Introduzione: teoria e prassi della nuova geopolitica multipolare
Benché la concreta, razionale possibilità di un equilibrio geopolitico differente da quello unipolare (risultante dalla vittoria del blocco Occidentale su quello Orientale, o viceversa) e da quello bipolare (basato sull’equilibrio tra il blocco Orientale e quello Occidentale, che si è poi in qualche modo concretizzato nella fase della guerra fredda) sia stata già tratteggiata da Carl Schmitt ne “Il nuovo nomos della terra”, e perfino accennata da Kant alla fine del ‘700 in chiave cosmopolitica, solo negli ultimi anni, in seguito al crollo del muro di Berlino e alla fine della fase “bipolare”, assistiamo al germogliare, seppur spesso faticoso, di quelli che sono le prime, embrionali manifestazioni della geopolitica multipolare.
Una parentesi economica: il liberismo come motore di una nuova geopolitica
Significativamente, ma anche un po’ paradossalmente, uno dei fattori che ha incoraggiato e accelerato l’emersione di autonomi blocchi geopolitici è stato il liberismo economico di matrice occidentale e soprattutto nordamericana: infatti, dando per scontati quei blocchi la cui omogeneità storica, filosofica, culturale e politica è secolare se non millenaria, quali l’Europa, il Nord-America e il blocco sovietico, la cui omogeneità peraltro ha storie e vicissitudini diverse (l’omogeneità culturale americana, ad esempio, è “indotta”, e storicamente recente, quella europea è culturalmente antica ma politicamente sempre più fragile, quella sovietica è al tempo stesso storica e rafforzata dalla federazione politica che era l’URSS, poi soggetta a uno sbandamento momentaneo e ora in pieno “rinascimento”), i “nuovi blocchi” frequentemente coincidono con i cd. “paesi in via di sviluppo”, in crescita economica pressoché verticale: l’America centro-meridionale (riunita nel 2008 nell’UNASUR e, commercialmente, nel MERCOSUR), il blocco che gravita intorno all’India, il Giappone, quello africano (riunito nell’Unione Africana dal 2002, che tra l’altro si è espressa di recente in modo giustificatamente negativo rispetto ai sistemi di giustizia penale internazionale sostanzialmente filo-occidentali), e il polo cinese, se, come pare ragionevole, lo si considera autonomo rispetto alla Russia in seguito alle divergenze del periodo post-staliniano, e nonostante le fasi di normalizzazione degli anni ’80 e dei nostri giorni.
Schmitt e D’Ors: grandi spazi, geopolitica e geodieretica
I requisiti che Carl Schmitt individuava per i “grandi spazi indipendenti” erano – e tuttora sono, nell’esperienza pratica – la loro delimitazione razionale e la loro omogeneità interna.
L’aspetto del pensiero schmittiano incentrato sulla teoria dei “Grandi spazi” (peraltro considerata da alcuni alla base della teoria nazista del Lebensraum) sarà poi sviluppato, con una certa creatività e seppur con una fondamentale dicotomia interpretativa riguardante il ruolo da attribuire allo Stato, da uno dei suoi discepoli, Alvaro d’Ors, in un’opera significativamente intitolata “Diritto e senso comune”. D’Ors ha addirittura coniato il termine “geodieretica” per indicare la semplice ripartizione della terra tra comunità, contrapposta alla geopolitica, che presuppone l’esistenza dell’istituzione-stato. Per D’Ors “la separazione di territori è alcunché di naturale, mentre non lo è il progetto di un ordine mondiale come se tutta la terra fosse un unico territorio sotto il dominio di un solo popolo. […] Questi “grandi spazi”, tra i quali può dividersi il mondo, sono determinati da ragioni geografiche e geopolitiche, e costituiscono raggruppamenti i quali non sono comunità propriamente dette né gruppi di natura societaria, in quanto non dipendono da una volontà contrattuale, ma da condizionamenti fattuali difficilmente eludibili.”.
I grandi spazi, secondo lo stesso autore, possono accordarsi per il mantenimento della pace, ma sono per loro natura avversari, perché hanno l’intrinseca tendenza ad espandersi, a danno gli uni degli altri. Al contrario, tra le comunità che compongono i larghi spazi sono possibili scambi di relazioni sociali.
Profili giuridici dei rapporti reciproci tra grandi spazi: l’annessione
Questa naturale tendenza ad espandersi, peraltro già propria dei tradizionali stati nazionali, ha come sua altrettanto naturale conseguenza l’annessione di territori appartenenti ad altri stati (nel passato e ancora oggi) e ad altri blocchi (nel futuro?).
L’annessione, nel diritto internazionale, è uno dei modi d’acquisto della sovranità territoriale, che peraltro risponde al principio di effettività “ex facto oritur jus”, quindi ribadisce la priorità cronologica e logica del fatto della conquista di un territorio e della conseguente espressione piena del potere di governo sul territorio conquistato rispetto alla sua disciplina giuridica, con buona pace dei giuristi che pensano di prescindere totalmente dalla dimensione fattuale politico-militare. Ne è un esempio paradigmatico il caso dell’Alsazia-Lorena, territorio storicamente conteso tra Germania e Francia che G. K. Chesterton erige ad esempio di una politica di indiscriminate annessioni che ha preso piede a cavallo tra ‘800 e ‘900, e che avrebbe dovuto essere repressa in modo esemplare, sì da costituire un monito per tutti gli attori internazionali.
Tale politica, propria non solo della Germania ma di tutte le grandi potenze, ispirate da un “nuovo” imperialismo non solo politico ma anche e soprattutto culturale, è tanto più perniciosa, secondo l’autore, quanto più cerca giustificazioni ex post per le sue conquiste, nel caso specifico attraverso la presenza di una nutrita – e opportunamente gonfiata e ingigantita – minoranza di tedescofoni sui territori in questione.
G. K. Chesterton e una nuova forma di imperialismo…
Poco importa che l’auspicio concreto di Chesterton, ossia la pronta restituzione dei territori alla Francia (pretesa con forza da Clemenceau) si sia poi realizzato, dal momento che le grandi potenze in questione non hanno affatto colto l’occasione per imparare la lezione, e un’altra questione di minoranze etnico-linguistiche, quella dei Sudeti, ha acceso la miccia della II guerra mondiale.
Questo imperialismo, che era un sintomo “nuovo” secondo Chesterton all’epoca della I guerra mondiale, per i contemporanei è assai “vecchio”, e non ha fatto che peggiorare nell’ultimo secolo, facendosi sempre più onnicomprensivo e totale.
L’obiettivo di questo mio intervento è, quindi, quello di segnalare alcuni spunti di riflessione alquanto moderni nell’opera di Chesterton, che precedono di quasi un secolo un certo approccio politico-ideologico neo-nazionalista che oggi pare rivoluzionario almeno quanto un secolo fa lo sembrava l’approccio internazionalistico, non fosse altro che perché è in controtendenza rispetto all’approccio degli ultimi decenni.
Il punto più significativo, a parer mio, è quello che riguarda l’imperialismo culturale e la differenza tra multipolarismo e globalizzazione. Chesterton, nel suo primo romanzo, “Il Napoleone di Notting Hill”, fa dire al fiero ex primo ministro del Nicaragua, in esilio a Londra:
«E’ questo che denuncio del vostro cosmopolitismo. Quando dite di volere l’unione di tutti i popoli, in realtà volete che tutti i popoli si uniscano per apprendere ciò che il vostro popolo sa fare”. A questa sintesi perfetta del concetto di imperialismo culturale, l’inglese indottrinato, ma non privo di intelletto, Barker, risponde che l’Inghilterra si è disfatta delle superstizioni, e che “La superstizione della grande nazionalità è negativa, ma la superstizione della piccola nazionalità è peggiore. La superstizione di venerare il proprio paese è negativa, ma la superstizione di riverire il paese di qualcun altro è peggiore. […]
La superstizione della monarchia è negativa, ma la superstizione della democrazia è la peggiore di tutte.»
riaffermando così la superiorità della propria nazione sulle altre. E un simile atteggiamento, che probabilmente si ispira agli avvenimenti della guerra anglo-boera, non può non ricordarci oggi la pretesa statunitense di “Esportare la libertà”, per usare una formula di Luciano Canfora, e le conseguenti, disastrose imprese in Medio-Oriente e in Somalia degli anni ’90 e 2000.
L’atteggiamento direttamente speculare a quello di Barker è però altrettanto condannabile: in “L’irritante internazionale” Chesterton condanna recisamente il “buonismo” sotteso a certe posizioni umanitaristiche pacifiste, che tendono a passare sotto silenzio “i peccati” tanto delle grandi potenze quanto di quelli che, di volta in volta, sono “gli stranieri”, piuttosto che ad essere trasparenti sugli errori di tutti gli stati. E anche questo tipo di posizioni, che paiono inneggiare al “mito del buon selvaggio”, non manca di corrispondenze nella politica contemporanea, soprattutto di sinistra, degli ultimi vent’anni.
La conclusione, solo apparentemente paradossale, è che sostanzialmente l’imperialismo culturale ha arrecato più danni del nazionalismo più ottuso alle relazioni internazionali pacifiche: lo straniero, nella nostra prospettiva distorta, ha diritto di escluderci dalla sua universalità, ma non ha diritto di includerci nelle sue generalizzazioni, non più di quanto abbia diritto di invaderci o di conquistarci, e anzi, la manifestazione del pensiero che si concretizza in un’invasione è, qui davvero paradossalmente, quella che trova più facilmente giustificazione, ideologica e politica, se non addirittura giuridica.
A una certa parte politica risulta infatti quasi più facile giustificare “lo zelota” (nel senso biblico ma anche in quello di Toynbee), l’ultraortodosso di qualsiasi fede o partito, che muore per difendere il proprio ideale, piuttosto che “il fariseo” che media, giunge a un compromesso, apre la mente all’altro. La fazione opposta, al contrario, inneggia a colui che dimentica completamente le proprie radici, aderendo di volta in volta a quelle dell’altro senza spirito critico e discernimento.
… e la reazione al nuovo imperialismo: un nazionalismo internazionale
La prospettiva suggerita da Chesterton per superare questo impasse è quindi quella di un “nazionalismo internazionale”, piuttosto che quella di un internazionalismo nazionale fallito negli anni ’20 del ‘900 così com’è “neutralizzato” nella sostanza oggi, nonostante il proliferare delle ONG e delle teorie sul loro ruolo nella formazione di una presunta “società civile internazionale” di alcuni filosofi e giuristi (pur blasonati e per altri versi interessanti).
Fermo restando che una simile formula, prima di essere ratificata, va riempita di contenuti “costruttivi”, oltre che “distruttivi” – nel senso dialettico socratico dei termini, s’intende -, pare che questa prospettiva possa anticipare quella, contemporanea, condivisa da un vasto movimento d’opinione che va dalle opere recenti di Aleksandr Dugin a quelle di una certa “Nuova destra” francese quale quella di Alain de Benoist, ma non dovrebbe esser poi troppo distante nemmeno da una certa scuola della sinistra (neo)gramsciana, com’è reinterpretata e divulgata in Italia da Diego Fusaro.
Il nazionalismo internazionale e un suo corollario, la teoria delle piccole patrie
E anche quello che è uno dei fili rossi del “Napoleone” chestertoniano, nonché una sorta di corollario della suddetta riflessione critica sull’internazionalismo “coatto” (cioè su quella che oggi chiamiamo globalizzazione), merita qualche considerazione proprio in quanto costituisce, negli ultimi vent’anni, un argomento di studio politicamente trasversale: mi riferisco alla cosiddetta “teoria delle piccole patrie”, cara ad Hilaire Belloc, l’amico di Chesterton a cui, non a caso, è dedicato il “Napoleone”.
A questo filone – che talora sconfina nel localismo più particolaristico, malgrado o per volontà degli stessi autori – si rifanno infatti espressamente tanto autori di scuole neomarxiste (soprattutto quella barese), come Franco Cassano , quanto intellettuali a vario titolo di destra, quali Marcello Veneziani e Pietrangelo Buttafuoco.
Questo sentimento, non dissimile da quello dell’Europa medievale e soprattutto dell’Italia comunale, si è rinfocolato dopo l’ondata di globalizzazione degli ultimi decenni, e trova un suo spazio anche nell’ordinamento giuridico: nel suo risvolto “unitario”, con il principio di sussidiarietà, soprattutto verticale (codificato nella nostra Costituzione all’art. 118, oltre che nei trattati europei), e in quello “disgregante” con il rinnovarsi delle pretese secessionistiche, che vorrebbero spesso elevarsi a diritti, non solo in Italia ma anche all’estero (p.e. Catalogna, Scozia, Quebec…).
Non a caso, si noti, Gianfranco Miglio, nel lontano 1972 curava un’edizione delle “Categorie del politico” di Schmitt, seppur giungendo a conclusioni diverse riguardo al destino dello Stato moderno: Miglio, infatti, riteneva che lo Stato nazionale tradizionalmente inteso fosse al capolinea, e con il crollo del muro di Berlino e la fine dello jus publicum europaeum si entrasse in una fase di transizione al termine della quale si sarebbero realizzati equilibri politici diversi, incentrati su forme diverse di comunità “neofederali”.
A prescindere dall’assetto finale delle comunità di Miglio, simile a quello medievale, e soprattutto a prescindere dalle interpretazioni e dalle derive banalizzanti che ne hanno dato alcune forze politiche, ciò che qui preme sottolineare è, ancora una volta, il nesso tra “l’infinitamente piccolo” (le piccole patrie), e “l’infinitamente grande” (il nazionalismo).
Conclusione: multipolarismo vs. globalizzazione, ritorno al futuro?
Il multipolarismo, comunque lo declinino i suoi fautori, in questo dovrebbe quindi differire dalla globalizzazione che lo ha preceduto: non pretendere che il singolo recida le sue radici per diventare immediatamente “cittadino del mondo”, ma piuttosto suggerire che lo sia solo mediatamente, attraverso la cittadinanza – o meglio, l’appartenenza – della sua nazione o del suo blocco, e la valorizzazione di tradizioni culturali anche regionali e locali.
In questo senso, e solo in questo senso, possono definirsi “conservatrici” o, più esattamente, “tradizionaliste”, le posizioni di autori come Dugin; e non è un caso, nemmeno questa volta, che negli ultimi trent’anni sia ricomparsa qui e là, tanto come argomento di studi storici quanto come ideale politico di riferimento, la formula, solo apparentemente ossimorica e provocatoria, della “rivoluzione conservatrice”.