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dimanche, 19 avril 2009

La guerre, la violence et les gens au Moyen-Age

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

La guerre, la violence et les gens au Moyen-âge

 

 

Le «Comité des Travaux Historiques et Scientifiques» édite en deux volumes les actes du 119ième Congrès des Sociétés Historiques et Scientifiques consacré en 1994 à «La Guerre, la violence et les gens au Moyen-Age». Le premier “apporte du nouveau sur le Languedoc au XIIIième siècle, sur les malheurs de la guerre en Italie, en Provence et en Normandie à la fin du Moyen Age, sur la mise en défense de plusieurs villes et territoires. Il s'intéresse à l'attitude des écrivains face à la guerre (Eustache Deschamps), traite des prisonniers et de leurs rançons, évoque le curieux recours au duel des princes, envisage enfin le thème de la paix. Ce panorama a le mérite, parmi d'autres, de reposer le plus souvent sur l'exploitation de sources inédites ou négligées. Le second volume “s'organise autour de trois grands thèmes. A propos des «Femmes en guerre», le rôle des régentes dans les royaumes de France et de Castille au XIIIième siècle est précisé, il est procédé à une réévaluation prudente de la personnalité d'Isabeau de Bavière et de sa mission pacificatrice, tandis qu'est mise en relief l'action des “viragos” dans l'Italie du Cinquecento. La section «Villes en guerre» fournit des exemples portant sur la fin du Moyen Age. On y trouve notamment un développement sur l'armement de la population “civile” à Troyes au temps de Louis XI. Quant à la dernière section, «Seigneuries et campagnes en guerre», elle traite aussi de la guerre de Cent ans: quelle fut l'attitude des populations normandes aussitôt après l'invasion de Henri V, de quelle manière les monastères réagirent-ils aux chevauchées et autres menaces, et surtout quelle place la guerre occupa-t-elle dans les violences de toutes sortes qui affectèrent Beauvais et le Bauvaisis lors de la domination anglaise» (Jean de BUSSAC).

 

La Guerre, la violence et les gens au Moyen Age, Comité des Travaux Historiques et Scientifiques (1 rue Descartes, F-75.005 Paris),1996, Tome I, Guerre et violence, 370 p., 190 FF. Tome II, La violence et les gens, 316 p.,190 FF.

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samedi, 18 avril 2009

Il federalismo etnico di Saint Loup

Il federalismo etnico di Saint-Loup

 Jérôme Moreau : Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 “La gioventù francese che ieri viveva nelle tenebre, a cui mancava un ideale, che aveva perso la fede nei destini della patria, sarà abbagliata domani dal compito che l’attende: rifare l’Europa…” (1).

Saint-Loup Per la destra, per lo meno quella che non lo disprezza, Marc Augier detto Saint-Loup è il romanziere della civiltà minacciata e dell’Europa delle patrie carnali… Due temi che sono punto di riferimento dopo Solstice en Laponie, pubblicato nel 1939, dove l’autore espone già il suo timore per l’evangelizzazione e la colonizzazione delle popolazioni lapponi da parte dei mercanti della morale. Riflessione che prosegue sotto l’occupazione, soprattutto negli articoli sui Baschi ed i Bretoni dove Saint-Loup pone i primi fondamenti del “federalismo etnico” quale principio su cui vuole organizzare l’Europa (2). Sia detto tra parentesi, la difesa dei popoli minacciati non si limita nel suo spirito al solo territorio europeo giacché egli affermava nel 1941, in un articolo sull’avvenire dell’Impero francese: “Il nostro dovere in Africa è quello di ristabilire nel quadro storico e razziale una grande civilizzazione araba ed una grande civilizzazione nera (3)”.

Ed è sempre per l’Europa delle etnie che Saint-Loup ha seguito la fede gammata ed è andato a combattere sul Fronte dell’Est nel 1942. Egli era in effetti persuaso fin dal 1941 che la Germania preparasse una pace fondata su un federalismo etnico europeo. A questa convinzione si aggiunge ancora l’idea, diffusa precedentemente negli ambienti tedeschi rivoluzionari conservatori, che il futuro dell’Europa si trovi ad Est, in una Russia battuta dove si potranno attingere nuove forze: economiche, razziali, spirituali.

Dopo la sconfitta è difficile per molti comprendere come Saint-Loup abbia potuto interpretare – benché non sia stato il solo – il pangermanismo hitleriano come un tentativo di unione dell’Europa sulla base delle etnie che la compongono. Otto Strasser che manifestava negli anni trenta la medesima volontà, l’intenzione di riorganizzare l’Europa su basi etnico-linguistiche, entrerà presto in conflitto con i seguaci ortodossi di Hitler. Probabilmente questo atteggiamento era dovuto all’anticomunismo fanatico che Saint-Loup aveva sviluppato a causa del suo contatto con i militanti di sinistra nel periodo tra le due guerre mondiali (4). L’esperienza del fronte russo segna però un radicale cambiamento nell’atteggiamento di Marc Augier, che non si fa più illusioni sulle intenzioni tedesche. Questa tendenza è manifestata in alcuni articoli su “Combattant Européen” che oscillano tra la fedeltà completa ed una certa presa di distanza dalle posizioni ideologiche tedesche. Così scriveva a qualche mese di distanza “Hitler non è che un uomo (5)” mostrando così il suo rifiuto verso un’Europa a dominazione tedesca: “Non si tratta di fonderci in una specie di europeo. Non vogliamo essere germanofili o russofili. Vogliamo rimanere noi stessi, con la nostra eredità nazionale, pur adottando uno stile di vita moderno. E vogliamo arricchire questo stile con il genio francese che non è un mito (6)”.

La contraddizione apparente di questi due propositi deve essere compresa con lo iato tra un giuramento di fedeltà incondizionata e il pensiero proprio di Marc Augier. Questa confusione tra l’aspetto sentimentale e quello dottrinario che ha potuto, dopo il 1945, far passare Saint-Loup come un settario del Nazionalsocialismo proprio quando egli considerava lo stato nazione come un principio politico storicamente superato. Non è tuttavia errato osservare che questa contraddizione rimane in Saint-Loup per quelli che dopo la guerra hanno voluto far coincidere la sua esperienza nelle Waffen SS con la sua concezione del mondo. Nelle opere Götterdämmerung, Les Volontaires e Les Hérétiques, Saint-Loup, manifesta un viscerale attaccamento ai suoi camerati lasciando libero corso ai suoi fantasmi e concepisce l’esistenza di una frazione oppositrice federalista che avrebbe tentato di affermarsi all’interno del regime nazionalsocialista.

Jean Mabire, Les Jeunes Fauves du Führer Saint-Loup non ha mai deposto l’uniforme. Rifare l’Europa! Ma perché l’Europa delle etnie, delle patrie carnali? Perché nello spirito di Saint-Loup questa è la forma politica che più ha la forza di resistere alle ideologie massificanti - liberalismo, cristianesimo, comunismo - nascoste sotto la maschera dell’universalismo e dell’internazionalismo. Perché gli stati nazione hanno confini ideologici. Perché la patria carnale, terra dei padri, risponde ad una aspirazione di identità naturale. “L’Europa deve dunque essere riconsiderata a partire dalla nozione biologicamente fondata del sangue (…) e degli imperativi tellurici (…). Non può esistere che come somma di piccole patrie carnali nutrite di questa doppia forza. Infatti più lo spazio unificato si estende, più la realtà razziale si diluisce per mescolamento e più il territorio sfugge alla proprietà del singolo a profitto della massa (7)”. Saint-Loup fa della razza il motore della storia di un popolo e dell’ibridazione la principale minaccia che grava su una civiltà. Poiché l’omogeneità razziale è un elemento di stabilità.

La dottrina di Saint-Loup non si manifesta dunque sotto la forma di un nazionalismo aggressivo ma si avvicina maggiormente ad un differenzialismo etnico. In altre parole solo colui che ama e vuole difendere il suo popolo è capace di amare ed apprezzare i popoli stranieri. L’affermazione del diritto alla differenza si sostituisce all’imperialismo e Saint-Loup può stigmatizzare l’universalismo come ideologia razzista. E’ proprio quello che si vede in La Nuit commence au Cap Horn, eccellente libro con i caratteri dell’affresco epico: gli indiani della terra del fuoco sono vittime di un pericoloso progetto di un pastore evangelico pieno di buone intenzioni ma incapace di concepire un modo d’esistere diverso dal suo. Un popolo soccombe al colonialismo cristiano perché il cristianesimo è inadatto all’ambiente in cui questo popolo evolve. La morte di una civiltà attraverso l’arrivo di missionari, funzionari, commercianti. Questa tematica è anche quella di La peau de l’aurochs (8) pubblicato per la prima volta nel 1954 e finalmente ristampato. Anche in questo libro una civiltà è minacciata di scomparire; un’invasione dittatoriale, la conquista della meccanizzazione che si sostituisce poco a poco alla tradizione rurale e cattolica locale.

Nelle opere di Saint-Loup la patria carnale appare allo stesso tempo come un’alternativa politica, sociale e religiosa. Politica inizialmente, poiché rappresenta un rifugio contro l’imperialismo. Sociale in seguito, poiché mira a rafforzare il senso della comunità, che è istinto puramente etnico. Si basa su ciò che Saint-Loup chiama “socialismo dell’azione” che è destinato a diventare la pietra angolare della nuova Europa e che si definisce come un socialismo radicato, un atteggiamento del cuore, della volontà, di opposizione alla logica astratta del marxismo-leninismo. La patria carnale è infine un’alternativa religiosa che ci permette di ricollegarci alle nostre radici pagane. Ad una concezione eroica della vita che il giudeo-cristianesimo, religione salvifica, ha soffocato. La patria carnale deve concepirsi in un certo senso come un ritorno alle fonti spirituali e sensoriali dell’uomo. “Si tratta per l’individuo di attingere alle fonti di vita eroiche ed estetiche, di ricevere quindi l’insegnamento del combattimento naturale e di tutto ciò che implica: selezione delle aristocrazie con la lotta per la vita, nuova nozione del diritto che si stabilisce più con l’azione del forte e del migliore, infine ricerca ed applicazione della nozione estetica e della vera grandezza (9)”. Il federalismo etnico di Saint-Loup porta in realtà una nuova concezione della società. Un paganesimo eroico e popolare che rimanda ad un’immagine più accettabile della persona umana.

N'oubliez jamais - Saint-Loup Nonostante le apparenti contraddizioni, l’itinerario politico di Saint-Loup obbedisce ad una logica perfettamente coerente, dove la volontà di affermarsi caccia le contrazioni ideologiche. Prende forma un mondo di grande salute fisica e morale dove tutti i popoli hanno il diritto di esistere, purché radicati nelle loro proprie culture. Nel tempo, Saint-Loup ha tessuto un opera sincera attraverso la quale si è espresso uno spirito libero, che ha pagato la sua libertà con la cospirazione del silenzio di cui si circonda il suo nome.

Note

1 Marc Augier, “Jeunesse d’Europe, unissez-vous!”, Conversazione del 17 maggio 1941 sotto gli auspici del Groupe Collaboration à la Maison de la Chimie - Paris.
2 Marc Augier, A la recherche des forces françaises, in La Gerbe, 4-9-1941 e 2-10-1941.
3 Marc Augier, La route de l’huile, in La Gerbe, 6-2-1941.
4 Occorre sempre avere lo spirito per comprendere l’itinerario politico di Saint-Loup, che ha fatto le sue prime esperienze politiche nell’ambito della sinistra “Fronte Popolare”. “Infatti Marc Augier fu uno dei principali animatori e ideologi del movimento Auberges de jeunesse (ostelli della gioventù, ajisme), fu redattore principale del periodico Cri des Auberges de Jeunesse (rivista del centro Laïc degli Auberges de Jeunesse), incaricato nel gabinetto di Léo Lagrange sotto governo del fronte popolare nel 1936 e vicino a Jean Giono, il suo riferimento ideale e maestro, con cui partecipò all’esperienza pacifista del Contadour. Per tutto questo periodo del dopo guerra, sono il pacifismo e volontà d’unire la gioventù europea che motivano il suo impegno. Rappresentante del CLAJ al Congresso Mondiale della gioventù che ebbe luogo negli Stati Uniti nel 1937, si rese tuttavia conto che i delegati comunisti si consegnavano ad una intensa propaganda bellicista contro la Germania e l’Italia. Da quella data manifesta i suoi primi sentimenti anticomunisti. Varie volte, dopo il 1941, Marc Augier considererà del resto la crociata europea contro il bolscevismo come il logico prolungamento della sua azione passata nell’ambito del movimento Ajiste.
5 Marc Augier, La fidélité des Nibelungen, in Le Combattant Européen, 30-9-1943.
6 Marc Augier, Ce siècle avait deux ans, in Le Combattant Européen, 15-6-1943.
7 Saint-Loup, Une Europe des patries charnelles?, in Défense de l’Occident, n°136, marzo 1976.
8 Saint-Loup, Peau de l’aurochs, Paris, Editions de l’Homme libre, 2000.
9 Marc Augier, Les Skieurs de la nuit, Paris, Stock, 1944, pp. 16-17.

In edizione italiana sono usciti presso l’editore Volpe e Sentinella d’Italia (via Buonarroti 4 – 34074 Monfalcone) le seguenti opere di Saint-Loup:

Saint-Loup, I volontari europei delle Waffen SS, Volpe, 1967 (curatore Adriano Romualdi).
Saint-Loup, Il sangue d’Israele, Sentinella d’Italia, 1975.
Saint-Loup, I velieri fantasma di Hitler, Sentinella d’Italia, 1978.
Saint-Loup, I volontari. Storia della LVF contro il bolscevismo, Sentinella d’Italia, 1983.
Saint-Loup, Gli eretici. Storia della Divisione SS “Charlemagne”, Sentinella d’Italia, 1985.
Saint-Loup, I nostalgici, Sentinella d’Italia, 1991.

Traduzione italiana di Harm Wulf.


Jérôme Moreau

vendredi, 17 avril 2009

Le M.A.U.S.S.: Qu'est-ce que l'utilitarisme?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Le M.A.U.S.S.: «Qu'est-ce que l'utilitarisme?»

La revue semestrielle du M.A.U.S.S. consacre son n°6 à «Qu'est-ce que l'utilitarisme? Une énigme dans l'histoire des idées». Elle le présente ainsi: «Depuis près de deux siècles, dans les pays de tradition anglo-saxonne, l'utilitarisme a constitué la philosophie morale et juridique de base. A ce titre, il a suscité de nombreux débats. Rien de tel en France où, depuis la grande thèse d'Elie Halévy, La Formation du radicalisme philosophique (1903), l'utilitarisme était oublié et ignoré. Toutefois, depuis quelques années, les philosophes et les chercheurs en sciences sociales relancent le débat sur l'utilitarisme. A en croire Halévy et la quasi-totalité des commentateurs de l'époque, le fondateur de l'utilitarisme est Jeremy Bentham (1748-1832): sa doctrine reposerait sur l'hypothèse que les sujets humains doivent être considérés comme des égoïstes calculateurs et rationnels. Pas du tout, rétorquent nombre d'interprètes contemporains: non seulement J. Bentham ne postule nullement le caractère dominant des motivations égoïstes, mais, en adoptant comme critère du juste et du bien la maximisation du bonheur du plus grand nombre, il plaide au contraire pour l'altruisme. On ne saurait rêver lectures plus radicalement opposées. Ce numéro de la Revue du M.A.U.S.S. semestrielle présente donc les diverses interprétations et suggère deux manières originales, et de surcroît probablement justes, de résoudre l'énigme. Pour la première, loin d'inventer l'utilitarisme, Bentham est celui qui achève une certaine tradition utilitariste vieille de plus de deux mille ans. Pour la seconde, cette tension insoluble entre égoïsme et altruisme est précisément ce qui caractérise l'utilitarisme moderne et post-benthamien amorcé par John Stuart Mill» (PM).

 

Editions La Découverte/La Revue du MAUSS,  9 bis rue Abel-Hovelacque, F-75.013 Paris, 290 p., 160 FF.

jeudi, 16 avril 2009

L'eroe di Baltasar Gracian

L’eroe di Baltasar Gracián

di Luca Leonello Rimbotti

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

Il vecchio storico inglese Thomas Carlyle insegnò con inclinazione romantica che l’eroismo ha molte facce, che quasi ogni aspetto della vita può essere interpretato come un momento in cui si può dispiegare una speciale attitudine verso l’ascesi di perfezione. Eroe è il Dio pagano che assomma su di sé tutte le qualità della stirpe, ma eroico può essere allo stesso modo lo spirito sacerdotale, ed eroi possono essere il profeta, il poeta, lo scrittore, il sovrano.

 

Il singolarissimo teologo spagnolo Baltasar Gracián [nel ritratto sotto a destra], vissuto nel Seicento, a tutto questo aveva aggiunto l’eroismo come qualità dell’individuo differenziato che, grazie ad una poderosa fiducia in se stesso, duramente conquistata, perviene al successo nel mondo e al trionfo della sua volontà su quelle altrui. Si eccelle tra gli uomini attraverso l’uso accorto e disciplinato di doti sottili costantemente affinate.
Qualcosa di più e di meglio di un moralista alla Montaigne. Un divulgatore di sapienza e di strategie di vita vissuta, tutte tese alla gloria trionfale nel mondo e all’affermazione sui tipi “inferiori” e indifferenziati. Gracián, ammirato e citato da Schopenhauer e da Nietzsche, che lo considerarono quasi un loro maestro e antesignano, scrisse diversi libri di gran successo, diremmo dei veri e propri “manuali del Superuomo”.

Era un gesuita, e dal gesuitismo imparò tutte quelle nozioni di affilata capacità di introspezione e di acuta conoscenza dei tempi e dei modi, che fecero di quell’ordine il tempio della dissimulazione e infine anche della sua degenerazione curiale, l’ipocrisia farisaica. In Gracián, tuttavia, si nota l’assoluta assenza di riferimenti ai dogmi cristiani: per questo, tenuto in sospetto dalla Compagnia di Gesù, fu prima ammonito, poi allontanato nel 1657 dalla cattedra e infine messo in condizione di non nuocere relegandolo presso un convento sperduto, con la tassativa proibizione di scrivere. Lo si accusava di aver intrapreso una precettistica del tutto profana sul saper vivere e, soprattutto, sul saper predominare sulle cose e sul mondo degli uomini, insomma di essere un laicissimo teorico di ciò che oggi chiameremmo una volontà di potenza in piena regola.

La recente pubblicazione de L’eroe (Bompiani), uno dei testi più celebri del trattatista aragonese, è l’occasione per verificare come il pensiero europeo si sia sempre misurato con queste categorie dell’essere e del mostrarsi, del fare e dell’avere ragione della realtà, in maniera che, dai sofisti e dagli stoici fino a Machiavelli, ai moralisti francesi o a Nietzsche e all’esistenzialismo, problema non da poco è sempre stato quello di avere a che fare col dispiegarsi dell’essere tra le penombre dell’apparire e del sembrare. Gracián insegnava la dissimulazione in quanto categoria dell’essere superiore e dell’innalzarsi al di là di se stessi, in un procedimento di continuo esercizio alla protezione dei propri fini. «Impedisca a tutti l’uomo colto di sondare il fondo della sua fonte, se da tutti vuole essere venerato…la metà è più del tutto, perché una metà ostentata e l’altra promessa, son più di un tutto dichiarato».

La velatezza dell’essere, in questo caso, non sarà un volgare atteggiamento di subdolo mascheramento volto all’inganno, ma, molto più sottilmente e nobilmente, lo strumento di una cerca dell’eccellenza, da ottenersi con il freno dei modi, la perfezione in ogni manifestazione di sé e un dosato ombreggiare i propri disegni. Qualcosa di propriamente “politico”, insomma: «Dissimulare una volontà sarà sovranità». In queste proposizioni sembra riecheggiare, in qualche modo, la dialettica heideggeriana circa il velamento della verità, secondo la struttura stessa della parola greca antica, che proponeva non a caso l’alfa privativo: a-lethéia, proprio nel senso che verità è essenzialmente un togliere veli per gradi. La dialettica sottile dell’apparire e del velarsi, lungi dall’essere solo un gioco femmineo di ritrosie seduttive, è in realtà, secondo la logica dell’etica tradizionale, il segreto della gloria. E la gloria, considerata dagli antichi l’unica e insieme la massima via all’eternità, è ugualmente per Gracián il premio al lavoro terreno dell’uomo di valore superiore.

In anni recenti è stato Emanuele Severino - il cui pensiero sappiamo essere sulla scia heideggeriana - a precisare i contorni del significato della gloria dal punto di vista esistenziale e tradizionale: «L’indefinita manifestazione dell’eterno, in cui la Gloria consiste e che indefinitamente si arricchisce, è il senso autentico della nostra destinazione per l’eternità». La gloria ha dunque a che fare col destino. E il destino ha a che fare con la fortuna e la fortuna con l’audacia, persino con l’azzardo. A patto che prima, dentro di sé, il temerario che si senta chiamato sulla via della gloria abbia percepito la concordanza della sua anima, tesa all’impossibile, con gli arcani segreti del fato. Difatti, in un passo de L’eroe si dice per l’appunto che la fortuna è «gran figlia della suprema provvidenza» e che «è regola da maestri compiuti nella politica discrezione notare la propria fortuna e quella dei propri sostenitori». Non diversamente la pensarono, a ben vedere, e magari senza aver letto un riga di Gracián, personaggi come Napoleone, che diceva di preferire generali fortunati a generali ben preparati, oppure come Hitler, che confessò più volte di aver giocato d’azzardo tutta la vita, sicuro di avere dalla sua parte la “provvidenza”. La fanatica fiducia in se stessi, quale suprema attitudine al comando in grado di piegare anche gli eventi sfavorevoli a proprio vantaggio, veniva da Gracián ricordata come dote dell’uomo di tempra superiore. E faceva l’esempio di Cesare, che al marinaio stanco e sfiduciato rivolse l’ammonimento: «Non dubitare, che offendi la fortuna di Cesare». Il dubbio interiore come ingiuria al destino. Quanto di meno cristiano e di più pagano si possa immaginare. Comprendiamo benissimo il motivo per cui lo scrittore venne messo al bando nella Spagna cattolicissima del gran secolo.

Tutto questo ha i contorni del tragico. Poiché in Gracián è ben vivo il senso di una lotta che l’eroe deve intraprendere prima di tutto su se stesso. Il controllo su ciò che appare e sulle occasioni che gli si presentano deve essere il frutto di un drammatico auto-controllo: questa volontà auto-imposta deve essere la sua signoria. Tanto che, se necessario, anche quando dentro l’uomo differenziato tutto lo sospingesse a dir di sì, la sua potenza e il suo comando interiore lo condurranno a un vittorioso dir di no. Questo si inserisce alla perfezione in quel dominio metafisico in cui si attua il contatto fra trascendenza e vita terrena. È ciò che gli antichi greci chiamavano kairòs, l’attimo fuggente, e i romantici tedeschi indicavano come der grosse Zufall, il grande caso fortunato. Saper cogliere il manifestarsi del momento in cui il destino si manifesta per cenni: la levigata sensibilità, quasi un istinto lungamente esercitato, saprà all’istante percepire questa epifania subitanea. Un evidenziarsi del sacro che indica il momento dell’agire. Poiché kairòs è suprema saggezza, è intima consonanza con gli interni voleri del fato, ma è anche sentimento di giustizia. Tradizionalmente, ciò che appare nel mondo, nell’immutabilità di ciò che è vero da sempre, oppure nell’improvviso irrompere dell’inatteso attraverso l’attimo, è anche ciò che è giusto: giusto è ciò che sa sopraggiungere al momento opportuno.

Una filosofia del rischio? Piuttosto, un’acuta capacità di percezione delle armonie e delle disarmonie del mondo. Nella sua introduzione a L’eroe, Antonio Allegra precisa che le sollecitazioni di Gracián verso l’affermazione di sé hanno il carattere di una libera alleanza col destino: «Occorre, in ogni caso, agire all’interno dello spazio della fortuna e del mondo: tutto sta nel potere ancora affermare un margine di libertà rispetto alla situazione integralmente mondana che si presenta, che va acutamente interpretata e colta nelle sue nascoste potenzialità». L’individuo differenziato, l’essere superiore costruito su un’elaborata e fanatica fiducia, si esprime attraverso la decrittazione dei segni lasciati cadere dal fato provvidenziale. Si tratta in fondo di un gioco: vince chi sa elaborare al massimo grado la dialettica tra il vivere all’occasione e l’essere uomo integro in grado di interpretare correttamente i segnali. L’individuo potenziato da questa superiore autocoscienza non è scelto dal caso, ma è lui stesso che sceglie l’attimo. Risolutezza e fulminea capacità di ricorrere alla decisione sono i sintomi dello spirito dominatore: «La prontezza fa da oracolo nei dubbi maggiori, sfinge negli enigmi, filo d’oro nei labirinti, e suole aver l’indole del leone, che riserva il massimo sforzo per quando ne ha più bisogno», scrive Gracián. Un manuale di politica: la golpe e il lione di Machiavelli, più un tocco di quel pessimismo barocco e manieristico che piacque tanto a Schopenhauer e che cercava di interpretare la complessità del mondo moderno allora già in agguato: L’eroe venne pubblicato nel 1637, l’anno di uscita del Discorso sul metodo di Cartesio. Ma anche una filosofia dell’intuito. Una vera mistica terrena dell’azione e del primato. In questo senso, la maschera che, secondo, Gracián, l’uomo superiore deve indossare per assicurarsi il dominio sul mondo non è un trucco plebeo, ma il necessario stigma della diversità: l’eroe gioca le sue maestrìe certo di non dover aprire a nessuno il suo cuore. Il mondo intriso di scaltrezze e di indegnità abbisogna di menti in grado di batterlo sul suo stesso terreno, mantenendo giusto il cuore. «Ti voglio singolare», suona l’esortazione con cui Gracián apre il suo pamphlet rivolgendosi al lettore, «qui avrai non una politica né un’economica, ma una ragion di stato di te stesso». La si direbbe una potente anticipazione di figure metapolitiche come l’Anarca jüngeriano oppure l’Autarca evoliano…

La fama di Gracián non si limitò alla sua epoca o ai momenti di insorgenza sovrumanista. In tempi recenti il suo nome ha riscosso un famigerato successo tra le turbe dei manager d’azienda…e il povero Gracián si è visto trascinare via dall’etica tradizionale aristocratica e dal suo stoicismo barocco, fin dentro le maleodoranti stanze dei consigli d’amministrazione, nei grattacieli americani: numerose edizioni dei suoi libri sono state vendute come il pane tra le schiere di yuppies alla ricerca del facile successo attraverso i manuali di auto-stima per piazzisti in carriera. I suoi libri hanno conosciuto l’onta di essere paragonati alle pubblicazioni a grande tiratura in uso sin dagli anni Cinquanta negli USA, ad esempio quelle a cura della Fondazione Carnegie: come vincere la paura degli altri, come avere successo nel lavoro…Noi aggiungiamo: come trascinare un filosofo del sovrumanismo europeo nel fango della morale da insetti tipica del liberalismo americano…

 

 


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La pazza del Bargello - Il d'Annunzio pagano

La pazza del Bargello.
Il D’Annunzio pagano

di Luca Leonello Rimbotti

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

Come sappiamo, nella cultura europea a cavallo tra Otto e Novecento - corrosa dal degrado positivista - D’Annunzio ha significato la rivolta romantica e dionisiaca del gesto audace, dell’istinto vittorioso, dell’immersione nella sensualità selvatica. Era la rivendicazione di un patrimonio di atavismi che il razionalismo moderno stava spegnendo con la sua violenta irruzione nei mondi della tradizione: di qui l’amore per la bellezza dorica - che l’Immaginifico assaporò nella sua crociera greca del 1895 -, per il lusso dell’estetica, per la volontà di potenza che crea il Superuomo.

In D’Annunzio c’è la sintesi del volontarismo di Nietzsche, dello slancio vitale di Bergson e della filosofia dell’azione di Blondel: in lui dunque si riassumono al meglio - nella poesia, nella narrativa, nella vita vissuta e poi nell’interventismo eroico del “poeta-soldato” - tutti i patrimoni culturali e ideologici che la vecchia Europa rilancerà in chiave tradizionale e anti-modernista. E con D’Annunzio, infatti, avremo il tipico rappresentante di quella figura di esteta armato che dominerà gli eventi a partire dalla guerra del 1914: da Jünger a Marinetti, da Soffici a Péguy ai vorticisti inglesi.

I messaggi di egualitarismo democratico e di individualismo borghese con cui il progressismo stava già allora sfibrando le radici europee, vennero rovesciati con una rivolta neo-pagana, nuova e antica, intesa a impugnare l’identità arcaica come un’arma estetica, letteraria e, infine, anche politica. Nel tardo Ottocento, D’Annunzio è già una guida per queste energie antagoniste, che saranno l’avanguardia europea delle future rivoluzioni nazionali del XX secolo.

Incastonato tra La Vergine delle rocce del 1895 e Il Fuoco del 1900, cioè i due bastioni del sovrumanismo nietzscheano rielaborato da D’Annunzio, c’è un piccolo capolavoro di solito trascurato dagli esegeti - forse perché al frivolo pubblico parigino dell’epoca non piacque il suo andamento sofoclèo e a quelli di oggi giunge estranea ogni forma di pensiero mitico -, ma che ben si inserisce nel filone neo-pagano, che è il fulcro di tutta l’opera dell’Inimitabile. Alludiamo al Sogno di un mattino di primavera, dramma “rinascimentale” buttato giù alla svelta nel 1897, nello spazio di pochi giorni, per placare il dispetto di Eleonora Duse [nel ritratto sotto a sinistra], cui pochi mesi prima era stata preferita Sarah Bernhardt nel ruolo di protagonista della Città morta.

In questo apice di vis tragica che è il Sogno, D’Annunzio dà fondo alla sua inesauribile vena visionaria. Del personaggio principale, Donna Isabella, la Demente, impazzita per essersi vista uccidere dal marito l’amante stretto tra le braccia, egli fa un’icona dell’uscita dalla normalità attraverso il più atroce dolore. E dell’ingresso in quell’arcano spazio aperto che è la follia, la grande follia. D’Annunzio scrisse il Sogno di un mattino di primavera in piena febbre nietzscheana: aveva da poco scoperto la grandezza recondita del Solitario, fu anzi tra i primi in Europa a capirne e divulgarne il genio rivoluzionario, ne rimase impregnato e ne impregnò molta parte della sua opera: pensiamo al Trionfo della morte, del 1894, in cui il “superuomo” Giorgio Aurispa esalta il «sentimento della potenza, l’istinto di lotta e di predominio, l’eccesso delle forze generatrici e fecondanti, tutte le virtù dell’uomo dionisiaco».

E proprio nel Sogno noi ritroviamo, schermati dietro il tragico destino individuale della pazza Isabella, questi stessi valori. Ciò che D’Annunzio definiva essenzialmente come la «giustizia dell’ineguaglianza». La Demente - creatura per definizione ineguale, inassimilabile alla normalità che appiattisce e livella - diventa il lato femminile e notturno del suprematismo virile e attivo proclamato da D’Annunzio. Chiusa in un micromondo claustrale, circondata dalle attenzioni cliniche dei “normali”, la pazza d’amore è lo specchio teatrale della follia vera in cui si rinchiuse Nietzsche. Ricordiamo che quando D’Annunzio scriveva questa sua prosa tragica, Nietzsche era ancora vivo, ma già da anni tutto avvolto da una pazzia inespressiva, che aveva ormai già dato tutto, e che era il prezzo che dovette pagare per aver troppo a lungo fissato le voragini della mente. Come l’Isabella di D’Annunzio, Nietzsche visse i suoi ultimi anni sorvegliato a vista dai “vivi”, per lo più ignari di quale profonda sapienza ci possa essere in simili fughe dalla “normalità”.

Bisogna tornare più spesso al D’Annunzio “minore”, a quello del Libro ascetico della Giovane Italia, dei Taccuini, della Vita di Cola di Rienzo… e a quello del Sogno di un mattino di primavera. Quando ripenso al D’Annunzio folgorale e insieme notturnale, alla sua capacità medianica di trasferire nei posteri i suoi mondi di apparizioni e di presenze arcane attraverso sedute di veri e propri transfert scenici, mi torna alla mente una rappresentazione del Sogno a cui ebbi modo di assistere anni fa, nel cortile del Palazzo del Bargello di Firenze. Qui prese corpo, dapprima lentamente, poi in maniera trascinante, la rarissima sintesi tra l’eloquenza traboccante della parola dannunziana e l’eloquenza muta dell’antica pietra squadrata: il Bargello, austero palazzo medievale. Questo prezioso vestigio della Firenze gotica e ghibellina, spazio di severità duecentesca un tempo sacrario del potere popolare, sede del Podestà e della Guardia del Capitano del Popolo, eretto da un Lapo Tedesco che fu forse il padre di Arnolfo di Cambio, è il luogo che meglio si prestava alla congiura dannunziana tra raffinatezza dei sensi e rigore della volontà politica. Qui D’Annunzio soleva venire e tornare, fermandosi davanti alle opere del Verrocchio, di Benedetto da Maiano, del Laurana…dai suoi Taccuini sappiamo che fu più volte al Bargello negli anni della sua residenza alla Capponcina di Firenze: aggirandosi tra quei capolavori, gli venne l’idea di fare una delle sue coltissime citazioni. E nel Sogno fa dire a Isabella di un busto di Desiderio da Settignano che lei teneva amorevolmente sulle ginocchia, consumandolo di pianto e di carezze.

Il Sogno di un mattino di primavera è un cammeo di prodigi. Qui D’Annunzio l’occulto, l’uomo d’arme che conosceva le tecniche dell’estasi, che invocava gli attimi visionari, che era sciamano, taumaturgo e profeta, ci mette a contatto con una creatura esiliata dalla vita, ma aperta a valori di eccezionale trascendenza. La Pazza si è fatta fare una veste verde, vuole diventare natura, vuole essere selva: «Ora potrò distendermi sotto gli alberi…non s’accorgeranno di me…sarò come l’erba umile ai loro piedi…vedo verde, come se le mie palpebre fossero due foglie trasparenti…io potrò dunque con gli alberi, con i cespugli, con l’erba essere una cosa sola…». E si fa guanti di rami, stringe ghirlande, si fascia di fili d’erba, aspetta di farsi bosco per rivivere in natura la natura selvaggia del suo amore. Impossibile non riandare, davanti a tali celebrazioni, a quella passione per la dimensione dionisiaca e panteista che, ad esempio, traspare in certe inquadrature del Trionfo della morte: l’epopea del «dominatore coronato  da quella corona di rose ridenti di cui parla Zarathustra…». Qualcosa che ricorre di nuovo quando Giorgio Aurispa il solitario, nell’osservare il tramonto, sente pulsare gli annunci di Zarathustra nel trionfo di una natura esuberante, irta di colori che eccitano l’animo e fondono l’uomo con le più enigmatiche energie del creato. Perfetta creazione silvestre, simbolo compiuto di pagana immersione nella natura pànica, l’Isabella del Sogno reca anche archetipi di morte, di sangue e di scatenata sensualità.

Essa ci rimanda con naturale similitudine alla Wildfrau nordica, la “vergine selvatica” che percuote le notti durante la caccia selvaggia di Wotan, così come compare nel mito indoeuropeo della ridda, che accomuna mistero, magia e ancestrali terrori, giacenti nella sfera della natura barbarica e nel subconscio atavico dell’uomo: purissimo scrigno da cui sale - quando la si sa udire - la voce del sangue primordiale. Come spesso accade alla tregenda pagana, la morte e il dolore non sono tuttavia disgiunti da una sensualità istintuale. E, infatti, profondamente sensuale è il contatto di Isabella col corpo dell’amato morente, da cui sgorga sangue come da una fonte inesauribile. Il suo trauma si muta allora in una sorta di allucinazione orgasmica:

«…La sua bocca mi versava tutto il sangue del suo cuore, che mi soffocava; e i miei capelli n’erano intrisi; e il mio petto inondato; e tutta quanta io ero immersa in quel flutto…com’erano piene le sue vene e di che ardore! Tutto l’ho ricevuto sopra di me, fino all’ultima stilla; e gli urli selvaggi che mi salivano alla bocca io li ho rotti coi miei denti che stridevano, perché nessuno li udisse…».

In brani di rapimento erotico come questo - in cui, tra l’altro, non si è lontani neppure dagli estatici abbandoni alla voluttà del sangue presenti, ad esempio, nelle lettere di Santa Caterina da Siena: «Annegatevi nel sangue del Cristo crocifisso, bagnatevi nel sangue, saziatevi di sangue…» -, noi riconosciamo una miriade di rimandi alla sacralità pagana e neo-pagana del sangue, ai suoi occulti poteri fecondanti, alle sue qualità misteriche di infondere vita ulteriore, e proprio quando fuoriesce in fiotti, come seme di vita, da un corpo in travaglio di morte.

Basterà ricordare la libido di sangue ossessivamente presente nella tragedia greca, capace di celebrare l’amore di rango come una lotta spasmodica che non fa più differenza tra la vita e la morte, che riconosce nella carne viva, nel segno sensuale, un universo infinito, confine tra saggezza e follia scatenante: Pentesilea, ad esempio,  di cui Kleist fece un superbo affresco del dramma romantico…ferro di lame e di scudi, ma anche di cuori. Tutto questo ebbe riverberi nella nostra poesia nazionalista dei poeti-soldati volontari nella Grande Guerra: amore e lotta celebrati in nozze mistiche di sangue. Ad esempio, in Vittorio Locchi o in Giosuè Borsi, il sangue dell’eroe caduto e riverso al suolo, con la bocca a toccare il terreno come in un bacio, diviene seme generatore, potenza che feconda la terra redenta, paragonata a una sposa che si lasci inondare il grembo dal flusso ancora caldo dello sposo morente. Nel poemetto di Locchi, un tempo famoso, intitolato La sagra di Santa Gorizia, la città da liberare attende il suo eroe come un’amante fremente: «Amore, amore dolce, mi vedi? Amore dolce, mi senti? - chiede l’amata - Quanti tormenti ancora, quanti tormenti prima degli sponsali?». È un misticismo di visionaria trance erotico-guerriera, che certo rinnova esplicitamente gli arcaici connubi di Eros e Thànatos. Ed è in un trionfo di celebrazioni al benigno destino, alla vita che vince la morte, alle armi che liberano lo spirito, che avviene alla fine l’apoteosi trasfiguratrice dell’unione tra la città-femmina, finalmente liberata, e il vittorioso eroe liberatore.

L’amore - ma non solo quello letterario, proprio quello vero…ma certo non quello “comune”…- è sempre a un passo dalla pazzia: c’è un frammento del Sogno, in cui Isabella viene assalita da gelido terrore nel vedere una coccinella posatasi sul suo candido braccio e da lei creduta una goccia di sangue: esatta trasposizione della demenza che impietrisce Parsifal nell’osservare la rossa goccia di sangue di un passero sulla neve immacolata…

Detto per inciso, sottesa al Sogno leggiamo una - certo non casuale - combinazione di fine simbolismo cromatico: il bianco dei lunghi capelli e dello spettrale volto di Isabella, il verde della sua mimesis selvatica e il rosso del sangue dell’amato: ed ecco qua i tre colori per i quali l’Orbo Veggente andrà a rischiare la vita, ormai anziano, sui fronti della Grande Guerra…È in situazioni come queste che noi, più che altrove, apprezziamo la fantastica capacità dannunziana di intrecciare una raffinata sensibilità con il primario istinto di vita. Se c’è un luogo in cui la follia diventa mistica percezione dell’Altrove, magia di poteri visionari, potenza che fonde in un unico rogo  il dolore e la gioia, questo è l’amore pazzo e disperato: quello profondamente filosofico di Nietzsche, come quello semplicemente umano di Isabella. D’Annunzio, alla sua maniera di grande sensitivo, li visse e li rappresentò entrambi.

E li rappresentò anche nella vita vera vissuta, magari alla maniera di un sacerdote pagano che solennizzasse i riti della terra e del sangue. Tra i suoi amori folli, c’era infatti, e non minore, anche quello per l’Italia. Un suo legionario ricordò un giorno di  come, già vecchio e cadente, al Vittoriale ogni tanto il Comandante amasse celebrare occulte comunioni insieme ai suoi fedelissimi: «sovente, la notte, adunato un piccolo numero di fedeli, alla rossastra luce fantastica di torce resinose, parla della nostra terra e della nostra stirpe, della nostra guerra e dei nostri Morti, dei nostri mari e delle nostre glorie; qui i compagni lo ritrovano, lo rivedono e lo risentono, come in trincea e come a Fiume». Una liturgia nibelungica per eredi della razza di Roma: esisteranno ancora da qualche parte, dispersi, solitari, silenziosi, uomini simili?

 

Manuel d'insurrection magique

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Manuel d'insurrection magique

 

Les éditions Hriliu publient sous le titre de Lettre du Commandant Marcos à son disciple sur les barricades  un manuel d'insurrection magique qui se présente ainsi: «L'image médiatique, cette condensation matérielle des phantasmes de l'idéologie du capital, engendre désormais le monde. L'ère du Verseau n'est pas la paix; c'est la fin du monde objectif, et sa dévoration subjective par le capital. L'homme vit aujourd'hui dans les songes qui font les mondes, mais ces songes sont ceux des putains mercantiles, pas des dieux qui rêvent. Ce ne sont plus nos corps qui risquent la mort dans la minière comme du temps du prolétariat; ce sont nos âmes qui s'étiolent et s'éteignent dans les luisances de l'imaginaire planétaire marchand. La lutte des castes doit donc s'engager autour des moyens métaphysiques de production du réel. Or la Tradition a toujours affirmé qu'elle détenait ces moyens sous la forme de la Magie. Voici enfin les temps où la Magie doit imposer ses rêves et façonner les mondes». (Pierre MONTHÉLIE).

 

Hriliu c/o P. Pissier, Carrière Maïté, 17 rue Pellegri, F-46.000 Cahors,1996, 40 FF.

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mercredi, 15 avril 2009

L'influence d'Oswald Spengler sur Julius Evola

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

L'influence d'Oswald Spengler sur Julius Evola

par Robert Steuckers

 

«Je traduisis de l'allemand, à la demande de l'éditeur Longanesi (...) le volumineux et célèbre ouvrage d'Oswald Spengler, Le déclin de l'Occident. Cela me donna l'occasion de préciser, dans une introduction, le sens et les limites de cette œuvre qui, en son temps, avait connu une renommée mondiale».  C'est par ces mots que commence la série de paragraphes critiques à l'égard de Spengler, qu'Evola a écrit dans Le Chemin du Cinabre  (op. cit.,  p. 177). Evola rend hommage au philosophe allemand parce qu'il a repoussé les «lubies progressistes et historicistes», en montrant que le stade atteint par notre civilisation au lendemain de la première guerre mondiale n'était pas un sommet, mais, au contraire, était de nature «crépusculaire». D'où Evola reconnaît que Spengler, surtout grâce au succès de son livre, a permis de dépasser la conception linéaire et évolutive de l'histoire. Spengler décrit l'opposition entre Kultur  et Zivilisation, «le premier terme désignant, pour lui, les formes ou phases d'une civilisation de caractère qualitatif, organique, différencié et vivant, le second les formes d'une civilisation de caractère rationaliste, urbain, mécaniciste, informe, sans âme»   (ibid., op. cit., p.178). 

Evola admire la description négative que donne Spengler de la Zivilisation,  mais critique l'absence d'une définition cohérente de la Kultur,  parce que, dit-il, le philosophe allemand demeure prisonnier de certains schèmes intellectuels propres à la modernité. «Le sens de la dimension métaphysique ou de la transcendance, qui représente l'essentiel dans toute vraie Kultur, lui a fait défaut totalement»  (ibid., p. 179). Evola reproche également à Spengler son pluralisme; pour l'auteur du Déclin de l'Occident,  les civilisations sont nombreuses, distinctes et discontinues les unes par rapport aux autres, constituant chacune une unité fermée. Pour Evola, cette conception ne vaut que pour les aspects extérieurs et épisodiques des différentes civilisations. Au contraire, poursuit-il, il faut reconnaître, au-delà de la pluralité des formes de civilisation, des civilisations (ou phases de civilisation) de type "moderne", opposées à des civilisations (ou phases de civilisation) de type "traditionnel". Il n'y a pluralité qu'en surface; au fond, il y a l'opposition fondamentale entre modernité et Tradition.

Ensuite, Evola reproche à Spengler d'être influencé par le vitalisme post-romantique allemand et par les écoles "irrationalistes", qui trouveront en Klages leur exposant le plus radical et le plus complet. La valorisation du vécu ne sert à rien, explique Evola, si ce vécu n'est pas éclairé par une compréhension authentique du monde des origines. Donc le plongeon dans l'existentialité, dans la Vie, exigé par Klages, Bäumler ou Krieck, peut se révéler dangereux et enclencher un processus régressif (on constatera que la critique évolienne se démarque des interprétations allemandes, exactement selon les mêmes critères que nous avons mis en exergue en parlant de la réception de l'œuvre de Bachofen). Ce vitalisme conduit Spengler, pense Evola, à énoncer «des choses à faire blêmir» sur le bouddhisme, le taoïsme et le stoïcisme, sur la civilisation gréco-romaine (qui, pour Spengler, ne serait qu'une civilisation de la "corporéité"). Enfin, Evola n'admet pas la valorisation spenglérienne de l'«homme faustien», figure née au moment des grandes découvertes, de la Renaissance et de l'humanisme; par cette détermination temporelle, l'homme faustien est porté vers l'horizontalité plutôt que vers la verticalité. Sur le césarisme, phénomène politique de l'ère des masses, Evola partage le même jugement négatif que Spengler.

Les pages consacrées à Spengler dans Le chemin du Cinabre  sont donc très critiques; Evola conclut même que l'influence de Spengler sur sa pensée a été nulle. Tel n'est pas l'avis d'un analyste des œuvres de Spengler et d'Evola, Attilio Cucchi (in «Evola, la Tradizione e Spengler», Orion,  n°89, Février 1992). Pour Cucchi, Spengler a influencé Evola, notamment dans sa critique de la notion d'«Occident»; en affirmant que la civilisation occidentale n'est pas la civilisation, la seule civilisation qui soit, Spengler la relativise, comme Guénon la condamne. Evola, lecteur attentif de Spengler et de Guénon, va combiner éléments de critique spenglériens et éléments de critique guénoniens. Spengler affirme que la culture occidentale faustienne, qui a commencé au Xième siècle, décline, bascule dans la Zivilisation,  ce qui contribue à figer, assécher et tuer son énergie intérieure. L'Amérique connaît déjà ce stade final de Zivilisation  technicienne et dé-ruralisée. C'est sur cette critique spenglérienne de la Zivilisation  qu'Evola développera plus tard sa critique du bolchévisme et de l'américanisme: si la Zivilisation  est crépusculaire chez Spengler, l'Amérique est l'extrême-Occident pour Guénon, c'est-à-dire l'irreligion poussée jusqu'à ses conséquences ultimes. Chez Evola, indubitablement, les arguments spenglériens et guénoniens se combinent, même si, en bout de course, c'est l'option guénonienne qui prend le dessus, surtout en 1957, quand paraît l'édition du Déclin de l'Occident  chez Longanesi, avec une préface d'Evola. En revanche, la critique spenglérienne du césarisme politique se retrouve, parfois mot pour mot, dans Le fascisme vu de droite  et Les Hommes au milieu des ruines. 

Le préfacier de l'édition allemande de ce dernier livre (Menschen inmitten von Ruinen,  Hohenrain, Tübingen, 1991), le Dr. H.T. Hansen, confirme les vues de Cucchi: plusieurs idées de Spengler se retrouvent en filigrane dans Les Hommes au milieu des ruines;  notamment, l'idée que l'Etat est la forme intérieure, l'«être-en-forme» de la nation; l'idée que le déclin se mesure au fait que l'homme faustien est devenu l'esclave de sa création; la machine le pousse sur une voie, où il ne connaîtra plus jamais le repos et d'où il ne pourra jamais plus rebrousser chemin. Fébrilité et fuite en avant sont des caractéristiques du monde moderne ("faustien" pour Spengler) que condamnent avec la même vigueur Guénon et Evola. Dans Les Années décisives (1933), Spengler critique le césarisme (en clair: le national-socialisme hitlérien), comme issu du titanisme démocratique. Evola préfacera la traduction italienne de cet ouvrage, après une lecture très attentive. Enfin, le «style prussien», exalté par Spengler, correspond, dit le Dr. H.T. Hansen, à l'idée évolienne de l'«ordre aristocratique de la vie, hiérarchisé selon les prestations». Quant à la prééminence nécessaire de la grande politique sur l'économie, l'idée se retrouve chez les deux auteurs. L'influence de Spengler sur Evola n'a pas été nulle, contrairement à ce que ce dernier affirme dans Le chemin du Cinabre. 

 

 

mardi, 14 avril 2009

L'ENI guida la missione italiana in Russia

L’Eni guida la missione italiana in Russia

Ex: htpp://www.ladestra.info/
Tratto da Rinascita
Di Andrea Angelini
Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, a margine della missione imprenditoriale italiana in Russia, in corso a Mosca, ha sottolineato che ogni passo che si fa per stringere i rapporti con la Russia finisce per andare a beneficio sia del consumatore italiano che della sicurezza dell’approvvigionamento energetico del nostro Paese. Ieri Scaroni ha firmato l’accordo che prevede il ritorno a Gazprom del 20% della quota azionaria di Gazpromneft (il ramo petrolifero del gruppo russo) attraverso l’esercizio del diritto di opzione. Eni aveva acquistato tale quota nel 2007. Gazprom sborserà la stessa cifra pagata allora da Eni più gli interessi per un totale di 4,2 miliardi di euro. Scaroni ha precisato che in nome della cooperazione strategica in materia di energia, i due gruppi svilupperanno progetti congiunti in Russia e fuori dalla Russia, sulla base del principio di reciprocità. Eni e Gazprom hanno firmato, sotto il patrocinio dei due governi, una serie di accordi di collaborazione in Russia e all’estero anche con le principali società energetiche russe come Inter Rao UES, Rosneft, Transneft e Stroytransgas, sia nel settore del cosiddetto “upstream”, cioè ricerca e produzione di idrocarburi, che della raffinazione. Scaroni ha insistito sul fatto che gli accordi dell’anno scorso con Gazprom, che fra l’altro hanno garantito al nostro Paese la fornitura di gas fino al 2035, si è ora allargato a tutte le altre compagnie energetiche russe. Soprattutto, ha sottolineato, con il colosso russo c’è anche un rapporto tecnologico. Come Eni, “investiamo in Russia e continuamo ad essere il loro partner favorito”.
In ogni caso, ieri sono stati firmati solo gli accordi più commerciali. Per gli altri che rivestono un’importanza più strategica e politica, se ne parlerà fra qualche settimana nel prossimo incontro fra Putin e Berlusconi, trattenuto in Abruzzo dal terremoto.
Tali accordi riguarderanno ad esempio il potenziamento della capacità del gasdotto South Stream, che parte dalla Russia, sotto il Mar Nero, per poi attraversare la Bulgaria, la Grecia per arrivare infine in Italia. Ma interesseranno anche l’ingresso di Gazprom con la quota di comando del 51% in Artikgas, società controllata dalla joint venture Severenergia (partecipata da Eni, 60% ed Enel, 40%). Artikgas gestisce giacimenti di gas naturale che un tempo facevano parte di Yukos, il gruppo già controllato dall’ex magnate Mikhail Khodorkovski, ora in galera sia per evasione fiscale sia per essere un prestanome della Exxon americana. Ultimo punto che dovrà essere visto da Putin e Berlusconi riguarda il giacimento Elephant in Libia situato ad 800 chilometri a sud di Tripoli il cui destino faceva parte degli accordi più generali sottoscritti l’anno scorso tra i due governi e i due gruppi.
Anche Finmeccanicasi muove
Anche la Finmeccanica ha rafforzato la propria presenza in Russia con la firma di tre nuovi accordi. Questi hanno interessato tre diversi settori. Quello della sicurezza con Selex Sistemi Integrati, quello dell’aeronautica con Alenia Aeronautica e quello del segnalamento ferroviario con Ansaldo Sts.
Alenia Aeronautica, in particolare, ha perfezionato l’acquisizione del 25% della Sukhoi Civil Aircraft Corp. (SCAC), la società che si occupa della progettazione e produzione del Sukhoi Superjet 100 (SSJ100), l’aereo ad utilizzo regionale di nuova generazione da 75-110 posti al cui sviluppo la società italiana stava già lavorando. Il nuovo aereo ha ricevuto finora ordini per un totale di 98 esemplari, ed entro la fine del 2009 è stata prevista la consegna del primo velivolo alla Aeroflot, la compagnia di bandiera russa.
Prospettive per le piccole e medie imprese

Emma Marcegaglia presidente di Confindustria, ha parlato delle grandi prospettive che si aprono per l’industria italiana nel suo complesso. Non solo quella grande ma anche la media e piccola. La Russia, ha spiegato, è interessata a sviluppare un tessuto fatto di piccole e medie imprese. Su questo l’Italia può dare “un contributo vero e forte”. Quasi il 90% delle imprese partecipanti alla missione in Russia sono piccole e medie imprese. E allora se i grandi gruppi hanno i loro canali già aperti si deve pure ammettere che hanno aiutato le piccole imprese a entrare nel mercato russo. Certo, ha ammesso, non sono tutte rose e fiori. Le imprese hanno problemi soprattutto nel sistema dei pagamenti.
Da parte sua, il ministro per lo Sviluppo Economico, Claudio Scajola, nel ricordare l’apertura dell’Italia agli investimenti russi, dimostrata dall’ingresso di Gazprom nel settore della distribuzione del gas e di Lukoil nella raffinazione, ha auspicato che si verifichi un ulteriore flusso di investimenti russi nel nostro Paese, sulla scorta di ciò che sta accadendo per il turismo. Del resto il legame strategico esistente tra i due Paesi è evidenziato dalla crescita dell’interscambio, che negli ultimi 10 anni è più che quadruplicato, passando da 6 miliardi di euro del 1999 ai 26 miliardi del 2008.

Danses dionysiaques

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Danses dionysiaques

 

Une savante étude sur Les danses dionysiaques en Grèce Antique vient de paraître. Il s'agit de la troisième partie d'une thèse de doctorat soutenue par Marie-Hélène Delavaud- Roux en 1991 et dont les deux parties précédentes ont été publiées sous les titres de Les danses armées en Grèce Antique et de Les danses pacifiques en Grèce Antique. L'auteur écrit: «Dans ce qui suit, je donnerai aux qualificatifs des danses dionysiaques ou bachiques un sens très large. Il s'agit en fait d'un type de danse qui peut concerner d'autres divinités que Dionysos —Déméter, Cybèle et Adonis. Nous prenons donc les mots “dionysiaque” et “bachique” dans le sens d'“orgiaque”, par opposition aux manifestations orchestiques armées et pacifiques. Dans cette étude, nous engloberons aussi bien les danses liées à l'extase que celles liées à l'ivresse. Les premières semblent féminines, tandis que les secondes paraissent plutôt masculines. Cependant, nous verrons que les hommes peuvent dans certains cas effectuer des danses mystiques, rappelant les danses des derviches tourneurs». Le livre est abondamment illustré de dessins figurant sur les céramiques grecques. Il permettra à certains une approche intéressante des musiques traditionnelles de ce pays. La Grèce est un des rares pays européens où les traditions musicales (entre autres) sont encore réellement  vivantes. Pour les découvrir, il faut éviter les soirées “pour touristes”, se munir de l'excellent L'été grec  de J. Lacarrière, et emprunter des chemins qui, parfois, ne mènent nulle part (JdB).

 

Marie-Hélène DELAVAUD-ROUX, Les danses dionysiaques en Grèce Antique, Publications de l'Université de Provence, 29 avenue Robert Schuman, F-13.621 Aix-en-Provence Cedex 1,1995, 256 p.,170 FF.

lundi, 13 avril 2009

Nuove pubblicazioni delle Edizioni di Ar

Nuove pubblicazioni delle Edizioni di Ar

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Segnaliamo tre nuovi testi delle Edizioni di Ar
- J. B. Fichte, Lo Stato commerciale chiuso, a cura di Francesco Ingravalle, pp. 154+22; Edizioni di Ar, collezione: “gli Inattuali” n. XXV; euro 15,00
Lo Stato deve garantire la libertà della comunità - e soltanto di conseguenza quella degli individui che la compongono -, attraverso un modello autarchico che elimini la povertà e assicuri a tutti i consociati lavoro e benessere. Nel momento in cui l’interdipendenza economica degli Stati del tempo in cui Fichte scrive Lo Stato commerciale chiuso (1800) si è fatta «transtatualizzazione» dell’economia, le parole del filosofo tedesco suonano come un appello «regressista» rispetto alle teorie economiche e politiche riguardanti lo sviluppo della globalizzazione. Un appello che implica un regime economico che esclude il lusso configurando uno stile di vita destinato al soddisfacimento delle necessità vitali e non alla creazione di nuovi bisogni. In altri termini, visto dalla prospettiva odierna, Lo Stato commerciale chiuso è un modello economico-politico alternativo al capitalismo in via di globalizzazione.
- Carlo Mattogno, Hitler e il nemico di razza. Il nazionalsocialismo e la questione ebraica, pp 132 + 4 illustrazioni; Edizioni di Ar, collezione: “Il tempo e l’epoca dei fascismi” n. 9; euro 15,00
Prendendo spunto da una ben nota tesi eretica esposta da David Irving sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, questo studio esamina a fondo il ruolo di Hitler nel preteso genocidio ebraico secondo la storiografia olocaustica, in particolare il presunto “ordine del Führer” di sterminio ebraico. Dopo aver delineato una storia sintetica degli ebrei sotto il regime nazionalsocialista, l’Autore discute tre aspetti essenziali dell’argomento considerato. Il primo aspetto si riferisce, in modo specifico, ai risultati fallimentari cui è pervenuta sul tema in questione la suddetta storiografia, ridottasi a formulare congetture tanto impalpabili da sconfinare nella parapsicologia. Il secondo aspetto riguarda la revisione della datazione dell’”ordine del Führer” operata alla fine degli anni Novanta dalla storiografia ufficiale, che in tal modo ha suscitato un dilemma insolubile. Il terzo aspetto concerne il preteso rapporto di causa-effetto tra l’”ordine del Führer” e la genesi del campo di Birkenau, tuttora affermato dal Museo di Auschwitz, che è stato però scardinato dalla più recente storiografia olocaustica. Così, sul tema dell’”ordine del Führer” e delle sue implicazioni, questa storiografia negli ultimi decenni si è avvicinata pericolosamente all’autodistruzione.

Sommario
Presentazione 9. Gli ebrei sotto il regime nazionalsocialista tra storia e propaganda. La politica nazionalsocialista nei confronti degli ebrei 11. Totale mancanza di documenti 25. Le “profezie” di Hitler 26. La propaganda di guerra e i suoi sviluppi “storici” 32. Il “linguaggio cifrato” 35. Le deportazioni ebraiche all’Est 37. Le deportazioni ebraiche all’Est: una conferma insospettabile 40. Le perdite ebraiche 43. L’”ordine del Führer” nella storiografia olocaustica 45. L’”ordine del Führer” e le “confessioni” di Rudolf Höss 69. L’”ordine del Führer” e la genesi del campo di Birkenau 83. BIBLIOGRAFIA 121. ABBREVIAZIONI 127. Indice dei nomi 129.

*Sulla copertina:
Werner Peiner, Battaglia di Enrico l’Uccellatore contro gli Ungari.
*Sulla controcopertina:
Werner Peiner, L’assedio di Marienburg
(Progetti di arazzi per la nuova Cancelleria del Reich a Berlino).

- Anonimo, De tribus impostoribus - I tre impostori. Mose Gesù Maometto, a cura di Francesco Ingravalle, pp. 72; Edizioni di Ar, collana ‘Paganitas’ n. XX; euro 9,00
Dal 1239 a oggi non si è ancora cessato di parlare dell’empio trattato intitolato De tribus impostoribus. Quasi ogni avversario delle religioni rivelate è stato accusato di esserne l’autore, a cominciare da Federico II Hohenstaufen. Non possiamo risalire con certezza all’epoca di composizione del testo qui pubblicato e men che meno possiamo pronunciarci con sicurezza sulla questione della “paternità” dell’opera. Una lettura non preconcetta suggerisce che ci troviamo di fronte a un testo certamente empio, ma non ateo, a un testo da cui prorompe l’insoddisfazione per ogni configurazione umana dell’Assoluto e che rivela lo stretto nesso fra religioni e istituzioni politiche nonché l’uso politico costante di ogni religione positiva considerandole, tutte, imposture.Sommario

L’impostura delle religioni 9

DE TRIBUS IMPOSTORIBUS 23
I TRE IMPOSTORI. Mosè Gesù Maometto 45
Indice dei nomi 67

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Aux origines de la Croatie militaire

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Aux origines de la Croatie militaire

 

L'éditeur C. Terana, spécialisé dans les rééditions de livres d'histoire militaire, publie La Croatie militaire (1809-1813). Les régiments croates à la Grande Armée  du Commandant P. Boppe, ouvrage paru en 1900 et illustré de six planches en couleurs et d'une carte des “Provinces Illyriennes”. L'auteur nous rappelle les origines de la Croatie militaire: «Après que les Turcs, en 1685, eurent été contraints de le­ver le siège de Vienne et eurent été rejetés en Bosnie, l'empereur Léopold Ier, roi de Hongrie, organisa en 1687 un cordon de régiments frontières pour servir de barrière aux incursions qu'ils pourraient en­core tenter, autant qu'à la propagation de la peste. Ce cordon fut établi sur une longue bande de pays s'étendant du littoral hongrois de l'Adriatique à la Transylvanie et ne dépassant pas la largeur moyenne de huit lieues, c'est à dire une journée de marche. Tout ce territoire fut soustrait à la féodalité seigneu­riale, le souverain en devenant le maître absolu, et fut divisé en dix-sept provinces dites régiments; chaque régiment fut subdivisé en compagnies et celles-ci en familles (...). Cette organisation subsistait au commencement de ce siècle telle qu'elle avait été créée, tant elle s'adaptait aux besoins qui l'avaient fait concevoir, aussi bien qu'aux mœurs et au tempérament des habitants de contrées qui por­taient le nom, justifié dans la réalité, de Confins militaires. Les Croates ayant toujours à se défendre contre les brigands venant de Turquie, vivaient sur un perpétuel qui-vive et étaient constamment ar­més; un fusil, un khangiar, plusieurs pistolets à la ceinture faisaient partie de leur costume, on pourrait presque dire d'eux-mêmes; ils étaient soldats de naissance:l eur groupement en régiments s'imposait donc par la nature même des choses et c'est un peuple organisé militairement que Napoléon devait, en 1809, trouver sur la rive droite de la Save» (P. MONTHÉLIE).

 

P. BOPPE, La Croatie militaire, Editions C. Terana; 31 bd Kellermann, F-75.013 Paris, 268 p., 150 FF.