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dimanche, 25 septembre 2011

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

Hamze JAMMOUL


Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Dopo la cosiddetta “Primavera Araba” che ha contagiando diversi paesi arabi, il Vicino Oriente sta vivendo la mancanza di un leader. Questa situazione permette alla Turchia e al Qatar di assumere un ruolo strategico, che alla fine potrebbe portare ad un conflitto politico tra i due ambiziosi stati.

La Turchia sogna i tempi degli Ottomani

È chiaro che quello che accade nel mondo arabo abbia influenzato la politica turca che da molto tempo cerca di riprendere il suo ruolo nel Vicino Oriente. Il grande sogno turco affrontava degli ostacoli rappresentati dal continuo ruolo strategico dell’Iran in Libano, in Siria e in Iraq, e dalla solida alleanza tra i due paesi Arabi più influenti: l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Ma l’attacco israeliano contro la nave turca Marvi Marmara nel maggio 2010 e l’inizio della rivoluzione tunisina nel 2011, hanno contribuito alla modifica della mappa geopolitica del Vicino Oriente aggiungendo nuovi attori desiderosi di ricoprire un ruolo di primo piano nella geopolitica vicino e mediorentale.

Il rifiuto di Israele di presentare le scuse al popolo turco, e l’inaspettato risultato della commissione Ballmer, che ha considerato legittimo l’embargo israeliano contro Gaza, affermando che quanto accaduto nel luglio 2010 contro la flotilla non è un atto terroristico e criminale come sostiene Ankara, ma un semplice uso eccessivo della forza, hanno portato il governo turco ad espellere l’ambasciatore Israeliano e a congelare i rapporti commerciali con Tel Aviv.

Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha inoltre annunciato l’inizio di una campagna legale presso il tribunale penale internazionale con l’obbiettivo di condannare i crimini israeliani.

L’azione turca nei confronti di Israele arriva dopo diversi tentativi da parte di Ankara di assicurarsi un ruolo strategico nella regione e di apparire come la salvatrice della democrazia, il frutto della “ Primavera Araba ” .

La domanda che ci si può porre è la seguente: riuscirà Ankara a riprendere il suo potere nel Vicino Oriente ?

Vi sono numerosi elementi che possono aiutare la diplomazia turca a riacquistare un ruolo importante nella regione:

a. L’attuale mancanza di un paese arabo leader. Tale mancanza è dovuta al fatto che l’Arabia Saudita sta affrontando un conflitto politico all’interno della famiglia reale; L’Egitto dopo la caduta del governo di Mubark è occupato a portare avanti le riforme interne; mentre la Siria sta affrontando una grave situazione interna.

b. La notevole ambizione dell’amministrazione turca che, dopo le fallite trattative con l’Unione Europea, ha preferito concentrarsi nel Vicino Oriente. Nel 2006 Ankara ha condannato il severo attacco israeliano contro il Libano, nel 2009 ha condannato l’attacco israeliano contro Gaza ed ha considerato l’embargo illegale e disumano.

c. La vittoria di Giustizia e Sviluppo, il partito “laico -Islamico” di Erdoğan, nelle ultime elezioni ha consolidato il suo potere e ha indebolito il potere dell’esercito considerato il primo alleato di Israele. Tutto ciò permette a quest’uomo di grande potere e alla sua squadra di realizzare il loro progetto sulla nuova Turchia ricca ed influente.

d. L’importanza strategica che gli Stati Uniti e l’Europa danno alla Turchia. Attraverso l’accoglimento della richiesta NATO di installare il “sistema radar di difesa”, il leader turco continua a giocare un ruolo fondamentale tra l’Occidente e il Vicino Oriente.

e. La crescita dell’economia turca che ha permesso al Paese di occupare il tredicesimo posto nell’economia mondiale.

Tutti questi sono elementi che possono aiutare la Turchia ad assumere un potere strategico specialmente dopo la rivoluzione sentimentale che sta portando avanti Erdoğan nel mondo arabo e islamico, una rivoluzione il cui obbiettivo è dire no a Tel Aviv.

Alla luce di quanto segue, sembra che la Turchia stia andando nella direzione giusta per conquistare il cuore del popolo arabo.

Non bisogna però sottovalutare ciò che stanno sottolineando gli analisti, ossia il fatto che gli Arabi non hanno dimenticato la sofferenza che hanno vissuto durante l’occupazione dell’impero Ottomano. La nomina della Turchia come leader nel mondo arabo e islamico, potrebbe affrontare delle difficoltà rappresentate dalla futura ripresa dell’Egitto e della Siria e dall’attuale ruolo che sta assumendo un nuovo stato ambizioso, il Qatar.

Il Qatar alla ricerca di un ruolo strategico

Il Qatar che ha conquistato una fama internazionale nel settore commerciale e del Gas, l’anno scorso ha voluto dimostrare la sua capacità di organizzare i mondiali del 2022. Con l’inizio delle “rivoluzioni” nel mondo arabo, il Qatar ha preso una posizione politica tramite la sua Al Jazeera, il più noto canale televisivo arabo.

Tale posizione ha creato nuovi amici e nuovi nemici all’Emiro che, come hanno riferito i quotidiani arabi, il mese scorso si è salvato da un attacco suicida nella capitale Ad Dawhah.

Cosa vuole il Qatar della “Primavera araba”? Questa è una domanda che ormai si pongono tutti sia nel mondo arabo che in Occidente. La risposta è chiara: il Qatar ambisce ad avere un ruolo strategico nella regione. Da anni il Qatar ha iniziato un programma politico per uscire dal gruppo dei paesi non influenti e attraverso tale piano vuole diventare un nuovo leader arabo.

L’emirato è stato il primo paese arabo ad ospitare il congresso mondiale per la ricostruzione della Libia, oltre ad essere stato l’unico componente della lega Araba ad avere preso parte alla guerra con i suoi aerei militari e ad aver finanziato i ribelli contro Gheddafi.

Il canale satellitare Al Jazeera, ha seguito gli eventi in Tunisia ed Egitto sin dal primo giorno, ed in Siria si considera il primo nemico mediatico del governo di Bashār al-Asad.

Al Jazeera che ha voluto proteggere le “rivoluzione arabe” e i diritti umani non ha reagito nello stesso modo quando è scoppiata la rivoluzione in Bahrein, alleato dell’Emiro e dell’Arabia Saudita. Tale comportamento ha messo a rischio la professionalità del canale e ha fatto sorgere dei dubbi sui reali obiettivi dell’emirato.

 

Gli elementi sopracitati, a cui si aggiunge il fatto che il paese non è stato ancora soggetto a manifestazioni, sono elementi che rafforzano la teoria secondo la quale il Qatar è alla ricerca di un nuovo ruolo strategico nella regione. Tale ruolo però si scontrerà alla fine con la volontà dell’Egitto di riprendere il suo ruolo e con il sempre più crescente ruolo politico di Ankara, fenomeno confermato dal fatto che nei giorni scorsi il primo ministro turco ha concluso la sua missione in Egitto, Tunisia e in Libia, aprendo un nuovo rapporto con i paesi della cosidetta “Primavera araba”.

*Hamze Jammoul, giurista Libanese, esperto nella gestione dei conflitti internazionali

Kampf um Germanien

Kampf um Germanien

samedi, 24 septembre 2011

The Coming of the Greeks: Indo-European Conquests in the Aegean and the Near East

Robert Drews - The Coming of the Greeks: Indo-European Conquests in the Aegean and the Near East

 



When did the Indo-Europeans enter the lands that they occupied during historical times? And, more specifically, when did the Greeks come to Greece? Robert Drews brings together the evidence--historical, linguistic, and archaeological--to tackle these important questions.

Reviews:
"Into the ever-tangled and speculative debate on Indo-European origins comes this excellent book: lucid, critical, and refreshingly sober."--D. F. Easton, The Classical Review
"The fact that [a] pattern of localized Near Eastern takeovers coincides with the inception of chariot warfare, coupled with his carefully documented hypothesis that Proto-Indo-European-speaking (PIE) peoples in Armenia were responsible for the development and spread of chariot warfare, serves as the backdrop to Drews's innovative scenario for the arrival of the Greeks.... Such complete Near Eastern analogies involving archaeology, mythology, and linguistics, for example, have been rarely applied to support theories of PIE dispersal.... His research serves the critical function of provoking new views of a long-standing problem."--Susan N. Skomal, American Journal of Archaeology

Endorsement:
"An archaeological and linguistic whodunnit of the most fascinating sort, courageously tackling a much-argued problem from several disciplines at once.... No one dealing with the dispersal of the Indo-Europeans can ignore this book."--Elizabeth Wayland Barber, Occidental College


Afbeelding en tekst: Princeton University Press.

Le BRICS acteur géostratégique émergeant

Le BRICS acteur géostratégique émergeant

Ex: http://www.europesolidaire.eu/
Jusqu'à présent les relations plutôt informelles entre les membres du bloc dit BRICS (Brésil, Russie, Inde, Chine et Afrique du Sud) ne leur avaient pas permis de se comporter en acteur géostratégique cohérent au sein d'un monde multipolaire. Un discours différent à l'égard de l'intervention de l'Otan en Libye avait été mal ressenti.

 

Aujourd'hui, deux principaux membres, la Russie et l'Inde, semblent vouloir revenir sur ce désordre et positionner le BRICS d'une façon bien plus offensive, notamment à l'égard des Etats-Unis et de ses proches alliés européens. La Chine, prudente à l'habitude, reste sur la réserve mais on peut penser qu'elle suit l'évolution de la situation avec attention.

Ce sont les rapports avec la Syrie et les interventions ou menaces occidentales à l'encontre du gouvernement Bachar el Hassad, sommé de respecter ses minorités, qui fournissent l'occasion de ce durcissement. Mais tout laisse penser que d'autres sujets sensibles, notamment la question de la reconnaissance de l'Etat Palestinien, auront le même effet fédérateur. La Russie multiplie les mises en garde. Mais l'Inde semble décidée à aller plus loin encore.

Un expert indien, qui ne devrait pas  s'exprimer sans un minimum de caution gouvernementale, le Dr Sreeram Chaulia, professeur à l'Ecole Jindal des Affaires Internationales. estime que les pays du groupe BRICS, dont le sien, sont naturellement désignés pour s'opposer à ce qu'il nomme une dérive néocoloniale, dans le domaine des sanctions ou interventions que les Occidentaux voudraient imposer à Damas. (voir Russia Today, http://rt.com/news/brics-syria-west-hegemony/) Il va très loin dans cette direction puisqu'il envisage que le BRICS, pour mieux se faire entendre, puisse rechercher l'appui de l'Iran. Il s'agirait d'un appui diplomatique notamment à l'ONU mais quand on connait les prétentions militaires de Téhéran, cette perspective ressemble à une sorte de déclaration de guerre. Le ministre russe des affaires étrangères Lavrov paraît cautionner cette perspective.

On ne sait comment les Etats-Unis, très embarrassés dans leur soutien croisés tant à Israël qu'aux monarchies pétrolières et aux Etats issus du printemps arabe, prendront une telle montée en puissance du BRICS, si elle se confirmait. Il nous semble par contre que les Etats européens, notamment la France et l'Allemagne, pour qui les relations avec la Russie et l'Inde présentent un intérêt stratégique majeur, ne pourront pas continuer, comme ils l'ont fait jusqu'à présent, à suivre aveuglément la diplomatie américaine dans la région. Si le monde devenait véritablement multipolaire, avec un BRICS très offensif, il faudrait que l'Europe se constitue elle-aussi en pôle autonome et puissant dans ce concert. Elle ne devrait pas ce faisant oublier l'importance de coopérations étroites et multiformes avec la Russie, grande puissance pan-européenne.

 

 
 
 
08/09/2011

Les faux calculs de l’ingérence

Les faux calculs de l’ingérence

 
Une nouvelle fois, l’incantation à la religion des droits de l’homme a fait pleuvoir les bombes de l’Otan. Comme toutes les guerres de l’“Empire” auxquelles la France apporte son tribut, l’intervention en Libye a été menée au nom du devoir humanitaire de protection des populations civiles. Tous les ingrédients classiques de la guerre d’ingérence rêvée par Kouchner et ses amis furent au rendez-vous ...

les don­neurs de leçons indignés (hier Glucks­mann, aujourd’hui BHL), le conte pour “enfants de la télé” qui fait fi de toute réalité géopolitique (“un peuple entier dressé contre son dictateur”, alors qu’il s’agit d’une guerre civile Cyrénaïque contre Tripo­litai­ne), l’absence d’esprit critique de la presse occidentale face à la propagande de l’Otan (diffusion de ­fausses scènes de liesse à Tripoli tournées au Qatar alors que les rebelles ne sont pas encore dans la capitale ; chronique de la cruauté du Guide), la contradiction permanente avec les principes affichés (quid de la chasse aux Noirs pratiquée par les rebelles et plus largement de l’épuration massive en cours contre les tribus restées fidèles à Kadhafi ?)

Et la realpolitik dans tout cela ? Si, en effet, le masque de l’hypocrisie servait un but géopolitique tangible, nous pourrions parler de realpolitik et accepter celle-ci au nom de l’intérieur supérieur du pays. Mais, pour au moins trois raisons géopolitiques fondamentales, l’ingérence en Libye (comme le furent celles en Yougoslavie, en Afghanistan et en Côte d’Ivoire) est l’ennemie des intérêts géopolitiques français.

La première raison est que l’opposition que nous soulevons n’est plus celle d’un tiers-monde impuissant. Le monde est devenu multipolaire ; les pays émergents n’ont qu’une envie, arracher à l’Occident ce masque humanitaire qui dissimule sa politique de terreur contre la souveraineté des peuples. Russes, Chinois, Indiens, Brésiliens, Sud-Africains : ces gens n’ont aucune illusion quant au but réel de guerres que leurs médias qualifient de néocoloniales et prédatrices (pétrole, gaz). En s’alignant sur les États-Unis, la France détruit son capital principal en politique étrangère : sa position d’équi­libre, qui était respectée et demandée. Le monde change aussi chez nous, en Europe. Avec un double “non” (Irak, Libye), l’Allemagne s’est écartée de la géopolitique états-unienne comme elle rompra demain avec le capitalisme financier anglo-saxon. C’est elle qui demain ajoutera à son prestige industriel international une position d’équilibre qu’elle nous aura ravie.

La deuxième raison est que la chute de Kadhafi aggrave le chaos dans le Sahel. Le pillage des dépôts de l’armée libyenne dès le début de la guerre civile (comme en Irak en 2003), augmenté de nos parachutages d’armes et de munitions, transforme de fait le territoire libyen en une poudrière. Les tribus sont surarmées, à l’image des Touaregs pro-Kadhafi repliés vers leurs bases arrière nigériennes et maliennes et qui préparent déjà la revanche. Le Tchad ne sera pas épargné. Les trafics en tout genre (drogue, cigarettes, immigration), jusque-là endigués par les régimes autoritaires de Kadhafi et Ben Ali, vont exploser. Quant à nos “amis” rebelles, ce sont presque tous des islamistes radicaux ; les plus aguerris (les chefs) ont gagné leurs “lettres de noblesse” dans le djihad irakien… contre l’armée américaine (ce qui ne veut pas dire contre la CIA). L’assassinat, en juillet dernier, du ministre de l’Intérieur de Kadhafi rallié aux rebelles de l’Est ne s’explique que par la vengeance des islamistes contre leur ancien tortionnaire.

En favorisant l’effondrement des régimes autori­taires qui formaient le dernier écran protecteur de l’Europe face à la misère africaine, nous avons libéré des énergies qui vont travailler au service de trois buts : davantage d’immigration vers l’Europe, davantage de trafics, davantage d’islamistes.

Enfin, il existe une troisième raison pour laquelle un éventuel calcul stratégique français était par avance voué à l’échec. L’État libyen était déjà faible sous Kadhafi (lorsque les esprits seront apaisés, il faudra un jour mieux comprendre la nature du rapport entre le Guide de la révolution et son peuple), mais désormais et pour plusieurs années, il faudra parier sur l’absence quasi totale d’État libyen. Malheureusement, les Français, à la différence des Britanniques, n’excellent guère dans la manœuvre politico-économique (obtention des mar­chés) lorsqu’ils ne disposent pas de partenaire étatique clairement identifié. Les clés des marchés libyens se trouveront sans doute davantage au cœur des tribus que dans l’exécutif officiel. Si le président et son entourage voient dans les chefs rebelles auxquels ils ont déroulé le tapis rouge à l’Élysée l’incarnation de l’État libyen de demain, la désillusion risque d’être forte. Car il se pourrait bien que, cette fois, les Américains ne fassent pas l’erreur qu’ils ont faite en Irak en détruisant l’État baasiste et qu’ils cherchent au contraire à s’appuyer sur les anciens de Kadhafi plutôt que sur cette étrange “variété modérée de djihadistes démocrates” (!) dont l’entourage de Sarkozy nous vante les mérites.

Aymeric Chauprade, géopolitologue

Germanen und Wikinger

Germanen und Wikinger

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Un mondialisme sans queue ni tête : la politique de l'âme et des racines brûlées

Un mondialisme sans queue ni tête : la politique de l'âme et des racines brûlées

Ex: http://www.polemia.com/

par Laurence MAUGEST

De la quête du bonheur à la recherche du confort.

Dans la mentalité dominante distillée par les média, la notion du bonheur est de plus en plus souvent réduite à celle du confort qui favorise la consommation des biens matériels. Dans ce nouveau monde fait de secousses incessantes et d’images virtuelles, la sensibilité de l’homme à l’univers qui l’entoure s’amenuise.

C’est pourtant par sa relation au monde réel que l’homme a aiguisé, au fil des siècles, sa spiritualité.

Du confort à la lourdeur

La poésie meurt étranglée par la vulgarité qui s’infiltre dans ce qui a mission d’élever l’homme : la recherche du beau est bannie dans l’art, l’amitié se cherche sur les réseaux sociaux, l’amour en PACS prêt à l’emploi est jetable, la sexualité en jeux s’achète sur la toile…

L’aboutissement de l’homme machine : le consommateur du XXIe siècle : montage en kit, mode d’emploi fourni, arc réflexe bien connu des publicistes…

Ce sont les éléments essentiels de l’être humain qui sont ainsi, circonscrits, matérialisés dans un prosaïsme grisâtre. La singularité de l’homme nait de ce qui est indéfinissable en lui. Elle constitue la sphère spécifique à l’être humain où l’on trouve la créativité, la curiosité, l’élévation, la fantaisie, l’amour. La vie affective se réduit actuellement et trop souvent au corps donc à la matière. Au bout du compte, elle en perd sa beauté, sa dignité et peut-être ainsi roulée dans la fange qu’expriment si clairement les néologismes comme « meuf, nique » qui fleurent bon le merveilleux de la rencontre amoureuse. Via l’air du temps dominant, l’amour, qui est un joli pont entre le temporel et le spirituel, quitte cet entre-deux quand il se limite au souci constant du plaisir immédiat. Il y a le temporel inscrit, comme son nom l’indique, dans le temps, enraciné et secrété par l’histoire, où l’on trouve la verticalité de la conscience du destin humain. Parallèlement, il y a le temps moderne, avec ses mots rétractés, son temps haché sous l’étau de la productivité où l’homme risque de se réduire aux réflexes basiques de sa consommation. Dans ce monde suspendu, sans racine, l’homme se monte lui-même en kit. Il s’autoconstruit et peut même autodéterminer son sexe, en cour de route, grâce à la l’idéologie du « Genre ». Son mode d’emploi est approfondi dans les écoles de publicité et de communication. Dans le cadre de ces métiers où l’on doit apprendre à « gérer » parfaitement le fonctionnement de l’humanoïde du XXIe siècle, ce mutant que l’on appelle l’usager ou le consommateur.

Si l’immédiateté est devenue le pendant du temporel dans l’univers de la grande consommation, le fantasme serait-il celui du spirituel ?

Comment les valeurs du catholicisme peuvent survivre dans cette obsessionnelle recherche de bien être immédiat. Que devient l’ancienne dualité entre les pouvoirs spirituel et temporel lorsque ce dernier est réduit à l’immédiateté ? Ce que l’on reproche au clergé, ce n’est pas d’être happé par les séductions du monde temporel au risque de s’éloigner de la dimension spirituelle, mais d’être «névrosé ». Dans l’ambiance « psychologisée » qui est la nôtre, on est plus leste à s’intéresser aux fantasmes de certains qu’à la spiritualité d’un nombre de religieux qui, par leur exemple, devraient nous mener à réfléchir à la puissance de leur foi qui se concrétise dans le don de leur vie à Dieu. Une certaine psychologie vient donc imposer ses considérations strictement humaines dans un domaine spirituel qui lui échappe. Il semble que l’immédiateté actuelle malmène la temporalité du catholicisme qui s’inscrit dans un linéaire historique de la genèse à la résurrection.

Il n’y a pas qu’en Orient que l’on attaque les catholiques.

On tire à vue sur eux au quotidien dans la presse européenne et par les vocables utilisés. Le terme de « cathos » est en cela très symptomatique, il cherche à ridiculiser et à réduire l’acte de foi et la recherche spirituelle en étêtant cette population à coup de hache abréviative. Le mot même de « tradition » est décapité ironiquement en « tradi ». Dans l’indifférence totale, ces décapitations nous autodétruisent en entrainant l’hémorragie de la sève qui nous constitue depuis notre origine. Ces abréviations, telles des enseignes, attisent des réflexes sociologiques superficiels issus de l’opinion publique. Elles neutralisent, en la bafouant, la dimension spirituelle en la faisant dégringoler dans le quotidien et la mode. L’objectif est de contenir le mouvement religieux intime, cet élan qui différencie l’homme de l’animal et les derniers hommes « des hommes festifs » peints par Philippe Muray.

Dans la campagne de destruction actuelle menée contre le catholicisme, l’histoire est bien souvent manipulée et victime des inquisiteurs modernes qui jouent avec dextérité des tourments les plus redoutés de l’histoire : les anachronismes grossiers qui servent de vulgaires clichés. L’approche manichéenne du catharisme qui insiste sur l’intolérance des catholiques et occulte les enjeux de pouvoir des seigneurs du sud-ouest, l’oubli des religieux réfractaires torturés, noyés, brûlés sous la Révolution et les trop rares évocations des religieux qui ont caché des juifs et des résistants durant la deuxième guerre mondiale sont des exemples parmi d’autres.

L’objectif est de nier toute possibilité de spiritualité passée ou présente en Occident, à cette fin le prêtre doit être un homme comme les autres :

Les images du prêtre inquisiteur au moyen-âge, carriériste sous l’ancien régime, « collabo » en 40, ouvrier en 1968 et assistant social dans les années 80, montrent comment la pensée dominante et bavarde fige et réduit l’image du prêtre à l’aspérité du moment. Cette image est forcément négative lorsque la religion était encore prégnante dans la société car il faut démolir ce qui a été. Afin de confirmer leur normalité, la pathologie des prêtres doit être à l’image de celle de la société. Il n’est guère étonnant d’entendre maintenant des brouhahas médiatiques autour de prêtres suspectés de pédophilie et d’obsession sexuelle. Des hommes comme tout le monde ! Absolument ! Il est peut-être des hommes et des femmes qui se réfugient dans la religion pour éviter « la vie normale ». Comportement d’évitement qui fait d’eux des hommes en effet très normaux. Mais, ceux qui entrent en religion parce qu’ils ont la foi, ne sont pas des hommes comme les autres. Ces religieux, qui recherchent la dimension spirituelle dans un monde qui se coule dans le matérialisme rampant, sont parfaitement anormaux au sens statistique du terme. La certitude populaire qui impose la normalité aux religieux ne sert que la désacralisation actuelle. Elle ferme le chemin de la spiritualité qui reste ouvert à l’homme du XXIe siècle comme il l’était à celui du XIIIe siècle. Néanmoins, la recherche d’élévation est vivace en l’homme. Elle résiste dans l’essor des spiritualités orientales que l’on constate en Occident. Il s’agit donc « d’aller voir ailleurs ». Par cela même, ces aspirations alimentent encore le mondialisme et son pendant l’individualisme car le plus souvent, les versions occidentalisées de ces spiritualités s’apparentent davantage au « développement personnel » qu’à la recherche du Divin. Leur médiatisation simpliste participe ainsi au culte de l’homme et, par là même, renforce son avidité matérialiste qui sert la consommation de masse.

Le prisme aberrant du nihilisme : tout ce qui monte diverge !

Dans l’opinion publique, instrumentalisée par les média, se mélangent les affaires Polanski et Strauss Kahn qui sont traitées au même niveau. Nous constatons la généralisation d’un mépris du pouvoir, l’ancestral, celui de l’Etat, enfant de l’histoire et porteur de tradition. Le pouvoir temporel, désacralisé, sali, éclaté par l’Europe bureaucratique et le mondialisme financier, est de plus en plus malmené. Le monde de nos aspirations s’abaisse progressivement. Après la substitution du religieux par la politique, nous voyons cette dernière phagocytée par le pouvoir médiatique. Tout ce qui est au-dessus de nous est la cible des destructeurs de sens qui cherchent à briser la richesse et la transcendance de l’espèce humaine.

Ils vont donc jusqu’à nier la différenciation soit la complémentarité des sexes. Cette complémentarité des sexes, idée géniale qui a fait ses preuves, ne peut pas être attribuée au cerveau humain. En cela, elle est dangereuse car elle exprime, par le sens intelligent qu’elle porte, le signe d’une puissance extérieure. C’est pourquoi, l’homme du XXIe siècle cherche à la bannir pour planter son idéologie et déterminer lui-même qui est homme ou qui est femme dans une toute puissance dictatoriale d’un genre nouveau. Ces Rousseauistes de l’extrême envisagent l’homme du XXIe siècle comme le fruit de la société humaine et matérialiste uniquement.

La toute-puissance et le statut d’être « auto-créé » que l’homme recherche tuent son histoire

L’intervention du Divin est rejetée. A cette nouvelle société entièrement dominée par l’homme il fallait un mythe fondateur sorti des mains de l’homme. Ce mythe n’est plus la mort du Christ mais Auschwitz. Ce nouveau Golgotha nous impose une histoire rétrécie faite d’horreurs qui nous entraine à ridiculiser le sacré et le beau dans un nihilisme dépourvu de romantisme qui s’ouvre vers un avenir étriqué. La question est pourquoi faut-il nier toute puissance extérieure à l’homme ? Les caractéristiques essentielles de la nature humaine doivent aussi devenir enfant de la citée, même la mémoire que l’on transforme en « devoir citoyen ». Le devoir de mémoire est un paradoxe dangereux. En premier lieu, car la mémoire ne s’impose pas mais se vit. De plus, cette obsession obscurcit notre histoire plus ancienne. Celle des temps où nous étions sans intermédiaire face à l’univers, avant l’apparition de la machine et de son drame fondateur : la Shoah, la machine à tuer. Il semblerait que l’homme du XXIe siècle cherche à nier ce qu’il était avant d’être lui-même créateur de techniques de plus en plus complexes. Il impose une histoire à l’échelle de sa modernité au grès des événements surmédiatisés qui deviennent les balises des temps modernes : du 11 septembre à l’arrestation de M. Strauss-Kahn. Flashs médiatiques qui hypnotisent notre mémoire et font de notre histoire un film haché et dépourvu de sens.

L’histoire, la mémoire, l’identité sexuelle, deviennent une pâte à modeler pour l’homme qui évacue Dieu le Père pour imposer son omnipotence. Dans son appropriation exclusive de la vie et du monde, l’homme cherche à se débarrasser de tout ce qu’il ne contrôle pas soit l’esprit et le sens de la vie qui sont les constituants essentiels de son humanité.

Pour un devoir de résistance

Il nous faut résister à l’horizontalité écrasante. Commençons par prononcer les mots en entier pour en goûter leur histoire, respecter et transmettre leurs sens et contribuer à aller vers l’éveil qui s’impose.

Merci aux catholiques qui refusent le hachoir de désacralisation actuel, redressent leur tête et refusent d’être réduit à un simple phénomène sociétale. Merci à Dominique Venner qui nous invite à la recherche du graal, à la résurgence de notre force où puiser l’énergie nécessaire à la poursuite de notre histoire. Quelle nous porte loin des considérations matérialistes et nous replonge dans l’univers des signes et des symboles qui ne supporte pas l’amputation des mots. Histoire qui s’enracine dans la forêt mystérieuse de nos origines qui est la porte d’un avenir que l’on ne cherche pas à contrôler mais à conquérir.

Laurence Maugest
13/09/2011

Correspondance Polémia – 20/09/2011

vendredi, 23 septembre 2011

The Making of Bronze Age Eurasia

The Making of Bronze Age Eurasia

 


This book provides an overview of Bronze Age societies of Western Eurasia through an investigation of the archaeological record. The Making of Bronze Age Eurasia outlines the long-term processes and patterns of interaction that link these groups together in a shared historical trajectory of development. Interactions took the form of the exchange of raw materials and finished goods, the spread and sharing of technologies, and the movements of peoples from one region to another. Kohl reconstructs economic activities from subsistence practices to the production and exchange of metals and other materials. Kohl also argues forcefully that the main task of the archaeologist should be to write culture-history on a spatially and temporally grand scale in an effort to detect large, macrohistorical processes of interaction and shared development.


Afbeelding en tekst: Cambridge University Press.

Erdogan in Nordafrika: Türkei kehrt Europa den Rücken

Erdogan in Nordafrika: Türkei kehrt Europa den Rücken

http://de.rian.ru/

Der türkische Premier Recep Tayyip Erdogan scheint ein diplomatisches Genie zu sein.


Die Ergebnisse seiner Nordafrika-Reise in der vergangenen Woche haben die Erwartungen übertroffen. Bei seinen Reden in Kairo, Tunis und Tripolis traf er den richtigen Ton. Der türkische Regierungschef wird als Held der arabischen Revolutionsmassen gefeiert.

Obwohl Ankara sich nicht aktiv an der Anti-Gaddafi-Offensive beteiligt hatte (es stellte lediglich ein Schiff für die Evakuierung der Einwohner Misratas zur Verfügung), wurde der türkische Premier auch in Tripolis herzlich empfangen. Die Türkei ist mit Libyen vor allem durch Bau-Projekte im Wert von etwa 15 Milliarden Dollar verbunden und bemüht sich darum, sie zu erhalten.

Türkei gewinnt an Bedeutung in der islamischen Welt

Alle seine Aufgaben hat Erdogan glänzend erfüllt. Er hat die internationale Rolle seines Landes unter Beweis gestellt und es als eine der islamischen Führungskräfte in der Nahost-Region etabliert. Der Premier zeigte deutlich, dass es in der islamischen Welt eine Alternative statt den radikalen Vektor gibt: die islamische Demokratie auf türkische Art. Außerdem gewann er an Stellenwert in seinem Land und in der ganzen arabischen Welt.

Es wäre jedoch naiv zu glauben, dass nur die Begeisterung der arabischen Revolutionsanhänger die Türkei zu einem Führungsland zwischen Zentralasien und Maghreb machen. Erdogan wird nur von den Volksmassen gefeiert, die die Türkei für einen vorbildhaften islamischen säkularen Staat halten, der eine starke Wirtschaft hat und seinen Bürgern einen hohen Lebensstandard bietet.

Die Herrscher sind gegenüber Erdogan eher skeptisch eingestellt. Ägypten hat nach der Revolution noch immer keine starke Führung, die dortigen Militärs wollen offenbar nicht ihre Macht verlieren. Auch in Saudi-Arabien oder im Iran sind die Machthaber nicht gerade von den Aktivitäten Ankaras begeistert. Die Begeisterung der Volksmassen ist eine vorübergehende Erscheinung, besonders wenn es sich um arabische Länder handelt.

Man sollte auch bedenken, dass die Türken in der arabischen Welt traditionell nicht besonders beliebt sind. Deshalb kommt Ankara als regionale Supermacht vorerst nicht infrage.

Demokratie auf türkische Art als Vorbild

Arabische Politiker sollten sich aber überlegen, warum Erdogan als gemäßigter Islamist und konservativer Liberale bei den Volksmassen so beliebt ist. Zumal sie von ihm etwas lernen könnten.

Die islamisierte Demokratie auf türkische Art ist in Wirklichkeit etwas wirklich Einmaliges, genauso wie die „souveräne Demokratie“ in Russland.

Die einmalige Mischung aus Islamismus und Demokratie bei einer ständig wachsenden Wirtschaft ist das, was auch Ägypten, Libyen und Tunesien guttun würde. Aber in keinem dieser Länder gibt es derzeit solche Kräfte, die das entstandene Machtvakuum füllen könnten. Dafür ist viel Zeit erforderlich.

Erdogan will seinerseits von den Möglichkeiten profitieren, die ihm der „arabische Frühling“ bietet. Er könnte an Einflusskraft gewinnen, weil Ägypten, Syrien, Libyen und der Irak schwächeln. Dabei geht es vordergründig um die Wirtschaft - Erdogan verkündete in Kairo, dass die türkischen Investitionen in Ägypten von 1,5 auf fünf Milliarden Dollar wachsen werden. Politisch gesehen hat Ankara jedoch keine großen Chancen auf die Führungsrolle in der islamischen Welt.

Erdogans politische Karriere hat zudem einige Kratzer. Bevor er 2003 seine Partei für Gerechtigkeit und Aufschwung ins Leben gerufen hatte und zum Premier gewählt wurde, war er Mitglied der islamistischen Tugendpartei gewesen, die 1997 verboten wurde. Damals wandete er sogar für die nationalistische Propaganda vier Monate ins Gefängnis.

Darüber hinaus war der begeisterte Empfang des türkischen Premiers in Nordafrika der Beweis, dass die USA und Westeuropa ihre Einflusskraft in der Region endgültig verloren haben.

Nicht zu vergessen ist, mit welcher Begeisterung 2009 der frischgebackene US-Präsident Barack Obama in Kairo empfangen wurde. Damals versprach er, Washingtons politischen Kurs zu ändern und die Interessen der Araber mehr zu berücksichtigen, Israel zu mäßigen und zu einem Friedensabkommen mit den Palästinensern zu überreden sowie die Bildung eines unabhängigen Palästinenserstaates zu fördern. Nichts davon ist jedoch in Erfüllung gegangen. Angesichts dessen ist die Unbeliebtheit der Amerikaner in der arabischen Welt nicht verwunderlich.

Erdogan gewann an Popularität wegen seiner Schritte gegen Israel. Er hatte sich  de facto für die Unterbrechung der diplomatischen Beziehungen mit Tel Aviv entschieden, die Teilnahme israelischer Kampfjets an Manövern in der Türkei verboten und die bilateralen Militärkontakte eingestellt.

Während seines Besuchs in Tunis warnte Erdogan sogar, er würde türkische Kriegsschiffe an die israelische Küste schicken, wenn Tel Aviv weiterhin Schiffe mit Hilfsgütern für den Gaza-Streifen abfangen sollte.

Wenn man bedenkt, dass die Türkei Nato-Mitglied ist, sind Erdogangs Worte starker Tobak. In der arabischen Welt wurden sie aber mit Begeisterung aufgenommen.

Abwendung von Europa


Erdogans Nordafrika-Reise hat noch einen wichtigen Aspekt. Er zeigte den Europäern deutlich, was sie verlieren, wenn sie der Türkei den EU-Beitritt verweigern.

Ankara hatte 1987 die EU-Mitgliedschaft beantragt, wurde aber erst 1999 bei einem EU-Gipfel in Helsinki als Anwärter anerkannt. Seit dieser Zeit haben entsprechende Verhandlungen keine großen Fortschritte gebracht.

Niemand hat den Türken bisher deutlich gemacht, dass es für sie in Europa keinen Platz gibt. Aber Deutschland und Frankreich wollen nicht, dass in der Europäischen Union weitere 60 Millionen Muslime leben. Deshalb wurden Ankara Bedingungen gestellt, die es unmöglich erfüllen kann, um EU-Mitglied zu werden. So verlangte Frankreich, dass die Türken den Völkermord an Armeniern im Jahr 1915 anerkennen.

So etwas kann sich Erdogan nicht gefallen lassen. Jetzt kehrt er Europa allmählich den Rücken. Im Grunde tut er das, was er zuvor versprochen hatte.

Die Meinung des Verfassers muss nicht mit der von RIA Novosti übereinstimmen.

10 ans après le 11 septembre

10 ans après le 11 septembre

Par Alain Soral

http://www.egaliteetreconciliation.fr/

« Le 11 septembre 2001 n’a pas eu lieu » est assurément un ouvrage indispensable pour tous ceux qui ne peuvent se contenter de la « version officielle » présentée en boucle par les médias. Nous plaçons ci-après la préface de ce livre écrite par Alain Soral.

Qui sème le vent récolte la tempête.

Comme beaucoup de français qui se taisent : intellectuels dégoûtés, immigrés humiliés, je l’avoue, en voyant le spectacle du Word Trade Center, j’ai mouillé mon calfouette. Puis j’y ai vu la preuve, rassurante, de la survie du sens, de la morale et de l’humanité, malgré l’énorme travail accompli ici pour les exterminer.

Il n’y a pas d’effet sans cause, sauf pour ceux qui expliquent la légitime colère, née d’une légitime souffrance et d’un légitime désespoir, par la montée du nihilisme – sorte de cause sans cause pour éviter de se remettre en cause.

Cinq cent mille enfants morts sans toucher à Saddam Hussein, il faut bien croire que le projet US était le génocide pour affaiblir durablement l’Irak par sa démographie, et ce, quel que soit le régime de Bagdad.

Cinquante ans de persécutions et d’humiliations du peuple palestinien justifiés – ô abjection – par la persécution et l’humiliation du peuple juif, ailleurs, et par d’autres.

Il faut beaucoup d’orgueil blessé, et une certaine grandeur d’âme, pour qu’un milliardaire saoudien renonce à une vie de pacha pour la justice, dans l’inconfort et le péril. Il faut beaucoup de désespoir pour que des intellectuels, en toute conscience, choisissent leur propre mort pour exprimer à la face du monde leur refus de l’oppression.

Règle anthropologique de base ignorée de tous nos bourgeois voyeurs : pour comprendre la souffrance des autres, il faut la subir soi-même dans sa chair, pas juste la lire dans les journaux ; tel est le prix de la conscience.

C’était l’espoir du World Trade Center, que les américains comprennent enfin ce que c’est qu’en prendre plein la gueule, à Belgrade, à Bagdad, à Tripoli, dans les territoires occupés et ailleurs, afin que leur inconscience, leur violence, leur mépris, leur pitié même, se muent en commisération. Qu’en subissant au moins une fois ce qu’ils assènent aux autres avec tant de distance et de légèreté, ils comprennent – au sens d’avoir en soi – ce que vivent et ressentent leurs victimes, les pauvres et les non-alignés du monde entier : Irakiens, Serbes, Argentins…

Raté. Au lieu de ça Bush parle de croisade, de guerre du bien indiscutable contre le mal indiscutable, en plus au nom du Christ.

La réconciliation par le partage – de la souffrance, avant celui du travail et des richesses – n’est donc pas pour cette fois.

Il reste à espérer que la prochaine viendra vite et, pour qu’augmente sa puissance pédagogique, qu’elle frappera plus juste et plus fort…

Voilà ce que j’écrivais, à chaud, à l’automne 2001.

Après que toutes les télévisions du monde nous eurent offert le spectacle magnifique, grandiose, des deux avions se crashant dans le symbole de l’orgueil américain et de la finance occidentale ; l’hallucinant spectacle du double effondrement des deux tours, à tel point subjuguant qu’on ne se posa pas la question, sur le coup, sous le choc, de l’impossibilité physique, mécanique d’un tel effondrement. Sans parler de la disparition totale d’un avion de ligne percutant en rase-mottes une aile en travaux du Pentagone…

Pour nous, les avides de justice, les dissidents, les résistants du tertiaire et du Net – on a les guerres que l’époque veut bien nous offrir – après la succession des victoires néolibérales des années 80 et 90, Oussama Ben Laden devint en un jour, d’un seul coup de maître, notre nouvelle idole, le nouveau Sankara, le nouveau Castro, le nouveau Nasser se levant du Sud et de l’Orient pour châtier l’arrogant Occident.

Mais très vite, après le court moment de la jubilation, vint le temps de la réflexion, et avec le recul, celui de la recherche et de l’analyse : qui était vraiment Oussama Ben Laden ? Guerrier de l’islam ? Agent de la CIA ? L’autre puis l’un ? Les deux ? Et surtout « cui bono ? », question qu’il faut toujours se poser en politique : à qui profite le crime ?

Car le 11 septembre, immédiatement attribué par l’oligarchie américano-sioniste, via les médias complices et sans enquête, au « terrorisme islamiste », c’était aussi l’agression rêvée qui justifiait la nouvelle croisade, planifiée de longue date par les théoriciens néo-conservateurs : diabolisation des non-alignés en membres de « l’axe du mal », guerres préventives contre l’Afghanistan, l’Irak, demain l’Iran ? PATRIOT Act et autres redécoupages du Moyen-Orient…

Alors pour ne pas brûler trop vite celui qu’on adulait encore hier, nous nous efforçâmes de penser aux 5 de Cambridge : de comparer Oussama, le fils de riche saoudien en rupture de ban, à ces anglais de la gentry qui eux aussi, dégoûtés par une classe qu’ils connaissaient bien, avaient choisi de la trahir pour la combattre en rejoignant le camp de la révolution…

On tenta bien encore un temps de se persuader que ce membre du clan Ben Laden, financièrement lié aux Bush, cet ancien combattant pro-talibans, armé par la CIA du temps de la lutte contre les soviétiques, s’était bel et bien retourné avec colère contre ses anciens partenaires et mentors ; et que si son action d’éclat avait finalement nui à sa cause, il n’avait été qu’instrumentalisé, manipulé à l’insu de son plein gré !

Mais une raisonnable analyse des enjeux et des faits nous obligeait quand même à admettre qu’au-delà de la fascination produite par son morceau de bravoure, son combat, finalement contre-productif, n’avait rien à voir avec l’anti-impérialisme d’Etat iranien, l’union cohérente du politique et du religieux d’un Hassan Nasrallah…

Le coup de grâce qui acheva d’inverser totalement la lecture héroïque des attentats fut le passage – tout aussi historique – de Thierry Meyssan chez Thierry Ardisson pour y présenter son livre « L’Effroyable imposture ».

Une prestation calme, posée, argumentée, où toutes les contradictions de la version officielle étaient pointées du doigt pour mener à cette conclusion, implacable : il ne pouvait s’agir que d’une opération sous faux drapeau impliquant des complicités du pouvoir au plus haut niveau.

Une conclusion amenée après une démonstration si rigoureuse que personne sur le plateau n’eut seulement l’idée de la contester en poussant ces petits cris d’indignation devenus depuis obligatoires pour tout soumis au Système, tout lèche-cul médiatique qui tient à se faire bien voir, ou à ne pas se faire marginaliser !

Le livre de Meyssan ?

Un magnifique exemple de ce que pourrait devenir, de façon plus générale, le révisionnisme historique sans l’inique loi Gayssot ! Les collabos à l’Empire ne s’y trompent pas d’ailleurs, eux qui vont jusqu’à clamer, devant la déferlante de doutes quant à la version officielle, qu’oser la constester c’est comme remettre en cause l’existence des chambres à gaz. Ce qui est parfaitement exact !

L’écart entre le traitement officiel des attentats du 11/09 et ce qu’on peut lire désormais sur la toile, notamment grâce au travail de l’association « ReOpen911 », est aussi ce qui entraîna le discrédit définitif de l’information officielle et des médias de masse, que ce soit le journal de TF1, le journal Libération ou Le Monde, mais aussi les faux blogs non-alignés, financés par les mêmes, type Rue89…

Le soutien à la version officielle du 11/09 ? Le marqueur permettant d’identifier aussitôt le collabo du Système, de démasquer le faux opposant institutionnel à la Noam Chomsky…

C’est en effet grâce au traitement Internet des évènement du 11 septembre que de plus en plus de gens ordinaires, à la suite des initiés, prennent aujourd’hui conscience de l’existence d’autres opérations sous faux drapeaux ourdies, ou instrumentalisées par le pouvoir pour continuer à berner, à manipuler les populations occidentales au nom de la démocratie : assassinat de Kennedy, attentats de Bologne, d’Oklahoma City, de Madrid, de Londres et très récemment d’Oslo…

Car qui aujourd’hui croit encore à la version officielle du 11/09 ?

Aux Etats-Unis, moins d’un américain sur deux, et face à eux, pas que des marginaux : des architectes, des militaires, des pilotes de ligne regroupés en associations…

En France, même Jean-Marie Bigard, le comique pour beaufs, Mathieu Kassovitz , le Luc Besson du cinéma indépendant la contestent publiquement ! Si bien qu’on peut dire, dix ans après, que le débat sur 11 septembre va bien au-delà du 11 septembre et de la stricte question des attentats perpétrés ce jour là.

Le 11/09 c’est, face à la grossièreté de l’histoire officielle et à la brutalité de ses promoteurs – politiques et médias – la remise en cause, l’ébranlement de tout un système de domination fondé sur la diabolisation par le mensonge, et qui mène le monde depuis 1945.

Comprendre le 11 septembre ?

C’est accéder à la compréhension du monde…

Alain Soral

Le livre est disponible sur Kontrekulture.com : http://www.kontrekulture.com/achats...

La diplomatie-missile d’Erdogan

Turquie vs Israël. Erdogan met le feu aux poudres de l'OTAN en refusant d'installer le Ballistic Defense Missile Europe à Kurecik (ABM).

La diplomatie-missile d’Erdogan

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Le rythme de la diplomatie du gouvernement turc et de son Premier ministre Erdogan devra-t-il être inscrit comme un des facteurs fondamentaux du “printemps arabe”, au même titre, par exemple, que la place Tahrir au Caire ? Poser la question, c’est y répondre. Les Turcs sont à l’offensive sur absolument tous les fronts, avec un objectif de facto, qu’on doit constater comme évident s’il n’est à aucun moment énoncé comme tel ; il s’agit de la destruction de l’“ordre” du bloc BAO, essentiellement tenu par Israël et son “tuteur” US, – l’un et l’autre désormais privés de soutiens de taille, comme celui de l’Egyptien Moubarak.

Les derniers développements sont particulièrement remarquables, en ce qu’ils haussent le niveau de l’offensive turque au plus haut, avec la question de l’attitude turque vis-à-vis de l’affaire palestinienne à l’ONU et l'affaire des forages en Méditerranée orientale, qu’on connaît bien ; mais surtout, affaire nouvelle venue dans sa dimension polémique, celle de l’engagement turc dans le réseau anti-missiles de l’OTAN (BMDE, pour Ballistic Defense Missile, Europe, – dénomination initiale US qu’on peut aussi bien garder, pour réumer les explications et les réalités de la chose). Il s’agit désormais, avec le réseau BMDE dans la forme que prend cette affaire, de questions stratégiques majeures impliquant la Turquie et l’OTAN, c’est-à-dire les USA, et les autres qui vont avec. Voyons les nouvelles…

• Le quotidien d’Ankara Hurriyet Daily News donne plusieurs informations exclusives, ce 19 septembre 2011. D’une part, le journal annonce que le cabinet turc ne prendra pas de décision définitive sur l’installation de la base de détection radar du réseau BMDE en Turquie, avant le retour du Premier ministre Erdogan, en visite aux USA, notamment pour la séance plénière annuelle de l’Assemblée des Nations-Unies. Erdogan rencontre Obama aujourd’hui. Puis l’ONU doit se prononcer sur la demande palestinienne de reconnaître l’Etat palestinien. La décision turque de retarder sa décision sur la base du réseau BMDE en Turquie intervient alors que Washington avait d’abord demandé à Ankara d’accélérer sa décision (selon DEBKAFiles, voir plus loin), et la chronologie désormais établie ressemble fort à une conditionnalité implicite ; tout se passant comme si Erdogan laissait entendre que cette décision turque dépendrait de l’attitude US dans la question palestienne à l’ONU. Cette position n’est pas à prendre comme telle, mais elle représente un acte de défiance des Turcs vis-à-vis des USA, au moins affirmé du point de vue de la communication.

Hurriyet Daily News va plus loin, au rythme de la diplomatie turque, en dévoilant que l’acceptation possible/probable de déploiement de la base du réseau BMDE sera accompagnée, très rapidement, d’une mission d’information auprès de l’Iran. Un comble, du point de vue du bloc BAO, puisque le réseau BMDE est déployé théoriquement contre une menace future possible de l’Iran (ainsi va le narrative du complexe militaro-industriel, donc il faut bien la rapporter) ; pire encore, si c’est possible, la rencontre entre Erdogan et Mahmoud Ahmadinejad, jeudi à l’ONU, à New York, avec la question du réseau BMDE au menu des conversations. … Pourquoi ne pas faire participer l’Iran au réseau, se demanderaient certains, pour protéger ce pays contre ses propres futurs missiles ? (Tout cela, après l’annonce par le ministre turc des affaires étrangères Davutoglu que la Turquie refusera le partage avec Israël des informations obtenues par la station radar sur son sol…)

«The agreement envisions the deployment of a U.S. AN/TPY-2 (X-band) early warning radar system at a military installation at Kürecik in the Central Anatolian province of Malatya as part of the NATO missile-defense project. Obama and Erdogan will likely discuss the fate of the agreement, which has been described by anonymous U.S. officials as the most strategic deal between the two allies in the last 15 to 20 years.

»A swift approval of the deal is needed to carry out the technical phases of the radar system’s deployment before the end of this year, as suggested by the U.S. Department of Defense. U.S. warships carrying anti-ballistic missiles are expected to take up position in the eastern Mediterranean Sea in the upcoming months, U.S. media outlets have reported. As part of the project, missile shield interceptors and their launching system will be deployed in Romanian and Polish territory, in 2015 and 2018, respectively.

»Senior Turkish officials who are planning to visit Tehran in the coming weeks will seek to diffuse growing Iranian concerns about the deployment of the radar system on Turkish soil. Hakan Fichan, chief of the National Intelligence Organization, or MIT, is expected to be the first visitor, followed by Erdogan.»

DEBKAFiles annonce effectivement, ce 19 septembre 2011, qu’un envoyé spécial du président Obama, le directeur du renseignement national (coordination et supervision de toutes les agences de renseignement US) James Clapper, se trouvait en visite surprise et d’urgence, samedi soir à Ankara. Clapper venait presser Erdogan de réduire son soutien au Palestinien Abbas, d’adopter un ton moins menaçant dans l’affaire des forages en Méditerranée orientale, impliquant Chypre et Israël, etc. Clapper venait aussi demander une accélération de la réponse turque concernant la base radar du réseau BMDE ; puis, devant les déclarations du ministre des affaires étrangères Davutoglu dimanche, il avertissait la Turquie que le partage des informations avec Israël était une condition sine qua non de l’installation de la base en Turquie…

«Following Davutoglu's statement on the X-band radar, Clapper was authorized to warn the Erdogan government that if it barred the sharing of information with Israel, the plan for its installation in Turkey would have to be abandoned. The entire missile shield system is based on a network of advanced radar stations scattered across the Middle East, including the Israeli Negev, and Israel's highly-developed ability to intercept Iranian ballistic missiles.»

• On signalera également l’article du New York Times du 18 septembre 2011, où le ministre Davutoglu annonce un “ordre nouveau” au Moyen-Orient avec l’axe entre la Turquie et l’Egypte. La dynamique de la diplomatie turque prend une forme de plus en plus structurée, et de plus en plus officiellement affirmée.

• On signalera également (suite) la forme extraordinairement agressive, anti-turque, que prennent certaines interventions de commentateurs proches d’Israël par divers liens, y compris ceux de l’idéologie de l’“idéal de puissance”. L’un d’entre eux est certainement David P. Goldman (dit “Spengler” pour ATimes.com), qui publie un virulent article anti-turc (anti-Erdogan) sur le site Pyjama Media, le 18 septembre 2011 ; et un autre article dans sa chronique “Spengler” de ATimes.com, le 20 septembre 2011, où il fait un procès véritablement “spenglérien” de l’état social et culturel de l’Egypte, particulièrement méprisant pour la valeur intellectuelle et économique de ce pays et de ses habitants. Il s’agit de discréditer autant les ambitions turques que l’alliance égyptienne, exprimant en cela une frustration peu ordinaire d’Israël et du bloc BAO, appuyés sur cet “idéal de puissance” cité plus haut. (Cet “idéal” forme le tronc idéologique et darwinien commun aux diverses entités du bloc, toutes autant les unes que les autres attachées aux conceptions de puissance, – en général des frustrations psychologiques anglo-saxonnes aux visions caricaturales diverses de “la volonté de puissance” nietzschéenne.) Nous ne sommes pas loin des neocons, des ambitions impériales américanistes et des arrières pensées eschatologiques du Likoud. Cette soupe, rescapée de la première décennie du XXIème siècle, se concentre pour l’instant en une appréciation absolument toxique de ce qui est considéré par le noyau dur du bloc BAO comme une trahison de la Turquie d’Ataturk “kidnappée” par les islamistes d’Erdogan. Dans ce cas, les durs israéliens sont évidemment particulièrement concernés, avec leurs alliés neocons qui furent des auxiliaires attentifs, au niveau du lobbying bien rétribué, de l’ancien régime turc. (Richard Perle était l’un des principaux lobbyistes des Turcs à Washington dans les années 1990, appuyé sur les ventes d’armement à la Turquie, notamment de Lockheed Martin, qui finance les même neocons. C’est un aspect important des réseaux américanistes et pro-israéliens, et pseudo “spanglériens” pour le cas qui nous occupe, qui est en train de s’effondrer avec l’énorme défection turque.)

…Tout cela commençant à signifier clairement qu’en quelques semaines, depuis la mi-août pratiquement, la Turquie a complètement basculé pour se retrouver au rang de premier adversaire du bloc BAO (Pentagone + Israël, principalement) au Moyen-Orient, – à la place de l’Iran, et dans une position infiniment plus puissante que celle de l’Iran. Le renversement est fantastique, tout comme l’est potentiellement cette affaire du réseau BMDE qui implique les intérêts stratégiques de tous les acteurs au plus haut niveau. Pour le Pentagone, l’accord turc sur la station radar à installer dans la base de Kurecik, en Anatolie centrale, est présenté d’abord comme “le plus important accord stratégique entre les deux pays depuis 15 à 20 ans” ; puis il s’avère, cet accord, tellement chargé de conditions turques, comme le refus de partager les informations avec Israël, que le Pentagone doit envisager d’annuler son offre (pardon, celle de l’OTAN) ; ce qui nous permet au passage de nous interroger pour savoir qui contrôle quoi dans le réseau OTAN si les Turcs estiment avoir un droit de veto sur la disposition des radars qui seraient installés à Kurecik… Cela, jusqu’à l’annonce des assurances et des informations données à l’Iran, ce qui ne doit pas entrer dans les plans généraux du Pentagone ni de l’OTAN, ni de nombre de membres de l’OTAN qui cultivent dans leur arrière-cour la narrative de la menace iranienne.

En plus des diverses querelles et crises en développement dans l’énorme chamboulement du Moyen-Orient, l’affaire du réseau BMDE de l’OTAN, et de la Turquie, nous est précieuse parce qu’elle permet l’intégration potentielle de plusieurs crises, bien dans la logique de la Grande Crise de la Contre-Civilisation (GCCC, ou GC3). A un moment ou l’autre, la Russie ne va-t-elle pas se manifester, elle qui déteste le réseau BMDE et qui prétend avoir des relations très moyennes avec l’OTAN, et plutôt bonnes avec la Turquie ? On aura alors un lien très ferme établi avec la question de la sécurité européenne, et de l’engagement européen dans des réseaux stratégiques contrôlés par la puissance en cours d’effondrement des USA… Et que va donner cette affaire du partage avec Israël d’informations stratégiques du réseau BMDE, alors que les Turcs le refusent, alors que les Turcs ont mis leur veto à l’installation d’une délégation de liaison d’Israël à l’OTAN…

D’une façon générale, avec cet élargissement de la crise et le passage à la dimension stratégique fondamentale, on comprend alors que la Turquie est de plus en plus orientée pour tenir le rôle que la France gaullienne tenait en d’autres temps. Face à cela, la France, qui n’a réussi qu’à placer son président-poster un jour avant la visite d’Erdogan en Libye, apparaît sous la lumière impitoyable d’une dissolution totale ; son ministre des affaires étrangères, qui fut en son époque “le plus intelligent de sa génération”, s'emploie actuellement à la tâche hautement louable et profitable de faire en sorte que les USA n'apparaissent pas trop isolés lors de leur vote à l'ONU contre la reconnaissance de l'Etat palestinien.... Il est temps que les Français aillent aux urnes, pour s’occuper, puisque la Turquie s'occupe de tout. (Ce qui est effectivement et concrètement le cas : d’une façon générale, les journalistes français de “politique étrangère” des organes-Système les plus réputés, lorsqu’ils sont sollicités par des organismes internationaux pour des visites, des conférences, des rencontre, etc. répondent depuis septembre qu’ils sont totalement mobilisés par l’élection présidentielle. C’est effectivement là que se passent les choses…)

Révolte, irrationnel, cosmicité et... pseudo-antisémitisme

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

Révolte, irrationnel, cosmicité et... pseudo-antisémitisme

par Michel FROISSARD

Ex: http://vouloir.hautetfort.com/

[Pour Matthes, Mattheus et Bergfleth, la philosophie doit se replonger dans l'élémentaire de la vie et de la mort et quitter le petit monde politisé dans lequel les tenants de l'École de Francfort et Habermas avaient voulu l'enfermer. Le jeu d'ombre de cette photographie expressionniste de Frantisek Drtikol exprime bien l'émergence d'une féminité élémentaire où se mêlent désirs érotiques et engouements pour les puissances de le physis. Le mélange d'érotisme et de thanatomanie se répère dans les sculptures tombales. La photographe Isolde Ohlbaum a consacré un ouvrage illustré à cet art des cimetières (Denn alle Lust will Ewigkeit : Erotische Skulpturen auf europäischen Friedhöfen, Greno, Nördlingen). Plus bas, une photographie tirée de ce livre.]

Contre les pensées pétrifiées, il faut recourir à la révolte, disent les animateurs de la maison d'éditions Matthes & Seitz de Munich, éditrice des textes les plus rebelles de RFA et propagatrice de la pensée d'un Bataille et d'un Artaud, d'un Drieu et d'un Dumézil, d'un Leiris et d'un Baudrillard. Attentifs au message de cette inclassable pensée française, rétive à toute classification idéologique, Matthes, Mattheus et Bergfleth, principales figures de ce renouveau, si impertinent pour le conformisme de la RFA, estiment que c'est par ce détour parisien que la pensée allemande prendra une cure de jouvence. Mattheus et Matthes avaient, fin 1985, publié une anthologie de textes rebelles qu'ils avaient intitulée d'une phrase-confession, inspirée de Genet : “Ich gestatte mir die Revolte” (Je me permets la révolte...). Leur révolte, écrit l'essayiste hongrois Laszlo Földényi, dans une revue de Budapest, n'a rien de politique ; elle ne se réfère pas à telle ou telle révolution politique concrète ni à l'aventure soixante-huitarde ni à de quelconques barricades d'étudiants ; elle se niche dans un héritage culturel forcément marginal aujourd'hui, où notre univers est club-méditerranisé, elle campe dans de belles-lettres qui avivent les esprits hautains, s'adressent à des cerveaux choisis.

Une révolte à dimensions cosmiques

Ces derniers, eux, doivent se réjouir d'une anthologie où Hamann et Hebbel sont voisins de Céline et de Bataille, et où tous ces esprits éternels conjuguent leur puissance pour dissoudre les pétrifications, pour sauver la culture de ce que Friedrich Schlegel nommait la « mélasse de l'humanisme » (Sirup des Humanismus). “Révolte”, ici, n'implique aucune démonstration de puissance politique, de force paramilitaire et/ou révolutionnaire, note Földényi, mais, au contraire, une retenue avisée de puissance, dans le sens où Mattheus et Matthes nous enseignent à nous préparer à l'inéluctable, la mort, pour jouir plus intensément de la vie ; de renoncer aux pensées unilatérales : « L'extrémisme politique institutionalisé transforme souvent l'État en maison d'arrêt : c'est là la forme déclinante de la radicalité... ».

Les réflexions cosmiques d'un Bataille, les outrances céliniennes recèlent davantage de potentialités philosophiques, affirment Matthes et Mattheus, que les programmes revendicateurs, que les spéculations strictement sociologiques qui se sont posés comme objets de philosophie dans l'Allemagne de ces 3 ou 4 dernières décennies. Contrairement à Camus, moraliste, et aux exégètes de l'École de Francfort, Matthes, Mattheus et Bergfleth pensent que la “Révolte”, moteur de toute originalité de pensée, ne vise pas à l'instauration d'un Bien pré-défini et que l'activité humaine ne se résume pas à un processus sociologique de production et de reproduction ; elle indique bien plutôt cette “Révolte” à dimensions cosmiques, l'expression des outrances les plus violentes et les plus audacieuses de l'âme humaine qu'aucune codification de moralistes étriqués et qu'aucun utilitarisme calculateur ne pourront jamais appréhender dans leur totalité, dans leur profusion cosmique et tellurique.

La “Révolte” comme force innée

La raison des philosophes et des idéologues n'est qu'un moyen pratique et commode pour affronter une quotidienneté sans reliefs importants. Dans une lettre du peintre André Masson, reproduite dans l'anthologie de Matthes et Mattheus, on trouve une réflexion qui rejoint la préoccupation du groupe éditorial munichois : aucun enthousiasme révolutionnaire n'est valable, s'il ne met pas à l'avant-plan les secrets et les mystères de la vie et de la mort. C'est pourquoi l'attitude “Révolte” détient une supériorité intrinsèque par rapport au phénomène “révolution” qui, lui, est limité dans un espace-temps : il commence et il se termine et, entre ces 2 points, une stratégie et une tactique ponctuelles s'élaborent.

La “Révolte”, elle, est “primitive” et “a-dialectique” ; elle fait irruption à des moments intenses et retourne aussitôt vers un fonds cosmo-tellurique d'où, récurrente, elle provient, revient et retourne. La “Révolte” est un principe constant, qu'une personnalité porte en elle ; elle est un sentiment, une attitude, une présence, une rébellion. La plupart des hommes, faibles et affaiblis par nombre de conformismes, oublient ce principe et obéissent aux “ordres pétrifiés” ou remplacent cette force innée par une caricature : la dialectique oppositionnelle.

Et si le dialecticien politisé croit à un “télos” bonheurisant, sans plus ni projets ni soucis, réalisable dans la quotidienneté, le “révolté”, être d'essence supérieure, sait la fragilité de l'existence humaine, et, dans la tension qu'implique ce savoir tragique, s'efforce de créer, non nécessairement une œuvre d'art, mais un ordre nouveau des choses de la vie, frappé du sceau de l'aventureux. Avec le romantique Novalis, Matthes et Mattheus croient à la créativité de ce rassemblement de forces que l'homme, conscient de sa fragilité, est capable de déployer.

Retour à l'irrationnel ?

[Sculpture érotique d'une tombe. Photographie d'I. Ohlbaum. « Tout désir veut l'éternité » : tel est le titre de son superbe recueil de photographies, renvoyant à ce fameux vers de Nietzsche : « Doch alle Lust will Ewigkeit – will tiefe, tiefe Ewigkeit ! » (Also sprach Zarathustra)]

Témoignent de cette créativité foisonnante toutes les poésies, toutes les œuvres, toutes les pensées imperméables aux simplifications politiciennes. C'est précisément dans cette “zone imperméable” que la philosophie ouest-allemande doit retourner, doit aller se ressourcer, afin de briser le cercle vicieux où elle s'enferre, avec pour piètre résultat un affrontement Aufklärung-Gegenaufklärung, où l'Aufklärung adornien donne le ton, béni par les prêtres inquisiteurs du journalisme. Pour Matthes et Mattheus, tout prosélytisme est inutile et rien ne les poussera jamais à adopter cette répugnante praxis. La “Révolte” échappe à l'alternative commode “rationalisme-irrationalisme”, comme elle échappe aux notions de Bien et de Mal et se fiche de tout establishment.

Le carnaval soixante-huitard n'a conduit à aucun bouleversement majeur, comme l'avait si bien prévu Marcel Jouhandeau, criant aux étudiants qui manifestaient sous son balcon : « Foutez-moi le camp ! Dans dix ans, vous serez tous notaires ! ». La tentation politicienne mène à tous les compromis et à l'étouffement des créativités. L'objectif de Matthes et Mattheus, c'est de recréer un climat, où la “Révolte” intérieure, son “oui-non” créateur, puisse redonner le ton. Un “oui” au flot du devenir, aux grouillements du fonds de l'âme et à la violence puissante des instincts et un “non” aux pétrifications, aux modèles tout faits. C'est au départ de cet arrière-plan que se développe, à Munich, l'initiative éditoriale de Matthes. Ce dernier précise son propos dans une entrevue accordée à Rolf Grimminger  :

« Le traumatisme des intellectuels allemands, c'est “l'irrationalisme”. Le concept “irrationalisme” a dégénéré en un terme passe-partout, comme le mot “fascisme” ; il ne signifie plus rien d'autre qu'une phobie, que j'aimerais, moi, baptiser de “complexe de l'irrationalisme”. Je pose alors la question de savoir dans quelle mesure la raison est si sûre d'elle-même quand elle affronte son adversaire, aujourd'hui, avec une telle véhémence d'exorciste. Fébrile, la raison diffame tout ce qui lui apparaît incommensurable et sa diffamation use des vocables “non-sens”, “folie”, “anormalité”, “perversion”, bref le “mal” qu'il s'agit d'exclure.

Par cette exclusion, on exclut l'homme lui-même : tel est mon argument personnel. La raison n'est et n'a jamais été une valeur en soi ; il lui manque toute espèce de souveraineté ; elle est et reste un pur moyen pratique. L'homme, pour moi, est certes un animal doté de raison, mais il n'est pas assermenté à la raison et ses potentialités et ses aspirations ne s'épuisent pas dans la raison. Et celui qui affirme le contraire, ne peut avoir pour idéal que le camp de travail » (Die Ordnung, das Chaos und die Kunst, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1986, p. 253).

En France : la Cité ; en Allemagne : la Raison

Le lecteur français, en prenant acte de tels propos, ne percevra pas immédiatement où se situe le “scandale”... En France, la polémique tourne autour des notions d'universalisme et de cosmopolitisme, d'une part, et d'enracinement et d'identité, d'autre part. BHL parie pour Jérusalem et la Loi, qui transcendent les identités “limitantes”, tandis qu'un Gérald Hervé, condamné au silence absolu par les critiques, parie pour Rome, Athènes et les paganités politiques (in : Le mensonge de Socrate ou la question juive, L'Âge d'Homme, 1984). Dans la querelle actuelle qui oppose philo-européens et philo-sémites (car tel est, finalement, qu'on le veuille ou non, le clivage), le débat français a pour objet premier la Cité et celui de la citoyenneté-nationalité), tandis que le débat allemand a la question plus abstraite de la raison.

La Raison, que dénoncent Bergfleth et Matthes, est, en RFA, l'idole érigée dans notre après-guerre par les vainqueurs américains et aussi la gardienne conceptuelle d'une orthodoxie et la garante d'un culpabilisme absolu. Pour provoquer l'establishment assis sur ce culte de la raison, établi par l'École de Francfort, et ce philo-sémitisme obligé, soustrait d'office à toute critique, Bergfleth écrit, au grand scandale des bien-pensants :

« La judéité des Lumières (aufklärerisches Judentum) ne peut, en règle générale, appréhender le sens de la spécificité allemande, des nostalgies romantiques, du lien avec la nature, du souvenir indéracinable du passé païen germanique... ».

Ou, plus loin :

« Ainsi, une nouvelle Aufklärung a généré un non-homme, un Allemand qui a l'autorisation d'être Européen (CEE, ndlr), Américain, Juif ou autre chose, mais jamais lui-même. Grâce à cette rééducation perpétrée par la gauche, rééducation qui complète définitivement sa défaite militaire, ce non-homme est devenu travailleur immigré dans son propre pays, un immigré qui reçoit son pain de grâce culturel des seigneurs cyniques de l'intelligentsia de gauche, véritable mafia maniant l'idéologie des Lumières ».
 

L'inévitable reproche d'antisémitisme

Plus pamphlétaire que Gérald Hervé, moins historien, Bergfleth provoque, en toute conscience de cause, le misérable Zeitgeist ouest-allemand ; il brise allègrement les tabous les plus vénérés des intellectuels, éduqués sous la houlette de Benjamin et d'Adorno et de leurs nombreux disciples. Son complice Matthes, qui ne renie nullement ce que Benjamin et Adorno lui ont apporté, estime que si ce philo-sémitisme est absolu et exclut, parce qu'il est asséné en overdose, des potentialités intellectuelles, philosophiques, culturelles et humaines, il limite la liberté, occulte des forces sous-jacentes que le philosophe a le devoir de déceler et de montrer au grand jour. Une telle attitude n'est pas assimilable à l'anti-sémitisme militant habituel, pense Matthes : la critique d'une pensée issue de la théologie judaïque est parfaitement légitime. Cette critique n'exclut pas d'office ce que la théologie et le prophétisme judaïques ont apporté à la culture humaine ; elle a pour objectif essentiel de ne laisser aucune culture, aucun héritage, en marge des spéculations contemporaines.

La philosophie ne consiste pas à répéter une vérité sue, déjà révélée, à encenser une idole conceptuelle par des psaumes syllogistiques, mais de rechercher au-delà de la connaissance “ce que la connaissance cache”, c'est-à-dire d'explorer sans cesse, dans une quête sans fin, le fond extra-philosophique, concret, tangible, tellurique, l'humus prolifique, la profusion infinie faite d'antagonismes, qui précèdent et déterminent toutes les idées. Où est l'anti-sémitisme propagandiste dans une telle démarche, à l'œuvre depuis les Grecs pré-socratiques ? Peut-on sérieusement parler, ici, d'anti-sémitisme ? Ce simple questionner philosophique qui interroge l'au-delà des concepts ne saurait être criminalisé, et s'il est criminalisé et marqué du stigmate de l'anti-sémitisme, ceux qui le criminalisent. sont ridicules et sans avenir fecond.

Les aphorismes de Mattheus

Criminaliser les irrationalismes, cela a été une marotte de l'après-guerre philosophique allemand, sous prétexte d'anti-fascisme. En France, il restait des espaces de pensée irrationaliste, en prise sur la littérature, avec Artaud, Bataille, Genet, etc. C'est le détour parisien que s'est choisi Bernd Mattheus, éditeur allemand d'Artaud et biographe de Bataille, pour circonvenir les interdits de l'intelligentsia allemande. Celle-ci, dans son dernier ouvrage, Heftige Stille (Matthes & Seitz, 1986), n'est pas attaquée de front, à quelques exceptions près ; le style de vie cool, soft, banalisé, consumériste, anhistorique, flasque, rose-bonbon, empli de bruits de super-marchés, de tiroirs-caisses électroniques, qu'indirectement et malgré la critique marcusienne de l'unidimensionalité, la philosophie francfortiste de la raison a généré en RFA, est battu en brèche par des aphorismes pointus, inspirés des moralistes français, qui narguent perfidement les êtres aseptisés, purgés de leur germanité, qui ont totalement (totalitairement ?) assimilé au thinking packet franfortiste, comme ils ingurgitent les lunch packets de Mac Donald.

Laissons la parole à Mattheus :

« Ô combien ennuyeux l'homme qui n'a plus aucune contradiction » (p. 102).

« Ne jamais perdre de vue la lutte contre la pollution de notre intériorité » (p. 123).

« Le désenchantement rationaliste du monde, c'est, d'après Ludwig Klages, la triste facette du travail de l'intellect humain. Pour déréaliser le monde, on peut se servir soit de la ratio soit de la folie. Mais chacune de ces deux voies indique que l'homme ne peut supporter le monde réel tel quel et cherche à s'en débarrasser. Si l'on juge ces deux voies d'après la situation dans laquelle évoluent les sujets qui leur sont livrés, la déréalisation semble plutôt accentuer les souffrances et le désespoir ; d'où le dilemme : soit bêtifié et heureux soit fou et malheureux (Ernst Jünger) » (p. 166).

« Les systèmes libéraux n'ont nul besoin de censure ; la sélection des “biens culturels” se fait aux caisses des magasins et cette sélection-là est bien plus rigoureuse que ne le serait n'importe quelle sélection politique » (p. 183-4).

« Pourquoi Artaud, pourquoi Bataille ? Parce que j'apprécie l'ivresse lucide » (p. 257).

Une stratégie de l'attention

Disloquer les certitudes francfortistes, et le “prêt-à-penser” médiatique qu'elles ont généré, passe par un plongeon dans l'extra-philosophique et par ce style aphoristique de La Rochefoucauld, déjà préconisé par Nietzsche. Prendre connaissance, dans l'espace linguistique francophone, du travail de Bergfleth, Matthes et Mattheus, et s'habituer au climat qu'ils contribuent à créer à l'aide de productions philosophiques françaises, c'est travailler à la constitution d'un axe franco-allemand autrement plus efficace et porteur d'histoire que la ridicule collaboration militaire dans le cadre de l'OTAN, où les dés sont de toute façon pipés, puisque l'Allemagne et son armée n'ont aucun statut de souveraineté. De notre part, l'initiative de Bergfleth, Matthes et Mattheus, doit conduire à une efficace stratégie de l'attention.

♦ Bernd Mattheus, Axel Matthes (Hrsg.), Ich gestatte mir die Revolte, Matthes & Seitz, München, 1985, 397 S., 22

♦ Laszlo FÖLDENYI, article paru à Budapest, reproduit dans le catalogue 1986 de la maison Matthes & Seitz.

Michel Froissard, Vouloir n°40-42, 1987.

jeudi, 22 septembre 2011

Pro-Al Qaeda brigades control Qaddafi Tripoli strongholds seized by rebels

Pro-Al Qaeda brigades control Qaddafi Tripoli strongholds seized by rebels

DEBKAfile E

Ex: http://www.debka.com/


Abd Al-Hakim Belhadj, pro-Al Qaeda LIFG chief

Members of the Al Qaeda-linked Libyan Islamic Fighting Group – LIFG, are in control of the former strongholds of Muammar Qaddafi captured by Libyan rebels last Sunday, Aug. 21, debkafile reports from sources in Libya. They are fighting under the command of Abd Al-Hakim Belhadj, an al Qaeda veteran from Afghanistan whom the CIA captured in Malaysia in 2003 and extradited six years later to Libya where Qaddafi held him in prison.

Belhadj is on record as rejecting any political form of coexistence with the Crusaders excepting jihad.

His brigades were the principal rebel force in the operation for the capture of Qaddafi's Bab al-Aziziya ruling compound on Aug. 23. Saturday, Aug. 27, those brigades overran the Abu Salim district of southern Tripoli taking it from the last pro-Qaddafi holdouts in the city. Many of the prisoners released from the local jail belonged to al Qaeda.
The LIFG chief now styles himself "Commander of the Tripoli Military Council." Asked by our sources whether they plan to hand control of the Libyan capital to the National Transitional Council, which has been recognized in the West, the jihadi fighters made a gesture of dismissal without answering.

According to US and British media, at least half of the members of the NTC have moved from Benghazi to Tripoli, the key condition for the receipt of Qaddafi's frozen assets and international aid. But there is no confirmation from our sources that this has happened. Tripoli is rife with disorder, awash with weapons and prey to reciprocal allegations of atrocities. Our sources doubt that the council will be able to assert control of - or even a presence in - Tripoli any time soon. US intelligence sources in Tripoli see no sign that the NTC will be able to persuade the Islamist brigades to relinquish control of the city in the near future - or even lay down arms.


Those arms are advanced items which British and French special operations forces gave the rebels, said a senior American source. Had those NATO contingents not led the Tripoli operation, the rebels unaided would not have captured Qaddafi's centers of government.

A week after that dramatic episode, Tripoli's institutions of government have wound up in the hands of fighting Islamist brigades belonging to al Qaeda, who are now armed to the teeth with the hardware seized from Qaddafi's arsenals. No Western or Libyan military force can conceive of dislodging the Islamists from the Libyan capital in the foreseeable future.

Libya has thus created a new model which can only hearten the Islamist extremists eyeing further gains from the Arab Revolt. They may justly conclude that NATO will come to their aid for a rebellion to topple any autocratic Arab ruler. The coalition of British, French, Qatari and Jordanian special forces, with quiet US intelligence support, for capturing Tripoli and ousting Qaddafi, almost certainly met with US President Barack Obama's approval.

For the first time, therefore, the armies of Western members of NATO took part directly in a bid by extremist Islamic forces to capture an Arab capital and overthrow its ruler.
An attempt to vindicate the way this NATO operation has turned out is underway. Western media are being fed portrayals of the rebel leadership as a coherent and responsible political and military force holding sway from Benghazi in the east up to the Tunisian border in the west.

This depiction is false. Our military sources report that the bulk of rebel military strength in central and western Libya is not under NTC command, nor does it obey orders from rebel headquarters in Benghazi.
This chaotic situation in rebel ranks underscores the importance of the effort the NTC has mounted to capture Sirte, Qaddafi's home town, where most of his support is concentrated. Control of Sirte, which lies between Benghazi and Tripoli, will provide the NTC and its leader Abdul Jalil, with a counterweight for the pro-Al Qaeda brigades in control of the capital.

Krantenkoppen - September 2011 (3)

Krantenkoppen
September 2011 (3)
70-80% LIBIE IN HANDEN VAN KOLONEL KHADAFFI:
"In Bani Walid besloten stamleiders, zelfverzekerd van hun mogelijkheden, de stad niet op te geven maar haar te verdedigen tegen de NATO/rebellen tot het eind. (...) Woensdag vond een aanval door de NAVO/rebellen plaats waarbij honderden doden vielen aan de zijde van de agressors.
Een NAVO/rebellen-convooi werd aangevallen bij Tarragon waarbij 14 rebellen omkwamen":
http://nicodegeit.wordpress.com/2011/09/08/70-80-libie-in-handen-van-kolonel-kadaffi/
 
 
LIBIE: VERLIEZEN AAN NAVO-ZIJDE AANZIENLIJK:
"Volgens het Britse Ministerie van Defensie kwamen tot nu toe 35 Britten om tijdens gevechten in Libië. In werkelijkheid zou het om 1.500 tot 2.000 Britten gaan. (...) Doden aan Franse zijde: 200 tot 500. De VS: minder dan 200. Qatar: 700 tot 1.000. Deze getallen verschijnen niet in de mainstream media":
https://nicodegeit.wordpress.com/2011/09/09/libie-verliezen-aan-navo-zijde-aanzienlijk/
 
 
STRIJDERS LOYAAL AAN KHADAFFI ZEER GEMOTIVEERD:
"Libische strijdkrachten voeren aanvallen uit op NAVO-rebellen rond Sirte en op andere plaatsen. Honderden NAVO-rebellen kwamen daarbij in de afgelopen dagen om het leven":
https://nicodegeit.wordpress.com/2011/09/19/strijders-loyaal-aan-kadaffi-zeer-gemotiveerd/
 
 
LIBYE: LES PRO-KHADAFFI CAPURENT 17 'MERCENAIRES ETRANGERS':
"La plupart d'entre eux sont des Français, il y a 1 ressortissant d'un pays d'Asie qui n'a pas été déterminé, 2 Anglais et 1 Qatari":
http://fr.rian.ru/world/20110919/191117869.html
 
 
LES FORCES DU CNT SE RETIRENT EN DESORDRE DE BANI WALID:
The NATO rebels withdrew in disorder from Bani Walid, which stays under firm control of Khadaffi's army :
http://fr.news.yahoo.com/les-forces-du-cnt-se-retirent-en-d%C3%A9sordre-172709390.html
 
 
CIVILIANS JOIN GADAFFI FIGHTERS TO DEFEND HOMETOWN:
"There has been resistance from civilians, volunteers. They're above the buildings with Kalashnikovs, anti-aircraft guns, rockets and other weapons":
http://www.reuters.com/article/2011/09/17/us-libya-sirte-scene-idUSTRE78G1ZN20110917
 
 
OCCUPY WALL STREET PROTESTS:
American outrage: Thousands of New Yorkers demonstrate against Wall Street:
http://www.youtube.com/watch?v=cG_TKAJyV6k&feature=player_embedded
 
 
LE LIECHTENSTEIN DIT NON A L'AVORTEMENT:
"Le Liechtenstein a rejeté aujourd’hui la légalisation de l’avortement. (...) 52,3% des votants ont rejeté le projet ":
http://belgicatho.hautetfort.com/archive/2011/09/18/le-liechtenstein-dit-non-a-l-avortement.html
 
 
KYRGYZSTAN TO CLOSE US AIR BASE:
"An agreement on the air base with the Americans will expire in 2014 and Kyrgyzstan has no intention to extend it":
 
 
UMAN: 'Bienvenue en Belgique':
 
 
WHAT WE SHOULD HAVE BEEN TAUGHT ABOUT ECONOMICS IN HIGHSCHOOL:
 
 
BERNARD HENRI LEVY ET DES DJIHADISTES:
During his visit to Libya today, Sarkozy told a rebel leader that the regime of Algeria will be destroyed within 1 year and the regime of Iran in 3 years:
http://www.algerie360.com/algerie/bernard-henri-levy-et-des-djihadistes-%C2%ABoeuvrent%C2%BB-pour-la-disparition-de-la-nation-algerienne/
 
 
HONGARIJE VERNIETIGT ALLE GM-MAISVELDEN:
"Zo'n 400 hectare maïs, waarvan ontdekt is dat ze geteeld zijn met genetisch gemodificeerde zaden, zijn over heel Hongarije vernietigd":
http://zaplog.nl/zaplog/article/hongarije_vernietigt_alle_gm_maisvelden
 
 
BELGIAN INVESTIGATION JOURNALIST MICHEL COLLON DEBATING MINISTER OF DEFENSE PIETER DE CREM ON 9/11 AND CRIMES IN LIBYA:
 
 
PAUL JORION: SEMIOLOGIE DE LA CRISE:
Belgian professor Paul Jorion (Université de Paris VIII) at French television on September 13th 2011: "Le capitalisme c'est le système où l'argent manque toujours à l'endroit où on en a besoin":
http://www.youtube.com/watch?v=Efea8LaHdGQ&feature=player_embedded

Nouveau sondage IPSOS

 

 

L’insitut IPSOS a publié le 4 août un sondage qui dérange.

 

Donc vous n’entendrez pas trop parler de lui dans les médias, ou alors très brièvement, et les idéologues vont travailler dur pour censurer sa publication. Pourtant, il s’agit d’un raz de marée social à l’échelle européenne.

 

« Vision globale sur l’immigration », c’est son titre, a été mené entre le 15 et 28 juin auprès d’un échantillon représentatifs de citoyens de neufs pays européens : Belgique, Grande Bretagne, France, Allemagne, Hongrie, Italie, Pologne, Espagne et Suède.

 

Des sondages de ce type existent déjà, mais localement. C’est une des premières fois, à ma connaissance, que les pays européens sont sondés en même temps sur le même sujet, et que les réponses sont mises en perspective, pays par pays.

 

Je publie ci dessous le sondage complet afin que chacun puisse prendre connaissance en toute transparence des questions posées, et puisse juger de sa pertinence (1).

 

Autant dire que les résultats bouleversent tous les clichés et s’inscrivent à l’envers de la rengaine habituelle du mieux vivre ensemble et de la diversité multiculturelle. Ce n’est guère surprenant, car nous avons tous le sentiment que les médias manipulent et diabolisent ce sujet tabou.

 

Grande première, il est maintenant prouvé que les sentiments négatifs vis à vis de l’immigration ne sont pas du tout le fait des extrémistes de droite et des populistes, comme aiment à le répéter les tenants du politiquement correct et les censeurs.

 

Cela n’empêchera pas nos élites de service de continuer à le soutenir, ou de contester les résultats, mais au moins, vous êtes maintenant informé que vous n’êtes ni un pestiféré, ni un xénophobe honteux.

 

Si vous êtes d’extrême droite ou identitaire, sachez que la majorité de la population, qui n’a pas d’attirance pour le Front National, pense comme vous : « il y a trop d’immigrants en Europe ». Toute la question revient alors à ne pas franchir la ligne rouge du racisme. Trop d’immigrants ne veut pas dire qu’ils doivent être traités comme une sous-race, mais absolument pas comme des privilégiés sociaux.

 

Question : « pensez-vous qu’il y a trop d’immigrants dans votre pays ? »

 

( Bleu = beaucoup trop. Gris = ni trop ni trop peu. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

72% de la population belge affirment fortement que oui, ainsi que,

71% des anglais

67% des italiens

67% des espagnols

53% des allemands

52% des français

50% des hongrois

46% des suédois

Et, en confirmation de ce qui précède, seulement 29% des polonais, qui n’ont que 0.1% d’immigrés.

 

Premier constat : les immigrés sont majoritairement vécus comme une mauvaise nouvelle, la moyenne européenne étant 56%.

 

Second constat : ce n’est pas tant leur nombre que leur niveau d’intégration qui dérange. En France, il y a deux fois plus de musulmans que partout ailleurs en Europe. Pourtant c’est en Belgique et en Grande Bretagne, là où ils refusent le plus vigoureusement l’intégration, qu’ils sont le moins bien perçus.

 

Question : « pensez-vous que le nombre d’immigrants à augmenté ces cinq dernières années ? »

 

( Bleu = beaucoup trop. Gris = ni trop ni trop peu. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

Hélas, la réponse est un OUI écrasant. 94% en Belgique. Près de 80% des citoyens, en Italie, en Grande Bretagne, en Espagne, en Hongrie, et en France pensent que le nombre d’immigrés a énormément augmenté, tandis que 3% des européens pensent qu’il a baissé.

 

Question : « Pensez-vous que l’immigration a eu un impact positif ou négatif sur votre pays ? »

 

( Bleu = très positif. Gris = ni positif ni négatif. Vert = très négatif. Noir = ne sait pas)

 

C’est la question qui tue. Les politiques ne demandent jamais l’avis des citoyens, ou alors pour les traiter de populistes et les désigner à la vindicte    (populaire).

 

72% des belges pensent que l’impact est TRES négatif !

64% des anglais, 56% des italiens, 55% des espagnols, 54% des allemands, 54% des français en pensent autant, ce qui, sans surprise, ressemble au 57% de non du référendum suisse sur les minarets.

 

Question : « pensez-vous que l’immigration impose trop de pressions sur les services publics de votre pays (par exemple la santé, les transports, l’éducation)

 

( Bleu = beaucoup trop. Gris = ni trop ni trop peu. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

Ce sont les anglais, pour 76% d’entre eux, qui se sentent le plus sous pression, suivis de 70% des espagnols, 68% des belges, 58% des allemands, et 56% des français.

 

Question : « les immigrants font-ils de votre pays un lieu plus intéressant à vivre ? »

 

( Bleu = très certainement. Gris = ni plus ni moins. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

Ils ne sont pas nombreux, les européens qui pensent que l’immigration a un apport positif…

18% des espagnols et des italiens, 19% des belges, 28% des français, 33% des anglais et 35% des allemands. Un désastre pour ceux qui défendent, comme des lobotomisés, que l’immigration est une chance.

 

Question : « pensez-vous que l’immigration est bonne pour l’économie ? »

 

( Bleu = très. Gris = ni bonne ni mauvaise. Vert = pas bonne du tout. Noir = ne sait pas)

 

Là encore, les citoyens européens sont loin d’être convaincus ! Les journalistes auraient donc totalement échoué dans leur travail de lavage de cerveau ? Rohhhh…

18% des belges, 23% des allemands, 24% des français, et moins d’un anglais, d’un suédois, d’un espagnol et d’un italien sur trois pensent que oui.

 

Détail intéressant, il n’y a pas que les gauchistes et droit de l’hommistes qui ravaleront leur salive, en lisant ce sondage. Le Front National aussi. Son discours sur l’immigré qui prend le travail des français ne semble pas convaincre : 34% des français pensent que ce n’est pas vrai, 22% ne sont ni convaincus dans un sens ou dans l’autre, et une minorité de 41% pensent que c’est exact.

 

Coincés entre incompétence et panique, entre idéologie et police de la pensée, aucun homme politique, aucun parti politique, en France, ne tentera d’intégrer les immigrés et leurs enfants. Pas même le FN. Et comme il n’est pas question de les jeter dehors comme le font les pays musulmans avec les chrétiens et les juifs…. 

 

Reproduction autorisée avec la mention suivante et le lien ci dessous :

© Jean-Patrick Grumberg pour www.Drzz.fr

 

(1) http://www.ipsos-na.com/download/pr.aspx?id=10883

Carl Schmitt toujours plus actuel

Carl Schmitt toujours plus actuel

par Georges FELTIN-TRACOL

 

« Une métamorphose de la notion d’espace est aujourd’hui en marche, en profondeur, sur un large front, dans tous les domaines de la pensée et de l’action humaines (p. 198) », relève en observateur avisé Carl Schmitt en 1941. Lancée par la Première Guerre mondiale, accélérée par la Seconde, amplifiée par la Décolonisation, la Guerre froide et la construction européenne, puis d’autres ensembles régionaux (A.S.E.A.N., Mercosur, Union africaine…), cette mutation majeure arrive à sa plénitude dans la première décennie du XXIe siècle.

 

Les deux textes de Carl Schmitt, « Le tournant vers le concept discriminatoire de la guerre » et « Le droit des peuples réglé selon le grand espace proscrivant l’intervention de puissances extérieures. Une contribution au concept d’empire en droit international », qu’éditent en un seul volume les Éditions Krisis, agrémentés d’une préface de Danilo Zolo, d’un appareil rigoureux de notes et d’explications réalisé par Günter Maschke et assortis en appendices de deux articles hostiles d’un juriste S.S., Werner Best, apportent une nouvelle fois une puissante confirmation au cours du monde. À l’heure où l’Occident bombarde la Libye, sanctionne la Syrie et l’Iran, intervient au Kossovo, en Irak, en Afghanistan, en Côte d’Ivoire ou au Congo ex-Zaïre, les pertinences de l’auteur de la Théorie de la Constitution apparaissent visionnaires.

 

 

En dépit d’approches apparentes dissemblables, ces deux écrits sont en réalité complémentaires. En juriste classique, Schmitt considère que « le droit international, jus gentium, donc droit des gens ou des peuples, est un ordre concret, que détermine d’abord l’appartenance des personnes à un peuple et à un État (p. 144) ». Or les traités de paix de 1919 et la fondation de la Société des nations (S.D.N.) explicitement responsable du maintien de la paix entre les États, modifient le cadre juridique traditionnel. Le S.D.N., organisme supranational et embryon d’une direction politique mondiale, réhabilite les notions de « guerre juste » et de « guerres injustes », ce qui est une véritable révolution. Jusqu’en 1914, « le droit international est bel et bien un “ droit de la guerre et de la paix ”, jus belli ac pacis, et le restera tant qu’il sera un droit des peuples autonomes, organisés dans un cadre étatique, c’est-à-dire : tant que la guerre entre États, et non une guerre civile internationale (p. 41) ». Avec la nouvelle donne, Schmitt remarque que « la problématique du droit de la S.D.N. […] a très clairement mis en évidence qu’il n’agit plus, et ce depuis longtemps, de normes nouvelles, mais d’ordres nouveaux auxquels de très concrètes puissances s’efforcent de donner forme concrète (p. 47) ». Émanant du trio occidental États-Unis – France – Grande-Bretagne, une soi-disant « communauté internationale » (qui ignore la Chine, l’Inde, le Brésil, la Russie) cherche à s’imposer avec la ferme intention d’exercer un droit de regard total sur les autres souverainetés étatiques. La S.D.N. semblait prêt à susciter un tel ensemble constitutionnel planétaire flou dont la loi fondamentale deviendrait un droit international supérieur au droit des États. Dans cette perspective, « tout individu est donc en même temps citoyen du monde (au plein sens juridique du terme) et citoyen d’un État (p. 59) ».

 

Carl Schmitt devine déjà le déclin de l’État-nation, d’autant que celui-ci se retrouve sous la menace permanente de rétorsion, car, dans cette nouvelle configuration, « pour défendre la vie et la liberté des individus, même ressortissants de l’État en question, les autres gouvernements, et tout particulièrement la S.D.N., possèdent en droit international la compétence de l’intervention […]. L’intervention devient une institution juridique normale, centrale dans ce système (p. 59) ». Il en résulte un incroyable changement de paradigme dans les relations inter-étatiques. « Dès lors par conséquent qu’un ordre de droit international distingue, en vertu d’une autorité supra-étatique reconnue par les États tiers, entre guerres justifiées et injustifiées (entre deux États), l’opération armée n’est autre, du côté justifié, que mise en œuvre du droit, exécution, sanction, justice ou police internationale; du côté injustifiée, elle n’est que résistance à une action légitime, rébellion ou crime, autre chose en tous cas que l’institution juridique connue sous le nom de “ guerre ” (pp. 86 – 87). » Ces propos présentent une tonalité particulièrement actuelle avec l’existence du T.P.I.Y. (Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie) ou de la C.P.I. (Cour pénale internationale).

 

Ne nous étonnons pas ensuite que les pouvoirs occidentaux violent leurs propres constitutions. De même qu’en 1939, contre la Serbie en 1999, puis contre la Libye en 2011, les organes législatifs étatsunien, britannique ou français n’ont jamais voté la moindre déclaration de guerre. Ils ne font qu’entériner a posteriori la décision belliciste de leurs exécutifs. Il ne s’agit pas, pour ces derniers, de combattre un ennemi; il s’agit plutôt d’extirper une manifestation du Mal sur Terre. Par ailleurs, les opinions manipulées n’aiment pas le mot « guerre ». En revanche, les expressions « maintien de la paix », « défense des populations civiles », « lutte contre la dictature sanguinaire et pour la démocratie et les droits de l’homme » permettent l’adhésion facile des masses aux buts de guerre de l’hyper-classe oligarchique.

 

Bien avant George W. Bush et ses « États-voyous », Carl Schmitt parle d’« État-brigand (p. 91) ». Mieux, dès 1937, il décrit la présente époque : « lorsqu’on exerce des sanctions ou des mesures punitives de portée supra-étatique, la “ dénationalisation ” de la guerre entraîne habituellement une différenciation interne à l’État et au peuple, dont l’unité et la cohésion subissent un clivage discriminatoire imposé de l’extérieur, du fait que les mesures coercitives internationales, à ce qu’on prétend du moins, ne sont pas dirigées contre le peuple, mais seulement contre les personnes se trouvant exercer le pouvoir et leurs partisans, qui cessent par lui-même de représenter leur État ou leur peuple. Les gouvernants deviennent, en d’autres termes, des “ criminels de guerre ”, des “ pirates ” ou – du nom de l’espèce moderne et mégalopolitaine du pirate – des “ gangsters ”. Et ce ne sont pas là des expressions convenues d’une propagande survoltée : c’est la conséquence logique, en droit, de la dénationalisation de la guerre, déjà contenue dans la discrimination (p. 90) ». On croirait que Schmitt commente les événements survenus à Belgrade, à Bagdad ou à Tripoli !

 

La distinction entre le peuple et ses dirigeants tend même à s’effacer. Pressentant l’hégémonie du tout-anglais simplifié, Carl Schmitt remarque : « lorsqu’un grand peuple fixe de sa propre autorité la manière de parler et même de penser des autres peuples, le vocabulaire, la terminologie et les concepts, c’est là un signe de puissance politique incontestable (note 53, p. 169) ». Et on n’était alors qu’aux balbutiements de la radio, du cinéma et de la télévision ! L’intervention n’est pas que militaire; elle comporte aussi des facettes économiques et culturelles indéniables. Plus que les dirigeants, les idéologies ou les États, ce sont les peuples que le nouveau droit international entend éliminer. Jugeant que « l’individualisme et l’universalisme sont les deux pôles entre lesquels se meut ce système de droit international (p. 57) », Carl Schmitt prévoit qu’« avant de supprimer le concept de guerre et de passer de la guerre des États à la guerre civile internationale, il faut supprimer l’organisation étatique des peuples (p. 93) ». En outre, il importe d’exclure dans ce nouveau contexte la notion de neutralité qui amoindrirait toute intervention militaire internationale.

 

En partant du fait que « tout ensemble ordonné de peuples sédentaires, vivant côte à côte en bonne intelligence et dans le respect réciproque, relève, outre les déterminations personnelles, de l’espace ordonné d’un territoire concret (p. 144) », Carl Schmitt préconise le recours au grand espace et à l’empire. « Les mots de “ grand espace ” expriment pour nous la métamorphose des représentations de l’espace terrestre et de ses dimensions qui dicte son cours à la politique internationale d’aujourd’hui […]. Le “ grand espace ” est pour nous une notion d’actualité, concrète, historico-politique (p. 145) ». Par maintes références, Schmitt montre qu’il a lu les écrits de Karl Haushofer et qu’il suit avec un intérêt certain les nombreux travaux des géographes allemands. Dès cette époque, il nourrit sa réflexion des apports du droit et de la géopolitique.

 

Admirateur de l’État-nation, en particulier dans ses formulations française et espagnole, l’auteur n’abandonne pas le concept. Il considère seulement que tous les peuples n’ont pas à avoir leur propre État parce qu’« il faut aujourd’hui, pour un nouvel ordre planétaire, pour être apte à devenir un sujet de premier plan du droit international, un potentiel énorme, non seulement de qualités “ naturelles ”, données telles quelles par la nature, mais aussi de discipline consciente, d’organisation poussée, et la capacité de créer par ses propres forces et de gouverner d’une main sûre l’appareil d’une collectivité moderne, qui mobilise un maximum d’intelligence humaine (p. 185) ». L’empire s’impose donc dès lors.

 

On ne doit pas croire pour autant que « l’empire est plus qu’un État agrandie (p. 192) ». L’empire dépasse, transcende les souverainetés étatiques, nationales, par sa souveraineté spatiale. « L’ordre du grand espace appartient à la notion d’empire, grandeur spécifique du droit international. […] Sont “ empires ” […] les puissances dirigeantes porteuses d’une idée politique rayonnant dans un grand espace déterminé, d’où elles excluent par principe les interventions de puissances étrangères. Le grand espace n’est certes pas identique à l’empire, au sens où l’empire serait lui-même le grand espace qu’il protège des interventions […]. Mais il est certain que tout empire possède un grand espace où rayonne son idée politique, et qui doit être préservé de l’intervention étrangère. La corrélation de l’empire, du  grand espace et du principe de non-intervention est fondamentale (pp. 175 – 176). » Carl Schmitt aimerait que l’empire et le grand espace soient l’alternative à la fallacieuse « communauté internationale ».

 

On sait que l’auteur a élaboré la théorie du grand espace à partir du précédent étatsunien avec la doctrine Monroe (« L’Amérique aux Américains »). Au cours d’un discours devant le Congrès en 1823, le président James Monroe (1817 – 1825) apporte son soutien à l’émancipation des colonies espagnoles d’Amérique et dénie à la Sainte-Alliance qu’il pense fomentée depuis Londres (1) le droit d’intervenir et de rétablir l’ordre colonial. Tout au long du XIXe siècle, l’hémisphère occidental, l’ensemble continental américain, du détroit de Béring au Cap Horn, va se transformer progressivement en un espace privilégié de l’influence, directe ou non, des Étatsuniens, leur « jardin », leur « arrière-cour ». Cette doctrine n’empêchera toutefois pas la guerre de l’Espagne contre le Pérou de 1864 à 1866. Napoléon III tentera, lui aussi, de contrecarrer cette logique de domination spatiale par son action militaire au Mexique entre 1861 et 1867. Longtemps tellurocratique avec la guerre contre le Mexique (1846 – 1848) et la « conquête de l’Ouest », les États-Unis prennent une nette orientation thalassocratique après la Guerre de Sécession (1861 – 1865) (2). Ils achètent à la Russie l’Alaska en 1867, annexent les îles Hawaï en 1898, battent l’Espagne la même année, imposent un protectorat à Cuba et aux Philippines, s’emparent de Porto Rico et d’une partie des îles Vierges dans les Antilles, fomentent la sécession du Panama contre la Colombie en 1903 et achèvent le creusement du canal transocéanique. Cette politique s’accomplit vraiment sous la présidence de Theodore Roosevelt (1901 – 1909) avec des interventions militaires répétées en Amérique centrale et la médiation de paix entre la Russie et le Japon en 1905. Toutes ces actions démontrent l’intention de Washington de surveiller le continent américain en l’encadrant par le contrôle des marges maritimes et océaniques. Dès la fin des années Trente, Schmitt comprend que la Mer est « un “ espace ” de domination humaine et de déploiement effectif de la puissance (p. 190) ».

 

Toutefois, Carl Schmitt ne souhaite pas généraliser son raisonnement. Il insiste sur l’inadéquation des perceptions géostratégiques étatsuniennes et britanniques. Le grand espace étatsunien va à l’encontre de la stratégie de Londres qui « ne porte pas sur un espace déterminé et cohérent, ni sur son aménagement interne, mais d’abord et avant tout sur la sauvegarde des liaisons entre les parties dispersées de l’empire. Le juriste, surtout de droit international, d’un tel empire universel tendra donc à penser, plutôt qu’en espaces, en routes et voies de communication (pp. 163 – 164) ». En effet, « l’intérêt vital des routes maritimes, des lignes aériennes (air-lines), des oléoducs (pipe-lines) est incontestable dans l’empire disséminé des Britanniques. Disparité et opposition, en droit international, entre pensée spatiale et pensée des voies et des routes, loin d’être abolies ou dépassées, ne font que se confirmer (p. 164) ». Au zonisme continental, Schmitt met donc en évidence le linéairisme ou le fluxisme du dessein britannique et surtout anglais depuis John Dee et le XVIe siècle (3). Il en ressort que « le mode de pensée juridique qui va de pair avec un empire sans cohérence géographique, dispersé sur toute la planète, tend de lui-même aux arguments universalistes (p. 163) ». Parce que les Britanniques entendent s’assurer de la sécurité de leurs voies de communication afin de garantir le commerce maritime et la sûreté de navigation, Londres pense le monde en archipels épars alors que Monroe et ses successeurs le voient en continents.

 

Devenue puissance mondiale au cours du XXe siècle, les États-Unis adoptent à leur tour la vision britannique au grand dam des « paléo-conservateurs » et pour le plus grand plaisir des néo-conservateurs ! Avant de connaître la passation définitive du sceptre de Neptune de Londres à Washington, Carl Schmitt explique que « la “ liberté ” n’est […] rien d’autre, dans les crises de la politique, qu’une périphrase de l’intérêt, aussi particulier que compréhensible, de l’empire britannique pour les grandes voies de circulation du monde (p. 168) ». Cela implique la dissolution de toute structure ferme et l’avènement d’un brouillard conceptuel perceptible dans la formulation du droit. « Aujourd’hui, la vraie question n’est donc plus : guerre juste ou injuste, autorisée ou non autorisée ? Mais : guerre ou non-guerre ? Quant au concept de neutralité, on est déjà rendu à l’alternative : y a-t-il encore neutralité ou n’y en a-t-il plus ? (p. 85) »

 

Contre cette tendance lourde, Carl Schmitt propose le grand espace et l’empire comme concepts ordonnateurs et vecteurs du nouvel ordre de la Terre garant de la pluralité des groupes politiques humains enchâssés sur leurs terrains, leurs sites, leurs terroirs parce que « tout ordre concret, toute communauté concrète ont des contenus locaux et spatiaux spécifiques (p. 205) ». De fort belles réflexions à lire d’urgence et à méditer longuement ! Gageons enfin que cette parution déplaira à Yves Charles Zarka. On s’en réjouit d’avance !

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Cette hostilité envers la Grande-Bretagne n’est pas surprenante. La Seconde Guerre d’Indépendance américaine entre 1812 et 1815 était encore dans toutes les mémoires avec l’incendie en 1814 de la Maison Blanche de la Maison Blanche. L’apaisement définitif entre Londres et Washington se produira vers 1850.

 

2 : On peut néanmoins déceler des velléités thalassocratiques bien avant 1865. La Quasi-Guerre (1798 – 1800) contre la France est uniquement un conflit naval et économique. En août 1815, la marine de guerre étasunienne intervient en Méditerranée contre les pirateries d’Alger, de Tunis et de Tripoli (qui avait déclaré la guerre à la jeune République étatsunienne entre 1803 et 1805). En 1816, Washington négocia auprès du royaume des Deux-Siciles une base militaire et économique sur l’île de Lampedusa. Les États-Unis durent renoncer à ce projet devant le mécontentement de Londres.

 

3 : cf. Philippe Forget, « Liens de lutte et réseaux de guerre », dans Krisis, n° 33, « La guerre ? », avril 2010, en particulier pp. 149 – 153.

 

• Carl Schmitt, Guerre discriminatoire et logique des grands espaces, Paris, Éditions Krisis (5, rue Carrière-Mainguet, 75011 Paris), 2011, 289 p., 25 €, préface de Danilo Zolo, notes et commentaires de Günter Maschke, traduction de François Poncet.


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Philippe MILLIAU: Le localisme face à l'ordre mondial et à la destruction de la terre

Philippe MILLIAU: Le localisme face à l'ordre mondial et à la destruction de la terre

mercredi, 21 septembre 2011

Schockierende Wahrheit über London-Krawalle: Zwei Drittel der Randalierer waren Intensivstraftäter

Schockierende Wahrheit über London-Krawalle: Zwei Drittel der Randalierer waren Intensivstraftäter

Udo Ulfkotte

 

Erinnern Sie sich noch an die »sozialen Proteste« in London? So jedenfalls nannten unsere Systemmedien die Plünderungen und Brandstiftungen im August 2011. In den seither vergangenen Wochen haben britische Gerichte über viele der angeblich »sozial benachteiligten Protestierer« urteilen müssen. Und nun kommt die schockierende Erkenntnis: Zwei Drittel der »Demonstranten« waren kriminelle Intensivstraftäter, die eigentlich im Gefängnis hätten sitzen müssen.

 

Die Fakten: Drei Viertel jener Randalierer, gegen die nach den schweren August-Unruhen in britischen Städten ein Ermittlungsverfahren eingeleitet wurde oder die schon abgeurteilt wurden, haben eine kriminelle Vergangenheit. Geheimdienste und die britische Polizei hatten das ja schon vor einem Monat öffentlich behauptet – nur gab es bislang keine Beweise dafür. Und deshalb ignorierten es viele Medien und sprachen von »sozialen Protesten«. Doch nun liegen offizielle Statistiken nach tausenden von Verurteilungen vor: Die Täter haben demnach VOR ihrer Beteiligung an den Plünderungen und Brandstiftungen schon jeweils durchschnittlich 15 Straftaten begangen, für die sie auch verurteilt wurden. Doch zwei Drittel dieser Intensivstraftäter erhielten immer nur Bewährungsstrafen. Jeder vierte jugendliche Randalierer hatte mehr als zehn Straftaten vor den London-Unruhen verübt, jeder zwanzigste schon mehr als fünfzig!

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/udo-ulfkotte/schockierende-wahrheit-ueber-london-krawalle-zwei-drittel-der-randalierer-waren-intensivstraftaeter.html

José Javier Esparza - 'El libro negro de la izquierda española'

 

PD entrevista a José Javier Esparza - 'El libro negro de la izquierda española' - 17 mayo 2011

La révolte des intellectuels contre le Système

La révolte des intellectuels contre le Système

par Andrea MASSARI

La dissidence des intellectuels a précédé la chute de l’Union Soviétique. La révolte des intellectuels contemporains pourrait bien annoncer la chute de l’empire cosmopolite. Certes, les oligarques du Système sont puissants : ils possèdent l’argent et contrôlent les médias classiques. Mais le pouvoir de ces oligarques est triplement menacé : par la révolte populiste, par la révolte numérique mais aussi par la révolte des intellectuels. Philosophes, anthropologues, économistes, géopoliticiens, géographes et sociologues sont de plus en plus nombreux à contester le désordre établi. À l’écart d’une actualité hollywoodienne, Andrea Massari nous propose de prendre un peu de hauteur… Explications (Polémia).

Les philosophes à la quête du sens

 

Dans les années 1950, la majorité des philosophes étaient marxistes; ils sont devenus droits-de-l’hommistes dans les années 1970 – 1980. Aujourd’hui, beaucoup de philosophes sont des critiques acerbes de la modernité et portent souvent la parole d’un retour à la tradition. C’est le cas de Jean-François Mattéi, auteur de La Barbarie intérieure et du Procès de l’Europe. C’est le cas de Philippe Nemo, auteur de La Régression intellectuelle de la France. Chantal Delsol dénonce, elle, L’Âge du Renoncement. Et avec une grande rage littéraire l’écrivain Richard Millet dénonce La Fatigue du sens et l’horizontalité du monde. Un pamphlet philosophique éloigné de toute bien-pensance et frappé du sceau de la radicalité.

 

Le grand retour des frontières

 

Dans la novlangue contemporaine le mot frontières était devenu tabou : on n’en parlait pas, si ce n’est pour les… supprimer. Régis Debray a brisé le tabou en publiant un Éloge des frontières. L’éloge des frontières, c’est aussi le fil rouge du livre fulgurant d’Hervé Juvin : Le Renversement du monde. L’économiste et anthropologue rejoint ainsi le philosophe. L’un et l’autre chez Gallimard.

 

La réhabilitation du protectionnisme

 

Face à la grande menace industrielle, le vieux gaulliste Jean-Noël Jeanneney avait publié, en 1978, Pour un nouveau protectionnisme. En forme de chant de cygne car depuis la fin des années 1970, c’est le libre-échange qui donne le tempo. Parvenant même à faire censurer le Prix Nobel Maurice Allais. Cette époque de censure est révolue : des économistes osent aujourd’hui s’afficher protectionnistes : Jacques Sapir et Jean-Luc Gréau ont rejoint Gérard Dussouy, théoricien de la mondialité, et Alain Chauvet (Un autre monde : Protectionnisme contre prédation).

 

Sociologues et géographes portent un regard critique sur l’immigration

 

Le géographe Christophe Guilly a jeté un pavé dans la mare avec ses Fractures françaises. Il y montre l’ampleur des fractures ethniques. Fractures ethniques qui ne sont pas forcément sociales : car on est plus riche (monétairement parlant, en tout cas) en Seine-Saint–Denis que dans la Creuse. De son côté, Malika Sorel tient Le langage de vérité [sur] Immigration, Intégration. Dans les mêmes perspectives que Michèle Tribalat (de l’I.N.E.D.) dans Les Yeux grands fermés (L’Immigration en France) ou Hugues Lagrange dans Le déni des cultures.

 

Le grand retour de la géopolitique

 

Chaque année le festival de géopolitique de Grenoble, organisé par Pascal Gauchon et Jean-Marc Huissoud, marque le retour des intellectuels vers les préoccupations de puissance : Aymeric Chauprade, auteur de Chronique du choc des civilisations, peut y croiser Pascal Boniface, auteur de Atlas du monde global et pourfendeur des Intellectuels faussaires. Hors champ, on ne saurait oublier le général Desportes, ancien directeur de l’École de guerre et critique des guerres américaines. Ni Alain Soral, qui ne veut pas seulement Comprendre l’empire mais le combattre. Ni Christian Harbulot, théoricien de la guerre économique. Ni François-Bernard Huyghe, lumineux médiologue.

 

Le dévoilement de l’art « contemporain »

 

L’art « contemporain » a plus… d’un siècle. Il est plus que… centenaire ! Il est né dans les années 1890 et trône dans les musées depuis L’Urinoir de Duchamp en 1917 ! Mais les critiques de l’art « contemporain » sont de plus en plus nombreuses et acerbes. Jean-Philippe Domecq annonce que « l’art du contemporain est terminé ». Ces Artistes sans art sont aussi critiqués par Jean Clair, académicien et ancien directeur du Musée Picasso, dans L’hiver de la culture et Dialogue avec les morts. Sans oublier les charges argumentées d’Aude de Kerros (L’art caché), de Christine Sourgins (Les mirages de l’art contemporain), de Jean-Louis Harouel (La grande falsification de l’art contemporain) ou d’Alain Paucard (Manuel de résistance à l’art contemporain).

 

La dénonciation des oligarchies

 

Il y a dix ans, les « oligarques » désignaient des dirigeants russes plus ou moins mafieux qui s’enrichissaient sur les ruines de l’ex-Union soviétique. Aujourd’hui, la critique des oligarchies a franchi le mur de l’ex-« Rideau de fer ». Apôtre de la démocratie directe, Yvan Blot publie L’Oligarchie au pouvoir. Il se trouve en compagnie d’Alain Cotta dénonçant Le Règne des oligarchies et d’Hervé Kempf qui publie, au Seuil, L’Oligarchie, ça suffit, vive la démocratie. Et le libéral Vincent Bénard, directeur de l’Institut Hayek, dénonce les « oligarchismes ». Un point de vue que reprend d’une autre manière, l’anthropologue Paul Jorion dans Le Capitalisme à l’agonie. Ainsi cinq auteurs, partant de cinq points de vue différents, convergent dans la même critique. À la place des oligarques, on s’inquiéterait !

 

Les neurosciences contre la télévision et les pédagogies nouvelles

 

Des milliers d’études scientifiques ont établi la malfaisance de la télévision sur la santé (obésité, maladies cardio-vasculaires) et le développement intellectuel en particulier des jeunes enfants. Avec TV lobotomie, Michel Desmurget en fait un point sans concession, frappant au cœur l’instrument central de contrôle des esprits.

 

Les neurosciences offrent aussi des arguments décisifs contre les pédagogies dites « nouvelles » dont les ravages dans l’éducation sont constamment dénoncés, notamment par Laurent Lafforgue, médaille Fields.

 

Un bouillonnement fécond

 

Ce qui est frappant dans ce nouveau paysage intellectuel, c’est la diversité de ceux qui le composent. Il y a les établis et les marginaux : ceux qui ont pignon sur rue chez Gallimard et au Seuil, et ceux qui publient leurs livres à la limite de l’auto-édition. Qu’importe, les uns et les autres rencontrent le succès grâce à Amazon notamment.

 

Il y a ceux qui viennent des rives de la gauche et du marxisme et ceux qui s’assument réactionnaires. Il y a des libéraux lucides et des lecteurs de Krisis. Il y a des catholiques, des laïcs et des panthéistes. Il y a ceux qui sortent de trente ans de bien-pensance et ceux qui luttent depuis trente ans contre la bien-pensance. Il y a aussi tous ceux qui viennent de nulle part mais qui respectent les faits.

 

Le pouvoir des oligarques et l’ordre politiquement correct (mondialiste, « antiraciste », libre-échangiste, en rupture avec les traditions) sont placés sous un triple feu : les mouvements populistes, la bloguosphère dissidente et les intellectuels en rupture. Gageons que les événements qui viennent les feront converger !

 

Andrea Massari

 

D’abord mis en ligne sur Polémia, le 7 juillet 2011.

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Le Combat de demain


Le Combat de demain 

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mardi, 20 septembre 2011

Pierre Vial: Pourquoi fêtons-nous le cochon?


Pierre Vial: Pourquoi fêtons-nous le cochon?

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Die Schlagkraft des Aussenseiters: Das Werk Friedrich Sieburgs

 

Die Schlagkraft des Aussenseiters: Das Werk Friedrich Sieburgs

Geschrieben von: Daniel Bigalke

Ex: http://www.blauenarzisse.de

   

 

Die Schlagkraft des Außenseiters liegt in seinem Exotismus, der ihn zu einem gefährlichen Wesen macht. Er genehmigt sich den Luxus der Stille oder des Genusses großer geistiger Werke und übt wirksame Kritik – an liberalen Irrwegen oder immanenten Fehlern politischer Progressivität. Es gab nur wenige Intellektuelle der Nachkriegszeit, die als Konservative dieses Außergewöhnliche repräsentierten und trotzdem in ihrem Wirken ernst genommen wurden. Zu ihnen gehört der Schriftsteller, Literaturkritiker und Journalist Friedrich Sieburg (1893-1964).

Die frühe Bundesrepublik galt Sieburg als entwurzelt

Anfangs dem George-Kreis nahe stehend und später einer großen Öffentlichkeit bekannt durch seine Zeitungsartikel und Bücher, wie etwa Gott in Frankreich? von 1929, wurden einige seiner Schriften in der Sowjetischen Besatzungszone auf die Liste der auszusondernden Literatur gesetzt. Dies war auch dem Umstand zu verdanken, dass Sieburg anfänglich die nationalsozialistische Machtergreifung begrüßte und für das „neue Deutschland” warb. Dem westlichen Deutschland blieben seine politischen und philosophischen Urteile nicht verborgen. Denn Sieburg wurde nicht müde, sie plakativ in den Mittelpunkt der Debatte zu rücken. Ihm erschien die Bundesrepublik als entwurzelte Zone, die vom Konformismus ohne eigene geistige Leistungen geprägt sei.

sieburg.jpgSieburg hörte nicht auf, den Mangel an Sittlichkeit und Höflichkeit in der Gesellschaft als Wucherungen anzusehen, zu denen nur westliche Demokratien als Mekka der Vulgarität und der Bequemlichkeit des Einzelnen in der Lage seien. Er beschrieb zudem das Dilemma, ohne Traditionsbewusstsein dem Zeitgeist zu verfallen und so die Vergangenheit nicht verarbeiten zu können, der man sich nach 1945 nur schwerlich stellen konnte. Stattdessen gehe der Mensch in einer anonymen Menge unter, der eine einigende Idee fehle und in der soziale Bindungen kaum noch durch Familie und Fleiß und vielmehr über staatliche Transferleitungen erlogen werden.

Präzise Analyse der deutschen Mentalität

Wo liegen für Sieburg die Ursachen dieser Entwicklung? Als Motor dafür macht er die Traditionslosigkeit der Deutschen aus, die sich nach dem Kriege ohne Vorbehalte der Gegenwart verschrieben, den Verlockungen des Konsums erlagen und sich durch Suche nach Vorteilen in neue Abhängigkeiten begaben. Damit eröffnet sich auch schon sein bedeutsames Schwerpunktthema: Das mangelnde Identitätsbewusstsein der Deutschen, die fehlende „deutsche Ganzheit“ im Vergleich zur englischen oder französischen Situation.

Sieburg knüpft damit an eine Idee an, welche schon der Philosoph Rudolf Eucken (1846-1926) in seiner Schrift Zur Sammlung der Geister (1914) – freilich in einem anderen historischen Zusammenhalt - formulierte. Identität, Sorgfalt, feste Bindungen und inneres Wachstum des Menschen seien in Deutschland zu erstreben anstelle materialistischer Indienstnahme. Zugleich bestehe bei den Deutschen – folgt man nun wieder Sieburg - gerade durch den Anspruch des inneren Wachstums des Menschen eine Position des Schwankens zwischen extremen Zuständen. Größenwahn und Selbsthass, Provinzialismus und Weltbürgertum etwa würden sich von Zeit zu Zeit im politischen Handeln und geistigen Wirken der Deutschen kundtun.

Die Lust am Untergang (Selbstgespräche auf Bundesebene)

In der Tat sind dies etwa für die deutsche Philosophie über Fichte oder Hegel teilweise typische Eigenschaften. Für Sieburg können diese sich sogar im Politischen ebenso wie im Geistigen konkret über großartigen Ideenreichtum aber auch über schreckliche Selbstüberheblichkeit auswirken. Kaum ein anderer deutscher Intellektueller erkannte nach dem Weltkrieg diese geistige Disposition so wie Sieburg. Er brachte das quasi dialektische Problem auf den Punkt indem er meinte, die Deutschen litten am Unvermögen zur pragmatischen Lebensform auf der einen Seite und am (idealistischen) Hang zum Absoluten und zur Freiheit auf der anderen Seite. Besonders scharf formulierte Sieburg dies in seiner Essaysammlung Die Lust am Untergang (Selbstgespräche auf Bundesebene) von 1954.

Hegel würde in seiner Staatsphilosophie hier noch zustimmend meinen, daß gerade der deutsche Drang zur absoluten Freiheit besonders charakteristisch gegenüber anderen europäischen Völkern sei. Demgemäß hätten sich die Deutschen nicht der Herrschaft eines einzigen Staates oder einer einzigen Religion aus Rom unterworfen. Sieburg steht aber mit seiner Erkenntnis des dialektischen Problems der deutschen Mentalität nicht in der Tradition eines deutschen Sonderbewusstseins. Sein nietzscheanisches Pathos der Distanz beschritt erfolgreich den Weg, nationale Identität zu stiften durch die Bewunderung der geistigen Ausstrahlung und der Leistungsfähigkeit, deren das Deutsche zeitweise fähig sei, ohne die dabei ebenso möglichen Risiken und tiefen Abgründe auszublenden.

Das Los des schöpferischen Menschen

Sieburg verkörpert das Los des schöpferischen Menschen. Er litt an seiner Heimat, ohne sie entbehren zu können. Er verachtete ihre Mittelmäßigkeit, nahm diese aber ernst und analysierte sie, um aus der Erkenntnis ihrer Ursachen neue Wege der Identitätsfindung für das Deutschland der Nachkriegszeit abzuleiten. Er liefert damit auch eine pragmatische Definition des Konservativismus, die aus einer freien Haltung heraus resultiert. Konservatismus möchte für Sieburg mehr, als die simplen Denkschablonen der sogenannten „Mitte“ und ihre immer wiederkehrenden Reproduktionen politischer Feindbilder.

Die öden Versprechen von dauerhaftem Wohlstand und Konsumkraft seien nur ein Beispiel des wiederkehrenden deutschen Abgrundes und seiner idealistischen Ziele, denen es an Pragmatismus und Realismus fehle. Sieburgs Überlegungen beeindrucken durch die Schlagkraft des Exoten. Sie vermitteln zwischen deutscher idealistischer Tradition in der Philosophie und der Notwendigkeit des politischen Realismus in der frühen Nachkriegszeit.

Sieburg und Thomas Mann

Dieser Realismus benötige laut ihm keine Heilsversprechen. Zugleich findet man eine überzeugend formulierte mediale Inkompatibilität vor, die mit ihren Reflexionen zu den Folgen einer absoluten Demokratisierung des Menschen und der Gesellschaft oder mit der schlüssigen Analyse der deutschen Mentalität herzhaft erfrischt und an Thomas Manns Betrachtungen eines Unpolitischen (1918) erinnert.

Freilich sind die Schriften Sieburgs wesentlich authentischer, da dieser sich nicht von seinen Analysen distanzierte, wie dies Thomas Mann schon recht früh mit Blick auf seine Betrachtungen von 1918 tat. Zugleich lobte Sieburg Thomas Manns Gesamtwerk überschwänglich. Das spiegeln auch zahlreiche Urteile literarischer Zeitgenossen über Sieburg wider. Damit hat Friedrich Sieburg heute in seiner analytischen Tiefe viel mehr zu bieten als so manche stilisierte Ikone der deutschen Literatur nach 1945.

lundi, 19 septembre 2011

Débat entre Aymeric Chauprade et Pierre Conesa sur la nécessité de l’ennemi pour imposer sa puissance


Débat entre Aymeric Chauprade et Pierre Conesa sur la nécessité de l’ennemi pour imposer sa puissance

Dr. R. Schmoeckel - Die Indoeuropäer

 

Reinhard Schmoeckel

Die Indoeuropäer

Aufbruch aus der Vorgeschichte

Bastei-Lübbe-Verlag (Taschenbuch)
576 S. mit 24 Karten und Übersichten
ISBN 3-404-64162-0
1. Auflage 1999, 4. Auflage vergriffen

Überarbeitete und aktualisierte Neuauflage
des erstmals 1982 im Rowohlt Verlag erschie-
nenen Buches "Die Hirten, die die Welt ver-
änderten – Der Aufbruch der indoeuropä-
ischen Völker"
Leseprobe und aus dem Inhalt


Ganze Bibliotheken füllen die Bücher über die Geschichte der Griechen und Römer, Völker, die oft und gerne als Wiege unserer Zivilisation zitiert werden. Doch was geschah eigentlich, bevor die Griechen ihre Tempel bauten und die Römer ihre Legionen ausschickten ? Wer waren die Menschen, die dafür sorgten, dass man von Indien bis hin zu den äußersten Gestaden Westeuropas Sprachen spricht, die denselben geheimnisvollen Ursprung zu haben scheinen ?
Dr. Reinhard Schmoeckel machte sich auf die Suche nach unseren Ahnen, den Ahnen fast aller Europäer . Dieses Buch ist jenen Völkern gewidmet, aus deren Zeit keine oder so gut wie keine Dokumente überliefert sind: der Vorgeschichte. Dennoch weiß man heute schon sehr viel darüber. Man muss es nur wagen und das in Tausenden von dicken wissenschaftlichen Büchern verstreute Wissen allgemein verständlich darstellen. Das Buch versucht, die frühen Erlebnisse unserer Vorfahren, über die der historisch Normalgebildete sonst praktisch nie etwas erfährt, wenigstens in einem groben Überblick zu erhellen, Zusammenhänge deutlich zu machen und das Wichtigste über die wichtigsten frühen Kulturen und Völker indoeuropäischer Abstammung zu erzählen.

Stimmen zum Buch

...Sehr anschaulich und mit verblüffender Quellenkenntnis...
(Rheinische Post)
...Spannender als mancher Abenteuerroman...
(Fuldaer Zeitung)
Dieses Buch beinhaltet all das Wissen über die indoeuropäischen Völker, das ich mir mühevoll aus zig Büchern zusammensuchen musste. Nie war umfassender komplexes Wissen so zugänglich.
(Leserurteil bei Amazon)



Een vulgair-wetenschappelijke inleiding tot de problematiek, die evenwel vlot leest en wetenschappelijke feiten afwisselt met een fictief verhaal.

00:05 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, proto-histoire, indo-européens | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook