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jeudi, 28 novembre 2013

Alcune riflessioni sul linguaggio di Tolkien ne Il signore degli anelli

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Alcune riflessioni sul linguaggio di Tolkien ne Il signore degli anelli

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it

tolkienUn articolo uscito non troppo tempo fa sul Corriere della Sera, a firma di Dario Fertilio (1), ripercorreva le più sensazionali, e in molti casi inspiegabili, bocciature per il Premio Nobel per la letteratura; a conferma del fatto che forse è più illustre la lista degli esclusi che quella di coloro a cui è stato conferito il celeberrimo riconoscimento (2). Tra coloro giudicati “non all’altezza” compare anche il nome di J. R. R. Tolkien. Il motivo della bocciatura ha del sorprendente, ovvero sembra che l’inglese utilizzato dallo scrittore e linguista nei suoi romanzi non fosse degno di un tale premio. In questa analisi intendiamo fornire, per ovvi motivi di spazio, solo delle prime indicazioni e chiavi di lettura su un argomento decisamente complesso e quasi per nulla studiato dalla letteratura di settore in lingua italiana. Tornando al succitato articolo di Fertilio, leggiamo come i giurati scelti dalla Accademia Reale Svedese delle Scienze abbiano a suo tempo etichettato l’opera tolkieniana quale “prosa di seconda categoria”, e poco importa se si ha a che fare con uno degli autori più letti e apprezzati nella intera storia della letteratura mondiale. L’assurdo lo si raggiunge quando si pensa che non solo Tolkien è stato professore di Letteratura Inglese Medievale a Oxford, ma persino esperto traduttore di testi antichi (3). Su questo tema, potrebbe essere utile citare un interessante saggio dell’accademico anglosassone Ross Smith, nel quale si evidenzia la passione di Tolkien per l’inglese antico, dunque per le radici stesse di questa lingua: “Una relazione del professor Tom Shippey intitolata Tolkien and the Beowulf-Poet comincia con la seguente domanda retorica: ‘Tolkien si è mai chiesto se lui potesse essere il poeta del Beowulf reincarnato?’” (4). Ciononostante, l’inglese di Tolkien è stato considerato da molti e per lungo tempo non abbastanza buono.

defending-middle-earthGiudizio avventato? Svista clamorosa o semplice miopia intellettuale? In fondo, non si diceva la stessa cosa di Joseph Conrad, altro mostro sacro della letteratura anglosassone? Se per quest’ultimo la ragione della sua presunta inadeguatezza letteraria era da imputare al fatto di essere di origine straniera (5), l’inglese non essendo in effetti la sua prima lingua, per quanto riguarda Tolkien, crediamo di non azzardare un giudizio privo di fondamento se affermiamo che la sua “colpa” risiedeva proprio nella forma di letteratura in cui si esprimeva: il (6) Fantasy. Tuttavia, Tolkien non fu l’unico a essere “maltrattato”, in quella occasione, dai giurati del Nobel (7). Non è un mistero per nessuno del resto che la distribuzione geografica fra i paesi e un equilibrio fra destra e sinistra (con una prevalenza per quest’ultima) presiedano da sempre ai criteri di scelta. Il preconcetto storico nei confronti di Tolkien è principalmente legato alla accusa di fuggire dalla realtà, di non essere un autore impegnato ma solo un buon mestierante che si cimenta a scrivere complesse favole per bambini troppo cresciuti. Lo scrittore Howard Jacobson, tanto per citare uno dei numerosi casi di ostilità intellettuale susseguitesi negli anni, reagì con rabbioso disprezzo all’incredibile successo delle opere del nostro autore: “Tolkien… quello per bambini, no? O per adulti ritardati…”. Raramente un romanzo ha causato tante controversie e il vetriolo della critica ha messo in evidenza lo scisma culturale tra i letterati “illuminati” e il pubblico dei lettori. A difesa di Tolkien, qualche anno addietro, si è levato con vigore Patrick Curry, il quale in un suo studio (8) afferma senza mezze parole che Il signore degli anelli è tutto tranne che una “fuga dalla realtà”. Per Curry, Tolkien non ci fa solo la predica, come avviene in John Ruskin o G. K. Chesterton, sui pericoli del mondo moderno. Egli ha infatti tessuto con la sua opposizione alla modernità una narrazione ricca e intricata che offre una alternativa, con la creazione di un mondo completamente diverso, ma che è a sua volta una proposta per una riscoperta della nostra Tradizione.

Gli ostracismi nel mondo anglosassone verso Tolkien si ritrovano anche nelle parole di Chris Woodhead, dal 1994 al 2000 a capo del Servizio Ispezioni Scolastiche in Inghilterra, il quale stigmatizzava le basse aspettative culturali della opera tolkieniana, affermando in più occasioni come Il signore degli anelli è un libro che si legge benissimo, ma non è il prodotto migliore della letteratura inglese di questo secolo”. Woodhead dava voce alle preoccupazioni di molti pedagogisti presi alla sprovvista dal successo di Tolkien. Dunque, da un lato il malcelato snobismo intellettuale di molta critica, dall’altro il timore degli educatori che romanzi quali Il signore degli anelli potessero deviare i giovani dall’apprendimento di un perfetto inglese e dal costruirsi una solida cultura, grazie alla frequentazione di autori canonici.

ring-of-the-wordsLa ostilità verso Tolkien ha avuto anche la sua “scena” italiana (9). Difatti, sin dalla sua prima edizione, quella del 1970, nella quale compare anche quel dotto e suggestivo riassunto introduttivo a firma di Elémire Zolla, intorno al nostro autore nacquero vari pregiudizi. Non potendo ovviamente svalutare il linguaggio di una opera in traduzione, a Il signore degli anelli venne imputato di essere una storia reazionaria, vicina alle simpatie di una destra neofascista. Tuttavia, sulle qualità di quello che lo stesso Zolla definì “il maggior studioso di letteratura anglosassone e medievale” (10) si volle tacere, poiché Tolkien era tabù e lo restò per molto tempo. Se si intende analizzare le capacità linguistiche di Tolkien, è fondamentale tenere a mente come il suo primo lavoro al ritorno dal fronte della Prima Guerra Mondiale fu quello di assistente presso il prestigiosissimo Oxford English Dictionary (OED) (11). Lo stesso Tolkien ha affermato di aver imparato di più in questi due anni che in nessun altro uguale lasso di tempo nella sua vita. Pochi sono gli autori che hanno tratto così tanta della loro vena creativa dalla storia e dai mutamenti dei singoli vocaboli. Dal suo amore per le parole e il modo di utilizzarle possiamo trarre una ulteriore prova di come egli ricercasse con assiduità un linguaggio ricco, quanto vario, come si afferma nell’attento studio The Ring of Words (12), nel quale si parla di Tolkien anche come un creatore di parole (13).

Tolkien è stato inoltre un traduttore puntiglioso (14). Sempre Ross Smith evidenzia quanto la traduzione come concetto fosse onnipresente nel nostro scrittore, persino nei suoi lavori creativi: “Parlando ora della prosa di Tolkien, è interessante notare come nella Appendice F de Il signore degli anelli ci dica che tutta la sua storia epica è per l’appunto una traduzione” (15). Chiaramente i personaggi della Terra di Mezzo non parlano inglese, difatti il loro linguaggio o lingua-franca è il Westron. Il “trucco” escogitato da Tolkien è quello di affermare di aver solo tradotto in inglese Il signore degli anelli, così da rendere comprensibile anche all’uomo moderno questa storia. Ovviamente, l’autore si diverte solo ad ammiccare alla possibile veridicità del proprio romanzo, creandone però un piacevole divertissement letterario.

master-of-the-ringsTornando all’argomento chiave di questo nostro breve ragionamento, è un fatto decisamente curioso che una persona tanto attenta al significato delle parole – questa è infatti la qualità principale di un traduttore – non fosse tuttavia capace di utilizzare un inglese di qualità. Questo crediamo sia un altro punto abbastanza solido a favore di chi sostiene, e chi scrive è tra questi, che per lungo tempo i romanzi di Tolkien sono stati vittima di più di un mero fraintendimento e che il suo linguaggio sia degno di uno studio attento e imparziale. Parlando ora più da vicino proprio del linguaggio di Tolkien, riteniamo che esso sia ricco, grazie alla presenza di un vocabolario vario e ricercato. In più occasioni lo scrittore ci offre descrizioni meravigliose, con un tono evocativo che fa talvolta della lingua virtù. Soprattutto, egli crea un universo di mito, magia e archetipi che risuona nei più remoti recessi della memoria e dell’immaginazione del mondo occidentale. Tolkien era uno studioso di prim’ordine che attingeva dalla vitale eredità anglosassone.

Giunti a questo punto, analizzeremo ora alcuni brevi estratti dal tomo I della Trilogia, presenti nel capitolo intitolato Il ponte di Khazad-Dûm (16). Si è scelta questa particolare sezione della opera tolkieniana per due motivi. Il primo è che essa è tra le parti più conosciute della saga de Il signore degli anelli. Il secondo, come vedremo, perché in questo capitolo si trovano molti degli elementi distintivi dello stile narrativo dell’autore. I brani sono tre, a dimostrazione di altrettanti aspetti del linguaggio del Tolkien scrittore.

Il primo è un significativo esempio di quanto la presenza di una idea della cultura antica (in inglese lore) aiutasse l’autore a pensare al suo lavoro come a un libro dentro un libro, creando in tal modo un significativo esempio di metaletteratura e ipertestualità. Così avviene durante la lettura da parte di Gandalf del diario del popolo nanico che un tempo abitava le Miniere di Moria. Le parole pronunciate dal mago si fondono con le vicende dei protagonisti della storia, l’orrore che un tempo distrusse gli abitanti di quei luoghi, pagina dopo pagina, mentre il mago grigio è intento a leggere, si sta per riabbattere sulla Compagnia dell’Anello: “A sudden dread and horror of the chamber fell on the Company, ‘We cannot get out’, muttered Gimli. ‘It was well for us that the pool had sunk a little, and that the Watcher was sleeping down at the southern end’” (423) (17).

Il secondo brano che abbiamo scelto potrebbe essere definito un “classico”, ovvero un esempio di come Tolkien abbia in buona parte codificato il linguaggio delle scene di azione del fantasy, con l’utilizzo di determinate parole per rappresentare azioni e suoni: “There was a crash on the door, followed by crash after crash. Rams and hammers were beating against it. It cracked and staggered back, and the opening grew suddenly wide. Arrows came whistling in, but struck the northern wall, and fell harmlessly to the floor” (426) (18). Che le frecce “sibilino” (whistle) è ormai un modo di dire codificato in questo genere narrativo e tutto l’impianto linguistico delle scene d’azione in Tolkien, come ben dimostra questo estratto, rappresenta il canone di ogni battaglia fantasy scritta dopo Il signore degli anelli.

Infine, l’autore inglese possiede anche quella visibilità (19) del linguaggio tanto cara a Italo Calvino: “The flames roared up to greet it, and wreathed about it; and a black smoke swirled in the air. Its streaming mane kindled, and blazed behind it”  (432) (20). Qui la narrazione tolkieniana dimostra di avere quella fondamentale capacità di creare una astrazione nel lettore, grazie all’uso del linguaggio, così da suggestionarlo e, proprio come afferma Calvino, che riprende le parole di Dante, portarlo in luogo altro, quello della pura letteratura: “O immaginazione, che hai il potere d’importi alle nostre facoltà e alla nostra volontà e di rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe non ce ne accorgeremmo” (21).

Forse alla giuria del Nobel saranno sfuggite le qualità linguistiche e letterarie di Tolkien o, più verosimilmente, non era possibile dare un premio tanto blasonato a un autore di “storie per ragazzi”. Magari i giurati avranno giustificato la scelta di cassarlo, individuando, ad esempio, qualche incoerenza nella sua scrittura, come nel posizionamento di alcuni avverbi prima o dopo gli ausiliari, nel diverso modo di scrivere parole come toward e towards, addirittura a distanza di poche righe (458) o, sempre a breve distanza (454), l’alternanza nello scrivere il verbo “essere” (to be) al congiuntivo, con la grafia sia giusta (were), ma anche con quella sbagliata (was), benché da anni questa ultima sia accettata dalla maggioranza dei linguisti.

Concludendo, anche se la scrittura di Tolkien ha le sue piccole debolezze, come del resto avviene praticamente per ogni autore, esse sono davvero così tante e gravi da offuscare la vastità della sua visione, la fecondità della sua immaginazione, il potere ritmico del suo linguaggio? Riteniamo di no, considerato che abbiamo a che fare con uno scrittore in cui la lingua e la letteratura sono una cosa sola: “Tutte pagine di un unico libro, di un esperimento linguistico prima e culturale poi” (22). Dunque, Tolkien andrebbe apprezzato anche come creatore di un logos tipico del fantasy – magari provando a leggerlo in lingua originale – nelle cui pagine si incarna la idea del “mito come linguaggio” (23) e grazie al quale non è solo stato codificato un genere narrativo, ma anche un modo di scrivere.

* * *

(1) Si fa riferimento al numero uscito il 7/1/2012.

(2) Ricordiamo, ad esempio, la triplice bocciatura di Yukio Mishima, per motivi esclusivamente politici. Costui è considerato ormai da anni dalla critica internazionale come uno dei più importanti scrittori giapponesi del Dopoguerra.

(3) Sue sono varie importanti traduzioni, tra tutte quella della pietra miliare della letteratura medievale inglese (Old English e Middle English), il Beowulf, il cui autore e la datazione di composizione sono tuttora incerti. A Tolkien si deve inoltre quello che viene ancora oggi ritenuto il maggior lavoro critico, del 1936, su questo testo antico: The Monsters and the Critics and other Essays, HarperCollins, Londra 1997.

(4) R. Smith, J. R. R. Tolkien and the art of translating English into English, pubblicato nella rivisita online English Today, 99, settembre 2009, p. 1. Il saggio a cui fa riferimento Smith è: T. Shippey, Roots and Branches: Selected Papers on Tolkien, Walking Tree Publishers, Zurigo-Berna 2007, p. 1. Traduzione mia.

(5) Il suo vero nome era Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski, nato a Berdicev (Polonia) nel 1857. A esser precisi, l’inglese fu la terza lingua che imparò: la prima fu, ovviamente, il polacco e la seconda il francese. Ciononostante, molta critica ritiene che l’inglese di Conrad sia decisamente ricco, con un uso del linguaggio evocativo e a tratti simbolico. Lo scrittore non aveva forse competenze da madrelingua nel parlato, visto che il suo accento tradiva una origine straniera.

(6) Preferiamo non seguire il costume abbastanza diffuso in Italia di utilizzare questo termine al femminile, dunque la fantasy, visto che la lingua inglese non attribuisce generi ai sostantivi. Ragion per cui, crediamo sia più corretta una interpretazione legata alla locuzione ellittica: “il genere fantasy”.

(7) Vi furono altri illustri bocciati nel fatidico 1961. Fra questi, due colossi della letteratura del Novecento come Graham Greene e Karen Blixen. Questi ultimi, tuttavia, ebbero un trattamento ben diverso da quello riservato a Tolkien, giacché si piazzarono rispettivamente al secondo e al terzo posto, dopo essere stati attentamente soppesati per le loro qualità letterarie.

(8) P. Curry, Defending Middle-Earth: Tolkien: Myth and Modernity, HarperCollins, Londra 1998.

(9) Uno dei più attenti studiosi tolkieniani italiani, Gianfranco de Turris, ha tracciato una precisa evoluzione storica di questo fenomeno, evidenziando come il periodo di maggiore ostracismo verso Tolkien nel nostro paese sia individuabile tra il 1977 e la fine degli anni ‘80. Cfr. Dal terriccio alle foglie, in “Albero” di Tolkien. Come il signore degli anelli ha segnato la cultura del nostro tempo, a cura di G. de Turris, Bompiani, Milano 2007.

(10) J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, Bompiani, Milano 2006, p. 11.

(11) Questo dizionario è da tempo considerato come il canone per l’inglese britannico ed è spesso messo in contrapposizione con il suo “rivale” storico, il Cambridge Dictionary. Se il primo, difatti, rappresenta la tradizione linguistica inglese, il secondo tende a incoraggiare l’utilizzo di un International English di chiara impronta americana. Non è un caso dunque che Tolkien, futuro filologo e linguista, sia uscito dalla scuola dell’OED.

(12) P. Gilliver, J. Marshall, E. Weiner, The Ring of Words: Tolkien and the Oxford English Dictionary, University Press, Oxford 2006.

(13) La sua vasta conoscenza del lessico inglese è dimostrata dal gran numero di arcaismi presenti nella sua scrittura. Una lista di questi si può trovare anche su Internet: http://www.glyphweb.com/arda/words.html.

(14) Ha tradotto specialmente opere medievali della letteratura angloassone. Un suo altro importante lavoro in questo campo è rappresentato dalla traduzione del poema anonimo del XIV secolo: Sir Gawain and the Green Knight, Pearl and Sir Orfeo, a cura di C. Tolkien, Allen & Unwin, Londra 1975.

(15) R. Smith, op. cit., p. 9. Traduzione mia.

(16) Trattasi del capitolo V del primo tomo della Trilogia. Il titolo originale è The Bridge of Khazad-Dûm.

(17) In corpo al testo i numeri di pagina della edizione originale in inglese: The Fellowship of the Ring, HarperCollins, Londra 2001. In nota, invece, sono riportate le traduzioni in italiano, a cura di Vicky Alliata di Villafranca, dei brani citati. “Una paura e un orrore improvvisi di quella stanza s’impadronirono della Compagnia. ‘Non possiamo più uscire’, mormorò Gimli. ‘È stato un bene per noi che lo stagno sia sceso leggermente, e che l’Osservatore stesse dormendo all’estremità sud’”. J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, cit., p. 424.

(18) “Un colpo risuonò con fracasso contro la porta, seguito da un altro e da altri ancora. Arieti e martelli battevano con forza sempre maggiore. Il battente scricchiolò vacillando, e la fessura si aprì improvvisamente. Delle frecce entrarono sibilando, ma urtando contro la parete caddero in terra inoffensive”. Ivi, p. 427.

(19) Ci riferiamo ovviamente all’omonimo capitolo, facente parte del celeberrimo testo di Italo Calvino: Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp. 89-110.

(20) “Con un ruggito le fiamme s’innalzarono in segno di saluto, intrecciandosi intorno a lui; un fumo nero turbinò nell’aria. La criniera svolazzante dell’oscura forma prese fuoco, avvampandolo”. J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, cit., p. 433.

(21) I. Calvino, op. cit., p. 92.

(22) A. Bonomo, Nostalgia di un’innocenza perduta: disobbedienza e sacrificio in The Hobbit di J. R. R. Tolkien, in Rivista di Studi Italiani, Anno XXIX, n° 1, Giugno 2011, p. 291.

(23) Ivi, p. 288.

* * *

Tratto, con il gentile consenso della Redazione, da Antarès, n. 03/2012, J.R.R. Tolkien. Un’epica per il nuovo millennio, http://www.antaresrivista.it/Antares_03_web.pdf.

mercredi, 27 novembre 2013

Articles en hommage à Costanzo Preve (1943-2013)

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Articles en hommage à Costanzo Preve (1943-2013)

 

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Strasbourg: tyrannie médiatique

Où va le monde ?

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Où va le monde ? Et pourquoi le pire n’est pas encore sûr !

par Pierre LE VIGAN

 

L’une des responsabilités du politique, sinon la première, c’est de ne pas compromettre l’avenir. Cela implique de prendre en compte les risques de catastrophe sociale, écologique et autre. Quatre auteurs répondent ici à ces questions avec des préoccupations proches mais des sensibilités intellectuelles différentes.

 

Pour Yves Cochet, dont les idées sont parfois très discutables mais ont le mérite d’exister, par ailleurs le seul politique des quatre auteurs, le culte du retour de la croissance va se fracasser contre le mur du réel. La croissance élevée ne reviendra plus : l’énergie abondante et pas chère c’est fini. De là l’idée que les objecteurs de croissance doivent continuer d’autant plus à développer un autre imaginaire que la croissance, cette religion du toujours plus. Quel imaginaire ? Celui d’une société de sobriété, de partage, de nouvelles autonomies collectives.

 

Dès maintenant un grand accident écologique est possible : ce que l’on pourrait nommer un supplément du destin ou une accélération du destin. Loin de tout délectation morbide, il faut penser la catastrophe possible pour pouvoir peut-être l’éviter : c’est le « catastrophisme éclairé » pour lequel plaide Jean-Pierre Dupuy. Se saisir du temps du projet pour agir avant qu’il ne soit trop tard.

 

Mais il faut agir sur plusieurs fronts car l’écologie et l’économie font système. Explications. La folie de la finance a mis en péril l’économie réelle, celle qui, avec les P.M.E., crée la richesse réelle et l’emploi. En d’autres termes, la production est attaquée et souvent liquidée par l’économie casino. Ensuit, c’est la société elle-même, avec les États menacés de faillite, qui souffre de la crise de l’économie réelle. En bout de chaîne, c’est la planète dont les ressources et les équilibres sont  détruits par la logique du turbocapitalisme. Une « sortie » de crise possible se profile. Elle n’est pas rose. C’est le replâtrage autoritaire du système, au profit d’une minorité de très riches. Mais ce n’est pas une fatalité. À l’encontre de ce risque de dérive oligarchique et autoritaire, l’objectif rassembleur pourrait être, selon Susan George, de reconstruire une société humaine à partir de l’idée que la terre n’est pas un bien inépuisable. « On ne peut jamais gagner une guerre contre la nature » note Susan George. Nous sommes dans une planète de plus en plus remplie, et avec des terres cultivables qui ne sont pas multipliables à l’infini. D’où la nécessité de faire de l’usage économe et respectueux de la planète notre loi suprême.

 

Une planète rétrécie, mais quelles conséquences sur les humains ? Serge Latouche émet l’hypothèse d’une double tendance : d’un côté un mouvement vers l’uniformisation mondiale des usages technologiques – une humanité homogène –, de l’autre une tendance à la constitution, sur la base de la séparation politique, voire de l’apartheid, d’entités collectives de plus en plus réduites, de plus en plus identifiées par des références prémodernes (l’ethnie, la religion, etc). Des micro-États ou de grandes « tribus ». Exemples : les petits pays issus de l’éclatement de l’ex-Yougoslavie, l’Ossétie du Sud, le Sud-Soudan, le Somaliland… Homogénéité du monde ou éclatement ? C’est cette dernière tendance qui est dominante selon Serge Latouche. Mais la fragmentation des États-nations n’est-elle pas le moyen pour les grandes puissances de conforter leurs positions ? D’être plus fort face à des petits encore plus petits et plus isolés ? C’est plus que probable, ce qui n’enlève rien à la réalité d’aspirations à des liens plus locaux, par réaction sans doute aux effets de la mondialisation.

 

La deuxième remarque qu fait Serge Latouche concerne l’existence de deux phases dans la crise. Une première phase, de 2007 à 2008, avec la crise des subprimes puis la faillite de Lehman Brothers, a été marquée par l’affichage de velléités de régulation du système financier par les États. « Le marché qui a toujours raison, c’est fini », s’exclamait Sarkozy en septembre 2008. Mais concrètement la seconde phase de la crise n’a pas vu la mise en place d’une régulation nouvelle mais a été marquée par la prise en charge des dettes privées, celles des banques, par les États et donc par les citoyens, avec comme conséquence une transmission des risques de faillite aux États. Premières victimes : les systèmes de protection sociale et les services publics. Et conséquence logique : une politique d’austérité visant à faire payer le coût de la dette aux classes populaires et aux classes moyennes. Le sauvetage des banques a ainsi coûté environ le tiers du P.I.B. mondial, indique Latouche. L’estimation est peut-être surévaluée mais les sommes sont en tout cas de 20 % de la richesse nationale pour le Royaume-Uni, et de 7 % pour la France. Elles sont donc considérables.

 

Surtout, la finance continue de représenter des montants de dix à quinze fois supérieurs à l’économie réelle. La déconnexion entre les deux sphères ne pourra être maintenue longtemps. Seul le crédit en flux continu et le mythe d’une croissance perpétuelle l’a rendu possible pendant un temps, et à quel prix ! Mais le modèle de la guerre de tous contre tous a sapé les fondements mêmes de la société.

 

La mondialisation n‘a pas été autre chose, explique Latouche, que « l’omnimarchandisation du monde ». Quand ce cycle est accompli, il amène les hommes à réinventer les vertus de l’autonomie locale, de la débrouille, des petits marchés locaux. Une alternative au grand marché mondial ? « À moins de remettre en cause la société de croissance, on n’échappera pas au chaos. C’est effectivement : décroissance ou barbarie », conclut Serge Latouche.

 

Pierre Le Vigan

 

• Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy, Susan George, Serge Latouche, Où va le monde ? 2012 – 2022 : une décennie au devant des catastrophes, Mille et une nuits, 78 p., 3,50 €.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=3411

 

Jobbik’s Unholy Alliance

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Jobbik’s Unholy Alliance

Colin Liddell

Ex: http://www.theoccidentalobserver.net

It seems that these days hatred, and the right to use it, even in defence of one’s nation, race, and culture, has to be offset by plenty of misplaced love. This is the take home message from Gábor Vona’s recent trip to Turkey, where the president of the Hungarian nationalist party Jobbik has been declaring his “Eurasian love”:

 

I didn’t come here to talk to you about the transitory subject of diplomatic and economic relations. Others will do that on behalf of me. I came here to meet my brothers and sisters, to offer a fraternal alliance and bring you the good news: Hungarians are awakening. Our common mission and the universal task of Turanism [see also Hungarian Turanism] are to build bridges between East and West, between Muslims and Christians, to be able to fight together for a better world – to show to the world that Christians and Muslims are not enemies, but brothers and sisters. No one can accomplish this mission more effectively than Hungarians and Turks because we are connected by common blood.

 

That’s all we need, European nationalist parties endorsing the very people most bent on colonizing and destroying Europe. Turkey, let us remember, is hostile to Greece and Golden Dawn, supports the Islamic jihad in Syria (along with Israel and the USA), harbours Chechen terrorists, and is seeking to extend neo-Ottoman influence in the Balkans through supporting ethnic cleansing in Kosovo. And this is the country that Jobbik wants to French kiss and take home to meet its mother!

Of course, “Love” is not a word usually associated with Jobbik. Thanks to the antinationalist bias of the mass media, Jobbik is better known for its hatreds of Jews, Gypsies, and the various nationalities that surround the ill-drawn borders of the Hungarian nation.


 

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There is nothing wrong with hatred in itself. It can be good or bad, depending on circumstances; just or unjust. Without hatred of that which harms nothing can survive. So it is quite possible that Jobbik may be justified in some if not all its hatreds.

But there are two problems with Vona’s hands-across-the-Bosporus approach. The first problem is the need, as shown here, to apparently offset sincere and possibly justified hatred of Hungary’s enemies with an insincere, contrived, or simply misplaced love for something else. The second problem is the mythic form of history and nationalism that Jobbik is indulging in, as opposed to actual history and reality.

This offsetting of hate with ‘love’ has been seen before. The UK’s English Defense League, not content with simply loving itself (whatever its faults) and hating the colonization of the country by Islam, felt a need to declare its undying love for Israel and homosexuality into the bargain, a policy that they perhaps filched from Geert Wilders, who has enjoyed considerable success with it in “detoxing” his anti-Islamic message in an atmosphere of political correctness.

Such moves seem designed to say, “Hey, we’re not just about the hate, y’know. We’ve got some of the warm, gushy stuff as well.”

But assuming that it’s more than this, what could possibly be motivating Jobbik, a search for actual allies and support? Vona’s recent declarations are somewhat suspicious in that they seem to reflect the Eurasian geopolitics that the Kremlin is currently experimenting with:

 

In order to create a new value system and build a new strategy for the future it is paramount to simultaneously carry both the European and the Asian point of views. European practicality and the contemplative spirit of the East should be harmonized. I see three nations that may be suitable of such a harmonization: Russia, Turkey and Hungary. These are the three peoples that due to their history, and destiny preserved both European and Asian values. Therefore, the new Eurasian alternative should be articulated by these three nations.

 

This sounds like something Alexandr Dugin could have come up with, and well may have. It reminds us that, whenever considering the complex geopolitics of Eurasian states, it is always necessary to filter things through a vast amount of historical and geographical knowledge. That will alert you to the possibility that one thing may have something to do with something else not being reported on at the moment, like the fact that Russia has recently had a few difficulties with the Ukraine, which is just one of several countries that Jobbik has an ancestral beef with because it occupies lands that were once occupied by Hungary.

The idea of Hungarian history that Jobbik promotes is an extremely selective and distorted one, and is therefore guaranteed to cause problems. It is also the reason why Jobbik is seeking out such unlikely bedfellows. At the heart of this view is the idea of Turanism, the notion that the Hungarians are essentially a Turkic people from Central Asia (“Turan”).

There is some truth in this, and it is in fact a part of the national story, although only one part. It is nevertheless quite a distinctive and inspiring part of the national story, creating a sense of uniqueness and pride while also explaining the neighbouring enmities. But this narrative, on its own, is also highly distorting as it downplays the European elements of Hungarian identity – the Germanic, the Slavic, even the Catholic – which clearly outweigh the Asian elements.

In some way, Turkey, the country with which Vona craves mystic union, is as much a myth as Jobbik’s own preferred “Khanate of the steppes.” Turkey as it is now understood, essentially came into being in the 1920s, when the blonde-haired, blue-eyed Mustafa Kemal earned the title of Ataturk (“Father of the Turks”) by creating the streamlined and simplified idea of a modern Turkish national state out of the ruins of a polyglot Empire that had no specific national identity. To achieve this, all sort of omissions and fabrications were of course required.

But back to Hungary: The idea of Greater Hungary that Jobbik espouses is damaging not just to the reality of Hungary, which is a much more European country than Jobbik admits, but also damaging to Europe in general, both as a concept and actuality.

First, it weakens the idea of a collective European identity with clear borders and limits; while also suggesting that Europe can Europeanize whatever the world throws at it — a very dangerous idea in this day and age. It must be stressed that the Europeanization of the original Magyars, a comparatively small group, took centuries, involved isolation from the steppes, and required repeated racial admixture with European populations.

As Tom Sunic stresses, the last thing Whites need is a continuation of petty European nationalisms.

The interethnic resentments in Eastern Europe …  are very pronounced, and they often turn ugly. Thus the national identity of a Polish nationalist, who may otherwise agree on all points with his nationalist counterpart from Germany—such as their common criticism of globalism, their anticommunism and their antiliberalism — is often accompanied by strong anti- German feelings. One third of ethnic Hungarians — more than 2 million — living in Slovakia, Serbia and Romania typically define their national identity through their resentment of the peoples among whom they live. Czech nationalists seldom like to discuss with their German counterparts the issue of the forcible deportation of 3 million ethnic Germans from Czechoslovakia after World War II. Despite some semblance of peace between Serbs and Croats, these two ethnically similar, neighboring peoples identify with two entirely different historical narratives and two completely different and mutually hostile and exclusive victimhoods. (Tom Sunmic, “Ethnic Identity versus White Identity: Differences between the U.S. and Europe,” The Occidental Quarterly, Winter 2012–2013, 51–64.)

Alongside these mistaken ideas, is the notion that the surest way to get ahead in a world that hates Whites is to stop identifying as White. By rebranding themselves as “Turans” and Asians, Jobbik obviously hopes to qualify for all the privileges that non-Whites enjoy – the freedom to hate and be racist, first and foremost among them. Identifying themselves with Islam offers the same advantages, especially if they make the effort to criticize the anti-Muslim parties that are common in the rest of Europe.

The trouble here is that the Hungarians are in fact too White and the world is unlikely to allow them to get away with this. Jobbik’s negative attitudes toward Jews and Gypsies will ensure that, regardless of their temporary expediency for the likes of Russia and Turkey, the world will still continue to consider them as evil, White racists.

The idea that hate needs to be balanced by at least an equal amount of love expended elsewhere may well have something in it. In that case, it would make much better sense both tactically and spiritually for Jobbik to throw away its petty, divisive nationalism and myths of Eurasian glory, and instead love its neighbours in the European family of nations and direct its hatred accordingly.

Feminism versus Marriage

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Feminism versus Marriage in Virginia Van Upp’s Honeymoon in Bali (1939)

By Andrew Hamilton 

Ex: http://www.counter-currents.com

Feminism is a major destructive force. Anti-male, anti-family, and anti-white, it is today a key ideological pillar of the ruling class. It is therefore necessary to look to the past in an attempt to identify healthy folkways associated with male-female relationships, sex, marriage, and family.

A 1939 romantic comedy called Honeymoon in Bali (1939) starring Scottish (or part-Scottish) American actor Fred MacMurray and English-born half-Irish (father), half-French (mother) actress Madeleine Carroll (born Marie-Madeleine Bernadette O’Carroll), sheds light on the conflict between feminism and marriage in 1930s America from the perspective of a successful, high-level female executive, Hollywood screenwriter Virginia Van Upp, who lived the feminist dream.

MacMurray is best known as the dishonest insurance salesman in Double Indemnity (1944), the star of several 1960-era Disney comedies, and the affable, pipe smoking dad in the TV series My Three Sons (1960–1972). Madeleine Carroll’s romantic appeal can be seen to best advantage in two movie classics, Alfred Hitchcock’s The 39 Steps (1935) and The Prisoner of Zenda (1937).

Honeymoon in Bali bore the alternative titles Husbands or Lovers (in the UK) and My Love for Yours (on video). Prior to release the working title—revealingly—was Are Husbands Necessary? Paramount, the studio that produced the film, later used that title for an unrelated 1942 movie starring Ray Milland and Betty Field.

Bali was based on short stories by Grace Sartwell Mason [2] in the Saturday Evening Post and the novel Free Woman (1936) by New York City WASP writer Katharine Brush, whose work was often compared to that of F. Scott Fitzgerald. At her death at age 49 in 1952, the New York Times characterized Brush’s fiction as “entertaining, brittle, superficial and in revolt against sentimentality and other qualities of the Victorian period.”

The real force behind Honeymoon in Bali, however, was Paramount Pictures screenwriter Virginia Van Upp. Though little-known today, she was an influential behind-the-scenes figure in the Jewish movie colony. (The Chicago-born Van Upp was apparently of Dutch descent.)

Van Upp’s mother had been an editor and title writer for silent movie producer Thomas H. Ince, the son of English immigrants. Ince was a seminal figure in the history of motion pictures. A visionary who died at age 42, he pioneered the studio system and shaped the art, craft, and business of motion picture producing as much as D. W. Griffith did that of directing.

Virginia, who was born in 1902 and began as a child actress in silent films, worked her way up from script girl, cutter, reader, and casting director to screenwriter at Paramount in the mid-1930s. As executive producer of Columbia Pictures in the 1940s, she was second-in-command to Jewish studio boss Harry Cohn, which made her one of the most powerful women in Hollywood. The scriptwriter of Cover Girl (1944) and producer of Gilda (1946), she was responsible for making Rita Hayworth a star. According to Cohn’s biographer Bob Thomas, “Miss Van Upp did not want to assume the heavy duties of executive producer because she had a husband and daughter. But she succumbed to Cohn’s overwhelming persuasion.”

Besides her energy, talent, and work ethic, a major reason for Van Upp’s success was her instinctive grasp of the need for teamwork and compromise, meeting schedules and deadlines, turning a profit, and making a product people would pay to see—in other words, the nitty-gritty of getting things done in the real world, consistently turning out film after film that would entertain millions of viewers and eventually provide endless fodder for critics and academics to analyze. Many Hollywood writers and directors never entirely mastered this essential skill, as Van Upp’s uncredited cleaning up of director Orson Welles’ sloppy and over-budget The Lady from Shanghai (1948) demonstrated.

It is only because Bali undoubtedly reflected Van Upp’s sensibility about male-female relationships to a high degree that it is worth examining. Unfortunately, the film itself is unexceptional, even as entertainment. It is a routine Hollywood programmer, nothing more. Using the 1- to 4-star scale employed by Leonard Maltin’s Movie Guide, I rate it **1/2 (average). (The Movie Guide rates it ***—above average. Under its system, even that half-star is significant.)

That said, a black blogger, a former TV host on cable’s VH1, caught the movie by accident recently (I watched it because I knew Van Upp had written it) and had a response to it as strongly positive as mine was to Van Upp’s romantic comedy The Crystal Ball (1943). So colorblind and lacking in racial rancor was his review [4] that I thought the writer was white until I saw his picture beside the article after finishing it.

Van Upp first came to my attention after watching The Crystal Ball (I closely study movie credits), a much better Paramount romantic comedy she authored starring half-Jewish actress Paulette Goddard, Welshman Ray Milland (who had a colorful background as an expert marksman and rider in an elite unit of the British Army, the Household Cavalry, before becoming an actor), and English beauty Virginia Field, whose mother was a cousin of General Robert E. Lee.

To my mind, The Crystal Ball was exceptionally well-written and acted—very funny, highly enjoyable entertainment. I consider it better than many more famous romantic comedies of the period, including The Lady Eve and The Male Animal.

Honeymoon in Bali contains the usual quota of character conflicts. To cite one example, Carroll has a rival for MacMurray’s attention, a young woman played by Osa Massen, a light-hearted, “horribly rich” European Balinese girl who attempted suicide after MacMurray rejected her lovelorn advances when she was 17. I mistakenly assumed from Massen’s accent and appearance that she was German. In fact she was Danish. She was profiled in the book Strangers in Hollywood: The History of Scandinavian Actors in American Films from 1910 to World War II (1994).

However, the primary theme of the movie is the internal conflict Carroll experiences between her desire to continue her unfettered lifestyle and professional career as the successful manager of a Fifth Avenue department store in New York City, and her desire to marry a romantic stranger, a businessman from Bali (MacMurray).

Madeleine Carroll’s internal conflict between her desire for independence and the feeling that she should subordinate herself to a man (with the latter impulse ultimately winning out), parallels similar themes in the Broadway play and movie The Women (1939) by Clare Boothe Luce, about which I have previously [5] written. Luce, too, came down strongly on the side of marriage and family. (Interestingly, “family” there consisted merely of a husband, wife, and one biological child—a notably truncated conception of family. That story, like Van Upp’s, was really focused on the dyadic husband-wife relationship rather than family in the true sense.) Yet, like Van Upp, Luce maintained an independent professional life immeasurably superior to the vast majority of American men, making her something of a heroine among mainstream feminists.

I noted that the Norma Shearer character in The Women embodied Luce’s family-oriented values. I also said that only one other female in the cast came off sympathetically—Miriam Aarons, played in the movie by Paulette Goddard. Aarons was a somewhat hardboiled but independent-minded and sympathetic character with a Jewish name, but no discernible Jewish characteristics. (Luce was a shameless philo-Semite, which was enormously beneficial to her professionally, as I’m sure she knew perfectly well.)

What initially escaped me was that Aarons also represented Luce. Rather than establishing an internal conflict within a single character as Van Upp did in Bali, Luce split herself in two as it were, presenting her nurturing values in the form of Shearer’s character, and her harder-edged, feminist-oriented sensibility in the person of Aarons.

In Bali, Carroll’s conviction that career success and non-marriage represent the superior option are expressed throughout the film. She insists that she is perfectly happy and doesn’t want to get married. A disdainful running counterpoint to Carroll’s philosophy is provided by her second cousin and best friend, Smitty (actress Helen Broderick), a successful “old maid” novelist (as Carroll/Van Upp calls her).

After MacMurray responds to Carroll’s statement that she doesn’t believe in marriage by asserting that women “need the protection of a man,” she snorts, “The protection of a man! I know of more women taking care of no-good husbands and loafing brothers.”

In a key piece of dialogue she continues, “I earn a salary that makes most men’s look sick. I’m the boss. I have a charming apartment run by a competent maid, and I’m the boss there too. I have plenty of escorts—whenever I want them . . .” MacMurray: “I suppose you’re the boss there, too.” Carroll, ignoring him: “. . . and I haven’t a single encumbrance to worry me, and the most precious thing of all—absolute personal freedom. [Emphasis added.] Now for what reason under the sun do I need a husband?”

Are husbands necessary? Contemporary Italian-American TV producer Alison Martino relaxing at home. A baby boomer, her show business family/career background is similar to, if far less illustrious than, Van Upp’s. [6]

Are husbands necessary? Contemporary Italian-American TV producer Alison Martino relaxing at home. A baby boomer, her show business family/career background is similar to, if far less illustrious than, Van Upp’s.

The only “positive” she raises—in order to reject it—is “love,” averring, “I don’t intend to fall in love, either. Love muddles you up . . . it throws you.”

She’s referring to fleeting, evanescent romantic love, which is as rooted in egoism as are the other values she enumerates. Over time, it vanishes under the pressure of everyday life. There must be a stronger foundation than “love”—whatever it may be—to sustain a successful, long-term marriage and family.

Carroll informs her friend Smitty that MacMurray is “lazy, not very good-looking, makes $50 a week, and ruins my disposition. I’m as cross as a bear when I’m around him.” Of course, she’s already in love at that point. But outside of a romance novel or movie such as this, a marriage between two such different people who hardly know one another represents a crapshoot. Such a union requires romantic “love” to carry far more weight than it can possibly bear. MacMurray’s paltry “$50 a week” and “laziness” alone would eventually kill the deal.

Only a tiny portion of the story at the end actually takes place in Bali, an island province of Indonesia. The main setting is New York City. “Bali” functions as a delusive, exotic, Rousseauian-, Shangri-La-, Margaret Mead-style utopian backdrop signifying fantasy happiness someplace else.

Of course, factors other than Van Upp’s personal views impinged upon the story. For example, producers must have had an influence. The director, too, though in this case Van Upp was undoubtedly the primary auteur, not Edward H. Griffith, a competent but undistinguished director. An eagle eye on box office appeal would also have played a role. Finally, important elements of the tale must have been derived from the underlying stories by Mason and Brush. Nevertheless, everything was filtered through Van Upp’s sensibility. To the extent that the original stories were a factor, they nevertheless represented white women’s views also. At least partially representative of the population, they, like the movie, fed back into the populace, altering and shaping, consciously and unconsciously, the values and beliefs of readers and moviegoers.

In real life MacMurray was 31 and Madeleine Carroll 33 when the movie was made, so they were not spring chickens in terms of marriage or reproductive fitness. If Carroll’s character is assumed to be the same age as the actress—which is implied by her status and career accomplishments—the couple would have had to work fast in order to have two or three children before her fertility window closed [7]. A large family would have been out of the question. (In demographic terms, two children per couple represents replacement of themselves; it does not signify replacement of the population as a whole, much less population expansion, due to people who die young or otherwise fail to marry, reproduce, or have more than one child.)

While the film is laser-focused on landing a husband (thus, a male companion in the context of marriage), the idea of a traditional large family with many children, or any children at all, for that matter, is downplayed. The only child in the picture is a small orphan girl the couple eventually adopt—and she’s primarily consigned to the care of the help, both in New York and Bali.

Thus, the idea of “family” remains implicit at best. Indeed, it is probably subordinate to the idea of companionate marriage [8]. Even as they age, the two principals remain “young” and attractive and do not embrace, or advance into, the maturity, responsibility, and unglamorousness of motherhood and fatherhood. It is interesting that ’30s moviegoers readily accepted this extension of youth into relatively mature adulthood.

When Carroll first meets MacMurray and learns he is from Bali, she is deeply intrigued by the unusual sexual relationships this suggests. Much of their exchange on this subject is conveyed indirectly by subtle and sophisticated innuendo, including facial expressions.

Are Balinese girls really that pretty? she asks. Yes. There aren’t many white women out there, are there? No. Do you marry the Balinese girls? A flat “No,” accompanied by a decisive shake of the head. I suppose some of the (white) men . . . (have sex with the Balinese girls). Yes (indirectly). “Do you have a girl out there?”

MacMurray replies that he has five: one to do the cooking, one the housecleaning, one to care for his clothing . . . and one to dance for him. “But that’s only four,” she protests. He responds with a significant look. (The fifth is for sex.) This does not put Carroll off, but makes him more intriguing in her eyes. Later, after she abandons New York to follow MacMurray to Bali, narrowly averting his impending marriage to Osa Massen, she learns that he’s a decent chap after all—he only has one woman, an elderly Balinese servant who keeps house for him. But, of course, she didn’t know that when she abandoned career and country to pursue him.

This raises the interesting presence of a conspicuous alpha male/beta male distinction in Van Upp’s film.

MacMurray, of course, is the alpha male, a fact conveyed by a variety of different methods. From the outset he pursues Carroll aggressively, unabashed by her status, position, or superior wealth, yet somehow remaining aloof and seemingly indifferent to her at the same time. In a key scene, after pursuing her to the Bahamas when she flees his marriage proposal, he forces himself upon her, kissing her against her will as she struggles, saying, “You’re lying that you don’t love me. You’re afraid you’ll have to give up Morrissey’s and go back to being Miss Nobody. I’m only doing this because you don’t want me to. It’s the only way I know to hurt you, and it’s killing you, and I’m laughing,” before thrusting her contemptuously to the sand and departing. Keep in mind that this was written by a woman—indeed, a highly successful career woman. (A white conservative lady who saw the movie opined on her blog [9] that MacMurray’s character was “too aggressive.”)

lune-de-miel-a-bali-affiche_395642_26310.jpgThe beta rival for Carroll’s affection is Eric Sinclair, played by Welsh American singer-actor Allan Jones, a professional opera singer who has known Carroll for many years. His attitudes toward marriage are much different from MacMurray’s. He believes a woman can have marriage and a career both, as Carroll tells MacMurray while the three are returning to her apartment in Eric’s chauffeur-driven car. “He even believes,” she adds, “that if a [married] woman wanted to have her own apartment, and he [the husband] his own apartment . . .” her voice trailing off lamely because the words sound so foolish when spoken aloud. Eric thinks MacMurray’s view of marriage “sounds a bit barbaric.” (At another point in the film, though, he wonders, “What’s this guy got? What’s his technique?”) When MacMurray escorts Carroll to her door, she scolds him, saying, “That was rude of you, trying to hold my hand in another man’s car.”

When Carroll eventually proposes marriage to Eric under the mistaken impression that MacMurray has married rival Osa Massen, and Eric accepts (note the irony of the woman proposing to the man), she receives contrary advice from a plebeian window washer at Morrissey’s (Armenian actor Akim Tamiroff) whose counsel she sometimes heeds. Tamiroff is decisive in his preference for MacMurray over the highly cultured Eric:

“The first gentleman may be a fine gentleman, but he’s no gentleman for you. Your kind of a woman needs a guy, not a fine gentleman. The second one, he’s a guy. The first gentleman will let you be the boss, and a woman ain’t supposed to be the boss. Your kind of a woman needs a boss man.”

To top it off, Eric ultimately steps gallantly aside after he has won the lady’s hand (“He’s the nicest man I know,” Carroll praises him at one point) in order to facilitate MacMurray’s and Carroll’s hooking up.

Two religious passages play a key role in the plot.

First, MacMurray calls off his marriage to Massen at the last minute because of a chance remark by a priest the day before the wedding:

The Balinese never marry except for love, and once they are married only death parts them. Marriage is such a wonder to me. The thing that happens between a man and a woman to make them want no one on this earth but each other. It is a frightening thing, really, because it is their responsibility to keep that fragile bond intact and living. In every union there is a mystery, a certain invisible bond which must not be disturbed.

Marrying Massen, whom MacMurray does not love, would be a mistake because of the absence of this invisible bond. Apart from being right about the “fragile bond,” this is an overly romantic view of marriage.

Madeleine Carroll’s epiphany comes after she falls ill and is hospitalized in New York. The doctors couldn’t discover what was wrong with her. But finally “a wise man” informed her that long ago it was said that “It is not good for man to live alone”—and that this meant women, too. (Though not mentioned, this is a paraphrase of Genesis 2:18—I always pay attention to whether someone is quoting the Old or the New Testament, and how much from either.)

She confesses to MacMurray, “He said that however carefully a woman may have organized her life, that a husband and children were necessary to make her complete. It’s like going about with one arm . . . you’re missing something. But you don’t always know how important those things are until you’ve let them go by. Then you have to pay, any woman does, with an awful loneliness.” The unidentified wise man further explained that this loneliness had been lying in wait for Carroll for a long time, and closed in on her after MacMurray left, making her sick.

End of a Career

Van Upp’s departure from Columbia and moviemaking in 1947 was the result of an unspecified falling out with studio boss Harry Cohn, a legendary jerk. (Of Cohn’s impressively-attended funeral in 1958, comedian Red Skelton joked, “It proves what Harry always said: give the public what they want and they’ll come out for it.”)

Under Cohn Columbia was run like “a private police state,” which, Nineteen Eighty-Four-style, included listening devices concealed on every sound stage through which Cohn could, and did, secretly monitor conversations on any set at will. This kind of mentality and behavior obviously lifts one race far above others. It doesn’t require exceptional imagination to comprehend the immeasurable advantage and tremendous power conferred, particularly when combined with unscrupulousness and criminality. Yet whites will not grasp this and many other simple realities, no matter how much evidence they have about Communism, Zionism, or Jewish behavior generally. The victims in such cases are bound to lose unless they take adequate compensatory measures to protect themselves and then strike back.

According to Bob Thomas’ King Cohn: The Life and Times of Harry Cohn (1967), the producer was an admirer of Mussolini prior to the latter’s link-up with Hitler. Cohn met the dictator in Italy, where he received an award after releasing the successful and flattering documentary Mussolini Speaks (1933). (This has never been released on DVD. You can watch a 10-minute clip from the film here [10]. The narrator is radio newsman Lowell Thomas.) Bob Thomas includes a short chapter in his book entitled “A Visit to Il Duce, and How It Affected the Cohn Style.”

Cohn also maintained connections with organized crime, including Chicago’s John Roselli and Jewish gangster Abner “Longie” Zwillman. Like many Jews he used violence or the threat of violence to obtain and keep money and power. (It was mob money from Zwillman that enabled Cohn to buy out a partner during his early years, giving him full control of the studio.)

Married twice to white women, Cohn regularly demanded and received sexual favors from white actresses in exchange for employment. Like so many Hollywood executives of the time, he was a forerunner of today’s ubiquitous “adult film industry” pimp-pornographers.

With respect to Van Upp, Bob Thomas observed that Cohn “needed to find one area of vulnerability [in order to dominate and control her]. It wasn’t drinking. It wasn’t any secret in her personal life [note the Jew’s systematic probing for vulnerabilities and deliberate, callous exploitation of human frailties—another unflattering reason why the race is dominant]; she was happily married to a radio director, Ralph Nelson. [Nelson was her second husband; they had a daughter together, but divorced in 1949.] It wasn’t even money, the temptation with which Cohn had snared many a victim.”

Instead, he used his authority as studio head to attempt to extort sex from her. Van Upp spurned his unwelcome advances, convinced, according to Thomas, that Cohn was “a verbal rapist” who had no intention of going through with the affair. Even so, she demanded that her contract as executive producer include a clause prohibiting her boss from engaging in “verbal rape.” Appalled at how this would look, after a two-hour argument Cohn finally agreed to a handshake deal instead. (He had not lied to her in the past.) The issue never came up again.

By 1947 Van Upp had wearied of overseeing Columbia’s entire motion picture output and “felt the need to resume her marriage.” She therefore took an extended leave of absence, but by the time she returned, “Cohn’s need for her was over” (Thomas, King Cohn).

It is easy to see how the feminist/anti-feminist themes that dominate Honeymoon in Bali overlap with actual tensions in Van Upp’s life between her role as a highly successful businesswoman and her desire to be a wife and mother. Of course, such a desire was more widespread in Van Upp’s day than ours. Today such values have largely been eliminated from the white population, as many bizarre pronouncements by women, men, and authority figures make agonizingly clear. The economic prerequisites necessary for successful family formation so often emphasized by Benjamin Franklin also militate against the family, as do hostile laws and police behavior courtesy of the state.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/11/Honeymoon_in_Bali_film_poster.jpg

[2] Grace Sartwell Mason: http://www.bradfordera.com/news/article_7e49db5a-d7f0-5949-8389-306e7beb5935.html

[3] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/11/Virginia-Van-Upp-R.-with-Rita-Hayworth-Glenn-Ford.jpg

[4] his review: http://bobbyriverstv.blogspot.com/2013/08/fred-macmurray-gets-bali-high.html

[5] about which I have previously: http://www.counter-currents.com/2013/02/clare-boothe-luces-the-women-2/

[6] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/11/TV-Producer-Alison-Martino-West-Hollywood-home1.jpg

[7] before her fertility window closed: http://www.counter-currents.com/2012/07/population-age-structure-fertility/

[8] companionate marriage: http://www.thefreedictionary.com/companionate+marriage

[9] opined on her blog: http://laurasmiscmusings.blogspot.com/2009/12/tonights-movie-honeymoon-in-bali-1939.html

[10] here: http://www.youtube.com/watch?v=O1ZJVgB8POg

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Weimar 1941-1942: la Société Européenne des Ecrivains

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Weimar 1941-1942: la Société Européenne des Ecrivains

par Christophe Dolbeau

Au soir du 4 octobre 1941, trois écrivains français, Jacques Chardonne, Marcel Jouhandeau et Ramon Fernandez, embarquent dans un train de nuit qui va les conduire en Allemagne où les autorités les invitent à participer à un congrès littéraire. Ils seront rejoints ultérieurement par quatre de leurs confrères, Abel Bonnard, Pierre Drieu la Rochelle, Robert Brasillach et André Fraigneau. Favorables au nazisme, pragmatiques, opportunistes ou simplement séduits par le discours européen de leurs interlocuteurs allemands, ces sept hommes apportent ainsi leur caution à une ambitieuse entreprise du Dr Gœbbels : mobiliser les écrivains derrière la bannière du Reich pour construire une Europe nouvelle.

À la découverte du Reich

À un peu plus d’un an de l’armistice franco-allemand et tandis qu’une bonne moitié de la France est occupée, ce voyage est tout sauf anodin. Il démontre qu’une page est en train de se tourner et que certains intellectuels sont prêts à jouer la carte allemande. Ce phénomène n’est pas circonscrit à la France et dès l’escale de Cologne, nos voyageurs retrouvent un petit groupe de collègues arrivés des quatre coins du continent. Il y là une romancière bulgare, Fani Popowa-Mutafowa (1), membre du mouvement fascisant des « Ratniks » (Combattants), un essayiste et poète croate, Antun Bonifačić (2), proche du gouvernement oustachi, le jeune poète et dramaturge finnois Arvi Kivimaa (3), le Danois Svend Fleuron (4), auteur d’ouvrages sur la nature et les animaux sauvages, et son compatriote Ejnar Howalt (5), dramaturge et militant du parti national-socialiste danois, le philosophe fasciste italien Alfredo Acito, les phalangistes espagnols Ernesto Giménez Caballero (6) et Luis Felipe Vivanco (7), le Norvégien Kåre Bjørgen (8), disciple de Quisling, le Suédois Einar Malm (9), le poète frison Rintsje Piter Sybesma (10) et les Flamands Ferdinand Vercnocke (11) et Filip de Pillecijn (12). Pour accueillir et guider cette quinzaine d’invités, les organisateurs de la tournée ont mobilisé toute une escouade de jeunes talents au premier rang desquels se détachent l’historien Karl-Heinz Bremer (13) et le lieutenant Gerhard Heller (14), deux hommes qui jouent à Paris un rôle capital. Autour d’eux sont également du voyage les poètes Moritz Jahn (15), Karl-Heinz Bischoff (16), Friedrich Schnack (17) et Hans Baumann (18), ainsi que le dramaturge August Hinrichs (19) et le romancier et traducteur Carl Rothe (20). Les autorités ne lésinent pas : les visiteurs sont traités de façon royale et entre deux pèlerinages culturels, ils ont droit à toutes sortes d’attentions. On les emmène voir la maison de Stefan George, à Bingen, puis le foyer natal de Gœthe, à Mayence, avant de leur faire déguster quelques bons crus rhénans et de les recevoir en grandes pompes à Heidelberg. À Munich, le groupe est hébergé au Bayerischer Hof, l’un des plus beaux hôtels de la ville, où il rencontre Hanns Johst (21), le tout puissant président de la Chambre des Écrivains du Reich. À Salzbourg, les voyageurs assistent à une représentation des Noces de Figaro et le lendemain, ils sont à Vienne où le bourgmestre leur offre le souper. Ils visitent ensuite Baden, la station thermale qu’affectionnait Beethoven, et font le tour de la demeure de Schubert, avant de prendre part, à la Hofburg, au grand dîner d’apparat qu’offre en leur honneur le coruscant Reichsstatthalter de l’Ostmark, Baldur von Schirach. Le 21 octobre, une dernière étape conduit enfin les visiteurs à Berlin où ils rencontrent Carl Schmitt et visitent Babelsberg, la nouvelle chancellerie et le ministère de la propagande où le Dr Gœbbels leur adresse quelques mots de bienvenue. Leur périple touristique s’achève là car le 23 octobre, ils sont attendus à Weimar où vont débuter les rencontres poétiques (Dichtertreffen) dont ils sont les hôtes d’honneur.

Littérature et Ordre Nouveau

Le 24 octobre 1941, c’est donc dans la grande Weimarhalle et sous un oriflamme frappé d’une Croix de fer, d’un livre et d’un glaive que s’ouvre le congrès qui a pour thème « la littérature dans l’Europe de demain ». Le groupe des invités étrangers s’est étoffé de quelques personnalités et il compte désormais une bonne trentaine de membres. Au nombre des gens qui sont venus directement figurent les Français Abel Bonnard, Pierre Drieu la Rochelle, Robert Brasillach et André Fraigneau que nous avons cités plus haut, les Flamands Felix Timmermans (22) et Ernest Claes (23), les Néerlandais Jan de Vries (24) et Jan Eekhout (25), le Finlandais Veikko Antero Koskenniemi (26), le Suisse John Knittel (27), le Norvégien Lars Hansen (28), l’Italien Arturo Farinelli (29), les Roumains Niculae I. Herescu (30) et Ion Sân-Giorgiu (31) et les Hongrois József Nyirö (32) et Lörinc Szabó (33). Après le discours d’inauguration que prononce Wilhelm Hægert, chef de la section « littérature » au ministère de la Propagande et vice-président de la Chambre des Écrivains, plusieurs orateurs allemands, dont Hanns Johst, Hans Baumann, Bruno Brehm (34) et Mauritz Jahn, se succèdent à la tribune pour évoquer qui le rôle phare de la race germanique dans l’essor et la défense de la culture européenne, qui la croisade contre le communisme ou qui encore la place du poète en temps de guerre et la nécessité de célébrer l’héroïsme sous toutes ses formes.. Au-delà de ces allocutions plus ou moins inspirées, l’événement majeur de ces journées reste toutefois la décision que prennent les participants de pérenniser le climat amical du congrès et de formaliser leur coopération en se regroupant de façon permanente au sein d’une nouvelle association, la Société Européenne des Écrivains (Europäische Schriftsteller-Vereinigung ou ESV). Cette initiative a, semble-t-il, pour origine une suggestion conjointe du Prix nobel norvégien Knut Hamsun, du Flamand Stijn Streuvels (35) et de la romancière finnoise Maila Talvio (36), et le Dr Gœbbels en a, bien sûr, aussitôt saisi tout l’intérêt : placée sous le haut patronage de son ministère, la nouvelle association ne pourra que contribuer au rayonnement culturel du Reich et favoriser la collaboration en Europe. À titre personnel, le ministre y voit aussi une belle revanche sur le PEN club international qui a exclu son pays en 1934, et plus précisément sur son président d’alors, H. G. Wells, un individu qui prétend n’avoir « jamais rencontré un homme plus juste, plus candide et plus honnête » que Joseph Staline…

La Société Européenne des Écrivains (ESV) se choisit un président en la personne du romancier italo-bavarois Hans Carossa (37), deux vice-présidents, M.M. Koskenniemi et Giovanni Papini (38), et un secrétaire général qui sera Carl Rothe. Les statuts de l’association ne seront signés que le 27 mars 1942 (39), au terme du premier exercice. Ils sont assez souples et dénués de connotation politique. L’article deux précise que le but de la société est « l’encouragement des contacts personnels et des rencontres entre écrivains des nations européennes, la discussion et la solution de tâches et de désirs communs dans toutes les branches de la littérature ; la consultation compétente en matière juridique et économique » (40) ; l’article cinq indique que l’association « se divise en groupes nationaux qui sont représentés par leurs porte-parole » ; l’article sept stipule que « l’on n’est membre qu’à titre purement personnel » et que « l’on n’acquiert pas la qualité de membre par une adhésion volontaire mais uniquement par une nomination », cette dernière étant faite par le président de la société, sur proposition du porte-parole du groupement national (article 8). Le siège social est établi à Weimar (article 3) et la cotisation fixée à dix Reichsmarks (article 12). Entre deux flâneries dans Weimar, une visite de la maison de Gœthe et un dîner au château de Tiefurt, les congressistes participent à différents ateliers. Parmi divers projets, ils envisagent de créer une grande bibliothèque ouverte aux membres de la société et se promettent d’encourager activement la diffusion dans toute l’Europe des meilleures œuvres des auteurs contemporains. Dans l’immédiat, ils se fixent néanmoins pour premier objectif de lancer une publication de prestige qui servira de vitrine à l’association. Les protecteurs allemands de l’ESV ayant donné leur accord et promis quelques crédits, le premier numéro du mensuel Europäische Literatur verra le jour en mai 1942. Dirigé par Wilhelm Ruoff, il s’agit d’un magazine très éclectique et non dépourvu d’attraits qui traite aussi bien de la poésie japonaise que de la littérature espagnole contemporaine, de la poésie lyrique croate ou du point de vue danois sur les lettres américaines, qui aborde de grands thèmes comme le Danube, le Rhin ou Dante en Allemagne, et consacre de nombreux reportages aux auteurs de l’ESV (41).

Les premières rencontres européennes s’achèvent le dimanche 26 octobre pour faire place à la Semaine du livre de guerre allemand qu’inaugure Joseph Gœbbels. Dans son allocution d’ouverture, le ministre ne manque pas de saluer les invités étrangers. Ceux-ci étaient présents, le matin même, lorsque le Reichsminister est allé fleurir les tombes jumelles de Gœthe et de Schiller, et dans la soirée, ils prennent part à un dîner d’adieu suivi d’une représentation de l’Iphigénie en Tauride de Gœthe. Le lendemain, les congressistes regagnent leurs pays respectifs, à l’exception de Bonnard, Drieu la Rochelle, Brasillach et Fraigneau qui font un crochet à Jäckelsbruch où Arno Breker les reçoit dans son atelier, puis à Berlin où ils s’entretiennent avec quelques travailleurs français. À leur retour, tous les invités de Weimar vanteront la parfaite courtoisie de leurs hôtes, l’organisation impeccable de leur séjour et l’ambiance particulièrement conviviale du congrès ; tous souligneront également les belles perspectives de réconciliation et de renaissance européenne qu’ouvrent de telles rencontres.

Un indéniable succès

Dès la fin de l’année 1941, la toute nouvelle Société Européenne des Écrivains commence à s’organiser et ses « groupes nationaux » à recruter. Un certain mystère demeure, aujourd’hui encore, sur la composition du groupe français dont on ne connaît avec certitude que ceux de ses membres qui se sont rendus à Weimar. On peut toutefois supputer que des gens comme Alphonse de Châteaubriant, Ernest Fornairon, Edouard Dujardin ou Camille Mauclair ont pu y appartenir mais ce ne sont que des suppositions. Apparaît aussi à Paris, en février 1943, un hebdomadaire baptisé Panorama dont les objectifs sont fort proches de ceux de Europäische Literatur (42) et dont les collaborateurs sont souvent les mêmes. Moins de cachotteries, en revanche, pour la Finlande où l’on sait précisément qu’une cinquantaine d’écrivains, dont Mika Waltari (43) et Viljo Kajava (44), figurent dans le groupe local de l’ESV. En Norvège, Knut Hamsun a rejoint l’association et en Suède, Sven Hedin (45) a fait de même. En Croatie et outre Antun Bonifačić que nous avons déjà mentionné, l’association compte 17 membres dont Mile Budak (46), Slavko Kolar (47), Mihovil Kombol (48), Milan Begović (49), Dobriša Cesarić (50), Zvonko Milković (51) et Ivan Goran Kovačić (52). En Espagne, où le recrutement de l’ESV n’est pas bien connu, il est probable que fassent partie de l’association quelques-uns des poètes (53) qui signent, en 1941, le recueil Poemas de la Alemania eterna, mais il s’agit là encore d’une hypothèse. La Belgique, de son côté, est un pays où l’ESV – qui dispose de deux groupes – rencontre un franc succès. Chez les Flamands, la plupart des auteurs nationalistes et « völkisch » – Stijn Streuvels, Felix Timmermans, Filip de Pillecijn, Ferdinand Vercnocke, Emiel Buysse (54), Ernest Claes, Cyriel Verschaeve (55), Gerard Walschap (56), Wies Moens (57) et Antoon Thiry (58) – en font partie (59), et quant à la « section wallonne et belge de langue française », elle rassemble, entre autres, les romanciers prolétariens Pierre Hubermont (60) et Constant Malva (61) (photo ci-dessous), l’académicienne Marie Gevers (62), le journaliste Pierre Daye (63), le traducteur Guillaume Samsoen de Gérard (64), le régionaliste Joseph Mignolet (65), le rexiste Lucien Jablou (alias Franz Briel) et même le très curieux Sulev Jacques Kaja (66).

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Conformément aux statuts de l’association comme aux vœux de ses membres, la Société Européenne des Écrivains se réunit une seconde fois à l’automne 1942, entre le 7 et le 11 octobre. Cette fois, il n’y a pas eu de balade touristique et les conditions de guerre se font sentir : l’hébergement est bien moins luxueux et les menus frugaux. Dans un rapport à son ministre de tutelle, l’un des participants italiens se plaindra notamment de l’omniprésence de la soupe de pommes de terre et de la margarine… Quoi qu’il en soit, de nombreux auteurs étrangers ont cependant fait le déplacement. La Finlandaise Maila Talvio est présente, tout comme ses compatriotes Veikko Antero Koskenniemi, Mika Waltari, Viljo Kajava, Örnulf Tigerstedt (67) et Tito Colliander (68). On dénombre également cinq Français, M. M. Jacques Chardonne, Pierre Drieu la Rochelle, André Fraigneau, André Thérive et Georges Blond (69), le Roumain Liviu Rebreanu (70), le poète hollandais Henri Bruning (71), le dramaturge danois Svend Borberg (72) et le romancier slovaque Jozef Cíger-Hronský (73). Contrairement au premier congrès, la délégation italienne est cette fois plutôt fournie avec les académiciens Arturo Farinelli, Antonio Baldini (74) et Emilio Cecchi (75), le philosophe et musicologue Giulio Cogni (76), les universitaires fascistes Mario Sertoli et Alfredo Acito, le critique Enrico Falqui (77) et les deux valeurs montantes que sont Elio Vittorini (78) et Giaime Pintor (79).

Ce second congrès a pour thème « le poète et le guerrier » et en l’absence de Hans Carossa comme de Papini, c’est le Finnois Koskenniemi qui préside. Comme l’année précédente, la plupart des orateurs sont des écrivains allemands – Edwin Erich Dwinger (80), Wilhelm Ehmer (81), Wilhelm Schäfer (82), Gerhard Schumann, Georg von der Vring (83) et Hermann Burte (84) – mais deux Italiens, Arturo Farinelli et Emilio Cecchi, sont également invités à s’adresser à l’assemblée. Si les communications et les débats restent très académiques, l’association prend toutefois, sur le plan pratique, une décision importante, celle d’attribuer, pour la première fois, une bourse d’encouragement à deux jeunes auteurs : la Finlandaise Irja Salla (85) et le Croate Dobriša Cesarić. La guerre et ses enjeux sont bien évidemment au cœur de toutes les conversations des congressistes auxquels Joseph Goebbels ne manque pas de rappeler, dans son discours de clôture, que le conflit en cours n’est pas seulement un combat entre des forces matérielles mais aussi un affrontement entre des forces spirituelles et que les écrivains n’ont d’autre choix que de s’engager. Le 11 octobre, les écrivains se séparent et pour la plupart, ils ne se reverront pas : du fait de la tournure négative du conflit et de l’intensification des bombardements aériens sur l’Allemagne, il n’y aura, en effet, pas d’autre réunion plénière de l’ESV jusqu’à la dissolution officielle de l’association, en 1948. En 1943, néanmoins, plusieurs membres de l’ESV – Robert Brasillach, Ernesto Giménez Caballero, Pierre Daye, Filip de Pillecijn, Ferdinand Vercnocke, Örnulf Tigerstedt – se rendront à Katyn pour témoigner de l’ampleur du massacre commis par les Soviétiques : ce sera sans doute la dernière manifestation officielle de l’association.

Une initiative novatrice

streuvels.gifÀ l’issue de cette brève évocation de la Société Européenne des Écrivains, force est de constater que le IIIe Reich et l’Europe occupée n’étaient pas le désert culturel absolu que l’on nous a si souvent décrit. Dans cet enfer, il y avait des musiciens, des peintres et des sculpteurs qui s’exprimaient (86) et aussi des écrivains qui ne se sentaient pas si mal. Et quant au Dr Gœbbels, loin de brandir son Browning à l’énoncé du mot culture (87), il témoignait, au contraire, d’un réel intérêt pour les Lettres et les Arts, domaines où il faisait souvent montre (toutes proportions gardées, bien sûr) d’un « libéralisme » étonnant. La Société Européenne des Écrivains en est un peu l’illustration puisque le ministre de la Propagande en avait, en toute connaissance de cause, confié les leviers de commande à des hommes qui n’avaient rien de grands partisans du régime nazi. Hans Carossa et Carl Rothe n’étaient pas membres du NSDAP : le premier se réclamait presque ouvertement de l’ « émigration intérieure » et quant au second, il était même carrément en relation avec des conspirateurs antinazis. Parmi les membres allemands de l’association, nombreux étaient les auteurs qui, à l’instar de Hans Friedrich Blunck (88), Karl Heinrich Waggerl (89), Wilhelm Schäfer ou Eugen Roth (90), n’avaient pas la carte du parti, et si l’on trouvait, bien sûr, chez les adhérents étrangers, un fort contingent de sympathisants déclarés du national-socialisme, on y rencontrait aussi des conservateurs, des européistes et de simples anticommunistes. Lorsque, en mars 1942 et à l’occasion d’une réunion de l’ESV, Giovanni Papini fit un vibrant éloge du christianisme, on ne peut pas dire qu’il était vraiment en adéquation avec la doctrine nazie. Quelques auteurs provenaient d’horizons peu orthodoxes, comme l’académicien Emilio Cecchi qui avait signé, en 1925, le Manifeste des intellectuels antifascistes de Benedeto Croce, ou Viljo Kajava qui était un ancien marxiste. Certains, enfin, n’avaient pas véritablement choisi leur camp : ils étaient peut-être là par opportunisme ou par simple curiosité. Ainsi, les Croates Dobriša Cesarić, Slavko Kolar et Ivan Goran Kovačić ne tarderont-ils pas à se rallier à Tito, et les Italiens Vittorini et Pintor à rejoindre eux aussi les partisans communistes ou les forces alliées…

jouhandeau_.jpg« Nul n’aura de l’esprit, hors nous et nos amis », écrivait déjà Molière auquel Jean-Paul Sartre fait écho à sa manière en affirmant que « par définition, un fasciste ne peut pas avoir de talent » (91). N’en déplaise à « l’agité du bocal » (comme le surnommait Céline), la Société Européenne des Écrivains comptait tout de même dans ses rangs des personnalités comme Knut Hamsun, Sven Hedin, Karl Heinrich Waggerl ou John Knittel qui étaient des auteurs de notoriété internationale et au talent unanimement reconnu. Elle réunissait aussi des gens comme Eugen Roth, Marcel Jouhandeau (photo), Mile Budak, Stijn Streuvels, V. A. Koskenniemi ou József Nyírö qui figuraient à l’époque et dans leurs pays respectifs parmi les auteurs les plus lus. Certes, à côté de ces « célébrités », l’ESV accueillait quelques écrivains moins connus mais ce déficit de notoriété ne tenait pas tant à leur manque de talent qu’au fait que l’ancien système les avait délibérément ignorés ou marginalisés pour des raisons idéologiques…

Au total et même si l’expérience a rapidement tourné court, il semble juste de dire que cette Société Européenne des Écrivains fut une initiative plutôt heureuse et novatrice. Il serait sans aucun doute naïf de ne pas voir la part d’hypocrisie et d’instrumentalisation politique qu’elle recelait, mais au-delà de cette indispensable réserve, force est de reconnaître que cette association s’inscrivait bel et bien dans le cadre d’un vrai projet européen. Elle traduisait indubitablement le désir sincère de nombreux écrivains de se concerter et d’avancer ensemble sur des chemins nouveaux, loin des coteries communisantes et cosmopolites qui régnaient avant-guerre sur la littérature et l’édition. Elle traduisait peut-être aussi, mais avec plus ou moins de sincérité, le souhait ou l’arrière-pensée de certains dirigeants allemands de bâtir autour de leur pays une véritable confédération européenne (92).

Christophe Dolbeau

Notes

(1) Fani Popowa-Mutafowa (1902-1977) est l’auteur de nombreux romans historiques (Le dernier des Assénides ; Ivan Assen II ; La fille du tsar Kaloyan) ; elle sera emprisonnée par les communistes en 1945.

(2) Antun Bonifačić (1901-1986) est l’auteur de recueils de poésie (Pjesme ; Sabrane pjesme), de romans (Krv Majke Zemlje ; Mladice ; Bit ćete kao Bogovi) et d’essais (Paul Valéry ; Ljudi Zapada). Réfugié au Brésil puis aux USA, il présidera le Mouvement de Libération Croate (HOP) entre 1975 et 1981.

(3) Arvi Kivimaa (1904-1984) a été le directeur du Théâtre de Tampere (1940-42) et du Théâtre National de Finlande (1950-1974). Auteur de romans (Epäjumala ; Viheriövä risti), il a également écrit des nouvelles, des essais et des pièces de théâtre.

(4) Svend Fleuron (1874-1966) est l’auteur de nombreux romans consacrés à la nature et aux animaux (Le roman d’un brochet ; Les cygnes du lac de Wild).

(5) Ejnar Howalt (1891-1953) est un auteur de comédies (Asfalten synger ; Hvis jeg havde Penge) ; il appartenait au parti national-socialiste danois (DNSAP).

(6) Ernesto Giménez Caballero (1899-1988) est l’auteur de divers ouvrages inspirés par le surréalisme, l’ultraïsme et le futurisme (Yo, inspector de alcantarillas ; Julepe de menta) ainsi que d’essais politiques (Genio de España ; La nueva catolicidad). Il fut l’un des premiers phalangistes. Après la guerre, il servira dans la diplomatie et occupera notamment le poste d’ambassadeur au Paraguay. Voir C. Dolbeau, « Ernesto Giménez Caballero, un phalangiste hors norme », in Les Parias, Lyon, Irminsul, 2001, pp. 229-239.

(7) Architecte de profession et neveu de José Bergamín, Luis Felipe Vivanco (1907-1975) a publié de nombreux recueils de poésie (Cantos de primavera ; Tiempo de dolor ; Continuación de la vida). D’abord de sympathie républicaine, il s’est rallié aux idées phalangistes en 1936.

(8) Kåre Bjørgen (1897-1974) est le poète officiel du Nasjonal Samling de Vidkun Quisling ; il est l’auteur de plusieurs recueils « engagés » (I Noregs namn ; Eld og blod ; Storm og stille) et d’une pièce dramatique (Angvare).

(9) Einar Malm (1900-1988) est un romancier, poète et scénariste (auteur notamment de l’adaptation cinématographique du roman d’August Strindberg Hemsöborna). Après guerre, il a consacré plusieurs ouvrages aux Indiens d’Amérique du Nord.

(10) Originaire de la Frise, Rintsje Piter Sybesma (1894-1975) est l’auteur de récits en prose (Om it hiem ; It anker) et de poésie (Ta de moam ; Der Zehnte Mai ; De swetten útlein). Il était membre du Nationaal-Socialistische Beweging de Anton Mussert.

(11) Avocat de profession et d’origine ostendaise, Ferdinand Vercnocke (1906-1989) est l’auteur de poèmes (Zeeland ; Heervaart ; Ask en Embla) et de récits en prose (Liebaerts, sagen voor de Dietsche jeugd ; Onze adelbrieven) ; il a également été le scénariste du film de propagande Vlaanderen te weer (1944). Il était sympathisant du Vlaams Nationaal Verbond (VNV).

(12) Filip de Pillecijn (1891-1962) est l’un des fondateurs du pèlerinage de l’Yser. Il est l’auteur de romans (Blauwbaard ; Hans van Malmédy ; De soldaat Johan), de nouvelles (Monsieur Hawarden ; Schaduwen) et d’essais biographiques (Stijn Streuvels en zijn werk ; Renaat De Rudder). Sympathisant des mouvements nationalistes VNV et DeVlag, il sera condamné à 10 ans de prison en 1947 mais sortira de détention en 1949.

(13) Historien de formation, Karl-Heinz Bremer (1911-1942), a été lecteur d’allemand à la Sorbonne et à l’École Normale Supérieure ; il fut aussi le traducteur des œuvres de Montherlant. Après avoir été l’un des dirigeants de l’Institut Allemand de Paris, il est envoyé sur le front de l’Est et tombe au combat à Veliky Novgorod, près du Lac Ilmen.

(14) Après des études de lettres à Berlin, Pise et Toulouse, Gerhard Heller (1909-1982) a travaillé à la Radio Berlin. Affecté à la Propaganda Staffel de Paris durant l’Occupation, il y supervise les services de la censure, ce qui le met en contact avec de nombreux éditeurs et écrivains.

(15) Moritz Jahn (1884-1979) est un professeur spécialisé dans l’étude du bas allemand. Il est l’auteur de plusieurs ouvrages sur cette thématique (Ulenspegel un Jan Dood ; Boleke Roleffs) ainsi que de nombreux essais (Das Denkmal des Junggesellen ; Die Gleichen).

(16) Libraire de profession, Karl-Heinz Bischoff (1900-1978) est l’auteur de nombreux récits et essais (Bis zur Heimkehr im Sommer ; Die Muschel ; Das grössere Glück). Membre du NSDAP, il fut également fonctionnaire auprès de la Chambre des Écrivains.

(17) Friedrich Schnack (1888-1977) a étudié la botanique, la géologie et l’entomologie avant de faire carrière dans le journalisme et la littérature. Il est l’auteur de poèmes (Vogel Zeitvorbei ; Palisander), de romans (Die goldenen Äpfel ; Die Orgel des Himmels), d’ouvrages sur la nature (Cornelia und die Heilkräuter ; Sybille und die Feldblumen) et de livres de voyage (Der Maler von Malaya ; Der Zauberer von Sansibar ; Der Mann aus Alaska).

(18) Instituteur, Hans Baumann (1914-1988) est un poète et l’un des plus célèbres compositeurs de chansons (Es zittern die morschen Knochen ; Hohe Nacht der klaren Sterne) de la Jeunesse Hitlérienne. Après la guerre (où il a servi dans une compagnie de propagande), il écrit des livres pour enfants qui rencontrent un grand succès.

(19) Spécialiste du bas allemand, August Hinrichs (1879-1956) est l’auteur de très nombreux récits et comédies (Der Moorhof ; Das Licht der Heimat ; Das Volk am Meer ; Der Musterbauer, etc) ainsi que de pièces radiophoniques.

(20) Carl Rothe (1900-1970) est l’auteur de romans (Die Zinnsoldaten ; Olivia) et d’essais (Weltkrieg gegen Deutsche Wirtschaft ; Karl IV von Luxemburg, deutscher Kaiser und König von Böhmen). Membre de l’Association pour le germanisme à l’étranger (VDA), il n’adhère pas, en revanche, au NSDAP et entretient des liens d’amitié avec plusieurs adversaires du régime (notamment Adolf Reichwein et Caesar von Hofacker, l’un des conjurés du 20 juillet 1944). Il sera, après guerre, le traducteur de Pierre Gaxotte.

(21) Président de la Chambre des Écrivains et de l’Académie de Poésie, Hanns Johst (1890-1978) est l’auteur de nouvelles (Der Anfang ; Die Begegnung ; Mask und Gesicht), de poèmes (Rolandruf ; Die Strasse), d’essais (Meine Erde heisst Deutschland) et de pièces de théâtre (Strof ; Propheten ; Wechsler und Händler ; Der Herr Monsieur ; Thomas Paine). Il est surtout connu pour sa pièce Schlageter où figure la fameuse phrase « Quand j’entends parler de culture, j’arme mon Browning ». Après guerre, il sera interné par les Alliés durant trois ans et demi.

(22) Autodidacte, Felix Timmermans (1886-1947) est l’auteur de romans (Pallieter ; Het kindeke Jezus in Vlaanderen ; Pieter Bruegel ; De familie Hernat), de poésie (Door de dagen ; Adagio) et de pièces de théâtre ; c’était également un peintre de talent. Ses ouvrages sont parmi les plus appréciés du public flamand.

(23) Ernest Claes (1885-1968) est l’auteur de très nombreux romans (De Witte ; Het leven van Herman Coene ; Kobeke ; De moeder en de drie soldaten ; etc). Brièvement interné à la fin de la guerre en raison de son appartenance au VNV, il sera finalement acquitté.

(24) Professeur à l’université de Leyde, Jan de Vries (1890-1964) est un linguiste et un mythographe de réputation internationale. Auteur de nombreux ouvrages qui font autorité (De Germaansche Oudheid ; Altgermanische Religiongeschichte ; Kelten und Germanen ; Het Nibelungenlied ; etc), il sera inquiété à la Libération bien qu’il se fût toujours montré très indépendant à l’égard des nazis.

(25) Jan Eekhout (1900-1978) est l’auteur de poésie (Louteringen ; In aedibus amoris ; De zanger van den Nacht) et de romans (Leven en daden van Pastoor Poncke van Damme in Vlaanderen ; De historie van Kathelijne Claes van Sluys in Vlaanderen ; etc). Proche du NSB de A. Mussert, il sera condamné à deux ans d’emprisonnement à la Libération.

(26) Professeur de littérature à l’Université de Turku et président de l’Association des Écrivains Finnois (1941-46), Veikko Antero Koskenniemi (1885-1962) est l’auteur de récits épiques (Nuori Anssi), de poèmes (Runoja ; Valkeat kaupungit ; Hiilivalkea) et d’essais (Kirjoja ja kirjailijoita). C’était l’un des auteurs les plus populaires de Finlande.

(27) John Knittel (1891-1970) est l’auteur de pièces de théâtre et de romans (Capitaine West ; Thérèse Étienne ; Le Basalte bleu ; Le Commandant ; Via Mala ; Le Docteur Ibrahim ; Amédée ; etc). En raison de ses sympathies pour le IIIe Reich, il sera exclu de l’Association des Écrivains Suisses…

(28) Originaire du nord de la Norvège, Lars Hansen (1869-1944) est l’auteur de romans (I Spitsbergens vold ; Jens Sørskar ; En havets søn ; Hvalrossen av Tromsø ; Beitsaren ; Kongen på Råsa ; Odin klarte det) qui seront pour la plupart traduits en allemand. Il était membre du Nasjonal Samling de V. Quisling.

(29) Linguiste de réputation internationale, Arturo Farinelli (1867-1948) fut professeur aux universités d’Innsbruck et Turin et membre de l’Académie d’Italie (1929). Il est l’auteur de nombreux essais (Die Beziehungen zwischen Spanien und Deutschland in der Literatur ; Dante, Pétrarque et Boccace en Espagne ; Le romantisme dans le monde latin ; Lope de Vega en Allemagne ; etc).

(30) Latiniste de réputation internationale, Niculae I. Herescu (1903-1961) fut professeur d’université, fondateur et directeur de l’Institut Roumain d’Études Latines, président de la Fondation Culturelle Carol Ier et de l’Association des Écrivains Roumains. Il est l’auteur de nombreux essais (La poésie latine : étude des structures phoniques ; Bibliographie de la littérature latine ; Ovidiana ; Points de vue sur la langue de Tite Live ; etc). À partir de 1944, il vit en exil, d’abord au Portugal puis en France

(31) Ion Sân-Giorgiu (1893-1950) est un poète (moderniste), un essayiste, un critique littéraire et un dramaturge, auteur de plusieurs pièces à succès (Masca ; Banchetul ; Femeia cu douā suflete). Membre successivement du Parti National Chrétien et du Front de la Renaissance Nationale, il sympathise ensuite avec la Garde de Fer. Émigré en 1944 et condamné à mort par contumace, il siègera au sein du gouvernement légionnaire en exil qu’avait fondé Horia Sima.

(32) Originaire de Transylvanie, József Nyírö (1889-1953) est l’auteur de romans et de nouvelles (Uz Bence ; Isten igájában ; Halhatatlan élet ; Nésna Küzdelem ; etc) très appréciés du public hongrois. Membre du mouvement des Croix Fléchées, il trouvera refuge en Allemagne puis en Espagne à la fin de la guerre.

(33) Lörinc Szabó (1900-1957) est l’auteur de plusieurs recueils de poésie (Föld, erdö, Isten ; Kalibán ; Te meg a világ ; Régen és most ; etc) qui lui ont valu de nombreuses distinctions. Il est également le traducteur de Shakespeare, Baudelaire, Villon, Verlaine, Gœthe, Kleist et Rilke. Il sera complètement exclu de la vie publique hongroise au lendemain de la guerre.

(34) D’origine autrichienne, Bruno Brehm (1892-1974) est l’auteur de plus de quarante romans et récits (Der lachende Gott ; Apis und este ; Das war das Ende ; Weder Kaiser noch König ; Tag der Erfüllung ; etc). Officier durant la Première Guerre mondiale, il sert à nouveau comme officier d’ordonnance (en Grèce, en Russie et en Afrique du Nord) durant la Seconde Guerre mondiale.

(35) Ancien boulanger, Stijn Streuvels (1871-1969) est un écrivain extrêmement prolixe et très populaire auprès du public flamand. La plupart de ses récits et romans (Zomerland ; De oogst ; Openlucht ; Reinaert de Vos ; De werkman ; etc) décrivent la vie des paysans et des gens modestes en Flandre Occidentale. À deux reprises, S. Streuvels a manqué de très peu le prix Nobel de littérature.

(36) Très célèbre en Finlande, Maila Talvio (1871-1951) est l’auteur de très nombreux romans et nouvelles (Haapaniemen keinu ; Aili ; Juha Joutsia ; Kirjava keto ; Itämeren tytar ; Pimeänpirtin hävitys ; Silmä yössä ; Karjet, etc). Elle a par ailleurs traduit et adapté en finnois les œuvres de Mæterlinck et Andersen. Animatrice d’un salon littéraire réputé, elle est également connue pour avoir ardemment défendu la cause des Polonais et des Baltes.

(37) Médecin de profession, Hans Carossa (1878-1956) est l’auteur de poésie (Gesammelte Gedichte), de nouvelles et de romans, souvent autobiographiques (Eine Kindheit ; Verwandlungen einer Jugend ; Der Artz Gion ; Rumänisches Tagebuchs ; Geheimnisse des reifen Lebens ; Das Jahr der schönen Täuschungen).

(38) Ancien instituteur, Giovanni Papini (1881-1956) est l’auteur de recueils de poésie, d’essais (Storia della letteratura italiana ; Il crepuscolo dei filosofi ; Storia di Cristo), de nouvelles (Il pilota cieco) et de romans (Un uomo finito ; Gog ; etc). Il était également membre du tiers ordre franciscain et académicien.

(39) Les signataires allemands sont H. F. Blunck, H. Baumann, H. Carossa, Moritz Jahn, Herybert Menzel et Gerhard Schumann ; les signataires étrangers sont S. Kolar (Croatie), Jan de Vries (Pays-Bas), Svend Borberg (Danemark), F. de Pillecijn (Belgique), F. Popowa-Mutafowa (Bulgarie), Arvi Kivimaa et Örnulf Tigerstedt (Finlande), J. Chardonne (France), G. Papini (Italie), J. C. Hronsky (Slovaquie), E. Giménez Caballero (Espagne), L. Rebreanu (Roumanie) et J. Knittel (Suisse).

(40) Voir la traduction française des statuts citée par B. Delcord in « À propos de quelques “chapelles“ politico-littéraires en Belgique (1919-1945 », Cahiers d’Histoire de la IIe Guerre mondiale, Bruxelles, Centre de Recherches et d’Études historiques de la IIe Guerre mondiale, N° 10, octobre 1986, p. 205.

(41) Voir Oliver Lubrich, « Comparative Literature – in, from and beyond Germany », in Comparative Critical Studies, 3.1-2 (2006), 47-67.

(42) Sur Panorama, voir Lionel Richard, Le nazisme et la culture, Paris, Maspero, 1978, pp. 290-292.

(43) Mika Waltari (1908-1979) est l’auteur de romans (Suuri illusioni ; Kiinalainen kissa ; Vieras mies tuli taloon ; Fine Van Brooklyn ; Kaarina Maununtytar ; Sinuhe egyptiläinen ; Johannes Angelos ; etc) mais également de contes pour enfants et de pièces de théâtre. De nombreux textes de N. Waltari ont été traduits et adaptés au cinéma.

(44) Viljo Kajava (1909-1998) est l’auteur de quelques romans, de pièces radiophoniques et surtout de nombreux recueils de poésie (Rakentajat ; Murrosvuodet ; Tampereen runot ; etc). Il a fait ses débuts à l’extrême gauche de l’échiquier politique.

AVT_Sven-Hedin_1652.jpeg(45) Sven Hedin (1865-1952) est un célèbre géographe et explorateur. Il est l’auteur de récits de voyage (Le Tibet dévoilé ; Bagdad – Babylon – Ninive ; Persien und Mesopotamien ; Von Peking nach Moskau ; Rätsel der Gobi ; Der wandernde See ; etc), d’ouvrages autobiographiques (Mein Leben als Entdecker ; Eroberungszüge in Tibet ; Ohne Auftrag in Berlin) et d’ouvrages politiques (Ein Volk in Waffen ; Deutschland und der Weltfriede ; Amerika im Kampf der Kontinente). Sympathisant du IIIe Reich (bien qu’il eût des ascendants juifs), il interviendra à plusieurs reprises en faveur de prisonniers juifs et norvégiens et sauvera la vie de plusieurs d’entre eux. En 1946, il obtiendra également la grâce du général allemand Nikolaus von Falkenhorst qui avait été condamné à mort par un tribunal britannique.

(46) Avocat de profession, Mile Budak (1889-1945) est l’auteur de récits autobiographiques (Ratno robije ; Na vulkanima) et de romans consacrés à la vie des paysans croates (Ognjište ; Direktor Križanić ; Na Veliki Petak ; San o sreći ; Kresojića soj). Membre de l’Oustacha, ministre et ambassadeur de l’État Indépendant Croate, il sera condamné à mort et exécuté par les partisans de Tito. Voir C. Dolbeau, « Mile Budak, itinéraire d’un réprouvé » sur http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2013/11/08/temp-bd4084d8309dec37480915bf93bde6df-5216585.html

(47) Slavko Kolar (1891-1963) est l’auteur de scénarios, de livres pour enfants, de pièces de théâtre (Politička večera ; Sedmorica u podrumu), de textes autobiographiques et de nouvelles ou romans (Povratak ; Svoga tela gospodar ; Čizme ; Jesu li kravama potrebni repovi ; etc). Il sera président de l’Association des Écrivains Croates.

(48) Mihovil Kombol (1883-1955) est l’auteur d’études et d’essais consacrés à l’histoire de la littérature (Dinko Ranjina i talijanski petrarkisti ; Povijest hrvatske književnosti do narodnog preporoda ; Zadar kao književno središte).

(49) Milan Begović (1876-1948) est l’auteur de quelques romans et nouvelles mais il est surtout connu pour ses pièces de théâtre (Pustolov pred vratima ; Amerikanska jahta u splitskoj luci ; Gospođa Walewska ; Bez trećega) et son anthologie de la prose moderne (Hrvatska proza XX. stoljeća). Il sera exclu en 1945 de l’Association des Écrivains Croates.

(50) Dobriša Cesarić (1902-1980) est un traducteur, un compositeur de chansons (Knjiga prepjeva) et l’auteur d’une dizaine de recueils de poésie (Lirika ; Pjesme ; Izabrani stihovi ; Slap, izabrane pjesme ; etc). Après guerre, il sera président de l’Association des Écrivains Croates et membre de l’Académie Yougoslave.

(51) Avocat de profession, Zvonko Milković (1888-1978) est l’auteur d’une anthologie de la poésie croate (Hrvatska mlada lirika) et de plusieurs recueils de poésie (Pobožni časovi ; Pjesme ; Krenimo u rano jutro).

(52) Ivan Goran Kovačić (1913-1943) est l’auteur de poèmes (Lirika 1932 ; Dani gnjeva). Rallié aux partisans communistes durant l’hiver 1942, il sera tué par des Tchetniks serbes. Plusieurs de ses œuvres seront publiées après la guerre (Hrvatske pjesme partizanke ; Ognji i rože ; etc).

(53) À savoir Emilio Carrere, Alfredo Marquerie, Tomás Borrás, José Montero Alonso, etc.

(54) Emiel Buysse (1910-1987) est un journaliste nationaliste, auteur de nombreux récits et essais (Vlamingen ; Miele keert terug ; Sneeuw en houtrook ; etc).

CV05.jpg(55) Cyriel Verschaeve (1874-1949) est un prêtre catholique et un militant nationaliste. Poète, philosophe, essayiste et dramaturge, il est l’auteur de nombreux ouvrages (Judas ; Maria-Magdalena ; Jacob van Artevelde ; Passieverhaal ; De Kruisboom ; Het Uur van Vlaanderen ; Eeuwige gestalten ; etc). Chef du Conseil culturel flamand en 1940, il se réfugie en Autriche à la fin de la guerre et sera déchu de la nationalité belge.

(56) Gerard Walschap (1898-1989) est l’auteur de pièces de théâtre, de nouvelles (Volk), de romans (Adelaide ; Houtekiet ; Een mens van goede wil ; Sybille ; Oproer in Kongo) et de contes pour enfants (De doot in het dorp ; De kaartridder van Herpeneert). Il sera anobli (titre de baron) en 1975.

(57) Wies Moens (1898-1982) est un historien de la littérature, un poète et un pamphlétaire. Il est l’auteur de divers recueils de poésie (Gedichten ; De tocht ; Golfslag ; De spitsboog ; etc) et de quelques récits en prose (De dooden leven ; Dertig dagen oorlog). Proche du mouvement solidariste (Verdinaso), il est condamné à mort par contumace, en 1945, et se réfugie aux Pays-Bas où il finira ses jours.

(58) Antoon Thiry (1888-1954) est l’auteur de nombreux romans (Pauwke’s vagevuur ; Onder Sinte Gommarus’ wake ; De vader ; Mijnheer van Geertrui zijn kerstnacht ; De hoorn schalt ; Gasten in ‘t huis ten have ; De zevenslager ; etc). Sympathisant du mouvement DeVlag, il sera condamné à trois ans de prison à la fin de la guerre.

(59) Voir Hedwig Speliers, « Le miracle de Weimar », in Textyles hors série N° 2 (1997), p. 167.

(60) Ancien aide-maçon, Pierre Hubermont (1903-1989) est un écrivain prolétarien qui fut membre du Parti Ouvrier Belge et prit part à la conférence des écrivains révolutionnaires (Kharkov, 1930). Il est l’auteur de plusieurs romans sociaux dont Treize hommes dans la mine, La Terre assassinée, Les Cordonniers, Marie des Pauvres, L’Arbre creux, et d’un témoignage sur les exhumations de Katyn (J’étais à Katyn, témoignage oculaire). Condamné à seize ans de détention pour collaboration, il sera remis en liberté en 1950.

(61) Ancien mineur de fond et militant trotskyste, Constant Malva (1903-1969) est un écrivain prolétarien. Il est l’auteur de divers contes et récits sociaux (Un propr’ à rien ; Borins ; Un ouvrier qui s’ennuie ; Mon homme de coupe ; Un mineur vous parle ; Le Jambot). Il sera condamné à une peine d’emprisonnement à la Libération.

(62) D’origine flamande mais d’expression française, Marie Gevers (1883-1975) est l’auteur de poèmes (Missembourg ; Les arbres et le vent), de romans (La Comtesse des digues ; Madame Orpha ou la sérénade de mai ; Guldentop ; La ligne de vie ; Paix sur les champs ; Château de l’Ouest ; etc), d’ouvrages sur la nature (L’herbier légendaire) et de contes et récits pour les enfants (Les oiseaux prisonniers ; Le Noël du petit Joseph) ; elle a également traduit et adapté en français de nombreux récits néerlandais. En 1938, elle fut la première femme élue à l’Académie Royale de langue et de littérature françaises de Belgique. Ses livres ont été traduits dans une dizaine de langues.

(63) Journaliste et ancien parlementaire rexiste, Pierre Daye (1892-1960) est l’auteur de très nombreux essais (La politique coloniale belge de Léopold II ; Le Maroc s’éveille ; La Belgique et la mer ; Beaux jours du Pacifique ; Stanley ; Guerre et Révolution ; L’Europe aux Européens ; Portrait de Léon Degrelle ; Trente-deux mois chez les députés ; et). Condamné à mort par contumace et déchu de la nationalité belge (1947), il vit après guerre en exil en Argentine où il finit ses jours.

(64) Guillaume Samsoen de Gérard est un traducteur d’origine liégeoise, membre du parti rexiste. Il est l’auteur d’essais (Missions secrètes en Ukraine ; Le comte de Tilly).

(65) Joseph Mignolet (1893-1973) est un écrivain patoisant. Il est l’auteur de recueils de poésie (Fleûrs di brouwîres ; Lès lâmes), de pièces de théâtre (Li vôye qui monte) et de romans (Vès l’ loumûre ; Li blanke dame ; etc).

(66) Sulev Jacques Kaja ou de son vrai nom Jacques Baruch (1919-2002) est un journaliste, spécialiste des peuples finno-ougriens. Diplômé d’esperanto et très attaché à la défense de l’Estonie (au point de prendre un pseudonyme estonien), il signe durant la guerre l’essai Un an de bolchevisme dans les pays Baltes, ce qui lui vaudra cinq mois de prison à la Libération. Après la guerre, il occupe divers emplois (horticulteur, ébéniste, antiquaire) et collabore à l’hebdomadaire Tintin ; il aurait peut-être inspiré à Hergé le personnage du pilote Szut qui apparaît dans Coke en stock… Il est également l’auteur de Légendes d’Estonie.

(67) Örnulf Tigerstedt (1900-1962) est un écrivain finnois de langue suédoise. Il est l’auteur de poésie (Vid gränsen ; Block och öde ; De heliga vägarna ; etc), d’essais (Skott i överkant ; Utan örnar) et de textes politiques (Statspolisen slår till ; Hemliga stämplingar).

(68) Tito Colliander (1904-1989) est un écrivain finnois de langue suédoise et de religion orthodoxe. Il est l’auteur de poèmes, de biographies, d’essais religieux, de pièces de théâtre et de romans (En vandrare ; Korståget ; Förbarma dig ; Taina ; Ljuset ; Grottan ; Vis om är kvar ; etc).

(69) R. Brasillach, A. Bonnard, M. Jouhandeau et R. Fernandez sont excusés…

(70) Liviu Rebreanu (1885-1944) est un journaliste, un romancier et un dramaturge. Il est l’auteur de nouvelles (Golanii ; Mărturisire ; Cântecul lebedei ; etc), de romans (Ion ; Gorila ; Jar ; etc) et de pièces de théâtre (Cadrilul ; Plicul ; Apostolii). Il a été directeur du Théâtre National et présidera (1940-44) l’Association des Écrivains Roumains.

(71) Henri Bruning (1900-1983) est un poète et un essayiste. Il est l’auteur des recueils Het verbond et Fuga, ainsi que de nombreux essais (Subjectieve normen ; Verworpen christendom ; Voorspel ; Vluchtige vertoogen ; Heilig verbond ; etc). Membre du mouvement solidariste (Verdinaso) puis du NSB, il sera condamné, à la fin de la guerre, à deux ans de détention et dix ans d’interdiction de publier.

(72) Svend Borberg (1888-1947) est l’auteur de poèmes (Verdensspejlet) et de pièces de théâtre (Ingen ; Cirkus juris ; Synder og Helgen). Il est le père de Claus von Bülow.

(73) Jozef Cíger-Hronský (1896-1960) est l’auteur de nouvelles (U nás ; Domov ; Proroctvo doktora Stankovského ; Na križných cestách ; etc), de comédies (Firma Moor ; Návrat) et de livres pour enfants (Janko Hrášok ; Sokoliar Tomáš ; Tri múdre kozliatka ; etc). À la fin de la guerre, il émigre en Italie puis en Argentine où il fonde l’Association des Écrivains Slovaques en Exil. Il présidera également le Conseil National Slovaque.

(74) Antonio Baldini (1889-1962) est l’auteur de récits (Nostro Purgatorio ; Amici allo spiedo), d’essais (Ludovico della tranquillità ; Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D’Annunzio e minori) et de carnets de voyage (La vecchia del Bar Bullier ; Italia del Bonincontro ; Melafumo ; Doppio Melafumo). Il est entré à l’Académie en 1939.

(75) Emilio Cecchi (1884-1966) est l’auteur de récits (Pesci rossi ; Messico ; Et in Arcadia ego ; Corse al trotto vecchie e nuove ; etc), d’ouvrages de critique d’art (Pittura italiana dell’Ottocento ; La scultura fiorentina del Quattrocento) et de critique littéraire (La poesia di Giovanni Pascoli ; Storia della letteratura inglese del secolo XIX ; I grandi romantici inglesi ; etc). Il a également été scénariste et producteur de cinéma. Il est entré à l’Académie en 1940.

(76) Giulio Cogni (1908-1983) est l’auteur d’essais sur la musique (Che cosa è la musica ; Le forze segrete della musica ; Wagner e Beethoven) et la philosophie (Saggio sull’Amore come nuovo principio d’immortalità ; Lo Spirito Assoluto ; Il razzismo ; I valori della stirpe italiana ; etc).

(77) Autodidacte, Enrico Falqui (1901-1974) est l’auteur de très nombreux ouvrages d’histoire de la littérature et d’anthologies (Scrittori nuovi ; Antologia della prosa scientifica italiana del Seicento ; La letteratura del ventennio nero ; Prosatori e narratori del Novecento italiano ; etc).

(78) Elio Vittorini (1908-1966) est l’auteur d’essais (La tragica vicenda di Carlo III ; Americana ; Diario in pubblico) et de romans (Piccola borghesia ; Nei morlacchi – Viaggio in Sardegna ; Conversazione in Sicilia ; Il garofano rosso ; Le donne di Messina ; etc). Rallié à la résistance antifasciste, il dirigera après guerre le quotidien communiste L’Unità.

(79) Giaime Pintor (1919-1943) est un journaliste et un traducteur qui a collaboré à l’anthologie Teatro tedesco. Recruté par les services secrets anglais et envoyé en mission à Rome, il saute sur une mine le 1er décembre 1943. La plupart de ses essais et traductions paraîtront après sa mort (Poesie di Rainer Maria Rilke ; Saggio su la Rivoluzione di Carlo Pisacane ; Vathek di William Beckford ; Il sangue d’Europa ; etc).

220px-Dwinger.jpg(80) Edwin Erich Dwinger (1898-1981) est l’auteur de nombreux essais et romans (Der grosse Grab ; Die Armee hinter Stacheldraht ; Die zwölf Räuber ; Die letzen Reiter ; Zwischen Weiss und Rot ; Ein Erbhof im Allgäu ; Der Tod in Polen ; Dichter unter den Waffen ; etc). Hostile à la politique anti-slave du IIIe Reich, il soutient le général Vlassov et finit par être assigné à résidence et placé sous la surveillance du Sicherheitsdienst.

(81) Wilhelm Ehmer (1896-1976) est un journaliste, auteur de plusieurs récits à succès (Peter reist um die Welt ; Um den Gipfel der Welt ; Das Ringen um den Himalaya ; So werden wir gelebt ; etc). Son ouvrage consacré à l ‘alpiniste britannique Mallory et à la conquête de l’Everest avait été particulièrement salué par la critique.

(82) Wilhelm Schäfer (1868-1952) est un écrivain völkisch extrêmement prolixe. Il est l’auteur de dizaines de pièces de théâtre, nouvelles et romans (Der Hauptmann von Köpenick ; Die Zehn Gebote ; Rheinsagen ; Lebenstag eines Menschenfreundes ; Winckelmanns Ende ; Die rote Hanne ; Deutsche Reden ; etc).

(83) Georg von der Vring (1889-1968) est l’auteur de poèmes (Südergast ; Oktoberrose ; Der Schwan ; etc), de romans (Soldat Suhren ; Die Spanische Hochzeit ; Der Zeuge ; Argonnerwald ; Der Schritt über die Schwelle ; Frühwind ; etc) ainsi que de traductions de Verlaine, Maupassant ou Francis Jammes. G. von der Vring a enseigné le dessin et il est également peintre. Ancien combattant de la Première Guerre mondiale d’où il était revenu résolument pacifiste, il était plutôt mal vu du régime nazi.

(84) Hermann Burte (1879-1960) est l’auteur de poésie (Alemannische Gedichte ; Ursula ; Das Heit im Geiste ; etc), d’une tragédie (Katte) et de romans (Wiltfeber, der ewige Deutsche). H. Burte était également un peintre et un spécialiste du dialecte alémanique.

(85) Irja Salla ou de son vrai nom Taju Birgitta Tiara Sallinen (1912-1966) est l’auteur de romans (Kaksi tietä ; Liisa-Beatan tarina ; Unissakävijä).

(86) À l’automne 1941, il y eut aussi un voyage en Allemagne de musiciens français et un autre de peintres et sculpteurs. Parmi les musiciens invités aux « fêtes Mozart » figuraient les compositeurs Florent Schmitt, Max d’Ollone, Alfred Bachelet, Marcel Delannoy, Marcel Labey, Gustave Samazeuilh, Arthur Honneger, mais aussi Jacques Rouché, Robert Bernard et Lucien Rebatet. Chez les peintres et sculpteurs figuraient Paul Belmondo, Charles Despiau, Henri Bouchard, Louis Lejeune, André Derain, Roland Oudot, Raymond Legueult, André Dunoyer de Segonzac, Maurice de Vlaminck, Kees van Dongen, Othon Friesz et Paul Landowski…

(87) Célèbre réplique tirée de la pièce Schlageter de Hanns Johst (v. note 21) et souvent associée aux dirigeants nazis.

(88) Juriste de formation, Hans-Friedrich Blunck (1888-1961) est l’auteur d’essais (Die nordische Welt) et de romans (Totentanz ; Berend Fock ; Die Weibsmühle ; Werdendes Volk ; Die Jägerin ; etc). Il s’intéresse particulièrement à l’histoire des peuples nordiques, au parler bas allemand, au panthéon germanique et aux sagas scandinaves. Il fut le premier président de la Chambre des Écrivains et n’était pas membre du NSDAP.

(89) Karl Heinrich Waggerl (1897-1973) est un écrivain autrichien. Il est l’auteur de nouvelles et récits (Das Wiesenbuch ; Feierabend ; etc) ainsi que de romans (Brot ; Schweres Blut ; Mütter ; etc). Il a également constitué une importante collection de photographies.

(90) Eugen Roth (1895-1976) est l’auteur de poésie et de romans (Ein Mensch ; Die Frau in der Weltgeschichte ; Der Wunderdoktor ; Der Fischkasten ; Der letzte Mensch ; etc). Ses ouvrages sont parmi les plus lus du monde germanique.

(91) cité par F. Bergeron, in Guide des citations de l’homme de droite, Paris, Editions du Trident, 1989, p. 60.

(92) Derrière le pangermanisme officiel des milieux dirigeants du IIIe Reich existaient de réelles tendances européennes dont témoigne par exemple le manifeste pour une « communauté européenne » que signe Ribbentrop, le 21 mars 1943. On sait que des dignitaires comme Walther Funk et Arthur Seyss-Inquart étaient favorables à un projet européen, de même que certains hauts fonctionnaires (Hans Frohwein, Cécil von Renthe-Fink, Walter Hallstein, Heinrich Hunke, Alexander Dolezalek).

Bibliographie

  • L. Richard, Le nazisme et la culture, Paris, Maspero, 1978.

  • B. Delcord, « À propos de quelques “chapelles“ politico-littéraires en Belgique (1919-1940) », in Cahiers d’Histoire de la IIe Guerre mondiale, Bruxelles, Centre de Recherches et d’Études historiques de la IIe Guerre mondiale, N° 10, octobre 1986.

  • F. R. Hausmann, « Dichte, Dichter, tage nicht ! ». Die Europäische Schriftsteller-Vereinigung in Weimar 1941-1948, Francfort, Vittorio Klostermann, 2004.

  • F. R. Hausmann, « Kollaborierende Intellektuelle in Weimar – Die ‘Europäische Schriftsteller-Vereinigung’ alq ‘Anti-P.E.N.-Club’ », in Europa in Weimar. Visionen eines Kontinents, Göttingen, Wallstein, 2008.

  • F. Dufay, Le voyage d’automne, Paris, Perrin, 2008.

  • H. Speliers, « Le miracle de Weimar », in Textyles, Hors série N° 2 (1997).

  • H. Speliers, « Het wonder van Weimar. Een collaboratie verhaal », in Gierik & Nieuw Vlaams Tijdschrift, N° 80 (2003).

  • O. Lubrich, « Comparative Literature – in, from and beyond Germany », in Comparative Critical Studies 3.1-2 (2006).

  • M. C. Angelini, « 1942. Note in margine al Convegno degli scrittori europei a Weimar » in Studi (e Testi) italiani, N° 5 (2000).

  • M. Serri, Il breve viaggio, Venise, Marsilio, 2002.

  • J. Hillesheim, E. Michael, Lexikon nationalsozialistischer Dichter, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1993.

mardi, 26 novembre 2013

Russia and Middle East Policy: Story of Success and Growing Clout

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Andrei AKULOV

Ex: Strategic-Culture.org

Russia and Middle East Policy: Story of Success and Growing Clout

Resurgent Russia is asserting itself in the Middle East as a big an important international player. The recent diplomacy that averted a U.S. strike on Syria underscored the extent to which Moscow’s steadfast support for its last remaining Arab ally has helped to solidify its role. Russian President Vladimir Putin has emerged as the world leader with the single biggest influence over the outcome of a raging war that is threatening the stability of the broader region. Meanwhile new alliances and old friendships are being revived reaching out to countries long regarded as being within the Western, predominantly US, sphere of influence. Egypt, Jordan and Iraq are exploring closer ties with Moscow at a time when the Obama administration fails to come up with clear-cut regional policy.

Iraq

On October 16 Iraqi Prime Minister Nuri al-Maliki’s top media adviser said that that Baghdad had begun receiving arms from Russia under a historic $4.3-billion deal it signed last year but then scrapped amid corruption allegations. A review conducted, Baghdad had ultimately decided to keep the agreement. It makes Russia the Iraq’s second-largest arms supplier after the United States to herald its return to a lucrative Middle East market.

Iraqi officials announced at the start of the year that Baghdad had canceled the contract due to corruption allegations that were not spelled out. “We really did have suspicions about this contract,” the Iraqi government’s media adviser Ali al-Musawi told Russia’s RT state-run broadcaster. “But in the end the deal was signed. We have currently started the process of implementing one of the stages of this contract.” (1) The shopping list includes 40 MI-35 and Mi-28NE attack helicopters (4 rotary wing aircraft added as a bonus to make the deal really lucrative), as we’ll as 42 Pantsir-S1 surface-to-air missile systems. In case of helicopters, the number 40 justifies the creation of helicopter service center on Iraqi soil.  Further discussions were also held about Iraq’s eventual acquisition of MiG-29 jets and heavy armored vehicles along with other weaponry. Musawi said Iraq was primarily interested in acquiring helicopters that could be used by the military to hunt down suspected rebels staging attacks across the war-torn country. Alexander Mikheyev, deputy general director at Russian state arms exporter Rosoboronexport, said in late June that the helicopter contract also covers pilot and technical personnel training and the delivery of essential weapons systems. This is the first contract with Iraq under the package agreement, he added. (2)

By the end of last month it was reported that the northern Kurdistan regional government ordered 14 light helicopters from US MD Helicopters formally for local security forces and medical emergencies. Allegedly the rotary wing aircraft will join the inventory of Peshmerga armed formations.  Unlike in the case of the US, Baghdad may not worry about Moscow, military cooperation with Iraqi Kurds is not on its agenda.  Washington also looks disapprovingly at Iraq’s contacts with Iran, while Iraq felt small when its peace proposals on peaceful management of Syria’s conflict were ignored by Washington. Iraq’s Prime Minister put forward the detailed plan this August with no response from the US.  Iraqi Prime Minister Nouri al-Maliki has made two trips to Moscow in the past year and none to the United States.

Jordan

 According to RIA-Novosti news agency, on November 15 an official from Russia’s state arms exporter Rosoboronexport said Jordan is interested in locally assembling Russian-designed helicopters and anti-tank missile systems. “Our Jordanian colleagues have shown interest in setting up domestic assembly of portable Kornet anti-tank missile systems and several types of helicopters,” said Mikhail Zavaly, head of the Rosoboronexport delegation at the Dubai Air Show 2013. Russia’s Kornet-E system, produced for export, has a firing range of up to 5,500 meters (18,000 feet) and features semi-automatic laser-beam guidance with a thermal imaging site. The system, armed with missiles using dual warheads with shaped charges, is highly effective against tanks with reactive or explosive armor as well as against fortified buildings and helicopters. In May this year Jordan has already launched licensed production of Russian-designed Nashab RPG-32 portable rocket-propelled grenade launchers, which the Jordan Times (3) reports is superior to the RPGs that are currently used by the Jordanian armed forces. Jordan is manufacturing weapons as part of a joint venture with Russia. The plant, which manufactures RPG-32 Hashim launchers, is located about 20 kilometers northeast of Jordan’s capital, Amman. It has been built and equipped by the Jordanian side, whereas Russia’s Rosoboronexport is supplying components for the assembly of the grenade launchers and is overseeing the production process. (4)

On October 25 Jordan announced that it has selected Russian state-owned firm Rosatom as its preferred vendor to construct two 1,000-megawatt (MW) nuclear power plants at a site near Qusayr Amra, some 60 kilometres northeast of Amman and at the edge of the northern desert by 2022. As part of the decision, the government and the Russian firm have entered negotiations over electricity pricing in order to reach a final agreement and break ground on the reactors by 2015. Energy officials listed the safety track record of the firm’s AES92 VVER1000 reactor technology among the main advantages of the Russian bid, which beat out shortlisted French firm AREVA’s experimental ATMEA1 reactor and Canadian AECL’s CANDU technology.

No doubt financial arrangements played an important role. Under the proposal Rosatom has agreed to take on 49 per cent of the plants’ $10 billion construction and operation costs on a build-own-operate basis with the government shouldering the remaining 51 per cent and retaining a majority share in the plants.

The proposal mirrors a similar agreement struck by Rosatom and Turkey in 2010, under which the firm is set to construct four 1,000MW reactors at a $20 billion price tag.

Officials say the deal aims to help achieve energy independence in Jordan, which imports around 97 per cent of its energy needs at a cost of over one-fifth of the gross domestic product, and bring stability to a sector that has been impacted by ongoing disruptions in Egyptian gas.  

Jordan has become the third Arab state to pursue peaceful nuclear energy, with the UAE set to build four reactors with a combined 5,600MW capacity by 2020 and Egypt reaffirming earlier this month its plans to establish a 1,000MW reactor by the end of the decade. (5)

On November 15 His Majesty King Abdullah and a visiting Russian Agriculture Minister Nikolai Fedorov stressed their commitment to boosting cooperation between the two countries and to maintain coordination and consultation vis-à-vis various regional issues of mutual concern. At a meeting with and the accompanying delegation, the King highlighted cooperation prospects and means to develop them in the various sectors, mainly agriculture, tourism, transport and energy as well as in economic fields. The minister is co-chairing the joint Jordanian-Russian Intergovernmental Commission’s meetings in Amman. Fedorov asserted Russia’s commitment to strengthening its relations with the Kingdom and to maintain coordination on all issues of mutual concern, stressing Russia’s willingness to support the Kingdom in the fields of energy, transport, agriculture, tourism and capacity building.

Commending the Kingdom’s track record, the Russian official expressed appreciation of Jordan’s progress in various areas and lauded the Kingdom’s position on different regional issues as well as His Majesty’s efforts to foster peace and stability.

During Russian President Vladimir Putin’s visit to the Kingdom last year, Jordan and Russia signed an agreement to establish a joint Jordanian-Russian committee to activate cooperation between them. The two countries are also bound by several agreements on economic cooperation.

Jordanian officials held negotiations with the Russian delegation at the Planning and International Cooperation Ministry, and agreed to form a joint business committee to boost commercial and investment cooperation between the two countries.

Saif told reporters following the meeting that Jordan and Russia had signed a memorandum of understanding in the field of nuclear technology, adding that a Jordanian official delegation would visit Moscow early next year

The Russian minister indicated that the two sides also agreed to increase the inflow of Russian tourists seeking religious and medical tourism. 

8 years ago President Putin said he was sorry the bilateral trade turnout was just over modest $50 million. It grew up to $426, 5 million in 2012.

Egypt

Russian Foreign and Defense Minister Sergey Lavrov and Sergei Shoigu paid a visit to Egypt on November 13-15 for a two-day visit to discuss «the full spectrum» of ties between the two countries, including «military-technical cooperation».  President Putin is expected to visit to Egypt pretty soon.  The talks revealed Egypt is seeking to acquire fighter planes, air-defence systems and anti-tank missiles with 24 MiG-29 M2 fighters are at the top of the shopping list added to the Buk M2, Tor M2 and Pantsir- S1 short- to medium-range Russian defence systems. 

Last month the US froze a sizable portion of the yearly $1.5 billion aid package as a sign of discontent with Egypt’s slow progress towards democracy. The step followed after the delivery of four F-16 fighter jets was suspended and biennial US-Egyptian military exercises were cancelled.

In Egypt, where the military-backed government has accused Washington of sympathy toward the Muslim Brotherhood, some protesters have hailed Putin as a potential diplomatic counterbalance to the United States. Pro-military demonstrators have even drawn parallels between the former KGB operative and their own strongman: During a July protest in the city of Alexandria, pro-military demonstrators unveiled a large poster of the Russian President wearing a naval uniform beside that of Army Chief Abdel Fattah al-Sisi, bearing the inscription "Bye bye, America!"

       ***

The Russia-initiated breakthrough on Syria is followed by a host of tangible Middle East policy successes. No doubt it’s a feather in the Russian leadership’s hat, the country is strongly back in the region, its clout growing by leaps and bounds, while the US faces the music having lost its way in the regional maze of overlapping problems and complexities. No calls for revival of Cold War days competition, to the contrary joining together to get down to brass tacks will benefit all. The initiative on Syria proved the possibility and expediency of this approach.        


 Endnotes:

1)    http://rt.com/news/iraq-election-candidates-dead-031/

2)    http://en.ria.ru/military_news/20131017/184210687.html

3)   http://jordantimes.com/king-abdullah-inaugurates-jordanian-russian-rpg-factory

4)  http://en.ria.ru/military_news/20131115/184734272/Jordan-Wants-to-Make-Russian-Helicopters-Anti-Tank-Missiles.html

5)   http://jordantimes.com/russian-firm-set-to-build-jordans-first-nuclear-plants

 

Racisme, immigration et inversion de la réalité

Racisme, immigration et inversion de la réalité

par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

0.jpgLe maquillage de la réalité est une des grandes spécialités de l’idéologie dominante bien-pensante avec le déni de cette même réalité. Exactement comme dans les régimes totalitaires communistes. L’instrument privilégié de la propagande peut d’abord être l’écrit, la presse ou le livre, par l’oligarchie journalistique et intellectuelle bien pensante. Sur le thème du célèbre « l’immigration, une chance pour la France » (1) ou la dogmatisation d’autres contre-vérités comme par exemple « les Français sont racistes » ou « il n’existe pas de racisme anti Blanc » (le racisme serait à sens unique) ou encore tous les propos sur les ”fantasmes” d’insécurité, ou sur le déni du lien évident entre criminalité et immigration, pourtant clairement attesté par la géographie des crimes et délits.  

On note aussi, comme dans les régimes totalitaires, la présence de l’instrument judiciaire, en mode de basse intensité : on peut être puni (loi Gayssot et alia) si l’on dit la vérité, comme Éric Zemmour condamné pour avoir fait remarquer l’origine ethnique des dealers.

Mais la voie royale de la désinformation en ces matières, c’est la fiction, séries télé ou films. Deux exemples récents : la série politiquement correcte et antiraciste de France 3 Plus belle la vie a mis en scène le 13 novembre l’agression raciste d’un Beur, Abdel, molesté et insulté par une bande de Français de souche qui brûlent sa carte d’identité française. Chacun sait qu’à Marseille les Maghrébins sont victimes de ratonnades et de la criminalité des autochtones…Dans le film de Reem Kherici, Paris à  tout prix, Maya, une jeune Marocaine qui vit à Paris depuis 20 ans travaille dans la mode et la haute couture ; un contrôle  de police révèle que sa carte de séjour est périmée et la malheureuse est expulsée dans les 24h. vers le Maroc, privée de son emploi et de son logement. Cette situation complètement invraisemblable est présentée comme une illustration de la réalité.

soins_mediatiques.jpgCela fait d’ailleurs longtemps que le cinéma et les téléfilms (surtout policiers) procèdent à des inversions de la réalité : les voyous et les gentils ne sont pas les mêmes que dans la vraie vie….Du temps de l’Union soviétique, de la même manière, films et téléfilms inversaient la réalité pour obéir à l’idéologie officielle : l’Ouest y était par exemple présenté comme un enfer en proie à la répression et à la pauvreté. Mais les ficelles de ce genre de désinformation ( ” faire passer les vessies pour des lanternes ”) qui prend le peuple pour une masse d’imbéciles se révèlent, à terme, inutiles.

Dans le langage aussi, le mensonge a cours : l’expulsion de Léonarda était une « rafle », l’Europe se replie sur elle-même et se « bunkérise », l’islam a toujours fait partie de la France, etc. Il en va de même dans d’autres domaines : non, le niveau scolaire ne baisse pas, non, les fonctionnaires ne sont pas privilégiés, etc. Les médias en viennent aussi à pratiquer l’autocensure, notamment en ne révélant pas, la plupart du temps, les noms d’auteurs et de crimes et de délits – sauf lorsqu’il s’agit d’autochtones. ll paraît même, selon Ivan Rioufol (Le Figaro, 22 novembre) que le gouvernement prépare une ”recommandation” aux journalistes de ne plus mentionner les noms, dans tous les cas, et peut-être même d’envisager des poursuites contre les contrevenants ! Pour ne pas ”stigmatiser” une certaine population. (La vérité est raciste.) Cette police de la pensée est d’une stupidité désarmante : puisqu’elle reconnaît par là implicitement l’origine des auteurs des crimes et délits.

Note:

(1) « L’immigration, une chance pour l’Europe », telle est la couverture du dernier mensuel de la Fédération syndicale unifiée (FSU), deuxième syndicat de fonctionnaires et premier chez les enseignants, qui est un des piliers de l’idéologie dominante et du système.

Premier numéro des "Etudes rebatiennes"

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Sortie du 1er numéro des

"Etudes Rebatiennes":

 

Très attendu, le premier cahier des « Etudes » consacré à l'auteur des Deux Etendards est enfin disponible. Ses 216 pages élégamment reliées, contiennent un mélange de textes inédits de l'auteur et des analyses de son œuvre et de son écriture. Du côté des inédits, les amateurs pourront découvrir la préface de « Margot l'enragée », le dernier roman inachevé du Rebatet, ainsi que des extraits de son journal et une lettre extraordinaire imaginant les personnages des « Deux Etendards » vingt ans après... Ensuite, trois études universitaires sont proposées. La première, de Louis Baladier, s'intitule « Les Deux Etendards ou un trop grand rêve », la seconde, de Nicolas Degroote, se penche sur la « conversion » dans « les Deux Etendards, et enfin Pascal Ifri offre un parallèle entre « L'Etude sur la composition des Deux Etendards » et le « Journal des faux-monnayeurs » de Gide.

Un premier numéro qui représente un apport considérable à l'étude trop négligée d'un auteur majeur mais maudit.

 « Etudes Rebatiennes I », 216 pages, 20 euros (+ 3 euros de frais de port), chèques à l'ordre des « Etudes Rebatiennes », 10 rue Stanislas, 75006 Paris

Site cliquez ici

 

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Spécial Céline

Le trimestriel Spécial Céline fait paraître son 11è numéro. Un nouveau format et une nouvelle maquette, des plus agréable, viennent agrémenter la lecture d’un sommaire plus « épuré » qu’à l’accoutumé. On regrettera toutefois pour ce numéro l’absence de toute actualité célinienne…

Sommaire :

Étude
« Céline au bachot » par Éric Mazet
Correspondance
« Les Lettres à la NRF, 1931-1961 : le médecin épistolier et son éditeur » par Julie Delbouille
Rencontre
« Céline et le Goncourt : Chronologie des faits et des idées » par Éric Mazet
Étude
« De Destouches à Céline, Montmartre 1929-1944 » par Jean Maurice Bizière
Fiction
« Fallait-il fusiller Céline » (1ère partie) par Jacques Milliez



Un numéro disponible en kiosque ou sur www.lafontpresse.fr, 80 pages, 19,50 €.

A che serve l’Europa?

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A che serve l’Europa?

Editoriale di Luigi Tedeschi dal numero settembre ottobre di Italicum 

Ex: http://centroitalicum.wordpress.com

Le crisi sono eventi ricorrenti dovuti all’andamento ciclico dell’economia. Nelle crisi vengono meno i presupposti di una fase di sviluppo in esaurimento e si verificano trasformazioni più o meno rilevanti della struttura produttiva e del mercato che poi generano nuovi equilibri e nuove fasi di sviluppo.


Questa crisi invece, non sembra compatibile con la natura ciclica dei fenomeni economici nel contesto dell’economia di mercato. Infatti essa sembra perdurare e mettere in dubbio i fondamenti stessi del modello economico liberista. I livelli di produzione e consumo raggiunti in occidente nella seconda metà del ‘900 non sembrano più raggiungibili, né possibile la creazione di nuovi sbocchi produttivi con la nascita di nuovi mercati. La globalizzazione ha determinato l’interdipendenza mondiale delle economie. Pertanto, grazie alla dimensione planetaria dei mercati, se l’economia e la finanza sono globali, globali sono anche le crisi. La crisi in Europa (almeno in larga parte dell’eurozona), esula dall’andamento ciclico dell’economia di mercato, perché essa è pervenuta negli anni ad uno stato di stagnazione, recessione economica, di disoccupazione e degrado sociale permanente e progressivo, dovuto alla adesione alla moneta unica e al relativo governo centralizzato della BCE delle economie degli stati aderenti. L’euro infatti, con i parametri relativi al rapporto debito / Pil stabiliti dal trattato di Maastricht, gli accordi sul pareggio di bilancio e il fiscal compact, è divenuto una camicia di forza per le economie degli stati. La crisi del debito ha comportato la devoluzione di gran parte delle risorse al servizio del debito ed una politica di progressivi tagli alla spesa sociale, al fine di sostenere gli equilibri forzosi della finanza pubblica. L’euro ha privato gli stati degli strumenti tradizionali di politica economica, atti la incentivare la crescita, quali la spesa pubblica in deficit, il controllo sul sistema bancario circa la fissazione dei tassi di interesse e l’erogazione del credito, le manovre sui tassi di cambio, misure di redistribuzione del reddito.

 

Ma soprattutto in fase di recessione, essendo venuta meno la sovranità monetaria degli stati, questi ultimi non possono adottare misure di espansione della liquidità atte a favorire la crescita della produzione e dei consumi. Economie sane sono state afflitte da crisi deflattive prodotte dall’adesione all’euro.


L’euro è dunque un progetto fallimentare. Esso ha determinato la netta divaricazione tra paesi forti del nord e paesi condannati alla schiavitù del debito e al sottosviluppo (paesi PIIGS), anziché solidarietà europea, sviluppo, unificazione politica e culturale. L’euro, avendo ingessato le economie europee dell’eurozona entro parametri fissi, imposti a prescindere dalle singole specificità dei paesi membri, ha generato una economia del debito, il cui risanamento distoglie ingenti risorse dallo sviluppo. Ma le politiche di bilancio imposte dalla BCE, comportano recessione e deflazione e pertanto, il debito aumenta la propria incidenza sul Pil. La moneta unica impedisce misure di finanziamento della spesa pubblica in deficit, emissione autonoma di liquidità, manovre sui tassi di interesse e di cambio, e pertanto le uniche fonti di finanziamento degli stati sono l’espansione del debito e la leva fiscale. L’economia del debito domina l’Europa. Il debito è un dato imprescindibile che vincola la politica degli stati, deprime l’economia, distrugge, con il welfare, il progresso sociale, crea conflittualità sia all’interno che all’esterno degli stati, è uno strumento di un nuovo colonialismo economico di alcuni stati su altri.


Lo stato di depressione economica impostosi in molti stati europei, prodotto dal debito insolvibile, ha determinato mutamenti rilevanti nella psicologia delle masse e nei rapporti sociali: ha creato un complesso di inferiorità e soggezione psicologica dei popoli afflitti dal debito nei confronti dei popoli dominanti – creditori. Potremmo perfino individuare nella società contemporanea il sorgere di una “cultura del debito”. La dicotomia creditore – debitore, nell’ambito dei rapporti tra gli stati si traduce nella dialettica oppresso – oppressore, invasore – invaso, virtù – colpa. La “cultura del debito” sembra avere evocato e trasposto dalla religione all’economia, l’antico senso del peccato originale, con l’identificazione del debito con la colpa. Alla virtù finanziaria del nord fa riscontro la colpa e la dissolutezza finanziaria del sud. La nuova religione finanziaria ha posto dunque i suoi dogmi nei parametri morali di legittimazione della supremazia virtuosa del nord sul sud dell’Europa. La morale dell’euro, ha uno stampo calvinista, sancisce la diseguaglianza permanente tra la virtù della ricchezza e la povertà della colpa collettiva irredimibile, scaturita dal debito che, al pari della colpa, è inestinguibile. La colpa, comporta l’espiazione e quindi la relativa condanna biblica perpetua dello stato – debitore – peccatore alla privazione della sovranità e la sua riduzione alla povertà, da parte della virtù finanziaria incorruttibile dello stato unto dal nuovo Signore finanziario, identificabile con la BCE. Il problema che investirà l’Italia nel prossimo futuro, non sarà tanto quello di una possibile sua fuoriuscita dall’euro, quanto quello della impossibilità di restarci, problema che metterà in dubbio la stessa sussistenza dell’eurozona.


L’ordinamento rigido e centralista imposto all’eurozona dalla BCE, ha prodotto una elite tecnico – finanziaria dirigista che ha espropriato in larga parte la sovranità politica degli stati, e condannato le democrazie al ruolo di legittimazione politica delle misure finanziarie della BCE. Il modello di governo ideale per l’oligarchia finanziaria è proprio quello delle larghe intese, che comporta il venir meno della dialettica maggioranza – opposizione, connaturata alla democrazia, dato che le direttive della politica economica sono di pertinenza della classe elitaria della BCE.


Si è verificato un processo di estraneazione – emarginazione generalizzata dei popoli: espulsi dalla struttura produttiva mediante la disoccupazione, condannati ad una perenne precarietà del lavoro dalle esigenze di competitività, di flessibilità alle fibrillazioni del mercato, di massimizzazione dei profitti, i popoli sono privati di soggettività politica, estraniati dai meccanismi di decisionalità propri dell’ordinamento democratico.


Stiamo assistendo in tutto l’Occidente ad una omologazione delle istituzioni, siano esse politiche, economiche, sociali, religiose, alla cultura della società globalista del capitalismo assoluto. Potremmo parlare di “ecumenismo capitalista”, una nuova versione del “politically correct” intesa come adesione incondizionata ai fondamenti cosmopoliti e materialistici della globalizzazione capitalista. E’ questa una sorta di falsa metafisica del capitalismo, che si riflette in una nuova cultura che omologa, sia le istituzioni che i popoli, ad un “politically correct” che coniuga diritti umani, libero mercato, cosmopolitismo, umanitarismo pacifista, in una unica sintesi culturale che coinvolge l’intera totalità sociale. Tale omologazione culturale è predisposta alla distribuzione delle funzioni delle singole istituzioni: al sistema bancario la finanza, alle multinazionali la produzione, a partiti centristi asettici la politica, ai sindacati istituzionali il sociale, alla Chiesa l’assistenza. Un capitalismo ormai incapace di produrre sviluppo e superare le proprie crisi, attraverso questa omologazione sociologico – culturale totalitaria, crea gli anticorpi necessari alla sua difesa contro il dissenso sociale potenziale del presente.


Il primato tedesco in Europa è conforme ad una logica interna, congenita al capitalismo stesso. La Germania in Europa, così come gli USA nell’occidente e nel mondo, è un paese – guida, la cui espansione, non comporta lo sviluppo trainante degli altri partners più deboli. Il suo primato è fondato su una crescita economica dovuta alla recessione – deindustrializzazione degli altri, proprio perché la concorrenza del libero mercato produce per sua natura una selezione darwiniana tra i concorrenti: il capitalismo non produce sviluppo generalizzato tra le classi sociali e tra i popoli ma, al contrario, allo sviluppo del più forte fa riscontro l’impoverimento dei deboli. Quante volte la leadership americana ha potuto sopravvivere alle proprie crisi addebitandone i costi ai paesi subalterni?


Ci si interroga allora sui fondamenti e sul futuro dell’Europa. Certo è che l’unità europea è tutta da realizzare. Non esiste una identità europea se non in progetti e ideali culturali e politici ormai consegnati alla storia. L’unificazione economica è destinata a fallire, date le diversità specifiche delle economie degli stati membri, non compatibili con l’unificazione monetaria, che invece ha determinato conflittualità, accrescimento delle diseguaglianze, esasperazione degli egoismi nazionali. Le identità storico – culturali dei popoli sono state in larga parte sradicate dall’avanzata della globalizzazione economica di matrice americana e dalla finanziarizzazione della politica attuata dalla UE. Oggi, in questa ottica, gli elementi identitari dei popoli sono il Pil, il debito, il deficit pubblico, gli indici della borsa. Dimmi che Pil hai e ti dirò chi sei!


Occorre dunque, dopo un decennio di euro, fare un bilancio del progetto europeo. Esso è fallimentare. L’eurozona, dilaniata al suo interno dai meccanismi finanziari che hanno generato debito e recessione, appare senza futuro. Occorre allora domandarsi: quali sono, oltre la camicia di forza dell’euro, gli elementi unificanti dell’Europa? Non si vede quali affinità storico – culturali, quali interessi e destini comuni abbia, ad esempio l’Italia, con i paesi della Scandinavia, con la Gran Bretagna, inglobata nell’area geopolitica americana, con un est europeo dominato dalla Germania. Bisogna concludere che l’Europa unita è un progetto irrealizzabile e fallimentare. Piuttosto che con il nord Europa, i paesi mediterranei hanno molta più cultura, storia e interessi comuni con il nord Africa e con il Sudamerica. La fine dell’euro dovrebbe rappresentare la liberazione da una gabbia finanziaria che potrebbe preludere ad altre potenziali forme di aggregazione tra stati europei e non.


L’euro, secondo la vulgata ufficiale, è un fenomeno irreversibile. Ma non esiste nulla di irreversibile, né tantomeno la storia ha un corso necessario e immutabile. Il destino dell’euro è inoltre legato a quello del dollaro e al primato USA. Gli Stati Uniti sono sull’orlo del default. L’economia americana, subordinata alle permanenti emissioni di liquidità della Federal Reserve, ha rallentato la propria crescita. Gli indici della borsa americana sono ai massimi. Questa divaricazione tra economia reale e quotazioni finanziarie, ha già prodotto la crisi del 2008. Potrebbe quindi manifestarsi nel 2014 una nuova bolla finanziaria. In tale crisi rimarrebbe coinvolta una eurozona già in recessione. Per fronteggiare tali eventualità occorrerebbe pensare sin da ora al dopo – euro, perché dopo la lunga notte dell’euro, sorga nuova luce sui destini dei popoli europei.


Luigi Tedeschi

Allemagne : 90 ans après, l’hyperinflation est encore dans tous les esprits

Allemagne : 90 ans après, l’hyperinflation est encore dans tous les esprits

Ex: http://linformationnationaliste.hautetfort.com

Le 15 novembre 1923, il fallait 2.500 milliards de marks pour un dollar. L’hyperinflation allemande est un phénomène structurant de la pensée outre Rhin, comme le décrypte aujourd’hui l’historien et écrivain britannique Frederik Taylor dans “The Downfall of Money”, paru en septembre aux éditions Bloomsbury.

Voici 90 ans, le 15 novembre 1923, une nouvelle monnaie, le Rentenmark, était mise en circulation en Allemagne au cours incroyable d’un Rentenmark pour 1.000 milliards de marks.

A ce moment-là, il fallait 2.500 milliards de marks pour obtenir un dollar, la seule monnaie du monde qui s’échangeât alors sans difficultés contre de l’or. A la veille du début de la première guerre mondiale, un peu plus de neuf ans plus tôt, le dollar valait 4,19 marks…

Ce 15 novembre 1923 marque l’acmé de l’hyperinflation allemande, qui a débuté à l’été 1922 et s’est accélérée à la fin de l’été 1923, jusqu’à devenir folle. En août 1923, le dollar ne valait encore « que » 350.000 marks…

Un anniversaire passé inaperçu


Le 90ème anniversaire de cet événement est passé un peu inaperçu, y compris en Allemagne, dans une Europe qui, désormais, craint plus la déflation que son contraire. C’est pourtant l’occasion de se pencher sur un phénomène qui modèle encore une grande partie de la pensée économique et politique allemande, et, partant, européenne.

Le lecteur francophone aura bien du mal à trouver, dans sa langue, une histoire détaillée et complète de l’hyperinflation allemande. Il pourra néanmoins, s’il lit l’anglais, se tourner avec profit vers l’ouvrage de Frederick Taylor. Il y trouvera un récit minutieux des causes qui ont conduit l’Allemagne à la catastrophe de 1923 et une réflexion très poussée sur ses conséquences.

L’illusion de la politique économique durant la guerre

Au chapitre des causes, l’auteur souligne la responsabilité de la politique économique allemande pendant la guerre. En Allemagne comme en France ou au Royaume-Uni, le conflit a été financé par la planche à billets. Mais, soumis à un blocus sévère, le Reich a dû faire un usage moins immodéré encore que ses adversaires de la création monétaire et de la dette publique.

Frederick Taylor montre bien, en se fondant notamment la thèse développée dans les années 1960 par l’historien allemand Fritz Fischer, combien les responsables militaires et civils allemands ont compté sur la victoire pour payer leurs dettes.

En France, on a longtemps blâmé l’illusion de « l’Allemagne paiera » qui a guidé la politique du pays dans les années 1920. Mais l’on ignore souvent que, de l’autre côté de la ligne bleue des Vosges, on se berçait, également, durant la guerre de l’illusion que « la France paiera. »

« Si Dieu nous offre la victoire et la possibilité de construire la paix selon nos besoins et nos nécessités, nous entendons, et nous sommes légitimes pour cela, ne pas oublier la question des coûts du conflit », proclame dans un discours cité dans l’ouvrage le vice-chancelier Karl Helferich en août 1915 au Reichstag.

Un “mur de la dette

Après sa défaite, l’Allemagne s’est naturellement retrouvée face à un « mur de la dette » impossible à franchir sans avoir encore recours à la création monétaire. Un recours qui s’est rapidement auto-entretenu: pour rembourser les dettes, on en contractait de nouvelles et l’on payait le tout avec de l’argent fraîchement imprimé.

La Reichsbank, encore aux mains de responsables nommées par la monarchie, a alors poursuivi, malgré la défaite et Versailles, la politique menée durant la guerre. Et c’est ce qui a conduit à l’hyperinflation.

L’incapacité des gouvernants à briser le cercle vicieux de l’inflation

Mais – et ce n’est pas le moindre des intérêts de l’ouvrage de Frederick Taylor de le montrer – l’hyperinflation allemande n’est pas qu’un phénomène économique. Si la hausse des prix et l’endettement public a échappé à tout contrôle, c’est aussi parce que les gouvernements issus de la défaite ont été incapables de prendre des mesures sévères pour contrer cette spirale. Pourquoi ?

Parce que le régime républicain est d’emblée un régime faible, pris en étau entre la gauche révolutionnaire et l’extrême-droite revancharde. Les années 1919-1923, pendant lesquelles l’Allemagne prend le chemin de l’hyperinflation, sont aussi celles d’une instabilité politique profonde où les coups d’Etat monarchistes et les assassinats politiques succèdent aux tentatives révolutionnaires.

Les considérations économiques ne sont jamais venues qu’en deuxième lieu

Comme le résume Frederick Taylor: « Les politiciens de la république de Weimar, socialistes ou non, ont montré une tendance à prendre des décisions en termes de bénéfices sociaux et politiques perçus. Les considérations économiques, même les plus apparemment urgentes, ne sont jamais venues qu’en deuxième lieu. » Et d’ajouter : « le temps ne semblait jamais venu d’imposer à nouveau une chasteté financière potentiellement trop douloureuse. »

Dans ces conditions, tenir une politique économique de réduction des dépenses et de contrôle de la masse monétaire tenait de la gageure. Frederick Taylor montre avec brio comment les gouvernements tentèrent alors « d’acheter » le ralliement populaire à la république par la dépense publique. Le seul homme, selon l’auteur, capable de faire cesser cette politique était Mathias Erzberger, assassiné par des nationalistes en août 1921.

Le jeu trouble du patronat

Frederick Taylor montre aussi le jeu trouble du patronat allemand dans cette période. Lui aussi a craint la « contagion révolutionnaire » russe et, pour arracher la paix sociale, va accorder des hausses sensibles de salaires qui vont alimenter la spirale inflationniste.

D’autant que les exportateurs, comme Hugo Stinnes, un magnat de la sidérurgie dont l’auteur fait un portrait très complet, vont profiter de leurs accès aux marchés étrangers et donc aux devises pour gagner des sommes considérables.

Régulièrement, les industriels vont freiner toute tentative gouvernementale pour ralentir la hausse des prix afin de bénéficier d’une compétitivité immense grâce à la dévaluation du mark. Frederick Taylor raconte ainsi que, jusqu’à l’été 1923 et à l’emballement de l’inflation, l’Allemagne affichait un quasi-plein emploi !

La responsabilité américaine mise en évidence

Enfin, de façon plus traditionnelle, Frederick Taylor pointe la responsabilité des alliés. Mais il la replace aussi à sa juste valeur et sans le simplisme habituel. Certes, le traité de Versailles imposait des conditions impossibles à une économie déjà à terre. Certes, la politique « jusqu’au-boutiste » de Raymond Poincaré en 1922-23, notamment l’occupation de la Ruhr en janvier 1923, est une des causes les plus directes de l’hyperinflation.

Mais Frederick Taylor pointe aussi la mauvaise volonté allemande et, surtout, la responsabilité ultime des États-Unis.

C’est parce que les Américains voulaient que les dettes de guerre de leurs alliés – et notamment des Français – fussent intégralement payées que ces derniers ont été si exigeants eux-mêmes avec l’Allemagne. « Les réparations, écrit Frederick Taylor, furent un moyen pour les alliés victorieux de rembourser leurs propres dettes de guerre » aux Américains.

« Pour dégager des excédents, il faut que quelqu’un accuse un déficit »

Mais pour que les vœux américains et ceux des alliés fussent satisfaits, il eût fallu que les pays européens puissent dégager des excédents commerciaux suffisants pour obtenir l’or nécessaire aux remboursements de ces dettes de guerre. Toutefois, comme le souligne Frederick Taylor, « pour dégager des excédents, il faut que quelqu’un accuse un déficit. »

Or, à ce moment même, les Américains (et les Britanniques) mènent une politique d’austérité budgétaire qui conduit à une récession de leurs économies. « A qui, alors, l’Allemagne était supposée vendre ses produits pour obtenir l’or nécessaire aux remboursement des réparations ? », s’interroge l’auteur.

L’ouvrage de Frederick Taylor montre ainsi la responsabilité de la politique isolationniste américaine menée par les administrations républicaines arrivées au pouvoir à partir de 1920 dans l’escalade de la situation allemande. Bien loin de l’image d’Épinal d’une Amérique soucieuse de l’avenir de l’Allemagne s’opposant à une France aveuglée par la vengeance…

L’effet sur la classe moyenne intellectuelle

Pour finir, après voir décrit brillamment la folie de cet automne 1923 et – ce qui n’est pas le moins intéressant – son impact sur la société allemande et sur la psyché collective allemande, Frederick Taylor insiste sur l’effet « éthique » de l’inflation qui, en dévaluant l’argent dévalue également les repères de bien et de mal et les liens humains.

« En 1923, toute l’Allemagne était devenue un vaste marché où tout était à vendre », souligne l’auteur. Les classes moyennes, notamment celles qui vivaient du travail intellectuel, la Bildungbürgertum, voient alors leurs valeurs s’effondrer. Par exemple, celle du mariage fondée sur un système de dot en échange de la virginité de l’épousée.

« Quand l’argent est devenu sans valeur, le système s’est effondré », note ainsi une femme témoin de l’époque citée par l’auteur. Laquelle conclut : « Ce qui est arrivé avec l’inflation, c’est que la virginité a absolument cessé d’importer. »

La construction du mythe

Cet effondrement de la classe moyenne est un des arguments essentiels de Frederick Taylor pour expliquer un paradoxe. L’Allemagne n’a pas été le seul pays frappé par l’hyperinflation à cette époque. Quoique dans une mesure moindre, la France, l’Italie et l’Autriche ont connu aussi des périodes de ce type.

A d’autres époques, la Grèce ou la Hongrie du lendemain de la Seconde guerre mondiale ont connu des périodes d’hyperinflation plus sévères que l’Allemagne des années 1920. Mais « aucun de ces pays n’a été aussi apeuré de façon permanente par cette expérience », souligne l’auteur.

Le triomphe d’Hitler est venu pendant la déflation

« Pourquoi ce traumatisme allemand ? » s’interroge-t-il à la fin du livre. Il y a évidemment l’horreur nazie. Mais le triomphe d’Hitler est venu pendant la déflation, non pendant l’inflation où, précisément, le putsch nazi de Munich de novembre 1923 a échoué.

Frederick Taylor explique ce traumatisme par son impact sur les classes moyennes intellectuelles. Ces dernières avaient, sous l’Empire, un prestige social immense. Avec l’inflation, ces classes se sont muées en un nouveau prolétariat. Alors que les ouvriers ont plus ou moins pu couvrir la perte de valeur de la monnaie grâce aux hausses de salaires, la Bildungsbürgertum a subi une déchéance qui l’a rapprochée socialement de la classe ouvrière.

Les « ordolibéraux » sont les traumatisés de 1923

« Dans le cas de l’Allemagne, c’est en grande partie parce qu’une classe sociale relativement petite, mais jadis extraordinairement prestigieuse, a perdu plus que quiconque dans l’inflation » que le traumatisme allemand a été construit. Les victimes principales de l’inflation « sont devenues une grande force qui forgera l’opinion au cours des trois quarts de siècle suivants. »

C’est cette classe qui ira grossir les rangs des déçus de Weimar en 1930-1933 et c’est elle qui organisera la reconstruction du pays après 1945. Ceux que l’on a appelé les « ordolibéraux » sont les traumatisés de 1923. « Ce phénomène joue un rôle important, peut-être crucial, dans la transformation de l’expérience de l’inflation qui a été une expérience dure, mais supportable pour beaucoup – en une catastrophe nationale reconnue par tous », explique Frederick Taylor.

La lecture de son ouvrage permet de comprendre une bonne partie du fossé qui sépare encore l’Allemagne du reste de l’Europe.

La Tribune

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lundi, 25 novembre 2013

Syria, Egypt Reveal Erdogan’s Hidden “Neo-Ottoman Agenda”

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Syria, Egypt Reveal Erdogan’s Hidden “Neo-Ottoman Agenda”

 
Global Research, November 20, 2013

The eruption of the Syrian conflict early in 2011 heralded the demise of Turkey ’s officially pronounced strategy of “Zero Problems with Neighbors,” but more importantly, it revealed a “hidden agenda” in Turkish foreign policy under the government of Prime Minister Recep Tayyip Erdogan.

What Sreeram Chaulia, the Dean of the Jindal School of International Affairs in India ’s Sonipat, described as a “creeping hidden agenda” (http://rt.com on Sept. 15, 2013) is covered up ideologically as “Islamist.”

But in a more in-depth insight it is unfolding as neo-Ottomanism that is pragmatically using “Islamization,” both of Mustafa Kemal Ataturk’s legacy internally and Turkey ’s foreign policy regionally, as a tool to revive the Ottoman Empire that once was.

Invoking his country’s former imperial grandeur, Foreign Minister Ahmet Davotoglu had written: “As in the sixteenth century … we will once again make the Balkans, the Caucasus, and the Middle East, together with Turkey , the center of world politics in the future. That is the goal of Turkish foreign policy and we will achieve it.” (Emphasis added)

Quoted by Hillel Fradkin and Lewis Libby, writing in last March/April edition of www.worldaffairsjournal.org, the goal of Erdogan’s AKP ruling party for 2023, as proclaimed by its recent Fourth General Congress, is: “A great nation, a great power.” Erdogan urged the youth of Turkey to look not only to 2023, but to 2071 as well when Turkey “will reach the level of our Ottoman and Seljuk ancestors by the year 2071” as he said in December last year.

“2071 will mark one thousand years since the Battle of Manzikert,” when the Seljuk Turks defeated the Byzantine Empire and heralded the advent of the Ottoman one, according to Fradkin and Libby.

Some six months ago, Davotoglu felt so confident and optimistic to assess that “it was now finally possible to revise the order imposed” by the British – French Sykes-Picot Agreement of 1916 to divide the Arab legacy of the Ottoman Empire between them.

Davotoglu knows very well that Pan-Arabs have been ever since struggling unsuccessfully so far to unite as a nation and discard the legacy of the Sykes-Picot Agreement, but not to recur to the Ottoman status quo ante, but he knows as well that Islamist political movements like the Muslim Brotherhood International (MBI) and the Hizb ut-Tahrir al-Islami (Islamic Party of Liberation) were originally founded in Egypt and Palestine respectively in response to the collapse of the Ottoman Islamic caliphate.

However, Erdogan’s Islamist credentials cannot be excluded as simply a sham; his background, his practices in office since 2002 as well as his regional policies since the eruption of the Syrian conflict less than three years ago all reveal that he does believe in his version of Islam per se as the right tool to pursue his Ottoman not so-“hidden agenda.”

Erdogan obviously is seeking to recruit Muslims as merely “soldiers” who will fight not for Islam per se, but for his neo-Ottomanism ambitions. Early enough in December 1997, he was given a 10-month prison sentence for voicing a poem that read: “The mosques are our barracks, the domes our helmets, the minarets our bayonets and the faithful our soldiers;” the poem was considered a violation of Kemalism by the secular judiciary.

Deceiving ‘Window of Opportunity ’

However, Erdogan’s Machiavellianism finds no contradiction between his Islamist outreach and his promotion of the “Turkish model,” which sells what is termed as the “moderate” Sunni Islam within the context of Ataturk’s secular and liberal state as both an alternative to the conservative tribal-religious states in the Arabian Peninsula and to the sectarian rival of the conservative Shiite theocracy in Iran.

He perceived in the latest US withdrawal of focus from the Middle East towards the Pacific Ocean a resulting regional power vacuum providing him with an historic window of opportunity to fill the perceived vacuum.

“Weakening of Europe and the US’ waning influence in the Middle East” were seen by the leadership of Erdogan’s ruling party “as a new chance to establish Turkey as an influential player in the region,” Günter Seufert wrote in the German Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) on last October 14.

The US and Israel , in earnest to recruit Turkey against Iran , nurtured Erdogan’s illusion of regional leadership. He deluded himself with the unrealistic belief that Turkey could stand up to and sidestep the rising stars of the emerging Russian international polar, the emerging Iranian regional polar and the traditional regional players of Egypt and Saudi Arabia , let alone Iraq and Syria should they survive their current internal strife.

For sure, his allies in the Muslim Brotherhood International (MBI) and his thinly veiled Machiavellian logistical support of al-Qaeda – linked terrorist organizations are not and will not be a counter balance.

He first focused his Arab outreach on promoting the “Turkish model,” especially during the early months of the so-called “Arab Spring,” as the example he hoped will be followed by the revolting masses, which would have positioned him in the place of the regional mentor and leader.

But while the eruption of the Syrian conflict compelled him to reveal his Islamist “hidden agenda” and his alliance with the MBI, the removal of MBI last July from power in Egypt with all its geopolitical weight, supported by the other regional Arab heavy weight of Saudi Arabia, took him off guard and dispelled his ambitions for regional leadership, but more importantly revealed more his neo-Ottoman “hidden agenda” and pushed him to drop all the secular and liberal pretensions of his “Turkish model” rhetoric.

‘Arab Idol’ No More 

Erdogan and his foreign policy engineer Davotoglu tried as well to exploit the Arab and Muslim adoption of the Palestine Question as the central item on their foreign policy agendas.

Since Erdogan’s encounter with the Israeli President Shimon Peres at the Economic Summit in Davos in January 2009, the Israeli attack on the Turkish humanitarian aid boat to Gaza, Mavi Marmara, the next year and Turkey’s courting of the Islamic Resistance Movement “Hamas,” the de facto rulers of the Israeli besieged Palestinian Gaza Strip, at the same time Gaza was targeted by the Israeli Operation Cast Lead in 2008-2009 then targeted again in the Israeli Operation Pillar of Defense in 2012, Turkey’s premier became the Arab idol who was invited to attend Arab Leage summit and ministerial meetings.

However, in interviews with ResearchTurkey, CNN Turk and other media outlets, Abdullatif Sener, a founder of Erdogan’s AKP party who served as deputy prime minister and minister of finance in successive AKP governments for about seven years before he broke out with Erdogan in 2008, highlighted Erdogan’s Machiavellianism and questioned the sincerity and credibility of his Islamic, Palestinian and Arab public posturing.

“Erdogan acts without considering religion even at some basic issues but he hands down sharp religious messages … I consider the AK Party not as an Islamic party but as a party which collect votes by using Islamic discourses,” Sener said, adding that, “the role in Middle East was assigned to him” and “the strongest logistic support” to Islamists who have “been carrying out terrorist activities” in Syria “is provided by Turkey” of Erdogan.

In an interview with CNN Turk, Sener dropped a bombshell when he pointed out that the AKP’s spat with Israel was “controlled.” During the diplomatic boycott of Israel many tenders were granted to Israeli companies and Turkey has agreed to grant partner status to Israel in NATO: “If the concern of the AKP is to confront Israel then why do they serve to the benefit of Israel ?” In another interview he said that the NATO radar systems installed in Malatya are there to protect Israel against Iran .

Sener argued that the biggest winner of the collapse of the Syrian government of President Bashar al-Assad would be Israel because it will weaken Lebanon ’s Hizbullah and Iran , yet Erdogan’s Turkey is the most ardent supporter of a regime change in Syria , he said.

Erdogan’s Syrian policy was the death knell to his strategy of “Zero Problems with Neighbors;” the bloody terrorist swamp of the Syrian conflict has drowned it in its quicksand.

Liz Sly’s story in the Washington Post on this November 17 highlighted how his Syrian policies “have gone awry” and counterproductive by “putting al-Qaeda on NATO’s (Turkish) borders for the first time.”

With his MBI alliance, he alienated Egypt , Saudi Arabia and the UAE, in addition to the other Arab heavy weights of Syria , Iraq and Algeria and was left with “zero friends” in the region.

According to Günter Seufert, Turkey ’s overall foreign policy, not only with regards to Syria , “has hit the brick wall” because the leadership of Erdogan’s ruling party “has viewed global political shifts through an ideologically (i.e. Islamist) tinted lens.”

Backpedaling too late

Now it seems Erdogan’s “ Turkey is already carefully backpedaling” on its foreign policy,” said Seufert. It “wants to reconnect” with Iran and “ Washington ’s request to end support for radical groups in Syria did not fall on deaf Turkish ears.”

“Reconnecting” with Iran and its Iraqi ruling sectarian brethren will alienate further the Saudis who could not tolerate similar reconnection by their historical and strategic US ally and who were already furious over Erdogan’s alliance with the Qatari financed and US sponsored Muslim Brotherhood and did not hesitate to publicly risk a rift with their US ally over the removal of the MBI from power in Egypt five months ago.

Within this context came Davotoglu’s recent visit to Baghdad , which “highlighted the need for great cooperation between Turkey and Iraq against the Sunni-Shiite conflict,” according to www.turkishweekly.net on this November 13. Moreover, he “personally” wanted “to spend the month of Muharram every year in (the Iraqi Shiite holy places of) Karbala and Najaf with our (Shiite) brothers there.”

Within the same “backpedaling” context came Erdogan’s playing the host last week to the president of the Iraqi Kurdistan Regional Government, Massoud Barzani, not in Ankara , but in Diyarbakir , which Turkish Kurds cherish as their capital in the same way Iraqi Kurds cherish Kirkuk .

However, on the same day of Barzani’s visit Erdogan ruled out the possibility of granting Turkish Kurds their universal right of self-determination when he announced “Islamic brotherhood” as the solution for the Kurdish ethnic conflict in Turkey , while his deputy, Bulent Arinc, announced that “a general amnesty” for Kurdish detainees “is not on today’s agenda.” Three days earlier, on this November 15, Turkish President Abdullah Gul said, “Turkey cannot permit (the) fait accompli” of declaring a Kurdish provisional self-rule along its southern borders in Syria which his prime minister’s counterproductive policies created together with an al-Qaeda-dominated northeastern strip of Syrian land.

Erdogan’s neo-Ottomanism charged by his Islamist sectarian ideology as a tool has backfired to alienate both Sunni and Shiite regional environment, the Syrian, Iraqi, Egyptian, Emirati, Saudi and Lebanese Arabs, Kurds, Armenians, Israelis and Iranians as well as Turkish and regional liberals and secularists. His foreign policy is in shambles with a heavy economic price as shown by the recent 13.2% devaluation of the Turkish lira against the US dollar.

“Backpedaling” might be too late to get Erdogan and his party through the upcoming local elections next March and the presidential elections which will follow in August next year.

Nicola Nasser is a veteran Arab journalist based in Birzeit, West Bank of the Israeli-occupied Palestinian territories. nassernicola@ymail.com

Cinquant'anni fa moriva C. S. Lewis

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Cinquant'anni fa moriva C. S. Lewis, il creatore di miti che oggi sanno ancora incantare

Annalisa Terranova

Ex: http://www.secoloditalia.it

Clive Staples Lewis, l’inventore del ciclo di Narnia, il fine medievista, il divulgatore della fede cristiana, l’amico cui Tolkien leggeva le sue saghe, l’ideatore della science fiction “catartica” e metafisica,  morì cinquant’anni fa a soli 65 anni (era il 22 novembre del 1963). Autore prolifico e di enorme successo, si fece “strumento” del genere fantastico e con i racconti simbolici dal paese immaginario di Narnia (i sette volumi di questa fiaba per bambini e adulti uscirono tra il 1950 e il 1956) divenne uno degli autori più apprezzati dentro e fuori l’Inghilterra. È vivo nella sua opera l’insegnamento di George MacDonald (tra i primi teorizzatori dei canoni della letteratura fantastica): “Noi roviniamo per avidità intellettuale infinite cose che già esistevano prima”. Non bisogna dunque farsi tentare dagli artifici ma tornare alla semplice visione che è propria dell’infanzia, farsi piccoli come gli gnomi e recuperare lo stupore della visione che si fa conoscenza. E la semplicità era anche la cifra stilistica adottata da Lewis nei suoi scritti (questo uno dei suoi consigli: “Invece di dirci che una cosa era terrificante, descrivila in modo da terrorizzarci. Non dire che era meravigliosa: fa’ sì che noi diciamo meraviglioso quando ne leggiamo la descrizione…”).

Era convinto che la forza del mito può risvegliare nell’uomo il desiderio di Dio. Per questo un recente studio dedicato a Lewis lo definisce “maestro dello spirito”. Scrive l’autrice Anna Maria Giorgi: “L’eroismo della quotidianità, ecco quello che ci propone C.S.Lewis con le sue opere e con il suo stesso stile di vita, sulla linea dei santi che sono diventati grandi facendosi piccoli come bambini. Generazioni di lettori si sono convertite leggendo i suoi libri: tra questi, per citarne uno solo, lo scienziato americano Francis Collins, scopritore del genoma umano,il quale si definiva un ateo di ferri finché non si imbatté in un libricino di Lewis, Mere Christianity“. Nella conversione di Lewis, invece, furono cruciali le conversazioni con l’amico Tolkien, con il quale diede vita ad Oxford al club letterario degli Inklings, fucina di idee per le pagine più note e amate della letteratura fantasy.

45528.jpgPaolo Gulisano ha scritto che il simbolismo di Lewis non è sentimentale ma “sacramentale”: “Le sue immagini funzionano spesso come simboli, che hanno la capacità di mostrare la verità e di farle raggiungere la coscienza del lettore e destare la sua meraviglia”. Non meno importante dell’altrove immaginato con Narnia è il viaggio dello scienziato Ransom nella trilogia fanta-teologica che comprende i romanzi Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza: “Durante il suo involontario viaggio interplanetario Ransom – scrive ancora Anna Maria Giorgi – sa comunque aprire gli occhi a scoprire una bellezza non solo fisica in quella che è la grande danza dell’universo, comprendendo che ‘spazio’ è una parola fredda e inadeguata per definire ‘il sommo oceano di splendore nel quale navigava’ “. Nel personaggio di Ransom, tra l’altro, rivivono alcune caratteristiche dell’amico Tolkien. Lewis non fu solo narratore di fiabe e inventore di miti ma anche un convinto propagandista. Il suo obiettivo polemico, sempre “aggredito” con senso dello humour e leggerezza, senza mai contaminarsi con il fanatismo, era la mentalità scientista e relativista, finché non scelse convintamente di far prevalere in lui l’uomo immaginativo, l’unico in grado di far nascere Narnia: “In me l’uomo immaginativo è più vecchio e opera con più continuità, e in questo senso è più basilare sia rispetto allo scrittore religioso, sia al critico…”.

Clive Staples Lewis era nato a Belfast nel 1898. Fece il suo ingresso all’università di Oxford nel 1916 ma i suoi studi furono interrotti dalla Prima guerra mondiale, alla quale partecipò rimanendo ferito. Nel 1924 comincia sempre a Oxford l’insegnamento di Lingua e letteratura inglese. Nel 1929 abbraccia la fede cristiana. Quattro anni dopo fonda il circolo degli Inklings di cui, oltre a Lewis e Tolkien, fece parte anche lo scrittore Charles Williams. Nel 1942 pubblica uno dei suoi libri più fortunati, The Screwtape Letters, che racconta in forma epistolare il fallito tentativo del diavolo Berlicche di istruire il nipote Malacoda nell’arte della tentazione. Nel 1950 comincia la pubblicazione delle Cronache di Narnia e successivamente sposa la scrittrice Joy Davidman Gresham, che morirà precocemente lasciando Lewis in preda allo sconforto e al dsiorientamento come lo stesso Lewis racconterà nell’autobiografia del 1955, Sorpreso dalla gioia (Surprised by Joy).

L’antiracisme, outil de domination

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L’antiracisme, outil de domination

 par Etienne Mouëdec

Ex: http://www.minute-hebdo.fr

L’antiracisme est un cache-sexe : celui d’une France officielle qui n’a d’autres moyens pour cacher ses reniements que le rideau de fumée. Entendons-nous bien : dénoncer  le dogme de l’antiracisme, ce n’est pas – à quelque degré que ce soit – vouloir habiliter le racisme, qui restera toujours une aberration. Mais sortir du manichéisme, c’est si compliqué pour un socialiste…

La « semaine de la haine » est terminée. Le déferlement s’est tari… jusqu’aux prochains mots d’ordre. Toujours la mê­me « ferveur mimétique de no­tre presse pluraliste. On rivalise dans la colère grave » (Elisabeth Lévy, Les Maîtres censeurs). D’autant que je mettrais ma banane à couper (enfin, façon de parler…) que pas un de ces gueulards n’a lu l’article de « Minute ». Tous ont suivi la meute des cris et des lamenta­tions, qui s’auto-alimente de son pro­pre bruit. « Mimétisme médiatique et hyperémotion », résume Ignacio Ramonet.
Quelle rigolade pourtant ! Car cet­te gamine, avec sa peau de banane à Angers, méritait une bonne fessée et peut-être ses parents aussi. Pas ce brouhaha de cœur de vierges effarouchées toujours prompt à rejouer l’arrivée d’Hitler au pouvoir. Parce que, franchement, qui croit vraiment à une « résurgence » du racisme ? De l’antisémitisme, oui, mais de façon circonstanciée, et à cause de certaines franges radicales de l’islam. Mais sinon ?

Le « transcendantal-coluchisme » se perpétue


Qu’importe la réalité : voila vingt ans, trente ans même que la gauche en panne d’idées cherche son épouvantail pour se parer de toutes les vertus et faire oublier son ralliement au capital, cacher ses rangs désertés et toutes ses saloperies. Depuis qu’elle n’est plus marxiste, ni sociale, ni politique, la gauche est morale.


Dès lors, cela fait trente ans que les télés, à la recherche de l’ennemi intérieur, furètent partout en France en quête du moindre crâne rasé pour effrayer la ménagère. Et qu’importe si le mouvement skin n’existe plus depuis plus de vingt ans ! Le vrai danger, c’est le fascisme qu’on vous dit. En France, oui, pays où il n’y eut jamais un seul mouvement fasciste, excepté des groupuscules juste avant la Deuxième Guerre mondiale et quel­ques bandes d’hurluberlus après qui ne perdurent qu’à travers de pauvres gamins déboussolés qui se font « la voix du système » en allant jusqu’à adopter le portrait robot du méchant, dressé par le système lui-même. Mais bref.


Depuis Carpentras, les bidonnages et accusations risibles se succèdent, sui­vis des mêmes déclarations grandi­loquentes rejouant sans cesse la « mo­bilisation des potes » : quarante ans que « tous les enfoirés du monde se donnent la main » contre la misère, con­tre le sida, contre le mal lui-même, le Front national. Par shows télévisés successifs, la France d’en haut, celle qui ne paie pas d’impôts, celle qui se mo­que du petit franchouillard à longueur de journée s’offre une bonne con­science à grand renfort de larmes qui n’en finissent pas de couler : c’est le transcendantal-coluchisme que Fran­çois-Bernard Huyghes décrivait déjà… en 1987 dans son livre La Soft-idéologie.

La « duperie consciente » érigée en système


Quoi de neuf depuis ? La gauche gar­de une forme olympique : calibrée par le milliardaire BHL, trompée par le millionnaire DSK et incarnée par le triste Hollande, elle n’a d’autre choix que de ressortir les bonnes vieilles formules, aussi éculées soient-elles. Et les baudruches fleurissent : « Les digues ont sauté. La libération de la parole raciste a atteint un niveau d’abjection intolérable dans notre pays », annonce la Licra sur son site. Suivra immanquablement la sempiternelle manif pour toute la « France démocratique », électrisée à l’idée de ne pas manquer le rendez-vous avec l’histoire en s’engageant cou­rageusement contre le fascisme qui vient, cet ennemi intérieur qui n’a ni structure, ni journaux, ni leader, ni militant. Danger imaginaire et fan­­­tas­­mé, celui-ci permet toutes les mobilisations et… toutes les manipulations.


La réalité rejoint le roman d’anticipation 1 984 d’Orwell. Quand Harlem Désir compare gravement la LMPT à une montée fasciste, personne n’est cen­sé rigoler. Lorsque les bonnets rou­ges sont annoncés être « récupérés par l’extrême droite », en attendant d’ê­tre traités eux-mêmes de fascistes, interdit de rire.

La novlangue socialiste ne passera pas par nous !


Aux annonces du loup, tout un « peuple de gauche », parfaitement formaté, répond présent. Voici qu’après « La guerre, c’est la paix » de Big Brother, vient « la tolérance, c’est l’intolérance » du Parti socialiste. C’est la « doublepensée » décrite par Orwell :
« La doublepensée est le pouvoir de garder à l’esprit simultanément deux croyances contradictoires, et de les accepter toutes deux. […] La doublepensée se place au cœur même de l’Angsoc, puisque l’acte essentiel du Parti est la duperie consciente, tout en retenant la fermeté d’intention qui va de pair avec l’honnêteté véritable. Dire des mensonges délibérés tout en y croyant sincèrement, oublier tous les faits devenus gênants puis, lorsque c’est nécessaire, les tirer de l’oubli pour seulement le laps de temps utile, nier l’existence d’une réalité objective alors qu’on tient compte de la réalité qu’on nie, tout cela est d’une indispensable nécessité. »


Dans La Révolte des élites (Climats, 1 996), le sociologue Christopher Lasch analysait cette duplicité des nou­velles élites : « Lorsqu’ils sont con­frontés à des résistances, ils révèlent la haine venimeuse qui ne se cache pas loin sous le masque souriant de la bienveillance bourgeoise. La moindre opposition fait oublier aux humanitaristes les vertus généreuses qu’ils prétendent défendre. Ils deviennent irritables, pharisiens, intolérants. Dans le feu de la controverse politique, ils jugent impossible de dissimuler leur mépris pour ceux qui refusent obstinément de voir la lumière – ceux qui ne sont pas dans le coup – dans le langage autosatisfait du prêt-à-penser politique. »


Ou, pour dire encore autrement ce mépris, « ces gens-là […] ceux qui sont vaincus, du passé, déjà finis. Dévitalisés, desséchés », pour reprendre les mots de Christiane Taubira lors d’un homma­ge à Frantz Fanon, grand ami de la France, ce samedi 16 novembre 2013.


La novlangue socialiste n’est pas un outil de pacification sociale. Elle s’af­firme plutôt comme un véritable moyen de contrainte tant elle sert à masquer une réalité de plus en plus vio­lente et que l’on n’ose plus dire. De la famille jusqu’au monde du travail, tout vient illustrer des rapports sociaux et humains de plus en plus dégradés, le tout couronné par une pa­role politique creuse, incapable de donner sens.


Alors, l’interdiction de « Minute » – le rêve de Manuel – serait-elle un progrès ou le symptôme des griffes qui se resserrent ?

 
Etienne Mouëdec

Konservative Revolution in Europa?

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Konservative Revolution in Europa?

Erik Lehnert

Ex: http://www.sezession.de

Die „Konservative Revolution“ gehört zu den „erfolgreichsten Wortschöpfungen des neueren Ideengeschichtsschreibung“ (Stefan Breuer) und ist dennoch umstritten wie kaum ein zweiter Begriff. Das mag seinen Grund in den programmstischen Aussagen dieser Denkrichtung haben, die seine Gegner gern anderen Ideologien zuschlagen würden. Es kann aber auch daran liegen, daß die KR als ein spezifisch deutsches Phänomen angesehen wird und deshalb den Großideologien des 20. Jahrhunderts zugerechnet werden soll.

Der neue Band aus der Reihe „Berliner Schriften zur Ideologienkunde“ [2] widerlegt diese Auffassungen. Bereits Armin Mohler hatte in seiner grundlegenden Arbeit zum Thema darauf hingewiesen, daß es nicht nur eine europäische, sondern auch eine universale Dimension der konservativ-revolutionären Strömung gebe.

Tatsächlich entdeckt man bei genauerer Betrachtung eine lange Reihe von Persönlichkeiten, die seit dem Ende des 19. Jahrhunderts Ideen vertraten, die man als „jungkonservativ“, „völkisch“ oder „nationalrevolutionär“ bezeichnen könnte, und es gab auch Bewegungen, die bestimmte „bündische“ Züge aufwiesen oder Ähnlichkeit mit dem Landvolk hatten. Von Fjodor M. Dostojewski und Charles Maurras bis zu Julius Evola, T.S. Eliot und Sven Hedin reicht ein erstaunlich weites Spektrum, das bisher noch nie unter dem Gesichtspunkt betrachtet wurde, daß man es mit Repräsentanten einer großen, die Geistesgeschichte unseres Kontinents nachhaltig beeinflußenden ideologischen Richtung zu tun hatte.

Der Band versammelt Aufsätze zu folgenden Ländern: England, Italien, Niederlande, Belgien und Frankreich. Am Beispiel von Julius Evola wird zudem die europäische Dimension deutlich, die auf einzelne Vertreter zurückzuführen ist. Mit Hans Thomas Hakl, Alain de Benoist und Luc Pauwels sind ausgesprochene Kenner der jeweiligen Länder als Autoren vertreten. Der Herausgeber, Karlheinz Weißmann, ist sicher der beste Kenner der Materie in Deutschland, was er nicht zuletzt mit der Neufassung von Mohlers Klassiker unter Beweis gestellt hat. In seinem Vorwort wirft Weißmann einen Blick auf die restlichen Länder Europas und kommt zu folgendem Fazit:

 Es dürfte […] unmittelbar deutlich geworden sein, daß keine einfache Antwort auf die Frage nach der europäischen Dimension der Konservativen Revolution möglich ist. Der Hinweis auf eine „Welle des antidemokratischen Denkens“ , die Anfang der dreißiger Jahre den Kontinent erfaßte, genügt jedenfalls nicht, um zu erklären, warum sich in bestimmten Ländern konservativ-revolutionäre Vorstellungen ausbreiteten, in anderen nicht; vielmehr ergibt sich folgende Bilanz:

• Die kulturelle und politische Nähe zu Deutschland konnte förderlich wirken (Niederlande, Belgien, Schweden, mit Vorbehalt Dänemark), aber von Zwangsläufigkeit ist keine Rede (Österreich, Schweiz),

• die Erfahrung der nationalen Demütigung und Schwäche spielte sicher eine Rolle (Italien, Belgien), war aber nicht ausschlaggebend (Frankreich, Großbritannien),

• was zuletzt bedeutete, daß die Krise des liberalen Systems, das als dysfunktional betrachtet wurde (Frankreich, Italien, Belgien, in gewissem Sinn auch die Niederlande und Großbritannien), den Ausschlag gab und jene Impulse freisetzte, die darauf abzielten, eine Konservative Revolution in Gang zu bringen,

• jedenfalls den Versuch zu unternehmen eine „vierte Front“ aufzubauen: gegen Kapitalismus, Kommunismus, Nationalsozialismus.

• Unbeschadet davon gilt aber, daß nur in Deutschland die Konservative Revolution zur „dominanten Ideologie“ werden konnte, weil bestimmte geistige Dispositionen und die kollektive Demütigung durch Niederlage und Versailler Vertrag die Entwicklung unerbittlich vorantrieben.

Die Untersuchung der europäischen Aspekte der Konservativen Revolution gilt schon lange als Desiderat der Forschung zur Geschichte des Konservatismus. Mit dem Erscheinen des Bandes ist ein großer Schritt in dieser Richtung getan. Er bringt nebenbei einige Antworten auf die Frage, warum sich die KR trotz ihrer Erfolglosigkeit als so zäh erwiesen hat, daß ihr auch heute noch ein gewisses Faszinosum nicht abgesprochen werden kann. Er bringt in uns etwas zum Klingen und verweist damit auf die Antinomien, die für den Menschen unüberwindlich sind: „Konservative Revolution nennen wir die Wiedereinsetzung aller jener elementaren Gesetze und Werte, ohne welche der Mensch den Zusammenhang mit der Natur und mit Gott verliert und keine wahre Ordnung aufbauen kann.“ (Edgar Julius Jung)

Der Band umfaßt 244 Seiten, kostet 15 Euro und kann hier bestellt werden [2].


Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

URL to article: http://www.sezession.de/41893/konservative-revolution-in-europa.html

URLs in this post:

[1] Image: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2013/11/9783939869634.jpg

[2] Der neue Band aus der Reihe „Berliner Schriften zur Ideologienkunde“: http://antaios.de/buecher-anderer-verlage/institut-fuer-staatspolitik-/berliner-schriften-zur-ideologienkunde/363/die-konservative-revolution-in-europa?c=18

Dr. Alexander Jacob about Hans-Jürgen Syberberg

Dr. Alexander Jacob about Hans-Jürgen Syberberg's vision of European Culture

dimanche, 24 novembre 2013

TOUS A LA TABLE RONDE DE TERRE & PEUPLE

Dimanche 1er décembre,

à Rungis:

TOUS A LA TABLE RONDE DE TERRE & PEUPLE

 

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XVIIIe Table Ronde: Sommes-nous en 1788?

Demain la Révolution ?


  Dimanche 1er décembre 2013


Jean Haudry :

« La Révolution française : un modèle pour la nôtre ? »

Alain Cagnat :

« Demain, les guerres »

Lajos Marton :

« Itinéraire d’un révolutionnaire »

Pierre Krebs :

« L’état d’esprit révolutionnaire »

Pierre Vial :

« Notre espérance et notre volonté : la révolution identitaire »


Débat

« Notre socialisme identitaire »

avec Fiorini, Krampon, Feltin-Tracol, JP Lorrain,

animé par Vial

  Espace Jean Monnet

47, rue des Solets à Rungis 94150

(accès RER : station La Fraternelle) vastes parkings


A partir de 10 heures. Entrée : 8 euros

 

Restauration sur place à petits prix

Nombreux stands : livres, revues, disques, insignes, drapeaux, tee-shirts, artisanat identitaire enraciné


Terre et Peuple  BP 38  04300 Forcalquier

contact@terreetpeuple.com  tél : 06 62 47 29 92        

Выпуск XXI 2013. Война

Выпуск XXI 2013. Война

 
http://www.geopolitica.ru/magazine/

Матвиенко Ю. А.
Апология полемоса...........................................................5

Савин Л. В.
Горизонты войны............................................................22

Раджпут Патьял
Принципы войны: необходимость переосмысления....35

Фрэнк Г. Хоффман
Гибридные угрозы: переосмысление изменяющегося характера

современных конфликтов................................................45

Джордж Бергер
Сунь Цзы и Клаузевиц: кто более релевантен 
современной войне..........................................................63

Чэнь Чжихао
Военно-политические отношения между Китаем и Индией:
перспективы и вызовы....................................................72

Мануэл Охзенрайтер
Военная стратегия Германии..........................................87

Николас Гвоздев
Подход Бисмарка к разрешению конфликтов XXI века.92

Ян Алмонд
Британская и израильская помощь для США в стратегии пыток
и контрповстанческих инициатив в Центральной
и Латинской Америке, 1967-96:
аргумент против комплексификации.............................95

Колин С. Грэй
Возрождение стратегии сдерживания:
Пересмотр некоторых основополагающих принципов..115

Дональд Хоровиц
Общественный конфликт: политика и возможности....125

Рецензии............................................................................141

Сведения об авторах.........................................................160

Файл в формате pdf: 

Soirée rétro

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Eros Rivoluzione

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Afghanistan occupato fino al 2024

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Afghanistan occupato fino al 2024

Immunità giudiziaria e libertà totale operativa per 15 mila militari Usa

Lorenzo Moore

Secondo la bozza di accordo tra governo di Washington e governo insediato a Kabul dagli occupanti, oggetto di discussione nei cinque giorni che dal 21 novembre vedranno riunita l’assemblea tribale afghana (Loya Jirga), le truppe Usa sono destinate a restare in Afghanistan fino al 2024. Nel documento di “security agreement”, che consta di 25 pagine, è chiaramente esposta la volontà Usa di restare con le proprie forze militari nei territori afghani occupati “in sostegno delle forze afghane di sicurezza”. Una volta firmato l’accordo, ben 15 mila militari, secondo quanto reso noto dalla Nbc, oltre a godere di “immunità” giudiziaria nei tribunali afghani, saranno chiamati di “assicurare la protezione” dell’Afghanistan fino al 2024, per 23 anni cioè dall’aggressione angloamericana del 2001, contro “le forze di al Qaida e i loro affiliati”, anche con interventi operativi “in zone civili e residenziali”, come già verbalmente richiesto dal segretario di Stato Usa John Kerry al presidente afghano Hamid Karzai. Il trattato potrà essere annullato soltanto con un preavviso di due anni. Sia la richiesta di immunità e la libera operatività contro i civili sono state dichiarate dagli Usa “condizioni essenziali”. In poche parole gli Usa hanno richiesto “mani totalmente libere” per il loro ruolo militare di occupazione. Come noto Obama aveva “promesso” il totale ritiro militare Usa dall’Afghanistan entro il 2014.


20 Novembre 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22681

Notes sur le désordre “apolaire” du Moyen-Orient

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Notes sur le désordre “apolaire” du Moyen-Orient

Ex: http://www.dedefensa.org

L’étrange “politique” américaniste au Moyen-Orient, que certains voient comme un spectacle de “folies-bouffe” (ce 7 novembre 2013), d’autres comme une quête dérisoire et sans fin de l’«America’s Top Diplomat [Kerry] Lost in Space» (voir le 3 novembre 2013, sur TomDispatch.com), conduit à un désordre considérable que certains acteurs mieux organisés songeraient à réorganiser.

De là s’explique l’entêtement considérable du site DEBKAFiles à construire, nouvelle exclusive après nouvelle exclusive, l’impression d’une sérieuse entreprise de réorganisation de la région de la part de la Russie, à laquelle Israël, incontestable pays favori du même DEBKAFiles, ne serait pas indifférent. D’où, selon une logique développée par la même source, cette rencontre Poutine-Netanyahou du 20 novembre à Moscou, annoncée le 5 novembre un peu avant que John Kerry, le “Top Diplomat Lost in Space” ait posé un pied, le gauche ou le droit, sur le sol israélien. La nouvelle de cette rencontre n’a guère suscité de commentaires ni de supputations dans la presse-Système des pays du bloc BAO, à peine son annonce ici et là, ce qui est peut-être un indice de son importance. Ainsi en est-il également (discrétion) de la visite de Lavrov et du ministre russe de la défense russe au Caire, mardi et mercredi prochain.

Note sur un “fil rouge” à suivre avec des pincettes

Si nous citons DEBKAFiles avec toutes ses casseroles des liens avec la propagande et “les services” israéliens, c’est avec les considérables réserves d’usage, maintes fois mentionnées, avec à boire et à manger, avec fort peu à boire (source claire) et beaucoup à manger (débris troubles et stagnants) ... L’expression «se dit d’un liquide, vin, bouillon, café, etc., trouble et épais» et, au figuré, «se dit d’une question qui présente deux sens, d’une affaire qui peut réussir ou ne pas réussir, d’un ouvrage où il y a du bon et du mauvais».

Il faut donc séparer le bon grain de l’ivraie (autre expression, marquant décidément combien cette sorte de situation est courante) ; c’est notre tâche et une tâche délicate, où l’intuition prend le pas sur la connaissance. Si nous citons DEBKAFiles (bis), un peu comme un fil rouge de cette Notes d’analyse, c’est parce qu’il faut reconnaître au site israélien qu’il a beaucoup insisté et “révélé” sur des événements qui commencent à se concrétiser, et notamment (voir ci-dessous), le cas du rapprochement vers une coopération stratégique et militaire, – ce qui n’est pas rien en fait de bouleversement, – de la Russie et de l’Égypte.

Judo Bandar-Poutine

Il y a plusieurs volets, plusieurs orientations, certains diraient “plusieurs pistes” dans cette supputation que constituent ces Notes d’analyse, mais la logique répond à un grand événement qui est celui d’une nouvelle “grande absence”, qui est la politique en pleine dissolution des USA au Moyen-Orient. Le premier signe déjà lointain, entretemps considérablement brouillé par divers événements où l’habileté bien connue mais un peu trop réduite à la tactique de manigance de Prince Bandar-le-diabolique, remonte à la rencontre extrêmement secrète de ce dernier avec Poutine, à la fin juillet. Rarement rencontre “secrète” n’aura reçu autant d’attention et de célébrité, autant d’interprétations, autant d’appréciations impératives et en divers sens contraires.

Le 24 août 2013, nous donnions notre appréciation de cet événement “secret” en signalant au moins un point d’accord, qui aurait été l’idée que la Russie envisage de vendre des armes à l’Égypte (Bandar parlant alors au nom des Saoudiens qui soutiennent financièrement l’Égypte depuis l’intervention des militaires et la chute de Morsi donnent aux Égyptiens une aide financière puissante, supérieure à $10 milliards). Ces échanges de vue se faisaient sur fond de mésentente grandissante entre les USA et l’Égypte, et un sentiment anti-US grandissant en Égypte, – la chose s’étant confirmée depuis par des mesures de restrictions de l’aide militaire US à l’Égypte. Le reste de l’entretien “secret” est plus incertain, voire franchement antagoniste, avec des menaces voilées de Bandar (qui s’en délectaient) à l’intention des Russes et des réactions furieuses de Poutine.

(Un conseiller de Poutine qui se trouvait, avec quelques autres, dans l’antichambre de cette rencontre en tête-à-tête [plus les interprètes] qui dura quatre heures, a fait quelques confidences à quelques amis. Il vit sortir de l’entretien un Poutine manifestement furieux, presque rouge de colère, et un Bandar avec une expression presque triomphante et certainement sardonique. Dans la perspectives qu’on connaît désormais, on fera de ces précisions d’humeur un témoignage des caractères respectifs plus qu’une mesure des résultats de la rencontre. C’est vrai qu’il y eut des mots de Bandar qui ressemblait à des menaces adressées à la Russie [le passage sur le terrorisme tchétchène et les JO de Sotchi], et Poutine n’aime pas qu’on traite la Russie comme une vulgaire Syrie ; peut-être la colère de Poutine, personnage que les gazettes anglo-saxonnes nous décrivent comme “très physique”, vint-elle de son regret qu’il n’y ait pas eu un complément à l’entretien du type rencontre de judo.)

Lavrov au Caire

Nous restons sur cette question des relations Russie-Égypte et des armes russes ... Après diverses affirmations officieuses à cet égard et dans le sens évoqué plus haut, dès le courant août (voir le 19 août 2013), notamment très péremptoires de la part de DEBKAFiles, l’idée a pris une tournure très officielles depuis hier (Novosti, le 8 novembre 2013), et une allure-turbo avec l’annonce de la visite des ministres russes de la défense et des affaires étrangères la semaine prochaine (les 12-13 novembre) pour la négociation de contrat d’armements russes modernes portant sur $4 milliards.

«“We are ready to negotiate with the Egyptian side the possibility of deliveries of new weaponry as well as repairing equipment supplied in Soviet times,” the Rosoboronexport official told RIA Novosti. He said such new deliveries would depend on Egypt’s ability to pay for them. But he noted, “Moscow is ready to discuss with Cairo a possible loan to that country.” [...]

«Russian Foreign Ministry spokesman Alexander Lukashevich said earlier Friday that Russian Defense Minister Sergei Shoigu and Foreign Minister Sergei Lavrov will meet with their Egyptian counterparts during their visit to Egypt on November 13-14. The Russian delegation will include the first deputy director of the Federal Service on Military-Technical Cooperation, Andrei Boitsov, and Rosoboronexport officials. “The upcoming visit will help us to outline the prospects of our [defense] cooperation,” the Rosoboronexport source said...»

Sur cette question des armements russes pour l’Egypte, DEBKAFiles frappait fort, le 29 octobre 2013, en écrivant que les Egyptiens, qui recevaient ce jour-là au Caire le chef d’état-major adjoint russe et chef du GRU, le général Kondrachov, voudraient effectivement beaucoup d’armes russes, dont des missiles balistiques de théâtre à portée moyenne (2 000 kilomètres), des SS-25. («[The Egyptians] told the Russian general that Moscow’s good faith in seeking to build a new military relationship between the two governments would be tested by its willingness to meet this Egyptian requirement. They are most likely after the brand-new SS-25 road-mobile ICBM which has a range of 2,000 km., which the Russians tested earlier this month.») Le 4 novembre 2013, DEBKAFiles remet cela en annonçant que les Russes demanderaient aux Égyptiens la disposition d’une port de relâche qui serait presque une base en Égypte pour leur flotte en Méditerranée (Alexandrie et Port-SaÏd étant parmi les options envisagées). Le site israélien ne manque pas de répéter ce qu’il martèle régulièrement, savoir que tout cela est soutenu, non plus encore, encouragé et même machiné par les Saoudiens de Riyad, comme vu plus haut dans le chef franc et ouvert de prince Bandar : «As DEBKAfile reported earlier, Saudi Arabia engineered the Russian-Egyptian rapprochement with a view to bringing Russian military advisers back to Egypt for the first time since they were thrown out in 1972. Moscow was designated as major arms supplier to the Egyptian army in lieu of Washington.»

Passons donc, puisqu’on nous y invite, à l’Arabie Saoudite.

Fureurs saoudiennes

Depuis près de deux mois, depuis l’attaque US avortée contre la Syrie, l’Arabie tempête. Il y a d’abord le volet opérationnel et stratégique agressif : prendre en mains les affaires, et suppléer à l’inconsistance et à la dissolution de la politique US, contre la Syrie, mais aussi contre la “machination“ US du rapprochement avec l’Iran. Il y a ensuite et surtout la dénonciation extraordinaire des USA par l’Arabie. La fureur anti-US de l’Arabie s’est étalée publiquement à partir de la mi-octobre. La “crise syrienne” (guillemets nécessaire) est ainsi devenue “la crise autour de la Syrie” avec le considérable appendice iranien. Essayons, non pas d’y voir plus clair, mais simplement de dérouler quelques nouvelles qui, mises à bout à bout, rendent un son charmant de désordre chaotique ou de chaos désordonné, c’est selon. Là-dessus, rien n’empêche de construire de grandes prospectives concernant cette région, ce n’est pas Prince Bandar qui démentira.

La colère, voire le mépris furieux des Saoudiens vis-à-vis de leurs tuteurs et alliés de plus de deux tiers de siècle s’est affichée et s’affiche sans la moindre retenue. Le 24 octobre, le service BBC Monitoring Middle East a diffusé une traduction d’un article du Elaph News Website, site réputé comme influent et bien informé pour l’Arabie Saoudite et les pays du Golfe. Il y a d’abord les remarques extrêmement acerbes, et publiques, de Prince Turki al-Fayçal, membre de la famille royale, ancien chef du renseignement saoudien, ancien ambassadeur du royaume à Londres et à Washington... «Prince Turki al-Faysal made scathing critical remarks of Obama’s policies in Syria and described them as “worthy of lamentation.” [...] Prince Turki described Obama`s policies in Syria as “lamentable” and mocked the US-Russian agreement on getting rid of the chemical weapons of Al-Asad`s government. [...] [Turki] said: “The present drama on the international control of the chemical arsenal of Bashar al-Asad will be comical, if not blatantly ridiculous, and it aims at giving the chance to Mr Obama to back down (on carrying out military strikes) and also help Al-Asad to slaughter his people.”»

Le même texte, après avoir détaillé divers aspects de la situation saoudienne en fonction de sa brouille, ou supposée avec les USA, conclut à partir d’une source saoudienne présentée comme très sûre et de très haut niveau : «The Saudi source said: “All the options are on the table now, and certainly there will be some impact.” He added that no more coordination with the United States will take place concerning the war in Syria where Saudi Arabia provides opposition groups fighting Al-Asad with weapons and money.»

L’idylle Tel Aviv-Ryhad

On sait que cette querelle entre l’Arabie et les USA a été présentée avec le complément d’un rapprochement stratégique remarquable entre les Saoudiens et Israël. Des informations officieuses ont déjà cité des visites de Prince Bandar en Israël et, dans l’autre sens, des déploiement de certains militaires israéliens, notamment en Arabie (voir notre texte du 19 octobre 2013). Le climat de la communication est à mesure ... Un commentaire israélien typique de cette situation est celui de Ariel Kahane, dans Ma’ariv du 25 octobre 2013 : «The rift between the US and its allies in the Middle East on the Iranian issue is widening. For the first time in the region’s history, the Arab countries are forming a united front with Israel against the more lenient position being taken by the Obama administration.» Il y a beaucoup d’écho aux déclarations de la ministre israélienne Tzipi Livni lors d’un récent colloque (voir Gulf News [Reuters], le 25 octobre 2013 : «Israelis, Saudis speaking same language on Iran, says Tzipi Livni. There is a need to cooperate with those who perceive Iran as a threat, says minister...»).

DEBKAFiles s’intéresse évidemment beaucoup à cette querelle entre USA et Arabie, d’autant plus qu’il y a cet élément de proximité de circonstance de l’Arabie avec Israël. Le 25 octobre, le site, dans son domaine payant, affirmait que les Saoudiens avaient décidé de livrer des armes avancées (missiles) antichars et antiaériennes rapprochées, du type que les pays du bloc BAO, et surtout les USA, ont officiellement prohibé de crainte qu’elles ne tombent dans les mains des extrémistes. La décision est aussi bien opérationnelle (en faveur des rebelles syriens) que politique (en défiance des USA). Le rapport de DEBKAFiles annonçait notamment  : «The US media suddenly discovered Tuesday Oct. 22 that Saudi Arabia had a serious bone to pick with US President Barack Obamaover his Middle East policies, a pivotal development which DEBKA has been carefully tracking in the four months since the first major falling-out occurred over Egypt’s military coup. [...] The Saudis had meanwhile gone into action. That same Tuesday, DEBKA's intelligence sources in the Gulf disclose, a small summit met quietly in Riyadh of likeminded Mideast and Gulf heads of state to determine how and from what territory heavy weapons systems would be put in the hands of the Syrian rebel militias backed by Saudi intelligence. They decided that those militias must be given enough anti-aircraft and anti-tank missiles to stand up to Assad’s army – a direct challenge to the Obama administration’s resolve to keep out of rebel hands the heavy hardware capable of contending with Bashar Assad’s tanks and air force.»

L’Amérique qui-n’a-rien-à-craindre

Pour autant, la partie US et le bloc BAO, du côté des commentateurs, ne s’affolent nullement. Ce point de vue du type “pas de panique, la situation est sous contrôle” est appuyé sur les certitudes occidentales et surtout anglo-saxonne, d’une hégémonie continue et de la situation, pour les alliés-vassaux, de ne pouvoir rien faire d’important sans le soutien anglo-saxon. C’est ce que notait Karen Elliott House, dans le Wall Street Journal du 24 octobre 2013 ; elle parlait, pour qualifier la position de l’Arabie, d’une situation où leur propre survivance continue à dépendre de leurs protecteurs de déjà plus d’un demi-siècle : «Sadly for the Saudis, there is no alternative protector, which means the two countries will continue to share an interest, however strained, in combating terrorism and securing stability in the Persian Gulf.» On peut trouver la même analyse, par exemple, chez Shashank Joshi, du Royal United Services Institute (RUSI) britannique, rapporté par Bloomsberg.News le 23 octobre 2013.

Certains vont même jusqu’à rassurer Washington sur l’excellence de sa “politique” en l’assurant que l’Arabie et ses amis du Golfe, avec leur soi-disant politique indépendante, vont rapidement se trouver devant le monstre qu’ils ont contribué à créer : un al Qaïda gonflé aux stéroïdes du Golfe, se retournant contre le Golfe. C’est le cas de David Andrew Weinberg, Senior Fellow à la Foundation for Defense of Democracies (un think tank de tendance néoconservatrice, semble-t-il), sur CNN le 25 novembre 2013...

«Some observers are bullishly optimistic about the foreign policies of America’s Gulf allies, suggesting Saudi Arabia backs “the least Islamist component of the rebellion” and Qatar’s young new emir is displaying a more “mature” foreign policy that seeks to avoid controversy in places like Syria. However, there is worrying news coming from Syria’s Raqqa Province, now controlled by the al Qaeda affiliate Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL). Hateful books described by several different sources as the area’s new academic curriculum,reportedly originate from Saudi Arabia.»

Alerte terrorisée

Tous ces avis sont relatifs dans la mesure où ils parlent d’une “politique” des USA au Moyen-Orient. On sait l’état de la chose. Par contre, là où ils n’ont pas nécessairement tort, même si par inadvertance peut-être, dans l’évaluation des situations et la perception des différents acteurs, c’est pour ce qui concerne la “politique extérieure” de l’Arabie/des pays du Golfe. On peut même prendre l’avis de Weinberg et remarquer qu’il rejoint des appréhensions de DEBKAFiles, pourtant dans le camp opposé pour ce cas puisque favorable in fine à la “politique” saoudienne de la saison, à la fois anti-iranienne et anti-US, donc proche d’Israël, – mais tout ce beau monde se trouvant, à cause de leur autre “politique“ syrienne anti-Assad, effectivement en train de fabriquer un monstre.

Donc, le 26 octobre 2013, DEBKAFiles sonne l’alarme, pour Israël, pour le Liban, pour la Jordanie, pour l’Égypte, enfin pour l’Arabie Saoudite, voire pour l’Irak et le Yemen (sans parler de la Syrie), etc. Soudain, l’on fait état d’une monstrueuse extension des effectifs et des capacités d’al Qaïda à partir du “centre” syrien, et cela malgré que les activités des divers pays cités comme étant menacés aient contribué, au moins indirectement, à cette expansion en affrontant le régime syrien d’Assad. (On notera dans cette citation qu’il est même question d’un apport de djihadistes du Caucase, ce qui nous amène à nous interroger à propos des affirmations bombastiques de prince Bandar face à Poutine fin juillet, sur sa capacité à faire faire ce qu’il veut aux terroristes islamistes du même Caucase...)

«The alarm in the Israeli and Jordanian high commands over Al Qaeda’s looming encroachments is shared by Saudi Arabia, whose intelligence services now estimate that Al Qaeda and its multiple branches have massed some 6,000 fighting activists in Syria – 12 percent of them Saudi nationals. Since more are pouring into the country all the time, intelligence experts in Riyadh calculate that the current number will double itself in the next six months. And that will not be the end: the 12,000 jihadists concentrated in Syria by next spring may have multiplied to 15-18,000 by the winter of 2014. Most of them are streaming in from across the Muslim world including the Russian Caucasian.

»Saudi Intelligence chief Prince Bandar bin Sultan, who is in charge of the Saudi effort in Syria, has warned that Riyadh cannot afford to have al Qaeda hanging massively over its front, back and side doors – in Syria, Iraq, Yemen and Egyptian Sinai, and threatening to overrun Lebanon and Jordan. A jihadi victory in Syria would boost al Qaeda in Iraq on its northern border.

»Israel is in the same position...»

Perspectives iranienne et syrienne

... Tout cela nous conduit à minimiser considérablement le tohu-bohu considérable fait autour de la fronde saoudienne, menaçant de partir en guerre au côté d’un Israël qui ne sait plus exactement qui attaquer en premier. Quant à une alliance israélo-saoudienne pour ramener l’Iran “à l’âge de pierre”, selon la délicieuse recette du général LeMay en mal d’attaque aérienne, on peut s’autoriser quelque scepticisme, – entre Israël qui ne contrôle plus ses propres drones destinés à réduire la défense anti-aérienne iranienne (voir le 19 octobre 2013), et l’Arabie qui attaque à coups de $milliards et de djihadistes qui lui reviennent en boomerang “gonflé aux stéroïdes”. Il y a bien les annonces spectaculaires jusqu’au surréalisme d’une Arabie saoudite devenant nucléaire avant l’Iran, grâce à l’achat d’une bombe pakistanaise, resucée d’un vieux canard relancé par la BBC (le 6 novembre 2013) et dont profite DEBKAFiles pour étoffer ses scoops parfois très fantasyland ; le doute est de rigueur, comme chaque fois lorsqu’une narrative veut nous convaincre que l’Arabie a des muscles et aura l’audace de s’en servir. Comme dit la chanson : «Che sera, sera...»

En attendant, les négociations sur l’Iran, comme on le sait, ont avancé. Prêtes d’être bouclées ce 9 novembre, dans tous les cas pour ce qui est d’un accord intermédiaire, bloquées par la France posant en extrémiste de type neocon et défenderesse des intérêts israéliens selon ses étranges et nouvelles habitudes de politique extérieure correspondantes à une situation intérieure en complète dissolution, on espère que leur reprise, le 20 novembre, permettra effectivement un tel accord. (Voir Russia Today le 9 décembre 2013.) A côté de cela, l’autre point chaud qui faillit, lui aussi (puisqu’on a souvent parlé de guerre mondiale à propos de l’Iran), nous précipiter fin août dans une “Troisième Guerre mondiale” terriblement usée à force de n’avoir pas servi, dito la Syrie, se replie dans les violences coutumières et les amertumes des rebelles, entre ceux de ces rebelles qui croient qu’Assad va gagner (Antiwar.com le 9 novembre 2013) et ceux des rebelles qui espèrent qu’Assad l’emportera, plutôt que les extrémistes djihadistes (Buzzfeed, le 8 novembre 2013). Bien entendu, la perspective de Genève-II continue comme d’habitude à s’éloigner au plus l’on s’en rapproche, et DEBKAFiles clame bien fort (le 6 novembre 2013), se référant à de nouvelles perspectives où la rencontre Poutine-Netanyahou tient une place majeure : «Geneva II cancelled: Moscow I is the big coming event...»

... Si nous sommes si courts sur ces deux chapitres, si importants puisqu’ils ont monopolisé l’essentiel de la tension au Moyen-Orient depuis sept et trois ans, et ’attention officielle par conséquent, c’est parce que notre sentiment est que nous serons très vite en voie de découvrir, si leurs tendances actuelles se poursuivent, qu’ils sont moins importants en eux-mêmes que par les tensions centrifuges et indirectes considérables qu’ils ont suscitées. Ces deux énormes crises ont été suscitées par des montages, par des narrative, essentiellement de fabrication garantie bloc BAO comprenant Israël certes (à peu près dans la proportion, pour la paternité des narrative, de 99% contre 1% en faveur du bloc, pour prendre le rapport favori de notre Système triomphant). Ces deux crises sont, pour leur ampleur et leur expansion, l’expression des phantasmes, des paranoïas, de la “fuite en avant” mâtinée d’hybris grossière, enfin de l’auto-terrorisation des directions politiques du Système attentives aux agitations des basse-cours provinciales de leurs capitales respectives. Leurs issues, si issues il y a et si c’est dans le sens qui se dessine, ne constitueraient pas un bouleversement mais un règlement géopolitique dans une époque qui n’évolue que sous la dynamique du système de la communication. Pour prendre la perspective la plus optimiste, on dirait qu’un accord avec l’Iran ne ferait pas de l’Iran le pays hégémonique et conquérant du Moyen-Orient, parce que l’Iran, qui a une diplomatie avisée et principielle, ne mange pas de ce pain-là ; et un tel accord ne créerait pas un axe Washington-Téhéran, parce que les USA ne peuvent faire d’axe avec personne et qu’ils ont l’esprit ailleurs, complètement ailleurs, c’est-à-dire en plein effacement...

Le changement profond de ce bouleversement tourbillonnant et vibrionnaire actuel se trouve, à notre sens, dans deux orientations respectivement d’influence et de désordre, qui, toutes les deux, dépendent dans leur expansion, moins de la géopolitique que de la communication.

Le triomphe méthodologique russe

Certes, on peut parler dans l’évolution générale de la situation du Moyen-Orient d’un “triomphe russe” dans la méthodologie, obtenu avec un sang-froid remarquable et sans agitation excessive malgré des situations qu’on percevait parfois comme très pressantes, et justement ce sang-froid et cette absence d’agitation ayant projeté une perception à la fois de fermeté de comportement, de sûreté de jugement, de solidité de situation, de retenue de l’ambition. A peu près tout le contraire des USA, qui ont congénitalement un comportement erratique, un jugement changeant, une situation totalement incertaine et des ambitions grotesques de réaffirmation constante d’une hégémonie en pleine dissolution, et ainsi les USA qui ne cessent de s’éclipser de plus en plus rapidement, comme on s’efface, des restes de leur position “impériale”. Ainsi les Russes apparaissent-ils comme une “borne de stabilité” (plutôt que l’expression trop structurée de “pôle de stabilité”, – voir plus loin), dont la proximité n’est pas vraiment dangereuse, au contraire de l’instabilité US qui risquerait à chaque moment de vous emporter. (Même des acteurs devenus secondaires à cause de leur propre comportement erratique, reconnaissent cela, comme la Turquie, qui resserre ses liens aussi bien avec l’Iran qu’avec la Russie, selon cette même logique qu’on décrit ici.)

Les cas les plus remarquables concernent les deux pays les plus instables ou les plus extrêmes dans leurs positions vis-à-vis des USA et vis-à-vis des tensions en cours. D’un côté, beaucoup sinon tout semble opposer, dans nombre de circonstances, Israël et l’Arabie Saoudite d’une part, la Russie de l’autre. Il y a des occurrences où l’on pourrait même envisager qu’ils s’opposent directement dans des situations d’affrontement (la Syrie). Pourtant, la tendance inverse semble devoir trouver une possibilité de s’exprimer, voire de gagner du terrain si l’on accepte certaines interprétation, – , savoir que, pour ces deux pays, une proximité avec la Russie présente de nombreux avantages de situation, – sans qu’il soit question d’“alliance”, de “tutorat”, etc., de quelque façon que ce soit. Ainsi, et pour prendre le cas précis vu plus haut, un mouvement se dessine-t-il pour envisager que la Russie puisse constituer, en échange d’avantages stratégiques, une sorte de soutien extérieur à l’Égypte, pour tenter d’éviter à ce pays de sombrer dans une instabilité meurtrière ou suicidaire. C’est favoriser, dans le chef d’une Arabie anti-Assad, deux pays qui sont ouvertement (Russie) ou discrètement (Égypte) pro-Assad.

On peut certes parler d’un “retour triomphal” des Russes, dans la possibilité de telles perspectives, par rapport aux décennies qui viennent de s’écouler. Mais il s’agit plus d’une situation à la fois méthodologique et sanitaire qui s’imposerait devant les dégâts causés à la structuration de la région durant ces dernières années. La Russie, plus qu’une ambition, plus encore que ses intérêts, représente une référence, voire une influence principielle dont tout le monde sent la force stabilisatrice. Bien entendu, le comportement erratique et incontrôlé des pays du bloc BAO a grandement servi à mettre cette vertu en évidence.

... Mais pourtant triomphe le monde apolaire

Pour autant, nous retenons notre plume en évoquant cette perspective, cette hypothèse de développement, du moins dans toutes ses conséquences. Le côté sombre, inéluctable de la situation, c’est le désordre qui s’est installé, qui a proliféré, qui a transgressé les frontières, qui a infesté les psychologies, imprégné les esprits et orienté les pensées, et que plus rien ne semble pouvoir écarter tant il est devenu naturel aux événements. Il n’y a pas de responsabilité directe pour cette évolution, on veut dire pas un seul acteur, pas une seule politique à mettre en accusation principalement mais les divers outils, accélérateurs, fomenteurs que constituent divers acteurs et leurs politiques, d’une tendance générale et irrésistible. Certains sont des exécutants zélés certes, mais ils suivent plus qu’ils ne provoquent même s’ils contribuent à la préparation des événements.

D’une certaine façon, il y a un besoin de stabilisation des crises impliquant les acteurs étatiques (Iran, Syrie) parce que le désordre prend le dessus partout, que ce soit celui de l’expansion du terrorisme semi-idéologique et d’une exaltation nihiliste, et de plus en plus semi-mafieux ; que ce soit le désordre des pays du bloc BAO qui commence à se plonger dans sa crise interne générale (NSA et le reste) après les aventures extérieures couronnées d’échecs et de déstabilisation de ces dernières années, et eux-mêmes, ces pays, outils majeurs de la déstabilisation que l’on décrit ici et acteurs majeurs du processus d’autodestruction ; que ce soit le désordre d’acteurs incertains et passant d’une position extrême à une autre position extrême (Israël, Arabie) ; que ce soit le désordre des situations internes elles-mêmes, qu’on supposerait stabilisées en fonction des développements politiques généraux (voir l’extraordinaire reportage de Andre Vltchek dans CounterPunch, le 14 octobre 2013, sur le désespoir, l’amertume, la haine anarchiste régnant en Égypte). Ainsi, la phase actuelle où l’on perçoit la possibilité du règlement de grandes crises d’axes jusqu’alors déstabilisateurs, où l’acteur principiel prend la place centrale, n'est en rien synonyme d’apaisement, et certainement pas de restructuration ; tout au contraire, la déstructuration subsiste, et la dissolution intervient dans certains cas. Simplement, et somme toute fort logiquement, il y a de moins en moins de cohérence, de logique politique justement dans cette évolution.

D’une certaine façon, il s’agit, expression appropriée tombée miraculeusement par rapport à la politique française totalement invertie de la bouche du ministre Fabius lors d’une récente conférence à Science Po, de la découverte angoissée d’un monde apolaire (ou bien “zéropolaire”, mais nous préférons nettement la précédente, et la conservons) ; après les épisodes unipolaire et multipolaire, un monde “sans pôle”, qui a perdu toute forme et toute cohésion... Un monde de toutes les opportunités de crises et de tensions souvent surgies par surprise... Un monde de tempêtes, sans vent dominant et où tous les vents prétendent dominer dans une surenchère de souffles furieux, où la tempête lève de tous les côtés.

Intervention de Tomislav Sunic à Madrid

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Après la chute et la renaissance du tragique

http://www.polemia.com/apres-la-chute-et-la-renaissance-du-tragique/

Intervention de Tomislav Sunic prononcée en langue française à la conférence de Madrid, le 8 novembre 2013, organisée par le Cercle d’Etudes La Emboscadura.

Tomislav Sunic, de nationalité croate, ancien diplomate, ancien professeur de science politique, écrivain et historien, auteur de nombreux ouvrages et articles dont certains ont été présentés par Polémia, livre ses réflexions sur le destin du monde. Contrairement à certains penseurs et auteurs européens, il voit dans le futur un éternel recommencement où l’homme devra poursuivre sa lutte prométhéenne, marquée par le désir de l’exploit, le goût du dépassement et la foi dans la grandeur humaine.

Nous pouvons remplacer le substantif « la chute » par d’autres expressions qui possèdent des significations plus chargées, telles que « la fin des temps », la « décadence » ou le « chaos» – ou bien « la fin d’un monde», faute de dire « la fin du monde ». Ces mots et ces expressions me viennent à l’esprit, suivis par de nombreuses images liées à nos identités actuelles ou futures.

J’espère que personne ici ne prétend être un futurologue. Avec le recul, la plupart des futurologues ont été démentis dans leurs pronostics. Rappelons le récent effondrement de l’Union soviétique, phénomène que pas un seul soviétologue américain ou européen n’a pu prévoir.

Ma thèse principale est que les prophéties concernant la chute ne sont aucunement nouvelles. Depuis des temps immémoriaux, nous avons été témoins des histoires, des contes et des mythes qui présageaient le déclin ou la fin des temps. La grande majorité des penseurs et des auteurs européens, de l’Antiquité à la postmodernité, ont abordé dans leurs écrits la notion de la fin des temps et ses conséquences.

L’illusion du progrès

Du côté opposé, nous avons l’optimisme historique et la croyance au progrès. Le progrès est devenu aujourd’hui une religion laïque. Heureusement, il semble montrer des fissures, étant soumis de plus en plus à de nombreuses critiques. La croyance au progrès et ses adeptes ont eu un gros impact au cours de ces derniers 200 ans – et plus particulièrement au cours de ces derniers 70 ans. Les apôtres modernes du progrès portent généralement divers déguisements, soit le costume libéral, soit le costume communiste, et même parfois l’habit chrétien. Un peu péjorativement, on peut appeler ces gens les architectes du meilleur des mondes.

En revanche, ceux parmi nous qui rejettent la religion du progrès et l’optimisme historique peuvent être partagés en deux catégories : les penseurs du tragique et les pessimistes culturels. Les penseurs du tragique croient à la nature cyclique des temps et de l’identité ; ils disent qu’après chaque jour ensoleillé doit venir un jour de pluie. Je me range parmi ceux-ci.

Voici une citation du philosophe Clément Rosset, qui est proche de notre patrimoine intellectuel, étant lui-même le ferme adversaire de l’optimisme historique tout en étant un bon avocat du tragique :

« Il en résulte que toute pensée non tragique est nécessairement pensée intolérante ; que, plus elle s’éloigne des perspectives tragiques, plus elle s’incline vers telle ou telle forme d’ “optimisme”, plus elle se fait cruelle et oppressive » (Logique du pire, p. 155).

* Voici ma première remarque : les optimistes historiques, tels que les communistes, les libéraux, et tous ceux qui aspirent à l’amélioration du monde ont une manie invétérée d’imposer à notre société des constructions sociales, ou des contrats sociaux, qui, en règle générale, aboutissent toujours à des cauchemars politiques.

En décrivant « la chute », nous ne pouvons pas faire abstraction des images, des symboles et des mythes liés à la fin du temps. Les images de la chute étaient beaucoup plus fortes chez nos ancêtres qu’elles ne le sont parmi nous aujourd’hui. Il n’est point besoin de chercher loin pour trouver des exemples. Nous n’avons qu’à lire les mythes grecs et les épopées homériques qui regorgent de violence, de luttes titanesques, de chaos, de différents âges et de différentes identités. L’histoire de la célèbre saga germanique, les Nibelungen – dont le message sous-tend inconsciemment l’identité de la plupart des Européens – se termine dans le chaos et le massacre mutuel au sein de la même tribu. Indépendamment de leur héritage racial commun, nos ancêtres européens furent bien conscients de la fragilité de toute identité, y compris de la leur. Après tout, le personnage principal de la saga des Nibelungen, la reine Kriemihilde, cherchant à venger son mari, le héros Siegfried, tué par le héros Hagen, épouse en secondes noces le Hun, l’empereur asiatique Attila. Ils eurent un fils qui était un « Mischling » – un hybride racial, peut-on dire – dont la tête fut finalement coupée par Hagen.

En ce qui concerne la perception de la fin des temps, je voudrais commencer par deux courtes citations de deux auteurs modernes qui font également partie de notre patrimoine intellectuel. Tous les deux étaient très conscients de la fin des temps. Le premier est un homme possédant un sens profond du tragique, et le second un pessimiste historique. Bien que souvent floue, la différence entre le sens du tragique et le pessimisme historique est tout à fait significative.

Voici notre premier penseur du tragique : Ernst Jünger, dans son livre An der Zeitmauer (Au mur du temps) :

« Le destin peut être anticipé, il peut être ressenti, il peut être redoutable, mais il ne doit jamais être connu. Si cela devait se produire, l’homme vivrait une vie d’un prisonnier qui connaît l’heure de son exécution » (p.25).

* Ma deuxième remarque : les penseurs tragiques excluent toute relation de cause à effet. Le bon côté du tragique consiste en la croyance aux événements aléatoires et en la croyance au « hasard ». Le penseur tragique n’est jamais tenté de prédire l’avenir. Pourquoi devrions-nous escalader le mur du temps et tenter d’enrayer la chute du temps au-delà du mur du temps ? Ce serait un devoir pénible, car nous y rencontrerions probablement des images effrayantes. Les optimistes historiques, qu’ils soient libéraux ou communistes, avec leur mentalité rationaliste, souhaitent installer exactement un tel schéma prévisible du progrès humain. Nous avons vu les résultats au cours de ces derniers soixante-dix ans !

Contrairement à la personne du tragique, Emile Cioran, en tant que pessimiste historique, ne se soucie guère de son identité à venir. Il a renoncé à toutes sortes de tentatives prométhéennes. Il s’est lui-même extrait, il y a bien longtemps, du temps et en est venu à la conclusion qu’il n’y a aucune raison pour la reprise de n’importe quelle identité. Je ne pense pas que nous devions accepter ce modèle, bien que la plupart d’entre nous, ici, y soient souvent enclins.

« Les autres tombent dans le temps ; je suis, moi, tombé du temps. A l’éternité qui s’érigeait au-dessus de lui succède cette autre qui se place au-dessus, zone stérile où l’on n’éprouve plus qu’un seul désir : réintégrer le temps, s’y élever coûte que coûte, s’en approprier une parcelle pour s’y installer, pour se donner l’illusion d’un chez soi. Mais le temps est clos, mais le temps est hors d’atteinte ; et c’est de l’impossibilité d’y pénétrer qu’est faite cette éternité négative, cette mauvaise éternité » (La Chute dans le Temps, p. 1152).

L’Europe: Le mur du temps vis-à-vis du mur de fer

Sur la base de ces citations, nous allons examiner maintenant quelques illusions politiques contemporaines sur la chute dans le temps et sur notre identité, illusions que nous pourrions tout aussi bien qualifier d’autotromperie. Ces illusions peuvent nous aider à acquérir une meilleure perception de notre nouvelle identité. Regardons vers l’arrière, au-delà de notre actuel mur du temps.

En mai 1945, les Américains faisaient une grande la fête sur Broadway, à New York. La Seconde Guerre mondiale venait de prendre fin, et, depuis lors, l’image de cette guerre a été considérée comme le symbole ultime du mal absolu. Nous vivons encore ce scénario de la fin des temps fascistes et antifascistes.

Or, de l’autre côté du mur, en même temps, ou, si l’on peut s’exprimer d’une façon moins allégorique, de l’autre côté de l’Atlantique, le Rideau de fer s’éleva. A la mi-mai 1945, des millions de personnes d’Europe centrale et d’Europe orientale ont connu la chute de leurs temps et également la perte de leur identité. Pour beaucoup d’Européens, cette année marqua la fin des temps européens, « le Ragnarök ». Le mot allemand « Zusammenbruch », était à cette époque très en usage parmi les millions de réfugiés : des millions d’Allemands, de Hongrois, d’Italiens, de Croates, Serbes, Ukrainiens, des soldats et des civils, allaient bientôt être livrés à la fin du temps communiste ou, si l’on peut s’exprimer moins allégoriquement, à la mort certaine. Le temps de la fin avait touché non seulement leurs dirigeants vaincus, mais également des millions d’individus anonymes dont le flux du temps défia tous les instruments.

La race de l’esprit comme nouvelle identité

Lorsqu’on s’interroge sur notre prétendue identité après la chute, y compris le bagage héréditaire qui nous lie à nos confrères blancs à travers le monde, nous devons convenir que l’identité ne peut pas être uniquement ancrée dans notre race. Il y a aussi une autre dimension qui doit être prise en compte : notre sens du tragique et notre mémoire historique.

* Ma troisième remarque. L’Identité, lorsqu’elle repose seulement sur l’hérédité, a peu de sens si elle manque de « Gestalt » – si elle refuse de s’assigner un nom, un prénom et un lieu d’origine. Une abstraite identité blanche, dépourvue d’ « âme raciale», n’a pas de sens. Nous portons tous des noms et nous traînons tous notre mémoire tribale et culturelle.

Ma propre identité, par exemple, ainsi que l’identité de plusieurs de mes et de nos collègues en Allemagne ou en France, ou ailleurs en Europe, est fortement ancrée dans notre mémoire historique. Par exemple, depuis l’âge de cinq ans j’ai été exposé à de longues histoires racontées par mon défunt père sur les massacres communistes qui ont eu lieu à l’été 1945 en Europe centrale et orientale. Ces histoires, à leur tour, ont affecté ma perception de moi-même, ainsi que ma perception de la réalité qui m’entoure.

* Ma quatrième remarque : je tiens à souligner que la victimologie joue un rôle formidable dans la formation des identités de beaucoup de peuples dans le monde entier, y compris de nous-mêmes. Le cas de la victimologie juive, qui est également devenue aujourd’hui une partie de l’identité du monde entier, nous fournit le meilleur exemple et en dit long.

Face à notre approche de la fin des temps, nous avons souvent recours aux identités « négatives ». Des mots tels que « immigration » et « islam» viennent à l’esprit lorsque nous avons recours à ces référents d’identités négatives. Ces mots et notions nous fournissent la preuve d’un changement de paradigme. Par exemple, il y a trente ans, les mots « immigration » et « islam » étaient peu utilisés et n’étaient pas considérés comme un facteur majeur dans les analyses de la chute anticipée. Il y a trente ans, notre identité négative était fondée sur l’anticommunisme, le communisme représentant alors le symbole de la chute et le symbole de la fin des temps.

Or, le communisme, avec son contraire, l’anticommunisme, en tant que facteur de la construction de notre identité négative, est maintenant périmé : il semble avoir disparu de notre vocabulaire, de notre imagination et de notre processus de construction de l’identité négative. A sa place s’installent maintenant les étrangers, les non-Européens, le métissage, la prétendue menace de l’islam et la disparition de l’Etat-Nation dans le système mondial capitaliste.

Il y a cependant de sérieux problèmes avec l’utilisation et l’abus de ces nouvelles notions. Ainsi, le mot « islam », qui est devenu un mot inspirant la crainte à beaucoup d’entre nous, peut désigner à la fois tout et rien. L’islam n’est pas le synonyme d’une identité distincte ou d’une race distincte : c’est une religion universaliste, tout comme la religion universaliste chrétienne. Nous pourrions passer des heures à débattre maintenant et à nous quereller au sujet du christianisme et du patrimoine des Blancs européens. Nous oublions souvent que le christianisme, tout comme l’islam, a ses origines dans les déserts du Moyen-Orient – et non en Europe. Il y a maintenant davantage de chrétiens vivant en dehors de l’Europe qu’en Europe elle-même.

* Ma première conclusion : Sur le plan purement méthodologique, nous devons éviter d’utiliser une approche individualisée et chercher plutôt à comprendre la chute et la notion d’identité du point de vue économique, social, philosophique, racial, religieux et démographique. En nous attardant seulement sur la question de l’hérédité ou de la race, ou sur la question de l’immigration, tout en oubliant les autres aspects qui façonnent notre identité, nous courons le risque de tomber dans un piège réductionniste et arbitraire.

Evitons d’être des pessimistes culturels et essayons plutôt d’aiguiser notre sens du tragique. Contrairement au pessimisme culturel, le sens du tragique sous-entend l’accident, le hasard, pour lesquels les Allemands ont un très joli mot : « der Zufall ». Les Français ont un meilleur mot : « le hasard ». Chaque accident, chaque hasard, chaque Zufall inattendu, signifie que le temps reste ouvert. Dans notre quête de notre nouvelle identité, l’histoire nous reste toujours ouverte. Par conséquent, l’écoulement du temps nous offre à tous de nouvelles pistes inattendues vers la liberté. Nous devons juste saisir la bonne occasion.

Il n’est pas étonnant qu’au niveau de notre subconscient nous nous sentions tous attirés d’abord vers notre groupe, vers notre tribu, comme le note notre ami Kevin MacDonald – surtout en cas d’urgence, ou en cas de hasard. Quand nous voyageons en Afrique ou en Asie, et quand nous descendons dans un hôtel, nous cherchons instinctivement un contact oculaire avec un Blanc d’Europe ou d’Amérique. Ici à Madrid, nous n’avons aucun intérêt à savoir si la personne qui nous croise est un Espagnol. Mais les temps changent rapidement : il y a des endroits, à Los Angeles, ou dans le monde souterrain du métro parisien, où le passager blanc, tard dans la nuit, est heureux de repérer une personne de son phénotype. Leur contact oculaire en dit long sur leur identité commune soudainement récupérée.

Cependant, comme mentionné précédemment dans notre bref regard sur le carnage qui eut lieu au sein de la même tribu dans la dernière aventure des Niebelungen, il y a des questions critiques que nous devons poser quant à notre identité commune. Il y a d’innombrables exemples historiques où l’identité commune mène à la haine et à la guerre civile au sein de la même tribu, du même groupe. Les guerres civiles entre et parmi les Européens et les Américains ont été, de loin, beaucoup plus meurtrières que les guerres qu’ils ont menées contre l’Autre.

A titre hypothétique, si les Européens blancs et les Américains blancs avaient les moyens d’établir leur propre ethno-Etat, avec leur propre identité commune et raciale, qui peut nous garantir que cet ethno-Etat entièrement blanc ne serait pas à nouveau en proie à des divisions internes et à des guerres civiles ?

La bataille d’Alamo, en 1836, porte toujours un message vif pour nous tous ici. La douzaine de défenseurs irlandais qui ont perdu la vie en défendant Alamo contre le siège de Santa Anna jouèrent un rôle crucial dans la prolongation et la capture mexicaine d’Alamo. Pourtant, nous devons aussi nous rappeler que, dix ans plus tard, plusieurs centaines d’Irlandais – le célèbre Bataillon « Saint-Patrick » – furent, avec d’autres immigrés européens catholiques, les loyaux combattants du côté mexicain, au cours de la guerre américano-mexicaine. Lorsque la guerre prit fin, des dizaines d’Irlandais furent pendus comme criminels de droit commun par les troupes américaines victorieuses.

Jusqu’à une époque récente, l’idée d’une identité européenne blanche n’existait pas. Par exemple, l’attaque turque sur l’Europe, au XVIe et au XVIIe siècle, ne fut pas motivée par une question de race : elle avait des racines religieuses. Beaucoup de clans serbes, croates et hongrois chrétiens et leurs chefs s’alliaient parfois aux envahisseurs turcs pour différentes raisons politiques. De même, mille ans plus tôt, de nombreuses tribus germaniques se sont alliées aux Huns d’Attila et se sont battues contre leurs propres frères dans les Champs Catalauniques, en 451 après JC.

Il y a d’innombrables exemples historiques où le système de croyance ou la politique de puissance ont joué un rôle beaucoup plus important dans le processus de la construction d’identité que la question de la race.

Un autre exemple : la Seconde Guerre mondiale fut aussi une guerre civile européenne entre les puissances et les peuples du même fond génétique mais appartenant à différents systèmes de croyance. Les principaux acteurs politiques utilisaient souvent des non-Européens comme troupes auxiliaires. Dans la Wehrmacht, il y avait de petites unités composées d’Arabes, d’Indiens et de tribus turques luttant contre les Américains blancs et les troupes soviétiques blanches. Les GIs américains, après leur débarquement en Normandie en 1944 et en Italie en 1943, prirent souvent certains soldats capturés sous l’uniforme allemand pour des Japonais, ignorant le fait que ces soldats combattant du côté de l’Axe étaient des volontaires venus des régions de l’Union soviétique occupées par les Allemands.

* Ma conclusion finale : Il n’y a pas de doute que le facteur héréditaire joue un rôle de premier plan dans notre identité. Très souvent, nous n’en sommes pas conscients. Nous pouvons changer notre physionomie, nous pouvons changer notre passeport, nous pouvons changer notre idéologie ou notre théologie. Nous pouvons également effacer notre mémoire culturelle en quittant notre patrie et en nous installant dans un pays lointain. Cependant, il n’y a strictement aucun moyen d’enlever les couches de gènes transmis par nos ancêtres. Mais nous ne pouvons pas non plus effacer les couches de notre mémoire.

Notre avant-guerre civile : la pathologie de la culpabilité blanche

Je tiens à préciser : même dans le meilleur des cas, il est douteux que l’on puisse facilement créer notre identité dans un ethno-Etat totalement blanc. Cette question troublante est heureusement abordée de plus en plus par nous tous. Pour ma part, je suis beaucoup plus préoccupé par le caractère de nombreux nationalistes blancs. Beaucoup de ces personnes s’imaginent qu’elles peuvent construire leur identité sur la base de leur physique blanc. Ironiquement, même nos pires détracteurs sont souvent des personnes de notre propre patrimoine génétique. Par exemple, si vous regardez brièvement le profil racial ou ethnique des gens qui font des manifestations de masse – les soi-disant antifascistes – en faveur des immigrés non européens, vous serez surpris de constater que la plupart d’entre eux sont des Blancs urbains. Peu d’immigrés non européens participent à ce genre de manifestations de masse.

Le clergé catholique européen constitue également un cas à part. La plupart des dénominations chrétiennes sont devenues aujourd’hui les plus ardents défenseurs de l’immigration non blanche. Pourquoi l’Eglise a-t-elle choisi cette voie ? La genèse de la pathologie de la culpabilité blanche, ainsi que l’esprit destructif du monothéisme chrétien nécessiteraient de ma part une conférence distincte.

Lorsque la chute finale arrivera, et cela ne peut pas être exclu pour l’Europe et l’Amérique, les lignes de démarcation entre l’ennemi et l’ami ne seront pas claires du tout. Il n’y aura aucun affrontement pittoresque entre Blancs et non-Blancs. Il faut être prêt à faire face à de nombreuses personnes de notre propre fond génétique qui seront de l’autre côté de la barricade.

Dans ma conclusion finale, je tiens à dire que nous devons éviter les personnes qui tiennent leur identité blanche pour un hobby … un passe-temps … une vogue … ou pour un moyen de faire de l’argent. Ces personnes nous rendent ridicules et nous discréditent en nous faisant passer pour une menace publique. Notre premier objectif doit être non seulement la résurrection de notre sentiment racial, mais aussi, comme chez nos ancêtres, de notre sens du tragique. C’est l’unique voie que nous devons prendre afin de continuer notre lutte prométhéenne, et cela quel que soit le nombre d’entre nous qui resteront sur le champ de bataille.

Je vous remercie de votre attention.

Tomislav Sunic

Correspondance Polémia – 20/11/2013