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jeudi, 27 octobre 2011

Unser moralischer Niedergang: Blutdurst in den Straßen Libyens als Ersatz für Gerechtigkeit

Unser moralischer Niedergang: Blutdurst in den Straßen Libyens als Ersatz für Gerechtigkeit

Patrick Henningsen

Offenbar wurde das endgültige Urteil gegen den früheren libyschen Machthaber Muammar al-Gaddafi bereits durch die NATO-Rebellen verhängt und vollstreckt, aber möglicherweise ist die westliche Zivilisation, die sich von ihren moralischen Werten abgewendet hat, bereits in ein noch blutigeres und entsetzlicheres Schicksal verstrickt.

Der Mann, der sein Land 1969 von der tyrannischen Diktatur des damaligen Königs Idris I. befreite, wurde am vergangenen Donnerstag angeklagt und mit Schüssen hingerichtet. Gaddafi nahm sich Umar al-Muchtar (1862-1931) als Vorbild. Muchtar war der einzige andere Anführer, der sich an die Spitze eines genuinen und unabhängigen libyschen Widerstandes gestellt und gegen die brutale Kolonisierung durch Italien 1927 gekämpft hatte. Heute ist Gaddafi nur ein weiterer toter Diktator.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/patrick-henningsen/unser-moralischer-niedergang-blutdurst-in-den-strassen-libyens-als-ersatz-fuer-gerechtigkeit-.html

 

Gli eroi sono stanchi

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Guillaume Faye

Gli eroi sono stanchi

La giovinezza nelle società tradizionali e nel mondo moderno

La gioventù come laboratorio sperimentale del consumismo

La concezione organica dell'uomo.

Ex: http://www.uomolibero.com/

Ogni epoca ha la mitologia che si merita. La nostra ha fatto della gioventù il suo idolo onnipresente, a cui riserva un culto permanente e ossessionante. E come se la preoccupazione essenziale dei nostri contemporanei fosse di essere giovani, o, non essendolo, di atteggiarsi a tali. Ed è l'abuso di questo termine che genera (o per lo meno dovrebbe generare) il sospetto.

Bisogna infatti porsi riguardo alla gioventù la stessa domanda di Jean Baudrillard riguardo al nuovo: in un mondo in cui tutto si vuole nuovo, com'è che c'è così poco rinnovamento? Parimenti, proprio quando la giovinezza assume un significato magico, com'è che i valori dominanti che guidano la mentalità collettiva dei giovani (il benessere materiale minimale, l'umanitarismo, l'assistenza, ecc.) sono valori così « da vecchi » ? Come render conto del paradosso di una società che porta la gioventù sugli scudi e che rifiuta, nella sua ideologia come nei suoi valori, il gusto del rischio, della sfida, del combattimento?

Ma, in primo luogo, che cos'è la giovinezza?

Etologicamente, essa costituisce la fase di formazione dell'uomo adulto, più esattamente il passaggio dall'infanzia all'età matura. La fisiologia umana conosce durante questo periodo, che va pressapoco dai diciotto ai venticinque anni, la sua fase di massimo dinamismo. L'uomo, essere dalla gioventù persistente, vive in questa fase della sua esistenza, del bisogno di curiosità e di avventura, bisogno che può arrivare fino al sacrificio della vita. Quando entra nell'età matura, l'uomo è capace (è ciò che lo distingue dall'animale) di conservare queste qualità della giovinezza che sono la sete d'esperienza e il gusto del rischio, poiché è un essere mai finito.

Niente di strabiliante, stando così le cose, se molte culture hanno rappresentato l'«uomo tipo » come individuo giovane.

È l'età dei kuroi che si possono ammirare al museo del Partenone; è anche l'età dei guerrieri cinesi delle incisioni dell'epoca Ming.

Anche nelle società tradizionali, quelle che precedono la rivoluzione industriale, gli uomini non accedevano più tardi alle responsabilità. Non c'era transizione fra l'infanzia e l'età adulta. A Roma, si passava in un sol colpo dalla veste pretesta alla toga virile a diciotto anni. Nel Medioevo, da quando un apprendista cominciava a lavorare, quale che fosse la sua età, era integrato nel mondo degli adulti. I generali di Napoleone Bonaparte avevano spesso tra i venti e i venticinque anni, esattamente come i comandanti della battaglia di Cunaxa, descritta da Senofonte, che conducevano in battaglia le truppe di Sparta. I valori della gioventù erano organicamente integrati all'insieme sociale, allo stesso titolo di quelli dell'età matura e della vecchiaia, che rappresentavano la riflessione e l'esperienza. Gli uni controbilanciavano gli altri, senza conflitto. Certo la gioventù si ritrovava durante le feste tradizionali, ma non in quanto «classe d'età» (nel senso in cui oggi si ha una « terza età »). Si trattava spesso di riunire i giovani da sposare o quelli che arrivavano all'età di portare le armi. Giovinezza significava tutto il contrario di quanto significa oggi: non una seconda infanzia prolungata, ma l'ingresso nel mondo degli uomini, nel mondo vero. Per farla breve, non c'era giovinezza, ma la « giovanilità » penetrava i valori sociali.

È a partire dall'epoca romantica, e poi soprattutto con la rivoluzione industriale, che la gioventù, considerata come classe e come valore, fa la sua apparizione.

L'allungamento medio della durata della vita obbliga a differire l'età della presa di responsabilità. Un'età intermedia appare progressivamente fra l'infanzia e la vita professionale. Nelle società. tradizionali, a basso indice di scolarizzazione, era la comunità che trasmetteva il sapere agli individui, mischiando tutte le classi di età. A partire dal diciannovesimo secolo, l'educazione obbligatoria e il servizio militare vanno a far fronte comune con la famiglia ridotta al suo nucleo per isolare la gioventù in maniera funzionale. Al contempo, si constata che la società avvia un processo gerontocratico: le occupazioni vengono strutturate a carriera; si fissano soglie d'età per l'esercizio delle responsabilità.

Dal 1890 le opere sugli adolescenti si fanno sempre più numerose. La giovinezza adolescenziale diviene un valore, connotata da temi avventurosi e guerrieri. Lo scoutismo nasce sotto forme decisamente paramilitari. Il servizio militare obbligatorio trasforma gli eserciti europei in raggruppamenti delle gioventù nazionali e non più in truppe professionali d'età mista. Dappertutto si vedono sbocciare dei movimenti della gioventù che indossano l'uniforme e che si vogliono portatori di una rigenerazione sociale e politica. Nei collegi e nei licei la gioventù imparerà a vivere insieme e a riconoscersi come categoria a parte.

Fra il 1890 e il 1910, la letteratura comincia ad appassionarsi alla adolescenza e le inchieste sulla gioventù si succedono sulla stampa: se ne contano cinque in Francia nel solo 1912. Raymond Radiguet e Colette illustrano, nei loro romanzi, il culto della gioventù « perdonabile di ogni suo eccesso », mentre Montherlant osserva nel 1926 che si va sviluppando un nuovo fenomeno, « l'adolescentismo », nuovo rivale del femminismo. Nel frattempo il culto dello sport e dell'olimpismo nasce e si sviluppa, appoggiato su di un'esaltazione della giovinezza, spesso intesa come portatrice d'un rinnovamento pagano. Per liberare la gioventù dal giogo borghese della famiglia, Gide lancia il suo famoso «Famiglie, io vi odio », e i regimi totalitari ed autoritari che nascono in Russia, in Germania, in Italia, in Grecia, in Ungheria, ecc. si considerano tutti delle «dittature della gioventù ».

La modernità delle nuove tecniche, quella dei pionieri dell'aviazione o degli eroi della velocità dell'automobile, è interpretata come di competenza della gioventù, come d'altra parte — quasi paradossalmente — un certo desiderio di ritorno alla natura, ben rappresentato da movimenti come il Wandervogel in Germania. C'è, in entrambi i casi, la medesima pulsione di purezza selvaggia ed aggressiva, la medesima rivendicazione da' parte della gioventù di un reinvestimento di una funzione creatrice e guerriera dimenticata dal mondo borghese.

Un'inversione di senso si produce però grosso modo dopo la seconda guerra mondiale. Progressivamente, all'«adolescentismo » va a sostituirsi l'era dei teen agers. La gioventù «precipita» nella funzione mercantile: a livello di ideologia e discorsi, essa conosce il suo trionfo, ma nei fatti, i valori giovanili crollano. Essere giovane non significa più donare la propria vita per una causa, ma « consumare » una sottocultura fabbricata per i giovani.

Similmente ai loro eserciti, funzionali e burocratici — a dispetto della giovane età di reclutamento — le società occidentali s'impegnano ad addomesticare i giovani utilizzando il dinamismo formale dell'ideale di gioventù ereditato dall'anteguerra. Due movimenti paradossali sono osservabili a partire dagli anni cinquanta: la gioventù perde le sue organizzazioni, le sue istituzioni, spesso considerate troppo « militari » dalla società dei consumi; l'ideologia esalta più che mai la gioventù in quanto frangia sociale munita di diritti (si denuncia il «razzismo anti giovani ») e di una cultura propria, quella dei teen agers di ispirazione americana. La gioventù diviene un surrogato del proletariato, e gli epigoni della scuola di Francoforte lanciano il tema della lotta generazionale. Da un lato, la società si individualizza e la gioventù fisicamente organizzata scompare; dall'altro, l'ideologia e la cultura costruiscono ciò che non è altro che un simulacro della giovanilità.

L'arrivo sul mercato delle numerose classi di età del dopoguerra, è coinciso, nei paesi occidentali, con la nascita di una « cultura per i giovani », apparsa per la prima volta negli Stati Uniti. Lanciata negli anni cinquanta da una serie di films dei quali James Dean è l'eroe, poi proseguita per trent'anni con mode di abbigliamento (i jeans), musicali (il rock, il pop, la disco, ecc.), alimentari ed ideologiche, questa cultura della gioventù, d'obbiedienza anglo-americana e a vocazione internazionale, ha avuto per funzione quella di staccare le giovani generazioni dalle loro culture nazionali e di includerle nella « nuova società dei consumi » dominata dai canoni culturali americani. Veniva così creata una nuova « classe internazionale », che costituiva di fatto la prima categoria di consumatori integralmente « occidentali ». L'idea di gioventù, ereditata dall'anteguerra, veniva così sfruttata come veicolo commerciale e, più o meno consciamente, svuotata del suo significato e privata di ogni energia rivoluzionaria. Le nuove generazioni nate dopo il trauma della guerra offrivano, rispetto ai genitori, il vantaggio di essere più facilmente avulse dalle loro tradizioni specifiche. La cultura dei giovani, cosiddetta contestatrice e liberatrice, fu così il primo grande tentativo di massificazione e di omogeneizzazione culturale ed economica esercitato su di una generazione « cavia ». Il processo è culminato alla fine degli anni sessanta — è l'epoca di Woodstock — nel momento in cui i giovani di vent'anni, erano i più numerosi. Successivamente il fenomeno subisce una pausa, ma la gioventù resta sempre il laboratorio sperimentale dell'occidentalismo, delle sue mode, dei suoi costumi.

È dunque necessario guardare con un minimo di critica e di sospetto alle dottrine della « guerra delle generazioni », sostenute per esempio da Marcuse, e sulla validità dei movimenti contestatari che mobilitavano la gioventù fino alla metà degli anni settanta. Questi, così come le culture underground pretenziosamente « di rottura» col mondo borghese, sono state non solo recuperate dal Sistema, ma molto peggio, gli hanno fornito nuovo fiato. In effetti, la funzione dell'«ideologia della rottura » fra le generazioni era di integrare la gioventù, con un processo di acculturazione, a una nuova forma di capitalismo mondiale, tecnocratico e non più patrimoniale, basato su di uno stile « americanomorfo» e su costumi permissivi, atti a staccare i giovani dalle specifiche morali etno-nazionali.

I discorsi antiborghesi e l'aspetto rivoluzionario della controcultura non devono alimentare illusioni: essi veicolano un'ideologia di stordimento e modelli comportamentali che conducono diritto filato all'iperindividualismo e al culto del benessere materiale minimale. Theodor Adorno ha avuto almeno il merito di mostrare che le musiche ritmiche costituiscono niente più che una parvenza di rivolta, e hanno per vero scopo quello di smobilitare la gioventù prima di condizionarla al consumismo.

In queste condizioni, non c'è da stupirsi che le teorie della guerra tra le generazioni, i movimenti contestatari e lo stile ribelle delle controculture conoscessero il loro declino in questo inizio degli anni ottanta: una volta realizzata l'integrazione nell'«americanosfera » esse non servono più se non sotto forme sempre più asettiche, quasi accademiche e in realtà conservatrici. Un'autentica controcultura delle giovani generazioni, in continuo rinnovamento, e che veicolasse temi realmente mobilitanti dell'eroismo e dell'avventura, farebbe paura alla cultura umanitaristico-borghese. Va meglio l'individualismo della falsa rottura e della pseudo-marginalità, nel quale si riconoscono i giovani « omologati » d'oggi e i loro genitori di quarant'anni, i vecchi teen-agers degli anni sessanta, che immaginano di essere restati giovani, mentre non lo sono stati mai.

Molti studi sociologici contemporanei, fra cui quelli del Centro di Comunicazione Avanzata, attestano della nascita fra i giovani di due nuovi tipi di mentalità: l'«omologazione » — o integrazione — che è maggioritario, e la « sfasatura » — o disadattamento — ancora minoritaria, ma in costante aumento fra i soggetti al di sotto dei vent'anni.

Gli « omologati » ritornano al Sistema, dopo averlo combattuto, perché si rendono conto più o meno consciamente, che esso veicolava i loro stessi valori. Disincantati quanto alle virtù del « rivoluzionarismo », questi nuovi piccoli borghesi hanno conservato della « sinistra » le idee umanitarie, ecologistiche e pacifiste. L'avvenire auspicato è quello di un mondo in cui la « pace » debba essere preservata ad ogni costo. I valori dominanti non sono più la rivoluzione sociale, e nemmeno l'ambizione personale dei « giovani quadri dinamici », bensì la sicurezza e la tranquillità di una vita privata senza costrizioni, fatta di libertà estetizzante, di molto tempo libero e di redditi « sufficienti ». I grandi problemi sociali o nazionali non interessano più gli omologati, anche se — grandi fruitori di mass media — piangono sulla Polonia e approvano sempre Amnesty International. Se militano, lo fanno per la « qualità della vita », al fine di costruire una società sedata e conviviale. Il dinamismo e la potenza nazionale sono biasimati da questi nuovi adepti di un petainismo freddo. Amanti dei magnetoscopi e delle riviste pratiche, riservano il loro immaginario avventuroso ai palmizi di un Club Méditerranée, e vivono la liberazione sessuale per procura. Hanno bisogno di un circondanio televisivo, musicale e umano, rassicurante e sorridente. La vita, per loro, è in primo luogo, la vita privata, il nido o il bozzolo, lontano dal furore delle militanze e delle vere competizioni.

Gli « sfasati », che rappresentano già il 20% dei giovani fra i 15 e i 25 anni, sono, a differenza degli « omologati », non coinvolti. Non contestano e non approvano « si disinteressano ». Neppure utopisti, si chiudono nel loro narcisismo costituendo, il più delle volte, dei micro gruppi frammentari provvisti ognuno di un proprio stile. La loro creatività è spesso notevole, ma è indirizzata verso la sfera individuale o la ricostruzione di piccoli mondi fatti di parvenze e di sogni. Bambini perenni e adulti disillusi al tempo stesso, questi giovani divengono schizofrenici: lavorano per vivere — spesso con impieghi volanti — ma la loro vera vita è altrove. Essi sono mentalmente assenti sia dal proprio lavoro che dalla propria società. Eternamente alla ricerca dell'evasione, spingono il loro psichismo di sognatori in una marginalità culturale e in una indifferenza ideologica che non impediscono il loro inserimento sociale effettivo. In fin dei conti bisogna ben « consumare », ed essi non ne fanno certo a meno. Lo Stato-Provvidenza non ha da lamentarsi di questi nuovi giovani, la cui schizofrenia interiore lascia piena libertà d'azione a qualsiasi dittatura amministrativa di tipo materno. Il calo d'ambizioni, la dipendenza ombelicale e il neo-tribalismo prefigurano una mentalità adattissima alle strutture economiche di una società mercantile socializzata, a fonte tasso di disoccupazione, a bassa progressione di reddito, e dominanta da un'assistenza burocratica generale.

Ecco ben evidente l'«implosione dei sensi » di cui parla Baudrilland: all'abbondanza dispersa degli stili, dei ghiribizzi feticisti e dei valori intimisti, risponde un gran silenzio: dalla gioventù non viene nessun discorso, nessun progetto, nessun ideale.

In questa era in cui la « rande muta non è più l'esercito, ma la gioventù, tutti parlano, come per compensazione, di gioventù. Viviamo una nevrosi della gioventù.

Essa diviene una qualità a se stante, puramente estenionizzata, nel momento stesso in cui cessa di essere una disposizione dello spirito. Apparente e fisica, questa falsa gioventù si vuole eterna, la qual cosa ben si adatta ad una società fissata sul presente. Un'autentica cultura giovanile presupponebbe, al contrario, che l'adolescenza costituisca un passaggio verso il mondo adulto, uno stato transitorio. Il vero adulto — il vir dei Romani, il kalòs kàgathòs dei Greci — faceva coabitare in sé una giovinezza dionisiaca e una padronanza apollinea, ma soprattutto non intendeva « restare » giovane, proprio per poter attualizzare, in quanto adulto padrone di se stesso, quella parte del suo animo che, qualsiasi cosa succedesse, restava sempre creativa e giovanile. Noi siamo ben lontani da questa concezione organica dell'uomo...

All'infantilizzazione del mondo adulto corrisponde ciò che bisogna ben chiamare, con un barbaro neologismo, l'«adultizzazione » dei bambini e dei giovani in generale. Il bambino-re degli anni cinquanta e sessanta è diventato un giovane vissuto, ma i suoi genitori sono rimasti rimbecilliti e continuano a leggere Topolino. Giocano a fare i giovani e immaginano che sia sufficiente averne i vestiti, l'atteggiamento o il linguaggio per restare tali.

Questi tratti puerili della cultura di massa sono compensati da un'ostentazione generale dell'« esprit de sérieu ».

La liberalizzazione dei costumi, seriosamente prognammata come una nuova morale, nasconde male l'irrigidimento dei comportamenti. Le etichette sociali e il funzionalismo capillare della vita quotidiana spengono ogni gioiosità, ogni spontaneità dei rapporti sociali. Il canto, il riso, la mimica, il bisticcio, non caratterizzano più le relazioni umane, apparentemente « senza costrizioni », ma in realtà imprigionate in circuiti rigidi. Le feste della gioventù sono le danze tristi o le copulazioni elettroniche con i simulatori delle « guerre spaziali », successori dei sorpassati flippers.

La sparizione della giovanilità nei rapporti sociali corrisponde d'altra parte all'intellettualismo che domina la nostra epoca. Lo spirito geometrico supera ovunque quello dotato di acume, e questo, insieme con la « sfera letteraria », di cui parla Aldous Huxley, è stato inghiottito dalla « cultura matematica ». I giovani d'oggi sono allo stesso tempo formati, in maniera pensino esagerata, alla matematica, e completamente neopnimitivi nel loro linguaggio, nel loro comportamento, nel loro stile di abbigliamento, nei loro gusti musicali, ecc. Contemporaneamente, l'ascesa dello spirito iperanalitico distrugge ogni freschezza comportamentale nell'insieme della società. La gioventù moderna rischia fortemente di essere l'avanguardia di una nuova borghesia, barbara adepta del confort e delle comodità elettroniche, limitata dal pragmatismo tecnologico e smussata nella sensibilità a contatto con la sottocultuna americana.

Tutto accade come se, per compensare l'invecchiamento demografico e l'installarsi dei valori senescenti dell'egualitanismo di massa, l'ideologia sociale avesse creato un simulacro di giovinezza e avesse incarcerato la gioventù in un mondo artificiale, per prevenire un'autentica rivolta contro questo stato di fatto.

Ma l'artificio può niginansi contro chi lo maneggia. Gli ideatori della falsa gioventù stiano in guardia: finché ci sarà qualcuno che veglia, tutto è sempre possibile. La gioventù, un giorno o l'altro, può sentirlo. Come il fiume della vita, essa ritorna sempre ad ogni generazione.

E quelli che vegliano ci sono. Essi seminano. Non per questo mondo. Non per questa gioventù, ma per l'altra, quella che viene.

 

Guillaume Faye

 

L’Empire selon Bourrinet

L’Empire selon Bourrinet

 

par Pierre LE VIGAN

 

L’âge de fer, le politique, quelques figures d’écrivains et le sacré : c’est ainsi que chemine le livre de Claude Bourrinet, L’Empire au cœur. Notre âge est celui du triomphe du sentimentalisme, de l’oubli des codes, et du factice. Notre société nie les disciplines qui font les civilisations et c’est pourquoi elle nie en fait l’École au sens fort à mesure qu’elle parle de plus en plus et à tort et à travers d’éducation. Rendant hommage au Finkielkraut de Nous autres modernes. Quatre leçons, Bourrinet met en cause dans l’émergence et la domination d’une « littérature sans estomac » (Pierre Jourde), le rationalisme desséchant. Il en appelle à la nature, au cosmos englobant et en même temps vertigineux. Bourrinet met aussi en cause la religion du travail avec toute l’ambiguïté qui s’y attache : quand le travail est œuvre (Beruf), il est honorable et donne sens à la vie de l’homme, quand il est répétitif, idiot, aliénant, simple dépense usante d’énergie (Arbeit), il fait perdre à l’homme au contraire son ancrage en lui-même, et la possibilité de déployer même ses capacités d’invention, d’initiative, de maîtrise des savoirs-faire. Sur ce point, l’anti-calvinisme de l’auteur ne convainc pas car valoriser l’œuvre c’est bel et bien faire l’éloge de la face positive du travail. L’école devrait justement être le lieu d’apprentissage des savoirs pour faire ensuite naître – telle une seconde naissance liée à l’éducation – des citoyens pensant par eux-mêmes. C’est pourquoi l’art d’enseigner n’est pas une science mais justement un art, c’est-à-dire un équilibre entre transmission et reformulation des savoirs.

 

Si l’enseignement au sens noble du terme est dévalué, c’est que l’hyperclasse mondiale, ou encore « nouvelle classe dirigeante transnationale », n’a plus besoin de citoyens. Elle n’a besoin que de consommateurs et d’électeurs passifs dont les différences ne soient plus que de minimes segmentations de marketing. De là s’impose la nécessité selon Bourrinet de mener, Européens et non Européens, un même combat pour exister humainement et politiquement. « Je me sens plus proche d’un griot Peul que d’un bouffeur blanc de hamburger. »

 

 

L’introduction que fait Bourrinet aux figures de Simone Weil, de Corneille, de François Augiéras l’ermite du Périgord, d’Albert Camus « le nietzschéen » (en un sens), de Jack Kérouac sont des façons de prendre le contrepied de notre monde : en s’opposant au puritanisme contemporain, qui réussit à associer l’impudeur la plus grande avec l’esprit le plus coincé qui soit, en opposant les voyageurs aux semelles de vent, ceux qui pensent en marchant aux demi-intellectuels assis. En opposant l’homme face au cosmos et à Dieu à l’homme de la pensée calculante.

 

C’est, à côté des arts tel le cubo-futurisme, la poésie, celle d’un Michel Deguy, qui inspire à Bourrinet ses plus belles pages, celles où lui paraissent possibles le retour de l’engagement citoyen, et les passions sanguines, et le retour de l’Empire, fondé sur la subsidiarité et sur le règne néo-platonicien, et plotinien, de l’Un (ce qui n’empêche pas l’auteur de prendre ses distances avec la méfiance de Platon envers le corps). L’Empire doit être celui de la protection, de la prévoyance (la pronoia), mais aussi de l’élévation. D’où l’association de l’idée d’Empire à celle de sacré. En ce sens, l’Empire qui est la garant de l’unité de ses peuples en une culture commune et reconnaît aussi les différences, c’est la paix dit justement Bourrinet. Si l’Empire au cœur est discutable sur certains points comme de voir à l’origine de la modernité contemporaine, si désastreuse, la Réforme protestante et la Contre-Réforme catholique, Claude Bourrinet nous a donné ici une réflexion exigeante et essentielle.

 

Pierre Le Vigan
 
Claude Bourrinet, L’empire au cœur, préface de Georges Feltin-Tracol, Éditions Ars Magna, 2011, 384 p., 33 € (+ 2 € pour le port), chèque à l’ordre des Éditions Ars Magna, B.P. 60426, 44004 Nantes C.E.D.E.X. 1.

 


 

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L'importance des études indo-européennes par Jean Haudry

L'importance des études indo-européennes par Jean Haudry

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mercredi, 26 octobre 2011

Le monde arabe à l’heure des islamistes

Bernhard TOMASCHITZ:

Le monde arabe à l’heure des islamistes

Après les révolutions du “printemps arabe”, les islamistes gagnent du terrain et l’Occident gonfle le danger terroriste

La “jeunesse de Facebook” a fait son temps dans les pays arabes après les soubresauts politiques qui les ont secoués. Ainsi s’évanouissent également les espoirs des Etats-Unis et de l’UE de voir émerger, après la chute des dictateurs en Egypte, en Tunisie et en Libye, des “démocraties libérales” de modèle occidental. Le vide de pouvoir dans ces pays d’Afrique du Nord est comblé —c’est désormais patent— par les islamistes. L’histoire accouchera sans doute d’une de ces boutades de mauvais goût et nous dira bientôt que les bombes de l’OTAN, lancées sur la Libye, auront aidé le droit islamique, la Sharia, à s’installer dans le pays. En effet, à la mi-septembre, le président du Conseil National de Transition, Moustafa Abd Al-Djalil, a fait savoir qu’on “construira en Libye un Etat de droit, un Etat social, bref un Etat dans lequel la jurisprudence islamique, soit la Sharia, constituera la source de toutes les lois”. L’affirmation d’Al Djalil, qui disait “ne tolérer aucune idéologie extémiste”, apparaît désormais comme une simple pillule tranquilisante destinée à l’Occident.

La situation est quasi la même dans la Tunisie voisine, où, au début de cette année 2011, le “printemps arabe” a réellement commencé lorsque la population en colère a chassé Zine el-Abidine Ben Ali, au pouvoir depuis fort longtemps. En Tunisie, le parti islamiste Ennahda a quasiment toutes les chances de devenir la force politique la plus puissante dès les premières élections libres qui auront lieu fin octobre. Le parti “Ennahda” fait certes semblant de suivre la ligne modérée de l’AKP turc, aujourd’hui au pouvoir à Ankara: il serait ainsi “occidentalisé” et “moderne” pour se présenter aux observateurs extérieurs mais, en dépit de cette façade, les islamistes ont vraisemblablement en tête de transformer la Tunisie en un Etat islamiste, qui n’aurait plus rien d’“occidental” ou de “moderne” en ses fondements. Dans cette optique, le juriste et constitutionaliste tunisien Djaouar Ben Moubarak estime “que l’Ennahda parle bel et bien d’un Etat séculier, tout en voulant se servir de la Sharia comme source d’inspiration première pour la future constitution tunisienne”. A cela s’ajoute que l’Arabie Saoudite, où le wahhabisme, une forme particulièrement rétrograde de l’islam, est religion d’Etat, a soutenu généreusement les “révolutions” dans les Etats d’Afrique du Nord, dans l’intention évidente d’exporter son propre modèle qui n’est en rien compatible avec les valeurs occidentales comme la démocratie ou les droits de l’homme.

En Egypte aussi les islamistes marquent des points. Dans ce pays qui compte aujourd’hui 80 millions d’habitants, les frères Musulmans, qui constituaient sous Moubarak la principale force d’opposition, ont le vent en poupe. Leur parti, qui se présente aux élections et se nomme “Liberté et Justice”, gagnera vraisemblablement les élections prévues pour le 28 novembre 2011, ainsi que l’estiment bon nombre d’observateurs. Cela ne sera pas sans conséquences pour le pays arabe le plus peuplé. En effet, lorsque le Premier Ministre turc Recep Tayyip Erdogan a visité l’Egypte en septembre 2011, il a plaidé en faveur de l’émergence d’un modèle islamo-démocratique; les Frères Musulmans ont aussitôt pris leurs distances. Dans une déclaration faite à la presse, les Frères Musulmans ont précisé: “Les expériences réalisées en d’autres pays ne peuvent pas purement et simplement être importées en Egypte”.

L’objectif, affiché au départ par les Etats-Unis, qui était de “démocratiser” le monde arabe selon des conceptions proprement américaines, est remis aux calendes grecques... Toutefois les Etats-Unis semblent tout aussi prêts à accepter l’apparition de nouvelles formes autoritaires. Dans ce sens, la ministre américaine des affaires étrangères, Hillary Clinton, a loué le travail des militaires égyptiens qui, depuis la chute de Moubarak en février dernier, ont pris en mains les affaires de l’Egypte et ont assumé un “rôle stabilisateur”.

C’est justement ce souci de “stabilité” qui pourrait servir de prétexte aux Etats-Unis, dans les années à venir, pour empêcher les populations de la région de forger leur avenir selon leurs propres voeux et selon leurs conceptions musulmanes. Dans ce contexte, il me paraît bon de rappeler un fait, rapporté récemment: en Libye, quelque 10.000 missiles sol-air ont disparu des arsenaux de l’armée, en dépit des gardes. Ces missiles, d’après la sonnette d’alarme que tire l’OTAN, pourraient tomber aux mains des terroristes et constituer à terme “un danger sérieux pour la navigation aérienne civile”. D’autant plus que bon nombre de missiles sol-air sont désormais pourvus de senseurs détectant les sources de chaleur, ce qui leur permet de frapper directement les turbines des avions.

Les indices se multiplient qui nous permettent d’émettre l’hypothèse suivante: les Etats-Unis constatent que les chances de succès d’une démocratisation à l’occidentale dans les pays arabes sont fort limitées à court terme et misent de plus en plus sur la lutte anti-terroriste. L’idée d’une lutte planétaire contre le terrorisme jouit d’une franche popularité aux Etats-Unis, encore aujourd’hui, comme l’attestent les réactions à l’occasion du dixième anniversaire des attentats du 11 septembre 2001. Le Président Barack Obama a déclaré ainsi, dans l’une de ses allocutions: “ne nous faisons pas d’illusions, les terroristes tenteront encore et toujours de nous attaquer mais, comme nous l’avons à nouveau démontré ce week-end, nous restons sans cesse vigilants. Nous entreprenons tout ce qui est en notre pouvoir pour protéger notre peuple”. Le prédécesseur d’Obama, George W. Bush, ne se serait pas exprimé autrement.

Pour les Etats-Unis donc, la lutte contre le terrorisme est loin d’être terminée: on peut l’affirmer dès lors que nous voyons des branches d’Al Qaida se multiplier à des échelles régionales comme prolifèrent les champignons dans un sol humide. Parmi ces émanations d’Al-Qaida, citons notamment “Al Qaida pour un Maghreb islamique”, qui semble vouloir se développer dans un avenir proche en Tunisie, en Libye et en Egypte, ce qui permettra aux Etats-Unis d’intervenir à tout instant, sous prétexte de lutte anti-terroriste.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°41/2011 – http://www.zurzeit.at ).

 

Der Renegat der konservativen Revolution: Das Buch „Thomas Mann – Der Amerikaner“

 

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Der Renegat der konservativen Revolution: Das Buch „Thomas Mann – Der Amerikaner“
     

 Geschrieben von: Simon Meyer   

 Ex: http://www.blauenarzisse.de/

 

Als im Sommer 1914 auf die Schüsse von Sarajevo die allgemeine Mobilmachung folgte, machte einer der schon damals berühmtesten Schriftsteller Deutschlands keinen Hehl aus seiner Solidarität mit dem Reich und dessen Kriegsführung: Thomas Mann. Er wurde – nicht zuletzt wegen seines berühmten Namens – vom Kriegsdienst freigestellt. Doch sein literarisches Schaffen stellte er in den Dienst der Sache. Zwanzig Jahre später jedoch, befand er sich geographisch und politisch auf der anderen Seite.

Thomas Manns literarischer Kriegsdienst begann noch 1914 mit der Schrift Gedanken im Kriege, auf die im gleichen Jahr der Großessay Friedrich und die große Koalition folgte. Und er legte nach. 1915 verfaßte er eine leidenschaftliche Verteidigung Deutschlands in einem Beitrag für die Schwedische Tageszeitung Svenska Dagbladet. Drei Jahre später, zum Ende des Krieges, sammelte er seine Gedanken unter dem Titel Betrachtungen eines Unpolitischen – einem der Grundlagenwerke der Konservativen Revolution.

Flucht vor der Heimat und der eigenen politischen Vergangenheit

Um so verwunderlicher: Derselbe Schriftsteller propagierte gut zwei Jahrzehnte später aus seinem amerikanischen Exil heraus unablässig die bedingungslose Vernichtung Deutschlands als notwendig und verdient. Während des Zweiten Weltkriegs hatte Thomas Mann die amerikanische Staatsbürgerschaft erworben. Seit 1938 hatte er in den Vereinigten Staaten seinen ständigen Aufenthalt. Der Amerikaner Thomas Mann war den Deutschen ein Fremder geworden. In den Nachkriegsjahren war er nicht willkommen, zu frisch war bei vielen die Erinnerung an das, was Mann ihnen in den Rundfunksendungen der Alliierten entgegengeschleudert hatte. Doch auch als die Verhältnisse sich 1968 grundlegend geändert hatten, blieb er ein Fremdkörper. Zu liberal-großbürgerlich erschien Thomas Mann nun und wurde angesichts seiner frühen Schriften schon fast als unsicherer Kantonist behandelt, jedenfalls als Fossil aus einer überholten Epoche.

Warum ging Thomas Mann, der für die Buddenbrooks mit dem Literaturnobelpreis ausgezeichnet wurde und darin eine hanseatische Handelsfamilie beschrieb, diesen Weg? Warum wurde er nicht nur aus der Notwendigkeit des Exils sondern aus innerer Überzeugung zum Amerikaner? Wäre nicht der Weg, den etwa Gottfried Benn, Martin Heidegger oder Ernst Jünger während der Jahre der nationalsozialistischen Herrschaft gingen, für ihn der wahrscheinlichere gewesen? In diese Fragestellungen, so hofft man, würde ein Buch des Deutschamerikaners Hans Rudolf Vaget, Professor an einem College in Massachusetts und ausgewiesener Kenner des Lebens und Schaffens Manns, etwas Klarheit bringen können. Dieses Buch befaßt sich mit den amerikanischen Jahren Manns, ist unlängst im S. Fischer Verlag erschienen und trägt den bezeichnenden Titel Thomas Mann, der Amerikaner.

Ein detailreicher Blick in eine wenig bekannte Epoche Manns

Der Autor beeindruckt im Buch mit einem Detailreichtum, der eine langjährige, akribische Arbeit erahnen läßt. In allen Einzelheiten schildert Vaget die Zeit und die Zeitgenossen Manns in den Vereinigten Staaten, so daß der Leser den Weg des Autors in seinem Exil bis ins einzelne nach verfolgen kann. Viele deutsche Leser Thomas Manns haben sich zunächst mit den Buddenbrooks und dem Zauberberg befaßt und haben auch Tonio Kröger und den Tod in Venedig gelesen. Alles Werke, die für den Deutschen Thomas Mann stehen. Die amerikanischen Jahre und die amerikanischen Verhältnisse jener Zeit sind oft weniger bis überhaupt nicht bekannt. Insoweit eröffnen sich durch das vorliegende Werk in großer Breite neue Aspekte auf einen Zeitraum, mit dem man sich bisher vielleicht kaum oder gar nicht eingelassen hatte.

Leider erschöpft sich das Buch auch häufig in der Aneinanderreihung von Fakten und Ereignissen. Vaget ist stärker in der Schilderung der amerikanischen Protagonisten, etwa Franklin D. Roosevelts oder der Gönnerin Manns, Agnes Meyer. Thomas Mann selbst bleibt in den Schilderungen etwas blaß. Vor allem gelingt es Vaget nicht, den eigentlichen Grund für die Entwicklung Manns aus der Fülle der Details zu entwickeln. Die Verweise auf die Beschäftigung Manns mit den Dichtern Walt Whitman oder Joseph Conrad während der zwanziger Jahren, die eine erste tiefere Verknüpfung Manns zur anglo-amerikanischen Literatur entstehen ließ, mag biographisch interessant sein. Erhellend für die Amerikanisierung Manns sind sie nicht.

Thomas Manns politischer Lagerwechsel wird nicht begründet

Die Verwandlung Manns vom Verteidiger des deutschen Sonderwegs hin zu einem glühenden Anhänger des Sozialdemokraten Roosevelt bleibt dunkel. Denn gerade Roosevelt ist dem, was Mann noch 1918 für richtig hielt diametral entgegengesetzt. Roosevelt war ein Mann von ausgesprochener Deutschfeindlichkeit, der schon vor dem Krieg bedauerte, man habe es 1918/19 versäumt, den Deutschen den ihnen gebührenden Denkzettel zu verpassen. Im Gegensatz hierzu herrschte in der amerikanischen Öffentlichkeit überwiegend die Überzeugung vor, mit Versailles weit über das Ziel hinausgeschossen zu sein, und man blickte verschämt auf das Auseinanderklaffen des eigenen Anspruchs, mit dem man 1917 angetreten war, und dem Ergebnis der Friedensbedingungen. Roosevelt ging es – ähnlich wie Churchill – nicht nur um die Beseitigung Hitlers sondern um die Vernichtung Deutschlands als Subjekt der Geschichte. Thomas Mann erkannte dies und unterstützte Roosevelt trotzdem vorbehaltlos.

Die Frage nach dem „warum“ scheint Vaget aber auch nicht besonders wichtig zu sein. Vaget ist selbst so durchdrungen von der Überzeugung der gerechten Sendung der Amerikaner. Und zwar der Amerikaner in ihrer Variante der demokratischen Partei und ihres Anspruchs auf eine Formung und Umgestaltung der Welt in ihrem Sinne. Eine Alternative, einen dritten Weg gleichsam, kann sich Vaget nicht ernsthaft vorstellen.

Wiederholt schimmert so die eigene Vorliebe des Autors für die amerikanischen Demokraten von F. D. Roosevelt bis hin zu Obama durch. Zuweilen ist es schwer zu unterscheiden, wo die Wiedergabe der Gedanken Manns endet und eigene Ansichten des Autors in den Vordergrund rücken. Man hält den Autor zunächst für einen typischen Amerikaner, der trotz seiner ausgewiesenen Kenntnisse über Goethe, Mann und Nietzsche schlußendlich doch Amerikaner bleibt. Herbert Rosendorfer bemerkte in einem seiner Bücher, sowohl Sprache als auch Geschichte Deutschlands bliebe selbst dem intelligentesten Ausländer dem Grunde nach unbegreiflich. Aber Vaget ist Deutscher, im böhmischen Marienbad geboren. Gleichwohl scheint er sich derart amerikanisiert zu haben, wie dies auch beim späten Thomas Mann der Fall war. Da ihm selbst der Zugang zu dem fehlt, was Mann vor diesem Wandel ausmachte, kann er diesen Wandel auch nicht erklären.

Jünger, Benn und Bergengruen: Das politische Exil war 1933 nicht der alleinige Weg

So selbstverständlich, wie der Autor meint, war selbst 1933 der Weg nicht, den Thomas Mann genommen hatte. Zwar galt Mann seit etwa 1922, damals für viele überraschend, als Anhänger des parlamentarischen Parteienstaats, aber noch 1933 hätte ihn das Regime zumindest aus propagandistischen Zwecken mit offenen Armen begrüßt. Warum Mann nicht in der Schweiz blieb, sondern schlußendlich ein amerikanischer Linksliberaler mit noch dazu einem zuweilen pathologischen Haß auf Deutschland und die Deutschen wurde, bleibt nach der Lektüre dieses sehr umfangreichen Werkes komplett im Dunkeln.

Man kann Thomas Mann nicht vorwerfen, die Möglichkeit eines deutschen Sonderwegs in der Moderne nicht erfaßt zu haben. Er sah dies und ging trotzdem den langen Weg nach Kaisersaschern. Thomas Mann bleibt in der Vielgestaltigkeit seiner Facetten und seiner Entwicklung ein Rätsel. Anders als viele konservativ-bürgerliche Deutsche, die der Ansicht waren, zunächst sollte der Krieg gewonnen werden, wie man danach Hitler loswerde, werde man dann schon sehen, wollte Thomas Mann zuletzt zwischen Hitler und Deutschland nicht mehr trennen. Warum wurde Thomas Mann zum Amerikaner? Eine letzte Antwort hierauf gibt auch das vorliegende Buch nicht und eine letzte Antwort kann hierauf vielleicht auch nicht gefunden werden.

Hans R. Vaget: Thomas Mann, der Amerikaner. S. Fischer Verlag Frankfurt. Gebunden, 545 Seiten. 24,95 Euro

Disparition de Yann Fouéré, militant de l'identité bretonne

Disparition de Yann Fouéré, militant de l'identité bretonne

Yann Fouéré est décédé le 21 octobre à Saint Brieuc à l'age de 101 ans. Il fut toute sa vie durant un militant infatigable de la cause et de l'identité bretonne.

D'abord haut-fonctionnaire, en 1942 il est nommé secrétaire général du Comité consultatif de la Bretagne par le gouvernement du Maréchal Pétain, il devint ensuite patron d'un groupe de presse breton avant de s'exiler, en 1945, au Pays de Galle puis, en 1947, en Irlande pour y devenir mareyeur. 

En 1955, il est acquitté de ses condamnations et peut revenir en France. Il fut alors le fondateur du MOB (Mouvement pour l'Organisation de la Bretagne) de 1958 à 1969, puis de SAV (Strollad ar Vro) de 1972 à 1975, et du POBL (Parti pour l'Organisation de la Bretagne Libre) de 1981 à 2000. Dans les années 70 il fut soupsonné d'être l'un des instigateur du FLB-ARB. Ce qui l'envoya devant la Cour de Sureté de l'Etat puis quelques mois en prison.  

Yann Fouéré fut aussi l'auteur de nombreux ouvrages dont L'Europe aux Cent Drapeaux (essai pour servir à la construction de l'Europe) qui est traduit en plusieurs langues.

On peut, bien entendu, ne pas partager les options de Yann Fouéré, mais c'est la mémoire d'un militant sincère d'une cause identitaire que nous tenons à saluer ici.

Ex:http://synthesenationale.hautetfort.com/

Libéralisme, corporatisme et populisme

Libéralisme, corporatisme et populisme

 

par Benjamin GUILLEMAIND

 

Bonsoir aux auditeurs.

 

J’ai accepté de vous traiter cette chronique, car l’évolution de la situation suscite bien des observations, auxquelles le « Libre-Journal des Artisans » apporte des solutions, qui rompent avec le discours très universitaire des grosses têtes qui s’expriment sur Radio Courtoisie.

 

En effet, je suis souvent consterné par certaines analyses formulées ici et de solutions proposées à la crise actuelle. Crise qui est plus qu’une crise. C’est la fin d’un cycle. C’est un effondrement : l’effondrement d’un « système », installé il y a plus de deux siècles, dont les artisans ont été les premières victimes, et qui produit aujourd’hui tous ses effets. Un « Système » qui est vicié en lui-même dans sa conception même de l’organisation sociale et auquel on se contente de n’apporter que des correctifs partiels pour en limiter les méfaits, sans réformer, ni changer le « système » lui-même.

 

Même des personnalités, qui sont d’excellents amis à Radio Courtoisie, qui ont compris la dérive culturelle, éducative, familiale, artistique, médicale, éthique… (Bravo ! à chacun), en même temps se tirent une balle dans le pied en se laissant gagner au libéralisme économique, qui est la cause première, la cause fondamentale de tous les autres désordres, qui s’enchaînent les uns aux autres. Très peu apportent de solutions d’ensemble pour changer le système.

 

Tout le discours libéral focalise le public sur l’emprise croissante de l’État, pendant que des pans entiers de l’économie se libéralisent. En tirant à boulet rouge sur l’État, on se trompe d’adversaire. Le problème n’est pas là : plus d’État…, moins d’État…; l’excroissance de l’État n’est qu’une conséquence du système libéral : dès lors qu’il n’y a plus face à face que l’individu et l’État, celui-ci se substitue aux corps intermédiaires où devraient normalement être prises les décisions être organisées les solidarités et les « économies » de chaque secteur professionnel. Tant que l’on n’a pas compris cela, on n’a rien compris à la situation. C’est un premier point.

 

Je voudrais maintenant attirer votre attention sur d’autres points, pour que les auditeurs de Radio Courtoisie ne se laissent pas entraîner et égarer vers des voies de garage.

 

L’ultra-libéralisme

 

Récemment j’entendais des intervenants traiter de la crise du livre : l’un en attribuait la cause à « l’ultra-libéralisme », qui ne met aucun frein à des ventes concurrentielles parallèles. Cette formule de « l’ultra-libéralisme » est souvent utilisée par d’autres invités, pour limiter leur hostilité aux méfaits évidents du libéralisme, comme s’il y avait un bon et un mauvais libéralisme. C’est exaspérant. L’autre intervenant, bien qu’il déplorât cette injustice commerciale, offre les colonnes de sa publication à un auteur qui termine toujours ses articles en vantant les vertus du marché : le marché ! le marché ! le marché !…, c’est-à-dire la concurrence sans limite doit tout résoudre. Ils n’ont pas compris que c’est la doctrine même du libéralisme qui est en cause. J’y reviendrai tout à l’heure. Ce n’est pas une question de degré, c’est une question de nature et de valeurs.

 

Corporatisme et populisme

 

D’autres emploient à tort et à travers les termes de corporatisme et de populisme. Ils qualifient de corporatisme des structures maffieuses, comme les syndicats du livre ou des dockers, ou encore des lobbies qui défendent des intérêts financiers très sectoriels. J’ai même entendu un jour quelqu’un assimiler le corporatisme au fascisme, au prétexte que les régimes nationaux-socialistes allemands et fascistes italiens avaient intégré les communautés naturelles corporatives à l’État. En sorte qu’avec de tels commentaires et une telle désinformation – même sur Radio Courtoisie – personne ne s’y retrouve plus.

 

Il a même fallu que le Pr. François-Georges Dreyfus, lors d’une émission d’août 2011 sur le Maréchal Pétain rectifie l’assertion en ce sens d’un intervenant de la première partie et rétablisse la vérité pour rappeler que sous Pétain le « corporatisme à la française » qui fut mis en œuvre (je précise bien : « à la française ») était dans la droite ligne de l’application de la Doctrine sociale de l’Église.

 

Soyons clairs : le corporatisme, c’est l’auto-organisation professionnelle, indépendante de l’État, pour assurer le BIEN COMMUN d’un métier, c’est-à-dire le bien vivre de ses membres, selon le principe de subsidiarité, et assurer des salaires décents.

 

Quant au populisme, c’est un courant d’origine centre-gauche, qui met en cause, à juste titre, les oligarchies, qui se sont installées dans le système de démocratie représentative et dirigent le pays par-dessus le peuple organisé. Mais avec le populisme, « le peuple » est considéré globalement dans son expression électorale et représente toujours les partis, composés d’individus et de classes en fonction de leur idéologie et du nombre de votants. On reste dans la démocratie du nombre. Les libéraux qui aujourd’hui dénoncent ces oligarchies, sont les premiers à en avoir créé les conditions, en considérant « le peuple » globalement hors de ses communautés naturelles.

 

De plus le populisme se réduit souvent au référendum d’initiative populaire. On est très loin de la démocratie directe où les communautés gèrent leurs propres affaires. Tant qu’on n’a pas compris ces mécanismes du libéralisme, qui a fondé nos institutions sur les individus regroupés en partis, on n’a rien compris au système, installé à la Révolution, avec la loi Le Chapelier, qui a aboli les communautés professionnelles avec leurs libertés pour édicter leurs propres lois privées.

 

Ce caractère individualiste du libéralisme a entraîné son expression dans la représentation parlementaire. C’est là aussi un aspect mal perçu de nos concitoyens. À la Révolution, on est passé d’une démocratie organique à une démocratie « représentative », où le député que vous élisez n’est plus votre avocat, mais devient « député de la Nation ». Il y a un député de la droite républicaine qui à chaque fois qu’il vient à Radio Courtoisie ne manque pas une occasion de rappeler ce caractère. Grâce à Radio Courtoisie, il ne cache pas sa couleur : il n’est pas là pour émettre vos souhaits ou doléances. Il est là pour représenter « la nation », l’intérêt de la nation, il « sublime la nation ». Au moins c’est clair.

 

Primauté du Bien Commun

 

Ainsi s’affirme nettement ce caractère individualiste qui s’est substitué à la notion de BIEN COMMUN. Toute la vie sociale, économique, politique s’organise autour de l’individu. En politique, on compte des individus-électeurs, regroupés en partis, qui définissent, la loi générale, l’intérêt général en fonction du nombre. En économie, c’est pareil. L’individu est libre de créer son entreprise, en fonction de son intérêt individuel, indépendamment du « bien commun » de ses collègues de même métier, qu’il peut concurrencer sans règles.

 

Il faut le redire inlassablement, la toute première cause du désastre actuel, le péché originel en quelque sorte, c’est la promotion de l’individu,  l’individualisme libéral, qui considère l’individu hors de toute communauté

 

Le Bien Commun a complètement disparu. Les libéraux ne parlent jamais de bien commun, mais d’intérêt général. Alors que dans la société traditionnelle, le bien commun est la fonction primordiale en fonction de laquelle on se détermine pour apprécier une situation. C’est d’ailleurs un point essentiel de la Doctrine sociale de l’Église. Tous les papes insistent beaucoup pour réhabiliter la notion de Bien Commun. Car elle prend en compte, non seulement les avantages matériels, les intérêts financiers, mais les valeurs éthiques, morales, culturelles, spirituelles : l’octroi par exemple d’un salaire décent, des conditions de travail décentes, en fonction des besoins familiaux, valeurs qui priment sur les avantages matériels.

 

Les quatre critères du libéralisme

 

Enfin dernier point pour comprendre le système et proposer des solutions cohérentes.

 

Quand on met en cause le libéralisme, certains objectent : seriez-vous contre la liberté d’entreprendre ? Comme si cette liberté était la seule en cause ?

 

1) Bien sûr que nous sommes – sur le principe – pour la liberté d’entreprendre. Mais pour les libéraux, adeptes de l’intérêt individuel, il ne doit y avoir aucune condition, aucune limite à son exercice. N’importe qui peut faire n’importe quoi, même sans compétence. L’entreprise, organe de combat et pilier de l’économie doit pouvoir prospérer, sans règle, grossir même au détriment des concurrents : toujours plus grand au nom de la liberté de concurrence et des lois du marché ?

 

Alors que dans une économie de Bien Commun, une économie organique, c’est la profession (tous les membres de la profession associés, patrons et salariés) qui fixe les règles pour exercer un métier, garantir au consommateur une qualité de fabrication, et ne pas nuire à la liberté d’entreprendre des collègues.

 

2) La liberté d’entreprendre n’est pas le seul élément à mettre en cause dans le système libéral. Il y a la liberté des prix et des salaires. Les libéraux revendiquent la liberté totale en matière de prix. Dans un système fonctionnant en fonction du Bien Commun, il s’agit de fixer les règles de la concurrence pour que s’établisse un marché équitable, permettant un revenu décent et des conditions de travail conformes à la dignité des personnes.

 

Sans règle c’est la porte ouverte à la mondialisation, qui uniformise les économies de chaque pays; c’est la porte ouverte à la concurrence mondiale entre entreprises, qui tend à mettre sur un pied d’égalité le salarié chinois et français.

 

3) Le troisième aspect du libéralisme économique, c’est la liberté de circulation des hommes et des marchandises. Elle découle de la précédente liberté des salaires. C’est l’abolition des frontières, des douanes….

 

4) Quatrième aspect : c’est l’abolition des monnaies locales et nationales. Ce ne sont plus les États qui créent leur propre monnaie nationale. Ce sont les banques. Le système mondialisé est devenu incontrôlable.

 

On entend souvent sur Radio Courtoisie des émissions fort savantes sur l’endettement d’économistes qui traitent de l’endettement : endettement de l’État, des collectivités locales des entreprises, des particuliers, comme le fléau majeur à combattre. Mais personne ne veut s’attaquer à la cause première de cette situation : le libéralisme économique et la création monétaire par les banques.

 

Pour conclure

 

La cause première de nos malheurs, c’est le libéralisme économique. Ce n’est pas le socialisme qui n’en est qu’une conséquence, dû au fait que le libéralisme, après avoir supprimé les corps intermédiaires naturels professionnels, composé de l’association patrons et salariés, a laissé face à face l’individu de l’État.

 

C’est à cette cause première qu’il faut s’attaquer en priorité, et non aux effets secondaires : l’endettement, la fiscalité, les taux de croissance, les taux d’intérêts, l’étatisation des charges sociales, le chômage, l’investissement… Il faut s’attaquer aux quatre critères rappelés tout à l’heure et remettre en cause le système globalement.

 

Et reconstituer la démocratie directe ou démocratie organique à partir des deux réformes fondamentales et de trois secondaires.

 

Deux réformes fondamentales :

 

1) Sortir du système des partis : en restaurant une représentation parlementaire, fondée sur les communautés naturelles : familles, professions, associations…

 

Sous l’Ancien Régime, cela s’appelait les États Généraux. En 1789, ils avaient doublé le nombre de députés du tiers état. Mais les révolutionnaires de la bourgeoisie s’empressèrent de supprimer l’institution, d’instituer le vote par tête, et non plus le vote par ordre, et de  supprimer le « mandat impératif », fondement d’une démocratie organique….
 
2) Mutualiser l’économie, en rendant aux communautés de métier reconstituées (patrons et salariés associés), la maîtrise de leurs propres affaires. Cela implique une réforme des syndicats actuels de salariés, qui sont dans l’esprit du système libéral, des syndicats de classes. Il ne s’agit pas de les supprimer, mais de les remodeler leur donner davantage de pouvoir économique par profession, de façon à ce qu’elles soient de véritables corps intermédiaires entre l’État et les entreprises, capables de prendre des mesures économiques, par des accords et conventions négociées entre syndicats de patrons et de salariés. Cette mutualisation de l’économie tend à unir patrons et salariés d’une même profession pour assurer le Bien Commun de leurs membres.

Trois réformes secondaires : elles permettront de replacer l’homme comme « sujet » de l’économie, moteur de l’économie.

 

1) Relocaliser les économies, à l’échelon des États et des régions, de façon que chaque État ait son autonomie alimentaire, son autonomie financière, son autonomie industrielle avec un réseau très diversifié de petites entreprises.

 

2) Retour à la création monétaire par les banques centrales des États. Création d’un réseau de banques professionnelles, gérées paritairement par tous les membres de la profession.

 

3) Calcul des charges sociales sur la valeur ajoutée des productions – et non plus sur les salaires.

 

Il faut regretter de ne pas retrouver ces orientations fondamentales dans les programmes électoraux, alors qu’elles furent dans leur esprit général soutenues et proposées aux Français dans des projets antérieurs et par des personnalités de premier plan. Simone Weil préconisa la suppression des partis politiques. Le Maréchal Pétain avait préparé, comme il en avait reçu mission par Albert Lebrun en 1940, un projet de constitution pour rétablir en 1944 une république, fondée sur un Sénat organique. Pierre Poujade fut le seul en 1955 – 1960 à proposer les États Généraux, qui était le cœur de son programme. Le général De Gaulle en reprit l’idée d’un Sénat organique au référendum de 1969, qui n’eut pas l’agrément des autres partis en place.
 
Il n’y a cependant pas d’autre issue pour redresser la situation catastrophique de la France.

Benjamin Guillemaind
 
« Chronique de l’artisanat » dans le « Libre-Journal des Artisans » du 7 Octobre 2011, sur Radio Courtoisie.

 

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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US-Bundesbeamte versorgten auch unter Bush verdächtige Kriminelle mit Waffen

US-Bundesbeamte versorgten auch unter Bush verdächtige Kriminelle mit Waffen

Paul Joseph Watson

In der Nachrichtensendung Face the Nation des amerikanischen Fernsehsenders CBS räumte die republikanische Kongressabgeordnete Darell Issa, Vorsitzende des Ausschusses für Aufsicht und Regierungsreform, am vergangenen Sonntagnachmittag ein, unter der Regierung Bush habe bereits ein Programm existiert, dass mit der jüngst in die Schlagzeilen geratenen »Operation Fast and Furious« praktisch identisch gewesen sei. Auch damals hatten Bundesbeamte Schusswaffen direkt an verdächtige Kriminelle geliefert.

 

Das Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosivs (ATF) ließ bereits vor Operation Fast and Furious zu, dass Waffen unkontrolliert den Besitzer wechseln.

»Wir wissen, dass unter der Regierung Bush ähnliche Operationen stattfanden, aber sie waren mit Mexiko abgesprochen«, erklärte der Abgeordnete aus Kalifornien. »Sie haben alles versucht, die Waffen die ganze Zeit im Auge zu behalten. Wir sind daher nicht der Ansicht, dass dieses Verfahren, [die Weitergabewege von] Waffen zu verfolgen, grundsätzlich eine schlechte Idee ist.«

Das Programm der Regierung Bush mit Namen Operation Wide Reciever lief in der Zeit zwischen 2006 und Ende 2007 und wurde von Arizona aus koordiniert. Ähnlich wie im Falle der Operation Fast and Furious ließ das ATF (eine amerikanische Bundesbehörde mit polizeilichen Befugnissen, die dem Justizministerium untersteht) zu, dass Schusswaffen in die Hände mutmaßlicher Rauschgifthändler gerieten, ohne dass dies unterbunden wurde.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/paul-joseph-watson/us-bundesbeamte-versorgten-auch-unter-bush-verdaechtige-kriminelle-mit-waffen.html

La notion de tradition indo-européenne par Jean Haudry

La notion de tradition indo-européenne par Jean Haudry


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mardi, 25 octobre 2011

Krantenkoppen Oktober 2011 / 4

Krantenkoppen

Oktober 2011 / 4

THE CHRISTIANS OF THE ORIENT STAND UP AGAINST THE WESTERN COLONIALISM:

"The war against Syria, planned by the US, France and the United Kingdom for mid-November 2011, has been blocked in extremis by the Russian and Chinese vetoes at the Security Council. According to Nicolas Sarkozy (...), the plan contemplates the expulsion of Middle East Christians by the Western powers. In this context a press campaign is underway in Europe to accuse the Christians of the Orient of collusion with the dictatorships. Mother Agnès-Mariam of the Cross, mother superior of the monastery of James the Mutilated in Qara (Syria) responds to this war propaganda":

1 MILLION PEOPLE ON STREETS OF DAMASCUS:

"Over a million people rallied on 12 October 2011 in Damascus (...) to express their support to President Bashar al-Assad in the face of the foreign aggression against their country. They also intended to thank China and Russia for having saved it from destruction by opposing their veto at the UN Security Council":


REUTERS: GEORGE SOROS BEHIND 'OCCUPY WALL STREET' PROTEST

"There has been much speculation over who is financing the disparate protest, which has spread to cities across America and lasted nearly 4 weeks. One name that keeps coming up is investor George Soros. (...) Critics contend the movement is a Trojan horse for a secret Soros agenda":

WAT POLITICI U NIET VERTELLEN: DEXIA-DEBACLE MAAKT VAN ALLE BELGEN GRIEKEN EN IEREN:

"Zoals steeds in de schuldencrisis blijft het recept beproefd: de winsten zijn het afgelopen decennium vakkundig geprivatiseerd, de kosten voor de opruiming worden even vanzelfsprekend gecollectiviseerd. (...) Als het fout afloopt, zadelt deze regering de volgende generatie op met een vergelijkbare schuldslavernij als die in Griekenland of Ierland.

(...) 'De ruim 22 miljard euro die de volgende f...ederale regering, op last van Europa, tegen 2015 moet wegsaneren, zal een pijnlijke sociale ommekeer veroorzaken. Het politieke bakerpraatje dat de Dexiacrisis de burgers geen eurocent zal kosten, gelooft niemand meer. Voor de redding van het feitelijk failliete Dexia alleen al zal de overheid meteen minstens 3 miljard euro betalen. Dat geld moet worden geleend tegen een intussen verhoogde rente, op conto van de Belgische belastingbetaler. Als ook andere banken in moeilijkheden komen, zoals specialisten nu al voorspellen, dan staan we aan de vooravond van een replay van de crisis van 2008'.":
http://www.express.be/business/nl/economy/dexia-debacle-maakt-van-alle-belgen-grieken-en-ieren/154100.htm

OP ZOEK NAAR DE ISRAËLLOBBY:

"Hoe kan het dat in 2011, bijna driekwart eeuw nadat (...) de doodsklokken over het kolonialisme luidden, Israël nog steeds wegkomt met de kolonisatie van Palestina? Hoe is het mogelijk dat Israël met egards wordt behandeld, hoewel het land tientallen VN-resoluties naast zich neerlegt, de Palestijnen op zijn grondgebied discrimineert, op de Westelijke Jordaanoever een apartheidsregime uitbouwt, d...e bevolking van Gaza in een openluchtgevangenis opsluit en zich in de regio aan staatsterrorisme bezondigt en van de collectieve bestraffing van de Arabische volkeren een vaste beleidslijn maakt? (Libanon 1978, 1982-2000, 2006; Palestina tijdens de 2 intifada’s 1987-1993 en 2000-2005; Gaza 2009)?":


30 AMERIKANEN AANGEKLAAGD VOOR FRAUDE HOLOCAUSTFONDS:

‎"De voormalige medewerkers van het Jewish Claim Conference in New York en hun mededaders hebben volgens het Amerikaanse ministerie van Justitie met meer dan 57 miljoen dollar (41,3 miljoen euro) aan schadevergoedingen fraude gepleegd":
http://www.demorgen.be/dm/nl/990/Buitenland/article/detail/1333262/2011/10/13/Dertig-Amerikanen-aangeklaagd-voor-fraude-Holocaustfonds.dhtml
 
DIE JUDEN WAREN IMMER UND ÜBERALL OPFER - WENN SIE NICHT GERADE TÄTER WAREN:

"Im atlantischen Sklavenhandel und im Niederschlagen von Sklavenaufständen standen Juden – ähnlich wie heute in Palästina – an vorderster Front":

 
LE PEN: 'EUROPESE CULTUUR VER VERWIJDERD VAN AMERIKAANSE':
‎"Volgens [Marine] Le Pen kan de crisis aanleiding zijn voor wijzigingen in de binnen- en buitenlandse politiek van Frankrijk en is de Amerikaanse cultuur ver verwijderd van de Europese en de Franse cultuur. Le Pen: ‘De tijd om naar de VS te kijken is voorbij, het is tijd om onze blik op Rusland te richten. (...) Als het Front National de verkiezingen wint, zijn we bereid radicale stappen te nemen. Frankrijk gaat uit de NAVO, ik ben altijd tegen Franse deelname aan de NAVO geweest. Net als De Gaulle, die tegen het ondergeschikt maken was van Franse belangen aan vreemde mogendheden. Toch ben ik ervan overtuigd dat de Europese landen moeten samenwerken op het gebied van veiligheid – ik zie niet in waarom Rusland niet deel zou kunnen nemen aan dit proces’":
http://nicodegeit.wordpress.com/2011/10/14/marine-le-pen-europese-cultuur-ver-verwijderd-van-amerikaanse/
 
VS VOEREN OORLOG IN PAKISTAN:

‎"Sinds begin dit jaar heeft de CIA al minstens 60 aanvallen met (...) drones uitgevoerd in (...) het noordwesten van Pakistan, dat grenst aan Afghanistan. Die aanvallen schakelen zo nu en dan 'terroristen' uit, maar eisen evenzeer een hoge burgertol":
http://www.demorgen.be/dm/nl/990/Buitenland/article/detail/1332287/2011/10/11/VS-voeren-oorlog-in-Pakistan.dhtml
 
EERSTE SATELLIETEN GALILEO MET SUCCES GELANCEERD:

"Het is een dubbele pagina in het boek van de ruimtevaartgeschiedenis, Europa en Rusland samen. (...) Het is zonder twijfel een van de mooiste verhalen over samenwerking. Dit geeft ons kracht en een buitengewoon concurrerend voordeel in het ruimtevaartdomein. (...)

De EU hoopt met het navigatiesysteem Galileo een alternatief te bieden voor het alom gebruikte Amerikaanse GPS-systeem. Het systeem zou nauwkeuriger en betrouwbaarder moeten zijn dan GPS. (...)

'Als Europa in de toekomst concurrerend en onafhankelijk wil zijn, moet de EU haar eigen satellietnavigatiesysteem hebben om nieuwe economische mogelijkheden te creëren', aldus Herbert Reul, hoofd van de EU-commissie voor Industrie, Onderzoek en Energie. De EU hoopt met het systeem de komende 20 jaar zo'n 90 miljard euro te verdienen. De kosten voor de ontwikkeling en het operationeel maken van Galileo sinds 2003 zijn becijferd op ruim 5 miljard euro. (...)
Het is de bedoeling dat Galileo in 2014 gebruiksklaar is. In totaal zijn daar 30 satellieten voor nodig, die vanaf nu met 2 tegelijk ieder kwartaal zullen worden gelanceerd":

http://www.standaard.be/artikel/detail.aspx?artikelid=DMF20111021_101

 

UKRAINE MAY TURN TO CUSTOMS UNION IF EU TALKS FAIL:

‎"If the European Union gives a clear 'no' signal, the possibility that Ukraine will turn to the Customs Union is quite high":
http://en.ria.ru/business/20111018/167807463.html

 

KOSOVO: NATO-TROOPS AND ALBANIAN GUNMEN AGAINST LOCAL SERBS:

 

KOSOVO: NATO-TROOPS USE TEAR GAS AGAINST LOCAL SERBS:
http://www.youtube.com/watch?v=JC_EpJ9mtp0

AFTER YEARS OF DEMOGRAPHIC DECLINE, RUSSIAN PARLIAMENT VOTES TO RESTRICT ABORTION:
 
‎"The restrictions represent the first attempt to arrest the demographic decline of Russia, which has been underway since abortion laws were liberalized in the mid-1960s. (...) The decline in the country’s population is caused by a number of factors. Since the Communist era, abortion has been the primary way of avoiding birth, resulting in an annual 6 million abortions every year":
http://www.lifesitenews.com/news/after-years-of-demographic-decline-russian-parliament-votes-to-restrict-abo

 

WAAROM GROTE BEDRIJVEN HET PROBLEEM EN NIET DE OPLOSSING ZIJN:
‎"Toen ik onlangs een groep middenmanagers van grote bedrijven toesprak omtrent ondernemerschap, besefte ik te laat dat mijn woorden hen irrelevant in de oren moeten geklonken hebben. Ik sprak over onafhankelijkheid, vrijheid en het nemen van risico’s, terwijl zij allen gevangen zaten in de comfortabele, luchtdichte doodskist van grote bedrijven. (...)

Allen waren al hun ganse leven in dienst van reuzenondernemingen. De moeilijkheden van het ondernemerschap waren hen volledig vreemd. Te laat bedacht ik dat managers van grote bedrijven meer gemeen hebben met ambtenaren dan met ondernemer...s en start-ups. Dacht ik ooit dat het grootste verschil in zakendoen zich tussen privé en overheidsondernemingen bevond, dan besef ik nu dat het echte verschil zich tussen de grote en de kleine ondernemingen situeert: tussen enorme bureaucratieën en door de baas geleide bedrijfjes":

 

ZIJN ONZE LEIDERS IDIOTEN? ZOVER ZOU IK NIET WILLEN GAAN, MAAR OFWEL BEGRIJPEN ZE DE PROBLEMATIEK NIET, OFWEL LIEGEN ZE:

"Daarom zullen na Griekenland en Ierland ook de besparingsplannen in Italië en Spanje mislukken en zal ook daar het netto-effect van de besparingsplannen een verhoging, geen vermindering van de staatsschuld worden. En zullen er na mislukte besparingsprogramma’s nieuwe besparingen worden afgekondigd ...

(...) Er zijn natuurlijk redenen voor de verschillende landen om besparingen door te voeren. Maar denken dat ze geen macro-economische impact hebben is jezelf iets wijsmaken":
http://www.express.be/business/nl/economy/zijn-onze-leiders-idioten-zo-ver-zou-ik-niet-willen-gaan-maar-ofwel-begrijpen-ze-de-problematiek-niet-ofwel-liegen-ze/154433.htm#

 

HET IS NIET DE SCHULD VAN GRIEKENLAND:
‎"De constructie van de eurozone leidde er niet alleen toe dat de periferie grote hoeveelheden internationale schuld opstapelde, maar [daarenboven] was dat ook de bedoeling. Bovendien konden de regeringen van die landen weinig doen om dat te stoppen. De landen in de periferie van de eurozone hebben de crisis niet veroorzaakt":
http://www.demorgen.be/dm/nl/2461/De-Gedachte/article/detail/1334280/2011/10/15/Het-is-niet-de-schuld-van-Griekenland.dhtml

 

NEDERLAND IS BELASTINGPARADIJS VOOR MULTINATIONALS EN POPSTERREN:

"Nederland staat hiermee op de dubieuze 2de plaats (na de Amerikaanse staat Delaware) als `Brievenbus BV-land`. (...) Nederland is aantrekkelijk doordat over de grenzen verdiende royalties onbelast zijn. Daarom zijn bands als U2 en de Rolling Stones zo dol op Nederland. Nederland wordt gebruikt als tussenstation waar bedrijven verdiensten kunnen doorsluizen naar echte belastingparadijzen zonder dat daarover vervelende vragen worden gesteld":
http://www.express.be/business/nl/economy/nederland-is-belastingparadijs-voor-multinationals-en-popsterren/154345.htm

 

WAT VOOR DEXIA KAN, MOET OOK VOOR ARCELORMITTAL KUNNEN!
"De vakbonden eisen terecht de nationalisering van de Luikse vestiging. Zij zien niet onmiddellijk soelaas bij een privépartner. Ze zijn al zoveel keer bedrogen geweest door ‘reddende engelen’ uit de privésector. Het Waalse ABVV heeft zelfs een plan uit de doeken gedaan bij formateur Elio Di Rupo. Ingeval de nationalisering moet gebeuren via het opkopen van de vestiging berekende het ABVV dat er ...1 miljard euro noodzakelijk is. Op nauwelijks één weekeinde besliste de federale regering om Dexia op te kopen voor 4 miljard euro en voor 54 miljard euro garant te staan voor de ‘bad bank’. Wat mogelijk was voor Dexia, moet dus ook mogelijk zijn voor de duizenden staaljobs in het Luikse":
http://www.vonk.org/201110142791/wat-voor-dexia-kan-moet-ook-voor-arcelormittal-kunnen.ht

 

WILLEM BUITER, HOOFDECONOOM VAN CITIGROUP: 'EUROPESE BANKEN ZIJN FAILLIET':
"Ze gaan er bij de ECB nog altijd van uit dat ze Griekenland van de rest van de eurozone kunnen isoleren. Dat is nonsens natuurlijk. Dit stopt niet met Griekenland. Portugal en in mindere mate Ierland zullen volgen. Deze crisis is een sneeuwbal die steeds groter wordt en steeds sneller zal rollen. Sinds deze zomer liggen ook grote landen zoals Spanje en I...talië onder vuur, maar daar zal het niet bij blijven. Ook de rentespreads van Frankrijk en België lopen gevaarlijk snel op. En als ik kijk naar de geconsolideerde banksector van Oostenrijk, doet me dat sterk denken aan de situatie in Ierland":
http://www.standaard.be/artikel/detail.aspx?artikelid=DMF20111021_145

 

HET IS TIJD VOOR ACTIE: SPLITS BANKEN, HAAL ZE VAN DE BEURS EN MAAK ZE KLEINER:
"Het is een volstrekte illusie te denken dat de financiële sector zichzelf voldoende zal reguleren om crises in de toekomst te voorkomen. Het is de politiek die op dit punt aan zet is. Ten eerste, splits investmentbanken van consumentenbanken. Ten tweede, vorm banken om van beursgenoteerde op winstmaximalisatie ondernemingen tot coöperatieve instellingen die de ondernemer en de klant dienen. Ten derde, voorkom dat banken 'too big to fail' worden. Het is immers te zot voor woorden dat een gehele samenleving in economische chaos gestort kan worden door de onkunde van particuliere bankiers."

 

KLEINE LETTERTJES ZIJN VERBODEN IN DE ISLAM:
‎"Wat heeft islamitisch bankieren dat doordeweeks bankieren niet heeft? (...) ‘Om te beginnen is geld geen product. Je mag dus geen geld verdienen met geld. Rente is verboden. Elke financiële transactie moet gelinkt zijn aan een reële economische activiteit. Transparantie is cruciaal. De bankier is verplicht om alles helder en eenvoudig uit te leggen. Kleine lettertjes in een contract zijn verboden. Bepaalde beleggingen zijn ook uitgesloten: dagtraden is bijvoorbeeld not done. Als je investeert in een bedrijf, doe je dat op een duurzame manier, voor een langere termijn.'
En dan zijn er uiteraard nog de sectoren die krachtens de islamitische wetgeving niet voor financiële transacties in aanmerking komen, legt Boulif uit: ‘Alles wat te maken heeft met onder meer alcohol, tabak, gokken, wapens en varkens'":
http://www.standaard.be/artikel/detail.aspx?artikelid=773H45FK

 

PAUL JORION: SANS REVOLUTION, CE SERA LA CHUTE DE L'EMPIRE ROMAIN:
‎"Barack Obama (...) est incapable de prendre des mesures courageuses. C'est vrai que, maintenant, il doit faire face à une opposition très dure, majoritaire au Congrès. Ce n'était pas le cas au début de son mandat. Mais il était de toute façon le candidat de Wall Street: il a d'ailleurs nommé une équipe recrutée à Wall Street":
http://www.levif.be/info/actualite/dossiers/les-entretiens-du-vif/paul-jorion-sans-revolution-ce-sera-la-chute-de-l-empire-romain/article-1195115511426.htm

 

DE FORTUINJAGERS/ LES CHASSEURS DE FORTUNES:
‎14 milliard euro of fiscal fraud in Belgium:
http://www.youtube.com/watch?v=U3qgBRr8rqE&feature=player_embedded

 

TIENDUIZENDEN SPANJAARDEN UIT HUN HUIZEN GEZET:

 

MURDOCHS RIJK WANKELT: 'KOCHT MASSAAL EIGEN EUROPESE KRANTEN OP OM OPLAGE TE STUWEN:
"De Wall Street Journal versluisde geld naar verschillende Europese bedrijven die in het geheim duizenden exemplaren van de WSJ Europe kochten aan spotprijzen om zo de verkoopscijfers te verhogen en lezers en adverteerders te misleiden omtrent de ware circulatie van de krant":
http://www.express.be/sectors/nl/media/murdochs-rijk-wankelt-kocht-massaal-eigen-europese-kranten-op-om-oplage-te-stuwen/154221.htm

 

HELFT VAN OPLAGE WALL STREET JOURNAL EUROPE VERKOCHT VOOR 1 TOT 5 EUROCENT:
"De Nederlandse consultancyfirma Executive Learning Partnership (ELP) kocht dagelijks 12.000 exemplaren van de Europese editie van The Wall Street Journal Europe op tegen 1 cent per stuk. Dat is zo’n 16% van de totale oplage van 74.800 stuks. (...) In totaal zou 61% van de oplage van de Europese editie (46.100 van de 74.8000 stuks) tegen dumpprijzen tussen de 1 en 5 eurocent aan bedrijven zijn verkocht. Die bedrijven zouden ook redactieruimte ter beschiking hebben gekregen om hun diensten en producten te promoten":
http://www.express.be/sectors/nl/media/helft-van-oplage-wall-street-journal-europe-verkocht-voor-1-tot-5-eurocent/154317.htm
 
DE GESCHIEDENIS VAN LIBIË IN EEN NOTEDOP:
‎"De bewoners van dit ooit zo straatarme woestijnland bleken geen dorstige zandlopers, maar redelijk welvarende, goed geschoolde en gezonde mensen. Hun steden floreerden, huisvesting, onderwijs en gezondheidszorg waren goed geregeld, het land had een modern wegennet, hun oasen waren parels en hun watervoorziening was fantastisch! En dat in 40 jaar tijd, zonder staatsschuld bij het IMF! Wat een prestatie!":
http://www.boublog.nl/11/10/2011/de-geschiedenis-van-libie-in-een-notendop/#more-12343

 

 
ISRAEL AND LIBYA: PREPARING AFRICA FOR THE 'CLASH OF CIVILIZATIONS':
"The war in Libya is just the start of a new cycle of external military adventurism inside Africa. The U.S. now wants more military bases inside Africa. (...) NATO is also fortifying its positions in the Red Sea and off the coast of Somalia":
http://theuglytruth.wordpress.com/2011/10/15/israel-and-libya-preparing-africa-for-the-%E2%80%9Cclash-of-civilizations%E2%80%9D/#more-30033
 
TRIBUTE TO LIBYAN LEADER COLONEL GADDAFI, WHO LIVES IN THE HEARTS OF TENS OF MILLIONS OF AFRICANS:

 

ON COLONEL GADDAFI:
"Colonel Gaddafi has been my, and American Front’s, constant revolutionary companion. Not once has he lied to us, betrayed us or let us down. I have no idea if the globalist propaganda machine’s latest reports of Colonel Gaddafi’s capture and quick execution by the NATO pigs and the rats of the NTC are true or false. (...)
I can and will say this. (...) It doesn’t matter if the brother-Leader wa...s martyred in combat against the pigs and rats or if he has escaped to reemerge and physically lead the Resistance against the globalists, Mahdi like, when the time is correct. Either way he has proven himself our hero and inspiration. (...) Wether his body is alive or dead Colonel Gaddafi’s spirit lives on":
http://openrevolt.info/2011/10/22/open-revolt-on-colonel-gaddafi/

 

 

Gaddafi ist tot – Gedanken für Libyen

Gaddafi ist tot – Gedanken für Libyen

John Lanta

 

Er ist so gestorben, wie er es angekündigt hatte: im Kampf. Sein Sprecher Ibrahim Moussa blieb bis zuletzt in seiner Nähe, mit vielen anderen Getreuen, und wurde gefangengenommen. Manche Namen, wie der des Ex-Oberkommandierenden der Libyschen Armee, Abu Bakr Yunis Jaber, stehen jetzt auf den Listen der getöteten Anhänger Gaddafis. Der »Oberst«, wie sich Gaddafi stets (korrekt) titulieren ließ, muss versucht haben, die Zahl der Opfer in den letzten Stunden möglichst gering zu halten, denn die Verteidiger seiner Geburtsstadt Sirte zogen sich plötzlich überall zurück – und er selbst setzte sich in einen Konvoi: ungefähr das Gefährlichste, was man angesichts des laufenden Nato-Luftwaffeneinsatzes in dieser Lage tun kann. Zum Schluss sei alles ganz schnell gegangen, berichteten denn auch die überraschten Ex-Aufständischen, die jetzt offiziell die libysche Armee darstellen. Der Konvoi kam am Vormittag nach übereinstimmenden Berichten unter Beschuss aus der Luft, Gaddafi wurde verletzt – und starb in den Händen seiner Widersacher; ob er auch durch ihre Hände starb, wird sicherlich noch geklärt – das üble Youtube-Video deutet darauf hin.

 

Youtube-Videos und Fotos sowie verschiedene Berichte deuten jedoch inzwischen darauf hin, dass es unter Aufständischen und Sympathisanten Uneinigkeit gab, wie mit Gaddafi zu verfahren sei. Das lässt Böses ahnen für den inneren Zustand dieser Milizen, die mit weniger prominenten Gegnern kaum besser verfahren werden. Denn seit mehreren tausend Jahren ist es weltweit üblich, dass der feindliche Anführer nicht irgendwo auf der Straße erschlagen (oder erschossen) wird, sondern zum eigenen Chef geschleppt wird, der diese besondere Leistung dann mit einer freundlichen Belohnung (Beförderung et cetera) würdigt – und so ganz nebenbei die Disziplin der Truppe fördert. Und niemand wird behaupten wollen, die Nato-unterstützten »Ex-Aufständischen« hätten nicht zumindest geahnt, Gaddafis Anwesenheit am Ort könnte den geradezu heldenhaften Widerstand seiner Anhänger motiviert haben. Wenn jedoch eine derart wichtige Beute in Aussicht steht, dann muss die Führung entsprechende Sicherheitsvorkehrungen treffen – oder sie ist zumindest ausgesprochen chaotisch, wenn nicht gar: verbrecherisch.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/john-lanta/gaddafi-ist-tot-gedanken-fuer-libyen.html

Bashar el Assad: dernier bastion contre le néo-ottomanisme d’Ankara

Alessia LAI:

Bashar el Assad: dernier bastion contre le néo-ottomanisme d’Ankara

Le projet du Premier Ministre turc Erdogan de faire de la Syrie aussi une “démocratie” islamo-modérée a échoué: Damas a dit “non”!

L’arabisme contre l’ottomanisme: tel est l’enjeu aujourd’hui au centre des débats au Proche Orient. Le défi est le suivant: pour être au diapason du grand projet occidental, il faudra forger une aire proche-orientale totalement rénovée et ravalée, avec partout des pays alliés à Washington, souples à l’égard d’Israël, qui, de surcroît, ne seraient plus que des réservoirs énergétiques, prompts à satisfaire les exigences de l’économie globale. Après les révolutions d’Afrique du Nord —qui ont été habilement déviées et orientées vers des objectifs fort différents de ceux qu’espéraient voir se réaliser les protagonistes premiers de ces effervescences révolutionnaires et populaires— la pièce maîtresse qui devait rapidement tomber, pour faire triompher le projet occidental, était la Syrie. Cependant, il s’est vite avéré impossible de renverser El Assad par une simple révolte populaire téléguidée: une bonne partie des Syriens continue à appuyer le gouvernement, surtout quand on s’aperçoit, à l’évidence, que les “manifestations pacifiques” contre le régime ne sont en réalité et dans la plupart des cas que des actes terroristes de facture islamiste perpétrés contre les autorités du pays. Damas résiste donc à toutes les tentatives de déstabilisation intérieure comme à toutes les menaces extérieures. Et Damas résiste surtout aux pressions qui voudraient faire perdre au régime ses dimensions laïques pour faire du pays une nouvelle pièce dans la mosaïque d’Etats islamistes modérés, qui devraient tous devenir les meilleures alliés de l’américanosphère occidentale. Le modèle que l’on suggère aux Syriens est le modèle turc et c’est justement Ankara qui s’est mis en tête de gérer cette “islamisation modérée” que l’on peut parfaitement définir comme un “néo-ottomanisme”.

Il y a quelques semaines, le premier Ministre turc Erdogan s’est rendu dans les pays du “printemps arabe”, l’Egypte, la Tunisie et la Libye. Cette tournée diplomatique a été célébrée par les médias turcs comme une volonté d’amorcer de nouvelles relations avec les gouvernements issus de cette “révolution”, dans l’optique de réaménager les équilibres au Proche Orient. Au même moment, Erdogan a changé de ton vis-à-vis de la Syrie et, quelques jours plus tard, en marge de l’Assemblée Générale des Nations Unies à New York, il a, lors d’un entretien avec Obama, officialisé le “changement de front”, en annonçant “qu’il avait bloqué les pourparlers entamés avec Damas” et qu’il était désormais prêt à participer aux sanctions que l’on imposerait à la Syrie. Mais ce ne sont pas les violences présumées que l’on attribue au régime syrien qui ont poussé Erdogan à se ranger contre un ancien allié de la Turquie, posé désormais comme ennemi. Il s’agit bien plutôt du “non” catégorique qu’a opposé Bashar El Assad au projet turc de subvertir subrepticement le caractère laïque de la république arabe syrienne. C’est au cours du mois de juin 2011 que la rupture réelle a eu lieu, quand “le premier Ministre turc Recep Tayyip Erdogan a proposé au Président syrien Bashar El Assad de réserver un quart voire un tiers des postes de ministre dans son gouvernement aux Frères Musulmans et d’user alors de toute son influence pour mettre un terme à la rébellion, si Assad s’exécutait”. Erdogan a essuyé un refus clair et net. C’est ce qu’a révélé un diplomate occidental à l’AFP, du moins d’après ce que rapportait, vendredi 30 septembre, le quotidien libanais en langue anglaise, The Daily Star.

Cette nouvelle a été confirmée par un autre diplomate européen, qui a, lui aussi, préféré garder l’anonymat: “Les Turcs, dans un premier temps, proposèrent que les Frères Musulmans occupassent quatre ministères importants, en arguant que les Frères sont une partie importante du paysage politique syrien”. Les Frères Musulmans, en réalité, ont été mis hors la loi en Syrie dès 1980, à la suite d’une campagne terroriste particulièremet sanglante que leurs affidés avaient menée à cette époque-là; aujourd’hui, ils font partie de ceux qui, ouvertement de l’extérieur et clandestinement depuis la Syrie elle-même, sèment la terreur dans toutes les régions du pays. Le 9 août 2011, le Ministre turc des affaires étrangères, Ahmet Davutoglu a indirectement confirmé l’alliance de facto entre les Frères et les néo-ottomans turcs en confiant au Président syrien un message écrit par le Président turc Abdullah Gül, dans lequel ce dernier explique qu’avant de former le parti pour la Justice et le Développement, actuellement au pouvoir à Ankara, il avait appartenu à une organisation proche des Frères Musulmans. Dans un débat face à face avec le Président syrien, Davutoglu a, une fois de plus, “réclamé le retour des Frères Musulmans en Syrie”. El Assad a répondu qu’à titre individuel, certains Frères pourraient récupérer leur citoyenneté syrienne mais ne pourraient pas se constituer en parti politique parce qu’un tel parti serait basé sur des principes religieux incompatibles avec le caractère laïque de la Syrie”.

Revenu en Turquie, dès son débarquement à l’aéroport d’Ankara, Ahmet Davutoglu, bien loin de révéler le contenu de ses discussions avec El Assad, a lancé un ultime message à Damas: “Nous espérons que certaines mesures seront prises dans les prochains jours pour mettre fin aux effusions de sang et pour ouvrir la voie à un processus de réformes politiques”. Vingt jours plus tard, le 28 août 2011, le Président turc Gül affirmait qu’Ankara avait “perdu confiance” en la Syrie. Peu de temps auparavant, lors d’une rencontre avec une délégations des associations chrétiennes du Moyen Orient, El Assad avait déclaré —et ses déclarations avaient été répercutées par de nombreux médias— “qu’il avait refusé que l’ottomanisme se substitue à l’arabisme et qu’Ankara redevienne le centre majeur de décision pour le monde arabe”. El Assad répétait ainsi son opposition à toute participation des partis religieux dans la politique syrienne, parce que “cela permettrait aux Frères Musulmans, qui ont un siège à Ankara, de contrôler toute la région”. Toutes les démarches qui ont suivi vont dans le sens d’un rejet par l’alliance américano-turque de ce laïcisme arabiste: les sanctions prises par la Turquie contre Damas; la Syrie devenue un pays ennemi de l’Occident car trop laïque pour s’insérer dans le nouveau Moyen Orient islamo-modéré voulu par Washington et les projets atlantistes.

Alessia LAI.

( a.lai@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 1 & 2 octobre 2011 – http://www.rinascita.eu ).

Pierre Vial présente "Le loup-garou" d'Hermann Löns


Pierre Vial présente "Le loup-garou" d'Hermann Löns

Hans Blüher: Der Kulturrevolutionär der männerbündischen Jugend

 

 

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Hans Blüher: Der Kulturrevolutionär der männerbündischen Jugend
     

Geschrieben von: Daniel Bigalke

Ex: http://www.blauenarzisse.de/   

 

Einsam und vergessen verstarb 1955 in Berlin-Hermsdorf ein Schriftsteller, der das Verhältnis von Politik und Männlichkeit um 1900 neu definierte und sein Leben lang ein dorniges und nicht immer erfolgreiches, dafür aber konsequentes Schriftstellerleben führte. Es ist der Philosoph Hans Blüher (1888-1955), der sich selbst als konservativen Revolutionär bezeichnete. Schon als Jugendlicher entwickelte er seinen eigenen Schreibstil, dessen versierte und provokante Art von einem messerscharfen Geist zeugte.

Dies brachte Blüher nicht immer Erfolge. So verließ er etwa die Universität wegen polemischer Schriften ohne Abschluß, konnte dafür aber umso mehr sein Leben eines zielsicheren Schriftstellers und notfalls auch Einzelgängers verwirklichen. Seine Leistungen indessen wurden nur von wenigen Kennern gewürdigt. Darunter befinden sich die Schriftsteller Thomas und Klaus Mann sowie Franz Werfel und Franz Kafka. Auch die Dichter Gottfried Benn und Rainer Maria Rilke pflegten Kontakte zu Blüher.

Geschätzt von Rilke und Kafka

Rilke verband wiederum eine Freundschaft mit dem vor Verdun gefallenen Gelehrten Norbert von Hellingrath, dem Herausgeber der ersten Hölderlin-Gesamtausgabe. Hellingrath ist in den Augen Rilkes der „Hölderlin-Lehrmeister". Er wird zum Mentor in allen Fragen über den Dichter der Deutschen. Auch Hans Blüher als politischer und philosophischer Schriftsteller dürfte wohl für Rilke wesentliche literarische Anregungen gegeben haben.

Blüher war seinerzeit und ist heute insbesondere bekannt durch seine theoretische Verknüpfung der sozialen Erscheinungsformen des Männerbundes und der damals noch neuen Jugendbewegung. Das Standardwerk zur „Konservativen Revolution“ von Armin Mohler stellt fest, daß von einer Rezeption Blühers nur bedingt gesprochen werden könne. Dies ist wohl auch darauf zurückzuführen, daß Blühers Werk von Textverlusten geprägt ist. So ist nicht klar, wo etwa die umfangreiche Korrespondenz des Autors sowie die Registratur des von Wolf-Heribert Flemming angelegten „Hans-Blüher-Archivs“ liegen. Es zeugen nur die umfassenden vorhandenen Schriften Blühers davon, daß sein Wirken damals wie heute von besonderer Strahlkraft in Literatur, Dichtung und Forschung in Deutschland ist.

Das mann-männliche Eros

„Der Auftrag an den einzelnen Denker, der auch jedes Mal eine neue Inkarnation ist, liegt darin, unter dem freien Drucke des Welthintergrundes ein Gedankengebäude wie aus dem Urgestein herauszumeißeln, das Auskunft über den Bau der Welt und deren Bedeutung gibt.“ Dies schrieb Blüher in seinem Schluß- und Hauptwerk Die Achse der Natur. Danach richtete er sich dauerhaft und wurde nicht müde, den Bau der Welt erklären zu wollen. In seinem Frühwerk schrieb er die erste umfassende Geschichte der Wandervogelbewegung, die er als jugendliche Revolution einordnete. Er entwarf furchtbare Theorien zur wahren Männlichkeit bis hin zu der Erkenntnis, daß die Homosexualität als höchster Zustand des Menschseins zu preisen sei. Dies brachte ihn in Konflikt mit Sigmund Freud, dessen Kontakt er suchte, der jedoch nicht davon abrückte, daß Homosexualität dem Krankheitsbegriff zuzuordnen sei.

Das mann-männliche Eros galt Blüher als Grundlage von Staat und Gesellschaft, was als Theorem wiederum zumindest auf die erwähnten Personen wie Thomas Mann, Gottfrid Benn oder Rainer Maria Rilke großen Eindruck ausübte. Entsprechend forderte Blüher die Straffreiheit der Homosexualität, die er im Gegensatz zu Freud als menschliche Veranlagung und damit immer wiederkehrende anthropologische Konstante wertete. Die männlich-weibliche Beziehung diene der Gründung von Familie.

Der Männerbund als Grundlage des Staates

Die männlich-männliche Beziehung hingegen sei Ursprung des Männerbundes und fernerhin der Staatenbildung. Der Staat ist für Blüher das Dauerhafte und jahrhundertelang Währende, in dem das Führerprinzip in Gestalt des Königs herrschen müsse. Das wahre Problem eines Volkes und moderner Staaten sei nicht die wirtschaftliche Not, schrieb Blüher 1919. Es könne auch nicht durch irgendeinen Sozialismus gelöst werden. Es bestehe vielmehr in der Lebensnot seiner geistigen Männer. Es sei tiefste Korruption, verfalle der Staat und die Macht den Händen der Zweckverbände und nicht in die Obhut des Männerbundes. Dieser müsse gefühlt, erlebt und geglaubt werden. Ihm habe ein gesunder Staat sein Gedeihen zu verdanken.

Damit nahm Blüher für sich in Anspruch, die Menschheitsgeschichte auf eine neue Basis gestellt zu haben: Er deutete Kulturleistungen und Staatenbildungen als Resultate männerbündischer Zusammenschlüsse. Blüher war mit diesen frühen Thesen und als Vertreter der Konservativen Revolution ein Seismograph für Spannungsfelder in der Moderne und wirft als erster die „Frauenfrage“ auf. Es versteht sich von selbst, daß er die Emanzipation der Frau ähnlich wie schon Otto Weininger ablehnte.

Die Psychologie der Frau und des Mannes mitsamt ihren Zielsetzungen im Leben seien konsequent getrennt von einander zu behandeln. Die von Blüher proklamierte Kulturrevolution sollte eine Bewegung der männerbündischen Jugend gegen ihre Väter sein. Seine Mitstreiter stehen für ein Prinzip, das sich seit dem siebzehnten Jahrhundert als wirksam erwiesen habe, nämlich daß die Politik nicht nach dem Modell der Familie zu organisieren sei. Daß Blüher neben eindeutigen Anlehnungen an Weininger, Schopenhauer und Nietzsche auch das Werk des väterlichen Freundes Benedikt Friedlaender (Die Renaissance des Eros Uranios) für sich verwendete, erkannte ein polemisches Traktat erst 1930. Dies änderte aber nichts an der Wirksamkeit der frühen Schriften Blühers.

Die Unwissenschaftlichkeit im Umgang mit Blüher

Immer wieder regte Blüher zum Widerspruch an. Viele heutige Schriften über sein Werk wie etwa die Studie Politik des Eros (2008) von Claudia Bruns betrachten die Gedanken Blühers nicht aus ihrer Zeit heraus. Sie sind Ausdruck normativ-gebundener Wissenschaft, die Blüher vorrangig „Unwissenschaftlichkeit“ vorwerfen. Dies ließe sich jedoch dadurch entkräften, daß Blüher gar kein Wissenschaftler im heute verstandenen profanen Sinn sein wollte, sondern Mystiker, der gemäß seinem eigenen Anspruch unter dem freien Drucke des Welthintergrundes eigene Bilder der Welt zeichnet. Dies merkt man an seinem späten Werk Die Achse der Natur besonders. Es erschien zu einer Zeit, als die Bundesrepublik schon bestand und Blüher in Berlin-Hermsdorf vereinsamt und zurückgezogen als Autor und Psychotherapeut lebte.

Nachdem seine Wandervogel-Monographie die Gemüter erregte und ihn zu einem bekannten Schriftsteller reifen ließen, erreichte sein letztes Werk Die Achse der Natur (1949) eine desinteressierte Öffentlichkeit. Wohl aufgrund einer stillschweigenden Übereinkunft sah er während der NS-Zeit von Publikationstätigkeiten ab und widmete sich der Abfassung dieses letzten Buches.

Blüher und die geistige Wende mit einer antimodernistischen Metaphysik

Blüher kann hier mit Kant in eine Reihe gerückt werden, denn er leitet eine ähnliche Wende im Denken ein, wie Kant mit der Kritik der reinen Vernunft. Abgewendet von seinen frühen Themen unternimmt Blüher in seiner antimodernistischen Metaphysik nunmehr den Versuch, den Subjektivismus der Moderne, ihren grenzenlosen menschlichen Machbarkeitswahn philosophisch zu überwinden, um die Achtung vor der Natur zu erhöhen. Das Buch steht damit von seiner Bedeutung her noch vor der später erschienenen Ausgabe seines 1926 zuerst erschienenen Buches Traktat über die Heilkunde (1950). Dies ist eine Metaphysik der Neurose mit Bezügen zur Psychoanalyse und Homöopathie, die die Krankheiten eines Menschen als etwas Heiliges anerkennt, welches das Wesen des Menschen ausmache und als Spezifikum einzigartige Gründe und Ausprägungen habe. Das Traktat beeinflußte viele Alternativmediziner, Homöopathen und Psychotherapeuten.

Blüher nun vertritt in seinem letzten Werk über die Achse der Natur die These, daß die Natur ebenso wie die Erde eine Achse habe. Er beweist dies, indem er schreibt: „Es handelt sich hier nicht um eine ‚tiefere Einsicht‘ oder eine ‚Vertiefung‘ der Natur, (…) vielmehr um die Anwendung der Tiefendimension auf das Denken über die Natur, wobei die empirische Außen- und Innenwelt die ‚Fläche der Natur‘ oder die erste und zweite Dimension sind.“ Blühers Formel lautet: Natur ist ein transzendentales Kontinuum. Sie hat eine Achse, deren einer Pol im transzendentalen Subjekt, im Menschen, verankert liegt, der andere im transzendentalen Objekt, der Natur.

Die umgekehrte Kopernikanische Wende

Das Werk vertritt eine umgekehrte Kopernikanische Wende: Diesmal nicht wie bei Kant vom Objekt zum Subjekt, wonach die Erscheinungswelt sich im Menschen selbst konstituiere, sondern umgekehrt vom Subjekt zum Objekt hin. Kurz: Die moderne Philosophie und ihr überschätztes Subjekt müssen einen wesentlichen Bestand ihrer Kapazität an das Objekt – die Natur – zurückerstatten. Erkenntnis macht der Mensch sich nach Blüher nicht notwendig selber, sondern sie ist ein Vorgang der Natur selbst. Selbst die Ethik sei nicht ausschließlich aus Vernunft abzuleiten, sondern aus dem Metaphysischen, welches sich aus der Energie der Natur speise. Auch die Religion sei „reines Ereignis der Natur“. Blüher erkennt im Bau der Welt eine Ordnung, die mit Verstandeskräften allein nicht zu fassen sind. Sie müssen wahrgenommen werden mit den geistigen Organen der Erkenntnis, zu denen er auch den „Eros“ zählt. Zugleich stellt er heraus, daß die Kulturleistungen des Menschen nicht ohne Gott denkbar sind.

Interessant ist Blühers Interpretation des Christentums. In den Religion und Christentum gewidmeten beiden letzten Großkapiteln bestimmt Blüher den natürlichen Ursprung aller Religionen in ihrer helfenden Funktion. Er vertritt aber auch eine antike Weltanschauung, wenn er die menschliche Natur selbst vergöttlichen will. Blüher verbündet sich – auch in seinem Spätwerk – mit der christlichen Theologie, ohne selbst zum Fürsprecher einer konkreten Theologie zu werden. Damit gelingt ihm gerade hier eine religiös unvoreingenommene Proklamation des Primates der Natur, die ihn als den Mystiker aufscheinen läßt. Diese Mystik hält er der Katheder-Wissenschaft entgegen.

Was bleibt von Blüher?

Blüher bleibt der große deutsche Querdenker und Mystiker der Neuzeit, der alle Spannungsfelder in Politik, Gesellschaft und zwischen den Geschlechtern ergründete. Er gibt der Natur ihre Bedeutung zurück und ist neben seiner Rolle als Theoretiker des Männerbundes letzter Repräsentant eines philosophischen und psychologischen Universalwissens, welches seinesgleichen sucht. Ernst Jünger schrieb über ihn 1985 in der Zeitschrift Scheidewege: „Ich saß bei guter Wärme auf einer aus Lava gehauenen Treppe, aus deren Fugen das Venushaar wucherte. Warum kam mir dabei Hans Blühers ‚Achse der Natur‘ in den Sinn, und das geringe Echo, das diesem vortrefflichen Werk zuteil wurde?“


Der Pädagoge und Schulmeister in Eutin und Danzig, Rudolf Kneip, der bis in die fünfziger Jahre hinein auch in der DDR wirkte, schrieb 1928 als Vertreter der Sächsischen Jungenschaft, daß Blühers Gedanken Selbstverständlichkeiten geworden seien. So sind bis in die Gegenwart hinein neben viel Abneigung stets auch viel zustimmende Worte zum Wirken Blühers vorhanden. Allein dies bezeugt Blühers ungebrochene Strahlkraft und Aktualität.

lundi, 24 octobre 2011

Pierre Vial présente "Nouveaux Cathares pour Montségur" de Saint-Loup


Pierre Vial présente "Nouveaux Cathares pour Montségur" de Saint-Loup

Who's a Fascist?

 

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Who's a Fascist?

by Paul Gottfried

Ex: http://www.lewrockwell.com/

Having participated this weekend in an Internet discussion courtesy of Paul Craig Roberts, it seems to me that "fascist" is bandied about on the right in the same careless way as one finds on the left. Note that the anti—New Deal American Right in the thirties fell over themselves denouncing FDR and his minions as American Mussolinians. The Old Right associated the fascists with a corporatist economy, welfare programs, and military rearmament, all of which they despised. The fact that the New Republic and other American leftist organs then raved about the virtues of Latin fascism and often considered it soft Communism may have contributed to the illusion that big-government boosters at home were fascists in a state of denial. Recently the Old Right has revived the same charge of fascism and hurled it at the neoconservatives. Because neocons are imperialists, militarists, and enthusiasts for centralized government (all of which they admittedly are), they must also be fascists. After all, didn't Mussolini teach his nation to do everything for the state and nothing against it? How is this different from Bill Kristol's view that to be an American patriot one must love the American state?

While Kristol's "state" does not differ from Mussolini's fascist creation by being truly lovable (God knows it is not!), it may be possible to point out certain palpable differences between the two forms of state worship. Neoconservatives and fascists do not share the same historical context; nor are they reacting against the same enemies. Fascism was an interwar phenomenon and one bound up with a reaction against the revolutionary Left in Italy, Spain, Austria, and other European countries. It was also profoundly reactionary, in the sense that it valued certain classical conservative principles, like hierarchy, patriarchy and the restoration of antiquity, but believed it was only possible to bring about what it wanted through a constructivist project. Therefore Mussolini and his counterparts created a neoclassical version of a pre-bourgeois society, which was cobbled together with Roman republican and Spartan models. Fascists also stressed the organic unity of the nation, something that points to the semantic problem incurred by critics of the neoconservatives who wish to see them as "multicultural" fascists. Although not all fascists were racialists (the German case was the lunatic exception), most of them were avowed anti-internationalists and would not have approved of anything as destabilizing as immigration expansion. In the 1930s the Italian fascist government even tried to make sure that government workers would marry ethnic Italians.

Peter Brimelow was correct to observe in last weekend's Internet chat that neoconservatives believe not in fascism but in "Goldbergism" when they push for open borders and an aggressive foreign policy in the name of human rights. Jonah Goldberg, one of their major political theorists, has explained on NROnline that European conservatives like Joseph de Maistre were really on the left, seeing that they rejected "human rights," which is the essence of a conservative belief system. No matter how silly Goldberg's interpretation may seem, what he enunciates is the current neoconservative dogma that justifies imperial expansion. And it is hard to grasp anything fascist about Goldberg's redefinition of conservatism. Goldberg arrives at his view from reading the English social democratic historian Isaiah Berlin, who plays up the derivation of fascist thinking from Maistre's attack on the universalism and abstract ideals of the French Revolution. Although Berlin overstates this connection, he is nonetheless justified in perceiving the fascists as being connected to European counterrevolutionary traditions. The neoconservatives are not only not connected in any way to such traditions but are clearly on the side of what Michael Ledeen calls the "creative destruction" of the social and cultural traditions of other peoples.

Without judging the merits of this project, it seems that those who pursue it are not definable as fascists. They may in fact be far more destructive but are not a subgenus of interwar fascists who have landed up in our society. Depicting them as such depends on an underdetermined definition that serves strictly polemical ends. Just because all modern Western industrial states have large administrations that socialize the family and feature public education does not make them "fascist." Fascists took advantage of a political paradigm they shared with non-fascist modern governments, in order to achieve in some cases counterrevolutionary ends. But they did not initiate the welfare state, which flourished without the fascists, on the Euro-American left. Nor were the fascists unique in having military dictators and wars of expansion. Both Tom Woods's The Politically Incorrect Guide to American History and Tom DiLorenzo's study of the Great Emancipator as state-builder provide illustrations of Lincoln's authoritarian manner that show bad European habits could crop up here as well. But that happened generations before there was a fascist movement.

It is not accurate to refer to Abraham Lincoln as a "fascist," because he applied military force to quell the Southern secession and ruled as a military dictator. Political leaders can do things that are open to condemnation without being fascists. It would also not be irrelevant to cite the case of one of Lincoln's precursors, Oliver Cromwell, who also slaughtered secessionists, to reunite the United Kingdom, and whom the young Lincoln saw as someone he wished to emulate. Yet curiously the two men, long viewed as being alike in their nationalist fervor, connection to an Anglo-Saxon Protestant culture, and role as social modernizers, have contributed to very different cults. After being identified for centuries with republicanism and Protestant sectarians, Cromwell became a hero for rightwing English nationalists, including the fascist followers of Sir Oswald Mosley in the late thirties. Lincoln, by contrast, has become a god figure for the Left, from the communist Abraham Lincoln Brigade fighting in the Spanish Civil War down to the civil rights movement and his current apotheosis, as the incarnation of global democratic ideals. My friend Tom Di Lorenzo has made this last point clear by debating Lincoln-admirers, who invariably bring with them leftist agendas. But neither Cromwell nor Lincoln produced the twentieth-century cults that sprang up around their putative achievements. The Irish are certainly entitled to dislike Cromwell and his son-in-law for devastating their land during the English Civil War and like Paul Craig Roberts, I cannot find any sane reason for a Southerner whose family suffered during Lincoln's invasion of the South to revere this brutal nationalist. But neither figure belonged to the twentieth century or to its ideological wars; and both have been co-opted to symbolize battles that are no longer theirs. Like Cromwell, Lincoln was neither a fascist nor a neocon.

December 2, 2004

Paul Gottfried [send him mail] is Horace Raffensperger Professor of Humanities at Elizabethtown College and author of, most recently, Multiculturalism and the Politics of Guilt.

Copyright © 2004 LewRockwell.com

La seconde invasion de l'Italie par Alaric (408-410)

 

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La seconde invasion de l'Italie par Alaric (408-410)

Ex: http://anti-mythes.blogspot.com/

Les invasions des anciens fédérés Wisigoths furent très différentes de la grande migration des peuples de Radagaise et des Vandales-Alains-Suèves, tous gentes externae, car les anciens fédérés wisigoths étaient dans l'Empire et ils eurent un but plus précis que la grande migration de 406, celui non seulement de redevenir fédérés, mais aussi d'obtenir une intégration plus étroite dans l'Empire, obstinément poursuivie par leurs rois, tant par l'ancien général romain Alaric que par son successeur Athaulf.

 
 
alarich-1-koenig-der-westgoten.jpgAinsi les Wisigoths envahirent-ils dans ce but, peu après la grande migration de 406, d'abord l'Italie complètement, puis une partie de la Gaule méridionale et une partie de l'Espagne méditerranéenne. Mais, si la grande migration de 406 les servit, en épuisant les moyens militaires de l'empereur Honorius contraint, en plus, d'affronter un usurpateur en Gaule dès 407 et un autre encore en 411, elle les desservit tout autant, en suscitant une virulente réaction des Romains antigermains qui les assimilèrent aux barbares de Radagaise ou de l'invasion des Vandales-Alains-Suèves et qui, même, redoutèrent plus ces anciens fédérés que les autres envahisseurs barbares. La seconde invasion de l'Italie par Alaric et la prise de Rome, le 24 août 410, firent des Wisigoths des ennemis intolérables de l'Empire, de sorte que leur établissement dans des provinces gauloises en 418, après leur retour au statut de fédérés en 416, réalisa en partie seulement les buts de leurs sept années d'invasions.
 
La rupture du gouvernement impérial avec Alaric détermina l'invasion de l'Italie par un roi des Wisigoths, ancien magister militum per Illyricum de l'empereur d'Occident. Au printemps 407, l'arrêt des préparatifs de la guerre contre l'Empire d'Orient n'entraîna pas cependant le retrait de sa dignité romaine au roi wisigoth qui, probablement, crut que la guerre projetée était différée à cause de l'usurpation de Constantin en Gaule. Vers la fin de 407 ou le début de 408, sans doute après l'échec de l'expédition de Sarus contre Constantin, Alaric, inquiet de ne plus recevoir les annones de ses soldats fédérés, quitta ses cantonnements d'Épire, gagna par la Savie et Emona le Norique méditerranéen, où il s'installa à Virunum (près de Klagenfurt), à l'entrée de la route des Alpes Juliennes menant en Italie, donc dans la même région qu'en 406 Radagaise. De là, il envoya des légats réclamer au généralissime de Ravenne une indemnité de 4 000 livres d'or, somme considérable que Stilicon, accouru à Rome où se trouvait Honorius, fit difficilement accepter par le Sénat. En outre l'empereur, allant à Ravenne pour inspecter lui-même l'armée italienne, y fut accueilli par une mutinerie que suscita Sarus, antistiliconien depuis son échec en Gaule.
 
La chute de Stilicon fut, peu après, hâtée par la mort inattendue de l'empereur Arcadius, le 1er mai 408, mort qui rendit inutiles la guerre déjà retardée contre l'Orient et les services d'Alaric, précisément nommé général pour occuper l'Illyricum oriental revendiqué par l'Occident : Honorius devint le tuteur du jeune fils d'Arcadius, Théodose II. Alors Stilicon, sans doute pour garder Alaric au service de l'Empire en évitant d'apparaître à ses côtés comme un complice, décida Honorius, lors d'un conseil tenu à Bologne vers juillet, à lui confier quelques troupes pour aller veiller sur Théodose II à Constantinople, tandis que l'armée italienne, de plus en plus travaillée par les antistiliconiens, irait en Gaule combattre l'usurpateur avec les Wisigoths du magister militum Alaric sous le commandement personnel de l'empereur. Quand Honorius vint à Pavie, où étaient réunis les soldats italiens, ceux-ci se mutinèrent à l'incitation des antistiliconiens dont faisait partie un très influent fonctionnaire palatin d'origine orientale, Olympius : ils massacrèrent le magister equitum Galliarum et le préfet du prétoire des Gaules qui venaient d'être nommés, ainsi que le préfet du prétoire d'Italie et tous les dignitaires stiliconiens. Stilicon, resté à Bologne avec quelques troupes, ne tenta pas un autre coup d'État militaire pour évincer Olympius et le parti antigermanique : il partit à Ravenne et, quand ses gardes du corps huns furent égorgés par Sarus, il se laissa arrêter sous la promesse d'avoir la vie sauve, mais il fut exécuté.

 
Aussitôt se déchaîna la persécution non seulement de la famille et des partisans de Stilicon, mais aussi des soldats barbares, déjà expulsés des villes italiennes sur l'ordre du généralissime, peu avant son exécution : on tua tous ceux qu'on put rattraper ainsi que leurs familles laissées en otages dans les cités et, selon Zosime, les rescapés, au nombre de 30.000, s'enfuirent auprès d'Alaric. Olympius, devenu tout-puissant auprès d'Honorius, installa des ministres antigermains, donna de nouveaux généraux à l'armée italienne et utilisa l'Ostrogoth Sarus en le nommant aussi général, selon Philostorge, soit pour le récompenser de l'arrestation de Stilicon, soit pour garder le groupe de fédérés pannoniens qui l'avaient suivi en Italie. Or, Sarus était l'ennemi personnel d'Alaric, inimitié qui joua un grand rôle dans les rapports du nouveau gouvernement de Ravenne et du roi wisigoth, parce qu'il s'agissait de haines tribales implacables. Probablement ces haines anciennes s'étaient-elles avivées quand les Wisigoths, allant envahir l'Italie à la fin de 401, passèrent en Pannonie II-Savie et s'allièrent aux fédérés ostrogoths en les incitant à se donner pour roi, à la place de Sarus, le beau-frère d'Alaric, Athaulf, d'origine gothico-sarmate, sans doute d'une famille loyale envers Hermanaric, lors du complot de la gens infida des Rosomons, et restée fidèle aux Amales quand elle se réfugia chez les Wisigoths après 375 : Athaulf exploita-t-il le fait que Sarus était le frère de Sunilda, l'épouse d'Hermanaric suppliciée pour avoir trahi au profit des Rosomons ? Après la défaite d'Alaric en Italie et sa retraite en Illyricum oriental, les fédérés ostrogoths, pardonnés par Stilicon, avaient eu pour roi Sarus, avec qui une partie d'entre eux était partie, en 406, dans la plaine du Pô pour y participer aux opérations de Stilicon contre Radagaise. Mais, à l'automne de 408, quand Alaric quitta l'Épire, il revint en Pannonie II-Savie et de nouveau donna pour roi Athaulf aux fédérés ostrogoths qui n'avaient pas suivi Sarus en Italie, peut-être surtout parce que, venant de rompre avec le gouvernement impérial, il ne pouvait gagner le Norique méditerranéen sans être sûr de l'alliance des Ostrogoths de Pannonie.
 
Vers septembre 408 en effet, Alaric semble avoir tenté d'éviter la guerre contre le nouveau gouvernement impérial, parce qu'il redoutait d'affronter la grande armée italienne de Pavie avec des troupes insuffisantes, réduites à ses Wisigoths, sans être assuré que les fédérés ostrogoths et huns de Pannonie viendraient, dirigés par Athaulf, participer à l'invasion de l'Italie. Selon Zosime, il envoya des légats porter à l'empereur des propositions de paix plus "modérées" que son ultimatum du printemps : une somme d'argent "non excessive", l'autorisation de transférer ses soldats du Norique « en Pannonie », vraisemblablement pour obtenir qu'Athaulf y eût le statut de roi fédéré, et l'envoi réciproque d'otages qui seraient, du côté romain, Aetius et le fils de Jovius.
 
L'ouverture de la guerre fut précipitée, dès octobre, tant par le refus d'Olympius de négocier avec Alaric que par la prompte désorganisation de l'armée italienne, non seulement amputée de ses soldats barbares dont la plupart allèrent rejoindre le roi wisigoth, mais aussi par l'incompétence et les rancunes de ses nouveaux généraux qui avaient fini par obtenir la mise à l'écart de Sarus. Aussi peut-on conjecturer qu'Alaric décida d'intimider l'influençable Honorius qui avait gardé au palais d'anciens stiliconiens, tel l'ex-préfet du prétoire d'Illyricum Jovius, et n'avait même pas encore quitté Milan le 24 septembre. Dans le courant d'octobre 408, sans attendre les renforts pannoniens "huns et goths" qu'il avait demandés à son beau-frère Athaulf, il passa les cols du Norique avec ses seuls guerriers et envahit la Vénétie. Par la route de Concordia et d'Altinum il atteignit le Pô et s'empara de Crémone, sans rencontrer de soldats italiens, car, entre-temps, Honorius avait quitté Milan et était revenu à Ravenne.
 
Alaric eut donc à faire le siège de Ravenne, puissamment fortifiée et défendue par une armée impériale, pour imposer à l'empereur une paix moins "modérée" que celle proposée en septembre. S'il renonça aux longs et coûteux travaux qu'aurait exigés le siège de Ravenne, il alla, en suivant la voie Flaminienne, assiéger Rome. L'Urbs avait certes une enceinte réparée à la fin de 401, mais pas de garnison. De plus, la présence dans ses murs du sénat et des grandes familles sénatoriales, ainsi que de l'évêque romain, faisait de Rome assiégée une menace qui pouvait contraindre Honorius à négocier, tout autant que le siège de Ravenne. C'était aussi à l'automne qu'arrivait à Portus, le port de Rome sur la rive nord de l'embouchure du Tibre, l'annone d'Afrique qui pouvait assurer le ravitaillement des Wisigoths, restés sans vivres au début de l'hiver, à cause de leur offensive rapide, après Crémone, vers Bologne et Rimini qu'ils n'avaient pas pris le temps d'assiéger. Dès novembre, Alaric s'empara de Portus et du blé africain, qui, enlevé ainsi aux Romains, contribua à ébranler la résistance d'assiégés menacés par la famine.
 
Le siège de Rome devint pour le roi wisigoth le moyen d'exercer une pression puissante sur le gouvernement impérial, afin d'en obtenir l'octroi de cantonnements pour ses sujets redevenus fédérés et de commandements romains pour lui et Athaulf. En revanche Honorius, resté sauf dans Ravenne avec une armée qui servait de garnison à sa capitale réelle, résista aux exigences des Wisigoths retenus par le siège de Rome. Si Alaric crut pouvoir dicter les conditions de la paix, le gouvernement de Ravenne crut pouvoir refuser de subordonner au sort de Rome la paix avec un ennemi qui ne le menaçait pas directement. Mais le siège de l'Urbs, que l'armée d'Alaric ne pouvait emporter, ni l'armée de Ravenne délivrer, dura longtemps et il imposa aux deux adversaires, au roi wisigoth comme à l'empereur, une remise en question, par trois fois au moins, des moyens susceptibles d'aboutir à une paix nécessairement dépendante de leur réconciliation ou de la soumission de l'un des deux.
 
De novembre 408 à février 409, la politique antigermanique d'Olympius s'effrita sous le choc des maux endurés par les Romains assiégés : après la prise de Portus, les rations de blé diminuèrent d'un tiers, puis de moitié, et la famine, puis la peste apparurent, tandis qu'on faisait la chasse aux stiliconiens ; hors les murs, les Wisigoths furent rejoints par les esclaves fugitifs, 40.000 selon Zosime, et Alaric exigea de la première ambassade romaine qui vint le trouver tout ce que l'Urbs contenait d'or, d'argent et d'esclaves germains. Mais, quand l'énorme contribution fut livrée par une seconde ambassade, Alaric demanda l'envoi à Ravenne du préfet de la Ville et de deux sénateurs pour proposer à l'empereur la paix dans l'alliance avec les Wisigoths. En janvier 409, l'intransigeance d'Olympius, qui avait convaincu Honorius de ne pas céder aux prières des représentants des Romains, fit déjà scandale à la cour, d'autant plus que cinq escadrons de Dalmates, rappelés de Pannonie pour aller au secours de l'Urbs furent détruits par Alaric. En février, le blocus de Rome fut resserré par le roi wisigoth, irrité par les refus du gouvernement impérial, et une nouvelle ambassade romaine partit, avec l'évêque de Rome Innocent I', demander une fois de plus à l'empereur de consentir à la paix. À ce moment, les renforts pannoniens amenés par Athaulf arrivèrent enfin sur la route de Rome, mais ils étaient si peu nombreux qu'un corps de trois cents fédérés huns, probablement rappelés de Pannonie par Olympius en même temps que les Equites dalmates, put les attaquer à Pise et les vaincre, sans réussir cependant à empêcher la jonction d'Athaulf et d'Alaric. Alors, à Ravenne, les soldats du comte Jovius exigèrent de l'empereur la disgrâce d'Olympius et du parti antigermanique. Jovius devint préfet du prétoire et reprit les négociations.
De mars à novembre 409, la politique d'entente avec les Wisigoths s'effrita à son tour, mais progressivement, à mesure qu'évoluèrent les exigences d'Alaric. Vers mai-juin, Honorius se réconcilia avec l'usurpateur gaulois Constantin qui promit d'intervenir en Italie "avec toute l'armée de Bretagne, de Gaule et d'Espagne". Fut-ce à cause de cela ou d'une intrigue du parti antigermanique demeuré influent au palais qu'Honorius décida de refuser les propositions d'Alaric, présentées à Rimini, lors de la rencontre du roi wisigoth et du préfet du prétoire Jovius ? Alaric présenta, semble-t-il, à Rimini non pas un ultimatum, mais une base de discussion, en exigeant, outre de l'or et des vivres, des cantonnements situés non seulement dans les Noriques et les Pannonies, comme il l'avait réclamé en septembre 408, mais aussi dans la Dalmatie et la province italienne de Vénétie. Avait-il l'intention de réduire ces exigences s'il obtenait pour lui et Athaulf des commandements romains, que d'ailleurs Jovius avait conseillé à l'empereur d'accorder? De toute façon, Honorius ordonna de rompre les négociations. Jovius non seulement obtempéra, mais encore, craignant d'être disgracié, se convertit sur-le-champ à la politique antigermanique d'Olympius. Alaric, violemment déçu, partit reprendre le siège de Rome, "vigoureusement" dit Zosime, tandis que Jovius faisait engager 10.000 Huns extérieurs aux frontières pannoniennes, mercenaires pour lesquels il fit venir du blé et du bétail de Dalmatie.
 
Mais, vers la fin de l'été 409, les pourparlers reprirent entre les Romains assiégés et Alaric, car le ravitaillement des Wisigoths dépendait, comme à l'automne 408, de l'arrivée du blé annonaire d'Afrique. Une nouvelle ambassade des Romains, conduits par le préfet de la Ville Attale et l'évêque Innocent 1er, alla porter à Ravenne des propositions de paix du roi wisigoth beaucoup plus conciliantes que celles du printemps précédent : Alaric se bornait, selon Zosime, à demander non plus de l'or, mais seulement des vivres, dont l'empereur fixerait lui-même la quantité, et des cantonnements dans les Noriques, "provinces éloignées de l'Italie et qui rapportaient peu au fisc". Jovius, soit parce qu'il attendait ses nouveaux soldats huns, soit parce qu'il n'osait pas renier le parti antigermanique, fit éconduire l'ambassade et rejeter les offres d'Alaric par Honorius. Le roi wisigoth, excédé par cette politique de refus, resserra le blocus de Rome, d'autant plus qu'en novembre le blé africain n'arriva pas à Portus, car le comte d'Afrique Heraclianus retint à Carthage la flotte annonaire et même, plus tard, au printemps 410, l'expédia à Ravenne.
De décembre 409 à juillet 410, Alaric tenta de s'entendre avec les Romains contre l'intraitable gouvernement de Ravenne. Résolu à rompre enfin avec Honorius, mais non avec l'autorité impériale, il fit proclamer empereur par ses Wisigoths le préfet de la Ville Attale, au vif soulagement du sénat et de la population de Rome. Ainsi obtint-il de son empereur, assez docile pour se laisser baptiser par l'évêque arien des Wisigoths, ce qu'il avait demandé vainement au représentant d'Honorius à Rimini, c'est-à-dire non pas des cantonnements en Italie, mais un grand commandement : Alaric fut nommé magister militum et Athaulf comte de la cavalerie des domestiques. Attale put cependant désigner un Romain, Constant, plutôt que le Wisigoth Druma, comme chef des soldats expédiés promptement en Afrique pour obliger le comte Heraclianus à livrer l'annone.
 
Jusqu'au printemps 410, Attale donna satisfaction au roi wisigoth. Dès janvier, tous deux marchèrent contre Ravenne, d'où Honorius, inquiet de cette entente, envoya des ambassadeurs conduits par le préfet du prétoire Jovius qui offrirent à Attale de partager le pouvoir impérial avec l'empereur légitime. Peut-être Alaric y aurait-il consenti, si, à la cour d'Honorius, les haines n'avaient explosé contre le parti antigermanique et l'empereur qui, en le cautionnant, était responsable du siège de Ravenne. Jovius s'empressa de faire à nouveau volte-face et de se rallier à l'empereur d'Alaric : il devint le préfet du prétoire d'Attale qu'il pressa de déposer Honorius et même de le mutiler, après l'avoir capturé. Quant au général germain des soldats de Ravenne, Allobic, il projeta de remplacer Honorius par Constantin III dont on attendait la venue en Italie.
Honorius semblait perdu et s'apprêtait à fuir Ravenne, lorsque soudainement débarquèrent quatre mille soldats envoyés d'Orient par Théodose II, qui le décidèrent à rester. Ensuite, peut-être vers avril, arriva de Carthage la flotte annonaire apportant aussi les impôts en argent des Africains, qu'avait retardée les opérations du comte Heraclianus contre les soldats de Constant, expédiés par Attale en Afrique sans doute vers février, mais battus promptement. Honorius eut donc de quoi payer ses soldats huns et nourrir la garnison ainsi que la population de Ravenne assiégée, tandis que le blocus des ports africains par Heraclianus faisait réapparaître la famine à Rome.
 
Alaric hésita cependant à se séparer d'Attale, quand celui-ci refusa de faire partir en Afrique des soldats wisigoths qui, mieux que ceux de Constant, pouvaient vaincre Heraclianus. Il alla même guerroyer contre les villes italiennes qui, telle Bologne, refusaient de reconnaître son empereur et peut-être contribua-t-il à hâter la retraite de Constantin III que la mort d'Allobic et les nouveaux moyens dont disposait Honorius décidèrent à rentrer en Gaule. Ce fut Jovius qui, selon Zosime "acheté par Honorius", convainquit Alaric de se débarrasser d'Attale et de se réconcilier avec l'empereur légitime. Attale ayant abandonné le siège de Ravenne pour accourir à Rome, afin sans doute de recourir au sénat, Alaric le convoqua à son camp de Rimini et, là, vers la fin juillet, le dépouilla des insignes impériaux qu'il fit porter à Honorius.
 
L'empereur de Ravenne accepta la paix offerte, amnistia tous ceux qui avaient servi Attale et, peu après, fit lever le blocus des ports africains pour assurer le ravitaillement de Rome et, en conséquence, celui des Wisigoths. On ignore les concessions qu'obtinrent Alaric et Athaulf, car celles-ci restaient sans doute à préciser.
 
On ignore aussi pourquoi et à quel moment, avant ou après une entrevue entre Honorius et Alaric, l'escorte du roi wisigoth fut, sur la route de Ravenne, attaquée par Sarus, resté à l'écart depuis l'automne 408, mais rentré avec un haut grade au service de l'empereur ou plutôt du nouveau généralissime, Constantius. L'incident était-il dû à une initiative de Sarus ou à un ordre de Constantius, soucieux d'intimider Alaric qui gardait encore comme otage la demi-soeur d'Honorius, Galla Placidia ? Alaric s'indigna-t-il seulement d'être attaqué par son ennemi promu à un grade que ni lui-même, ni Athaulf n'avaient encore reçu de l'empereur ? Persuadé qu'Honorius s'apprêtait à le trahir, le roi wisigoth revint assiéger Rome et prouver sa puissance, soit pour se venger, soit pour faire céder l'empereur.
 
La prise de Rome fut précédée par un blocus qui menaçait de durer, car les Wisigoths n'avaient pas de matériel de siège et la solide enceinte de l'Urbs avait peu souffert des sièges précédents de 408 et 409. Mais, depuis 18 mois, il y avait eu tant de pourparlers et de trêves, tant d'échanges d'ambassades entre assiégés et assiégeants, tant de partisans d'Attale à Rome, que beaucoup de familles romaines, notamment sénatoriales, avaient des relations dans l'entourage d'Alaric et d'Athaulf. En outre, la famine, qui sévissait déjà au temps d'Attale, était devenue intolérable après les espoirs d'amélioration apportés par la paix. Aussi est-il probable que des Romains tentèrent un accommodement avec le roi wisigoth pour ne pas prolonger une vaine résistance et, tout au moins, limiter les dégâts d'une reddition inconditionnée.
Le sac de Rome, du 24 au 27 août, fut apparemment réglé avant l'entrée des Wisigoths, par la Porte Salaria, trop mal défendue pour qu'il n'y ait pas eu des complicités dans ce quartier de l'Urbs. La limitation à trois jours de la mise à sac d'une ville aussi vaste et riche que Rome suggère que le roi wisigoth s'y était engagé, avant. Alaric, d'ailleurs respecta cet engagement préalable, y compris le droit d'asile consenti à la basilique Saint-Pierre et à ses alentours, malgré la difficulté de plier à cette discipline ses Wisigoths exaltés par le pillage de tant d'opulentes demeures et l'incendie de tant de monuments. Enfin, il y eut tant de nobles réfugiés en Afrique et en Orient, où ils arrivèrent dépourvus de ressources, que la fuite de la plupart d'entre eux avait été, vraisemblablement, tolérée et payée par l'abandon de leurs biens. Ceux, plus pauvres ou plus imprudents, qui restèrent eurent le sort des autres Romains, soit tués, soit surtout asservis par les Wisigoths jusqu'au paiement de rançons sommairement calculées, d'après les classes sociales ou les circonstances.
Il ne subsiste pas et sans doute n'y eut-il pas de description de la prise de Rome, événement civil, non pas défaite ou victoire militaire. Brièvement mentionnée par les chroniques, elle n'apparaît dans les textes d'auteurs presque tous ecclésiastiques, dont l'historien des Goths Jordanes, qu'à travers des épisodes sélectionnés et altérés pour montrer la modération de barbares chrétiens ou à travers des allusions aux malheurs de victimes romaines connues, enfin à travers des reproches adressés au gouvernement impérial, mais surtout au "traître" Stilicon. De tous ces témoignages il ressort que le sac de Rome fut ressenti comme un bouleversement prodigieux, un signe fatidique, moins à décrire qu'à interpréter pour dénoncer ses causes et conjurer l'arrêt du Destin. Rome n'avait pu tomber que parce qu'elle avait été trahie ou coupable. Seule importait la cause morale de ce malheur : abandon des anciens dieux tutélaires pour l'opinion des païens, plus nombreux dans les milieux populaires romains que dans les cercles des sénateurs lettrés ; justice de Dieu qui frappe, mais laisse survivre, pour l'opinion des clercs chrétiens plus que de leurs fidèles.
 
Les conséquences de la prise de Rome montrèrent l'importance réelle de cet événement. Apparemment, ni Honorius, assuré que Ravenne, sa capitale d'empereur légitime, était le cœur de l'Empire, ni Alaric, aveuglé par ses rancunes, ni même les sénateurs romains obsédés par le souci d'échapper au pire, n'avaient tenu compte de la puissante charge émotionnelle qui s'était investie, au cours des siècles, dans la vieille Rome, "mère du monde assassinée" pour Rutilius Namatianus, beaucoup plus que dans la nouvelle, Constantinople, prise par les Goths de Gainas en 400 avec un moindre retentissement. S'il y eut autour d'Honorius, qui n'était pas un Théodose, et autour d'Alaric, qui n'était pas un Radagaise, des partisans d'un compromis entre l'intransigeance du parti antigermanique et les buts d'anciens fédérés révoltés pour obtenir d'être intégrés dans l'Empire, cette politique fut ruinée par le sac de Rome. La lutte entre Honorius et Alaric, transférée sur le plan du Salut de la Respublica Romana, devint celle de l'empereur identifié à la souveraineté de Rome et du représentant le plus dangereux de la furie barbare.
Effectivement, après la prise de l'Urbs, il n'y eut plus de négociations entre le gouvernement de Ravenne et le roi wisigoth. Alaric put continuer ses ravages : quittant la ville, avec son énorme butin et ses nombreux captifs, dont Galla et Attale, il emmena ses Wisigoths à la recherche de vivres en Campanie d'abord, puis vers le sud, où, pour conquérir le blé d'Afrique, il prépara une expédition navale en direction de la Sicile et de Carthage. Mais, fin septembre, les tempêtes d'équinoxe détruisirent sa flotte improvisée et il revint vers l'opulente Campanie pas encore épuisée. Dès octobre, sa mort subite lui épargna la peine inévitable de négocier avec Honorius, tâche qui échut à son successeur, Athaulf, et ses Wisigoths lui firent des funérailles dignes d'un héros, à Cosenza, près du fleuve Busentus dont ils auraient détourné le cours pour ensevelir leur roi, selon Jordanes.
 
Après la mort d'Alaric, le gouvernement de Ravenne continua d'ignorer le roi wisigoth. Honorius fit d'abord un bref séjour à Rome, où il célébra en janvier 411 ses vicennalia et promit aux sénateurs des exemptions d'impôts, puis, "voyant qu'il ne pouvait agir contre les barbares à cause des usurpateurs" dit Orose, il envoya, au printemps, contre Constantin III l'armée italienne commandée par Constantius, "un général enfin romain". Pendant l'hiver 410-411, Athaulf ravitailla ses Wisigoths en pillant les régions riveraines de l'Adriatique, moins épuisées que le Latium et les alentours de Rome dont il se détourna. Se rapprochant ainsi de Ravenne, il arriva en Émilie, d'où il tenta de faire la paix avec l'empereur, soit vers la fin du printemps, soit au cours de l'été, c'est-à-dire après le départ en Gaule de l'armée commandée par le magister peditum Constantius et le magister equitum Ulphila, départ qui priva le roi wisigoth de l'occasion d'offrir ses soldats en demandant un commandement romain. Fut-ce pour s'imposer à Honorius qu'il épousa Galla, à Forli, en Émilie, selon Jordanes ? Il y eut sûrement des pourparlers au sujet de ce mariage, car Honorius voulait faire libérer sa demi-sœur et Athaulf savait que Constantius, vainqueur de Constantin III devant Arles en août, ne pouvait vaincre sans renforts le nouvel usurpateur gaulois, Jovinus, proclamé Auguste à Mayence, où se formait une grande armée de barbares rhénans.
 
Mais Honorius ne céda pas. Alors, selon Jordanes, Athaulf quitta l'Italie, "en y laissant l'empereur comme un parent traité avec bienveillance, bien qu'il l'eût dépouillé de ses richesses, après avoir pillé dans les provinces italiennes les biens des particuliers, ainsi que surtout ceux de l'État", et il se dirigea vers les Gaules. Au printemps 412, dès que les cols des Alpes occidentales furent ouverts, Athaulf passa en Gaule, emmenant son butin, Galla et l'ex-empereur Attale qu'il projetait de donner pour collègue à l'usurpateur Jovinus, auquel il avait décidé de se rallier. Les Wisigoths évacuèrent donc l'Italie avec le même statut qu'à l'automne 408, quand ils l'avaient envahie.
 
Émilienne DEMOUGEOT 

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dimanche, 23 octobre 2011

Egypte : du « printemps arabe » à l’hiver chrétien

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Egypte : du « printemps arabe » à l’hiver chrétien

 
 
Pour les Coptes, le « printemps arabe » s’est vite transformé en un « hiver chrétien », à telle enseigne qu’il est possible de se demander s’ils pourront survivre dans leur propre pays.
Les 6 à 10% d’Egyptiens coptes sont les ultimes survivants de l’ancienne chrétienté égyptienne qui rassemblait quasiment 100% de la population avant la conquête arabo-musulmane du VII° siècle. Aujourd’hui, en dépit des discours lénifiants de certains responsables politiques et religieux, ils subissent un véritable apartheid. Ils sont en effet considérés comme des étrangers, la fonction publique leur est de plus en plus fermée et il leur est de plus en plus difficile de faire de la politique, ou du moins de briguer avec une quelconque chance de succès des mandats électifs.
L’actuelle vague de violences anti Copte a commencé à Alexandrie, dans la nuit du Nouvel An à l’église des Saints, quand une bombe explosa en plein office, faisant 21 morts et 80 blessés.
Depuis la chute du président Moubarak, la violence anti chrétienne a pris la forme de véritables pogroms, les Coptes subissant des exactions quotidiennes et plusieurs de leurs églises ayant été attaquées ou incendiées.
 
Ce qui s’est passé le dimanche 9 octobre au Caire marque cependant un tournant dans la persécution que subit cette communauté. Ce fut en effet l’armée, pourtant théoriquement gardienne de l’ordre et chargée de les protéger qui a froidement massacré les manifestants coptes protestant contre l’incendie d’une de leurs églises. Lançant dans une foule pacifique ses véhicules blindés à pleine vitesse, elle broya 24 personnes et en mutila 200 autres. Face à ce massacre d’Etat les médias officiels ont menti, faisant croire aux Egyptiens que les Coptes avaient attaqué l’armée, laquelle s’était donc trouvée en situation de légitime défense.
 
Pourquoi de tels mensonges, pourquoi de tels évènements ? La réponse est hélas claire : le total échec du prétendu « printemps arabe » étant désormais une évidence, les dirigeants officiels ou officieux de l’Egypte sont dans une impasse politique, économique et sociale cependant que les islamistes sont en embuscade. Ils cherchent donc un bouc émissaire afin de tenter de lui faire porter la responsabilité de la situation. Les Coptes vont donc jouer ce rôle...
 
La tragique situation de cette communauté semble moins émouvoir le président de la république française que les islamistes de Benghazi au bénéfice desquels il a fait intervenir l’armée française… 
 
Bernard Lugan
11/10/11

La tolleranza di Voltaire non è che la maschera di una nuova e più feroce intolleranza

La tolleranza di Voltaire non è che la maschera di una nuova e più feroce intolleranza

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

 

Abbiamo già visto come il gran padre del liberalismo, John Locke, abbia proclamato, fin dal 1689 (l’anno della “Glorious Revolution” inglese) il sacro principio della tolleranza universale; escludendone, però, per ragioni di fatto e di principio, tutta una serie di categorie umane e specialmente religiose: guarda caso, i non inglesi, i non protestanti, i non cristiani, i non religiosi (cfr. il nostro articolo «Locke auspica tolleranza religiosa per tutti, ma invoca la persecuzione di cattolici islamici e atei», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 10/02/2011).

Ci resta da vedere come il suo legittimo successore in terra di Francia, Voltaire, abbia a sua volta ripreso ed esposto le proprie idee in fatto di tolleranza, questo roboante slogan dell’Illuminismo che, nel 1793, non varrà a risparmiare la vita di forse un milione di Vandeani, cattivi cittadini che non vorranno accogliere con il berretto frigio e l’Albero della Libertà le deliziose parole d’ordine: libertà, fraternità, uguaglianza, ma che preferiranno farsi massacrare, potenza dell’ignoranza e della superstizione, in difesa del loro re, della loro Chiesa e dei loro signori.

Per farsi un’idea dell’estensione che Voltaire accorda al suo soggetto, basta andare a cercare il codicillo, l’avvertenza, la specificazione in cui esplicitamente, come già aveva fatto il padre nobile Locke, vengono esposte le categorie di cittadini immeritevoli di godere anch’essi dei benefici della tolleranza, perché non sono veramente esseri umani, ma “lupi”: e con i lupi, si sa, non bisogna mostrare alcuna pietà, perché la pietà sarebbe un crimine verso gli altri, cioè verso i “bravi” cittadini, rispettosi dei Lumi della ragione e di tutto l’armamentario liberale.

Ecco dunque cosa afferma Voltaire, nel capitolo XVIII del suo «Trattato sulla tolleranza» del 1763, circa ottant’anni dopo quello di Locke, che  in realtà, era stato scritto nel 1685-86 (titolo originale: «Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jan Calas»; traduzione italiana di Glauca Michelini, Demetra Editrice, 1995, pp. 79-80; capitolo intitolato esplicitamente: «I soli casi in cui l’intolleranza è di diritto umano»):

 

«Perché un governo non abbia il diritto di punire gli errori degli uomini è necessario che questi errori non siano delitti; essi sono delitti solo quando turbano la società: e la turbano non appena ispirano il fanatismo. È necessario dunque che gli uomini comincino col non essere fanatici per meritare la tolleranza.

Se alcuni giovani gesuiti, sapendo che la chiesa ha in orrore i reprobi,  che i giansenisti sono condannati da una bolla papale e che sono perciò dei reprobi, vanno ad appiccare il fuoco ad una casa dei Padri dell’Oratorio perché l’oratoriano Quesnel era giansenista, è chiaro che si sarà costretti a punire questi gesuiti.

Nello stesso modo, se hanno diffuso massime delittuose, se il loro istituto è contrario alle leggi del regno, non si può fare a meno di sciogliere la loro compagnia e abolire i gesuiti per trasformarli in cittadini, cosa che in fondo è un male immaginario, e per loro un bene reale, perché che cosa c’è di male nel portare un abito corto invece che una sottana, e nell’essere liberi invece che schiavi? Tranquillamente si riformano reggimenti interi, che non se ne lamentano: perché i gesuiti lanciano così alte grida quando li si sottopone a riforme per ottenere la pace?

Se i francescani, trasportati a sacro zelo per la Vergine Maria, andassero a demolire la chiesa dei domenicani, che sono convinti che Maria è nata nel peccato originale, si sarebbe allora obbligati a trattare i francescani quasi come i gesuiti.

Si dirà la stessa cosa dei luterani e dei calvinisti.  Avranno un bel dire: “Noi seguiamo i moti della nostra coscienza, è meglio obbedire a Dio che agli uomini; siamo il vero gregge, dobbiamo sterminare i lupi”. È evidente che allora sono lupi anche loro.

Uno degli esempi più singolari di fanatismo è stato quello di una piccola seta in Danimarca, i cui fondamento era il migliore del mondo. Costoro volevano procurare la salute eterna ai loro fratelli; ma le conseguenze che ricavano da questo principio fondamentale erano singolari.

Sapeva che tutti i bambini che muoiono senza battesimo sono dannati, e che tutti quelli che hanno la fortuna di morire subito dopo aver ricevuto il battesimo godono del la gloria eterna: andavano quindi sgozzando i bambini e le bambine appena battezzati che incontravano. Era senza dubbio un modo di fare loro il più grande bene possibile:  li si preservava dal peccato, dalle miserie di questa vitae dall’inferno; li si mandava infallibilmente in cielo. Ma queste caritatevoli persone non consideravano che non è permesso fare neppure un piccolo male in vista di un grande bene; che non avevano alcun diritto sulla vita di questi bambini; che la maggior parte dei padri e delle madri è abbastanza materialista da preferire  di avere con sé i propri figli e le proprie figlie anziché vederli sgozzare per mandarli in paradiso;  che, in una parola, il magistrato deve punire l’omicidio,  anche se commesso con buone intenzioni.

Sembra che gli Ebrei abbiano più diritto degli altri di derubarci e di ucciderci: infatti, benché ci siano cento esempi di tolleranza nell’Antico Testamento, tuttavia vi sono anche esempi e leggi di rigore. Dio ordinò loro talvolta di uccidere gli idolatri, e di risparmiare solo le figlie nubili: essi ci considerano idolatri, e anche se noi oggi li tollerassimo, potrebbero bene, se fossero loro a comandare, non lasciar al mondo che le nostre figlie.

Sarebbero soprattutto assolutamente obbligati ad assassinare tutti i Turchi, cosa ovvia; infatti i Turchi posseggono i territori degli Etei, dei Gebusei, degli Amorrei,  dei Gersenei, degli Evei, degli Aracei, dei Cinei, degli Amatei, dei Samaritani. Tutti questi popoli furono colpiti da anatema: il loro paese, che si estendeva per più di venticinque leghe, fu donato agli Ebrei con successivi patti. Essi devono rientrare in possesso dei loro beni: i maomettani ne sono gli usurpatori da più di mille anni.

Se gli Ebrei ragionassero così, è chiaro che non ci sarebbe altro modo  di rispondere loro che mandandoli in galera.

Questi sono i soli casi, all’incirca, in cui l’intolleranza sembra ragionevole.»

Questa pagina di prosa è notevole perché in essa si concentrano tutte le principali caratteristiche di Voltaire “filosofo”; se mai è lecito parlare di filosofia a proposito di una delle menti più eminentemente antifilosofiche nella storia del pensiero europeo, se mai ve ne fu una.

L’esordio è una tipica professione di fede nel Vangelo dei “diritti naturali” e della concezione dello Stato liberale come semplice strumento di tutela affinché il singolo cittadino possa esercitare i suoi diritti: i quali coincidono con la libertà di fare tutto ciò che, non potendosi qualificare come crimine, non incorre nei rigori della legge. In altri termini, la legge è quell’insieme di norme coercitive che colpiscono il crimine e di altro non si interessa; anche se vi sono molti comportamenti che, pur non essendo criminali, danneggiano gravemente la società, per Voltaire solo il delitto la turba e quindi solamente esso va punito.

Non solo: per Voltaire pare che un solo crimine turbi la società, il fanatismo; ecco allora che, per non incorrere nei rigori della legge, bisogna astenersi dal fanatismo: solo a questa condizione gli uomini diventano meritevoli di tolleranza.

A questo punto la tolleranza non risulta più l’atteggiamento fondamentale dell’uomo verso il suo simile e dello Stato verso il cittadino, bensì il prerequisito per meritare di essere trattati, a propria volta, con tolleranza: se non si è tolleranti, si è fanatici e se si è fanatici, non si merita alcuna tolleranza né dagli altri uomini, né, tanto meno, dalla società organizzata secondo i dettami della ragione, vale a dire dallo Stato.

Ovviamente, il primo esempio di fanatismo immeritevole di tolleranza che viene in mente al Nostro è quello dei gesuiti, i quali, come tutti sanno, impiegano la maggior parte del loro tempo andandosene in giro ad appiccare il fuoco alle chiese dei giansenisti: dunque, nessuna tolleranza con essi, ma, al contrario, il pugno di ferro dello Stato: nessuna pietà per quanti sono anatema rispetto al Vangelo del fondamentalismo illuminista.

Subito dopo Voltaire passa dal caso particolare al generale e  insinua che i gesuiti, essendo seminatori di dottrine velenose, meritano che il loro ordine venga sciolto e che essi siano ridotti allo stato laicale. Di fatto, i Gesuiti erano stati espulsi da tutti gli Stati europei entro il 1767, per cui, quando Voltaire scriveva il suo “pamphlet”, la cosa era già avvenuta; anzi poco dopo, nel 1773, il papa Clemente XIV procedette allo scioglimento della Compagnia di Gesù.

Subito dopo, con il suo solito ghigno derisorio, Voltaire si abbandona a una pesantissima ironia, affermando che la cosa migliore, per i gesuiti, è proprio quella di essere ridotti allo stato laicale, perché, in tal modo, lo Stato li spoglia di un  bene immaginario e dona loro un bene reale: infatti li trasforma da schiavi in uomini liberi e da portatori di sottana, in cittadini dal vestito corto, come tutti gli altri.

Ci vuole una bella faccia tosta per parlare così, vantando la violenza statale come un atto di generosità e deridendo il sentimento religioso altrui, anzi, facendosene beffe nella maniera più triviale: parlando di bene immaginario, infatti, egli butta nel cestino della carta straccia ciò che per migliaia di esseri umani è stato una ragione di vita e prefigura quel che accadrà con la Costituzione civile del clero durante la Rivoluzione francese, allorché migliaia di sacerdoti, di frati e di monache dovranno scegliere se accettare il sopruso oppure rimanere fedeli ai loro ideali, andando incontro al carcere, alla deportazione o alla morte sulla ghigliottina.

Poi, per fare sfoggio d’imparzialità, Voltaire se la prende con i francescani, con i luterani, con i calvinisti, con i giudei; ma il suo particolare, astioso malanimo verso il cattolicesimo e verso i gesuiti, traspare dal fatto che egli afferma che se altri, per esempio i francescani, dovessero comportarsi con altrettanto fanatismo dei membri della Compagnia fondata da Ignazio di Loyola, allora essi meriterebbero di essere trattati “quasi” - quasi, si badi - come questi ultimi.

Il brano dedicato ai Giudei è particolarmente interessante perché Voltaire, che pure si proclama loro difensore e loro estimatore, sottolinea che tutti i non ebrei, per questi ultimi, sono “infedeli” e che probabilmente verrebbero sterminati, qualora i rapporti di forza si capovolgessero; aggiunge pure che gli Ebrei, se tornassero padroni della Palestina, sterminerebbero migliaia e migliaia di musulmani. Il tutto in un crescendo di tale intensità, da mettere seriamente in crisi l’assioma secondo il quale l’antisemitismo sarebbe stato coltivato da tutti, tranne che dagli illuministi, perché questi ultimi, essendo i campioni della libertà e della tolleranza, non POTEVANO essere antisemiti (cfr. Il nostro recente articolo «Ma quanti contorsionismi per giustificare l’antisemitismo dell’”illuminato” Lichtenberg», apparso sul sito di Arianna Editrice il 26/09/2011).

La considerazione finale di Voltaire, secondo il quale, se tutti gli Ebrei ragionassero da nemici degli altri popoli e delle altre fedi, meriterebbero di essere “mandati in galera”, suona particolarmente sinistra, perché un popolo intero non si potrà mai mandare in galera, ma solo nei campi di concentramento, il che è precisamente quanto accadrà durante la seconda guerra mondiale; e, anche in quel caso, la motivazione dell’inumana decisione sarà di tipo difensivo: poiché gli Ebrei tramano contro la razza ariana, della quale sono divenuti mortali parassiti, allora è necessario metterli in condizioni di non nuocere, costi quel che costi…

E così, chi lo avrebbe detto, ecco che il campione della tolleranza universale assume le vesti, alquanto inquietanti, di un precursore dello sterminio del popolo ebreo, nonché di tutte le pratiche che il totalitarismo ha sempre prediletto per sbarazzarsi dei propri oppositori, dopo averli dipinti come nemici del genere umano, come nemici della pace e della tolleranza: perché, una volta che l’avversario sia stato trasformato non solo in un nemico irriducibile, come insegna Carl Schmitt, ma addirittura in un lupo feroce, che altro rimane da fare, se non abbatterlo senza pietà, come una fiera irrimediabilmente feroce e pericolosa?

Tolleranza per tutti, dunque: tranne che per chi non s’inchina alla Buona Novella della ragione.

Vengono in mente quei gesuiti del Paraguay che vennero espulsi dal marchese di Pombal, al solo scopo di “liberare” i poveri indios dall’odioso fanatismo cattolico e non certo perché i latifondisti portoghesi potessero farli schiavi impunemente: ma quando mai, questi sono solo cattivi pensieri…


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Les rites d'initiation germaniques

 

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Les rites d'initiation germaniques

L'une des pratiques créatrices de société, les rites d'initiation destinés à faire entrer les jeunes dans la société des adultes, eut une très longue postérité en Europe : la chevalerie.
Le Beowulf donne des exemples de jeunes guerriers, porte-main du héros, de jeunes garçons livrés au seigneur par leurs parents. Les garçons sont nourris au sein jusqu'à l'âge de 3 ans, puis sevrés et laissés aux soins des femmes jusqu'à l'âge de 7 ans. Ils sont alors confiés à un père adoptif (fosterfaeder, “père efforceur”). En général, il est de la parenté de la mère, souvent son frère aîné, donc l'oncle maternel comme nous l'avons dit. Le fosterage consiste à éduquer un jeune de 7 à 14 ans, ce qui ne devait pas aller sans peine ; sinon, pourquoi le père adoptif eût-il été qualifié d'efforceur ? Parfois le jeune part en voyage. Sa formation achevée, a lieu la cérémonie de la taille de la première barbe ou de la chevelure. Pépin le Bref se vit ainsi couper les cheveux par le roi Liutprand vers 730 (Paul Diacre, HL, I, 23-24 et VI, 53). Reste l'affrontement avec le père adoubeur pour être un guerrier parfait. Là aussi, à 14 ans, âge de la majorité chez tous les rois francs et leurs successeurs, le passage vers l'homme accompli, le guerrier, est capital.
 
Le cérémonial existait dès l'époque mérovingienne, mais nous n'en avons de preuve certaine qu'avec Louis le Pieux. En 792, âgé de 14 ans, il est “ceint par l'épée” à Ratisbonne par son père Charlemagne, car il est “devenu adolescent”. En septembre 838, Charles le Chauve, âgé de 15 ans, reçoit arma et corona, c'est-à-dire l'épée avec le ceinturon et le baudrier, insignes de sa fonction (militia). En 841, le samedi Saint, Charles, après avoir pris un bain avec ses compagnons, voit arriver ses émissaires venus d'Aquitaine avec des vêtements neufs, une couronne, etc. C'est le plus ancien exemple d'adoubement chevaleresque que nous connaissions. Il eut lieu symboliquement le jour de pâques. D'ailleurs, à partir de 850, le mot latin caballarius ne signifie pas seulement “homme à cheval”, mais désigne un homme de la suite de tel ou tel grand personnage et prend le sens de “chevalier”.
 
 
Raban Maur précise : “On peut faire un cavalier avec un jeune garçon mais rarement avec un plus âgé.” La cavalerie a pris alors une importance décisive. “Aujourd'hui, les jeunes sont élevés dans les maisons des grands, écrit-il encore. Sauter sur le dos d'un cheval est un exercice qui fleurit spécialement chez les peuples francs.” Cela est vrai aussi dans le Midi romain, puisque Géraud d'Aurillac fait de même dans sa jeunesse. Nithard, fils illégitime d'une fille de Charlemagne, Berthe, historien laïc de grande précision, introduit dans ses écrits des années 841-843 des allusions continuelles aux armes et aux chevaux, aux jeux d'entraînement entre cavaliers expérimentés de haute noblesse saxons, gascons, austrasiens et bretons. Il insiste sur l'enracinement régional de la noblesse et sur ses idéaux : mourir dignement plutôt que trahir, rester solidaires entre frères et fidèle au seigneur jusqu'à la mort. Notker de Saint-Gall raconte, vers 885, l'histoire d'un jeune évêque récemment ordonné qui, au lieu de monter à cheval avec des étriers, un progrès récent qui donnait plus de dignité au cavalier, préféra sauter sur la croupe du destrier… ce dont Charlemagne, heureux d'avoir dans sa suite un homme que n'embarrassait pas son statut clérical, le félicita.
 
 
Initiation laïque et germanique, l'adoubement allait dans la perspective d'une violence guerrière déchaînée. Dubban, en vieil-haut-allemand, qui a donné “adoubement”, signifie “frapper”. En effet, le “vieux”, parrain du pied tendre, le faisait mettre à genoux et lui flanquait un grand coup de poing dans l'épaule pour voir s'il tiendrait le choc. Mais la christianisation du rite était déjà en route. En droit canon, le coupable d'un meurtre est privé de ses armes et ne peut plus monter à cheval. Halitgaire, évêque de Cambrai, introduit une distinction entre tuer à la guerre, ce qui est un péché nécessitant trois semaines de jeûne, et tuer dans une bataille soit pour se défendre, soit pour défendre sa parentèle ; dans ce cas, tuer est un péché sans pénitence. Après la bataille de Fontenay en 841, les évêques se réunirent et proclamèrent un jeûne de trois jours pour expier les morts de ce terrible combat dû à une guerre fratricide. En sens inverse, des chevaliers deviennent des soldats du Christ contre les Sarrasins et les païens (chapitre VIII). L'épopée du Ludwigslied, rédigée à chaud en vieil-haut-allemand le soir de la victoire de Louis III à Saucourt-en-Vimeu, confirme cet idéal et contient une oratio super militantes, prière pour les soldats, qui constitue la première manifestation d'une liturgie chevaleresque. Ainsi, à la fin du IXe siècle, la chevalerie était déjà un statut social. Le guerrier à cheval faisait preuve d'un entraînement professionnel d'adulte confirmé et chrétiennement légitimé.
 
 
Michel ROUCHE

samedi, 22 octobre 2011

Türkische Drohungen

Türkische Drohungen

Die Türkei darf EU-Staaten nicht länger sanktionslos drohen

Von Andreas Mölzer

Ex: http://www.zurzeit.at/

kibris.jpgDie Drohungen der Türkei gegenüber Zypern haben ein inakzeptables Ausmaß angenommen. Denn der türkische Premierminister Recep Tayyip Erdogan beläßt es leider nicht bei Wortdrohungen, die schon schlimm genug sind, sondern läßt mittlerweile ein Kriegsschiff in den Gewässern vor Zypern kreuzen.

Die Ursache der derzeitigen Kraftprobe zwischen Türkei und Zypern sind Probeölbohrungen in zypriotischen Gewässern, die die Türkei nicht akzeptieren will. So droht man den Zyprioten: „Wenn sie [Anm.: damit] weiter machen, werden sie die Haltung der Türkei sehr gut kennenlernen“. Solche Äußerungen und Handlungen gegen ein EU-Mitgliedsland sind auf das schärfste zu verurteilen und müssen dazu führen, daß die EU-Beitrittsverhandlungen sofort abgebrochen werden.

Anstelle von klaren Reaktionen gegenüber der Türkei gibt es von seiten der europäischen Politiker jedoch nur Demutsgesten. So ist am 28. September in Straßburg eine Absichtserklärung zwischen der EU-Kommission und der Türkei unterzeichnet worden, wonach hinkünftig auch sog. Nationale Experten aus der Türkei bei der Kommission angestellt werden sollen. Dies stellt jedoch ganz klar einen unzulässigen Vorgriff auf eine zukünftige Mitgliedschaft der Türkei dar und ist entschieden abzulehnen. Es ist sachlich nicht nachvollziehbar, daß türkische Beamte, deren Land nicht Mitglied der EU ist, hinkünftig als Nationale Experten in der Kommission tätig sein sollen. Dies muß Staatsangehörigen von Mitgliedstaaten vorbehalten bleiben.

Was wir brauchen, sind gute politische und wirtschaftliche Beziehungen mit der Türkei, jedoch keine trojanischen Pferde in einer durch den ständigen EU-Zentralismus immer mehr gestärkten EU-Kommission, die verantwortlich für die Gesetzesvorschläge der EU ist.

Dominique Venner, électrochoc des esprits pour un choc de l'histoire

 

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Dominique Venner, électrochoc des esprits pour un choc de l'histoire

Par Olrik

Ex: La Droite strasbourgeoise (cliquez ici)

choc-histoire.jpgDans un livre d’entretien conduit par la journaliste Pauline Lecomte, « Le choc de l’histoire » publié aux éditions « Via Romana », Venner se penche une nouvelle fois sur notre époque en crise. On retrouvera en filigrane la grille d’analyse affûtée qu’il avait déjà exposée dans son ouvrage « Le siècle de 1914 », mais cette fois pour en dépasser le cadre restreint de la discipline historique. 

Selon lui, la grave crise actuelle clos un cycle historique amorcé en 1914 et qui aura secoué tout le XXème siècle. Après avoir favorisé un lent processus de déchristianisation, les idéaux des Lumières ont vu, au cours du dernier siècle,  les grands récits idéologiques qu’ils avaient enfantés s’effondrer les uns après les autres. Après avoir tordu le cou aux aventures fascistes en Europe, le communisme et le capitalisme mondialiste, qui se sont imposés à une Europe réduite à la sujétion, se sont révélés finalement incapables de surmonter les contradictions systémiques internes qui les taraudaient.

Le communisme s’affaissera brutalement sur lui-même sans prévenir, en 1989, laissant le mondialisme des droits de l’homme porté par les Etats-Unis bien seul face à ses propres apories. Passée une brève période d’euphorie, la faillite de Lehmann Brother en 2008 est venue signifier à une planète incrédule la mort par KO technique de la dernière illusion issue des ruines du XXème siècle et partant, le début du déclin de l’empire américain. 

Pour Dominique Venner, la grande faute qui caractérisa toutes ces expériences idéologiques fut de ne s’inscrire qu’exclusivement dans le champ trop temporel du politique ou de l’économique. Malgré les prétentions eschatologiques et les abords religieux que ces aventures n’ont jamais manqué d’emprunter, toutes se révélèrent in fine bien incapables de bâtir des modèles durables de société, comme su par exemple le faire en son temps le christianisme. Les mythes du progressisme égalitaire, de l’homme nouveau ou encore de la fin de l’histoire auront finalement buté sur l’amère réalité de leur impossible avènement. Leurs échecs successifs laissent donc aujourd’hui les Européens à la fois exsangues et durement désemparés devant un sérieux questionnement identitaire.

Même le christianisme, passablement épuisé, ne présente plus la moindre possibilité d’un recours. Son universalisme - qui put être un atout lorsqu’il s’agissait de légitimer l’hégémonie de l’Europe sur le monde - se révèle désormais totalement inopérant à offrir des solutions pour des Européens ramenés à un monde multipolaire et violemment chaviré par un rééquilibrage des puissances entre ex-dominés et ex-dominants. Pire encore ! Ce résidu d’universalisme, qui nimbe encore tout l’Occident, les handicape aujourd’hui dans leur capacité à répondre au réveil identitaire, et souvent revanchard, des civilisations concurrentes.

L’état des lieux est clair : l’Europe, assommée par le traumatisme de deux guerres mondiales, est entrée en dormition depuis plus de 50 ans. Mais l’effondrement annoncé de l’empire américain provoquera inévitablement le retour souverain des nations du vieux continent dans le jeu de l’histoire. Inutile de s’illusionner ! Ce réveil ne se fera pas sans de déchirantes et profondes révisions. La grande démonstration de ce livre tient précisément dans l’évidence que la solution dépasse largement le champ des contingences du politique stricto sensu.

Dépourvue de religion identitaire, à la différence de l’Inde, du Japon ou de la Chine, l’Europe va devoir retrouver ce qui la singularise en renouant avec sa plus longue mémoire. Une mémoire amenée à former les bases d’une mystique identitaire apte à produire un imaginaire collectif opérant face aux nouveaux enjeux de la modernité. Les Européens vont devoir se réarmer moralement s’ils ne veulent pas tomber en servitude. A cet égard, il nous donne l’exemple du renouveau hindouiste actuel en Inde, amorcé grâce à la création par Nagpur en 1925 d’un mouvement identitaire à vocation plus culturelle et spirituelle que politique.

Sur ce chemin qui remonte dans notre plus longue mémoire, Dominique Venner nous indique des pistes. Il nous renvoie d’abord à son ouvrage « Histoire et Tradition des Européens : 30 000 ans d'identité » et évoque ensuite une « histoire européenne des comportements [pouvant] être décrite comme le cours d’une rivière souterraine invisible et pourtant réelle. » Pour lui, cette rivière qui coule en nous, souvent à notre insu, prend sa source dans la Grèce antique en général et dans l’œuvre fondatrice d’Homère en particulier. Dans l’Iliade et l’Odyssée, qu’il qualifie de « mémoire des origines », il est possible de retrouver tout l’imaginaire européen dans sa substance la plus parfaite. Notre vision du monde, notre rapport à la nature, au vivant, à la mort, notre cœur aventureux, notre façon d’enchanter les éléments et de sublimer nos sentiments, cette relation entre les hommes et les femmes sur un pied d’égalité, tout est là sous nos yeux, écrit il y a presque 3 000 ans déjà.

Venner nous avise toutefois à ne pas confondre tradition et folklore. La vraie tradition consiste à entreprendre des choses neuves dans le même esprit que celui des anciens. Alors que le folklore, c’est justement l’inverse. En exemple, il nous donne des figures contemporaines d’Européens, sur lesquelles, selon lui,  l’esprit de la tradition a indéniablement soufflé. Parmi ceux-ci, il s’attarde longuement sur le cas du colonel Claus von Stauffenberg. Cet officier qui incarna la fidélité à la tradition aristocratique allemande fut l’instigateur décisif de l’attentat manqué contre Hitler.

En conclusion, nous citerons cette phrase de Dominique Venner : « ce n’est pas rien de se savoir fils et filles d’Homère, d’Ulysse  et de Pénélope. »

 

Livres de Dominique Venner (NDLR) :

Le Choc de l'Histoire, Dominique Venner, Editions Via Romana, 185 pages, 2011, 20,00 € (cliquez ici)

Le Siècle de 1914, Dominique Venner, Editions Pygmalion, 408 pages, 2006, 22,50 € (cliquez là)

Histoire et tradition des Européens : 30 000 ans d'identité, Éditions du Rocher, Monaco et Paris, 2002, 273 pages, 17,50 € (cliquez là)

 

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5 to 9 Conservatism

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5 to 9 Conservatism

By Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Years ago, the friend who had the most influence on my awakening on race and the Jewish question offered a quite clarifying distinction between “9 to 5” and “5 to 9” conservatism.

The 9 to 5 conservatives take their name from the standard 9:00 a.m. to 5:00 p.m. work day. These conservatives focus on the economic realm. They wish to preserve economic freedom from government interference. They also focus on cutting taxes and resisting new taxes, so that productive people can keep more of the fruits of their labor. 9 to 5 conservatism, in short, is just economic liberalism. Its most ideologically pure advocates in America today are libertarians and the Tea Party.

5 to 9 conservatives take their name from the rest of the day. They focus on preserving the non-economic realms of life: the family, civil society, religion, culture, history, the environment, etc.

Many 5 to 9 conservatives are actually political liberals. For instance, environmentalists, historical preservationists, and promoters of walkable communities, mixed-used development, human-scale architecture, and public spaces are all objectively conservatives of the 5 to 9 variety (regardless of any genuinely liberal positions they might also hold). But politically they tend to be left-of-center and at odds with the commercial interests championed by 9 to 5 conservatives.

There is good reason why the two kinds of conservatives are at loggerheads. Unlimited economic freedom tends to corrode the other realms of society. The best way to appreciate this is to consider working hours. In America today, we do not have a 9 to 5 economy. We have a 24/7 economy.

As a bohemian intellectual, I can’t complain about this. I find it very convenient to be able to go out at 4:00 am to buy a carton of milk from a meth-zombie. Americans living in Germany are shocked that most stores are closed by 6:00 pm and are not open at all on weekends. It forces them to actually plan ahead, one of the many faculties that American life has allowed to grow slack.

The reason why Germany and other countries regulate the hours of businesses is not because they are “socialists” or “liberals.” It is because they are 5 to 9 conservatives. They realize that shop clerks have friends and families and communities. Work days are regulated so that more people can spend the 5 to 9 hours, and weekends, with their families and friends. Yes, such laws inconvenience us insofar as we are consumers. But we are more than consumers. We have families, friends, communities. Or we should have them.

Why does the government have to get involved? Say that there are no laws regulating the hours of retail establishments. If one firm decides they will extend their evening hours to increase their market share, others will be pressured to follow. Eventually, through the magic of the marketplace, we will compete our way into a 24/7 economy, in which there will be entire industries where the entry level jobs often taken by young people who have children (or should have them) are on aptly-named “graveyard” shifts.

From a social point of view, this is a profoundly destructive development. And from an economic point of view, it is destructive too, since the same amount of milk is sold in a 24 hour day as would be sold in a 10 hour day, yet all are forced to keep the lights on and the buildings manned 24/7 lest they lose their market share.

F. Roger Devlin uses an excellent analogy [2] to illustrate the nature of destructive competition. Imagine you are seated at a sports event. It might be to your advantage to stand up to see an exciting play. But if one person stands, then others will be forced to stand as well. Eventually, everyone will be standing, so the advantage to any individual of standing will be erased. Everyone will have just as good a view of the game as when they started, but they will all be less comfortable . . . because they are standing. The only way to stop this sort of destructive competition is for people in authority to legislate and enforce rules against it. The same goes for the economic realm.

The idea of 5 to 9 conservatism is useful to White Nationalists, because we are 5 to 9 conservatives ourselves. After all, we are concerned to preserve our race, and we are willing to do battle with the 9 to 5 conservatives who are destroying us by importing non-white labor to take white jobs, or exporting white jobs to non-white countries.

The distinction between 5 to 9 and 9 to 5 conservatism is also helpful for envisioning new political alliances—and breaking up existing ones. In America today, the major political parties are coalitions, both of which include significant numbers of 5 to 9 conservatives.

Among Republicans, the 5 to 9 conservatives tend to be religious conservatives and traditionalists. Among Democrats, the 5 to 9 conservatives tend to be environmentalists, consumer advocates, historical preservationists, new urbanists, and the like.

In both parties, the 5 to 9 conservatives tend to be overwhelmingly white. Furthermore, in both parties, 5 to 9 conservatives are exploited by party leaders for their votes. Finally, in the end, 5 to 9 conservative interests are vetoed by the leaders of the major parties, because their primary focus is the promotion of socially corrosive ideologies: economic liberalism for the Republicans, social liberalism for the Democrats. It would be enormously subversive/productive if 5 to 9 conservatives could free themselves from the corrosive ideology of liberalism, whether of the left or the right.

It would be interesting to bring together 5 to 9 conservatives from across the political spectrum to begin a dialogue. I think they would discover that they have a lot more in common than they think. It is a conversation in which we White Nationalists need to take part. We need to be there to help bring their implicit whiteness to full consciousness. We must show them that their values are the products of homogeneous white communities and cannot be preserved without them. We need to explain to them that the leaders of the major parties are exploiting and betraying them. And we cannot neglect to explain to them why both parties pursue Jewish interests at the expense of white interests.

It is also important to help them understand that before the emergence of the modern aberrations of economic and political liberalism, the mainstream of Western political thought from Aristotle through the American Founders recognized that a free society requires private property broadly distributed and stably possessed, and that to achieve this end, a certain amount of economic regulation is necessary.

In the end, White Nationalists are more than mere conservatives, for although a lot of what we want can be captured by the idea of 5 to 9 conservatism, it is not enough. From my Nietzschean/Spenglerian point of view, mere conservatism is not really an alternative to decadence. Instead, it is a form of decadence, for a healthy organism does not merely preserve or repeat the past, but carries it forward and transforms it creatively. But politically speaking, conservatism comes first, since our race needs to survive before we can worry about the luxury of self-perfection.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/10/5-to-9-conservatism/

Eustace Mullins - The Global Financial Situation

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