqué pour devenir janissaire: il s'est évadé d'Anatolie pour rejoindre son peuple dans les montagnes et combattre le joug ottoman. Dans les Balkans, il y a assez de thématiques historiques pour créer un cinéma européen pendant 300 ans, avec des films autrement plus captivants que les fades historiettes de cow-boys ou les soap-operas de la sous-culture américaine! Tout le folklore croate de Dalmatie et d'ailleurs, avec ses costumes magnifiques, rappelle la lutte pluriséculaire contre les Turcs. Pendant 500 ans, les Balkans se sont insurgés contre la culture composite de l'empire ottoman, exécrable préfiguration de la multiculture qu'on cherche à nous fourguer aujourd'hui comme la panacée définitive, qui mettra un terme aux tumultes de l'histoire et dissolvera toutes nos traditions, tous les ressorts de notre identité, toutes les constantes de nos systèmes juridiques. Relis les retentissantes sottises qu'ont écrites des Bernard-Henry Lévy et des Alain Finkielkraut. Mais cette mutliculture, on est bien forcé de le reconnaître, ne peut pas fonctionner. Elle laisse des séquelles indélébiles, elle provoque des tragédies que les siècles ne parviennent pas à effacer, elle déboussole les peuples, elle ne leur procure aucun apaisement. La preuve? La succession ininterrompue des tragédies balkaniques en ce siècle.

     

    En Espagne, quand les armées asturiennes, aragonaises, castillanes et basques prennent enfin pied en Andalousie pour ramener cette terre à la grande patrie européenne, mettre ainsi un terme à la Reconquista et faire de la péninsule ibérique un Etat viable, ils se rendent rapidement compte qu'aucune culture composite ne permettra de donner une colonne vertébrale solide à cet Etat en jachère. Ou bien l'Ibérie était musulmane et appliquait un droit dérivé du Coran (ce qui est parfaitement respectable en soi), ou bien l'Ibérie était chrétienne et appliquait un droit dérivé du droit coutumier wisigothique (en vigueur en Espagne avant l'islamisation forcée et dans les régions non conquises par les Arabes). Un mixte de droit coranique et de droit coutumier germanique ne peut fonctionner harmonieusement, donc aucune convivialité sociale ne peut surgir si des règles boiteuses et peu claires sont appliquées dans la société. Cette impossibilité d'un droit composite a scellé le sort des vaincus, qui ont dû se replier en Afrique du Nord ou dans les provinces ottomanes, jusqu'à Istanbul, où ils pouvaient vivre sous le droit coranique selon leurs voeux et leurs convictions.

     

    Dans les Balkans, après la terrible défaite des Serbes et de leurs alliés bosniaques, croates et albanais dans la Plaine du Kosovo, au Champ des Merles en 1389, les armées chrétiennes n'ont plus pu s'imposer. Une croisade hongroise du Roi Sigismund, aidée de chevaliers français et allemands, n'a pas pu délivrer les Balkans: elle a été écrasée en 1396 par le Sultan Bayazid Yildirim. La date de 1389 marque le début d'une affreuse tragédie pour l'Europe, qui s'agravera encore par la trahison du Roi de France, François Ier, qui s'allie aux Turcs pour prendre l'Europe centrale dans une redoutable tenaille: à l'Ouest les Français, à l'Est les Turcs. Cette alliance va durer 300 ans. Qu'on en juge: en 1526, François Ier veut s'emparer de la ville impériale de Milan. Charles-Quint, Empereur, le bat à Pavie, avec l'appui, notamment, d'une troupe d'élite: les bandes d'ordonnance des Pays-Bas, regroupant les meilleurs guerriers de la noblesse du Brabant, des Flandres, du Luxembourg et du Hainaut. Mais, l'alliance franco-turque déploie déjà sa logique implacable, celle des attaques concertées et simultanées, sur deux fronts: la même année que Pavie, les Ottomans envahissent et dévastent la Croatie, après leur victoire à Mohacs. Le vieil Etat médiéval croate, havre d'une culture incomparable, cesse d'exister, connait le même sort que la Serbie en 1389. La perte de la Croatie a été une tragédie pour l'Europe. Présents en Croatie, les Ottomans peuvent menacer et envahir la Hongrie et la Basse-Autriche à leur guise. Deux fois, Vienne sera assiégée et sauvée par le courage et la tenacité de ses milices bourgeoises et des troupes impériales et polonaises (Jan Sobiesky). Chaque fois que les Ottomans attaquent à l'Est, les Français attaquent à l'Ouest. Le Reich se défendra bec et ongles pour échapper à cette tenaille, épuisant toutes ses forces.

     

    A la fin du 17ième siècle, se constitue la SAINTE-ALLIANCE (Bavière, Saint-Empire, Autriche-Hongrie, Pologne-Lithuanie, Russie), sous l'impulsion d'un Capitaine exceptionnel, le Prince Eugène de Savoie, qui force les Ottomans à céder 400.000 km2 aux pays de cette Sainte-Alliance. L'Empire ottoman recule partout, de la Dalmatie au Caucase. Le Reich peut respirer, mais insuffisamment: Louis XIV attaque à l'Ouest, ravage la Lorraine (50% de morts ou de réfugiés parmi les autochtones), la Franche-Comté (60% de morts et de réfugiés, notamment au Val d'Aoste), le Palatinat (66% de morts et de réfugiés). Comme dans les Balkans, les ressortissants du Saint-Empire de langue romane fuyent devant les Français comme leurs infortunés confrères des Balkans fuyaient devant les Turcs. Les Lorrains ont été recasés en Allemagne, en Suisse, dans les Pays-Bas, dans le Banat serbe et roumain, en Italie  (où 6000 d'entre eux mourront de paludisme en tentant d'assécher les marais pontins près de Rome, que leur avait donnés le Pape...). En 1695, le Maréchal de Villeroy, pour soulager les Turcs et attirer vers l'Ouest une parties des armées impériales, fait bombarder à boulets rouges Bruxelles, gratuitement. C'est le premier bombardement terroriste de l'histoire, la sinistre préfiguration de Coventry, Dresde, Berlin, Hambourg, et, plus récemment, Hanoi, Bagdad et aujourd'hui Belgrade, Novi Sad, etc. La Sainte-Alliance et le Saint-Empire ont certes vaincu à l'Est, mais ils ont perdu à l'Ouest de belles provinces: la Flandre méridionale, l'Artois, le Cambrésis, la Bresse, la Franche-Comté, la Lorraine et l'Alsace. Preuve, s'il en est, qu'il est impossible de guerroyer sur deux fronts. En 1718, Belgrade est libérée par un régiment de Huy, ville de la vallée de la Meuse, où les drapeaux du Sultan, prix comme trophées, ont longtemps été conservés dans la collégiale.

     

    En 1791, les Anglais se décident à soutenir en toutes circonstances la Turquie moribonde contre TOUTES les puissances européennes s'approchant de la Méditerranée orientale, point de passage obligé pour atteindre l'Egypte convoitée, où l'on envisageait déjà de creuser le Canal de Suez, pour rejoindre plus facilement les Indes, via la Mer Rouge. Cette politique de "containment" avant la lettre est consignée dans un mémorandum remis à Pitt, Premier Ministre anglais. Les axiomes de la politique maritime de l'Angleterre y ont été fixés une fois pour toutes: les Autrichiens ne doivent pas avancer trop loin dans les Balkans; les Russes, qui occupent la Crimée depuis 1783, doivent être contenus au Nord du Bosphore et ne pas se rendre totalement maîtres de la Mer Noire. Il faut réfléchir à ce mémorandum quand on analyse les événements d'aujourd'hui. La révolution française, en envahissant les Pays-Bas autrichiens en 1792, obligent, par leur diversion, les Serbes à capituler une nouvelle fois devant les Ottomans, à abandonner leur vague autonomie, récente et précaire, parce qu'ils ne bénéficient plus de l'appui militaire autrichien, Vienne étant obligée de mobiliser ses réserves, y compris ses régiments croates, pour faire face au déferlement des sans-culottes qui pillent et assassinent à qui mieux mieux de Tournai au Rhin (la magnifique abbaye de Villers-la-Ville sera ainsi réduite en cendres et jamais reconstruite). Ces hordes "révolutionnaires" faisaient le travail des Anglais: elles allaient éliminer quelques mois plus tard un Roi qui avait fait alliance avec l'Autriche et renoncé à la calamiteuse politique des François Ier, Richelieu et Louis XIV. Louis XVI avait mis sur pied de guerre une flotte redoutable qui avait réussi à battre la Royal Navy à Yorktown en 1783, humiliant ainsi Londres. Il avait ensuite lancé des expéditions lointaines (dont celle de La Pérouse qui l'a obsédé jusqu'au pied de l'échafaud: "A-t-on des nouvelles de La Pérouse?" a demandé ce Roi sage avant d'être décapité). L'Angleterre se débarrassait machiavéliquement d'un Roi apparemment débonnaire, mais dont la politique était européenne, offensive en direction de l'Atlantique et clairvoyante. Louis XVI est mort parce qu'il avait tourné le dos à l'alliance franco-turque, renoncé à la séculaire hostilité du Royaume de France au Saint-Empire, aperçu l'avenir de son pays au Canada (ces "arpents de neige" de la Pompadour...), dans l'Atlantique, sur les océans. Face à l'Ouest, dos au Reich, comme celui-ci pouvait désormais sans craindre de coup de poignard dans le dos, faire face aux Ottomans.

     

    Ce n'est qu'à la fin du XIXième siècle que la France et la Russie manipuleront la Serbie contre l'Autriche. Mais avant cela, il a fallu éliminer totalement en 1903 la famille régnante des Obrenovic, qui seront remplacés par les Karageorgevic, qui dénonceront tous les liens antérieurs de la Serbie avec l'Autriche, détentrice de la dignité impériale. L'attentat de Sarajevo est le triste et dramatique aboutissement de cette prise du pouvoir par les Karageorgevic au détriment des Obrenovic. Après 1919 et la révolution bolchevique, la France exsangue utilise son or pour financer les gigantesques budgets des armées polonaises et yougoslaves (serbes), afin de contenir l'Allemagne, ni la nouvelle Turquie kémaliste ni la Russie bolchevique ne pouvant ou ne voulant plus jouer ce rôle. C'est une ironie de l'histoire de voir que la Serbie a accepté le rôle d'"ersatz" de la Turquie après le Diktat de Versailles. Mais rapidement des hommes d'Etat serbes s'apercevront que cette situation est artificielle et intenable sur le long terme; elle risquait de faire de la Yougoslavie un Etat assisté, incapable de développer de manière autonome une économie viable, en harmonie avec ses voisins. En 1934, la diplomatie de Goering (décrite par les Américains comme la tentative de construire dans le Sud-Est européen "a German informal Empire") réussit une réconciliation entre l'Allemagne et le Royaume de Yougoslavie, dirigée par la poigne de l'économiste serbe Milan Stojadinovic (1888-1961), qui comprend qu'une Yougoslavie isolée de ses voisins ne peut survivre économiquement. Stojadinovic renoue avec l'Italie et la Bulgarie (ennemie héréditaire de la Serbie) et s'appuie sur les Serbes, les Slovènes et les Bosniaques musulmans; sa popularité est nettement moindre chez les Croates catholiques (qui implicitement refuse l'alliance allemande, alors qu'on leur reproche aujourd'hui d'être des germanophiles inconditionnels!). L'alliance germano-yougoslave durera jusqu'en 1941. La Yougoslavie adhèrera à l'Axe. En mars 41, un putsch pro-britannique (Colonel Simovic) renverse le gouvernement légal. Les troupes de l'Axe entrent dans le pays pour sauver une légalité qui leur convenait. Les Croates changent de camp, trouvant dans une alliance avec l'Allemagne et l'Italie une chance de quitter l'Etat yougoslave qu'ils jugent composite (comme quoi rien n'est simple dans les Balkans, où les alliances changent souvent!). Avec l'entrée des troupes allemandes, hongroises, bulgares et italiennes, une tragédie sans nom s'abat sur tous les peuples de la Yougoslavie, avec, en plus, de nouveaux tracés pour les frontières intérieures, toujours contestés par les toutes les parties aujourd'hui, tant les populations, dispersées antérieurement par la terreur ottomane vivent les unes dans les autres, sans frontières précises. De 1941 à 1945, le gouvernement serbe du Général Nedic reste en selle, assez fidèle à l'Axe malgré le chaos dans lequel il plonge les Balkans. Il s'appuie sur une armée de 10.000 hommes bien entraînés et très disciplinés, dont les militaires allemands feront l'éloge. Mais le pays est plongé dans une abominable guerre civile: ethnie contre ethnie, mais aussi Serbes contre Serbes (soldats de Nedic, tchetniks royalistes et partisans titistes dans une terrifiante lutte triangulaire), Croates contre Croates (Oustachistes contre Partisans, Tito étant, ethniquement parlant, un Croato-slovène; Tudjman, l'actuel président croate, était partisan communiste, alors que des esprits simples, mal intentionnés et mal informés en font un fasciste de toujours!), Slovènes contre Slovènes (Domobrans contre Partisans), etc.

     

    Aujourd'hui, après la mort de Tito, après l'indépendance de la Croatie et de la Slovénie, l'alliance franco-turque de 1526 à 1792, l'alliance anglo-turque de 1791 à nos jours, fait place à un Axe américano-turc, visant à recréer une chaîne de petits Etat inféodés à l'OTAN et à la Turquie, pour faire pièce aux Européens dans le Sud-Est balkanique et y entretenir des foyers de tensions permanentes, semant la zizanie dans toute l'Europe. Ce sont essentiellement les Russes et les Allemands qui sont visés, mais aussi les Italiens qui ont toujours eu des intérêts en Méditerranée orientale (Rhodes, Cilicie), les Grecs (Chypre), les Chrétiens d'Orient (Liban, Syrie), la France (qui ne pourra plus jamais jouer son rôle de protectrice des chrétientés d'Orient). Le mémorandum adressé à Pitt est toujours d'actualité, mais c'est le Pentagone qui le concrétise dans les faits. Cette politique est inadmissible pour tous les Européens. Cette politique est anti-impériale, elle empêche l'Europe de retrouver une conscience impériale au sens de la Sainte-Alliance de 1690 à 1720. Tous ceux qui refusent de voir ce nouvel état de choses, de tirer clairement les leçons de l'histoire, sont des imbéciles. Ceux qui travaillent à occulter les leçons de l'histoire, ceux qui entretiennent délibérément l'ignorance des masses et des élites, ceux qui occupent des postes importants, ministériels ou autres, diplomatiques ou économiques, et qui ne raisonnent pas en termes d'histoire, sont de vils traîtres. Leur sort doit être mis aux mains d'une nouvelle Sainte-Vehme, tribunal occulte oeuvrant au seul salut du Saint-Empire. Et qui ne connait que deux sentences: l'acquittement ou la mort.

     

    - Je suis un héritier spirituel des Bandes d'Ordonnance des Pays-Bas qui ont combattu contre François Ier à Pavie en 1526.

    - Je suis un héritier spirituel de Don Juan d'Autriche, vainqueur à la bataille navale de Lépante en Méditerranée orientale en 1571, en tentant de reprendre Chypre aux Ottomans (puisse une flotte hispano-italo-franco-germano-croato-serbo-russo-grecque, totalement dégagée du machin OTAN, cingler très bientôt vers cette île et en faire un bastion inexpugnable de la Grande Europe!).

    - Je suis un héritier spirituel du Prince Eugène de Savoie, que l'on nommait le Noble Chevalier ("Der edle Ritter").

    - J'admire le long combat héroïque des Haiduks slaves et roumains et l'épopée du héros albanais Skanderbeg (tout Albanais qui ne rend pas hommage à Skanderbeg est un traître à son albanitude; tout Albanais qui ne combat pas pour son albanitude face au sud, dos au nord, n'est pas un Albanais, mais un mercenaire ottoman).

    - Je place mes travaux géopolitiques sous le signe de la Sainte-Alliance de 1690 à 1720.

    - Je suis un héritier spirituel des milices de la Ville de Bruxelles qui ont défendu leur ville contre les artilleurs terroristes du Maréchal de Villeroy, à côté des soldats bavarois et savoisiens de la garnison. Je te rappelle aussi, cher Quentin, qu'à l'âge de huit ans, mon cousin, de 22 ans mon aîné, m'a dit de toujours regarder la façade d'une maison de la Grand'Place de Bruxelles, sur laquelle figure un Phénix, symbolisant la cité et le Brabant résistant aux assauts du Roi Soleil et lui faisant la nique. Mon cousin m'a demandé de ne jamais oublier ce symbole. Je ne l'ai jamais oublié.

    - Je suis un héritier spirituel des soldats hutois de l'armée autrichienne qui ont enlevé Belgrade en 1718, l'ont rendue à l'Europe.

    - Je suis un héritier spirtuel des soldats des régiments de Baulieu, de Clerfayt, de Ligne, de Latour, qui ont tenté d'endiguer le flot des sans-culottes se déversant vers le Rhin en 1792, tandis que leurs alliés turcs reprenaient Belgrade sur le Danube et privaient les Serbes de leurs libertés.

    - Je suis un héritier politique de Bismarck (et de Léopold I) qui s'opposaient à l'alliance anglo-franco-turque lors de la Guerre de Crimée contre la Russie, ancienne puissance de la Sainte-Alliance de 1690 à 1720.

    - Je me souviens avec horreur de l'attentat de Sarajevo qui a coûté la vie à l'Archiduc d'Autriche et à son épouse, la Comtesse Chotek, tout comme je me souviens avec horreur du sort de la famille Obrenovic.

    - Je déplore l'alliance franco-serbe d'après 1918, où la Serbie a été un "ersatz" de la Turquie ottomane et a été infidèle à son histoire.

    - Je respecte rétrospectivement la politique économique et diplomatique de Milan Stojadinovic, soucieux de replacer son pays au sein de la famille des peuples de la Mitteleuropa et des Balkans.

    - Je respecte l'attitude de Nedic, jeté dans un désarroi indescriptible, à l'époque la plus tragique de notre siècle.

    - Je respecte tous les Yougoslaves, de quelle qu'ethnie que ce soit, qui ont combattu au cours de l'histoire du côté du Saint-Empire et de la Sainte-Alliance comme haiduks ou comme soldats réguliers, en particulier comme "granicar" (garde-frontières) le long du limes organisé par l'Autriche pour défendre l'Europe contre les Ottomans.

    - Je déplore que Tito se soit laissé manoeuvrer par les Anglais contre les Allemands, les Hongrois, les Italiens et les Russes, sans pour autant condamner a priori sa politique de non-alignement (Bandoeng, etc.) et son socialisme fédéral et auto-gestionnaire, sorte de troisième voie entre le capitalisme et le panzercommunisme, à une époque où rien d'autre n'était possible.

    - J'ai accepté l'indépendance de la Slovénie et de la Croatie en 1991, parce que je sais que des Etats composites sont inviables, incapables de susciter l'adhésion à des codes de droit précis (curieux que les défenseurs, en théorie, des droits de l'homme, sont ceux qui manipulent des idéologies qui nient le droit concret, seul vecteur de civilité viable!). De plus, ces deux pays offraient enfin une façade méditerranéenne-adriatique aux pays d'Europe centrale, ce que la France et l'Angleterre ont toujours voulu leur confisquer, les condamnant à l'enclavement continental (on se souviendra ici des "départements illyriens" inventés par Napoléon pour couper la Hongrie et l'Autriche de la mer, fonction que devait reprendre la Yougoslavie selon Poincaré et Clémenceau).

    - Je défends l'indépendance de ces deux pays, mais sans développer de serbophobie, à la manière de certains philosophes parisiens.

    - Je pense que la Serbie a droit à sa spécificité au même titre que l'Albanie illyrienne, la Bosnie bogomil, la Croatie et la Slovénie. Toutes ces identités et spécificités s'enracinent et doivent nécessairement s'enraciner dans l'esprit haiduk (ou granicar).

    - Je m'oppose à l'alliance américano-turque d'aujourd'hui, tout comme Bismarck s'est opposé à l'alliance anglo-franco-turque lors de la Guerre de Crimée.

    - Je demeure un fidèle lecteur de Carl Schmitt (dont les deux épouses ont été serbes!), qui a théorisé l'interdiction d'intervention des puissances extérieures à un espace donné.

    - Je demeure un fidèle disciple de Carl Schmitt, car je me souviens qu'il a décrit, avec force arguments juridiques solidement étayés, la Grande-Bretagne et les Etats-Unis comme des Etats pirates.

    - Je demeure encore et toujours un fidèle disciple de Carl Schmitt, dans le sens où il a toujours décrit les bons apôtres de la morale internationaliste comme de dangereux ferments de la dissolution des Etats, donc de la civilisation, de l'urbanité, de la culture et surtout du droit.

    Telles sont mes positions. Je persiste et je signe. Rien ne m'ébranlera. Je suis dans la continuité historique donc dans le réel. Tant pis pour ceux qui restent en dehors de l'une et de l'autre.

    Je reste à la disposition de mes lecteurs pour leur conseiller de bonnes lectures sur tout ce qui précède.

    A bientôt, cher Quentin, meilleures amitiés.

    Robert Steuckers.   

     

    mercredi, 05 mai 2010

    Le partenariat russo-serbe dans les Balkans

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    Bernhard TOMASCHITZ:

    Le partenariat russo-serbe dans les Balkans

     

    Le partenariat historique entre la Russie et la Serbie vit un renouveau depuis quelques années. Moscou était aux côtés de Belgrade lorsqu’il a fallu se battre contre l’indépendance du Kosovo, voulue par les Etats-Unis. Le puissant allié de Belgrade étend également son bras protecteur sur les Serbes de Bosnie qui se défendent contre le centralisme que veut imposer l’Etat de Bosnie-Herzégovine, ce qui aurait pour conséquence de mettre un terme à la large autonomie dont bénéficie la “Republika Srpska”. “Les citoyens de Bosnie-Herzégovine doivent décider eux-mêmes de leur avenir; par conséquent, on peut réinterpréter les accords de Dayton sur base d’un accord entre la Republika Srpska et la Fédération musulmane-croate, ainsi qu’entre elles et toutes les autres minorités ethnique qui y vivent”, a déclaré en novembre 2009 Vitali Tchourkine, ambassadeur russe auprès de l’ONU.

     

    Le soutien russe à la Serbie ne signifie pas la résurrection pure et simple de l’alliance historique entre les deux peuples: derrière ce soutien, se profilent des considérations stratégiques objectives. Ce sont elles qui donnent le ton. Après que tous les nouveaux Etats issus de la dislocation de la Yougoslavie soient devenus ou adhérents de l’OTAN ou sont en passe d’entrer au sein du Pacte nord-atlantique, au vif déplaisir de Moscou, la Serbie reste le seul Etat dans les Balkans qui ne s’est pas soumis à l’hégémonisme américain. “La Russie, à cause de l’extension des zones d’influence américaines, court le danger d’être progressivement exclue du Sud-Est de l’Europe. Les Etats-Unis ont, depuis la fin de la guerre froide et dans le sillage des conflits en ex-Yougoslavie, largement étendu leur présence politique dans les Balkans occidentaux et, par le biais de l’OTAN ou d’alliances bilatérales en matière de sécurité, bétonné leur prééminence géostratégique dans la région”: telle est l’analyse de Dusan Reljic de l’institut berlinois “Stiftung Wissenschaft und Politik”. Depuis que la Russie est sortie de l’ère des faiblesses que fut l’époque d’Eltsine dans les années 90 et qu’elle a retrouvé une conscience politique bien profilée et la fait valoir en politique étrangère, elle s’oppose tout naturellement aux tentatives américaines d’asseoir l’hégémonie des Etats-Unis dans les Balkans.

     

    Cela explique aussi pourquoi Moscou, par exemple, s’oppose à la politique de faire de la Bosnie-Herzégovine un Etat centralisé, politique préconisée par les Etats-Unis et l’Union Européenne. Dans le cas d’un régime centralisateur, la République serbe de Bosnie, qui s’oppose à toute adhésion à l’OTAN, perdrait son droit de veto. La Russie cherche donc à façonner à son avantage le cours politique dans les Balkans via la Serbie et les Serbes ethniques. Belgrade cependant est quasiment contrainte d’accepter le partenariat. Car sans l’aide de la Russie, qui possède un droit de veto au Conseil de Sécurité de l’ONU, la Serbie se retrouverait seule et isolée, livrée sans la moindre protection aux appétits de Washington et ne pourrait pas faire valoir ses intérêts nationaux légitimes, surtout quand il s’agira demain d’empêcher la sécession définitive du Kosovo.

     

    Les efforts du Kremlin, qui tente de lier fermement la Serbie à lui, gènent et agaçent les Etats-Unis, puissance étrangère à l’espace européen qui cherche à placer les Balkans tout entiers sous son contrôle. Pour arrimer définitivement le plus grand et le plus peuplé des Etats ex-yougoslaves aux “structures euro-atlantiques”, on fait miroiter à la Serbie l’adhésion à l’Union Européenne que réclame effectivement Belgrade. Au printemps 2009, le secrétaire général de l’OTAN à l’époque, Jaap de Hoop Scheffer, avait déclaré que c’était devenu “pratique courante” de coupler l’adhésion à l’UE à l’adhésion à l’OTAN. Peu auparavant, l’ambassadeur russe en Serbie, Alexandre Konunzine, avait rappelé à Belgrade sa neutralité militaire officielle. Seule la Russie pouvait être pour la Serbie un “partenaire stratégique” et non le contraire, fit savoir un diplomate.

     

    L’idée d’adhérer à l’OTAN, le pacte militaire dominé par les Etats-Unis, n’est guère populaire en Serbie. Les souvenirs de la guerre menée par l’OTAN contre la Serbie en 1999 sont encore trop douloureux; officiellement, cette guerre d’agression avait eu pour but de protéger les Albanais du Kosovo. Cette guerre, gérée en dépit des principes du droit des gens car elle avait été déclenchée sans l’approbation préalable du Conseil de Sécurité de l’ONU, avait coûté la vie à près de 3000 Serbes, dont beaucoup de civils. Ensuite, parce que des usines chimiques avaient été bombardées, l’environnement avait été considérablement pollué. En mai 2009, lors d’un sondage du “Centre pour les élections libres et la démocratie” (Belgrade), 39% des personnes interrogées se déclaraient en faveur d’une adhésion à l’UE mais seulement 16% en faveur d’une adhésion simultanée à l’OTAN et à l’UE. Toutefois, au cours des années écoulées, l’engouement partiel des Serbes pour l’UE s’est atténué. Pourquoi? A cause de l’attitude partisane de l’eurocratie bruxelloise dans la question du Kosovo et à cause des conditions jugées très “dures” qu’impose cette eurocratie aux Serbes pour qu’ils puissent se rapprocher de l’Union. Ces attitudes ont laissé des traces, ont provoqué amertume et suspicion; c’est pourquoi l’ “option russe” n’a pas été abandonnée. En octobre 2008, le ministre serbe de la défense nationale, Dragan Sutanovac, avait déclaré au quotidien français “Le Figaro”: “Si l’UE ne nous ouvre pas les portes.... nous trouverons  d’autres solutions avec la Russie”.

     

    Sans que l’Occident ne semble s’en être aperçu, Moscou, au cours de ces dernières années, a travaillé inlassablement, en étant bien conscient de ses priorités et de ses objectifs, pour devenir, pour la Serbie et les autres pays de la région, un partenaire économique incontournable. Dans le déploiement de cette stratégie, les consortiums pétroliers Lukoil et Gazprom ont joué un rôle de premier plan. Si les choses se déroulent selon les voeux de Moscou, l’importance de la Serbie croîtra encore. En effet, l’embranchement septentrional du gazoduc “South Stream” amènera du gaz naturel russe vers l’Europe centrale en passant notamment par des territoires serbes. Parmi les effets positifs pour Belgrade, il y a, bien sûr, le gain de prestige politique mais aussi l’opportunité de lever des taxes de transit pour ce gaz naturel, ce qui constituera une nouvelle source de revenus pour le pays.

     

    Bernard  TOMASCHITZ.

    (article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

     

    mardi, 04 mai 2010

    L'UE et sa politique de deux poids deux mesures

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    Andreas MÖLZER:

    L’Union Européenne et sa politique des deux poids deux mesures

     

    La Turquie est traitée avec tact tandis que la Serbie doit subir vexations et rigueur

     

    Les ambitions européennes de la Serbie seraient en train de se concrétiser: le pays s’est excusé récemment, et de manière formelle, pour le massacre de Srebenica, attitude d’humilité et de contrition que l’on chercherait en vain chez cet autre pays candidat à l’adhésion qu’est la Turquie, mais dont la candidature est toutefois largement contestée. En Turquie, on est menacé de sanctions si l’on ose débattre du génocide arménien.

     

    L’interprétation des critères de Copenhague est arbitraire: on reproche à Belgrade de ne pas coopérer suffisamment avec le Tribunal de La Haye tandis que les atteintes aux droits de l’homme à Ankara sont considérées comme des faits divers négligeables. Mais ce n’est pas une nouveauté, ce n’est pas la première fois que l’UE pratique une politique de deux poids deux mesures. En Bosnie, on veut contraindre plusieurs groupes ethniques à cohabiter au sein d’un même Etat multiculturel alors qu’au Kosovo l’UE trouve tout naturel et légitime qu’un groupe ethnique se sépare d’un autre Etat. Le délégué de l’UE au Kosovo s’aligne sur le Plan Ahtisaari, déjà mis ad acta, et se mêle des élections communales serbes: voilà qui s’avère hautement problématique et contredit le devoir de neutralité dont doit faire montre tout médiateur, rôle que l’UE a la prétension de tenir.

     

    La Serbie, au contraire de la Turquie, est historiquement et culturellement  européenne et constitue un Etat appelé à jouer un rôle clef dans la sécurité de tous les Balkans. Bien sûr, on ne doit pas répéter l’erreur commise lors de l’adhésion trop précoce de la Bulgarie et de la Roumanie à l’Union: il faut désormais que tous les critères d’adhésion soient remplis sans exception.  Mais, en revanche, l’UE n’a pas le droit d’exiger de la Serbie, pour prix de sa préparation à une éventuelle  adhésion, qu’elle reconnaisse l’indépendance du Kosovo, obtenue au mépris du droit des gens.

     

    Andreas MÖLZER.

    (article paru dans ézur Zeit”, Vienne, n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

    mardi, 06 avril 2010

    South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

    »South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

    F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

    Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

    South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

    Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

    Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

    In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

    Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

    Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

    Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

    Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

    Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

    Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

    Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

    Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

    Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

    Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

     

    Nabucco auf dem Trockenen …

    Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

    Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

    Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

    Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

    Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

    Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

    Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

    Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

    Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

    In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

    Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

    Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

    Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

    Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

    Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

    Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

     

     

    __________

    (1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

    (2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

    (3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

    (4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

    (5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

    (6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

    (7) Ebenda

    (8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

    (9) Ebenda

    (10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

    (11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

    (12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

     

    Mittwoch, 31.03.2010

    Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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    Tomislav Sunic répond aux identitaires

    Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

    Tomislav SUNIC répond aux Identitaires 

     

    Le 30 Janvier 2004

    sunicXXX.jpgRencontre avec le docteur Tomislav SUNIC, enseignant en sciences politiques aux Etats Unis et écrivain croate.

    Pamphlétaire et contestataire de la droite antilibérale croate, ancien diplomate, il est l’auteur d’ouvrages traitant entre autre de la géopolitique dans les Balkans, de la démocratie et de l’utopie égalitaire. Tom Sunic dénonce inlassablement le danger de la globalisation mondialiste en train d’éclore sur les décombres du communisme dans les pays de l’Est. Tomislav Sunic est également le correspondant en Croatie de la revue Nouvelle Ecole.

     

    Aujourd'hui, il milite notamment pour un véritable rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Cette guerre larvée servant, selon Tomislav SUNIC, les intérêts des ennemis de l'Europe.

     

    Au début des années 90, les occidentaux voyaient s'engager le provisoire dernier acte d'une guerre civile européenne qui avait commencé presque 80 ans plus tôt. Quels étaient les ingrédients récurrents de ce conflit yougoslave encore mal compris en France ?

     

    Tomislav SUNIC : Les responsables de cet acte de guerre sont à chercher chez les jacobins français, chez Clemenceau, dans le Traité de Versailles, chez Mitterrand, et bien sûr, chez les Américains qui avaient prêché, à partir de 1948 et jusqu’en 1990, “ l’unité et l’intégrité ” d’un pays artificiel, connu sous le nom de “ Yougoslavie ”.

     

    Aujourd'hui, vous souhaitez un rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Celui-ci semble encore bien précaire. Comme l'ont démontré les affrontements sérieux survenus lors de rencontres sportives, notamment au cours du match Croatie-Serbie de water-polo du dernier championnat d'Europe, les cicatrices semblent profondes. Bien sûr, les ennemis de l'Europe s'en réjouissent. Une normalisation réelle des rapports croato-serbes est-elle concevable ou encore illusoire ?

     

    TS : Laissons le sport à part. Lorsque les équipes de différentes villes croates s’affrontent, il y a toujours une pagaille - comme d’ailleurs partout chez les supporters en Europe. Le problème réside dans la mythologie grande-serbe et la martyrologie grande-croate. Au cours des dernières 70 années, à savoir depuis la fondation de la Yougoslavie en 1919, les intellectuels serbes et croates, n’ont jamais jugé nécessaire de se débarrasser de leurs mythes pseudo-historiques. Le vrai délire commença en 1945 lors de la prise du pouvoir par les communistes, et lorsque l’hagiographie serbe imposa dans les écoles, et auprès du grand public occidental, sa victimologie “ anti-fasciste ” s’élevant à 600.000 Serbes prétendument tués par les fascistes croates de 1941 à 1945. Cette surenchère a eu pour cause, chez les Croates, de profondes frustrations, un romantisme politique souvent bête, et une poussée révisionniste qui aboutit en 1990 à l’éclatement du pays. Hélas, le nationalisme croate est également à la base de sa “ légitimité négative ” ; malheureusement on reste un bon Croate en fonction de son anti-serbisme, c’est-à-dire en diabolisant l’Autre. Le résultat fut la deuxième guerre entre les Serbes et les Croates en 1991.

    Tant que les intellectuels serbes et croates ne se mettront pas sérieusement au travail pour examiner leurs victimologies respectives, et qui remontent à la deuxième guerre mondiale, la guerre larvée sera là, au grand plaisir des ennemis de l’Europe.

     

    Croatie et Serbie semblent rivaliser d'ardeur pour livrer leurs patriotes respectifs au Tribunal Pénal International de La Haye. Quel est votre avis sur cette Cour et sa légitimité ?

     

    TS : Aucun. La Cour de La Haye fonctionne d’après le principe du “ deux poids deux mesures. ” Ce qui n’est pas permis aux Serbes et aux Croates, est loisible pour les guerriers américains, israéliens, etc… Revenons à la phrase lapidaire de Carl Schmitt : “ Auctoritas non veritas facit legem ” (*). En bon français, c’est la qualité du flingue qui décide qui ira à La Haye, qui aura raison et qui aura tort, et qui va façonner par la suite le droit international. Le Tribunal de La Haye est un alibi pour l’incompétence de la classe politique en Union Européenne, qui fut d’ailleurs totalement incapable de mettre fin au conflit yougoslave dans les années 90.

     

    Bien que les composants soient un peu différents – distinctions ethniques plus franches – les gouvernements des principales capitales européennes continuent leur politique de l'autruche, et semblent nier l'évidence en minimisant la possibilité d'affrontements multiculturels et/ou multiethniques graves dans les années à venir. Est-ce, selon vous, lâcheté ou volonté délibérée de refuser l'évidence ? Qu'est-ce qui pourrait faire échapper l'UE a une crise “ à la yougoslave ” ?

     

    TS : “ L’Euroslavie ” actuelle ressemble étrangement à l’ex-Yougoslavie. Soyons sérieux. Le système bruxellois n’est pas conçu comme vecteur pour réunir les peuples européens dans un destin commun. L’UE est un vaste marché, un bazar dont l’avenir dépend uniquement d’un perpétuel bond économique en avant.

     

    En effet, qui aurait cru que la Yougoslavie multiculturelle allait éclater en décombres ? Je crois que la même “ balkanisation ” attend l’Union européenne demain, avec des conséquences beaucoup plus graves. Tant que l’État-providence fonctionne, bon gré mal gré, tant que les allogènes reçoivent leur morceau de sucre de la part des contribuables européens, le calme est garanti. Une fois que la crise économique deviendra palpable, nous serons témoins d’une guerre civile autrement plus sauvage que dans les Balkans. Victime de ses illusions du progrès, et croyant naïvement en la théologie du marché libre, l’Union Européenne va devenir la proie de ses propres chimères. Le soi-disant bon fonctionnement de l’UE, avec son prétendu élargissement à l’Est, ressort d’un nouveau romantisme politique. Ce projet reste la plus grande imposture après la deuxième guerre mondiale.

     

    Pertes des valeurs traditionnelles, plaisirs petits-bourgeois, dévirilisation, paradis artificiels, le matérialisme libéral triomphe en Europe occidentale. Quelle est votre réponse au chaos du monde moderne ?

     

    TS : Lorsqu’on lit les écrivains des années trente nous nous rendons compte du même scénario en Europe. Nul doute, le libéralisme touche a sa fin. Le roi est nu ; il n’a plus de repoussoir communiste. Donc sa dégénérescence apparaît plus clairement. Tant mieux. Il faut que la situation empire davantage, pour que davantage de gens puissent déchiffrer l’ennemi principal.

     

    On a dit que Rome était tombée car ses Dieux l'avaient abandonnée. Voyez-vous dans la perte totale de sens du sacré en Occident, une des causes profondes de son déclin ?

     

    TS : Bien entendu. Même les grandes religions monothéistes ne sont plus capables d’insuffler le sens du sacré à leurs brebis. Hélas, dans la perspective historique, cinquante, voire une centaine d’années, ne veulent rien dire. Mais pour nous-mêmes, pour qui le temps vole si rapidement, il est peu probable que le grand retour des dieux ait lieu pendant notre parenthèse terrestre… Mais, peut-être dans une vingtaine d’années, verrons-nous la grande renaissance des dieux européens !

     

    Les hommes debout au milieu des ruines - identitaires éveillés- ont coutume de dire que le soleil se lèvera à l'Est. Le salut de l'Occident peut-il venir de l'exemple des jeunes générations d'Europe de l'Est ? Et, selon vous, un rapprochement concret des forces nationales de chacun des pays de l'Ouest et de l'Est pour une renaissance européenne est-il sérieusement envisageable ?

     

    TS: Le grand avantage du communisme fut sa barbarie et sa transparence vulgaire. Son grand avantage fut également qu’il sut préserver, malgré son dogme international, l’homogénéité ethnique des Européens de l’Est. La Russie, la Croatie, la Serbie, l’Estonie, etc. restent des enclaves blanches, de solides “ camps des saints ”. Espérons que la classe dirigeante en Europe orientale ne va pas tomber dans la surenchère du mimétisme pro-occidental et qu’elle ne va pas remplacer sa maladie de “ l’homo sovieticus ” par la nouvelle pathologie de “ l’homo occidentalis ”. Il y a quelques signes encourageants que cette Europe cioranienne commence à s’apercevoir de l’imposture occidentalo-libérale. Mais pour mener le travail de renaissance à son terme, il faut que ses citoyens fassent table rase de leur petit nationalisme et qu’ils abandonnent la haine de l’Autre, c’est-à-dire de leurs voisins. Les individus sages et cultivés de l’Europe occidentale pourraient y aider et cela d’une manière considérable.

     

    Pour finir, un message pour les visiteurs du site “ les-identitaires.com ” ?

     

    TS : Unissons nos forces identitaires et patriotiques, apprenons les langues et la culture de nos voisins européens ! Pratiquons l’identification – non seulement avec notre tribu – mais surtout avec l’Autre, à savoir nos frères voisins européens !

    (*) Littéralement : “ C’est l’opinion et non la vérité qui fait la loi ”, à prendre ici au sens de “ C’est l’autorité et non la vérité qui commande à la loi ”.

     

    Propos recueillis par Renaud BOIVIN

    Pour en savoir plus : http://doctorsunic.netfirms.com

    samedi, 03 avril 2010

    Le Corridor 8: Où est passé le huitième corridor?

    Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

    Le CORRIDOR 8 : Où est passé le huitième corridor ?

    7 juin 1999

    corridor8_350.gifJe vous le donne en mille : le huitième corridor passe par Skopje, en Macédoine, à quelques kilomètres du Kosovo. Pourquoi n'en n'avons-nous jamais entendu parler, puisque nous vivons en démocratie, que nous nous permettons de bombarder des télévisions et des radios, de tuer des journalistes (coupables de faire de la propagande, et nous de l'information), pourquoi n'avons-nous jamais entendu parler des corridors VIII, X, IV et "dalmatien" ? Pourquoi ces projets, qui sont au cœur des politiques de tous les pays des Balkans, qui concernent directement le développement économique de l'Europe, nous ont-ils été cachés ? Pourquoi cet élément vital, dans la décision des peuples à entrer en guerre, a-t-il été occulté ?

     

    Le corridor VIII relie le port albanais de Durres à Varna (Bulgarie) via Tirana, Kaftan, Skopje, Deve Bair, Sofia, Plovdiv et Burgas. Le corridor IV joint Dresde (Allemagne) à Istanbul (Turquie) en passant par Prague, Bratislava, Gjor, Budapest, Arad, Krajova, Sofia et Plovdiv. Des embranchements relient Nuremberg, Vienne, Bucarest et Constantza au tronçon principal.

     

    Le corridor X traverse Salzbourg (Autriche), Ljubljana, Zagreb, Belgrade, Nis, Skopje, Veles et Thessalonique (Grèce). Des embranchements relient Graz, Maribor, Sofia, Bitola, Florina, Igoumenitza au tronçon principal.

     

    Ces trois corridors de transport pan-européen (Pan-European Transport Corridors) font partie d'un projet plus global visant au développement des anciens pays du bloc soviétique, et à leur intégration à l'économie euro­péenne. Au total, ce projet représente 18.000 kilomètres de routes, 20.000 kilomètres de lignes ferro­viaires, 38 aéroports, 13 ports maritimes, 49 ports fluviaux. Le budget estimé, d'ici l'année 2015, est de 90 milliards d'euros La seule partie concernant les Balkans est estimée à 10,5 milliards d'euros. (Il s'agit ici d'estimations basses : les projets de développement à l'est sont répartis, au niveau européen, en de nombreux chapitres, et il est difficile d'en tirer rapidement vue globale ; de plus, cela concerne uniquement la partie financée par l'Union européenne, sans compter les Américains, très impliqués, les Turcs, ainsi que divers fonds privés ; ces chiffres sont donc certainement sous-évalués de beaucoup.) Ces chiffres sont éloquents : on parle ici de travaux pharaoniques à l'échelle d'un continent. En termes politiques, sociaux, économiques, il s'agit d'un des principaux projets de développement en Europe.

     

    Evoquons, de plus, le projet grec de corridor "dalmatien", reliant le port italien de Trieste à la ville d'Igou­menista (Grèce), longeant la côte via l'Albanie, la Yougoslavie, la Bosnie et la Croatie, projet proposé à la mi-98, estimé à 3 milliards de dollars.

     

    Pour finir, il faut parler d'un autre projet similaire aux corridors pan-européens, cette fois dans le Caucase et en Asie centrale, le programme TRACECA, lui aussi à l'échelle d'un continent. Son intérêt repose, pour l'économie occidentale, sur la jonction entre ce projet et l'Europe ("It had been recognised that one the weak­nesses of the TRACECA route, in the context of the EU Tacis programme, was the lack of linkage between the western end and the European market", remarque formulé à Helsinky en 1997); ce lien repose donc sur les corridors IV et VIII, via le port de Varna. Ainsi les projets de développement des vingt prochaines années du continent européen reposent sur la réalisation de corridors traversant les Balkans. Sur le plan, vous remar­querez que le nœud central reliant les corridors VIII, X et IV est un triangle formé par Nis, Skopje et Sofia, dont le centre géographique se situe en plein Kosovo. Une instabilité persistante du Kosovo, de la Serbie et, de fait, de l'Albanie et de la Macédoine, serait fatale à l'un des plus importants projets humains en cours. Ah oui, j'oubliais : les débuts des travaux sont prévus pour... maintenant (les financements du corridor VIII sont quasiment bouclés, les études européennes représentent déjà des dizaines de millions d'euros, de nombreux tronçons sont en cours de réalisation).

     

    Alors pourquoi avoir totalement occulté l'importance économique de ce conflit ? Les démocraties sont-elles si faibles qu'il faille un alibi purement humanitaire, l'argument du développement humain de tout un continent serait-il apparu, à nos yeux, moins légitime ? Pourquoi présenter les travaux qui commencent en ce moment en Albanie comme une "reconstruction" et un soutien pour "bons et loyaux services", alors qu'il ne s'agit que du début du corridor VIII, conçu et financé de longue date ? Pourquoi dire : "si les Serbes veulent des crédits pour leur reconstruction, ils doivent se débarrasser de Milosevic", alors qu'en réalité, "nous avons besoin, pour notre propre développement, de construire des infrastructures en Serbie et, pour en assurer la viabilité, nous devons nous débarrasser de Milosevic" (c'est le problème exactement inverse) ?

     

    J'insiste : pourquoi nous a-t-on expliqué que cette région n'avait aucun intérêt économique (on nous a bien dit qu'il n'y avait pas de pétrole, preuve que nos intentions étaient plus pures qu'en Irak), pourquoi ne nous a-t-on jamais parlé du huitième corridor (que la presse albanaise qualifie de "célèbre corridor 8"), pourquoi avoir totalement occulté le projet de transport pan-européen (que tous les gouvernements de la région placent au centre de leurs décisions économiques) ? Est-ce qu'on ne nous prendrait pas un peu pour des cons ?

    (Source : http://www.scarabee.com/EDITO2/index.shtml ?070699 )

     

    00:05 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, balkans, europe, affaires européennes | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

    jeudi, 25 février 2010

    Implicacion directa norteamericana en la crisis de Grecia

    Implicación directa norteamericana en la crisis de Grecia

    Revelan nuevas complicidades de EE.UU contra economía griega

    griechenland.jpgGrecia reveló hoy a través de su Centro Nacional de Inteligencia nuevas complicidades contra su economía de inversores internacionales, especialmente de empresas financieras de Estados Unidos.

    El periódico To Vima divulgó que las compañías Moore Capital, Fidelity Internacional, Paulson & Co y Brevan Howard, que operaran en Europa vendieron bonos estatales y los revendieron a precios reducidos en una misma jornada.

    Atenas descubrió las operaciones especulativas de esas inversoras estadounidenses en coordinación con los servicios secretos de España, Francia y Reino Unido.

    El primer ministro griego, Giorgos Papandreu, había denunciado que los ataques especulativos contra su país también estaban dirigidos a afectar al euro como moneda única de la región.


    Grecia acumuló un elevado déficit público que provocó la rápida decisión de la Unión Europea de someterla a una fuerte supervisión, con el fin de asegurarse del cumplimiento de su severo plan de austeridad y ajuste fiscal.

    Un programa aprobado por Bruselas pretende que Atenas reduzca su déficit público del 12,7 por ciento del Producto Interior Bruto al 8,7 a fines de 2010, hasta llegar a un 2,8 por ciento hacia 2012.

    El domingo pasado revelaciones del diario The New York Times, indicaron que Wall Street y el grupo de inversiones Goldman Sachs realizaron acciones que al final perjudicaron a las finanzas de la nación mediterránea.

    La principal bolsa de valores estadounidense extendió préstamos a Grecia presentados como intercambio de divisas, los cuales incluyeron a otras naciones del viejo continente desde 2001.

    La información significó que cuando Grecia presentaba una severa crisis fiscal, bancos de Wall Street y Goldman Sachs buscaron mecanismos para evitar preguntas incómodas por parte de Bruselas y de los países de la zona euro.

    Tales acciones sirvieron para que durante 10 años se enmascararán miles de millones de euros de la deuda griega y así pudiera cumplir los niveles de déficit establecidos por el Pacto de Estabilidad de la Unión Europea, mientras gastaba por encima de sus ingresos.

    Extraído de Prensa Latina.

    ~ por LaBanderaNegra en Febrero 21, 2010.