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samedi, 18 décembre 2010

Pèlerinage en Israël de mouvements nationalistes européens: quel intérêt?

Pèlerinage en Israël de mouvements nationalistes européens: quel intérêt?

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

wilders_klagemauer.jpgIl n’est pas dans nos habitudes de nous immiscer dans les stratégies de mouvements européens avec lesquels nous entretenons d’excellentes relations.

Filip Dewinter, leader du Vlaams Belang, Heinz-Christian Strache, Président du Fpöe autrichien, et des représentants allemands et suédois se sont rendus récemment en délégation en Israël, suscitant pour le moins quelques interrogations. Reçus à la Knesset, déposant une gerbe au Mur des Lamentations, se rendant à la frontière séparant l’Etat hébreu des territoires palestiniens, visitant une escadrille de chasse, ils exprimèrent leur soutien à Israël, « avant-garde de l’Occident dans la lutte contre l’islamisation ». De fait, ils furent reçus par des partisans du Grand Israël, dont le rabbin Nissim Zeev, député du mouvement extrémiste Shas, perçus par leurs adversaires comme étant l’« extrême droite raciste ».

Leurs motivations procèdent de l’espoir qu’un tel pèlerinage pourrait leur donner, dans leurs pays respectifs, une sorte de respectabilité et neutraliserait des médias et des lobbys très hostiles.

Cela nous paraît être une pure chimère.

Dans le prochain numéro de Rivarol, j’analyse dans un long article les raisons de ce pèlerinage, dévoile qui est à l’origine de cette démarche et décris l’environnement des mouvements concernés, notamment en Allemagne, où le terrorisme intellectuel est particulièrement contraignant.

Quel intérêt les Européens ont-ils à se mêler des affaires du Proche-Orient ? Les Palestiniens, les Iraniens et même les Talibans ne portent aucune responsabilité dans l’invasion que subissent la France et l’Europe. On a pourtant pu entendre un des membres de la délégation déclarer : « Israël est le poste avancé de l’Ouest libre, nous devons unir nos forces et combattre ensemble l’islamisme ici (en Israël) et chez nous (en Europe) ». Il se trompe.

C’est ici, sur notre terre d’Europe, et non en Israël, que nous devons mener la nécessaire Reconquista en rassemblant toutes les forces de la Résistance nationale et européenne ! De plus, nos soldats n’ont pas vocation à mourir, ni pour Washington, ni pour Tel Aviv. Et puis, n’oublions pas la responsabilité écrasante de lobbys qui, tout en défendant sans restriction Israël, ont toujours soutenu et encouragé l’immigration musulmane en France et en Europe.

Robert Spieler, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire

vendredi, 17 décembre 2010

Il ritorno turco nei Balcani

Il ritorno turco nei Balcani

di Alessandro Daniele

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il ritorno turco nei Balcani

 

La partecipazione, registratasi lo scorso luglio, del primo ministro turco Erdogan a fianco del presidente bosniaco Silajdžic e di quello serbo Tadic alle commemorazioni per il 15° anniversario del genocidio di Srebrenica ha segnato il ritorno della Turchia nei Balcani e l’esportazione della sua politica di “zero problemi coi vicini” anche nella ex Jugoslavia.

In particolare la presenza di Tadic all’evento ha rappresentato un grande successo per la diplomazia turca, che sin dall’autunno del 2009 aveva favorito l’inizio del dialogo tra Bosnia e Serbia con la visita del presidente turco Abdüllah Gül a Belgrado. Tale visita portò nell’aprile successivo alla firma di una dichiarazione con la quale Turchia, Bosnia e Serbia si impegnavano a promuovere una politica regionale basata sulla sicurezza ed il dialogo reciproco. Inoltre il 12 giugno scorso Erdogan, durante la sua visita nei Balcani, si recò a Belgrado per incontrare il premier serbo Cvetkovic e stipulare sei accordi di cooperazione che hanno sancito la libera circolazione delle persone tra Turchia e Serbia, nonché l’inizio di una maggiore cooperazione commerciale tra i due Paesi che culminerà nell’istituzione di una zona di libero scambio.

Altro importante tema di cui si è discusso a Belgrado è stato quello legato ai trasporti: in tale settore è stato delineato un progetto di cooperazione turco-serba in virtù del quale alcuni aeroporti militari dei due Paesi saranno aperti al traffico civile. Tale cooperazione, inoltre, porterà alla probabile acquisizione da parte della Turkish Airlines della compagnia serba Jat Airways, nonché allo stanziamento di circa 750 milioni di euro destinati a finanziare la costruzione di un’autostrada che collegherà Serbia e Montenegro passando per il Sangiaccato. Proprio quest’ultimo ha rappresentato l’ultima tappa del viaggio nei Balcani di Erdogan, il quale a Novi Pazar ha inaugurato un nuovo centro culturale turco.

La Turchia nei Balcani cento anni dopo

L’attuale attivismo turco nei Balcani coincide all’incirca con il centenario della “cacciata” dell’Impero ottomano dalla penisola. In occasione della prima guerra balcanica del 1912, infatti, un’alleanza composta da Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria sconfisse l’Impero, provocando l’inizio del ritiro definitivo della potenza ottomana dalla regione, ritiro che si sarebbe completato all’indomani della sconfitta nella Grande Guerra, combattuta dai turchi a fianco degli Imperi Centrali di Germania ed Austria-Ungheria.

Cento anni dopo è ovviamente un’altra Turchia quella che torna nei Balcani: si tratta di un Paese sostanzialmente democratico e moderno, con grandi potenzialità economiche, che si pone tra l’altro come autorevole membro della Nato e fedele alleato degli americani.

I Balcani, invece, rappresentano una realtà geopolitica per molti aspetti simile a quella di cent’anni fa: dopo una lunga parentesi storica, che andò dalla prima guerra mondiale alla fine della guerra fredda, nella regione sono “ricomparsi” piccoli Stati, chi più chi meno dipendenti dalle potenze europee, che a volte presentano caratteristiche “sui generis” come nel caso della Bosnia e del Kosovo, la prima persa dalla Turchia nel 1908 ed il secondo abbandonato dai turchi a seguito della sconfitta nella prima guerra balcanica.

Il dato davvero curioso è rappresentato dal fatto che la Turchia si trova oggi in compagnia del gruppo dei Paesi dei Balcani occidentali che aspirano ad aderire all’Unione Europea: a parte la Croazia, il cui ingresso nell’Unione sembra essere prossimo, tutti gli altri Stati (cioè Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Albania e Kosovo) sono i Paesi che per secoli hanno fatto parte dell’Impero ottomano.

La questione della stabilizzazione della regione balcanica

Al di là delle comuni radici storiche, la Turchia è attualmente impegnata in iniziative concrete volte anche a contribuire alla definitiva stabilizzazione della regione balcanica. In quest’ottica il suo interesse si è concentrato principalmente sulla Bosnia e si è concretizzato nell’ingresso effettivo della diplomazia turca sulla scena balcanica, registratosi all’indomani del fallimento del vertice di Butmir (l’aeroporto di Sarajevo) dell’ottobre 2009. Tale vertice è consistito in un incontro organizzato da europei e americani che avrebbe dovuto sbloccare l’impasse istituzionale che negli ultimi anni ha impedito le riforme in Bosnia, promuovendo il superamento degli accordi di pace di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra.

A partire dall’ottobre del 2009 l’iniziativa turca nei Balcani è dunque proseguita senza soste. Il 16 ottobre il ministro degli esteri turco Davutoglu, intervenendo ad un Convegno tenutosi a Sarajevo, parlò di una storia ed un futuro comune per la Turchia e i Balcani. Dieci giorni dopo il presidente turco Abdullah Gül dichiarò che Serbia e Turchia sono Paesi chiave nei Balcani, mentre il presidente serbo Boris Tadi parlò di collaborazione strategica tra i due Paesi.

Lo scorso 24 aprile, poi, si è svolto ad Istanbul un vertice definito storico tra i presidenti di Turchia, Bosnia Erzegovina e Serbia: tale vertice si è concluso con una Dichiarazione in cui si affermava l’impegno congiunto volto a promuovere la stabilizzazione della regione balcanica. Esso fu inoltre preceduto da un incontro, avvenuto a Belgrado, tra Davotuglu ed il suo omologo serbo Jeremic e quello spagnolo Moratinos, presidente di turno dell’Unione Europea, per discutere del vertice Ue/Balcani occidentali che si sarebbe tenuto il 2 giugno ed al quale avrebbe partecipato anche la Turchia. Vertice il cui maggior successo è stato quello di aver messo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di tutti i Paesi della regione, compresi quelli di Serbia e Kosovo. E sembra proprio che questo risultato sia stato raggiunto anche grazie alla Turchia, alla quale la Serbia aveva chiesto di adoperarsi per convincere gli esponenti kosovari a partecipare all’evento.

Considerazioni conclusive

Alcuni osservatori si chiedono se l’attivismo turco nei Balcani sia totalmente autonomo o se sia stato ispirato dagli Stati Uniti. Di certo esso è visto positivamente sia da Washington che da Bruxelles, come ha dimostrato l’invito a partecipare al vertice Ue/Balcani del 2 giugno. D’altronde ad Ankara questo ruolo non può che far piacere, non solo alla luce delle sue ambizioni di potenza regionale, ma anche perché può consentire alla Turchia di conquistare consensi preziosi soprattutto nell’ottica di una felice prosecuzione dei negoziati di adesione all’Unione europea. Negoziati il cui esito positivo è tutt’altro che sicuro anche alla luce delle resistenze di alcuni Paesi membri e delle perduranti difficoltà per l’Unione derivanti dalle adesioni del 2004 e del 2007.

Al di là comunque dell’eventuale ingresso turco nell’Ue, appare sempre più evidente come la Turchia, spesso stanca di attendere un’Europa che preferisce impegnarsi nell’opera di mediazione tra Hamas e Fatah in Palestina o nella ricerca di un accordo con Brasile e Iran sul nucleare, stia cercando in tutti i modi di assumere un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale.

Per ulteriori approfondimenti si veda dal sito di Eurasia:

La politica estera della Turchia: da baluardo occidentale a ponte tra Europa ed Asia

Riferimenti bibliografici

Franzinetti, Guido. I Balcani dal 1878 a oggi. Carocci: 2010.

Bianchini S. – Marko J. Regional cooperation, peace enforcement, and the role of the treaties in the Balkans. Longo Angelo: 2007.

Zürcher, Erik J. Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri. Donzelli, Roma: 2007.

Fiorani Piacentini, Valeria. Turchia e Mediterraneo allargato. Democrazia e democrazie. Franco Angeli: 2006.

Tremul, Francesco. La Turchia nel mutato contesto geopolitico. UNI Service: 2006.

Bozarslan, Hamit. La Turchia contemporanea. Il Mulino, Bologna: 2006.

Biagini, Antonello. Storia della Turchia contemporanea. Bompiani: 2002.

Hale, William. Turkish Foreign Policy. 1774-2000. Frank Cass, London-Portland: 2002.

* Alessandro Daniele è dottore in Relazioni e Politiche Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)

 

Der Islam und wir

Sex in einem Wiener U-Bahn-Wagon, und Fahrgäste, die ein kopftuchtragendes Mädchen wahrscheinlich eher stören würde, schauen begeistert zu. Großartig! Meldete sich ein empörter Spitzenpolitiker zu Wort? Ach ja, die wollen doch wieder gewählt werden, am liebsten von Eseln. Ja fällt es denn niemand auf, daß wir in einer Gesellschaft leben, die zunehmend mehr ins Abseits gerät?                                                                                         

Doch, da gibt es einen großen Haufen, der das längst mit Genugtuung registriert hat und nur darauf wartet, daß der reife Apfel in seinen Schoß fällt. Mehr als eine Milliarde sind sie, was aber politisch und sonstwie  Fehlgeleitete gar nicht davon abhält, ihnen den Fehdehandschuh hinzuwerfen.                                                                                                  

Dieser „Haufen“, der gemeinhin als Islam bekannt ist, wartet, in der Tat, auf seine Chance. Kann man ihm das verargen? Er wird ja geradezu eingeladen, sich auszubreiten. Einerseits durch eine vertrottelte Politik, andererseits durch eine, so scheint´s, hirnlose Gesellschaft namens „liberal“.

Als vor bald 15 Jahren mein Büchlein „Der Vormarsch des Islam“ erschien, war die Aufmerksamkeit für dieses Thema noch nicht so groß. Und obwohl es heute fast täglich behandelt wird, herrscht mehr denn je, neben unbestreitbaren Fakten, ein Gemenge von Halbwahrheiten und Desinformationen, das es vielen erschwert, sich ein objektives Bild vom Islam zu machen. Umso mehr, da auch versucht wird, politisches Kleingeld daraus zu schlagen.                                                                                                                                           Man braucht aber gar nicht den deutschen Goethe oder den Perser Khayyam gelesen zu haben, um zu wissen, daß Islam nicht automatisch Gewalt und Intoleranz bedeutet. Eigenschaften, die übrigens auch der katholischen Kirche einmal nachgesagt wurden.  Wenn es nun aber einmal so ist, daß immer wieder auch mißbräuchlich im Namen des Islam unvorstellbare Grausamkeiten geschehen und Unterdrückung stattfindet, so geschieht dies gewiß nicht im Namen aller Muslime und wird in vielen Fällen auch nicht durch den Koran gedeckt. Vieles, wie das Verschleiern, hat mit Tradition und weniger mit islamischer Authenzität zu tun.

Man kann islamistischen Terror, ob durch den Koran legitimiert oder nicht,  selbstverständlich nicht gutheißen, verstehen kann man ihn im Lichte der US-israelischen Politik aber schon. Durch diese und unsere untertänigen Politiker könnten wir aber noch in einen größeren Konflikt mit noch unbekannten Folgen hineingezogen werden.                        

Daß deshalb eine zu große muslimische Gemeinde in einem EU-Land irgendwann auch  zu einem größeren sicherheitspolitischen Problem werden könnte, ist vorstellbar.                                                                                                                                                                                                                                     

Der Problemkomplex Islam müßte daher, international, im Rahmen einer völlig neu ausgerichteten US- und EU-Außenpolitik, und national, unter Berücksichtigung des Gesamtproblems Überfremdung und der Souveränität eines Landes in dieser Frage einer gerechten Lösung zugeführt werden. Davon sind wir aber aus bekannten Gründen noch weit wentfernt. Ähnlich weit, wie unter den herrschenden Bedingungen ein erneuertes Wertefundament unserer Gesellschaft es ist.

mercredi, 15 décembre 2010

La France, pays le moins démocratique de l'Europe de l'Ouest

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La France, pays le moins démocratique de l'Europe de l'Ouest

Ex: http://www.polemia.com/

 

En France on parle beaucoup de « république ». Rarement de démocratie. Et pour cause ! La France est le pays le moins démocratique de l’Europe de l’Ouest.

La démocratie c’est le gouvernement du peuple par le peuple et pour le peuple. Cela suppose d’abord la liberté d’expression et la capacité de s’informer librement avant toute prise de décision — ce n’est pas le cas. Cela suppose ensuite une représentation élective des différents courants d’opinion qui soit équitable — ce n’est pas non plus le cas. Cela implique que la loi votée prévale sur les règles imposées d’ailleurs — ce n’est pas davantage le cas. Cela suppose enfin que le peuple puisse se prononcer directement par des référendums sur des sujets nationaux et locaux et que son opinion soit respectée — là encore ce n’est pas le cas.
Explications.

La France lanterne rouge pour la liberté de la presse

Reporters sans frontière publie chaque année un classement des pays selon leur degré de liberté de la presse. La France ne cesse de perdre des places. En 2010, elle se situe au 44e rang mondial derrière la… Papouasie Nouvelle Guinée. A l’exception de l’Italie, tous les pays d’Europe de l’Ouest sont largement devant la France.

Il y a deux explications à cela :
– l’existence en France de lois liberticides créant des délits d’opinion sur le « racisme », « l’homophobie » ou « la mémoire » ; lois d’autant plus dangereuses qu’elles sont interprétées au sens large par les tribunaux et qu’elles prévoient comme peine complémentaire l’inégibilité ; menace qui pèse sur la liberté d’expression des représentants élus du peuple ;
– une grande concentration des médias souvent contrôlés par des groupes d’affaires et des banquiers : Rothschild à Libération, Lazard au Monde, Goldman Sachs au conseil d’administration de Bouygues, propriétaire de TF1, pour ne citer que quelques cas.

Un Parlement croupion

A l’exception de la Grande-Bretagne, la quasi-totalité des pays d’Europe pratiquent le scrutin proportionnel et ont des parlements qui représentent la diversité et la pluralité des courants d’opinion : écologistes, populistes, identitaires, souverainistes, régionalistes notamment sont représentés dans les assemblées politiques.

Rien de tel en France où le scrutin majoritaire a mis en place un duopole UMP/PS c’est-à-dire droite d’affaires versus gauche mondialiste…, à moins que ce ne soit… droite mondialiste contre gauche d’affaires.

En France, depuis trente ans, les réformes de modes de scrutins qui se succèdent limitent les possibilités d’expression des courants non dominants : suppression de la proportionnelle législative en 1988, suppression de la proportionnelle nationale aux européennes de 2004, suppression de la proportionnelle intégrale aux élections régionales en 2004, et suppression annoncée de toute proportionnelle pour les futurs conseillers territoriaux qui remplaceront les conseillers régionaux en 2014.

Un gouvernement des juges

Le Parlement français est peu représentatif et dans les faits il a peu de pouvoirs. Il vote des lois bavardes mais le Conseil d’Etat, la Cour de cassation, le Conseil constitutionnel censurent tout ce qui n’est pas parfaitement politiquement correct (notamment en matière de sécurité, de famille et d’immigration). Et ces juridictions interprètent souvent lato sensu les jurisprudences de la Cour européenne des droits de l’homme et de la Cour européenne de justice, l’aura du juge apatride servant à renforcer le pouvoir du juge national.

Certes, les autres pays européens – sauf la Suisse – sont souvent logés à la même enseigne que la France. Mais ils ont des parlements davantage soucieux de leurs pouvoirs. La France, elle, vit clairement sous le gouvernement des juges, ce qui est singulier pour un pays qui a fait la Révolution, en 1789, notamment pour échapper au pouvoir des magistrats.

L’absence de démocratie directe

En Suisse, seule vraie démocratie européenne, le peuple peut s’exprimer par référendum d’initiative populaire sur tous les sujets et ce à l’échelon fédéral, cantonal, local. Les Allemands et les Italiens n’ont pas des possibilités aussi larges mais ils peuvent néanmoins s’exprimer directement à l’échelon local et régional. Ils jouissent ainsi de libertés que n’ont pas les Français : un Allemand de Munich ou de Stuttgart peut s’opposer à la construction de grandes tours ; pas un Parisien. On objectera que les Français ont pu en 2005 se prononcer par référendum sur le traité européen constitutionnel. Mais, comme leur vote négatif a déplu aux oligarques, un texte similaire à celui qu’ils avaient refusé leur a été imposé en 2007 par le président de la République. Formidable déni de démocratie !

La scénarisation médiatique des élections présidentielles

En 1962, le général De Gaulle a voulu que les Français élisent directement le président de la République au suffrage universel. C’est toujours le cas. A condition de préciser toutefois que les Français se prononcent sur une pré-sélection, préalablement faite par les médias, des candidats réputés « présidentiables » : Chirac, Barre, Mitterrand en 1988 ; Chirac, Balladur, Jospin en 1995 ; Chirac, Jospin en 2002 ; Royal, Bayrou, Sarkozy en 2007. C’est toujours droite d’affaires ou gauche mondialiste. On objectera qu’en 2002 Jean-Marie Le Pen parvint à se hisser au deuxième tour ; ses chances de succès étaient faibles mais il n’a pas eu droit à un combat loyal ni médiatiquement, ni politiquement, ni constitutionnellement, de grands médias allant jusqu’à appeler à des manifestations contre le résultat d’un premier tour de scrutin !

En matière de démocratie, la France rend des points à tous ses voisins

La démocratie est en crise dans tous les pays d’Europe. Partout les entraves à la liberté d’expression du peuple se multiplient : y compris en Suisse où l’UDC qui réunit 30% des suffrages et gagne des référendums a été privée de salle pour son congrès de décembre 2010 qu’elle a dû organiser dans les frimas sur une prairie.

Pourtant, à bien y regarder, c’est en France que la démocratie est la plus malmenée.

Ainsi les Suisses pratiquent la démocratie directe, organisent des élections proportionnelles et bénéficient d’une presse un (tout petit) peu moins conformiste qu’ailleurs. Les Italiens connaissent le scrutin proportionnel et un peu de démocratie directe. Tout comme les Allemands. Les Britanniques ont un scrutin-guillotine mais de vrais journaux et l’absence de lois liberticides. Portugais, Espagnols et Belges ont aussi un scrutin proportionnel.

La France cumule toutes les entraves à la démocratie : des lois liberticides, une presse hyper-conformiste à la solde des milieux d’affaires internationaux, un gouvernement des juges, l’absence de toute démocratie directe et un scrutin guillotine. En France, plus encore qu’ailleurs, le vote ne sert pas à choisir une politique, il sert tout au plus à donner une légitimité aux fondés de pouvoir de la superclasse mondiale. Il serait temps que le peuple se réveille pour défendre son intérêt et ses libertés.

Polémia
06/12/2010

Image : Lanterne rouge

Nationalisme et populisme en Suisse

« Nationalisme et Populisme en Suisse. La radicalisation de la nouvelle UDC » de Oscar Mazzoleni

Ex: http://www.polemia.com/

 

mazzbouqu.jpgCe livre montre l’évolution étonnante de la situation politique de la Suisse. A partir de 1991, l’Union Démocratique du Centre (UDC ; en Suisse alémanique SVP : Schweizerische Volkspartei), passe de 11,9% des voix à 28,9% en 2007. Dans le même temps, les partis « bourgeois » démocrate chrétien et radical démocratique passent de 18 à 14% et de 21 à 15%. Les petits partis de droite comme l’Action Nationale ou le parti des Automobilistes disparaissent. La confiance dans les partis en général passe de 50 à 30%

. Le carré magique de l’UDC

Selon l’auteur, l’Union Démocratique du Centre s’est renouvelée, rajeunie et radicalisée en appliquant une « formule gagnante » originale. Cette formule gagnante correspond à quatre thèmes dominants :

  • - La critique de l’establishment et de la classe politique (pour Blocher, des bluffeurs prétentieux assoiffés de privilèges) au nom de la démocratie véritable ;
  • - La défense de l’exception suisse et de l’identité nationale, notamment face à l’Europe et surtout face à l’immigration ;
  • - Le libéralisme économique nuancé par la préférence nationale en matière sociale et la protection des agriculteurs ;
  • - Le conservatisme moral fondé sur la lutte contre l’insécurité notamment.

Tradition et innovation, conservatisme et modernité

Le leader de l’UDC, Christoph Blocher, déclare : « notre secret, c’est que nous avançons sciemment et avec conviction sur la voie que nous nous sommes tracés entre tradition et innovation, entre conservatisme et modernité », les traditions étant pour lui les raisons profondes du succès du pays. D’après l’auteur, Blocher a renouvelé les méthodes du parti à partir de sa section de Zurich. Il a des moyens financiers importants une presse non négligeable avec notamment l’hebdomadaire national de haut niveau « Weltwoche ». Il dispose aussi d’une puissante association « l’association pour une Suisse neutre et indépendante ». Il a su mobiliser la clientèle des déçus du système politique, des abstentionnistes et de nombreux jeunes tout en fidélisant ses partisans.

L’originalité aussi de l’Union Démocratique du Centre est sa participation au gouvernement avec deux conseillers fédéraux (ministres) sur 7 de 2003 à 2007 : Samuel Schmidt et Christoph Blocher. Ainsi, le parti est à la fois dans le gouvernement et dans l’opposition mais c’est dû au système consensuel suisse d’élection des conseillers fédéraux (ministres) où tout parti important est représenté.

L’UDC : un mouvement démocrate identitaire

A la fin, l’auteur s’interroge sur l’étiquette à donner à un tel parti. Il récuse les mots « extrême droite » ou « droite radicale » ou « national conservatisme » pour préférer le national populisme. En réalité, l’auteur ne veut pas franchir le pas et reconnaître le caractère profondément démocratique de l’UDC d’où le choix du mot dévalorisant de « populisme ». On est en présence d’un parti démocrate national ou démocrate identitaire. Mais sa « formule gagnante est non double mais quadruple : démocratie directe (critique de l’oligarchie au pouvoir), conservatisme des valeurs (critique du laxisme et discours sécuritaire notamment), libéralisme économique (critique du fiscalisme et de l’étatisme) et défense de la nation (face à une immigration incontrôlée notamment). Ce faisant, l’UDC a remporté des victoires électorales uniques dans l’histoire récente de la Suisse sans compter ses succès dans les initiatives et référendums qu’elle a suscité en profitant de l’atout de la démocratie directe.

Yvan Blot
02/12/2010

Oscar Mazzoleni, Nationalisme et populisme en suisse. la radicalisation de la nouvelle UDC, Presses polytechniques et universitaires romandes, Collection : le savoir suisse, 2008 ; 141 pages.

Correspondance Polémia – 07/12/2010

mardi, 14 décembre 2010

Mélenchon zest-il fasciste?

Mélenchon est-il fasciste ?

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

jean_luc_melenchon.jpgCe trublion que l’on classe à la gauche de la gauche, alternant entre des alliances de circonstance avec le PC « F » de Pierre Laurent ou l’ex LCR devenue NPA d’Olivier Besancenot, sans oublier ses rapprochements tactiques avec une certaine frange écolo représentée, notamment, par José Bové (cf. la campagne pour le « non » à la constitution européenne de 2005), serait-il un authentique fasciste, au sens propre du terme… du moins dans sa dimension économique ?

Assurément populiste

Revendiquant une filiation avec Die Linke, parti politique outre-Rhin, se situant à gauche de l’alliance parlementaire SPD-Les Verts au Bundestag, Jean-Luc Mélanchon et son PDG (Parti de gauche) créé fin 2008, se situent sur une ligne idéologique empruntant au communisme anticapitaliste autant qu’au jacobinisme le plus ringard, le tout saupoudré d’un laïcisme des plus intransigeants. Il y aurait beaucoup à dire sur ces aspects doctrinaux qui donneraient à notre histrion un air désuet rad.-soc. du temps du petit père Combes. Mais ce qui interroge sont les troublantes similitudes, y compris terminologiques, qui feraient de Mélenchon, un adversaire politique pas comme les autres. Disons-le tout net, rien de commun avec un Le Pen, chez ce diable d’homme au verbe aussi haut que le défunt Frèche, si ce n’est, peut-être, une certaine faconde tribunicienne qui l’amène à se faire comprendre aisément par le Français moyen ou bas-moyen. Populiste ? Pourquoi pas, si l’on retient la définition somme toute blondinienne et jeanyannesque de Denis Tillinac : « est populiste quiconque cause, réagit, s’émeut, s’ébahit, s’indigne comme les gens du peuple sans recourir aux grilles de lectures édictées par l’idéologie. Ou imposées par l’euphémisation chère aux technocrates (…). Aucun pathos branché ou contourné, rien que des sentiments populaires ».

Opportunément souverainiste et stratégiquement communiste

Mais point, non plus, du moins, en apparence, de dictature du prolétariat ou de dépérissement marxiste-léniniste de l’Etat, chez ce héraut tout en verve et à la rhétorique âpre et serrée. Au contraire, tout chez lui converge vers l’Etat conçu comme le principe et la fin de son idéal de gouvernement. Pour dire les choses autrement, il exhale de ses idées un sulfureux parfum de socialisme national, syntagme que l’intéressé lui-même serait sans doute prompt à réfuter en bloc de crainte d’effrayer ces « cons d’électeurs », que Frèche condescendait à mépriser. C’est que depuis la victoire du « non » au référendum du 29 mai 2005, le vent de l’Histoire (tout au moins celle des mentalités qui ont évolué depuis le précédent plébiscite mitterrandien sur le traité de Maastricht) lui gonfle les voiles. La crise économico-financière de ces deux dernières années rappelant furieusement (mais plus gravement aussi) celle de 1929, pourquoi ne pas renouer avec un certain volontarisme politique décomplexé visant à serrer la vis du patronat grand-bourgeois comme de l’argent-roi ? Son rapprochement d’avec un PC« F » moribond (1,93% lors des présidentielles de 2007) dans l’espoir inavoué mais évident de l’avaler, le placerait dans une perspective nationale-bolchévique, sans pour autant le classer aveuglément dans la catégorie fourre-tout de « l’extrême-droite ». Car précisément, Mélenchon proclame un attachement idéologique proche de l’extrême-gauche, ainsi que son éloignement du PS, sans doute jugé trop mollasson à son goût, l’atteste. Nul héritage révolutionnaire-conservateur, ainsi que l’entendait Moeller van den Bruck, théoricien d’un concept qui fit florès dans l’Allemagne weimarienne. Plus staliniste que trotskyste, Mélenchon prône une économie planifiée, pourquoi pas de type communiste, mais dans le cadre même des frontières hexagonales, en témoigne son scepticisme face au dogme européiste de l’amitié franco-allemande.

Economiquement fasciste ?
 
Dans le champ de l’économie politique, Mélenchon est résolument anticapitaliste, favorable à l’union des classes productives est chaud partisan d’une république sociale. Isolément prises, ces postures se retrouvent dans à peu près tous les mouvements altermondialistes (c’est-à-dire favorable à une « autre » mondialisation de type crypto-internationaliste rénové, à la sauce de l’antique Komintern) ou d’extrême-gauche. Mais en les faisant converger dans un seul et même faisceau dirigiste et d’interventionnisme étatique, elles revêtent les oripeaux d’un fascisme (dans l’acception mussolinienne et non dans celle dévoyée de l’insulte courante propre à la reductio ad hitlerum) cantonné à l’économie. Il y aurait, en effet, certainement loin de la coupe aux lèvres pour affirmer que notre bouillant jurassien serait également politiquement et idéologiquement fasciste. Il manque quand même le corporatisme d’Etat spécifique au fascisme italien. Néanmoins, l’acerbe (et non dénuée de bon sens, par ailleurs) critique mélanchonienne du capitalisme financier occidental le rapproche singulièrement du diagnostic établi par le Duce lui-même à l’orée des années 1930, ce qui avait conduit ce dernier à condamner le système libéral comme cause unique et inévitable de la crise du système capitaliste. Toutefois, et c’est en cela que sa doctrine économique reste insaisissable, nonobstant de prudentes mais persistantes proximités conceptuelles avec le fascisme économique, on doit relever son refus de la croissance économique permanente (productivisme) au nom de la décroissance écologique. De Mussolini à Serge Latouche (économiste et sociologue, théoricien français de la décroissance) de la « marche sur Rome » au « club de Rome » (célèbre pour avoir, le premier, en 1972, rédigé un rapport sur « les limites de la croissance »), le grand bond jubilaire est saisissant de contraste, avouons-le ! Telle est la singularité de Mélenchon. Du fascisme rouge-brun, au fascisme vert, un nouvel impressionnisme politique ?

 

Robert Massis

La stratégie américaine pour influencer les minorités en France

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La stratégie américaine pour influencer les minorités en France

Confirmation du diagnostic

Ex: http://www.polemia.com/

 

Wikileaks a permis de lever le voile sur ce qui était déjà une évidence : les Américains sont clairement engagés dans une stratégie d’influence de vaste ampleur vis-à-vis des minorités en France. Pour les lecteurs de ce blog, et notamment de l’article du 16 septembre dernier (« Les banlieues françaises, cibles de l’influence culturelle américaine »), il ne s’agit pas là d’une découverte mais d’une confirmation : oui, il y a une claire et nette entreprise de manipulation des minorités en France par les Américains. Les opérations mises en œuvre sont scrupuleusement planifiées, suivies et évaluées.

Tel est le constat auquel on parvient à la lecture du rapport de l’actuel ambassadeur des Etats-Unis en France, Charles Rivkin, envoyé le 19 janvier 2010 au Secrétariat d’Etat américain, sous le titre : EMBASSY PARIS – MINORITY ENGAGEMENT STRATEGY (Ambassade de Paris – Stratégie d’engagement envers les minorités). Je vous propose donc une sélection et une traduction d’extraits de ce rapport.

Voici le plan de ce rapport dont le vocabulaire offensif ne laisse pas de doute sur l’ambition des actions initiées :

a. Résumé
b. Arrière-plan : la crise de la représentation en France
c. Un stratégie pour la France : nos objectifs
d. Tactique 1 : S’engager dans un discours positif
e. Tactique 2 : Mettre en avant un exemple fort
f. Tactique 3 : Lancer un programme agressif de mobilisation de la jeunesse
g. Tactique 4 : Encourager les voix modérées
h. Tactique 5 : Diffuser les meilleures pratiques
i. Tactique 6 : Approfondir notre compréhension du problème
j. Tactique 7 : Intégrer, cibler et évaluer nos efforts.

Lire la suite de l’article, en pdf, à l’adresse suivante :
http://www.polemia.com/pdf_v2/RapportRivkin.pdf

Benjamin PELLETIER
04/12/2010
http://gestion-des-risques-interculturels.com/risques/la-...
L’article original comporte le texte anglais des citations.

Voir : Vol A 93120 : Washington-La Courneuve
http://www.polemia.com/article.php?id=2820

Correspondance Polémia 09/12/2010

lundi, 13 décembre 2010

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

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Ex: http://xandernieuws.punt.nl/?id=613934&r=1

 WikiLeaks (8):

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

'Wraak op Europa vanwege nederlaag bij Wenen'

Erdogan woedend vanwege onthulling 8 geheime bankrekeningen in Zwitserland

Tayyip Erdogan: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten.'

Uit diverse door WikiLeaks gelekte documenten blijkt dat binnen de heersende
AK Partij van de Turkse premier Erdogan de wijdverspreide opvatting heerst
dat het de opdracht is van Turkije om Europa te islamiseren en om 'Andalusië
(Zuid Spanje) te heroveren en de nederlaag bij Wenen in 1683 te wreken.' De
verspreiding van de islam in Europa is volgens de belangrijkste denktank van
de AKP het werkelijke hoofddoel van het beoogde Turkse lidmaatschap van de
EU. (1)

Binnen de AKP zijn er echter ook stemmen die bang zijn dat het lidmaatschap
van de EU zal leiden tot een 'verwaterde' versie van de islam en de daarbij
behorende Turkse tradities. 'Als de EU 'ja' zegt (tegen het Turkse
lidmaatschap) zal alles er een korte tijd rooskleurig uitzien. Maar dan
ontstaan de echte moeilijkheden voor de AKP. Als de EU 'nee' zegt dan zal
dat aanvankelijk lastig zijn, maar op de lange termijn veel gemakkelijker,'
als AKP prominent Sadullah Ergin.

Erdogan wordt omschreven als een machtswellusteling die iedereen wantrouwt
en streeft naar totale alleenheerschappij. 'Tayyip (Erdogan) gelooft in
God... maar vertrouwt hem niet,' zou zijn vrouw Emine het treffend hebben
uitgedrukt. Erdogan stelt zich in het openbaar weliswaar pragmaitisch en
'gematigd' op, maar heeft wel degelijk een islamistische achtergrond. Als
burgemeester van Istanbul noemde hij zichzelf in 1994 de 'imam van Istanbul'
en een 'dienstknecht van de Sharia.' (2) In 1998 verbleef hij zelfs vier
maanden in de gevangenis vanwege het voordragen van een extremistisch
islamitisch gedicht dat sprak van de verovering van alle niet-moslimlanden
door de islam: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten...' (3)

De Turkse premier reageerde woedend toen uit een WikiLeaks document uit 2004
naar voren kwam dat hij maar liefst acht geheime bankrekeningen in
Zwitserland heeft waar hij regelmatig grote sommen geld naar wegsluist (4).
Vanzelfsprekend ontkende Erdogan alle aantijgingen, noemde hij de documenten
'geroddel' en dreigde hij om gerechtelijke stappen tegen de onthullers te
nemen. Verder omschrijven Amerikaanse diplomaten Erdogan als iemand die
Israël haat en zich omringt met gluiperige adviseurs. Ook zou hij enkel en
alleen islamistische kranten lezen. Tevens wordt zijn minister van
Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu omschreven als 'extreem gevaarlijk'.

Recent schreven we al dat uit eerdere gelekte documenten blijkt dat Turkije
zowel indirect als actief het moslimterrorisme in Irak (en tevens
Afghanistan) steunt met wapens en geld. De verwijzing binnen de AKP naar
Andalusië en de Ottomaanse nederlaag bij Wenen in 1683 is geheel volgens het
islamitische principe dat landen en streken die ooit onder moslim controle
stonden voor altijd islamitisch grondgebied blijven en verplicht moeten
worden heroverd. Alle Nederlandse politieke partijen -met uitzondering van
de PVV en de SGP- besloten onlangs om de Turkse doelstelling om Europa en
dus ook Nederland te islamiseren niet tegen te gaan.

(1) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2010/11/30/225/
(2) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2007/03/21/ANKARA...
(3) Atlas Shrugs
http://atlasshrugs2000.typepad.com/atlas_shrugs/2009/10/s...
n-of-europe-rally-december-13th-spread-the-word-save-the-world.html
(4) Ynet News http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3992628,00.html

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612882&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks (3):

Vooral Saudi's willen aanval op Iran; Turkije onbetrouwbaar

Erdogan omringt zich met 'parasitaire bedriegers' - Veel Arabische landen
zien Iran als 'existentiële bedreiging' - Geen schokkende onthullingen over
Israël

WikiLeaks 'Shocker'(?): Het enige continent waar Barack Obama nog populair
is, Europa, laat de Amerikaanse president nu juist volkomen koud.

Uit de ruim 250.000 geheime documenten die WikiLeaks op internet heeft gezet
blijkt dat vooral Saudi Arabië -nog meer zelfs dan Israël- herhaaldelijk
aandringt op een Amerikaanse militaire aanval op Iran, en dat het hoofd van
de gevreesde Israëlische geheime dienst Mossad, Meir Dagan, hier juist op
tegen is en meer ziet in strenge sancties en undercover operaties om het
regime Ahmadinejad -die onder diplomaten de bijnaam 'Hitler' heeft gekregen-
omver te werpen.

De Saudische koning Abdullah heeft de laatste jaren regelmatig van de VS
geëist Iran aan te vallen. In 2008 kreeg de Amerikaanse generaal David
Petraeus van de afgevaardigde van Abdullah in Washington te horen dat
Amerika 'het hoofd van de slang moet afhakken'. De Saudi's vrezen een Iran
met kernwapens misschien wel nog meer als Israël, waar minister van Defensie
Barak weliswaar regelmatig eveneens pleitte voor militair ingrijpen (4),
maar het machtige hoofd van de Mossad, Meir Dagan, hier juist heel
pessimistisch over was en zich wilde concentreren op het omverwerpen van het
huidige Iraanse regime door middel van sancties en geheime operaties.

Naast Saudi Arabië hebben ook officials uit Jordanië en Bahrain Amerika
openlijk opgeroepen om desnoods met militaire middelen een einde te maken
aan het Iraanse nucleaire programma. Ook de leiders van de Verenigde
Arabische Emiraten en Egypte zien Iran als 'het kwaad' en een 'existentiële
bedreiging', die 'ons in een oorlog zal doen storten'. Israëlische officials
zeggen al jaren dat wat de Arabische leiders publiekelijk meedelen iets heel
anders is dan wat ze een privé gesprekken zeggen.

Turkije onbetrouwbaar
Gisteren meldden we al dat de Arabische krant Al-Hayat schreef dat uit de
WikiLeaks publicaties blijkt dat Turkije door middel van het smokkelen van
wapens en geld steun geeft aan de moslimterroristen in Irak en zelfs
betrokken is bij het opblazen van een brug in de hoofdstad Baghdad.

Volgens het Duitse blad Der Spiegel, één van de internationale media die
vooraf inzage kreeg in de geheime documenten, karakteriseren Amerikaanse
diplomaten Turkije dan ook als onbetrouwbaar. De Turkse premier Erdogan zou
weinig begrijpen van de politiek buiten Ankara en het Turkse leiderschap is
verdeeld door de infiltratie van radicale islamisten. 'Erdogan heeft zich
omringd met een ijzering kring van sycofante (sycofant = gemene bedrieger,
beroepsverklikker, parasiet) (maar minachtende) adviseurs,' aldus een gelekt
diplomatiek bericht.

Geen schokkende onthullingen over Israël
Waar veel Israëlhaters vanzelfsprekend op hoopten, namelijk dat de Joodse
staat in de gelekte documenten bevestigd zou worden als de boeman en de
grote instigator van het kwaad in de wereld, is totaal niet uitgekomen,
precies zoals de Israëlische premier Netanyahu al voorspeld had. Er is zelfs
nauwelijks iets noemenswaardigs te vermelden, behalve dat hoge Israëlische
officials regelmatig hun grote zorg uitspreken over Iran en zeggen dat
Israël het zich niet kan veroorloven zich te laten verrassen.

Over Iran gesproken: tijdens de tweede Libanonoorlog in 2006 smokkelde het
regime Ahmadinejad onder de vlag van de Iraanse Rode Maansikkel (de
Arabische variant van het Rode Kruis) wapens en geheime agenten naar
Libanon. Dit zou blijken uit een bericht uit Dubai dat gebaseerd is op een
ontmoeting in 2008 tussen een Amerikaanse diplomaat en een niet bij name
genoemde bron.

Ander interessante onthullingen
- Donors uit Saudi Arabië blijven de belangrijkste financiers van het (Al
Qaeda) Soennitische moslimterrorisme. Het Arabische Golfstaatje Qatar blijkt
het slechtst mee te werken met anti-terreuroperaties.

- Een bijna conflict tussen de VS en Pakistan over mislukte Amerikaanse
pogingen om Pakistaans verrijkt uranium veilig te stellen voor terroristen.

- Zuid Koreaanse en Amerikaanse diplomaten speculeren over de vereniging van
de beide Korea's na het eventuele instorten van Noord Korea. China, dat hier
mordicus op tegen is, zou moeten worden overgehaald met aantrekkelijke
handelsovereenkomsten.

- Amerikaanse diplomaten deden aan handjeklap om andere landen te overtuigen
gevangenen van Guantanomo Bay over te nemen. Slovenïe kreeg te horen dat
Obama alleen (officials van) het land wilde ontmoeten als ze een gevangene
zouden overnemen. Het onafhankelijke eiland Kiribati kreeg miljoenen dollars
aangeboden voor een hele groep gedetineerden, en België kreeg te horen dat
het een goedkope manier was om een prominente plaats in Europa te verwerven.

- De Afghaanse regering wordt verdacht van corruptie. De autoriteiten van de
Verenigde Arabische Emiraten ontdekten dat de op bezoek zijnde Afghaanse
vice-president $ 52 miljoen bij zich had, van onbekende herkomst en met
onbekende bestemming. Besloten werd om het maar zo te laten. Natuurlijk
ontkent Massoud alles.

- Zoals velen al vermoedden blijkt het Chinese Politburo inderdaad achter
het blokkeren van Google in dat land te zitten. Tevens heeft de Chinese
overheid zowel eigen medewerkers als experts van buitenaf en onafhankelijke
hackers ingezet om in te breken in de de computersystemen van de Amerikaanse
overheid en andere Westerse landen. Ook de Dalai Lama en het Amerikaanse
bedrijfsleven zijn sinds 2002 het doelwit.

- Een bizarre alliantie: Amerikaanse diplomaten beschrijven de 'buitengewoon
nauwe' relatie tussen de Russische premier Vladimir Putin en de Italiaanse
premier Silvio Berlusconi -liefhebber van 'wilde feesten'-, inclusief
lucratieve energiecontracten en overdadige cadeaus. Berlusconi zou in
toenemende mate de spreekbuis van Putin in Europa aan het worden zijn.

- Over Putin zelf: alhoewel hij inderdaad met afstand de machtigste man van
Rusland is, wordt hij in toenemende mate ondermijnd door een onhandelbaar
bureaucratisch systeem dat zijn bevelen vaak negeert. Putin wordt door
diplomaten omschreven als een 'alpha mannetje'. Andere aardige bijnamen voor
wereldleiders: Angela 'Teflon' Merkel (overigens gekarakteriseerd als iemand
die geen besluiten durft te nemen), 'keizer zonder kleren' Nicolas Sarkozy
en 'lichtgewicht' David Cameron (3). De Noord Koreaanse leider Kim Jong il
zou lijden aan epilepsie en de Libische leider Muammar Gaddaffi zou zich 24
uur per dag laten verzorgen door een 'hete blonde' verpleegkundige.

- Als laatste: ontnuchterend nieuws voor de vele Obama liefhebbers in
Europa, het enige continent waar de meerderheid nog blij met hem lijkt te
zijn: volgens het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken heeft Obama
helemaal niets met Europa en kijkt hij veel liever naar het Oosten dan naar
het Westen. Amerika ziet de wereld als een conflict tussen twee
supermachten, waar de Europese Unie slechts een bijrolletje in speelt.
 
(1) Jerusalem Post http://www.jpost.com/International/Article.aspx?id=197130

(2) Arutz 7 http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140882
(3) DEBKA http://www.debka.com/article/20402/
(4) DEBKA http://www.debka.com/article/20404/

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612703&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks:

Turkije steunt moslimterroristen Irak

In 2007 werd de belangrijke Sarafiya brug in Baghdad door terroristen
opgeblazen. Turkije blijkt nu direkt betrokken bij het opblazen van
tenminste één brug in de Iraakse hoofdstad.

De ontmaskering van Turkije als anti-Westerse extremistische moslimstaat
krijgt een extra ontluisterende dimensie nu uit de nieuwe documenten die
WikiLeaks zal publiceren blijkt dat de Turken zorgden dat er wapens naar Al
Qaeda in Irak werden gesmokkeld en dat ze zelfs zowel direkt als indirekt
betrokken zijn geweest bij terreuraanslagen in Baghdad.

Volgens de Arabische krant Al-Hayat bewijzen de geheime officiële documenten
dat de Turkse autoriteiten toestemming gaven voor de smokkel van wapens en
geld naar de Al Qaeda terroristen in Irak. Ook laten de documenten zien dat
Turkije betrokken was bij onder andere het opblazen van een brug in Baghdad
en werd er in 2009 bij terroristen munitie in beslag genomen dat gemarkeerd
was met 'made in Turkey'.

Eén van de documenten die door Al Hayat worden genoemd bevat een gecodeerd
bericht dat zo te zien door een Amerikaanse inlichtingendienst werd
verzonden. De tekst 'Uit Turkije zijn grote hoeveelheden water aangekomen.
Over een paar uur zullen grote golven Baghdad treffen. Sommige mensen zijn
de irrigatiekanalen aan het verbreden' lijkt te wijzen op het arriveren van
wapens uit Turkije, bedoeld voor aanslagen en andere terreuracties in
Baghdad.

De VS probeert in het licht van de komende nieuwe WikiLeaks publicaties de
diplomatieke schade te beperken.'Deze onthullingen brengen de VS en onze
belangen schade toe. Ze zullen over de hele wereld spanning creëren in de
relaties tussen onze diplomaten en onze vrienden... Als het vertrouwen (van
andere overheden) beschadigd wordt en op de voorpagina van de kranten of in
het nieuws van radio en tv belandt, heeft dat een impact,' aldus P.J.
Crowley, woordvoerder van het Amerikaanse minister van Buitenlandse Zaken.

Het is echter maar de vraag of Amerika en Europa aandacht zullen durven
besteden aan de Turkse steun voor de moslimterroristen in Irak. Hierdoor zou
immers de conclusie moeten worden getrokken dat Turkije geen betrouwbare
bondgenoot is, dubbelspel speelt en de recente aansluiting van Turkije bij
het extremistische islamitische blok Iran-Syrië-Hezbollah-Hamas daarom
bloedserieus is en een direct gevaar oplevert voor de NAVO en het Westen.
Ook moet dan definitief worden toegegeven dat de Turken absoluut niet bij de
Europese Unie horen. (1)

(1) Arutz 7  http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140843

dimanche, 12 décembre 2010

Geopolitische Hintergründe der NATO Intervention im Kosovo

Archives - 2000

 GEOPOLITISCHE HINTERGRÜNDE

DER NATO INTERVENTION IM KOSOVO

Serge TRIFKOVIC

 Ex: http://trifkovic.mystite.com/

Aussage vor dem  ständigen Komitee für auswärtige Angelegenheiten und internationalen Handel im kanadische Unterhaus, Ottawa, 17. Februar 2000

corridor8.gifDer Krieg der Nato gegen Jugoslawien im Jahre 1999 markiert einen deutlichen Wendepunkt, nicht nur für Amerika und die NATO sondern auch für den  gesamten Westen. Das Prinzip der nationalen Souveränität und sogar das Prinzip der Rechtstaatlichkeit wurde Namens einer angeblichen humanitären Ideologie untergraben. Tatsachen verdrehte man zu Erfindungen und sogar diese Erfindungen, die ausgegeben wurden um die eigene Handlungsweise zu rechtfertigen, erheben keinen Anspruch auf Glaubwürdigkeit mehr.

 

Traditionelle Systeme für den Schutz nationaler Freiheiten auf politischer, rechtlicher und wirtschaftlicher Ebene sind jetzt in Instrumente für deren Zerstörung umgewandelt worden. Aber weit entfernt davon, dass die westlichen Regierungseliten mit ihrem rücksichtslosen Durchsetzen der Ideologie einer multiethnischen Gesellschaft und internationalen Menschenrechten ihre Vitalität zeigen, könnte ihr Engreifen im Balkan möglicherweise der verstörende Ausdruck des kulturellen und moralischen Zerfalls eben dieser herrschenden Eliten sein. Ich werde darum meine Anmerkungen den Folgen des Krieges widmen, in Hinblick auf das sich bildende neue internationale System und die letztendliche Auswirkung auf die Sicherheit und Stabilität selbst der westlichen Welt.

 

Fast ein Jahrzehnt trennte Wüsten-Sturm von der Bombardierung aus humanitären Gründen. 1991 war der Vertrag von Maastricht unterzeichnet, und mit der Verlauf des restlichen Jahrzehnts hat die stückweise Usurpierung der traditionellen europäischen Souveränität durch ein Regime von kontrollierenden Körperschaften in Brüssel und nicht gewählten Beamten platzgegriffen, die sich mittlerweile dreist genug fühlen Osterreich vorschreiben zu können, wie es seine eigenen Angelegenheiten zu führen hätte. Auf dieser Seite des Ozeans (der Autor spricht in Ottawa. d. Übers.) Gab es die Einsetzung der NAFTA und 1995 brachte die Uruguay-Runde des GATT  die WTO. Die neunziger Jahre waren somit ein Jahrzehnt in dem nach und nach die neue internationale Ordnung begründet wurde. Das Anschwärzen nationaler Souveränität hypnotisierte die Öffentlichkeit derart, dass sie dem Prozess der Demontage gerade der Institutionen applaudierten, die noch alleiniger Ausdruck der Hoffnung auf Volksvertretung waren. Der Prozess ist soweit fortgeschritten, dass Präsident Clinton behaupten kann (in: Ein gerechter und notwendiger Krieg, New York Times, 23. Mai 1999): Hätte die NATO Serbien nicht bombardiert, wäre sie selbst in Hinblick auf gerade die Werte, für die sie selbst steht, unglaubwürdig geworden.

 

Tatsächlich aber war der Krieg sowohl unrecht als auch unnötig. Aber das bemerkenswerte an Clintons Aussage lag darin, dass er vor aller Öffentlichkeit das internationale System, das seit dem Westfälischen Frieden (1648) besteht, für null und nichtig erklärt hat. Es war zwar ein unvollkommenes System, dass oftmals gebrochen wurde, es  stellte aber die Grundlage für internationale Verständigung dar, an die sich lediglich einge wenige rote und schwarze Totalitaristen offenkundig nicht gehalten haben. Seit dem 24. März 1999 wird es mit der sich immer deutlicher abzeichnenden Clinton Doktrin ersetzt, die eine Blaupause der Breschnev Doktrin der eingeschränkten Souveränität darstellt und die seinerzeit die sowjetische Invasion in der Tschechoslowakei 1968 rechtfertigte. Wie sein sowjetischer Vorgänger gebrauchte Clinton eine abstrakte und weltanschaulich befrachtete Vorstellung - die der universellen Menschenrechte- als Vorwand für die Verletzung des Rechts und der Tradition. Die Clinton Doktrin hat ihre Wurzeln in der beiden Parteien eigenen Hybris der Washingoner aussenpolitischen "Elite", der ihr eigens Gebräu von ihrer Rolle als "letzter und alleiniger Supermacht" zu Kopf gestiegen ist. Rechtliche Formalitäten sind passé und moralische Vorstellungen - die in internationalen Angelegenheiten niemals sakrosankt sind - werden durch einen zynischen Gebrauch einer situationsgebundenen Moral ersetzt, je nach Lage der im Bezugsystem der Supermacht handelnden.

 

Nun ist also wieder imperiales Grossmachtdenken zurückgekehrt, aber in neuer Form. Alte Religion, Fahnen und nationale Rivalitäten spielen keine Rolle. Aber das starke Verlangen nach Aufregung [exitement] und Wichtigkeit, das die Briten bis nach Peking, Kabul und Khartum, die Franzosen nach Faschoda (s. Fussnote#1 d. Übers.)  und Saigon, die Amerikaner nach Manila trieb ist jetzt wieder aufgetaucht. Das Resultat war, dass ein unabhängiges Land mit einem Krieg überzogen wurde, weil es sich weigerte, fremde Truppen auf seinem Boden zuzulassen. Alle anderen Rechtfertigungen sind nachträgliche Rationalisierungen. Die Mächte, die diesen Krieg geführt haben, haben es begünstigt und dazu aufgehetzt, dass eine ethnische Minderheit die Loslösung betreiben konnte, eine Loslösung, die, wenn sie einmal formal vollzogen ist, manch eine europäische Grenze in Frage stellen wird. In Hinblick auf jede andere europäische Nation würde diese Geschichte surreal klingen. Die Serben wurden jedoch so weitgehend dämonisiert, dass sie nicht mehr davon ausgehen können, dass man sie so wie andere behandelt.

 

Doch die Tatsache dass der Westen mit den Serben machen kann, was er will, erklärt noch nicht, warum er das tun soll. Es ist kaum Wert, dass man es widerlegt, und dennoch: Die fadenscheinigen Ausreden für eine Intervention. Humanitäre Gründe wurden angeführt. Aber was ist mit Kaschmir, Sudan, Uganda, Angola, Sierra Leone, Sri Lanka, Algerien? Feinsäuberlich auf Video aufgenommen und amanpourisiert [s. Fussnote#2 d. Übers.], jedes hätte zwölf Kosovos leicht aufgewogen. Natürlich gab es keinen Völkermord. Verglichen mit den Schlachtfeldern der Dritten Welt war das Kosovo ein unbedeutender Konflikt auf niedriger Ebene, etwas schmutziger vielleicht als in Nordirland vor einem Jahrzehnt, aber weit geringer als Kurdistan. Bis Juni 1999 gab es 2108 Opfer auf allen Seiten im Kosovo, in einer Provinz von über 2 Millionen Menschen. Es schneidet selbst im Vergleich zu Washington D. C. (Bevölkerung: 600 000) mit seinen 450 Selbstmorden besser ab. Leichen zählen ist unanständig, aber wenn man die Brutalität und ethnischen Säuberungen bedenkt, die von der NATO ignoriert oder, wie die 1995 in Kroatien oder die in der Osttürkei, sogar geduldet wurden, dann wird deutlich, dass es im Kosovo nicht um universale Prinzipien ging. In Washington gilt Abdullah Ocalan als Terrorist, aber die UCK sind Freiheitskämpfer.

 

Worum ging es dann? Die Stabilität der Region, wurde als nächstes behauptet. Wenn wir den Konflikt jetzt nicht stoppen, greift er auf Mazedonien, Griechenland, die Türkei und praktisch den ganzen Balkan über. Gefolgt von einem  grossen Teil Eurpopas. Aber die Kur - Serbian solange bombardieren bis ein ethisch reines albanisches Kosovo unter den wohlwollenden Augen der NATO an die albanische UCK Drogen-Maffia übergeht - wird eine Kettenreaktion in der exkommunstischen Hälfte Europa auslösen.

 

Sein erstes Opfer wird die frühere jugoslawische Republik Mazedonien sein, in der die widerspenstige albanische Minderheit ein Drittel der Gesamtbevölkerung ausmacht. Wird denn das Modell Pristina nicht auch von den Ungarn in Rumänien, (die dort zahlreicher sind als Albaner im Kosovo), und in der Südslowakei gefordert werden? Was soll die Russen in der Ukraine, in Moldavien, in Lettland und im Norden Kasachstan davon abhalten sich dem anzuschliessen? Oder die Serben und Kroaten im chronisch instabilen Dayton - Bosnien? Und wenn schliesslich, die Albaner auf Grund ihrer Anzahl ihre  Trennung bekommen, trifft dass selbe dann auch auf die Latinos in Südkalifornien oder Texas zu, sobald die ihre angelsächsischen Nachbarn zahlenmässig überwiegen und eine zweisprachige Staatlichkeit verlangen könnten die zu einer Wiedervereinigung mit Mexiko führen würde? Sollen Russland und China die Vereinigten Staaten mit Bombardierung drohen, wenn es nicht einlenkt?

 

Das was jetzt im Kosovo herausgekommen ist, stellt ein äusserst unvollkommenes Modell einer neuen Balkanordnung dar, das die Ambitionen aller ethnischen Gruppen des früheren Jugoslawiens, mit Ausnahme der Serben, zu befriedigen sucht. Das ist für alle Betroffenen eine zerstörerische Strategie. Auch wenn man sie jetzt mit Gewalt zum Gehorsam gezwungen hat, sollen die Serben bei der entstehenden künftigen Ordnung der Dinge nichts einzusetzen haben. Früher oder später werden sie darum kämpfen, den Kosovo zurück zugewinnen. Der Frieden von Karthago, den man heute Serbien auferlegt, wird für künftige Jahrzehnte zu chronischer Instabilität und Streit führen. Er wird den Westen auf dem Balkan in einen Morast verstricken und, sobald Mr. Clintons Nachfolger kein Interesse mehr daran haben, für die auf üblem Wege gewonnenen Erwerbungen ihrer Balkanverbündeten gerade zu stehen, garantiert einen neuen Krieg geben.

 

Die NATO hat jetzt gewonnen, aber der Westen hat verloren. Der Krieg hat genau die Prinzipien unterminiert, die den Westen ausmachen, nämlich, die Herrschaft des Rechts. Der Anspruch auf Menschenrechte kann weder für die Herrschaft des Rechts noch der Moral jemals die Grundlage bilden. Universelle Menschenrechte, die von ihrer Verwurzelung im jeweiligen Ort und der Zeit losgelöst sind, öffnen jedem Hauch einer Empörung und jeder Laune des Augenblicks darüber, wer gerade ein Opfer darstellt, den Weg. Die fehlgeleitete Bemühung, die NATO von einer Verteidigungs-gemeinschafft in eine Mini-U.N. zu verwandeln, mit selbstverfassten Verantworlichkeiten über das Gebiet seiner Vertragspartner hinaus, ist ein sicherer Weg zu weiteren Bosniens und Kosovos. Jetzt, da die Clintonistas und die NATO im Kosovo erfolgreich waren, können wir mit weiteren neuen und noch gefährlicheren Abenteuern anderswo rechnen. Aber beim nächsten Mal werden die Russen , die Chinesen, Inder und andere schlauer sein und uns nicht mehr die Sprüche über Freie Märkte und demokratische Menschenrechte abkaufen. Die Zukunft des Westens wäre in einem dann womöglich unvermeidlichen Konflikt unsicher.

 

Kanada sollte die Folgen eines solchen Kurses gut bedenken und um seinetwillen und den Frieden und die Stabilität der ganzen Welt seinen Mut zusammentun und Nein zum weltweiten Eingreifen sagen. Muss es wirklich in widerspruchsloser Unterwerfung zusehen, wie ein langdauerndes gefährliches militärisches Experiment gestartet wird, dass uns in einen wirklichen Krieg um Zentralasien hineinzieht? Soll es demnächst neue UCKs entlang Russlands islamischen Rand gegen "Völkermord" "verteidigen", darunter ethnische Gruppen deren Namen heute noch keine westliche Presse kennt und die eine Reihe guter Begründungen für eine Intervention hergeben könnten, gut genug, soll heissen so schlecht wie die der Kosovo-Albaner.

 

War Kanadas Geschichte als Teil des englischen Weltreiches so süss, dass es ein Herrschaftszentrum in Washington braucht, als Ersatz für das verlorene London? Fühlt sich Kanada bei der Wahrheit, die sich heute langsam herausschält, wohl, dass es über Krieg und Frieden weniger die Wahl hat, als in der Zeit, als es ein freies Dominion unter dem alten Statut von Westminster war? Denn ganz ohne Zweifel kann derKrieg, den die NATO im April und Mai 1999 geführt hat von etwas, das "die Allianz" genannt werden kann, weder beabsichtigt noch gewollt worden sein, wenn 1998 innerhalb des Ringes (der oberen Kommandoebene d. Übers.) der Einsatz von Gewalt ausgeheckt worden war.

 

Wert zu fragen wäre auch, wie diese Zurückstufung Kanadas und anderen NATO-Mitglieder auf den Status einer zweitrangigen imperialen Macht, einen von den Medien angeführten politischen Prozess in Gang setzt, der dazu führt, dass nationale Meinungsbildung- und Beschlussfassung, ausser einer rein formalen Einpeitschfunktion [Cheer-leader funktion], bedeutungslos werden. Es wäre auch zu fragen wie es dazu kommen konnte, dass das Hauptkriegsziel der Nato war "die Allianz zusammen zu halten", und welche Disziplinen damit gemeint waren und wie leicht und blutig sich das wiederholen lässt. Der moralische Alleinvertretungsanspruch der von den Befürwortern der Intervention als Ersatz für eine rationale Argumentation gegeben wurde kann nicht länger aufrechterhalten werden. Ein echter Zwiespalt in Hinblick auf unsere gemeinsame menschliche Verantwortung, sollte nicht dafür herzuhalten haben, um den Virus Imperialismus eines sich wiedererweiternden Westen zu reaktivieren. Je arroganter die neue Doktrin auftritt, um so grösser die Bereitschaft für die Wahrheit zu lügen. Die Fähigkeit etwas zu tun, unterstützt die moralische Selbstachtung, wenn wir den Gedanken von uns weisen können, dass wir weniger moralisch Handelnde als Verbraucher von vorgekauten Wahlmöglichkeiten sind. Am Aufgang des Jahrtausends leben wir in einem virtuellen Collosseum in dem exotische und finstere Unruhestifter nicht von Löwen sondern von mystischen Flugapparaten des Imperiums getötet werden. Während die Kandidaten für die Bestrafung - oder das Martyrium - in die Arena gestossen werden, reagieren viele der Bevölkerung im Westen auf die Show wie imperialen Konsumenten und nicht wie Bürger mit einem parlamentarischen Recht und einer demokratischen Verpflichtung, die Vorgänge zu hinterfragen. Mögen die Ergebnisse ihrer gegenwärtigen Untersuchungen erweisen, dass ich unrecht habe. Vielen Dank.

 

FUSSNOTEN DES UEBERSETZERS  (Hartmut Gehrke-Tschudi)

 

FUSSNOTE #1: Faschoda: Stadt im Südsudan, am weissen Nil. 1898 war es der Schauplatz des Faschoda Konflikts der Frankreich und England an den Rand eines Krieges brachte und 1899 zum englisch-französischen Grenzabkommen führte, das die Grenze zwischen dem Sudan und franz. Kongo entlang der Wasserscheide des Kongo und Nil Beckens festlegte. Die Bildung einer englisch-französischen Entente 1904 veranlasste die Briten dazu, den Namen der Stadt in »Kodok« umzuändern, in der Hoffnung die Erinnerung an diesen Vorfall zu vertuschen.

FUSSNOTE #2: ein Sarkasmus des Autors, betr.: Christiane Amanpour die Leni Riefenstahl der USA, seit Golfkriegszeiten Kriegsberichterstatterin des CNN und Frau von US-Stabschef James Rubin. A. wollte wenige Wochen vor Kriegsbeginn in den Kosovo reisen, um für die westliche Wertegemeinschaft den "Beweis" zu bringen, dass dort ethn.Vertreibungen und Völkermord stattfinden. Die jugosl. Regierung erlaubte ihr aber nicht die Einreise. Sie hatte A. Art der manipulativen Berichterstattung schon kennengelernt und wollte der NATO keinen Vorwand zum Krieg geben.

samedi, 11 décembre 2010

Der grosse Flirt mit Israel

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Der große Flirt mit Israel

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

ASKALON. Eine Delegation europäischer Rechtspolitiker führt derzeit in Israel politische Gespräche. Sie soll dort auf Einladung israelischer Politiker „Strategien gegen den islamischen Terror“ beraten, berichtet die österreichische Tageszeitung Der StandardUnter ihnen befinden sich Heinz-Christian Strache (FPÖ), Philip Dewinter (Vlaams Belang) und René Stadtkewitz (Die Freiheit). 

Der Pro-NRW-Vorsitzende Markus Beisicht lobte die Initiative als Beitrag zur Enttabuisierung. Der Gegensatz, den „weite Teile der Altrechten“ gegen Israel aufbauten, sei überholt. „Die große Bedrohung heißt heute Islamisierung, und in diesem Punkt sind Israel und Europa mit den gleichen Problemstellungen befaßt.

Wilders will mehr Siedlungen im Westjordanland

Zwar befasse sich Pro NRW nicht mit außenpolitischen Themen, so Beisicht, dennoch „begleiten wir diese Schritte schon jetzt mit großem Interesse und haben uns auch sehr über die herzlichen Grüße von Philip Dewinter aus Israel gefreut, die uns am Wochenende per Handy erreicht haben“, hieß es in einer Mitteilung. Spätestens zur Europawahl 2014 wolle sich Pro NRW aber auch mit diesen Fragestellungen beschäftigen.

Unterdessen berichtet Die Welt, daß der niederländische Islamkritiker Geert Wilders Israel auf einer Konferenz in Tel Aviv aufgefordert habe, den Siedlungsbau zu verstärkten. In seine Rede bei der Hatikva-Partei sagte Wilders: „Die Bauarbeiten müßten fortgesetzt werden, damit Israel eine Grenze erhalte, die zu verteidigen sei, sagte Wilders. Die jüdischen Siedlungen im Westjordanland seien kein Hindernis für den Frieden. Sie seien der Ausdruck des jüdischen Rechts, in diesem Land zu leben. Wilders forderte, das benachbarte Jordanien müsse die 2,5 Millionen Palästinenser aufnehmen, die im Westjordanland leben.“ (rg)

vendredi, 10 décembre 2010

"Wir sind nicht das Weltsozialamt" - Interview mit Udo Ulfkotte

»Wir sind nicht das Weltsozialamt«

Exklusiv-Interview mit Udo Ulfkotte

Michael Grandt / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Noch immer schlagen die Wellen in Sachen Migration hoch. Der Publizist Udo Ulfkotte hat schon vor Jahren vor Missständen gewarnt, aber niemand wollte auf ihn hören. In seinem neuen Buch präsentiert er dort Fakten, wo Sarrazin nur Aussagen macht.

Zur Person:

Dr. Udo Ulfkotte ist Jahrgang 1960. Er studierte Kriminologie, Islamkunde und Politik. Von 1986 bis 2003 arbeitete er für die Frankfurter Allgemeine Zeitung – zumeist im Nahen Osten. Er ist Sicherheitsfachmann und wendet sich gegen die schleichende Islamisierung. In zahlreichen Büchern, die Bestsellerauflagen erreichten, hat der Autor über die von den Medien verschwiegene Entwicklung aufgeklärt. Der Schweizer Journalist Beat Stauffer nannte Ulfkotte 2007 einen der »härtesten deutschen Islamismus-Kritiker« und berichtete: »(…) auch erklärte Gegner anerkennen, dass sich Ulfkotte auf der Ebene der Fakten nicht so leicht widerlegen lässt.« Viele muslimische Mitbürger haben zur Ermordung von Ulfkotte und seiner Familie aufgerufen, die nun an einem geheimen Ort lebt. Zuletzt erschien im Kopp Verlag sein Buch Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold., über das in der Mainstreampresse bereits kontrovers diskutiert wird.

Michael Grandt: Warum sind Sie überhaupt zu einem der hartnäckigsten Islam-Kritiker in Deutschland geworden?

Udo Ulfkotte: Ich bin mit einem ziemlich naiven Weltbild nach einem Studium von Jura, Politik und Islamkunde zur Frankfurter Allgemeinen Zeitung gekommen, wo ich 17 Jahre aus der islamischen Welt berichtet habe. Zwischen dem, was mir deutsche Universitäten über die islamische Welt und Muslime vermittelten, und der Realität bestand ein Unterschied wie zwischen Tag und Nacht. Der aus unserer westlichen Sicht so friedfertige Islam begegnete mir überall in der islamischen Welt absolut unfriedlich. Überall dort, wo Muslime und Christen oder Muslime und Nicht-Muslime zusammenleben, gibt es irgendwann Bürgerkrieg oder Krieg. Nach 17 Jahren Realitätserfahrung vor Ort habe ich feststellen müssen, dass auch meine europäische Heimat durch die Zuwanderung von immer mehr Muslimen in genau das abgleitet, worüber ich viele Jahre aus fernen Ländern berichtet habe: Parallelgesellschaften, der Vormachtanspruch und das Überlegenheitsgefühl der Muslime, die Beanspruchung von Sonderrechten, wie Migrantenbonus vor Gericht, die Behandlung von Nicht-Muslimen, also ethnischen Europäern als Menschen zweiter Klasse, und vor allem: horrende Kosten, die wir für vergebliche Integrationsversuche ausgeben. Jegliche Kritik an diesen Zuständen wird oder besser gesagt wurde in Europa über Jahre brutal mit der Nazi-Keule unterdrückt.

Zum Islam-Kritiker hat mich die Bundesregierung gemacht. Ich habe viele Sachbücher geschrieben und wäre nie Islam-Kritiker geworden, hätte mir dieser Staat nicht sechs Hausdurchsuchungen verordnet. In den Durchsuchungsbeschlüssen stand jedes Mal, ich hätte möglicherweise »Dienstgeheimnisse« verraten. Ich hatte ganz normal über das Verhalten von Muslimen berichtet – allerdings über das Verhalten jener Muslime, die von der Bundesregierung hofiert und zu Islam-Gipfeln eingeladen werden. Ich hatte von Sicherheitsbehörden Unterlagen zugespielt bekommen, die das wahre Gesicht einiger dieser Menschen deutlich zeigten. Und dann kam die Rache dieses Staates – die Hausdurchsuchungen. Der Überbringer der Botschaft wurde geköpft, die Wahrheit galt als »Dienstgeheimnis«. Seither interessiert mich politische Korrektheit nicht mehr. Lange vor Sarrazin habe ich die Dinge beim Namen genannt und auch belegt. Ich habe bei den Durchsuchungen gemerkt, dass wir Bürger für die Herrschenden nur Stimmvieh sind, das alle paar Jahre ein Kreuzchen machen darf. Und ich habe erfahren müssen, dass die Regierenden die schleichende Islamisierung Europas schlicht nicht interessiert. Die Parteien interessiert nur das nächste Kreuzchen des Stimmviehs. Und ob das Stimmvieh in ein paar Jahren in einem islamischen oder aber einem anderen Staatswesen lebt, das interessiert die da oben ganz bestimmt nicht. Auf dem Gebiet, auf dem ich mich auskenne – dem Islam und der Islamisierung Europas – mache ich also den Mund auf, damit unsere Kinder einmal später sehen, dass nicht alle geschwiegen haben.

Michael Grandt: Ihre Gegner werfen Ihnen eine »Islamophobie« und ein eingeengtes Weltbild vor, was sagen Sie dazu?

Udo Ulfkotte: Islamophobie ist nach der Wortbedeutung eine an Wahn grenzende Angst vor dem Islam. Islamophobie ist heute vor allem unter Muslimen verbreitet, etwa unter Sunniten, die Schiiten hassen, oder unter Schiiten, die Sunniten hassen. Überall in der islamischen Welt werden täglich Muslime Opfer dieser hasserfüllten islamophoben Wahnvorstellungen. Die weisen Politiker der westlichen Welt haben keine Erklärung dafür, warum es Islamophobie unter Muslimen gibt. Sie nennen es vielmehr nur Islamophobie, wenn Europäer nicht freudig erregt ihre eigene Verdrängung durch Muslime in Europa begrüßen. Wenn Hunderttausende Türken im Frühjahr 2007 in ihrer Heimat gegen die Islamisierung ihres Landes demonstrieren, dann ist das aus westlicher Sicht keine Islamophobie, sondern ein friedlicher Massenprotest. Zeitgleich wird jegliche Kritik am Islam in westlichen Staaten von Muslimen unter dem Beifall von Intellektuellen als »Islamophobie« bezeichnet. Das ist schizophren. Das zeigt, wie krank unsere Politiker und Intellektuellen sind. Der Begriff »Islamophobie« stammt übrigens von der terroristischen islamischen Gruppe Hizb ut-Tahrir, die in Deutschland verboten ist. Wenn mir also jemand »Islamophobie« vorwirft, dann ist das bei näherer Betrachtung so, als ob mir ein Nazi vorwirft, dass ich seine Ideologie nicht teile. Ich habe tiefstes Mitleid mit jenen, die so dumm sind und Kampfbegriffe wie »Islamophobie«, die von islamischen Terrorgruppen kreiert worden sind, unkritisch nachplappern.

Michael Grandt: Was unterscheidet Ihre neue Publikation Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold. von dem Buch Sarrazins?

Udo Ulfkotte: Zu jeder Aussage des Buches gibt es die Originalquellen. Insgesamt rund tausend Quellen, die man im Internet mühelos anklicken kann. Wenn man also schlicht nicht glauben will, dass Migranten aus den deutschen Sozialversicherungssystemen schon bis 2007 mehr als eine Billion (!) Euro mehr herausgenommen als in diese einbezahlt haben, dann klickt man auf der zum Buch gehörenden Website die Fundstelle an und kann sich vom Wahrheitsgehalt dieser Aussage überzeugen. Wer nicht glaubt, dass wir Steuerzahler gewalttätigen Migranten Boxkurse finanzieren, anatolischen Frauen Kurse, in denen sie lernen, einen Tampon zu benutzen oder wie man ein Hemd bügelt, dann schlägt man die Originalquelle nach. Und dann wird einem schnell klar, dass ethnische Europäer längst schon Menschen zweiter Klasse sind, die immer öfter nur noch dafür arbeiten, die unglaublichen Leistungen für Migranten zu finanzieren. Wussten Sie, dass wir seit Jahrzehnten Türken und Mitglieder von Balkan-Großfamilien, die noch nie in Europa gewesen sind, kostenlos und ohne einen Cent Zuzahlung, in der gesetzlichen deutschen Krankenversicherung mitfinanzieren? Davon können ethnische Deutsche, deren Krankenkassenbeiträge ständig erhöht werden, nur träumen. Wussten Sie, dass die Bundesregierung seit 2003 versprochen hat, diese Benachteiligung ethnischer Deutscher endlich zu beenden, es aber bis heute nicht getan hat? Wussten Sie, dass schon mehr als 40 Prozent der Sozialhilfebezieher in Deutschland Ausländer sind und die von ihnen verursachten Kosten für die Steuerzahler pro Jahr (!) höher sind als die Kosten der Finanzkrise? Der Unterschied zum Sarrazin-Buch besteht in der Dichte der Fakten und den direkt präsentierten Belegen. Tausend unglaubliche Fakten – und tausend Quellen. Da kann man nicht mehr sagen, dies oder das ist »rechtsextrem«, denn es sind Fakten. Sarrazin trifft Aussagen, ich präsentiere Fakten. Die Resonanz der Medien ist aufschlussreich: All jene, die über Sarrazin diskutiert und sich aufgeregt haben, schweigen zu meinem Buch. Ist doch klar: Sie kommen an den Fakten nicht vorbei. Wie wollen Journalisten denn den Bürgern da draußen erklären, dass es gut für uns ist, wenn Türken, die noch nie in Deutschland gewesen sind, in Anatolien in der deutschen Gesetzlichen Krankenversicherung versichert sind? Während wir Deutsche ständig neue Zusatzzahlungen für die Krankenversicherung leisten müssen, sind türkische Familienangehörige in der Türkei kostenlos mitversichert. Das erklären Sie mal einem deutschen Beitragszahler …

Michael Grandt: Wie lautet die zentrale Aussage Ihres Buches?

Udo Ulfkotte: Migranten aus islamischen Staaten sind Wohlstandsvernichter. Weil wir nicht das Weltsozialamt sind, müssen wir unsere Gastarbeitslosen wieder zum Gehen auffordern. Sonst bricht der Sozialstaat in weniger als 48 Monaten zusammen. Denn wir finanzieren das gerade schon mit den Steuergeldern unserer noch nicht einmal gezeugten Kinder.

Michael Grandt: Sehen Sie Unterschiede in der Wahrnehmung Ihrer kritischen Publikationen zwischen der intellektuellen Elite, dem medialen Establishment und dem Normalbürger?

Udo Ulfkotte: Da gibt es ganz gewaltige Unterschiede. Wenn man sich vor Augen hält, dass ein normales Sachbuch zu dieser Thematik von mir in kurzer Zeit irgendwo zwischen 60.000 und 100.000 Mal verkauft wird, meine Bücher allerdings in Medien fast nie erwähnt werden, dann zeigt das den volkspädagogischen Charakter unserer Medien und intellektuellen Eliten. Bücher, die kaum 2.000 Mal verkauft werden, werden überall besprochen, wenn sie nur politisch korrekt sind. Mich stört das allerdings nicht. Denn jene, die meine Bücher kaufen, bestellen die Zeitungen, die sich so verhalten, irgendwann ganz einfach ab. Die Qualitätsmedien schaufeln sich ihr eigenes Grab, indem sie ihre Kunden vergraulen. Eigentlich schade, aber wenn sie so dumm sind, kann ich es auch nicht ändern.

Michael Grandt: Haben Sie Drohungen erhalten?

Udo Ulfkotte: Ich kann die nicht mehr zählen. Von 2002 bis Ende 2003 hatte meine Familie wegen der vielen Morddrohungen Polizeischutz. Wir sind nach Angriffen mehrfach umgezogen. Wir haben heute zum Schutz scharfe Wachhunde. Ein Angreifer wäre in Sekundenbruchteilen Hackfleisch. Die letzte Morddrohung stammt übrigens von einem Produzenten von Xavier Naidoo. Der hatte vor wenigen Wochen öffentlich einen Preis für denjenigen ausgesetzt, der mir den Kopf abschneidet. Das Verfahren ist derzeit bei der Staatsanwaltschaft Hamburg anhängig. Es gibt leider immer mehr von diesem Bodensatz unserer Gesellschaft, der sich selbst dabei auch noch witzig findet, um den sich die Staatsanwaltschaften kümmern müssen.

Michael Grandt: Sie sind ebenfalls sehr kritisch, wenn es um die Politik islamischer Staaten geht. Wie verhält es sich im Falle Israels, das immer wieder Menschenrechte bricht und sich um keine UN-Resolutionen schert?

Udo Ulfkotte: Ich habe nicht das geringste Problem damit, den Staat Israel zu kritisieren. Wo Kritik angebracht ist, da muss man sie auch offen äußern.

Michael Grandt: Ich danke Ihnen für dieses Gespräch.

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Publikationen von Udo Ulfkotte:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La génération de l'échec

La génération de l'échec

Par Michel Geoffroy

Ex: http://www.polemia.com/ & http://fortune.fdesouche.com.

La génération au pouvoir dans les pays européens depuis la fin du XXe siècle restera devant l’histoire comme la génération de l’échec. C’est la génération de mai 1968, fille spirituelle des lanceurs de pavés, des fumeurs de joints et des idolâtres de Mao et de Che Guevara.

Car elle a tout raté, sauf précisément parvenir à cumuler les pouvoirs médiatiques, culturels, politiques et économiques en Occident et en profiter. Mais quel usage a-t-elle fait de son pouvoir sans précédent ?

 

Elle prend le pouvoir au moment où l’Europe voit disparaître la menace soviétique et, avec elle, la coupure entre l’Est et l’Ouest : une chance historique pour notre continent de retrouver son unité et son indépendance.

Mais nos soixante-huitards n’ont eu de cesse de se placer sous le giron des Etats-Unis et de l’OTAN. Nos pacifistes ont embarqué sans remords les Européens, transformés en valets d’armes américains, dans la guerre du Golfe, dans la guerre contre la Serbie, contre l’Irak, « contre le terrorisme » et envoyé nos soldats dans le guêpier afghan. Ils s’efforcent aussi d’isoler la Russie, pour le plus grand profit des intérêts stratégiques américains.

L’Europe disposait d’atouts économiques puissants et, en particulier, de la perspective d’un grand marché préférentiel. Les soixante-huitards, à la remorque des Britanniques, nous ont précipités dans l’impasse du libre–échange mondialiste.

Résultat : l’Union européenne est le seul espace économique au monde qui ne se protège pas, avec pour conséquence la désindustrialisation, l’immigration de peuplement, le chômage structurel, la stagnation et l’explosion des charges sociales pesant sur la collectivité.

Au seuil du dernier quart du XXe siècle, les Etats européens étaient solides, les finances publiques équilibrées et, le système politique, démocratique à l’Ouest. La génération de l’échec a sabordé en quelques années, sur l’autel de la supranationalité européenne, mille ans d’héritage européen : le respect des frontières, la suprématie de la loi, la maîtrise de la monnaie, le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes.

Résultat : elle a instauré un système post–démocratique reposant sur la coupure entre le peuple et la super-classe dirigeante, et la réduction permanente des libertés pour les autochtones.

Et tout cela pour rien. Car elle a aliéné nos libertés nationales au profit d’une entité sans forme, qui n’est ni une fédération, ni une confédération, ni un Etat et qui ne sait même pas définir où est sa frontière, ni qui est européen. Qui n’a pas le droit de venir en aide aux Etats en crise. Qui est un néant impolitique, impuissant et verbeux.

L’Union européenne n’assure ni la prospérité, ni la sécurité, ni la liberté des Européens. Ce n’est qu’une bureaucratie, machine à détruire les identités et les libertés.

Les soixante-huitards ont ouvert les portes de l’immigration de peuplement au nom de l’idéologie des Droits de l’homme et de la repentance antiraciste. Ils pensaient enfin avoir trouvé un prolétariat à défendre !

Résultat : l’Europe est désormais confrontée au communautarisme, au problème noir et à l’islamisme, mais pour le plus grand bénéfice des entreprises transnationales dirigées par la génération de l’échec.

La génération de l’échec a présidé à la mise en place d’un système économique qui augmente les inégalités sociales, alors qu’elles se réduisaient au XXe siècle. Elle a démantelé toutes les institutions qui faisaient la société, au nom du dogme de la libération de l’individu réputé libre dans un marché ouvert, et des vertus de la dérégulation.

Résultat : les sociétés européennes, réduites au marché, implosent. Les finances publiques des Etats européens sont aujourd’hui toutes en déficit, car elles croulent sous les dettes et les charges sociales, conséquence du libre-échangisme mondialiste et de la dénatalité.

L’Europe disposait d’une culture riche, ancienne, vivante et rayonnante.

La génération de l’échec, au nom de l’avant-gardisme et de la révolution culturelle, a tout cassé. L’Europe s’est, certes, peuplée de musées, mais c’est parce que sa culture a été tuée par la génération de l’échec, justement. Elle est morte et c’est pour cela qu’elle est remisée dans des vitrines.

La génération de l’échec a instauré un nouvel académisme : celui de l’art déraciné marchand. Elle a ouvert la culture européenne à la déferlante des produits standardisés américains et à la tyrannie de l’anglais. Elle a laissé sombrer les écoles et les universités en imposant ses théories pédagogiques libertaires.

La génération de l’échec n’a aucune excuse. Elle n’a été confrontée ni à la guerre, ni à la décolonisation, ni à la misère. Elle a hérité, au contraire, d’un monde en paix, vivant dans l’aisance et l’espoir de lendemains encore meilleurs.

Au surplus, elle est restée sourde aux inquiétudes qu’exprimaient de plus en plus fortement les peuples européens, face aux orientations qu’elle faisait prendre à nos sociétés. Sa seule réponse a été le mépris, la répression et la censure des voix dissidentes.

Car la génération de l’échec, du haut de sa prétention qui n’a d’égale que son inculture, prétendait posséder seule les secrets du bonheur et de la fin de l’Histoire. Elle se dit cosmopolite, mais en réalité elle ne connaît pas le monde, ni sa géographie, ni son Histoire.

C’est une génération d’enfants gâtés, qui s’est comportée en héritier frivole qui dilapide le capital familial en menant grand train – le capital de tous les Européens.

Mais voici que les créanciers sonnent à la porte.

Et que s’avance le tribunal de l’Histoire.

Polémia

jeudi, 09 décembre 2010

Rechtspopulisten auf dem rechten Weg?

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Rechtspopulisten auf dem rechten Weg?

Eigentlich  hatte die europäische Einigung nach amerikanischem  Muster das  ehrgeizige Ziel, das Modell National  zu überwinden.  Das ist nachweislich mißlungen. Die Europäische Union hat, im Gegenteil, mit ihrer verrückten Politik die nationalen Geister, die man verbannen wollte, vorerst zu neuen Taten erweckt. Es ist vor allem der rechte Populismus, der in diesem Europa ohne Grenzen seine Aktionsbasis gefunden hat, von der aus Fragen von nationalem Interesse und solche der Identitäten  in Angriff genommen werden konnten. Was man auch reichlich genützt hat und weiter nützt.                                           

Von Portugal bis Bulgarien, von Schweden bis Italien haben sich populistische Parteien und Organisationen mit unterschiedlichem Erfolg etabliert. Diesen  Erfolg verdankt man politischen Fehlern und ökonomischen Problemen der herrschenden Eliten, vermehrt aber der Gefahr einer Islamisierung durch ungezügelte Zuwanderung. Letzteres Problem hat nun eine weitere außereuropäische Kraft auf den Plan gerufen: die israelische Rechte und deren Ableger in Europa. Erst durch das stille bis offene Engagement dieser  an der Seite einiger rechten Parteien und Gruppieren hat sich die Lage für die bisher eher als Antisemiten und Ausgegrenzte geltenden Populisten entscheidend verbessert. Jetzt  sieht man sie, mit dem Segen der einen israelischen Reichshälfte ausgestattet, endlich regierungsfähig.                                                                                                                             

Ehe ich in einem späteren Kommentar auf diese  merkwürdige Kooperation  und  auf einige zu Philosemiten gewandelte Akteure näher zu sprechen komme, doch einige klärende Bemerkungen zum rechten Populismus  an sich.                                                                                                                                                                                                  Ein wichtiges  Merkmal dieser populistischen Bewegungen sehe  ich darin, daß sie als wählbare  und demokratische Kraft  anerkannt werden wollen. Also als  politische Organisation innerhalb des Verfassungsbogens in gleicher Weise respektiert zu werden  wie die etablierten großen  Parteien.  Die Populisten wollen das System gewiß nicht beseitigen, sondern nur dessen Auswüchse, dazu eben die unkontrollierte Einwanderung, die Ideologie der Globalisierung oder die Spekulation gehören.  Allerdings können oder wollen sie nicht begreifen, daß die von ihnen angeprangerten Fehler und Mißstände unentwirrbar mit dem so hoch gepriesenen demokratischen System universellen Zuschnitts verknotet  sind.                                                                                                   

Insofern  können  wir einen Widerspruch feststellen, der eben darin besteht, daß man nicht Vollmitglied und Stütze des Systems und gleichzeitig dessen entschiedener Kritiker sein kann, ohne früher oder später unglaubwürdig zu werden.  Außerdem  fehlt den Populisten, nicht selten sehr einfache Gemüter, das nötige in sich gefestigte ideologische oder weltanschauliche Brecheisen, eine Doktrin,  um die herrschenden Denkzirkeln und Ideologien aus den Angeln zu heben. Es ist jedoch, wie gesagt, unmöglich ein System zu ändern oder auszuwechseln, wenn man selbst zum Räderwerk des herrschenden gehört. Wenn überhaupt, müßte in diesem Fall  eine solche Initiative aus dem innersten Kern des Systems selbst kommen, um Erfolg zu haben. Diesem Kern aber gehören die rechten Populisten nicht an und werden ihm auch nicht angehören  können ohne sich selbst oder die Ideale, für die man angetreten ist, ganz aufzugeben.

Es ergibt sich also, daß alle rechten populistischen Bewegungen nur Erfolg haben können, wenn  sie die selbe politische und demokratische Philosophie vertreten und im Grunde das selbe materielles Glück verheißende  Ziel anstreben wie ihre das System stützenden Konkurrenten am Platz. Da stellt sich natürlich für andere die Frage: soll man an Wahlkämpfen gar nicht teilnehmen. Man soll, unter der Voraussetzung, daß man sich nicht in den Fängen des Systems  wiederfindet, daß man nicht (wie jetzt die linken Populisten in Wien) über den  Tisch gezogen wird (von welcher Seite auch immer) und daß man  nicht als nützliche Idioten  am pseudodemokratischen Spiel teilnimmt.                                              

Die Teilnahme an Wahlen oder an einer Regierung darf nicht dazu führen, daß das korrupte  System dadurch funktionsfähig bleibt oder gestärkt wird, sondern hat einzig und allein im Sinne der Sache des Volkes und der eigenen Philosophie den Interessen der Organisation  oder Partei  zu dienen. Die Möglichkeiten dazu sind mannigfaltig und hängen von den jeweiligen Umständen ab. Auf keinen Fall soll es dazu führen, daß jene, die ein Mandat errungen haben, nichts Besseres zu tun haben, als ihre guten Ideen so einzubringen, daß sie  dem kritisierten System zu gute kommen und sich zuletzt als Waffe gegen die Urheber erweisen.  Der Geist, der  eine gute Idee umsetzt, ist schließlich ein anderer  als jener der sie  ersonnen hat.                                                                                        

Nun ist der rechte Populismus an sich nicht in jedem Fall etwas Schlechtes, er ist vielfach  eine Art Hilfeschrei  der überfremdeten oder ausgebeuteten  europäischen Völker, Opfer der Globalisierung und Einwanderung, zuletzt auch der Wirtschafts- und Finanzkrise.  Eine sanfte Revolte gegen das „Establishment“, aber mehr  ist es nicht. Sicher, besser als gar nichts, doch am Ende eben nur ein symbolischer Akt eines Papiertigers , dem der entscheidende Biss, eine revolutionäre Doktrin also, fehlt. Eine solche haben aber jene sehr wohl, denen jetzt rechte Populisten anscheinend ihr  politisches Schicksal  anvertraut haben. Dazu ist, wie gesagt, demnächst an dieser Stelle noch einiges zu sagen.

Die sieben Todsünden der EU

Die sieben Todsünden der EU

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Wie kann es so weit kommen, dass die Europäische Gemeinschaft den Euro in eine Existenzkrise treibt? Hier die politisch unkorrekte Antwort.

 

 

 

mercredi, 08 décembre 2010

"Les Etats-Unis à l'origine des tensions au sein de la zone euro"

« Les Etats-Unis à l’origine des tensions au sein de la zone euro »

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

dollar-euro-le-rapport.jpgL’Allemagne serait, en partie, à l’origine de l’envolée des taux d’intérêt sur les obligations portugaises et espagnoles de ces derniers jours. En cause, les récentes déclarations d’Angela Merkel sur l’éventualité de faire participer les créanciers privés en cas de restructuration de la dette publique de certains pays de la zone euro.

 

Arturo Bris, professeur de finance à l’IMD de Lausanne, partage cet avis. Lors d’une conférence qui s’est tenue jeudi au sein de la haute école de gestion, il n’a pas hésité à déclarer que l’Allemagne maintenait volontairement « au bord du précipice » les pays en proie à des difficultés – Irlande en tête. Selon lui, « les crises irlandaise, grecque, portugaise et espagnole sont une bonne chose pour l’économie allemande puis­qu’elles maintiennent l’euro à un niveau relativement bas – par rapport au dollar – et qu’elles profitent ainsi aux exportations allemandes ». Berlin aurait donc tout intérêt à ce que la situation européenne reste tendue.

Mais si l’Allemagne profite du « statu quo » en Europe, Arturo Bris relativise toutefois son rôle dans la crise actuelle. Car le moteur de l’Europe est confronté à un certain dilemme : son économie a beau profiter d’un euro faible, les Allemands ont de plus en plus l’impression de payer de leurs poches les sauvetages à répétition des autres pays européens. De plus, le marché européen est le troisième, en termes de grandeur, pour les exportations allemandes.

Pour le professeur espagnol, les principaux fautifs sont à rechercher de l’autre côté de l’Atlantique. Washington serait donc « à l’origine des confrontations que l’on observe actuellement en Europe ». Ou, plus particulièrement, sa politique monétaire. « Affaiblir le dollar a été la pire des choses pour la dynamique européenne », constate Arturo Bris. Si les Etats-Unis ont souffert de la crise grecque et de la hausse du dollar qui s’en est suivie, ils se seraient rattrapés grâce à leur politique monétaire et à l’injection de 600 milliards de dollars dans leur économie d’ici à la fin de 2011 (QE2).

 

Malgré tout, le professeur de finance reste optimiste. Dans les différents scénarios qu’il a présentés jeudi à son audience, l’implosion de l’euro – qualifiée « d’armageddon » – est considérée comme très improbable. « Les chiffres ne sont pas dramatiques et personne n’est en train de faire faillite », martèle-t-il. Et Arturo Bris a de bons arguments. Il fait notamment remarquer que le taux d’endettement de l’Espagne – 55% du PIB – fait bien pâle figure aux côtés des 190% du Japon et des 120% des Etats-Unis.

Le problème serait donc avant tout un problème de crédibilité. « Les gouvernements européens, à l’instar du Portugal et de l’Espagne, ont annoncé tout un tas de mesures ces dernières années sans jamais les respecter. Or, aujour­d’hui, sous la pression des marchés, ces gouvernements sont enfin obligés de réagir », observe-t-il avec satisfaction.

Le Temps

Ungarn wird herabgestuft

Ungarn wird herabgestuft

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Der langsame Zerfall der EU geht weiter: Die Ratingagentur Moody’s senkte heute die Kreditwürdigkeit von Ungarns Staatsanleihen auf knapp über den Ramschstatus.

 

Flagge_Ungarn_1.jpg

Die Ratingagentur Moody’s hat das Rating des osteuropäischen Landes heute auf gerade mal »Baa3« gesenkt. Damit liegt die Bewertung von Ungarns Anleihen nur noch eine Note über dem »Ramschstatus«.

Moody’s begründet den Schritt mit den langfristigen haushaltspolitischen Problemen des Landes, das zudem für externe Risiken anfällig sei: »Die Herabstufung hat vor allem mit dem zwar langsamen, aber deutlichen Verlust an Finanzkraft der ungarischen Regierung zu tun« heißt es wörtlich. Auch die Konsolidierungsstrategie der Regierung sehe vor allem temporäre Maßnahmen vor, aber wenig Vorschläge für eine nachhaltige Sanierung. Nach Ansicht der Ratingagentur könnten weitere Herabstufungen folgen, wenn Ungarn es versäumt, seine finanzielle Stärke wieder herzustellen.

Volkswirte sind seit Längerem darüber besorgt, dass eine Zuspitzung der desaströsen Lage in Ungarn, das erst 2004 der EU beibetreten ist, auf die gesamte osteuropäische Region Einfluss nehmen könnte. Die größten Gläubiger der maroden ungarischen Banken sind Österreich mit einem Volumen von rund 37 Milliarden US-Dollar und Deutschland mit 30,8 Milliarden US-Dollar. Der deutsche Steuerzahler kann sich also schon auf die nächste Milliarden-Unterstützung einstellen.

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Quelle: wirtschaftsblatt.at

 

 

mardi, 07 décembre 2010

Breve nota sulle rivelazioni di "Wikileaks"

Breve nota sulle rivelazioni di “Wikileaks”

Daniele SCALEA

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Le recenti rivelazioni di “Wikileaks”, a detta del ministro Frattini, rappresenterebbero «l’11 settembre» della diplomazia, la manovra di chi vorrebbe «distruggere il mondo» colpendo il fondamento della diplomazia, ossia la reciproca fiducia tra gl’interlocutori.

Wikileaks-001.jpg

Tale valutazione è probabilmente esagerata. È nozione comune che la diplomazia sia l’arte della dissimulazione, ed includa la menzogna e l’inganno tra le sue tecniche. E gran parte delle rivelazioni di “Wikileaks” non sono altro che la conferma di fatti già risaputi da tutti gli addetti ai lavori, e da quella parte più informata e consapevole dell’opinione pubblica.

Ciò non toglie che sottrarre centinaia di migliaia di documenti riservati ad una grande potenza non sia cosa da poco. Tanto che riesce difficile credere che davvero “Wikileaks” possa essere riuscita ad impossessarsi di tali documenti, a pubblicarli, a farne parlare il mondo intero, eppure ad essere ancora disponibile on line ed il suo portavoce Julian Assange ancora libero, vivo e vegeto – è difficile credere a tutto questo, senza assumere che dietro a “Wikileaks” si nasconda un’operazione di intelligence. Probabilmente proveniente dagli USA stessi, ossia da una parte del suo establishment, che ha messo in imbarazzo l’amministrazione Obama – ma più che altro Hillary Clinton, ch’è sì una ministra di Obama ma anche la sua principale rivale in seno al Partito Democratico – ma fatto in modo che Washington, tra tutte le capitali coinvolte dalle rivelazioni, fosse quella che ne esce meno peggio. Infatti, un vantaggio di essere la potenza egemone è quello che tutti gli altri paesi sono ansiosi di piacerti. Se la fuga di notizie avesse riguardato, ad esempio, l’Italia, ciò avrebbe rovinato i rapporti di Roma col mondo intero. Avendo riguardato gli USA, ha prima di tutto rovinato l’immagine di quegli statisti di cui si parla male nelle rivelazioni. Rivelazioni che, per l’appunto, sembrerebbero concernere prima di tutto il giudizio della diplomazia statunitense su vari statisti mondiali, e quello di paesi terzi sui propri vicini. Vediamo qualche esempio di come le rivelazioni di “Wikileaks” mettano in imbarazzo gli altri paesi più degli USA.

Di Ahmadinejad si ripete l’immancabile refrain del “nuovo Hitler” e si asserisce che avrebbe armi in grado di colpire Russia e Europa. In più, si conferma la notizia, già trapelata mesi fa, che l’Arabia Saudita ed altri paesi arabi avrebbero chiesto agli USA di attaccare l’Iràn. Ahmadinejad dovrà giustificare in patria l’isolamento regionale del paese. La situazione è così scottante che si è subito prodigato per tacciare di falsità i documenti statunitensi.

Erdoğan è dipinto come un fanatico islamista pieno di conti in Svizzera. Nuovi succulenti argomenti per l’opposizione laicista in Turchia.

Chávez e la Fernandez-Kirchner sono descritti come dei pazzi. Anche in questo caso, le opposizioni interne ringraziano.

Della Cina si dice che condurrebbe azioni di pirateria informatica – un messaggio rivolto soprattutto all’Europa, dove già si sospettava Pechino in tal senso – e che mediterebbe di scaricare l’alleato nordcoreano. Facile immaginare che i prossimi colloqui tra Pechino e Pyongyang saranno meno cordiali del solito.

Dei giudizi su Berlusconi sarà superfluo ragguagliare i lettori. Ci permettiamo però d’evidenziare un paio di cose. Berlusconi ha indispettito gli USA per i suoi rapporti troppo stretti con Putin: ciò era affermato sulle pagine di “Eurasia” – e non solo sulle nostre, a dire la verità – già da parecchio tempo. A parte il nodo Berlusconi-Putin, l’Italia è tirata in ballo da un documento secondo cui Frattini avrebbe criticato pesantemente l’atteggiamento della Turchia. Questo è molto più grave, perché potrebbe incrinare i rapporti con Ankara. Probabilmente è stata proprio questa notizia ad innervosire a tal punto Frattini. È comunque interessante che “Wikileaks” tiri in ballo, per il nostro paese, proprio i rapporti con Russia e Turchia, ossia i due paesi che il direttore Graziani, nel suo ultimo editoriale [1], indicava come i necessari punti di riferimento della politica estera dell’Italia. Ciò fa supporre che l’analisi della diplomazia statunitense confermi quella di “Eurasia”, pur da una prospettiva opposta.

E chiudiamo proprio con la Russia. A parte le scontate e per nulla originali né imbarazzanti valutazioni sul rapporto Putin-Medvedev, della Russia si afferma che sarebbe uno Stato legato a filo doppio con la mafia nazionale. Questo sì è un giudizio pesante. Ed arriva proprio a proposito d’un paese con cui Obama sta cercando di distendere i rapporti dopo le tensioni dell’era Bush. A breve i parlamentari di Washington dovranno decidere se ratificare o meno il nuovo trattato START con la Russia, ed il fatto che i loro diplomatici considerino mafioso l’interlocutore non depone a favore dell’approvazione.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale [2] (Fuoco, Roma 2010)

Crise financière: menace sur l'Europe

Crise financière : Menace sur l’Europe

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Alors que Nicolas Sarkozy est en Inde, pays à la croissance insolente, l’Europe tente de se dépêtrer d’une crise budgétaire et monétaire sans précédent.

Il est des signes qui ne trompent pas. Entre juillet et décembre 2010, New Delhi aura vu défiler les dirigeants des cinq pays membres permanents du conseil de sécurité des Nations unies : États-Unis, Chine, Russie, Grande-Bretagne et France.

Le pays, considéré comme le deuxième moteur de la croissance mondiale (9 %) après la Chine, est de plus en plus courtisé par les puissances mondiales. Pas étonnant que Nicolas Sarkozy l’ait choisi pour sa première sortie depuis que la France est à la tête du G20.

Car, face à cette croissance insolente, l’Europe fait bien grise mine. Et même si les prévisions de croissance ont été relevées à 1,6 % pour l’année 2010 en Europe, le Vieux continent est englué dans une crise budgétaire et monétaire sans précédent.

Les grands argentiers de la zone euro se retrouvent aujourd’hui à Bruxelles pour leur réunion mensuelle, en présence du directeur général du Fonds monétaire international Dominique Strauss-Kahn.

Ils doivent régler les derniers détails du plan d’aide à l’Irlande mais aussi évoquer la situation de la zone euro après une semaine inquiétante. DSK a déclaré qu’il ne fallait pas « sous-estimer l’importance de la crise de la dette européenne ». Selon lui : « Même de petites économies peuvent causer beaucoup de dommages ».

La situation est difficile, car l’annonce, la semaine dernière, d’un plan d’aide de 85 milliards d’euros pour l’Irlande et la présentation des contours du futur Fonds de secours permanent de la zone euro après 2013 n’ont pas réussi à apaiser les marchés, inquiets de l’ampleur de la dette publique dans plusieurs Etats. Les Européens doivent trouver des réponses plus fondamentales à la crise de l’Union monétaire. Parmi les options envisagées, un éventuel renforcement du Fonds de secours actuel de la zone euro, doté de 440 milliards d’euros de garanties des États, est à l’étude. « Nous devons augmenter le montant total d’argent dévolu au mécanisme permanent (…) », a confirmé samedi Didier Reynders, le ministre belge des Finances dont le pays assume la présidence semestrielle de l’UE.

En attendant, les Européens surveillent de près les marchés, qui ont malmené cette semaine les pays les plus fragiles de la zone euro. Le Portugal, considéré par les économistes comme le prochain candidat à une aide internationale, l’Espagne, mais aussi l’Italie ou la Belgique ont vu les taux d’intérêt de leurs emprunts grimper. La Banque centrale européenne a cependant réussi à calmer le jeu sur les marchés. Elle a annoncé le maintien de son dispositif de mesures exceptionnelles en faveur des banques, et la poursuite de son programme de rachat de dette des États de la zone euro en difficulté.

Le Progrès

Un tiers du budget européen est-il dévoyé?

Un tiers du budget européen est-il dévoyé ?

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Selon le Financial Times, l’UE n’a dépensé que 10% des 347 milliards d’euros de fonds structurels alloués jusqu’en 2013 pour promouvoir le développement de régions pauvres d’Europe. Le quotidien britannique dénonce aussi des détournements, des fraudes et des erreurs.

A quoi servent les fonds structurels européens?

Les fonds structurels sont le premier outil de la politique de cohésion et de la solidarité budgétaire entre États membres. Ils visent à redistribuer la richesse européenne et à réduire les différences économiques et sociales dans l’Union. Deuxième poste de dépense après la PAC, ils s’élèvent en effet pour la période de 2007 à 2013 à 347 milliards d’euros, soit un tiers du budget européen.

Une grosse partie de l’argent  finit dans les comptes de multinationales, comme Coca-Cola, IBM et Nokia Siemens, alors que les fonds sont destinés à aider les petites et moyennes entreprises. D’autres grands groupes s’en servent même pour délocaliser au sein de l’Union, c’est le cas de Dell. La mafia, notamment la Ndrangheta, en détourne également une partie considérable.

Chaque État contribuant proportionnellement à sa richesse, la France donne neuf fois plus qu’elle ne reçoit.

Dans le détail, l’UE investit cette somme par l’intermédiaire des trois fonds : le Fonds européen de développement régional (FEDER) pèse environ 200 milliards, le Fonds social européen (FSE) qui dispose de 75 milliards se concentre sur l’emploi et enfin le Fonds de cohésion, de 70 milliards, est destiné exclusivement aux États les plus pauvres.

Ces fonds peuvent être alloués à la recherche-développement, l’éducation, la formation professionnelle, l’infrastructure, la protection environnementale, la modernisation de l’agriculture etc…. En somme, l’argent sert aussi bien à construire des autoroutes et des musées que des salles de gym dans les 27 États membres, sachant qu’au total, 646 000 projets doivent ainsi être financés. 

Pourquoi les fonds n’ont-ils pas été intégralement versés ?

Seulement 10% des fonds structurels ont été dépensés sur des projets parce que les États concernés ne peuvent fournir les fonds requis. En effet, la règle, élaborée avant la crise, veut que les États doivent contribuer de leur côté à hauteur de la moitié du financement des projets retenus. S’étant tous lancés dans des programmes d’austérité, les États ont plutôt tendance à renoncer à des projets qu’à en lancer des nouveaux.

De son côté, Bruxelles tente de minimiser le phénomène et assure que l’argent n’est pas perdu. « Le démarrage lent en début de cycle de financement n’est rien de nouveau, en fait c’est assez normal, » a souligné la porte-parole de la Commission européenne Pia Ahrenkilde-Hansen. L’actuel cycle de financement des fonds européens est prévu pour la période 2007-2013. Mais jusqu’en 2009, les États européens dépensaient encore de l’argent du cycle précédent (2000-2006), a-t-elle précisé. « S’il n’y a pas d’argent pour les cofinancements, nous ne demandons pas de paiements aux États, donc cet argent reste sur leurs comptes » et « il n’existe pas de compte bancaire européen où de l’argent dormirait, inutilisé« , a-t-elle insisté.

L’argent est-il détourné ?

Le problème c’est qu’une fois versé aux régions, l’argent disparaît dans des circuits « complexes » et « opaques, » dénonce le quotidien économique. Résultat, des sommes importantes atterrissent dans les poches de la mafia, notamment la Ndrangheta qui serait une « experte » en la matière. Ce qui expliquerait par exemple que, comme l’a déploré le député Alain Lamassoure, malgré les 10 milliards d’euros reçus par le Mezzogiorno italien, l’écart de niveaux de vie avec la moyenne européenne a continué à croître.

L’argent finit également dans les comptes de multinationales, comme Coca-Cola, IBM et Nokia Siemens, alors que les fonds sont destinés à aider les petites et moyennes entreprises. Le FT cite l’exemple de British American Tobacco, qui a reçu 1,6 millions d’euros pour l’aider à construire une usine de cigarette, alors même que l’UE dépense des millions pour tenter de dissuader ses citoyens de fumer…

D’autres grands groupes se servent même des fonds européens pour délocaliser au sein de l’Union. Le cas de Dell est emblématique : le groupe américain d’informatique, qui avait bénéficié une première fois de subventions pour ouvrir une usine en Irlande, a recouru une deuxième fois aux fonds en septembre 2009 pour fermer l’usine irlandaise et soutenir les employés licenciés et une troisième fois pour ouvrir un autre site quelques jours plus tard en Pologne.

Le Bureau of Investigative Journalism pointe enfin d’autres usages illégaux des fonds, tels que la construction d’hôtels sur des sites naturels protégés en Espagne

« Des irrégularités et des fraudes existent, et c’est regrettable, » concède pour sa part Mme Ahrenkilde-Hansen. Mais le taux d’erreur a été réduit de moitié en 2009, à environ 5%, et seuls 0,2% d’erreurs sont imputables à des fraudes, affirme la Commission européenne.

Comment réformer le système ?

La Commission européenne a déjà lancé une consultation publique afin de réformer le fonctionnement des fonds structurels. Cela pourrait passer par des objectifs de performance plus stricts et la concentration des fonds sur quelques domaines prioritaires plus facilement contrôlables.

L’Expansion

(Merci à oa2010)

lundi, 06 décembre 2010

Buitenlanders als remedie tegen krapte op arbeidsmarkt

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Ex: http://trends.rnews.be/nl/economie/nieuws/

Buitenlanders als remedie tegen krapte op arbeidsmarkt

Tussen nu en 2014 verlaten 300.000 Vlamingen de arbeidsmarkt. Activering van
werklozen en gerichte opleiding volstaan niet om ze te vervangen, zeggen
experts.

© belga

Extra buitenlandse werknemers zijn nodig, maar het debat over het
asielbeleid overschaduwt de discussie over de noodzaak van economische
migratie.

De asielcrisis heeft het migratiedebat meer en meer verengd tot wat men
humanitaire migratie noemt. Aandacht voor arbeidsmigratie is er amper. “De
discussie over regularisaties en naturalisaties heeft het debat over
economische migratie ondergesneeuwd”, zegt Anton Van Assche van Unizo,
“Terwijl veel werkgevers om arbeidskrachten blijven smeken.”

Ondanks de recessie is het aantal openstaande vacatures bij de verschillende
arbeidsbemiddelingsdiensten (VDAB, Forem en Actiris) opgelopen tot meer dan
70.000 in totaal. Werkgevers en arbeidsmarktspecialisten verwijzen ook naar
de recente studie van de Leuvense hoogleraar Luc Sels. Die voorspelt dat er
de komende vier jaar 300.000 Vlamingen de arbeidsmarkt verlaten. Die moesten
allemaal vervangen worden. Een deel van het probleem kan worden opgelost
door beleidsmaatregelen als het ontmoedigen van vervroegde uittreding, maar
dat is niet voldoende.
“Dagelijks zijn er bedrijven wier activiteiten onder druk komen te staan
omdat ze geen personeel vinden. Wij zoeken die werkkrachten in landen van
waaruit we ze op een ethisch verantwoorde manier naar hier kunnen halen”,
zegt Jan Denys van Randstad. “ Maar het asieldebat maakt een objectieve
analyse zeer moeilijk. Alles valt onder dezelfde noemer terwijl wij pleiten
voor noodzakelijke migratie. Economische migratie maakt trouwens slechts 15
procent van alle migratiestromen uit.”

In België staat de linkerzijde huiverig tegenover arbeidsmigratie. Een
partij als de PS legt vooral de nadruk op het humanitaire aspect. Tegelijk
bestaat er een groot wantrouwen tegen economische migratie die de lonen
onder druk zou zetten en deloyale concurrentie betekent voor de Belgische
werkzoekenden. Onderzoek wijst nochtans uit dat migratie geen negatief
effect heeft op de tewerkstelling en de lonen niet onder druk zet.

Critici van economische migratie beweren ook dat werkgevers enkel
geïnteresseerd zijn hooggeschoolde migratie, maar die ontkennen dat. Wel
benadrukken ze dat de kansen van bijvoorbeeld asielzoekers op onze
arbeidsmarkt klein blijven. Een op de vijf leefloners zijn niet-EU-burgers.
Van de niet-EU-burgers is in België 30 procent werkloos, het hoogste cijfer
van de EU. Uit een studie van het CSB die werd uitgevoerd na de grote
regularisatie van 2000, bleek dat maar de helft van de geregulariseerde
nieuwkomers werk had gevonden. Nochtans zijn velen onder hen hooggeschoold.
Denys: “De verschillende regularisatiegolven veroorzaakten een aanzuigeffect
maar veel van die mensen zullen het blijvend moeilijk hebben op de
arbeidsmarkt.”

A.M.

Monnaie, recherche désespérement souverain sérieux

Monnaie, recherche désespérement souverain sérieux

Par Jean-Claude Werrebrouck

Les images du bateau, et des passagers clandestins, évoquées dans « l’euro : sursaut ou implosion » se voulaient révélatrices de la réalité de la monnaie unique. Les passagers clandestins étaient les Etats eux-mêmes, et des Etats – puisque passagers clandestins – peu soucieux d’une stratégie de coopération.

Le bateau était lui-même le symbole de la monnaie, et une monnaie sans autre pilote qu’un fonctionnaire indépendant, voire en état d’apesanteur, et surtout dépourvu de gouvernail : la banque centrale est en effet indépendante et son rôle n’est que de maintenir le navire à flot, et ce, sans même lui assigner une direction.

Jadis, le pilote était l’Etat lui-même, et les passagers avaient le statut d’usagers d’un service monétaire largement soumis au caprice du prince. Bref la monnaie avait un maître, et il est vrai, souvent autoritaire, et peu scrupuleux, appelé souverain.

En sorte qu’il était exact que « battre monnaie était un attribut de la souveraineté ». Et souvent avec la violence du souverain : seigneuriage, dilution, assignats, « banqueroute des deux-tiers », inflation, etc. (cf. : « la crise : scénario pour 2010 »)

Le fonctionnement des marchés politiques en Europe, et leur histoire, devait pourtant aboutir à une « grande transformation » à la Polanyi : puisque « l’extériorité » qui tient les hommes ensemble peut devenir le marché, lequel rend faussement et magiquement obsolète l’Etat, alors il est possible d’engendrer une monnaie sans Etat et donc sans souverain : l’Euro était né.

 

Bien sûr, le bateau des passagers clandestins ne connaissait point de port – bateau aussi habité par des passagers voulant s’offrir à bon compte une « monnaie de réserve à l’américaine » (cf « l’euro : sursaut ou implosion ») – et pouvait rencontrer quelques hauts fonds, susceptibles de le faire chavirer : nous y sommes.

La grande crise était constitutive de ces hauts fonds, et de ce point de vue, elle ne fait qu’enclencher ou aggraver une crise monétaire, inscrite dans les gènes de la monnaie unique. Curieusement, c’est cette rencontre avec les hauts fonds, qui semble engendrer une course impossible de la « grande transformation à l’envers ».

C’est qu’en effet, les entrepreneurs politiques européens, aussi passagers clandestins, semblent vouloir ancrer le navire vers une extériorité, qui ne peut être qu’un souverain… dont on ne veut surtout pas…

C’est tout le sens qu’il faut donner, aux diverses rustines qui s’accumulent sur les flancs du navire, ayant eu à affronter les diverses convulsions des passagers : le grec, l’irlandais, etc.

Un premier pas dans la grande transformation à l’envers

Ainsi, une première extériorité que l’on peut appeler machine à fabriquer des rustines, fût mise en place dans le cadre d’un partenariat : le Fonds Européen de Stabilité Financière. Evidemment, cette institution basée au Luxembourg, est bien une extériorité, mais elle ne saurait être un souverain. Elle n’est même pas une union de transferts budgétaire, constitutive d’une caisse d’aide aux passagers, qui veulent rester clandestins.

Elle n’est qu’une abstraction, seulement susceptible de lever des fonds, au profit des passagers clandestins, invités à davantage de coopération. Et levées de fonds garantis, par la garantie des autres passagers, lesquels refusent de devenir responsables solidairement de façon illimitée.

Ainsi la loi du 7 juin 2010, votée au parlement français, expose l’Etat correspondant, dans la limite supérieure de 111 milliards d’euros. Les fonds levés, ne sont pas ceux des souverains, ne sont pas de la dette souveraine, et la responsabilité des souverains cautionneurs de dette est limitée, très exactement comme dans le cas de sociétés commerciales privées.

Et cette machine, initiée par la crise grecque du printemps 2010, se devait d’être légère, à peine d’entrer en délicatesse avec la clause de « no bail out » de l’article 125 du traité, lequel veille au principe de non solidarité financière entre les souverains. Principe instituant, ou autorisant de fait, le caractère de passager clandestin pour chaque signataire du traité.

Parce que la machine à fabriquer des rustines ne peut remettre le bateau à flot que fort temporairement, en raison du fait qu’elle participe à l’engendrement de nouvelles dettes, qu’il faut pourtant faire disparaitre, son usage est promis à bel avenir.

Clairement, le stock de dettes à l’échelle planétaire ne fait qu’augmenter, et le risque de nouveaux subprimes – de nouveaux hauts fonds – ne fait que se multiplier partout dans le monde.

C’est que le Fonds Européen de Stabilité Financière est aussi une machine, parmi d’autres dans le monde, à fabriquer de la nouvelle dette s’appuyant sur la garantie d’Etats insolvables : quelle espérance de mobilisation de la participation française (111 milliards d’euros) en cas de défaut grec par exemple, sachant que cette garantie représente environ 40% des recettes 2011 de l’Etat Français ?

Espérance d’autant plus réduite que, si un tel défaut devait se manifester, ledit Etat serait anéanti dans sa course à sauver les banques françaises, elles mêmes vitrifiées par le défaut grec, pour lequel elles sont si exposées : près de 0,3% du total des actifs bancaires, d’après l’étude de la Deutsche Bank en date du 26/11/2010… soit beaucoup plus que les capitaux propres…

Une autre étape de la grande transformation à l’envers

Le bel avenir de la machine à fabriquer des rustines est déjà écrit, avec fort gonflement de ses activités liées au secours, d’abord du passager irlandais, qui maintient malgré toutes les pressions et protestations, son jeu non coopératif en matière fiscale, ensuite des passagers portugais, espagnol, et sans doute d’autres encore. La taille de la machine pouvant augmenter en raison des convulsions à venir, cela signifiera de nouvelles garanties de la part des grands Etats insolvables.

L’accroissement de la taille ne la transformera pourtant pas en nouvelle extériorité, jouissant de la puissance d’un réel souverain monétaire. Sans doute l’aide du Fonds Européen de Stabilité Monétaire est-elle assortie de pressions sur les passagers afin de réduire leur clandestinité, toutefois les dites pressions ne les conduisent pas vers des stratégies coopératives.

C’est que le remède est uniformément déflationniste : réduction des déficits budgétaires gonflés par la crise financière, par diminution des dépenses publiques et, parfois augmentation de la pression fiscale. La purge déflationniste de chacun des passagers malades, entrainant une contagion, ankylosant le niveau d’activité du groupe, pris dans son ensemble.

Mieux, le danger guette, et les clandestins peuvent se dire intéressés par leur assujettissement au bourreau déflationniste : il fait mal certes, mais peut être moins que si l’on restait victime du spread sur dettes souveraines. Si, en effet, les taux offerts par le fonds de stabilité sont moins élevés que ceux offerts dans un marché en ébullition, il devient ainsi intéressant de se placer sous la houlette de l’Europe, le bourreau y étant peut-être moins cruel.

C’est très exactement la question qui s’est déjà posée – le dimanche 28 novembre 2010 à Bruxelles – pour le passager irlandais à qui il fallait proposer un taux élevé (5,8%), taux sans doute irréaliste pour le malheureux passager clandestin, mais en même temps, peut-être trop faible pour dissuader les passagers portugais et espagnol qui connaissent, ou vont connaitre, des taux marginaux d’endettement sur les marchés supérieurs à 5,8%.

Cela signifierait qu’il y aurait, avec la machine à fabriquer des rustines, une possibilité supplémentaire pour gagner un peu de temps. En contrepartie, cela signifierait aussi que le Fonds Européen de Stabilité Financière serait pollué – avec des taux simultanément trop élevés et trop faibles – dans son action, par des effets pervers non initialement prévus. Le fonds « victime des marchés », alors qu’il devait constituer une extériorité, sur laquelle il eut été possible de s’appuyer.

Grande transformation à l’envers : une nouvelle étape

Et les choses ne s’amélioreront guère en 2013 avec le futur mécanisme européen de stabilisation, lequel ne sera toujours pas une extériorité, comme le souverain de jadis l’était.

A priori, il traduira dans la rigueur du droit, un début de modification du rapport de forces sur les marchés politiques européens. Chez nombre de clandestins, il devient de plus en plus difficile, pour les entrepreneurs politiques, de justifier le point de vue d’une finance et d’une rente, qui a pour contrepartie la relative disparition des Etats providence construits autour du pacte politique des « Trente Glorieuses ».

Le cas de l’Irlande – qui pourtant n’avait pas connu la période en question – est à cet égard particulièrement éclairant : dans « l’accord » qui vient d’être proposé aux entrepreneurs politiques au pouvoir, il est expressément prévu que le fonds irlandais de réserve des retraites sera, à hauteur de 15 milliards d’euros, mobilisé pour sauver les banques.

La finance se nourrit ainsi fort directement dans le garde-manger, de ce qui est réellement des salaires indirects. L’approfondissement d’un tel modèle devenant politiquement ingérable, les entrepreneurs au pouvoir, sont désormais invités par les marchés politiques, à restaurer un minimum de souveraineté monétaire.

C’est tout le sens qu’il faut donner aux « clauses d’actions collectives », qui devraient commencer à s’introduire à partir du 1er juillet 2013, dans les contrats d’émissions de dettes souveraines. Et clauses souhaitées par l’entrepreneur au pouvoir à Berlin.

Sur le fond, un tel mécanisme, s’il devait être mis en place, est un début du partage du désastre engendré par la crise : finance et rentes correspondantes seront mises à contribution, par le biais d’un défaut désormais négocié. Sur les marchés politiques, cela correspondra, assez probablement, à l’achat de voix chez des contribuables invités à financer moins de rente, contre une perte probable de voix chez les épargnants.

Pour autant, il ne s’agit encore que d’un projet, projet pouvant à chaque instant être balayé par la violence de la crise. Un tel mécanisme est en effet lourd, complexe, et probablement non exempt de dangers. Il pose de vraies questions : les taux ne vont-ils pas incorporer le risque de défaut résultant de la disparition de l’aléa moral ? Vont-ils faire disparaitre les spreads ? Ne vont-ils pas précipiter la panique, chez ceux qui voyaient dans la dette des clandestins, un placement particulièrement sûr ? Quel statut donner à la dette souscrite par des résidents ? Etc.

Mais surtout, la renégociation elle-même se trouve extrêmement complexe, en raison de l’extrême imbrication des dettes, et des risques associés avec le principal d’entre-eux : la possible pérennisation d’un effet domino. C’est qu’il serait imprudent, de considérer que les externalités développées par un défaut irlandais, serait du même type que ceux d’un pays émergent.

Autant de questions qui justifient la grande instabilité des marchés en cette fin d’automne 2010. D’où d’autres voies à explorer.

Grande transformation à l’envers : d’autres difficiles étapes

On pourrait maintenant imaginer que la conjonction de la pression des marchés, associée à la résistance croissante des salariés, inviterait les entrepreneurs politiques européens à bousculer le champ institutionnel, au profit de la création d’une extériorité plus solide : un véritable Trésor européen en charge de l’émission de bons du trésor européen.

L’affaire serait redoutable, puisque les marchés politiques de chacun des passagers de l’euro, seraient amenés à réduire le périmètre de leurs activités, et donc le « carburant du pouvoir ». Il y aurait effectivement bouleversement du champ institutionnel, avec renégociation d’un nouveau traité, permettant notamment à l’union européenne, de percevoir des impôts de masse, type TVA, et de s’endetter, ce qui est aujourd’hui juridiquement impossible.

Reposant sur un PIB de 9.000 milliards d’euros pour la seule zone euro, l’ensemble bénéficierait en première approximation, d’une puissance d’endettement considérable. De quoi imaginer la présence d’un vrai souverain, pour une monnaie jusqu’ici sans maitre.

Pour autant, cette transformation à l’envers, faisant naitre un nouveau souverain, est aujourd’hui encore difficile à envisager. Les fonctionnements des marchés politiques interne à chaque pays, d’une part, et entre les pays de l’euro zone , d’autre part, ne peuvent que s’y opposer.

Au niveau interne, donc au niveau de chacun des passagers, la naissance d’un embryon d’Etat européen, vaut réduction des marchés politiques internes. Ainsi qu’il vient d’être énoncé, le basculement d’une partie de la fiscalité interne, est réducteur du périmètre des activités des entrepreneurs politiques locaux.

Et face à cette perte collective du « carburant du pouvoir », le risque est d’assister à la cartellisation des grandes entreprises politiques, aux fins de résister au projet. Pour éviter le processus de cartellisation négative, il faudrait que les avantages politiques d’une dette devenue européenne, surcompense les désavantages de la montée en puissance de cette nouvelle extériorité, que serait l’Etat européen embryonnaire.

En admettant même que l’analyse coût/avantage soit indécise, quant à ses résultats au niveau interne (au niveau de chacun des passagers), la même analyse – menée au niveau externe – conduit plus probablement au refus de la naissance d’un souverain européen.

Car la collectivisation de la dette, en faisant disparaitre les spreads, aboutit nécessairement à la fixation d’un taux d’intérêt unique, défavorable au passager le plus important : l’Allemagne. La qualité de la dette européenne devenant inférieure à la qualité de la dette allemande seule. Il y aurait donc un spread de taux, sur la dette européenne, par rapport à la dette allemande d’aujourd’hui. D’où, ici, la cartellisation des entreprises politiques allemandes, en vue d’opposer un front du refus.

Décidément, le chemin de la grande transformation à l’envers dans le but d’accrocher l’euro à un souverain, est parsemé d’embûches…

Resterait à envisager un autre chemin pour envisager la grande transformation à l’envers. Puisqu’il est très difficile de faire naître un souverain pour l’euro, peut être serait-il possible de faire au moins disparaître ce pouvoir indépendant qu’est celui de la BCE.

Dans la présente situation, le dispositif institutionnel du système européen de banques centrales, a pour effet, de contenir le périmètre de la clandestinité des passagers. La BCE ne peut en effet favoriser tel ou tel passager en achetant directement sa dette, geste qui lui est juridiquement interdit. Elle ne peut pas non plus, émettre sans retenue de la liquidité auprès des banques, de tel ou tel passager, en raison de son statut de gardien de la stabilité monétaire.

Autant de dispositions qui limitent le périmètre de la clandestinité, ainsi que l’a clairement montré les péripéties de la crise irlandaise. Les entrepreneurs politiques locaux continuaient à chercher à gagner du temps – y compris en consommant cavalièrement, le fonds de réserve des retraites, pour retarder des adjudications, potentiellement calamiteuses en termes de taux – et laissaient sur active une BCE venant en aide aux banques insolvables.

La BCE, jugeant qu’elle quittait le champ traditionnel de ses interventions, fut le promoteur de l’organisation d’une aide coordonnée, que les entrepreneurs politiques irlandais furent amenés, dans un premier temps, à refuser. Ces derniers, préférant sauver les banques, par les liquidités distribuées par la BCE, plutôt que d’accabler davantage un citoyen pourvoyeur de voix.

« L’accord » du 28 novembre qui fut imposé aux entrepreneurs politiques irlandais, définit bien les limites de la clandestinité dans le paradigme dominant : en cette fin d’année 2010, il appartient encore aux contribuables de régler les factures de l’orgie financière.

Sans doute y aura-t-il, ici ou là, chez nombre de clandestins, cartellisation des marchés politiques pour faire évoluer le système européen de banques centrales. Et une cartellisation résultant possiblement d’une résistance croissante des citoyens.

Pour autant, les choses ne sont pas simples, et il y aura probablement un nouveau front du refus, issu de la cartellisation des entreprises politiques allemandes. En admettant même qu’il puisse être mis fin à l’indépendance de la BCE, le risque le plus important serait l’élargissement du périmètre de la clandestinité : l’euro était déjà pour nombre de clandestins une drogue – une « monnaie de réserve à l’américaine » – mais qui pourra, demain, si fin de l’indépendance il devait y avoir, contrôler l’ouverture du robinet à liquidités aux fins d’éviter l’overdose ?

L’euro, risque ainsi de rester encore quelque temps, la monnaie en quête d’un souverain très difficile à faire émerger. De quoi la menacer dans sa survie.

La crise des années 2010

(Les liens insérés dans le texte, l’ont été par fortune.fdesouche.com)

samedi, 04 décembre 2010

A. Latsa: un autre regard sur la Russie

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"Un autre regard sur la Russie"
par Alexandre Latsa*

Depuis que je réside en Russie, il m’est souvent arrivé, lors de discussions avec mes amis russes, d’aborder le sujet du niveau de vie et aussi de la pauvreté. Bien sûr ce sujet est essentiel: tout le monde souhaite bien et en général mieux vivre qu’avant.

La mondialisation, grâce à la télévision et internet a permis à toute la planète de contempler et de souhaiter le niveau de vie jugé idéal: le niveau de vie occidental. Récemment dans la rubrique "Opinions des lecteurs" d’un journal russe, il était demandé à des étudiants quelle question ils souhaiteraient poser au président Medvedev. Une jolie étudiante, âgée de 23 ans avec des grands yeux d’écureuil posait la question suivante: "Dimitri Anatolievitch, quand allons-nous enfin bien vivre?".

En Russie, le salaire moyen est d’approximativement 500 euros par mois en 2009 et de 1.000 euros par mois à Moscou. Ces chiffres sont assez déconcertants pour qui connaît le coût de la vie dans ce pays. Cependant, je dis souvent à mes amis que ces salaires moyens sont pourtant déjà bien supérieurs à ceux d’Etats de l’Union Européenne tels que la Roumanie (350 euros) ou la Bulgarie (150 euros).

La Russie, sur le papier, se situerait pour l’instant sous le niveau estonien (700 euros) ou polonais (875 euros). Evidemment, la Roumanie et l’Estonie, ce n’est pas la France. Il est vrai que le salaire moyen en France s’élève à 1.800 euros. En plus me rétorquent-ils le coût de l’immobilier en Russie (qui est un réel problème national) dépasse les niveaux de prix français! Bien sûr, ils semblent avoir raison d’un point de vue purement mathématique.

Pourtant d’autres indicateurs économiques sont plus flatteurs pour la Russie. Prenons par exemple la pauvreté. Celle-ci a reculé de moitié en dix ans, la part des Russes vivant sous le seuil de pauvreté ayant diminué de 29 à 15% de la population entre 2000 et 2009.
En France, le taux de pauvreté, qui était de 6,2% de la population en 2001 à la veille du passage à l’euro atteint aujourd’hui 13,7%. La moitié des Français en 2009 vit avec moins de 1.500 euros par mois, ce qui en France n’est vraiment pas beaucoup. Autre indicateur, le chômage. Celui-ci touche aujourd’hui 7% de la population active en Russie, alors qu’il avoisine 12% en France et presque 25% pour les moins de 24 ans.

Enfin, peut-on réellement comparer les niveaux de vie?

Il n’est pas du tout évident que 500 euros à Omsk confèrent moins de pouvoir d’achat que 1.500 euros à Bordeaux. Autre exemple, est-on plus riche à Paris qu’à Moscou avec, disons, 1.000 euros? Assurément non. En 2009, selon la Banque mondiale, la Russie se classait même devant la France pour le pouvoir d’achat par devise nationale.

Mais ces statistiques ne veulent pas tout dire. En France, par exemple, elles sont maquillées par des concepts comme la précarité, le temps partiel ou le surendettement qui explosent depuis quelques années et sont très significatifs du mal-être général. Alors bien sûr la France, via son généreux système d’aide sociale, ne laisse pas sans assistance financière les gens sans ressources ou les chômeurs.

C’est encore vrai aujourd’hui mais le débat sur le coût d’un tel système (déficitaire de 23 milliards d’euros en 2010) est désormais lancé et il est plausible que la crise économique signe la fin de l’Etat providence ("Etat providence " désigne la forme prise par l'intervention de l'État dans la vie économique et sociale-ndlr.) à la française.

Que se passera-t-il alors que l’Etat ne "peut pas" donner du travail à tous ces gens? Les Russes savent-t-ils que le niveau d’endettement de l’Etat français est tel que chaque nouveau né doit déjà 25.000 euros? En Russie a contrario, il est encore fréquent que les revenus réels soient plus élevés que les salaires, de nombreux Russes cumulant une seconde activité en parallèle à leur travail principal.

Cela est, malgré tout, possible dans une économie suffisamment souple et suffisamment dynamique, comme l’est la Russie. Une économie sans dettes mais avec des réserves financières massives. Les prévisions de croissance en Russie pour les deux ou trois prochaines années sont les plus élevées d’Europe et feraient rêver n’importe quel gouvernement de la zone Euro. Il semble donc que la Russie soit sur une phase ascendante, pendant que de nombreux pays européens, comme la France, soient dans une phase plutôt descendante.

Imaginons que durant les dix prochaines années, la situation perdure, que les niveaux de " salaires " continuent à augmenter en Russie et la pauvreté à diminuer, tandis que le phénomène inverse se passe en France. Dès lors mes amis russes dans 10 ans tiendront t-ils le même discours?

Pour ma part, il me semble que l’évaluation du niveau de vie n’est pas définissable seulement par des indicateurs économiques linéaires. Cette sensation que l’avenir sera meilleur que le passé fait qu’il est devenu possible pour les Russes de ne plus regretter le passé, mais également de ne plus craindre l’avenir. A l’inverse, les Français qui ont connu l’insouciance des "Trente Glorieuses" (cette période d’embellie économique allant de 1945 au choc pétrolier de 1973) ne cessent d’en parler comme d’un âge d’or, révolu. La dégradation de la situation économique, sociale et identitaire a fait que les Français aujourd’hui ne sont plus sereins face à l’avenir.

Samedi soir, en allant dîner dans un restaurant de mon quartier, Rio Grande, je me suis plongé dans ces réflexions en observant les clients. Sur des morceaux de rock russe des années 1970 repris par un duo talentueux, les habitués dansaient, indépendamment de leur âge et de leurs origines sociales, pourtant très variées.

Je précise que j’habite dans un quartier excentré, un "spalniy rayon" classique au bout d’une ligne de métro. Finalement les gens avaient l’air relativement heureux et insouciant et j’en suis arrivé à la conclusion que le sentiment global de sécurité et de confiance est un indicateur fondamental du réel niveau de vie. Selon cet indicateur-là, les Russes en 2010 sont sans aucun doute parmi les premiers au classement européen.

"Un autre regard sur la Russie": Mistral gagnant

* Alexandre Latsa, 33 ans, est un blogueur français qui vit en Russie. Diplômé en langue slave, il anime le blog DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie".

vendredi, 03 décembre 2010

Jeudi 16 décembre: Marc Rousset au Centre Charlier

Jeudi 16 décembre :

Marc Rousset au Centre Charlier...

Le Centre Charlier organise une conférence avec  

 

Marc Rousset (*)

Docteur en Sciences économiques

 

sur le thème :

 La nouvelle Europe,

l’axe Paris-Berlin-Moscou

 

Marc-Rousset-L-Europe-est-un-nain-politique-_.jpg

 

Jeudi 16 décembre 2010

à 19 h 30  

au Centre Charlier,

70, Boulevard Saint-Germain 75005 PARIS

(métro Maubert-Mutualité)

 

La conférence sera suivie du traditionnel buffet

L’auteur dédicacera son ouvrage

« La nouvelle Europe : l’axe Paris-Berlin-Moscou »

paru aux éditions Godefroy de Bouillon

 

Participation aux frais : 8 €

Étudiants, chômeurs : 4 €

 

(*) Marc Rousset collabore régulièrement à la revue Synthèse nationale.

 

 

Un coup d'Etat civil pro islamique à Ankara...

Un coup d'État civil pro islamique à Ankara...

Par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: L'Insolent

  

Les conséquences de la réunion de l'Otan à Lisbonne directes et indirectes, ne manquent pas de se faire sentir. Et cela commence par l'un des principaux alliés, la Turquie. Les années 1946-1950 avaient vu la mise en place, dans ce pays, de gouvernements démocratiques formellement civils. Plusieurs coups d'État les ont renversés successivement. Or pour la première fois depuis 60 ans, deux ministres (1) ont pris la décision d'y mettre à pied trois généraux. (2) Ceux-ci se trouvent impliqués dans le cadre du complot Bayloz remontant à 2003. Le chef du parti laïc de gauche CHP soutient de façon significative les trois putschistes, qui font appel aux tribunaux spéciaux. Cela s'est produit la semaine écoulée, qui suivait immédiatement la rencontre de l'alliance occidentale.

S'agissant de tout autre pays, on trouverait cette situation critique du point de vue journalistique et conjoncturel. L'événement serait couvert de façon dramatique par les gros moyens d'information. Et on jugerait aussi cette normalisation, sur le fond, parfaitement conforme aux principes de la gouvernance mondiale.

Il n'en va pas de même dans une société où l'élément militaire joue, ou plutôt jouait jusqu'à une date très récente, un rôle central dans tous les réseaux de pouvoir. Rappelons ainsi que le poids économique de la couche dirigeante de l'armée issue du kémalisme, en fait le principal partenaire apprécié en France par les milieux se disant de gauche et non moins laïcistes.

Les dirigeants civils, eux-mêmes disciples de l'islam moderniste (3), ont obtenu à Lisbonne de la part des Américains et des autres alliés une concession qu'ils jugent essentielle. On leur a accordé que l'Iran ne soit pas explicitement mentionné comme adversaire dans le cadre de la mise en place du bouclier anti-missiles de l'Alliance atlantique. Dans ce contexte, ils se sentent en mesure de rogner un peu plus les prérogatives des militaires laïcs.

On pourrait donc aboutir au renversement complet du rapport de forces établi par les jeunes-turcs en 1909, puis par le kémalisme en 1923, un concept paradoxal : un "coup d'État" civil.

En apparence, formellement, si cette évolution aboutit, elle ne rencontrera que des approbations, au moins dans un premier temps, sur la scène internationale.

Pour le moment d'ailleurs un seul pays, pratiquement, semble s'y opposer, émettre des réserves, agiter et alerter plus ou moins discrètement ses propres éléments d'influence. Il s'agit de l'État qui avait tissé depuis le début des années 1950 des liens très solides de coopération avec l'armée d'Ankara. Pour le moment, en effet, le gouvernement israélien actuel redoute à plus ou moins juste titre une coalition régionale des pays musulmans. Ceci ne s'était jamais produit depuis la fondation d'Israël. L'État hébreu, de guerre en guerre, et pendant ces périodes intercalaires que l'on appelle, un peu imprudemment peut-être, "la paix" avait toujours su séparer les deux puissances musulmanes régionales non arabes, l'Iran comme la Turquie, et s'employer efficacement à diviser les Arabes entre eux. Sur ce dernier terrain il n'a pas rencontré trop de difficultés.

Dans sa chronique de Zaman Today du 27 novembre M. Ergun Babahan prend à cet égard à partie l'ancien ambassadeur américain en Turquie M. Eric Edelman. Il en fait à la fois le porte-parole à Washington d'une certaine coulisse et il l'accuse de "vivre dans un monde virtuel", de se montrer "coupé du réel". Le vrai reproche porte sur l'évaluation de la durée, que ses partisans jugent illimitée, du gouvernement turc actuel.

De ce dernier point de vue nous ne disposons à vrai dire d'aucune boule de cristal. Nous les laissons au Quai d'Orsay. Contentons-nous des faits.

Lors de la sortie très spectaculaire de Erdogan à Davos en janvier 2009, puis encore lors des incidents de la flottille Mavi Marmara en mai 2010, on a pu remarquer que le gouvernement d'Ankara ne craignait pas désormais de s'aliéner les réseaux pro-israéliens du monde entier. Aux Etats-Unis, où il réside, remarquons d'ailleurs que Fethullah Gülen tient des propos apaisants. Certains observateurs mal informés ou naïfs, comme M. Gurfinkel dans Valeurs actuelles, les prennent ou tentent de les faire prendre à leurs lecteurs pour argent comptant.

Or, désormais, le quotidien officieux Zaman est monté d'un cran dans la séparation : on y met en accusation l'influence sioniste en Amérique du nord. Personne ne peut croire inconscients de la gradation, les professionnels de la communication qui fabriquent ce journal, très proche du pouvoir et techniquement très bien fait. Y compris dans l'usage des mots, il ne nomme plus d'ailleurs désormais ses adversaires pour "sionistes", il revient à un registre sémantique qui servait beaucoup à la charnière des XIXe et XXe siècles.

Or, parallèlement, les dirigeants d'Ankara haussent également le ton dans leurs négociations avec l'Europe. Ils jugent en effet que la défense du continent a été confirmée ces dernières semaines comme dépendant intégralement du bon vouloir de Washington. Plusieurs longues analyses officieuses confirment ce fait, pour tout observateur lucide, malheureusement évident. (4) Il semble pour nous humiliant, mais pour les Turcs réconfortant, que l'Union "européenne", les guillemets me paraissent désormais s'imposer, persiste à ne penser son destin qu'en tant que grosse patate consommatique.

Représentée au plan international par les glorieux Barroso, Van Rompuy et Lady Ashton l'organisation bruxelloise des 27 petits cochons roses se préoccupe plus de sauver ses banquiers que de défendre ses ressortissants.

Le projet "Eurabia" a été décrit (5) comme préparant pour les prochaines décennies, au nord de la Méditerranée la situation de dhimmitude que subissent depuis des siècles les chrétiens d'orient. Ce processus de domestication des peuples par la trahison de leurs élites économiques semble donc en bonne voie.

Les ennemis de la liberté si actifs contre notre continent s'y emploient dans les coulisses de Bruxelles.

En professionnels de la conversion par conquête, je ne doute pas que les islamistes turcs observent leurs proies, qu'ils l'hypnotisent par leurs mots d'ordre et qu'ils se régalent de leurs faiblesses. On peut cependant encore s'y opposer. (6)

 

Notes

 

1.                   Il s'agit des ministres de l'intérieur Bechir Atalay et du ministre de la Défense Vecdi Gönül

2.                   Les militaires limogés sont un général de gendarmerie, du général Abdullah Gavremoglou et du major Gürbüz Kaya.

3.                   Nous donnons à ce sujet quelques précisions dans L'Insolent du 23 novembre "Les dirigeants turcs vrais islamistes et faux bisounours".

4.                   cf. les analyses publiées dans Zaman les 24 et 27 novembre

5.                   cf. le livre de Bat Ye'or "Eurabia, the Euro-Arab Axis" 2005 ed. Farleigh Dickinson University Press, version française "Eurabia, l’axe euro-arabe" 304 pages 2006 éd. Jean-Cyrille Godefroy.

6.                   J'aurais le plaisir de signer mon livre "La question turque et l'Europe" au prochain salon du livre d'Histoire le dimanche 5 décembre. Mais vous pouvez aussi dès maintenant l'acquérir directement sur le site des Éditions du Trident. Rappel : il est plus courtois vis à vis des organisateurs, pour les personnes qui se rendraient à ce salon d'acquérir les ouvrages sur place.

jeudi, 02 décembre 2010

Les fuites surprenantes de Wikileads

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Les fuites surprenantes de Wikileaks

Le billet de Patrick Parment

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

Les révélations du site Wikileaks ne manquent pas de surprendre, moins en raison de la teneur des propos que de leur saisie. Que l’on puisse pirater des documents confidentiels de l’administration américaine en dit long sur la sécurité de ces systèmes informatiques et pose le problème de leur accès. Bienvenue donc au pays des pirates. A ce petit jeu, on se demande bien ce qui va bien pouvoir rester secret face aux avancées technologiques. Le moindre homme politique qui pisse de travers se retrouve désormais sur Youtube par les vertus d‘un téléphone portable.

Reste la teneur des propos évidemment. On s’aperçoit à la lecture de quelques extraits parus dans la presse que le petit monde de la diplomatie n’est pas aussi guindé qu’il y paraît. On se lâche ici aussi. Sur le fond, rien de très neuf, les ambassadeurs vénitiens en poste dans les différentes capitales européennes, dès le XIIIème siècle, faisaient exactement la même chose et envoyaient rapport sur rapport à la Sérénissime qui était, alors, avec Rome, les villes les mieux informées d’Europe.

Cela dit, sur le fond, on y trouve surtout la confirmation de ce qu’il nous est donné de penser sur ces messieurs qui nous gouvernent : leurs faiblesses, leurs limites et l’idée qu’ils se font du monde. Pour ce qui nous concerne, les Américains considèrent Sarkozy comme un roi nu, susceptible et autoritaire. Et que David Levitte considère l’Iran comme un Etat fasciste ne surprendra guère. En revanche, on est pour le moins étonné des options d’un certain Damien Loras, conseiller diplomatique en charge de la Russie qui avance : « Les dirigeants russes manquent de vision suffisante à long terme pour leur pays, et, au lieu de cela, se concentrent sur un horizon à six mois et sur leurs intérêts commerciaux. » Et d’ajouter que d’ici quatre ou cinq ans, « la Russie ne pourra plus subvenir à la demande européenne » en matière d’énergie. Voici une opinion discutable, car on n’a pas le sentiment que Vladimir Poutine inscrive son action dans une vision à court terme. Par ailleurs, concernant ses ressources, la Russie dispose à elle seule de plus du tiers des ressources mondiales dont le pétrole et le gaz. N’y aurait-il pas là une forme d’intox dans la mesure où la politique étrangère élyséenne est franchement pro-américaine. Ce qui n’est pas le moindre des paradoxes dans la mesure où l’on apprend par la même source que Barack Obama s’intéresse assez peu à l’Europe et que ses regards se portent plutôt vers le Sud-Est asiatique. Quoi de plus normal d’ailleurs pour ce métis Américain qui n’a aucune vision culturelle de l’Europe – faute de racines européennes comme nombre de ses prédécesseurs – et qui vit au quotidien le rachat des Bons du Trésor par les banques chinoises. Il faut dire aussi que pour les diplomates américains en poste à Moscou, le couple Medvedev-Poutine, c’est Robin et Batman dans le film du même nom. On saisit tout de suite la portée de la métaphore.

Sur le fond, donc, cela ne fait que confirmer le sentiment que l’on a que l’Amérique est un continent qui s’éloigne de plus en plus de l’Europe et qu’il serait grand temps que l’on coupe le cordon ombilical. Mais, pour se faire, il faudrait une vraie conscience européenne, ce qui n’est pas le cas aujourd’hui avec toute la bande de guignols qui s’agitent au nom d’une Union européenne qui est totalement étrangère à la réalité des peuples.