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jeudi, 23 janvier 2014

In morte di Hiroo Onoda: apologia dell'eroismo

In morte di Hiroo Onoda: apologia dell'eroismo

di Daniele Scalea

Fonte: huffingtonpost

Si è spento mercoledì scorso Hiroo Onoda, il militare giapponese disperso nelle Filippine che, ignorando l'esito della Seconda Guerra Mondiale, continuò a combattere nella giungla, prima con tre commilitoni e - dopo la loro resa o morte - da solo, fino al 1974. Inizialmente rifiutò d'arrendersi pure di fronte ai messaggi con cui lo si informava della fine del conflitto, ritenendoli una trappola. Depose le armi solo quando il suo diretto superiore di trent'anni prima si recò da lui per ordinarglielo, dispensandolo dal giuramento di combattere fino alla morte. Raccontò la sua storia in un libro, pubblicato nel 1975 da Mondadori col titolo Non mi arrendo.

La storia di Onoda apparirà senz'altro "esotica" (roba da giapponesi!) e "arcaica" (ormai le guerre non ci sono più! In Europa Occidentale, s'intende, perché nel resto del mondo ci sono eccome) a gran parte dei lettori italiani del XXI secolo. Chi di noi riesce a immaginarsi, poco più di ventenne nella giungla, restarci trent'anni solo per onorare un giuramento e battersi per la causa che si ritiene giusta? Eppure la storia di Hiroo Onoda qualcosa da insegnarci ce l'ha; e proprio perché la sentiamo così lontana, temporalmente e culturalmente, da noi.

In quest'epoca così moderna e avanzata, il lettore al passo coi tempi potrà ben pensare che, in fondo, Onoda era solo un "fanatico", un "folle", un "indottrinato". Nei tempi bui che furono, il senso comune l'avrebbe definito un "eroe". Questa figura dell'Eroe, così pomposamente celebrata nei millenni passati, ha perso oggi tanto del suo smalto - presso la civiltà occidentale, e in particolare europea. Bertolt Brecht sancì che è sventurata quella terra che necessiti di eroi. Il nostro Umberto Eco ha deciso che l'eroe vero è quello che lo diventa per sbaglio, desiderando solo essere un "onesto vigliacco" come tutti noi altri. Salendo più su troviamo il nuovo vate d'Italia: Fabio Volo ha scritto che non è eroe chi lotta per la gloria, ma l'uomo comune che lotta per la sopravvivenza.

Prima di discutere queste tre idee, precisiamo che l'Eroe si definisce (o almeno così fa la Treccani) come colui che si eleva al di sopra degli altri: in origine più per la nobilità di stirpe, in seguito per la nobiltà nell'agire. L'Eroe non è necessariamente un guerriero: semplicemente la guerra, mettendo chi le combatte di fronte a situazioni e rischi assenti nella vita comune, facilita il manifestarsi dell'eroismo. Ma non è banalizzazione dire che l'Eroe può esserlo nel lavoro, nella scienza, nella politica, nell'arte e così via. È invece banalizzazione individuare l'eroismo nel fare ciò che tutti fanno, perché viene meno il senso stesso del termine: l'elevarsi, il fare più del normale, il più del dovuto. Dove tutti sono eroi, nessuno è eroe.

Alla luce di quanto appena detto, si coglierà l'illogicità della formulazione di Volo (per la cronaca: tratta da Esco a fare due passi), pure se inserita nel suo epos dei broccoletti (in sintesi elogio di mediocrità e de-gerarchizzazione di valore; ma se proponi un modello anti-eroico, allora parla di anti-eroi e non di eroi). Tutti sopravvivono, indotti in ciò dall'istinto di autoconservazione, e non vi è nulla di particolarmente commendevole nel far ciò che si è costretti a fare. Al contrario, l'Eroe per distinguersi dalla massa può andare contro l'istinto di autoconservazione (sacrificare, o porre a rischio, la propria vita per conseguire un obiettivo o per salvare altre vite), o fare più di ciò che è da parte sua dovuto. Non potremmo definire un eroe, ad esempio, un Giacomo Leopardi che sacrifica la sua salute e la sua felicità per diventare un sommo poeta, e così deliziare contemporanei e posteri?

L'idea della scelta libera e volontaria pare elemento costitutivo dell'eroismo, e ciò richiama in causa anche Eco. È in fondo diventato un cliché anche hollywoodiano, quello per cui l'eroe protagonista del film non diviene tale perché convinto della causa per cui battersi, ma solo perché travolto dagli eventi. L'escamotage classico vuole che i "cattivi" massacrino la sua famiglia, inducendolo per vendetta a combatterli. Questo leit motiv lo ritroviamo in tanti film di successo: pensiamo a Braveheart, The Patriot, o Giovanna D'Arco di Luc Besson, dove tra l'altro il primo e l'ultimo cambiano la vera storia pur d'inserirvi il tema suddetto. Gli appassionati di cinema potranno trovare molti più esempi, anche in generi diversi dall'epico e dallo storico. A quanto pare, l'individuo occidentale medio riesce ad accettare molto più la vendetta personale che lo schierarsi coscientemente per una causa collettiva che si ritiene giusta.

Eppure, lo ribadiamo, è la libera scelta a dare davvero valore all'atto eroico. Sembrano in ciò molto più savi dei nostri maître à penser odierni i teologi riformatori del Cinquecento quando, con logica rigorosa, notavano che non vi può essere merito individuale senza libero arbitrio. Così come una salvezza decisa da Dio è merito esclusivamente di Dio, un atto eroico costretto (non semplicemente indotto: costretto) dalle circostanze è "merito" delle circostanze stesse.

Rimane in ballo la questione se sia davvero una sventura aver bisogno di eroi. Tanti pensatori hanno più o meno esplicitamente ricondotto il progresso a un meccanismo di sfida-risposta, in cui spesso giocano un ruolo essenziale individui straordinari per la loro capacità creativa. Tra i più espliciti assertori di tali tesi nel secolo scorso, citiamo alla rinfusaA.J. Toynbee, H.J. Mackinder, Carlo Cipolla, Lev Gumilëv. Sono le persone straordinarie (nel senso letterale di fuori dall'ordinario, e dunque non comuni) che, con i loro atti creativi (in cui spesso la creazione maggiore è l'atto in sé come esempio ispiratore per gli altri), rinnovano costantemente la vitalità di un popolo. Rovesciando l'aforisma di Brecht:sventurata quella nazione che non ha bisogno di eroi, perché significa che ha scelto coscientemente d'avviarsi sulla strada della decadenza.

Restiamo sull'eroismo, torniamo a Hiroo Onoda. C'è una lezione che potremmo apprendere dall'eroica follia di questo giapponese che per trent'anni continua da solo una guerra già conclusa, o dai mille altri eroi - di guerra e pace, armati di spada, penna o lingua che fossero? Io credo di sì.

Potremmo imparare da loro lo spirito di sacrificio e l'indomita fede di chi crede in ciò per cui lotta - sia essa una patria o un'idea, un partito o una persona, una guerra o una pace.

Dovremmo imparare da loro che eroismo non è sopportare supinamente, tutt'al più inveendo (ma su Facebook o Twitter, che la poltrona è più comoda della piazza) contro le storture del mondo; ma eroismo è insorgere, levarsi contro l'ingiustizia. Se il mondo è storto non è eroico guardarlo cadere, ma cercare di raddrizzarlo.

Dovremmo riflettere che se oggi le cose vanno male, mancano i diritti e abbondano le ingiustizie, la morale è corrotta, l'ingiusto trionfa e il giusto patisce; se l'oggi insomma ci pare sbagliato, dovremmo impegnarci a correggerlo.

Perché i diritti non li regala nessuno, la giustizia non si difende da sola, il progresso non viene da sé. Servono i creativi, servono gli eroi.

Con buona pace dei Brecht, degli Eco e dei Volo.


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vendredi, 17 janvier 2014

Hiroo Onoda: RIP

mardi, 14 janvier 2014

Special Ops Goes Global

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Tomgram: Nick Turse
Special Ops Goes Global
 
Ex: http://www.tomdispatch.com

[Note for TomDispatch Readers: Nick Turse’s New York Times bestselling book Kill Anything That Moves: The Real American War in Vietnam is just out in paperback with a new afterword.  It’s a must-buy, especially if you haven’t read the hardcover. Jonathan Schell wrote a powerful piece on it at TomDispatch, which you can read by clicking here. Late in the month, TD will be offering signed copies of the paperback in return for donations. Keep it in mind! Tom]

It’s said that imitation is the sincerest form of flattery. So consider the actions of the U.S. Special Operations Command flattering indeed to the larger U.S. military. After all, over recent decades the Pentagon has done something that once would have been inconceivable.  It has divided the whole globe, just about every inch of it, like a giant pie, into six command slices: U.S. European Command, or EUCOM (for Europe and Russia), U.S. Pacific Command, or PACOM (Asia), U.S. Central Command, or CENTCOM (the Greater Middle East and part of North Africa), U.S. Southern Command, or SOUTHCOM (Latin America), and in this century, U.S. Northern Command, or NORTHCOM (the United States, Canada, and Mexico), and starting in 2007, U.S. Africa Command, or AFRICOM (most of Africa).

The ambitiousness of the creeping decision to bring every inch of the planet under the watchful eyes of U.S. military commanders should take anyone’s breath away.  It’s the sort of thing that once might only have been imaginable in movies where some truly malign and evil force planned to “conquer the world” and dominate Planet Earth for an eternity.  (And don’t forget that the Pentagon’s ambitions hardly stop at Earth’s boundaries. There are also commands for the heavens, U.S. Strategic Command, or STRATCOM, into which the U.S. Space Command was merged, and, most recent of all, the Internet, where U.S. Cyber Command, or CYBERCOM rules.)

Now, unnoticed and unreported, the process is being repeated.  Since 9/11, a secret military has been gestating inside the U.S. military.  It’s called U.S. Special Operations Command (SOCOM).  At TomDispatch, both Nick Turse and Andrew Bacevich have covered its startling growth in these years.  Now, in a new post, Turse explores the way that command’s dreams of expansion on a global scale have led it to follow in the footsteps of the larger institution that houses it.

The special ops guys are, it seems, taking their own pie-cutter to the planet and slicing and dicing it into a similar set of commands, including most recently a NORTHCOM-style command for the U.S., Canada, and Mexico. Once could be an anomaly or a mistake. Twice and you have a pattern, which catches a Washington urge to control planet Earth, an urge that, as the twenty-first century has already shown many times over, can only be frustrated. That this urge is playing out again in what, back in the Cold War days, used to be called “the shadows,” without publicity or attention of any sort, is notable in itself and makes Turse’s latest post all the more important. Tom

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America’s Black-Ops Blackout 
Unraveling the Secrets of the Military’s Secret Military 

By Nick Turse


“Dude, I don’t need to play these stupid games. I know what you’re trying to do.”  With that, Major Matthew Robert Bockholt hung up on me.

More than a month before, I had called U.S. Special Operations Command (SOCOM) with a series of basic questions: In how many countries were U.S. Special Operations Forces deployed in 2013? Are manpower levels set to expand to 72,000 in 2014?  Is SOCOM still aiming for growth rates of 3%-5% per year?  How many training exercises did the command carry out in 2013?  Basic stuff.

And for more than a month, I waited for answers.  I called.  I left messages.  I emailed.  I waited some more.  I started to get the feeling that Special Operations Command didn’t want me to know what its Green Berets and Rangers, Navy SEALs and Delta Force commandos -- the men who operate in the hottest of hotspots and most remote locales around the world -- were doing. 

Then, at the last moment, just before my filing deadline, Special Operations Command got back to me with an answer so incongruous, confusing, and contradictory that I was glad I had given up on SOCOM and tried to figure things out for myself.

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U.S. Special Operations Forces around the world, 2012-2013 (key below article) ©2014 TomDispatch ©Google

I started with a blank map that quickly turned into a global pincushion.  It didn’t take long before every continent but Antarctica was bristling with markers indicating special operations forces’ missions, deployments, and interactions with foreign military forces in 2012-2013.  With that, the true size and scope of the U.S. military’s secret military began to come into focus.  It was, to say the least, vast.

A review of open source information reveals that in 2012 and 2013, U.S. Special Operations forces (SOF) were likely deployed to -- or training, advising, or operating with the personnel of -- more than 100 foreign countries.   And that’s probably an undercount.  In 2011, then-SOCOM spokesman Colonel Tim Nye told TomDispatch that Special Operations personnel were annually sent to 120 countries around the world. They were in, that is, about 60% of the nations on the planet.  “We’re deployed in a number of locations,” was as specific as Bockholt would ever get when I talked to him in the waning days of 2013. And when SOCOM did finally get back to me with an eleventh hour answer, the number offered made almost no sense. 

Despite the lack of official cooperation, an analysis by TomDispatch reveals SOCOM to be a command on the make with an already sprawling reach. As Special Operations Command chief Admiral William McRaven put it in SOCOM 2020, his blueprint for the future, it has ambitious aspirations to create “a Global SOF network of like-minded interagency allies and partners.”  In other words, in that future now only six years off, it wants to be everywhere.    

The Rise of the Military’s Secret Military

Born of a failed 1980 raid to rescue American hostages in Iran (in which eight U.S. service members died), U.S. Special Operations Command was established in 1987.  Made up of units from all the service branches, SOCOM is tasked with carrying out Washington’s most specialized and secret missions, including assassinations, counterterrorist raids, special reconnaissance, unconventional warfare, psychological operations, foreign troop training, and weapons of mass destruction counter-proliferation operations.

In the post-9/11 era, the command has grown steadily.  With about 33,000 personnel in 2001, it is reportedly on track to reach 72,000 in 2014.  (About half this number are called, in the jargon of the trade, “badged operators” -- SEALs, Rangers, Special Operations Aviators, Green Berets -- while the rest are support personnel.)  Funding for the command has also jumped exponentially as SOCOM’s baseline budget tripled from $2.3 billion to $6.9 billion between 2001 and 2013.  If you add in supplemental funding, it had actually more than quadrupled to $10.4 billion. 

Not surprisingly, personnel deployments abroad skyrocketed from 4,900 “man-years” -- as the command puts it -- in 2001 to 11,500 in 2013.  About 11,000 special operators are now working abroad at any one time and on any given day they are in 70 to 80 countries, though the New York Times reported that, according to statistics provided to them by SOCOM, during one week in March 2013 that number reached 92

The Global SOF Network

Last year, Admiral McRaven, who previously headed the Joint Special Operations Command, or JSOC -- a clandestine sub-command that specializes in tracking and killing suspected terrorists -- touted his vision for special ops globalization.  In a statement to the House Armed Services Committee, he said:

“USSOCOM is enhancing its global network of SOF to support our interagency and international partners in order to gain expanded situational awareness of emerging threats and opportunities. The network enables small, persistent presence in critical locations, and facilitates engagement where necessary or appropriate...”

In translation this means that SOCOM is weaving a complex web of alliances with government agencies at home and militaries abroad to ensure that it’s at the center of every conceivable global hotspot and power center.  In fact, Special Operations Command has turned the planet into a giant battlefield, divided into many discrete fronts: the self-explanatory SOCAFRICA; the sub-unified command of U.S. Central Command in the Middle East SOCCENT; the European contingent SOCEUR; SOCKOR, which is devoted strictly to Korea; SOCPAC, which covers the rest of the Asia-Pacific region; and SOCSOUTH, which conducts special ops missions in Central and South America and the Caribbean, as well as the globe-trotting JSOC.

Since 2002, SOCOM has also been authorized to create its own Joint Task Forces, a prerogative normally limited to larger combatant commands like CENTCOM.  These include Joint Special Operations Task Force-Philippines, 500-600 personnel dedicated to supporting counterterrorist operations by Filipino allies against insurgent groups like Abu Sayyaf.

A similar mouthful of an entity is the NATO Special Operations Component Command-Afghanistan/Special Operations Joint Task Force-Afghanistan, which conducts operations, according to SOCOM, “to enable the International Security Assistance Force (ISAF), the Afghan National Security Force (ANSF), and the Government of the Islamic Republic of Afghanistan (GIRoA) to provide the Afghan people a secure and stable environment and to prevent insurgent activities from threatening the authority and sovereignty of GIRoA.”  Last year, U.S.-allied Afghan President Ha­mid Karzai had a different assessment of the “U.S. special force stationed in Wardak province,” which he accused of “harassing, annoying, torturing, and even murdering innocent people.”

According to the latest statistics made available by ISAF, from October 2012 through March 2013, U.S. and allied forces were involved in 1,464 special operations in Afghanistan, including 167 with U.S. or coalition forces in the lead and 85 that were unilateral ISAF operations.  U.S. Special Operations forces are also involved in everything from mentoring lightly armed local security forces under the Village Stability Operations initiative to the training of heavily armed and well-equipped elite Afghan forces -- one of whose U.S.-trained officers defected to the insurgency in the fall.

In addition to task forces, there are also Special Operations Command Forward (SOC FWD) elements which, according to the military, “shape and coordinate special operations forces security cooperation and engagement in support of theater special operations command, geographic combatant command, and country team goals and objectives.”  These light footprint teams -- including SOC FWD Pakistan, SOC FWD Yemen, and SOC FWD Lebanon -- offer training and support to local elite troops in foreign hotspots.  In Lebanon, for instance, this has meant counterterrorism training for Lebanese Special Ops forces, as well as assistance to the Lebanese Special Forces School to develop indigenous trainers to mentor other Lebanese military personnel.

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Special Operations Command Central (SOCCENT) briefing slide by Col. Joe Osborne, showing SOC FWD elements

SOCOM’s reach and global ambitions go further still.  TomDispatch’s analysis of McRaven’s first two full years in command reveals a tremendous number of overseas operations.  In places like Somalia and Libya, elite troops have carried out clandestine commando raids.  In others, they have used airpower to hunt, target, and kill suspected militants.  Elsewhere, they have waged an information war using online propaganda.  And almost everywhere they have been at work building up and forging ever-tighter ties with foreign militaries through training missions and exercises. 

“A lot of what we will do as we go forward in this force is build partner capacity,” McRaven said at the Ronald Reagan Library in November, noting that NATO partners as well as allies in the Middle East, Asia, and Latin America  “are absolutely essential to how we’re doing business.” 

In March 2013, for example, Navy SEALs conducted joint training exercises with Indonesian frogmen.  In April and May, U.S. Special Operations personnel joined members of the Malawi Defense Forces for Exercise Epic Guardian.  Over three weeks, 1,000 troops engaged in marksmanship, small unit tactics, close quarters combat training, and other activities across three countries -- Djibouti, Malawi, and the Seychelles.

In May, American special operators took part in Spring Storm, the Estonian military’s largest annual training exercise.  That same month, members of the Peruvian and U.S. special operations forces engaged in joint training missions aimed at trading tactics and improving their ability to conduct joint operations.  In July, Green Berets from the Army’s 20th Special Forces Group spent several weeks in Trinidad and Tobago working with members of that tiny nation’s Special Naval Unit and Special Forces Operation Detachment.  That Joint Combined Exchange Training exercise, conducted as part of SOCSOUTH’s Theater Security Cooperation program, saw the Americans and their local counterparts take part in pistol and rifle instruction and small unit tactical exercises.

In September, according to media reports, U.S. Special Operations forces joined elite troops from the 10 Association of Southeast Asian Nations member countries -- Indonesia, Malaysia, the Philippines, Singapore, Thailand, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar (Burma), and Cambodia -- as well as their counterparts from Australia, New Zealand, Japan, South Korea, China, India, and Russia for a US-Indonesian joint-funded coun­terterrorism exercise held at a training center in Sentul, West Java.

Tactical training was, however, just part of the story.  In March 2013, for example, experts from the Army’s John F. Kennedy Special Warfare Center and School hosted a week-long working group with top planners from the Centro de Adiestramiento de las Fuerzas Especiales -- Mexico’s Special Warfare Center -- to aid them in developing their own special forces doctrine.

In October, members of the Norwegian Special Operations Forces traveled to SOCOM's state-of-the-art Wargame Center at its headquarters on MacDill Air Force Base in Florida to refine crisis response procedures for hostage rescue operations.  “NORSOF and Norwegian civilian leadership regularly participate in national field training exercises focused on a scenario like this,” said Norwegian Lieutenant Colonel Petter Hellesen. “What was unique about this exercise was that we were able to gather so many of the Norwegian senior leadership and action officers, civilian and military, in one room with their U.S counterparts.”

MacDill is, in fact, fast becoming a worldwide special ops hub, according to a report by the Tampa Tribune.  This past fall, SOCOM quietly started up an International Special Operations Forces Coordination Center that provides long-term residencies for senior-level black ops liaisons from around the world.  Already, representatives from 10 nations had joined the command with around 24 more slated to come on board in the next 12-18 months, per McRaven’s global vision.

In the coming years, more and more interactions between U.S. elite forces and their foreign counterparts will undoubtedly take place in Florida, but most will likely still occur -- as they do today -- overseas.  TomDispatch’s analysis of official government documents and news releases as well as press reports indicates that U.S. Special Operations forces were reportedly deployed to or involved with the militaries of 106 nations around the world during 2012-2013.

For years, the command has claimed that divulging the names of these countries would upset foreign allies and endanger U.S. personnel.  SOCOM’s Bockholt insisted to me that merely offering the total number would do the same.  “You understand that there is information about our military… that is contradictory to reporting,” he told me.  “There’s certain things we can’t release to the public for the safety of our service members both at home and abroad.  I’m not sure why you’d be interested in reporting that.”

In response, I asked how a mere number could jeopardize the lives of Special Ops personnel, and he responded, “When you work with the partners we work with in the different countries, each country is very particular.”  He refused to elaborate further on what this meant or how it pertained to a simple count of countries.  Why SOCOM eventually offered me a number, given these supposed dangers, was never explained.

Bringing the War Home

This year, Special Operations Command has plans to make major inroads into yet another country -- the United States.  The establishment of SOCNORTH in 2014, according to the command, is intended to help “defend North America by outpacing all threats, maintaining faith with our people, and supporting them in their times of greatest need.”  Under the auspices of U.S. Northern Command, SOCNORTH will have responsibility for the U.S., Canada, Mexico, and portions of the Caribbean.

While Congressional pushback has thus far thwarted Admiral McRaven’s efforts to create a SOCOM satellite headquarters for the more than 300 special operators working in Washington, D.C. (at the cost of $10 million annually), the command has nonetheless stationed support teams and liaisons all over the capital in a bid to embed itself ever more deeply inside the Beltway.  “I have folks in every agency here in Washington, D.C. -- from the CIA, to the FBI, to the National Security Agency, to the National Geospatial Agency, to the Defense Intelligence Agency,” McRaven said during a panel discussion at Washington’s Wilson Center in 2013.  Referring to the acronyms of the many agencies with which SOCOM has forged ties, McRaven continued: “If there are three letters, and in some cases four, I have a person there. And they have had a reciprocal agreement with us. I have somebody in my headquarters at Tampa.”  Speaking at Ronald Reagan Library in November, he put the number of agencies where SOCOM is currently embedded at 38.

“Given the importance of interagency collaboration, USSOCOM is placing greater emphasis on its presence in the National Capital Region to better support coordination and decision making with interagency partners.  Thus, USSOCOM began to consolidate its presence in the NCR [National Capitol Region] in early 2012,” McRaven told the House Armed Services Committee last year.

One unsung SOCOM partner is U.S. AID, the government agency devoted to providing civilian foreign aid to countries around the world whose mandate includes the protection of human rights, the prevention of armed conflicts, the provision of humanitarian assistance, and the fostering of “good will abroad.”  At a July 2013 conference, Beth Cole, the director of the Office of Civilian-Military Cooperation at U.S. AID, explained just how her agency was now quietly aiding the military’s secret military.

“In Yemen, for example, our mission director has SVTCs [secure video teleconferences] with SOCOM personnel on a regular basis now. That didn’t occur two years ago, three years ago, four years ago, five years ago,” Cole said, according to a transcript of the event.  But that was only the start.  “My office at U.S. AID supports SOF pre-deployment training in preparation for missions throughout the globe... I’m proud that my office and U.S. AID have been providing training support to several hundred Army, Navy, and Marine Special Operations personnel who have been regularly deploying to Afghanistan, and we will continue to do that.”

Cole noted that, in Afghanistan, U.S. AID personnel were sometimes working hand-in-hand on the Village Stability Operation initiative with Special Ops forces.  In certain areas, she said, “we can dual-hat some of our field program officers as LNOs [liaison officers] in those Joint Special Operations task forces and be able to execute the development work that we need to do alongside of the Special Operations Forces.”  She even suggested taking a close look at whether this melding of her civilian agency and special ops might prove to be a model for operations elsewhere in the world.

Cole also mentioned that her office would be training “a senior person” working for McRaven, the man about to “head the SOF element Lebanon” -- possibly a reference to the shadowy SOC FWD Lebanon.  U.S. AID would, she said, serve as a facilitator in that country, making “sure that he has those relationships that he needs to be able to deal with what is a very, very, very serious problem for our government and for the people of that region.”

U.S. AID is also serving as a facilitator closer to home.  Cole noted that her agency was sending advisors to SOCOM headquarters in Florida and had “arranged meetings for [special operators] with experts, done roundtables for them, immersed them in the environment that we understand before they go out to the mission area and connect them with people on the ground.”  All of this points to another emerging trend: SOCOM’s invasion of the civilian sphere.

In remarks before the House Armed Services Committee, Admiral McRaven noted that his Washington operation, the SOCOM NCR, “conducts outreach to academia, non-governmental organizations, industry, and other private sector organizations to get their perspective on complex issues affecting SOF.”  Speaking at the Wilson Center, he was even more blunt: “[W]e also have liaison officers with industry and with academia... We put some of our best and brightest in some of the academic institutions so we can understand what academia is thinking about.”

SOCOM’s Information Warfare

Not content with a global presence in the physical world, SOCOM has also taken to cyberspace where it operates the Trans Regional Web Initiative, a network of 10 propaganda websites that are run by various combatant commands and made to look like legitimate news outlets.  These shadowy sites -- including KhabarSouthAsia.com, Magharebia which targets North Africa, an effort aimed at the Middle East known as Al-Shorfa.com, and another targeting Latin America called Infosurhoy.com -- state only in fine print that they are “sponsored by” the U.S. military.

Last June, the Senate Armed Services Committee called out the Trans Regional Web Initiative for “excessive” costs while stating that the “effectiveness of the websites is questionable and the performance metrics do not justify the expense.”  In November, SOCOM announced that it was nonetheless seeking to identify industry partners who, under the Initiative, could potentially “develop new websites tailored to foreign audiences.”

Just as SOCOM is working to influence audiences abroad, it is also engaged in stringent information control at home -- at least when it comes to me.  Major Bockholt made it clear that SOCOM objected to a 2011 article of mine about U.S. Special Operations forces.  “Some of that stuff was inconsistent with actual facts,” he told me.  I asked what exactly was inconsistent.  “Some of the stuff you wrote about JSOC… I think I read some information about indiscriminate killing or things like that.”

I knew right away just the quote he was undoubtedly referring to -- a mention of the Joint Special Operations Command’s overseas kill/capture campaign as “an almost industrial-scale counterterrorism killing machine.”  Bockholt said that it was indeed “one quote of concern.”  The only trouble: I didn’t say it.  It was, as I stated very plainly in the piece, the assessment given by John Nagl, a retired Army lieutenant colonel and former counterinsurgency adviser to now-retired general and former CIA director David Petraeus.

Bockholt offered no further examples of inconsistencies.  I asked if he challenged my characterization of any information from an interview I conducted with then-SOCOM spokesman Colonel Tim Nye.  He did not.  Instead, he explained that SOCOM had issues with my work in general.  “As we look at the characterization of your writing, overall, and I know you’ve had some stuff on Vietnam [an apparent reference to my bestselling book, Kill Anything That Moves: The Real American War in Vietnam] and things like that -- because of your style, we have to be very particular on how we answer your questions because of how you tend to use that information.” Bockholt then asked if I was anti-military.  I responded that I hold all subjects that I cover to a high standard.

Bockholt next took a verbal swipe at the website where I’m managing editor, TomDispatch.com.  Given Special Operations Command’s penchant for dabbling in dubious news sites, I was struck when he said that TomDispatch -- which has published original news, analysis, and commentary for more than a decade and won the 2013 Utne Media Award for “best political coverage” -- was not a “real outlet.”  It was, to me, a daring position to take when SOCOM’s shadowy Middle Eastern news site Al-Shorfa.com actually carries a disclaimer that it “cannot guarantee the accuracy of the information provided.”

With my deadline looming, I was putting the finishing touches on this article when an email arrived from Mike Janssen of SOCOM Public Affairs.  It was -- finally -- a seemingly simple answer to what seemed like an astonishingly straightforward question asked more than a month before: What was the total number of countries in which Special Operations forces were deployed in 2013?  Janssen was concise. His answer: 80.

How, I wondered, could that be?  In the midst of McRaven’s Global SOF network initiative, could SOCOM have scaled back their deployments from 120 in 2011 to just 80 last year?  And if Special Operations forces were deployed in 92 nations during just one week in 2013, according to official statistics provided to the New York Times, how could they have been present in 12 fewer countries for the entire year?  And why, in his March 2013 posture statement to the House Armed Services Committee, would Admiral McRaven mention "annual deployments to over 100 countries?"  With minutes to spare, I called Mike Janssen for a clarification.  “I don’t have any information on that,” he told me and asked me to submit my question in writing -- precisely what I had done more than a month before in an effort to get a timely response to this straightforward and essential question.

Today, Special Operations Command finds itself at a crossroads.  It is attempting to influence populations overseas, while at home trying to keep Americans in the dark about its activities; expanding its reach, impact, and influence, while working to remain deep in the shadows; conducting operations all over the globe, while professing only to be operating in “a number of locations”; claiming worldwide deployments have markedly dropped in the last year, when evidence suggests otherwise.

“I know what you’re trying to do,” Bockholt said cryptically before he hung up on me -- as if the continuing questions of a reporter trying to get answers to basic information after a month of waiting were beyond the pale.  In the meantime, whatever Special Operations Command is trying to do globally and at home, Bockholt and others at SOCOM are working to keep it as secret as possible.

Nick Turse is the managing editor of TomDispatch.com and a fellow at the Nation Institute.  An award-winning journalist, his work has appeared in the New York Times, Los Angeles Times, the Nation, on the BBC, and regularly at TomDispatch. He is the author most recently of the New York Times bestseller Kill Anything That Moves: The Real American War in Vietnam (just out in paperback).  You can catch his conversation with Bill Moyers about that book by clicking here

Key to the Map of U.S. Special Operations Forces around the world, 2012-2013

Red markers: U.S. Special Operations Forces deployment in 2013.

Blue markers: U.S. Special Operations Forces working with/training/advising/conducting operations with indigenous troops in the U.S. or a third country during 2013.

Purple markers: U.S. Special Operations Forces deployment in 2012.

Yellow markers: U.S. Special Operations Forces working with/training/advising/conducting operations with indigenous troops in the U.S. or a third country during 2012.

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Copyright 2013 Nick Turse

mardi, 07 janvier 2014

La guerre de 2014

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La Guerre de 2014

par Georges FELTIN-TRACOL

 

Auteur en 2004 d’un ouvrage sur Le Fondateur de l’Aïkido, Morihei Veshiba et en 2007 de Constat d’Occident, Laurent Schang est un fana mili, un passionné du fait militaire, de l’armement et des questions tactiques. Il a un temps participé à la revue La voie stratégique et anime une maison d’édition au nom évocateur spécialisé dans ce domaine spécifique : Le Polémarque.

 

D’abord paru en 2009 chez un modeste éditeur disparu, Kriegspiel 2014 est un roman d’anticipation ou plus exactement de politique-fiction dans la lignée de Tom Clancy (en moins volumineux) et de Gérard de Villiers (sans les scènes pornographiques). Les éditions Le Retour aux Sources viennent de le republier dans une version actualisée et enrichie. Relevons par exemple l’absence du sous-titre présent dans la première édition, « Le livre dont Vladimir Poutine est le héros ».

 

Laurent Schang inscrit les événements qu’il nous décrit dans un schéma conceptuel tiré d’une lecture polémarchique de la philosophie de l’histoire. Il estime que « selon une loi non écrite bien connue des historiens militaires, l’avenir de la péninsule européenne […] se décide entre la dixième et la quinzième année du siècle courant (p. 7) ». 1914, 1815, 1715, 1610, 1515 etc. marquent le début ou la fin d’une conjoncture conflictuelle majeure.

 

L’auteur nous dépeint la déflagration survenue en 2014. Dans moins d’un an, le 12 décembre 2014, les tensions sino-japonais liées au sort des îlots Senkaku – Diaoyu débouchent en conflit armé ouvert. Parallèlement, des islamo-nationalistes turcs renversent le gouvernement islamo-conservateur d’Ankara, relancent le touranisme et soutiennent l’agitation ouïgoure au Xinjiang chinois. C’est l’explosion du monde de l’après-Guerre froide !

 

Pendant que la Chine envahit Taïwan et le Japon, les États-Unis d’Obama et l’Europe unie – car l’Union européenne est devenue une entité fédérale ambiguë et velléitaire – renâclent à intervenir, tergiversent et réclament surtout des négociations. Si Barack Obama a proclamé la neutralité de son pays, c’est parce plusieurs États fédérés menacent de faire sécession…

 

Les atermoiements occidentaux aiguisent les ambitions turques et le dessein russe. La Turquie envahit l’Arménie, occupe la partie grecque de Chypre et s’empare des Balkans qui replongent dans d’inextricables guerres civiles. Néanmoins, l’invasion néo-ottomane provoque la formation d’une Confédération panslaviste tandis que Moscou reconnaît l’indépendance de l’Adjarie, du Haut-Karabakh arménien et du Kurdistan du Nord, ses nouveaux protectorats.

 

Mieux, le 22 décembre, la Russie attaque l’Ukraine, la Pologne et les États baltes. Cette action violente tétanise une O.T.A.N. paralysée par le neutralisme affiché de Washington. Quant à l’Europe unifiée, désemparée, elle se révèle incapable d’agir. Ses États membres ne prennent aucune initiative. En effet, « leurs armées sont au régime sec, les pays européens ont réduit leurs budgets militaires au minimum et la plupart de leurs engagements sont au point mort, vecteurs aériens y compris, faute de crédits nécessaires. Conséquence, en dix ans l’Europe unifiée a vu sa puissance de feu diminuer du tiers (p. 84) ». Bref, les Européens « sont juste incapables de se défendre eux-mêmes (p. 85) ». Cela n’empêche pas de grandes métropoles européennes de sombrer dans une situation insurrectionnelle larvée. Échoue dans ce contexte tendu un 26 novembre à Bruxelles un coup d’État pro-européen.

 

Bien que se voulant neutre, la Belgique se déchire entre partisans de l’unité nationale et indépendantistes flamands. Ses voisins et ses partenaires s’interrogent sur une éventuelle réponse à donner aux événements. Tout démontre que « groggy, l’Europe unifiée chancelait sur sa base. Dans les premiers jours du conflit, les dirigeants européens avaient pu afficher une unité de façade devant les caméras. Au vrai, usés au physique, affaiblis au moral, les peuples ne manifestèrent à aucun moment l’envie de les suivre (p. 133) ». Le sursaut européen provient finalement de la réussite d’un second coup d’État. Perpétré par « les Fils de la Louve », un groupe clandestin de jeunes officiers paneuropéens, le putsch renverse les institutions continentales, écarte les politicards de l’Europe unifiée et impose un Saint-Empire fédéral paneuropéen confié au petit-fils d’Otto de Habsbourg : Ferdinand Zvonimir.

 

Disposant rapidement d’un siège de membre permanent au Conseil de sécurité de l’O.N.U., ce nouveau Saint-Empire rassemble 31 États dont le califat de Sarajevo. En revanche n’y appartiennent pas le Royaume-Uni, la Pologne et une Confédération balkano-danubienne constituée de la Serbie, de la République serbe de Bosnie, du Monténégro, de la Macédoine et de la Grèce. Favorable à la désoccidentalisation de l’Europe et au Grand Bloc Continental, le jeune souverain paneuropéen prend acte du monde accouché par cette brève et intense guerre eurasiatique (moins d’une année). Les États-Unis paient leur neutralité d’un net recul de leur influence planétaire. S’esquisse dès lors un siècle altaïque régi par la Chine, la Russie et la Turquie – Touran, prélude à un grand-espace géopolitique eurasien, voire eurasiste ? Ferdinand Zvonimir Ier ne déclare-t-il pas à ce sujet que « les civilisations ne sont pas des aires closes, des valeurs communes les relient et les unissent les unes aux autres (pp. 145 – 146) ».

 

Riche en considérations techniques précises sur les différents systèmes d’armement des belligérants, Kriegspiel 2014 se déroule dans le cadre d’une guerre conventionnelle classique, très éloignée des schémas prévus de la cyber-guerre, de la guérilla et des conflits méta-locaux. Ce roman n’en ouvre pas moins d’étonnantes perspectives géostratégiques même s’il faut largement minorer l’idée fallacieuse que la Russie serait prête à attaquer volontiers son étranger proche au Sud et à l’Ouest de ses frontières… Laurent Schang aurait-il trop lu les doctrines néo-conservatrices qui envisagent toujours l’Ours russe comme une forte menace potentielle ? En revanche, les contentieux dans le Caucase et entre Pékin, Tokyo, Séoul et Pyongyang sont plausibles et peuvent dégénérer en guerre. À moins que le principal neutre de ce « Jeu de guerre 2014 », les États-Unis, ne révèle sa dangerosité en se lançant dans des aventures militaires déstabilisatrices. Victimes d’une grave crise économique, sociale et financière seulement dissimulée par l’exploitation intensive du pétrole et du gaz de schiste, l’actuelle première puissance mondiale pourrait très vite devenir un État super-voyou qui met en péril la paix mondiale, surtout si en 2017 accède à la Maison Blanche un taré républicain ou un fanatique démocrate, éternels pantins de l’État profond yankee.

 

L’histoire est par essence tragique, inattendue et aléatoire. Verrons-nous donc cette année 2014 le retour d’Athéna et d’Arès, de Taranis et de Maponos, de Tyr et de Thor sur notre sol plusieurs fois millénaire ?

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Laurent Schang, Kriegspiel 2014, Le Retour aux Sources (La Fenderie, F – 61 270 Aube), 2013, 155 p., 15 €.

 


 

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jeudi, 05 décembre 2013

La Garde nationale : institution du passé et projet d’avenir ?

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La Garde nationale : institution du passé et projet d’avenir ?

par Rémy VALAT

 

Le 20 mars 2012, le groupe Janus a fait paraître dans la revue Le Point une lettre ouverte appelant à la création d’une « garde nationale » aux missions citoyennes multiples : réserve de l’armée, auxiliaire des forces de l’ordre et partenaire des unités de Sécurité civile et des organisations humanitaires (1). Mais cette idée n’est pas neuve, elle figure notamment au programme du Front national, ou émane d’associations (Anciens des Missions extérieures), de personnalités politiques (Philippe de Villiers) ou de militants (Laurent Latruwe).

 

L’intérêt porté sur cette question témoigne d’un désir de réformer les moyens de défense de notre pays. Il mérite aussi d’être examiné avec attention, car ce projet est porté par un parti politique susceptible (et il est bien partie pour) de remporter les prochaines élections présidentielles. Il ne s’agit pas de faire du neuf avec de l’ancien, mais au contraire d’innover. Si la Garde nationale, première version, a été dissoute en 1871, c’est parce que cette institution était intimement liée à une conception ancienne de la citoyenneté associant le droit de vote et de porter une arme : elle était intrinsèquement liée aux processus insurrectionnels et révolutionnaires. Aussitôt cette institution dissoute, la contestation sociale et les procédés du maintien de l’ordre vont peu à peu évoluer.

 

Cet « échec » ne doit pas remettre en question la pertinence de la résurgence d’une telle institution sous une forme moderne et dépolitisée. La nature même des conflits contemporains l’exigerait : la guerre ne connaît plus de limites, et le rôle des acteurs sociaux, économiques et politiques est aussi prépondérant que celui des forces de l’ordre et de l’armée. La Garde nationale serait une solution d’avenir pour assurer la défense et la cohésion sociale de notre pays. Historiquement, elle a été créée en 1789 et s’est éteinte sur les barricades de Paris en 1871 : elle est l’héritière des milices de l’Ancien Régime. Les hommes qui y étaient enrôlés ont rempli selon les périodes d’agents du maintien de l’ordre ou soldats de réserve de l’armée de ligne. C’est surtout la mission de sûreté intérieure et son impact dans la vie politique française qui intéresse en premier chef cet article, c’est pourquoi nous attardons à présent et brièvement sur sa compétence en matière de défense du territoire national.

 

Une force de réserve imparfaite, parce que mal préparée

à la réalité de la guerre

 

Quelques semaines avant le vote de la loi constitutive sur la Garde nationale (14 octobre 1791), les 11 et 13 juin précédents, alors que le roi Louis XVI est en fuite, une première conscription libre de 110 000 gardes nationaux de bonne volonté a été décrétée par l’Assemblée pour répondre à l’imminence d’un conflit avec les monarchies européennes. Cet appel, prémisse à la levée des bataillons de gardes nationaux volontaires de 1792, est l’acte fondateur du rôle militaire de l’institution. Ultérieurement, en 1809, les gardes nationales seront mobilisées pour contrer l’expédition britannique dans l’île hollandaise de Walcheren. Plus tard, en 1832, sera voté le principe des corps détachés pour le service de guerre, mais cette idée théorique n’aura aucune réalisation concrète.

 

L’armée s’appuie encore sur la conscription par tirage au sort et ce procédé unique ne sera pas remis en question jusqu’en 1868. C’est sous le Second Empire, en réponse au danger que représente la Prusse et ses alliés, que s’impose l’idée d’une armée auxiliaire. Se remémorant peut-être la défaite de son oncle face à la Prusse en 1813, Napoléon III reprend à son compte le principe de la Landwehr. Le 1er février 1868, la loi Niel crée une Garde nationale mobile. Celle-ci regroupait tous les citoyens ayant échappé au service militaire lors du tirage au sort et sa mission consisterait en la défense des villes fortifiées des frontières (mais aussi de l’intérieur) et de force de réserve. La Garde nationale mobile qui se battra avec héroïsme pendant l’« Année terrible », formera une armée auxiliaire aux côtés des gardes nationaux mobilisés (2) à compter du 14 octobre 1870. Dans la capitale, la Garde nationale mobile sera dissoute après l’armistice de janvier 1871 et bon nombre de gardes intégreront les bataillons sédentaires et se battront sur les barricades pour défendre la Commune.

 

Cette succession de mobilisations dictées par l’urgence, et en particulier la dernière (1870) démontre l’utilité d’un tel corps de troupes permanent et régulièrement entraîné : c’est par l’amalgame avec les unités de ligne que les volontaires nationaux se sont formés et aguerris, au point de devenir l’ossature des armées révolutionnaires puis napoléoniennes. L’échec relatif des levées de « moblots » en 1870 et 1871 s’explique par la carence de leur formation militaire, mais ces faiblesses se sont estompées pour les unités ayant eu une expérience du feu. La garde nationale fédérée, servant d’armée à la Commune, a été vaincue en raison de son manque d’entraînement et des dysfonctionnements internes (le refus d’un commandement unique, pouvoir excessifs des chefs de légions et une tendance à l’insubordination, etc.) : l’idéal politique s’est avéré insuffisant face à une armée de ligne, mieux entraînée et idéologiquement conditionnée. En un mot, le garde national raisonnait et actait comme un civil et le soldat comme un militaire.

 

La Garde nationale : une institution entre conservatisme et contestation révolutionnaire

 

Fille de la Révolution française, la Garde nationale disparaît avec la Commune de Paris. Son histoire est une succession d’implications dans les processus révolutionnaires, suivies de courtes étapes de transition, où l’outil insurrectionnel se mue progressivement en force publique active de maintien de l’ordre. Aussitôt la paix sociale acquise, elle opère ensuite, lorsqu’elle n’est pas dissoute, en qualité de force publique représentative et symbolique. Pendant ces périodes, les plus longues, elle est momentanément réactivée lorsque surgissent de nouveaux désordres intérieurs ou des périls extérieurs. Selon l’historien Louis Girard, deux tendances centrifuges animent la milice. Ces orientations opposées reposent sur l’acceptation ou la contestation de la loi. Force est de constater que la Garde nationale n’est radicalement impliquée dans le processus révolutionnaire que lorsque son recrutement se démocratise, s’élargit à tous les citoyens mâles en âge de porter une arme. C’est pourquoi, la limitation ou l’élargissement des engagements revêt une importance politique. Le flux du recrutement est matériellement réduit par le critère financier. La rémunération du garde réquisitionné facilite le recrutement populaire, voire d’individus nécessiteux. Les convulsions révolutionnaires de 1792 – 1793, de 1848 – 1851 et de 1870 – 1871, avalisent totalement cette assertion. La stabilité de la milice ne semble garantie que par le contrôle quantitatif et qualitatif des inscrits. La théorie du citoyen-propriétaire est rémanente de 1791 à 1870. La distinction entre les citoyens actifs et passifs se traduit au sein de la Garde nationale par le distinguo entre gardes nationaux en service ordinaire et gardes nationaux de réserve. Cette différenciation civique vise à éloigner du bulletin de vote et du maintien de l’ordre les classes perçues comme dangereuses. Même le décret de l’Assemblée législative du 30 juillet 1792 qui autorise l’admission des « citoyens passifs » dans la Garde nationale – décret préliminaire à celui du 11 août 1792 supprimant totalement la « citoyenneté passive » – est certes « inclusif » pour l’ensemble des citoyens mâles sédentaires de 21 à 60 ans, mais toujours « exclusif » pour les populations flottantes et le personnel ancillaire. Les conceptions de l’engagement civique dans la milice et du droit électoral se rejoignent par leur rejet des mêmes catégories sociales, d’âge et de sexe; mais s’opposent radicalement sur l’exclusion d’une partie des individus se considérant comme partie intégrante du corps social, sans pour autant appartenir aux groupes sociaux jugés « infamants ». Cette lutte devient le programme des Républicains jusqu’en 1848. Avec l’avènement du suffrage universel, l’accès du citoyen à la Garde nationale se généralise. Entre 1852 et 1870, l’empereur Napoléon III, ancien président de la Deuxième République, ne pourra plus porter atteinte à l’universalité de la citoyenneté. Il optera seulement pour une organisation sélective des bataillons. Tous les citoyens deviennent des gardes nationaux potentiels, seul le nombre des bataillons est sensiblement réduit. Ce mode de recrutement coïncide totalement avec l’esprit du régime. Napoléon III estime puiser la source de son pouvoir par l’acceptation de son peuple. Mais, son mode de gouvernement – autoritaire – n’est officiellement qu’un moyen mécanique de gestion de l’État. Seul le caractère exceptionnel de la crise politico-militaire de 1870 favorisera le retour d’une garde nationale républicaine et démocratique.

 

Du potentiel symbolique et légitimant du garde national au rôle politique des fédérations de gardes nationaux

 

Le garde national a, comme l’écrit Pierre Rosanvallon (dans son ouvrage Le sacre du Citoyen), « hâté l’avènement de l’individu citoyen ». Le garde national, devenu le citoyen-soldat, peut jouir de ses droits civiques en contrepartie de sa contribution à la défense de la Nation. Cette nouvelle équation, individu-citoyen, plutôt du citoyen en armes, est à l’origine du potentiel symbolique de l’institution qui représenterait la Nation tout entière : or, les critères d’exclusion d’une partie des résidents français et indigènes atteste de l’inexactitude de cette assertion. Cette transformation renforce le rôle politique de la milice initié lors de la fête de la Fédération du 14 juillet 1790. Ce pacte entre l’Assemblée constituante et 14 000 gardes nationaux venus de tout le pays, servît grâce à la propagande officielle, d’acte fondateur de l’identité nationale. Les délégations des bataillons de province vinrent apporter au Champ de Mars, leur soutien au gouvernement révolutionnaire, le légitimant de leur potentiel militaire et politique. Toutefois, cette cérémonie masque une toute autre réalité : elle est un détournement des initiatives locales de fédérations de municipalités et de gardes nationales, qui sont l’expression d’un réflexe d’autodéfense consécutif à la « Grande Peur » et d’un désir d’affirmation d’une appartenance communautaire à l’échelon local. Cette méfiance est partiellement infondée puisque dans certains départements la Garde a été le vecteur du développement de l’idéal révolutionnaire, grâce à la crainte répressive qu’elle inspirait. Le mouvement des fédérations fût d’ailleurs précoce : la première eut lieu à l’Étoile près de Valence le 29 novembre 1789 et réunît 12 000 gardes du Vivarais et du Dauphiné. Les Constituants, après avoir constaté l’ampleur du mouvement, le fédère au bénéfice de la représentation nationale siégeant à Paris. En outre, cette cérémonie a également mis en évidence neuf années avant le coup d’État de Napoléon Bonaparte, la menace du césarisme (3) et souligne l’existence de deux légitimités : celle des représentants élus et celle du chef, ou du parti, appuyé par la communauté des citoyens de la Garde nationale. Deux légitimités, presque équivalentes en valeur représentative – en raison du caractère charismatique de l’élection selon l’expression de Max Weber. En 1815, 1830 et surtout en 1871, de nouvelles fédérations, certes d’une moindre ampleur, viendront valider, a posteriori, la légitimité des nouveaux gouvernements. Le phénomène fédératif, propre aux périodes révolutionnaires, est la manifestation du potentiel légitimant de la Garde nationale. Dans la capitale, lors des périodes de paix sociale, la Garde nationale a aussi une fonction de renforcement de la légitimité du Souverain. Cette propension a été particulièrement décrite pour la période de la Monarchie de Juillet (thèse de doctorat de Mathilde Larrere-Lopez) : pendant ce règne, les cérémonies parisiennes auxquelles participe la milice ont pour fonction de symboliser la cohésion du peuple autour du roi-citoyen Louis-Philippe, dont la légitimité est contestée (comme en témoigne les multiples tentatives d’attentats contre sa personne).

 

Surtout, l’héritage républicain et démocratique de la Révolution française a perduré au sein de la Garde nationale parisienne. La vie politique et délibérative a continué, même pendant les périodes des régimes autoritaires, la monarchie constitutionnelle et les deux empires. Les fonctions électives et délibératives légales internes à la Garde, principalement les conseils de famille, ainsi d’ailleurs que les réunions informelles et les tours de garde – favorisaient la circulation des opinions et servent d’appui à l’opposition républicaine, notamment sous la monarchie de Juillet, mais aussi très probablement entre 1789 et 1792. Organisme interne, le conseil de famille participe à cette vie. Ces structures, établies vraisemblablement depuis la Révolution, sont chargées de l’administration à l’échelon des compagnies. Traditionnellement présidés par le capitaine de la compagnie, ces conseils veillent au règlement des affaires courantes, au paiement de la solde et à la sanction des infractions légères. L’implication directe des gardes aux décisions du conseil fait de cette structure un lieu de sociabilité pouvant être politique. Parfois, les foyers d’opposition se regroupent au sein d’une compagnie, ou dans les batteries d’artillerie, réputées républicaines (1830-1831) (4). Ces structures sont les embryons permanents du modèle organisationnel des Gardes nationales démocratiques. Celles-ci ont leurs caractéristiques propres. Fruits de l’amoindrissement de l’étreinte du pouvoir central, elles ont une forte tendance à la décentralisation et, comme l’écrit Richard Cobb, au fédéralisme populaire et jacobin, et conduisent à la constitution d’un contre-pouvoir. Ce phénomène est récurrent pour les formations citoyennes du modèle que nous pourrions qualifier de « communal », c’est-à-dire celui des formations citoyennes formées lors des deux Communes de Paris. Le modèle communal de la Garde nationale est historiquement impliqué au processus de démocratisation et surtout de radicalisation prononcée de ces événements, ce qui donne, à l’échelle macro-historique, l’impression d’une ressemblance entre les armées révolutionnaires et la garde nationale parisienne de 1870-1871. Le modèle communal révèle l’ambiguïté de la Garde nationale de Paris. Le rôle unique de la capitale donne à cette formation de maintien de l’ordre territoriale une ambiguïté et un potentiel politique considérable : elle est la convergence du national et du parisien. Nous reviendrons sur cet aspect dans notre analyse. Enfin, soulignons qu’un recrutement populaire ne coïncide pas mécaniquement avec le processus révolutionnaire et insurrectionnel : le contre-exemple le plus significatif est celui des gardes nationaux mobiles de 1848. La Garde nationale mobile du ministère de l’Intérieur créée le 25 février 1848, était une unité de 25 000 baïonnettes, répartie en 24 bataillons. Ses hommes étaient jeunes (les volontaires avaient entre 16 et 30 ans) et soldés (1,50 F/jour). Ces jeunes gardes étaient, selon l’expression du préfet de police Caussidière, chargés « de faire de l’ordre avec le désordre ». Les mobiles recrutés parmi les hommes les plus pauvres de la capitale et majoritairement dans le monde ouvrier feront néanmoins le feu contre les insurgés de juin 1848. Le clivage reposait sur un antagonisme préexistant entre les jeunes provinciaux et les Parisiens. Moins payés tout en étant parfois mieux qualifiés et premières victimes du chômage, ils étaient fréquemment déconsidérés par les autres ouvriers ou artisans plus âgés et résidant à Paris depuis plusieurs années. Ce contre modèle souligne ici l’importance du réseau des sociabilités de quartier et de l’enracinement de la population insurgée, dans les révolutions parisiennes. L’appartenance aux classes populaires n’était donc pas l’unique facteur insurrectionnel.

 

L’histoire nous donne un enseignement : une garde nationale politisée et armée sans un contrôle étroit est un réel danger pour l’ordre public, même en période de crise majeure.

 

Quelques projets de création d’une milice citoyenne : entre recherche de cohésion sociale et efficacité opérationnelle en matière de défense et de sécurité civile

 

Le groupe Janus serait un groupe de réflexion informel de militaires et de chercheurs. Leur idée est la création d’une garde nationale, composée de cadres d’active et de réservistes. Cette Garde nationale interarmes de 75 000 hommes et femmes seraient subordonnée à ‘état-major des armées ayant autorité sur des « divisions territoriales » commandées par des officiers généraux issus des trois armées : les gardes nationaux bénéficieraient d’avantages sociaux (5) et de possibilités de formation, c’est-à-dire autant de moyens de lutte contre le chômage, la précarité et le désœuvrement. Sa finalité est avant tout sociale et vise « à répondre à la demande des jeunes Français volontaires pour des actions au profit de la collectivité, à valoriser ce volontariat, à compenser les pertes en effectifs des armées, à avoir une organisation et les forces effectives pour de nouvelles missions comme la protection civile (catastrophes naturelles, accident nucléaire, sauvetage en mer, etc.), les actions humanitaires de tous types, l’assistance aux forces de sécurité en cas d’événements importants et l’opération Vigipirate. Les gardes seraient, si nécessaires, armés. Éventuellement, cette force pourra être considérée comme un vivier de forces disponibles pour des opérations militaires ». Comme jadis, la Garde nationale aurait une base territoriale : elle serait organisée en divisions territoriales de 10 000 hommes pour le Nord-Est, le Sud-Est, le Nord-Ouest et le Sud-Ouest du pays (avec pour cas particuliers, la région parisienne 20 000 hommes et l’Outre-mer de 15 000 hommes). Le groupe Janus propose l’intégration de la brigade franco-allemande à cet ensemble. La Garde nationale n’empiéterait pas sur les compétences spécifiques des forces de l’ordre ou de la défense nationale, elle les renforcerait numériquement en cas de nécessité. L’engagement serait volontaire, d’une durée libre de 1 à 2 ans, à temps partiel, serait réquisitionnables une durée fixée à la discrétion des autorités (la durée d’une mission spécifique) et seraient rémunérées (avec possibilité de cumul avec les prestations sociales ou des indemnités de chômage).

 

L’association des Anciens des Missions Extérieures défend également l’idée de résurrection d’une garde nationale, et propose une réforme en profondeur, qui réorganiserait l’armée française sur un modèle amalgamant le modèle contemporain suisse et l’armée française d’Ancien Régime. Le président William Navarro précise que « chaque militaire ayant achevé son obligation de servir son pays se doit d’emporter à son domicile son équipement personnel » et que son « arme doit être remisée, soit à la caserne, soit au Commissariat, soit à la gendarmerie ». La durée du service serait de 260 jours (ou de 300 jours, si les recrues décident d’effectuer leur temps en une seule fois) et ouvert aux hommes déclarés aptes au service et âgés de 18 à 35 ans; les femmes seraient retenues sur le critère du volontariat. L’association insiste sur la formation permanente des gardes nationaux. Laurent Latruwe (6) propose un projet avec une dimension sociale : les volontaires, sélectionnés sur leurs aptitudes physiques et leurs motivations, bénéficieraient d’aides sociales ou des déductions d’impôts en contrepartie de leur service. Le projet est particulièrement intéressant, puisqu’il propose en sus d’unités de sécurité civile la constitution d’unités de gardes nationaux des trois armes avec des missions de défense stricto sensu (infanterie, infanterie mécanisée, un corps de défense sol-air au service de batteries lance-missiles, une flottille d’aviation tactique légère et des gardes frontières).

 

La Garde nationale française du XXIe siècle serait une institution citoyenne sous tutelle et dépolitisée

 

Toutes ces propositions vont dans le sens d’une Garde nationale française qui serait une institution citoyenne sous tutelle et dépolitisée.

 

Une institution citoyenne par son recrutement (participations aux scrutins électoraux, casier judiciaire vierge, un désir de servir sans être un assisté social, etc.), mais aussi et surtout dans les missions assignées à ces unités. Les gardes nationaux partageraient leur temps entre la vie civile et leur engagement citoyen. Ce recrutement donnerait une légitimité supérieure aux interventions des forces de l’ordre et de l’armée, en particulier en cas de trouble intérieur (émeutes dans les banlieues) ou de menace extérieure majeure (actions terroristes). Il paraît important d’assurer une formation régulière des volontaires, car les services qui leur seront demandés répondront à des besoins spécifiques. Leur action en matière de sécurité civile, en particulier, symboliserait un désir citoyen d’assistance mutuelle (que renforcerait, entre autre idée, l’instauration d’une épreuve de secourisme obligatoire pour l’obtention du baccalauréat).

 

Une institution sous tutelle des pouvoirs civils (et du préfet de police pour la région parisienne) : les gardes nationaux dépendraient d’un point de vue opérationnel des Zones de Défense et de Sécurité dont les compétences administratives recouvrent les domaines et ressorts administratifs qui seraient dévolues aux formations citoyennes.

 

Enfin et surtout, une institution dépolitisée : les gardes seraient assermentés, soumis aux droits et devoirs des militaires pendant la durée de leur service; l’appartenance à un parti politique (tous horizons confondus), à un groupement religieux radical ou à une association à l’origine de troubles publics pourrait être un critère d’exclusion du port de l’arme en cas de crise majeure.

 

La Garde nationale a de l’avenir, si les décideurs politiques en prenaient conscience en évitant les écueils du passé.

 

Rémy Valat

 

Notes

 

1 : Cf. sa mise en ligne sur le site du Point, Jean Guisnel, 20 mars 2012.

 

2 : La Garde nationale sédentaire mobilisée est créée le 29 septembre 1870. Son recrutement est élargi à tous les hommes de 21 à 40 ans, mariés ou veufs sans enfants. Ces hommes font partie de la nouvelle armée républicaine levée en masse contre les alliés allemands.

 

3 : La Fayette, commandant général des Gardes nationales de France a tenté de bénéficier du capital symbolique et politique de la milice dans la perspective de s’assurer le pouvoir personnel. Dans la réalité, les coups d’État ne furent jamais le fait de la Garde nationale, mais de l’armée (à l’exception de la tentative avortée du général Malet en 1812).

 

 

4 : Ces dernières seront d’ailleurs dissoutes sous le règne de Louis-Philippe et le Second Empire. Les canonniers et le canon, symbolisent pour les républicains radicaux, le pouvoir des sections du Paris révolutionnaire de 1792 – 1793.

 

5 : « Les gardes nationaux, non d’active, auront un statut de civils faisant des périodes entre 30 et 100 jours par an rémunérés au taux de leur grade. Ils pourront bénéficier de certains avantages fiscaux, de stages et d’emplois “ réservés ”, mais aussi de possibilités d’intégration rapide au sein des forces d’actives. Dans tous les cas, cette activité pourra être considérée comme un emploi même temporaire et sera un outil supplémentaire de lutte contre le chômage, des jeunes particulièrement. »

 

6 : Nous n’avons pas reproduit d’extraits du texte de Laurent Latruwe,« Projet de Garde nationale : l’élite de la France au service de la nation », soumis à une autorisation pour la reproduction ou la citation d’extraits. Le texte est logé à l’adresse suivante : http://uniondespatriotes.hautetfort.com/files/La_Garde_nationale.pdf

 


 

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mercredi, 04 décembre 2013

La Légion, «parfaite illustration du dénuement, de l’anonymat et de l’abnégation»

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La Légion, «parfaite illustration du dénuement, de l’anonymat et de l’abnégation»

Ex: http://www.les4verites.com

Editeur chez Bouquins (Robert Laffont), Christophe Parry a dirigé la publication d’un Dictionnaire de la Légion étrangère, sous la direction d’André-Paul Comor.

Les 4 Vérités : Avec le commandant Hélie Denoix de Saint Marc, ancien déporté, vétéran de l’Indochine et de l’Algérie, qui engagea le 1er régiment étranger de parachutistes dans le putsch des généraux en avril 1961, vient de disparaître l’une des figures les plus prestigieuses de la Légion. Comment se rattache-t-il à l’histoire et à l’esprit de cette troupe d’élite ?

Christophe Parry : Personne mieux que le commandant de Saint Marc, à mon avis, n’a illustré à la fois la devise de la Légion étrangère : « Honneur et Fidélité », le code d’honneur du légionnaire, qui stipule notamment que la mission est sacrée et qu’il faut l’exécuter jusqu’au bout, « s’il le faut, en opérations, au péril de [s]a vie », mais également le code d’honneur « de l’ancien légionnaire », et en particulier son article 4 : « Fidèle à mon passé à la Légion étrangère, l’honnêteté et la loyauté sont les guides permanents de ma conduite. »

C’est en son sein qu’il est parvenu à se reconstruire après Buchenwald – et ce alors qu’en Indochine nombre de ses camarades de combat parlaient la langue de ses bourreaux ; en son sein aussi qu’il a retrouvé la fraternité qui unit ceux qui mettent leur peau au bout de leurs idées, pour paraphraser un autre ancien du 1er REP, Pierre Sergent. En son sein encore, malheureusement, alors qu’il a l’ordre d’abandonner aux Viêt-minh les combattants thôs qu’il a formés, qu’il éprouve la honte de « la trahison, l’abandon, la parole bafouée » – il l’éprouvera une nouvelle fois en Algérie…

La Légion étrangère, a-t-il écrit dans ses Mémoires, fut « la grande affaire » de sa vie. Issu d’une famille catholique caparaçonnée de valeurs ancestrales, il n’a pu rester indifférent à cette foi légionnaire si particulière, qui anime des hommes venus d’horizons et de cultures différents afin de se mettre au seul service de la France. L’on évoque souvent une « mystique » du devoir : le terme prend tout son sens à la Légion. Il suffit d’assister à la commémoration de la bataille de Camerone, à Aubagne, pour comprendre : c’est une véritable liturgie. L’Ancien qui a l’honneur de porter la main articulée du capitaine Danjou jusqu’au monument aux morts remonte la « Voie sacrée », entouré de deux camarades, en une procession des plus émouvantes.

Saint Marc, qui a naturellement une notice dans notre livre, a eu le temps de nous faire passer deux mots de commentaire, par son ami Étienne de Montety : « Bravo et merci ». Autant vous dire que nous en sommes particulièrement fiers…

Vous avez supervisé la publication dans la collection « Bouquins » (Robert Laffont) d’un dictionnaire de la Légion étrangère. Pourquoi ce livre ? Qu’apporte-t-il de nouveau par rapport à la bibliographie déjà importante consacrée à la Légion ?

La Légion, avec près de 150 nationalités représentées en ses rangs, appartient nolens volens au patrimoine mondial de l’humanité. Ne serait-ce qu’à ce titre, il est normal qu’elle fasse l’objet d’une étude historique comme celle-ci, dont l’ampleur – près de 50 historiens français et étrangers, plus de 850 entrées – est sans précédent. Il y a effectivement de nombreux ouvrages consacrés à la Légion, mais ce sont le plus souvent des panégyriques, des mémoires d’anciens, voire des pamphlets : il manquait une étude historique dépassionnée et documentée (les archives de la Légion étrangère, souvent inédites, ont été exploitées pour notre plus grand profit), qui ne traite pas seulement des glorieux faits d’armes, des opex contemporaines, des unités et des « grandes gueules » de la Légion – ils y sont bel et bien –, mais aussi des aspects sociaux, économiques, cultuels et culturels – une étude en somme qui participe au renouveau de l’histoire militaire. Figurent ainsi dans ce « Bouquin », outre le dictionnaire proprement dit, une imposante bibliographie, des cartes, des illustrations et des partitions (celle du fameux Boudin notamment), une filmographie et une discographie, toutes deux inédites, ainsi qu’une anthologie – quelques morceaux choisis de littérature légionnaire. « Tout ce que vous avez toujours voulu savoir, et plus encore, sur la Légion étrangère, sans oser le demander ! », a pu écrire le lieutenant-colonel Rémy Porte sur son blog (http://guerres-et-conflits.over-blog.com). Mais André-Paul Comor – le maître d’œuvre – et moi-même avons choisi surtout de n’occulter aucun sujet, même ceux qui « fâchent » les bonnes consciences contemporaines : les meilleurs spécialistes traitent donc aussi de la désertion, de la reddition, des bordels de campagne et des maladies (et pas seulement du « cafard »…), d’espionnage ou encore de l’usage de la torture. Naturellement, la guerre d’Algérie, le putsch de 1961 et l’OAS sont longuement étudiés, mais au même titre que la Commune, la Résistance ou la France Libre. À cet égard, qu’il me soit permis de remercier ici tous les auteurs, civils et militaires, français et étrangers, qui ont accepté de participer à cette aventure sous la direction éclairée d’André-Paul Comor.

Pourquoi la Légion étrangère continue-t-elle de susciter autant d’intérêt, en France comme à l’étranger ?

La réputation de la Légion n’est plus à faire, et le succès qu’elle rencontre sur les Champs-Élysées, tous les ans, dit assez l’estime que lui portent les Français. D’ailleurs, le CD qu’a enregistré la Musique de la Légion étrangère, Héros, paru en avril 2013 à l’occasion du 150e anniversaire de la bataille de Camerone, était disque d’or trois mois après sa sortie : succès d’estime, donc, mais aussi commercial. La Légion fait assurément vendre !

Mais au-delà de sa réputation militaire – établie –, ou sociale – école de la deuxième chance, la Légion est un parfait modèle d’intégration –, l’institution fascine parce qu’elle est la parfaite illustration du dénuement, de l’anonymat et de l’abnégation, alors que ne sont plus vénérés aujourd’hui que le fric, l’individualisme et l’indifférence…

Et puis, Étienne de Montety, par ailleurs 1re classe d’honneur de la Légion étrangère, l’explique très bien dans sa magnifique préface : « la littérature à ne pas en douter » confère à cette institution « son essence particulière ». Plus que tout autre, en effet, le légionnaire est présent dans les romans, mais aussi au cinéma, dans les chansons : le mythe du légionnaire au passé mystérieux, tatoué, cafardeux, bagarreur et amateur de femmes et de pinard fait florès. Il sent bon le sable chaud et a mauvaise réputation…

 

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La Légion étrangère, histoire et dictionnaire, sous la direction d’André-Paul Comor, coll. Bouquins, Robert Laffont, 2013. 1152 p, 32 €. A commander ici

samedi, 16 novembre 2013

Quel avenir pour l’industrie navale militaire européenne ?

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Quel avenir pour l’industrie navale militaire européenne ?

Ex: http://alliancgeoestrategique.org

Par ce billet, il est proposé de prolonger la réflexion initiée par ma première collaboration avec un « agsien » (Mon Blog Défense) en novembre 2009 : « Consolidation du secteur terrestre en Europe : scénarios possibles« . Récemment, un autre allié m’a gracieusement donné quelques retours du colloque « Quelle consolidation pour notre industrie d’armement et de Défense ? » organisé par le Club Participation et Progrès et la Revue de Défense Nationale. Revenons, si vous le voulez bien, sur le cas de l’industrie navale.

Trois grandes options ?

L’industrie navale européenne, en général, et française en particulier, pourrait être restructurée selon deux ou trois grandes hypothèses :

  • l’EADS naval,
  • le projet du groupe Dassault de devenir un « French BAE » à travers Thales,
  • un projet alternatif qui pourrait être un groupe mi-civil, mi-militaire.

En ce qui concerne la seconde hypothèse, Thales a d’ores et déjà un pied dans DCNS (35%) et souhaite en faire de même dans Nexter. Thales voudrait continuer à monter au capital de DCNS, ce qui n’enlève en rien le besoin de former une ou des alliances.

L’EADS naval

Le partage industriel est d’une particulière complexité dans l’industrie navale par rapport à ce qui peut se faire dans d’autres industries d’armement. Il n’est pas de ma compétence d’expliquer le pourquoi du comment, néanmoins, quelques exemples et remarques peuvent, au moins, illustrer cette difficulté.

Premièrement, un chantier naval est une somme de compétences humaines comme n’importe quelle entreprise. A la remarque près qu’il y a des compétences que l’on ne trouve que dans des chantiers navals. Certains travaux de soudure ne se réalisent que sur des chantiers bien précis (comme par exemple la soudure de tôles d’acier à haute limite élastique pour les sous-marins). Le temps est nécessaire pour acquérir ces compétences et il faut un volume de travail continu pour les préserver et les renouveler (ceux qui ne respectent pas cet ordre des choses ont bien des difficultés). C’est pourquoi seuls les chantiers qui répètent les mêmes travaux parviennent à rentabiliser ces investissements humains.

Deuxièmement, il est tout aussi difficile de partager la construction du « flotteur », c’est-à-dire le navire en lui-même. Nous parlons d’un EADS naval et peut être avons-nous en tête l’image des éléments des Airbus qui transitent en Europe par la mer, la route ou les air. Cette mobilité est difficile à reproduire dans le naval. Par exemple, la construction des frégates La Fayette a été modulaire, en ce sens où le navire était un assemblage de blocs pré-armés. Et le plus gros de ces blocs atteignait 300 tonnes ! Mais il n’est pas impossible d’échanger des blocs de bateaux entre chantiers navals comme en témoignent les programmes Scorpène, FREMM et BPC pour ne citer qu’eux.

Troisièmement, si la mobilité n’est pas un frein au partage des tâches industrielles, il se heurte à la question de la rentabilité. L’ouvrage « Les frégates furtives La Fayette » (éditions Addim) nous apprend que c’est parce qu’il était question de construire et le porte-avions nucléaire Charles de Gaulle et douze frégates La Fayette que la DCN a pu investir dans de nouvelles grues. La construction modulaire générait donc plus de gains si les blocs étaient moins nombreux, mais donc plus lourds. C’est donc pourquoi l’administration avait investi dans des engins de levage ayant une capacité de 1000 tonnes. Finalement, il faut donc avoir un minimum de volume à construire pour rentabiliser la modernisation de l’outil. A titre d’illustration, la première La Fayette a été construite en dix-huit mois, contre une trentaine de mois onze années avant ce chantier pour un bâtiment de combat. Le Courbet, troisième unité de la série, fut assemblé en six mois…

Quatrièmement, et quand bien même nous voudrions atteindre une telle organisation industrielle, il faudrait que les classes de frégates soient communes. La construction modulaire n’interdit pas de changer les senseurs et les vecteurs. A priori, si nous devions exagérer un peu, il faudrait dire alors que le seul bâtiment en construction entre plusieurs chantiers qui soit d’un modèle vraiment commun est le SNA Virginia dont deux chantiers américains se partagent la construction ou les Scorpène du temps où ils étaient construit entre la France et l’Espagne…

Cinquièmement, même le partage des études de développement des bateaux et l’achat de gros équipements en commun a été une source de déceptions. Le programme FREMM en est la parfaite illustration malheureusement. Patrick Boissier, lors de son audition devant la commission de la Défense et des forces armées à l’Assemblée nationale en mars 2013, précisait notamment que :

  • « Le programme FREMM prévoit une conception commune en amont, et l’achat en commun de la turbine, du système de stabilisation, du système de guerre électronique et du sonar. Ces matériels représentant environ 10 % du coût du navire, l’opération permet d’économiser à peu près 1 million d’euros par bâtiment« .
  • « Moins de 10 % du coût des études a été mutualisé, ce qui représente une économie apparente de 50 millions d’euros pour chacun des partenaires. En fait, si l’on tient compte du coût supplémentaire des études spécifiques relatives aux plateformes différentes pour chaque pays, et du surcoût lié à la coordination, le montant économisé est ramené à une quinzaine de millions d’euros. En définitive, grâce à cette coopération, la France aura donc économisé environ 30 millions d’euros, soit 1 % à 1,5 % du coût total du programme« .

De ce que nous pouvons constater c’est que nous sommes passés d’un cycle à l’autre, d’une tendance à une autre. Dans les années 90 il était question de grands programmes multilatéraux communs, comme la frégate NFR90 otanienne.

Néanmoins, de la fin des années 90 aux premières années 2000, le multilatéralisme a disparu. Il est apparu que les européens ne lançaient plus que des programmes à deux ou trois dans le domaine naval. Par exemple, la frégate NFR 90 a donné naissance à trois projets antagonistes :

  • le programme Horizon centré sur le PAAMS,
  • les frégates AEGIS européennes,
  • la frégate Charles Quint entre l’Allemagne, l’Espagne et les Pays-Bas.

Surtout, ce qui a changé c’est que la coopération se fait beaucoup plus sur les équipements et les systèmes (typiquement le PAAMS) que sur les bateaux eux-mêmes. C’est une évolution tout à fait étonnante car le programme de Chasseurs de Mines Tripartite (France, Belgique et Pays-Bas) avait été une vraie réussite, même la modernisation avait été commune (sauf la construction). Enfin, et c’est peut être le plus contraignant, les chantiers navals européens ont développé des solutions nationales à proposer à l’exportation.

C’est pourquoi l’EADS naval semble bien difficile à imaginer car tant le partage industriel que la concurrence actuelle entre les chantiers supposent… moins de chantiers. Est-ce pour cela que les chantiers ne se lancent plus que dans des produits nationaux et que les gouvernements ne coopèrent plus dans le domaine naval ?

Le chantier naval est-il encore facteur de la puissance navale ?

C’est la question douloureuse : qui accepterait de ne plus assembler un navire dans son pays ? De tous les temps, quand une puissance navale émerge c’est à partir d’un outil industriel capable de construire les vaisseaux qui porteront ses ambitions. La mise en construction d’unités à l’étranger n’avait alors pour but, non pas de réaliser des économies, mais bien d’accélérer un mouvement. C’est ce que fit en France Colbert pour hâter l’émergence de la Marine royale comme première force navale mondiale.

Le cas du Nord de l’Europe est particulièrement central dans le débat. Dans « De la Mer et de sa Stratégie » (aux éditions Tallandier), l’historien Philippe Masson nous retrace le passage du centre de gravité du monde de la Méditerranée à l’Atlantique. A cette fin, il fallait des bateaux hauturiers capables d’affronter l’Atlantique. Et justement, ce sont les puissances maritimes émergentes du Nord de l’Europe qui inventèrent les vaisseaux de haut bord : cogue, carraque, etc…

Est-ce que ces puissances maritimes sont arrivées au bout du cycle à l’occasion du basculement du centre de gravité du monde de l’Atlantique au Pacifique ? Si nous devions adopter cette lecture alors cela expliquerait deux mouvements. Le premier est que un programme comme le Littoral Combat Ship américain trouve ses racines dans les programmes de corvettes du Nord de l’Europe. Ainsi, l’Europe du Nord serait parvenu au terme d’un cycle technologique sur le plan historique.

C’est donc un revirement historique complet. Il est à modérer car ces puissances maritimes du Nord-Est gardent un fort investissement technologique. Mais le volume de leur flotte se réduit inexorablement.

La survie par le sous-marin ?

Dans ce contexte, il y a ceux qui veulent survivre et il y a les autres. L’industrie navale civile a montré que l’innovation n’avait pas révolutionné le secteur : quand le tonnage à construire diminue trop cela implique que des chantiers ferment. Et des chantiers ferment à l’image de Rauma en Finlande ou de Brest qui a tourné la page de la construction navale militaire. Autre signe que la bataille est intense c’est la course aux commandes qui implique de plus en plus les gouvernements.

Si bien que il convient de remettre sur le devant de la scène que pour les industriels de la navale militaire, le graal n’est nullement la frégate mais bien le sous-marin. La majeure partie des bénéfices est tirée de l’activité sous-marine. Pour la construction d’un sous-marin, la part de la coque dans le coût unitaire de production est significativement supérieur à ce qu’elle peut représenter pour un navire de surface. A titre d’exemple, pour le PA2, la coque c’était 982 millions d’euros pour 2500 millions d’investissement. Et la part du flotteur dans le coût d’une frégate est bien moindre.

Le cas des programmes de sous-marins à propulsion classique peut donc être éclairant sur la situation de la navale militaire européenne :

  • l’entreprise Allemande TKMS n’aurait racheté le Suédois Kockums que pour mieux le torpiller (un comble). En obtenant le contrôle de l’entreprise, les allemands se donneraient les moyens d’empêcher le développement d’un nouveau sous-marin (l’A-26) et empêcherait l’entreprise suédoise de concourir à l’export (que les suédois doivent regretter le grand temps du projet Viking…).
  • Navantia, entreprise espagnole avait un avenir radieux du temps de la coopération avec la France centrée sur un sous-marin, le Scorpène, qui entamait une carrière commerciale plus que prometteuse. Depuis que Madrid a choisi de nationaliser le Scorpène et de le produire sous le nom de S-80, tout va mal. L’attente du nouveau sous-marin occasionne des surcoûts (30 millions pour le carénage du Tramontana) et les problèmes rencontrés dans son développement engendrent des surcoûts non-négligeables : 200 millions d’euros. Ajoutez à cela que Bruxelles a récemment demandé aux chantiers navals espagnols de rembourser les subventions perçues de Madrid (3 milliards d’euros) et vous comprendrez mieux pourquoi l’entreprise ne serait pas loin de la faillite à l’heure actuelle.
  • Fincantieri, société italienne, a construit sous licence quatre U-212 de conception allemande pour le compte de la Marina militare. Alors que l’Italie concevait ses sous-marins. Rome tente de renouer sur le marché de l’exportation grâce à une coopération avec les Russes sur un sous-marin côtier de la classe des 1000 tonnes (à moins que Moscou ne fasse que piéger les Italiens comme les américains l’ont fait avec le C-27J pour que les Italiens se retirent de l’A400M).
  • BAE Systems conçoit les SNA et SNLE au service de Sa Majesté. Néanmoins, le trou entre les classes Vanguard et Astute a créé une telle perte de compétences que ce sont les américains qui ont rattrapé les Astute. BMT essaie bien de relancer un sous-marin classique de conception anglaise pour l’exportation mais il ne semble pas réussir à quitter les Power point. Et il y a cette affreuse affaire des sous-marins vendus au Canada.
  • TKMS vit grâce à des succés considérables (U-209 et U-212/214). Les Allemands sont peut être arrivés au bout d’un cycle. Espagnols et français les ont quasiment évincé d’Amérique du Sud grâce au Scorpène, même pour la modernisation d-U-209. L’Asie est un grand marché, mais l’est-il encore pour les sous-marins ? La Corée du Sud tente l’aventure du sous-marin de conception nationale après avoir longtemps acheté allemand. Et Séoul a tenté de vendre des U-209 pour l’Indonésie. Ce qui gêne Berlin, c’est que les coréens n’avaient la licence que pour construire pour la marine sud-coréenne… Et la concurrence s’annonce féroce pour les autres marchés.
  • Les Russes sont un cas à part car ils gardent un grand plan de charge industriel, d’une part, et ils doivent restructurer un outil industriel qui n’est pas parvenu à maturation malgré tous les efforts entreprises depuis 10 ou 15 ans. Entre les difficultés rencontrées sur le Lada, qui devait prendre la succession des Kilo, et ce fâcheux incendie sur un Kilo indien qui revenait d’un grand carénage en Russie, d’autre part.

Les deux « contrats du siècle » viendraient de l’Australie (12 unités) et de la Norvège (4 à 6 unités). Ce ne serait pas les seuls grands contrats. Mais ce sont les deux prochains dans un contexte de rationalisation européenne.

France : un outil industriel exceptionnel

Au milieu de cet océan de marasme, la France rayonne. Son industrie navale militaire, et en particulier dans le cas des sous-marins, bénéficie de deux avantages stratégiques décisifs :

  • la chaîne de production de sous-marins tourne en continue depuis… les débuts du sous-marin en France il y a 120 ou 130 ans (moins les années de guerre). L’alternance dans les constructions et conceptions de SNLE et SNA permettent à l’entreprise de tirer les bateaux vers le haut (n+1), de réutiliser ses investissements sur les SNA et donc, de vendre à l’export ce qui est « n-1″.
  • La France n’a jamais cessé de vendre des sous-marins sur le marché de l’exportation : le moindre problème de tuilage entre SNLE et SNA pouvait être compensé totalement ou partiellement par l’exportation.Sur

Sur un plan plus général, il convient d’être réaliste : nous disposons d’un outil industriel exceptionnel. Il est le fruit d’un long travail. Au début du XXe, notre outil industriel naval était inefficace :

  • quand la construction du cuirassé Dreadnought coûtait 35 milliards de livres à Londres,
  • la France construisait des cuirassés pré-Dreadnought pour 45 milliards de livres.

Depuis les années 60, la productivité de l’outil s’est redressé jusqu’aux succès éclatant des programmes La Fayette, BPC et FREMM (même si pour ce dernier programme, l’efficacité n’a pas pu être atteinte du fait de la casse du programme).

France : la question des capitaux

Le problème français touche, justement, les sous-marins. Nous avions formé une alliance avec les Espagnols car Madrid pouvait financer le coût de développement d’un nouveau sous-marin à propulsion classique quand l’administration DCN et l’Etat ne le pouvaient pas en France. Nous n’avions pas les moyen de financer l’après Agosta. Il en est résulté le Scorpène.

Cette difficulté existe-t-elle encore aujourd’hui depuis que DCN est devenue DCNS et que l’entreprise peut se constituer des fonds propres ? L’exemple de l’Adroit montre qu’il y a peut être espoir que l’entreprise puisse se développer « seule ». Et le cas du Scorpène était assez emblématique puisque le Chili était le client de lancement alors que ni la France, ni l’Espagne n’avait commandé ou mis en service ce sous-marin… Ce qui défi les « règles » en la matière.

Quelles alliances ?

Le nein allemand

Le rapprochement naval franco-allemand est suffisamment ancien pour être devenu un serpent de mer et constituer le coeur du projet d’un EADS naval. Typiquement, aujourd’hui, DCNS cherche à acquérir son concurrent allemand, TKMS. Berlin est si opposé à la chose que le pouvoir allemand a ouvert le capital de l’entreprise à des investisseurs du Golfe plutôt que de laisser le Français prendre le contrôle. Quelque part, cela est peut être lié au destin de l’électronicien naval Atlas Elektronik qui était passé sous le nez de Thales, pourtant favori, pour être racheté par EADS et TKMS.

Le divorce franco-espagnol

La France a vendu des sous-marins de classe Daphné à l’Espagne. Elle a ensuite transférer le savoir-faire nécessaire aux espagnols pour qu’ils puissent assembler sur place les sous-marins de classe Agosta acheté par Madrid. Et enfin, Français et Espagnols ont coopéré pour concevoir ensemble le Scorpène. L’Espagne pris dans la folie des grandeurs de ses ambitions industrielles a préféré tourné le dos aux français pour tenter l’aventure d’un sous-marin de « coneption » nationale avec le choix d’équipements et de systèmes américains. A priori, l’affaire est entendue pour DCNS qui ne semblerait pas enclin à pardonner.

Les autres ?

Les Hollandais semblent abandonner construction et conception de sous-marins. Les Italiens n’ont plus rien conçu depuis bien longtemps . Si les Suédois ne réagissent pas et que l’A-26 ne voit pas le jour ils risquent également le naufrage.

Des surprises ?

Pour en revenir à l’industrie navale civile, il faut rappeler combien le raid du Sud-Coréen STX avait été une surprise. L’entreprise est accusée d’avoir racheté des chantiers navals européens, autrefois détenu par (autre signe du périclitement du Nord de l’Europe) pour piller les savoir-faires. Aujourd’hui, ses actionnaires lui demande de quitter le continent européen : que vont devenir tout ces chantiers civils ?

Cela nous amène à deux options :

  • la première est que les Coréens, et d’autres, ne se contentent plus de construire es navires logistiques pour les marines européens mais bien les coques de navires de combat. C’est déjà le cas de tel ;
  • la seconde option consiste à un nouveau raid d’une entreprise étrangère en Europe pour prendre le contrôle d’un ou plusieurs chantiers : n’est-ce pas ce qui s’était passé avec STX et les entreprises d’armement terrestre européennes rachetées par des sociétés américaines ?

Enfin, nous pourrions aussi assisté à des achats pur et simple de navires de combat à l’étranger, sans même l’ombre d’une conception de quoi que ce soit en Europe. Par exemple, les marines nord-européennes ont développé des frégates de défense aérienne apte à servir d’élément d’un bouclier anti-missiles. La Corée du Sud et le Japon conçoivent bien des destroyers (Kongo et KDX-3) aptent à la lutte anti-missile balistique.

Conclusion

Notre industrie navale est, comme le reste des industries de défense nationale, fondée sur un amortissement des dépenses d’armement par l’export. L’Asie nous concurrence déjà. L’Amérique va tenter de le faire mais elle souffre de deux maux : des produits inadaptés au marché et un manque de productivité savamment caché.

En plus de voir le marché de l’exportation se réduire par accroissement de la concurrence (alors que les volumes devraient encore augmenter), nous devons anticiper une réduction de la demande européenne. Cette restructuration passera inévitablement par la fermeture de chantiers et de bureaux d’études dans la douleur.

Nous pourrions croire que les chantiers européens qui resteront bénéficieront donc d’une sorte de report de charge, même amoindri. Néanmoins, comment ne pas imaginer que dans une perspective de soutien à des politiques commerciales, l’achat de navires de combat constitue un nouveau moyen de négociation commercial ? Dans un autre ordre d’idée, la course à la technologie européenne dans les navires de combat pourrait également rencontrer quelques programmes navals « modérés » américains. Le Joint Strike Fighter illustre assez bien ce qui pourrait se produire.

Il reste la question des alliances, mais avec qui ? Les allemands sont fuyant et un bon accord commercial pour eux, c’est un produit à 80% allemand : du char Napoléon aux coupes allemandes d’aujourd’hui dans les programmes internationaux, cela est assez clair. De plus, nous ne savons pas si les autres chantiers européens vont tomber et s’ils tomber, combien de temps cela prendra.

La surprise pourrait peut être venir de l’Angleterre si Londres se révèle incapable de restructurer son outil naval. Un syndicat anglais avait brandi la menace que les futurs porte-aéronefs Queen Elizabeth soient construit et entretenus en France. Etait-ce de la pure provocation ? Néanmoins, entre les accords de Nassau et le fait que Londres reprennne le large en cherchant à s’affranchir de l’Europe, il y a actuellement un grand pas à franchir.

Une dernière option ?

Elargissons avec une dernière hypothèse. Tout au long du XXe siècle, notre industrie navale s’est restructurée « intelligemment ». L’outil s’est progressivement rationalisé autour de trois chantiers :

  • Cherbourg qui fabrique des sous-marins,
  • Lorient des frégates,
  • St Nazaire tout ce qui est plus gros qu’une frégate.

L’échec du programme FREMM illustre la difficulté française à maintenir de grands programmes de navires de surface (ce qui était une des leçons de l’époque colbertienne et qui est bien mise en oeuvre aux Etats-Unis avec les destroyers Arleigh Burke). Les frégates sont construites en série car il faut maintenir toute une chaîne industrielle à Lorient. Il y aurait alors deux autres manières de faire pour contourner la difficulté :

  • externaliser les activités de chaudronnerie à d’autres entreprises de chaudroneries ; le chantier naval se conteraient d’armer les blocs et de les assembler (ce qui était un peu le cas de la construction des U-Boat pendant la seconde guerre mondiale) ; ce qui n’est pas sans poser quelques difficultés pratiques ; ou bien faire assembler les coques conçues par des bureaux d’études européens par des chantiers à bas coût et les faire armer en Europe : c’est peu ou prou le cas des bâtiments logistiques anglais ;
  • ne plus construire les frégates en série mais en lot au sein d’un chantier vivant de programmes civiles lui permettant de conserver tout ou partie des compétences sans avoir besoin de construire continuellement des navires militaires un autre chantier préserve toute ou partie de ces compétences sur une multitude de classes de navires. Lorient fermerait alors au profit de St Nazaire.

La possible vente des chantiers de STX en Europe pose la question du devenir de St Nazaire, seul chantier français capable de construire porte-avions, navires amphibies et unités logistiques…

Le marquis de Seignelay

jeudi, 31 octobre 2013

La Kriegsmarine et l'Opération Barbarossa

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La Kriegsmarine et l'Opération Barbarossa

Ingo Lachnit

En conquérant toute la côte atlantique de la France en juin 1940, les armées de Hitler ont dégagé le Reich de l'encerclement maritime que lui avaient imposé les Britanniques et les Français. La victoire allemande à l'Ouest ouvre au Reich les portes du large. A partir de ce moment, la Kriegsmarine ébauche des projets globaux et non plus purement défensifs, limités à la Mer du Nord et à la Baltique. C'est l'Amiral Carls, Commandant en chef du Groupe Est, qui fut le premier à fournir une étude globale, définissant les objectifs de la guerre sur mer (1). Son mémorandum reflète parfaitement l'état d'esprit des chefs de la marine allemande, après que les côtes atlantiques de la France soient tombées aux mains des Allemands.

L'Allemagne: une puissance d'ordre à l'échelon mondial

Carls, dans son mémorandum, parlait un langage clair. Sans circonlocutions, il déclare que l'Allemagne, désormais, doit devenir une puissance mondiale. Il ne craint pas de mener la guerre “contre la moitié ou les deux tiers du monde”. Déjà en 1938, il avait dit que l'Allemagne pouvait envisager de mener un tel combat avec succès. En déclarant que l'Allemagne devait devenir une puissance mondiale, Carls imposait à la marine une ligne de conduite, qui impliquait, à son tour, plusieurs objectifs de guerre: après avoir récupéré les anciennes provinces et territoires du Reich à l'Ouest et réclamé le retour des anciennes colonies africaines, Carls préconisait la constitution d'une confédération des Etats d'Europe du Nord sous l'égide allemande, regroupant, outre le Reich, une Grande-Flandre, les Pays-Bas, le Danemark et la Norvège, y compris leurs possessions d'outre-mer. Les possessions qu'apporteraient le Danemark et la Norvège dans la nouvelle communauté d'Etats (Spitzberg, Groenland, Islande, Iles Féroé), garantirait la domination maritime du Reich dans l'Atlantique-Nord, qui serait encore consolidée par l'annexion des Iles anglo-normandes et des Shetlands  —la marine considéraient encore l'annexion de ce petit archipel au Nord de l'Ecosse comme un but de guerre en 1944. Cette position fortifiée dans le Nord aurait permis à l'Allemagne d'avoir un accès libre aux zones centrales de l'Atlantique, grâce à l'inclusion dans la sphère d'influence du Reich d'une bande littorale ouest-française. Les ports de cette bande littorale auraient servi de tremplin vers le sud, permettant du même coup de se rendre maîtres de la côte ouest-africaine. Sur cette côte, l'Allemagne devra s'assurer quelques territoires, de façon à s'aménager des points d'appui. Ensuite, l'Union Sud-Africaine, y compris la Rhodésie du Sud, deviendraient des Etats indépendants et se détacheraient de l'Empire britannique, s'empareraient de Madagascar et des îles avoisinantes, de façon a créer une “chaîne” de points d'appui qui s'étendrait de l'Océan Indien au Pacifique, en passant pas les colonies néerlandaises (Indonésie), tombées sous influence allemande grâce à l'inclusion de la Hollande dans la communauté des Etats du Nord de l'Europe. Cette “chaîne” aboutirait au Bornéo septentrional qui serait, lui aussi, détaché de l'Empire et passerait sous domination allemande.

Cette esquisse des ambitions allemandes, élaborée par Carls, correspondait bel et bien à l'état d'esprit qui régnait dans les états-majors de la marine. Seuls quelques officiers ont émis des revendications plus modérées, mais qui ne portaient que sur les détails, non sur l'essentiel. Ainsi, le Chef du 1er Skl., le Contre-Amiral Fricke, en formulant une ligne de conduite légèrement différente, estimait que l'Allemagne devait en priorité s'affirmer comme puissance européenne dominante. Fricke suggérait de ne pas mettre la charrue avant les bœufs et de ne pas aller trop vite en besogne en voulant faire de l'Allemagne une puissance mondiale. Le Commandant-en-chef de la Marine, le Grand-Amiral Raeder, pour sa part, refusait de s'emballer pour les projets trop audacieux et ne voulait pas perdre de vue l'essentiel: les objectifs à court terme; l'acquisition de points d'appui insulaires et continentaux le long des côtes africaines ne serait alors qu'un objectif à moyen terme. Dans les détails, les buts déclarés variaient d'une personnalité à l'autre. Mais il n'en demeure pas moins vrai que tous les officiers de l'état-major de la marine de guerre étaient d'accord sur un point: l'Allemagne était devenu une puissance d'ordre et devait s'affirmer en tant que telle sur toute la surface du globe. Aucun officier de marine ne mettait en doute la nécessité de faire du Reich la puissance hégémonique en Europe, la puissance organisatrice d'un “grand espace” économique européen, avec son complément colonial africain. Cette mission devait forcément donner à l'Allemagne une vocation planétaire. Toutes les ébauches de la marine impliquaient une Weltpolitik  de grande envergure. Sans la moindre hésitation, les officiers de la marine prévoyaient de bétonner et de consolider les positions du “Reich Grand-Allemand” sur le plan géostratégique, de même que ses intérêts outre-mer, de “façon définitive, sur le fond, pour tous les temps”.

L'objectif à court terme: devenir une puissance coloniale

Les exigences coloniales de la marine allemande, de même que sa volonté d'acquérir des points d'appui, vise en premier lieu à asseoir solidement les revendications allemandes. Carls souhaitait un désarmement de l'Angleterre et de la France et pensait qu'il ne fallait réaccorder l'égalité en droit à ces deux puissances que lorsqu'elles auraient accepté l'ordre nouveau imposé par le Reich à l'Europe. Leurs empires coloniaux devront être réduit en dimensions, afin qu'ils soient égaux en taille aux possessions allemandes d'outre-mer, mais ne devront en aucun cas être détruits. Les possessions coloniales de la Grande-Bretagne, de la France et de l'Italie demeureront suffisamment vastes, après que l'Allemagne ait accedé au statut de grande puissance mondiale, “pour leur assurer l'existence et assez de puissance”, toutefois “dans les proportions que nous aurons souhaitées”. L'objectif de devenir “puissance mondiale” ne pourra se concrétiser que dans la mesure où l'Allemagne se montrera capable d'assurer l'équilibre entre les autres puissances. Carls parle en fait d'“auto-limitation” (Selbstbeschränkung)  quand il parle du Reich; il ne perçoit pas celui-ci comme une puissance qui règnerait seule sur le destin de la planète, mais qui serait davantage “régulatrice” de la politique internationale. La notion de “puissance mondiale” (Weltmacht) n'est donc pas synonyme, dans la pensée de Carls”, de “domination (non partagée) sur le monde” (Weltherrschaft).  Les objectifs coloniaux énoncés dans le mémorandum ont une connotation nettement restauratrice. Ils se contentent, pour l'essentiel, de rétablir les colonies allemands d'avant 1918, en leur adjoignant quelques possessions françaises et la Rhodésie, qui souderait ses colonies entre elles.

Carls renonce à toute acquisition en Méditerranée et à toute intrusion dans les sphères d'infuence américaine et japonaise. Il tient compte du fait “que le Führer ne veut pas s'installer en Méditerranée, ni s'immiscer dans les sphères d'influence américaine et japonaise”. Carls savait intuitivement quel état d'esprit régnait dans le quartier général du Führer et devinait ce que ce dernier voulait entendre. Il élaborait ses plans non pas dans les limites de son propre domaine mais tenait davantage compte des intentions du commandement suprême que Raeder quand il rédigeait ses rapports. Raeder, lui, n'élaborait de projet que sur base de son domaine spécifique et tentait, envers et contre tout, de l'imposer au commandement suprême.

Ce qui frappe, c'est la mansuétude de Carls à l'égard de l'ennemi principal du Reich, la Grande-Bretagne. Celle-ci, dans la mesure du possible  —c'est-à-dire si elle ne s'oppose pas au Reich allemand de manière irrémédiable—  conserverait son Empire et demeurerait une puissance thalassocratique. Carls exprime de la sorte, outre une admiration pour l'œuvre coloniale des Britanniques, le point de vue de la marine: l'Empire britannique a eu une fonction stabilisante dans l'équilibre international. Sa chute favoriserait le Japon, puissance qui cherche l'hégémonie à l'échelle du globe, et qui se révèlerait, dans un avenir plus lointain, un nouvel adversaire du Reich allemand.

La Marine: facteur de décision dans la guerre

ship5.jpgLa marine de guerre allemande s'est toujours définie dans et par sa lutte contre la flotte britannique. Dans cette optique, l'Allemagne, en s'opposant à l'Angleterre, est logiquement, par la volonté du destin, obligée de devenir une puissance thalassocratique à l'échelle du globe. Cette vision des choses est solidement ancrée dans la marine depuis Tirpitz. Le corps des officiers de marine n'a jamais cessé de penser et d'agir dans le cadre de ces idées claires et compactes; tous ses objectifs s'inscrivent dans cette logique implaccable, même après 1918, année de la défaite que n'admettent pas plus les officiers de marine que ceux de l'armée de terre. Dans son Dienstschrift IX  (Note de service IX), rédigé en 1894, Tirpitz avait conçu le rôle des armées de terre  —protéger l'Etat contre l'arbitraire de l'ennemi—  comme inférieur à celui, sublime, de la marine: emporter la décision en cas de guerre. Cet état d'esprit témoigne de la cohésion morale, élitaire et sélective, du corps des officiers de marine allemands; ces hommes étaient convaincus de l'importance de leur arme et cette conviction, largement partagée, s'est perpétuée et renforcée après 1918 et l'intermède de Weimar. Le vocabulaire lui-même en témoigne: la marine est kriegsentscheidend,  elle force la décision, fait la décision, en cas de guerre. Tel est le noyau de la pensée stratégique et opérative de la marine. Ce qui explique la franchise avec laquelle la marine élabore ses plans pour faire de l'Allemagne une Weltmacht. Elle n'est pas victime de l'euphorie qui règne dans le Reich après la victoire sur la France mais s'inscrit plus simplement, plus naturellement, dans la tradition forgée à la fin du XIXième siècle par Tirpitz, tout en espérant, avec les nouveaux acquis territoriaux, rencontrer plus de succès.

Le problème de l'Angleterre

Comme les opérations contre la “forteresse insulaire” britannique s'avèrent lentes et n'emportent aucun succès, et comme l'invasion de l'Angleterre est reportée à l'année 1941, les esprits, en Allemagne, se concentrent sur le “problème anglais”. Si l'Angleterre ne peut être vaincue sur son île métropolitaine, il faudra trouver des points faibles dans l'Empire et y remporter des victoires décisives qui obligeront le gouvernement britannique à composer et à accepter la paix allemande. Cette question, essentielle, préoccupait bien entendu tous les militaires allemands, les chefs de la marine comme l'état-major de la Wehrmacht. Pour résoudre le problème anglais, il y avait plusieurs possibilités:

1) Une guerre contre les sources d'approvisionnement qui s'inscrirait dans le cadre d'une guerre économique de plus vaste envergure.

2) Des attaques ponctuelles contre les points névralgiques de l'Empire, de façon à ce qu'il s'effondre. A portée des Allemands, par ordre d'importance, nous avions, à l'époque: Suez, Gibraltar et Malte.

3) L'acquisition de positions stratégiques navales en Afrique du Nord et de l'Ouest, afin de donner aux opérations dans l'Atlantique l'ampleur souhaitée.

4) Intensifier la guerre des croiseurs. C'est l'idée motrice de Raeder.

La question qui se pose alors: où les chefs de la marine allemande doivent-ils porter le poids de leurs armes, en concentrant toutes leurs forces? Afin d'obtenir l'effet escompté le plus rapidement possible, avec les meilleures chances de succès?

Le tonnage anglais se concentrait dans l'Atlantique. C'est par l'Atlantique et la Méditerranée que passent les axes vitaux qui relient la Grande-Bretagne à ses sources d'énergie venues d'outre-mer. Fragmenter ces axes était la mission des sous-marins. Les chefs de la marine considéraient donc que la guerre anti-tonnage dans l'Atlantique était prioritaire. Mais le commandant en chef de la Marine tenait à la guerre traditionnelle des croiseurs, qu'il voulait mener en deux endroits: dans l'Atlantique et en Méditerranée (sur ce théâtre en guise de diversion). Mais comme les plus lourdes unités allemandes se trouvent dans l'Atlantique, elles ne peuvent être déployées en Méditerranée. Convaincu du grand impact que pourrait avoir sa stratégie de diversion  —laquelle ne pouvait que s'amplifier dès le début de la guerre du Pacifique et prendre des proportions globales—  Raeder envoya ses sous-marins en Méditerranée. Il s'est heurté à une critique sévère des sous-mariniers, hostiles à cette stratégie de diversion. Pour Dönitz, la Méditerranée n'avait qu'une importance secondaire. Selon Dönitz, toutes les mesures qui visent à diviser et disperser les forces ennemies sont erronées, car elles ne peuvent que contribuer à prélever des forces allemandes hors de la zone principale des combats, qui est l'Atlantique. Mais, dans l'optique de Raeder, au contraire, la Méditerranée ne revêt pas une importance stratégique qui ne vaudrait que pour la diversion qu'il entend planifier. En lançant une offensive contre Suez, il veut trancher l'“artère principale” de l'organisme qu'est l'Empire britannique et porter ainsi le coup fatal à l'Angleterre. Après la prise de Suez, les résidus de la domination britannique en Méditerranée pourraient facilement être éliminés avec l'aide de la flotte française. Sans nul doute, Raeder exagérait l'importance de la Méditerranée pour les Britanniques mais n'avait pas tort de valoriser l'importance des côtes du nord et de l'ouest de l'Afrique et comptait sur la coopération française dans les opérations navales dans l'Atlantique.

L'Atlantique, l'Afrique du Nord-Ouest et Suez: tels sont les objectifs principaux de la stratégie de la marine allemande.

Y avait-il communauté d'intérêt entre la France et l'Allemagne?

Au fur et à mesure que les officiers supérieurs de la marine allemande élaborent et peaufinent leur stratégie, la France vaincue acquiert de plus en plus de poids à leurs yeux. Le choc de Mers-el-Kébir et de Dakar du côté français, l'impossibilité de mener à bien l'Opération Seelöwe  (le débarquement en Angleterre) du côté allemand, contribuent à un rapprochement franco-allemand, qui devrait se concrétiser par un effort de guerre commun. Et comme les Italiens et les Espagnols n'ont pas réussi à chasser les Britanniques de la Méditerranée, contrairement à ce qu'avaient espéré les Allemands, les chefs de la marine allemande en viennent à estimer que la participation française à la guerre navale contre l'Angleterre est indispensable. Pour que les Français deviennent les adversaires de l'Angleterre, les Allemands doivent leur donner des garanties politiques, qui valent le prix d'une entrée en guerre de Vichy à leurs côtés. Raeder envisage une alliance en bonne et due forme avec les Français et souhaite que Berlin élargisse l'axe tripartite Rome-Berlin-Tokyo à Vichy. L'inclusion de la France dans le nouvel ordre européen a été l'une des exigences de base des chefs de la marine allemande.

Ceux-ci ont trouvé des appuis dans l'état-major de la Wehrmacht. Le Général-Major Warlimont, Chef du L/WFSt, après une visite à Paris, s'est fait l'avocat du rapprochement franco-allemand. L'Afrique du Nord-Ouest et de l'Ouest constitue un flanc stratégique indispensable contre l'Angleterre ainsi qu'un espace économique soustrait au blocus britannique. Le conseiller militaire de Hitler, le Chef de l'état-major général de la Wehrmacht, le Colonel-Général Jodl, partage ce point de vue. La France pourrait aider le IIIième Reich et lui donner la victoire finale, si elle met à la disposition des Allemands ses bases africaines. Si l'Allemagne perd les bases nord-africaines possédées par la France, expliquent les chefs de la marine, il ne sera plus possible de battre l'Angleterre dans la guerre commerciale qui se déroule dans l'Atlantique. Cette formulation est évidemment osée. Mais il n'en demeure pas moins vrai que la masse territoriale nord-africaine et ouest-africaine constitue une barrière importante contre toutes les attaques anglo-saxonnes contre le Sud de l'Europe. En outre, ce territoire peut servir de base pour des attaques de l'aviation allemande contre les Etats-Unis.

Kriegsmarine-Cruiser-KMS-Prinz-Eugen-14.jpgUne alliance franco-allemande constituerait donc un atout complémentaire, qui permettrait au Reich de faire son jeu sur le continent européen. Mais Hitler s'imaginait toujours qu'il allait pouvoir faire la paix avec l'Angleterre. Il laisse le sort de la France dans l'indécision. Après Mers-el-Kébir, l'Allemagne assouplit encore ses mesures de démobilisation, politique qui ne correspond pas du tout aux souhaits de la Marine et de l'état-major de la Wehrmacht, qui, eux, envisageaient de consolider militairement une communauté d'intérêt franco-allemande.

La campagne de Russie

Mais un projet militaire va s'avérer plus déterminant que tous les problèmes soulevés par la stratégie nouvelle, proposée par la marine allemande, plus déterminant aussi que tous les problèmes non résolus et toutes les occasions perdues: celui de lancer une campagne contre la Russie. Ce projet freine définitivement le développement de la stratégie maritime suggéré par Carls. La stratégie maritime dépend désormais de la guerre sur terre.

Pour les chefs de l'armée de terre, la capitulation de la France et l'impossibilité pour la Grande-Bretagne d'entreprendre des opérations sur le continent ont rendu impossible la guerre sur deux fronts. Du moins dans un premier temps. Mais l'élimination de la France n'a pas donné à la Kriegsmarine la liberté qu'elle souhaitait avoir sur ses arrières. Les forces opérationnelles de la marine allemande étant faibles, ses chefs ne pouvaient considérer l'Opération Barbarossa que comme un fardaud supplémentaire. Mais, mise à part cette objection, la marine n'avait nulle crainte quant au déroulement de la guerre à l'Est: “Les forces militaires qu'aligne l'armée russe doivent être considérées comme très inférieures à nos troupes expérimentées. L'occupation d'un territoire s'étendant du Lac Ladoga à la Crimée en passant par Smolensk est militairement réalisable, de façon à ce qu'en détenant ce territoire, il nous soit possible de dicter les conditions de la paix” (2). Les chefs de la marine partagent la conviction des dirigeants politiques de l'Allemagne: le Reich gagnera la guerre à l'Est sans difficulté. Mais doutent que, par cette victoire, la guerre contre l'Angleterre sera plus rapidement terminée. La marine croit en effet que l'impact d'une victoire allemande à l'Est sera mininal sur le moral de l'ennemi occidental. Les victoires allemandes sur le continent ne contraindront nullement la Grande-Bretagne à composer. Au contraire, l'effort exigé par la campagne de Russie sera tel qu'il favorisera une victoire anglaise dans l'Atlantique et rendra aux Britanniques toutes les positions perdues. Pire: si la Russie ne s'effondre pas immédiatement, l'Allemagne court un danger très grave, dans le sens où les territoires non neutralisés de l'URSS deviendront ipso facto des tremplins pour une attaque américaine. Dans l'esprit des chefs de la marine, le combat principal, c'est-à-dire la guerre contre l'Angleterre, pourrait bien être perdu, même si l'Opération Barbarossa débouche sur une victoire.

La guerre à l'Est soulage l'Angleterre

Les chefs de la marine jugent la sécurité globale de l'Allemagne, en incluant le facteur “Russie” dans des catégories qui justifient l'attaque contre l'URSS: la sécurité de l'Allemagne exige la consolidation, par des moyens militaires, d'un espace qui soit à l'abri de toute attaque extérieure, l'élimination, par des moyens politiques, des petits Etats peu fiables, et, enfin, la construction, par des moyens économiques, d'une autarcie continentale. Les chefs de la marine, de surcroît, acceptent les projets de colonisation et les dimensions idéologiques inhérents à la guerre contre l'URSS. Sur un plan politique plus général et animés par la conviction que les forces armées soviétiques de terre et de mer constituent un danger pour le Reich, les chefs de la marine s'alignent exactement sur les thèses du gouvernement allemand. Si les objectifs de construire un espace intangible ou une autarcie économique justifiaient dans une certaine mesure la guerre à l'Est, aux yeux du gouvernement, la marine, elle, tire des conclusions opposées. Dans son évaluation de la situation, trois éléments sont importants: 1) la conviction que l'Allemagne aurait obtenu tout ce qu'elle voulait de la Russie, même sans lui faire la guerre; 2) le problème anglais restait sans solution; 3) un éventail de réflexions sur l'industrie militaire.

Pour la marine, l'Angleterre est l'ennemi n°1

Du point de vue de la marine, le gouvernement du Reich surestime la “masse soviétique” et poursuit, vis-à-vis de Moscou, une politique de concessions inutile. Le gouvernement allemand devrait au contraire montrer à l'Union Soviétique, fragile parce que tout un éventail de crises la guette, la puissance politique et militaire du Reich. Les Russes, pour l'état-major de la marine, sont prêts à négocier, ce qui rend toute guerre inutile. Moscou, pensent les officiers supérieurs de la marine allemande, ira au devant de tous les souhaits de l'Allemagne.

La mission première de la marine de guerre est donc d'affronter directement l'Angleterre. Si celle-ci est abattue, le Reich obtiendra presque automatiquement la victoire. Toute campagne militaire à l'Est influencerait négativement la situation stratégique de l'Allemagne sur mer et jouerait en faveur de l'Angleterre, qui serait de fait soulagée. Le Korvettenkapitän Junge, chef du département “marine” auprès de l'état-major général de la Wehrmacht, tire les mêmes conclusions: l'Allemagne ne doit pas entrer en guerre contre la Russie, avant que l'Angleterre ne soit mise hors course.

La campagne à l'Est a-t-elle été une alternative?

Fricke (Chef de la 1ière Skl.) constatait que les Anglo-Saxons, affaiblis après avoir perdu leur allié continental potentiel, la Russie, ne s'en prendraient plus à la grande puissance continentale que serait devenue l'Allemagne. Mais cette constatation n'a en rien influencé l'élaboration de la stratégie navale allemande, favorable, en gros, à la campagne de Russie. La marine a été incapable de s'opposer avec succès à l'option anti-soviétique du gouvernement allemand. Mais ni Fricke ni les officiers supérieurs de la Kriegsmarine n'ont pu voir dans le projet “Barbarossa” une entreprise qui aurait contribué à abattre l'Angleterre (pour Hitler, ce n'était d'ailleurs pas l'objectif). Les gains territoriaux à l'Est ne compenseront nullement le tonnage que les Allemands, occupés sur le continent, ne pourront couler dans l'Atlantique, théâtre où se décide réellement le sort de la guerre. Les chefs de la marine ne voient ni la nécessité ni l'utilité d'une opération à l'Est, qui éloignerait les Allemands de l'Atlantique. Le Reich, pour les marins, ne perdra ni ne gagnera la guerre en Russie. Le destin de l'Allemagne se joue uniquement dans l'Atlantique.

Si l'option Barbarossa se concrétise, l'industrie de l'armement consacrera tous ses efforts à l'armée de terre et à l'aviation. Si les livraisons russes cessent d'arriver en Allemagne à cause de la guerre germano-soviétique, la marine en essuiera les conséquences et ne pourra plus espérer aucune priorité dans l'octroi de matières premières et de carburants. La guerre à l'Est ôtera à la marine son principal fournisseur de matières premières. Ses chefs ne pensent pas, en conséquence, que les opérations en Russie apporteront une solution au problème des matières premières, domaine où l'Allemagne est dans une situation précaire. Les livraisons de pétrole pour l'Opération Seelöwe ne seront pas nécessairement assurées, une fois l'Opération Barbarossa terminée. En conséquence, la marine estime que la campagne de Russie n'est qu'un élargissement compromettant de la guerre, pire, qu'elle l'étend dans une mauvaise direction et au moment le plus inapproprié.

Appréciation

Avec la victoire sur la France en juin 1940, la marine allemande peut enfin mettre au point sa “grande stratégie”. Mais cette stratégie prend fin avec le débarquement allié en Afrique du Nord de novembre 1942. Pour Raeder, la “grande stratégie navale” est une alternative à l'Opération Seelöwe et, plus tard, à l'Opération Barbarossa, dont il n'a jamais été convaincu de l'utilité. La stratégie maritime n'est pas une stratégie partielle ou complémentaire, qui se déploierait parallèlement à la guerre sur terre. Elle est une stratégie globale qui affecte également les opérations sur le continent. Aujourd'hui, il n'est pas possible de dire comment elle aurait influencé le cours de la guerre, si elle avait été appliquée sans restriction.

Dans les mois qui se sont écoulés entre la fin de la campagne de France et le début de la campagne de Russie, le III° Reich a pu choisir entre plusieurs options: 1) Il se tient coi, renonce à entamer toute opération et organise la défensive; 2) Il poursuit la guerre à l'Ouest jusqu'à la capitulation anglaise et impose sa paix; 3) Il se tourne vers l'Est, soumet la Russie et se retourne vers l'Ouest avec l'atout complémentaire: un continent uni par la force et inexpugnable. Aucune de ces options n'avait la chance de réussir à 100%. Toutes pouvaient réussir ou échouer. Evidemment, la stratégie consistant à demeurer coi ou la stratégie navale préconisée par les chefs de la marine, qui n'a pas été appliquée, ont le beau rôle dans les querelles entre historiens: personne ne peut dire avec certitude qu'elles étaient erronées, puisqu'elles ne se sont pas traduites dans le concret. Quant à la “solution continentale”, recherchée par Barbarossa, elle a échoué. Mais elle aurait pu réussir.

Notes:

(1) M. SALEWSKI, Die deutsche Seekriegsleitung 1935-1945, 3 tomes, tomes 1 & 2, Francfort s. M., 1970-75. Tome 3: Denkschriften und Lagebetrachtungen 1938-1944. Pour notre propos: Tome 3, pp. 108 et suivantes.

(2) 1/Skl, “Betrachtungen über Russland”, 28 juillet 1940 (Salewski, tome 3, pages 141 et suivantes).  

jeudi, 24 octobre 2013

Le temps des guerres non conventionnelles

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Le temps des guerres non conventionnelles

par Georges FELTIN-TRACOL

Les guerres de la Révolution et de l’Empire de la fin du XVIIIe siècle et du début du XIXe achèvent la « guerre en dentelles » et bouleverse la réflexion stratégique européenne. De ces grandes transformations sort un abondant corpus théorique avec les écrits de Clausewitz et de Jomini. Les états-majors tant d’Europe qu’Amérique (pensons aux généraux de la Guerre U.S. de Sécession ou aux officiers chiliens de la Guerre du Pacifique contre le Pérou et la Bolivie) y puisent les moyens de remporter une victoire éclatante.
 
La guerre s’organise de manière dite conventionnelle avec l’affrontement de deux armées sans atteindre les non-combattants. Or, dès le commencement du XXe siècle, la nature du conflit évolue du fait de l’implication croissante des populations civiles et du surgissement de la « guerre totale », mobilisatrice de tout le potentiel économique, financier, humain des États belligérants. Les deux guerres mondiales confirment la montée technique aux extrêmes. Après 1945, la menace de l’arme nucléaire fige les protagonistes dans un équilibre de la terreur qui favorise des conflits locaux de basse ou de moyenne intensité (Corée, Viêtnam, Afghanistan). En dépit de la multiplication des théâtres d’opération, les militaires des deux blocs formulent toujours leurs prévisions – offensives et défensives – dans un schéma conventionnel de chocs entre armées utilisant, le cas échéant, des armements nucléaires tactiques, chimiques et/ou bactériologiques.
 
La fin de la « Guerre froide » remet en cause toutes ces considérations et l’Occident, après avoir parié (et perdu) sur les « dividendes de la paix », se lance dans des opérations extérieures pour lesquelles les critères habituels de la guerre conventionnelle deviennent au mieux inopérants, au pis facteurs certains de défaite.
 
Installées en Lorraine, les éditions Le Polémarque publient deux essais qui remettent en cause le conservatisme des stratèges occidentaux. Le lieutenant français Pierre-Marie Léoutre explique Comment l’Occident pourrait gagner ses guerres. Quant à l’universitaire suisse Bernard Wicht, il s’interroge sur l’avenir incertain du continent européen avec le risque de déboucher sur Une nouvelle Guerre de Trente Ans ?.
 
Malgré des centres d’intérêt différents, ces deux ouvrages présentent d’indéniables convergences, à savoir la mutation en cours de l’art de la guerre. Certes, le livre de Pierre-Marie Léoutre est plus concret, plus tactique, plus optimiste aussi alors que l’essai de Bernard Wicht, plus pessimiste, se veut d’abord une réflexion philosophique.

Penser les guerres asymétriques
 
Pierre-Marie Léoutre entame sa réflexion à partir du bilan désastreux des interventions occidentales en Afghanistan et en Irak. Il constate que « l’arme nucléaire, si elle est efficace dans son rôle de dissuasion contre les États, apparaît inutile contre des organisations terroristes ou des mouvements de guérilla sans réelle assise territoriale (p. 11) ». La forme conventionnelle de la guerre restée au face-à-face de deux armées a été d’urgence remplacée dans les montagnes du Pamir et de l’Hindou Kouch et en Mésopotamie par de nouveaux types de conflits appelés « asymétriques » qui « mettent en exergue une des difficultés du mode de pensée occidental : il n’est plus possible dans certains cas de l’emporter par un choc décisif, car l’adversaire l’évite (p. 17) ». Ce nouveau genre de guerre rend les armées occidentales très fragiles d’autant qu’« un autre élément particulièrement visible du modèle occidental de la guerre est la recherche de la supériorité technologique (p. 23) », ce que les guérillas n’ont pas. En outre, les sévères restrictions budgétaires font que les armées occidentales ne disposent plus d’unités complètement autonomes, ce qui accroît leur handicap.
 
Non préparées aux terrains irakien et afghan, les forces occidentales ne pourraient qu’échouer, elles qui « s’entraînèrent […] pendant cinquante ans à une guerre qui n’eut pas lieu et ne risquait guère d’advenir… et elles allèrent, hors de cette Europe qui monopolisait toutes les attentions mais était totalement gelée, de défaite en défaite car “ non adaptées ” aux guerres non conventionnelles qu’elles menaient sur le reste de la planète (p. 42) ». Préfigurations de l’Afghanistan et de l’Irak, ces défaites cinglantes s’appellent l’Indochine, l’Algérie, le Viêtnam. L’auteur aurait pu y ajouter les guerres africaines du Portugal. loin de réadapter le format des armées au lendemain de la fin de la Guerre froide, les responsables militaires ont gardé de vieux schémas en accordant une plus grande attention aux « Forces Spéciales (F.S.) [qui] sont devenues une véritable obsession des états-majors occidentaux (p. 29) ». Mais leur emploi dans une guerre asymétrique se doit d’être ponctuel. Les F.S. ne peuvent pallier les déficiences matérielles et morales des autres troupes. Elles n’arriveront jamais à vaincre les partisans de la « petite guerre », car leur logique ne correspond pas à celle de l’ennemi. Pour Pierre-Marie Léoutre, « l’objectif d’une guérilla au XXIe siècle n’est […] plus de libérer le pays uniquement par les armes. L’objectif actuel est de parvenir à l’abdication du pouvoir loyaliste (p. 49) ». Malgré leur professionnalisme, leur vaillance et leur abnégation, les unités spéciales n’arrêteront jamais une guérilla qui se fond dans la population. Cette dernière est son « biotope » qui lui sert à la fois de refuge, de centre de recrutement, de milieu de renseignement et de source de financement. L’appui qu’elle lui procure peut être contraint par la terreur ou volontaire grâce à une « contagion idéologique », fruit d’un long travail d’encadrement psychologique de masse. Toute guérilla véritable s’organise autour de structures militaires souples et une O.P.A. (organisation politico-administrative) en prise sur la société. Dans le monde musulman, « l’O.P.A. a un avatar : il s’agit des personnes qui soutiennent activement la rébellion en lui fournissant des renseignements, des caches, des notables qui poussent la population civile à aider les djihadistes, à les cacher, de djihadistes qui habitent tel ou tel village et servent de contact pour les bandes en maraude, les informant, les guidant, leur indiquant les représailles à effectuer pour s’assurer la collaboration, bien souvent forcée, des habitants de la zone (p. 57) ».
 
Paul-Marie Léoutre rapporte l’embarras des militaires occidentaux face à des situations singulières. Pourtant, ce ne devrait pas être une nouveauté pour eux. Leurs prédécesseurs avaient trouvé une réponse appropriée à cet enjeu : « La guerre révolutionnaire encore appelée guerre subversive ou guerre psychologique (p. 11). » Comment l’Occident pourrait gagner ses guerres évoque explicitement des praticiens, souvent français, de cette forme spécifique de lutte : le général Jacques Hogard (1918 – 1999) et les colonels Charles Lacheroy (1906 – 2005) et Roger Trinquier (1908 – 1986). On ignore en effet que « la France dispose […] si ce n’est d’un savoir-faire, du moins d’une expérience particulièrement intéressante de la guerre révolutionnaire et de l’arme psychologique. Elle doit pouvoir s’appuyer sur celle-ci pour relever les nouveaux défis du monde actuel (pp. 43 – 44) ».
 
Il ne s’agit surtout pas de répéter la guerre d’Algérie, mais de s’en inspirer. La guerre psychologique implique une grande flexibilité au sein de l’armée. Or, depuis quelques années, elle s’ouvre au monde marchand et en adopte les règles. L’auteur observe qu’« en voulant faire du combattant un professionnel avant tout, en livrant le monde militaire aux méthodes entrepreneuriales, on a, finalement, ouvert le marché (p. 77) », d’où le rôle croissant des S.M.P. (sociétés militaires privées) qui méconnaissent le plus souvent le b.a.-ba de la contre-guérilla…
 
L’Occident a beau mené, avec l’intégration de ses systèmes d’armes, d’information et de communication, une « guerre en réseau », il se révèle incapable de gagner une guerre subversive. S’imposerait une remise en cause des décisions prises. Déjà, partant des cas afghan et irakien et de la valorisation des unités spéciales qui « ont un entraînement plus poussé, jamais sacrifié à des tâches indues, et plus spécifique que les autres unités des forces armées occidentales. Leurs crédits sont bien plus élevés. Les F.S. disposent donc d’une polyvalence extrême et d’une importante capacité au combat interarmes et interarmées. À l’opposé, les forces “ régulières ” n’ont plus l’habitude de travailler avec toute la gamme des outils militaires (p. 30) », Pierre-Marie Léoutre estime que « la guerre subversive oblige l’armée à s’adapter en modifiant profondément sa structure interne (p. 60) ».

Les nouvelles formes de guérilla
 
Il suggère par conséquent la constitution d’une armée à deux niveaux opérationnels. D’une part, des unités mobiles, si possible héliportées, qui pourchassent les guérilleros. De l’autre, des unités territoriales ou de secteur qui amalgament Occidentaux et autochtones et dont le rôle n’est pas que militaire : il est aussi caritatif, sanitaire et éducatif. Les liens noués avec la population par ces soldats parlant la langue locale et fins connaisseurs des coutumes favorisent le contact, puis la récolte de renseignements et, au final, la réussite de la contre-guérilla. Cette mise en œuvre exige aussi de rendre les frontières imperméables à la logistique de la guérilla afin d’étouffer les maquis. Si « dans la lutte contre-insurrectionnelle, le renseignement joue un rôle crucial (p. 67) », l’auteur jongle avec les échelles et remarque que « la société du XXe siècle est celle de l’information et l’information est une des armes de la guerre psychologique (p. 86) ». C’est un point déterminant de sa réflexion. « La redécouverte de la doctrine de la guerre révolutionnaire doit également permettre de se réapproprier l’arme psychologique : elle est nécessaire à toute victoire puisqu’elle conditionne l’efficacité de toute opération militaire au niveau des esprits (p. 99). »
 
Pierre-Marie Léoutre évoque à cette occasion la nécessité de maîtriser l’opinion publique et mentionne la portée subversive des célèbres « révolutions de couleur » préparées via les médiats de masse par quelques officines perturbatrices d’outre-Atlantique (Open Society Institute de George Soros, International Republican Institute ou National Endowment for Democracy, U.S.Aid aussi, etc.). À côté de la terre, de la mer, de l’air, de l’espace et du cyberespace, un sixième champ théorique d’affrontement s’offre aux stratèges militaires : le contrôle de la population et de ses représentations. Citant Gustave Le Bon, Serge Tchakhotine ou Jacques Ellul, il pense que la nouvelle guerre psychologique est tout autant contre-insurrectionnelle que médiatique. Elle suppose toutefois au préalable que l’État qui l’utilise ait la volonté de réaliser ses objectifs. Mais la structure stato-nationale est-elle toujours pertinente ?
 
Bernard Wicht pose cette question implicite dans son bref essai. Il constate d’abord « la faillite au XXe siècle du système interétatique européen, source jusque-là de compétition et d’émulation à la base du dynamisme de l’Occident (p. 13) ». Ce nouveau contexte peut susciter des troubles internes, voire des guerres. Mais, rassure-t-il, « une Troisième Guerre mondiale semble peu probable, les États européens n’en ayant plus les capacités ni économiques ni militaires. Pour faire court, les armées d’Europe occidentale ne sont plus aujourd’hui que des échantillonnages d’unités relativement disparates, essentiellement orientées vers les missions de maintien de la paix à l’extérieur et manquant généralement de la chaîne logistique nécessaire à des opérations de longue durée (p. 9) ». Cela ne l’empêche pas d’examiner la macro-histoire et de remarquer que « l’hypothèse d’une guerre en Europe a été abandonnée avec la fin de la Guerre froide (p. 7) ». Néanmoins, « nos sociétés sont devenues très complexes, et que les sociétés complexes sont fragiles, que les sociétés fragiles sont instables et que les sociétés instables sont imprévisibles ! (pp. 21 – 22) ». Il craint par conséquent que le naufrage de la zone euro engendre des désordres dans toute l’Europe qui plongerait dès lors dans un long chaos comme le fut pour la Mitteleuropa et le monde germanique la Guerre de Trente Ans (1618 – 1648).

L’Europe en phase instable
 
mad-max.jpgLe raisonnement de Bernard Wicht repose sur une probabilité économique : la fin de la monnaie unique. « La crise de la zone euro est sans doute le chant du cygne de la Modernité occidentale, l’U.E. représentant l’ultime avatar de la construction étatique moderne avec sa bureaucratie supra-étatique et son centralisme à l’échelle continentale. Et dans l’immédiat, la crise devrait encore renforcer ce centralisme bureaucratique; la Commission s’est fait donner le mandat (certes temporairement limité) d’un contrôle économique des États membres. Ceci signifie un renforcement considérable du pouvoir supra-étatique de l’U.E. Mais paradoxalement, ce renforcement représente probablement l’épilogue de l’histoire de l’État moderne, le dernier acte d’une pièce qui s’est jouée pendant environ 500 ans, le dernier coup d’éclat d’un institution sur le déclin (p. 27). » L’affirmation de ce despotisme technocratique provoquerait certainement de vives résistances nationales, populaires et sociales, aboutissant par des tentatives armées de sécession. Les gouvernants ont dès à présent envisagé ce scénario en prévoyant dans le traité de Lisbonne une Eurogendfor (European Gendarmerie Force), une police militaire européenne composée de détachements français, italiens, néerlandais, portugais, espagnols et roumains, destinée à intervenir dans un État-membre en cas de grandes instabilités intérieures. On peut aussi imaginer que le maintien de l’« ordre » marchand s’exercerait aussi grâce aux S.M.P. On assiste au grand retour sur le vieux continent des condottiere sous la forme de contractors. Bernard Wicht souligne que la place de Londres, haut-lieu thalassocratique, héberge la plupart de ces entreprises régulièrement payées en prestations versées par d’autres compagnies appartenant à la même holding
 
La séparation armée de pans entiers de l’Europe déboucheraient-elles sur une guerre généralisée et le renversement des États inaptes à garantir la sûreté des populations civiles ? L’auteur le pense. Assez optimiste sur ce point, il espère qu’« une nouvelle Guerre de Trente Ans jouerait le rôle de sas de décompression d’une Europe post-moderne, bureaucratique et supra-étatique vers un nouveau Moyen Âge global […] (p. 31). » Afin d’appuyer sa thèse, il fait référence à une histoire peu connue en France liée à ce long conflit, la « Guerre de Dix Ans (1634 – 1644) » qui ravagea la Franche-Comté alors possession des Habsbourg d’Espagne.

Vers l’auto-gestion armée ?
 
La présence de « grandes compagnies de routiers » brigands, les raids incessants et l’incapacité des institutions franc-comtoises à protéger les civils obligèrent le peuple à s’armer, à se donner des chefs et à combattre ! « Deux priorités semblent cependant guider l’ensemble de ces mesures : protéger la population des pillages et des exactions, harceler l’adversaire à chaque fois que possible (p. 44). » Ce conflit local au sein de la grande guerre européenne ne présente aucune facture conventionnelle, ni même la marque d’une quelconque guerre asymétrique. « Il s’agit ainsi d’une guerre sans front, se déroulant sur l’ensemble du pays en même temps (forçant le défenseur à constituer des réduits et des sanctuaires), mêlant étroitement jusqu’à la confusion des genres combattants et population (les chefs de bande devenant avec le temps des chefs politiques), mettant en œuvre à la fois les procédés de la guerre classique (sièges, batailles), la terreur, le massacre de civils, la destruction des récoltes, le tout conjugué à ces armes de destruction massive que sont alors la peste et la famine (p. 36). » Cette configuration propre aux guerres civiles a frappé le Liban entre 1975 et 1990 et frappe, à l’heure actuelle, la Syrie où des territoires en guerre cohabitent avec des havres pacifiés ou en paix.
 
En citoyen helvète, Bernard Wicht ne croit pas en l’avenir de l’armée professionnelle, ni en sa pérennité, y compris si disparaissaient les autorités officielles. Il souscrit en revanche au citoyen en arme qui défend son espace de vie à côté de ses voisins. Il juge surtout indispensable de « réussir à réduire la complexité de nos formes d’organisation, parvenir à se recomposer en fonction des besoins de l’autodéfense et de la survie, se réarmer pour finalement se libérer (p. 47) ». désireux de développer cette nouvelle considération, Bernard Wicht évoque la T.A.Z. (zone autonome temporaire) théorisée par l’anarchiste Hakim Bey. Or la T.A.Z. correspond parfaitement aux modalités du monde ultra-moderne, à sa fluidité et à sa fugacité. On ne construit pas du solide sur des actions éphémères. Il faut rapprocher les intentions de Bernard Wicht de la notion de B.A.D. (base autonome durable) qui a l’avantage de cumuler une « conception de la liberté (de contournement plutôt que de confrontation), d’un tel état d’esprit (le salut vient des marges), de telles attitudes (agir dans la marge d’erreur du système) et associations d’idées (créer la culture, laisser faire le travail) que pourrait naître l’élément dynamique de la nouvelle donne stratégique, c’est-à-dire une volonté de découvrir de “ nouveaux territoires ”, d’agir par soi-même hors des appareils complexes et des modèles dominants (pp. 53 – 54) ».
 
Si Comment l’Occident pourrait gagner ses guerres contredit Une nouvelle Guerre de Trente Ans ?, ces deux livres n’en sont pas moins complémentaires. Le second imagine une situation désordonnée complexe surtout si les conseils du premier n’ont pas été assimilés, ce qui pourrait entraîner la déflagration des régimes en place. De la sophistication technologique, l’art de la guerre deviendra-t-il bientôt rudimentaire, psychologique et populaire ? On peut soit le redouter, soit l’espérer…

Georges Feltin-Tracol
 
• Pierre-Marie Léoutre, Comment l’Occident pourrait gagner ses guerres, Le Polémarque, Nancy, 2013, 123 p., 10 €.
• Bernard Wicht, Une nouvelle Guerre de Trente Ans ? Réflexions et hypothèse sur la crise actuelle, Le Polémarque, Nancy, 2013, 57 p., 8 €.

 


 

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mardi, 22 octobre 2013

Vers un chasseur russo-brésilien?

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Résilience de la NSA ...

Vers un chasseur russo-brésilien?

Ex: http://www.dedefensa.org

Ce qui paraît à la fois logique et inévitable depuis le début des sidérantes aventures de la NSA au Brésil, révélées par Greenwald & Cie, se concrétise. Les premiers jalons sont posés pour une éventuelle coopération entre le Brésil et la Russie pour un avion de combat, disons russo-brésilien, qui pourrait être considéré à partir de l’hypothèse d’un développement du modèle russe de cinquième génération (le Soukhoi T-50, programme russe avec déjà une coopération indienne), ou d’une extrapolation de ce programme. La chose (l’exploration d’une coopération) a été dévoilée après une rencontre entre le ministre russe de la défense et le ministre brésilien de la défense. Le ministre russe a fait une visite fructueuse en Amérique du Sud, continent d’ores et déjà antiaméricaniste où la Russie voudrait renforcer ses ventes stratégiques d’armement. De façon plus concrète pour un autre domaine, la rencontre au Brésil devrait déboucher sur la finalisation, début 2014, d’un contrat entre le Brésil et la Russie pour un ensemble de missiles sol-air pour une valeur annoncée de un $milliard, avec transfert de technologies.

Pour ce qui concerne l’avion de combat, une dépêche AFP du 16 octobre 2013 dit ceci, en y ajoutant un cas hors-domaine où un geste des Russes pourrait faire avancer le dossier : «Brazil said Wednesday it hopes to develop state-of-the-art combat aircraft with Russia, and purchase surface-to-air missile batteries from Moscow. [...] “We are very interested in discussing projects relating to fifth generation (combat) aircraft with new partners,” Defense Minister Celso Amorim told reporters after talks here with his Russian counterpart Sergei Shoigu. “The issue was mentioned as a basis for discussion, but it is for the medium term.” [...]

» [Shoigu] stop in Brazil also coincides with Rousseff pressing for the release of a Brazilian biologist detained in Russia along with 29 other Greenpeace activists after protesting Arctic oil drilling. Ana Paula Maciel was one of 30 activists from 18 countries arrested by Russia in late September and charged with piracy after authorities said they had found “narcotic substances” on the Dutch-flagged Arctic Sunrise, used in their protest.»

La même dépêche mentionne évidemment le contrat actuellement en cours, pour 36 avions de combat pour le Brésil, dits de “quatrième génération”. (Ce concept de “générations” est douteux dans sa signification opérationnelle. Son développement argumentaire constitue plus une manœuvre de relations publiques des USA d’il y a quelques années, pour verrouiller le JSF dans la présentation de son exceptionnalité supposée. L’exceptionnalité du JSF est d’ores et déjà admise, dans le domaine de la catastrophe technologique proche de l’impasse bien entendu, mais le mythe de la “génération” comme facteur rupturiel de progrès survit, de la quatrième des chasseurs actuels à la cinquième des chasseurs nouveaux “du futur”. L’argument de RP s’insère du fait de la catastrophe-JSF dans l’image d’un mythe de plus en plus érodé et de plus en plus contestable, cela dans un contexte de mise en cause générale de la fiabilité fondamentale de l’avancement technologique à ce stade, voire d'une impasse pure et simple du technologisme.)

Le contrat 36 avions/4ème génération a connu bien des vicissitudes. Le Rafale était en 2009 un énorme favori, quasiment choisi selon une cohérence française stratégique prometteuse où même la Russie était incluse (voir le 4 septembre 2009) ; il devint bientôt un favori perdu et sans doute sans plus aucune chance à cause de l’effondrement du sens stratégique indépendant de la France (voir le 24 mai 2011). Le F-18 lui a succédé comme favori, selon la logique habituelle des pressions US sur une nouvelle présidente (Rousseff), soucieuse d’améliorer ses relations avec les USA. Tout cela été pulvérisé par la crise Snowden/NSA, touchant d’abord directement le F-18 (voir le 13 août 2013), puis, d’une façon radicale, les relations du Brésil avec les USA (voir le 25 septembre 2013).

... Ainsi tiendra-t-on les assurances du ministre brésilien de la défense sur la poursuite de ce contrat plutôt comme un vœu pieux de l’establishments militaire brésilien que comme une prévision assurée. D’ailleurs, la partie américaniste, comme indiqué également ci-dessous, ne prend plus de gants pour signifier sa position désespérée.

«Amorim said he hoped the fourth-generation aircraft bidding process would be “finalized soon.” But Boeing's bid to win the contract appears to have been damaged by reports of extensive US spying on Brazil. The allegations, based on documents leaked by fugitive US intelligence analyst Edward Snowden, led President Dilma Rousseff to cancel a state visit to Washington, putting Boeing's bid on hold, Boeing Brazil chief Donna Hrinak said last week. “The postponement of the visit means that any progress about the issue (aircraft contract) was also postponed,” Hrinak, a former US ambassador to Brazil, said during a seminar on the Brazilian economy.»

En effet, la perspective de ce contrat 36 avions de combat/quatrième génération nous paraît extrêmement réduite. Elle est aujourd’hui réduite de facto au seul Gripen si l’on tient compte de l’effondrement successif probable des offres Rafale et F-18. Un tel achat d’un avion suédois tenu par des contraintes US draconiennes interdisant tout transfert de technologies sur près de 50% de l’avion (moteurs et électronique sont US) n’a plus guère de sens politique ni industriel dans le contexte actuel, alors que le Brésil est dans une position socio-économique tendue, avec une agitation de rue qui rend impopulaire toute dépense publique qui n’est pas vitale. Bien entendu, le climat politique général (la Suède est dans le bloc BAO et sous obédience US affirmée) est un facteur très important allant contre ce choix. Bref, c’est tout le marché des 36 avions de combat/quatrième génération, entièrement appuyé sur des offres du bloc BAO alors qu’il était au départ diversifié par la perception d’une stratégie française indépendante, qui est menacé d'effondrement par la politique du bloc BAO.

La démarche russe a ainsi tout son sens et sa logique, et la probabilité est que le contexte politique va pousser au développement de l’examen du projet envisagé, sinon à son accélération, le moyen terme pouvant notablement se raccourcir. Le vrai problème est d’ordre de la politique industrielle. Le programme russe de cinquième génération, le T-50, est largement orienté vers une coopération avec l’Inde, avec les transferts de technologie qui vont avec, et déjà largement avancé. Le Brésil pourrait-il s’y insérer ? Pourrait-on envisager une version spéciale de coopération pour le Brésil, ou une coopération à deux passant à trois ? La politique dit “oui”, d’autant qu’il s’agit de trois pays-BRICS et que la Russie veut donner une dimension stratégique au BRICS. Les domaines industriel et technologique, avec une bureaucratisation touchant parfois à la paralysie (surtout dans le cas de l’Inde) suggèrent bien plus de réserves alors qu’un tel domaine de la coopération à ce niveau nécessite une très grande souplesse. Plus encore, les problèmes fondamentaux de blocage technologique des projets avancés, illustré magnifiquement par le JSF, jettent une ombre universelle sur tous les projets de cet ordre. Quoi qu’il en soit, il reste que la question est non seulement posée mais ouverte.

Elle est aussi ouverte que la question précédente semble se fermer. La question qui concernait la pénétration stratégique du Brésil par un pays occidental au travers du contrat de quatrième génération actuellement en discussion, semble effectivement avoir obtenu une réponse catastrophique. L’orientation politique des pays concernés ayant évolué vers le standard bloc BAO, on a pu mesurer la profondeur de la catastrophe de la politique française avec Sarkozy à partir de 2009/2010, avec Hollande suivant fidèlement ces traces. Il n’y a guère de commentaire à faire devant l’évidence du constat, sinon à observer une fois de plus que l’“intelligence française” est capable d’accoucher en période de basses eaux son double inverti absolument radical, dans le chef de l’aveuglement et de la fermeture de l’esprit. Quant à la partie américaniste, l’aventure en cours de la désintégration de la NSA, avec ses effets collatéraux colossaux dont celui du Brésil est le fleuron, ne fait que confirmer dans le sens du bouquet de la chose la constance d’un aveuglement qui doit tout, lui, à la sottise profonde d’une politique US de brute force malgré les atours du soft power dont elle prétend se parer (voir le 9 octobre 2013).

Cette affaire des chasseurs brésiliens est exemplaire, quatrième et cinquième générations confondues, ou même sixième pour les experts rêveurs qui pensent, les braves gens pleins d’espoir, à la situation d’ici 10-15 ans... Elle est exemplaire de l’effondrement de la politique de la civilisation occidentale prise comme un bloc (bloc BAO), et dans un temps incroyablement court. Elle est exemplaire aussi de l’affirmation diversifiée et très puissante, et aussi rapide, des pays qu’on a peine à qualifier encore d’“émergents”, notamment les BRICS, et la Russie et la Brésil dans ce cas, dans ce cadre spécifique des renversements politiques. Elle est exemplaire enfin, – cela ne peut être dissimulé car c’est finalement le principal, – de la rapide détérioration de tous les attributs de la “contre-civilisation”, que ce soit les conditions stratégiques, le technologisme, les conditions courantes de la “gouvernance”, etc., et cela aux dépens des principaux producteurs de la chose (le bloc BAO) mais aussi des autres (y compris les BRICS), l’ensemble du monde étant simplement confronté à la réalité terrible d’un effondrement civilisationnel sans aucun précédent historique dans son ampleur et sa rapidité.

dimanche, 20 octobre 2013

The ceremonial changing of the Guard at the Kremlin, Russia

 

The ceremonial changing of the Guard at the Kremlin, Russia

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mercredi, 16 octobre 2013

Un retour vers la défense citoyenne ?

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Un retour vers la défense citoyenne ?...

Entretien avec Bernard Wicht

Propos recueillis par Stéphane Gaudin

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un entretien avec Bernard Wicht, chercheur spécialisé dans les questions stratégiques et militaires, réalisé par Theatrum Belli à l'occasion de la sortie de son dernier essai intitulé Europe Mad Max demain ? - Retour à la défense citoyenne.

Bernard Wicht est également l'auteur de plusieurs autres essais stimulants, notamment  L’idée de milice et le modèle suisse dans la pensée de Machiavel (L’Age d’Homme, 1995), L’OTAN attaque (Georg, 1999), Guerre et hégémonie (Georg, 2002) et Une nouvelle Guerre de Trente Ans (Le Polémarque 2011). Il a aussi contribué à Gagner une guerre aujourd'hui (Economica, 2013), ouvrage collectif dirigé par le colonel Stéphane Chalmin.

 

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Un retour vers la défense citoyenne ?

A l’heure où les autorités politiques, de droite comme de gauche, transforme l’armée française en une armée de poche ; où la criminalité s’amplifie et devient toujours plus violente dans les zones urbaines, que le citoyen est victime d’une surveillance généralisée étatique et extra-étatique, qu’il subit une pression fiscale de plus en plus lourde, THEATRUM BELLI se tourne vers Bernard Wicht, qui dans son dernier livre « Europe Mad Max demain ? le retour de la défense citoyenne » prône « un retour à l’initiative individuelle » et « la formation de petites communautés organisées » pour à nouveau prendre son destin en main et assurer soi-même sa propre sécurité…en s’appuyant sur la figure du « citoyen-soldat ».

THEATRUM BELLI : Les électeurs helvétiques viennent massivement de voter à 73% pour le maintien du concept démocratique de citoyen-soldat ? Quel est votre sentiment sur résultat de ce vote ?

Bernard WICHT : C’est réjouissant ! Selon mon analyse, l’argument qui a eu le plus d’impact est celui de l’ « obligation » (pas nécessairement militaire), c’est-à-dire l’opinion – y compris dans les milieux peu sensibles aux questions militaires – qu’une société ne peut exister « sans obligation », que le citoyen se doit d’accomplir une activité au service de la communauté. L’unanimité des cantons (26) en faveur de l’obligation de servir est également particulièrement frappante dans ce sens-là. En revanche, la notion de liberté républicaine (les citoyens participant à la gestion des affaires communes) est peu apparue dans les débats. J’y vois un déficit de culture politique faisant que l’on peine à exprimer et à expliquer les concepts fondamentaux sur lesquels reposent l’Etat dans notre pays. Il faut également ajouter un autre facteur : la situation socio-économique difficile que connaît l’Europe actuellement ainsi que les pressions que subit la Suisse dans ce contexte ont certainement eu une influence sur la décision – l’ère de la « paix éternelle » promise à la fin de la Guerre froide est terminée. Le scénario des récentes manœuvres militaires de notre armée illustre bien ce changement de perception (une défense des frontières face à des bandes armées provenant d’une Europe en plein effondrement).

TB : Vous avez publié en mai dernier un livre au titre quelque peu provocateur « Europe Mad Max demain ? Retour à la défense citoyenne ».  Pourquoi un tel titre ?

BW : Le titre n’est pas moi, c’est le choix de l’éditeur qui souhaitait quelque chose de percutant ! C’est le sous-titre qui indique l’orientation de ma réflexion, à savoir un travail sur le citoyen-soldat à l’âge de la globalisation et du chaos.

TB : En prônant le concept de défense citoyenne, vous mettez en relief, sans le nommer, le concept de subsidiarité ascendante qui, à l’origine, est un concept militaire : Durant l’époque romaine : le « subsidium » qui était une ligne de troupe se tenant en alerte, derrière le front de bataille, prête à porter secours en cas de défaillance… Cette philosophie politique antique peut-elle être à nouveau d’actualité au XXIe siècle ?

BW : Ma référence principale n’est pas tant l’Antiquité romaine, mais plutôt les républiques urbaines de la Renaissance italienne. Celles-ci sont déjà modernes, en particulier en raison de leurs activités commerciales et de la naissance du premier capitalisme. Ce dernier élément est très important à mes yeux et n’apparaît que peu dans l’empire romain (où l’économie est encore peu développée) : d’où mon intérêt pour les cités italiennes du Quattrocento. De nos jours en effet, je pense que toute réflexion politico-stratégique doit sous-entendre l’existence prédominante du capitalisme globale, au risque sinon de retomber dans de « mauvais remake » de l’Etat-nation et des armées de conscription. De mon point de vue à cet égard, lorsqu’on réfléchit à l’outil militaire, il faut avoir bien présent à l’esprit que nous avons perdu le contrôle de l’échelon national (sans parler de ceux situés au-dessus) et, par conséquent, des armées et gouvernements nationaux. C’est pourquoi dans ma démarche sur la défense citoyenne aujourd’hui, j’ai pris comme point de repère notamment la notion de chaos qui nous « délivre » en quelque sorte d’un cadre politique préconçu. Dans le même sens, je me suis penché attentivement sur l’affirmation des groupes armés (de tous ordres) comme nouvelles « machines de guerre » en ce début de XXIe siècle. J’ai ainsi émis l’hypothèse que ceux-ci étaient en train de supplanter les forces armées régulières des Etats, ceci au même titre que les armées mercenaires de la Renaissance ont supplanté la chevalerie médiévale et, plus tard, les armées nationales issues de la Révolution française ont supplanté celles de l’Ancien Régime. Cela signifie que je considère que le tournant est non pas seulement stratégico-militaire mais aussi, et surtout, historique.

TB : Comment analysez-vous le fossé qui se creuse entre l’Etat et la nation ?

BW : Je considère qu’il n’y a d’ores et déjà plus adéquation entre les deux. La nation avec ses valeurs et son idéal de solidarité est morte dans les tranchées de Verdun, les ruines de Stalingrad, les crématoires d’Auschwitz et les rizières du Vietnam. On oublie un peu vite le traumatisme des deux guerres mondiales, la destruction morale de notre civilisation que cela a signifié, et le fait que des sociétés ne peuvent se relever facilement d’un tel choc. J’analyse le délitement actuel de nos sociétés (de la chute de la natalité au renversement des valeurs que nous vivons notamment dans le domaine de la sexualité) comme provenant fondamentalement de ces séismes à répétition. Les travaux de l’historien britannique Arnold Toynbee sur la « grande guerre destructrice », la « sécession des prolétariats » – autrement dit sur les formes que prend le déclin d’une civilisation – trouvent ici toute leur pertinence.

Basel_Tattoo_(6).jpgTB : Dans des nations européennes qui se communautarisent, ne pensez-vous pas que ce concept de défense citoyenne puisse être appliqué par des communautés ethnico-religieuses aux intérêts antagonistes ?

BW : C’est déjà le cas ; pensons aux diasporas politiquement encadrées, aux gangs contrôlant certains quartiers urbains, aux réseaux mafieux, etc. A la fois la destruction des nations à laquelle je viens de faire référence, la globalisation financière amenant l’explosion de l’économie grise, ainsi que la fin de l’ère industrielle ont créé un terreau très favorable à la fragmentation de nos sociétés, à leur recomposition en sous-groupes pris en main par les nouveaux prédateurs susmentionnés. Il ne faut pas oublier non plus que des pans entiers de l’économie régulière ne pourraient plus fonctionner sans les travailleurs clandestins, que l’économie parallèle représente en outre environ 15% du PIB des grands Etats européens, etc., etc., etc. Il est donc urgent de se poser la question de la défense citoyenne parce que les communautés auxquelles vous faites allusion ont « fait le pas » (bon gré – mal gré) depuis longtemps : c’est le citoyen qui est « en retard », c’est lui qui est désarmé. Si nous faisons brièvement le catalogue des catégories de combattants existant de nos jours (partisans, forces spéciales, contractors, terroristes, shadow warriors), nous constatons immédiatement que le citoyen est absent; il reste donc sans défense dans une monde où la violence a retrouvé son état anarchique. En ce sens, ma contribution demeure bien modeste compte tenu de l’urgence de la situation.

TB : La défense citoyenne peut-elle être considérée comme une réponse « localiste » au phénomène de la mondialisation ?

BW : Comme je l’ai dit plus haut, je pense que nous avons perdu le contrôle de l’échelon national. Donc, oui, la réponse est sans doute plutôt « local ». Mais, selon moi, ce n’est pas tant dans l’opposition local/global qu’il faut travailler : la société de l’information nous offre l’opportunité de travailler en réseau open source, de manière coopérative… au-delà du local au sens strict. De mon point de vue, le facteur déterminant n’est donc pas tant le local que l’autonomie, c’est-à-dire la capacité de contrôler ses propres processus de fonctionnement (dont en priorité la sécurité). Car, si au niveau local nous restons totalement dépendant du niveau global, rien ne change ! J’ai insisté précédemment sur l’importance de prendre en considération la dynamique du capitalisme parce que, précisément, toute initiative qui n’est pas en mesure de développer une certaine marge de manœuvre vis-à-vis de cette dynamique est vouée à l’échec. Nous y reviendrons plus loin à propos des coopératives. Revenons à la dialectique local/global que vous évoquez, il n’est cependant pas possible d’agir localement si l’on ne dispose pas d’un discours global ; le cas du mouvement néo-zapatiste au Chiapas est particulièrement parlant à cet égard – une faible rébellion pratiquement sans impact militaire qui parvient en revanche à développer un discours de portée mondiale. Cet exemple tendrait à montrer qu’aujourd’hui aucune action locale (ou autre) ne peut s’inscrire dans la durée sans un discours adéquat. Je dis un « discours » et non pas du « storytelling », c’est-à-dire non pas du marketing mais une véritable mise en forme de la réalité apte à se démarquer des deux discours dominant que sont celui de l’empire (la mondialisation néo-libérale) et celui de l’apocalypse (l’épuisement des ressources, le réchauffement climatique et la fin des temps)…. faute de mieux, j’ai appelé pour le moment cette troisième voie le « discours du rebelle ». La notion de rebelle en lien avec celle d’autonomie (y compris le concept anarcho-punk de TAZ) ouvrent ici des perspectives prometteuses telles que le refus de la réquisition techniciste, la réappropriation de sa propre histoire ou encore le lien con-substanciel entre résistance et renaissance. Vous comprenez dès lors pourquoi je trouve la réduction de la réponse au rapport local/global un peu « courte ».

TB : Julien Freund a écrit qu’« une collectivité politique qui n’est plus une patrie pour ses membres cesse d’être défendue pour tomber plus ou moins rapidement sous la dépendance d’une autre unité politique ». La Défense citoyenne peut-elle régénérer les concepts de patrie et de souveraineté ?

BW : Certainement, la Défense citoyenne se comprend dans cette perspective, mais pas dans le sens d’une restauration de l’état antérieur. Comme je viens de le dire, nous ne retrouverons pas la Nation : « l’histoire ne repasse pas les plats » ! C’est là que se situe le premier enjeu de toute réflexion prospective : ne pas vouloir « re-bricoler le passé », s’efforcer de penser en fonction des nouveaux paramètres en vigueur (d’où l’importance de prendre en compte la société de l’information).

TB : Vous voyez le développement possible de SMP à travers le système de la coopérative. Cette idée ne pourrait-elle pas être développée au sein des mutuelles (comme services) étant donné que leur philosophie d’origine était centrée sur le secours et l’entraide avant d’être focalisée sur la dimension santé ?

BW : Sans aucun doute. Toute démarche de reconstruction passe obligatoirement par là…. la forme peut toutefois varier. L’essentiel dans le système coopératif (ou mutualiste) est de donner au groupe une certaine autonomie – nous y revoilà – notamment dans le domaine économique (une marge de manoeuvre par rapport à la dynamique du capitalisme global). A travers la coopérative, il est possible d’échapper quelque peu au diktat du marché et des grands acteurs mondiaux. Il est d’ailleurs intéressant de constater que les coopératives ne fonctionnent bien que dans un tel contexte; en période de « vaches grasses » l’idée ne fait généralement pas recette. Dans mon livre j’ai donné l’exemples des Acadiens au Canada qui, par ce biais, dès la fin du XIXe siècle ont pu se soustraire à la tutelle des grandes entreprises anglaises qui les exploitaient. De nos jours, il ne faut pas oublier non plus que le mouvement anarcho-punk a d’ores et déjà ouvert des pistes en la matière : hormis le concept de TAZ déjà évoqué, il y aussi la philosophie do it yourself (DIY) avec ses formules choc telles que « ne haïssez pas les médias, devenez les médias » ! Or aujourd’hui, d’après mon appréciation, la sécurité serait un bon point de départ : prendre en main sa propre sécurité, c’est prendre conscience que JE suis le premier responsable de mon propre destin ! En effet, comme dans toute grande transformation, la « reconnaissance précède la connaissance » (Th. Gaudin); en d’autres termes c’est la prise de conscience qui est le prérequis de l’action (qui, à son tour, a besoin ensuite d’un discours pour se légitimer dans la durée).

TB : Comment voyez-vous la Défense citoyenne comme réponse au tout sécuritaire centralisé (de plus en plus liberticide) par l’Etat ?

BW : Comme je l’ai dit plus haut à propos de la Renaissance italienne, ma démarche est foncièrement machiavélienne : je me préoccupe de la liberté républicaine (au sens de participation effective à la gestion des affaires communes). Dans cette optique, la dérive sécuritaire de l’Etat moderne est très préoccupante; les criminologues parlent désormais à ce sujet du passage à un Etat pénal-carcéral, c’est-à-dire une réorientation du monopole de la violence légitime non plus vers l’ennemi extérieur commun, vers la guerre extérieure mais vers l’intérieur, vers la population en général. L’Etat pénal-carcéral tend ainsi à déployer un dispositif sécuritaire ne visant plus à réprimer le crime et les criminels mais ciblant tout citoyen quel qu’il soit, au prétexte qu’il pourrait, un jour, avoir un comportement déviant. On parle aussi à cet égard de « nord-irlandisation » de l’Etat moderne avec la mise en place de lois d’exception, d’un système de surveillance omniprésent (caméras, portiques de sécurité, etc.) et d’une militarisation des forces de police. On le constate, l’Etat pénal-carcéral a besoin d’un « ennemi intérieur » pour fonctionner, pour pouvoir cristalliser les peurs et justifier de la sorte le renforcement des mesures coercitives… il y a risque que le citoyen ne devienne cet ennemi. Rappelons au passage que l’Etat moderne n’est pas démocratique par essence; la citoyenneté, la représentation, la souveraineté populaire sont le fruit d’une négociation, voire d’une lutte dans laquelle les populations ont été en mesure de « faire le poids » dans ce rapport de force avec l’Etat. Le citoyen-soldat a été un élément clef de ce marchandage, de cette affirmation démocratique…. qu’en reste-t-il aujourd’hui ?

C’est vis-à-vis de cette réalité que le cadre de raisonnement élaboré par Machiavel m’interpelle si fortement. Le Chancelier florentin s’est trouvé confronté à une situation très similaire avec les menaces qui pesaient sur la liberté à son époque (les oligarchies en place et le recours à des mercenaires). Dans sa réflexion, il établit à ce sujet un champ d’oppositions paradigmatiques qui se révèle très précieux : liberté/tyrannie; armée de citoyens/prétoriens; république/empire; vertu/corruption. Un tel cadre permet de répondre aux objections que j’entends souvent – « hors de l’Etat point de salut ! ». Machiavel nous indique ainsi que la communauté doit s’organiser avant tout en fonction de la liberté et de ses présupposés plutôt que selon un principe étatique moderne qui peut se révéler liberticide !

TB : Monsieur Wicht, nous vous remercions pour cet entretien.

Bernard Wicht, propos recueillis par Stéphane GAUDIN (Theatrum Belli, 7 octobre 2013)

dimanche, 06 octobre 2013

L'A400M : UN PROGRAMME EMBLEMATIQUE POUR L'EUROPE

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L'A400M : UN PROGRAMME EMBLEMATIQUE POUR L'EUROPE
Optique américaine VS optique européenne

Hajnalka VINCZE*
Ex: http://metamag.fr
L'A400M dans une optique américaine

Certes les Etats-Unis ne pourront pas ne pas se réjouir officiellement, en voyant leurs alliés commencer à combler l'une des principales lacunes capacitaires qu'ils leur reprochent depuis si longtemps. Mais ce n'est que la façade. L'A400M est un concurrent et un outil d’autonomie européenne comme ils ne les aiment pas. Un article du Washington File du Département d’Etat datant de 2006 précise déjà que « Les US recommandent aux alliés OTAN de mettre en commun de l’argent pour acheter des C-17 ». Une solution présentée comme bénéfique pour les affaires de Boeing et qui serait du même coup la meilleure façon de pallier les carences des Européens en matière de transport stratégique. 

Dans l’espoir d’écarter d’avance l’option A400M, l’article tient à souligner que la capacité de transport de l’avion européen n’est qu’un tiers de celle de son concurrent américain. Et pour ceux qui n’auraient pas compris la consigne, il précise également que « l’Airbus européen et le Boeing américain sont des rivaux commerciaux ». Comme argument de vente, on cite aussi la Représentante US à l’OTAN qui se fait un plaisir de remarquer que « Si le prix est si bas, c’est parce que l'Amérique en achète beaucoup ». Dernière petite touche : un sentiment d’urgence. Vite, il faut s’y engager sinon l’offre disparaît et/ou le prix augmente.

Episode révélateur en octobre 2008: quand les ministres de la défense de l’UE se réunissent à Deauville, pour parler du partage des futurs A400M, l’OTAN choisit d’annoncer au même moment le lancement de son programme de « capacité de transport stratégique », qui regroupe alors 11 pays européens autour de l'Amérique et du C-17 de Boeing, justement. C’était aussi la période pendant laquelle le programme A400M traversait de sérieuses turbulances… 

Comme toujours, Washington voulait d’abord convaincre les Etats européens un par un de ne pas participer du tout à un projet européen d’importance stratégique (et il y a réussi, cette fois-ci pour le Portugal et l’Italie). Ensuite il s’est employé sans relâche à montrer qu’il existe à portée de main une séduisante alternative transatlantique. Logiquement, une fois devant le fait accompli, l’étape prochaine sera d’encourager le rapprochement/fusion entre les structures européennes de coordination en matière transport aérien militaire et celles d’OTAN. De manière à s’assurer un droit de regard et préserver son contrôle au maximum sur d’éventuels futurs développements. 


L'A400M dans une optique européenne

Comme l'a dit Hervé Morin, ministre de la défense en 2010: «L'A400M est un programme emblématique sur lequel les Européens ne pouvaient pas renoncer ». En effet, son arrivée signifie plus pour la « défense européenne » que n'importe quelle déclaration pompeuse à l'issue d'une quelconque réunion au sommet. Premièrement, parce que la nouvelle flotte d'avions de transport stratégique (et tactique, l'A400M étant hautement polyvalent) va résorber ce qui fut identifiée comme l'une des lacunes capacitaires majeures de l'Europe de la défense, dès le lancement de celle-ci il y a déjà quinze ans. 

Deuxièmement, parce que c’est un outil de notre autonomie. Les Américains ne s’y sont d’ailleurs pas trompés quand ils avaient exercé de constantes pressions pour que l’Europe y renonce. Avec succès dans le Portugal de Barroso et dans l’Italie de Berlusconi mais, une fois n’est pas coutume, pas au Royaume-Uni. Surpris, l’ambassadeur US à Londres s’est dit « profondément déçu » à l’annonce du choix britannique. Et c’est clairement « dans un objectif de souveraineté » que les Etats du programme ont finalement préféré un motoriste européen à l’américain Pratt & Whitney.

Troisièmement, parce que la principale structure d'accueil des nouveaux avions, l'EATC (le Commandement de transport aérien européen) incarne la seule option viable pour la fameuse « mutualisation et partage » en Europe. L'EATC réalise notamment une mise en commun réelle, avec ses nombreux avantages, mais assorti d'un mécanisme dit de « red card » (carton rouge). Celui-ci permet à un Etat participant de reprendre le contrôle opérationnel de ses appareils à n'importe quel moment. Il s'agit donc de respecter le principe de la réversibilité en matière de partage de souveraineté. Ce qui est par ailleurs la seule manière légitime d'y procéder.

*analyste en politique de défense et de sécurité, spécialisée dans les affaires européennes et transatlantiques. Animatrice du site hajnalka-vincze.com.

vendredi, 04 octobre 2013

LES ARMES CHIMIQUES EN SYRIE ET AILLEURS

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LES ARMES CHIMIQUES EN SYRIE ET AILLEURS
Pédagogie de l’horreur et humanisme tardif

Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr
 
«Je ne comprends pas ces réticences à l’emploi du gaz. Je suis fortement en faveur de l’utilisation du gaz toxique contre les tribus barbares… L’effet moral sera bon. On diffusera une terreur vivace »...Sir Winston Churchill à propos des rebelles kurdes

Le mérite de Winston Churchill est d’avoir été franc. Il n’a aucun état d’âme à gazer des populations, et il s’insurge contre ceux qui sont contre. Il leur explique qu’il n’y a pas de quoi puisque ce sont des tribus barbares que l’on doit démoraliser par la terreur. Au passage Winston Churchill sans état d’âme sait qu’il parle de la terreur mais malgré cela il persiste et il signe. Dans cette contribution pour décrire les faits, nous allons parler des justiciers actuels imposant une doxa occidentale qui repose comme au bon vieux temps sur le fait du prince et la lettre de cachet pour les manants version actuelle de l’expédition punitive qu’affectionnent particulièrement les socialistes au point d’en user et d’en abuser. Ceci, depuis une certaine France de Guy Mollet partie guerroyer avec son complice de toujours, la perfide Albion et avec l’incontournable Israël, quand il s’agit de mettre au pas les Arabes, jusqu’à la « punition » promise à la Syrie par Hollande, le chevalier sans peur et sans reproche, frustré de ne pas en découdre sans la protection du parapluie américain.

L’histoire de l’utilisation des armes chimiques

Nous avons dans une contribution précédente décrit l’histoire de l’utilisation des armes chimiques par les feux grégeois qu’un certain Callinicus avait mis au point. Le feu grégeois était d’un comburant, le salpêtre, avec les substances combustibles, comme le goudron. Bien plus tard, c’est l’Allemagne qui utilisa la première les armes chimiques en 1915-17 : chlore liquide et phosgène, puis gaz vésicatoire et asphyxiant moutarde (ou ypérite). En riposte, la Grande-Bretagne et la France produisirent elles-aussi ce gaz létal. Le gaz nervin Tabun, qui provoque la mort par asphyxie, fut découvert en 1936 par des chercheurs de la société allemande I.G. Farben En 1930, l’Italie utilisa des armes chimiques en Libye et en Éthiopie en 1936. Les pays occidentaux doivent se souvenir que ce sont eux les inventeurs et les vendeurs de ces armes de la mort tragique. 

Quand Winston Churchill approuvait les gaz de combat

Avant de devenir l’icône de la résistance au nazisme, lit-on dans le Guardian, Winston Churchill a d’abord été un fervent défenseur de l’Empire britannique et un antibolchevique convaincu. Au point de préconiser le recours aux gaz qui avaient été la terreur des tranchées. (. . .) Winston Churchill, alors secrétaire d’Etat à la Guerre, balaie leurs scrupules d’un revers de main. Depuis longtemps partisan de la guerre chimique, il est décidé à s’en servir contre les bolcheviques en Russie. Durant l’été 1919, quatre-vingt-quatorze ans avant l’attaque dévastatrice en Syrie, Churchill prépare et fait lancer une attaque chimique d’envergure. Ce n’est pas la première fois que les Britanniques ont recours aux gaz de combat. Au cours de la troisième bataille de Gaza [contre les Ottomans] en 1917, le général Edmund Allenby a fait tirer 10 000 obus à gaz asphyxiants sur les positions ennemies dans l'attente de  la mise au point de l’”engin M”, un gaz extrêmement toxique, le diphénylaminechloroarsine décrit comme “l’arme chimique la plus efficace jamais conçue.

En 1919 Winston Churchill alors Secrétaire d’État à la Guerre décide d’utiliser les grands moyens Nous lisons sous la plume de Camus : « Un programme exécuté à la lettre par le lieutenant-colonel Arthur Harris qui lui s’en vantait en ces termes : « Les Arabes et les Kurdes savent maintenant ce que signifie un véritable bombardement. . . En 45 minutes nous sommes capables de raser un village et de tuer ou blesser un tiers de sa population ». Vingt-cinq ans plus tard Winston Churchill, fidèle à lui-même, professait des idées à peu près identiques à propos du Reich national-socialiste (. . .) Ajoutons par honnêteté que l’usage britannique des attaques aériennes au gaz moutarde – Ypérite – notamment au Kurdistan à Souleimaniyé sur la frontière irano-irakienne en 1925 – un an après la signature du Protocole de Genève prohibant “l’emploi à la guerre de gaz asphyxiants, toxiques ou similaires et de moyens bactériologiques” – n’a pas été une pratique totalement isolée, les Espagnols dans le Rif marocain [1921-1927], les Japonais en Chine ne s’étant pas privés d’y recourir ». 

La France et « son savoir-faire » dans les armes chimiques

La France comme toutes les nations occidentales a développé d’une façon intensive les gaz de combat notamment dès la première guerre mondiale. Son savoir-faire a été exporté dans plusieurs pays. Malgré toutes les conventions signées, elle a gardé en Algérie une base d’expérimentation. 

Fabrice Nicolino écrit à ce sujet : « La France gaulliste a oublié les armes chimiques de B2 Namous. La France socialo a oublié les 5 000 morts d’Halabja. Le 16 mars 1988, des Mirage made in France larguent sur la ville kurde – irakienne – d’Halabja des roquettes pleines d’un cocktail de gaz sarin tabun et moutarde. 5 000 morts. (. . .) L’urgence est de soutenir Saddam Hussein, raïs d’Irak, contre les mollahs de Téhéran. Et que l’on sache, pas un mot de Hollande, en ce temps l’un des experts du Parti Socialiste. Il est vrai que ce n’est pas demain la veille qu’ils devront s’expliquer sur la base secrète B2 Namous, ancienne base d’expérimentation d’armes chimiques & bactériologiques (. . .) De Gaulle a l’obsession qu’on sait : la grandeur, par la puissance. La première bombe atomique de chez nous explose le 13 février 1960 dans la région de Reggane, au cœur d’un Sahara alors français. Ce qu’on sait moins, c’est que le pouvoir gaulliste deale ensuite avec l’Algérie d’Ahmed Ben Bella pour conserver au Sahara des bases militaires secrètes. Les essais nucléaires français, devenus souterrains, continuèrent dans le Hoggar, près d’In Ecker, jusqu’en 1966. La France a signé en 1925 une convention internationale interdisant l’utilisation d’armes chimiques, mais que valent les chiffons de papier ? Entre 1921 et 1927, l’armée espagnole mène une guerre d’épouvante chimique contre les insurgés marocains du Rif. Et l’on sait maintenant que la France vertueuse avait formé les « techniciens » et vendu phosgène et ypérite à Madrid ».

Fabrice Nicolino nous parle ensuite des accords d’Evian qui permettent à la France de garder des bases militaires qu’ils ont restitués dans leur état naturel : « Outre Reggane et In Ecker, B2 Namous, un polygone de 60 kilomètres par 10 au sud de Béni Ounif, non loin de la frontière marocaine. Dans une note de l’état-major français, on peut lire : « Les installations de B2-Namous ont été réalisées dans le but d’effectuer des tirs réels d’obus d’artillerie ou d’armes de saturation avec toxiques chimiques persistants ; des essais de bombes d’aviation et d’épandages d’agressifs chimiques et des essais biologiques ». En 1997, le ministre de la Défense, Alain Richard déclare : « L’installation de B2 Namous a été détruite en 1978 et rendue à l’état naturel ». En février 2013, le journaliste de Marianne Jean-Dominique Merchet révèle qu’un accord secret a été conclu entre la France et l’Algérie Il porte sur la dépollution de B2 Namous, « rendue à l’état naturel » trente ans plus tôt ». 

L’utilisation des armes chimiques par les Etats-Unis
 

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Massimo Fini s’interroge  sur l’autorité morale des Etats Unis : « (. . .) Mais ce que j’aimerais comprendre, c’est d’où vient exactement cette autorité morale des États-Unis qui se permettent de tracer des « lignes rouges » sur l’utilisation d’armes chimiques. Ce sont pourtant eux qui, en 1985, en fournirent à Saddam alors au pouvoir dans sa lutte contre les Iraniens, et par la suite contre les Kurdes. (. . .) Lors de la guerre contre la Serbie, les USA utilisèrent des bombes à l’uranium appauvri. (. . .) On imagine facilement l’effet de cet « uranium appauvri » sur les civils serbes et surtout sur les enfants qui évoluent à 1 m du sol et sont habitués à toucher à tout En 2001, pour capturer Ben Laden, les Américains noyèrent les montagnes d’Afghanistan sous les bombes à l’uranium et le ministre de la Défense Donald Rumsfeld avait déclaré que « pour chasser les terroristes, nous utiliserons aussi des gaz toxiques et des armes chimiques. » On en voit les résultats aujourd’hui.

Le secret entourant les gaz chimiques israéliens

« Ce sont, écrit Thierry Meyssan, les recherches israéliennes sur les armes chimiques et biologiques qui ont poussé historiquement la Syrie à rejeter la Convention interdisant les armes chimiques. C’est pourquoi la signature par Damas de ce document risque de mettre en lumière l’existence, et éventuellement la poursuite, de recherches sur des armes sélectives destinées à tuer les seules populations arabes. (. . .) Un document de la CIA récemment découvert révèle qu’Israël a mis aussi en place son propre arsenal d’armes chimiques. Des responsables du renseignement à Washington estiment que l’Etat hébreu a secrètement fabriqué et stocké des armes chimiques et biologiques depuis des décennies pour compléter son arsenal nucléaire présumé. Des satellites espions américains ont repéré en 1982 «une usine de production de gaz chimique et une unité de stockage dans le désert du Néguev».

On parle souvent de la « Pax Americana » pour dénommer l’ordre résultant de l’hégémonie des Etats-Unis. Cette position de force n’est pas un gage d’équilibre et de paix à l’échelle mondiale. C’est ainsi que les États-Unis interviennent de façon chronique pour leurs intérêts stratégiques Pour l’histoire, cela a commencé en 1846 : Guerre américano-mexicaine, les États-Unis d’Amérique annexent La Californie. Ce fut aussi, sans être exhaustif, la Guerre de Corée (1950-1953), du Viêt Nam (1968-1975). Cela a continué pour la période récente avec la guerre du Vietnam ou des centaines de tonnes d’agents chimiques orange ont été déversées créant la mort et la désolation pour des dizaines d’années, ce sera ensuite la Guerre en Irak (2003), le feuilleton irakien de la démocratie aéroportées à raison de dizaines de morts tous les jours ne s’est pas clôturé avec la pendaison inhumaine de Saddam HusseinEn 2011 ce fut la mise à sac de la Libye et le lynchage abjecte de Kadhafi, au total soixante-six interventions extérieures pour la plupart sanglante. »

Que sont devenus les révélations de Carla del Ponte ?

Faut-il rappeler qu’en mars 2013 les Syriens avaient appelé l’ONU à venir enquêter sur l’utilisation par les terroristes d’armes chimiques« J’ai décidé que l’ONU mènerait une enquête sur l’utilisation possible d’armes chimiques en Syrie », a déclaré le secrétaire général de l’ONU Ban Ki-moon à la presse. Il a précisé que cette enquête, répondant à une demande officielle de Damas, sera lancée « dès que possible en pratique » et portera sur « l’incident spécifique que m’a signalé le gouvernement syrien » Celui-ci accuse l’opposition d’avoir eu recours aux armes chimiques mardi à Khan al-Assal, près d’Alep.

Selon la magistrate suisse Carla del Ponte, membre de la commission d’enquête de l’ONU, les rebelles syriens auraient utilisé du gaz sarin, fortement toxique et interdit par le droit international. « Selon les témoignages que nous avons recueillis, les rebelles ont utilisé des armes chimiques, faisant usage de gaz sarin », Cette déclaration de Carla del Ponte, s’est faite dans une interview à la radio suisse italienne dans la nuit de dimanche à lundi. 

Les va –t-en guerre invétérés
 
Dans cette atmosphère de bruits de bottes et de menace en tout genre, avec une accusation d’utilisation de gaz sarin par l’armée syrienne, les boute-feux toujours les mêmes, ne veulent pas être frustrés Il leur faut leur guerre pour qu’Israël soit en paix. Ahmed Bensaada écrit à ce sujet :« Bernard-Henri Lévy (BHL), le dandy guerrier, est de retour. Le cercle des danseurs autour du feu est bien achalandé et on y trouve de tout : d’illustres néoconservateurs (néocons), des défenseurs d’Israël farouchement pro-sionistes, d’anciens membres de l’administration Bush, des islamophobes notoires, des américains possédant la double nationalité étasunienne/israélienne, des va-t-en-guerre responsables de l’invasion de l’Irak, de féroces détracteurs de l’Iran et, pour parfaire le décorum, quelques opposants syriens pro-américains. C’est cet aréopage constitué de 74 personnes pompeusement qualifiées d’« experts en politique étrangère » qui vient de signer une lettre adressée à Obama, en l’exhortant de « répondre de manière décisive en imposant des mesures ayant des conséquences significatives sur le régime d’Assad ». Au minimum, disent-ils « les États-Unis, avec leurs alliés et partenaires qui le souhaitent, devraient utiliser des armes à longue distance et la puissance aérienne pour frapper les unités militaires de la dictature syrienne qui ont été impliquées dans la récente utilisation à grande échelle d’armes chimiques. ».

Charles de Gaulle écrivait en son temps, que « les armes ont torturé mais aussi façonné le monde. Elles ont accompli le meilleur et le pire, enfanté l’infâme aussi bien que le plus grand, tour à tour rampé dans l’horreur ou rayonné dans la gloire. Honteuse et magnifique, leur histoire est celle des hommes ». 

La guerre de tous contre tous n’est jamais propre. C’est de fait l’échec de la parole désarmée. C'est l’empathie envers la détresse des faibles. Assurément l’humanité court à sa perte.

*Professeur à l'Ecole Polytechnique enp-edu.dz

dimanche, 15 septembre 2013

Er formte Preußens Generalstab

Manuel RUOFF:
Er formte Preußens Generalstab

Karl von Grolmann unterstützte Scharnhorst in der Militär-Reorganisationskommission und Blücher bei Belle-Alliance

Ex: http://www.preussische-allgemeine.de

grolman.jpgDer preußische Militärreformer Karl von Grolman war von einer enormen Prinzipienfestigkeit, Konsequenz und Rigorosität, um nicht zu sagen Radikalität, im Denken und Handeln. Mit dem Generalstab schuf er Moltke das Instrument, um an der deutschen Einigung maßgeblich mitzuwirken, die ihm selber zu erleben nicht mehr vergönnt war. Er starb vor 170 Jahren im 67. Lebensjahr.

„Er huldigt nur dem Verstande und ehrt von den Gemütskräften nur die Willenskraft“, sagte August Neidhardt von Gneisenau, ein weiterer Großer der preußischen Reformbewegung, über ihn. Diese Willenskraft kommt schon darin zum Ausdruck, dass der am 30. Juli 1777 in Berlin geborene Preuße sich bereits als Kind gegen die Fortsetzung der Familientradition entschied. Im Gegensatz zu seinem Vater, der als Obertribunalpräsident und Mitautor des Allgemeinen Landrechts in der Justiz erfolgreich Karriere machte, und seinem Großvater mütterlicherseits, der Kriminalrat war, wurde Karl bereits als 14-Jähriger Soldat. Beim Militär fand er seine Berufung. Mit Enthusiasmus ging er in seinem Beruf auf und erfuhr entsprechende Resonanz.


Die für Preußen katastrophal endende Doppelschlacht bei Jena und Auerstedt machte er als Adjutant des Feldmarschalls Wichard von Möllendorf mit. Es folgte eine Verwendung als Adjutant des Befehlshabers des Feldheeres, Fried­rich Ludwig Fürst zu Hohenlohe-Ingelfingen. Dessen ruhmlose und auf die preußische Moral verheerend wirkende Kapitulation bei Prenzlau brauchte er nicht mitzuerleben, da er vorher als Kurier zu seinem König Friedrich Wilhelm III. entsandt worden war. Im weiteren Verteidigungskampf Preußens gegen das überlegene napoleonische Kaiserreich bildete Grolman mit seiner Entschlossenheit und Tapferkeit eine ruhmreiche Ausnahme. Für sein Verhalten in dem Gefecht bei Soldau vom 26. Dezember 1806, in dem er schwer verwundet wurde, erhielt er den Orden Pour le Mérite.


Nach dem Krieg, dessen Verlust auch er nicht hatte abwenden können, wurde er in Gerhard von Scharnhorsts Militär-Reorganisationskommission berufen. Er war nicht nur im vorausgegangenen Vierten Koalitionskrieg positiv aufgefallen, sondern kannte Scharnhorst auch von der „Militärischen Gesellschaft“ her. Als Mitglied der Reorganisationskommission und der Untersuchungskommission, die das Verhalten der Offiziere während des Krieges zu prüfen und zu beurteilen hatte, sowie als für Personal- und Disziplinarangelegenheiten zuständiger Abteilungsdirektor des 1808 geschaffenen Kriegsministeriums half er mit der Schärfe seines Verstandes bei der Suche nach den Ursachen für die Niederlage und mit seiner unerbittlicher Strenge wie „rück­sichtslosen Wahrheitsliebe“, um mit dem preußischen Reformer Hermann von Boyen zu sprechen, bei der Verfolgung der Schuldigen.
Diese Arbeit am Schreibtisch befriedigte ihn jedoch nicht. Er wollte mit der Waffe in der Hand gegen Napoleon kämpfen und das war nach dem Tilsiter Frieden von 1806 zumindest vorerst nicht mehr möglich. Als sich dann 1809 Österreich gegen Bonaparte erhob, nutzt er die Gelegenheit und wechselte von preußische in österreichische Dienste. Doch noch im selben Jahr endete auch dieser Fünfte Koalitionskrieg mit einem Sieg Napoleons.


Grolman gelang die Flucht in das mit dem Habsburgerreich verbündete England. In Spanien wurde immer noch beziehungsweise schon wieder mit britischer Unterstützung militärischer Widerstand gegen Bonaparte geleistet und so ging Grolman 1810 als Kämpfer der Legion extranjera, einer Art Fremdenlegion der dortigen Armee, nach Spanien. Dort kämpfte er als Bataillonskommandeur gegen Napoleon. 1812 gehörte er zu den Verteidigern Valencias gegen die französische Belagerer. Bei dessen Eroberung geriet er in französische Kriegsgefangenschaft. Er wurde nach Frankreich verbracht. Während seiner Zeit in Spanien wurde Grolman zum Anhänger der konstitutionellen Monarchie – was ihn in den Augen preußischer Reaktionäre zum Jakobiner und Demokraten werden ließ.


In Frankreich gelang ihm noch in eben jenem Jahre 1812 die Flucht in die benachbarte Schweiz. Von dort reiste er mit falscher Identität über Bayern nach Jena, wo er ein Geschichtsstudium aufnahm. Zeitgleich mit dem Seitenwechsel Preußens am Ende von Bonapartes Russlandfeldzug kehrte Grolman nach Preußen und in dessen Armee zurück. Wieder war Grolman mit Engagement bei der Sache. Sein Einsatz bei der Völkerschlacht bei Leipzig brachte ihm das Eichenlaub zum Pour le Mérite.
Im Gegensatz zu den Österreichern, die im metternichschen Geiste Frankreich als Großmacht erhalten sehen wollten, trat nun Grolman mit Gneisenau und Gebhard Leberecht von Blücher dafür ein, den bei Leipzig geschlagenen Franzosenkaiser bis in sein eigenes Land zu verfolgen und dort niederzukämpfen. Die Preußen setzten sich in diesem Punkte gegen die Österreicher durch und der Krieg wurde bis zu Napoleons Kapitulation fortgesetzt.


Als Bonaparte 1815 von Elba nach Frankreich zurückkehrte, gehörte Grolman zusammen mit Gneisenau und Blücher zu jenen, die Napoleons Karriere endgültig beendeten. Während Blücher das Kommando über die preußischen Truppen führte, war Gneisenau sein Generalstabschef und Grolman sein Generalquartiermeister. Es war nicht zuletzt die logistische Leistung des Generalquartiermeisters Grolman, welche die Preußen noch rechtzeitig genug auf dem Schlachtfeld von Belle-Alliance erscheinen ließ, um die Entscheidung zu bringen.


Nach den napoleonischen Kriegen leitete Grolman unter dem preußischen Reformer und Kriegsminister Boyen das 2. Departement des Kriegsministeriums. In dieser Funktion baute Grolman den preußischen Generalstab auf, widmete sich dessen Organisation und Ausbildung. Neben der Beteiligung an der preußischen Heeresreform unter Scharnhorst und der Niederringung Bonapartes nach dessen Rückkehr von Elba unter Blücher ist sein konstituierendes Wirken als erster preußischer Generalstabschef die dritte große Leistung Grolmans von historischer Bedeutung.


Wie sein Minister wurde auch Grolman ein Opfer der Reaktion, die nach den napoleonischen Kriegen wieder ihr Haupt erhob. Ganz im Sinne Scharnhorsts hatten sich die beiden preußischen Reformer für ein Volk in Waffen, den Bürger in Uniform und damit für die Landwehr eingesetzt, während die Reaktion diese Errungenschaft der Befreiungskriege zugunsten des traditionellen auf den König eingeschworenen und von Berufssoldaten geführten stehenden Heeres zurückdrängen wollte. Der König schlug sich auf die Seite der Reaktion und Grolman nahm mit seinem Minister Boyen deshalb im Jahre 1819 den Abschied.


Auf Betreiben des Prinzen August von Preußen wurde Grolman jedoch 1825 reaktiviert. Nachdem er die 9. Division in Glogau kommandiert hatte, wurde er schließlich Nachfolger des 1831 verstorbenen Gneisenau. 1832 erst interimistisch und 1835 dann offiziell und definitiv wurde ihm das Kommando über das V. Armeekorps in Posen übertragen. In Posen war es denn auch, wo Karl von Grolman am 15. September 1843 starb. 

Manuel Ruoff

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mercredi, 11 septembre 2013

Guardias Walonas - Gardes wallonnes

Marcha de las Guardias Walonas

Marche des Gardes wallonnes

vendredi, 23 août 2013

Une digue au chaos ?...

Une digue au chaos ?...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com


Les éditions suisses Cabédita viennent de publier Une digue au chaos - L'armée des citoyens, un essai de Jean-Jacques Langendorf et Mathias Tüscher. Une défense et illustration du modèle suisse de milice destinée en premier lieu à faire réfléchir les citoyens suisses avant un référendum qui les appellera à se prononcer sur le système de défense de leur pays, mais qui peut être utilement lue par tous les Européens intéressés par les questions de défense et de sécurité.

Spécialiste des questions de polémologie et de stratégie, Jean-Jacques Langendorf a récemment publié La pensée militaire prussienne (Economica, 2012).

jean-jacques langendorf,mathias tüscher,milice,chaos

 

" Le monde vit un tournant. Le désordre s’installe, qu’il soit social, économique, politique, sanitaire, climatique ou militaire... Les indicateurs se succèdent, tout aussi alarmants les uns que les autres.

Dans cet essai, les auteurs ne se contentent pas de réfléchir sur ces menaces et sur la manière de les contrecarrer, mais fournissent des exemples historiques démontrant la nécessité d’une armée enracinée dans la population, capable d’ériger Une digue au chaos...

Cette armée existe. Elle peut être requise en cas de catastrophe naturelle et de grave menace intérieure comme extérieure. Elle s’y prépare parfaitement, comme le prouvent ces propos du gouverneur militaire de Paris aux officiers l’accompagnant lors de la présentation d’un exercice exécuté par nos recrues: «Vous m’expliquerez comment ils font cela en quinze semaines avec des civils, alors que nous avons toutes les peines du monde à le faire avec des professionnels en un an?...»

Alors, voulons-nous vraiment sacrifier un instrument sécuritaire qui a contribué à la paix et la pérennité de la Suisse moderne?

En vue de la votation de septembre relative à l’obligation de servir, les auteurs lancent un cri d’alarme au sujet de la désécurisation de la Suisse à une période où les tensions sociales et internationales prennent l’ascenseur. "

lundi, 08 juillet 2013

La Russie, le fournisseur d’armement idéal pour la Suisse

La Russie, le fournisseur d’armement idéal pour la Suisse

par Albert A. Stahel,

Institut für Strategische Studien, Wädenswil

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch

Alors qu’avant 1992 l’Union soviétique possédait encore une excellente industrie de l’armement qui développait et produisait des armes modernes, ce secteur fut laissé à l’abandon sous la présidence de Boris ­Eltsine. L’exportation d’armes russes fut limitée pendant de nombreuses années à des livraisons d’armes provenant des arsenaux de l’armée russe. Toute nouvelle production fut interrompue.


Ce n’est qu’avec l’accession au pouvoir de Vladimir Poutine que le secteur de l’armement a recommencé à être soutenu par l’Etat. Au cours des dernières années, l’industrie de l’armement de la Fédération de Russie a développé et mis en service diverses armes modernes. En font partie la série des systèmes de missiles guidés S-300 contre les avions et des missiles guidés balistiques sol-sol, dont la plus ancienne version S-300PS fut mise mis en service dans les années 1982/83.1 En 1998, la version améliorée S-300VM était à disposition et en 2007 la S-400 Triumph. La S-400 a une portée de 250 kilomètres. Avec ce système des missiles guidés, on prévoit d’intercepter et de détruire à l’aide d’une ogive conventionnelle des armes balistiques à courtes et à moyennes distances (portée de 5500 km). Un développement plus récent est le missile guidé 40N6 d’une portée de 400 km, qui devrait être disponible en 2013. Le S-500 Prometheus, d’une portée de 500 à 600 km, est également en train d’être développé. Cet engin permettra même d’intercepter et de détruire des missiles guidés balistiques intercontinentaux sol-sol (d’une portée de plus de 5500 km, dotés d’une ogive nucléaire). Pour tous ces systèmes de défense, on a également développé les radars de désignation et de poursuite d’objectifs correspondants.


Si ces indications sont exactes – en raison de la tradition de l’industrie d’armement russe dans le développement d’armes anti-aériennes on ne peut pas en douter –, les performances de la S-400 dépassent de loin celles du missile guidé de défense américain Patriot PAC-3. Le PAC-3 possède une portée de 15 à 45 kilomètres contre des cibles aériennes et des cibles balistiques.


Depuis la mise hors service irréfléchie des missiles guidés anti-aériens Bloodhound sous le conseiller fédéral Ogi en 1999, la Suisse n’a plus de système de défense aérienne contre des cibles de ­longues portées. Avec l’acquisition du système de défense S-400, la Suisse serait protégée non seulement contre des avions de combats mais aussi contre des missiles guidés balistiques.


La Russie produit également d’autres équipements militaires, qui pourraient être intéressant pour un petit Etat en raison de leur rapport qualité–prix. Cela comprend notamment la série des avions de combat polyvalents Su-27 de Sukhoï. Depuis le manœuvre spectaculaire du Cobra de Pougatchev à l’Aéroport Paris-Le Bourget en 1989, d’autres types d’avions (chasseurs et chasseurs-bombardiers) ont été développés par Sukhoï sur la base du Su-27. Il s’agit notamment des modèles Su-30, -33, -35, -35S et -37. Mais le Su-27, qui a été mis en service en 1984, jouit – avec sa vitesse maximale de Mach 2.35 et un rayon d’action de 3530 km – toujours d’une excellente réputation au niveau international. Il y a quelques années, les Su-30 de l’armée de l’air indienne se sont avérés supérieurs aux F-15 américains lors d’un exercice de combat aérien.


La Suisse en tant que petit Etat, qui est de plus en plus traité d’Etat-voyou et soumis au chantage par de soi-disant «amis», ainsi que le Conseil fédéral et le Parlement seraient bien avisés à l’avenir de prendre au sérieux l’offre d’armement de la Russie.


Contrairement aux «amis» occidentaux, les dirigeants russes ont toujours traité la Suisse avec respect au cours des dernières années. Compte tenu des siècles de bonnes relations et d’amitiés entre la Suisse et la Russie – mentionnons l’amiral Pierre le Grand, le Genevois F. J. Lefort (1656–1699), le colonel et éducateur du Grand-duc Alexandre, le Vaudois F. C. de Laharpe (1754–1838) et le général et conseiller militaire de divers tsars, le Vaudois Antoine-Henri Jomini (1779–1869) –, ce pays est pour la Suisse le fournisseur d’armes idéal en ces temps difficiles.     •

1    Jana Honkova, Current Developments in Russia’s Ballistic Missile Defense, The Marshall Institute, 2013, p. 10/11.

jeudi, 20 juin 2013

LA LEGIÓN JURA DE BANDERA EN RONDA 2012

LA LEGIÓN JURA DE BANDERA EN RONDA 2012

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lundi, 17 juin 2013

Любо, братцы, любо - Кубанский казачий хор

Любо, братцы, любо - Кубанский казачий хор

samedi, 15 juin 2013

Chant des artilleurs

Chant des artilleurs

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jeudi, 06 juin 2013

Armes modernes de contrôle de foules

Armes modernes de contrôle de foules

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vendredi, 03 mai 2013

Der Deutsche Orden - Auf den Spuren der Ritter

Der Deutsche Orden

Auf den Spuren der Ritter

Zwei Dokumentationen auf einer DVD - 145 Min. Laufzeit

Bestellungen: http://www.polarfilm.de/

Vor 800 Jahren begannen Ritter des Deutschen Ordens damit, das Land zwischen Weichsel und Memel zu erobern und Deutsche aus dem Westen dort anzusiedeln. Sie schufen das Land Preußen, das im Spätmittelalter als das modernste Gemeinwesen ganz Europas galt. Der Hauptfilm (ca. 90 Minuten) begibt sich auf die Spuren der Ostlandritter. Ihre gewaltigen Burgen, die heute in Polen stehen, werden ebenso vorgestellt wie ihre Stadtgründungen und die Methoden ihrer Landkultivierung. Über Jahrhunderte waren die Polen mit den Rittern verfeindet. Im Film wird deutlich, dass sich das Verhältnis entspannt hat.

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lundi, 01 avril 2013

Il soldato italiano nella prima guerra mondiale

lundi, 25 février 2013

Le modèle suisse et l'esprit de la démocratie directe

 

"Le modèle suisse et l'esprit de la démocratie directe"

par David L'Epée