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jeudi, 12 septembre 2013

L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura

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L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura

Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato

Fabrizio Fiorini

Ex: http://www.rinascita.eu

Il diritto, interno o internazionale, scritto o consuetudinario, derivante che sia da leggi o trattati, ha nella sua stessa natura la possibilità di essere mutato, abrogato, riformulato, dimenticato, addirittura violato. Se non si fossero cancellate norme, soppresse costituzioni, denunciati trattati, se non vi fossero mai stati questi sovrani atti squisitamente politici, la società umana sarebbe rimasta innaturalmente ferma, immobile, prima di quel dinamismo sociale che la sua essenza storica ha materializzato sotto forma di stravolgimenti sociali, passaggi epocali, rivoluzioni.


Oggi, nell’Occidente dell’ipocrisia e del “dirittumanismo” non è più così. Il diritto resta, immutabile, cristallizzato, divinizzato. Protetto da vecchie cariatidi degli ordinamenti tardo-novecenteschi, da un insopportabile moralismo gauchiste, dalla supponenza indotta di aver finalmente conseguito il migliore dei mondi realizzabili, l’eden della politica e delle relazioni internazionali.


Ma il mondo non aspetta il diritto: in meglio o in peggio che sia, cambia. Non solo: la forza del diritto, nei tempi correnti, si indebolisce, contestualmente al tracollo dell’autorità e della forza delle fucine in cui questo era forgiato, gli Stati,  a vantaggio di poteri più forti ma sovranazionali, a-statali, apolidi. E allora il diritto, legato a schemi oramai preesistenti, viene semplicemente ignorato, relegato all’oblio.


Gli Stati Uniti, lo stato sionista, la Nato, l’Occidente in genere, in ispecie nel campo dei rapporti internazionali, dettano la linea di questa nuova a-giuridica. Sintetizzare in queste poche righe le violazioni del diritto internazionale da loro commesse nel corso degli ultimi decenni è non solo tecnicamente impossibile ma – considerando la “naturalezza” del loro spregio di norme che ad altri impongono con la forza – sarebbe quantomeno grottesco.
Serva, quale unico esempio, quello della guerra alla Jugoslavia del 1999 in cui la Nato trascurò di rispettare non solo una mezza dozzina di principi sanciti dal diritto internazionale ma addirittura ignorò il suo stesso statuto che all’articolo 5 prevede l’utilizzo della forza militare in caso di attacco a una delle nazioni componenti l’Alleanza; eventualità che, chiaramente, era estranea agli eventi balcanici del 1999.


Appurato che per l’Occidente, e segnatamente per gli Usa, per i sionisti, per la Nato, per la Gran Bretagna (e per la rediviva Francia) non rientra nei bisogni primari il rispetto delle disposizioni di legge (figurarsi della volontà popolare) per la messa in atto di imprese belliche e di operazioni armate in qualunque modo camuffate, risulta altamente indicativa l’inversione di rotta di questi mesi, contestualmente alla crisi siriana.


La Gran Bretagna ha abbandonato l’opzione militare in conseguenza di un voto parlamentare ostile. Negli Stati Uniti, per settimane e fino a l’altro ieri, si è parlato di “decisione del Congresso”. Stessa cosa, pur in tono minore, a Parigi. In tutti gli altri Stati satellite del libero Occidente, dall’Italia a Saint Kitts e Nevis, il coro era unanime: aspettiamo l’Onu, sentiamo cosa dice l’Onu, mai senza l’Onu. Proprio quello stesso Onu che era considerato un inutile carrozzone, era vilipeso e deriso ogniqualvolta avesse preso, fino alla guerra all’Iraq del 2003, una pur timida posizione avversa alla fregola bellica USraeliana.
Cosa si cela dietro questo inaspettato “ritorno al diritto”? Un repentino rinsavimento? Una “primavera americana”? No: la paura. Quella paura tipica di che all’improvviso esce dal suo autoreferenziale stordimento e si rende conto di essere stato messo all’angolo. Barack Obama, solo poche settimane or sono, era ancora spavaldo affermando con convinzione: “in Siria faremo come in Kosovo”. Non pensava, il tapino (forse i suoi consiglieri dell’Aipac lo tenevano all’oscuro),  che dal 1999 il mondo è cambiato, e non poco.


La “forza della ragione”, rivelatasi nel corso dei decenni poco efficace per fronteggiare la pervasiva aggressività americana, ha finalmente lasciato il posto alle “ragioni della forza”. Alla sana forza, alla rinascita e al potenziamento di Stati (pensiamo all’Iran, alla Russia, alla stessa Siria ma non solo) capaci di mettere un argine alla nuova “dottrina Monroe” applicata su scala planetaria; che hanno dimostrato che non è la “dottrina della pace” a essere vincente, ma la decisa e forte contrapposizione, l’unica “musica” che entra nelle orecchie di Washington.

 
Per la prima volta nella storia recente, gli Usa si fermano.  Non riescono a celare la loro frustrazione e il loro ridimensionamento neanche alla stampa più allineata, anche gli amici di vecchia data si fanno da parte. Addirittura il ministro Bonino tentenna, il che è tutto dire.
Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato. I popoli della terra potranno tirare un sospiro di sollievo, ma non si facciano troppe illusioni: la bestia ferita è capace di tutto.  E Tel Aviv, vedendo i suoi protettori indebolirsi, potrebbe fare di peggio.
 

11 Settembre 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22363

jeudi, 05 septembre 2013

La fin des Anglo-Saxons ?

USA-GB : La fin des Anglo-Saxons ?

La Syrie a rompu une alliance historique


Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
Les USA, après s’être crées en révolte contre la Grande-Bretagne ont pris la succession de l’empire britannique dans une volonté de dominer le monde par le contrôle des mers. Une vision commune du monde partagée avec un fond ethnique et religieux a créé depuis la première guerre mondiale au moins ce qu’on appelle les Anglo-saxons. Ce sont ces derniers qui imposent une vision très atlantiste à l’Europe continentale et qui, en fait, orientent les choix de la « communauté internationale ».

                  Syrie : la fin du monde anglo-saxon ?

L’idée que la Grande-Bretagne  conserve un rôle mondial grâce aux Usa est une évidence. En fait, c’est Churchill qui a mis fin à l’empire et au rôle mondial de Londres malgré sa victoire sur l’Allemagne.  Depuis la Grande-Bretagne est à la remorque des Usa et plus près d’ailleurs de Washington que de Bruxelles.

Il y eut cependant une révolte de la fierté impériale : ce fut l’opération de Suez en 1956 avec les Français. Cela s’est soldé par la fin de la puissance des empires coloniaux et la confirmation de la domination des  américains et des soviétiques. Depuis la Grande-Bretagne est le plus fidèle allié et le plus inféodé du nouvel « empire ». On ironisait sur le bulldog britannique devenu caniche américain.

Est-ce aujourd’hui un nouveau tournant historique avec la fin de l’axe anglo-saxon ? Assurément  par rapport à l’Afghanistan, l’Irak et même la Libye, il y a rupture. Le caniche a rompu la laisse. Une rupture imposée au gouvernement par les élus et l’opinion publique. C'est le camouflet politique le plus cinglant de l’époque actuelle ! La dernière fois que la Chambre des Communes a dit "non" à une intervention militaire proposée par un Premier ministre, cela remonte à 1782. A l'époque, le Parlement britannique avait refusé d'envoyer des troupes supplémentaires en Amérique pour la guerre d'indépendance, contre la volonté du chef du gouvernement, Lord North. Il a été contraint de démissionner un mois plus tard. Dans les deux cas, un Premier ministre conservateur va-t’en-guerre a été répudié par ses propres fidèles.


L’opinion publique britannique ne soutient plus ce genre d'interventions depuis l'échec libyen : nos attaques aériennes n'ont pas servi à grand-chose. La torture, l'instabilité politique et les actes terroristes sont toujours le lot quotidien du pays. La Grande-Bretagne n'est pas une nation neutre ou pacifique. Mais ces ingérences dans les pays musulmans produisent des effets néfastes et contradictoires estime un politologue.

La Pologne, habituellement l’allié le plus loyal des Etats-Unis en Europe, a rejeté toute participation à un assaut militaire en Syrie. L’Allemagne se languit de l’époque où elle n’avait aucune décision à prendre sur l’utilisation ou non de ses soldats. Angela Merkel et son adversaire social-démocrate Peer Steinbrück seront ravis que la démocratie parlementaire britannique ait décidé de s’opposer à une attaque militaire en Syrie, ce qui retire la question du débat électoral allemand.

Aujourd’hui, la France est la seule à sembler vouloir récupérer et mettre le badge d’adjoint du shérif que la Chambre des communes a arraché de la poitrine de David Cameron. En mars 2003, c’était le président Jacques Chirac qui déclarait que la France allait former un axe Paris-Moscou-Pékin pour opposer un veto à la résolution des Nations unies qui aurait forcé le dictateur irakien à se soumettre aux volontés de l’Onu ou risquer une action militaire.

« Our oldest ally, France »... « Notre plus vieille alliée, la France », a souligné John Kerry, le secrétaire d’Etat américain. La formule n’est certes pas nouvelle : elle fait partie des classiques amabilités franco-américaines. Mais depuis quand ne l’avait-on pas prononcée à Washington avec insistance et conviction ? Sa sortie de la routine diplomatique marque un sacré retournement de situation. Cela  fait grincer les dents des Anglais. Quant aux Français n'en déplaise à François Hollande ils n’en demandaient certes pas tant.

L’étrange chemin de Damas de François Hollande n’est certes pas une promenade de santé politique, diplomatique et militaire. La France a toujours eu des problèmes avec le levant et la Syrie face notamment aux Anglo-Saxons… quand il y avait des Anglo-Saxons. Ironie de l’histoire certes, mais dont on aurait sans douter tort de se réjouir.

mardi, 03 septembre 2013

'Brits NEE tegen ingrijpen Syrië luidt doodsklok voor NAVO'

'Brits NEE tegen ingrijpen Syrië luidt doodsklok voor NAVO'

Obama's halfslachtige en tegenstrijdige beleid brengt massale vernietigingsoorlog tegen Israël dichterbij


'De wereld zal zich in de ogen wrijven van verbazing dat één persoon, president Obama van de VS, het gepresteerd heeft in slechts enkele jaren tijd de Amerikaanse invloed in het Midden Oosten en Europa te verpletteren.' (DEBKAfile)

Het onverwachte NEE van het Britse parlement tegen de deelname aan de geplande Westerse aanval op Syrië is volgens Israëlische inlichtingenexperts grotendeels te wijten aan het tegenstrijdige beleid van president Obama, waardoor de bondgenoten van Amerika en het publiek nauwelijks nog vertrouwen hebben in de VS. Dit leidt er niet alleen toe dat Amerika's invloed in het Midden Oosten snel tanende is, maar ook dat 'de doodsklok voor de NAVO' wordt geluid (1). Tevens zullen de vijanden van Israël zich gesterkt voelen, waardoor een massale vernietigingsoorlog tegen de Joodse staat steeds waarschijnlijker wordt.

Nadat de Syrische president Assad valselijk de schuld kreeg van de chemische aanval in Damascus en Obama van een 'afschuwelijke misdaad' sprak, zette de president deze week plotseling in op een zeer beperkte aanval op Syrische doelen. Hierdoor zouden zowel Assad als zijn bondgenoten in Rusland en Iran als morele overwinnaars uit de strijd naar voren komen. De Iraanse opperleider Ayatollah Khamenei kan dan zeggen gelijk te hebben gekregen met zijn jarenlange uitspraken dat de VS niets anders dan een papieren tijger is.

Coalitie tegen Syrië uiteen gescheurd

De Britse afwijzing van een aanval op Syrië scheurt Obama's multinationale coalitie uit elkaar en betekent een dolksteek in het hart van de NAVO, de historische Westerse alliantie die na de Tweede Wereldoorlog tientallen jaren lang de vrede in Europa wist te bewaren, maar zich sinds de Balkanoorlog in de jaren '90 steeds vaker ontpopt heeft als een agressief werktuig in de handen van de Amerikaanse globalisten.

In 2009 kondigde Obama aan dat de VS voortaan voornamelijk naar het Oosten zou kijken, en minder naar het Westen. Dit leidde tot de militaire exit uit Irak en Afghanistan, landen waar dankzij de Amerikaanse invasie een bloedige sektarische oorlog was losgebarsten, wat honderdduizenden slachtoffers heeft geëist en beide naties in puin heeft achtergelaten.

Forse terugslag door afzetten Morsi

Tegelijkertijd verlegde Obama zijn aandacht naar Noord Afrika, waar hij actief het omverwerpen van de Libische leider Muammar Gadaffi en de Egyptische president Hosni Mubarak steunde. De islamistische Moslim Broederschap werd door het Witte Huis uitverkoren tot nieuwe belangrijkste bondgenoot, maar toen de eerste Broederschap-president Mohamed Morsi al na één jaar werd verdreven, kreeg Obama's Midden-Oostenbeleid een geweldige klap te verwerken.

Wapens en geld voor Al-Qaeda

In Libië kwamen na de door de NAVO mogelijk gemaakte moord op Gadaffi aan Al-Qaeda verbonden islamitische extremisten aan de macht. Obama's beleid in Syrië ging nog verder: daar begon hij actief Al-Nusra (Al Qaeda) met financiën en wapens te steunen, ondanks het talloze malen bewezen feit dat het vooral de Syrische rebellen zijn die de meest afschuwelijke misdaden plegen tegen de burgers in het land, inclusief het door de VN bevestigde gebruik van chemische wapens.

Israël gedwongen grond en veiligheid op te geven

Bizar genoeg hamert Obama er voor de Tv-camera's op dat de VS en het Westen zich zo min mogelijk met de zaken in het Midden Oosten moeten bemoeien. Zijn acties getuigen echter van het absolute tegendeel. Van bondgenoot Israël eist hij zelfs absolute gehoorzaamheid. Tevens is Obama bezig om de Joodse staat een 'vredes'verdrag met de Palestijnen op te leggen, waarin Israël gedwongen zal worden om een groot deel van zijn grondgebied en zijn veiligheid op te geven.

'Doodsklok voor de NAVO'

Door dit tegenstrijdige beleid en de halfslachtige houding ten opzichte van Syrië blijkt nu zelfs Amerika's traditioneel grootste en trouwste bondgenoot, Groot Brittannië, hardop te twijfelen aan Obama's plannen en doelstellingen. 'Dit heeft geresulteerd in het luiden van de doodsklok voor de NAVO', constateren Israëlische inlichtingenexperts. De komende beperkte militaire aanval op Syrië kan, gekoppeld aan de ondoorzichtige doelstellingen, zelfs de genadeklap betekenen voor de Amerikaanse invloed in het Midden Oosten.

'Invloed VS in Europa en Midden Oosten verpletterd'

'De wereld zal zich in de ogen wrijven van verbazing dat één persoon, president Obama van de VS, het gepresteerd heeft in slechts enkele jaren tijd de Amerikaanse invloed in deze gevoelige regio en in Europa te verpletteren,' is de conclusie van de strategische analisten van DEBKAfile.

Terwijl het Witte Huis zegt bereid te zijn om desnoods alleen tegen Syrië op te treden, zou de Britse premier Cameron wel eens het politieke slachtoffer kunnen worden van Obama's wispelturige beleid. Nu 30 leden van zijn eigen Conservatieve partij en 9 van zijn coalitiegenoot de Liberalen met de oppositie hebben meegestemd, lijkt zijn positie te wankelen.

'Netanyahu wacht af en doet niets'

De situatie voor Israël wordt er door deze ontwikkelingen bepaald niet beter op. Premier Benyamin Netanyahu karakteriseert zijn politieke koers doorgaans als 'verantwoordelijk en gebalanceerd'. In de praktijk betekent dit echter hoofdzakelijk afwachten, uitstellen en niets doen. Ondertussen heeft de islamitische terreurbeweging Hezbollah in Libanon een arsenaal van vele tienduizenden raketten opgebouwd, en herhalen hun bazen in Teheran, die op topsnelheid doorwerken aan kernwapens, wekelijks dat Israël moet worden vernietigd.

Massale oorlog tegen Israël dichterbij

Het verdwijnen van Moslim-Broederschap president Morsi en het verlies van de Britse steun voor de aanval op Syrië is een enorme opsteker voor Iran en Hezbollah, die de invloed van de VS in heel het Midden Oosten, inclusief in Israël, snel zien afnemen. Bovendien wordt de bewering van de regering in Jeruzalem dat ze niet betrokken is bij de Syrische burgeroorlog door niemand geloofd. Dit zou er op niet al te lange termijn toe kunnen leiden dat Israëls vele vijanden zich aaneensluiten en hun dreigementen de Joodse staat voor eens en altijd te vernietigen zullen proberen waar te maken.

 

Xander

(1) DEBKA

vendredi, 28 juin 2013

The West against Europe

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The West against Europe

By Tomislav Sunic

 

The following is the English translation of my speech in French, given in Lyon, France, on May 25, for the French identitarians (students, members of the “GUD” and “Europe Identité.”) The speech was delivered in honor of the late Dominique Venner, a historian and philosopher who committed suicide on May 21. On May 26, the day after my speech in Lyon, many GUD and “Europe Identité attendants participated in mass demonstrations in Paris against the recently adopted law by the French government on “same sex marriage.”

The term ‘Occidentalism’ exists only in the French language and has a very specific meaning. Often the words ‘Occident’ and ‘occidentalisme’ obtain specific meanings according to its user and the user’s profile. The term ‘occidentalisme’ is never used in the German or in the English language. Even the French word ‘l’Occident’, having a wider geographic significance, is translated into the German language as the ‘West’ — der Westen. The same goes for the English language in which the French noun ‘l’Occident‘ is translated into English as “the West,” a subject of many books and translations. In this regard Patrick Buchanan, a former adviser to Richard Nixon and Ronald Reagan and a conservative large-circulation author, published a decade ago his bestseller The Death of the West (La Mort de l’Occident), where he laments about the West being invaded by millions of non-Christian immigrants. According to Buchanan, America and Europe are both part of the West.

Yet we know well that America and Europe are not synonymous despite the fact that they are for the time being still populated by majorities of pure-bred Europeans. Very often in our recent history, these two large continental land masses, despite their quasi-identical population, have waged terrible wars against each other.

In the Slavic languages the noun ‘Occident’ and the adjective ‘occidental’ do not exist either. Instead, Croats, Czechs or Russians use the noun ‘Zapad’, which means “the West.”

The French noun ‘occidentalisme’ (‘westernization’) indicates a notion of an ideology, and not an idea of a stable time-bound and space-bound entity as is the case with the noun ‘L’Occident’. I’d like to remind you that the French title of the book by Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes, or in French, Le déclin de l’Occident, does not accurately reflect the meaning of the German title. The German word ‘Untergang’ signifies the end of all the ends, the final collapse, and it is a stronger word than the French term ‘déclin’, which implies a gradation, a “declination of evil” so to speak, leaving, however, an anticipation that a U-turn could be made at the very last minute. This is not the case in the German language where the noun ‘Untergang’ indicates a one-way street, an irreversible and tragic end. The same goes for the German noun ‘Abendland’, which when translated into French or English, means “the land of the setting sun”, having a largely metaphysical significance.

I must bring to your attention these lexical nuances in order to properly conceptualize our subject, namely ‘occidentalisme’ i.e. Westernization. One must keep in mind that the phrases “The Occident” and “the West” in different European languages often carry different meanings, often causing misunderstandings.

No doubt that the terms the West (‘L’Occident ‘) and Westernization (‘occidentalisation’) underwent a semantic shift. Over the last forty years they have acquired in the French language a negative meaning associated with globalism, vulgar Americanism, savage liberalism, and “the monotheism of the market”, well described by the late Roger Garaudy. We are a long way off from the 60’s and 70’s of the preceding century when the journal Défense de l’Occident was published in France comprising the names of authors well known in our circles. The same goes for the French politico-cultural movement Occident, which back in the sixties, held out a promise both for the French nationalists and the entire European nationalist youth.

The two terms, ‘Occident’ and ‘occidentalism’ which are today lambasted by the French identitarian and nationalist circles, are still the subjects of eulogies among East European identitarians and nationalists who suffer from an inferiority complex about their newly found post-communist European identity. In Poland, in Hungary or in Croatia, for example, to invoke “the West” is often a way to highlight one’s great culture, or a way to boast of being a stylish man of the world.

I’d like to remind you that during the communist epoch East Europeans were not only annoyed by communist bullying and ukases, but also felt offended by their status as second-class European citizens, especially when Westerners, namely the French and the English, used the term ‘East’ in order to describe their neck of the woods in Europe, namely “Eastern Europe” or “l’Europe de l’Est.” Moreover, the French language uses a parallel adjective “oriental” in designing eastern Europe, i.e. “L’Europe orientale” — an adjective whose disambiguation, frankly speaking, makes East Europeans furious. The French adjective “oriental” reminds East Europeans of the Orient, of Turkey, of Arabia, of Islam — notions under which they absolutely refuse to be catalogued. Even those East Europeans who are perfectly proficient in the French language and know French culture, prefer, in the absence of other words, that the French-speaking people label their part of Europe as “Eastern Europe”, but never as “l’Europe orientale.”

Balkanization and Globalization

The history of words and semantic shifts does not stop here. All East Europeans, whether left or right, anti-globalists or globalists, and even the ruling political class in Eastern Europe like to identify themselves as members of “Mitteleuropa” and not as citizens of Eastern Europe. The German term Mitteleuropa means “central Europe”, a term harking back to the nostalgic days of the Habsburg Empire, to the biedermeier style, to the sweetness of life once delivered by the House of Austria where Slovaks, Poles, Croats, Hungarians, and even Romanians and Ukrainians belonged not so long ago.

The notion of adherence to Europe, especially in this part of Eastern Europe, is further aggravated by the inadvertent usage of words. Thus the term ‘the Balkans’ and the adjective ‘Balkan’, which is used in a neutral sense in France when describing southeastern Europe, have an offensive connotation in Croatian culture, even if that designation carries no pejorative meaning. The perception Croats have about themselves is that they are at loggerheads with the Other, namely their Serbian or Bosnian neighbors.

And there is a big difference between how the term ‘Balkans’ is seen among the French or English where it typically carries a neutral connotation, as one often sees in geopolitical studies, However, in the eyes of Croats, the terms ‘Balkan’ and ‘Balkanization’ signify not only a geopolitical meltdown of the state; especially among Croat nationalists and identitarians, these terms provoke feelings associated with barbaric behavior, political inferiority, and the image of racial decay of their White identity.

In addition, the term “balkanesque’ in the Croatian language often induces negative feelings referring to a blend of various racial and cultural identities originating in Asia and not in Europe. One can often hear Croats of different persuasions teasing each other for their allegedly bad behavior with the quip: “Wow, you’re a real balkanesque dude!” In the Croatian daily vernacular, this means having an uncivilized behavior, or simply being a “redneck.”

In Serbia, this is not the case. Since the Serb identity is real and well-rooted in the historical time and space of the Balkans, it has no pejorative meaning.

The Germans, who know best the psychology of the peoples of Central Europe and of the Balkans, are well aware of these conflicting identities among the peoples of Eastern Europe and the Balkans. In fact, the German term “der Balkanezer” has a strong offensive meaning in the German vocabulary.

Which Europe?

Let us move further to Europe. Of course, to the famed European Union. What exactly does it mean to be a good European today? Let’s be honest. In view of the massive influx of non-European immigrants, especially from the Middle East and North Africa, all Europeans, whether native French, native English, or “natives” from all parts of Europe, have become good “balkanesque Balkanisers.” Indeed, what does it mean today to be a German, to be French or to be an American, considering the fact that more than 10–15 percent of Germans and French and more than 30 percent of U.S. citizens are of non-European and non-White origin? Visiting Marseille feels like visiting an Algerian city. The Frankfurt airport resembles the airport of Hong Kong. The areas around Neukölln in Berlin emit an odor of the Lebanese Kasbah. The soil, the turf, the earth, the blood, so dear to Dominique Venner or Maurice Barrès, so dear to all of us, what does it mean today? Absolutely nothing.

It would be easy to blame the aliens (“allogènes”) as the only guilty ones. One must admit, though, that it is ourselves, the Europeans, who are primarily responsible for the Westernization and therefore for the loss of our identity. While doing so, no matter how much one can rightly blame the alleged ignorance of the Americans, at least the Americans are not torn apart by small time intra-European tribalism. Possibly, the Americans of European descent can become tomorrow the spearhead of the rebirth of the new Euro-white identity. One must confess that racial identity awareness among White American nationalists is stronger than among European nationalists.

In the Europe of tomorrow, in the possible best of all the worlds — even with the aliens gone for good, it is questionable whether the climate will be conducive to great brotherly hugs between the Irish and the English, between the Basques and Castilians, between the Serbs and the Croats, between the Corsicans and the French. Let’s be honest. The whole history of Europe, the entire history of Europeans over the last two millennia has resulted in endless fratricidal wars. This still applies to “l’Europe orientale”, namely “Eastern Europe,” which continues to be plagued by interethnic hatreds. The latest example is the recent war between two similar peoples, Serbs and Croats. Who could guarantee us that the same won’t happen tomorrow again even under the presumption that the influx of Asians and Africans would come to an end?

To “be a good European” means nothing today. Declaring oneself a “good “Westerner” is meaningless as well. Being rooted in one’s soil in the globalist world has absolutely no significance today because our neighborhoods, being populated by aliens, along with ourselves, are subject to the same consumer culture. There might be something paradoxical happening with the arrival of non-Europeans: endless wars and disputes between European nationalists, i.e. between the Poles and Germans, between the Serbs and Croats, between the Irish and English — seem to have become outdated. The constant influx of non-Europeans to our European lands makes the designation of “European Europe” a lexical absurdity.

Our duty is to define ourselves first as heirs of European memory, even though we may live outside Europe; in Australia, Chile and America, or for that matter on another planet. One must admit that all of us “good Europeans” in the Nietzschean sense of the word, all of us can change our religion, our habits, our political opinions, our land, our turf, our nationality, and even our passports. But we can never escape our European heredity.

Not the aliens, but the capitalists, the banksters, the “antifas” and the architects of the best of all the worlds are our main enemies. In order to resist them it behooves us to revive our racial awareness and our cultural heritage. Both go hand in hand. The reality of our White race and our culture cannot be denied. We can change everything and even move to another planet. Our inheritance, that is, our gene pool, we must never change.

Race, as Julius Evola and Ludwig Clauss teach us, is not just biological data. Our race is our spiritual responsibility which alone ensures our European survival.

Sunic, Tomislav. “The West against Europe.” The Occidental Observer, 2 June 2013. <http://www.theoccidentalobserver.net/2013/06/the-west-against-europe/ >.

mercredi, 29 mai 2013

L'occidentalisme contre l'Europe

 

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L'occidentalisme contre l'Europe

Ex: http://www.europe-identite.com/

Tomislav Sunic

Conférence prononcée  à Lyon le 25 mai 2013  („GUD-Europe Identité“)

Le terme « occidentalisme » n’existe qu’en langue française et il a une signification bien particulière. Souvent les mots « Occident » et « occidentalisme » reçoivent leurs sens particulier en fonction de son utilisateur et de son état des lieux. Le terme « occidentalisme » ne s’utilise  guère en langue allemande ou en langue anglaise. Même le vocable français « Occident » possédant  une signification largement géographique est traduit en allemand comme « l’Ouest », à savoir « der  Westen. Il en va de même pour l’anglais où le terme français « Occident » est traduit en anglais par « the West », le sujet auquel on a consacré  pas mal de livres et de traductions. À ce propos, Patrick Buchanan, ancien conseiller de Ronald Reagan et écrivain conservateur ẚ gros tirage a publié y il a une dizaine d’années le bestseller « Death of the West » (La Mort de l’Occident) où il se lamente sur le sort de l’Ouest envahi par des millions d’immigrés non chrétiens. Dans sa prose, l’Amérique et l’Europe sont mises dans le même sac.

Or nous savons fort bien que l’Amérique et l’Europe ne sont pas synonymes – ni par leur notion des grands espaces, ni par leurs volontés hégémoniques – quoique ces deux continents soient pour l’heure toujours peuplés d’une majorité d’Européens de souche. Fort souvent dans notre histoire récente, ces deux grands espaces, malgré leurs populations quasi identiques, se sont livré des guerres atroces.

Dans les langues slaves, le substantif « Occident » et  l’adjectif  « occidental » n’existent pas non plus. À la place « d’Occident », les Croates, les Tchèques ou les Russes utilisent le substantif « zapad » qui signifie « l’Ouest ».

Le substantif français « occidentalisme », indique une notion de processus, une motion, à savoir une idéologie, et non l’idée d’une entité stable dans le temps et dans l’espace comme c’est le cas avec le substantif « Occident ».  Je vous rappelle que le titre français du livre d’Oswald Spengler, Der Untergang des Abandlandes, ou en français  Le déclin de l’Occident, ne reflète pas exactement le sens du titre allemand. Le mot allemand « der Untergang » signifie, en effet, la fin des fins, une sorte de débâcle finale, et il est plus fort que le terme français «déclin » qui sous-entend une gradation, donc une « déclinaison du mal », et qui laisse envisager pourtant une possibilité de demi-tour, une fin qu’on peut renverser au dernier moment. Tel n’est pas le cas en allemand où le substantif « Untergang » porte un signifié final à sens unique, irréversible et tragique. La même chose vaut pour le substantif allemand « das  Abendland », qui traduit en français, signifie « le pays du soleil couchant » et qui porte en langue allemande une signification largement métaphysique.  

Je dois vous rappeler ces nuances lexicales afin que nous puissions bien conceptualiser notre sujet, en l’occurrence l’occidentalisme. Il faut être bien conscient que les termes, « L’Occident «  et « l’Ouest », dans les différentes langues européennes, portent souvent des significations différentes lesquelles engendrent souvent des malentendus.

Nul doute que les termes « Occident » et « occidentalisme » ont subi un glissement sémantique. Au cours de ces quarante ans, ils ont pris en français une connotation associée au mondialisme, à l’américanisme vulgaire, au libéralisme sauvage et au « monothéisme du marché », très bien décrit par Roger Garaudy.  On est loin des années soixante et soixante-dix, quand le journal  Défense de l’Occident  sortait en France contenant des plumes  bien connues dans nos milieux. La même chose vaut pour le mouvement politico–culturel français « Occident » qui portait dans les années soixante une certaine promesse tant pour les nationalistes français que pour toute la jeunesse nationaliste européenne.

Or les deux termes – « Occident » et « occidentalisme » – qui sont aujourd’hui fustigés par les cercles identitaires et nationalistes français sont toujours objet d’éloges chez les identitaires et les nationalistes est-européens qui souffrent d’un complexe d’infériorité quant à leur nouvelle identité postcommuniste et européenne. En Pologne, en Hongrie ou en Croatie par exemple, se dire de « l’Ouest » est souvent une manière de mettre en lumière sa grande culture ou bien de se targuer de son style d’homme du monde.

Je vous rappelle qu’à l’époque communiste, les Européens de l’Est se sentaient non seulement vexés par les brimades et les oukases communistes, mais également par leur statut d’Européens de deuxième classe lorsque les Occidentaux, à savoir les Francophones  et les Anglais utilisaient le terme « l’Est » pour désigner leur coin d’Europe, à savoir l'Europe de l'Est c’est-à-dire, « Eastern Europe ». D’ailleurs, en français, on utilise parallèlement l’adjectif  « orientale » –  à savoir « l’Europe orientale » – pour désigner l’Europe de l’Est, un adjectif dont l’homonymie rend les Européens de l'Est franchement furieux.  L’adjectif « oriental »  rappelle aux Européens de l’Est l’Orient,  la Turquie, l’Arabie, l’islam, des notions avec lesquelles ils ne veulent absolument pas être rangés. Même les Européens de l’Est  qui maîtrisent parfaitement la langue française et connaissent la culture française préfèrent,  faute de mieux, que les Francophones, au lieu d’« Europe orientale »,  désignent leur coin d’Europe, comme « l’Europe de l’Est ».

Balkanisation et Globalisation

L’histoire des mots et les glissements sémantiques ne s’arrêtent pas là. Tous les Européens de l’Est, qu’ils soient de gauche ou de droite, les globalistes ou les anti-globalistes, et même la classe politique au pouvoir en Europe de l’Est aiment bien se désigner comme membres de la « Mitteleuropa » et non comme citoyens de l’Europe de l’Est. Le terme allemand  Mitteleuropa veut dire « l’Europe du centre », terme qui  renvoie aux beaux temps nostalgiques de l’Empire habsbourgeois, au biedermeier, à la douceur de vie assurée autrefois par la Maison d’Autriche et à laquelle les Slovaques, les Polonais, les Croates, les Hongrois, et mêmes les Roumains et les Ukrainiens appartenaient il n’y pas si longtemps.           

La notion d’appartenance à l’Europe, surtout dans ce coin de l’Est européen  s’aggrave davantage par les vocables utilisés par mégarde. Ainsi le terme «   Balkans » et  l’adjectif « balkanique », utilisés dans un sens neutre en France pour désigner l’Europe du sud-est,  ont une connotation injurieuse dans la culture croate même si cette désignation ne véhicule aucune signification péjorative. La perception que les Croates se font d’eux-mêmes va souvent à l’encontre de celle qui provient de l’Autre, à savoir de leurs voisins serbes ou bosniaques.  Aux yeux des Croates, les termes «  Balkans » et « balkanisation » signifient non seulement une dislocation géopolitique de l’Europe ; le vocable « Balkans », qui peut porter un signifiant tout à fait neutre en français ou en anglais, et qui est souvent utilisé dans des études géopolitiques, provoque souvent chez les nationalistes et identitaires croates des sentiments associés au comportement barbare, des complexes d’infériorité politique, et l’image de dégénérescence raciale de leur identité blanche. De plus le terme « balkanique » en croate induit souvent un sentiment négatif où se mélangent et se confondent diverses identités raciales et culturelles venues de l’Asie et non de l’Europe. On entend souvent les Croates de n’importe quel bord, se lancer mutuellement pour leurs prétendu mauvais comportement, la boutade : « Ah t’es un vrai Balkanique !».  Ce qui veut dire, dans le langage populaire croate, avoir un comportement non civilisé,  ou être un « plouc » tout simplement.  En Serbie, ce n’est pas le cas, l’identité serbe étant bien réelle et bien ancrée dans le temps et dans l’espace des Balkans et ne portant aucune signification péjorative.

Les Allemands, qui connaissent le mieux la psychologie des peuples de l’Europe centrale et des Balkans, sont très au courant de ces identités conflictuelles chez les peuples de l’Europe de l’Est et des Balkans. D’ailleurs, le terme « der Balkanezer » possède une signification fortement injurieuse dans le lexique allemand.

Quelle Europe ? 

Passons à l'Europe. A la fameuse Union européenne, bien sûr. Alors, qu’est que cela veut dire être un bon Européen aujourd’hui ? Soyons honnêtes. Compte tenu de l’afflux massif d’immigrés  non-européens, surtout du Moyen Orient, tous les Européens – que ce soient les Français de souche, ou les Anglais de souche et les « souchiens » de toute l’Europe,  sont en train de devenir de bons « balkanesques Balkaniques. » En effet, qu’est-ce que cela veut dire aujourd’hui, être Allemand, Français, ou bien Américain, vu le fait que plus de 10 à 15 pour cent d’Allemands et de Français et plus de 30 pour cent des citoyens américains sont d’origine non–européenne, donc non-blanche ? En passant par Marseille on a l’impression de visiter la ville algérienne ; l’aéroport de Francfort ressemble à celui de Hongkong. Les alentours de Neukölln à Berlin charrient les parfums de la casbah libanaise. La glèbe, le terroir, la terre et le sang, si chères à  Maurice Barrès, si chers à nous tous, qu’est-ce que cela veut dire aujourd’hui ? Strictement rien. 

On a beau prendre maintenant les allogènes comme coupables. Force est de constater que ce sont nous, les Européens, qui sommes les premiers responsables de l’occidentalisation et donc de la perte de notre identité. Ce faisant on a beau vilipender la prétendue inculture des Américains, au moins ils ne sont pas tiraillés par le petit tribalisme intra-européen. Les Américains de souche européenne peuvent demain, à la rigueur, devenir le fer de lance de la renaissance d’une nouvelle identité euro-blanche. Force et de constater que les sentiments d’identité raciale chez les nationalistes blancs américains sont plus forts que chez les nationalistes européens. 

Or en Europe de demain, dans le meilleur des mondes européens, même sans aucun allogène, il est douteux que le climat sera d’emblée propice à des grandes embrassades fraternelles entre les Irlandais et les Anglais, entre les Basques et les Castillans, entre les Serbes et les Croates, entre les Corses et les Français.  Soyons francs. Toute l’histoire de l’Europe, toute l’histoire des Européens, au cours de ces deux millénaires s’est soldée par des guerres fratricides interminables. Cela vaut toujours pour L’Europe orientale, à savoir « l’Europe de l’Est, » qui continue toujours d’être en proie à la haine interethnique. Le dernier conflit en date fut la guerre récente entre deux peuples similaires, les Serbes et les Croates. Qui peut nous garantir le contraire demain, même si l’afflux des Asiatiques et les Africains devait prendre subitement fin ?

Se dire « être  un bon Européen » aujourd’hui, ne veut rien dire. Se proclamer un « bon Occidental » non plus. Etre enraciné dans son terroir dans un monde globaliste n’a strictement aucun sens aujourd’hui, vu que nos quartiers sont peuplés d’allogènes qui avec nous sont soumis à la même culture marchande. Il y a au moins quelque chose de paradoxal avec l’arrivée des non-Européens : les interminables guerres et les disputes entre les grands discours  des nationalistes européens, entre les Polonais et les Allemands, entre les Serbes et les  Croates, entre les Irlandais et les Anglais – semblent devenus dérisoires.  L’afflux constant de non-Européens dans nos contrées européennes fait de la désignation  « L’Europe européenne » une  absurdité lexicale.

Ce qu’il nous reste à nous tous à faire c’est le devoir de nous définir tout d’abord comme héritiers de la mémoire européenne, même si nous vivons hors d’Europe, même en Australie, au Chili, ou en Amérique et même sur une autre planète.  Force est de constater que nous tous « les bons Européens » au sens nietzschéen,  nous pouvons changer notre religion, nos habitudes, nos opinions politiques, notre terroir, notre nationalité, voir même nos passeports, mais nous ne pouvons jamais échapper à notre hérédité européenne.

Non les allogènes, mais les capitalistes, les banksters,  les « antifas » et  les architectes des meilleurs des mondes, sont désormais nos principaux ennemis. Pour leur résister, il nous incombe de ressusciter notre conscience raciale et notre héritage culturel. Tous les deux vont de pair. La réalité de notre race et culture blanche ne peut pas être niée. Nous tous, nous pouvons tout changer et même aller sur une autre planète.  Mais notre hérédité, à savoir notre fond génétique, on ne peut  jamais changer.

La race, comme Julius Evola ou Ludwig Clauss nous l’enseignent, n’est pas seulement la donnée biologique – notre race est aussi notre responsabilité spirituelle qui seule peut assurer notre survie européenne.

Tomislav Sunic ( www.tomsunic.com)est écrivain et membre du Conseil d’Administration de American Freedom Party. http://a3p.me/leadership

 

mercredi, 15 mai 2013

Lyon: Conférence de Tomislav Sunic

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Lyon, 25 mai: Conférence de Tomislav Sunic

dimanche, 24 février 2013

Der Selbstmord des Abendlandes

Der Selbstmord des Abendlandes

von Alexander Schleyer

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

Der Selbstmord des Abendlandes
 

Dem Autor von „Die kommende Revolte“, Michael Ley, ist wohlbekannt, daß diese Dystopie von Spengler über Adorno bis Sloterdijk ausreichend ausgelutscht worden ist.

Bekannt und unübertroffen sind Frank Lissons Überlegungen zum Ende des Abendlandes. Auch JF–Autor Thorsten Hinz widmete in Zurüstung zum Bürgerkrieg dem kommenden Aufstand ein nicht nur in konservativen Kreisen viel beachtetes Werk. Aber ernsthaft darüber nachzudenken, ernsthaft die Militanzfrage zu diskutieren, wie es in linken Kreisen seit Jahrzehnten üblich ist, das trauen wir uns nicht. Zu schnell fängt uns der Trott unseres bürgerlichen Lebens ein oder zu schnell geraten wir in das subjektive Dunstfeld heraufbeschworener „Terrorgruppen“. Michael Ley dagegen versucht es.

Der umtriebige Geisteswissenschaftler Ley hat im renommierten Wiener Passagen-​Verlag publiziert, ein Standardwerk zur Romantik verfaßt, vieles zu politischer Religion veröffentlicht, zu Antisemitismus und mittelalterlicher Militärgeschichte. Ley ist also wahrlich kein verbitterter Salonfaschist, sondern ein sprachgewandter Autor. Mit wissenschaftlich fundierten Analysen und stupender Kenntnis der antiken und europäischen Geistesgeschichte skizziert er ein finsteres, aber gegenwärtiges Szenario.

Das Fehlen der Väter

Die postmoderne Ideologie der One World, dem globalen Dorf, unter den Bedingungen des Kapitalismus und der modernen Gesellschaften durchschaut Michael Ley schonungslos wie sachlich. Statt dumpfem Aufbegehren glänzt er mit hochphilosophischer und tiefenpsychologischer Analyse der Jetztzeit, die er als „post-​ödipal“ betrachtet: Ley erkennt das Fehlen der Vaterfigur, über Generationen hinweg.

War der „pater familias“ anfangs noch in der Fabrik, so fiel er später millionenfach in zwei Weltkriegen. Mit ihm starb im Zuge der Säkularisierung auch die metaphysische Vaterfigur: Gott. Die tief greifenden Umwälzungen durch die 68er sind für Ley bedeutsam. Er weist den Protagonisten nicht nur ihre Perfidität und Widernatürlichkeit nach, sondern anerkennt andererseits auch ihr tiefgehendes Denken und ihren Einfluß auf die zeitgenössische Philosophie! Sie zementierten den ideologisierten Feminismus, der den Mann als herabgewürdigtes, auf seine Arbeitskraft beschränktes Formfleischwesen einstufte.

Titten und Dschungelcamp für die Masse

Das Buch Die kommende Revolte ist keine Anleitung zum Aufstand und kein hetzerisches Pamphlet eines Verlierers, sondern nichts weiter als die Beschreibung von Lebensumständen, die wir tagtäglich in unserem Alltag beobachten. Ley analysiert und interpretiert ebendiese Beobachtungen, indem er sie sowohl philosophisch als auch psychologisch, politisch und wirtschaftlich in einen leicht verständlichen Gesamtkontext einordnet.

Nicht nur Migranten, so Ley, auch die autochthonen Bevölkerungen leben mehr und mehr in Parallel– und Gegenkulturen. Noch sei die breite Masse durch Fußball, Titten und Dschungelcamp ausreichend beschäftigt, wer aber noch einen Funken kultureller Identität in sich trägt, bleibt zu Recht in dieser verhaftet. Wer noch denkt und wagt zu denken, schart um sich Gleichgesinnte und läßt das „Tittytainment“ nonchalant an sich vorbeirauschen.

Die Weltverbesserer hingegen unterliegen dem Trugschluß, sie könnten eine Welt von oben verändern. Der wahre Weltverbesserer dagegen hat erkannt, daß die Welt nicht das große Ganze ist, sondern das, was er vor seinen eigenen beschränkten Augen vorfindet. Das wagt er zu verbessern, zu verändern, im Kreise der Seinen und schließt sich damit freiwillig aus dem Laufrad der Massengesellschaft aus. Beispielhaft sind dafür die zahllosen sozialen Alternativbewegungen, die keinesfalls nur auf linker oder überhaupt politischer Seite existieren. Michael Ley analysiert die tiefe Spaltung unserer Gesellschaften und prophezeit ihren weiteren Auseinanderfall, der auch und gerade durch unser politisch-​wirtschaftliches System keinesfalls mehr aufgehalten werden kann.

Narrenschau der Zeitgeschichte

Michael Ley setzt in jedem Kapitel einen Schwerpunkt seiner Analyse, die trotz ihres unglaublichen Umfangs kurz, knapp und leicht verständlich bleibt. Vom Beginn der Aufweichung traditioneller Lebensweisen, über die Totalitarismen, bis hin zu Migration, Armutsgefährdung und dem Anspruch der Wirtschaft auf die Welt, führt Ley detailgenau einen jeden Aspekt auf. Er prophezeit: Die kommende Revolte wird zu einer asymmetrischen Revolution ausarten. Ohne eine politische Führung, ohne ein klares Konzept werden zahlreiche Konflikte ausgetragen werden, die eben nicht zu einem neuen Gesellschaftsvertrag führen. Das „Projekt Moderne“ ist somit gescheitert. Eine Zukunft versprechende Perspektive kann nur durch die Überwindung der totalitären Ideologien des Multikulturalismus, der Gottlosigkeit und der geradezu widerwärtig anmutenden Verstrickung von regionaler Politik und globaler Wirtschaft gefunden werden.

Ley ist Reaktionär, Visionär, Utopist und glasklarer Analytiker zugleich. Sein schmales Werk zu lesen gibt einen argumentativen Überblick, führt den Leser an neue Aspekte des politischen Denkens heran und wird ihn ermutigen, den Schmutz der Zeit umso heftiger von sich zu schütteln. Verstehend wird er die Gegenkultur stärken und wenn nicht eines Tags zum Pflasterstein greifen, so doch sich ernstliche Fragen stellen.

Michael Ley: Die kommende Revolte. 138 Seiten, Wilhelm Fink Verlag 2012.16,90 Euro.

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samedi, 10 mars 2012

The Theorists of Occidentism

The Theorists of Occidentism

By Fabrice Fassio

Ex: http://www.counter-currents.com/

 

Aleksandr Zinoviev

Translated by M. P.

When he arrived in Germany in 1978, Aleksandr Zinoviev had worked for years in the fields of logic and scientific methodology applied to social systems (models). His personal research and experience in the Soviet world enabled him to publish many works devoted to his country and the communist (socialist) system. According to Zinoviev, communism first developed in Russia during the Stalinist period, then implanted itself in other countries, China in particular.

This social model differs profoundly from its competitor, which was born in North America and Western Europe around 200 to 250 years ago. For various reasons, which he explains in his work, L’Occidentisme: essai sur le triomphe d’une idéologie (Occidentism: Essay on the Triumph of an Ideology [Paris: Plon, 1995]), Zinoviev prefers the terms “Occidentism” or “Occidentalism” to the traditional denomination “capitalism.”

Zinoviev is certainly not the first theorist to attempt to understand the nature of the social system that is so vigorous in contemporary Occidental countries. In 1835, Alexis de Tocqueville, after returning from a voyage to the United States, published the first volume of a work that remains relevant today, De la Démocratie en Amérique (Democracy in America). In this book, he shared some of his reflections on American society, which was only a few decades old and was developing before his eyes.

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Alexis de Tocqueville

Twenty years later, Tocqueville wrote another work, L’Ancien Régime et la Révolution (The Old Regime and the French Revolution). This book is a sociological (not historical) analysis of great profundity. It is, moreover, very interesting to read this book alongside the first chapters of Zinoviev’s book, which are devoted to the history of Occidentism.

When Tocqueville wrote, he was conscious that the Occidentist system, which he called “democratic society,” was in the process of implanting itself in France, where it would definitively supplant moribund feudalism. The Revolution of 1789 had only accelerated an inevitable process. At the beginning of the nineteenth century, Tocqueville not only understood that the future of France would belong to Occidentism, but he also predicted the fundamental role that the United States would play in the future in the entire world.

When Aleksandr Zinoviev wrote, 150 years after the publication of Tocqueville’s books, Occidentism was no longer in its infancy, but had long implanted itself in several countries; it had, moreover, won an important victory over its competitor, European communism. It is this triumphant system that Zinoviev describes without pretending to make an exhaustive study. I would like to present a brief overview of Zinoviev’s  theory, in order to show the radically innovative aspect of his idea of Occidentism.

The Three Pillars of Occidentism

The Occidentist model is the ensemble of the traits or characteristics common to Occidental countries; these characteristics have been largely created by the same internal laws, which explains the similarities existing between the way of life of countries as geographically far apart as France, Australia, and Canada. In his work devoted to the Occidentist system, Zinoviev affirms that this model rests upon three “pillars”: the economic, community, and human factors.

The economic factor rests simultaneously upon the rules that govern professionalism in work and which deal with investment and the ability to make profits. Profoundly linked to private enterprise, the Occidental world is therefore a world where discipline in work is very severe, and enterprises have the obligation to be profitable if they want to endure. The Occidental model of the production and distribution of goods and services is a very specific phenomenon, different from that which exists in a socialist society. In the latter, employees performing a given activity generally earn less than their Occidental equivalents, but they definitely work less, they perform the same task in much larger numbers, and they have guaranteed employment; as for enterprises, their survival does not depend on their ability to generate wealth.

The community factor is a phenomenon common to all societies consisting of thousands or millions of people. The division between leaders and led, the hierarchy of leaders, the formation of castes and classes, the creation of an ideology, and the appearance of the state as an organ responsible for the direction of several aspects of social life are community phenomena. Without these things, society can exist only as a totality destined to disappear. The state is therefore a phenomenon common to all human collectivities reaching a certain stage of development, but it takes different forms according to the nature of the social organism that it is required to direct. The Occidental form of the state is traditionally called “parliamentary democracy.” Human collectivities not belonging to the Occidental world have created forms of power other than parliamentary democracy.

The human factor is manifested in the collective acts of the members of a society. Education, culture, ideology, religion, and power have, among other functions, the purpose of regulating the reproduction of the human material necessary for the survival of the collectivity. Individualism, business initiative, the taste for meticulous work, the instinct to save, and the ability to organize oneself are, among other things, psychological qualities that have developed themselves in Occidental countries. The famous “Protestant work ethic” has played, for example, an important role in the formation of the human material in the United States. Elsewhere in the world, populations have developed other qualities necessary for the survival of the social organism to which they belong.

Occidentism is a model that was born and matured in the west of Europe and in other continents that have been populated by European emigrants. It has then spread into several places of the world to Occidentalize other people who have sometimes opposed a ferocious resistance to it. In the nineteenth century, the creation of colonial empires by the European powers was the manifestation of this expansion. Today, this expansion takes different forms from those of the past, but it continues, in Russia for example.

The Question of the Future

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Aleksandr Zinoviev, Self-Portrait

In the last chapters of his work, Zinoviev raises the fundamental question of the future and his predictions regarding it. We have here an example of the methodological principles Zinoviev elaborated when he worked in Moscow.

In sociology, prediction is possible only upon the base of the analysis of the present. When the researcher analyses a given society, he highlights tendencies (laws) which act in the present and will continue to act in the future if nothing hinders their action. Upon the basis of these laws, the researcher can construct a model of a “possible future.” As Zinoviev remarks at the end of his work, the future is not fatally inscribed in the present.

The Face of the Future

Before concluding his study devoted to Occidentism, Zinoviev lists some internal laws that will determine the future, if nothing happens to thwart their action. I would like to focus on two of these laws.

In the first place, Zinoviev notes that the structure of the Occidental population is changing radically. The proportion of persons employed in the production of goods and services has decreased, while the number of the individuals exercising their activity in the spheres of the direction and administration of the country, as well as the spheres of ideology and the media, has increased.

In the second place, Zinoviev notes that the spheres of ideology and the media are reinforcing their power over the Occidental population. This last point is of great significance.

After the Second World War, the means of communication and information—the press, book publishing, radio, and television—were transformed. New technical inventions, reinforced links between different types of media, and the growth of employment in this sector have provoked a “qualitative leap.” In other words, the media have become an essential sphere of society, as well as the privileged means for the diffusion of ideological themes within the larger public.

This ideology is made up of an ensemble of judgments and ideas designed to fashion the consciousness of the social individual. Among the ideological themes diffused by the media in Western Europe in recent decades, let us cite offhand: “youthism” (jeunisme), or the extreme valorization of youth, the defense of homosexuality, the merits of democracy, ecology and the environment, and a standardized image of countries resistant to Occidental influence. The Occidentist ideology sets up taboos that must be respected: for example, the prohibition of raising questions linked to mass immigration in Europe. It also fabricates “personality cults,” often making mediocre individuals pass for exceptional beings: the stars of sports, politics, and show business.

One of today’s ideological themes occupies a preeminent place: the vision of the Occidental way of life in general, and the American way of life in particular. The best-selling books, the big budget films, and the television broadcasts, made in the United States or conceived upon the American model, present in one fashion or another a valorizing image of the American way of life.

Occidentist ideology and culture form part of what American political scientists call “soft power.” “Soft power” is extremely effective today and suffocates, in the literal sense of the term, cultural forms coming from other countries. The two laws expressed at the start of this chapter have reinforced their action since the second half of the last century. It is therefore legitimate to think that this movement will amplify itself in the future and that we are going to witness in the future an increasingly pronounced ideological conditioning of the Occidental population. “The Single Thought” (La Pensée Unique), designed to regulate the masses and to create a standardized social consciousness, therefore has a bright future ahead of it.

During the Cold War, Zinoviev addressed a letter to me in which he affirmed that he would be interested in studying the Occident, beginning by analyzing its ideology. Zinoviev perceived the colossal extent of the conditioning of the Occidental masses; he also knew that the ideology of the Occident exercised a corrosive effect on the upper classes of his own country. “Soft power” was an effective weapon in the struggle against the Soviet Union. The latter collapsed without the Americans using their armed forces, “hard power.” An extremely bloody conflict was thus avoided. Without rivals on the world scene, at least for a while, the United States has thus become the master of the world, 150 years after the voyage of Alexis de Tocqueville, the first theorist of Occidentism.

Source: http://www.zinoviev.ru/fassio/penseurs_zinoviev.html [4]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/03/the-theorists-of-occidentism/

mardi, 18 octobre 2011

L'Occident, un crime contre l'imaginaire européen

L'OCCIDENT, UN CRIME CONTRE L'IMAGINAIRE EUROPEEN

Jure Georges Vujic, un écrivain „contre-bandier“ d'idées

 

A propos du livre „Un Ailleurs européen -Hestia sur les rivages de Brooklyn“

Avatar Editions, mai 2011

 

un ailleurs europeen.jpg„La tradition est inversée. L’Europe ne raconte plus l’Occident. C’est l’Occident qui comte l’Europe. La marche en avant des proto-iraniens, peuples de cavaliers vers leur foyer « européen », la « hache barbare » du peuple des demi-dieux hyperboréens, Alexandre, Charlemagne, Hoffenstaufen, Charles Quint, Napoléon ne font plus rêver. L’Occident hyperréel sublimé, le mirage du « standing », du bonheur à la carte est le songe éveillé et névrotique du quart-monde favellisé, d’un imaginaire tiers-mondiste « bolly-woodisé ». Il n’y a plus de grand métarécit européen faute de diégèse authentiquemment européenne. La « mimesis vidéosphérique » occidentale dévoile, déshabille, montre et remontre dans l’excès de transparence. Loin des rivages de l’Hellade, Hestia s’est trouvé un nouveau foyer sur les bords de Brooklyn, aussi banal et anonyme que les milliers d’« excréments existentiels » qui jonchent les rivages de Long Island.“

 

C'est sur ce constat pessimiste que l'on pourrait très bien résumer le dernier livre de Maitre Jure Georges Vujic, (écrivain franco-croate),   intitulé  „ Un Ailleurs européen-Hestia sur les rivages de Brooklyn ». Ce livre qui sort aux éditions Avatar, pourrait très bien être autobiographique, l'auteur y mêlant avec un langage á la fois lapidaire, incisif et au style hermétique, á la fois des éléments mémorialistes et anthologiques, mais aussi analytiques qui rendent très bien compte de l'état de la crise á la fois politique , spirituelle  et identitaire que traverse aujourd'hui l'Europe. Au fil d'une méditation et d'une réflexion personnelle que l'auteur qualifie de „contrebandière“ „transversale“ et „asymétrique „ Vujic se livre á un défrichage intellectuel des contradictions et de maux internes qui accablent l'Europe contemporaine. Dans le cadre de cette réflexion, il l'oppose l'idée  d’Europe, éminemment spirituelle, aristocratique, organique et plurielle á l'occidentisme contemporain mercantile, néolibéral, techniciste americanocentré contemporain. Selon lui : « L’Europe d’après 1945 et l’Europe de nos jours ne sont guère différentes et présentent des similitudes flagrantes ou plutôt portent les mêmes stigmates « décadentistes » de la « fin d’un monde », . Depuis la guerre froide jusqu’au monde unipolaire américanocentré de nos jours, l’Europe semble inéluctablement engagée dans une lente agonie á la fois « festives «  et « hyper-réelle » caractérisée par un climat généralisé de déliquescence, la corruption des « idées » et mœurs, l’anomie généralisée, l’absence de « sens et de principes métaphysiques », l’irresponsabilité et la pusillanimité des démocraties parlementaires, l’imposture libérale et le déclin de la notion de souveraineté. La blessure et l’humiliation infligées à l’Europe au lendemain de 1945 ne cessèrent de grandir et d’affecter les organismes vivants que sont les peuples européens : d’est en ouest les mêmes maux accablent l’Europe d’hier comme celle d’aujourd’hui, et je persiste à croire que les mêmes remèdes restent indispensables pour une renaissance authentiquement européenne. »

Il convient de reconnaitre á l’auteur le mérite  et l’audace de vouloir á travers cette démonstration littéraire concilier les thèses et les pensées d’écrivains et penseurs de la « droite révolutionnaire » ou de la « tradition »« » tels que Jünger, Évola, Bardèche, Salomon, avec des penseurs contemporains « post-structuralistes » et « dé-constructivistes » classés à gauche, tels que Derrida, Deleuze, Guattari, Cacciari, Foucault ou Baudrillard. Vujic prône une reconquête de cet esprit européen originel mais sans tomber dans le carcan  d’un discours passéiste et néoromantique antimoderniste. »Remonter à l’essence, à la source spirituelle de la pensée européenne, c’est reconnaître que dans sa solidarité comme dans sa diversité. Cette Europe « plurielle » et « buissonnière » apparaissait ainsi dès le XIXe siècle aux plus hauts et sages de nos penseurs à un Goethe, un Renan. Michelet, Proudhon, Quinet, fils de 1789 et militants de la génération de 1848, traitaient déjà des thèmes socialistes et nationaux : respect de la force, critique de la démocratie, culte du travail et de la patrie, contre-religion. La génération de 14 et la « camaraderie » de 1945 feront entendre la même mélodie martiale : reconquête de la virilité, fidélité à la fraternité des tranchées, exaltation de l’héroïsme guerrier ; Péguy, E. von Salomon, Moeller Van den Bruck, E. Jünger, Georges Sorel apportaient un bain de jouvence révolutionnaire à la pensée nationale. La pensée de Vujic est manifestement « oecuménique «  et reflète bien son idiosyncrasie personnelle,  qui tente dedépasser la simple dimension réactive d’une pensée hétéroclite et à la fois cohérente, pour en extraire les matrices constantes et stables qui imprègnent les diverses chapelles de pensées dites de « droite » ou de « gauche », le plus souvent dispersées voire rivales.

vujic foto.jpgEn abordant la question du devenir de l’Europe, l’auteur rend compte des mutations du „monde européen“ contemporain dans le sens symbolique, essentialiste et métaphysique, asphyxié sous l’empire d'un „occidentalo-centrisme“ mécaniciste qui l'a indéniablement absorbé et consumé, est qui du reste constitue son degré zéro de la puissance symbolique.  Il constate  que l'Europe actuelle  s'est mise aux couleurs de l’Occident qui, dans ses excès, dans son absurdité, produit une fatale réversion pour se transformer en son exact contraire : un extrême-occident impérialiste et mortiphère. Au de la de toute pensée passéiste , a l’opposé des formules réactionnaires et restauratrices, Vujic fait preuve d’une extrême lucidité en appelant á  constater le monde en soi, l’Europe contemporaine « en soi »  c'est-à-dire par ce qu'elle nous offre de plus concret. Cette approche qui nous rappelle l’attitude d’un Jünger ( réalisme tragique), le gai savoir d’un Nietzche et « l’être au monde » d’un  Merleau-Ponty, conduit l’auteur á la réflexion su « l’ailleurs européen » le miroir- inversion, la version spéculaire d’une Europe « kidnappée » par l’occidentisme contemporain. » Défendre le passé d'une Europe „originelle“, intact et mythique consisterait en une opération tautologique qui tendrait á s'opposer á son propre devenir et de défendre son propre „simulacre“, car il faut partir du simple constant que l'esprit prométhéen européen a bel et bien depuis l'antiquité enfanté l'occidentisme hypermoderne actuelle. L'Europe d'hier s'est irrmédiablement  retournée en son contraire, l'Occident contemporain. » C’est ce qui l fait dire a l’auteur que l’Europe actuelle est en proie « au jeu de simulacres ». « La « simulacr-isation » de l’Europe sous forme de produits consuméristes, d’images d’épinal, d’archétypes culturels, de stéréotypes touristiques ne fait que simuler d'autres simulacres sois-disants « évènementiels » « rétrospectifs » ou « ostensibles » . Toute méta-narration incantatoire, tout grand-récit, toute notion de « grande politique »  á la fois « vectorielle » et « vertêbrante », d'une œuvre originale, d'un événement authentique, d'une réalité première a disparu, pour ne plus laisser la place qu'au jeu des simulacres ». En ceci,  Vujic  rejoint l'analyse nietzschéenne de la vérité comme voile, et de la pudeur de la féminité, ensemble de voiles qui ne font que voiler d'autres voiles. Ôtez tous les voiles, et il ne reste plus rien. ». Pour lui l’occident contemporain est «  avant tout un paysage sociétal, de « landscape » virtuel. Souffrant d’un vide identitaire et d’une absence de paternité, L'Europe s'est peu á peu transformer en super-usine occidentale qui produit á l’excès une idéologie économiciste de marché, des valeurs exclusivement consuméristes , une prolifération sans frein de développement technologique, de progrès infini, et s'est fait le porte drapeau d’une morale totalitaire planétaire, qui 'est donnée pour but de réaliser le rêve utopique d'une „unite intégrale“ mondiale.

La structure du livre quasi-photographique pourrait très bien être celle d’un scénario de Godart alors que le séquençage rappelle les actes du théâtre antique- La méprise, la Forclusion, ect… au nombreuses  références de la mythologie grecque. Le style de l’auteur est á la fois baroque et dépouillé, et témoigne d’une curieuse « sérendipité » comme l’aime  l’appeler l’auteur qui nous plonge dans un récit dystopique,  métapolitique et philosophique qui n’en finit pas d’interroger au gré des chapitres.

Le parcours narratif de l’auteur, est hanté par la présence du personnage parabolique et métaphorique d’Hestia, une sorte de déesse postmoderne du foyer et de l’identité, mi-démon mi-ange, qui au gré du cheminement réflexif de l’auteur, rôde telle une vagabond en quête de sens sur les rivages de Brooklyn, comme leitmotiv d’un Occident désoeuvré, spirituellement ravagé et vidé, un peu comme dans un film noir,  mêlant les accents d’un Kerouac  ou d’un Céline.

„Que faire ? Hestia devra-t-elle chevaucher ce nouveau paysage extrême-occidental, c’est-à-dire faire en sorte que ce paysage devienne le centre de l’aventure d’une nouvelle extension métaidentitaire ? Faire l’expérience d’une nouvelle déconstruction identitaire par « l’archipélisation » ? La tâche de Hestia est celle du poète qui s’efforce de diffuser la totalité dans son lieu, trouver et inscrire « l’Ailleurs » dans « l’Ici ». Faire d’un territoire hostile et rival un lieu commun. Le génie « européen » qui avait pensé sensiblement le monde, qui l’avait dompté et conquis en l’accaparant dans la raison instrumentaire et intelligible avait fini par être consumé par la res cogitans occidentale, un « Nouveau monde » qui l’avait pulvérisé dans la sphère de l’intelligible et la surreprésentation excessive. En un mot l’esprit européen avait lui-même enfanté une image criminelle de lui-même. Et si c’était vrai ? Si l’Occident n’avait été que ça : un crime contre l’imaginaire ? S’il n’était rien d’autre qu’une machine à sublimer qui n’a cessé de servir le plus sournois des cultes de la représentation et de la raison discursive ? L’Occident en tant que processus de désenchantement irréversible ?“

 

La question reste ouverte, l’auteur ne nous offre pas des réponses toutes faites, L’intertextualité et les thèses critiques de Vujic sont éminemment politiquement incorrect, contestataires et  « réfractaires », mais aussi pédagogiques et anticipatrices ouvrant diverses pistes de réflexions, de nouvelles lignes de fuites dans la pensée unique. Le grand mérite de ce livre est de mettre en exergue et d’offrir au de lá  des schémas de critique « binaire »,« un archipel de « litteralité » qui regroupe des pensées de générations différentes

C’est pourquoi , dans le contexte de la pensée unique dominante, Vujic fait incontestablement preuve d’un liberté de pensée indéniablement subversive car  l’acte de penser librement et en toute indépendance est indéniablement « subversif », acte non pas illégal mais a-légal, qui se situe en amont du systémisme et du positivisme dominant. Le livre est á recommander á tous les esprits épris de sens et d’amour pour une certaine idée de l’Europe. On parle de la fameuse quête du sens en oubliant que la question du sens est inséparable de la mise en question du sens établi.

 

Edouard Largny

Journaliste et critique littéraire

mardi, 05 avril 2011

Boomerang libico per un fragile Occidente

Boomerang libico per un fragile Occidente

di Raffaele Sciortino

Fonte: megachip [scheda fonte]


obamabushgradual

 

È dunque tornata la guerra umanitaria. Entrata nel sistema dell’informazione e di qui nell’immaginario collettivo, non c’è neanche più bisogno di virgolettarla. Ritorna però in un contesto del tutto mutato rispetto agli anni Novanta. Ieri, sull’onda lunga della caduta del Muro e con la finanziarizzazione in piena ascesa, gli States avevano in mano saldamente l’iniziativa e potevano elargire promesse ai nuovi arrivati nel consesso delle democrazie occidentali. Oggi siamo dentro una crisi globale che è un aspetto dello smottamento profondo e strutturale dei meccanismi di riproduzione della vita sociale complessiva (vedi Fukushima). L’interventismo umanitario non ha l’iniziativa. La guerra alla Libia è reazione.

 

Reazione alla prima fase della sollevazione araba. Reazione di poteri voraci ma in affanno contro i possibili passaggi di radicalizzazione di un moto ampio e profondo in pieno svolgimento che sta intrecciando, dal basso, istanze di dignità, potere e riappropriazione. E che non ha bisogno di “aiuti” ma piuttosto rimanda un messaggio di possibile costruzione di un percorso comune di lotta e emancipazione.

 

Confitto di narrazioni

 

È da questa visuale - rovesciando la narrazione “democrazia”/tirannide o pro/contro Gheddafi - che è possibile sfuggire alla trappola-ricatto del dispositivo Onu “a protezione dei civili” sbandierato dall’”onesto” Napolitano e dalla macchietta Berluska, e all’ipocrita giustificazione dell’intervento da parte di chi voleva mandare i poliziotti francesi contro le piazze tunisine, come Sarkozy, o come Obama si muove con il double standard di sempre rispetto ai governi da sostenere o disarcionare e, ancor più cinicamente, ai morti buoni o cattivi. Le bombe sulla Libia fanno il paio con l’appoggio di Washington all’asse militari-fratelli musulmani concretizzatosi nel referendum costituzionale egiziano di pochi giorni fa a sancire la “transizione ordinata” auspicata dall’amministrazione Obama. Fanno il paio con l’avallo statunitense alla repressione dei moti in Bahrein, dopo l’ingresso di truppe saudite nel paese che ospita la base della V flotta, con il via libera a nuovi raid israeliani, con la situazione in Yemen e altro ancora.

 

Sono i movimenti che nulla hanno da farsi perdonare rispetto a certi indifendibili personaggi a poter costruire una propria autonoma posizione. Non è facile, certo, in quanto la strategia occidentale sta cercando di rimettere piede nell’area utilizzando come varco non solo l’occasione offerta dalla repressione gheddafiana ma proprio le istanze detournate in senso reazionario delle stesse insorgenze arabe. Ma neanche impossibile se riusciamo a ricollegarci con il senso profondo di queste istanze che è quello di rimettere in discussione un ordine globale sempre più ingiusto, incerto e onnivoro che sta scaricando i costi della crisi sui soliti noti, senza alcuna ricetta alternativa. E se dal mondo arabo salirà ancora più alta e ampia la protesta delle piazze.

 

Partiamo da un dato. L’intervento umanitario non sembra convincere. Non convince le piazze della Primavera araba che hanno costretto la stessa Lega Araba a tornare un poco sui propri passi. Non i “paesi emergenti” che - a ragione, e con l’aggiunta di Berlino - intravedono nella prima guerra tutta di Obama il segnale di una rinata tentazione U.S. a fronte di una crisi globale irrisolta. E neanche una buona parte della gente comune in Occidente, passiva è vero, ma il cui sentire è assai differente dai tempi della guerra kosovara. La coalizione dei volenterosi - reminescenza bushiana non casuale - si è mostrata fin qui litigiosa e soprattutto divisa su interessi tutt’altro che ideali, ma lo stesso mandato Onu sta perdendo di credibilità in particolare nell’opinione araba a misura che si è rivelato un lasciapassare per massicci bombardamenti (significativa la contestazione al Cairo contro il segretario generale dell’Onu da parte dei ragazzi del 25 gennaio). E se da Washington a Parigi e Londra la parola d’ordine - ora anche pronunciata a voce alta - è far fuori Gheddafi, questo vorrà dire bombardamenti continui e ancor più massicci e truppe di terra, o al minimo spaccare in due il paese, se non ridurlo ad una situazione tipo Somalia. La vicenda potrebbe dunque non chiudersi in poche settimane.

 

In quest’ottica - presupponendo il quadro, tutt’altro che lineare, aperto dalle soggettività in rivolta nel mondo arabo - proviamo qui a mettere a fuoco il ruolo peculiare di Washington e a schizzare i contorni geopolitici, peraltro in continuo movimento, della situazione.

 

Le due interpretazioni dell’intervento

 

La svolta interventista di Washington è maturata dopo una discussione assai accesa all’interno dello staff della Casa Bianca grazie alla spinta decisiva della Clinton, supportata da un’aperta alleanza tra neocons riciclati e internazionalisti liberali[1], contro le forti e aperte remore del Pentagono[2] e dei realpolitiker[3]. Se ne danno grosso modo due interpretazioni. Secondo la prima - ad esempio Lucio Caracciolo di Limes - si tratta di una decisione in cui Washington sarebbe stata tirata per i capelli dal protagonismo francese dentro un quadro di incertezza sul che fare rispetto al rimescolamento di carte in corso nel mondo arabo. Non si tratterebbe allora di un’american war, anche se ovviamente l’apporto militare statunitense resta indispensabile. Le affermazioni della Clinton sulle unique capabilities degli States sarebbero una subordinata del mesto/onesto riconoscimento obamiano “Non guidiamo noi la coalizione”. Una lettura, questa, cui pare sottesa la tesi del “declino americano”[4].

 

C’è invece una lettura che invita a guardare alle azioni che, come scrive il Washington Post[5], parlano più chiaro e a voce più alta delle dichiarazioni. Innanzi tutto, senza la garanzia della messa in moto del dispositivo militare e di comando statunitense Sarkozy non sarebbe stato in grado di muoversi e tanto meno di annichilire le forze aeree e le infrastrutture militari libiche. Questo è un dato evidente se si guarda a marca e numero dei missili lanciati. Mentre il galletto francese si pavoneggiava con il giullare-philosophe Levy, il direttore del comando congiunto delle forze armate U.S. dichiarava al Pentagono nel piano linguaggio lockiano: “Siamo al comando delle operazioni militari”. Inoltre, il ruolo giocato da Washington è stato decisivo nel varo - con “straordinaria velocità” scrive il NYT - della risoluzione Onu 1973 e in particolare della sua formulazione assai ampia ed estremamente flessibile basata sul principio della Responsability to Protect.[6] “A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa”.[7] Il “capolavoro” politico del presidente: lavorare dietro le quinte lasciando la scena agli europei per coinvolgere Onu e Lega Araba.[8]

 

 Regime change versione Obama

 

Insomma, ad un’analisi più attenta non si può negare l’incertezza che regna a Washington ma neanche il suo ruolo guida peculiare nella nuova impresa libica. Un ruolo in vesti formalmente multilaterali ma dentro un contesto inedito che le interpretazioni correnti colgono solo tangenzialmente. L’incertezza, le esitazioni e titubanze, la confusione sulla catena di comando, il lasciar spazio ai protagonismi francese e inglese, si spiegano innanzitutto a fronte dell’insorgenza in corso e dell’obiettiva difficoltà per Obama di non perdere la regione entro un rimescolamento profondo che comunque gli Stati Uniti non possono impedire. Bloccarlo difendendo uno status quo che va sbriciolandosi significa rischiare di perdere tutto. La partita va giocata dall’interno del cambiamento piuttosto che aggrappandosi ad una realtà oramai indifendibile. (Quasi si trattasse per Obama di recuperare all’esterno quella spinta al change esauritasi all’interno). [9]

 

Per l’amministrazione statunitense a ben vedere “la Libia conta non per il suo petrolio o l’ intrinseca rilevanza, conta perchè è un elemento chiave della turbinosa trasformazione del mondo arabo”. [10] Detto in altro modo, la partita libica se per Parigi è questione di compensare a danno di Roma la perdita della Tunisia (con un occhio alla “sua” Africa), per Washington è un varco che si apre assai opportunamente non solo per mettere piede militarmente ed economicamente in una sfera già europea a rischio di inserimento cinese - bissando così il successo della secessione in Sudan - ma soprattutto per condizionare e cauzionare politicamente l’insorgenza araba in corso.

 

Inserirsi in Libia, con forze militari discrete e soprattutto con un regime amico “democratico” e una ritrovata legittimità agli occhi del mondo arabo, proprio ai fianchi dei due paesi in cui le masse finora si sono mosse con più radicalità nel tentativo di riprendere nelle proprie mani il futuro: ecco, se riuscisse, il vero capolavoro. Nelle parole del presidente pronunciate all’incontro della Casa Bianca in cui ha optato per l’intervento: Questa è la più grande opportunità di riallineare i nostri interessi coi nostri valori. [11] Supportando o creando un regime amico - anche appaltato ai partner europei - nel nuovo contesto regionale. E insieme generando rivalità nazionali e confusione tra le masse. Si sfrutta qui un dato reale: il posizionamento nei confronti degli eventi, davanti a un Gheddafi che fino all’ultimo ha sostenuto Ben Ali, non è facile neanche per le piazze arabe. Mentre è chiaro che, se è vera la notizia di aiuti militari dell’esercito egiziano ai ribelli libici nel mentre dell’aggressione occidentale, ne uscirebbe rafforzata la subordinazione a Washington del quadro politico post-Mubarak. Ben diverse sarebbero infatti la natura e le modalità dell’aiuto di un Egitto rivoluzionario alla popolazione libica tutta contro un regime reazionario: ma dubitiamo che avrebbe l’avallo Onu...

 

La decisione che a molti è apparsa improvvisata si è sicuramente definita all’immediato per il rischio di perdere Bengasi e dunque un supporto locale per il regime change. Era però stato proprio Obama a fine febbraio[12], e lo ha ribadito durante il recente viaggio in America Latina, ad affermare che il rais libico deve andarsene. Dunque non la preoccupazione per i civili ha mosso un’amministrazione che non pare così solerte nel caso di regimi alleati come Bahrein e Yemen e continua impunemente a fare stragi coi droni dai cieli di Afghanistan e Pakistan. In realtà, il viaggio della Clinton in Tunisia ed Egitto nei giorni immediatamente precedenti ha fatto suonare il campanello d’allarme: proteste e scontri a Tunisi in occasione della sua visita e rifiuto di incontrarla da parte dei giovani del 25 gennaio al Cairo. [13] Dove stanno andando il cuore e le menti dei giovani arabi? Meglio affrettare il “rientro”...

 

Certo, la politica Usa corre su di un filo. La situazione per certi versi è più difficile in termini politici che non durante gli eventi di piazza Tahrir. Il riposizionamento di linea deciso in quel frangente per una “transizione ordinata” [14] è oggi messo alla prova. Quello che non si può dire però è che quel riposizionamento sia del tutto improvvisato. Al di là del discorso obamiano del Cairo, la Direttiva Presidenziale 11 dell’agosto dell’anno scorso avvisava che “la regione sta entrando in un periodo critico di transizione” e invitava ad affrontare gli inevitabili “rischi aprendo ai popoli del Medio Oriente e del Nord Africa la graduale ma reale prospettiva di una maggiore apertura politica”. [15] Obama mostra più lungimiranza dei suoi critici realisti. Per Washington lo status quo non è (più) stabile...

 

Strategia Usa e comune araba

 

Questo non significa affatto che la strategia di intervento fosse bell’e pronta a tavolino. L’impressione di una certa dose di improvvisazione persiste e alimenta critiche insieme alla non completa chiarezza sulla catena del comando e sugli obiettivi di medio termine dell’attacco. (Anche se, va detto, le difficoltà nel passare completamente il comando alla Nato come braccio armato di una risoluzione Onu per molti paesi indigeribile sono dovute non tanto alla grandeur francese ma assai più alle remore di Berlino e Ankara; e l’obiettivo di far fuori Gheddafi è condiviso da tutti, solo certe “anime belle” fanno finta di non saperlo).

 

Ma che non ci sia alcun piano lucidamente pensato a tavolino è dovuto principalmente al fatto che la dinamica dell’ondata che sta scuotendo i regimi arabi non è prevedibile nè controllabile da nessuno. Ed è questa la variabile indipendente che accelera e precipita gli eventi. E può determinare il successo o l’insuccesso dell’impresa occidentale in Libia, non tanto in termini militari quanto politici.

 

E qui si fanno avanti i rischi, emergono le fragilità degli Stati Uniti a fronte di un moto che potrebbe andare ben oltre le prime importanti acquisizioni immediate, oltre e contro i blocchi esterni e le interruzioni proprie di un percorso che ovviamente non ha nulla di predeterminato. Quali le contraddizioni che l’intervento militare può far emergere?

 

Primo. La mistura di hard e soft power Usa al suono dei missili seppur con un profilo di iniziativa defilato dietro gli “alleati” - della banda anche qualche emirato arabo - non è affatto detto che riesca convincente o anche solo indifferente agli occhi delle piazze arabe. E, anche al di là di segnali visibili (solo in Tunisia c’è stata qualche manifestazione ma non di massa contro i bombardamenti), non è detto che riesca a incanalare in senso filoccidentale quelle energie impegnate in prima istanza a far pulizia interna contro i diversi regimi dell’area.

 

Secondo. C’è stato un evidente scambio tra l’intervenire in Libia e il lasciar correre da parte di Washington rispetto alla repressione in atto nella penisola arabica. Non si tratta solo degli intrallazzi dei Saud per armare i ribelli libici, come documentato da Robert Fisk[16], delle loro pressioni su Francia e Gran Bretagna per l’intervento, della propaganda antilibica di Al Jazeera e della sua s/copertura rispetto ai bombardamenti su Tripoli, e di altre finezze del genere. Si tratta principalmente del fatto che se e quando nel cuore delle petro-monarchie la ribellione inizierà ad ampliarsi, il conto sarà presentato anche ad Obama. Nel Bahrein questo è già evidente. Certo, Washington non lo pagherà questo conto fino a che gli emiri non saranno caduti.

 

Terzo. La Libia potrebbe non essere una passeggiata per la coalizione dei volenterosi. Il consenso a Gheddafi, non solo a Tripoli, pare non proprio minoritario e anzi aumenta proprio a causa dei bombardamenti, secondo il Washington Post. [17] Questo mentre le forze dei ribelli potrebbero non essere da sole sufficienti a procurare il cambio di regime agognato. Si tratterà di vedere se dall’interno del campo gheddafiano verrà fuori una carta di ricambio. In ogni caso difficile prevedere stabilità per un paese la cui popolazione si è di fatto spaccata in due, tra repressione del rais e invocati bombardamenti stranieri.

 

Quarto. Quanto andrà avanti la passività tra la gente comune in un’Europa prossima al teatro di guerra? Passività dovuta non all’incomprensione del gioco che si sta giocando, ma allo smarrimento tra gli effetti della crisi globale e l’incapacità di legarsi attivamente, al di là della sorpresa e di una generica simpatia, alla sollevazione araba. Le rinate pulsioni di chiusura xenofoba in relazione al temuto arrivo di “ondate” di profughi sono il riflesso stravolto della ripresa di parola e dignità nel mondo arabo. Al medesimo albero sembrano appesi frutti marci e promettenti primizie.

 

Quinto. Se Obama dovesse impantanarsi in Nord Africa, nella sua war of choice, senza un ritorno immediato dall’ennesima avventura militare, i nodi critici dell’indebitamento statunitense e della crisi economico-sociale interna potrebbero diventare difficilmente gestibili.

 

Tutto ciò costringe i volenterosi a procedere con una qualche “cautela”, anche in termini militari. Costringe Washington all’understatement rispetto a ruolo e obiettivi.[18] Che è anche la ragione di fondo di quello che appare il caos nella catena di trasmissione fra strategia politica e comando delle operazioni militari. Lo esprime nel consueto asciutto linguaggio l’Economist: “Difficile pensare a un’impresa militare concepita con così tanti dubbi e ansie”.[19] Le incognite sono molte. Il successo della scommessa di Obama dipende... dal successo.

 

Non in termini prioritariamente militari, di nuovo. Il vero ostacolo alla politica di Obama sta nella reazione delle piazze arabe, nella loro capacità di portare fino in fondo la propria spinta senza farsi scippare la rivoluzione ma conquistandosi in questo percorso una effettiva ancorchè non facile autonomia. [20] Costruendo potenza in tutte le dimensioni a partire dalla capacità di ricomporre le istanze di libertà e democrazia con la spinta a riappropriarsi della produzione e riproduzione della vita. Quanto più l’opposizione ai regimi si rafforza su questo piano autenticamente di massa costituendo un nuovo soggetto “multitudinario”, tanto più diverrà difficile per l’Occidente precipitarsi ad “aiutarla”. [21] La rivoluzione araba non ha bisogno di un pezzetto di presente da redistribuirsi settorialmente o territorialmente, magari con le armi e però sotto lo sguardo di nuovi interessati tutori, ma piuttosto di un mondo comune da ricostruire.

 

Il che, detto con la cautela dovuta alla scarsissima informazione e senza concessione alcuna al rais libico, pone dei seri punti di domanda su quanto sta dandosi a Bengasi. Se è vero che, come ha scritto finanche il sito di Al Jazeera - tutt’altro che filo-gheddafiano - i ribelli libici “con poche armi e disperati, non sorprende abbiano invocato l’aiuto internazionale... mettendo però a rischio la propria indipendenza”. [22]

 

Europa, Europa

 

Una delle principali conseguenze del protagonismo francese è la rottura con Berlino. Davvero un bel risultato in prospettiva per la Francia e l’Europa. Il cow-boy parigino ha saltato la fila per bombardare prima degli altri ma, quel che è più ridicolo, pensa davvero di aver preso l’iniziativa. Se ne accorgerà presto anche se cercherà di coprire i danni con la sua parte di bottino... sottratta all’altro pagliaccio italiano che si sta contorcendo in tutti i modi per apparire anche lui volenteroso in vista dei residui dividendi da non perdere del tutto. Inutile cercare da queste parti qualsivoglia prospettiva di qualche respiro. Del resto cosa aspettarsi da figuri che hanno sostenuto fino all’ultimo Ben Ali e Mubarak.

 

La Germania non è della partita. Merkel ha operato uno strappo rispetto alla santa alleanza occidentale guardando non solo ai propri interessi energetici e alla propria opinione pubblica ma al legame in prospettiva con l’Oriente e i paesi emergenti coi quali Berlino è in grado di interagire attraverso prodotti e investimenti. Una mossa che, abbinata alla prospettiva di accelerare la fuoriuscita dal nucleare, sta già procurando alla cancelliera malumori nel suo partito, critiche dalle diverse voci interventiste, anche in parte di verdi e socialdemocratici - ah!, la “sinistra” europea - e velate minacce dagli ambienti statunitensi che rinfacciano a Berlino di non saper giocare da global player... alle loro regole. [23]

 

Il meno che si possa dire è che l’Europa nel suo insieme si sta pienamente meritando questa deriva. Incapace di dare una purchè minima risposta in positivo alle istanze provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo, succube di meschine rivalità nazionali, senza alternative effettive alla crisi della finanziarizzazione. Si vedrà se la spaccatura tra Parigi e Berlino avrà ripercussioni sulla capacità europea di reagire al prossimo tornante della crisi e agli attacchi speculativi ai debiti sovrani, che il quasi default portoghese potrebbe annunciare. E’ chiaro che l’offensiva obamiana per un “nuovo” Medio Oriente, anche con le armi, preannuncia la ferma intenzione di Washington di far pagare a altri i costi maggiori della crisi globale tutt’altro che risolta.

 

Di fronte a ciò resta che nessuna centralizzazione della governance economica europea, che pure Berlino ha portato avanti in questo ultimo anno, può alla lunga fare a meno di una stretta politica. E qui ritorna per il vecchio continente, e in particolare per Berlino, il dilemma di sempre: come possono le classi dirigenti riunificarsi senza rischiare di unificare il proletariato? Ovvero, come creare una efficace sovranità a un livello sovranazionale senza passare per un potere costituente? La multilevel governance è solo un palliativo...

 

Impero in crisi?

 

Se la Germania conferma la linea già seguita nel 2003, con coerenza non succube dell’obamamania, l’altro dato significativo è il configurarsi del fronte anti-interventista Brasilia-Mosca-Delhi-Pechino (Bric) che a sua volta dà oggettivamente ancora più risalto alla scelta tedesca. Esso ha poi fatto inevitabilmente da sponda ad altri soggetti statuali come il Sudafrica, all’inizio favorevole alla no-fly zone, e più in generale all’Unione Africana. C’è poi l’attivismo della Turchia - cerniera tra diverse aree geopolitiche e geoeconomiche, punta a giocare un ruolo di punta nel “nuovo” Medio Oriente nei fatti in concorrenza con il tentativo obamiano - che si frappone a un intervento targato Nato che “punti il fucile contro il popolo libico”.

 

La domanda che torna insistentemente anche in questa vicenda è se si sta facendo strada un'altra sponda, rispetto all'America e ai suoi alleati europei, se non addirittura un possibile assetto mondiale alternativo all'Occidente. La prima cosa è evidente ma tutt’altro che scontata. La seconda pare ad oggi solo un’opzione teorica. Ma al di là di un tema complesso e dai contorni indistinti, alcune riflessioni si possono fare a partire proprio dalla vicenda libica e più in generale dalla sollevazione delle piazze arabe.

 

Quello che vediamo sul versante statuale “anti-americano” è innanzitutto una reazione difensiva. E’ evidente, ad esempio, che Pechino ha tutto da perdere dall’eventuale successo dell’offensiva statunitense in Africa. Il rischio non è solo economico, è politico - basta pensare al Tibet - così come per la Russia nelle sue pur sempre instabili periferie. Ma il problema per questi paesi - a parte forse il Brasile però troppo distante - è che realisticamente non possono fare da sponda alle piazze arabe, in senso politico - desideri, immaginari e istanze di change - e sul piano finanziario a meno di scontrarsi direttamente con il comando globale del dollaro. Non è un caso allora che gli avvenimenti in Tunisia e Egitto abbiano messo in seria preoccupazione, ma per motivi opposti a quelli di Washington, anche Pechino minacciata nella sua “ascesa invisibile” sia dal moto delle masse sia dalla controffensiva a stelle e strisce. Se l’operazione Obama riuscisse gli States ne uscirebbero rafforzati anche nei confronti della Cina. Transitoriamente, certo, chè appena si ponesse in tutta la sua drammaticità il nodo della divisione internazionale del lavoro e del prelievo finanziario allora... Ciò non toglie che le pulsioni che promanano dal basso non sono certo in procinto di prendere il volo per l’Asia.

 

Questo non significa sopravvalutare la capacità di cattura del capitalismo occidentale. Ci porta anzi a provare a porre in altri termini quello che viene spesso presentato come il declino degli Stati Uniti. L’indebolimento relativo, su tutti i piani, degli Stati Uniti è un fatto. Il terremoto sociale e politico in Medio Oriente e in Nord Africa è uno scossone all’ordine americano (basta guardare ai timori di Israele). Ma più che rinviare in prospettiva alla successione egemonica di un’altra potenza in ascesa andrebbe letto nel quadro dello sfrangiamento, se non di una vera e propria disarticolazione, del sistema internazionale nel suo insieme, in controluce con la dinamica della crisi globale di cui in Occidente ancora non si sono visti gli effetti più dirompenti. Di qui lo “scongelamento” dei fronti geopolitici e dei blocchi sociali, di qui l’indeterminatezza crescente di alleanze, forme di governance e policies. In questo quadro non possiamo consolarci nè con l’idea di processi deterministici nè specularmente con l’immagine di un caos indistinto in cui tutte le vacche sono nere. Fuor di metafora: bisogna pur sempre fare i conti con la capacità degli Stati Uniti, incrinata ma non scomparsa, di farsi soggetto di ordine per l’insieme del sistema capitalistico globale. Un ruolo, è vero, sempre più parassitario e predatorio (e percepito come tale) ma comunque sia, pur nell’intensificarsi delle dinamiche competitive intercapitalistiche, senza sostituti credibili in vista. È su questa “rendita di posizione sistemica”, poggiante su un apparato finanziario e cognitivo ancora ineguagliato, che Washington può permettersi di fare ciò che il suo indebitamento vieterebbe a qualunque altra potenza. Non pare allora, allo stato, risolvibile questa situazione ibrida fra una configurazione imperiale, in cui le dinamiche competitive vengono sussunte ad una gerarchia polimorfa ma unitaria, e la classica dinamica imperialistica, in cui la competizione alla fine prevale sulla cooperazione intercapitalistica. Forse dovremo abituarci al fatto che la crisi è anche questa situazione ibrida.

 

Donne e uomini di qua e di là del Mediterraneo hanno di fronte una scelta di campo che può sfuggire alle regole del gioco imposte dai poteri globali. Dire no senza se e senza ma alla guerra, nel nuovo quadro determinato dalla crisi globale, vuol dire iniziare a creare un terreno comune contro quelle regole. Su tutto il resto possiamo e dobbiamo discutere. Ma avendo individuato il nostro battleground.

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/estero/1307-raffaele-sciortino-boomerang-libico-per-un-fragile-occidente.


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dimanche, 03 avril 2011

Die Wiedergeburt der Entente Cordiale

Die Wiedergeburt der Entente cordiale

Michael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.com/

entente_cordiale.jpgDie Scham- und Bedenkenträger sind wieder unter uns: Diesmal ist es die Scham darüber, daß Deutschland in Libyen nicht für die Rechte der „Menschen in Libyen“ mitbombt. An der Spitze dieser medial hofierten Klageweiber steht mit Klaus Naumann, dem Ex-Chef des NATO-Militärausschusses, bezeichnenderweise ein ehemaliger Bundeswehrgeneral, der derzeit jedem, der ein Mikrophon vor ihm aufbaut, erklärt, er schäme sich für Haltung seines Landes, das seine „Freiheit und seinen Wohlstand auch der Bereitschaft seiner Verbündeten verdankt, für die Deutschen einzutreten“.

Womöglich bedauert es Naumann, nicht mehr Vorsitzender des NATO-Miltärausschusses zu sein; in seine Amtszeit fiel nämlich der sogenannte Kosovokrieg, in dem die „westliche Wertegemeinschaft“ unsterblichen Ruhm auf ihre Fahnen heftete, als sie das Balkan-Monster Slobodan Milošević mittels Hightech-Kampfjets wie weiland Siegfried den Drachen in die Knie zwang. Naumann indes steht beileibe nicht allein. Die FAZ sieht sogar, horribile dictu, einen neuen „deutschen Sonderweg“, von dem wir alle nur zu genau wissen, wo er endet.

Die Menschlichkeit will es

Alle diese Kritiker müssen sich fragen lassen, wie es um ihr Urteilsvermögen bestellt ist. Mehr und mehr zeichnet sich nämlich ab, daß die neue Entente cordiale, bestehend aus Frankreich sowie Großbritannien und vor allem den USA, Ziele verfolgt, die ausschließlich in der Rationalität ihrer geostrategischen Interessen liegen. An der Spitze der Kreuzzügler im Namen von Freiheit und Menschenrechte (Die Menschlichkeit will es!) steht diesmal allerdings kein US-Präsident, sondern der französische Staatspräsident Sarkozy, der mit Blick auf die Luftschläge in Libyen erklärte: „Jeder Herrscher muß verstehen, und vor allem jeder arabische Herrscher muß verstehen, daß die Reaktion der internationalen Gemeinschaft und Europas von nun an jedes Mal die gleiche sein wird.“

Das ist die Ankündigung einer beliebigen „Ausweitung der Kampfzone“, so wie es die neue Entente cordiale, die hier selbstverständlich stellvertretend für den Rest der „Gemeinschaft“ meint sprechen zu können, gerade für richtig erachtet. Diese Erklärung kommt einer Selbstermächtigung gleich, die auf einen Paninterventionismus im Namen der Ideen von 1789 hinausläuft. Wer bei diesem Kreuzzug nicht mittun will, läuft Gefahr als „Beschwichtigungspolitiker“ an den Pranger gestellt zu werden.

„Union für das Mittelmeer“

Im Fall Libyen wollte die neue Entente cordiale, nachdem sich von den Vorgängen in Ägypten und Tunesien offensichtlich überrascht wurde, nicht mehr zuschauen. Der „Volkswille“ könnte womöglich eine falsche, unerwünschte Richtung einschlagen. Ziel ist einmal, in Libyen eine der Entente gewogene Regierung an die Macht zu bringen, die bei einer Neuverteilung der Erdölressourcen die Kreuzzügler der „Wertegemeinschaft“ entsprechend „belohnt“. Zum anderen eröffnet sich die Möglichkeit, von Libyen aus Einfluß auf die gesamte Region zu nehmen. Wohl vor allem deshalb haben die USA, die diesmal aus „Image-Gründen“ im Hintergrund bleiben wollen, Frankreich im UN-Sicherheitsrat unterstützt.

Für Sarkozy eröffnen sich aber noch ganz andere Möglichkeiten, kann er doch seine „Union für das Mittelmeer“ wieder ins Spiel bringen, die bisher vor allem aufgrund des deutschen Widerstands Stückwerk geblieben ist. Ein einflußreicher Kritiker dieser „Union“ auf nordafrikanischer Seite war ja bisher der „wahnsinnige“ Gaddafi, der der EU vorwarf, mit dieser Union den Spaltpilz in Organisationen wie die Arabische Liga und die Afrikanische Union hineintragen zu wollen.

Die Deutschen werden zahlen

Bisher dümpelte diese Union wegen Unterfinanzierung vor sich hin. Wenn aber der Maghreb im Sinne der neuen Entente cordiale befriedet sein wird, werden hier die Karten mit Sicherheit neu gemischt. Neu gemischt heißt: Mit dem Hinweis darauf, daß die EU diesen Staaten, die nun auf einem „demokratischen Weg“ seien, „substantiell“ helfen müsse, wird Geld fließen, und zwar viel Geld, um Demokratie und Wirtschaft in diesen Staaten zu stabilisieren und an „westliche Standards“ heranzuführen.

Wer hier vor allem zur Kasse gebeten werden dürfte, ist unschwer zu erkennen, nämlich Deutschland. Und wenn sich Deutschland widerspenstig zeigt, wird ein Argument auf jeden Fall „hilfreich“ sein: Sarkozy verfolgt – neben der Sicherung und dem Ausbau des französischen Einflusses in der Maghrebzone – mit seiner „Union“, deren Aufbau er gerne nach dem Vorbild der EU vorangetrieben sehen möchte, unter anderem das Ziel, den Friedensprozeß zwischen Israel und seinen arabischen Nachbarn zu forcieren.

Finanzielle Erdrosselung Deutschlands

„Demokratisch bereinigte“ arabische Staaten böten ideale Möglichkeiten, diesem Prozeß die gewünschte Dynamik zu verleihen. Spätestens dann werden deutsche Politiker, die ja unentwegt davon reden, für das „Existenzrecht Israels“ einzustehen, alles unterschreiben, was die neue Entente cordiale ihnen zum Abwinken vorlegt.

Dem Ziel der schleichenden finanziellen Strangulierung des lästigen Rivalen Deutschland – in aller Freundschaft, versteht sich – wäre Sarkozy, der gerade erfolgreich die Implementierung des Euro-Schutzschirms vor allem auf deutsche Kosten betrieben hat, einen weiteren Schritt nähergekommen.

Michael Wiesberg, 1959 in Kiel geboren, Studium der Evangelischen Theologie und Geschichte, arbeitet als Lektor und als freier Journalist. Letzte Buchveröffentlichung: Botho Strauß. Dichter der Gegenaufklärung, Dresden 2002.


 

lundi, 07 février 2011

Irenäus Eibl-Eibesfeldt: Ist der abendländische Mensch vom Aussterben bedroht?

IrEE.jpg

Schon vor 15 Jahren wurde von Eibl-Eibesfeldt eigentlich bereits alles gesagt zur gegenwärtigen Misere. (Ich stimme ihm dabei zu 100 Prozent zu) Aber es hat nichts verändert. Das zeigt doch wohl, daß die bestehende gesellschaftliche Struktur wahrscheinlich nicht mehr aus sich heraus reformfähig ist....

Lesenswertes Interview mit Irenaeus Eibl-Eibesfeldt aus dem Jahr 1996

Sagen Sie mal, Irenäus Eibl-Eibesfeldt ...
IST DER ABENDLÄNDISCHE MENSCH VOM AUSSTERBEN BEDROHT?
Von Michael Klonovsky
http://www.focus.de/politik/deutschland/deutschland-sagen...
IST DER ABENDLÄNDISCHE MENSCH VOM AUSSTERBEN BEDROHT?
Eibl-Eibesfeldt: So gefährlich ist die Situation nicht. Der abendländische Mensch ist sehr dynamisch, findig, einfallsreich und neugierig, und er wird seine Probleme sicher meistern.

FOCUS: Sie warnen seit Jahren vor den Folgen der Immigration; zugleich schauen Sie so gelassen auf die Zukunft des Abendländers?

Eibl-Eibesfeldt: Es geht mir zunächst einmal um die Erhaltung des inneren Friedens. Entscheidend ist deshalb auch, wer einwandert. Die europäische Binnenwanderung hat es immer gegeben, mitunter auch massive Immigrationswellen und kriegerische Überschichtungen. Aber die Bevölkerung im breiten Gürtel von Paris bis Moskau hat etwa die gleiche Mischung, sie ist anthropologisch nah verwandt. Die europäischen Nationalstaaten haben das Glück, relativ homogen zu sein.

FOCUS: Der Begriff des Ausländers müßte also durch den des Kulturfremden ersetzt werden?

Eibl-Eibesfeldt: Ich würde sagen: Kultur-fernen. Die integrieren und identifizieren sich nicht so leicht. Bei den innereuropäischen Wanderungen wurden die Leute integriert.

FOCUS: Und das ist Bedingung?

Eibl-Eibesfeldt: Es gibt diese schöne Idee, daß Immigranten ihre Kultur behalten und sich als deutsche Türken oder deutsche Nigerianer fühlen sollen, weil das unsere Kultur bereichert. Das ist sehr naiv. In Krisenzeiten hat man dann Solidargemeinschaften, die ihre Eigeninteressen vertreten und um begrenzte Ressourcen wie Sozialleistungen, Wohnungen oder Arbeitsplätze konkurrieren. Das stört natürlich den inneren Frieden. Die Algerier in Frankreich etwa bekennen sich nicht, Franzosen zu sein, die sagen: Wir sind Moslems. Vielfalt kann in einem Staate nebeneinander existieren, wenn die Kulturen verwandt sind, jede ihr eigenes Territorium besitzt und keine die Dominanz der anderen zu fürchten braucht – wie etwa in der Schweiz.

FOCUS: Also müssen die Türken in Deutschland die Deutschen fürchten?

Eibl-Eibesfeldt: Gegenseitig. Wenn man über Immigration Minoritäten aufbaut, die sich abgrenzen und ein anderes Fortpflanzungsverhalten zeigen, wird das Gleichgewicht gestört. Immigrationsbefürworter sagen: Die werden sich angleichen. Nur: Warum sollten sie eigentlich? Deren Interesse kann doch nur sein, so stark zu werden, daß sie bei Wahlen eine Pressure-Gruppe darstellen, die ihre Eigen-interessen durchsetzen kann.

FOCUS: In Amerika werden die Weißen in hundert Jahren vermutlich Minderheit sein . . .

Eibl-Eibesfeldt: Das hat in erstaunlicher Offenheit das „Time-Magazine“ ausgesprochen. Die Amerikaner haben gerade kulturferne Immigranten gefördert in dem Glauben, man dürfe nicht diskriminieren. Aber Diskriminierung – auf freundliche Weise – betreibt ja jeder! Die eigenen Kinder stehen uns näher als die der anderen, die Erbgesetze nehmen darauf Rücksicht, und es ist ja auch schon diskriminierend, daß kein Fremder in meinen Garten darf. Auch ein Land darf seine Grenzen verteidigen. Wenn jemand den Grenzpfahl in Europa nur um zehn Meter verschieben würde, gäbe es furchtbaren Krach, aber die stille Landnahme über Immigration soll man dulden?

FOCUS: Das gebietet der Philanthropismus, sofern der nicht ein evolutionärer Irrläufer ist.

Eibl-Eibesfeldt: Es wird nicht in Rechnung gestellt, daß wir, wie alle Organismen, in einer langen Stammesgeschichte daraufhin selektiert wurden, in eigenen Nachkommen zu überleben. Europäer überleben nun mal nicht in einem Bantu, was gar keine Bewertung ist, denn für den Biologen gibt es zunächst einmal kein höheres Interesse, das sich im Deutschen oder im Europäer verwirklicht – nicht mal in der Menschheit.

FOCUS: Solche Ansichten haben ihnen den Vorwurf des Biologismus eingetragen, wobei Sie sich im Lasterkatalog der Wohlmeinenden noch zum Rassisten oder Faschisten hocharbeiten können.

Eibl-Eibesfeldt: Die Leute, die so de-monstrativ ihren Heiligenschein polieren, tun das ja nicht aus Nächstenliebe, sondern weil sie dadurch hohes Ansehen, hohe Rangpositionen, also auch Macht, gewinnen können – früher als Held, heute als Tugendheld. Der Mensch kann alles pervertieren, auch Freundlichkeit oder Gastlichkeit, und wenn die Folgen sich als katastrophal erweisen, schleichen sich die Wohlmeinenden meist davon und sagen: Das haben wir nicht gewollt.

FOCUS: Aber dieses Verhalten ist doch evolutionär schwachsinnig.

Eibl-Eibesfeldt: Sicher. Es sterben ja immer wieder Arten aus. Fehlverhalten im Politischen kann eine Gruppe immer wieder gefährden, wie man zuletzt am Marxismus gesehen hat.

FOCUS: Was sollten wir also tun?

Eibl-Eibesfeldt: Wir müssen von dem fatalen Kurzzeitdenken wegkommen. Wie alle Organismen sind wir auf den Wettlauf im Jetzt programmiert. Wir sind aber zugleich das erste Geschöpf, das sich Ziele setzen kann, das seinen Verstand und seine Fähigkeit, sozial zu empfinden, fürsorglich zu sein, auch mit einbringen kann.

FOCUS: Was bedeutet das praktisch?

Eibl-Eibesfeldt: Ein generationsübergreifendes Überlebensethos. Ich würde vorschlagen, daß sich Europa unter Einbeziehung Osteuropas großräumig abschottet und die Armutsländer der Dritten Welt durch Hilfen allmählich im Niveau hebt. Wenn wir im Jahr 1,5 Millionen Menschen aus der Dritten Welt aufnähmen, würde das dort überhaupt nichts ändern – das gleicht der Bevölkerungsüberschuß, wie Hubert Markl unlängst betonte, in einer Woche wieder aus, solange es keine Geburtenkontrolle gibt. Man kann gegen eine Bevölkerungsexplosion in diesem Ausmaß sonst nichts tun, bestenfalls das Problem importieren, wenn man dumm ist.

FOCUS: Das ist dann, wie Sie schreiben, „Überredung zum Ethnosuizid“?

Eibl-Eibesfeldt: Die heute für die Multikultur eintreten, sind eben Kurzzeitdenker. Sie sind sich gar nicht bewußt, was sie ihren eigenen Enkeln antun und welche möglichen Folgen ihr leichtfertiges Handeln haben kann.

FOCUS: Ist der moderne Westeuropäer überhaupt noch vitalistisch erklärbar? Leistet er sich aus evolutionärer Warte nicht zuviel Luxus wie Immigration, Feminismus, Randgruppendiskurse, den Wohlfahrtsstaat?

Eibl-Eibesfeldt: Das wird sich wieder moderieren, wie man in Wien sagt . . .

FOCUS: Über Katastrophen?

Eibl-Eibesfeldt: Nicht nur. Ich glaube, daß die Leute Vernunftgründen doch zugänglich sind. Konrad Lorenz hat gesagt, es sei doch sehr unwahrscheinlich, daß von einer Generation auf die andere alles kulturelle Wissen auf einmal hinfällig und überholt ist. Die Tradition mitsamt der Offenheit für Experimente in gewissen Bereichen und die Bereitschaft zur Fehlerkorrektur, das zusammen eröffnet uns große Chancen. Aber alles umzubrechen und Großversuche wie das Migrationsexperiment anzustellen, das ja nicht mehr rückgängig zu machen ist, halte ich für gewissenlos. Man experimentiert nicht auf diese Weise mit Menschen.

FOCUS: Sie sagen, daß Xenophobie – Fremdenscheu, nicht Fremdenhaß – stammes-geschichtlich veranlagt ist.

Eibl-Eibesfeldt: Das ist in der Evolution selektiert worden, um die Vermischung zu verhindern. Die Fremdenscheu des Kleinkindes sichert die Bindung an die Mutter. Später hat der Mensch das familiale Ethos zum Kleingruppenethos gemacht. Mit der Entwicklung von Großgruppen erfolgte eine weitere Abgrenzung. Die ist unter anderem an Symbole gebunden, die Gemeinsamkeit ausdrücken sollen. Beim Absingen von Hymnen überläuft viele ein Schauer der Ergriffenheit, was auf die Kontraktion der Haaraufrichter zurückzuführen ist. Es sprechen da kollektive Verteidigungsreaktionen an; wir sträuben einen Pelz, den wir nicht mehr haben.

FOCUS: Das ist alles etwas Gewordenes. Kann sich nicht eines Tages den türkischen Deutschen und den deutschen Deutschen beim Abspielen der gemeinsamen Nationalhymne gemeinsam der Pelz sträuben?

Eibl-Eibesfeldt: Wenn das über Integration erfolgte, ja. Eine langsame Durchmischung kann durchaus friedlich verlaufen, und es kann etwas Interessantes herauskommen. Wir sprechen aber davon, ob in einem dichtbevölkerten Land über Immigration das Gesundschrumpfen der Bevölkerungszahl aufgehalten werden soll. Das fördert sicherlich nicht den inneren Frieden, sondern könnte selbst zu Bürgerkriegen führen – wir haben ja bereits das Kurdenproblem. Das ist nicht böse gemeint, es zeigt eben, daß diese Gruppen ihre Eigeninteressen ohne Rücksicht vertreten. Ich verstehe da übrigens auch die Grünen nicht, die sich gegen jede Autobahn sträuben und klagen, daß das Land zersiedelt wird. Dann kann man nicht zugleich alle reinlassen wollen.

FOCUS: Würden Sie bitte zu den folgenden Personen einen Satz sagen: Edmund Stoiber.

Eibl-Eibesfeldt: Ein sehr klarer, engagierter Geist; ein Lokalpatriot, der aber auch gut nach Bonn passen würde.

FOCUS: Alice Schwarzer.

Eibl-Eibesfeldt: Das Anliegen der Gleichberechtigung ist berechtigt, man sollte aber nicht die Rolle der Frau als Mutter abwerten.

FOCUS: Jörg Haider.

Eibl-Eibesfeldt: Ein stürmischer, sicherlich national betonter Mann, ein Hitzkopf, aber natürlich kein Rechtsradikaler – es wählen nicht 23 Prozent der Österreicher rechtsradikal.

FOCUS: Madonna.

Eibl-Eibesfeldt: Was soll man dazu sagen? Lustig, daß es so etwas gibt.

FOCUS: Nietzsches „Zarathustra“ hat die Ära des „verächtlichsten Menschen“ beschworen, des „letzten Menschen“, der alles klein macht und meint, er habe das Glück erfunden . . .

Eibl-Eibesfeldt: Das ist sicherlich kein wünschenswerter Typus, denn der will ein passives Wohlleben ohne Dynamik.

FOCUS: Interessanterweise hat dieser letzte Mensch, wenn auch mit russischer Hilfe, den Zweiten Weltkrieg gegen die blonde Bestie gewonnen.

Eibl-Eibesfeldt: War das der letzte Mensch? Das waren doch ganz tüchtige, mutige Leute. Ich würde sagen, wir haben den Krieg verloren, weil wir den Satz Immanuel Kants vergessen haben, man müsse sich auch im Krieg so verhalten, daß ein späterer Friede möglich ist. Man kann daraus übrigens lernen, daß Inhumanität kein positiver Selektionsfaktor ist.

FOCUS: Wie auch immer, der letzte Mensch steuert scheinbar unaufhaltsam der Weltzivilisation entgegen. Halten Sie einen globalen Einheitsmenschen für vorstellbar?

Eibl-Eibesfeldt: Ich kann mir vorstellen, daß es große Blöcke geben wird, in denen der Bevölkerungsaustausch eine ziemlich einheit-liche Population hervorbringt. Aber der Verlust an Differenzierung wäre schade. Das würde eine Weltsprache bedeuten oder eine Sprache des eurasischen Blockes. Niemand würde mehr spanische oder italienische Autoren lesen . . .

FOCUS: Aber Sie als Ethologe müßten solche Verluste doch in den Skat drücken können. Die verschiedenen Sprachen sind doch bloß Neandertaler.

Eibl-Eibesfeldt: Dann bin ich eben ein Neandertaler. Ich liebe die kulturelle Buntheit. Die Neigung, sich abzugrenzen und eigene Wege zu gehen, ist schon im Tier- und Pflanzenreich ausgeprägt. Artenfülle ist die Speerspitze der Evolution, da wird dauernd Neues probiert. Der Mensch macht das kulturell, und wenn er seine kulturelle Differenzierung verliert, verliert er sehr viel von dem, was ihn zum heutigen Menschen gemacht hat. Wir wissen, daß es andere Möglichkeiten gibt; der Ameisenstaat ist perfekt. Die Frage ist nur, ob wir uns das als Individuen wünschen können.

FOCUS: Jetzt sind Sie so anthropozentrisch.

Eibl-Eibesfeldt: Ich gehöre der Gattung Homo sapiens an. Ob sich die Humanität bewährt, für die ich ja plädiere, wissen wir nicht, aber ich sehe durch die ganze Geschichte, daß sie sich bewähren könnte.

FOCUS: Das Glück des letzten Menschen scheint unverträglich mit der Idee zu sein, als Glied einer Generationenkette zu existieren.

Eibl-Eibesfeldt: Das ist ein schrecklicher Irrglaube. Wer keine Kinder in die Welt setzt, steigt aus dem Abenteuer der weiteren Entwicklung aus.

FOCUS: Das ist denen ja egal.

Eibl-Eibesfeldt: Ja, aber die Natur sorgt schon dafür, daß dann deren Gene nicht weiterleben. Ich glaube, daß diese Leute um einen Teil ihres Lebensglücks betrogen wurden. Zum Individuum gehört das Bewußtsein, daß man eben nicht nur Individuum ist, sondern eingebettet in eine größere Gemeinschaft und in einen Ablauf von Generationen und daß wir den Generationen vor uns unendlich viel verdanken.

FOCUS: Es handelt sich also um das freiwilliges Ansteuern einer evolutionären Sackgasse?

Eibl-Eibesfeldt: Ich kann im Hirn des Menschen über Indoktrination und dauernde Belehrung Strukturen aufbauen, die diese Menschen gegen ihre Eigeninteressen und gegen die Interessen ihrer Gemeinschaft handeln lassen. Ein Kollektiv kann ja von religiösem Wahn befallen werden und sich umbringen.

FOCUS: Da haben wir den Bogen zurück zur Eingangsfrage: Schafft sich der westliche hedonistische Individualmensch kraft nach-lassender Vitalität allmählich selbst ab?

Eibl-Eibesfeldt: Zu allen Zeiten haben Gruppen andere verdrängt, und es gibt sicherlich kein Interesse der Natur an uns. Aber es gibt ein Eigeninteresse. Man muß nicht notwendigerweise seine eigene Verdrängung begrüßen.

„Wenn man über Immigration Minoritäten aufbaut, die sich abgrenzen, wird das Gleichgewicht gestört“

„Das Kurdenproblem zeigt, daß fremde Gruppen ihre Eigeninteressen ohne Rücksicht vertreten“

„Inhumanität ist kein positiver Selektionsfaktor“

„Wer keine Kinder in die Welt setzt, steigt aus dem Abenteuer der weiteren Evolution aus“

SKEPTISCH-HUMANISTISCHER VERHALTENSFORSCHER

HERKUNFT: 1928 in Wien geboren

BILDUNGSWEG: Studium Naturgeschichte und Physik, 1949 Promotion (Zoologie) in Wien

KARRIERE: 1949-69 Schüler und Mitarbeiter von Konrad Lorenz. 1963 Habilitation (Uni München). Seit 1975 Leiter der Forschungsstelle f. Humanethologie der Max-Planck-Gesellschaft (in Andechs). Seit 1992 Direktor des Instituts f. Stadtethologie Wien

lundi, 24 janvier 2011

Ayméric Chauprade: géopolitique russe


Ayméric Chauprade:

Géopolitique russe

mardi, 14 décembre 2010

"Homo Americanus, rejeton de l'ère postmoderne" de T. Sunic

« Homo americanus, rejeton de l'ère postmoderne » de Tomislav Sunic

Ex: http://www.polemia.com/ 

 

homo%20americanus.jpg« (…) Tout dans l’Amérique est une copie grotesque de la réalité », constate l’universitaire et géopoliticien Tomislav Sunic dans Homo americanus, rejeton de la postmodernité, passionnante étude que viennent de publier les éditions Akribeia. « L’Amérique postmoderne fonctionne depuis 1945 comme une photocopie géante de la métaréalité ; non l’Amérique telle qu’elle est, mais l’Amérique telle qu’elle devrait être dans le monde entier. La seule différence est que, au XXIe siècle, l’histoire (…) est passée à la vitesse supérieure. Les événements se succèdent de façon désordonnée et foncent à toute allure vers un chaos total » – ce « chaos total » que l’idéologue néo-conservateur Michael Ledeen, pilier de la World Jewish Review et l’un des principaux inspirateurs de George W. Bush dans la guerre contre l’Irak, appelait de ses vœux dès 2001 car il y voyait le seul moyen d’instaurer un gouvernement mondial.

De l’Ancien Testament au totalitarisme mou

Les Européens de l’Est sont-ils les meilleurs observateurs de « l’hyperréalité » américaine ? Le philosophe hongrois Thomas Molnar avait jeté voici plus de trente ans un fameux pavé dans la mare atlantiste avec un livre prémonitoire, Le Modèle défiguré : l’Amérique de Tocqueville à Carter (PUF 1978) avant de récidiver en 1991 avec L’Américanologie : Triomphe d’un modèle planétaire ? paru aux éditions de l’Age d’homme.

Né en 1921, Thomas Molnar s’est éteint en juillet 2010, mais la relève est assurée par Tomislav Sunic qui, comme son grand ancien magyar, a longtemps enseigné aux Etats-Unis et connaît parfaitement son sujet, l’Homo americanus. Un spécimen dont les gênes s’inscrivent dans ceux des Pères Fondateurs, fondamentalistes puritains nourris de l’Ancien Testament et qui s’empressèrent donc d’ « enlever au christianisme les éléments transcendants et sacrés qu’il avait hérités du paganisme », réduisant « le message chrétien aux seuls préceptes moraux élémentaires d’une bonne conduite ». Ce qui amène tout naturellement à l’adoration d’une déesse démocratie d’ailleurs phantasme et au culte de la Political Correctness, le Politiquement Correct, fondement de la Pensée Unique et donc de l’autocensure.

Mais les origines bibliques de l’Homo americanus ont d’autres conséquences. Pour Sunic, en particulier depuis la Guerre de Sécession et la défaite du Vieux Sud encore si européen à tant d’égards, « le rêve américain est le modèle de la judaïté universelle, qui ne doit pas être limitée à une race ou à une tribu particulière (…) L’américanisme est conçu pour tous les peuples, toutes les races et les nations de la terre. L’Amérique est, par définition, la forme élargie d’un Israël mondialisé (…) Cela signifie-t-il que notre fameux Homo americanus n’est qu’une réplique universelle de l’Homo judaicus ? »

En tout cas, cela le conduit à accorder, souvent au mépris de ses propres intérêts vitaux, un « soutien inconditionnel à Israël ». « C’est en Europe – poursuit le géopoliticien croate – et dans son centre, l’Allemagne, que la politique parabiblique américaine atteignit son paroxysme durant la Seconde Guerre mondiale » – et d’abord, souligne-t-il, parce que « l’Allemagne était sur le point de jouer un rôle majeur en Europe et en Asie et de contester à l’Amérique l’accès aux sources d’énergie des pays du pourtour méditerranéen et du bassin pacifique ». Six décennies et demie plus tard, estime-t-il, « il n’est pas étonnant que l’islamisme soit la cible de l’Amérique postmoderne », laquelle menace l’Iran chiite après avoir anéanti l’Irak laïc.

Vers « l’américanisation du monde » ?

Tomislav%20Sunic%20Radio%20(small).jpg« Pendant que les Juifs russes inventent le socialisme et que les Juifs autrichiens découvrent la psychanalyse, les Juifs américains participent, au tout premier rang, à la naissance du capitalisme américain et à l’américanisation du monde », a reconnu, cité par Sunic, Jacques Attali dans Les Juifs, le monde et l’argent (Fayard 2002). Il est donc logique que Homo americanus et Homo sovieticus aient présenté tant de points communs tels le non-respect des Conventions de Genève sur les prisonniers de guerre ou l’envoi des dissidents dans des hôpitaux psychiatriques – sort réservé en 1945 à Ezra Pound, le plus grand poète états-unien jugé trop favorable au fascisme italien. Et logique aussi que « l’américanisation du monde », y compris du monde ex-soviétique (par le truchement de certains oligarques patrons de presse), soit menée tambour battant.

On sait le travail de sape effectué dans nos banlieues (*) par l’ambassade des Etats-Unis en France dont le locataire actuel est Charles Rivkin qui, dans un câble du 5 janvier 2010 envoyé à Washington, se réjouissait du fait que « la France, sur une longue période, ne réussit pas à améliorer les perspectives de ses minorités et à leur offrir une véritable représentation politique ». On sait aussi les efforts des media et des maîtres du prêt-à-penser pour imposer les mœurs et les lois américaines dans les domaines législatif, judiciaire, culturel, architectural ou économique ainsi que dans la vie courante afin d’aboutir à l’avènement et à la généralisation de ce que Sunic appelle « la variante tardive d’Homo americanus, l’Homo americanus européen », « non seulement à l’Ouest mais aussi dans l’Est postcommuniste ».

Toutefois, ajoute avec impartialité l’universitaire croate, « on aurait tort de rejeter uniquement sur l’Amérique et l’américanisme la responsabilité du climat de “politiquement correct” qui a englouti la scène intellectuelle européenne. L’atmosphère d’inquisition actuelle (…) est due aux propres divisions idéologiques européennes, qui remontent à la Seconde Guerre mondiale et même à la Révolution française ».

Bien vu, mais celle-ci ne fut-elle pas due en grande partie aux « idées nouvelles » venues d’outre-Atlantique après l’engagement de la France et de certaines de ses élites (La Fayette entre autres) auprès des Insurgents américains voulant briser les derniers liens avec l’Europe pour assumer leur destin de « peuple élu » ? A nous aujourd’hui de tout mettre en œuvre pour assumer notre destin d’Européens, héritiers d’Athènes et de Rome, mais aussi de la Reconquista, contre tous les totalitarismes messianiques.

Claude Lorne
06/12/2010

Tomislav Sunic, Homo americanus. Rejeton de l’ère postmoderne, avant-propos de Kevin MacDonald, professeur de psychologie à l'Université d'Etat de Long Beach en Californie, traduit de l’anglais par Claude Martin (édition originale : Homo americanus. Child of the Postmodern age, BookSurge Publishing, 2007), Edition Akribeia, 2010, 288 pages, 25 €, ou 30 € franco.

A commander à Akribeia, 45/3 route de Vourles, 69230 St-Genis-Laval ou sur www.akribeia.fr.

Note de la rédaction :
(*) « Vol A 93120 : Washington-La Courneuve »
et « La stratégie américaine pour influencer les minorités en France. Confirmation du diagnostic »
 

Correspondance Polémia -  06/12/2010

mardi, 30 novembre 2010

Summit di Lisbona: la NATO si proclama forza militare globale

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SUMMIT DI LISBONA: LA NATO SI PROCLAMA FORZA MILITARE GLOBALE


DI RICK ROZOFF
rickrozoff.wordpress.com

Ex: http://www.comedonchisciotte.org/

Dal vertice recentemente concluso della NATO (North Atlantic Treaty Organization) in Portogallo Washington ha ottenuto tutto quello che chiedeva ai suoi 27 alleati della Nato -almeno 20 partner della NATO che forniscono truppe per la guerra in Afghanistan- all'UE e alla Russia.

L'Alleanza Atlantica controllata dagli USA ha approvato senza riserve e anche senza delibere il piano americano che prevede di includere tutta l'Europa nel sistema missilistico di intercettazione mondiale del Pentagono e della sua Missile Defense Agency (MDA). La dichiarazione del vertice afferma: "La NATO manterrà una giusta combinazione di forze di difesa convenzionali, nucleari, e missilistiche. La difesa missilistica diventerà parte integrante della nostra posizione di difesa globale.". [1]

Nell'adottare il suo nuovo Concetto Strategico ha anche autorizzato un’analoga operazione di guerra informatica su scala continentale in combinazione con il nuovo USA Cyber Command del Pentagono -e per tutti gli scopi pratici sotto la sua direzione.



Ha inoltre ribadito l’impegno della coalizione sull’articolo 5 per rendere l'assistenza militare collettiva a ogni Stato membro sotto ipotetico attacco e esteso il concetto di attacco per includere categorie non-militari come computer, energia e minacce terroristiche. Il Concetto Strategico "riconferma il legame tra le nostre nazioni per difendere l’un l'altra contro l'attacco, anche contro nuove minacce alla sicurezza dei nostri cittadini". [2]

"I membri della NATO presteranno sempre reciproca assistenza contro un attacco, a norma dell'articolo 5 del Trattato di Washington. Tale impegno rimane fermo e vincolante. La NATO scoraggerà ogni minaccia di aggressione e difenderà da essa e dai problemi emergenti dove si minaccino la sicurezza fondamentale dei singoli alleati o l'Alleanza nel suo complesso".

Sia pure in mancanza di minacce militari convenzionali -come pure di quelle nucleari-, ovvero anche senza rischi di carattere militare nei riguardi dei membri della NATO nordamericani ed europei, altri pericoli –se pianificati- serviranno come base per l'attivazione dell'articolo 5. Essi includono attacchi o minacce alle reti di computer:

" Cyber-attacchi ... possono raggiungere una soglia tale da minacciare la prosperità nazionale ed euro-atlantica, la sicurezza e la stabilità", afferma la NATO, per cui i suoi membri sono obbligati a "sviluppare ulteriormente la capacità di prevenzione, individuazione, difesa e recupero dai cyber- attacchi, anche mediante l'uso del processo di pianificazione della NATO di rafforzare e coordinare le capacità nazionali di cyber-difesa, portando tutti gli organismi della NATO sotto cyber-protezione centralizzata .... "

"Dipendenza" europea dal petrolio e dal gas naturale russo e il controllo delle vie marittime strategiche e rotte commerciali:

"Alcuni paesi della NATO diventeranno più dipendenti dai fornitori esteri di energia e, in alcuni casi, dalla fornitura estera di energia e di reti di distribuzione per il loro fabbisogno energetico. Dato che una quota sempre maggiore del consumo mondiale è trasportato in tutto il mondo, le forniture di energia sono sempre più a rischio di perturbazione".

E diverse altre questioni neanche lontanamente connesse a faccende militari [3]:

"Vincoli vitali ambientali e delle risorse, tra cui rischi per la salute, il cambiamento climatico, scarsità d'acqua e il fabbisogno energetico crescente condizioneranno ulteriormente il futuro contesto di sicurezza nelle aree di interesse per la NATO e avranno il potenziale per incidere in misura significativa nella pianificazione e nelle operazioni della NATO".

La NATO ha anche ribadito il suo impegno a mantenere armi nucleari tattiche americane in Europa, con il Concetto strategico che dichaira: "finché ci sono armi nucleari nel mondo, la NATO rimarrà una alleanza nucleare".

E l'alleanza si è allineata con il cambiamento della Casa Bianca e il Pentagono da un impegno precedente per il "taglio" delle truppe Usa e Nato in Afghanistan a partire dall'anno prossimo per quello che Washington ha di recente definito un progetto "provvisorio" e "aspirazionale", di una strategia "transitoria" che potrebbe vedere forze militari occidentali ancora sulla scena della nazione asiatica 15 o più anni dopo il loro arrivo. La dichiarazione del vertice di Lisbona afferma: "La transizione sarà basata sullo stato di fatto, non fissata da un calendario, e non equivale al ritiro delle truppe ISAF".

Non c'è nessuna nazione o gruppo di nazioni che ponga alla NATO una sfida seria, nessuno costituisce una minaccia per l’unico blocco militare del mondo, e quasi nessuno ancora si frappone alla sua espansione globale. "Tuttavia, nessuno dovrebbe dubitare della determinazione della NATO se la sicurezza di uno dei suoi membri dovesse essere minacciata... La dissuasione, basata su un adeguato mix di capacità nucleari e convenzionali, resta un elemento centrale della nostra strategia globale .... Finché esistono armi nucleare, la NATO rimarrà una alleanza nucleare".

"La garanzia suprema della sicurezza degli alleati è fornita dalle forze nucleari strategiche dell'alleanza, in particolare quelle degli Stati Uniti; le forze strategiche nucleari indipendenti del Regno Unito e della Francia, che hanno un loro ruolo di dissuasione, contribuiscono alla deterrenza complessiva e alla sicurezza degli alleati».

Formalizzando i cambiamenti internazionali degli ultimi undici anni -in Europa, Asia, Africa e nel Mare Arabico– il nuovo Concetto Strategico della NATO obbliga tutti gli stati membri e decine di partner a “sviluppare e mantenere forze convenzionali robuste, mobili e dispiegabili per svolgere sia i compiti dovuti dall’articolo 5 che le operazioni delle spedizioni dell'alleanza, comprese nella NATO Response Force", e "garantire la più ampia partecipazione possibile degli alleati alla pianificazione della difesa collettiva in ruoli nucleari, nella costruzione del tempo di pace delle forze nucleari".

Invocando il semi-sconosciuto slogan che dal 1989 è stato impiegato nell’anticipazione e poi nella realizzazione dei progetti per subordinare tutta l'Europa sotto il comando militare della NATO [4], i capi di stato dell’alleanza a Lisbona la settimana scorsa hanno anche approvato il completamento dei piani di espansione che interessano i Balcani e l'ex Unione Sovietica:

"Il nostro obiettivo di un'Europa libera e integra e della condivisione di valori comuni, sarebbe meglio servito dalla eventuale integrazione nelle strutture euro-atlantiche di tutti i paesi europei che lo desiderano.

"La porta per l'adesione alla NATO rimane completamente aperta a tutte le democrazie europee che condividono i valori della nostra alleanza, che sono disposti e in grado di assumersi le responsabilità e gli obblighi di adesione, e la cui inclusione possa contribuire alla sicurezza comune e alla stabilità".


In particolare, la NATO "continuerà a sviluppare l’associazione con l'Ucraina e la Georgia nelle Commissioni NATO-Ucraina e NATO-Georgia, sulla base della decisione della Nato al summit di Bucarest del 2008" e "favorire l'integrazione euro-atlantica dei Balcani occidentali". Una menzione particolare è stata fatta riguardo la Bosnia, la Macedonia, il Montenegro e la Serbia.

La Commissione NATO-Georgia è stata istituita nel settembre del 2008, il mese dopo la guerra dei cinque giorni tra la Georgia e la Russia, che fu iniziata dal governo di Mikhail Saakashvili a Tbilisi, una settimana dopo che 1000 soldati Usa completarono l’esercitazione militare Immediate Response 2008 NATO Partnership for Peace, mentre le truppe e le attrezzature americane erano ancora in Georgia.

La decisione del vertice di Bucarest su un'eventuale adesione piena della Georgia e dell'Ucraina nella NATO e la creazione della Commissione NATO-Georgia ha dato luogo ad un Annual National Program per accelerare l'integrazione della Georgia nella NATO. Il percorso tradizionale di adesione, un Membership Action Plan (MAP), non è stato presentato alla Georgia nel 2008 a causa di due disposizioni NATO: una è quella per cui gli Stati membri non possono essere coinvolti in persistenti dispute territoriali (per questo motivo, per esempio, a Cipro non sarebbe stata data un MAP se fosse stata sul punto di aderire al Partenariato per la Pace) e l’altra che non ci possono essere forze militari straniere -vale a dire non-NATO- sul suolo di un potenziale socio.

Il governo georgiano rivendica le ormai indipendenti nazioni di Abkhazia e Ossezia del Sud come proprie e due anni fa ci sono stati piccoli contingenti di peacekeepers russi in entrambi i paesi. La Commissione NATO-Georgia e NATO e l’Annual National Program della NATO -un veicolo unico per integrare Georgia (e Ucraina) nella NATO bypassando i vincoli di cui sopra di un MAP - sono completati dalla Carta per il Partenariato Strategico (Charter on Strategic Partnership) Stati Uniti-Georgia la quale fu annunciata poco dopo la guerra del 2008 e firmata il 9 gennaio 2009. (La consimile Carta per il Partenariato Strategico Stati Uniti-Ucraina è stata firmata tra il segretario di Stato Condoleezza Rice e il ministro degli Esteri ucraino Volodymyr Ogryzko il 19 dicembre 2008).

La tesi di molti osservatori, compreso chi scrive, è che l'attacco georgiano in Ossezia del Sud il 7 agosto 2008 sarebbe stato, in caso di successo, immediatamente seguito da uno in Abkhazia, eliminando in tal modo gli ostacoli di cui sopra al pieno sviluppo della NATO nel Caucaso meridionale.

Il Parlamento della NATO, nella sessione autunnale dell'Assemblea in Polonia, il 12-16 novembre ha approvato una risoluzione che chiama l'Abkhazia e l'Ossezia del Sud "territori occupati", che ha portato il Ministero degli Esteri dell'Abkhazia a rispondere:

"La NATO è un'organizzazione che ha contribuito alla militarizzazione intensiva della Georgia per molti anni, fomentando la mentalità revanscista della leadership georgiana, che ha portato nell’agosto 2008 a spargimenti di sangue in Ossezia del Sud". [5]

Il presidente Barack Obama ha tenuto un colloquio col georgiano Saakashvili, a margine del vertice di Lisbona il 19 novembre.

I piani della NATO per una penetrazione più a est e a sud di ciò che molta gente pensa che sia l'Europa non sono limitati al Caucaso.

Il vertice di Lisbona, approvando la nuova dottrina della coalizione, ha anche affermato per la prima volta senza mezzi termini che la portata della NATO è tanto ampia quanto il mondo stesso:

"La promozione della sicurezza euro-atlantica è meglio garantita attraverso una vasta rete di relazioni con i paesi partner e organizzazioni in tutto il mondo".

Il presidente Obama e gli altri 27 capi di Stato della NATO hanno approvato il nuovo Concetto Strategico, che inoltre afferma:

"Siamo fermamente impegnati nello sviluppo di relazioni amichevoli e di cooperazione con tutti i paesi del Mediterraneo, e abbiamo intenzione di sviluppare ulteriormente il Mediterranean Dialogue nei prossimi anni. Attribuiamo grande importanza alla pace e alla stabilità nella regione del Golfo, e intendiamo rafforzare la nostra cooperazione nella Istanbul Cooperation Initiative".

Il Mediterranean Dialogue comprende la NATO e sette paesi in Africa e in Medio Oriente: Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia.

La Istanbul Cooperation Initiative del 2004 [6], mira al potenziamento delle partnership del Mediterranean Dialogue al livello di quelle del programma NATO "Partenariato per la Pace, che ha preparato 12 nazioni in Europa orientale per la piena adesione a partire dal 1999: Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca , Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia.

Viene anche consolidato il legame con i sei membri del Gulf Cooperation Council - Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti - in qualità di partner militari della NATO. Giordania ed Emirati Arabi Uniti sono paesi contributori ufficiali di truppe (Troop Contributing Nations –TCN) per la International Security Assistance Force in Afghanistan della NATO, come sono membri del Partenariato per la Pace della Georgia e dell'Ucraina nell’ex spazio sovietico e in Bosnia, Macedonia e Montenegro nei Balcani.

Lo scorso fine settimana la NATO ha promesso di "approfondire la cooperazione con gli attuali membri del Mediterranean Dialogue e di essere aperta all’inclusione in esso di altri Paesi della regione" e di "sviluppare un più profondo partenariato per la sicurezza con i nostri partner del Golfo e di rimanere pronti ad accogliere nuovi partner nella Istanbul Cooperation Initiative". Cioè, includere tutto il Medio Oriente e l'Africa settentrionale nella sua più ampia connnessione militare con un occhio alle nazioni come l'Iraq [7], Libano, Palestina, Yemen, Libia, Somalia, Gibuti, Etiopia, Senegal, Mali, Niger, Ciad e anche il Kenya.

La dichiarazione del summit ha confermato la prosecuzione dell'Operazione Active Endeavour, "l’operazione marittima nel Mediterraneo per il nostro articolo 5", l’operazione Ocean Shield al largo del Corno d'Africa, il trasporto aereo di di truppe ugandesi in Somalia per i combattimenti e il sostegno alla Forza africana in attesa e la Training Mission NATO in Iraq.

Oltre ai dettagli dei piani di espansione in Europa, Asia e Africa una dopo l’altra, la NATO ha annunciato che ora è una formazione politico-militare internazionale. La dichiarazione del vertice ha espresso "profonda gratitudine per la dedizione, la professionalità e il coraggio dei più di 143.000 uomini e donne provenienti da paesi alleati e partner, che vengono dispiegati nelle operazioni e le missioni della NATO".

La sua nuova dottrina afferma anche: "unica nella storia, la NATO è un’alleanza di sicurezza che mette in campo forze militari in grado di operare insieme in qualsiasi ambiente; capace di controllare operazioni dovunque attraverso la sua struttura di comando militarmente integrata...."

La NATO Response Force (NRF) della coalizione "fornisce un meccanismo per generare una elevata prontezza e un pacchetto di forze tecnologicamente avanzate costituito da elementi di terra, aria, mare e delle forze speciali che può essere schierato rapidamente in operazioni ovunque sia necessario." [8]

La NRF è stata proposta dall'allora Segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld, nel settembre del 2002 e formalizzato in occasione del vertice NATO di Praga nel novembre dello stesso anno. Essa ha effettuato la sua prima esercitazione a fuoco, la Steadfast Jaguar su grande scala del 2006, nella nazione dell'Africa occidentale dell'isola di Capo Verde. Alla fine dell'anno fu affermato che essa aveva piena capacità operativa formata da un massimo di 25.000 uomini "fatto di componenti di terra, aria, mare e delle forze speciali... in grado di svolgere missioni in tutto il mondo attraverso l'intero spettro delle operazioni." [9]

Alludendo in parte alla NRF, il nuovo Strategic Concept dichiara:

"Dove la prevenzione dei conflitti non abbia esito, la NATO sarà preparata e in grado di gestire le ostilità in corso. La NATO ha capacità uniche di gestione dei conflitti, compresa la facoltà senza pari di implementare e sostenere vigorose forze militari in campo".

Essa impegna inoltre i Paesi membri a "sviluppare ulteriormente la dottrina e le capacità militari per organizzare gli interventi, tra cui quelli per anti-insurrezione, stabilizzazione e ricostruzione".

A Lisbona, Obama ed i suoi colleghi capi di Stato hanno convenuto che:

"Noi, i leader politici della NATO, siamo determinati a continuare il rinnovamento della nostra alleanza in modo che sia adatta allo scopo di affrontare le sfide alla sicurezza del 21° secolo. Siamo fermamente impegnati a conservare la sua efficacia come l’alleanza politico-militare di maggior successo del mondo".

L’unica coalizione militare mondiale non protegge l'Europa da minacce chimeriche nucleari e missilistiche o dalle questioni che sono meglio affrontate dai rispettivi membri della sua magistratura, dalle forze di sicurezza interna ed ambientali,dai ministeri e dipartimenti dell'immigrazione, dell'energia, della salute pubblica e dalle unità di crisi.

Impiega piuttosto il continente europeo come una base operativa per le campagne e gli dispiegamenti militari ovunque altrove.

Tale ruolo è stato consolidato con l'integrazione militare di Stati Uniti, NATO e Unione europea [10]. Il 19 novembre il presidente della Consiglio europeo della UE, Herman Van Rompuy, si è rivolto ai leader della NATO a Lisbona e ha detto "la capacità delle nostre due organizzazioni per plasmare le nostre future condizioni di sicurezza sarebbe enorme se lavorassero insieme. È ora di abbattere le pareti restanti tra loro". [11]

La nuova dottrina della NATO del 21° secolo, afferma:

"L’Unione europea è un partner unico ed essenziale per la NATO. Le due organizzazioni condividono la maggioranza dei soci, e tutti i membri di entrambe le organizzazioni condividono valori comuni. La NATO riconosce l'importanza di una difesa europea più forte e più capace. Accogliamo con favore le entrata in vigore del trattato di Lisbona, che fornisce un quadro per rafforzare le capacità dell'UE di affrontare le sfide comuni.

"Alleati non comunitari rappresentano un significativo contributo a tali sforzi. Per il partenariato strategico tra la NATO e l'UE, il loro pieno coinvolgimento in queste iniziative è essenziale. La NATO e l'UE possono e devono giocare ruoli di rafforzamento in modo complementare e reciproco".


La NATO ha anche acquisito un nuovo partner in Eurasia, uno con il territorio più grande del mondo, che si estende dal Baltico e il Mar Nero fino al Pacifico: la Russia. Il soggetto di un altro articolo.

Rick Rozoff
Fonte: http://rickrozoff.wordpress.com
Link: http://rickrozoff.wordpress.com/2010/11/22/lisbon-summit-nato-proclaims-itself-global-military-force/
22.11.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cuar di ETTORE MARIO BERNI

1) North Atlantic Treaty Organization Lisbon Summit Declaration http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68828.htm?mode=pressrelease

2) Strategic Concept For the Defence and Security of The Members of the North Atlantic Treaty Organisation http://www.nato.int/lisbon2010/strategic-concept-2010-eng.pdf

3) Thousand Deadly Threats: Third Millennium NATO, Western Businesses Collude On New Global Doctrine Stop NATO, October 2, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/02/thousand-deadly-threats-third-millennium-nato-western-businesses-collude-on-new-global-doctrine

4) Berlin Wall: From Europe Whole And Free To New World Order Stop NATO, November 9, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/11/09/berlin-wall-from-europe-whole-and-free-to-new-world-order

5) Russian Information Agency Novosti, November 18, 2010

6) NATO In Persian Gulf: From Third World War To Istanbul Stop NATO, February 6, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/nato-in-persian-gulf-from-third-world-war-to-istanbul

7) Iraq: NATO Assists In Building New Middle East Proxy Army Stop NATO, August 13, 2010 http://rickrozoff.wordpress.com/2010/08/14/iraq-nato-assists-in-building-new-middle-east-proxy-army

8) North Atlantic Treaty Organization Allied Command Operations http://www.aco.nato.int/page349011837.aspx

9) North Atlantic Treaty Organization The NATO Response Force http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49755.htm

10) EU, NATO, US: 21st Century Alliance For Global Domination Stop NATO, February 19, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/eu-nato-us-21st-century-alliance-for-global-domination

11) EUobserver, November 21, 2010

mardi, 23 novembre 2010

Mishima 1970-2010: la distruzione dell'ideologia occidentale

Mishima 1970–2010: la distruzione dell’ideologia occidentale

di Aldo Braccio

Fonte: cpeurasia

 

 

Mishima 1970–2010: La distruzione dell'ideologia occidentale

Non chiedo nulla. La sola cosa che desidero è che una di queste mattine, mentre i miei occhi sono ancora chiusi, il mondo intero cambi

(Yukio Mishima)

 

Assieme al fedele Masakatsu Morita, il 25 novembre di quarant’anni fa Yukio Mishima poneva volontariamente fine alla sua vita compiendo seppuku, dopo avere inutilmente spronato alla ribellione la guarnigione di Ichigatani.

Nel Proclama letto pochi istanti prima della fine, egli sottolineava i motivi del suo gesto : “Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia (…) Avete tanto cara la vita da sacrificarle l’esistenza dello spirito ? Che sorta di esercito è mai questo, che non concepisce valore più nobile della vita ? Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. E’ il Giappone”.

***

La lezione della vita e dell’intera opera di Mishima si compendia nell’irriducibile e completo rifiuto dell’americanizzazione/occidentalizzazione del mondo, a partire naturalmente dal Giappone. Non è tanto o soltanto una prospettiva politica : in un’intervista concessa proprio nel 1970 l’autore del Mare della fertilità affermava : “Io sono ancora antipolitico : quello che voglio fare ora è un movimento per la giustizia”; ancora un antipolitico : e pensava evidentemente alla “politica politicante”, alle false dicotomie del tipo destra/sinistra che il Giappone aveva importato dal mondo occidentale.

Egli perseguiva invece, prima di tutto, una disciplina antropologica inattuale, che combina armonicamente corpo, anima e spirito contro la dissociazione e la frammentazione moderna : la pratica del kendo, magistralmente esposta in Cavalli in fuga, e quella della cultura del corpo di Sole e acciaio ne sono due esempi, fra i tanti disponibili nella sua opera.

Il mondo americano-occidentale della globalizzazione è unidimensionale, meramente orizzontale, non riconosce il valore complesso e profondo della personalità umana – non comprende cosa sia il Sacro, e come il corpo stesso possa essere funzionale a una realizzazione spirituale.

Il linguaggio della carne è la vera antitesi delle parole”, afferma in Sole e acciaio. Non è un’espressione retorica, è necessario uscire dagli schemi mentali ed esistenziali consueti.

Tutto in Mishima è funzionale alla ricerca dell’Assoluto, anche l’erotismo, “metodo per raggiungere la divinità attraverso il peccato”, anche l’amore, nella sua accezione più vera : “L’amore non può esistere in una società moderna. Se non interviene l’immagine di una terza figura in comune, ossia il vertice del triangolo, l’amore sfocia in perpetuo scetticismo”, ossia nell’agnosticismo.

***

L’Assoluto è rappresentato dall’Imperatore, la modernità è relativista.

La cultura, che nel Paese del Sol Levante è innanzitutto forma e stile di vita, “favorisce il carattere di continuità e di ritorno, ed è proprio questo che chiamiamo Tradizione” (Saggio in difesa della cultura, 1969). Mishima è estraneo a infatuazioni di tipo ideologico, ed è questo un altro tratto differenziale dal nostro Occidente moderno; è, piuttosto, preideologico, e ostile alla globalizzazione del pensiero : “L’idea astratta di una cultura universale, di una cultura del genere umano, è per lo meno contestabile”.

D’altra parte, la cultura per essere tale deve essere vissuta, “abbraccia tanto le opere d’arte quanto le azioni e i modelli dell’agire” : una cultura integrale.

***

Il nostro occhio si è fatto grezzo, quello di Mishima è un occhio totale, che esplora e illumina corrispondenze e sovrapposizioni, che rende un senso alle molteplici esperienze umane.

Il mondo della Bellezza senza scopo utilitario e quello della giovinezza che è ingenuità disinteressata e può protrarsi nel tempo – quando è incurante del tempo – sono colti nella loro valenza essenziale. L’equivoco che attanaglia l’Occidente è quello della modernità, nell’epoca dell’individualismo borghese e della predazione capitalista

.“Quanto più una nazione tende a modernizzarsi, tanto più i rapporti individuali diventano freddi e anonimi, perdono significato”, sottolineava Mishima in un’intervista del 1968.

La modernità è sterile, bandisce il sacrificio e il senso di responsabilità per seguire la moda, il facile, il provvisorio. I rapporti personali, invece, acquistano significato e verità solo quando si consacrano a valori o sentimenti che trascendono i frammenti di vita individuale.

***

Non importa cadere.

Prima di tutto.

Prima di tutti.

E’ proprio del fior di ciliegio

cadere nobilmente

in una notte di tempesta

Sono versi di Mishima che sarebbe facile ricondurre a un malinteso e umbratile “culto della morte”, e che invece rappresentano la serenità del samurai di fronte alla conclusione della pagina terrena : vita e morte vanno rispettate ma non messe parossisticamente al di sopra di tutto, vanno accettate per quello che sono e non sprecate, utilizzate nobilmente … in vista dell’Assoluto.

Una dimensione, questa, spesso incompresa e – come si accennava all’inizio – irriducibile all’ideologia occidentale, quale irradiatasi dagli Stati Uniti d’America all’intero pianeta e diventata quotidiana banalità ai nostri giorni.

Mishima – che nella sua vita fu, a più riprese, esploratore/viaggiatore aperto al mondo – rispettava e distingueva nettamente le altre civiltà dalle loro contraffazioni artificiali imposte dalla globalizzazione. L’Europa, ad esempio, è altro rispetto alla sua contraffazione moderna : “La mia Europa è un mondo basato sulla struttura. Una struttura architettonica, ad archi. L’arco è stato inventato in Europa. La metà di un arco non può reggersi da sola, la metà sinistra regge la destra mantenendo un saldo equilibrio. I miei drammi e i miei romanzi sono proprio così, sostenuti da una struttura ad archi”.

Costruire questa struttura, ricostituire l’armonia fra sé e il mondo. Per tutta la vita Yukio Mishima ha operato con questo intendimento, non solo nella sua straordinaria opera letteraria ma anche nel suo cammino esistenziale.

Il 25 novembre 1970 decise che l’equilibrio era stato raggiunto. “La vita è così breve, e io vorrei viverla per sempre”, aveva detto sorridendo – ma, oltre la vita, aveva rimosso il limite, e trovato l’Assoluto.

 

 


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samedi, 30 octobre 2010

Eastern Europe versus the Open Society

by Srdja Trifkovic

Ex: http://www.chroniclesmagazine.org/
 
Excerpts from a speech to the H.L. Mencken Club, Baltimore, October 23, 2010

4886122ae5131.jpgTwo weeks ago the first “gay pride parade” was staged in Belgrade. Serbia’s “pro-European” government had been promoting the event as yet another proof that Serbia is fit to join the European Union, that is has overcome the legacy of its dark, intolerant past. Thousands of policemen in full riot gear had to divide their time between protecting a few hundred “LBGT” activists (about half of them imported from Western Europe for the occasion) and battling ten times as many young protesters in the side streets.

 The parade, it should be noted, was prominently attended by the U.S. Ambassador in Belgrade Mary Warlick, by the head of the European Commission Office, Vincent Degert of France, and by the head of the Organisation for Security and Cooperation in Europe (OSCE) Mission in Serbia, Dimitris Kipreos. Needless to say, none of them had attended the enthronment of the new Serbian Patriarch a week earlier. Two days later, Hillary Clinton came to Belgrade and praised the Tadic regime for staging the parade.

Mrs. Clinton et al are enjoying the fruits of one man’s two decades of hard work in Eastern Europe. George Soros can claim, more than any other individual, that his endeavors have helped turn the lands of “Real Socialism” in central and eastern Europe away from their ancestors, their cultural and spiritual roots. The process is far from over, but his Open Society Institute and its extensive network of subsidiaries east of the Trieste-Stettin line have successfully legitimized the notions that only two decades ago would have seemed bizarre, laughable or demonic to the denizens of the eastern half of Europe.

The package was first tested here in America. Through his Open Society Institute and its vast network of affiliates Soros has provided extensive financial and lobbying support here for

  • Legalization of hard drugs: We should accept that “substance abuse is endemic in most societies,” he says. Thanks to his intervention the terms “medicalization” and “non-violent drug offender” have entered public discourse, and pro-drug legalization laws were passed in California and Arizona in the 90s.
  • Euthanasia: In 1994 Soros—a self-professed atheist—launched his Project Death in America (PDIA) and provided $15 million in its initial funding. (It is noteworthy that his mother, a member of the pro-suicide Hemlock Society, killed herself, and that Soros mentions unsympathetically his dying father’s clinging on to life for too long.) PDIA supports physician-assisted suicide and works “to begin forming a network of doctors that will eventually reach into one-fourth of America’s hospitals” and, in a turn of phrase chillingly worthy of Orwell, lead to “the creation of innovative models of care and the development of new curricula on dying.”
  • Population replacement: Soros is an enthusiastic promoter of open immigration and amnesty & special rights for immigrants. He has supported the National Council of La Raza, National Immigration Law Center, National Immigration Forum, and dozens of others. He also promotes expansion of public welfare, and in late 1996 he created the Emma Lazarus Fund that has given millions in grants to nonprofit legal services groups that undermine provisions of the welfare legislation ending immigrant entitlements.

Soros supports programs and organizations that further abortion rights and increased access to birth control devices; advocate ever more stringent gun control; and demand abolition of the death penalty. He supports radical feminists and “gay” activists, same-sex “marriage” naturally included. OSI states innocently enough that its objectives include “the strengthening of civil society; economic reform; education at all levels; human rights; legal reform and public administration; public health; and arts and culture,” but the way it goes about these tasks is not “philanthropy” but political activism in pursuit of all the familiar causes of the radical left—and some additional, distinctly creepy ones such as “Death in America.”

Soros’s “philanthropic” activities in America have been applied on a far grander scale abroad. His many foundations say that they are “dedicated to building and maintaining the infrastructure and institutions of an open society.” What this means in practice? Regarding “Women’s Health” programs in Central and South-Eastern Europe, one will look in vain for breast cancer detection programs, or for prenatal or post-natal care. No, Soros’s main goal is “to improve the quality of abortion services.” Accordingly his Public Health Program has focused on the introduction of easily available abortion all over the region, and the introduction of manual vacuum aspiration (MVA) abortion in Macedonia, Moldova, and Russia. Why is Soros so keen to promote more abortions? Overpopulation cannot be the reason: the region is experiencing a huge demographic collapse and has some of the lowest fertility rates in the world. Unavailability of abortions cannot be the answer either: only five European countries had more abortions than live births in 2000: the Russian Federation, Bulgaria, Belarus, Romania and Ukraine. The only answer is that Soros wants as few little European Orthodox Christians born into this world as possible.

Soros’s Public Health Programs additionally “support initiatives focusing on the specific health needs of several marginalized communities,” such as “gays” and AIDS sufferers, and promote “harm reduction” focusing on needle/syringe exchange and supply of methadone to adicts. His outfits lobby governments to scrap “repressive drug policies.” Over the past decade and a half the Soros network has given a kick-start to previously non-existent “gay” activism in almost all of its areas of operation. The campaign for “LGBT Rights” is directed from Budapest, publishing lesbian and gay books in Bulgaria, the Czech Republic, Hungary, Slovenia and Slovakia, opening Gay and Lesbian Centers in Ukraine and Rumania. Its activists routinely attack the Orthodox Church as a key culprit for alleged discrimination of “LGBTs.”

Education is a key pillar of Soros’s activities. His Leitmotif is the dictum that “no-one has a monopoly on the truth” and that “civic education” should replace the old “authoritarian” model. Even under communism Eastern Europe has preserved very high educational standards, but the Soros Foundation seeks to replace the old system with the concept of schools as “exercise grounds” for the “unhindered expression of students’ personalities in the process of equal-footed interaction with the teaching staff, thus overcoming the obsolete concept of authority and discipline rooted in the oppressive legacy of patriarchal past.” The purpose of education is not “acquisition of knowledge”: the teacher is to become the class “designer” and his relationship with students based on “partnership.” Soros’s reformers also insist on an active role of schools in countering the allegedly unhealthy influence of the family on students, which “still carries an imprint of nationalist, sexist, racist, and homophobic prejudices rampant in the society at large.”

“Racism” is Soros’s regular obsession, but he had a problem finding it in racially non-diverse East European countries. This has been resolved by identifying a designated victim group—gypsies (“Roma”). His protégés now come up with policy demands to “protect” this group that could have been written by Rev. Jesse Jackson:

  • anti-bias training of teachers and administrators;
  • integration of Romani history and culture in the textbooks at all levels;
  • legally mandated arffirmative action programs for Roma;
  • tax incentives for employers who employ them;
  • access to low-interest credit for Roma small family businesses;
  • setting aside a percentage of public tenders for Roma firms;
  • legislation to fight “racism and discrimination” in housing;
  • adoption of “comprehensive anti-discrimination legislation”;
  • creation of mechanisms “to monitor implementation of anti-discrimination legislation and assist victims of racial discrimination in seeking remedies”;
  • recognition by governments of “the Roma slavery and the Holocaust through public apology along with urgent adoption of a package of reparatory measures.”

A budding race relations industry is already in place, with the self-serving agenda of finding “discrimination” in order to keep itself in place for ever.

To make his agenda appear “normal” to the targeted population, millions of East Europeans are force-fed the daily fare of OSI agitprop by “the Soros media”—the term is by now well established in over a dozen languages—such as the B-92 media conglomerate in Serbia.

The social dynamics Soros uses to penetrate the target countries is interesting. To thousands of young East Europeans to become a “Soroshite” represents today what joining the Party represented to their parents: an alluring opportunity to have a reasonably paid job, to belong to a privileged elite, for many to travel abroad. The few chosen for the future new Nomenklatura go to Soros’s own Central European University in Budapest. In all post-communist countries Soros relies overwhelmingly on the sons and daughters of the old Communist establishment who are less likely to be tainted by any atavistic vestiges of their native soil, culture and tradition. The comparison with the janissary corps of the Ottoman Army is more apt than that with the Communist Party. The new janissaries, just like the old, have to prove their credentials by being more zealous than the Master himself.

The key ideological foundation for Soros’s beliefs is the same: that all countries are basically social arrangements, artificial, temporary and potentially dangerous. A plethora of quotes from his writings will make it clear that he thinks that owing allegiance to any of them is inherently irrational, and attaching one’s personal loyalty to it is absurd. Like Marx’s proletarian, Soros knows of no loyalty to a concrete country. He could serve any—or indeed all—of them, if they can be turned into the tools of his Wille zur Macht. In 1792, it could have been France, in 1917 Russia. Today, the United States is his host organism of choice because it is so powerful, and its media scene is open to penetration by his rabidly anti-traditionalist and deeply anti-American worldview and political agenda.

Textbooks and educational curricular reforms pushed by Soros in Eastern Europe indicate that he is trying to perform crude dumbing down of the young. Within months of coming to power in October 2000 the “reformists” within Serbia and their foreign sponsors insisted that schools—all schools, from kindergarden to universities—must be reformed and turned from “authoritarian” institutions into poligons for the “unhindered expression of students’ personalities in the process of equal-footed interaction with the teaching staff, thus overcoming the obsolete concept of authority and discipline rooted in the opressive legacy of patriarchal past.” They started with primary schools, with a pilot program of “educational workshops” for 7-12 year olds. The accompanying manual, sponsored by UNICEF and financed by the Open Society, denigrades the view that the purpose of education is acquisition of knowledge and insists that the teacher has to become the class “designer” and his relationship with students based on “partnership.”

The reformers devote particular attention to the more active role of schools in countering the allegedly unhealthy influence of the family on students, which “still carries an imprint of nationalist, sexist, [anti-Roma] racist, and homophobic prejudices rampant in the society at large.” The time-honored Balkan tradition of slapping childrens’ bottoms when they exceed limits is now presented in the elementary classroom as a form of criminal abuse that should be reported and acted upon. Traditional gender roles are relativized by “special projects” that entail cross-dressing and temporary adoption of opposite gender names.

Soros’s vision is hostile even to the most benign understanding of national or ethnic coherence. His core belief—that traditional morality, faith, and community based on shared memories are all verboten—is at odds even with the classical “open society” liberalism of Popper and Hayek, by whom he swears. His hatred of religion is the key. He promotes an education system that will neutralize any lingering spiritual yearnings of the young, and promote the loss of a sense of place and history already experienced by millions of Westerners, whether they are aware of that loss or not. Estranged from their parents, ignorant of their culture, ashamed of their history, millions of Westerners are already on the path of alienation that demands every imaginable form of self-indulgence, or else leads to drugs, or suicide, or conversion to Islam or some other cult.

To understand Soros it is necessary to understand globalization as a revolutionary, radical project. In the triumph of liberal capitalism, the enemies of civilization such as Soros have found the seeds of future victory for their paradigm that seeks to eradicate all traditional structures capable of resistance. The revolutionary character of the Open Society project is revealed in its relentless adherence to the mantra of Race, Gender and Sexuality. His goal is a new global imperium based that will be truly totalitarian. But he is making a colossal miscalculation. He does not realize that the unassimilated and unassimilable multitudes do not want to be the tools of his will to power. Illegal aliens in America, Algerians in France, Turks in Germany and Pakistanis in Britain have their own, instinctive scenario, and it does not entail leaving Soros and his ilk in positions of power, or alive.

About the Author

Dr. Srdja Trifkovic, an expert on foreign affairs, is the author of The Sword of the Prophet and Defeating Jihad. His latest book is The Krajina Chronicle: A History of the Serbs in Croatia, Slavonia and Dalmatia.

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dimanche, 24 octobre 2010

Israël et la régression intellectuelle de la civilisation occidentale

Israël et la régression intellectuelle de la civilisation occidentale

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Par Manuel de Diéguez

 Les Etats et les Eglises ne se décident à ouvrir les yeux qu’à l’heure où il ne leur reste d’autre ressource que de retirer le bandeau qu’ils s’étaient mis sur les yeux. La cloche des évidences est-elle proche de sonner au beffroi de l’histoire ? Car enfin, jamais encore l’histoire du genre humain n’avait pris la tournure d’une farce planétaire.

Certes, il y avait longtemps qu’on se frottait les yeux au spectacle des négociations fantasmagoriques qui se déroulaient entre Israël et la Palestine et l’on n’en revenait pas de ce que des tractations condamnées à demeurer fictives pussent tenir en haleine des chancelleries médusées et une presse mondiale ébahie, on n’en croyait pas ses oreilles qu’une tragi-comédie de cette envergure pût un jour trouver place dans les livres d’histoire. Comment la raconter demain aux enfants sur les bancs de l’école si les adultes y jouaient, eux aussi, le rôle de spectateurs en bas âge?

Et voici que les bras vous en tombent de découvrir que ce théâtre d’ombres et de songes n’était pas encore allé au terme de sa puérilité et que l’on verrait un fantoche, un paltoquet, une marionnette débouler des coulisses sur la scène et saluer le public d’acte en acte. Quelle pièce jouait-on, à quel répertoire inconnu était-elle empruntée, quel en était l’auteur? L’histoire cache dans ses archives de nombreuses effigies d’une condition humaine titubante. Mais qui aurait pu imaginer qu’un Président de Etats-Unis adresserait au Premier Ministre d’un Etat étranger une lettre officielle dont les termes lui auraient été dictés au préalable par le destinataire et selon laquelle, primo, le locataire de la Maison Blanche mettrait son veto « à toute résolution concernant Israël, d’où quelle vienne, durant la période des négociations, laquelle est fixée à un an« , secundo, que la « dotation militaire annuelle des Etats-Unis à Israël, de trois milliards de dollars, serait augmentée » et que Tel-Aviv pourrait « avoir accès à de nouvelles armes et à des systèmes de surveillance satellitaires« , tertio, qu’Israël demeurerait maître de sa prédéfinition unilatérale des « exigences de sa sécurité« , c’est-à-dire de la formulation aussi solitaire qu’incontrôlée de ses ambitions politiques et militaires sous le couvert traditionnel de l’évocation de la « sécurité » du pays; quarto, que durant l’ année que dureraient les négociations imaginaires appelées à monter en volutes vers le ciel des anges, Israël disposerait d’une totale impunité, puisqu’aucune résolution ne pourra se trouver adoptée par le Conseil de Sécurité, quel que soit le comportement peu séraphique de son armée sur le champ de bataille; quinto, que le futur pseudo Etat palestinien sera privé d’armée et sera si peu souverain qu’il devra ouvrir tout grand son territoire et sans jamais rechigner aux mouvements des troupes israéliennes stationnées à ses frontières, sexto, qu’en retour Israël ne prolongerait que de deux mois la suspension de son expansion territoriale en Cisjordanie, après quoi il en reprendrait le cours inexorable, sauf à obtenir de nouveaux bénéfice tangibles en échange de l’ascension dans les airs d’un nouveau nuage de fumée.

Pourquoi les Etats-Unis ont-ils signé un marché de dupes de ce calibre? Pourquoi le parti démocrate a-t-il accepté de payer d’un ridicule immortel et d’un effondrement sans remède du poids de l’Amérique dans le monde l’avantage éphémère de perdre un peu moins cruellement les élections de mi-mandat de novembre 2010? Un désastre politique aussi indélébile ne s’explique que par le ligotage et le bâillonnement pur et simple de M. Barack Obama. Comme je l’ai écrit le 4 juin 2009 en prévision du discours du Caire du 6 juin, le garrottement politique de ce chef d’Etat résulte de son refus de se laisser héroïquement assassiner, donc de la dérobade de ce faux héros devant le destin sacrificiel auquel la vocation d’un vrai Président des Etats-Unis l’appelle aujourd’hui.

En raison de la désertion piteuse de la victime, déjà l’immolateur s’approche de l’autel. Est-il un tueur ou un délivreur ? Ce qui est sûr, c’est qu’un nouvel équilibre des forces vient d’ores et déjà démontrer que la nature a horreur du vide et qu’un locataire de la Maison Blanche réduit à un mannequin dont Israël tire les ficelles aux yeux du monde entier enfantera un nouvel équilibre des forces , qui remettra les rênes du monde à la Chine, à la Turquie, à l’Iran, à la Syrie, à la Russie, au Brésil. Du coup, le déclin de l’Europe deviendra irréversible pour s’être rangée jusqu’au bout aux côtés d’un empire agonisant.

Mais, depuis la plus haute antiquité, les sacrifices cultuels sont ambigus. Peut-être l’Europe saisira-t-elle cette occasion de sortir de son sépulcre. De toutes façons, cette tragédie deviendra, me semble-t-il, un peu plus intelligible à la lumière de la science historique et politique dont je tente d’exposer les fondements anthropologiques depuis près de dix ans.

A l’écoute des dernières péripéties et rebondissements de l’histoire d’Israël, je rappelle ci-dessous les paramètres d’une mutation des offertoires de la politique internationale. La vocation d’une politologie critique l’appelle à déchiffrer l’histoire d’une espèce auto-sacrificielle de naissance.

1 – Les fondements anthropologiques de l’intelligibilité de l’Histoire

Dans quelques mois au plus tard et peut-être déjà dans quelques semaines, un thème de fond va occuper la presse, les médias et surtout les quelques commentateurs de la politique internationale encore attachés non point à flâner en promeneurs désœuvrés dans les coulisses de l’actualité planétaire, mais à descendre en spéléologues hardis dans les arcanes de la politique et de l’histoire.

On peut lire, dans le Monde du 10 août 2010: « Un tremblement de terre moral ». Pas moins. C’est la formule utilisée, dimanche 8 août, par Yediot Ahronot, le quotidien le plus lu en Israël, pour décrire la dernière nouvelle qui embarrasse l’armée. De quoi s’agit-il ? De la destruction du village bédouin d’Al-Farasiya, dans la vallée du Jourdain, qui a transformé une centaine de paisibles paysans en sans-abri ? Du fait que le ministère de la défense et la Cour suprême aient interdit à une jeune habitante de Gaza d’aller étudier les droits de l’homme en Cisjordanie ? »

Non, en Israël ce genre d’information, reléguée en bas de page, ne soulève guère d’indignation. L’émoi des médias trouve son origine dans le dernier épisode de la  » guerre des généraux ».

C’est dire qu’aucun événement digne de faire la une des journaux n’aura stupéfié l’opinion publique mondiale au point d’alerter tout subitement la conscience journalistique endormie sur les cinq continents. Et pourtant, dans les profondeurs, la science de la mémoire aura été ébranlée au point que la problématique et la méthodologie politique mondiale en sera bouleversée.

Pourquoi cela? Parce que ce sont les contradictions internes du géocentrisme, les défis à la logique interne de la phlogistique, l’incohérence interne de la physique classique, l’irrationalité interne de la psychologie dite « des facultés » qui ont contraint l’héliocentrisme, la chimie de Lavoisier, la relativité générale, la psychanalyse à faire exploser les présupposés immanents aux sciences antérieurement validées par une grille de lecture erronée. C’est dire que la science historique est longtemps parvenue à éluder la question centrale du statut anthropologique de son axiomatique et de sa problématique, donc à se dérober à la réflexion sur la validité de l’enceinte même dans laquelle Clio déplace les pions du jeu. Mais l’accumulation d’évènements allogènes à l’échiquier classique favorise l’examen critique et la mise en cause des coordonnées des anciens joueurs.

Il en sera de même des interprétations politiques et historiques traditionnelles du destin d’hier, d’aujourd’hui et de demain d’Israël parce que les prolégomènes approximatifs ou partiels qui permettent d’interpréter le parcours de cette nation au sein de la civilisation semi rationnelle d’aujourd’hui répondent à un code vieilli de l’intelligibilité des événements. Chaque fois qu’une science se conquiert une organisation cérébrale plus englobante que la précédente, donc un système de navigation qui lui permet de transcender les critères convenus de la compréhensibilité en usage à son époque, son armure méthodologique change radicalement de voltage et de pilotage de ses signifiants, donc de balisage mental. Il en sera nécessairement de même de la révolution de la science des Etats et des relations que leur logique interne entretient avec le récit historique de demain, parce que la nécessité s’imposera de changer entièrement de dialectique. Comment enserrerons-nous le présent et l’avenir d’Israël dans une trame moins anachronique et plus explicative que l’ancienne?

2 – Une parturition rousseauiste

Il s’agira d’insérer dans le tissu d’une anthropologie critique un Etat né d’une décision rousseauiste, celle de tous les pays de la terre de déverser soudainement et d’un seul coup une ethnie déterminée et reconnue dans sa singularité depuis trois mille ans sur un étroit territoire du Moyen Orient et de lui demander de cultiver gentiment son Eden en miniature. Mais comment lui faire paître ses moutons blancs sur le modèle bucolique dont Adam se prélassait dans le jardinet originel de l’humanité?

Jamais un régime d’assemblée privé de la lanterne de Diogène n’avait tenté de fonder une nation sur un modèle aussi pseudo-séraphique. Mais l’archétype biblique brutalement plaqué sur le Moyen Orient était censé avoir peuplé un désert de sable et non point une terre vrombissante de créatures. Certes, les historiens ont démontré qu’en 1948, le vote majoritaire des Paul et Virginie de la démocratie rassemblés dans l’enceinte des Nations Unies en faveur d’une répétition de l’Exode avait été obtenu avec le secours des méthodes de prévarication habituelles; les voix censées inspirées par un ciel de bergerie sont presque toujours achetées à prix d’or. Mais un adage latin dit que « nous sommes impuissants à changer le passé », ce que le français traduit par l’expression: « Ce qui est fait est fait ».

L’Etat d’Israël existe donc bel et bien; et s’il n’a pas encore la tête sur les épaules, il a déjà les pieds sur terre. L’historien des songes incarnés tente donc de rendre compte d’une existence à la fois onirique et dûment concrétisée. Du coup, il constate que les paramètres chantonnants sur lesquels repose encore la science évangélique des Etats n’éclairent en rien le paysage, parce que le verdict des urnes ne saurait s’inscrire dans une logistique de type eschatologique, même si cette théologie politique se trouve aussitôt bousculée par les nouveaux marchands du temple. Du coup, une science du temps des nations qui ne se vissera à l’œil que la loupe du quotidien rendra le paysage incompréhensible à l’observateur, tellement les narrations patentées par un long usage se révèleront étrangères à l’histoire biblique que le mythe bénisseur sera censé raconter sur ses pâturages et qui paraîtra dicter ses péripéties à l’histoire en chair et en os.

Comment le récit traditionnel dont les ongles et les crocs s’ appellent l’histoire va-t-il se trouver anéanti et jeté aux oubliettes à l’heure où les relations « objectives » des Etats entre eux ne répondent plus au code sentimental élaboré tout au long des siècles par une histoire artificiellement euphorisée du monde?

3 – Les vêtements religieux du temps

Un seul exemple : en août 2010, l’Arabie Saoudite entend acheter des avions de guerre américains baptisés F15. Mais la puissance du mythe biblique sur les imaginations est redevenue si grande que les Etats-Unis ne sauraient conclure un contrat rationnel de ce genre avec aucun Etat arabe sans avoir reçu l’autorisation « théologique » d’Israël. Ce sera en grand secret que les négociations para religieuses entre Washington et Tel Aviv seront menées. Comment expliquer les relations célestiformes qu’un Etat microscopique entretient avec l’empire le plus puissant du monde? Il sera supposé vital, pour les successeurs des Hébreux, de simuler une fragilité et même une précarité d’origine et de nature mythologiques, afin de donner au monde entier l’illusion que la nation biblique se trouve aussi menacée de mort sous les coups de ses ennemis que sous Pompée ou Vespasien. Or, il en est paradoxalement ainsi, mais sur d’autres chemins, et cela pour les mêmes raisons théologiques d’apparence qu’il y a deux mille ans.

Que disent aujourd’hui les Isaïe de la démocratie libératrice? Que la civilisation de la rédemption par la justice et le droit ne saurait faire de sa sotériologie décolonisatice une conséquence logique, donc universelle, de la religion du salut par la Liberté, puis se réfuter elle-même à légitimer la conquête armée, puis la vassalisation systématique d’un autre peuple. La réfutation du culte des droits de l’homme et du citoyen exige une eschatologie inversée selon laquelle une idole aurait légitimé de toute éternité un propriétaire prédestiné à occuper un sol déterminé. Les partis religieux d’Israël le savent et le disent haut et fort : « Si cette terre, confessent-ils, ne nous avait pas été expressément octroyée par le roi du cosmos, nous ne serions que des brigands. »

Mais il se trouve qu’au début du IIIe millénaire, la science psychologique sait depuis longtemps que les dieux iréniques ou sanglants sont là pour porter sur leurs larges épaules les pires forfaits de leurs chétives créatures et qu’ils ne se contentent pas de rendre payant le sang des sacrifices qu’on leur présente sur leurs offertoires, mais à glorifier l’hémoglobine des immolations qu’on leur donne à humer. C’est pourquoi les profanateurs, les blasphémateurs et les saints iconoclastes qu’on appelle des prophètes et qu’Israël a tués en chaîne ne cessent de rappeler que le « vrai Jahvé » a horreur des meurtres sacrés sur les parvis de son temple et que, depuis trois mille ans les narines du génie d’Israël ont rendez-vous avec une civilisation irénique.

Mais si les habillages messianiques de la guerre échappent à la lecture laïque du monde – Clio se trouve encore privée des clés d’une interprétation anthropologique du temps de l’histoire – comment l’étude du profane accèderait-elle à une intelligibilité réfléchie? Pour que la science historique classique accède à la connaissance des secrets du temps mythologique dans lequel un peuple prétend dérouler le tapis de sa durée, il faut une épistémologie capable d’expliquer les propitiatoires, donc conquérir un regard de haut et de loin sur le globe oculaire dont nos ancêtres usaient à l’égard de notre espèce.

4 – Les cités et leur mythe

Israël n’est pas le seul peuple à vivre sa propre histoire dans le temps du mythe. Le monde hellénique est né du débarquement d’une expédition navale dans un univers littéraire appelé à devenir celui de la civilisation mondiale. La cité de Priam opposait ses murailles aux mâtures de la flotte de Ménélas. Les dieux décidèrent de se mettre de la partie. Les flèches de l’arc d’or d’Apollon vont venger Calchas, le devin outragé du dieu du soleil. Iphigénie est sacrifiée au dieu du vent. Ulysse et Achille vont se partager les premiers rôles. Un poète entre en scène. Il en tire deux légendes, celle du siège d’une cité fortifiée et celle du voyage initiatique d’un marin et de ses compagnons sur le chemin du retour au pays. La Grèce du symbolique a trouvé sa voix et son destin. Que serait-il advenu de la civilisation d’Eschyle et d’Archimède, de Platon et d’Aristophane, des mathématiques et de la tragédie si une guerre mythique n’avait pas vivifié la civilisation mondiale sur les cinq continents? Le Vieux Monde attend un nouvel Homère. Quelles sont les relations que les peuples entretiennent avec le nectar et l’ambroisie de leur immortalité? Comment un peuple de navigateurs a-t-il fondé la première civilisation de l’alliance de la parole avec le sacrifice?

Rome n’est née de la voix de Virgile que sur le tard : à l’origine, le berceau mythique de la ville se réduisait à la légende d’une louve qui aurait nourri de son lait les jumeaux Rémus et Romulus. Mais l’histoire réelle s’est trop hâtée de débarquer dans le récit fabuleux: Rémus sera assassiné par son frère de lait, lequel mourra de la main des patriciens. Et déjà le sacré est de retour. Les ambitieux sont aussi de malins comploteurs: ils vont s’entendre entre eux pour faire descendre le trépassé du haut des nues. Pour fonder la République, il leur faut mettre dans la bouche d’un mort l’annonce de la future grandeur de l’empire romain. Néanmoins la première civilisation des armes et des lois gardera une mémoire tenace et rancunière de la modestie de son mythe originel – celui de l’apparition d’une victime dont Tite-Live raconte le trucage et qui deviendra un classique de l’autel dans le monothéisme redevenu sacrificiel des chrétiens – l’islam s’en est tenu à la brebis d’Abraham. Sous Tibère encore, les prétentions religieuses de plusieurs cités de l’empire seront rognées par un Sénat soucieux de ne pas laisser supplanter son mythe fondateur par un Olympe plus illustre et plus généreux que le sien. Et puis, le culte romain des ancêtres ne s’était même pas procuré des dieux vivants et visibles: les édiles sont allés chercher des statues de divinités antiques et prestigieuses à Athènes et ils les ont installées en grande pompe dans l’enceinte de la ville, tellement l’Enéide faisait pâle figure auprès de l’Iliade et de l’Odyssée des Grecs.

5 – De l’universalité du sacré

Pour comprendre comment Israël s’est coulé dans le moule de son épopée biblique, il faut observer que les peuples forgent leur mythe à l’école de leur sainteté et que le naufrage des dieux antiques dans le monothéisme a seulement modifié le creuset antique du sacré. La France monarchique a entretenu avec une divinité plus unifiée que les précédentes les relations éloquentes et clairement énoncées qui permettaient d’élever les rois au rang de frères de Jésus-Christ. Puis, le songe de la délivrance universelle et définitive du simianthrope par l’assassinat d’un seul homme sur un autel planétaire a déserté les fonts baptismaux d’une révélation ciblée et que les scribes d’un ciel localisé avaient circonscrite avec précision afin de se forger sur l’enclume d’une Révolution dont Robespierre disait: « Une nation n’a pas accompli sa tâche véritable quand elle a renversé les tyrans et chassé des esclaves, ainsi faisaient les Romains, mais notre œuvre à nous, c’est de fonder sur la terre l’empire inébranlable de la justice et de la vertu. »

A l’instar de celui des Anciens, le royaume du ciel panoptique des démocraties s’arrime à des territoires autonomes. Certes, le ciel nouveau se trouve seulement dans un état de latence ici-bas ; mais il ne va pas tarder à se transporter sur les arpents du salut et de l’innocence providentiellement retrouvées – les lopins du Nouveau Monde serviront de territoire à une résurrection plus globale de l’Eden. Le fossé qui s’est creusé entre les patries bénies par le Dieu récent des chrétiens et l’Olympe vieilli des Anciens n’est pas si difficile à combler. La prière rituelle « Dieu bénisse l’Amérique » s’est mondialisée : un finalisme religieux commun à la Rome d’autrefois et à l’ubiquité chrétienne a illustré l’appel à l’universalité du droit et de la justice déjà perceptibles chez Horace, Pline le Jeune, Cicéron.

Toute la scolastique du Moyen Age et de saint Thomas d’Aquin lui-même, demeuré le « docteur angélique » de l’Eglise – même à la suite du faux séisme de 1962 – n’est-elle pas la copie du Sénèque qui programmait les travaux futurs des théologiens chrétiens en ces termes: « Oui, je rends surtout grâces à la nature lorsque, non content de ce qu’elle montre à tous, je pénètre dans ses plus secrets mystères; lorsque je m’enquiers de quels éléments l’univers se compose; quel en est l’architecte ou le conservateur ». Du coup, il s’agit déjà de savoir « ce que c’est que Dieu. Est-il absorbé dans sa propre contemplation ou abaisse-t-il parfois sur nous ses regards ».

Autre difficulté: on ne sait s’il crée « tous les jours ou s’il n’a créé qu’une fois ; s’il fait partie du monde ou s’il est le monde même, si, aujourd’hui encore, il peut rendre de nouveaux décrets et modifier les lois du destin ou si ce ne serait pas descendre de sa majesté et s’avouer faillible que d’avoir à retoucher son œuvre ». Et puis, quel casse-tête, pour la sagesse d’ « aimer toujours les mêmes choses »; car « Dieu ne saurait aimer que les choses parfaites et cela non point qu’il soit, pour autant, moins libre ni moins puissant, car il est lui-même sa nécessité. Ah, si l’accès à ces mystères m’était interdit, aurait-ce été la peine de naître! »

Saint Anselme se fera le logicien d’un ciel plus unifié encore que celui de Sénèque. Si Dieu n’existait pas, dit la première prémisse de son raisonnement, il ne serait pas parfait, puisque l’existence est un attribut sine qua non de la perfection; et puisque Dieu est nécessairement parfait par nature et par définition, dit la seconde branche du syllogisme, il s’ensuit qu’il existe par la puissance invincible de la logique syllogistique qui inspire ses démonstrateurs. C’est dire que si la République n’était pas parfaite, elle n’existerait pas. Or, elle est visiblement imparfaite, donc elle n’existe que dans la tête de ses fidèles argumenteurs. Quelle est donc la sorte d’existence bancale de l’Etat d’Israël en tant que République à la fois juive et idéale dans la tête de M. Benjamin Netanyahou ou de M. Avigdor Lieberman? Qu’en est-il des personnages tout ensemble terrestres et cérébraux? C’est demander quelle était la spécificité de l’existence de Zeus dans l’encéphale des Grecs en chair et en os. Pour l’apprendre, il faudrait également préciser la double nature de Gulliver, de don Quichotte ou de Robinson Crusoé. A ce titre, quelle est la nature de l’existence cérébrale et physique de la civilisation européenne dans la tête des Européens si, à l’exemple du dieu universel de Sénèque, de saint Anselme, de saint Thomas d’Aquin ou de saint Augustin, le Vieux Continent n’existe que dans les âmes et les cerveaux et si toute la difficulté est de la faire partiellement débarquer sur la terre?

On voit que la question du statut psycho-physique du sacré est politique par définition, et même tellement politique que les civilisations qui ne se sont pas encore ancrées dans une interprétation salvatrice de leur propre historicité n’en sont pas moins lovées dans une politique de leur destin eschatologique et sotériologique: le culte d’un empereur tenu pour le fils du soleil figure le cœur glorieux de la civilisation nippone et la Chine elle-même, la seule civilisation à n’écouter que les leçons d’un grand sage, Confucius, expédie néanmoins un dragon rédempteur peupler un vide habité hier de statues d’airain, de bois ou de fer, aujourd’hui de statues mentales dressées dans les encéphales en l’honneur des idéalités devant lesquelles les démocraties se prosternent.

6 – « Dieu » est une île intérieure

Mais, dira-t-on, si Israël conduit la science historique moderne à se pencher en anthropologue sur la boîte osseuse du singe théologisé depuis le paléolithique, existerait-il cependant des civilisations entièrement dépourvues d’un symbole et d’une effigie de leur existence physico-eschatologique? Ne dira-t-on pas que l’Angleterre, par exemple, n’honore aucun héros mythique qui « donnerait corps » à son existence psychique? Mais l’insularité est un focalisateur naturel des âmes, l’insularité jaillit d’un feu identitaire physique. Cette génitrice change Neptune en compagnon d’une nation enserrée dans le corset de l’identité maritime qui l’isole du reste du monde et qui fait, de son autonomie océane, une autorité bénédictionnelle. Tout mythe sacré glorifie la solitude qu’il féconde. L’insularité psychique voit la géographie elle-même courir au secours de son soleil.

Mais que ferons-nous de l’identité mythique des civilisations évanouies? Le passé est un vivant appelé à jouer le même rôle que les dieux. C’est à la fontaine de leur trépas que les vivants boivent l’eau pure de leur histoire intérieure. Athènes respire encore dans la postérité d’Homère, l’Egypte entre-ouvre encore un œil sur l’immortalité de son souffle – celui qu’elle a inscrit dans la pierre des Pyramides.

Et la France ? Que restera-t-il de son âme et de sa tête quand elle se sera débranchée de son ascendance dans la folie de son rêve de justice? Le « Dieu » de la France serait-il son île intérieure, celle que féconde l’esprit de justice du simianthrope? Mais alors, quel est l’esprit de justice qui rend vivant à leur tour don Quichotte, Gulliver ou Robinson Crusoé, quel est l’esprit de justice qui fait d’une civilisation un personnage intérieur, quel est l’esprit de justice qui fait de l’Europe un héros en attente de son Homère? Israël donne du fil à retordre au verbe exister dont la science historique et la politique du XXIe siècle tentent de trouver le mode d’emploi.

7 – L’identité mythico-terrestre du simianthrope

La face cachée des « sanglantes ténèbres » de l’Histoire qu’évoquait Robespierre pose à une civilisation mondiale désormais mise à l’épreuve et au banc d’essai de sa schizoïde cérébrale la question, anthropologique en diable, de la nature de son propre déchirement intrérieur entre la pieuvre de l’abstrait et les floralies du singulier; car notre espèce se révèle irréductible à la fois aux tentacules d’une logique universelle et aux piquets mémorables de l’instant.

Un peuple juif à la fois ligoté à son sol et errant rappelle à l’Europe qu’elle se situe, elle aussi, dans son double enracinement cérébral. La question de l’identité délocalisée et pourtant fichée en terre des fuyards dédoublés de la simiologie que nous sommes demeurés se placerait-elle au cœur de la politique internationale contemporaine, donc au cœur de l’histoire biface de la planète? Dans ce cas, l’horloge de la pensée et de l’action conjuguées en appelleraient à l’anthropologie critique de demain; et cette science déboucherait sur la connaissance rationnelle d’un animal condamné, à l’instar d’Israël, à réfuter le sacré et à en vivre. Comment manier ensemble le glaive et le songe, l’épée et le totem, le poignard et les ciboires?

Notre civilisation des nouveaux crucifix cloue les idéalités de la démocratie sur la potence de l’histoire du monde. Nos banderoles des « droits de l’homme » sont aussi ensanglantées que les aigles romaines. Où sont passés les Bossuet de la démocratie séraphique? On cherche les orateurs qui monteraient en chaire pour dénoncer le sacrifice d’une ville d’un million cinq cent mille habitants, on cherche les dénonciateurs dont l’éloquence clouerait une tribu de Judée au pilori. Où est-elle passée, l’île intérieure qui donnerait une âme à l’Europe? Voyez comme ce continent se scinde entre la prudence de la Rome des papes, dont la foi a renoncé depuis deux millénaires à universaliser les Evangiles et la diplomatie, bifide à son tour, du Dieu du Nouveau Monde; voyez la loyauté semi évangélique du protestantisme du nord et l’attentisme de la Russie et de la Chine, de l’autre; voyez l’angoisse des peuples du monde entier face aux exploits du ciel des Hébreux . Comment domicilier Jahvé en Judée et donner le pain de son ciel à manger à un Dieu sans domicile fixe?

8 – Où faire passer la frontière entre la théologie et la politique ?

Qu’est-ce donc que le « pain du ciel » des mystiques et dans quel four faire monter ce pain-là ? Pour l’apprendre, observons pourquoi Israël se plaint si fort de ce que les F15 se trouvent dotés de missiles à longue portée et de haute précision. Tel-Aviv sue sang et eau à rendre crédible l’intention de l’Arabie saoudite de pulvériser le peuple juif. Impossible d’expliquer cette diplomatie théologique à la lumière des interprétations de la science historique traditionnelle: il faudra, disais-je, en passer par une anthropologie critique entièrement inédite, dont la méthode intronisera une mutation de la notion même de raison au sein de la science historique traditionnelle. Celle-ci s’imagine que Clio pourra, longtemps encore, se passer allègrement d’une science psychologique et généalogique de la « rationalité » des guerres de religion du XVIe siècle, pour ne citer que cet exemple.

Et pourtant, si l’on ignore allègrement les raisons anthropologiques pour lesquelles la rationalité théologique de la foi catholique, entend faire consommer aux fidèles la chair crue et ingurgiter le sang frais de la victime qu’elle est censée immoler physiquement le dimanche sur ses autels, on ignorera plus joyeusement encore les raisons psychobiologiques pour lesquelles la science historique moderne se garde bien de scanner les entrailles du messianisme sanglant que les peuples hébreu et chrétien se partagent depuis deux millénaires. Par bonheur, si je puis dire, cette histoire ne peut s’écrire qu’à l’école d’une anthropologie critique qui mettra la civilisation bicéphale dite des droits de l’homme face à la schizoïdie de sa prétendue sainteté.

Car enfin, Israël parvient, comme il est dit plus haut, à rendre crédible le scénario absurde et barbare selon lequel l’Arabie Saoudite serait le successeur attitré de Pompée et de Titus. Où le Président des Etats-Unis a-t-il la tête ? Mais qu’on ne s’y trompe pas, l’habillage théologique de l’histoire des glaives n’a jamais fait quitter davantage à Clio les planches du théâtre de l’inexorable qu’à Israël les vêtements religieux de ses relations avec le peuple palestinien. Quelle est donc la clé sacerdotale de ce marché simoniaque? On sait que ce contrat, si doctrinal qu’il paraisse, devra recevoir l’approbation politique des biblistes qui siègent en rangs serrés à la Chambre trans-océane des Représentants du peuple américain. Or, le suffrage de ces derniers n’est pas aussi confessionnel qu’il y paraît: on sait qu’il se trouve entre les mains des groupes de pression dont dispose Israël à Washington et qu’ils y jouissent du même statut que les autres entreprises nationales installées sur le territoire des Etats-Unis – ce qui signifie qu’ils s’y trouvent régis par un droit américain fondé, en l’espèce, sur un encouragement légalement adressé aux citoyens juifs du pays de se mettre au service des intérêts d’un Etat étranger, situation à laquelle le sénateur Robert Kennedy a tenté de faire obstacle au cours d’un combat inutile de plus de vingt ans .

Aussi, les « inquiétudes » ou les « craintes » militaires simulées de Tel Aviv ont-elles été « apaisées » par l’engagement solennel de l’administration américaine de livrer à l’Arabie Saoudite des F15 sous-équipés, donc privés du système « Standoff » qui seul permet des tirs précis et à longue portée. Le contrat ainsi amputé et devenu humiliant pour l’acheteur comme pour le vendeur portera sur quatre-vingt quatre appareils pour une durée de dix ans et d’un montant de trente milliards de dollars.

9 – Un Graal à plusieurs convois

Mais pourquoi seule l’anthropologie historique et critique fournit-elle la problématique et la méthodologie susceptibles de rendre scientifiquement intelligible un marché des sacrifices simulés? Certes, on comprend que l’industrie américaine de l’armement nourrisse l’ambition commerciale légitime d’étendre la vente de sa technologie au Moyen Orient. Mais si vous n’introduisez pas des paramètres messianiques et bibliques, donc une axiomatique de l’irréel dans la problématique mondiale du savoir historique bi-dimensionnel d’aujourd’hui, jamais vous n’expliquerez pourquoi Washington feint d’exorciser un autre danger encore, non moins biblique que le précédent, celui que les descendants de Cyrus et d’Artaxerxès sont désormais censés faire courir à la planète entière des marchands . Car ces déments sont prêts, n’est-ce pas, à recevoir l’ordre exprès d’Allah de se ruer tête baissée et sans armes contre un Etat nucléaire, Israël, lequel dispose, lui, de plus de deux cents ogives hautement exterminatrices. Dès le mois prochain, le Congrès autorisera donc la Maison Blanche à livrer des appareils sous-armés et dévalués à l’Arabie Saoudite en échange de la promesse secrète d’Israël de ne pas faire voter par le Congrès l’interdiction pure et simple de la vente des armes sus-dites, ce qui irait de surcroît, à l’encontre des intérêts électoraux d’un Président des Etats-Unis réduit au rang d’otage pitoyable d’un Etat étranger aux yeux du monde entier. (voir préambule)

On voit que le mythe biblique est un fusil à plusieurs canons: il faut que les Etats arabes soient perçus comme des Pompée potentiels afin que l’Iran, le Hamas, Gaza, Damas, Beyrouth et même Moscou soient censés menacer Israël dans sa survie – sinon, la planète entière des mythes sacrés actuels cesserait de se trouver dirigée par Jahvé. C’est cela qui contraindra une politologie mondiale devenue anachronique à conquérir les instruments de la connaissance rationnelle d’une humanité au cerveau onirique – connaissance sans laquelle l’histoire biblique contemporaine deviendrait la tragédie pleine de bruit et de fureur racontée par un idiot qu’évoquait un anthropologue célèbre de la fin du XVIe siècle et du début du XVIIe siècle.

Afin de ne pas fatiguer l’attention du lecteur par un texte trop long, je poursuivrai la semaine prochaine l’analyse anthropologique du destin mi-terrestre, mi-mythologique d’Israël, afin de mettre davantage en évidence la mutation des méthodes de la science historique classique qu’appelle la mise en évidence planétaire de la dimension schizoïde d’une espèce livrée à ses dieux bicéphales.

Manuel de Diéguez, le 17 octobre 2010

Manuel de Diéguez est un philosophe français d’origine latino-américaine et suisse.

Visiter le site de Manuel Diéguez [2]

 


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vendredi, 15 octobre 2010

Comment l'administration Bush a fait payer à Chirac le prix de sa "trahison"

Le journaliste Vincent Nouzille raconte comment l'administration Bush a fait payer à Chirac le prix de sa « trahison »

Un soldat américain couvre le visage d'une statut de Saddam Hussein à Bagdad, en avril 2003 (Goran Tomasevic/Reuters)

 

Dans un livre à paraître cette semaine, le journaliste Vincent Nouzille raconte par le menu la manière dont l'administration Bush a fait payer 5,5 milliards de dollars (4 milliard d'euros) à la France comme prix de sa « trahison » lors du déclenchement de la guerre en Irak en 2003.

Une somme lâchée sous pression par Jacques Chirac lors de la renégociation de la dette irakienne, alors qu'il l'avait initialement refusée. Un prix tenu quasiment secret et qui n'a fait aucun débat en France. Rue89 publie les bonnes feuilles du livre « Dans le secret des présidents ».

 


Ex: http://www.rue89.com/

La Maison Blanche demeure, en cette fin de 2003, très rancunière. George Bush souhaite même mettre la France à l'amende de manière sonnante et trébuchante. Car l'Irak coûte 70 milliards de dollars [50 milliards d'euros, ndlr] par an au budget américain.

Washington ne veut pas être seul à supporter le coût des opérations militaires et de la reconstruction. Paris devrait partager le fardeau, ne serait-ce que pour compenser son refus d'envoyer des troupes aux côtés des GI's.

Durant quelques mois, la Maison Blanche va mener une intense campagne de pression sur l'Elysée afin d'obtenir un chèque de Paris. Le plus surprenant, c'est que Jacques Chirac finira par y céder, piétinant ses propres principes, mais sans le crier sur les toits de peur d'être critiqué pour un geste qui coûtera plusieurs milliards d'euros à la France…

Les coulisses de cette victoire de Bush, passée inaperçue, révèlent la force du rouleau compresseur américain. Le président des Etats-Unis commence son harcèlement à l'automne 2003. […]

Les principaux créanciers de Saddam Hussein

A défaut d'obtenir une grosse rallonge financière directe, la Maison Blanche revient à la charge sur un autre dossier économique sensible : celui de la dette irakienne, accumulée depuis des années par le régime de Saddam Hussein. Le montant des impayés, qui correspond à des achats militaires ou civils de la dictature, atteint plus de 120 milliards de dollars, en tenant compte des arriérés d'intérêts. Les principaux créanciers de l'Irak sont le Japon, la Russie, la France et l'Allemagne.

Coïncidence ou non, ces trois derniers pays se sont opposés à l'offensive américaine. La Maison Blanche voit donc un double avantage à obtenir un abandon de créances en faveur de Bagdad : cela permettrait à l'Irak « nouveau » de repartir sur des bases économiques plus saines, sans ce lourd fardeau à rembourser ; et il y aurait un petit parfum de revanche à faire assumer cet effacement de dettes par des pays si peu coopératifs !

[…] Lorsque [l'émissaire américain, ancien secrétaire d'Etat, ndlr] James Baker rencontre Jacques Chirac, le mardi 16 décembre 2003, la position française est plutôt prudente. La France ne souhaite pas faire de cadeau particulier à l'Irak. […] [Baker obtient ensuite de Chirac que la réduction de la dette irakienne soit d'environ 50%, ce qui représente déjà un effort énorme, ndlr.]

George Bush ne se contente pas de la réduction de moitié de la dette irakienne. Il veut obtenir davantage. En mars 2004, à l'occasion d'un coup de téléphone à Jacques Chirac, […] le président américain demande à son homologue français d'« examiner avec la plus grande attention » la lettre qu'il va lui envoyer au sujet de la dette irakienne. La position des Etats-Unis se dévoile rapidement : ils réclament une annulation de 95% de la dette irakienne, autrement dit un effacement quasi-complet de l'ardoise !

Le coup de pouce du FMI à la Maison Blanche

[…] Au fil des semaines, les négociateurs américains gagnent du terrain. Ils obtiennent des promesses d'appui de leurs « bons » alliés, comme le Royaume-Uni, le Canada, l'Italie et le Japon. Le Fonds monétaire international (FMI) apporte un peu d'eau à leur moulin, estimant qu'une annulation de 70% à 80% serait nécessaire pour que l'Irak puisse tourner la page du passé.

Ce chiffrage du FMI suscite des doutes à Paris. Une autre étude de la Banque mondiale et de l'ONU, publiée à l'automne 2003, évoquait plutôt un besoin d'annulation à hauteur de 33%. Du coup, les exigences de la Maison Blanche sont jugées totalement excessives.

Dans une note au Président Chirac, avant le dîner qui doit avoir lieu à l'Elysée, le 5 juin 2004, en l'honneur de George Bush venu commémorer le D-Day, ses conseillers estiment que la requête américaine serait « coûteuse pour la France », qui est le troisième créancier de l'Irak, avec 6 milliards de dollars d'impayés. Surtout, selon eux, elle pose fondamentalement des « problèmes de principe » :

« Nous ne pouvons pas moralement accorder à l'Irak, un pays potentiellement riche, peu peuplé et qui dispose des deuxièmes réserves de pétrole du monde, des annulations comparables à celles dont bénéficient les pays les plus pauvres et les plus endettés de la planète (80% à 90%).

Alors qu'en termes d'effort, nous allons déjà faire en six mois [pour l'Irak] ce que nous avons mis plus de dix ans à faire [pour les 37 pays éligibles au plan d'aide exceptionnel de pays pauvres, appelé PPTE]. »

 

Bref, il n'est pas question d'aller au-delà des 50% promis à James Baker ! Ce cadeau est déjà disproportionné comparé aux autres pays.

Les conseillers recommandent à Jacques Chirac de tenir bon devant Bush. […]

La discussion s'achève sur un constat de désaccord. […] Pourtant, soumis aux charges répétées de Washington et de ses alliés, l'Elysée va craquer.

« La pression américaine était énorme »

La dernière session de négociations se déroule à Bercy durant trois journées complètes, en novembre 2004. L'ambiance est à couper au couteau. […]

« La pression américaine était énorme. Je n'ai jamais vécu une négociation aussi unilatérale que celle-là », témoigne Jean-Pierre Jouyet, qui présidait les séances.

Au bout de trois jours, le front des créanciers se fissure. Jean-Pierre Jouyet poursuit :

« J'ai appelé Maurice Gourdault-Montagne [le conseiller diplomatique de l'Elysée, ndlr], qui était avec le Président Chirac à un Conseil européen, et je lui ai décrit la situation : les Allemands venaient de lâcher subitement, sans concertation préalable, probablement pour se faire bien voir des Américains. J'ai donc expliqué que nous pouvions continuer de tenir tête, mais que nous étions seuls. Gourdault-Montagne m'a répondu qu'il allait en parler au Président Chirac.

Il m'a ensuite rappelé pour me dire que le Président avait décidé de ne plus s'opposer au consensus. J'ai donc appliqué ces instructions de l'Elysée.

Nous n'aurions sans doute pas pu récupérer grand-chose de nos créances, mais je ne suis pas sorti très content de cette négociation, c'est le moins que l'on puisse dire. »

 

Curieusement, Nicolas Sarkozy, qui s'apprête à quitter ses fonctions de ministre de l'Economie et des Finances pour la présidence de l'UMP, n'intervient pas dans cette discussion, qui concerne pourtant l'argent de l'Etat. Il laisse son directeur du Trésor, Jean-Pierre Jouyet, en prise directe avec l'Elysée.

Les consignes de Chirac conduisent à la conclusion d'un accord portant sur une annulation, par étapes, de 80% de la dette irakienne, soit un effacement total de plus de 30 milliards de dollars pour la vingtaine de pays créanciers concernés : c'est exactement ce que l'Elysée jugeait inacceptable quelques mois auparavant !

L'accord est officialisé par le Club de Paris le 21 novembre 2004, à quelques semaines des premières élections en Irak.

« Nous ne l'avons pas fait pour Bush, mais pour les Irakiens. C'était d'ailleurs le tarif à payer par tous les créanciers », plaide Jean-David Levitte, qui a suivi le dossier comme ambassadeur à Washington.

Le cadeau fait à Bush

D'autres acteurs ont une interprétation différente de ce retournement français. Alors que George Bush vient juste d'être réélu pour un second mandat, Jacques Chirac a décidé, comme le chancelier allemand Schröder, cette concession majeure afin de se rabibocher avec la Maison Blanche. […]

Devant une délégation de sénateurs américains, qu'il recevra le 31 janvier 2005 à l'Elysée, le président de la République confirmera ouvertement avoir cédé à la pression américaine : « A la demande des Etats-Unis, notamment suite à un appel téléphonique du président Bush, la France a accepté d'annuler la quasi-totalité de la dette irakienne », dira-t-il.

Pour éviter une polémique sur ce « cadeau fait à Bush », l'Elysée ne se vantera pas publiquement de son reniement et se gardera de toute communication trop visible sur cette annulation de créances, accordée sans que la France bénéficie, en retour, d'une véritable contrepartie économique.

Le ministère des Affaires étrangères se contentera, à la fin de 2005, d'un discret communiqué annonçant que la France et l'Irak ont signé un accord bilatéral relatif au traitement de la dette irakienne dans le cadre de la mise en œuvre des accords du Club de Paris. Un joli habillage pour une décision hors normes.

Les conseillers de l'Elysée reconnaissent d'ailleurs qu'il s'agit d'une largesse française particulièrement onéreuse. Préparant, au début de 2005, des entretiens de Jacques Chirac avec George Bush et sa secrétaire d'Etat Condoleezza Rice, ils listent les initiatives prises par l'Elysée pour prouver ses bonnes intentions diplomatiques à l'égard de Washington sur l'Irak. On peut y lire notamment :

« Présidente du Club de Paris, la France a fait aboutir une solution audacieuse, généreuse et exceptionnelle du problème de la dette (80% en trois étapes). Cet allègement signifie pour nous une annulation de créances de 5,5 milliards de dollars. »

 

5,5 milliards de dollars ! Il s'agit d'un chèque colossal, puisqu'il représente plus de 4 milliards d'euros, soit dix fois le coût annuel des forces françaises en Afghanistan. Ou 80 fois l'annulation de la dette consentie à Haïti après le tremblement de terre de janvier 2010…

Bush a bien réussi à faire payer Chirac.

Très cher.

► Vincent Nouzille, « Dans le secret des présidents », éd. Fayard/Les Liens qui Libèrent, parution 13 octobre 2010, 583 pages, 24,50 euros.

Photo : un soldat américain couvre le visage d'une statut de Saddam Hussein avec le drapeau américain à Bagdad, en avril 2003 (Goran Tomasevic/Reuters)

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

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Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

Ex: http://www.massimofini.it/

Testo integrale dell'articolo pubblicato sul Fatto il 12 ottobre 2010 e ridotto per ragioni di spazio:

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo «Che cosa ci stiamo a fare lì?». Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgaziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono «che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Omar, era contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricaute sui civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la simpatia e la collaborazione della popolaione sul cui appoggio si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani, nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita "vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi, bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera soprattutto degli americani ma anche, quando è il caso, degli altri contingenti?

Nel 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in funzione antisovietica. Ma Bin Laden cotituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando ne 1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah Omar, attraverso il suo numero due Waatki inviato appositamente a Washington dove incontrò due volte il presidente americano, si disse d'accordo purchè la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi, ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno fa, ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quella Jihan internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Omar, come scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo, giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i Talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Afghanistan doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla tradizione di quella gente come invece lo  per noi. In ogni caso la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del Mullah Omar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro per farne carne di porco. Omar, a capo di altri "enfants de pays", raggiunse il luogo, liberò le ragaze, sconfisse i banditi e ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese). Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in campio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere. Una decisione così efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda il prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non gli fosse andata più bene vrebber rovesciato il governo del Mullah Omar perchè in Afghanistan non c'è uomo che non posssieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le stime dell'Onu non sono credibili perchè una recente inchiesta ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di sopra di ongi sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale.

Ma c'è di peggio. Armando e addetrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è che il buon senso degli afgani prevalga. Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "soluzione americana". E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe sovietiche che occuparono l'Afghanistan: «Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio, solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei popoli.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell' "armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10 ottobre: perché la lealtà all' "amico americano" ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di pretigio. Gli spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno, che portare la democrazia in Afghanistan, se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per qusta guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situzioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Massimo Fini

dimanche, 20 juin 2010

L'occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov'ev

L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]





Se n’è andato, alla fine, nel 2006, il terribile vecchio, all’età di ottantatre anni.
Filosofo prestigioso, specializzato in questioni di logica; matematico geniale; romanziere amaro ed eccentrico; critico implacabile di tutto e di tutti: del comunismo e del post-comunismo; della Russia e dell’Occidente; del totalitarismo e della democrazia; uomo contro per eccellenza, ostinato, implacabile accusatore e irriducibile derisore di ogni conformismo, di ogni pigrizia mentale, di ogni acquiescenza al potere, qualunque esso sia: tale è stato Aleksandr Zinov’ev. Se l’è portato via, ancora indomito, un tumore al cervello; ma non se n’è andato in punta di piedi, bensì ruggendo e irridendo tutte le ipocrisie e tutte le forme di demagogia.
In Occidente non se ne sono accorti in molti, perché il personaggio era talmente scomodo che si è fatto di tutto per non propagarne li pericoloso messaggio: aveva attaccato Stalin e criticato Gorbaciov, accusato Eltsin e denunciato Putin; aveva, soprattutto, messo in guardia contro la ridicola pretesa occidentale (Fukuyama e soci) che, con la caduta dell’Unione Sovietica, anche il comunismo fosse finito per sempre. «Ritornerà - aveva detto - magari in forme inusuali ed inedite»; e non già perché ne avesse nostalgia, lui che fin dal 1976 era stato costretto all’esilio a causa della pubblicazione, in Germania, del suo romanzo «Cime abissali», ma che pure, davanti alle brutture del post-comunismo in Russia, aveva fatto il tifo per Gennadij Zjuganov, leader del vecchio Partito Comunista russo.
Gli avevano tolto tutti gli incarichi universitari; lo avevano espulso dalle istituzioni sovietiche; gli avevamo perfino strappato dal petto le decorazioni al valor militare guadagnate durante la seconda guerra mondiale (era stato un valoroso pilota di aviazione); ma non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Poi, però, una volta caduta l’Unione Sovietica (come lui aveva previsto, allorché aveva criticato la “katastrojka” gorbacioviana), l’Occidente non aveva più avuto bisogno di lui; di lui che si era mostrato subito estremamente critico verso le forme sgangherate e mafiose del neocapitalismo proliferate in Russia sulle ceneri dell’ideologia marxista-leninista e che aveva denunciato come la sua patria fosse divenuta una semplice “colonia” dell’Occidente. Di lui che, soprattutto, si era mostrato critico implacabile delle “magnifiche sorti e progressive” promesse all’intera umanità dai fautori della globalizzazione.
Per lui, c’era qualcosa di ancor peggiore, sociologicamente parlando, dell’”uomo comunista”, ed era l’”homo sovieticus”: un tipo umano che voleva unire l’ozio e il parassitismo sociale, tipico della vecchia Unione Sovietica, con lo sfrenato desiderio del “tutto e subito” della Russia eltsiniana e putiniana, dominata da innominabili cricche e da squali della finanza e da avventurieri al caviale, mentre la massa del popolo faceva ancora le code nei negozi e non era in grado di pagarsi l’affitto di una abitazione decente.
Non che il mito del “popolo” facesse molta presa in lui, critico corrosivo ed implacabile demistificatore di tutte le ideologie umanitarie e progressiste della modernità; la stessa “umanità” era, per lui, una delle più subdole e delle più esiziali invenzioni dell’Occidente.
Vittorio Strada, in un celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1997, così riassumeva le sue idee in proposito:

«C’era una volta l’Umanità… Inventata dagli stoici, spiritualizzata dal cristianesimo, secolarizzata dall’illuminismo, l’umanità, non come specie biologica classificata tra i mammiferi, ma come entità culturale inclassificabile tra gli organismi, è giunta al suo più alto grado di sviluppo o, meglio, di progresso,che ne segna però il tramonto, già iniziato in questa fine di secolo. […]  Iniziato con  la lieta novella che il nostro è forse “l’ultimo secolo umano”, cui seguiranno secoli di “storia superumana o postumana”questo “romanzo sociofuturologico” [ossia «L’umanaio globale»] non è tutto tenebroso, poiché a rischiararlo qua e là intervengono squarci di nostalgiche rievocazioni del comunismo sovietico che Zinov’ev criticò non per abbatterlo ma per salvarlo. Un comunismo che egli, in una variante mostruosamente peggiorata perché totalmente razionalizzata, ritrova proprio nell’umanaio occidentale, del quale la Russia, disse crucciato Zinov’ev, è diventata una colonia…»

Ora, di “occidentalizzazione” del mondo ci aveva già parlato Serge Latouche, ma con riferimento pressoché esclusivo ai paesi del Terzo e Quarto Mondo; mentre il punto di vista di Zinov’ev è molto più interessante, perché è quello di un russo che ha visto la sua patria “occidentalizzarsi” a tappe forzate, nel giro di pochi anni o pochissimi decenni; benché il processo fosse iniziato già da alcuni secoli e si fosse accelerato con l’azione riformatrice dello zar Pietro il Grande, per non parlare della “grande” Caterina, la sovrana illuminata…
Il punto di vista di Zin’ov è più ampio e più penetrante: da russo che ha visto e vissuto il traumatico passaggio dal totalitarismo sovietico, burocratico e inefficiente, al capitalismo d’assalto e semi-mafioso, ma con le stesse classi dirigenti gattopardescamente traghettate dall’uno all’altro, egli ci aiuta ad osservare il fenomeno dell’occidentalizzazione non solo nella sua dimensione coloniale o semicoloniale, ma anche in quella, più sottile e insidiosa, della cooptazione ideologica in guanti di velluto, basata sulla seduzione consumista e sulla filosofia cialtrona e irresponsabile del “tutto e subito”.
Il grande Dostojevskij lo aveva previsto o quantomeno paventato: occidentalizzandosi, la Russia avrebbe perduto la propria anima in cambio di un piatto di lenticchie. Ma Zinov’ev non ha più nemmeno l’illusione della “santa Russia”, l’illusione di quella arcaica e patriarcale Rus’ in cui ancora Sergej Esenin, ai primi del Novecento, aveva creduto, o voluto credere, con tutto il suo palpitante e disperato amore di poeta. Ciò rende l’analisi di Zinov’ev amara, impietosa, ma lucidissima e difficilmente confutabile.
Citiamo un passaggio chiave da «L’umanaio globale» (titolo originale: «Globalnyj Celovejnik», Mosca, Tsentrpoligraf, 1997; traduzione italiana di Alexei Hazov e Anna Cau, Milano, Spirali, 1998, pp. 167-173):

«I paesi occidentali si sono strutturati storicamente in “stati nazionali”, come organizzazioni sociali di livello organizzativo relativamente superiore al resto dell’umanità, come particolare “sovrastruttura” superiore alle altre.  Essi hanno sviluppato al loro interno  forze e capacità dio conquista  e di dominio sugli altri popoli.  E il concorso delle circostanze storiche ha dato loro la possibilità  di sfruttare il proprio vantaggio.  Io on ravviso in questo niente di amorale e di criminale.  I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
L’aspirazione dei paesi occidentali a dominare il mondo  circostante non è soltanto frutto di malafede o di qualche loro particolare ambito. È condizionata dalle leggi dell’essere sociale.  L’influsso esercitato sull’evoluzione dell’umanità è stato contraddittorio. È stata una possente fonte di progresso. Ma è stata anche una non meno possente fonte di sciagure.  Ha prodotto innumerevoli guerre sanguinose, comprese due guerre mondiali “calde” e una “fredda”. Non solo non è scomparsa  col tempo, ma si è rafforzata.  Ha assunto nuove forme. Tra l’altro, la conquista di altri paesi e popoli è diventata una condizione indispensabile  per la sopravivenza dei paesi e dei popoli dell’Occidente. La tragedia della grande storia non consiste nel fatto che qualche uomo  malvagio, rapace e stupido spinga  l’umanità nella direzione sbagliata, ma nel fatto che l’umanità  è costretta a muoversi in questa direzione nonostante la volontà e i desideri di uomini buoni, generosi e intelligenti.
Con l’ovestismo l’Occidente ha sviluppato al suo interno un metabolismo incredibilmente intenso. Ha bisogno di risorse naturali, di mercati di sbocco,  di sfere d’investimento dei capitali, di forza lavoro a basso costo, di fonti di energia, ecc., in misura sempre crescente. Ma le possibilità sono limitate. E compaiono nuovi concorrenti,  che limitano ancora di più queste possibilità fino a minacciare l’esistenza  e il benessere dell’Occidente. La spinta dell’Occidente  al dominio mondiale, qualsiasi veste ideologica indossi,  è il bisogno vitale di conservare le posizioni raggiunte e sopravvivere in condizioni storiche rischiose.  L’intero sviluppo storico induce l’Occidente a perseguire un ordine mondiale  rispondente ai suoi interessi. E ha le forze per farlo. Durante la guerra fredda l’Occidente aveva elaborato una strategia politica, volta a stabilire un nuovo ordine conforme alla nuova situazione mondiale. Io l’ho denominata “occidentalizzazione” (“wetsernizzazione”).L’occidentalizzazione è l’aspirazione del’Occidente a rendere gli altri paesi simili a sé per ordinamento sociale, sistema economico e politico, ideologia, psicologia e cultura.  Dal punto di vista ideologico viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente, che ha la sua massima espressione nello sviluppo ella civiltà e nella concentrazione di tutte le virtù concepibili.  Noi siamo liberi, ricchi e felici - dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare - e vogliamo aiutarvi  a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra.
Lo scopo dell’occidentalizzazione è assorbire gli altri paesi nella propria sfera d’influenza, , di potere e di sfruttamento. Assorbirli non con il ruolo di partner a pari potere e diritto - è praticamente impossibile vista la disparità di fatto delle forze -, ma con quello che l’Occidente ritiene più vantaggioso per sé. Tale ruolo può soddisfare una parte di cittadini dei paesi occidentalizzati, sia oppure per breve tempo. Ma nel complesso, è un ruolo di secondo piano e ausiliario. L’Occidente ha una potenza tale da non consentire la comparsa di paesi di tipo occidentale da esso indipendenti., che minacciano il suo dominio su una parte del pianeta conquistata e, in prospettiva, sull’intero pianeta.
L’occidentalizzazione di un dato paese non è solamente un’influenza dell’occidente su di esso, non è semplicemente l’imitazione di singoli fenomeni del modo di vita occidentale, non significa utilizzare i valori prodotti dall’Occidente, non è la possibilità di viaggiare in Occidente, ecc., ma è  qualcosa di molto più profondo e importante per esso.  È la ristrutturazione delle sue stesse fondamenta, della sua organizzazione sociale, del sistema di governo dell’ideologia, della mentalità della popolazione. Queste trasformazioni non sono fini a se stese, ma sono un mezzo per ottenere  quanto abbiamo detto prima.
L’occidentalizzazione non esclude la volontà dei paesi occidentalizzati, e neanche il desiderio, di percorrere questa via. Proprio a questo aspira l’Occidente: che la vittima predestinata si offra da sola al sacrificio, e che provi, per questo, anche riconoscenza. A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è unì’operazione attiva dell’Occidente, che non esclude neppure la violenza. La volontà da parte dei paesi occidentalizzabili non significa che tutta la loro popolazione accetti già questo orientamento della propria evoluzione. All’interno vi sono categorie in lotta  a favore o contro l’occidentalizzazione. L’occidentalizzazione non sempre riesce a spuntarla, come, ad  esempio,  è successo in Iran e in Vietnam.
L’intera attività di liberazione e di  civilizzazione dell’Occidente ha avuto in passato un unico scopo: la conquista del mondo per sé e non per gli altri, l’assoggettamento del pianeta ai propri interessi  e non a quelli altrui. Ha trasformato tutto ciò che lo circonda, perché gli stessi paesi occidentali potessero viverci comodamente. Quando qualcuno ha cercato di ostacolarlo, non ha avuto scrupoli a ricorrere a qualsiasi mezzo.  Il percorso storico del mondo è stato costellato di violenza, truffa e rappresaglia. Adesso le condizioni sono cambiate. L’Occidente è ormai diverso.  Ha mutato la propria strategia e tattica. La sostanza però  non è cambiata. Del resto non può essere diversamente, perché è una legge della natura. Ora, l’Occidente propugna la soluzione pacifica dei problemi, perché quella militare è pericolosa, e i metodi pacifici  gli creano una reputazione di arbitro supremo e giusto. Tali metodi pacifici hanno una particolarità: sono pacifico-coercitivi.  L’Occidente ha una potenza economica, propagandistica ed economica sufficiente a costringere i recalcitranti con metodi pacifici a fare ciò che gli serve. L’esperienza dimostra  che i mezzi pacifici possono essere integrati da quelli militari. Per questo motivo, qualunque sia la fase iniziale dell’occidentalizzazione di questo o quel paese, si evolverà comunque in un’occidentalizzazione forzata.
Per operare l’occidentalizzazione è stata messa a punto una tattica speciale. Vengono utilizzati i seguenti provvedimenti. Gettare discredito su tutti i principali attributi dell’ordinamento sociale del paese da occidentalizzare. Destabilizzarlo. Favorire la crisi dell’economia, dell’apparato statale e dell’ideologia. Dividere la popolazione in gruppi reciprocamente ostili, disgregarla, sostenere qualsiasi movimento d’opposizione, corrompere l’élite intellettuale e gli strati privilegiati. Contemporaneamente, propagandare i pregi della vita occidentale. Incitare la popolazione a invidiare l’abbondanza occidentale.  Creare l’illusione che quest’abbondanza sia raggiungibile anche da esso in brevissimo tempo se si porrà sulla via  delle trasformazioni seguendo i modelli occidentali.  Contagiarlo con i vizi della società occidentale, presentandoli  come manifestazioni di autentica liberà individuale. Aiutare economicamente il paese solo nella misura in cui ciò favorisce la distruzione della sua economia e la rende dipendente dall’Occidente,m mentre l’Occidente appare come suo disinteressato salvatore dai mali del modello di vita recedente.
L’occidentalizzazione è una forma particolare di colonialismo, in seguito al quale nel paese colonizzato si crea un modello sociopolitico di “democrazia coloniale” (secondo la mia terminologia),. Per alcuni tratti è la continuazione della vecchia strategia coloniale dei paesi occidentali, soprattutto della Gran Bretagna. Ma nel complesso è un uovo fenomeno, tipico del mondo contemporaneo. La sua paternità può essere attribuita, a ragion veduta, agli Usa.
La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi  colonizzati, in virtù  delle condizioni  interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico.  È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta  dai metodi del colonialismo. Inoltre,  il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo  i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.
Il paese avulso dal precedente sistema di rapporti   mantiene una parvenza di sovranità. Con esso si stabiliscono rapporti di partenariato apparentemente alla pari.  Gran parte della popolazione mantiene alcuni aspetti del modo di vivere precedente.  Si creano oasi economiche di modello quasi occidentale., sotto il controllo delle banche e delle compagnie occidentali,  nonché imprese  esclusivamente occidentali o miste. Ho usato la parola “quasi”, poiché queste oasi economiche  sono solo un’imitazione dell’economia occidentale moderna.
Al paese vengono imposti attributi esteriori  del sistema politico occidentale: multipartitismo,  parlamento, libere elezioni,  presidente, ecc. In realtà sono solo la copertura  di un sistema affatto democratico, ma piuttosto dittatoriale (“autoritario”). Lo sfruttamento del paese nell’interesse dell’Occidente  avviene con l’aiuto di una parte irrilevante della popolazione, che si nutre di questa funzione. Questi uomini hanno un elevato livello di vita, paragonabile a quello dei più ricchi strati dell’Occidente.
Il paese da colonizzare viene ridotto in uno stato tale che non può più funzionare autonomamente. Viene poi smilitarizzato fino a non essere più assolutamente in grado di opporre resistenza. Le forze armate servono solo a contenere le proteste della popolazione e a circoscrivere i tentativi dell’opposizione di cambiare lo status quo.
La cultura nazionale scade a un livello pietoso. Il suo posto viene occupato dai campioni più primitivi di cultura, o meglio, di pseudocultura occidentale. Alle masse vengono concessi: un surrogato della democrazia sotto forma  di libertinaggio, una blanda sorveglianza  da parte delle autorità, accesso ai divertimenti, un sistema di valori che affranca gli uomini dalla necessità di controllarsi e dalla morale.»

Come si vede, la posizione di Zinov’ev non è moralistica, poiché egli sgombra li terreno della storia dalla morale fin dall’inizio e sostiene (un residuo dell’hegelismo e dello stesso marxismo?) che la direzione della storia è quella che è, e pertanto che sarebbe vano deprecare certe conseguenze, una volta compresa la “necessità” delle premesse.
Ciò non toglie che la sua analisi sia lucida, penetrante, quasi spietata. Zinov’ev è un formidabile demistificatore: leggendo le sue pagine, non si può fare a meno di correre col pensiero all’Afghanistan, all’Iran, a tutti quei casi nei quali la posta in gioco del conflitto con l’Occidente è, appunto, l’occidentalizzazione, intesa come omologazione totale di quei Paesi ai valori, ai sistemi economici e finanziari, alla mentalità occidentale; ossia, allo scardinamento irreparabile dei precedenti sistemi social, economici e culturali, attuato nell’interesse di una parte minoritaria della popolazione e a danno della maggioranza di essa.
La democrazia, il parlamentarismo, non sono che specchietti per le allodole. Oppure qualcuno pensa davvero che il corrotto Kharzai sia preferibile al mullah Omar, non per l’egoistico tornaconto dell’Occidente, ma per gli interessi reali del popolo afghano? E che dire del tam-tam mediatico scatenato dall’Occidente intorno all’opposizione interna iraniana, spingendo migliaia di studenti a farsi massacrare dai Guardiani della Rivoluzione di Teheran, nell’interesse e col denaro dei servizi segreti occidentali, americani in primis?
C’è tuttavia una precisazione da fare, secondo noi, riguardo alle riflessioni sviluppate da Zinov’ev in merito al termine e al concetto stesso di “occidentalizzazione”.
Da buon russo, Zinov’ev considera “Occidente” tutto ciò che sta ad ovest della Russia, a cominciare dalla Polonia; e, d’accordo con la terminologia invalsa già da alcuni decenni, non distingue affatto tra Europa centro-occidentale e l’entità Stati Uniti-Canada; anzi, è fuori di dubbio che egli vi includa mentalmente anche l’Australia e la Nuova Zelanda.
Questa, però, è una grossolana semplificazione. Per un Italiano, un Francese o un Tedesco, “Occidente” è un termine ambiguo, che accomuna come se fossero omogenee, delle parti profondamente differenziate. Proponiamo pertanto che non si parli di “occidentalizzazione” del mondo, ma di “americanizzazione” : processo che è iniziato durante la prima guerra mondiale e che ha ricevuto la spinta decisiva durante la seconda, per poi proseguire “a tappeto” nella seconda metà del Novecento, grazie non solo al Piano Marshall, ma anche a Hollywood, al “blues”, al “jazz”, al “rock and roll”, alla televisione, alla pubblicità, a Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, alla bomba atomica, alla Coca-Cola, al chewing-gum, alla conquista della Luna, alla “gioventù bruciata”, al mito scintillante di Manhattan e di Las Vegas, alla rivolta di Berkeley.
L’Italia, per esempio: cuore della civiltà europea per almeno tre volte - con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e con il Rinascimento - non è diventata “Occidente” se non a partire dalla seconda guerra mondiale: prima con i devastanti bombardamenti arerei dei “liberatori” criminali, nel 1943-45; poi con il pane bianco, le sigarette e i dollari “generosamente” profusi dagli Usa per la ricostruzione; infine con il mito del “boom” economico e la distruzione della civiltà contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.
Lo schema è sempre lo stesso: prima la seduzione culturale dell’american way of life, della musica leggera, del cinema (come è avvenuto tra le due guerre); poi l’attacco armato, brutale, spietato, scientificamente distruttivo; infine, di nuovo, l’invasione culturale, resa ancor più irresistibile dall’alone di gloria che sempre circonfonde i vincitori di turno. È lo stesso schema che abbiamo visto in atto nell’Afghanistan, dopo il 2001: come gli Afghani, anche noi abbiamo sperimentato i tre tempi: seduzione culturale; guerra e bombardamenti; invasione economico-finanziaria e nuova, definitiva ondata culturale.
Sarebbe ora di distinguere fra “Occidente” ed “Europa”. L’Europa, come giustamente affermava De Gaulle, va dall’Atlantico agli Urali. Comprende la Russia (senza la parte asiatica), di certo non comprende gli Stati Uniti e il Canada; a nostro avviso, inoltre, comprende solo in parte la Gran Bretagna. Il Canale della Manica è molto più largo di quel che non dica la geografia: fin dai tempi di Elisabetta Tudor, anzi fin dai tempi della Guerra dei Cent’Anni, per gli Inglesi l’Europa è “il continente”, una trascurabile appendice della loro inimitabile isola; per loro (ed hanno perfettamente ragione), gli Stati Uniti sono molto più vicini della Francia o dell’Olanda, in tutti i sensi; per non parlare dell’Ungheria, della Svezia o della Russia.
Loro guidano a sinistra; non si sentono veramente europei, ma isolani; l’Europa è quel continente che hanno sempre cercato di tenere diviso, indebolito, pieno di rancori, per poterlo meglio dominare finanziariamente ed economicamente.
Quando non ci sono più riusciti con le sole loro forze, a partire dal 1917, hanno chiesto aiuto ai loro nipotini americani.
Anche noi siamo stati occidentalizzati, caro Zinov’ev, nel senso di americanizzati: col bastione e con la carota; e anche noi, da ultimo, lo abbiamo fatto con zelo, con entusiasmo, addirittura con frenesia.


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jeudi, 17 juin 2010

Il vizio oscuro dell'Occidente

Massimo Fini     

[28 apr 2003] :

Il vizio oscuro dell’Occidente

Ex: http://www2.unicatt.it/unicatt/

 

onclesam575757.jpgE se l’11 settembre fosse colpa nostra? Non, come farneticato da qualche fanatico in preda a convulsioni anti-americane, che siano stati gli statunitensi ad abbattere le Twin Towers, magari con la complicità degli ebrei, in una riedizione un po’ stantia del complotto dei «Savi di Sion». No, in altro senso. E cioè nel senso che l’11 settembre sarebbe la «conseguenza logica, e prevedibile, della pretesa dell’Occidente di ridurre a sé l’intero esistente».

 

È quello che cerca di dimostrare Massimo Fini nel suo pamphlet «Il vizio oscuro dell’Occidente», dove sferra un attacco violento alla nostra certezza, manifesta, inconscia, o ipocriticamente celata nel politically correct, di appartenere ad una civiltà superiore. L’accusa all’Occidente è di totalitarismo, di reductio ad unum, ossia di voler cancellare tutto ciò che è «altro da sé», fagocitandolo. «All’occupazione dell’intero pianeta», afferma Fini, avevano già aspirato in passato «il cristianesimo, il colonialismo classico, il marxismo-leninismo». Oggi il tentativo sta riuscendo al modello di sviluppo economico e industriale egemone, di cui gli Stati Uniti incarnano l’essenza ed esprimono la potenza.

 

La matrice di questo impulso totalitario è la convinzione, sincera ma nefasta, di vivere nel «migliore dei mondi possibili», e quindi di «credersi il Bene» senza rendersi conto «di operare eternamente il Male». Perché nel mondo della democrazia, delle libertà, del benessere materiale, ossia nel presunto migliore dei mondi possibili, il luccichio è illusorio. Sentiamo, secondo Fini, la frustrazione «di non essere né felici né sereni, ma divorati dall’angoscia, dalla nevrosi, dalla depressione, dall’anonimia, in misura maggiore del più disperato abitante di un tugurio terzomondista». La causa va ricercata in un sistema incardinato sull’insoddisfazione, sulla competizione e l’invidia, in cui l’uomo è costantemente lanciato verso obiettivi, raggiunti i quali se ne daranno di ulteriori, in una corsa senza fine. Solo in questo modo il sistema economico può mantenere quel dinamismo indispensabile alla sua conservazione. «Come al cinodromo i cani levrieri…inseguono la lepre di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere», così l’uomo insegue la felicità, parola senza corrispettivo reale: l’appagamento e l’armonia interiore sono preclusi.

 

All’origine di questo andamento schizofrenico la centralità, nel sistema di valori occidentale, dell’economia rispetto ai legami affettivi, emotivi, esistenziali. Il prodotto di questa civiltà è il «Consumatore», un essere vivente omologato e privato di un’identità autentica, terminale acefalo di tutto quello che il mercato propina, narcotizzato grazie all’induzione di nuovi bisogni.

 

Questa è per Fini la civiltà «made in West» che, in forza della nostra potenza militare ed economica, andiamo esportando nel mondo, nel tentativo di assimilarlo al nostro sistema di valori, al «migliore dei mondi possibili». Con le buone o le cattive, per ragioni che di volta in volta sono economiche o etiche o umanitarie, ma sempre, alla fine, perché non tolleriamo la diversità. E quale arma, si chiede Fini, è opponibile all’assoluta egemonia militare occidentale (o meglio statunitense), ai tribunali speciali, costituiti ad hoc dai vincitori per processare gli sconfitti, ad un «modello economico pervasivo», il sistema capitalista, in continua espansione? «Di fronte ad un blocco di potere di questa portata, inattaccabile direttamente e frontalmente, quale altra risposta se non il terrorismo, per chi voglia combatterlo con le armi?». Perché quando tale modello avrà inglobato il mondo intero, lo scontro si sposterà al suo interno: «fra i fautori della modernità e le folle deluse, frustrate ed esasperate, che avranno smesso di crederci».

 

Bastano poco più di sessanta pagine a Fini per fustigare con gelida lucidità l’Occidente, i suoi valori e il suo attualizzarsi. Illuminante, eccessivo, provocatorio, inquinato da un relativismo livellante, «Il vizio oscuro dell’Occidente», comunque lo si voglia considerare, è un libricino sferzante e acuto che si può condividere o meno, ma che ha il pregio di non lasciare indifferenti e attizzare il dibattito. Stimolando quel «pensiero che pensi la modernità», la cui assenza è per Fini una delle carenze più gravi del nostro tempo.

Paolo Algisi

mardi, 15 juin 2010

Lancinante rupture avec l'Occident

Lancinante rupture avec l'occident

20090103_DNA017062.jpgUn agréable périple familial dans notre cher Hexagone, — on n'écrit plus la Doulce France, — m'a permis de suivre, l'actualité grâce aux quotidiens régionaux. Et durant la semaine écoulée, ils évoquaient les péripéties consécutives à la participation de quelques Français à l'opération turque de solidarité avec Gaza.

Le mercredi 2 juin, on pouvait lire et partager l'inquiétude du grand quotidien de Touraine "la Nouvelle République". Gros titre en première page : "Gaza : sans nouvelles des huit Français".

Le vendredi 4 juin "La République des Pyrénées" donnait quelques rassurantes précisions : "Six Français de retour". Tout est bien qui finit bien. Il s'agit de cinq membres du "Comité de bienfaisance et de secours aux Palestiniens" (CBSP) : Salah Berbagui, Mounia Cherif et Miloud Zenasni débarqués à Roissy vers 16 h 45 d'un vol de la compagnie Turkish Airlines, en provenance d'Istanbul puis de Ahmed Oumimoun et Mouloud Bouzidi. Le sixième, Thomas Sommer-Houdeville appartient à la "Campagne civile internationale pour la protection du peuple palestinien" (CCIPPP).

Enfin le samedi 5 juin, le grand quotidien de Marseille "La Provence" (1) saluait le retour chez lui et les déclarations de l'enfant du pays Miloud Zenasni. Notons cependant que ces nouvelles, les seules supposées informer le lecteur de ce qui se passe à l'Etranger apparaissent seulement en page 32 rubrique "Méditerranée-Monde", l'Europe n'existant pas.

Ne nous attardons pas aux évaluations d'origine américaine à propos du Comité de bienfaisance et de secours aux Palestiniens (CBSP). La CIA ose prétendre depuis août 2003 que cette organisation doit être considérée comme "entité terroriste" car elle "apporte son soutien au Hamas et forme son réseau de collecte de fonds en Europe".

En même temps, et comme je m'y attendais un peu, ma modeste chronique du 2 juin a déclenché un certain nombre de réactions . Or, elles répondent à ce que je n'ai pas écrit. Comme elles se montrent outrancières, se veulent insultantes et/ou tombent sous le coup de la loi (2), et puisque, par ailleurs, elles n'apportent aucune information je ne les installe pas sur ce site.

Je ne cherche même pas à croiser le fer, renvoyant simplement mes lecteurs habituels à ce que cette chronique exprime effectivement.

Et je me contenterais aujourd'hui de préciser certains contours de mon propos personnel, soulignant d'abord quelques réalités.

Les deux questions les plus importantes à mes yeux, dans cette affaire, ne résultent ni des gens qui hurlent avec les loups, ce que je m'efforce de ne jamais faire, ni de ceux qui se disent "pour" avec la peau des autres mais des faits objectifs nouveaux ou confirmés.

Première constatation : la politique extérieure européenne n'existe toujours pas. Lady Ashton reste strictement inconsistante et on peut croire qu'elle a été choisie pour remplir cette mission, qu'elle accepte. Chacun de nos pays persiste dans un repli matérialiste sur lui-même, faussement confortable. On refuse de voir les dangers qui s'accumulent dans le monde, qui justifieraient le renforcement des moyens et de l'esprit de défense. Nos soldats sont engagés en Afghanistan dans une guerre. Les dirigeants et commentateurs parisiens agréés paraissent s'en moquer. L'héroïsme, le devoir, la croisade n'appartiennent pas à leur registre. Ils évoquent seulement les morts et les blessés, comme s'il s'agissait de statistiques des accidents de la route. Cela dit tout.

Deuxième fait majeur : la rupture de l'alliance turco israélienne.

Il ne s'agit ni de louer ici ni de stigmatiser quiconque. Observons.

Contrairement ce que deux ou trois correspondants semblent croire, je ne cherche d'ailleurs à développer aucun sentiment particulièrement hostile à la Turquie. Militant d'abord pour l'exactitude, je me contente de considérer que l'Europe ne saurait intégrer cette nation dans le projet que représente au départ son "Union" (3). Et d'autre part je préfère la voir s'occuper du Proche Orient que du sud est européen.

Je souligne d'autre part qu'il est un peu extravagant, quand même, qu'à la fois, ce pays occupe illégalement un territoire européen à Chypre, qu'il refuse de reconnaître le génocide arménien, et prétende, en même temps, s'ériger en défenseur du droit des peuples.

Son alliance stratégique avec Israël date des années 1950 et non des années 1990 comme on le lit souvent. À Ankara, les équipes actuellement au pouvoir semblent, depuis 2003, souhaiter la rupture entre les deux vieux partenaires et désirer renforcer leur position aux côtés du monde arabe. La tradition kémaliste cherchait à s'en séparer radicalement. Cela révolutionne donc à terme toute la région. Rappelons que jusqu'ici l'OTAN tenait la Turquie pour son très précieux, loyal et fidèle allié. Les Israéliens se trouveront dans l'obligation de changer, eux aussi, leurs orientations. Ils ne pourront plus faire, comme par le passé, l'apologie systématique outrancière de leur ancien ami désormais infidèle. Sans aller jusqu'à une repentance publique, contraire à leur esprit traditionnel de "peuple à la nuque raide", ils devront peut-être revenir sur certains paradigmes.

Doit-on sérieusement se féliciter que la Turquie aurait "retrouvé une âme", comme le dit un de mes contradicteurs anonymes, plus logique que d'autres ?

Quand d'ailleurs l'aurait-elle perdue ?

Ce qui me passionnerait ce serait de voir l'Europe retrouver son âme !

Et sans recourir à de tels hyperbolismes il s'agit de savoir, pour les citoyens et les contribuables français, à quoi tend concrètement la politique de la France. Lorsque l'on constate les soutiens matériels, les subventions et les encouragements que la république accorde au développement des communautarismes et de l'islamisme sur le territoire de l'Hexagone on se doute bien qu'il ne s'agit pas pour elle de les combattre vraiment sur la scène internationale.

Seuls et sans moyens bien considérables des policiers intelligents et courageux mènent une lutte acharnée et efficace, quoique discrète, contre le terrorisme : combien de temps les "braves gens" dormiront-ils en paix grâce à eux ?

Certes on peut prends acte de la logique idéaliste de ceux qui "voudraient que le monde vive dans la paix et la justice" : on la comprend, mais on ne doit aucunement succomber à ce doux rêve messianique. La paix ne se définit raisonnablement que par l'intervalle séparant deux conflits. Votre serviteur souhaite seulement que l'armée de son pays puisse repousser "les Barbares qui veulent la guerre". J'admire beaucoup, j'ose l'avouer, la pacifique nation suisse de se préparer constamment à affronter des conflits dont, par là même, elle écarte l'hypothèse. Ces Gaulois ont bien retenu la devise de l'Empire romain : "si tu veux la paix, prépare-toi à la guerre".
JG Malliarakis

Apostilles
  1. Ce titre est lui-même issu de l'absorption du "Méridional la France", bien connu des amis de l'Algérie française, par le "Provençal" de Gaston Deferre.
  2. Pour situer la hauteur du débat, je note qu'un correspondant anonyme osant lui-même se présenter comme "Grec", me targue d'être "un juif de Salonique", et non un "Grec orthodoxe". Je dois dire que le trait m'amuse. Il appelle de ma part les précisions suivantes. Les Thessaloniciens israélites portent le plus souvent des noms d'apparence espagnole (Daninos, Moreno, etc.). Ils parlaient autrefois le judéo-espagnol ou ladino. Ils sont considérés comme les descendants des Juifs expulsés d'Espagne en 1492. Leurs ancêtres ont été accueillis et protégés par les Sultans. Aucun Grec n'imaginerait que mon patronyme, typiquement crétois, puisse se rattacher à cette histoire. D'ailleurs je constate que les organismes de bienfaisance juifs qui utilisent volontiers des fichiers onomastiques ne me sollicitent pas. Enfin, quoique partageant chaque année la joie pascale et recevant les vœux du métropolite grec orthodoxe de Paris, je ne ressortis pas de sa juridiction ecclésiastique, appartenant à la "communauté orthodoxe française de la Sainte Trinité" au sein de laquelle cohabitent pacifiquement toutes les opinions politiques françaises.
  3. C'est le propos de mon livre sur "La Question turque et l'Europe"
Vous pouvez entendre l'enregistrement de cette chronique
sur le site de
Lumière 101

lundi, 10 mai 2010

L'hégémonie de l'OTAN: l'UE doit se soumettre!

Bernhard TOMASCHITZ:

L’hégémonie de l’OTAN: l’UE doit se soumettre!

 

ue_otan_2003-e1d8b.jpgDébut avril 2010: on vient de former une brigade franco-italienne de chasseurs alpins. Le ministre italien des affaires étrangères, Franco Frattini considère que l’événement est un “premier pas” vers la constitution d’une éventuelle armée européenne et invite d’autres Etats  de l’UE à participer à cette brigade. Car, ajoute-t-il, pour être “crédible” dans la lutte contre le terrorisme et pour pouvor restabiliser des régions en crise, l’UE aurait besoin d’un moyen approprié car elle ne devrait pas toujours se fier aux Etats-Unis.

 

Les plans pour forger une armée européenne ne datent pas d’hier: déjà en octobre 1950, le premier ministre français René Pleven avait proposé de créer une armée européenne sous  la houlette d’un ministre européen de la défense. Les négociations qui s’ensuivirent et qui avaient pour but de mettre sur pied une CED (“Communauté Européenne de Défense”) ont échoué parce que l’Assemblée nationale française avait retiré de l’ordre du jour le Traité instituant cette CED. Les Français craignaient trop, à l’époque, le réarmement allemand. Il a fallu attendre les années 80 pour que l’on recommence à réfléchir et à agir pour reconstituer une armée européenne: c’est alors que l’Allemagne et la France se sont mises à développer une politique de défense commune; ensuite, en 1997, avec le traité d’Amsterdam, on a commencé à travailler sur le projet d’une “politique de sécurité et de défense européenne” (PSDE). L’Eurocorps procède, lui aussi, d’une initiative commune à la République fédérale d’Allemagne et à la France: il est devenu, pour l’essentiel, une “troupe d’intervention rapide” multinationale relevant de l’UE.

 

Mais jusqu’ici aucune clarté n’a pu être dégagée pour définir avec suffisamment de précision les rapports entre l’UE  et le projet PSDE, d’une part, et entre l’UE et l’OTAN, d’autre part. Toutefois, on peut repérer une série d’indices qui nous amènent à penser que les capacités de défense européennes devront touters être mises au service de l’OTAN et donc des Etats-Unis. Dans un rapport rédigé en janvier 2009 pour le compte de la Commission “affaires étrangères” du Parlement Européen par le député français Ari Vatanen (de nationalité finlandaise), et consacré au “rôle de l’OTAN dans  le cadre de l’architecture de la sécurité européenne”, on peut lire que “l’OTAN forme le noyau de la sécurité européenne et que l’UE dispose d’un potentiel suffisant pour soutenir ses activités, si bien qu’un renforcement des  capacités de défense européennes et qu’un approfondissement de la coopération entre les deux organisations s’avèreraient fructueuses”. Dans cette optique, la Turquie continue à être perçue comme “un allié de longue date de l’OTAN” et un pays “candidat à l’adhésion à l’UE”. Par conséquent, toute fusion de l’OTAN et de l’UE accélèrerait l’adhésion définitive d’Ankara à l’Europe.

 

Sur le plan concret, on prévoit que l’UE interviendra de plus en plus souvent, dans l’avenir, “out of area”, en dehors de la zone prévue initialement par l’OTAN, c’est-à-dire l’Europe. Dans l’article 43 du Traité de Lisbonne, on évoque notamment d’éventuelles missions “pour lutter contre le terrorisme”, missions qui se dérouleraient dans des pays tiers, donc sur le territoire où s’exerce la souveraineté de ceux-ci. Le blanc seing accordé à d’éventuelles interventions hors zone se justifie à l’aide d’arguments “humanitaires”: finalement, il s’agit “d’empêcher de manière active des actes de cruauté commis à grande échelle et des conflits régionaux dans lesquels les populations souffrent terriblement comme auparavant, ou de prendre toutes mesures équivalentes”. Or les conflits régionaux et les actes de cruauté qui les accompagnent généralement sont particulièrement nombreux dans les pays évoqués, où l’on trouve des matières premières ou des minerais importants qui attirent les convoitises, comme au Soudan ou au Congo, ou dans des régions importantes pour assurer le transport de matières premières comme le Caucase.

 

En prévoyant ainsi d’organiser les armées européennes pour jouer le rôle de policier mondial, l’eurocratie bruxelloise va à l’encontre des exigences de Washington qui souhaite que l’UE s’engage davantage sur le plan militaire; ensuite, ces projets correspondent aux plans américains qui veulent faire de l’OTAN une alliance active dans le monde entier et non plus seulement dans l’espace de l’Atlantique Nord. L’engagement en Afghanistan, auquel participent bon nombre de pays membres de l’UE, nous donne un avant-goût de ce qui nous attend. En fin de compte, rien ne nous permet d’imaginer que le Proche et le Moyen Orient trouveront la paix dans un délai prévisible. En Afrique et en Asie centrale, nous trouvons toute une série de pays politiquement instables, qui, du jour au lendemain, pourront rendre “impérative” une “intervention humanitaire”.

 

La militarisation prévue coûtera fort cher au contribuable. Enfin, le Traité de Lisbonne oblige les Etats membres de l’UE “d’améliorer progressivement leurs capacités militaires”, donc de réarmer. C’est grosso modo la même chose que prévoit le rapport Vatanen du Parlement européen, dans lequel on évoque “les investissements plus élevés à consentir pour la défense au niveau de chaque Etat membre de l’UE” et on réclame la création “d’un quartier général opératoire de l’UE”.

 

Le projet, qui équivaut à une soumission pure et simple aux intérêts géopolitiques américains, est accueilli avec bienveillance à Washington. Pourtant, les projets de défense européens n’avaient pas toujours reçu un tel accueil. Petit rappel: lorsque l’Europe se sentait démunie et désemparée dans les années 90 du 20ème siècle, au moment où les conflits inter-yougoslaves faisaient rage dans la péninsule balkanique, elle avait évoqué la possibilité d’améliorer ses capacités militaires et de renforcer les assises de sa propre sécurité. A Washington, à l’époque, on avait tiré la sonnette d’alarme! Strobe Talbott, qui était alors vice-ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, avait exprimé ses craintes: une armée de l’UE “pourrait commencer à exister au sein de l’OTAN puis devenir une concurrente de celle-ci”.

 

Quoi qu’il en soit, si l’Europe venait un jour à s’émanciper des Etats-Unis sur les plans de la défense et de la sécurité, Washington aurait beaucoup à perdre. Car, comme l’a avoué Zbigniew Brzezinski, conseiller national en matières de sécurité auprès de l’ex-Président américain Jimmy Carter, “l’OTAN lie les Etats les plus productifs et les plus influents à l’Amérique et procure aux Etats-Unis une voix de poids dans les affaires intérieures de l’Europe”.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°17/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

 

dimanche, 28 mars 2010

NATO Rip? Well, Hopefully

NATOabschaffen.jpgSrdja TRIFKOVIC:
NATO Rip?
Well, Hopefully
Ukraine's announcement that it will pass a law that will bar the country from joining NATO has been greeted with barely concealed relief in Moscow, Paris, Berlin and Rome. It is also good news for the security interests of the United States. The time has come not only to give up on NATO expansion, but also to abolish the Alliance altogether.

Encouraging an impoverished, practically defenseless nation such as Ukraine to join a military alliance directed against the superpower next door, thereby stretching a nuclear tripwire between them, had never been a sound strategy. Article V of the NATO Charter states that an attack on one is an attack on all, and offers automatic guarantee of aid to an ally in distress. The U.S. would supposedly provide its protective cover to a new client, right in Russia's geopolitical backyard, in an area that had never been deemed vital to America's security interests.

From the realist perspective, accepting Ukraine into NATO would mean one of two things: either the United States is serious that it would risk a thermonuclear war for the sake of, say, the status of Sebastopol, which is insane; or the United States is not serious, which would be frivolous and dangerous.

President Clinton tried to evade the issue, over a decade ago, by questioning the meaning of words and asserting that Article V "does not define what actions constitute 'an attack' or prejudge what Alliance decisions might then be made in such circumstances." He claimed the right of the United States "to exercise individual and collective judgment over this question."

Such fudge cannot be the basis of serious policy. It evokes previous Western experiments with security guarantees in the region -- leading to Czechoslovakia's carve-up in 1938, and to Poland's destruction in September 1939 -- which warn us that promises nonchalantly given today may turn into bounced checks or smoldering cities tomorrow. After more than seven decades, the lesson of is clear: security guarantees not based on the provider's resolve to fight a fully blown war to fulfill them, are worse than no guarantees at all. It would be dangerously naïve to assume that the United States, financially and militarily overextended, would indeed honor the guarantee under Article V, or assume responsibility for open-ended maintenance of potentially disputed frontiers (say in the Crimea) that were drawn arbitrarily by the likes of Khrushchev and bear little relation to ethnicity or history,

A necessary and successful alliance during the Cold War, NATO is obsolete and harmful today. It no longer provides collective security -- an attack against one is an attack against all -- of limited geographic scope (Europe) against a predatory totalitarian power (the USSR). Instead, NATO has morphed into a vehicle for the attainment of misguided American strategic objectives on a global scale. Further expansion would merely cement and perpetuate its new, U.S.-invented "mission" as a self-appointed promoter of democracy, protector of human rights, and guardian against instability outside its original area. It was on those grounds, rather than in response to any supposed threat, that the Clinton administration pushed for the admission of Poland, the Czech Republic, and Hungary in 1996, and President Bush brought in the Baltic republics, Bulgaria, and Rumania in 2004.

Bill Clinton's air war against the Serbs, which started 11 years ago (March 24, 1999), marked a decisive shift in NATO's mutation from a defensive alliance into a supranational security force based on the doctrine of "humanitarian intervention." The trusty keeper of the gate of 1949 had morphed into a roaming vigilante five decades later.

The limits of American power became obvious in August 2008. Saakashvili's attack on South Ossetia's capital, Tskhinvali, was an audacious challenge to Russia, to which she responded forcefully. Moscow soon maneuvered Washington into a position of weakness unseen since the final days of the Carter presidency three decades ago. The Europeans promptly brokered a truce that was pleasing to Moscow and NATO's expansion along the Black Sea was effectively stalled, with no major Continental power willing to risk further complications with Russia. They understood the need for a sane relationship with Moscow that acknowledges that Russia has legitimate interests in her "near-abroad."

America, Russia and NATO --
The Soviet Union came into being as a revolutionary state that challenged any given status quo in principle, starting with the Comintern and ending three generations later with Afghanistan. Some of its aggressive actions and hostile impulses could be explained in light of "traditional" Russian need for security; at root, however, there was always an ideology unlimited in ambition and global in scope.

At first, the United States tried to appease and accommodate the Soviets (1943-46), then moved to containment in 1947, and spent the next four decades building and maintaining essentially defensive mechanisms -- such as NATO -- designed to prevent any major change in the global balance.

Since the collapse of the Soviet Union in 1991, Russia has been trying to articulate her goals and define her policies in terms of "traditional" national interests. The old Soviet dual-track policy of having "normal" relations with America, on the one hand, while seeking to subvert her, on the other, gave way to naïve attempts by Boris Yeltsin's foreign minister Andrei Kozyrev to forge a "partnership" with the United States.

By contrast, the early 1990s witnessed the beginning of America's futile attempt to assert her status as the only global "hyperpower." The justification for their project was as ideological, and the implications were as revolutionary as anything concocted by Zinoviev or Trotsky in their heyday. In essence, the United States adopted her own dual-track approach. When Mikhail Gorbachev's agreement was needed for German reunification, President George H.W. Bush gave a firm and public promise that NATO wound not move eastward. Within years, however, Bill Clinton expanded NATO to include all the former Warsaw Pact countries of Central Europe. On a visit to Moscow in 1996, Clinton even wondered if he had gone too far,
confiding to Strobe Talbott, "We keep telling Ol' Boris, 'Okay, now here's what you've got to do next -- here's some more [sh-t] for your face.'"

Instead of declaring victory and disbanding the alliance in the early 1990s, the Clinton administration successfully redesigned it as a mechanism for open-ended out-of-area interventions at a time when every rationale for its existence had disappeared. Following the air war against Serbia almost a decade ago, NATO's area of operations became unlimited, and its "mandate" entirely self-generated. The Clinton administration agreed that NATO faced "no imminent threat of attack," yet asserted that a larger NATO would be "better able to prevent conflict from arising in the first place" and - presumably alluding to the Balkans -- better able to address "rogue states, the poisoned appeal of extreme nationalism, and ethnic, racial, and religious hatreds." How exactly an expanded NATO could have prevented conflicts in Bosnia or Chechnya or Nagorno Karabakh had remained unexplained.

Another round of NATO expansion came under George W. Bush, when three former Soviet Baltic republics were admitted. In April 2007, he signed the Orwellian-sounding
NATO Freedom Consolidation Act, which extended U.S. military assistance to aspiring NATO members, specifically Georgia and Ukraine. Further expansion, according to former National Security Advisor Zbigniew Brzezinski, was "historically mandatory, geopolitically desirable." A decade earlier, Brzezinski readily admitted that NATO's enlargement was not about U.S. security in any conventional sense, but "about America's role in Europe - whether America will remain a European power and whether a larger democratic Europe will remain organically linked to America." Such attitude is the source of endless problems for America and Europe alike.

President Obama and his foreign policy team have failed to grasp that a problem exists, let alone to act to rectify it. There has been a change of officials, but the regime is still the same - and America is still in need of a new grand strategy. Limited in objectives and indirect in approach, it should seek security and freedom for the United States without maintaining, let alone expanding, unnecessary foreign commitments.

The threat to Europe's security does not come from Russia or from a fresh bout of instability in the Balkans. The real threat to Europe's security and to her survival comes from Islam, from the deluge of inassimilable Third World immigrants, and from collapsing birthrates. All three are due to the moral decrepitude and cultural degeneracy, not to any shortage of soldiers and weaponry. The continued presence of a U.S. contingent of any size can do nothing to alleviate these problems, because they are cultural, moral and spiritual.

NATO: unnecessary and harmful --
In terms of a realist grand strategy, NATO is detrimental to U.S. security. It forces America to assume at least nominal responsibility for open-ended maintenance of a host of disputed frontiers that were drawn, often arbitrarily, by Communist dictators, long-dead Versailles diplomats, and assorted local tyrants, and which bear little relation to ethnicity, geography, or history. With an ever-expanding NATO, eventual adjustments -- which are inevitable -- will be more potentially violent for the countries concerned and more risky for the United States. America does not and should not have any interest in preserving an indefinite status quo in the region.

Clinton's 1999 war against Serbia was based on the his own doctrine of "humanitarian intervention," which claimed the right of the United States to use military force to prevent or stop alleged human rights abuses as defined by Washington. This doctrine explicitly denied the validity of long-established norms -- harking back to 1648 Westphalia -- in favor of a supposedly higher objective. It paved the way for the pernicious Bush Doctrine of preventive war and "regime change" codified in the 2002 National Security Strategy.

The Clinton-Bush Doctrine represented the global extension of the Soviet model of relations with Moscow's satellites applied in the occupation of Czechoslovakia in August 1968. Ideological justification was provided by the Brezhnev Doctrine, defined by its author as the supposed obligation of the socialist countries to ensure that their actions should not "damage either socialism in their country or the fundamental interests of other socialist countries." "The norms of law cannot be interpreted narrowly, formally, in isolation from the general context of the modern world," Brezhnev further claimed. By belonging to the "socialist community of nations," its members had to accept that the USSR -- the leader of the "socialist camp" -- was not only the enforcer of the rules but also the judge of whether and when an intervention was warranted. No country could leave the Warsaw Pact or change its communist party's monopoly on power.

More than three decades after Prague 1968 the USSR was gone and the Warsaw Pact dismantled, but the principles of the Brezhnev Doctrine are not defunct. They survive in the neoliberal guise.

In 1991 the Maastricht Treaty speeded up the erosion of EU member countries' sovereignty by transferring their prerogatives to the Brussels regime of unelected bureaucrats. The passage of NAFTA was followed by the 1995 Uruguay round of GATT that produced the WTO. The nineties thus laid the foundation for the new, post-national order. By early 1999 the process was sufficiently far advanced for President Bill Clinton to claim in The New York Times in May 1999 that, had it not bombed Serbia, "NATO itself would have been discredited for failing to defend the very values that give it meaning." This was but one way of restating Brezhnev's dictum that "the norms of law cannot be interpreted narrowly, formally, in isolation from the general context of the modern world."

Like his Soviet predecessor, Clinton used an abstract and ideologically loaded notion as the pretext to act as he deemed fit, but no "interests of world socialism" could beat "universal human rights" when it came to determining where and when to intervene. The key difference between Brezhnev and Clinton was in the limited scope of the Soviet leader's self-awarded outreach. His doctrine applied only to the "socialist community," as opposed to the unlimited, potentially world-wide scope of "defending the values that give NATO meaning." The "socialist community" led by Moscow stopped on the Elbe, after all. It was replaced by the "International Community" led by Washington, which stops nowhere.

The subsequent Bush Doctrine still stands as the ideological pillar and self-referential framework for the policy of permanent global interventionism. It precludes any meaningful debate about the correlation between ends and means of American power: we are not only wise but virtuous; our policies are shaped by "core values" which are axiomatic, and not by prejudices.

The Axis of Instability
-- The mantra's neocon-neolib upholders are blind to the fact that, after a brief period of American mono-polar dominance (1991-2008), the world's distribution of power is now characterized by asymmetric multipolarity. It is the most unstable model of international relations, which -- as history teaches us -- may lead to a major war.

As I
wrote in takimag.com a year ago, during the Cold War the world system was based on the model of bipolarity based on the doctrine of Mutual Assured Destruction (MAD). The awareness of both superpowers that they would inflict severe and unavoidable reciprocal damage on each other was coupled with the acceptance that each had a sphere of dominance or vital interest that should not be infringed upon. Proxy wars were fought in the grey zone all over the Third World, most notably in the Middle East, but they were kept localized even when a superpower was directly involved. Potentially lethal crises (Berlin 1949, Korea 1950, Cuba 1963) were de-escalated due to the implicit rationality of both sides' decision-making calculus. The bipolar model was the product of unique circumstances without an adequate historical precedent, however, which are unlikely to be repeated.

The most stable model of international relations that is both historically recurrent and structurally repeatable in the future is the balance of power system in which no single great power is either physically able or politically willing to seek hegemony. This model was prevalent from the Peace of Westphalia (1648) until Napoleon, and again from Waterloo until around 1900. It is based on a relative equilibrium between the key powers that hold each other in check and function within a recognized set of rules. Wars do occur, but they are limited in scope and intensity because the warring parties tacitly accept the fundamental legitimacy and continued existence of their opponent(s).

If one of the powers becomes markedly stronger than others and if its decision-making elite internalizes an ideology that demands or at least justifies hegemony, the inherently unstable system of asymmetrical multipolarity will develop. In all three known instances -- Napoleonic France after 1799, the Kaiserreich in 1914, and the Third Reich after 1933 -- the challenge could not be resolved without a major war. Fore the past two decades, the U.S. has been acting in a similar manner. Having proclaimed itself the leader of an imaginary "international community," it goes further than any previous would-be hegemon in treating the entire world as the American sphere of interest. Bush II is gone, but we are still stuck with the doctrine that allows open-ended political, military, and economic domination by the United States acting unilaterally and pledged "to keep military strength beyond challenge."

Any attempt by a single power to keep its military strength beyond challenge is inherently destabilizing.  Neither Napoleon nor Hitler knew any "natural" limits, but their ambition was confined to Europe. With the United States today, the novelty is that this ambition is extended literally to the whole world. Not only the Western Hemisphere, not just the "Old Europe," Japan, or Israel, but also unlikely places like Kosovo or the Caucasus, are considered vitally important. The globe itself is now effectively claimed as America's sphere of influence

The U.S. became the agent of revolutionary dynamism with global ambitions, in the name of ideological norms of "democracy, human rights and open markets," and NATO is the enforcement mechanism of choice. That neurotic dynamism is resisted by the emerging coalition of weaker powers, acting on behalf of the essentially "conservative" principles of state sovereignty, national interest, and reaffirmation of the right to their own spheres of geopolitical dominance. The doctrine of global interventionism is bound to produce an effective counter-coalition. The neoliberal-neoconservative duopoly still refuses to grasp this fact. Ukraine's decision to give up its NATO candidacy makes a modest but welcome contribution to the long-overdue return of sanity inside the Beltway "foreign policy community."