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vendredi, 29 avril 2011

Croatian Genetics - New Origins

Croatian Origines - New Genetics

jeudi, 24 mars 2011

Urheimat: alle origini del Popolo Europeo

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Urheimat: alle origini del Popolo Europeo

Molteplici le teorie sulle origini etniche, addirittura c’è chi sostiene che gli Ittiti provengano dal popolo dei Chatti, stanziati in Europa tra Reno e Weser

Gianluca Padovan

Ex: http://rinascita.eu/ 

L’improbabile origine asiatica
La questione più dibattuta tra archeologi e linguisti è la sede originaria (dal tedesco Urheimat) dei cosiddetti “Indoeuropei”, popolo che tra il IV millennio a. e il I millennio a. sembra comparire, oltre che in Europa, anche in Asia e in Africa. Ma, inizialmente, si pensa che tale popolazione provenga dall’India e approdi in Europa foriera di cultura e tradizione: cosa mai avvenuta. Così pure si desidera vedere la provenienza di genti, che fanno fiorire culture sul suolo europeo, dalle steppe e dalle tundre dell’est e dai deserti di sudest, basandosi più che altro sui testi biblici e sulla propria religione. A mio avviso il concetto espresso nella frase “ex Oriente lux” è da riconsiderare e soprattutto da evitarne la pedissequa e acritica applicazione.
Alcuni ritengono che la patria originaria sia da ricercarsi nell’Asia Centrale, in un territorio compreso tra il Turkestan e il Pamir, altri nella cosiddetta Russia Europea, ovvero ad ovest degli Urali. Ma vi è chi ritiene che l’ “Urheimat” sia l’Europa del Nord. Oggi i più tendono a considerare che essa sia da collocarsi tra la Germania del Nord e l’Elba e la Vistola, fino alle steppe che vanno dal Danubio agli Urali, quasi in una sorta di compromesso. In buona sostanza la provenienza della luce culturale e sociale è ancora da definirsi e, sostanzialmente, le idee al proposito rimangono varie anche e soprattutto in campo accademico.
Ad esempio, uno dei luoghi comuni dell’Antropologia è l’origine asiatica degli “Indoeuropei”. E a sostegno della tesi della provenienza asiatica vi è la questione del cavallo. Si afferma che esso è addomesticato e allevato nelle grandi pianure dell’est e del sudest asiatico e da qui introdotto in Europa. In realtà il cavallo è già noto almeno fino dal paleolitico superiore, con attestazioni, ad esempio, in Scania (Svezia meridionale). Ma sulla questione si potrebbero leggere fiumi di parole sia pro che contro.
Calvert Watkins scrive: “Molti studiosi ritengono che la zona della steppa siberiana a nord e a est del Mar Nero sia stata, se non la ‘culla’ originaria degli Indoeuropei, almeno un’importante area di sosta negli spostamenti verso ovest nei Balcani e oltre, verso l’Anatolia e verso il sud e poi verso l’est nell’Iran e in India, a cominciare dalla metà del quinto millennio a.C. Questa è quella che viene chiamata dagli archeologi cultura Kurgan, dalla parola russa per i suoi caratteristici monumenti o tumuli sepolcrali” (Watkins C., Il proto-indoeuropeo, in Campanile E., Comrie B., Watkins C., Introduzione alla lingua e alla cultura degli Indoeuropei, Il Mulino, Bologna 2005, p. 49). Tali teorie sono basate anche sugli scritti dell’archeologa americana di origini lituane Marija Gimbutas.
Innanzitutto è probabilmente da ricercare in Europa il fenomeno del megalitismo, che ha lasciato sul territorio monumenti a tumulo che si perpetuano nel tempo e anche all’esterno dei confini continentali. L’argomento è più che noto ed è superfluo riprenderlo, ma un passo è doveroso riportarlo: “L’architettura territoriale neolitica realizza i suoi capolavori nelle regioni europee che costeggiano l’Atlantico e il Mare del Nord - la facciata atlantica europea - dal Portogallo alla Svezia. Gordon Childe ha avuto l’intuizione di rilevare che in Europa i grandi centri dell’architettura megalitica corrispondono alle regioni in cui le sopravvivenze paleolitiche sono più numerose e meglio attestate. Perciò c’è forse un rapporto, sconosciuto e mediato dal tempo, di educazione, atteggiamento e cultura tra i pittori delle caverne paleolitiche e i costruttori di monumenti megalitici. È significativo ricordare il profondo cambiamento di opinione, nella comunità archeologica, sulle origini delle culture megalitiche europee. In passato si pensava che derivassero dalle grandi civiltà urbane del Vicino Oriente. Attraverso i sistemi moderni di datazione al radiocarbonio Colin Renfrew ha potuto dimostrare che i manufatti europei risalgono a prima del 4000 a.C. e sono “creazioni autonome, uniche nel loro genere: i più antichi monumenti di pietra eretti al mondo”. Molte costruzioni furono cominciate nel V millennio a.C. e modificate fino al I millennio a.C.” (Benevolo L., Albrecht B., Le origini dell’architettura, Editori Laterza, Bari 2002, p. 97).
 
La forza culturale Europea
Così ricorda Romualdi: “L’espansione della cultura nordica nella Russia centrale e meridionale si lascia seguire attraverso la cultura megalitica di Volinia, quella del medio Dnepr e quella di Fatyanovo: tutte queste culture sono caratterizzate da ceramica globulare o cordata e da asce da battaglia. Esse invadono il territorio dei cacciatori ugro-finnici della ceramica a pettine, e premono su quello degli agricoltori della ceramica dipinta di Tripolje. Queste invasioni sono state appassionatamente negate dalla scuola archeologica sovietica di Marr e compagni, pei quali l’esistenza di una Urheimat indoeuropea era “un pregiudizio borghese, esattamente come la fede nell’esistenza di Dio” e per i quali le invasioni indoeuropee facevan parte della mitologia capitalistica” (Romualdi A., Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 1978, p. 29).
E ancora Romualdi sottolinea l’improbabilità di forti migrazioni da est verso ovest, apportatrici di caratteri culturali: “Ci si trova sempre di fronte alla vaga suggestione delle ‘orde indoeuropee irrompenti nelle steppe euroasiatiche’, contro la quale già Hermann Hirt aveva obiettato che a nessun popolo delle steppe è mai riuscito di diffondere lingue in Europa” (Ivi).
Herman Hirt, nel suo Die Indogermanen, afferma: “L’agricoltura può nutrire su uno stesso territorio assai più uomini dei nomadi delle steppe. È in grado di produrre forze sempre nuove che rafforzano e vivificano la prima corrente. L’assalto dei popoli delle steppe può abbattersi straordinariamente violento, può distruggere come una fiumana di lava ma, poiché non ha nulla dietro di sé, si riassorbe ben presto nella sabbia” (Hirt H., Die Indogermanen I, S. 190; in Romualdi A., op. cit., p. 70). Se qualcuno nutre dei dubbi, guardi che cos’hanno lasciato, ad esempio, gli Unni in Europa: solo un ricordo e per giunta negativo.
Fin dagli albori della storia in Asia e nell’Africa del Nord si incontrano Europei in quanto minoranze che riescono a imprimere una propria impronta alla storia locale. La lingua che diffondono è quella di una aristocrazia conquistatrice, probabilmente poco rispecchiante i multiformi aspetti della vita quotidiana, ma in grado di perdurare nel tempo.
 
Ittiti, Hittiti, Hatti o Chatti
Rimanendo cauti su traduzioni, trascrizioni, vocalizzazioni più o meno azzeccate, e interpretazioni, parrebbe che la terra di Hatti o di Chatti sia quella occupata dagli Ittiti, che verrebbero così scritti: Hittites, Héthéens, Hetiter, etc. Il territorio, o patria di origine o di semplice sviluppo, è stato localizzato nella penisola anatolica, ad est dell’attuale città di Ankara, antica Angora, capitale della Turchia, ed è la regione detta Hatti. La città principale è Hattusa, o Chattusa, vecchia Boğhazköy (“villaggio nella gola”), odierna Boğazkale. Ma la domanda canonica rimane comunque la seguente: da dove provengono gli Ittiti? Anche qui le ipotesi, ognuna con i suoi bravi dati a sostegno, sono varie. All’occhio di un profano come me sono tutte ugualmente interessanti e valide. Ma una mi ha colpito per la sua originalità e, senza che la si prenda troppo sul serio, la riporto semplicemente perché mi piace, invitando le persone competenti a rifletterci sopra. C’è chi sostiene che gli Ittiti provengano dal popolo dei Chatti, stanziati in Europa tra Reno e Weser. Alcuni linguisti sostengono che varie parole ittite derivino da una forma di linguaggio “antico-alto-tedesco” (Lehman J., Gli Ittiti, Garzanti, Milano 1997, p. 61). Fermo restando che la lingua ittita appartiene alla “famiglia indoeuropea” (meglio identificabile come Famiglia Europea), non basta l’assonanza dei nomi a fornire dati probanti: “Tuttavia non ci basiamo solo su questo. Theodor Bossert, una delle autorità dell’ittitologia, ha pubblicato nel suo Alt-Anatolien (Anatolia antica) una mappa in cui sono registrate tutte le località archeologiche dove sono state rinvenute divinità raffigurate su un toro o nell’atto di cavalcarlo. È una traccia lineare che dalla Siria, oltrepassando Boğhazköy, corre lungo il Danubio fino al Reno, piegando per una sua parte anche verso l’Italia. Un bellissimo esemplare di epoca romana, raffigurante questa divinità ittita con tutti i suoi attributi (fascio di saette e doppia ascia) a cavallo del toro, è stato trovato all’inizio del secolo a Heddernheim, che oggi è un quartiere di Francoforte sul Meno. Werner Speiser forse esagera, quando nel suo Vorderasiatische Kunst (Arte dell’Asia Anteriore) del 1952 sostiene che gli ittiti, con le loro teste e i lunghi nasi vigorosi, avevano un aspetto addirittura “falico” (cioè vestfalico); ma se si accetta la tesi di fondo c’è da riflettere. In definitiva anche i Galati dell’Asia Minore, cui scriveva l’apostolo Paolo, sono parenti dei celti nordeuropei” (Ibidem, pp. 74-75).
 
Caratteri distintivi
Leggendo nei vari testi e osservando le testimonianze della loro cultura possiamo vedere che gli Ittiti hanno la fronte alta e arrotondata, il naso dritto è senza l’angolo di attaccatura e i capelli sono tendenzialmente sciolti, lunghi e diritti. Possiamo ravvisarvi dei connotati “greci” come per esempio il naso? Attenzione: riferendosi agli Ittiti le iscrizioni egizie li descrivono aventi capelli chiari o probabilmente castano-chiari; inoltre c’è chi ha la barba, tagliata in varie fogge, verosimilmente a seconda della moda del momento. Per curiosità andiamo a vedere che cosa ci dice Tacito a proposito dei germanici Chatti, i quali sono stanziati a nordest del fiume Reno: “abitano il territorio che comincia dalla selva Ercinia, in luoghi non così pianeggianti e palustri come le altre regioni nelle quali si estende la Germania; infatti vi continuano i colli, che a poco a poco si fanno più rari, e la selva Ercinia continua insieme ai suoi Chatti e alla fine li mette al sicuro. La conformazione fisica è più resistente, solide le membra, truce l’aspetto, maggiore la forza d’animo. Possiedono - per essere dei Germani - molto raziocinio e abilità: mettono a capo delle truppe condottieri scelti, ubbidiscono ai comandanti, mantengono il loro posto nelle file dell’esercito; sanno riconoscere l’opportunità favorevole, ritardare gli attacchi, distribuire opportunamente le occupazioni della giornata e fortificarsi di notte; ascrivono la fortuna alle cose dubbie, e invece il valore alle cose sicure, e, cosa ben rara e concessa soltanto alla disciplina romana, ripongono maggior fiducia nel comandante che nell’esercito. La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare. Rare presso di loro le scorrerie e scaramucce. Ottenere rapidamente la vittoria e altrettanto rapidamente ritirarsi è tipico del combattimento a cavallo: la velocità è connessa al timore, la ponderatezza invece alla costanza” (Tacito C., Germania, Risari E. (a cura di), Mondadori Editore, Milano 1991, 30, 1-3).
Tacito sottolinea quindi la capacità dei Chatti di possedere due cose non comuni tra Germani e Celti, che sono la ponderatezza, la costanza, la disciplina e la logistica. Inoltre spiega che dalla tribù dei Chatti, nel 38 a., si staccano i Batavi per andarsi a stabilire alla sinistra orografica del fiume Reno, quindi nel territorio occupato dai Romani, ma da questi “non subiscono l’umiliazione di pagare tributi, né sono oppressi dagli esattori; sono esenti da oneri di imposte e da contribuzioni straordinarie e tenuti in serbo soltanto per il combattimento; li si destina alla guerra come fossero armi da offesa e da difesa” (Ibidem, 29, 1).
 
Arii o Ariani.
Con il nome di Arii o di Ariani si designano comunemente le genti di lingua “indoeuropea” che dilagarono nelle attuali regioni dell’Iran e dell’India del nord. Taluni hanno sostenuto che si tratta di genti provenienti da nord o da est del Mar Nero, altri da settori ad ovest che oggi portano il nome di Romania e Ucraina. Nel corso del XIX sec. altri studiosi indicano invece come ariani i popoli di lingua europea, di razza bianca e in particolare quelli provenienti dalle regioni del Nord Europa.
Ad ogni buon conto non si è stabilita, o non si è voluta stabilire, con esattezza la loro terra d’origine, andando a negare l’esistenza di una cosiddetta “razza ariana”. Dagli Anni Trenta in avanti, e soprattutto a conclusione della Seconda guerra mondiale, si tende ad assimilare il termine di ariano con le teorizzazioni sulla razza e le formulazioni e le applicazioni delle cosiddette “leggi razziali”. Pertanto l’argomento viene accantonato come scomodo e inopportuno.
Ecco un’altra curiosità che ci viene dal passato tramite Tacito e ancora sui Germani: “Io, personalmente, condivido l’opinione di chi ritiene che le popolazioni della Germania non si siano mescolate con altre genti tramite matrimoni, e che quindi siano una stirpe a sé stante e pura, con una conformazione fisica propria. Da ciò deriva un aspetto simile in tutti, nonostante il gran numero di individui: occhi azzurri e torvi, capelli biondo-rossastri, corpi saldi e robusti, in grado però di costituire una massa d’urto: la loro capacità di sopportare prestazioni faticose è di gran lunga inferiore, e non sono avvezzi a tollerare la sete e il caldo; il clima e la configurazione del territorio li abituano infatti ad adattarsi al freddo e alla fame” (Ibidem, 4, 3).
In particolare, Tacito parla della numerosa tribù dei Suebi, costituita da più tribù: “Attraversa e divide il paese dei Suebi una catena continua di montagne, al di là della quale abitano numerose genti; tra di esse è ampiamente diffuso il nome di Lugi, applicato a molte tribù. Basterà qui ricordare le più forti: Harii, Helveconi, Manimi, Helisi, Nahanarvali” (Ibidem, 43, 2). Stando ad alcuni studiosi la catena montuosa è stata individuata nei Carpazi occidentali e i territori nelle odierne Slesia e Polonia, dalla Vistola all’Oder; inoltre si esprime perplessità sul fatto che fossero della tribù dei Suebi, propendendo per quella degli Slavi.
Vediamo ora cosa ci dice Tacito di una tribù in particolare, quella degli Harii: “Per tornare agli Harii, alla forza per la quale superano le popolazioni sopra elencate aggiungono un’aria truce, e accrescono l’innata ferocia con artifici e con la scelta del momento opportuno: neri gli scudi, tinti di scuro i corpi, scelgono per l’attacco le notti più buie: un esercito di spettri che incute terrore col suo aspetto tenebroso. Non c’è nemico in grado di fronteggiare quella vista tremenda e quasi infernale. Infatti in qualsiasi combattimento i primi a essere sconfitti sono gli occhi” (Ibidem, 43, 4).
Gli studi delle nostre origini e quindi delle popolazioni che abitarono il continente europeo servono allo sviluppo delle conoscenze, nel senso più ampio del termine. Questo porrà probabilmente dei limiti a quello che fu propugnato fin dall’Ottocento come “pangermanesimo”, a cui Stalin oppose, nella prima metà del secolo successivo, il suo ideale di “panslavismo”, dimenticando come gli Slavi siano gente di stirpe europea e non già asiatica. È auspicabile che tutto ciò ponga fine all’equivoco ottocentesco e novecentesco di credere che da altrove sia pervenuta la nostra cultura, definendola “indoeuropea”. Sarebbe un po’ come dire (mi si conceda il paragone) a persone che vivono onestamente del proprio lavoro che gli asini volano ed è bello vederli volare: a furia di ripeterlo, decennio dopo decennio, qualcuno per creduloneria, qualcuno per problemi psichici, altri per piaggeria, affermeranno di vedere gli asini volare.
Noi siamo Europei e la nostra cultura è a tutti gli effetti europea. Non ci credete? La storia si ripete sempre e non sono certo io a dirlo: basti pensare, ad esempio, al filosofo napoletano Giambattista Vico e alla sua teoria riguardo corsi e ricorsi storici. Quindi è necessario e bastante vedere cos’hanno fatto, nel bene e nel male, le genti europee in questi ultimi duemilacinquecento anni e da dove sono partite, dove sono giunte, cos’hanno fondato, cos’hanno costruito, quale sia il contributo sociale, nazionale e culturale che hanno ovunque lasciato. Reimpariamo a pensare con la nostra testa... da veri Europei.
 


11 Marzo 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=7010

jeudi, 10 mars 2011

Man's Devolution Across Cycles: Radical Traditionalism on Anthropogenesis

Man’s Devolution Across Cycles:
Radical Traditionalism on Anthropogenesis

Michael Bell

Ex: http://www.counter-currents.com/

Sonnenrad.jpgConcerning the genesis of modern humanity, there are two primary theories that receive credence in anthropological circles. One is the “Out of Africa” hypothesis, which argues that today’s humans are the evolved descendants of a primitive race of hominids that, 70,000 years ago, departed its homeland in Africa and spread across the globe. Upon entering Asia and Europe, these archaic humans displaced the indigenous Neanderthals through violent conflict and higher birthrates. They then adapted to their environments and gradually morphed into today’s human races through a process called localized evolution.

The other theory is “Divergent Evolution,” which posits that the various races of mankind were spawned out of continuous admixtures between the different proto-humans (Homo-erectus, Cro-Magnon, Neanderthal, etc.) many millennia ago. The countless hybrid amalgams then underwent localized evolution like the single ancestor of the “Out of Africa” process.

While these hypotheses are considered to be at loggerheads, they are united by one key concept: the idea of progress. While each gives a different origin to mankind, both proceed from the assumption that as time goes on, mankind has become better. Although evolutionary theory does not imply that superior adaptations are also superior in terms of intelligence or beauty, this notion is particularly hard to shake with regard to human evolution.

Radical Traditionalism rejects the modernist assumption of progressive human evolution, regarding it as the exact opposite of how the universe functions. For Traditionalism, all things begin at their zenith and gradually degenerate, through a series of stages, into mere shadows of their former glory, a pattern no less true of human beings. The purpose of this essay is to explain how this rule has applied to mankind, who has not risen to mastery of the world from the lowly origins of some apelike ancestor, but rather has fallen from godhood into his current, all-too-human condition.

To do so, it will first be necessary to describe the Radical Traditionalist understanding of history. Like all tenets of Traditionalism, this conception of history is held to be a revealed truth passed down through a chain of initiation. What recommends the Traditionalist outlook to the non-initiate is its coherence and explanatory power. In the following essay, I show that Traditionalism explains archaeological and historical records and harmonizes with ancient myths as well. The modern empiricist will likely disregard such myths as the fancies of primitive imaginations, but that begs the question, for it is just another version of the progress thesis that Traditionalism rejects.

Cyclical History

Radical Traditionalism shares the same view of human history as our ancient forerunners from nearly every corner of the globe. As opposed to the linear model of history—whether ruled by an overriding purpose of by mere chance—the ancients accepted a cyclical model. This is evident in the texts of virtually every civilized race. The Hindus traced man’s descent across four ages or yugas, from the age of Truth (Satya Yuga) to the Dark Age (Kali Yuga), with the series comprising a single Great Age (Mahayuga). The Hellenic Hesiod, in his Works and Days, described the procession from a Golden Age to Silver, Bronze, and Iron Ages, which corresponds to the Persian rendition of the cycles. The Old Testament reveals that the Semitic peoples also shared this cyclical understanding. In a dream experienced by the Chaldean king Nebuchadnezzar, there stood a statue with a head made of gold, a chest and arms of silver, thighs of bronze, and legs and feet made of iron and clay, all of which eventually crumbled upon being struck by a stone.[1] The list can go on, with discussions of peoples from the Aztecs to the Japanese, but the examples provided are sufficient to reveal the universality of this cyclical concept.

The ancients also agreed that with each successive age, man becomes more and more distant from a primordial state of perfection. In the Golden Age, man lived in harmony with divine beings and according to absolute, transcendent principles that brought happiness, wholeness, and near immortality to individuals while it brought order and prosperity to collective life. With the ushering in of the Silver Age came a fall from this state of grace and the establishment of an imperfect existence, where those old principles were abandoned, the gods lost much of their divine nature, and man took a step away from cosmic harmony toward chaos. For the purposes of this essay, we shall elaborate on the Golden and Silver Ages, for it was in these prehistoric periods that humanity underwent processes that bestowed our multitude of contemporary mental and physical forms upon us.

The Atlantean Silver Age

The Golden Age was a period of perfection on all levels. Human life was directly guided by the gods themselves and therefore orderly, plentiful, and enjoyable. Though the Golden Age was long ago and its location long since lost, its memory is kept alive by the mythical traditions of nearly every people on the planet. Hesiod, writing in the eighth century B.C., describes this “Age of Gold” thusly:

Men spent a Life like Gods in Saturn’s Reign,
Nor felt their Mind a Care, nor Body Pain;

The fields, as yet untill’d, their Fruits afford,
And fill a sumptuous, and enevy’d, Board.
From Labour free they all Delights enjoy,
Nor could the Ills of Time and Peace destroy;
They dy, or rather seem to dy, they seem
From hence transporting in a pleasing Dream.
Thus, crown’d with Happyness their ev’ry Day,
Serer, and joyful, pass’d their Lives away.[2]

Hesiod is one of few writers to directly mention the Golden Age and describe its qualities. Using his work as a reference point, however, the scholar can detect allusions to the same period in other ancient texts. For example, in Book 6 of the Mahabharata, the author discusses Mount Meru, “made of gold,” where the “measure of human life is 10,000 years” and “men are all of a golden complexion . . . [and] without sickness, without sorrow, and always cheerful.”[3] Outside the Aryan tradition, the Book of Lieh-Tzu (fourth century B.C.) describes what appear to be the inhabitants of the Golden Age:

All were equally untouched by the emotions of love and sympathy, of jealousy and fear. Water had no power to drown them, nor fire to burn; cuts and blows caused them neither injury nor pain, scratching or tickling could not make them itch. They bestrode the air as though treading on solid earth; they were cradled in space as though resting in a bed. Clouds and mist obstructed not their vision, thunder-peals could not stun their ears, physical beauty disturbed not their hearts, mountains and valleys hindered not their steps. They moved about like gods.[4]

Finally, we have in the Semitic memory the Garden of Eden, where man was first established on Earth at God’s decree. According to the Book of Genesis, those who dwelled there lived for nearly 1000 years in a blissful paradise.[5] The allusions to this pristine setting are numerous, from the Avestic recollection of a distant period in the Airyana Vaego, where man was under the aegis of the creator god Ahura Mazda himself, to the Buddhist remembrance of Shambhala, roughly translated “land of peace” or “tranquility.”

In tracing anthropogenesis, it is crucial to establish the physical location of this primordial paradise. Unfortunately, no material archaeological evidence lends any insight into this question. We are thus forced to rely solely on the mythological memories of our ancestors. Among the Greeks, this land “beyond the pole” where neither “pestilence nor wasting eld approach” the inhabitants was referred to as Hyperborea, meaning “beyond the north wind.”[6]

In his book Arctic Home in the Vedas, the Hindu nationalist and scholar Bal Gangadhar Tilak, writing in the early twentieth century, presents a vast array of clues from Vedic and Avestic literature to argue that the primordial paradise was located in the Arctic. Tilak explains that if one were stationed at the North Pole, the sky above would appear to be rotating around one “from left to right, somewhat like the motion of a hat or umbrella turned over one’s head.”[7] He also explains that one would see the sun continuously in the sky for roughly six months, followed by a period of dusk, night, and dawn of two months each. Thus for the Arctic inhabitant, a full year would appear to unfold as a single day.

With these astral phenomena in mind, Tilak proceeds to pinpoint allusions to them in the Aryan texts. For example, in the Mahabharata, Mount Meru is discussed in one passage as a place where the “sun and the moon go round from left to right every day and so do all the stars” and “The day and the night are together equal to a year to the residents of the place.”[8] He supports this with a selection from the post-Vedic Laws of Manu, which says “A year (human) is a day and a night of the Gods; thus are the two divided, the northern passage of the sun is the day and the southern the night.”[9] Tilak corroborates this evidence with clues from Persian tradition. From the Avesta we have reference to an “enclosure” in the Airyana Vaejo in which “the stars, the moon, and the sun are only once (a year) seen to rise and set, and a year seems only as a day.”[10]

The present conditions in the Arctic make it uninhabitable. According to Tilak, however, modern scientists have conceded that at one time in distant prehistory, perhaps in pre-Glacial times, the region was hospitable, fertile, and filled with life. Among these scientists is the geologist James Geikie, who in 1893 argued that “during the Inter-Glacial period the climate was characterized by clement winters and cool summers so that the tropical plants and animals, like elephants, rhinoceroses, and hippopotamuses, ranged over the whole of the Arctic region, and in spite of numerous fierce carnivora, the Paleolithic man had no unpleasant habitation there.”[11] Joscelyn Godwin confirms that such conditions were indeed possible when, as “numerous authorities” claim, “the earth was not tilted, but spun perfectly upright with . . . its axis perpendicular to the plane of its orbit around the sun,” which was the case in “primordial times.”[12]

Since the Arctic Golden Age took place many eons before recorded history, assessing its actual place in time is troublesome. Using Hindu calculations, Traditionalist René Guénon concluded that this Golden Age took place nearly 65,000 years ago.[13] We must prefer this number over Tilak’s hypothesized 12,000 years, as the latter would place the subsequent Silver Age far too near recorded history to be possible, especially considering that the fourth, Dark Age, “is said” to have begun only 6000 years ago.[14] In addition, it would be implausible to place man’s origins only 12,000 years ago, as the devolutionary processes that reduced him to his modern form could not have fully unfolded within that short span.

Eventually, the Arctic seat and its Golden Age met a catastrophic end for a number of reasons, both physical and metaphysical. In his magnum opus, Revolt Against the Modern World, Julius Evola argues that the Earth’s axis shifted positions slightly, ushering in a cataclysmic climate change.[15] As a result, the Polar Regions became inhospitable to most life forms. In ancient texts one finds numerous references to this tilting of the axis. The Taoist tradition recalls when the “pillar which connects Heaven and earth” was “snapped” (the axis is essentially an invisible pillar that unites the sky with Earth), explaining “why Heaven dips downwards to the north-west, so that sun, moon and stars travel towards that quarter.”[16] The Hebrew story of the crumbling of the Tower of Babel, which connected Heaven to Earth, is another example. The Avesta explains the onset of the climate change in a dialog between the creator god and his disciple, king Yima: “And Ahura Mazda spake unto Yima, saying: ‘O fair Yima, son of Vîvanghat! Upon the material world the fatal winters are going to fall, that shall bring the fierce, foul frost; upon the material world the fatal winters are going to fall, that shall make snow-flakes fall thick.”[17] As this event would have occurred tens of thousands of years ago, it likely coincides with the beginning of one of the various Ice Ages.

One more event, metaphysical in nature, is explained to us by the Old Testament. It tells of how the “sons of God” mated with the “daughters of man” and spawned a race of mighty giants, whose evil behavior, driven by the appetites of the flesh, made God unleash elemental forces against them.[18] These sons are likely parallels to the “celestial gods” who dwelled in Airyana Vaego, as well as the other gods and demigods that the ancient texts say lived in this primordial paradise. From the clues above, we can paint the following picture regarding the end of the Golden Age. Human beings lived harmoniously with divine beings in the Arctic paradise until the two entered sexual unions that produced powerful, semi-divine half-breeds. This action caused such a rupture in the cosmic balance of the universe that the Earth’s axis shifted, bringing on the Ice Age that turned the paradise into a cold wasteland.

Following the destruction of Airyana Vaego/Mount Meru/Eden/ Hyperborea, the semi-divine survivors were forced to migrate southwards. In their exodus they retained the memory of their Polar homeland, evinced by polar symbols such as the swastika (a bent cross revolving about a fixed point) and the axial World Tree, which traditionally links Midgard (Earth) with the realms above. Some settled in areas of North America and Northern Europe, but the majority regrouped in an Atlantic location to reconstitute their civilization.

If we are to make any conjectures about the race of our Hyperboreans, we must look to those people who carried with them the memory of the primordial home. By Hyperboreans, I mean the Arctic race of “men” who lived among the gods. Discerning the features of the latter is impossible, as they are not bound by the limitations of material existence; they could have been anthropomorphic, ethereal, or capable of alternating between the two. Our only clue is that they were “Golden,” which may be an allusion to vibrant blondness.[19]

In all of the civilizations discussed above, as well as in others, our concern would be with the upper castes, namely the priests and the military aristocracy, who preserved the memories of Hyperborea. Among the Aryan peoples of Europe, this task is simpler due to the abundance of physical evidence available, namely statues, frescoes, engravings, and physical remains. The ancestors of classical Greece and Rome, Germania, and Celtia, who brought with them the worship of Zeus, Saturn, Tuisto, and Dana, were evidently of a tall, robust, fair-haired, and fair-skinned Nordic stock. The fourth century A.D. physician, Adamantios, gives us a picture of the early Hellenes, claiming that “Wherever the Hellenic and Ionic race has been kept pure, we see proper tall men of fairly broad and straight build, neatly made, of fairly light skin and blond; the flesh is rather firm, the limbs straight, the extremities well made.”[20]

As we push further east, the evidence becomes less plentiful but nonetheless revealing. The Brahmins who carried to India the oldest extant accounts of the Golden Age in Mount Meru were of that same Nordic race. If one juxtaposes a modern Brahmin or Kshatriya with a member of the lower castes, it often appears that the former has something quite different “in his woodpile.” He would tend to be taller and fairer in complexion and occasionally possess blue or green eyes and, more rarely still, fair hair. Lower caste individuals generally tend to be shorter and darker, and although many have fine Caucasoid features, others display an Australoid phenotype. Kaiyata, writing in the second century B.C., affirms that White Brahmins once “flourished in a previous cycle of existence” but that their “descendants are rarely met with even now.”[21] The sixth century B.C. Kshatriya noble, Siddhartha Gautama (Buddha), is described in the Pali Canon as having abhi nila netto, or “very blue eyes,” a typical Nordic trait.

In the Far East, we have a non-Aryan milieu entirely. However, there is ample genetic evidence that tall, fair Whites roamed both Western[22] and Eastern[23] China long before the present-day Mongoloids. Taken with the racial description of the Buddha, we have enough to surmise a heavy influence upon China’s culture by Nordics or a stalwart white race akin to them. Since Buddhism influenced the development of Japanese religious culture, the same rule applies to Japan.

The list can go on, but we have already given sufficient proof that the bearers of the oldest and clearest recollections of Hyperborea were tall, fair, blue-eyed, and red or blonde-haired whites. It would thus be fair to conclude that the Hyperboreans, from whom they claim descent, were likely of a proto-Nordic race.

 

The Atlantean Silver Age

Hesiod’s poem continues with a discussion of a second age, “which the Celestials call the Silver years.”[24] In this period, man became subject to sickness and mortality. He no longer lived according to the absolute principles provided by his divine tutors during the Golden Age, and paid the gods themselves “no honors.”[25]

It is with the dawning of this era that the Arctic inhabitants, now a race mixed with divine and human elements, traveled as refugees from their destroyed Urheimat to a southern location somewhere in the Atlantic. There they founded the famed city of Atlantis in mimicry of their original homeland. After establishing themselves, they embarked on a colonizing campaign across the world, passing the “Pillars of Hercules” (the Straits of Gibraltar) and reaching deep into the Mediterranean Sea. There they established their hegemony, holding “sway . . . over the country within the Pillars as far as Egypt and Tyrrhenia.”[26] It is reasonable to assume that they also sent voyagers to the Americas, as Atlantis would have lain between them and Europe.

As this new civilization was built before recorded history, it is difficult to ascertain its precise chronology. Plato asserts that Atlantis crumbled 9000 years before his own time, while Guénon, relying once again on Vedic mathematics, says this occurred several thousand years earlier. This would, therefore, place its origins even further back. Regardless, our concern is the racial state of those dwelling within Atlantis.

The Boreal race inhabiting the Arctic was probably quite Nordic in appearance. When they mixed with the gods, however, they spawned “men of monstrous size” according to Hesiod, paralleling the Nephilim of the book of Genesis. Given that modern Nordics are some of the tallest humans, and that they themselves are merely degenerated descendants of something greater, the mythological testimony seems plausible. Thus, the Atlanteans sired from the union of gods and men were likely much taller than today’s tallest people and probably more muscular; they would have been frightfully imposing giants. Further credence is given to this idea by the fact that in Numbers, the Hebrews refer to the Anakim as “Nephilim” due to their immense stature, which made the Hebrews feel like “grasshoppers.”

These giants were not the norm, however. Plato speaks of them becoming “diluted too often and too much with the mortal admixture,” suggesting that unmixed Boreal humans also lived within Atlantean borders. This was also the cause of Atlantis’s inevitable downfall, much like that of Hyperborea. After several generations of unchecked miscegenation with their human subjects, the Atlantean giants forfeited their angelic constitution and “grew visibly debased, for they were losing the fairest of their precious gifts.”[27] When this happened, the cosmic balance was once again disrupted. Evidence from the myths, sometimes suggestive and other times affirmative, leads us to believe that a massive earthquake occurred, causing Atlantis, the seat of the Silver Age, to sink beneath the Atlantic. The Mesopotamian story of the deluge that submerged the first cult-centers, linked to the Biblical flood that Noah overcame, is an example.[28]

With the Atlantean admixture with humans came a race almost entirely sapped of divinity. They were the direct ancestors of modern Northern Europeans (proto-Nordics), retaining the fair complexion and keen intellect but losing their titanic build and strength. Forced to flee their sinking kingdom, these people migrated in an East-West trajectory, bringing significant numbers into the Americas and Europe.

There is some physical and genetic evidence to substantiate this claim.

Firstly, there is the link between the 18,000 year old Solutrean weapon culture of France and the 13,500 year old American weapon culture of Clovis, New Mexico. Archaeologists Bruce Bradley and Dennis Stanford concluded in 2004 that there was a striking similarity between the manufacturing methods of each culture, particularly because they both used a very difficult and rare technique called overshot flaking.[29] They also noted that a weapon culture discovered in Virginia, dating to 16,000 years ago, appeared to be a “technological midpoint between the French Solutrean style and the Clovis points.”[30]

Our second piece of evidence is genetic. Scientists have found that among the genes of Native American populations, the mitochondrial DNA (mtDNA) of haplogroups A through D, which are common in Asia, predominates. However, it has been found that a significant number of Native Americans in the Eastern United States possess mtDNA from haplogroup X, which is only also found in Western European populations and in some parts of Mongolia. One might argue that the presence of this mtDNA in Mongolia debunks the argument that Whites settled North America first, but this simply is not so when combined with all the other evidence provided here. Significantly, the mtDNA of pre-Columbian Native American skeletons has been studied, revealing that X was present in that race’s genes before the conquistadores arrived.[31]

Thirdly, we have the controversial Kennewick Man corpse. This 9300 year old skeleton, unearthed in Washington State in 1996, was discovered by anthropologist James Chatters to be of Caucasoid origin. In a clay reconstruction the face even ended up resembling that of British actor, Patrick Stewart.[32]

These bits of evidence indicate that a race of people predating the Mongoloid Native Americans split up and branched out into Europe and America from the Atlantic. They carried with them the same genes and tool-making methods, which they adapted to the available resources. An alternative possibility would be that this Upper Paleolithic race migrated first into Europe, with a group then splitting off and migrating eastward to America.

The Children from the Earth

As our Hyperborean ancestors ventured across the globe, first to the Atlantic and then in an East-West trajectory, they encountered preexisting societies in the lands they traversed. As the Golden and Silver Ages took place tens of thousands of years ago, these indigenous peoples were likely from the countless breeds of hominids, including Neanderthalensis and Soloensis. Whatever stock of proto-human they were, our ancestors characterized them as either chthonic, Earth-spawned beings or creatures originating from the chaotic waters. In most cases, their interaction resulted in conflict, but in others the two coexisted and even intermixed. These events have been vividly preserved in the various myths of Hyperborean origin: the epic struggle between the Tuatha da Danaan and the Fomors (people “from the water”); the battles between the Olympians and the various monsters spawned by Gaia (Earth); the vitriolic relationship between the Aesir (the Nordic sky gods) and the Vanir (trolls, giants, and other monsters); even the Anglo-Saxon epic Beowulf recaptures this theme in the fight between the hero and Grendel, a humanoid demon that lives beneath a lake.

Wherever the newcomers settled down and mixed with the natives, new races were spawned representing further bastardizations of the semi-divine Arctic prototype. Thus our giant, proto-Nordic race ramified into various hybrid breeds, each differing in appearance and attributes depending upon the areas they settled in, the stocks with which they mixed, and just how far they allowed this miscegenation to continue. From these mixed unions sprung the various Mongoloid, Semitic, Australoid, and Negroid races, with the latter two probably representing the farthest debasement from the original Hyperborean phenotype. In instances where mixing was less pronounced, or where adaptation to the environment and other factors had their effect, the various white races were generated (i.e. Nordics, Mediterraneans, Alpines, etc.).

Conclusions

In summary, anthropogenesis was a process of devolution, not evolution. Sixty-five thousand years ago, a race of gods described as “Golden” lived harmoniously with a race of advanced early humans, characterized by fair skin, fair hair, and light eyes, in a joyous, orderly Golden Age somewhere in the Arctic. At some point, the two races intermixed and bred giant demigods. As the Arctic seat froze over in one of the Ice Ages, these demigods led the remaining human survivors south into the Atlantic, with some remaining in different lands along the way. Those who did so, encountered autochthonous races with whom they ultimately mixed, debasing their divine nature and giving rise to a new, Silver Age that corresponded to the Atlantean civilization vividly described by Plato and remembered by many traditions as a “Western” land. It sent explorers out across the world from the Americas to the Far East. Thousands of years later this second super-civilization floundered due to continued mixing between the demigods and their human companions, generating the Upper Paleolithic proto-Nordic race.

With the sinking of Atlantis, these beings, now human in nature but still retaining a divine spark, migrated in an East-West trajectory. On this second great exodus, corresponding to a Bronze Age, some intermarried with indigenous peoples and further debased their line while others maintained their purity. The latter would later erect the most revered civilizations and empires of recorded history, such as Sumeria, Vedic India, Egypt, Hellas, Rome, China, and much later, the feudal regimes of Western Europe. The mixed peoples would be remembered as the Pelasgians, Minoans, Etruscans, Hebrews, Arameans, Iberians, and all other chthonic ethnicities that were subdued and restricted to a plebeian caste. Unfortunately, the vast empires noted above served as little more than dim reflections of the original Hyperborean civilization, precluded from fulfilling their true potential by the prevailing metaphysical conditions of the age in which they flourished.

We have now entered into the terminal phase of the Dark Age, and the type of humanity that is to inherit the succeeding Mahayuga remains to be seen; however, if the races of the world continue down the path of profligate inter-mixing, that divine spark, which drove the white peoples of the world to erect history’s grandest civilizations, and is now harbored by so few, will be completely extinguished. Humanity will then be forced to pass the torch of greatness to a succeeding species.

Notes

1. Dan. 2:35.

2. Hesiod, Works and Days, 1.154–63.

3. Mahabharata, 6.1.6.

4. Lieh-Tzu, The Book of Lieh-Tzu, trans. Lionel Giles (1912), 36.

5. Gen. 5:5.

6. Pindar, Pythian Odes, 10.29, 10.41.

7. Lokamanya Bal Gangadhar Tilak, Arctic Home in the Vedas (Poona City, India: 1903), 43.

8. Mahabharata, 3.7.163. Quoted in Tilak, 64.

9. The Laws of Manu, 1.67. Quoted in Tilak, 63.

10. Vendidad, 2.40. Quoted in Tilak, 350.

11. James Geikie, Fragments of Earth Lore: Sketches and Addresses, Geological and Geographical (1893), 266. Quoted in Tilak, 22–23.

12. Joscelyn Godwin, Arktos: The Polar Myth in Science, Symbolism, and Nazi Survival (Kempton: Adventures Unlimited Press, 1996), 13.

13. René Guénon, Traditional Forms and Cosmic Cycles (Paris: Gallimard, 1970), 24.

14. René Guénon, The Crisis of the Modern World, trans. Marco Pallis (Hillsdale: Sophia Perennis, 2001), 7.

15. Julius Evola, Revolt Against the Modern World (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1995), 189.

16. Lieh-Tzu, 79.

17. Vendidad, 2.22.

18. Gen. 6: 2–7.

19. Julius Evola, Revolt Against the Modern World, 185. In his chapter “The Golden Age,” Evola contends that gold symbolizes the gods’ divine nature, which is “incorruptible, solar, luminous, and bright.” I see no reason, however, to reject the possibility that it could be a reference to something phenotypical.

20. Hans F. K. Gunther, The Racial Elements of European History, trans. G. C. Wheeler (London: Methuen, 1927), 157.

21. R. P. Chanda, The Indo-Aryan Races: A Study of the Origin of Indo-Aryan People and Institutions, Part I (Rajshahi: Varendra Research Society, 1916), 24.

22. “Genetic Testing Reveals Awkward Truth About Xinjians’s Famous Mummies,” Khaleej Times Online, April 19, 2005.

23. Li Wang et al, “Genetic Structure of a 2500-Year-Old Human Population in China and Its Spatiotemporal Changes,” Molecular Biology and Evolution, 17 (2000): 1396–1400.

24. Hesiod, Works and Days, 1.175.

25. Hesiod, Works and Days, 1.189.

26. Plato, Timaeus, 25.

27. Plato, Critias, 120.

28. “A Sumerian Myth: The Deluge,” trans. S. N. Kramer, The Ancient Near East, ed. James Pritchard, vol. 1 (Princeton: Princeton University Press, 1953), 29.

29. Bruce Bradley and Dennis Stanford, “The North Atlantic ice-edge corridor: a possible Paleolithic route to the New World,” World Archaeology 36 (2004): 465.

30. “Stone Age Columbus-programme summary,” BBC, 21 Nov. 2002. <http://www.bbc.co.uk/science/horizon/2002/columbus.shtml>. 1 Sept. 2008.

31. Maggie Villiger, “Tracing the Genes,” PBS, July 20, 2004, http://www.pbs.org/saf/1406/features/dna.htm.

32. Timothy Egan, “Old Skull Gets White Looks, Stirring Dispute,” The New York Times, April 2, 1998.

TOQ, vol. 10, no. 1 (Spring 2010)

 

lundi, 07 février 2011

Irenäus Eibl-Eibesfeldt: Ist der abendländische Mensch vom Aussterben bedroht?

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Schon vor 15 Jahren wurde von Eibl-Eibesfeldt eigentlich bereits alles gesagt zur gegenwärtigen Misere. (Ich stimme ihm dabei zu 100 Prozent zu) Aber es hat nichts verändert. Das zeigt doch wohl, daß die bestehende gesellschaftliche Struktur wahrscheinlich nicht mehr aus sich heraus reformfähig ist....

Lesenswertes Interview mit Irenaeus Eibl-Eibesfeldt aus dem Jahr 1996

Sagen Sie mal, Irenäus Eibl-Eibesfeldt ...
IST DER ABENDLÄNDISCHE MENSCH VOM AUSSTERBEN BEDROHT?
Von Michael Klonovsky
http://www.focus.de/politik/deutschland/deutschland-sagen...
IST DER ABENDLÄNDISCHE MENSCH VOM AUSSTERBEN BEDROHT?
Eibl-Eibesfeldt: So gefährlich ist die Situation nicht. Der abendländische Mensch ist sehr dynamisch, findig, einfallsreich und neugierig, und er wird seine Probleme sicher meistern.

FOCUS: Sie warnen seit Jahren vor den Folgen der Immigration; zugleich schauen Sie so gelassen auf die Zukunft des Abendländers?

Eibl-Eibesfeldt: Es geht mir zunächst einmal um die Erhaltung des inneren Friedens. Entscheidend ist deshalb auch, wer einwandert. Die europäische Binnenwanderung hat es immer gegeben, mitunter auch massive Immigrationswellen und kriegerische Überschichtungen. Aber die Bevölkerung im breiten Gürtel von Paris bis Moskau hat etwa die gleiche Mischung, sie ist anthropologisch nah verwandt. Die europäischen Nationalstaaten haben das Glück, relativ homogen zu sein.

FOCUS: Der Begriff des Ausländers müßte also durch den des Kulturfremden ersetzt werden?

Eibl-Eibesfeldt: Ich würde sagen: Kultur-fernen. Die integrieren und identifizieren sich nicht so leicht. Bei den innereuropäischen Wanderungen wurden die Leute integriert.

FOCUS: Und das ist Bedingung?

Eibl-Eibesfeldt: Es gibt diese schöne Idee, daß Immigranten ihre Kultur behalten und sich als deutsche Türken oder deutsche Nigerianer fühlen sollen, weil das unsere Kultur bereichert. Das ist sehr naiv. In Krisenzeiten hat man dann Solidargemeinschaften, die ihre Eigeninteressen vertreten und um begrenzte Ressourcen wie Sozialleistungen, Wohnungen oder Arbeitsplätze konkurrieren. Das stört natürlich den inneren Frieden. Die Algerier in Frankreich etwa bekennen sich nicht, Franzosen zu sein, die sagen: Wir sind Moslems. Vielfalt kann in einem Staate nebeneinander existieren, wenn die Kulturen verwandt sind, jede ihr eigenes Territorium besitzt und keine die Dominanz der anderen zu fürchten braucht – wie etwa in der Schweiz.

FOCUS: Also müssen die Türken in Deutschland die Deutschen fürchten?

Eibl-Eibesfeldt: Gegenseitig. Wenn man über Immigration Minoritäten aufbaut, die sich abgrenzen und ein anderes Fortpflanzungsverhalten zeigen, wird das Gleichgewicht gestört. Immigrationsbefürworter sagen: Die werden sich angleichen. Nur: Warum sollten sie eigentlich? Deren Interesse kann doch nur sein, so stark zu werden, daß sie bei Wahlen eine Pressure-Gruppe darstellen, die ihre Eigen-interessen durchsetzen kann.

FOCUS: In Amerika werden die Weißen in hundert Jahren vermutlich Minderheit sein . . .

Eibl-Eibesfeldt: Das hat in erstaunlicher Offenheit das „Time-Magazine“ ausgesprochen. Die Amerikaner haben gerade kulturferne Immigranten gefördert in dem Glauben, man dürfe nicht diskriminieren. Aber Diskriminierung – auf freundliche Weise – betreibt ja jeder! Die eigenen Kinder stehen uns näher als die der anderen, die Erbgesetze nehmen darauf Rücksicht, und es ist ja auch schon diskriminierend, daß kein Fremder in meinen Garten darf. Auch ein Land darf seine Grenzen verteidigen. Wenn jemand den Grenzpfahl in Europa nur um zehn Meter verschieben würde, gäbe es furchtbaren Krach, aber die stille Landnahme über Immigration soll man dulden?

FOCUS: Das gebietet der Philanthropismus, sofern der nicht ein evolutionärer Irrläufer ist.

Eibl-Eibesfeldt: Es wird nicht in Rechnung gestellt, daß wir, wie alle Organismen, in einer langen Stammesgeschichte daraufhin selektiert wurden, in eigenen Nachkommen zu überleben. Europäer überleben nun mal nicht in einem Bantu, was gar keine Bewertung ist, denn für den Biologen gibt es zunächst einmal kein höheres Interesse, das sich im Deutschen oder im Europäer verwirklicht – nicht mal in der Menschheit.

FOCUS: Solche Ansichten haben ihnen den Vorwurf des Biologismus eingetragen, wobei Sie sich im Lasterkatalog der Wohlmeinenden noch zum Rassisten oder Faschisten hocharbeiten können.

Eibl-Eibesfeldt: Die Leute, die so de-monstrativ ihren Heiligenschein polieren, tun das ja nicht aus Nächstenliebe, sondern weil sie dadurch hohes Ansehen, hohe Rangpositionen, also auch Macht, gewinnen können – früher als Held, heute als Tugendheld. Der Mensch kann alles pervertieren, auch Freundlichkeit oder Gastlichkeit, und wenn die Folgen sich als katastrophal erweisen, schleichen sich die Wohlmeinenden meist davon und sagen: Das haben wir nicht gewollt.

FOCUS: Aber dieses Verhalten ist doch evolutionär schwachsinnig.

Eibl-Eibesfeldt: Sicher. Es sterben ja immer wieder Arten aus. Fehlverhalten im Politischen kann eine Gruppe immer wieder gefährden, wie man zuletzt am Marxismus gesehen hat.

FOCUS: Was sollten wir also tun?

Eibl-Eibesfeldt: Wir müssen von dem fatalen Kurzzeitdenken wegkommen. Wie alle Organismen sind wir auf den Wettlauf im Jetzt programmiert. Wir sind aber zugleich das erste Geschöpf, das sich Ziele setzen kann, das seinen Verstand und seine Fähigkeit, sozial zu empfinden, fürsorglich zu sein, auch mit einbringen kann.

FOCUS: Was bedeutet das praktisch?

Eibl-Eibesfeldt: Ein generationsübergreifendes Überlebensethos. Ich würde vorschlagen, daß sich Europa unter Einbeziehung Osteuropas großräumig abschottet und die Armutsländer der Dritten Welt durch Hilfen allmählich im Niveau hebt. Wenn wir im Jahr 1,5 Millionen Menschen aus der Dritten Welt aufnähmen, würde das dort überhaupt nichts ändern – das gleicht der Bevölkerungsüberschuß, wie Hubert Markl unlängst betonte, in einer Woche wieder aus, solange es keine Geburtenkontrolle gibt. Man kann gegen eine Bevölkerungsexplosion in diesem Ausmaß sonst nichts tun, bestenfalls das Problem importieren, wenn man dumm ist.

FOCUS: Das ist dann, wie Sie schreiben, „Überredung zum Ethnosuizid“?

Eibl-Eibesfeldt: Die heute für die Multikultur eintreten, sind eben Kurzzeitdenker. Sie sind sich gar nicht bewußt, was sie ihren eigenen Enkeln antun und welche möglichen Folgen ihr leichtfertiges Handeln haben kann.

FOCUS: Ist der moderne Westeuropäer überhaupt noch vitalistisch erklärbar? Leistet er sich aus evolutionärer Warte nicht zuviel Luxus wie Immigration, Feminismus, Randgruppendiskurse, den Wohlfahrtsstaat?

Eibl-Eibesfeldt: Das wird sich wieder moderieren, wie man in Wien sagt . . .

FOCUS: Über Katastrophen?

Eibl-Eibesfeldt: Nicht nur. Ich glaube, daß die Leute Vernunftgründen doch zugänglich sind. Konrad Lorenz hat gesagt, es sei doch sehr unwahrscheinlich, daß von einer Generation auf die andere alles kulturelle Wissen auf einmal hinfällig und überholt ist. Die Tradition mitsamt der Offenheit für Experimente in gewissen Bereichen und die Bereitschaft zur Fehlerkorrektur, das zusammen eröffnet uns große Chancen. Aber alles umzubrechen und Großversuche wie das Migrationsexperiment anzustellen, das ja nicht mehr rückgängig zu machen ist, halte ich für gewissenlos. Man experimentiert nicht auf diese Weise mit Menschen.

FOCUS: Sie sagen, daß Xenophobie – Fremdenscheu, nicht Fremdenhaß – stammes-geschichtlich veranlagt ist.

Eibl-Eibesfeldt: Das ist in der Evolution selektiert worden, um die Vermischung zu verhindern. Die Fremdenscheu des Kleinkindes sichert die Bindung an die Mutter. Später hat der Mensch das familiale Ethos zum Kleingruppenethos gemacht. Mit der Entwicklung von Großgruppen erfolgte eine weitere Abgrenzung. Die ist unter anderem an Symbole gebunden, die Gemeinsamkeit ausdrücken sollen. Beim Absingen von Hymnen überläuft viele ein Schauer der Ergriffenheit, was auf die Kontraktion der Haaraufrichter zurückzuführen ist. Es sprechen da kollektive Verteidigungsreaktionen an; wir sträuben einen Pelz, den wir nicht mehr haben.

FOCUS: Das ist alles etwas Gewordenes. Kann sich nicht eines Tages den türkischen Deutschen und den deutschen Deutschen beim Abspielen der gemeinsamen Nationalhymne gemeinsam der Pelz sträuben?

Eibl-Eibesfeldt: Wenn das über Integration erfolgte, ja. Eine langsame Durchmischung kann durchaus friedlich verlaufen, und es kann etwas Interessantes herauskommen. Wir sprechen aber davon, ob in einem dichtbevölkerten Land über Immigration das Gesundschrumpfen der Bevölkerungszahl aufgehalten werden soll. Das fördert sicherlich nicht den inneren Frieden, sondern könnte selbst zu Bürgerkriegen führen – wir haben ja bereits das Kurdenproblem. Das ist nicht böse gemeint, es zeigt eben, daß diese Gruppen ihre Eigeninteressen ohne Rücksicht vertreten. Ich verstehe da übrigens auch die Grünen nicht, die sich gegen jede Autobahn sträuben und klagen, daß das Land zersiedelt wird. Dann kann man nicht zugleich alle reinlassen wollen.

FOCUS: Würden Sie bitte zu den folgenden Personen einen Satz sagen: Edmund Stoiber.

Eibl-Eibesfeldt: Ein sehr klarer, engagierter Geist; ein Lokalpatriot, der aber auch gut nach Bonn passen würde.

FOCUS: Alice Schwarzer.

Eibl-Eibesfeldt: Das Anliegen der Gleichberechtigung ist berechtigt, man sollte aber nicht die Rolle der Frau als Mutter abwerten.

FOCUS: Jörg Haider.

Eibl-Eibesfeldt: Ein stürmischer, sicherlich national betonter Mann, ein Hitzkopf, aber natürlich kein Rechtsradikaler – es wählen nicht 23 Prozent der Österreicher rechtsradikal.

FOCUS: Madonna.

Eibl-Eibesfeldt: Was soll man dazu sagen? Lustig, daß es so etwas gibt.

FOCUS: Nietzsches „Zarathustra“ hat die Ära des „verächtlichsten Menschen“ beschworen, des „letzten Menschen“, der alles klein macht und meint, er habe das Glück erfunden . . .

Eibl-Eibesfeldt: Das ist sicherlich kein wünschenswerter Typus, denn der will ein passives Wohlleben ohne Dynamik.

FOCUS: Interessanterweise hat dieser letzte Mensch, wenn auch mit russischer Hilfe, den Zweiten Weltkrieg gegen die blonde Bestie gewonnen.

Eibl-Eibesfeldt: War das der letzte Mensch? Das waren doch ganz tüchtige, mutige Leute. Ich würde sagen, wir haben den Krieg verloren, weil wir den Satz Immanuel Kants vergessen haben, man müsse sich auch im Krieg so verhalten, daß ein späterer Friede möglich ist. Man kann daraus übrigens lernen, daß Inhumanität kein positiver Selektionsfaktor ist.

FOCUS: Wie auch immer, der letzte Mensch steuert scheinbar unaufhaltsam der Weltzivilisation entgegen. Halten Sie einen globalen Einheitsmenschen für vorstellbar?

Eibl-Eibesfeldt: Ich kann mir vorstellen, daß es große Blöcke geben wird, in denen der Bevölkerungsaustausch eine ziemlich einheit-liche Population hervorbringt. Aber der Verlust an Differenzierung wäre schade. Das würde eine Weltsprache bedeuten oder eine Sprache des eurasischen Blockes. Niemand würde mehr spanische oder italienische Autoren lesen . . .

FOCUS: Aber Sie als Ethologe müßten solche Verluste doch in den Skat drücken können. Die verschiedenen Sprachen sind doch bloß Neandertaler.

Eibl-Eibesfeldt: Dann bin ich eben ein Neandertaler. Ich liebe die kulturelle Buntheit. Die Neigung, sich abzugrenzen und eigene Wege zu gehen, ist schon im Tier- und Pflanzenreich ausgeprägt. Artenfülle ist die Speerspitze der Evolution, da wird dauernd Neues probiert. Der Mensch macht das kulturell, und wenn er seine kulturelle Differenzierung verliert, verliert er sehr viel von dem, was ihn zum heutigen Menschen gemacht hat. Wir wissen, daß es andere Möglichkeiten gibt; der Ameisenstaat ist perfekt. Die Frage ist nur, ob wir uns das als Individuen wünschen können.

FOCUS: Jetzt sind Sie so anthropozentrisch.

Eibl-Eibesfeldt: Ich gehöre der Gattung Homo sapiens an. Ob sich die Humanität bewährt, für die ich ja plädiere, wissen wir nicht, aber ich sehe durch die ganze Geschichte, daß sie sich bewähren könnte.

FOCUS: Das Glück des letzten Menschen scheint unverträglich mit der Idee zu sein, als Glied einer Generationenkette zu existieren.

Eibl-Eibesfeldt: Das ist ein schrecklicher Irrglaube. Wer keine Kinder in die Welt setzt, steigt aus dem Abenteuer der weiteren Entwicklung aus.

FOCUS: Das ist denen ja egal.

Eibl-Eibesfeldt: Ja, aber die Natur sorgt schon dafür, daß dann deren Gene nicht weiterleben. Ich glaube, daß diese Leute um einen Teil ihres Lebensglücks betrogen wurden. Zum Individuum gehört das Bewußtsein, daß man eben nicht nur Individuum ist, sondern eingebettet in eine größere Gemeinschaft und in einen Ablauf von Generationen und daß wir den Generationen vor uns unendlich viel verdanken.

FOCUS: Es handelt sich also um das freiwilliges Ansteuern einer evolutionären Sackgasse?

Eibl-Eibesfeldt: Ich kann im Hirn des Menschen über Indoktrination und dauernde Belehrung Strukturen aufbauen, die diese Menschen gegen ihre Eigeninteressen und gegen die Interessen ihrer Gemeinschaft handeln lassen. Ein Kollektiv kann ja von religiösem Wahn befallen werden und sich umbringen.

FOCUS: Da haben wir den Bogen zurück zur Eingangsfrage: Schafft sich der westliche hedonistische Individualmensch kraft nach-lassender Vitalität allmählich selbst ab?

Eibl-Eibesfeldt: Zu allen Zeiten haben Gruppen andere verdrängt, und es gibt sicherlich kein Interesse der Natur an uns. Aber es gibt ein Eigeninteresse. Man muß nicht notwendigerweise seine eigene Verdrängung begrüßen.

„Wenn man über Immigration Minoritäten aufbaut, die sich abgrenzen, wird das Gleichgewicht gestört“

„Das Kurdenproblem zeigt, daß fremde Gruppen ihre Eigeninteressen ohne Rücksicht vertreten“

„Inhumanität ist kein positiver Selektionsfaktor“

„Wer keine Kinder in die Welt setzt, steigt aus dem Abenteuer der weiteren Evolution aus“

SKEPTISCH-HUMANISTISCHER VERHALTENSFORSCHER

HERKUNFT: 1928 in Wien geboren

BILDUNGSWEG: Studium Naturgeschichte und Physik, 1949 Promotion (Zoologie) in Wien

KARRIERE: 1949-69 Schüler und Mitarbeiter von Konrad Lorenz. 1963 Habilitation (Uni München). Seit 1975 Leiter der Forschungsstelle f. Humanethologie der Max-Planck-Gesellschaft (in Andechs). Seit 1992 Direktor des Instituts f. Stadtethologie Wien

jeudi, 27 janvier 2011

George Montandon et Louis-Ferdinand Céline

George Montandon et Louis-Ferdinand Céline

par Alain CAMPIOTTI

Ex.: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

De l’admiration de la révolution bolchevique à l’adhésion totale à l’antisémitisme nazi: la dérive mortelle du Dr Montandon, Neuchâtelois, médecin à Renens, ami de Céline et ennemi juré de la «Gazette de Lausanne».

Vatslav Vorovsky est un bolchevique vétéran, vieil ami de Lénine. Il était souvent à Genève avec lui au début du XXe siècle pour fabriquer les journaux du parti. Quand il revient en Suisse, en 1923, c’est en tant que diplomate soviétique, pour participer à la conférence de Lausanne sur la question turque. Il est descendu avec sa délégation à l’Hôtel Cecil. Le soir du 9 mai, un homme s’avance vers sa table, au restaurant, sort un pistolet et l’abat. L’assassin, Maurice Conradi, dont la famille avait été spoliée en Russie où elle s’était établie, revendique haut et fort son crime. En automne pourtant, il est acquitté, sous les applaudissements du public. Son procès, tenu sans rire au Casino, s’est transformé en réquisitoire contre l’URSS.

Les bolcheviques n’ont plus beaucoup d’amis au bord du Léman. Sauf le Dr George Montandon, de Renens. Cité par la partie civile, le médecin, qui durant deux ans a parcouru la Russie ravagée de Vladivostok aux pays baltes, est venu dire que la «terreur blanche» était bien pire que la «terreur rouge». Il est rentré de Moscou avec de la sympathie pour le nouveau régime. La police de sûreté vaudoise pense même qu’il est au parti. Il écrit dans Clarté, la revue philocommuniste de Romain Rolland. Mais en même temps, le Dr Montandon collabore de longue date à la Gazette de Lausanne, dont il est par ailleurs actionnaire. La Gazette n’aime guère les rouges. S’ensuivent des tensions qui deviennent, l’année suivante, explosives. Le docteur veut la tête de Charles Burnier, le directeur du journal, et il ne lésine pas sur les moyens, publiant des pamphlets de plus en plus violents et insultants. Le dernier est intitulé «Burnier fumier», avec une illustration d’une belle grossièreté. Le directeur dépose plainte, le Tribunal fédéral s’en mêle, et George Montandon écope de dix jours de prison. Mais il triomphe: entre-temps, Charles Burnier a été viré. «Ma condamnation est un honneur, écrit-il. Je paie mon attitude de sympathie à la Révolution russe.» Pour échapper à l’arrestation, le docteur prend le bateau vers Thonon, puis émigre avec sa famille à Paris.

A-t-il de l’humour, cet homme à tête de croque-mort? Il est né en 1879 à Cortaillod, fils d’un industriel riche et influent, député au Grand Conseil neuchâtelois. Après sa médecine faite à Genève, Lausanne et Zurich, il se prend de passion pour l’ethnologie, va l’étudier à Londres et à Hambourg. En 1910, il est en Abyssinie, soigne le vieux roi Ménélik II avec qui Arthur Rimbaud trafiquait ses armes, parcourt le pays en tous sens au point qu’une montagne prend son nom, Toulou Montandon. La Gazette publie au retour les longs reportages du docteur aventurier.

Quand éclate la Grande Guerre, Montandon ferme son cabinet de Renens et s’engage pour deux ans dans un hôpital militaire français. Après la révolution d’Octobre, il récidive et convainc le CICR de lui confier une mission compliquée: organiser en pleine guerre civile, par Vladivostok, le rapatriement des prisonniers austro-hongrois dispersés en Sibérie centrale. De toute évidence, l’expédition lui plaît. Il a son train, qui va et vient dans la plaine infinie. A ses moments perdus, il fait un peu de recherche ethnographique, ramasse des arcs et des lances, mesure des crânes. Il côtoie les soudards blancs qui dans la neige se réchauffent à la vodka. Il s’arrête à Omsk chez un fromager suisse émigré qui voudrait «sortir de cette maison de fous». Il connaît des chefs bolcheviques, en particulier Boris Choumiatski, qui tente de contrôler pour Moscou les immensités sibériennes et dont Staline fera son tsar du cinéma, persécutant Eisenstein, avant de l’envoyer recevoir sa balle dans une cave. Il fréquente les hordes du baron Roman von Ungern-Sternberg, ce général balte qui tente de se tailler un empire militaro-mystique au cœur des ténèbres mongoles. Il est arrêté trois fois par la Tcheka, la dernière fois à Moscou, accusé d’espionnage et enfermé à la Loubianka où il entend les pires rumeurs, et les hurlements d’une femme.

Sorti de cette aventure, George Montandon en tire un livre, Deux ans chez Koltchak et chez les Bolcheviques. Drôle de bouquin, récit picaresque plein de détails ferroviaires et militaires, de rodomontades naïves dans une langue un peu surannée, mais dans lequel on découvre des fulgurances. Louis-Ferdinand Destouches, autre docteur, n’a encore rien écrit, mais on dirait parfois du Céline. Montandon parle de l’égalité obtenue «par libre consentement ou par contrainte» qu’il observe chez les Russes, et il s’exclame: «Le costume bourgeois: néant! L’allure digne et repue du bourgeois: renéant! L’orgueil bourgeois, la morgue bourgeoise – voici, voici l’essentiel – l’orgueil bourgeois, la morgue bourgeoise: néant de néant! Les jeux sont faits, rien ne va plus! En comparaison de notre moisissure, la démocratie américaine nous avait déjà montré quelque chose de remarquable, mais voici qui est beaucoup plus fort. Ici, si l’un a plus que l’autre […] il semble en avoir honte comme d’un vice. […] Aujourd’hui, en Russie prise dans son ensemble, l’orgueil de classe est évanoui, le monocle est tombé.»

La Gazette de Lausanne n’accepte pas de parler de Deux ans chez Kol­tchak. Mais George Montandon n’est plus là, il s’est vengé à sa manière, et maintenant, à Paris, il met le même entêtement qu’en Afrique ou en URSS à conquérir, cette fois, les sommets universitaires qu’on vient de lui refuser à Neuchâtel. Il côtoie la crème de l’ethnologie française, Marcel Mauss, Paul Rivet, Lucien Lévy-Bruhl, s’en fait des amis, puis surtout des ennemis. Il obtient un poste, pas celui qu’il visait, en tire de la hargne. Il écrit, utilisant les observations accumulées dans ses voyages, alignant des types humains, les organisant en familles, les classant: «La race, les races». Il commence à parler un peu des juifs, qui sont avant tout «une raison sociale, et non une race uniforme». Dans le climat intellectuel de l’époque, ses écrits ne choquent pas. Il traite ensuite de «l’ethnie française», et ses écrits se durcissent. L’ancien admirateur de Lénine est désormais lu avec intérêt par les idéologues racistes allemands. Cette dérive intellectuelle l’amène finalement à rencontrer celui qui l’attendait, l’autre docteur: Céline. C’est en 1938. L’auteur du Voyage au bout de la nuit est tout occupé par ses pamphlets antisémites. Il s’inspire de Montandon dans Bagatelle pour un massacre, le cite dans L’Ecole des cadavres. Ils sont amis, jusqu’à la fin.

Quand l’armée allemande occupe la France, la haine antisémite du Neuchâtelois n’a plus de frein. Dans La France au travail, le nouveau nom donné à L’Humanité confisquée aux communistes, dont le rédacteur en chef est, sous le pseudonyme de Charles Dieudonné, le fasciste genevois Géo Oltramare, Montandon traite les juifs d’«ethnie putain» qui, «s’imposant aux Français: a) faisait bêler la paix, b) sabotait l’armement, c) et surtout dégoûtait la femme de la maternité grâce à sa presse avec ses rubriques quasi pornographiques, dirigées par des putains juives». Ailleurs, il promet aux belles actrices juives de les défigurer en leur coupant le nez.

Céline reconnaît chez le Suisse sa propre haine. Il envoie un mot de recommandation pour que son ami trouve un emploi dans l’administration des «questions juives»: «Parfait honnête homme, un peu suisse (comme J.J.), docteur en médecine (et autrefois un peu communiste), et par-dessus tout un grand savant.» Montandon obtient son emploi. Désormais, c’est lui qui établira pour le Commissariat général les certificats de non-appartenance à la race juive, qui offrent une protection à ceux qui peuvent se les payer, car les factures du docteur sont salées. Ce commerce macabre finit par indisposer Céline lui-même.

Le 3 août 1944, une camionnette s’arrête devant la villa au numéro 22 de la rue Louis-Guespin, à Clamart. Deux ou trois hommes en descendent. Ils sont armés. Marie Montandon, qui ouvre la porte, est criblée de balles. Les assaillants montent à l’étage, trouvent le docteur dans son lit, malade, et ouvrent le feu. Puis ils prennent la fuite. George Montandon n’est que blessé. Il appelle une ambulance qui le conduit à l’Hôpital Lariboisière, géré par l’armée allemande. Quelques jours plus tard, le conseiller du Commissariat général aux questions juives est emmené en Allemagne. Il meurt le 30 août, à Fulda.

Céline, qui soignait George Montandon, n’avait pas vu son ami depuis trois mois. En 1952, dans Féerie pour une autre fois, il a parlé de lui une dernière fois: «Il savait pas rire Montandon, il était gris de figure, de col, d’imperméable, de chaussures, tout… mais quel bel esprit! tout gris certes! pas une parole plus haut que l’autre! mais quelles précisions admirables! […] Bébert qu’est pourtant le malgracieux! le griffeur, le bouffeur fait chat!… il comprenait le «charme Montandon»…»

Alain CAMPIOTTI
Le Temps, 6/1/2011

 

dimanche, 05 décembre 2010

Jean Haudry sur Radio Courtoisie

lesindo-europeens.jpg

Mercredi 15 décembre 2010 :

Jean Haudry sur Radio Courtoisie…

Le professeur Jean Haudry présentera son livre Les INDO-EUROPÉENS, le mercredi 15 décembre de 19 h 30 à 21 h 00, à Radio Courtoisie.

Il sera présent pour la signature de son livre à la Librairie Facta, le samedi 18 décembre de 15 à 18 h 00 (Librairie FACTA : 4 rue de Clichy, 75009 Paris. Tel : 01 48 74 59 14).

mardi, 26 octobre 2010

La psico-antropologia de L. F. Clauss

LA PSICO-ANTROPOLOGÍA DE L.F. CLAUSS:

UNA ALTERNATIVA FRUSTRADA
Sebastian J. Lorenz
 
Frente al concepto materialista de la antropología nórdica, que consideraba la raza como un conjunto de factores físicos y psíquicos, se fue haciendo paso una antropologíade tipo espiritual, que tendrá su máximo exponente en el fundador de la “psico-raciología” (Rassenseelenkunde) Ludwig Ferdinand Clauss. Frente a la preeminencia de los rasgos fisiológicos, a los que se ligaba unas características intelectuales, Clauss inaugurará la “ley del estilo” . Para él, la adscripción a una etnia es, fundamentalmente, un estilo que se manifiesta en una multiplicidad de caracteres, ya sean de tipo físico, psíquico o anímico que, conjuntamente, expresan un determinado estilo dinámico: «por el movimiento del cuerpo, su expresión, su respuesta a los estímulos exteriores de toda clase, el proceso anímico que ha conducido a este movimiento se convierte en una expresión del espacio, el cuerpo se convierte en campo de expresión del alma» (Rasse und Seele).
Robert Steuckers ha escrito que «la originalidad de su método de investigación raciológica consistió en la renuncia a los zoologismos de las teorías raciales convencionales, nacidas de la herencia del darwinismo, en las que al hombre se le considera un simple animal más evolucionado que el resto». Desde esta perspectiva, Clauss consideraba en un nivel superior las dimensiones psíquica y espiritual frente a las características somáticas o biológicas.
Así, la raciología natural y materialista se fijaba exclusivamente en los caracteres externos –forma del cráneo, pigmentación de la piel, color de ojos y cabello, etc-, sin reparar que lo que da forma a dichos rasgos es el estilo del individuo. «Una raza no es un montón de propiedades o rasgos, sino un estilo de vida que abarca la totalidad de una forma viviente», por lo que Clauss define la raza «como un conjunto de propiedades internas, estilo típico y genio, que configuran a cada individuo y que se manifiestan en cada uno y en todos los que forman la población étnica». Para él, la forma del cuerpo y los rasgos físicos no son sino la expresión material de una realidad interna: tanto el espíritu (Geist) como el sentido psíquico (Seele) son los factores esenciales que modelan las formas corpóreas exteriores. Así, en lo relativo a la raza nórdica, no es que al tipo alto, fuerte, dolicocéfalo, rubio y de ojos azules, le correspondan una serie de caracteres morales e intelectuales, sino que es a un determinado estilo, el del “hombre de acción”, el hombre creativo (Leistungsmensch), al que se deben aquellos rasgos físicos, conjunto que parece predestinar a un grupo determinado de hombres. La etnia aparece concebida, de esta forma, como una unidad físico-anímica hereditaria, en la que el cuerpo es la “expresión del alma”. Klages dirá que «el alma es el sentido del cuerpo y el cuerpo es la manifestación del alma».
La escuela “espiritualista” fundada por Clauss tuvo, ciertamente, una buena acogida por parte de sus lectores, que se vieron liberados de las descripciones antropológicas del tipo ideal de hombre nórdico, las cuales no concurrían en buena parte de la población alemana, reconduciendo, de esta forma, el estilo de la raza a criterios idealistas menos discriminatorios. Pero lo que, en el fondo, estaba proponiendo Clauss, no era una huida del racismo materialista sino, precisamente, un reforzamiento de éste a través de su paralelismo anímico, según la fórmula “a una raza noble, le corresponde un espíritu noble”. Distintos caminos para llegar al mismo sitio. Así, podrá decir que «las razas no se diferencian tanto por los rasgos o facultades que poseen, sino por el estilo con que éstas se presentan», esto es, que no se distinguen por sus cualidades, sino por el estilo innato a las mismas. Entonces, basta conceder un “estilo arquitectónico” a la mujer nórdica, a la que atribuye un orden metódico tanto corporal como espiritual, frente a la mujer africana que carece de los mismos, para llegar a las mismas conclusiones que los teóricos del racismo bio-antropológico.
Por todo ello, las ideas de Clauss no dejan de encuadrarse en el “nordicismo” más radical de la época. El hombre nórdico es un tipo cuya actuación siempre está dirigida por el esfuerzo y por el rendimiento, por el deseo y por la consecución de una obra. «En todas las manifestaciones de actividad del hombre nórdico hay un objetivo: está dirigido desde el interior hacia el exterior, escogiendo algún motivo y emprendiéndolo, porque es muy activo. La vida le ordena luchar en primera línea y a cualquier precio, aun el de perecer. Las manifestaciones de esta clase son, pues una forma de heroísmo, aunque distinto del “heroísmo bélico”». De ahí a afirmar que los pueblos de sangre nórdica se han distinguido siempre de los demás por su audacia, sus conquistas y descubrimientos, por una fuerza de empuje que les impide acomodarse, y que han marcado a toda la humanidad con el estilo de su raza, sólo había un paso que Clauss estaba dispuesto a dar.
El estilo de las otras razas, sin embargo, no sale tan bien parado. Del hombre fálico destaca su interioridad y la fidelidad por las raíces que definen al campesinado alemán (deutsche treue), puesto que la raza fálica se encuentra profundamente imbricada dentro de la nórdica. Respecto a la cultura y raza latina (Westisch) dirá que no es patrimonio exclusivo del hombre mediterráneo, sino producto de la combinación entre la viveza, la sensualidad gestual y la agilidad mental de éste con la creatividad del tipo nórdico, derivada de la productiva fertilización que los pueblos de origen indogermánico introdujeron en el sur de Europa (Rasse und Charakter).
De los tipos alpino (dunkel-ostisch) y báltico-oriental (hell-ostisch), braquimorfos y braquicéfalos, dirá que son el extremo opuesto del nórdico, tanto en sus formas corporales como en las espirituales, porque son capaces de soportar el sufrimiento y la muerte de forma indiferente, sin ningún tipo de heroísmo, pero su falta de imaginación los hace inútiles para las grandes ideas y pensamientos, en definitiva, el hombre evasivo y servicial. Curiosamente, el estudio que hace de la raza semítico-oriental –judía y árabe-, con las que se hallaba bastante involucrado personalmente, no resulta tan peyorativo, si bien coincidía con Hans F.K. Günther en que existe entre los hebreos un conflicto entre el espíritu y la carne que acaba con la victoria de esta última, con la “redención por la carne”, mientras que de los árabes destaca su fatalismo y la inspiración divina que les hace creer –como iluminados- que son los escogidos o los enviados de Dios.
Por lo demás, Clauss admitió que los diferentes estilos, al igual que sucede con los tipos étnicos, se entrecruzan y están presentes simultáneamente en cada individuo. Según Evola, «para él, dada la actual mezcla de tipos, también en materia de “razas del alma”, en lo relativo a un pueblo moderno, la raza es objeto menos de una constatación que de una “decisión”: hay que decidirse, en el sentido de seleccionar y elegir a aquel que, entre los diferentes influjos físico-espirituales presentes simultáneamente en uno mismo, a aquel que más se ha manifestado creativo en la tradición de aquel pueblo; y hacer en modo tal que, entonces una tal influencia o “raza del alma” tome la primacía sobre cualquier otra.»
No obstante lo anterior, el nordicismo ideal y espiritual de Clauss fracasó estrepitosamente porque nunca pudo superar la popularidad que tuvo el tipo ideal de hombre nórdico que Hans F.K. Günther proponía recuperar a través de los representantes más puros de la cepa germánica, si bien no como realidad, sino como una aspiración ideal, de tal forma que, finalmente, Clauss se vio apartado de todas las organizaciones del tejido nacionalsocialista a las que, desde un principio, había pertenecido.

vendredi, 15 octobre 2010

Noi, Celti e Longobardi

Michele Fabbri:

Noi, Celti e Longobardi

http://www.centrostudilaruna.it/

Nel 1997 Gualtiero Ciola pubblicava un’opera, poi ristampata, che costituiva un originale punto di riferimento per un’adeguata considerazione delle origini etniche dei popoli italiani. Nel suo corposo studio Noi, Celti e Longobardi, Ciola analizza le testimonianze archeologiche e linguistiche che hanno segnato il territorio della penisola italica, fornendo utili indicazioni per seguire nuovi percorsi di ricerca.

Il libro di Ciola è un’opera dal carattere decisamente militante che vuole mostrare le tracce lasciate, soprattutto nei territori settentrionali della penisola, da popolazioni di origine celtica e germanica. Si tratta quindi di un testo particolarmente importante per favorire la ricostituzione di una coscienza identitaria dei popoli padani. Infatti la classe dirigente italiana, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, ha utilizzato massicci flussi migratori di meridionali e di extracomunitari con l’intento di sottoporre la Padania a un processo di denordizzazione che rischia di cancellarne per sempre l’identità etnica.

In una vera e propria controstoria dell’Italia etnica, Ciola col suo libro indica la via della liberazione dai tabù e dai pregiudizi che vengono inculcati dalla cultura di regime, particolarmente insistente nel contesto del mondialismo.

A partire dal secondo millennio a.C. si verifica l’irruzione nella penisola italica di genti ariane che segneranno in modo indelebile le culture del territorio, sebbene a macchia di leopardo, come Ciola mostra nel suo libro. La differenza più evidente fra i nuovi venuti e le popolazioni preesistenti è nel fatto che gli Indoeuropei si caratterizzavano per i culti solari e patriarcali, mentre gli autoctoni celebravano culti matriarcali riferiti alla Madre Terra. Gli Etruschi sono probabilmente gli eredi dei culti matriarcali, anche se la civiltà etrusca fu di gran lunga la più avanzata fra quelle italiche delle origini, e assorbì elementi culturali di civiltà indoeuropee, soprattutto di quella greca.

L’espansione etrusca nella pianura padana venne subito fermata dai Celti che si affermarono in tutta la zona lasciando un vasto patrimonio di toponimi nonché di parole che sono arrivate fino all’italiano moderno. Ciola elenca in tavole apposite una lunga serie di lemmi di origine celtica, di cui i dialetti padani sono letteralmente infarciti. Proprio per cancellare queste tracce di cultura nordica la classe dirigente italiana ha sempre cercato di oscurare le culture dialettali, soprattutto settentrionali, sia col regime liberale, sia con quello fascista, soprattutto con quello democristiano, e ancora di più con l’attuale sistema mondialista. Assai più ampia tolleranza, invece, è stata mostrata verso i dialetti meridionali…

La parte nord-orientale della penisola era abitata dai Veneti, popolazione di origine indoeuropea che l’autore ritiene ascrivibile anch’essa all’ethnos celtico. Si tratta di una questione storiografica ancora dibattuta, sulla quale Ciola propone numerosi spunti di approfondimento.

Molte feste popolari sono chiaramente ispirate alle feste solstiziali celebrate dai Celti, e talune sono state cristianizzate, come la festa della Candelora, che originariamente era la festa della dea celtica Brigit.

Purtroppo in Italia è sempre esistito un malanimo anticeltico che risale ai tempi dei Romani e che si è perpetuato nel Risorgimento e nel fascismo, che hanno cercato di inculcare l’idea di un’Italia “schiava di Roma”: un dogma che ancora oggi viene propagandato dai governi italiani, con l’aggravante del mondialismo, di cui la classe politica è totalmente succube.

Un altro momento importante per la formazione delle identità etniche italiane è l’arrivo dei Germani col crollo dell’Impero Romano. L’invasione dei “Barbari” rappresenta un significativo apporto di sangue nordico nella penisola: i Germani si caratterizzavano per un solido senso della stirpe e per una più accentuata divisione in caste della società. Tuttavia nessuna tribù germanica riuscì a dare un assetto stabile al territorio, aprendo la strada alla riconquista bizantina e alla formazione del territorio pontificio.

L’invasione longobarda fu l’ultima occasione di instaurare un regno “nordico” in Italia. La questione, com’è noto, fu ampiamente dibattuta al tempo del Risorgimento, suscitando l’interesse anche di personalità importanti come Alessandro Manzoni. Sta di fatto che la strenua resistenza bizantina, la diplomazia papale e l’intromissione dei Franchi resero impossibile ai Longobardi la conquista dell’Italia.

Tuttavia l’apporto culturale longobardo ha lasciato tracce significative in numerosi vocaboli, nei toponimi, nonché nelle caratteristiche razziali soprattutto nel Nord Italia e in Toscana.

La diffusione dei Longobardi in Toscana ha dato origine anche a particolari teorie sul Rinascimento. Lo studioso tedesco Ludwig Woltmann sosteneva che il Rinascimento, che ebbe in Toscana la sua sede privilegiata, era un fenomeno essenzialmente nordico: un’aspirazione alla libertà e alla curiosità intellettuale che è molto meno sentita nelle culture mediterranee. In effetti l’arte toscana di quell’epoca presenta caratteri assai poco meridionali: simbolo del Rinascimento fiorentino sono le Grazie e la Venere del Botticelli, che hanno un aspetto decisamente ariano!

L’ultima parte del libro passa in rassegna tutte le regioni italiane delineandone la composizione etnica che è chiaramente celtico-germanica al Nord, con un consistente apporto celtico nelle Marche e con influenze umbre che, secondo Ciola, sono da far risalire a elementi proto-celtici. L’elemento etrusco è diffuso al Centro, ma in Toscana è frammisto a una consistente presenza longobarda. Nel Sud, invece, nonostante alcuni insediamenti longobardi e normanni, durarono a lungo le occupazioni musulmane, e ancor oggi prevalgono elementi di origine meridionale e levantina che determinano le tipiche caratteristiche psicorazziali della popolazione locale.

Il saggio di Ciola è opera di notevole erudizione, ricca di indicazioni che possono essere utili anche in ambito accademico, ma soprattutto è un invito a non dimenticare i valori delle culture nordiche che hanno segnato per tanti secoli la nostra civiltà: la sete di libertà, l’aspirazione alla giustizia, la fedeltà alla parola data, il coraggio, il senso dell’onore…

Si tratta di espressioni che rischiano di scomparire dal vocabolario, in un contesto come quello del mondialismo, dove dominano la menzogna, l’inganno, la truffa, il doppio gioco: gli ingredienti della società multicriminale.

Noi, Celti e Longobardi è un libro che ha il sapore di una boccata di aria fresca nell’ambiente asfittico della cultura ufficiale, e ha potenzialità dirompenti per la mentalità dominante, bigotta e conformista al di là di ogni ragionevole immaginazione.

* * *

Gualtiero Ciola, Noi, Celti e Longobardi, Edizioni Helvetia, Spinea (VE) 2008, pp.416, € 27,00.

jeudi, 14 octobre 2010

Ludwig Woltmann: la obsesion por la hegemonia germanica

 
Sebastian J. Lorenz
Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/

ludwig-woltmann.jpgComenzamos por señalar la corriente darwinista que reinterpretó la lucha de clases como una lucha de razas, en la que destaca la obra de Ludwig Gumplowicz (Der Rassenkampf), judío de origen polaco que, casualmente, sería considerado como maestro sociológico por el germanista radical Ludwig Woltmann. Precisamente, increpado Gumplowicz por su discípulo Woltmann al haber abandonado el concepto de raza, el sociólogo nostálgico respondió en los siguientes términos: «Me sorprendía … ya en mi patria de origen el hecho de que las diferentes clases sociales representasen razas totalmente heterogéneas; veía allí a la nobleza polaca, que se consideraba con razón como procedente de un tronco completamente distinto del de los campesinos; veía la clase media alemana y, junto a ella, a los judíos; tantas clases como razas … pero, en los países del occidente de Europa sobre todo, las distintas clases de la sociedad hace ya mucho tiempo que no representan otras tantas razas antropológicas y, sin embargo, se enfrentan las unas a las otras como razas distintas …».
Woltmann, sin embargo, representa ya un modelo racista más avanzado en el tránsito hacia el racismo biológico, apropiándose, al mismo tiempo, de ciertas elucubraciones de Gobineau y De Lapouge. Ludwig Woltmann, un ex-marxista que abandonó la lucha de clases y se convirtió a la lucha de razas, representa, en definitiva, un racismo que aparece ahora revestido como una ciencia de la antropología que se dirige a establecer los caracteres de los pueblos superiores y dominadores, capaces de asegurar la primacía y la potencia de las civilizaciones. Curiosamente, en su famoso “manual”, Armin Mohler incluye a Woltmann entre los autores völkischen (rama del “campesinado”) de la Revolución Conservadora alemana.
Para ello, Woltmann define un tipo biológico, puramente antropológico y morfológico en sus descripciones, y después, lo asocia a una serie de cualidades espirituales: «el hombre de alta estatura, de cráneo desarrollado, con dolicocefalia frontal y de pigmentación clara –la raza nord-europea- representa el tipo más perfecto del género humano y el producto más alto de la evolución orgánica». Otto Hauser, su discípulo, definía a los pueblos indoeuropeos como «pueblos rubios, bien definidos, que llegaron por sí mismos a una cultura cuyo nivel será admirado siempre, mientras circule en un pueblo, en un individuo, sangre nórdica afín».
Insiste Woltmann en que, mientras a las razas nórdicas les corresponde mayores cualidades intelectuales y facultades creativas, a las razas inferiores les resulta imposible acoger elementos de las civilizaciones que, como la nórdico-mediterránea tan próxima a sus áreas geográficas, pudieron adoptar para su propio beneficio, pero no lo hicieron, sumiéndose finalmente en la barbarie. Sin embargo, las razas germánicas se adueñaron rápidamente de las culturas griega y romana, mientras que, ni griegos ni romanos asimilaron la hebraica. «La transmisión de una civilización superior a razas inferiores no es posible sin una mezcla de sangre, a través de la cual los elementos de la raza más dotada se fundan con los de las razas menos dotadas». Pero el cruce de razas no es un factor de progreso duradero, sino cuando se trata de dos razas afines y del mismo valor biológico y espiritual: «es así como los germanos y los romanos se sintieron recíprocamente como de igual valor».
A pesar de reiterar la tradicional advertencia sobre los peligros de la mezcla de razas, Woltmann se aparta del pesimismo gobiniano para abrazar el difuso concepto de la “desmezcla de razas” que luego reinterpretarían Rosenberg y Darré para el nacionalsocialismo. Según esta teoría, debía atribuirse una importancia capital al fomento artificial de la raza a través de cruzamientos endogámicos (esto es, entre individuos supuestamente pertenecientes a la misma raza), con «la modesta esperanza de poder conservar y salvaguardar la sana y noble existencia de la raza actual por medio de medidas higiénicas y políticas encaminadas a protegerla».
291208_152955_PEEL_QZBZNe.jpgLas tesis iniciales de Woltmann, no obstante lo anterior, irían cobrando un intenso matiz germanista, hasta el extremo de no tolerar la unión de los alemanes con otras ramas de la familia nord-europea. Es más, una posible asimilación de los otros pueblos germánicos –daneses, holandeses, etc- la condicionaba a su dominio por parte de una gran Alemania. La extravagancia de Woltmann, que partía de la idea según la cual el valor de una civilización depende de la cantidad de raza rubia germana que contenga, le hizo asegurar que los grandes hombres (nobles, políticos, artistas, filósofos, etc) más representativos de la cultura y la sociedad italiana, francesa y española eran, sin duda alguna, de ascendencia germánica, pensando que sus cualidades anímicas y espirituales revelarían siempre los caracteres antropológicos del germano, dolicocéfalo y rubio, aun cuando su apariencia física externa fuera la de un alpino braquicéfalo o la de un oscuro mediterráneo.
Poseído por la obsesión del “racismo rubio”, veía en las élites intelectuales y artísticas de las naciones europeas a hombres de cabello rubio y ojos azules. Hasta un teórico racista de la talla de Hermann Wirth llegaría a decir que «por un error singular de observación, Woltmann y sus partidarios descubrieron en tantos genios y talentos europeos rasgos germánicos. Para ojos imparciales, los retratos que Woltmann agregó como explicación muestran precisamente lo contrario: tipos baskiros, mediterráneos y negros».
Evidentemente, ningún historiador serio pondrá en duda que en todos los países europeos, en mayor o menor medida, existen elementos raciales –o más exactamente antropológicos- del tipo germánico o, en general, indoeuropeo, debidos a las continuas y sucesivas invasiones de estos pueblos. Así, Max van Gruber podrá decir que «cuando examinamos las características físicas de nuestros más grandes hombres en cuanto a su pertenencia, encontramos, es verdad, caracteres nórdicos, pero en ninguno exclusivamente nórdicos … pero a las cualidades de los nórdicos han tenido que agregarse ingredientes de otras razas para producir tan feliz composición de cualidades».
El sueño de una hegemonía germánica mundial de Woltmann tenía, sin embargo, un obstáculo históricamente reiterado y constatado: el hombre germánico es el gran enemigo –y el más peligroso- del hombre germánico. Alemania necesitaba “una regeneración espiritual y una purificación racial internas” destinadas a la lucha final y definitiva, para lograr un grado de civilización superior a todos los precedentes, contra todas las familias de raza germánica.
Unas décadas más tarde, la Gross Deutschland conseguiría la anhelada “unidad racial germánica” (Germanische Blutseinheit) sometiendo, no sólo a los baltos y eslavos parcialmente germanizados (lituanos, letonios, checos, polacos, ucranios), sino también a otros pueblos germanos, como daneses, noruegos, holandeses, flamencos, y enfrentándose, especialmente, con los anglosajones –británicos y norteamericanos- por la conquista del mundo, pero el resultado final fue muy distinto al de la premonición de Woltmann.

dimanche, 10 octobre 2010

Por la creacion de un Romanestan - Los Gitanos, ?Un problema Hindu-Europeo?


Por la creación de un Romanestán
LOS GITANOS, ¿UN PROBLEMA HINDU-EUROPEO?

Sebastian J. Lorenz
 
Los “gitanos”, también conocidos como “rom, roma o romaní”, son un pueblo nómada –o mejor decir “itinerante”- procedente de Asia, concretamente del Subcontinente Indio, en la zona que actualmente ocupa la frontera entre los estados de Pakistán y la India. Su pretendido origen egipcio o babilonio (muy difundido por ellos mismos) está descartado. No digamos ya de sus leyendas sobre una procedencia misteriosa. El estudio de la lengua romaní – el romanò-, propia de los gitanos, confirmó que se trataba de una lengua índica, muy similar al panyabí o al hindi occidental. Además, los estudios genéticos corroboran la evidencia lingüística que sitúa el origen del pueblo gitano en dicha área geográfica. Con todo, la inclusión de una persona como perteneciente al pueblo gitano depende no sólo de factores étnicos (únicos reconocidos por ellos, desde su visión etnocéntrica) sino también de indicios socioeconómicos (desde una posición eurocéntrica).
Existen en el mundo unos 12 millones de gitanos, 9 de los cuales reside –o mejor dicho, “se desplaza”- en Europa, continente en el que la mayor cuota se la lleva Rumanía (más de 2 millones) y con importantes minorías en otros países como España (800-000), Francia e Italia, países de recepción de su peculiar diáspora migratoria, que se ha visto incrementada, tras la caída del muro comunista, por una auténtica invasión romaní del occidente europeo procedente de los países del este, y que previsiblemente alcanzará cotas máximas con las actuales medidas adoptadas en varios estados europeos (Austria, Chequia, Italia, Francia).
Los problemas fundamentales de este grupo étnico derivan de su desinterés por la integración y de la discriminación que sufren por parte de las poblaciones europeas de origen. En un principio, su confesionalidad cristiana les hizo ser bien acogidos en todo el continente europeo, pero pronto serían perseguidos por mendicidad y vagabundeo (Carlos V fue un maestro en la materia). La leyenda negra sobre los gitanos gira en torno a su nomadismo, su celo racial, sus costumbres ancestrales (magia, brujería), su falsa sexualidad, su apatía laboral, su tendencia a la delincuencia, su desinterés por la comunidad que les adopta, incluso –con más frecuencia de la deseable- su odio y desprecio a todo aquel que no acepte sus tortuosas leyes consuetudinarias. Con todo, hay que decir que en España los gitanos han logrado reubicarse, aparentemente, en condiciones bastante óptimas, situación, no obstante, que no ha estado exenta de conflictos entre los dos grupos étnicos (payos y gitanos).
La legislación represiva es muy antigua. De 1449 a 1783 -fecha en la que Carlos III equipara jurídicamente a los gitanos con el resto de los españoles, creyendo que la tolerancia aceleraría su integración en la sociedad- se dictan dos leyes punitivas contra ellos, con sanciones que iban desde el destierro o la cárcel hasta la prohibición de hablar su propia lengua. Una disposición de 1878, mantenida todavía en buena parte del siglo XX, establecía que los gitanos debían exhibir ante los agentes de la autoridad cerrespondiente, la cédula personal, la patente de hacienda y la guía de caballería, bajo pena de detención inmediata o embargo (en la práctica, confiscación automática).
En nuestro país, desde luego, sigue existiendo una especie de “apartheid” ibérico en forma de “gitanerías o barrios calorros” (además de los conocidos poblados de chabolas, donde reina el narcotráfico y el crimen organizado), donde la transición del nomadismo y la trashumancia al sedentarismo urbano, provoca el enfrentamiento entre clanes (ahora también, entre mafias), haciéndose difícil el mantenimiento de una mínima cohesión interna (que sólo se manifiesta cuando se unen contra los payos o se alían para seguir siendo subvencionados), todo lo cual explosiona hacia afuera en una acentuada tensión entre las dos comunidades raciales y sociales que no tiene indicios de terminar pacíficamente, sino todo lo contrario.
El proyecto de construir un Estado Romaní, idealizado por una pretendida “nación gitana”, bajo el nombre de “Romanestán”, actualmente es una entelequia. En un principio, este estado se situaba en alguna parte de Somalia o Sudán, posteriormente al norte de la India y Pakistán (una vuelta a los orígenes), actualmente debería pensarse en la despoblada área euroasiática, en las estepas ocupadas por las etnias exsoviéticas de origen turco-mongol (con permiso de los iranios), un espacio geográfico muy apropiado para su estilo de vida nómada (o semi-sedentaria, pero nunca más parasitaria). Pero este proyecto ideal -seguramente, la mayoría de los ciudadanos europeos mostrarían su conformidad- carece de fuertes mentores políticos y económicos que sí concurrieron en la formación del Estado de Israel. Tampoco existe un suelo que reclamar (aunque sea retrocediento varios milenios como los hebreos), donde los gitanos hubieran tenido una vida organizada socialmente autónoma. Sin embargo, considero que la creación de un estado gitano independiente (pero vigilado y tutelado por la Unión Europea y Rusia) es una necesidad acuciante que deberá plantearse en un futuro inmediato. Está mal decirlo (pensarlo en silencio sería lo correcto), pero los problemas étnicos no se solucionan con expulsiones o discriminaciones, aunque tampoco con integraciones y subvenciones.

[Publicado en "ElManifiesto.com"] 

dimanche, 03 octobre 2010

"De l'inégalité parmi les sociétés" de Jared Diamond

« DE L'INÉGALITÉ PARMI LES SOCIÉTÉS » de Jared DIAMOND

par Pierre MARCOWICH

ex: http://www.oswald-spengler-le-retour.net/

 

jared-diamond.jpgDans son ouvrage, « DE L’INÉGALITÉ PARMI LES SOCIÉTÉS », Jared DIAMOND se donne pour ambition de nous faire découvrir les facteurs permanents qui auraient, selon lui, déterminé, comme une loi d’airain, l’évolution des sociétés humaines depuis la fin de la dernière glaciation jusqu’à nos jours, ce qui représente une période de 13.000 ans. (1) 

Je précise tout d’abord qu’en utilisant l’expression de « loi d’airain » qui aurait pesé sur l’évolution des sociétés humaines depuis la Néolithique, je suis fidèle à l’esprit de l’auteur qui a d’ailleurs voulu affirmer sa thèse dans le titre même de son ouvrage. 

En effet, le titre de l’ouvrage en anglais est nettement plus explicite que celui en français : « GUNS, GERMS, AND STEEL, THE FATES OF HUMANS SOCIETIES », titre qui se traduit en français de la façon suivante :

Canons, microbes, et acier, les Parques des Sociétés humaines. Selon le WEBSTER’S DICTIONARY, le mot "The Fates", repris du latin, signifie en anglais "Les Parques", divinités romaines qui décident de manière inflexible et impitoyable le destin de chaque homme. (2)

L'analogie est évidente, puisque l'auteur évoque trois phénomènes bruts désignés par l'auteur comme agents implacables du destin des sociétés depuis 13.000 ans. 

C’est un titre à la Jean-Jacques ROUSSEAU avec son "Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes" (1755) que le traducteur (ou l’éditeur) a préféré octroyer à l’ouvrage de Jared DIAMOND dont le titre est devenu « De l’inégalité des sociétés », Est-ce dans le but d’atteindre, avec le maximum d’efficacité, un public portée sur les questions philosophiques ?

Comme il le confie lui-même, dans son ouvrage, Jared DIAMOND, docteur en physiologie, est un spécialiste de l’évolution biologiques des oiseaux qu’il a étudiés en Papouasie-Nouvelle-Guinée, en Australie et en Amérique du sud. Dans le même temps, ses séjours lui permirent de se familiariser avec « maintes sociétés humaines technologiquement primitives » (page 34).  

La problématique telle que la pose Jared DIAMOND 

Jared DIAMOND formule la problématique de l’évolution historique des sociétés humaines depuis la fin du dernier âge glaciaire, il y a 13.000 ans, par l’énonciation suivante : 

« Certaines parties du monde ont créé des sociétés développées fondées sur l’alphabétisation et l’usage d’outil métalliques, d’autres ont formé des sociétés uniquement agricoles et non alphabétisées, et d’autres encore sont restées des sociétés de chasseurs et de cueilleurs avec des outils de pierre. » (page 11) 

De cette situation, affirme Jared DIAMOND, découle, depuis 13.000 ans, une inégalité entre les sociétés humaines, qui fait que les premières ont conquis ou exterminés les deux autres. 

Il convient de remarquer qu’il ressort de l’énoncé de Jared DIAMOND, que, selon lui, ce ne sont pas les hommes qui « créent » les « sociétés », mais certaines « parties du monde », c’est à dire des zones géographiques, autrement dit la nature (la terre, l’eau, le climat, les montagnes, la mer). Il découle de l’énoncé de Jared DIAMOND que la nature aurait la « volonté » de prendre la décision de créer les sociétés. On croit lire l’entrée en matière d’une sorte de nouvelle Génèse, matérialiste, où la nature remplacerait le Dieu de l’ancienne Bible.  

Bien sûr, le lecteur comprend ce que, malgré la faiblesse de son expression, Jared DIAMOND veut dire : selon lui, la matière, comprise uniquement comme phénomène concret, palpable, visible, se trouve être à l’origine de toute formation sociale. 

De plus, prétendre que d’autres parties du monde ont formé « des sociétés uniquement agricoles » est tout aussi aberrant, car toutes les « sociétés développées » sont passées, elles aussi, par le stade agricole pour s’urbaniser par la suite, outre qu’il paraît hasardeux de qualifier de « société » un clan de la préhistoire (biologiquement homogène) vivant de chasse et de cueillette. 

Ce manque de rigueur est frappant chez une personne qui se présente comme un scientifique de haut niveau. 

Quant à la prétendue « alphabétisation » des sociétés développées, ce n’est qu’un phénomène relativement récent dans les sociétés développées. Je préfère y voir une erreur du traducteur qui a confondu alphabétisme (système d’écriture composé de lettres) avec alphabétisation (enseigner la lecture et l’écriture aux analphabètes). 

En réalité, la vraie question que se pose Jared DIAMOND tout au long de son ouvrage, de la première page jusqu’à la dernière page, est celle-ci : 

« Pourquoi, (..), ce sont les sociétés européennes, plutôt que celle du Croissant fertile, de la Chine qui ont colonisé l’Amérique et l’Australie ? ». (page 614) 

Car, la situation de domination sur le monde exercée par l’Europe, depuis le 15ème siècle, semble beaucoup chagriner Jared DIAMOND.  

Jared DIAMOND ne veut voir dans cette domination que l’effet du hasard, provoqué par des phénomènes uniquement matériels, d’ailleurs venus de l’Asie du Sud-Est, de sorte que, selon lui, les Européens n’ont aucun mérite d’avoir créé des sociétés développées. Briser la superbe de cette Europe (État-Unis compris, où il vit), tel est l’objectif de son livre. Par quel moyen ? Pour Jared DIAMOND, l’Histoire doit devenir une science, s’inspirant de sciences comme « la génétique, la biologie moléculaire et la biogéographie appliquée aux cultures* et à leurs ancêtres sauvages* » (page 32). [Attention, il s’agit ici des cultures céréalières ou légumières et de leurs ancêtres sauvages

La thèse de Jared DIAMOND

Pour Jared DIAMOND, les sociétés qui bénéficient des milieux les plus favorables pour son alimentation seront à même de supplanter et d’exterminer les autres moins favorisées vivant sur des terres plus ingrates.Selon Jared DIAMOND, tout, à la base, est une question d’alimentation. 

Ainsi, pour qu’une société soit « supérieure » à d'autres sociétés, il est nécessaire qu’elle dispose : 

- d’une installation sur des terres où la nature se montrerait prolifique et généreuse en céréales sauvages ; 

- de la meilleures combinaison d’un certain nombre de cultures agricoles : céréales et de plantes légumières à forte concentration de protéines qui auront, au préalable, été domestiquées ; 

- du plus grand nombre d’animaux domesticables de toute taille pour son alimentation, dont pourtant certains doivent être assez robustes et d’une taille assez importante pour qu’ils soient capables de transporter la production agricole, et bien sûr, aussi le matériel de guerre et les troupes ; 

- d’une localisation géographique parfaite permettant à la société de bénéficier par simple diffusion des innovations culturelles (écriture), culturales (agricultures) et technologiques réalisées par d’autres sociétés ; 

La meilleure alimentation et la réception rapide de ces innovations venues de l’extérieur permettra à la société de passer rapidement du stade de l’âge de pierre à l’âge de bronze puis à celui du fer, qui seront d’une grande utilité non seulement pour la production agricole, mais aussi et surtout pour la fabrication des armes de guerres (fusils, canons, épées, etc.). 

En outre, l’élevage du bétail provoquera de graves maladies dans la population qui le pratique. Mais, au cours des siècles, cette population en sera finalement immunisée par l’habitude. Par contre, lorsque cette société envahira d’autres sociétés pratiquant moins ou pas tout l’élevage du bétail, ces maladies provoqueront des hécatombes dans les sociétés envahies. Par conséquent, nous dit Jared DIAMOND, l’élevage du bétail, ou du moins les microbes qui en sont la conséquences, constitue une arme de guerre. Je rappelle le titre originel anglais de l’ouvrage « canon, microbes et acier, les Parques, etc.). 

Si elle est en possession de ces atouts, ladite société est, selon Jared DIAMOND, mécaniquement assurés du succès, à savoir conquérir d’autres sociétés. C’est le miracle de la méthode d’analyse causale, d’après laquelle chaque phénomène est obligatoirement l’effet du phénomène précédent et la cause du phénomène suivant. 

Jared DIAMOND constate que, sur ce plan, c’est l’Asie qui a été privilégiée, en particulier, le Croissant fertile (Proche-Orient) où sont d’ailleurs nées les premières civilisations (Chine, Summer, Égypte, Arabe). Ce sont, selon Jared DIAMOND, les sociétés préhistoriques de cette régions qui vont conquérir les autres sociétés. Remarquons, au passage, qu’il oublie l’Inde. 

Autre objection : chacun sait que c’est l’Europe qui, dans la période historique, va conquérir l’Afrique, l’Australie, l’Océanie, l’Amérique du Nord et du Sud, l’Antartique, etc. Jared DIAMOND est conscient de cette contradiction : sa théorie ne colle pas avec les faits historiques. Qu’à cela ne tienne, il « invente » un nouvelle aire géographique, homogène selon lui, l’Eurasie, englobant à la fois l’Europe et l’Asie. Dans cette Eurasie, la région Europe aurait pratiquement tout reçu de l’Asie, en cultures céréalières, en animaux domestiques, en métaux, poudre à canon, de telle sorte que, quels que soient par la suite les progrès techniques, intellectuelles qu'elle réalisera, l'Europe n’en aurait, selon l'auteur, aucun mérite. C’est ainsi que Jared DIAMOND arrive à écrire cette véritable loufoquerie à la logique incohérente : 

« Les colons européens n’ont pas crée en Australie une démocratie industrielle, productrice de vivres et alphabétisée. Tous ces éléments, ils les ont importés de l’extérieur : le cheptel, toutes les cultures (sauf les noix de macadamia), les techniques métallurgiques, les machines à vapeur, les fusils, l’alphabet, les institutions politiques et même les germes. Il s’agissait à chaque fois de produits finis, fruits de 10 000 ans de développement dans les milieux eurasiens. Par un accident de la géographie, les colons qui débarquèrent à Sydney en 1788 avaient hérité de ces éléments (sic) » (pages 482 et 483). Bien sûr, Sydney n’existait pas en 1788. Ainsi, pour Jared DIAMOND, la démocratie, l’industrie et l’alphabétisation sont des  inventions chinoise, arabe ou égyptienne. Pourquoi pas les cathédrales gothiques, l’industrie nucléaire et les vaccinations antirabiques et antivarioliques qui ont sauvé tant de peuples conquis par l’Europe ? 

Jared DIAMOND prétend que la diffusion des innovations de Chine jusqu’en Europe du Nord, dans ce qu’il appelle, pour les besoins de sa cause, l’Eurasie, était facile sur l’axe Est-Ouest. C’est oublier les Chaînes de montagnes et le désert à traverser entre la Chine et l’Iran. 

Par contre, Jared DIAMOND prétend que l’axe Nord-Sud du continent américain était plus accidenté au niveau de l’Amérique centrale outre, les ’immenses forêts, de sorte que la diffusion des innovations entre le Nord et le Sud  était fortement ralentie, la voie marine étant impossible à utiliser à cause de la présence d’un désert au Texas. C’est ici aussi oublier que les îles Caraïbes ont été colonisées par les Indiens du même nom. Il est d’ailleurs curieux que Jared DIAMOND n’indique pas sur la carte géographique qu'il produit les mouvements d’émigration des populations des peuples Caraïbes vers les îles Caraïbes, alors que sur la même carte il indique en détail les mouvements migratoires vers les îles polynésiennes. Pourquoi cette pudeur pour les Îles caraïbes. Est-ce pour ne pas gêner sa théorie ? 

L’exemple le plus important de cette curieuse méthodologie est celui du passage des hommes préhistoriques de la Sibérie en Amérique du Nord. Les préhistoriens situent cet événement en –20.000 avant J.C., en raison de la possibilité de passage à pied sec. Jared DIAMOND le situe beaucoup plus tard vers –13.000 avant J.C., tout simplement parce qu’aucune découverte archéologique n’a été faite datant de –20.000 à –13.000 sur ce passage. Il faut dire que cela arrange sa théorie, à savoir que les Indiens n’ont pas bénéficié du temps nécessaire pour se développer autant qu’ils l’auraient pu si leurs ancêtres avaient traversé le détroit de Behring en -20.000 avant notre ère. 

Au regard du simpliste et grossier matérialisme, sur lequel Jared DIAMOND base sa thèse, Karl MARX, avec son matérialisme historique, fondé sur les contradictions naissant des rapports sociaux de production (la matière, l’infrastructure), mais qui tient compte de l’influence majeure des superstructures (l’idéologie, le psychisme) dans le cours de l’histoire, pourrait passer pour un adepte de la métaphysique platonicienne, rêvant du monde des Idées. 

Il est vrai qu’il s’agit d’un ouvrage de de compilation et de vulgarisation qui ne nécessite aucune connaissance précise en histoire, en philosophie, en sciences écrit en langage simple et même familier. Il comporte 694 pages présentant en détail les migrations préhistoriques, la domestication des légumes, des céréales et de certains animaux sauvages. Il ne nécessite un effort de réflexion de la part du lecteur moyen. En effet, les notions de société, d’histoire, de culture, de civilisation, d'Etat, employés indifféremment pour toutes les époques préhistoriques et historique, ne sont jamais définis, car toujours règne l’évidence. C’est donc un ouvrage qui fait appel au « bon sens populaire ». 

Je ne veux pas dire qu’il faille écarter d’un revers de main les données brutes relatives au climat, à la végétation, aux cultures de céréales, aux légumes cultivés et à l’élevage du bétail selon les régions géographiques que Jared DIAMOND expose dans son ouvrage. 

En effet, dès 1920, Oswald SPENGLER considérait que, pour comprendre  l’histoire des cultures, il était nécessaire de prendre en compte l’histoire de l’économie, du droit, mais aussi l’histoire du paysage. Or, à propos du paysage, voici ce qu’il écrivait  : 

« Il nous manque également une histoire du paysage (donc du sol, donc de la végétation et du climat) sur lequel s’est déroulé l’histoire humaine depuis 5.000 ans. Or, l’histoire humaine est si difficile à séparer de l’histoire du paysage, elle reste si profondément liée à elle par des milliers de racines, qu’il est tout à fait impossible, sans elle de comprendre la vie, l’âme et la pensée. 

En  ce qui concerne le paysage sud-européen, depuis la fin de l’ère glaciaire une invincible surabondance de végétation cède peu à peu sa place à l’indigence du sol.

À la suite des cultures égyptienne, antique, arabe, occidentale, s’est accomplie autour de la Méditerranée une transformation du climat selon laquelle le paysan devait abandonner la lutte contre le monde végétal et l’entreprendre pour ce même monde, s’imposant ainsi d’abord contre la forêt vierge, puis contre le désert.

Au temps d’Hannibal, le Sahara était loin au sud de Carthage, aujourd’hui, il menace déjà l’Espagne du Nord et l’Italie ; où était-il au temps des constructeurs de pyramides portant en relief des tableaux de forêts et de chasse ?

Après que les Espagnols eurent chassés les maures, le caractère sylvestre et agricoles du pays qui ne pouvait être maintenu qu’artificiellement, s’effaça. Les villes devinrent des oasis dans le désert. Au temps des Romains, cette conséquence ne se serait pas produite. » (3) 

Oswald SPENGLER est bien conscient que sa vision de l’histoire ne peut pas prendre en compte l’histoire du paysage (sol, végétation, climat), en raison de l’inexistence à son époque de telles études. Cependant, malgré le manque de données à sa disposition, Oswald SPENGLER entreprend, en une dizaine de lignes, une analyse synthétique sur un problème bien connu depuis longtemps : l’avancée du désert autour de la Méditerranée. Cependant, tout en constatant la grande importance de cet aspect physique dans l’évolution des civilisations méditerranéennes, Oswald SPENGLER introduit en même temps le facteur culturel : « Les villes devinrent des oasis dans le désert. Au temps des Romains, cette conséquence ne se serait pas produite. »

Tout laisse penser qu’après l’expulsion sur les Maures, les Espagnols de cette époque, les dizaines de milliers d’Espagnols venus du Nord qui s’étaient installés dans le Sud après la Reconquête, n’étaient pas du tout intéressés à continuer l’œuvre routinière du système d’irrigation laissé par les Arabes, en raison de son caractère administratif, collectiviste et coercitif poussé à l’extrême. C’était l’époque des chevaliers errants, de l’aventure. Les Espagnols de l’époque, en Occidentaux qu’ils étaient, tournés vers le lointain, individualistes forcenés, préférèrent partir à l’aventure au pays de l’Eldorado, en Amérique du Sud, pour y gagner richesses et liberté. Dans le sud de l’Espagne, les villes devinrent donc des oasis au milieu du désert.

Oswald SPENGLER ajoute qu’avec les Romains, une telle désertification ne se serait pas produite. En effet, quand ils conquéraient un pays, leur culture étant tournée vers l’aspect administratif et juridique des choses, les Romains construisaient des aqueducs, des routes, etc. pour contrôler le pays et ses populations avec leurs armées, de sorte que ces ouvrages d’art auraient permis d’arrêter l’avancée du désert, si, par hypothèse virtuelle, ils avaient hérité du système d’irrigation construit par les Arabes en Espagne. 

La méthode historique selon Oswald SPENGLER, allie donc les facteurs géographiques aux facteurs culturels, exerçant selon lui un rôle prédominant. L’histoire devient, dès lors, plus compréhensible. 

Jared DIAMOND, quant à lui, pour « expliquer » l’histoire humaine, ignore totalement le facteur culturel, c’est à dire la vision du monde, l’interprétation que les hommes se font de la vie : leurs mythes, leurs croyances, leurs conceptions artistiques et « scientifiques », la spécificité de leur organisation politique. 

C’est ainsi que Jared DIAMOND nous parle souvent de « ses amis » Papous (ou Néo-Guinéens), mais jamais il ne nous expose ni leur culture, ni leur leur vision du monde, etc. Il affirme que lui et ses amis néo-Guinéens se posent mutuellement « mille questions », mais nous ne saurons jamais le contenu de ces questions.

 

 

Dans le tableau intitulé « Facteurs sous-jacents de l’Histoire » depuis la fin de l’époque glaciaire (page 122), Jared DIAMOND nous « explique » les « chaînes de causalité menant des facteurs lointains (orientations des axes continentaux) aux facteurs proches (fusils, chevaux, maladies, etc.) permettant à certains peuples d’en conquérir d’autres ». C’est une conception totalement zoologique de l’homme.  

collapse.jpgL’homme peut très bien se nourrir convenablement et ne pas avoir la force (psychique) de conquérir d’autres peuples. Par exemple, les Romains du 4ème siècle après J.C., c’est à dire ceux qui vivaient dans le Bas-Empire décadent, étaient mieux nourris que les Barbares Germains, et pourtant ce sont ces Barbares qui ont détruit l’Empire romain en 476. Aujourd’hui, les Européens, dont les ancêtres ont conquis l’Amérique du Nord et du Sud, il y a 500 ans, sans trop de problèmes, sont mieux nourris que les Afghans. Pourtant, ils seraient bien incapables (psychiquement) d’envoyer une véritable Armée conquérir l’Afghanistan. Leur pacifisme affiché n’a pour objet que de voiler leur incapacité psychique. On pourrait multiplier les exemples.  

Pour comprendre pourquoi, à un moment donné de l’histoire, certaines sociétés ont conquis d’autres sociétés, il s’avère nécessaire de prendre en compte leur histoire et kleur culture. 

Mais, ne prenant jamais en compte ni l'histoire ni la culture des sociétés qu’il évoque, Jared DIAMOND a une conception totalement a-historique de l’évolution des sociétés humaines.  

C'est pourquoi, Jared DIAMOND, qui se veut historien, ne se pose jamais la question de la signification d’un événement au regard de l'histoire.

Pour qu’un évènement soit considéré comme historique, il faut qu’il ait une signification pour les hommes d’aujourd’hui, sinon, il se perd dans la masse des faites bruts. 

Or, Jared DIAMOND fonde sa théorie de l’histoire humaine sur le principe de l’alimentation la meilleure en protéines et l’élevage de bétail comme « moteur » de l’histoire, en soulignant sur de nombreuses pages les multiples conquêtes qu’ont réalisées les hommes de la préhistoire.

Jared DIAMOND expose longuement les invasions préhistoriques des Chinois du Nord vers le Sud, faisant disparaître un certain nombre de peuples ou les chassant, tandis que ceux chassés de la Chine du Sud envahissaient la péninsule indochinoise et les îles polynésiennes, exterminant au passage les peuples déjà installés. Jared DIAMOND décrit les mêmes mouvements d’extermination et de conquête en Afrique, entre tribus africaines.

Mais les ayant signalés, il les oublie tout aussitôt. Et il a raison. Car tous ces mouvements guerriers de la Préhistoire n’ont aucune signification aujourd’hui.  

En effet, les luttes entre deux tribus d’une société primitive, en Afrique ou en Europe, n’ont aucune espèce d’importance pour nous aujourd’hui,  Elles n’ont aucune signification pour la compréhension du monde actuels. 

Par contre, la victoire de la tribu barbare germanique des Chérusques sur les Romains en l’an 9, ou des Aztèques sur les Tlascanes au Mexique, s’appelle de l’histoire. Car ici, le "quand ?" a son importance. 

La défaite des Romains en l'an 9, cette défaite eut pour conséquence pour les Romains de ne plus tenter de s’aventurer en Germanie, ce qui évita ainsi la romanisation. Nous aurions alors eu une Europe Gallo-romaine. Cet événement marque donc encore le monde moderne. 

Par contre, Jared DIAMOND s’appesantit, pour les stigmatiser, lourdement sur les conquêtes européennes et les massacres qu’elle provoqua  Comme je viens de le dire, il a parfaitement raison de faire ressortir l’action de l’Europe, même s’il n’est pas conscient du motif réel et se limite à la stigmatisation.

En effet, en partant à la conquête du Monde à partir du 15ème siècle, l’Europe a forcé, au besoin par les armes, et parfois de façon cruelle, de nombreux peuples qui vivaient repliés sur eux-mêmes à entrer dans l’Histoire, dans la « modernité » telle que la conçoit l’Occident. Elle a contraint les peuples repliés sur eux-mêmes à se découvrir entre eux. Elle a également contraint d’autres peuples qui, dans les siècles passés avaient joué un grand rôle comme puissances mondiales (Chine, Inde, monde arabe) à revenir sur la scène historique. En même temps, elle leur a fait découvrir, avec les progrès technologiques et sanitaires, ses notions de Liberté, de démocratie, d’État-Nation, etc, que, d’ailleurs, ces peuples retourneront plus tard contre elle. 

Contrairement à d’innombrables conquêtes et exterminations réalisées par d'autres peuples, la conquête européenne de plusieurs continents est un exemple de fait historique ; elle fait histoire,  car il a encore aujourd’hui une signification. 

Autrement dit, en soulignant avec force la conquête de l’Amérique, de l’Afrique, de l’Australie tout en minimisant l’intérêt des conquêtes d’autres peuples,  Jared DIAMOND constate un véritable fait historique, mais sans en saisir la signification profonde.  

Ce faisant, il détruit l’intérêt de sa propre théorie comme explication exhaustive et définitive de l’histoire depuis la fin de l’époque glaciaire, car il est évident que les Européens n’ont pas conquis tous les continents de la planète parce qu’ils avaient, il y a 13.000 ans, une alimentation basée sur tels ou tels légumes ou céréales.  

Les Européens ont réalisé ces conquêtes parce que leur culture, c’est-à -ire leur vision du monde, les portait à regarder vers le lointain beaucoup plus que la culture arabe, pourtant conquérante, et la culture chinoise, elle aussi conquérante, tandis que l’indienne ni l’antique n'’avait pas du tout cette attirance vers ce qui est étranger et loitnain. 

Cet attrait vers le lointain était déjà présent vers l’an 1000 avec les Croisades, tandis que, dès le 13ème siècle, Marco Polo partait, avec sa famille, à l’aventure jusqu’en Chine pendant près de 17 années. Un Chinois, est-il venu en Europe à cette époque ?

Puis, au 15ème siècle, ce fut cet attrait vers l’Océan qui semblait constituer la voie la plus courte pour aller jusqu’en Chine et Japon où l’on trouvait, croyait-on à cette époque, de l’or à foison. Les meilleurs esprits scientifiques, en même temps théologiens et philosophes, tiraient des plans permettant de partir. Et finalement, arriva ce qui devait arriver. Un roi se laissa convaincre. On partit alors avec beaucoup d’impatience, en toute hâte, comme une pulsion puissante qui explose enfin en jaillissant du plus profond des instincts, sur de frêles embarcations vers l’inconnu, vers l’Ouest. 

Mais Jared DIAMOND, qui ignore tout de la notion d’histoire, ne pense pas à se poser la question du « Quand ? ». . « Car ici, le quand a son importance », nous dit Oswald SPENGLER. Or, à cette époque, l’Europe était encore une culture jeune, en pleine maturité, qui avait une force psychique que nous, Européens civilisés, avons du mal à imaginer et même à comprendre.

En face, qu’y avait-il ?

Des peuples dont certains étaient à peine sortis du néolithique, des empires découpés en lambeaux, des civilisations endormies ou tombées dans la barbarie (Chine, Inde, Monde islamo-arabe) aux populations psychiquement prostrées, acceptant n’importe quel conquérant, occupése seulement à se reproduire et à travailler, n’éprouvant aucun intérêtsaux luttes féroces pour le pouvoir qui se déroulaient au-dessus d'elles et dont elles n’attendaient rien.

L’empire Aztèques était en réalité l’héritier de la vieille civilisation maya, essoufflée, malgré l’apparence barbare des Aztèques qui en avaient pris le commandement par la force. Quant à l’empire Inca, à peine né, sans écriture, il était déjà profondément divisé en raison de son système politique de transmission du pouvoir.

L’Europe ne pouvait que sortir victorieuse de toute ces confrontations et amener ces peuples sur la scène de l’Histoire. Désormais, ce qui se passe au Darfour, au Rwanda, au Tibet, en Colombie, en Australie, en Iran, etc., dans la moindre contrée,  intéresse chaque habitant de la planète. C’est l’œuvre historique de l’Europe. 

Jared DIAMOND veut « expliquer » l’Histoire, comme s’il s’agissait d’expliquer un comportement de molécules ou d’une masse musculaire stimulée en laboratoire. En le lisant, on a l’impression que l’homme est surtout un estomac

Jared DIAMOND n’est pas parvenu à comprendre l’histoire, car il ignore totalement l’aspect psychique à la base des comportements et des actes des êtres humains. Cet aspect psychique apparaît dans ce qu’on appelle la culture (vision du monde, actuel, passé et à venir), mythes, croyances, morale, art.  

Par exemple, les Aborigènes d'Australie ont une culture centrée sur ce qu’ils appellent « le temps du rêve », ou simplement « le rêve » (cela rappelle le culture indoue),

 Le « temps du rêve » explique les origines de leur monde, de l’Australie et de ses habitants. Selon leur tradition, des créatures géantes, comme le Serpent arc-en-ciel, sont sorties de la terre, de la mer ou du ciel et ont créé la vie et les paysages australiens. Leurs corps géants ont créé des fleuves et des chaînes de montagne mais leur esprit est resté dans la terre, rendant la terre elle-même sacrée aux peuples indigènes. Le rêve, la terre sacrée, autant de mythe qui ont incité les aborigènes d’Australie à ne pas quitter leurs régions pour partir à la découverte d’autres peuples et profiter des innovations des peuples voisins. Jared DIAMOND, qui se prétend leur « ami »,  ne dit pas un mot sur leur culture, leurs mythes, leur vision du monde, leur religion, qui pourraient expliquer bien des choses. À mon avis, la thèse de la prépondérance de l’esprit, de la culture, sur le comportement humain permet de mieux comprendre l’histoire.

Jared DIAMOND ne se pose pas non plus la question de comprendre pourquoi après 40.000 ans d’occupation de l’Australie, on ne dénombre, à l’arrivée des premiers Européens en 1788, que 250.000 aborigènes, alors que les Indiens sont plusieurs millions après 15.000 ans d’occupation de l’Amérique, au 15ème siècle, à l’arrivée des Espagnols. Que s’est-il passé ? Quels Empires se sont effondrés ? que signifie réellement ou symboliquement ces figures de géants gravés sur les rochers il y a 10.000 ou 30.000 ans ? Mais Jared DIAMOND ne s’intéresse qu’aux estomacs.

Pour ce qui concerne les Papous de Papouasie-Nouvelle-Guinée, que Jared DIAMOND présente aussi comme « ses amis », on ne saura rien de leur culture à la fin des 694 pages, malgré tout un chapitre intitulé « Le peuple de Yali », dans lequel Jared DIAMOND se borne à récapituler toutes les cultures légumières, les élevages du cochon et les migrations depuis la Préhistoire. Pourtant, Jared DIAMOND aurait pu exposer au lecteur le fondement de la culture papoue centrée sur le prestige et la beauté du guerrier. Quelle signification symbolique pouvait avoir leur comportement nécrophage et anthropophages. Sur tout cela, Jared DIAMOND reste muet, arc-bouté sur sa thèse sur l’influence du seul milieu géographique sur l’histoire humaine. 

Mais passé « l’effet-céréales-légumes-bétail » qui, selon Jared DIAMOND, aurait expliqué à lui seul la prédominance du Croissant fertile et de la Chine sur le monde depuis la préhistoire, comment expliquer que ces deux régions ont perdu leur puissance mondiale, leur capacité d’expansion et d'innovation, de sorte que ce ne sont pas elles qui ont découvert et conquis l’Amérique, mais l’Europe ? 

 Fidèle à lui-même, sans même dire un seul mot des facteurs culturels., Jared DIAMOND ne voit qu’une explication matérialiste et mécaniste à la sortie de l’Histoire de ces deux régions. 

b054PB_lg.jpgPour ce qui concerne le Croissant fertile, Jared DIAMOND prétend que la cause du déclin se trouverait, selon lui, simplement dans la désertification, tout en « oubliant » de citer la culture arabo-islamique, pour les besoins de sa cause. Car la civilisation arabo-islamique, bien qu’issue du désert, parvient naturellement à surmonter la désertification au moyen de son esprit conquérant, de sorte qu’elle fut à deux doigts de surpasser l’Occident naissant pour la domination du monde, outre que son rayonnement a duré tout de même 5 siècles au minimum. Mais Jared DIAMOND se garde d’en parler, car ce fait historique contredit sa thèse.

Et si aujourd’hui, malgré la chance que l’Histoire leur a de nouveau donné avec le pétrole, les pays arabo-musulmans n’ont pas réussi à sortir de l’ornière, avec encore 40 % d’analphabètes, et un taux d’innovations technologiques et spirituelles parmi les plus bas du monde, cela est surtout dû (comme au 14ème siècle) à leur culture qui les tourne entièrement vers un passé mythifié et les empêche de profiter du potentiel créatif de 50 % de leurs population (les femmes). 

Aussi superficielle apparaît la raison que donne Jared DIAMOND pour « expliquer » pourquoi ce n’est pas la Chine qui a découvert et conquis l’Amérique ou l’Afrique. Car il faut savoir que, dès 1400, près de 90 ans avant l’aventure de Christophe Colomb, tout était prêt pour partir vers l’Afrique : bateaux de très gros tonnages, équipages, matériels, etc. Mais soudain, l’empereur ordonna d’arrêter tout et de brûler la flotte. Et on n’en parla plus. Jared DIAMOND y voit simplement l’effet du hasard : il y eut un coup d’État fomenté par les eunuques dont le bénéficiaire interdit toute expédition au-delà des mers ! Il ne voit pas là non plus que cette interdiction vient de la profondeur de l’âme chinoise seulement intéressée par ce qui est chinois. Même avec l’Inde, les relations étaient insignifiantes. La Chine n’a jamais rêvé d’aller en Europe. Alors pourquoi aurait-elle rêvé de l’Amérique, de l’Afrique ? Ce n’est pas un hasard non plus si elle a entouré son espace vital d’une grande muraille.

Par contre, en Occident, si Christophe Colomb était mort sans avoir réalisé son projet, d’autres « rêveurs », des savants, des aventuriers, dont l’Europe abondait alors, se seraient levés pour partir vers ce qu’ils affirmaient être la voie la plus courte pour aller en Chine, et finalement l’un d’entre eux auraient réussi. Simplement, au lieu d’être espagnole, l’Amérique du Sud aurait peut-être été française. 

Sur le racisme biologique 

En même temps qu’il prétend démontrer que la diversité de l’histoire humaine est simplement le résultat des différences de milieux géographiques, climatiques et végétaux, Jared DIAMOND imagine prouver l’inanité du racisme biologique : « L’histoire a suivi des cours différents pour les différents peuples en raison de différences de milieux, non pas de différences biologiques » (page 31). 

Jared DIAMOND s’est choisi un adversaire, le racisme biologique, déjà définitivement terrassé politiquement et militairement depuis 65 ans, et, sur les plans scientifique et philosophique, depuis le XXème siècle. C’est donc sans crainte d’être démenti que, à chaque fin de chapitre de son ouvrage, Jared DIAMOND stigmatise, comme une justification de sa thèse sur l’histoire, le racisme biologique dont il fait surtout grief aux Européens et aux Américains.

Son anti-racisme est d’ailleurs assez étonnant, car en réaction aux supposés racistes biologiques blancs qui pensent être plus intelligents que les gens d’une autre couleur, les Papous de Nouvelle-Guinée, en l’espèce, Jared DIAMOND prétend que ce sont les Papous de Nouvelle-Guinée, qui seraient plus intelligents que les blancs Européens : « Pourquoi, malgré leur intelligence que je crois supérieure, les Guinéens ont-ils finalement une technique primitive ».

Remarquons que Jared DIAMOND « croit » à la supériorité intellectuelle des Papous, sans estimer nécessaire de le démontrer. Il ne s’aperçoit pas qu’il fait alors du racisme biologique anti-blanc. Il tombe dans la même aberration qu’il prétend combattre. Sans s’en être conscient, il adopte une position raciste. Il est vrai que la thèse du racisme biologique est une thèse matérialiste, comme celle que défend Jared DIAMOND consistant à faire de l’estomac le moteur de l’histoire humaine. Les deux thèses en présence paraissent s’opposer, mais elles finissent par se rejoindre dans le fond, parce qu'elles sont toutes deux matérialistes.

Les Blancs et les Papous étant des homo sapiens, ils ont en moyenne le même niveau d’intelligence, au contraire de ce que pense Jared DIAMOND. Leurs différences de comportement est, pour l’essentiel, d’origine psychique, donc culturelle, et n’a rien à voir avec l’intelligence.

Le conquérant et bâtisseur du Maroc moderne, le Maréchal LIAUTEY, l’avait déjà compris en 1910, lorsqu’ils disaient à ses soldats : « Les peuples coloniaux ne nous sont pas inférieurs ; ils sont autres ».

Au surplus, le racisme d’aujourd’hui est un phénomène psychique. Par conséquent, il ne peut pas efficacement se combattre avec des arguments scientifiques. Il se combat avec des moyens psychiques : proposer un même destin à des personnes d’origines raciales différentes. 

Des hommes aux dinosaures en passant par les oiseaux 

Poussant jusqu’au bout l’assimilation de la méthode historique à la méthode des sciences physiques et biologiques, Jared DIAMOND termine son livre dans une sorte d’apothéose, nous faisant entrevoir une perspective quasi-« grandiose », et peut-être même gigantesque : 

« J’ai donc bon espoir que l’étude historique des sociétés humaines puisse se poursuivre aussi scientifiquement que l’étude des dinosaures – et pour le plus grand profit de notre société (…) ». (pages 640 et 641). 

Ainsi, Jared DIAMOND abaisse l’être humain, l’homo sapiens, au même niveau que le dinosaure.  

Certains y verront, de la part de Jared DIAMOND, l’expression d’une sorte de nihilisme absolu, conséquence de son matérialisme forcené : la négation de toutes les valeurs (spirituelles, morales, sociales, intellectuelles) et de leur hiérarchie.

Mais, après tout, les dinosaures ne sont-ils pas considérés comme les ancêtres des oiseaux ? Une façon pour Jared DIAMOND, conscient peut-être des limites de sa thèse, d’exprimer, sur un mode « inintentionnel », sa nostalgie du temps où il ne s’occupait que d’ornithologie, objet d’études moins complexe que l’histoire humaine. 

Pierre Marcowich 

(1) Jared DIAMOND, DE L’INÉGALITÉ PARMI LES SOCIÉTÉS, Éditions Gallimard, 2000, pour l’édition française, impression de février 2009, Traduit de l’anglais (Etats-Unis) par Pierre-Emmanuel Dauzat, 694 pages ;  

(2) WEBSTER’S NEW TWENTIETH CENTURY DICTIONARY – unabriged –Second editionDeluxe color, World publishing Company, 1977, (2.128 pages) : Article Fate (pages 666-667) : « The Fates : in Greek and Roman mythology, the three goddesses who control human destiny and life. » 

(3) Oswald SPENGLER, LE DÉCLIN DE L’OCCIDENT ; Éditions Gallimard, 1948, renouvelé en 1976, Tome II, Chap. I, Origine et paysage, page 42, note de bas-de-page ; 

mercredi, 29 septembre 2010

La aventura del rebelde

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LA AVENTURA DEL REBELDE

Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/

La existencia de una supuesta tendencia humana hacia la igualdad, la nivelación en todos los órdenes, fenómeno que Ratheneau calificaba como la invasión vertical de los bárbaros o la revolución por lo bajo (Revolution von unten) de Spengler, es una afirmación rigurosamente inexacta. El hombre es un ser naturalmente inconformista, competitivo y ambicioso, al menos, en un sentido progresivo y evolutivo. El mito de la igualdad deja paso a la lucha eterna por la diferenciación. Y este concepto dinámico se integra en la sociedad mediante dos polos opuestos que originan en ella un movimiento de tensión-extensión: minorías y masas, formadas por hombres-señores o por hombres-esclavos, estos últimos seres mediocres en los que se repite un tipo genérico definido de antemano por los valores imperantes de la moral burguesa o progresista triunfante en cada momento o por los dictados de la modernidad, siervos de una civilización decadente que pugna por la nueva nivelación-igualación consistente en rebajar o disminuir a los que se sitúan por encima atrayéndolos a un estrato inferior. El combate por la libertad cede ante la búsqueda de una felicidad gratuita.
Nietzsche expuso su antítesis entre una “moral de señores”, aristocrática, propia del espiritualismo en sentido europeo intrahistórico, y una “moral de esclavos”, de resentimiento, que correspondería al cristianismo, al bolchevismo y al capitalismo demoliberal. Es la naturaleza la que establece separaciones entre los individuos “espirituales”, los más fuertes y enérgicos y los “mediocres”, que son mayoría frente a “los menos”, una “casta” que anuncia el advenimiento del “superhombre” (Übermensch). El “mensajero del nihilismo” fue un predicador militante contra el orden caduco y la moral convencional, pero lo hacía desde un profundo individualismo que se oponía a las distintas formas de dominio ejercidas sobre las masas con el oscuro objetivo de anular toda personalidad.
Y es aquí cuando percibimos que la figura solitaria, dramática y patética del rebelde, del anticonformista, parece haber desaparecido de la sociedad posmoderna. El declive del romanticismo y el advenimiento de la sociedad de masas han puesto de manifiesto la crisis del héroe, del intelectual comprometido con la disensión y la protesta, reduciéndolo a un mero personaje de ficción literaria. El neoconformista interpreta toda renovación como un atentado contra su seguridad. Atemorizado por el riesgo y la responsabilidad inherente al difícil ejercicio de la libertad personal, aprieta filas con el modelo colectivo. Es el hombre heterodirigido de Riesman o el hombre masa de Ortega y Gasset. Sin embargo, a lo largo del pasado siglo, diversos movimientos han respondido, intuitivamente en la mayoría de las ocasiones, enérgicamente las menos, contra esta homogeneización de las formas de vida.
Durante la década de los cincuenta aparecieron los llamados jóvenes airados o generación beat, espíritus extravagantes caracterizados por sus deseos de romper con las reglas del orden constituido. Forman un grupo promiscuo de bohemios, artistas fracasados, vagabundos, toxicómanos, asociales inadaptados y genios incomprendidos. Mezclan, en extraña confusión, ciertos gestos incomformistas respecto al sexo, las drogas, la amistad, con actitudes intolerantes hacia las formas de vida social, familiar e individual establecidas. Viven en pequeñas comunidades, desprecian el dinero, el trabajo, la moral y la política. Su culto a la rebelión anárquica se resuelve en una técnica existencial autodestructiva que suele concluir en el psiquiátrico, el reformatorio o el presidio. Los beats, en medio de la alucinación y el desespero intelectual, degeneron en lo absurdo, porque absurdo era el mundo en el que estaban obligados a vivir.
Marcuse, símbolo de la protesta estudiantil de los sesenta, intuía la contracultura como una gran negación y, como toda actitud negativa, suponía la afirmación de unos valores opuestos a la cultura en su sentido clásico. El mayo francés, con su imaginación al poder, dio vida efímera al fenómeno de la contracultura.: su temporalidad se debió, sin duda, a su carácter de negación, «porque aquel que reacciona contra algo afirmado no tiene iniciativa en la acción», en expresión de Evola. La contracultura intentó construir una alternativa diferente al futuro tecno-industrial, renovando la caduca cultura occidental a través de una revolución psicológica de la automarginalidad.
Por otra parte, la infracultura delincuente constituye una auténtica anticultura, cuyo código de honor consiste en trastornar las normas justas –o, al menos, aceptadas colectivamente- de la cultura dominante, a través de la ritualización de la hostilidad gratuita y el vandalismo, erigidos como principios éticos que no se dirigen a la obtención de un lucro inmediato, sino a la posesión del placer por lo ilícito, del riesgo por la violación de un tabú. Su comportamiento es incontrolado, carente de toda lógica, y su actuación es hedonista, inmediata, no programada, lo que la diferencia de la delincuencia profesional. Este tipo de rebelde fracasado, surgido de los sectores menos favorecidos –ahora la extracción se produce también entre los niños pijos consentidos-, ve en la propiedad ajena el símbolo tangible del éxito, razón por la cual su apropiación o destrucción constituye una singular venganza, un camino más sencillo que el de la autodisciplina, el sacrificio o el valor del trabajo.
La cultura urbana, a través de expresiones musicales como el rock y sus más modernos ritmos afroamericanos y de sus depresiones alucinógenas –mezcla de drogas, alcohol, música e imágenes estereotipadas-, ha creado nuevos tipos de protesta uniformada, es decir, una paradójica protesta neoconformista, totalmente absorbida por el sistema y por las corrientes de la moda. En nuestro país, este fenómeno de hastío moral degeneró en la movida, un mero gesto contradictorio expresado por las vías del espectáculo huero y el sensacionalismo absurdo. La movida, de repente, reaccionando en sentido contrario a la ley física que le dió su nombre, se detuvo. La vaciedad de su contenido provocó su muerte prematura.
De todo lo anterior se desprende que los hijos de la posmodernidad han aprendido una lección: la inutilidad del acto de protesta institucionalizado y la conveniencia de aceptar las leyes de la sociedad capitalista. Y he aquí que el antiguo revolucionario cambia de uniforme y se entrega en manos de la ambición desmedida, de la competitividad, el consumismo y la seducción. Es el prototipo del nuevo burgués descrito por Alain de Benoist. Mientras los medios de comunicación difunden este tipo humano robotizado, la publicidad lo eleva al altar como único ejemplo de valores eternos que merece la pena imitar. La fórmula lucro-especulación más placer teledigirido, divulgada por la estética urbana, fría y despersonalizada, ha triunfado finalmente.
En el lado opuesto se sitúan, incómodos y descolgados del tren pseudoprogresista, los nuevos bárbaros, personajes que parecen extraídos de los mitos de la literatura fantástica. Son auténticos rebeldes que rechazan, a veces cruentamente, el código cultural y moral hegemónico. Retorno a las formas naturales, gusto por el misticismo, espíritu de combate, tendencia al caudillismo y al sectarismo organizativo, pretensiones literarias y filosóficas, actuación marginal, a veces incluso extremista, son las líneas básicas que los definen, como si constituyesen una recreación de las bestias rubias de Nietzsche. Su inconfesable propósito es sustituir el espacio cibernético de Spielberg por la espada mágica de Tolkien.
Pero también hoy nos encontramos con un nuevo tipo de rebelde, que lucha por hacerse un sitio en el bestiario de la sociedad tecno-industrial. Es el hombre duro, incombustible emocional y espiritualmente, eternamente en camino, en constante metamorfosis nietzscheana, que ejerce su profesión como actividad no especulativa, que defiende su ámbito familiar y relacional como último e inviolable reducto de su intimidad, que participa con actitud militante en la formación de la opinión pública, que en fin, subraya sus rasgos propios frente a la masa y que está dispuesto a sacrificar su individualismo en aras de valores comunitarios superiores. No es hombre de protestas gratuitas o solemnidades falsamente revolucionarias. Busca la autenticidad a través de la resistencia a lo habitual, como un gerrillero schmittiano, aunque esta resistencia sea dolorosa y desgarradora porque se dirige, sobre todo, hacia el interior de sí mismo. En ocasiones también, su dramática existencia y el repudio de la sociedad demoliberal, le acercan a la revolución nihilista de los nuevos bárbaros. Este proyecto humano es aventura, destino no propuesto, la dimensión heróica y trágica del rebelde de Jünger, del nuevo hombre que resulta enormemente peligroso para el inmovilismo.
[Publicado en ElManifiesto.com]

mardi, 28 septembre 2010

El Hombre Multidimensional - 11 Tesis sobre el Hombre

El Hombre Multidimensional
11 TESIS SOBRE EL HOMBRE
 
SEBASTIAN J. LORENZ
 
 
 
tremois_visage_a_l_aigle_2004-02_conte_prd.jpgFrente al concepto totalitario y reduccionista del hombre como entidad unidimensional, acuñado por Herbert Marcuse, nosotros diversificamos lo que desde una posición clásica-liberal se vería como un único nivel, en multitud de dimensiones que –básicamente- se reagrupan en cuatro grandes estadios: la dimensión microfísica (la energía elemental), la macrofísica (la materia), la biológica (la vida como sistema orgánico) y la histórico-cultural. Así, el fundamento de lo específicamente humano se da por la intercombinación de las cuatro dimensiones, que sin ser de la misma naturaleza, guardan entre sí un equilibrio armónico, como un 'compositum', es decir, como un elemento estructural del que interesa retener, no difuminar, sus elementos reales y sustantivos.
La idea de un 'hombre multidimensional' parte de la concepción nominalista que se perfila en contraposición a todo universalismo, lineal y ecuménico, como reivindicación a ultranza de la diversidad específica (la desigualdad humana), que Heidegger utiliza en su análisis de la existencia humana (Dasein) como fase previa para dilucidar la cuestión más amplia del 'ser'.
1ª Nominalismo versus Esencialismo
Para Aristóteles y la filosofía escolástica las esencias de las cosas son realidades inmutables que se materializan, con variaciones accidentales, en todos los individuos de la especie. La esencia se realiza en distintas porciones de materia, dando lugar así a los individuos de la especie, quienes difieren entre sí no solo por ser materialmente distintos, sino tambien debido a diferencias accidentales, que no modifican su esencia. Este fundamento deriva en una clasificación subjetiva, no exenta de ambigüedades. Ya un filósofo neoplatónico, Porfirio, en un comentario a la lógica aristotélica, identifica a la especie humana por medio del género inmediato y la diferencia específica.
En biología, la concepción esencialista de la realidad se conoce como la concepción 'tipológica' de las especies. Pero la idea de que existe un modelo de hombre o tipo de hombre, con el cual se conforman todos los individuos de su especie es presumiblemente descabellada. De ahí que el nominalismo afirme que las especies carecen de realidad objetiva y que sólo los individuos existen. Las esencias de las cosas, los universalismos, son simplemente 'flatus vocis', nombres atribuidos para facilitar la comunicación. Cualquier sistema de clasificación de los organismos está basado en semejanzas accidentales. La validez de una u otra clasificación depende exclusivamente de su utilidad en la comunicación inter-humana, y esto ha de ser para nosotros un objetivo secundario en estos momentos.
Toda concepción no-igualitaria del hombre es fundamentalmente nominalista. Así, las diferencias entre los hombres no son acomulables comparativamente, de tal forma que solo el afán simplista articula conceptos universales a partir de observaciones concretas. "Para el nominalismo, dice Alain de Benoist, no hay existencia en sí: toda la existencia es particular. No hay hombre general, una humanidad, solo existen hombres particulares". El centro de la polémica se sitúa, pues, en el binomio diversidad-esencia, con lo que queda aclarada la base filosófica que debe guiar toda la disciplina anti-igualitaria y diferencialista.
La dicotomía entre filosofía nominalista y esencialista no es fácil de resolver, ni siquiera con alternativas intermedias. Si nosotros defendemos una concepción nominalista del hombre es por una razón simple: los hombres NO son creados de acuerdo a una esencia determinada, inmutable, en todos los individuos de la especie. Y ello, en aras del principio de diversidad y diferenciación.
2ª Herencia orgánica y herencia superorgánica
La investigación de la naturaleza humana puede comenzarse estudiando las semejanzas y diferencias biológicas entre el hombre y los antropoides. De ahí se llega pronto a descubrir caracteres únicos en la especie humana u homínida que, aunque fundamentados en su naturaleza biológica, van más allá de la biología. La evolución biológica ha producido al hombre, y al hacerlo, se ha superado a si mismo por la cultura.
Así existe en la hominidad dos clases de herencia: la biológica y la cultural, que también pueden ser llamadas herencia orgánica y herencia superorgánica. la herencia biológica es, en el hombre, semejante a la de los demás organismos dotados de reproducción sexual y está basada en la transmisión de la información genética codificada. La existencia de una herencia cultural se basa en un hecho simple: la diferencia con los demás animales reside precisamente en la dimensión cultural del hombre. La cultura abarca todas las actividades humanas no biológicas. En el sentido del término aquí usado la cultura es el resultado del hombre en su acción creador. Todo ese bagaje cultural conforma la 'tradición acomulativa' que se transmite de generación en generación. Los animales son capaces de aprender por instinto o por experiencia, pero no de transmitir esas experiencias a sus descendientes, al menos de forma eficiente. Esa es la diferencia fundamental que observa Ortega y Gasset entre el hombre y el animal: la posesión íntima por el ser humano de una 'memoria social' suceptible de ser transmitida acomulativamente, además de una 'memoria individual' que es característica común a todos los animales.
La herencia cultural o superorgánica hace posible la evolución cultural, es decir, la evolución de todos aquellos elementos que constituyen la cultura, y que ha originado un fenómeno de adaptación del hombre a la civilización fruto de esa herencia, o un contra fenómeno de rechazo, como advertía Lathrop Stoddard.
La adaptación humana por medio de la cultura prevalece sobre la adaptación biológica. Sin embargo ambas están íntimamente relacionadas. La cultura sólo puede apreciarse, e incluso aparecer, si existe previamente una base biológica adecuada. Al mismo tiempo, la cultura extiende sobremanera el poder adaptativo de la naturaleza biológica y constituye la fuente más importante de los cambios que emanan de la evolución biológica del hombre, dando por supuesto el concepto de evolución como 'devenir' histórico- orgánico. En definitiva, el hombre es un ser cultural por tradición acumulatva, y por ello sólo él es capaz de hacer historia, de transmitirla y también de destruirla.
3ª Sistema de valores: lo específico y lo innato
La concepción de que los hombres son seres éticos por naturaleza, diseñada por Aristóteles y Sto Tomás de Aquino, estaría, para ellos, enraizada en la naturaleza humana, es decir, en el propio proceso de hominización: el hombre no es sólo 'homo sapiens' sino también 'homo moralis'. Pero la evolución biológica añade una nueva dimensión del problema, ¿está la capacidad ética de los seres humanos determinada por su naturaleza biológica? ¿Están los principios y códigos morales determinados por ella?
Para la sociobiología no es que la justificación de las normas morales pueda encontrarse en la biología, sino que la evolución nos predispone a aceptar ciertos valores éticos, a saber, los que están de acuerdo con los objetivos de la selección natural. De ahí que la mayoría de las normas morales estén de acuerdo con tales objetivos y estén dirigidas, en gran parte, a promover los mismos resultados que la selección natural.
La ciencia y la ética pertenecen a dominios lógicos distintos, es decir que del examen de la realidad natural no se puede concluir cual sea la conducta moralmente recta o deseable, pues de lo contrario incurriríamos en la falacia naturalista. Para Wilson "la necesidad de un enfoque evolutivo de la ética es evidente, es igualmente claro que no es posible aplicar un código único de normas a todas las poblaciones humanas ni tampoco a personas de distintas edades, sexo o características. El imponer un código homogéneo es, por lo tanto, crear dilemas morales complejos e insolubles".
Para nosotros 'el pluralismo moral es innato'. La biología nos ayuda a determinar que ciertos códigos morales, especialmente los que pretenden ser universalistas, no son compatibles con la naturaleza humana y, por ello, son inaceptables. Incluso podemos llegar más lejos, como por ejemplo las capacidades de respuesta emocional que lo impulsan y lo guían, es la técnica indirecta por la cual el material genético humano ha sido y será mantenido intacto. "La moralidad no tiene otra función última demostrable".
Varios de los principios morales generalmente aceptados concuerdan con los comportamientos promovidos por la selección natural. Y es que la misma naturaleza biológica nos puede predisponer a aceptar ciertos valores éticos, pero no nos determina necesariamente a aceptarlos, es decir que no debemos confundir la 'influencia' o 'predisposición' con un determinismo salvaje. La aceptación de determinadas conductas morales no se realiza 'naturalmente' sino, en última instancia, por la conjunción libertad- elección de la personalidad o a través de consensus social.
En esta línea autores como Konrad Lorenz o Robert Ardrey, han propugnado que la agresividad y el imperativo territorial son tendencias naturales o impulsos elementales, como 'norma normarum', de los que surgen todas las demás pautas de comportamiento por ritualización, redirección o transformación, como son el principio de autoridad, el de jerarquía, etc. Este modelo preprogramado del comportamiento humano no es una restricción de la libertad sino una 'lex natura' condicionada por la memoria genética.
4ª Autoridad Ontogénica y Altruismo Intraespecífico
El hombre está predispuesto a la aceptación social de la autoridad, como atributo directamente favorecido por la selección y la evolución. Los seres humanos aparecen en condiciones de insuficiencia biológica mucho más acusada que en otros animales. La inmadurez biológica y la incapacidad de autosuficiencia es la base de los principios de sociabilidad y jerarquía. Especialmente en una hominidad primitiva (sin excluir por ello a la actual tecno-industrial), los miembros de un clan tienen mayor probabilidad de sobrevivir si acatan la autoridad. De esta forma, mutaciones genéticas que predisponían a la aceptación de la autoridad fueron favorecidas por el devenir selectivo y evolutivo, y llegaron a establecerse gradualmente en todas las comunidades. La existencia de un comportamiento altruístico intraespecífico, tanto en el hombre como en los animales, no parece explicarse como resultado de una selección natural realizada a través de un sistema de valores éticos progresivamente implantados, pues el hombre arriesgado, el héroe portador del alelo altruista, tendría pocas esperanzas de sobrevivir y, por tanto, el comportamiento altruista sería eliminado al cabo de ciertas generaciones.
Si consideramos el concepto sociobiológico de 'eficacia biológica inclusiva', para discernir la incidencia del comportamiento altruista, hay que tener en cuenta no sólo el riesgo del hombre como 'acción arrojada', sino también el beneficio obtenido por el resto de los portadores del alelo altruista. En definitiva, autoridad ontogenética y altruismo intraespecífico son de facto pulsiones vitales innatas, biológicamente predeterminadaas, que contribuyen a reafirmar el carácter multidimensional de nuestro nuevo hombre.
5ª Los principios de Jerarquía y Organicidad
La Etología ha demostrado que la agresividad es un impulso elemental del que derivan todas las demás pautas de comportamiento. La agresividad intraespecífica establece unas relaciones de tipo jerárquico en el interior del grupo, porque el instinto gregario de formar grupos sociales en la especie humana deriva de la doble acción de ese instinto de agresividad (no olvidemos por ello la división funcional de los grupos sociales): reorientado hacia fuera e inhibido hacia dentro, produce el nacimiento de una jerarquía que impone el orden y aumenta la cohesión interna frente a la presión exterior. El mito rousseauniano del 'buen salvaje' bien podría ser una utopía libertaria, pero carece de base científica alguna. Así los mecanismos filogenéticos que han fijado en nuestro material hereditario la tendencia agresiva, han previsto también como instinto inhibitorio y compensatorio la tendencia innata a la sociabilidad. Ahora bien, si estos fenómenos son elementales, se hacen cada vez más complejos, no ya por motivaciones biológicas, sino por el condicionamiento de la memoria cultural de la especie. La libertad del hombre reside, precisamente, en la aceptación de sus principios innatos, por un lado, y en su liberación de todo determinismo unidimensional por otro.
6ª El problema de la naturaleza del Hombre
El hombre no tiene naturaleza. La naturaleza es una idea intepretativa que arranca desde la perspectiva de la invariabilidad de sus leyes. En lugar de naturaleza el hombre tiene Historia, tiene Cultura. Aunque el hombre se mueve en el interior de esa naturaleza, no pertenece a ella, sino al contrario, se sitúa como ser de acción, frente a ella, afirmando su propio ser. El hombre entonces no es invariante ni perpétuo sino que está en constante devenir evolutivo. Al no poseer un ser dado, debe buscarlo eternamente, creándose un mundo nuevo. Y si el hombre es un ser histórico-cultural, pretenderá crear esa nueva forma através de su dimensión técnica. Nuestro estilo de hombre se diferencia del hombre-esclavo en que aquel se enfrenta no-violentamente a la naturaleza mediante la cultura tecnocientífica, mientras éste, el esclavo, considera la cultura y la técnica como naturaleza, sin ahondar en sus raices ni descubrir su propia dinámica. Porque según Alain de Benoist, entre los hombres y la Naturaleza existe una relación privilegiada de interdependencia dialéctica: el hombre actúa sobre la naturaleza y, por consiguiente, sobre sí mismo y sobre su especie, convirtiéndose en dueño y no en primitivo, en reformador y no necesariamente en destructor de su medio
7ª El Hombre Etnopluralista frente al Hombre Etnocéntrico
El hombre etnocéntrico considera a su grupo como centro de todo, proclama su superioridad y desprecia a los 'otros'. Divide al mundo en dos vectores contrapuestos: el grupo-de-nosotros que encarna el bien y la verdad, frente al grupo-de-otros, que según dice Pareto quedan reducidos a la posición simbólica del mal. De este modo todo hombre etnocéntrico (o en tanto que actua como etnocéntrico) es potencialmente culpable de etnocidio. Sin embargo, las ciencias antropológicas demuestran la variedad de la historia, el pluralismo de las culturas, la policromía del mundo y el polimorfismo del hombre. No existe en las culturas uniformidad y homogeneidad que expliquen o atestigüen la presuntuosa unidad del hombre. Frente a la imagen obsesionante de un hombre igual e inmutable, proponemos la visión dinámica de un hombre que se crea y se recrea, inventando, con una libertad que se mueve entre unos determinismos constantes, su propio estilo, en medio de la discontinuidad y la heterogeneidad. El hombre sectario o etnocéntrico se define por una mentalidad estrecha que considera su propio grupo como el único válido y objetivo.
Nuestra misión es combatir el prejuicio etnocéntrico, criticar el absolutismo dogmático, renunciar al orgullo de la única verdad. El hombre etnopluralista parte de una concepción que cree en la multiplicidad de 'etnos', en la pluridimensionalidad de la cultura, como riqueza no patrimonial de los grupos concretos.
8ª El Hombre como héroe
El heroísmo es una actividad del espíritu, por lo que en palabras de Ortega y Gasset, 'todos somos héroes'. Pero ese heroísmo no se limita, no está adscrito a ciertos sentidos específicos de la vida. Es por ello que el heroísmo alcanza la categoría de dimensión del hombre.
La biología, la sociedad y la cultura conforman la herencia real, pero el héroe no se contenta con la realidad, la hace y reforma en virtud de un 'proyecto que no es', sino que 'pretende ser'. De ahí que el hombre es héroe cuando es él mismo, cuando se convierte en hombre auténtico: esa autenticidad le hace abandonar la inercia colectiva y cualquier forma de socialización.
El hombre héroe se hace auténtico por su resistencia a lo habitual y por su invención de gestos originales (lo que Heidegger denominaba Man), pero esa resistencia es dolorosa y desgarradora porque no sólo se dirige al exterior, sino también hacia el interior de si mismo, despojándose de sus partes inauténticas, haciéndose íntegro. Este proyecto de si mismo es aventura, esencial vaivén constitutivo del hombre.
La dimensión heroica del hombre se basa, pues, en la Voluntad de éste; voluntad concebida no como facultad psíquica, sino como presión proyectiva de seguir adelante. Y por ello se complementa con la dimensión trágica del hombre, que no es fatalidad determinista, sino destino propuesto, no elegido, pero si querido por el hombre, como vocación.
9ª La Sociobiología, punto de partida
La aplicación de los descubrimientos de la biología general y del comportamiento animal al estudio del hombre y de la sociedad podría cambiar -como apuntó en su día Koestler- todo lo que se considera definitivamente establecido por la sociología convencional. E. O. Wilson define la sociobiología como 'una prolongación del darwinismo al estudio del comportamiento, que establece un lazo entre la evolución del organismo, la del pensamiento y la del espíritu'. Es decir, una disciplina que intenta demostrar cómo el hombre-social se adapta al medio por evolución y cómo ésta ha marcado sus comportamientos actuales. En la sociobiología confluyen varias corrientes: la Etología desde su enfoque sociobiológico, la teoría neodarwiniana y la aportación de la Ecología.
La sociobiología reconoce que cada hombre constituye una unidad biológica única y original, que afecta a las diferencias psíquicas e intelectuales entre individuos, haciendo válida la afirmación de Galton sobre la herencia de la inteligencia y la personalidad, porque la disparidad entre los seres humanos se basa, ante todo, en las aptitudes para tratar las informaciones, combinarlas, asociarlas e integrarlas. El punto de partida es, pues, que los hombres son desiguales por naturaleza
10ª La Filosofía, vía de Reflexión
La filosofía y las ciencias empíricas necesitan estar en armonía. En cuanto la filosofía trata de la posible naturaleza humana, la dimensión evolutiva de la realidad es inevitable. La filosofía intenta darnos una comprensión del hombre que va más allá de la observación directa, pero, aún así, no puede ignorar los resultados de la ciencia.
La filosofía es en sí misma inmutable y está fundamentada en los principios de identidad, contradicción y racionalidad suficiente. La Metafísica o la filosofía del Ser y de la trascendencia, por su generalidad y abstracción, trasciende todos los mundos posibles, pero por la misma razón, la metafísica no describe ningún mundo concreto entre los posibles. Según la tradición filosófica cristiana, ninguna concepción del hombre que contradiga los principios fundamentales de la metafísica es válida, pero cualquiera sería en principio posible si no los contradice. Sin embargo la labor del intelectual trasciende todas las limitaciones metafísicas y ahonda, sin cortapisas, en el campo de la reflexión, de la mano de la ciencia.
Por eso, toda filosofía de la naturaleza humana solo puede existir en dependencia del conocimiento científico, y no en contradicción con él. El concepto 'hombre', abstracción dinámica y evolutiva, es el ejemplo más claro en el que la ciencia provee a la filosofía con nociones fundamentales que deben ser tenidas en cuenta por cualquier sistema filosófico que pretenda ser auténtico. Ese debe ser nuestro primer objetivo.
11ª Hacia una nueva Antropología
Desconfiemos en estos temas de las indicaciones ofrecidas por el lenguaje de la obviedad y la evidencia, y aún más de los engañosos enunciados metafísicos o teológicos que todavía alardean de establecer apriorística o introspectivamente qué es o debe ser el hombre, cuál es la perenne estructura ontológica de la condición humana, su inmutable esencia, y cuáles son los fines últimos y absolutos de su existencia. El hombre, el objeto más difícil para el conocimiento, rechaza cualquier definición y se convierte en el punto de confluencia y de encuentro de toda una serie de investigaciones que se fundamentan en la complementariedad de las ciencias del hombre y de la Naturaleza.
Los fenómenos sociales, culturales e históricos son procesos caracterizados por una estratificación epistemológica muy compleja. Dicha estratificación implica que los problemas culturales y espirituales de la significación y el valor tengan siempre una premisa: una base biológica existencial que no es posible ignorar. En cuanto la naturaleza homínida es, en muchos casos, original e inventiva, no determinable con parámetros extrahistóricos o extraculturales, una antropología filosófica es una reflexión sobre la difícil posición del hombre en la naturaleza y el cosmos. El hombre está vinculado a sus ciclos vitales, a ritmos biológicos, a su patrimonio genético. Pero todo ello es un “terminus a quo”, un punto de partida, no un itinerario obligado que pre-determine la aventura del hombre en el tiempo y en la historia.

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mercredi, 01 septembre 2010

Kunstexpositie: Magievan de Herinnering

Kunstexpositie: Magie van de Herinnering
Op zondag 5 september 2010 zal Dr. Pavel Tulaev, directeur van het Russisch tijdschrift "Atheneum", in Vlaanderen te gast zijn om enkele hedendaagse Russische schilderijen voor te stellen.

De echte werken naar hier halen is op zo'n korte tijd onbegonnen werk. Daarom zullen de bezoekers kennis kunnen maken met prachtige reproducties. Deze reproducties zullen ter plaatse aan een prijsje aangekocht kunnen worden.

Dr. Pavel Tulaev bezoekt Vlaanderen nadat hij in Italië deelneemt aan het World Congress for Ethnic Religions.

U krijgt, met de medewerking van Euro-Rus, een unieke gelegenheid om met Dr. Pavel Tulaev en de werken van Russsische kunstenaars kennis te maken.

De gallerijtentoonstelling vindt plaats te Dendermonde, zaal-taverne 't Peird, Kasteelstraat 1, vlakbij de Grote markt en op korte wandelafstand van het station. De deuren gaan open om 11u00. Dr.Pavel Tulaev zal het woord nemen om 11u30. De gallerijtentoonstelling eindigt om 16u00.

Het wordt voor u zeker en vast een interessante en leuke zondagmiddag.

Wij hopen u dan in Dendermonde te mogen begroeten,

Euro-Rus

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Dr. Pavel Tulaev is de drijvende kracht achter het Russischtalige tijdschrift "Atheneum", reeds in 20 verschillende landen verkrijgbaar en verkocht. Hij zag het levenslicht op 20 februari 1959 te Krasnodar, Zuid-Rusland.

In Moskou studeerde hij in 1982 af aan aan de Moskouse linguistische staatsuniversiteit met specialisaties voor Spaans, Engels en Frans.

Hij is de drijvende kracht achter deze nieuw rechtse Russische denktank, die zich buigt over vraagstukken die de Russische, Slavische en Indo-Europese volkeren aangaan. Hij schreef zeer interessante en aan te raden stukken over Rusland, de Slaven, de Vierde Wereldoorlog, e.a. Verschillende werden reeds op de pagina's van Euro-Rus gepubliceerde.

Hij publiceerde reeds meer dan 100 stukken over Rusland, Europa, Latijns-Amerika en de Verenigde Staten. Hij gaf reeds verschillende boeken uit : «Крест над Крымом» (1992), «Семь лучей» (1993), «К пониманию Русского» (1994), «Консервативная Революция в Испании» (1994), «Франко: вождь Испании» (1998), «Венеты: предки славян» (2000), «Афина и Атенеи» (2006), «Русский концерт Анатолия Полетаева» (2007), «Родные Боги в творчестве славянских художников» (2008).

In niet-Russische talen publiceerde hij volgende teksten : Rusia y España se descubren una a otra. Sevilla, 1992; Sobor and Sobornost, – "Russian Studies in Filosophy", N.Y., 1993, vol. 31, № 4; Deutschen und Russen – Partneur mit Zukunft? – "Nation & Europa", 1998, № 11/12; Les guerres de nouvelles génération, – "Nouvelles de Synergies Européennes", Brussel, 1999, № 39; Intretien avec Pavel Toulaev, – Ibidem, № 40; Atak I zwyciestwo kazdego dnia.– "ODALA", SZCZECIN, 1999, numer V; Veneti: predniki slovanov.– Tretji venetski zbornik – Editiones Veneti, Ljubljana 2000; Сiм променiв – «Сварог», Киiв, 2003; Венети (превео са руског Владимир Карич), Београд, 2004; Pavel Tulaev: «Deutschland und Russland», "Der Vierte Weltkrieg" – DEUTSCHLAND UND RUSSLAND. Deutsche Sonderausgabe der Zeitschrift ATHENAEUM, Moskau, 2005; BUYAN SPEAKS. An interview with Pavel Tulaev conducted by Constantin von Hoffmeister for National Vanguard (USA), 2005; Рiдним богиням i берегиням – «Сварог», Киiв, 2006; Pavel Tulaev «Euro-Russia in the context of World War IV», Moscow, 2006; Pavel Toulaev «L'Euro-Russie dans le contexte de la Quatrieme Guerre Mondiale» Moscau, 2006; «La Russie: le grand retour» – Reflechir & Agir (Toulouse) №23, 2006; Pavel Tulaev «España y Rusia: dos suertes analogas» Discurso pronunciado en Madrid 4.11.2006; Павел Тулаев «Русия и Европа в условията на Четвърта Световна Война» 2006; ИнтервЉу са Павелом ТулаЉевом БУ£АН ГОВОРИ! (2007); Interview with Andrej Sletcha (Prage, 2008); etc.

Ook organiseerde hij verschillende congressen, waaronder het succesvolle congres van 2007 te Moskou "Europa en Rusland, verschillende perspectieven" waar Kris Roman Euro-Rus vertegenwoordigde.

Van 17 tot en met 25 juni 2010 organiseerde Dr. Pavel Tulaev een tentoonstelling van Russisch-Slavische meesterwerken. Met hetzelfde doel bevond hij zich reeds in West-Europese steden zoals Parijs.

http://www.ateney.ru/art/index.htm

lundi, 30 août 2010

L'ennui et la condition humaine

L’ennui et la condition humaine

par Pierre LE VIGAN

1113852222.jpgLe Magazine littéraire consacrait jadis un dossier à l’ennui (n° 400, juillet – août 2001) sous le titre : « Éloge de l’ennui. Un mal nécessaire ». En d’autres termes, il s’agissait d’une interrogation sur la positivité de l’ennui au travers une enquête sur l’ennui au travers le travail de divers écrivains, notamment Flaubert, Proust, Pascal, Beckett, Moravia, Cioran.

Le point de départ littéraire de la question se justifie. Montaigne relève que l’écriture est un remède contre l’angoisse de lire. La lecture est en effet inséparable de l’ennui. Plus précisément, elle se pratique sur fond de vacuité : sur ce fond sans fond que Flaubert appelle « marinade ». Mais de quel ennui est-il question ? C’est selon. C’est pourquoi une  généalogie de la notion est ici nécessaire.

Sénèque distingue l’ennui du chagrin. Ce dernier a généralement des causes précises, comme la douleur. L’ennui est plus vague et plus insidieux. Dans les Lettres à Lucilius, Sénèque voit bien que l’ennui peut aller avec l’agitation, et donc peut être une « activité oisive » : un divertissement impuissant à guérir de l’ennui. Comme remède à l’ennui, Sénèque propose l’activité qui remplit la vie, mais une activité sans se projeter dans l’avenir, une activité d’ici et pour maintenant. Parmi ces activités peut se situer l’écriture, non pas comme divertissement, non plus comme recherche esthétique (une création qui ne serait pas tout à fait une activité), mais comme art de s’appliquer dans l’effectuation des choses. Comme art, aussi, de gérer son emploi du temps. Car l’ennui, comme état de « plein repos » (Pascal), est le fond de la condition de l’homme. Quand l’homme est en repos, il repose sur quoi ? Sur rien. D’où la nécessité de se détourner du repos – d’un repos comme gouffre, d’un repos sans fatigue qui n’est alors qu’une chute. Corollaire inquiétant : si l’homme ne doit jamais être en repos, ne doit-il jamais faire retour sur soi ? L’état de réflexion serait en lui-même  source d’angoisse, de rupture de l’élan vital, d’acédie et d’ennui. C’est contre cette conception pessimiste – la lucidité inséparable de la dépression – que s’élève le janséniste Nicole. « L’ennui, soutient Nicole, touche l’âme quand elle est privée de cet aliment indispensable que sont pour elle les pensées » (Laurent Thirouin).

Pascal, de son côté, ne considère pas que les divertissements suppriment les côtés positifs de l’ennui que sont le sentiment de la gravité des choses et de la fragilité de notre être dans le monde. La légèreté du divertissement n’est pas une faute : elle protège, et c’est tant mieux, contre l’excès d’angoisse. C’est au fond une  forme de lucidité que de rechercher le divertissement. Il faut savoir « être superficiel par profondeur », comme Nietzsche le disait des Grecs. En d’autres termes, pour Pascal, c’est parce que l’ennui a sa place, mais ne doit avoir rien que sa place, que le divertissement a aussi sa place. Même si le seul vrai divertissement positif, c’est-à-dire le seul remède authentique à l’ennui, devrait venir de l’intérieur, et être la recherche constante du chemin qui mène à Dieu.

Dans la grande réhabilitation d’une nature humaine sans Dieu qu’opèrent les philosophes des Lumières, l’ennui comme péril devient le moteur de la recherche du beau, mais aussi bien du terrifiant que du « sublime » (Burke). Face à l’ennui d’un bonheur possible mais qui n’est jamais gai, l’effusion religieuse, ou amoureuse, ou les deux à la fois, apparaît une voie naturelle. Comme les Anciens, les philosophes des Lumières redécouvrent que la vie ne peut qu’osciller entre une léthargie qui n’est pas sérénité, et une inquiétude qui pousse, au mieux, à l’action pour l’action, au pire à l’agitation. « Vous me mandez que vous vous ennuyez, et moi je vous réponds que j’enrage. Voilà les deux pivots de la vie, de l’insipidité ou du vide », écrit Voltaire. « Ou l’on baille ou l’on est ivre », résume de son côté Diderot.  L’équilibre est ainsi difficile « entre la léthargie et la convulsion » (Sénac de Meilhan).

Le romantisme fait une grande place à l’ennui : « ennui d’exister » chez Senancour, désabusement chez Mme de Staël, « analyse perpétuelle » incapacitante chez Benjamin Constant. De son côté, Chateaubriand donne de l’ennui une interprétation particulière en écrivant : « On habite avec un cœur plein un monde vide; et sans avoir joui de rien, on est désabusé de tout ». L’ennui peut ainsi se nourrir du sentiment de n’être pas né pour le monde tel qu’il est : pas né pour le monde de la Révolution française (Adolphe de Custine), pas né non plus pour le monde de la Restauration et de la France post-napoléonienne et post-héroïque (Julien Sorel).

Au-delà de l’esprit du temps, ou du désaccord avec l’esprit du temps, l’ennui, comme le voit bien Stendhal, est une disposition psychologique, un sentiment profond d’incomplétude, d’impossibilité de saisir et de se saisir. « Notre plus grand ennemi est le temps » explique de son coté Alfred de Vigny. Et c’est de l’usure du temps, de l’usure par  le temps qu’il s’agit dans le romantisme. De fait, quand le temps ne permet pas une mise en tension du présent, ce dernier s’étire à l’infini, dans une durée torpide et Pise. Mais une durée qu’un souffle suffit à soulever. « L’ennui du constamment nouveau, l’ennui de découvrir sous la différence des choses et des idées, la permanente identité de tout, […] l’éternelle concordance de la vie avec elle-même, la stagnation de tout ce que je vis, au premier mouvement tout s’efface » (F. Pessoa, Le livre de l’intranquillité, Christian Bourgois Éditions, 1988). L’action sauve de l’ennui, d’où la supériorité de l’écriture sur la lecture.

Cet ennui qui est presque une figure du mal, voire du péché se trouve telle une « torture morale » (Pierre-Marc de Biasi) chez Baudelaire. L’introspection amène l’homme à se voir lui-même comme « une oasis d’horreur dans un désert d’ennui ». Cet ennui écœuré est tout différent de la sensibilité atmosphérique de Gustave Flaubert. Car c’est la question de l’identité, vue d’une façon très moderne, qui est au cœur non pas de l’ennui flaubertien mais bien plutôt de la mélancolie flaubertienne c’est-à-dire de son extrême et douloureuse attention aux questions du sens. « Quelque chose d’indéfini vous sépare de votre propre personne et vous rive au non – être », écrit-il. Ce « quelque chose d’indéfini », c’est l’énigme de l’« ennui profond » (Heidegger), c’est cette profondeur sans fond qui est l’exister lui-même. L’ennui, ainsi, n’est pas le contraire de la jouissance. Il en est la mesure même. C’est parce que l’ennui menace toujours que la jouissance est possible et qu’elle est nécessaire. Car l’ennui est moins ce qui est  que ce qui éloigne de ce qui est. Il est une fatigue comme prédisposition de l’être. Il est ce qui « suscite le désir de rien » (Jean Roudaut). Mais le désir de rien est encore un désir; c’est l’ennui des bouddhistes : un vide qui manifeste le plein. Un vide qui est volupté.

Tout autre est l’ennui qui vient de la révélation que « tout est déjà fini », que l’adhésion aux choses est précisément la chose la plus difficile du monde. C’est l’ennui de Cioran, l’ennui occidental, ennui d’une civilisation du sujet, et à ce titre un ennui fécond, un ennui qui pousse à l’écriture, comme l’écrit encore Jean Roudaut à propos de Samuel Beckett : « Écrire du coup est bien plus que faire l’exercice intellectuel de la mort, au sens où Montaigne prenait le verbe philosopher. C’est l’habiter ». Telle est l’ambivalence de l’ennui, entre la mélancolie qui ouvre à l’homme un site (il y a une jubilation du spleen), et l’acédie qui est l’expérience extrême de la non-prise, de la déprise sur les choses et sur soi. La modernité aimerait bien nous débarrasser de l’ennui. Mais nous n’avons pas fini de nous ennuyer, c’est-à-dire d’éprouver notre condition humaine.

Pierre Le Vigan


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

mardi, 13 juillet 2010

Les travaux de Tilak et Horken: sur les origines des peuples indo-européens

Map-8000BC.jpg Walther BURGWEDEL :

 Les travaux de Tilak et Horken : sur les origines des peuples indo-européens

 

Il arrive parfois que deux chercheurs, chacun pour soi, se rapprochent de la solution recherchée, si bien que chacun d’entre eux aurait abouti dans sa démarche plus rapidement s’il avait eu connaissance des résultats de son homologue. Je vais étudier la démarche de deux chercheurs, qui ne se connaissaient pas l’un l’autre, appartenaient à des générations différentes et n’ont donc jamais eu l’occasion de se rencontrer ni, a fortiori, de compléter leurs recherches en s’inspirant l’un de l’autre. Je vais essayer de rattraper le temps perdu, tout en sachant que le résultat de mon travail contiendra forcément un dose de spéculation, comme c’est généralement le cas dans tous travaux d’archéologie et d’anthropologie. Je ne pourrai pas travailler l’ensemble prolixe des connaissances glanées par mes deux chercheurs et je me focaliserai pour l’essentiel sur un aspect de leur œuvre : celle qui étudie le cadre temporel où se situent les premières manifestations protohistoriques des peuples indo-européens.  Je procéderai à une comparaison entre les résultats obtenus par les deux chercheurs.

 

J’aborderai trois de leurs livres qui, tous, s’occupent des premiers balbutiements de la protohistoire des peuples indo-européens. Nos deux auteurs n’étaient ni anthropologues ni archéologues et ignoraient leurs recherches respectives. Ils ont ensuite abordé leur sujet au départ de prémisses très différentes.

 

Voici ces livres :

-          Bal Gangadhar Tilak, The Orion or Researches into the Antiquity of the Vedas, Bombay, 1893.

-          Bal Gangadhar Tilak, The Arctic Home in the Vedas, Poona, 1900.

-          H. K. Horken, Ex Nocte Lux, Tübingen, 1973. Seconde édition revue et corrigée, Tübingen, 1996.

 

(…)

 

Dans ces ouvrages, nous trouvons trois assertions de base :

 

Chez Tilak : le Rig-Veda, d’après ce qu’il contient, daterait d’environ 6000 ans ; il n’aurait été retranscrit que bien plus tard (« Orion », pp. 206 et ss.).

 

Les auteurs initiaux du Rig-Veda, c’est-à-dire les hommes qui furent à l’origine du texte ou d’une bonne partie de celui-ci, vivaient sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique. Ils avaient développé là-bas une culture et une économie comparativement élevées par rapport au reste de l’humanité (« Orion », pp. 16 et ss. ; « Arctic Home », p. 276).

 

Pour Horken, les périodes glaciaires se sont manifestées à la suite des phénomènes liés à la séparation progressive du continent eurasien et du continent américain, d’une part, et à la  suite de l’émergence du Gulf Stream, d’autre part. Elles ont eu pour résultats de fixer de grandes quantités d’eau sous forme de glace et donc de faire descendre le niveau de la mer. De cette façon, les zones maritimes, normalement inondées, qui présentent des hauts fonds plats, ont été mises à sec, zones auxquelles appartient également le plateau continental de la zone polaire eurasienne. Sur le plan climatique, le Gulf Stream apporta une source de chaleur et les zones évacuées par la mer furent recouvertes de végétation, face à la côte française actuelle et tout autour des Iles Britanniques, en direction du Nord-Est. Après la végétation vint la faune et ses chasseurs, les premiers hommes d’Europe. Ainsi, l’espace occupé aujourd’hui par la Mer du Nord a été peuplé.

 

250px-Doggerland_svg.png

Nous avons donc affaire ici à une population qui a suivi cette voie migratoire, au départ, probablement, des confins occidentaux du continent européen ; cette population, profitant d’un climat clément dans la zone aujourd’hui redevenue plateau continental, a fini par atteindre la Mer de Barents, avant qu’au sud de celle-ci, d’énormes masses de glace accumulées sur le sol de l’actuelle Scandinavie, ne leur barrent la route d’un éventuel retour.

 

 

La durée de leur migration et de leur séjour dans les régions polaires arctiques a été déterminée par les vicissitudes de la période glaciaire, de même que le temps qu’ils ont mis à s’adapter à leurs nouvelles conditions de vie. Quand le Gulf Stream a commencé à ne plus atteindre les régions constituant leur nouvelle patrie, cette population a vu revenir les conditions préglaciaires, avec, pour conséquence, que la vie y devint de plus en plus difficile et, finalement, impossible. Cette population a été contrainte d’émigrer vers l’Europe centrale et le bassin méditerranéen ou, autre branche, vers l’espace indien, au-delà des massifs montagneux de Sibérie (« Ex nocte lux »).

 

Tilak, lui, avance des arguments plus fiables : il étudie les descriptions dans le Rig-Veda qui ne sont compréhensibles que si l’on part du principe que les auteurs initiaux ont vécu, au moment où émerge le Rig-Veda, sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique. Ce n’est qu’en posant cette hypothèse que les textes, considérés auparavant comme inexplicables, deviennent parfaitement compréhensibles. Tilak ne pose cependant pas la question de savoir comment cette population est arrivée dans cette région.

 

Horken, lui, nous offre une thèse éclairante, en se basant sur les phénomènes prouvés de l’histoire géologique de la Terre ; selon cette thèse, les événements qui se sont déroulés à l’époque glaciaire, plus spécifiquement à l’époque glaciaire de Würm, expliquent comment, par la force des choses, les premiers Européens sont arrivés sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique. La géologie lui fournit de quoi étayer sa thèse sur la chronologie de cette migration.

 

On peut évidemment supposer que nos deux auteurs ont écrit sur la même population. Pour prouver que cela est exact, il faut d’abord démontrer comment les choses se sont passées sur le plan géologique en s’aidant de toutes les connaissances scientifiques disponibles et en les présentant de la manière la plus précise qui soit. Toutes les données que je vais aligner ici relèvent d’évaluations qui devront, si besoin s’en faut, être remplacées par des données plus précises. Mais pour donner un synopsis de ce déroulement, cette restriction, que je viens d’avancer, n’a guère d’importance.

 

La dérive des continents a fait en sorte que le Gulf Stream, après avoir passé le long du littoral occidental de l’Europe, a atteint les glaces de l’Océan Glacial Arctique et les a fait fondre dans la zone de contact. D’énormes masses d’eau se sont alors évaporées et, par l’effet des forces Coriolis (*) se sont retrouvées au-dessus des massifs montagneux de Scandinavie ; en montant, elles se sont refroidies et sont retombées sous forme de neige (Horken). Ce processus, d’après les évaluations actuelles, aurait commencé il y a 32.000 ans. Plus tard, les masses d’eau se sont figées en glace et ont entrainé la descente du niveau de la mer, non pas seulement le long des côtes, comme on peut encore les voir ou les deviner, mais sur l’ensemble du plateau continental; par la suite, la flore et la faune ont pu s’installer dans cette nouvelle région abandonnée par les flots. On peut donc admettre que l’homme, qui migre en suivant les troupeaux ou selon les espèces végétales qui le nourrissent, ait atteint les régions polaires avant que le point culminant de la glaciation ait produit ses effets. Au départ, la population arrivée là-bas n’a dû se contenter que d’un petit morceau habitable du plateau continental.

 

Pour pouvoir préciser quand cette phase a été atteinte, la géologie doit nous aider à éclairer ou corroborer les données suivantes, relatives à la région polaire du continent eurasiatique : fournir une chronologie capable de nous dire avec plus de précision quand le niveau de la mer est descendu, quand la glaciation est survenue et sur quelle extension géographique.  La paléobotanique pourrait aider à compléter cette chronologie en nous renseignant sur la flore présente et sur la température moyenne annuelle qu’implique la présence de cette flore.

 

D’après une carte topographique du plateau continental en face des côtes de l’Océan Glacial Arctique, on devrait pouvoir reconnaître quelles ont été les régions de terres nouvelles disponibles pour une population migrante, qui, de surcroît, a sans doute été la première population humaine dans la région. Il faut toutefois tenir compte d’un facteur : le niveau de la mer a baissé partout dans le monde mais seulement selon un axe Ouest-Est, à commencer par la région du Golfe de Biscaye (Horken, p. 120) puis le long de toute la côte française actuelle, ensuite tout autour des Iles Britanniques ; le Gulf Stream a donc réchauffé toute cette immense région, jusqu’au littoral arctique de la Scandinavie, qu’il a ainsi rendu apte à la colonisation humaine, en modifiant le climat progressivement, jusqu’à épuisement de l’énergie thermique qu’il véhicule. Les flots qu’il pousse vers le Nord se refroidissent ensuite s’écoulent et retournent vers l’Atlantique, en faisant le chemin inverse mais sous les masses d’eau plus chaudes. Plus à l’est, les zones du plateau continental ont été également libérées des flots mais n’ont pas bénéficié indéfiniment des avantages offerts par le Gulf Stream et sont sans nul doute devenues tout aussi inhospitalières qu’aujourd’hui, vu la proximité des glaces du sud de la banquise.

 

Toutes les régions situées sur le littoral de l’Océan Glacial Arctique, qui font l’objet de notre investigation, se trouvent sur le plateau continental et dès lors ont été recouvertes par les flots lors de la fonte des glaces et de la montée du niveau de la mer. Il faudrait l’explorer davantage. En règle générale, le socle continental accuse une pente légère en direction du pôle, si bien que toute descente du niveau de l’océan correspond à un accroissement équivalent de terres nouvelles, également en direction du pôle. A hauteur de la Mer de Barents, par exemple, cela correspondrait, dans le cas extrême, à un recul de l’océan d’environ 500 km. Mais on peut estimer qu’une telle surface n’a pas été abandonnée par les flots : c’est ici que les géologues doivent nous apporter des précisions. Pendant la période d’occupation de ce territoire aujourd’hui retourné aux flots marins, tous les fleuves et rivières ont dû se jeter dans l’océan beaucoup plus au nord qu’aujourd’hui et il doit être parfaitement possible de repérer l’ancien lit de ces cours d’eau sur le plateau continental, comme nous pouvons d’ailleurs le faire pour l’Elbe dans la Mer du Nord. Ces fleuves et leurs affluents ont dû fournir de l’eau douce indispensable à la faune dans son ensemble et aux hommes.  On peut dès lors en déduire que des sites d’installation ont existé sur les rives de ces cours d’eau. Les limites respectives du permafrost sur le continent (ou sur ce qui était le continent) ont certainement eu une influence sur la progression des migrants vers le Nord, progression que l’on pourrait suivre d’après les traces laissées. La valeur que revêt la découverte d’os dans cette région est importante : elle nous donnerait de bons indices, dès qu’on en découvrirait. 

 

Horken nous a élaboré un modèle géophysique convainquant  pour nous expliquer l’émergence et la fin de la période glaciaire de Würm. Si, à titre d’essai, nous posons cette théorie comme un fait, nous devons tout naturellement constater qu’à l’époque glaciaire, le long du littoral polaire du continent eurasiatique,  des hommes ont vécu, qui devaient au préalable avoir résidé à l’Ouest de l’Europe centrale. Ils sont arrivés sur ce littoral polaire et, pendant longtemps, sans doute pendant quelques millénaires, ont dû y vivre sous un climat non hostile à la vie.

 

Tilak constate, en se basant sur le texte du Rig-Veda, que celui-ci a dû, pour sa matière primordiale, se dérouler dans une zone littorale polaire de l’Eurasie.

 

Pour ce qui concerne la durée temporelle de ce séjour, qui a vu l’émergence de la matière propre du Rig-Veda, nos deux auteurs avancent les faits suivants :

Tilak s’est préoccupé de l’âge des Vedas dans sa première publication (« Orion », op. cit.). Dans un grand nombre d’hymnes du Rig-Veda, Tilak a repéré des données astronomiques particulières et les a vérifiées sur base de la pertinence de ce que nous dit le texte de ces hymnes, d’une part, et sur les déductions étymologiques des descriptions que l’on y trouve, d’autre part. Comme l’objet de ses recherches n’était pas, de prime abord, le dit des hymnes védiques mais l’âge du Rig-Veda, il a pris en considération les phénomènes astronomiques décrits et ce, toujours en tenant compte de l’effet modifiant de la précession astronomique. Pour rappel : par le fait de la précession, le moment du printemps se déplace chaque année sur l’écliptique de 50,26 secondes, dans le sens ouest-est, ce qui nous donne un circuit entier au bout de 25.780 années. Tilak a ensuite étudié les interprétations d’autres chercheurs et explique pourquoi il ne partage pas leur avis. A l’époque où le Rig-Veda aurait émergé et où ses hymnes auraient commencé à jeter les bases de tous les sacrifices sacrés de la tradition indo-aryenne, le moment principal du cycle annuel était le moment précis où commençait le printemps, où le soleil revenait, c’est-à-dire, plus exactement, le moment même du lever du soleil quand les nuits et les jours sont strictement égaux. Il faut aussi que ce soit un moment du cycle annuel qui soit mesurable à l’aide de méthodes simples.

 

Tilak connaissait forcément le nom des figures zodiacales sur l’écliptique, telles que les astronomes védiques les nommaient. Contrairement à la pratique actuelle, les hommes distinguaient à l’époque vingt-sept signes du zodiaque. Tilak a fait l’importante découverte que le Rig-Veda a émergé sous la constellation d’Orion, car, il est dit que le moment du début du printemps, à l’ère d’émergence des chants védiques primordiaux, se trouvait dans la constellation d’Orion. En tenant compte de la précession astronomique, Tilak a daté les faits astronomiques relatifs au moment du début du printemps, que l’on trouve dans les hymnes védiques, et, ainsi, a pu établir que ceux-ci ont dû apparaître vers 5000 avant l’ère chrétienne.

 

Cette évaluation de l’âge du Rig-Veda chez Tilak, du moins dans la plus ancienne de ses publications (« Orion », op. cit.), doit être fausse.

 

Pourquoi ?

Ce que décrit Horken, en replaçant les faits dans le cadre de la dernière glaciation, celle de Würm, se voit confirmer par Tilak, et de façon définitive. Même quand il découvre que les événements décrits dans les hymnes du Rig-Veda se sont déroulés au départ dans une zone circumpolaire, Tilak n’a aucune idée cohérente quant à leur époque. Horken, lui, nous livre des données plus précises à ce propos, quasi irréfutables.

 

Nous apprenons de Tilak quel était le degré de développement atteint par les Aryas du temps du Rig-Veda ; déjà, dans son ouvrage intitulé « Orion », il rejette le doute émis par d’autres chercheurs quant aux connaissances astronomiques des Aryas des temps védiques : « je ne crois pas, écrit-il, qu’une population qui connaissait le métal et en avait fait des outils de travail, qui fabriquait des habits de laine, construisait des embarcations, des maisons et des chariots, et possédait déjà quelques connaissances en matière d’agriculture, aurait été incapable de distinguer la différence entre année solaire et année lunaire » (« Orion », pp. 16 et ss.).

 

Dans son second ouvrage, « The Arctic Home », Tilak avait décrit les gestes sacrés des prêtres, dont la tâche principale, semble-t-il, était de décrire les événements cosmiques et météorologiques, surtout pendant la nuit arctique. C’est ainsi que nous entendons évoquer, au fil des hymnes, des phénomènes et des choses qui nous permettent d’énoncer des conclusions d’ordre culturel. Dans un tel contexte, nous pouvons peut-être faire référence à un fait bien particulier : rien que nommer une chose ou un phénomène implique que cette chose ou ce phénomène étaient connus. Nous apprenons, surtout quand nous lisons les événements tournant autour de figures divines, que, par exemple, la première population védique utilisait l’âne comme bête de somme (p. 299), que les fortifications de Vritra étaient de pierre et de fer (p. 248), que Vishnou possédait des destriers de combat (p. 282), qu’on fait allusion à des embarcations de cent rames, bien étanches, à la domestication de moutons et au fer (p. 302, versets 8 et ss., 27 et 32), que cette population connaissait les bovins domestiques et avait des rudiments d’élevage et de fabrication de produits dérivés du lait (p. 303) ; un étable pour vache est même citée (p. 328) ; on trouve aussi un indice, par le biais d’un nom propre, que cette population travaillait l’or (p. 311), que Titra possède une flèche à pointe de fer (p. 335) et qu’un cheval, dédié à une cérémonie sacrificielle, est dompté par Titra et monté par Indra (p. 338 et ss.). Finalement, on apprend aussi l’existence de « destriers de combat de couleur brune » (p. 341).

 

Ce sont là tous des éléments que nous rapporte le Rig-Veda, dont l’émergence se situe quasi avec certitude dans une région correspondant au littoral polaire arctique. Cependant, cette émergence ne peut avoir eu lieu 5000 ans avant l’ère chrétienne car, à cette époque-là, la fonte des masses de glace de l’ère de Würm relevait déjà du passé ; sur le littoral polaire arctique régnait déjà depuis longtemps un climat semblable à celui que nous connaissons aujourd’hui ; le plateau continental était revenu à l’océan ; il est dès lors impossible qu’une existence, telle que décrite dans les hymnes védiques primordiaux, ait été possible sur ce littoral.

 

Il n’y a qu’une explication possible : Tilak, dans ses calculs, a dû oublier une période entière de précession. Cette impression nous est transmises uniquement par sa publication la plus ancienne, « Orion », où Tilak critique les affirmations de nombreux chercheurs : « La distance actuelle entre le krittikas et le solstice d’été s’élève à plus de 30°, et lorsque ce krittikas correspondait au solstice d’été, alors il devait remonter à beaucoup plus de temps par rapport au cours actuel de la précession de l’équinoxe. Nous ne pouvons donc pas interpréter le passage en question de la manière suivante : si nous plaçons le solstice d’été dans le krittikas, alors nous devons attribuer une datation plus ancienne au poème de Taittiriya Sanhitâ, correspondant à quelque 22.000 ans avant l’ère chrétienne ». On n’apprend pas, en lisant Tilak dans « Arctic Home », s’il déduit de ses constats et conclusions la possibilité ou l’impossibilité de cette datation. Sans doute a-t-il deviné qu’il risquait de faire sensation, et surtout de ne pas être cru et pris au sérieux.

 

En partant du principe que tant Tilak (à condition que nous tenions compte de la correction de ses calculs, correction que nous venons d’évoquer) que Horken sont dans le juste, suite à leur investigations et déductions, alors nous pouvons émettre l’hypothèse suivante quant au déroulement des faits :

Le Gulf Stream provoque une ère glaciaire. Dès que des masses glaciaires se sont accumulées en quantités suffisantes et que le niveau de la mer a baissé, de nouvelles terres sèches émergent sur l’ensemble du plateau continental. Aux endroits atteints par le réchauffement dû au Gulf Stream, ces nouvelles terres deviennent des espaces habitables, en croissance permanente au fur et à mesure que le niveau de l’océan baisse encore et que la végétation s’en empare ; elles s’offrent donc à la pénétration humaine. Les populations, habitant à cette époque dans l’Ouest de l’Europe, sans vraiment le remarquer car le processus dure sans doute des siècles, migrent vers les zones de chasse les plus avantageuses, en direction de l’est où elles rencontrent d’autres populations ;  ces populations sont avantagées par rapport à d’autres car elles absorbent une nourriture plus riche en protéines, issue de la mer et disponible tant en été qu’en hiver (Horken).

 

Il me paraît intéressant de poser la question quant à savoir à quel type humain cette population appartenait ; vu la lenteur et la durée du phénomène migratoire qu’elle a représenté, cette population ne s’est sans doute jamais perçue comme un « groupe appelé à incarner un avenir particulier » et n’a jamais été véritablement consciente de la progression de sa migration sur l’espace terrestre. S’est-elle distinguée des autres populations demeurées dans le foyer originel ? Et, si oui, dans quelle mesure ? Appartenait-elle au groupe des Aurignaciens ? Ou à celui des Cro-Magnons ? Etait-elle apparentée à cette autre population qui, plus tard, lorsqu’elle vivait déjà dans son isolat arctique (Horken), créa les images rupestres des cavernes situées aujourd’hui en France méridionale et atteste dès lors d’un besoin, typiquement humain, de création artistique ? Les populations migrantes étaient-elles, elles aussi, animées par un tel besoin d’art ?

 

Dans le cadre de l’Institut anthropologique de l’Université Johannes Gutenberg à Mayence, on procède actuellement à des recherches dont les résultats permettront de formuler des hypothèses plausibles ou même d’affirmer des thèses sur la parenté génétique entre les différents groupes humains. L’axe essentiel de ces recherches repose sur la tolérance ou l’intolérance à l’endroit du lait de vache (la persistance de la lactose), tolérance ou intolérance qui sont déterminées génétiquement, comme le confirment les connaissances désormais acquises par les anthropologues. Pour vérifier, il suffit de prélever un échantillon sur un os. Les connaissances, que l’on acquerra bientôt, permettront de découvrir plus d’un indice sur l’origine et le séjour de cette population le long du littoral arctique. Comme nous l’avons déjà dit, ces populations connaissaient déjà les « vaches » et le « lait » et, vraisemblablement, l’élevage du bétail.

 

Les conditions de vie dominantes dans cette région dépourvue de montagnes impliquent un maintien général du corps qui est droit, afin de pouvoir voir aussi loin que possible dans la plaine. Le manque de lumière solaire a limité la constitution de pigments de la peau, d’où l’on peut émettre l’hypothèse de l’émergence d’un type humain de haute taille et de pigmentation claire (Horken). Lors de la migration toujours plus au nord, ces populations s’adaptèrent aux modifications des saisons et, dès qu’elles atteignirent la zone littorale de l’Arctique, leur mode de vie dut complètement changer. La nuit polaire est longue et la journée est courte : sur ce laps de temps finalement fort bref, il faut avoir semé et récolté, si l’on veut éviter la famine l’hiver suivant. Tous les efforts, y compris ceux qui revêtent un caractère sacré, ont surtout un but unique : savoir avec précision quel sera le cours prochain des saisons et savoir quand l’homme doit effectuer tel ou tel travail (Tilak). Dans le Rig-Veda, on apprend que pour chaque nuit de l’hiver polaire, nuit qui dure vingt-quatre heures, on avait à effectuer un acte sacré et qu’en tout une centaine de tels actes sacrés était possible. Il n’y en avait pas plus d’une centaine (Tilak, « Arctic Home… », pp. 215 et ss.) et peut-être ne les pratiquait-on pas toujours.

 

De ce que nous révèle ici le Rig-Véda, nous pouvons déduire à quelle latitude ces populations ont vécu, en progressant vers le nord. De même, nous pouvons admettre que ces populations ont vécu le long des fleuves et aussi sur le littoral, parce que fleuves et côtes offrent une source de nourriture abondante. D’après le texte védique, on peut émettre l’hypothèse que ces populations présentent une persistance de lactose. Vu l’absence de parenté entre le bovin primitif et le bovin domestique européen, il serait extrêmement intéressant de savoir de quel type de « vache » il s’agit dans le Rig-Véda, où ces animaux sont maintes fois cités.

 

Sur le plateau continental de la Mer de Barents, on devrait pouvoir trouver des ossements de bovidés, afin de pouvoir élucider cet aspect de nos recherches. La faune locale, quoi qu’il en soit, a dû correspondre à celle d’un climat plus chaud. A la même époque, les populations probablement apparentées et demeurées en Europe occidentale dans les cavernes de France et d’Espagne, représentaient en dessins des bovidés primitifs, des bisons, des rennes, des chevaux sauvages et des ours, et surtout, plus de soixante-dix fois, des mammouths. Les « hommes du nord », eux, selon Horken, représentaient la constellation d’Orion par la tête d’une antilope (Tilak, « Orion »).

 

Le fait que le Rig-Véda évoque, chez les populations vivant sur les côtes de l’Océan Glacial Arctique, la  présence de certains animaux domestiques est d’une grande importance pour notre propos, puisque leur domestication a été datée, jusqu’ici, comme bien plus tardive. Pour ces animaux, il s’agit surtout de la vache (du moins d’une espèce de bovidé qu’il s’agit encore de déterminer), du cheval et du chien. Le Rig-Véda évoque deux chiens, que Yama va chercher, pour « garder le chemin » qui contrôle l’entrée et la sortie du Ciel (Tilak, « Orion », p. 110) ; dans le dixième mandala du Rig-Véda, on apprend qu’un chien est lâché sur Vrishâkapi. On peut imaginer que ces faits se soient réellement déroulés lorsqu’une existence quasi normale était encore possible le long du littoral arctique.

 

La glaciation de Würm a connu quelques petites variations climatiques, pendant lesquelles une partie de la couche de glace a fondu, ce qui a provoqué une légère montée du niveau de la mer. Pour les populations concernées, ces variations se sont étalées sur plusieurs générations ; néanmoins, le retour de la mer sur des terrains peu élevés ou marqués de déclivités a conduit rapidement à des inondations de terres arables, ce qui a marqué les souvenirs des hommes. De même, les phénomènes contraires : l’accroissement des masses de glace et la descente du niveau de la mer, soit le recul des eaux. Dans le Rig-Véda, un hymne rapporte qu’Indra a tué le démon de l’eau par de la glace (Tilak, « Arctic Home », p. 279). Sans doute peut-on y voir un rapport…

 

Quand la glaciation de Würm a pris fin graduellement et réellement, elle a eu pour effet sur les populations concernées que les étés sont devenus plus frais et bien moins rentables et que, pendant les nuits polaires devenues fort froides, la nourriture engrangée n’a plus été suffisante, entrainant des disettes. Dans le Rig-Véda, on trouve quelques indices sur la détérioration du climat (Tilak, « Arctic Home… », p. 203). Le contenu des textes védiques, qui contient des informations très importantes, a sans nul doute été complété, poursuivi et « actualisé ».

 

Les raz-de-marée, provoqués par des tempêtes, ont inondé de plus en plus souvent les terres basses, notamment celles qui étaient exploitées sur le plan agricole : la mer revenait et les populations devaient se retirer. A un moment ou à un autre, les plus audacieux ont envisagé la possibilité d’une nouvelle migration. On ne connaît pas le moment où elle fut décidée, ni les voies qu’elle a empruntées ni les moyens mis en œuvre. Quoi qu’il en soit, le Rig-Véda nous rapporte que le pays des bienheureux peut être atteint à l’aide du « vaisseau céleste dirigé par un bon timonier » (Tilak, « Orion », pp. 110 et ss.). Les voies migratoires et l’équipement des migrants ont pu changer au cours de leurs pérégrinations, car ce mouvement de retour, de plus en plus fréquent sans doute, a pu durer pendant plusieurs millénaires. Procédons par comparaison : l’ensemble de l’histoire de l’humanité compte, jusqu’à présent, 5000 ans ! Cependant, on peut déjà deviner qu’avant cela les populations s’étaient mises en branle, principalement en direction de l’Ouest, probablement à l’aide d’embarcations (Horken), pour déboucher en fin de compte dans le bassin méditerranéen, tandis qu’un autre groupe de population migrait du littoral arctique en direction du sud, en remontant le cours des fleuves et en traversant les barrières montagneuses de Sibérie, voire de l’Himalaya, en direction de l’espace indien. Horken, pour sa part, a publié une carte en y indiquant les endroits où, aujourd’hui, on parle des langues indo-européennes ; dans la zone littorale arctique, on les trouve surtout le long des fleuves, plus denses vers l’embouchure qu’en amont (p. 238).

 

Les migrants ont partout trouvé d’autres populations ; on peut admettre qu’ils se sont mêlés à elles, partout où ils ont demeuré longtemps ou pour toujours. De ces mélanges entre le « groupe du nord », au départ homogène, et les autres groupes humains, différents les uns des autres, ont émergé des tribus qui, plus tard, ont donné les divers peuples de souche indo-européenne (Horken). Elles ont un point commun : elles proviendraient toutes d’un foyer originel situé à l’ouest de l’Europe centrale, et, après migrations successives, auraient débouché dans l’espace arctique où elles seraient demeurées pendant plusieurs millénaires, tout en étant soumises à rude école. On peut aussi émettre l’hypothèse que des adaptations physiologiques aux rythmes saisonniers arctiques ont eu lieu. Un médecin américain a rédigé un rapport d’enquête après avoir observé pendant plusieurs années consécutives le pouls de ses patients, pour arriver au résultat suivant : les patients de race africaine présentaient les mêmes pulsations cardiaques tout au long de l’année, tandis que les Blancs europoïdes présentaient un rythme de pulsation plus lent en hiver qu’en été (Horken).

 

Les Indiens védiques ont la même origine géographique et génétique que les Blancs europoïdes et ce sont eux qui ont rapporté jusqu’à nos jours le message de ce très lointain passé qui nous est commun, sous la forme des chants védiques, surtout le Rig-Véda qui a été transmis par voie orale, de génération en génération, depuis des millénaires, sans jamais avoir subi d’altérations majeures ou divergentes. Cette transmission s’est effectuée en respectant une remarquable fidélité au texte que de nombreux passages de la première version écrite (vers 1800 avant l’ère chrétienne) correspond mot pour mot aux versions plus récentes, du point de vue du contenu et non de celui de la formulation lexicale (laquelle n’est plus compréhensible telle quelle par les locuteurs actuels des langues post-sanskrites). Le principal point commun est la langue, certes, mais il y en a d’autres. La Weltanschauung des Indiens et des Perses présente des grandes similitudes avec celle des Européens et plus d’une divinité des chants védiques a son correspondant dans le panthéon grec, par exemple, possédant jusqu’au même nom ! Il faudrait encore pouvoir expliquer comment les Grecs ont trouvé le chemin vers les terres qu’ils ont occupées aux temps historiques : en empruntant partiellement une voie migratoire que les Indiens ont également empruntée (c’est l’hypothèse que pose Tilak dans « Orion ») ou en passant par l’espace de l’Europe septentrionale ?

 

Un trait commun aux Indiens et aux Germains se retrouve dans le culte de la swastika, qui a dû revêtir la même signification dans les deux populations. Dans son livre intitulé « Vom Hakenkreuz » et paru en 1922, Jörg Lechler estime pouvoir dater la swastika de 5000 ans, en se basant sur des signes rupestres. Mais cette datation pourrait bien devenir caduque. Si les hypothèses avancées par Tilak et Horken s’avèrent pertinentes, des fouilles sur le plateau continental arctique devraient mettre à jour des représentations de la swastika.

 

On ne peut toutefois partir de l’hypothèse que ces « hommes du nord » ont occupé les parties du littoral plus à l’est, régions que le Gulf Stream ne fournit plus en énergie calorifique, ce qui ne permettait pas la diffusion de la végétation. Pourtant, des populations ont sûrement habité dans cette partie plus orientale du plateau continental, selon un mode de vie que nous rencontrons encore aujourd’hui chez les ressortissants de peuples et de tribus plus simples, se contentant de l’élevage du renne, de la chasse aux fourrures et de la pêche, et qui sont partiellement nomades comme les Tchouktches. Ces peuples étaient probablement habitués à un climat aussi rude que celui qui règne là-bas actuellement, ce qui implique que, pour eux, il n’y a jamais eu détérioration fondamentale du climat et qu’une émigration générale hors de cette région n’avait aucune signification. Certains chercheurs, dont M. de Saporta, pensent que certains peuples non indo-européens ont également leur foyer originel sur le littoral de l’Arctique (Tilak, « Arctic Home », p. 409).

 

Horken termine son ouvrage en émettant les réflexions suivantes : sur base des mêmes fondements géophysiques, qui ont fait émerger la période de glaciation de Würm, une nouvelle période glaciaire pourrait ou devrait survenir. Horken repère des transformations d’ordre météorologique dans la zone polaire qui abondent dans son sens, notamment, il constate qu’un port dans les Iles Spitzbergen peut désormais être fréquenté plus longtemps pendant la saison chaude qu’auparavant. Cet indice, il l’a repéré il y a plus de dix ans. Entretemps, nous avons d’autres géologues qui ont exprimé la conviction que nous allons au devant d’une nouvelle période glaciaire.

 

Walther BURGWEDEL.

(article paru dans « Deutschland in Geschichte und Gegenwart », n°4/1999 ; traduction  et adaptation française : Robert Steuckers).       

 

Notes :

(*) Le phénomène que l’on appelle les « forces Coriolis » s’inscrit dans la constitution mouvante de l’atmosphère terrestre : celle-ci est en effet toujours en mouvement parce que l’air chaud des tropiques se meut en direction des pôles, tandis que l’air froid des pôles se meut en direction de l’Equateur. Ce schéma circulatoire est influencé par un autre mouvement, impulsé par la rotation de la Terre autour de son propre axe. Cette rotation fait en sorte que les courants nord-sud s’infléchissent vers l’est ou l’ouest ; c’est précisément cet infléchissement que l’on appelle la « force Coriolis » ; celle-ci s’avère la plus forte au voisinage des pôles. Elle a été étudiée et définie par le physicien et mathématicien français Gustave-Gaspard de Coriolis (1792-1843), attaché à l’Ecole Polytechnique de Paris.

 

 

 

mardi, 27 avril 2010

Arnold Gehlen et l'anthropologie philosophique

Gehlen.jpgArnold Gehlen et l'anthropologie philosophique

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Les éditions de la Maison des sciences de l'homme viennent de publier Essais d'anthropologie philosophique,un recueil de texte du philosophe allemand Arnold Gehlen. Fondateur de l'anthropologie philosophique, sa réflexion porte sur l'homme en tant qu'"animal inachevé" (Nietzsche) mais "ouvert au monde". Considéré comme un des intellectuels conservateurs les plus importants  de XXème siècle, son oeuvre a été, jusqu'à présent, très peu traduite en français et donc largement ignorée de ce côté-ci du Rhin. Seules les éditions PUF ont publié, il y a tout juste vingt ans, un de ses ouvrages, un recueil de textes intitulé Anthropologie et psychologie sociale. Il convient aussi de noter que la revue Krisis d'Alain de Benoist a traduit un texte de Gehlen, Problèmes psychosociologiques de la société industrielle, dans son numéro consacré à la technique (n°24, novembre 2000).

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"Le premier article de ce recueil définit l'anthropologie philosophique comme la science de l'être humain, de concert avec la morphologie, la physiologie, la psychologie, la linguistique, la sociologie, etc. Science philosophique systématique et interdisciplinaire, elle est fondée sur des hypothèses exemptes de toute « métaphysique ». L’homme. Sa nature et sa position dans le monde (1940) présente les plus fondamentales. Deux articles publiés en 1951 et en 1968 leur ajoutent des éléments du pragmatisme anglo-américain et des éléments de la psychanalyse freudienne. L’idée essentielle de Gehlen est que « l’action et les transformations prévues du monde, dont la quintessence porte le nom de "culture", font partie de l’"essence" de l’être humain, et [que], à partir du point d’approche que constitue l’action, on peut en construire une science globale ».

Influencé par Kant, Herder et Fichte, mettant ses pas dans ceux de Jakob von Uexküll et de Konrad Lorenz, l’homme est selon lui une créature qui se maintient en vie par la transformation et l’amélioration permanente des données de la nature. Sa défectuosité biologique est compensée par l’invention technique. Dépourvu de « niche écologique », il s’adapte à tous les milieux, il est capable en dépit d’une pression intérieure immédiate d’ajourner son action ; cette espèce d’hiatus lui permet de la planifier, d’anticiper l’avenir.
Ces thèses ont nourri la réflexion de Jürgen Habermas, Hans Blumenberg, Ernst Tugendhat, Theodor Adorno.

Quand les pollutions, le dérèglement climatique, etc., menacent l’avenir de l’humanité, mais quand aussi s’expriment partout le souci de sa préservation, alors il est temps de découvrir l’anthropologie d’Arnold Gehlen."

mercredi, 14 avril 2010

Forme della personalità umana nell'Ellade

Forme della personalità umana nell’Ellade

Autore: Nuccio D'Anna

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

leonida.jpgUno degli aspetti più caratterizzanti nello studio dell’Iliade e dell’Odissea è la scoperta delle modalità da parte di tutti i personaggi che hanno un rilievo narrativo, di “entrare” in se stessi e di dialogare non solo con gli dèi che si svelano in ogni aspetto dell’accadere umano, ma anche di scrutare i propri sentimenti, di “guardare” il vasto mondo che si muove nella vita interiore. E’ una realtà particolare, non facilmente rinvenibile in altre civiltà antiche e tale da spingere alcuni studiosi del mondo ellenico ad ipotizzare una particolare capacità percettiva, probabilmente caratterizzante l’intero popolo ellenico, tesa a dare significato al senso vivo della personalità umana che già alle origini di quella civiltà ne ha reso unica la visione del mondo.

Agli albori del mondo ellenico l’uomo rappresentato da Omero ci rivela immediatamente quello che è stato definito “il suo vigile e chiaro pensiero“, una speciale capacità di guardare il mondo in modo impersonale pur avendo consapevolezza del valore del proprio Io in quell’atto essenziale, e poi di esprimere un giudizio che tiene conto contemporaneamente della realtà esteriore, della libertà insita in ogni scelta, del fatto che ciò che ne sostanzia il significato è la persona del singolo, l’uomo libero. Per esprimere questa tendenza profondamente connaturata, gli Elleni usavano il termine εύλάβεια = “circospezione”, “cautela”, che invitava ad un atteggiamento di prudente azione, di misurato rapporto prima con gli dèi, poi con il vasto mondo, infine con la comunità degli uomini. Un atteggiamento profondamente vissuto di misurato equilibrio rendeva ogni Elleno incapace di mostrare una eccessiva espansività e dava forza ad ogni loro atto nel quale si riteneva che i sentimenti dovessero dimorare come la sostanza dell’agire umano.

E’ la tragedia greca che rivela questo aspetto particolare del vivere. Qui l’uomo è continuamente messo di fronte a se stesso, alla grandiosità di sentimenti in grado di abbracciare il vasto mondo, ad emozioni che molto spesso sembrano caricarsi di un peso insopportabile, ma che nel punto in cui il protagonista li incanala nell’alveo della tradizione e li articola nella complessa sua vita interiore, risultano essenziali per la valorizzazione di sé, diventano la base per capire il significato del mondo e lo stesso “agire” degli dèi.

Nella stessa poesia lirica i vari poeti manifestano per la prima volta un senso della propria individualità che è un segnale della vivacità intellettuale di quel tempo. Essi parlano di sé, fanno persino conoscere il proprio nome, “esistono” come persone individuabili, con aspirazioni e ideali che differenziano ognuno di loro dagli altri e li caratterizzano come individui coscienti di una personalità irripetibile. Non basta dire che la lirica greca è strettamente legata a forme poetiche pre-letterarie, forse derivate dalla tradizione compositiva scaturita dal mondo del sacro, le cui radici affondano nei canti dei danzatori sacri, nei peana che arricchivano la vita rituale dei vari santuari, oppure nelle stesse canzoni popolari e contadine “ordinate” attorno a ritmi di un mondo antichissimo, tutto un insieme tradizionale che, come ha fatto notare Louis Gernet, costituiva l’elemento fondamentale della vita rituale del primitivo mondo ellenico. Quando la poesia lirica giunge al suo momento di maturità, l’individualità del poeta è chiara, non c’è nessuna possibilità di confondere le poesie di un Alceo con quelle di Saffo, le nitide descrizioni di un Anacreonte con quanto scrivono Bacchilide, Simonide o Stesicoro. Ognuno di loro canta ciò che lo distingue dagli altri e lo rende unico, irrepetibile; il canto è il frutto di una individualità che esprime un mondo interiore e un fluire di sentimenti assolutamente “personale”. La coscienza della propria personalità e del proprio mondo interiore non solo è chiaramente affermata, ma diventa il segno distintivo capace di valorizzare ogni uomo, anche coloro che ascoltano solamente questi canti, ognuno vi ritrova aspetti fondanti della propria vita interiore. Non c’è destino o fato che possa impedire all’Elleno di attingere a questo suo pulsare interiore, dove i sentimenti, gli impulsi e i valori tradizionali sono vissuti secondo modalità irripetibili, si incontrano, danno vita alla personalità individuale, ad un essere umano “completo”.

La grande filologia dell’Ottocento riteneva che nei due grandi poemi delle origini elleniche la coscienza dell’Io fosse poco evidente, qualcuno addirittura ne negava la presenza anche se l’ira di Achille, il ruolo di Ulisse, quello di Patroclo, di Ettore e di tanti altri sembravano smentire con ogni evidenza queste affermazioni, verosimilmente scaturite da una visione evoluzionistica della vita incapace di ammettere che poemi tanto antichi contenessero già tutto ciò che i filologi positivisti ritenevano caratteristico dell’uomo razionale ed “evoluto”, insomma, “moderno”. Ma la primitiva esperienza filosofica greca, la lirica, la tragedia e la stessa commedia ci dicono che la percezione dell’Io per l’Elleno era un fattore essenziale del suo modo di vedere l’universo, di percepire la vita del cosmo, di sperimentarne i ritmi, di guardare con un occhio che andava a penetrare lo stesso significato del vasto mondo.  Da ciò la varietà di termini, tipica del vocabolario ellenico, per esprimere l’atto del “vedere”, verbi che da una percezione puramente fisica a poco a poco ci trasportano in un ambito carico di significati astratti,  poi di simboli, di valori, di spiritualità. L’Elleno classico riteneva che questo suo sentimento dell’Io doveva essere vissuto fino in fondo, percepiva una distanza incolmabile fra ciò che lo caratterizzava in modo irripetibile e gli uomini che vivevano attorno a sé e sperimentavano un identico sentimento della propria specificità. Non concepì l’Io come un limite da controllare o da sopprimere, ma come un valore fondamentale capace di rendere irripetibile la stessa esistenza, caratterizzante anche le personalità divine, persino il modo di essere degli stessi dèi olimpici.

La tragedia ci rappresenta spesso un personaggio-eroe di fronte all’enigma di  sconosciute potenze estranee alla propria vita quotidiana che vorrebbero condizionarne l’esistenza, obbligarlo a scelte non appartenenti alla sua interiorità, al suo naturale atteggiarsi come un essere libero posto di fronte al vasto mondo. In questi momenti l’Elleno attinge al suo Io che “vuole”, alla volontà di determinare la stessa esistenza, di restare fedele al destino che gli è stato assegnato, di non abbandonarsi, di esigere da sé non solo il totale controllo della propria vita, ma anche di affrontare la morte, il momento ultimo dell’esistenza, con la consapevolezza di aver vissuto l’”attimo” irripetibile che è l’essere se stessi forgiando il proprio capolavoro, la propria esistenza. Per questo la sua appartenenza alla polis, ad una comunità completa ed organica, non diminuiva il senso dell’Io, il valore assegnato ad una interiorità ricca e variegata, ma si riteneva che la persona umana e la “ricchezza” di valori che ne distingueva il modo di essere, doveva essere in grado di completarsi nella vita sociale, non di spegnersi o annegare in un  “collettivo statale”.

Questo spiccato senso dell’Io ha una particolarità: il differenziare il soggetto da  un oggetto posto fuori da chi contempla la natura con sue leggi specifiche, non assimilabili a quelle dell’uomo, comporta la capacità di interpretare le leggi di quel mondo, di enucleare una loro formulazione, di astrarre dall’esperienza unica ed irripetibile del singolo delle definizioni logico-razionali che ne dovranno fare capire il significato e le costanti valide non solo per chi ha sperimentato questa capacità, ma anche per coloro che non ne sono consapevoli e restano ai margini della sua ricchezza analitica e descrittiva. Nasce la volontà di astrarre concetti logici, e dunque leggi valide universalmente quand’anche non se ne sappia comprendere il processo costruttivo. La filosofia e la scienza ellenica, il primo risultato di questa attitudine astrattiva, presuppongono un Io che analizza, si pone come soggetto riflessivo che astrae dall’esperienza contenuti ormai spesso persino estranei all’etica e al mondo del sacro. Affiora la prima esperienza di un pensiero laico.

Nella civiltà ateniese che raggiunge il sua apogeo al tempo di Pericle, la consapevolezza del valore della libertà umana è piena e condivisa. La libertà viene considerata un valore oggettivo al quale non è assolutamente possibile rinunciare se non perdendo la propria identità di uomo. E tuttavia Pericle non teme di proclamare che il limite di questa libertà sta nelle leggi che strutturano l’ordinamento giuridico e danno definizione appropriata alla libertà civica, che indirizza ognuno ad essere non solo un uomo libero, ma un cittadino libero che assieme ad altri suoi eguali esercita il proprio diritto. Il rischio di un ordinamento politico come quello dell’Atene del V secolo era che nel punto in cui cessava di essere tutelato da una personalità eccezionale come quella di Pericle, si potevano verificare forme di sfaldamento verso un individualismo esasperato che poteva condurre non solo alla decadenza dello stato, ma al suo diventare preda di avventurieri affascinanti. E’ quello che accadde alla morte di Pericle nella temperie particolare succeduta alla fine delle guerre peloponnesiache, la “guerra civile” del mondo ellenico che condusse gradatamente alla perdita della libertà e alla sottomissione all’impero macedone.

La consapevolezza del valore dell’individualità umana, il dovere di agire secondo coscienza e in piena libertà, non porta l’Elleno a staccarsi dai valori religiosi che ne sostanziano l’esistenza e nel quotidiano arricchiscono la sua vita comunitaria, i ritmi della convivenza cittadina. Quella “legge divina” il cui valore fu potentemente tratteggiato nelle tragedie di Eschilo, attraversa ogni aspetto della vita del singolo e della comunità cittadina (“tutte le leggi umane traggono nutrimento dall’unica legge divina”, egli ci dice), e non c’è abitante della Grecia arcaica, dal più umile dei contadini al più arrogante dei governanti che non ne sia stato consapevole.

Anche se i Sofisti cercarono con i mezzi della dialettica e con una parola onnipervadente di fare sperimentare una diversa dimensione dell’Io completamente staccata dai valori tradizionali; anche se molti membri dell’élite nobiliare ateniese pensarono di aderire a questa nuova realtà capace di svincolare l’Io da ogni legame rituale, di appartenenza o di eredità, la gran parte degli Elleni non si riconobbe in questa nuova predicazione che commisurava ogni cosa alla capacità di persuadere con la parola, di ammaliare, di rendere non significante ogni valore, il vivere individuale e la stessa comunità cittadina tutta. In un’epoca nella quale sembrava trionfare la ricchezza e il potere, Socrate volle ricordare che i valori reali non stavano nell’apparenza e nell’arbitrio individuale, ma nel valore che l’uomo assegnava a se stesso. Socrate valorizza il sentimento dell’Io in rapporto all’interiorità umana, alla ricchezza che riteneva di trovare nell’animo umano e alla possibilità di scoprire il Bene come un elemento essenziale e assolutamente primario nella vita dei singoli e della realtà comunitaria. Certo, il suo insistere nel dialogo con tutti per cercare quella che sembrava l’irraggiungibile verità, poteva farlo sembrare simile ai Sofisti, apparentarlo al loro modo di essere, alla loro sfrenata dialettica, e Aristofane non mancò di ridicolizzare questi aspetti del metodo educativo di Socrate. E tuttavia la sua ricerca ha un fine, mira a stabilire una precisa condizione interiore dell’uomo, a fare emergere una certezza nella quale il Bene si identifica con la coscienza dell’uomo retto. E’ una scoperta dalle conseguenze importanti che Platone non mancherà di sviluppare. Il giusto non può più sottrarsi alla verità che affiora nella propria anima, una verità che vive della certezza di azioni pure e rette, si alimenta nel rispetto della propria interiorità, si nutre di una giustizia non più delegata alle istituzioni, ma resa viva da una vita vissuta come conformità al Vero e al Bene. La grandezza della morte di Socrate, il Giusto che affronta il proprio destino pur nella consapevolezza della sentenza ingiusta decretata da un tribunale ostile e di parte, conclude una vita vissuta secondo giustizia e senza tentennamenti: l’ingiustizia (=la fuga dalla prigione preparata dai suoi discepoli) non può sostituire l’altra ingiustizia, quella che hanno orchestrato i suoi nemici condannandolo a morte. Socrate dimostra con la propria morte accettata consapevolmente e con virilità, che il rispetto delle leggi della patria non deve ridursi ad un atto esteriore “obbligato” dalla forza dello stato, ma è un “modo di essere” scaturente da una forma interiore, dalla consapevolezza che il Giusto coincide con il Bene e dimora nell’animo dell’”uomo nobile”. La legge non è una norma empirica creata per regolamentare una astratta comunità, ma è la “forma formante” della vita degli uomini liberi. L’uomo che vive della propria ricchezza interiore, si nutre di un’etica capace di rendere la vita degna di essere vissuta, non può eludere il richiamo della giustizia. Anche quando ogni cosa parrebbe giustificare la trasgressione e gli altri uomini approverebbero.

E tuttavia, per quanto attento al valore della persona, alla ricchezza dell’interiorità umana, alla consapevolezza che ogni uomo vive in rapporto con una comunità cittadina, in Socrate non troviamo una compiuta dottrina dello Stato e dei rapporti fra i cittadini. Pur nella viva e straordinaria attenzione al senso della comunità e al valore delle leggi comunitarie che l’uomo libero ha scelto, non c’è in Socrate una dottrina dello Stato, almeno non ne è rimasta traccia nelle testimonianze arrivate fino a noi. La sua attenzione al Bene come valore essenziale che giustifica il significato dell’esistenza umana, non si traduce in una riflessione compiuta sul “bene comune”, sulla società e le sue istituzioni.

L’arcaica società ellenica era arrivata alle forme di vita nella polis dopo un lungo processo che aveva trasformato antichissime tradizioni cui erano legati tutti i popoli dell’Ellade. Al centro della vita familiare troviamo il padre che nell’età arcaica copriva aspetti pontificali connessi alla sua funzione di sacerdote domestico. La madre, invece, era la garante della perpetuità del recinto familiare, del prolungamento nel tempo della famiglia, non una somma di individui legati da sentimenti, ma un tipo particolare di confraternita sacra diretta dal capo-famiglia che ne officiava i riti ancestrali conservati con cura e gelosamente custoditi e trasmessi da padre in figlio. Più all’esterno c’era il genos, costituito da tutti i “rami” che praticavano lo stesso rituale e spesso si riunivano attorno ad una tomba-ara gentilizia. La tribù riuniva una serie di genos attorno ad un culto unitario che veniva celebrato da tutti i membri nell’anniversario dell‘eroe eponimo. Quando le tribù elleniche cominciarono ad urbanizzarsi è evidente che tali ordinamenti poggianti su strutture gentilizie e familiari, non potevano più reggere e fu necessario un riadattamento sfociato in quella particolare struttura sociale da Aristotele definita il governo dei “liberi governati”.

Hoplites.jpgLa prospettiva politica di Aristotele muove dalla constatazione che l’organizzazione statale è la condizione stessa del vivere civile. E’ all’interno della polis che l’uomo può soddisfare non soltanto i suoi bisogni materiali, ma anche quelli morali solo che riesca ad equilibrare la libertà della comunità cittadina con la norma o costituzione che regola la vita civile, realizzando la concordia fra i membri dello stato, concordia che permette la partecipazione di “diritto” e di “giustizia” alla vita pubblica. Aristotele non fa altro che teorizzare la vita cittadina nella sua dimensione etica, analizzando oggettivamente una realtà politica ritenuta ormai “normale”. Nella vita comunitaria l’uomo può adempiere a funzioni altrove impossibili; solo nella realtà sociale si concretizza interamente una armonica maturazione della persona umana; solo in rapporto agli altri è possibile commisurare la grandezza di un essere libero. E’ questa dimensione che rende “vera” la celebre definizione di Aristotele secondo cui “l’uomo è un animale sociale”, nella sua interezza concepibile solo in rapporto agli altri uomini e alle istituzioni datesi liberamente da tutti i cittadini. Si tratta di una prospettiva particolare, che in sè rappresenta una novità rispetto ad altre elaborazioni di tipo politico che i vari pensatori greci non avevano mancato di elaborare. Si pensi a questo proposito a Platone e ai fondamenti dello stato da lui delineati, alle tre “classi sociali” che sostanziano il suo ideale di uno stato armonico, un ideale che G. Dumézil ha ritrovato in tutte le civiltà derivate dalla preistoria indoeuropea. Si pensi a questo proposito ai vari legislatori ellenici che in età arcaica, al sorgere delle città, ne hanno dettato i fondamenti giuridici e hanno costituito molto spesso l’elemento fondante delle molte colonie nate dalle ondate migratorie condotte all’insegna della spiritualità apollinea.

C’è in Platone una preminenza dello stato rispetto ai cittadini giustificata nella prospettiva dello “stato ideale”, di un ordinamento ideale che si ritiene possa essere il solo a conservare l’eredità più antica dell’Ellade, agli occhi di Platone l’unico in grado di garantire l’equilibrio del corpo sociale. Nelle sue tre opere politiche, la Repubblica, Le Leggi e il Politico, lo stato è la “forma” capace di dare ordine ad una sostanza=demos che lasciata a se stessa rischia di restare amorfa poichè in sé contiene elementi di dispersione e di disordine che impediscono ogni pur piccolo tentativo di erigere una società ordinata. E’ anche per questo motivo che lo stato ideale di Platone diviso nelle sue tre “classi sociali”, non fa che riflettere le tre “potenze dell’anima” che costituiscono il complesso della vita interiore di ogni uomo retto. L’ordinamento dello stato ideale, quello che probabilmente doveva attualizzare sul piano filosofico una arcaica consuetudine un tempo ben viva presso tutti i popoli indoeuropei, oggettiva l’armonia che regge la vita dell’uomo arcaico, un “corpo sociale” capace sul proprio piano di riprodurre la gerarchia delle “potenze” che ritmano la vita interiore dell’organismo umano.

La prospettiva delle Leggi è diversa. Platone qui sembra più attento a dare indicazioni perché si formi uno stato che nella realtà delle condizioni decadenti della Grecia del suo tempo possa adempiere alla sua funzione formativa, uno stato capace hic et nunc di enucleare le leggi e gli ordinamenti che devono essere come la “spina dorsale” di un corpo vivo il cui compito continua ad essere quello di dare “forma” all’informe. Proprio per queste ragioni qui è possibile trovare alcuni cenni a tradizioni antichissime nelle quali predominavano aspetti iniziatici che intendevano trasformare il giovane in un guerriero pienamente integrato nella propria comunità. A questo proposito è forse utile fare un cenno a Sparta e alla sua struttura cittadina per le oggettive similitudini che è possibile rinvenire con alcuni aspetti delle dottrine platoniche. L’ordinamento elaborato da Licurgo, che si incentrava sulla supremazia degli Spartiati e sulla selezione più rigorosa per ottenere un’élite dirigente presso la quale le caratteristiche guerriere dovevano essere assolutamente predominanti, non era altro che il tentativo di perpetuare in una società urbanizzata, strutture iniziatiche appartenenti al passato guerriero delle tribù doriche che in un’epoca ormai confinata nel mito avevano invaso il Peloponneso. Non si tratta solo della rigida educazione guerriera che, d’altronde, anche le altre città elleniche possedevano e aveva formato quei magnifici combattenti che avevano fermato l’assalto dei Persiani salvando la civiltà ellenica. Il fondamento statale spartano restava il rigido senso della comunità, la preminenza data allo stato e alla patria, la consapevolezza che la libertà del singolo non significava nulla fuori di quel contesto comunitario, il senso della custodia di valori antichissimi trasmessi mediante metodi educativi i quali, quanto ai fini, in parte è possibile trovare anche in altre aree culturali.

La prospettiva di Aristotele, questo straordinario discepolo sostanzialmente “infedele” di Platone, tuttavia è cambiata. Al centro della sua riflessione non c’è più lo stato, il genos, la fratrìa o le arcaiche famiglie con i loro culti e i loro rituali ancestrali. Lo stesso stato acquista un rilievo particolare, perde la sua preminenza sulla società e diventa l’elemento di coesione e di identità della comunità cittadina. Al centro ora troviamo il cittadino di una città che molto spesso ha eliminato tutte le tracce degli ordinamenti antichi e che non intende più ordinarsi attorno alle tradizioni custodite dalle famiglie patrizie. E’ un rivolgimento che rende molto diversa la prospettiva aristotelica e giustifica la sua attenzione al cittadino senza radici di una città cosmopolita e tesa ad aperture verso mondi nuovi che necessariamente in antico non era possibile neanche concepire. Il cittadino deve esplicare la sua libertà individuale nell’ambito di ordinamenti liberamente accettati e condivisi, deve vivere una vita sociale che è come il segno distintivo della sua ricchezza creativa, deve concorrere ad ordinare il mondo circostante e i suoi concittadini con piena aderenza allo spirito e alla lettera delle leggi, ormai diventate la vera  “ossatura” dello stato, alle quali egli stesso ha concorso.

Secondo Aristotele l’unità dello stato e la concordia dei cittadini, ossia l’equilibrio dell’organismo che egli ha in vista, non può essere conservata a lungo se le famiglie e i gruppi sociali sono economicamente dipendenti, se vige un sistema economico incapace di garantire l’autonoma esistenza dei vari corpi sociali e dei singoli cittadini. L’enucleazione del principio della proprietà privata come elemento assolutamente indispensabile per il libero esercizio della libertà individuale è uno degli elementi che danno alla dottrina aristotelica dello stato quei caratteri di “modernità” che da sempre ne hanno reso importante lo studio e la riflessione. I proprietari, sostiene Aristotele, proprio per la loro attività amministrativa, sono abituati a rispettare il diritto, a chiedere che le leggi abbiano una definizione chiara e non discussa, a decidere autonomamente e liberamente l’utile per se stessi e per la comunità cittadina tutta. L’attenzione aristotelica per questi aspetti della libera espressione della personalità umana, in sé una forma di “allargamento” e di consolidamento dello spazio di libertà individuale, si potrebbe definire come una prima delineazione di forme di sussidiarietà che solo le moderne encicliche papali hanno sviluppato in modo consequenziale.

E tuttavia il cittadino-proprietario che intende rimanere estraneo alla vita politica della propria città non può far parte del sistema politico che Aristotele ha in mente. Il cittadino deve partecipare delle decisioni politiche, il suo contributo alla vita comunitaria costituisce uno dei momenti essenziali della sua stessa vita di uomo libero, ne contrassegna il modo di essere e alcune delle stesse finalità esistenziali. L’ideale pan-ellenico del “governo dei governati” non può realizzarsi se non nel presupposto di un cittadino libero che esprime il proprio punto di vista, partecipa alla vita sociale e concorre alle decisioni dello stato. L’assunzione di responsabilità è insita in questa condizione di libertà individuale. Non potrebbe esserci per Aristotele un governo rappresentativo al quale delegare la vita legislativa. Non c’è delega che il cittadino della polis possa accettare, egli deve concorrere liberamente alla formazione delle leggi, ne deve vedere i risvolti, persino convincere gli altri di eventuali errori: il dialogo sociale è la forma della partecipazione diretta in un organismo che ha eretto al centro della propria esistenza un sistema di valori da tutti condivisi.

Nuccio D'Anna

dimanche, 28 mars 2010

Ethnopluralismus statt multikultureller Gesellschaft

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

RFJ-Grundsatzreihe - Band 4
Ethnopluralismus statt multikultureller Gesellschaft

Verfasser: Andreas Zacharasiewicz

Alle Rechte sind dem Verfasser vorbehalten
 
Zusammenfassung
Aus verschiedenen Gründen wird das Thema Einwanderung auch in den nächsten Jahrzehnten in Diskussion bleiben. Die tägliche soziale Praxis, die historische Erfahrung und der gesunde Menschenverstand lehren uns, dass das Zusammenleben verschiedenster Kulturen in einem Staat bzw. eine multikulturelle Gesellschaft sehr konfliktreich und schwierig ist.

Dieser Aufsatz analysiert die „tieferen Gründe“ dafür und sucht die Frage zu beantworten, weshalb sich die Menschheit in unterschiedliche Kulturen „aufteilt“. Dabei stützt sich der Beitrag stark auf die Forschungsergebnisse der Vergleichenden Verhaltensforschung (v.a. Irenäus Eibl-Eibesfeldt, ehemaliger Schüler von Konrad Lorenz).

Demnach verfügt der Mensch (ebenso wie die Tiere) über angeborene, stammesgeschichtliche Anpassungen („Instinkte“), die im Laufe einer jahrzehntausende langen Evolution herausgebildet wurden. In dieser Zeit lebten die Menschen als Jäger und Sammler und das menschliche Gehirn wurde auf die Anforderungen dieser Lebensweise  programmiert.

Zu diesen Anpassungen zählt etwa die Xenophobie (=Fremdenscheu), die sich in einem ambivalenten Verhältnis gegenüber Fremden äußert; Bei Säuglingen als „Fremdeln“ bekannt.

Auf diese angeborene Konstante, die dem Schutz des Kleinkindes dient, baut die Bildung von größeren Menschengruppen auf, die bekräftigt werden durch das Berufen auf ein gemeinsames Geboren-Sein („Nation“ von lateinisch: nascio – geboren werden).

Auch eine Reihe von anderen angeborenen Konstanten, wie etwa die Territorialität oder die Gruppenbildung, führen zur Bildung von unterschiedlichen Stämmen und Völkern.

All diese stammesgeschichtlichen Vorprogrammierungen erschweren natürlich das Zusammenleben in einer multikulturellen Immigrationsgesellschaft. Daher erscheint es vernünftiger und menschlicher, wenn jedes Volk auf seinem Gebiet selbstbestimmt leben und seine Kultur entwickeln kann („ethnopluralistische Weltordnung“). Die Politik muss den gegenwärtigen Tendenzen zur kulturellen Vereinheitlichung und zum Identitätsverlust durch Masseneinwanderung entgegenwirken.

Ein abschließender Exkurs zum Thema Rassen widerlegt einige der häufigsten linken Argumente für die angebliche Nicht-Existenz von Menschenrassen.


1. Einleitung

Das Thema Einwanderung steht in den westlichen Industriestaaten nach wie vor auf der Tagesordnung. Es wird diskutiert im Zusammenhang mit Reformen der Pensionssysteme, der Arbeitslosigkeit, der Kriminalität, des Geburtenrückganges und der Asylproblematik.

Sowohl diese Probleme als auch die global sehr unterschiedlich ablaufende demografische Entwicklung[1] <#_ftn1> wird das Thema Einwanderung auch in den nächsten Jahrzehnten aktuell bleiben lassen.

Diese demografische Entwicklung läuft momentan im Westen auf die Etablierung sogenannter „multikultureller Gesellschaften“ hinaus. Einmal abgesehen von der Unbestimmtheit und Widersprüchlichkeit des Begriffs, zeigen uns viele Entwicklungen hierbei, dass eine solche „multikulturelle Gesellschaft“ nicht gerade erstrebenswert ist. Denken wir etwa an die erhöhte Ausländerkriminalität, die oftmals missglückte Ausländerintegration, an Ghettobildung oder an Fremdenfeindlichkeit. Diese Argumente aus der sozialen Praxis sind allgemein bekannt und müssen hier nicht noch einmal wiederholt werden.

2. Aus der Geschichte lernen!

Genauso spricht die historische Erfahrung gegen die Schaffung multikultureller Gesellschaften. Es gibt zahlreiche Beispiele in der Geschichte, in denen eine angestammte Bevölkerung von Einwanderung betroffen war und schließlich von den Neueinwanderern dominiert und verdrängt wurde. Das Schicksal der nordamerikanischen Indianer ist dabei nur ein Fall unter vielen: weitere wären die ethnische Wandlung des Kosovo von früher serbisch dominiert zu heute albanisch dominiert (durch Abwanderung von Serben und höheren moslemischen Kinderzahlen). Genauso wurden die auf die Fidschi-Inseln eingewanderten Inder dort im Laufe der Zeit zur Mehrheit „und beanspruchen nun Landrechte, die ihnen bisher vorenthalten waren“ (Eibl-Eibesfeldt 1995, 131).

Beim Beispiel der nordamerikanischen Indianern ist die Argumentation der Linken besonders zynisch, wenn sie ständig betonen, welch positive wirtschaftliche Folgen die Auswanderung der „überzähligen“ Europäer nach Nordamerika für den Alten Kontinent angeblich hatte. Welch fatale Folgen die unerwünschte Masseneinwanderung für die Indianer hatte, verschweigen sie tunlichst (ohne gleichzeitig natürlich heuchlerisch das Schicksal der Indianer zu beklagen).

Auch in den USA vollzieht sich zur Zeit ein rascher „Bevölkerungswandel“, der ca. bis zum Jahr 2050 die Weißen dort zur Minderheit wird werden lassen. Dabei ist interessant, dass selbst in der veröffentlichten Meinung von „einem Experiment mit ungewissem Ausgang“ gesprochen wird! Wir – verantwortungsvolle – Europäer haben es in keinerlei Hinsicht notwendig, uns auf ein solches Experiment einzulassen!

Die tägliche Lebenserfahrung, das historische Beispiel und der gesunde Menschenverstand zeigen uns also, dass multikulturelle Gesellschaften nicht gut funktionieren. Was sind aber die tieferen Gründe, für dieses Nicht-Funktionieren? Gibt es dem Menschen innewohnende Dinge, die der multikulturellen Gesellschaft entgegenstehen?

3. Völker als politische Akteure

Und überhaupt: Warum gliedert sich die Menschheit in unterschiedliche Ethnien, Völker, Stämme, Gruppen? Warum definieren sich Menschen zumeist aufgrund ihrer ethnischen Herkunft als Spanier oder Basken, als Chinesen oder Japaner, als Europäer oder Asiaten, etc.?

Wenn es stimmen würde, dass die Bedeutung der ethnischen Zugehörigkeit für den Menschen eher überschätzt werden würde (wie von linker Seite oft behauptet), so ist es schwer erklärlich, warum man Begriffe wie „ethnische Säuberungen“, „Völkermord“ oder „Rassenkrieg“ heute zu Beginn des 21. Jahrhunderts öfter hört als in den vergangenen Jahrzehnten.

Dabei tritt das Phänomen Ethnizität als ein Lebensprinzip in unterschiedlichen, zum Teil grausamen Erscheinungen auf: a.) Staaten, die mehrere Ethnien beherbergen, erleben Spaltungstendenzen, Separationsbewegungen und Minderheitenkonflikte (z.B. Belgien, Spanien, Kanada, Türkei, Indonesien...etc.); b.) Vielvölkerstaaten brechen auseinander (z.B. Ex-Jugoslawien, Ex-Tschechoslowakei, Ex-Sowjetunion) und es bilden sich neue Staaten aufgrund gleicher volklicher Zugehörigkeit (z.B. neues Deutschland); c.) Staaten, deren Bevölkerung durch ungezügelte Einwanderung in den letzten Jahrzehnten ethnisch sehr heterogen wurde, erleben trotz 200jähriger Aufklärung und progressiver Erziehung ein kaum für möglich gehaltenes Maß an Ausländerfeindlichkeit und Rassismus, der zuweilen bis zur nackten Gewalt führt.

Alle diese Phänomene von a.) bis c.) dürfte es samt und sonders nicht geben, wenn die Zugehörigkeit zu einer bestimmten ethnischen Gruppe für den Menschen ohne weitere Bedeutung wäre, wie man gelegentlich zu hören bekommt. Das Gegenteil scheint der Fall zu sein: Zu Beginn des 21. Jahrhunderts wird das Prinzip Ethnizität das alte, neue Ordnungselement der Welt.

Als Ethnizität gilt die Neigung des Menschen, sich in ethnisch geschlossenen Solidargemeinschaften von anderen Menschengruppen abzutrennen.

Über die neu gewonnene Bedeutung, die ethnische und kulturelle Identität in den internationalen Beziehungen spielt und spielen wird, siehe Huntington 1997. Huntingtons Thesen können hier aus Platzgründen nicht wiedergegeben werden.

Die politische Linke geht nach wie vor von einem verzerrten und in ihrem Sinne idealisierten Menschenbild aus, wonach angeborene Antriebe und Mechanismen beim Menschen entweder überhaupt nicht vorhanden, oder zumindest keine Rolle spielen; Der Mensch ein überwiegend vernunftbestimmtes Wesen sei und ethnische und rassische Zugehörigkeit ein völlig unbedeutendes, oberflächliches Merkmal sei.

Wenn man von diesem verzerrten Menschenbild ausgeht, wird man die oben beschriebenen Vorgänge in einer „so aufgeklärten, rationalen und internationalen Welt“ natürlich weder verstehen, noch sich erklären können. Die Linke greift daher in diesem Fall häufig auf recht simple Verschwörungstheorien zurück. Dabei wird grundsätzlich die Existenz von Völkern geleugnet nach dem Motto „Das Volk ist ein Mythos“ und es werden nur „Gesellschaften“ als real existent anerkannt.

Einer, der realistische Antworten auf die oben aufgeworfenen Fragen geben kann, hat selber über fünf Jahre bei Naturvölkern in allen Erdteilen gelebt (vgl. Eibl-Eibesfeldt 1997, 18, Anm.) und deren Verhalten erforscht und mit dem von „zivilisierten Völkern“ verglichen. Es ist der Gründer der Humanethologie: Irenäus Eibl-Eibesfeldt. Auf seine Forschungsergebnisse werde ich mich im Folgenden stützen.

4. Eibl-Eibesfeldt und seine Verdienste

Irenäus Eibl-Eibesfeldt wurde 1928 in Wien geboren und war ein Schüler des weltbekannten Nobelpreisträgers und Gründers der Vergleichenden Verhaltensforschung Konrad Lorenz (1903-1989).

Eibl-Eibesfeldt ist aus mehreren Gründen der wohl interessanteste lebende Biologe: 1.) Er arbeitet sehr stark interdisziplinär, d.h. er arbeitet mit den verschiedensten Wissenschaftszweigen, auch mit den Sozialwissenschaften, eng zusammen. Das ermöglicht ihm, auch Stellungnahmen über Themenbereiche abzugeben, die nicht unmittelbar in seinem Forschungsfeld liegen. 2.) Er beobachtet hauptsächlich das Verhalten von Menschen, d.h. ihm kann schwer der Vorwurf des „naturalistischen Fehlschlusses“ gemacht werden, etwa in der Form, dass er das Sozialverhalten der Menschen von dem der Ameisen ableiten würde.

3.) Er verfügt über genügend Mut und Zivilcourage, seine Forschungsergebnisse und die daraus sich ergebenden Schlussfolgerungen auch einer breiteren Öffentlichkeit zu präsentieren, auch wenn seine Erkenntnisse den heute tonangebenden Ideologien und Glaubensgrundsätzen widersprechen. Eibl-Eibesfeldt wurde deshalb auch wiederholt Opfer übler Beschimpfungen von linken Ideologen und sachunkundigen Sozialwissenschaftlern, die ihre Glaubensdogmen von ihm in Frage gestellt sehen. Seine wissenschaftlichen Erkenntnisse können aber heute nicht mehr ernsthaft geleugnet werden.

Wichtigste Werke sind: Die Biologie des menschlichen Verhaltens (1984, 3.Aufl. 1997), Grundriss der vergleichenden Verhaltensforschung (1967, 7.Auflage 1987), Wider die Misstrauensgesellschaft (1994) und In der Falle des Kurzzeitdenkens (1998).

5. Grundlagen der Völkerbildung: Xenophobie, Gruppenbildung und Territorialität

Vor dem Hintergrund von vermehrten ethnischen Konflikten auf zwischenstaatlicher Ebene (Stichwort: Völkermorde), aber auch auf innerstaatlicher Ebene (Stichwort: Ausländerfeindlichkeit) fragt sich Eibl-Eibesfeldt in seinen Büchern immer wieder, warum sich weltweit so verschiedene Völker ausbilden/ten, sich territorial gegeneinander abgrenzen, sich (zu) oft bekriegen und „warum sind viele sogar bereit, ihr Leben im Kampf für die Erhaltung ihrer Identität zu opfern?“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 64).

Die biologischen Grundlagen der Ethnizität seien im Folgenden besprochen.

5.1. Die Xenophobie

Den Ursprung der Unterscheidung zwischen „wir“ und „ihr“ sieht Eibl-Eibesfeldt in der Einführung der individualisierten Brutpflege bei den Vögeln und Säugern. „Mit ihr kam nämlich die Liebe, definiert als persönliche Bindung, in die Welt.“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 65). In der Folge führt die individualisierte Brutpflege nämlich zu Verhaltensweisen der Betreuung und des Sich-betreuen-lassens, die in der Folge auch in den Dienst der Erwachsenenbindung gestellt wurden. Unser heutiges Küssen leitet sich vom Kussfüttern ab, d.h. von der Tatsache, dass manche Tiere, aber auch noch Jäger- und Sammlervölker ihren Kindern die Nahrung vorkauen und von Mund-zu-Mund zuführen (vgl. Eibl-Eibesfeldt 1993, 28f.).

Bei der individualisierten Brutpflege wird zwischen eigenem und fremden Kind unterschieden! Die individualisierte Brutpflege ab der Stufe der Vögel und Säugetiere führte zu der Ausbildung von persönlichen Beziehungen (vgl. Eibl-Eibesfeldt 1998, 67), so dass Eibl-Eibesfeldt von einer „Sternstunde der Verhaltensevolution“ spricht.

„Mit 5 bis 6 Monaten beginnen Säuglinge zu „fremdeln““ (Eibl-Eibesfeldt 1997, 237), das heißt sie unterscheiden zwischen bekannten und fremden Personen. Fremden gegenüber verhalten sich Säuglinge ab diesem Zeitpunkt ambivalent: Sie stellen Blickkontakt her, klammern sich aber gleichzeitig an die Mutter ...etc. Diese Erscheinung, die Eibl-Eibesfeldt für eine angeborene Universalie hält, ist als Xenophobie (=Fremdenfurcht) wohlbekannt. Er beobachtete sie in allen von ihm untersuchten Kulturen und Säuglinge müssen keine vorhergehende schlechte Erfahrungen mit Fremden haben und „auch taub und blind geborene Kinder zeigen Fremdenscheu, sie reagieren dabei auf geruchliche Merkmale“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 76).

Er „möchte jedoch betonen, daß man die Fremdenfurcht nicht verwechseln darf mit Fremdenhaß, der ein Ergebnis spezieller Indoktrination ist. Wir müssen allerdings zur Kenntnis nehmen, daß das Urmißtrauen Fremden gegenüber unsere Wahrnehmung mit einem Vorurteil belastet, so daß eine negative Erfahrung mit einem Fremden uns im allgemeinen mehr beeindruckt als eine Vielzahl positiver Erfahrungen“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 81). Eibl-Eibesfeldt behauptet also keineswegs, dass Fremdenhass und Ausländerfeindlichkeit angeboren und deshalb „normal“ seien, wie ihm das gelegentlich unterstellt wird.

Die Xenophobie hat eine sehr wichtige Funktion, sie „sichert die Bindung des Kindes an die Mutter ab, was ja überlebenswichtig ist. Ein Kleinkind, das sich leicht Fremden anschlösse, brächte sich wohl in große Gefahr“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 74).

Dabei scheint der Grad der xenophoben Reaktion offenbar davon abzuhängen, „wie ähnlich der Fremde den Bezugspersonen des Kindes ist. Nach Untersuchungen des amerikanischen Psychologen Saul Feinman fürchten sich Kinder von Schwarzafrikanern mehr vor fremden Weißen als vor Fremden der eigenen Rasse. Analog verhält es sich mit der Fremdenscheu weißer Kinder“ (Eibl-Eibesfeldt 1995, 109).

5.2. Gruppenbildung und Staatenbildung

Nach Eibl-Eibesfeldt führt die Fremdenscheu, die durch Bekanntwerden abgebaut wird, in der Folge dazu, dass sich über das persönliche Bekanntwerden quasi familiare Wir-Gruppen bilden, zumeist Sippen oder Horden von etwa 50-150 Personen.

„So lernt das Kind zunächst, zu den übrigen Familienmitgliedern eine Vertrauensbeziehung herzustellen und dann zu den weiteren Freunden und Bekannten der Familie. Die Engländer haben für diesen Prozeß des Bekanntwerdens den sehr treffenden Ausdruck familiarisation. Über ihn werden Menschen durch persönliche Bekanntheit zu quasi familialen Wir-Gruppen verbunden, die sich mit einer gewissen Scheu gegen andere Gruppen abgrenzen“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 76).

„Sippenselektionistisch entwickelte Verhaltensweisen der Gruppenbindung erweisen sich dabei so effektiv, daß schließlich auch Gruppenmitglieder, die nicht unmittelbar als Blutsverwandte zu einer Familie gehörten, mit Hilfe unterstützender kultureller Einrichtungen in der Lage waren, sich mit anderen Mitgliedern zu solidarisieren, so daß die Gruppen in bestimmten Situationen, etwa im Kriegsfall, als Einheiten auftreten und handeln konnten. Damit wurden Gruppen, zusätzlich zu den Einzelpersonen und Sippen, übergeordneten Einheiten der Selektion, denn schließlich entschieden Sieg und Niederlage oft in dramatischer Weise über ihr Schicksal“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 78).

Dies festzuhalten ist insofern wichtig, als sich hier zeigt, dass neben den Genen, die von der Soziobiologie als Einheiten der Selektion betrachtet werden, auch die Gruppe eine Einheit ist, an der die Selektion ansetzt.

Mit der neolithischen Revolution und der Umstellung auf Ackerbau und Viehzucht erhöhte sich die Tragekapazität eines Gebietes und die Gruppen wurden zunehmend größer und damit auch die Anonymität innerhalb der Gruppen. Diese Anonymität machte Gesetze und eine hierarchisch aufgebaute Regierungsgewalt notwendig. Nach Eibl-Eibesfeldt hatten die neu entstandenen Ackerbaugruppen wegen ihrer Größe und der Überzahl an rekrutierbaren Kriegern gegenüber den kleineren Jäger- und Sammlergruppen einen selektionistischen Vorteil, weshalb die zweiteren von ersteren mit der Zeit zunehmend verdrängt wurden (vgl.: Eibl-Eibesfeldt 1997, 839).

Die weitere Entwicklung zu Staaten und Nationen beschreibt Eibl-Eibesfeldt so: „Oft gaben einzelne machtmotivierte Persönlichkeiten den Anstoß, indem sie z.B. mit Waffengewalt verschiedene Stämme zu einem Staatengebilde vereinten... In anderen Fällen wuchs eine Gemeinschaft über natürliche Vermehrung zu einem größeren Stammesverband und schließlich einer Staatsgemeinschaft heran“ (Eibl-Eibesfeldt 1997, 840). Ähnlich wie in einer individualisierten Kleingruppe, in der jeder jeden kennt, erfolgt die gemeinsame Identifikation in Großgesellschaften durch gemeinsame Sprache, Bräuche oder bestimmte Kleidung.

„Kulturell betonen wir Ähnlichkeiten, die uns verbinden, denn Ähnlichkeit ist ein wichtiger Indikator für Blutsverwandtschaft. Völker betonen sie durch gemeinsame Trachten, gemeinsames Brauchtum und schließlich über die verbindende und zugleich abgrenzende Sprache“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 98).

Dabei ist zu beobachten, dass sich Gene, Völker und Sprachen parallel auseinander entwickelt haben. Der italienische Humangenetiker Luigi Luca Cavalli-Sforza „hat in umfangreichen molekulargenetischen Erhebungen die weltweite Verbreitung mehrerer hundert menschlicher Gene erforscht, die genetischen Abstände der verschiedenen Populationen festgestellt und danach auf genetischer Verwandtschaft begründete Stammbäume rekonstruiert. Sie entsprachen in bemerkenswerter Weise der gegenwärtigen Klassifikation der Sprachen. Gene, Völker und Sprachen entwickelten sich demnach gemeinsam auseinander“ (Eibl-Eibesfeldt 1997, 37).

L.L. Cavalli-Sforza schreibt: „Sucht man nach einer Interaktion zwischen Genen und Sprachen, so stellt man fest, daß eher die Sprachen die Gene beeinflussen, in dem Sinn nämlich , daß ein Sprachunterschied den Genaustausch zwischen zwei Populationen vermindern, wenn auch nicht völlig unterbinden kann“ [2] <#_ftn2> (Cavalli-Sforza 1999, 170/171).

Die Solidarisierung innerhalb von Großgesellschaften funktioniert „ebenfalls über familiale Appelle. Wir sprechen auch in den modernen Großgesellschaften von unseren „Brüdern“ oder „Schwestern“, von einem Vaterland, einer Muttersprache, vom „Landesvater“ und von Nation unter Berufung auf ein gemeinsames Geborensein“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 98).

Durch die Anonymität in Großgesellschaften bedarf es aber „dauernder ideologischer Bekräftigung, um das Wir-Gefühl zu schaffen oder zu erhalten“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 99). Diese ideologische Bekräftigung besteht unter anderem in der Identifikation des Menschen mit bestimmten Symbolen (Fahnen, Kreuze, Zeichen, ...etc.). „Nachdenklich stimmt die starke affektive Besetzung dieser oft sakralen Charakter tragenden Zeichen und die Blindheit und Begeisterung, mit der wir ihnen folgen“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 108). Dass vielen Personen beim Absingen ihrer Nationalhymne oder bei religiösen Liedern eine „Gänsehaut“ überkommt, führt Eibl-Eibesfeldt darauf zurück, dass bei diesen Gelegenheiten eine soziale Verteidigungsreaktion angesprochen wird. „Wir sträuben gewissermaßen einen nicht mehr vorhandenen Pelz. Unsere bepelzten Vorfahren dürften in vergleichbaren Situationen kollektiven Drohens ihren Körperumriß durch Sträuben des Pelzes eindrucksvoll vergrößert haben.“ (Eibl-Eibesfeldt 1998, 109).

Kurz gesagt werden nach Eibl-Eibesfeldt bei den Versuchen, Massen an eine Nation, Staat, Volk, Gruppe und Ähnliches zu binden, über Indoktrination und Symbolidentifikation im Menschen angelegte soziale Dispositionen (z.B. Gefolgsgehorsam, Neigung zur Gruppenverteidigung, Bereitschaft zur Indoktrination, ...etc.) angesprochen, die als Grundmuster dem Menschen angeboren sind, aber kulturell sehr unterschiedlich ausgestaltet werden. Das ist auch der Grund, warum die Indoktrination weltweit laufend funktioniert und immer wieder missbraucht wird.

Zum Phänomen der Gruppenidentität meint Samuel P. Huntington: „Menschen definieren ihre Identität über das, was sie nicht sind. .... Zwei Europäer, ein Deutscher und ein Franzose, die miteinander interagieren, werden sich selbst und ihr Gegenüber als Deutschen bzw. als Franzosen identifizieren. Zwei Europäer, ein Deutscher und ein Franzose, die mit zwei Arabern, einem Saudi und einem Ägypter, interagieren, werden sich selbst und ihre Gegenüber als Europäer bzw. als Araber definieren“ (Huntington 1997, 95).

5.3. Territorialität und Gruppenabgrenzung

Bis jetzt haben wir die Entstehung des „Wir und die anderen“ durch die individualistische Brutpflege und die Entwicklung von Kleingruppen durch die kindliche - später auch bei Erwachsenen sich in einem ambivalenten Verhältnis zu Fremden äußernde - Xenophobie[3] <#_ftn3> (vgl.: Eibl-Eibesfeldt 1995, 111), weiters die Entwicklung von Großgesellschaften durch Übertragung des familialen Kleingruppenethos auf eine größere Gemeinschaft z.B. mittels Symbolidentifikation und Indoktrination, behandelt. Bleibt noch die Frage der territorialen Abgrenzung und warum Menschen gegenüber anderen Menschen Gruppen und Untergruppen bilden.

Für Eibl-Eibesfeldt ist Territorialität „zunächst einmal eine anthropologische Konstante. Sie findet jedoch ihre kulturell mannigfache Ausprägung“ (Eibl-Eibesfeldt 1997, 469). Er widerspricht hier der in den 70er Jahren manchmal noch vertretenen Meinung, dass - bildlich gesprochen - erst mit der Entwicklung des Ackerbaus der erste Zaun errichtet wurde. Anhand eigener Untersuchungen an heute noch auf altsteinzeitlichem Niveau lebender Jäger- und Sammlervölkern und anhand fremder Forschungsergebnisse belegt er, dass schon diese Völker ihre Lebensgebiete abgrenz(t)en, zwar nicht mit Grenzsteinen, aber mit vergleichbaren Methoden (vgl.: Eibl-Eibesfeldt 1997, 455f.). In „Die Biologie des menschlichen Verhaltens“ weist Eibl-Eibesfeldt nach, dass sämtliche Jäger- und Sammlervölker, denen von gewisser Seite unterstellt wurde, sie seien nicht-territorial oder friedlich oder wechselten die (ethnische) Zusammensetzung, sehr wohl territorial und in klar begrenzten Gruppen leben und keineswegs den Krieg nicht kennen würden (vgl.: Eibl-Eibesfeldt 1997, 455-475).

Auch der Mythos, dass unsere nächsten Verwandten, die Schimpansen, nicht-territoriale Lebewesen seien und der Mensch daher ursprünglich auch nicht-territorial und friedlich gewesen sein müsste, hielt einer kritischen wissenschaftlichen Untersuchung nicht stand. „Man weiß nunmehr, daß Schimpansen in geschlossenen Gruppen leben, von denen jede ein Gruppenterritorium besitzt.... Das Gruppengebiet wird durch Männchen verteidigt, die die Grenzen des Gebietes in Trupps kontrollieren“ (Eibl-Eibesfeldt 1997, 457).

Im übrigen hat die Territorialität eine friedensstiftende Bedeutung: Konflikten kann man im wahrsten Sinne des Wortes „aus dem Weg gehen“.

So wie alles Lebende grundsätzlich auseinanderstrebt, sich in Untergruppen aufteilt und auf verschiedenen Wegen der Evolution unterliegt, so entwickeln sich auch beim Menschen Gruppen verschiedenster Größe (Sippen, Stämme, Nationen). „Die Neigung zur Kontrastbetonung bei Beharren auf dem Eigenen hat zur raschen kulturellen Differenzierung (Pseudospeziation) geführt und es dem Menschen gestattet, sich rasch in sehr verschiedene Lebensräume einzunischen“ (Eibl-Eibesfeldt 1997, 447). Diese ethnische und kulturell betonte Vielfalt dient der Absicherung des Lebens.

Dass sich die Menschheit in verschiedene Völker „aufspaltet“ ist also nichts Schlechtes, sondern etwas Gutes, da dies das Überleben der Art Mensch wahrscheinlicher macht. Außerdem besteht der oft angesprochene „kulturelle Reichtum der Menschheit“ gerade eben in der Unterschiedlichkeit der Völker, Religionen, Künste, ...etc., die wir als Bereicherung betrachten. Eine „Welteinheitszivilisation“ würde als schmerzlicher Verlust empfunden werden, so wie das momentane Artensterben der Tiere als negative Erscheinung gilt.

Die Tatsache, dass es auch bei Jäger- und Sammlervölkern klar getrennte Gruppen mit eindeutig definierten Beziehungen der Gruppenmitglieder untereinander gibt und dass Menschen andere, von der Gruppennorm abweichende Menschen ausgrenzen, trotz gegenteiliger Erziehung (z.B. Auslachen und Verspotten von normabweichenden Individuen), weist darauf hin, dass auch hier stammesgeschichtliche Anpassungen im Spiel sind. So müssen Kinder etwa zur Toleranz erzogen werden, während sie intolerantes Verhalten von alleine zeigen.

„Stammesgeschichtliche Anpassungen“ sind in den Genen fixierte Vorannahmen über das Milieu eines Lebewesens, die sich dann an den jeweiligen Umweltbedingungen durch Auslese (=Selektion) bewähren müssen (Genauer bei Eibl-Eibesfeldt 1997, 26f.). Die Xenophobie ist eine solche Anpassung, die sich offensichtlich bewährt hat und für seinen Träger von Vorteil war. Nicht-xenophobe Individuen hatten weniger Überlebenschancen und Nachkommen, weshalb das Merkmal für „Nicht-Xenophobie“ ausselektiert wurde.

Diese stammesgeschichtlichen Anpassungen entstanden im Laufe der Evolution des Menschen, das heißt in Jahrhunderttausenden. Den größten Teil dieser Zeit lebte der Mensch als Jäger und Sammler. Sein Gehirn wurde daher auch auf diese Umwelt und dessen Anforderungen programmiert. Dies hat für das Leben in der modernen Welt zahlreiche Konsequenzen, auf die ich hier aus Platzgründen nicht eingehen kann.

6. Zum Verhältnis von Angeborenem und Erworbenem

Der Umstand, dass es gelegentlich Einzelmenschen und Menschengruppen gibt, die sich über ihr biologisches Erbe hinwegsetzen und zeitweise z.B. nicht territorial leben, die Gruppenzusammengehörigkeit wechseln, ohne geschlechtliche Arbeitsteilung leben, u.ä. beweist keineswegs, dass es diese biologischen Anlagen beim Menschen nicht gebe. Es zeigt nur, dass der Mensch ein Kulturwesen ist, bei dem die Kultur auf seine Natur aufbaut und der Mensch sich in vielen Bereichen über seine Natur hinwegsetzen kann, wenn er das möchte (z.B. Kamikaze-Flieger, egalitäres Leben im israelischen Kibbuz[4] <#_ftn4> , ...etc.). Das Scheitern von vielen Gesellschaftsexperimenten, die die Natur des Menschen nicht beachteten, zeigen, dass diese Natur dann doch immer wieder durchbricht, zum Leidwesen der linken Ideologen, welche aus diesem Scheitern oft nicht folgerichtig die Lebensfeindlichkeit ihrer Ideologien ableiten, sondern behaupten, dass die Menschen noch immer zu sehr „im reaktionären Denken verhaftet“ seien und nicht reif für eine „bessere“ Welt seien und mehr „Aufklärung“ bedürften.

Nicht zu vergessen ist hierbei der Faktor der natürlichen Selektion. Diese führte nämlich dazu, dass Menschengruppen, deren Sozialstrukturen in krassem Widerspruch zu ihren biologischen Anlagen standen, oft nicht lange Bestand hatten und in Konkurrenz mit anderen Gruppen unterlagen und ausstarben. Ohne Zweifel wird hier beim Menschen die kulturelle Entwicklung zu einem Schrittmacher der natürlichen Selektion. „Neue Gedanken, Theorien und Erfindungen wirken wie Mutationen im biologischen Bereich, und sie haben sich wie solche an der Selektion zu bewähren. Die gestellte Aufgabe bleibt stets das Überleben in Nachkommen“ [5] <#_ftn5> (Eibl-Eibesfeldt 1997, 33).

Um Missverständnisse zu vermeiden, seien noch drei kurze Bemerkungen zum allgemeinen Verständnis des Verhältnisses von stammesgeschichtlichen Anpassungen und sozialem Leben der Menschen zu machen. 1.) Wenn etwas angeboren ist, heißt das natürlich noch lange nicht, dass es von Geburt an zur Geltung kommt. Viele anthropologische Konstanten entfalten sich erst durch Reifungsprozesse im Körper. So entwickeln Menschen z.B. erst ab einem gewissen Alter Schamgefühle. 2.) Auch gibt es für bestimmte Dinge Lerndispositionen, so erlernen wir Angst vor Schlangen leichter als Angst vor Automobilen.

3.) Die Verbindung und Überlagerung von Angeborenem und Erworbenem ist zum Teil recht kompliziert und bei den meisten Phänomenen oder Begabungen spielt beides gleichzeitig eine Rolle.

7. Zusammenführung

Dass die in Kap. 5.1.-5.3. erläuterten anthropologischen Konstanten den Aufbau von multikulturellen Immigrationsgesellschaften äußerst erschweren und sich ein solcher „Aufbau“ deshalb für verantwortungsvolle Menschen verbieten sollte, versteht sich eigentlich von selbst.

Die Xenophobie belastet unsere Wahrnehmung des Fremden von vornherein mit einem Vorurteil (vgl. Kap. 5.1.). Die Neigung des Menschen, seine Gruppenidentität durch normangleichende Aggression ständig zu erhalten und damit auch allen Fremden von vornherein besonders skeptisch und abweisend gegenüberzustehen, belastet das Nebeneinander von Einheimischen und Fremden in gravierendem Ausmaß. Die Territorialität des Menschen in Verbindung mit seiner Neigung, sich in Gruppen über Pseudospezifikation von anderen Menschen abzugrenzen (vgl. Kap. 5.3.), führt dazu, „...daß die Fremden oft als Eindringlinge in das eigene Territorium wahrgenommen werden und damit archaische territoriale Abwehrmechanismen zum Ansprechen bringen“ (Eibl-Eibesfeldt 1994, 113).

Über die Problematik der multikulturellen Immigrationsgesellschaft vgl. das Buch „Wider die Misstrauensgesellschaft“ von Irenäus Eibl-Eibesfeldt, erstmals 1994.

Ich denke, dass durch das bis jetzt Gesagte deutlich gemacht werden konnte, dass bei Phänomenen wie Patriotismus oder Fremdenfeindlichkeit stammesgeschichtliche Anpassungen angezapft werden können. Bei der Entwicklung einer multikulturellen Immigrationsgesellschaft ist das viel weniger leicht der Fall - im Gegenteil. Dabei muss ständig gegen solche Anpassungen erzogen werden, was diese Gesellschaften dann auch besonders labil und krisenanfällig macht. So erklärt sich auch, warum diese anthropologischen Konstanten von manchen orthodoxen Linken und Liberalen so vehement und mit militantem Eifer geleugnet werden.

Ein Gegenmodell zur multikulturellen Gesellschaft ist das des Ethnopluralismus. Der Begriff wurde vielfach falsch gedeutet. Dabei sind die Prinzipen recht simpel: 1.) Ethnische Vielfalt ist ein positiver Wert. 2.) Einen einheitlichen Maßstab für die Beurteilung von Völkern und Kulturen gibt es nicht; Die Völker sind verschieden und ungleich, aber gleichwertig. 3.) Ziel der Politik sollte es sein, diese globale Vielfalt zu erhalten. Diese Vielfalt wird gegenwärtig durch nicht mehr integrierbare Massenmigrationen einerseits, und durch die Ausbreitung einheitlicher Lebensweisen bzw. der westlichen Zivilisation andererseits, gefährdet. 4.) Indem jedes Volk seine eigene Kultur pflegt und kreativ weiterentwickelt, trägt es zum kulturellen Reichtum der Menschheit Entscheidendes und Unverwechselbares bei. 5.) Da die Menschen, und zwar ALLE Menschen, über die hier besprochenen stammesgeschichtlichen Anlagen verfügen, lassen sich allgemeine Regeln für das Zusammenleben der Menschen ableiten. 6.) So sollten etwa Einwanderungen (egal wohin!) nur in geringem Umfang und sehr vorsichtig erfolgen, da die Menschen mit ihrem genetischen Erbe darauf nicht programmiert sind.

Am Vernünftigsten erscheint eine Ordnung, in der jedes Volk in seinem Gebiet nach seinen selber gewählten Gesetzen und ohne Dominanz durch ein anderes Volk sich frei entwickeln kann, eben eine „ethnopluralistische Ordnung“.

Diese Prinzipien können nur bei einer sehr böswilligen Auslegung mit einer „globalen Apartheid“ oder mit „ethnischer Säuberung“ oder Ähnlichem in Verbindung gebracht werden.

Im Gegenteil geht der Vorwurf der Linken/Liberalen, wir seien „rassistisch“, „ethnozentristisch“ oder „gegen die Völkerverständigung“ völlig ins Leere.

Wir sind die Freunde der Völker!

Wir schätzen die ethnische Vielfalt. Wir wissen um deren evolutionäre Bedeutung (vgl. Kap. 5.3.) und deren natürliche Ursachen (Kap. 5.) und akzeptieren das. Wir haben keinen Grund, auf die Kultur und die Geschichte irgendeines anderen Volkes herabzusehen. Schließlich gibt es keinen absoluten Maßstab für solche Beurteilungen.

Jedes Volk und jede Rasse ist durch die Evolution an ein völlig unterschiedliches Klima und eine unterschiedliche Landschaft angepasst: ein Schwarzer tut sich am Polarkreis genauso schwer, wie umgekehrt z.B. ein Weißer in den Tropen: Hier von „höherwertig“ und „minderwertig“ zu sprechen, wäre völlig absurd! Wir sind keine Rassisten und lassen uns in keinem Falle als solche diffamieren!

Die Vorliebe für die eigenen Ethnie, die bevorzugte Heirat innerhalb des jeweils eigenen Stammes/Volkes, also die Endogamie, ist etwas völlig Natürliches und dieser Tatsache verdanken die Völker ihre Existenz. Jemanden wegen dieser natürlichen Neigung zur Endogamie als „Rassisten“ zu verurteilen, wäre so, wie wenn man jemanden dafür verurteilen würde, dass er lieber eigene Kinder anstatt Kaulquappen aufzieht und ihn als „Homophilisten“ diffamieren würde.

Im Gegenteil sind es unsere Gegner, die ein Problem mit der ethnischen Vielfalt haben! Indem sie nämlich die westlichen Werte der Aufklärung als absolute Wahrheiten betrachten und anderen Völkern aufzwingen wollen, verneinen sie oftmals deren spezifische Existenz. Sie verneinen das Recht der Völker sie selbst zu sein und eben anders zu sein als wir. Sie beurteilen andere Völker aus der eigenen Werthaltung heraus, eben aus ethnozentristischer Sicht, nicht wir!

Parallel mit dem ideologischen Export der Aufklärung läuft der globale Export des westlichen Gesellschafts- und Wirtschaftssystems in die ganze Welt. Dies führt zu einer Angleichung der Lebensweisen, der Moden, der Baustile und schließlich des Denkens an das „westliche Modell“, an den „American way of life“. Im Extremfall essen am Schluss alle Menschen das gleiche, hören die selbe Musik und eine Stadt gleicht der anderen.

Denn: Je mehr sich die Geschmäcker angleichen, desto mehr kann von einem Konsumgut global abgesetzt werden. Die kulturelle Vielfalt ist ein Hindernis bei der Ausbreitung eines einheitlichen Zivilisationsmodells und der drohenden Vereinheitlichung der Welt.

Der wirtschaftliche Liberalismus genauso wie der Marxismus will den Völkern ihre Identität nehmen, indem er sie angleicht, nicht wir! Indem er die spezifische Identität jedes Volkes leugnet, wirkt er – im Ergebnis, wenngleich vielleicht nicht in der Absicht – völkerzerstörend. Wir wollen die Vielfalt der Völker und Kulturen erhalten und ein möglichst friedliches Nebeneinander, bei manchen Fragen ein Miteinander der Völker erwirken.

Dass dieses ethnopluralistische Nebeneinander ewigen Konflikt bedeutet würde, ist Unsinn. Das Gegenteil ist der Fall: viele Kriege und Völkermorde entstanden gerade dadurch, dass ein Volk seine eigenen Werte und Ideen als überlegen ansah und seine Werte „exportieren“ wollte. Denken wir etwa an die Napoleonischen Kriege, die Kreuzzüge, die Kolonialkriege, ...etc.

8. Exkurs: Völker, Rassen und Genetik

Hier möchte ich kurz einige Bemerkungen über Völker und Rassen machen, da das Thema aktuell ist und man dabei von linker und liberaler Seite besonders krasse Fehldeutungen hört.

Völker sind nicht abstrakte, zufällige Menschenansammlungen, sondern sie stellen unter anderem[6] <#_ftn6> auch naturwissenschaftlich messbare, genetische Sammelbecken, sogenannte „gen-pools“ dar. Wie Eibl-Eibesfeldt immer wieder betont, stellen sie neben den Individuen und den Blutsverwandten eigene Einheiten der Evolution dar (vgl. z.B. Eibl-Eibesfeldt 1998, 100).

Rolf Kosiek schreibt: „Das Volk als das genetische Sammelbecken ist die von der Natur in langen Zeiträumen „gewählte“, das heißt dem Geschehen und dem Raum bestens angepaßte Gruppierung von Menschen im Sinne und zum Zwecke der Weiterentwicklung“ (Kosiek 1999, 54; dort Näheres).

Ähnlich verhält es sich mit den Menschenrassen. Dabei hört man momentan oft von linker Seite, man solle das Wort „Rasse“ nicht verwenden, denn es gebe eigentlich gar keine Rassen. Manchmal wird dann dem noch zugefügt, dass die moderne Genetik diese Annahme stütze. Dem ist aber keinesfalls so, im Gegenteil.

Zu dieser Argumentation im Einzelnen:

1.) Es wird behauptet, dass sich die genetischen Unterschiede zwischen den Menschenrassen nur im Promillbereich bewegen und deshalb völlig unbedeutend seien und für eine Einteilung in Rassen zu gering wären. Nun ist es durchaus richtig, dass sich die meßbaren Unterschiede „nur“ im Promillbereich bewegen, nur darf man dabei nicht übersehen, dass der Mensch sogar mit seinem nächsten Verwandten im Tierreich, dem Schimpansen, ca. 98,4% seiner Gene gemeinsam hat. Dass heißt, der genetische Unterschied zwischen Mensch und Schimpanse beträgt ungefähr 1,6% und diese 1,6 Prozent haben gewaltige Auswirkungen, wie wir alle wissen. Da die Menschen untereinander natürlich näher verwandt sind als gegenüber dem Schimpansen, kann der genetische Unterschied zwischen Weißen und Schwarzen nicht größer sein, als der zwischen Weißen und Schimpansen, sondern muss zwangsläufig wesentlich kleiner sein.

Der kleine genetische Unterschied ist also so unbedeutend nicht, im Gegenteil. Mit modernen Methoden hat sich z.B. in der italienischen Bevölkerung ein genetischer Einfluss durch die griechische Besiedelung des Südteils Italiens im ersten Jahrtausend vor der Zeitrechnung nachweisen lassen. Ebenso lassen sich genetische Einflüsse im Apennin (wahrscheinlich von den Etruskern) und anderswo nachweisen (vgl. Cavalli-Sforza 1994, 357-361).

2.) Des weiteren wird immer wieder behauptet, dass sich die Menschen nicht in Rassen einteilen ließen, da es zu viele Ausnahmen, Mischrassen und fließende Übergänge gibt. Nun werden in der Soziologie die Menschen aufgrund ihrer sozialen Stellung (Einkommen, Schulbildung, ...etc.) in soziale Schichten oder soziale Klassen geteilt. Kein Soziologe käme auf die Idee, aufgrund von schwer zuzuordnenden Individuen oder fließender Übergänge zu behaupten, in den westlichen Industriegesellschaften gebe es keine soziale Schichtung. Genauso wenig kann man die Existenz von rot und blau leugnen, nur weil es sämtliche Übergänge von rot bis blau gibt.

In der Praxis zeigt sich, dass man letztendlich auf einen Arbeitsbegriff wie Rasse nicht verzichten kann, so dass auch die Kritiker des Rassebegriffs auf die Rasse zurückgreifen oder „Rasse“ durch einen, das Gleiche bezeichnenden, Begriff ersetzen. Selbst ein so offensichtlich linkslastiger Genetiker wie L.L. Cavalli-Sforza behauptet zwar: „Tatsächlich ist bei der Gattung Mensch eine Anwendung des Begriffs „Rasse“ völlig unsinnig“ (Cavalli-Sforza 1994, 367) Exakt zwei Sätze später liefert er aber selber eine Definition von „Rasse“, mit der er arbeitet: „Unter Rasse verstehen wir eine Gesamtheit von Individuen, die eine gemeinsame Herkunft haben und daher im Hinblick auf die biologisch bedingten vererblichen Merkmale eine gewisse genetische Ähnlichkeit bewahren“ (Cavalli-Sforza 1994, 367).

Ein anderslautender Begriff wäre etwa „geografische Morphotypen“, der besonders unglücklich gewählt ist, da die Geografie im Zusammenhang mit dem Klima zwar über die Jahrtausende bestimmte Rassen entstehen lässt (im Zusammenwirken mit anderen Faktoren!), aber keineswegs gehören die Schwarzen in den USA zum gleichen „geografischen Morphotyp“ wie die dort lebenden Weißen. Der Begriff „typologische Kategorien“ erscheint mir zwar dagegen als weniger verfänglich, ist aber wesentlich länger und beschreibt exakt das gleiche wie „Rassen“. Natürlich kann man solche anderen Begriffe verwenden, beweist damit aber nicht, dass man am neuesten Stand der Forschung ist, sondern nur, dass man sich seine Sprache und wahrscheinlich auch sein Denken und Handeln von den selbst ernannten Wächtern der politischen Korrektheit diktieren lässt - eine traurige und besorgniserregende Entwicklung.

3.) Zuweilen wird darauf hingewiesen, dass die Variabilität bei den Genen zwischen den Individuen einer Rasse größer sei, als die Variabilität bei den Genen zwischen den Rassen untereinander. Hier ist zu sagen, dass es darauf ankommt, welche Gene und ihre Variabilität man untersucht. Ob ein mehr oder weniger unbedeutendes Gen innerhalb eines Volkes oder einer Rasse mehr variiert als zwischen den Rassen, ist für das soziale Zusammenleben der Menschen herzlich weniger wichtig, als die Variabilität etwa des Gens für die Hautfarbe.

Genau betrachtet ist dieses „Variabilitätsargument“ kein Argument: Das wäre so, wie wenn man argumentieren würde, dass angesichts der höheren Variabilität bzgl. des Gewichts von verschiedenen Hunden untereinander und von verschiedenen Katzen untereinander gegenüber dem durchschnittlichen Gewichtsunterschied zwischen Hunden und Katzen, es sinnlos wäre, zu bemerken, dass im Durchschnitt Hunde schwerer als Katzen sind (vgl. Levin 1998, 71).

Wie gesagt muss ich mich an dieser Stelle mit einigen wenigen Hinweisen begnügen. Die Behandlung der aufgezeigten Problematik ist ein eigenes Thema.

9. Literaturverzeichnis

Cavalli-Sforza, Luigi Luca (1999): Gene, Völker und Sprachen; Die biologischen Grundlagen unserer Zivilisation, Carl Hanser Verlag, München, Wien

Cavalli-Sforza, Luigi Luca und Cavalli-Sforza, F.(1994): Verschieden und doch gleich; Ein Genetiker entzieht dem Rassismus seine Grundlage, Droemer Knaur, München
Eibl-Eibesfeldt, Irenäus (1998): In der Falle des Kurzzeitdenkens, Piper-Verlag, München
Eibl-Eibesfeldt, Irenäus (1997): Die Biologie des menschlichen Verhaltens; Grundriß der Humanethologie, Seehammer Verlag, Weyarn, 3. stark überarbeitete Auflage

Eibl-Eibesfeldt, Irenäus (1995): Wider die Mißtrauensgesellschaft; Streitschrift für eine bessere Zukunft, Piper-Verlag, München, 3. ergänzte Auflage

Eibl-Eibesfeldt, Irenäus (1993): Der Mensch - das riskierte Wesen; Zur Naturgeschichte menschlicher Unvernunft, Piper-Verlag, München, 5. Auflage

Huntington, Samuel P. (1997): Der Kampf der Kulturen; Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahrhundert, Europa Verlag, München, Wien, 5. Auflage

Kosiek, Rolf (1999): Völker statt „One World“; Das Volk im Spiegel der Wissenschaft, Grabert-Verlag, Tübingen

Levin, Michael (1998): Recent Fallacies in Discussions of Race, In: Taylor, Jared (Hrsg.) (1998): The Real American Dilemma; Race, Immigration, and the Future of America, New Century Books, Oakton


Fussnoten :
[1] <#_ftnref1>  Zu den Themen Geburtenrückgang, Einwanderung und Bevölkerungsentwicklung vgl. Band 2 der Reihe Grundsatzschriften: „Jugend und Pensionen“.

[2] <#_ftnref2>  Im Übrigen ergaben die Untersuchungen Cavalli-Sforzas, dass die nächsten Verwandten der Europäer die Iraner sind.

[3] <#_ftnref3>  Es ist davon auszugehen, dass die Fremdenscheu von Kindern die gleiche ist, wie die der Erwachsenen. Eibl-Eibesfeldt schreibt: „In der individuellen Entwicklung der Fremdenscheu ist keine Diskontinuität festzustellen, die auf eine getrennte Neuentwicklung der Xenophobie des Erwachsenen hinweisen würde“ (Eibl-Eibesfeldt 1995, 111).

[4] <#_ftnref4>  Über die großangelegten Sozialexperimente in den israelischen Kibbuzim, die eindrucksvoll das Scheitern vieler linker Ideologien belegen, siehe Eibl-Eibesfeldt 1997, 393f.

[5] <#_ftnref5>  Hier wäre es interessant, die heute im „Westen“ herrschenden Ideologien auf ihren Beitrag zu der Überlebenstüchtigkeit ihrer Trägervölker zu überprüfen.

[6] <#_ftnref6>  Was Völker noch alles sind, vgl. Kosiek 1999.

mardi, 16 mars 2010

Dossier d'ARCHEOLOGIE: les Indo-Européens

Dossier d'Archéologie: les Indo-Européens

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ARTICLES

Nos ancêtres les Indo-Européens ? : La question des Indo-Européens est très simple à formuler. Elle n’a pourtant jamais reçu de réponse globale et définitive, et ce numéro des Dossiers d’Archéologie a pour ambition d’expliquer aux lecteurs l’état actuel des recherches, au croisement de la linguistique, de l’archéologie, de l’histoire des religions et de la biologie.


Deux siècles à la recherche des Indo-Européens : L’idée de l’origine des langues et du langage a hanté de tous temps les sociétés humaines, et leurs mythologies en témoignent. Chacun connaît l’histoire de la tour de Babel, destinée à expliquer la diversité des langues humaines. Avec le temps, les linguistes ont pu regrouper en grandes familles les 6.000 langues humaines connues. Mais c’est à la famille dite indo-européenne que les savants européens ont évidemment porté le plus d’attention, tâchant de retracer son histoire et son origine.


La langue des Indo-Européens ? : Si l’existence d’une civilisation « indo-européenne » demeure un sujet de discussions et de discordes, la langue, qui la justifie, paraît incontestable. Bien qu’il n’en existe aucun témoignage scriptural, ce proto-indo-européen (PIE), reconstruit à partir des correspondances entre les langues de la famille indo-européenne, a dû forcément exister. Reste à savoir de quelle manière.


George Dumézil, un archéologue de l'imaginaire indo-européen : L’archéologie à laquelle Georges Dumézil a consacré son œuvre ne ressemble pas à celles que l’on a coutume d’appeler de ce nom. En effet, son domaine est celui de l’imaginaire préhistorique des Indo-Européens qu’il a tenté d’atteindre par la comparaison des mythes et des épopées que leurs lointains successeurs, Indiens, Celtes, Germains, Romains, Grecs, etc., ont composés plusieurs siècles voire plusieurs millénaires plus tard.


L'hypothèse de steppes : L’hypothèse des steppes constitue la solution la plus généralement admise au problème du foyer original des Indo-Européens. Cette théorie propose de faire remonter l’origine des Indo-Européens aux steppes et steppes boisées d’Ukraine et de Russie méridionale. Cette hypothèse semble être la plus en accord, à la fois avec les conditions linguistiques requises et avec les données archéologiques, même si elle est loin de répondre à toutes les questions.


La diffusion préhistorique des langues indo-européennes : Comprendre la diffusion d’une langue implique dans un premier temps de comprendre les dynamiques sociales et économiques des sociétés qui la véhiculent. Une langue représente en effet la production secondaire d’une organisation sociale, et ce sont des changements sociaux tels que des migrations, des conquêtes, des voyages ou encore des échanges commerciaux qui sont susceptibles d’entraîner un changement linguistique.

Le problème indo-européen et l'hypothèse anatolienne : La question indo-européenne a souvent été mal interprétée et a engendré un certain nombre de théories fantaisistes sur la « religion indo-européenne », ou la « société indo-européenne ». En réalité, le terme « indo-européen » est purement linguistique, et fait référence à un ensemble bien défini de langues. Cet article propose une solution alternative au mythe démodé des guerriers à cheval nomades et défend la théorie selon laquelle les premières langues indo-européennes étaient originaires d’Anatolie (actuelle Turquie), et se diffusèrent en Europe au moment de la première expansion agricole.

Les migrations aryennes en Inde : Au cours du IIe millénaire av. J.-C., des peuplades aryennes auraient migré depuis l’Asie centrale vers les plaines de l’Indus puis du Gange, répandant en Inde leur langue sanscrite, le Véda et leurs structures sociales. Pourtant, dans le contexte indien, après deux siècles de recherches linguistiques et archéologiques auxquelles se joignent aujourd’hui l’anthropologie et la génétique, aucune preuve n’est venue étayer cette hypothèse, qui semble même reculer sans cesse.

Indo-Européens et anthropologie biologique : Si de par le passé l’étude des squelettes a parfois été mise à contribution pour confirmer certaines théories, c’est la génétique des populations contemporaines qui a orienté les hypothèses plus récentes dont celle de C. Renfrew. Les études menées sur des populations actuelles d’Asie centrale suggèrent que la distribution d’un marqueur des lignées paternelles évoque une expansion depuis l’Europe centrale. Les travaux en ADN ancien confirment ce fait dans des populations de l’âge du Bronze de la culture d’Andronovo considérée par les archéologues comme indo-européenne.

De l'arbre généalogique à la saisie du contact des langues : Largement utilisée en linguistique dès le XIXe siècle avec le développement de la grammaire comparée et des études indo-européennes, l’image intuitive de l’arbre généalogique trouve sa force dans sa simplicité. Toutefois elle ne saurait à elle seule servir de modèle pour rendre compte de l’évolution des langues car elle ne retient pas les effets induits par le contact au sein des populations qui les pratiquent.

Les Indo-Européens, vers la solution ? : La solution de l’« énigme indo-européenne » proviendra un jour de l’interaction complexe entre les résultats convergents de la linguistique, de la génétique, de l’histoire des religions et de l’archéologie, entre autres. Il n’existe pas encore de consensus dans l’ensemble des champs concernés, et même au sein de chaque champ. Mais il est probable qu’un modèle satisfaisant sera beaucoup plus complexe que ce qui a été proposé jusqu’à présent.

jeudi, 25 février 2010

La république des Maris, dernière nation païenne d'Europe

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES  - 1995

La république des Maris, dernière nation païenne d'Europe

 

Arms_of_Mari_El_svg.pngLa République des Maris est voisine de la République des Tatars. Les Maris sont un peuple d'origine fin­noise, qui se partage en deux groupes distincts: une minorité, les Maris des Montagnes, convertis depuis longtemps au christianisme et, une majorité, les Maris des Prés, qui sont restés païens.

 

Chaque village mari a son “karte” (son prêtre païen). Jusqu'en 1887, on pouvait assister à des prières collectives, avec la participation de tous les kartes et de dizaines de milliers de pélerins. Ensuite, les au­torités tsaristes ont interdits ces rassemblements religieux.

 

Aujourd'hui, les mouvements religieux jouent dans la région de la Volge un rôle plus important qu'en Russie "russe”. Depuis 1991, le paganisme renaît activement chez les Maris. En 1991, ont été déposés les statuts d'une «union religieuse», dénommée «Ochmari Tchimari» («Mari blanc/Mari pur», qui est au­jourd'hui la plus grande association païenne de toute la Fédération de Russie. Le prêtre suprême est un écrivain mari, Iouzykaïne. Les intellectuels maris considèrent que le paganisme est un instrument dans la lutte contre la russification.

 

Les Maris estiment que leur foi ancestrale est la plus pure. Le dieu-créateur suprême, Blank, est un «Grand Dieu» anthropomorphe, tsar de tous les dieux. Leur panthéon compte encore des dizaines d'autres dieux: le dieu de la vie organique, la Terre-Mère, la Mère-Soleil et les esprits de la nature qui habi­tent les bois et les arbres sacrés. Les kartes aspirent à rétablir les fêtes traditionnelles, où l'on sacrifie publiquement de grands nombres d'animaux.

 

Le président de la République des Maris est V. Zotine, un Mari de la Montagne converti au christianisme. L'opposition, elle, est païenne, et se propose de renverser le pouvoir chrétien. La République des Maris pourrait bien devenir un centre d'attraction pour les autres païens de la Fédération de Russie: les Oudmourtes, les Mordves et les Tchouvaches (source: Nezavissimaïa gazeta, 17 mars 1994).

 

La forêt de prières

 

Le 29 septembre 1995 s'est déroulé une grande cérémonie de prière collective des païens maris près du village de Koupriyanovo. Plusieurs milliers de personnes ont participé à cette cérémonie religieuse qui ne se déroule que très rarement: les précédentes ont eu lieu en 1953 et en 1882. Les kartes y sacrifiaient à l'époque des chevaux, des taureaux et des oies. Au XVIième siècle, au temps du Tsar Ivan le Terrible, les Maris ont été vaincus par les Russes et convertis de force au christianisme. Ils sont cependant demeurés fidèles à leur culte. A la différence des païens russes, les Maris n'avaient aucune idole et ne vénéraient que des forêts sacrées (source: Komsomolskaïa Pravda, 3 novembre 1995; l'auteur de cet article, l'écrivain V. Peskov, qualifie le paganisme comme “la plus ancienne et la plus poétique de toutes les reli­gions).

 

Anatoli Mikhaïlovitch IVANOV.

(correspondant de «SYNERGIES EUROPÉENNES» en Russie). 

mardi, 23 février 2010

Soyons différentialistes!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Soyons différentialistes!

 

Un professionnel du marketing me disait, il y a quelques semaines, la nécessité, dans notre monde mo­derne régi par la publicité, d'être identifié rapidement. Ainsi, on a accès aux médias parce que l'on est ca­talogué socialiste, gaulliste, nationaliste, écologiste, etc. Ce sont là des étiquettes commodes mais somme toute très réductrices. Cette règle actuelle, qui consiste à passer sous les fourches caudines de la “réduction”, nous sera appliquée que nous le voulions ou non. Dès lors, ce professionnel du marketing m'a demandé: vous, les synergétistes, comment vous définiriez-vous en un seul mot? C'est le terme “différentialiste” qui n'est apparu comme le plus proche de notre démarche.

 

Etre différentialiste, en effet, c'est être pour le respect des différences, des variétés, des couleurs, des traditions et donc hostile à toutes les tentatives d'uniformiser le globe, de peindre le monde en gris, de sérialiser outrancièrement les gestes de la vie quotidienne et les réflexes de la pensée.

 

Etre différentialiste, c'est être fondamentalement tolérant et non pas superficiellement tolérant comme se piquent de l'être beaucoup de vedettes du prêt-à-penser. Etre différentialiste, c'est respecter les forces numinales qui vivent en l'autre, de respecter les valeurs qui l'animent et s'incarnent en lui selon des mo­dalités différentes des nôtres.

 

Etre différentialiste, c'est donc être hostile à cette sérialisation planétaire à l'œuvre depuis plus d'un siècle, c'est refuser que tous les peuples soient soumis indistinctement aux mêmes règles dites univer­selles. C'est reconnaître à chaque communauté le droit de se développer selon ses rythmes propres. C'est être du côté de la loi de la différAnce, du processus de différAnce générateur de différEnces provi­soires, pour reprendre le vocabulaire de Derrida, c'est-à-dire du côté de la créativité, des mutations per­manentes et constructives, qui suscitent à chaque seconde des formes durables mais mortelles, mar­quées de cette finitude qui oblige à l'action et sans laquelle nos nerfs et nos neurones s'étioleraient, se laisseraient sans cesse aller aux délices de la mythique Capoue.

 

Le différentialisme est en fait une rébellion constante pour préserver ce travail permanent de différAnce à l'œuvre dans le monde, pour empêcher que de terribles simplificateurs ne le bétonnent, ne l'oblitèrent. Mais pour que différAnce il y ait, il faut que soient préservées les différEnces car c'est sur le socle de dif­férEnces en expansion ou en déclin que les hommes dynamiques ou réactifs créeront par différAnce les formes nouvelles, qui dureront le temps d'une splendide ou d'une discrète différEnce. Le différentialisme est donc une rébellion pour garder la liberté de se plonger dans le processus universel de différAnce, armé des vitalités ou des résidus d'une différEnce particulière, qui est nôtre, à laquelle le destin nous a liés.

 

Pour nous l'Europe sera différentialiste ou ne sera plus! Une Europe soustraite par les terribles simplifica­teurs au processus universel de différAnce, privée de ses différEnces vivaces ou abîmées, ne sera plus qu'une Europe étouffée par l'asphalte des idéologies-toutes-faites, une Europe qui n'aura plus la sou­plesse intellectuelle pour faire face adéquatement aux défis planétaires qui nous attendent. Nous ne voulons pas d'un modèle américain, de plaisirs sérialisés, nous voulons sans cesse de l'originalité, nos critères nous portent à aimer le cinéma ou la littérature d'un Chinois inconnu des pontifes médiatiques, d'un Latino-Américain brimé par sa bourgeoisie ou ses militaires aux ordres de Washington, d'un Africain qui n'a pas accès aux pla­teaux de Paris ou de New York, d'un Indien qui refuse les modes pour faire re­vi­vre en lui, à chaque ins­tant, la gloire de l'univers védique! Notre différentialisme est donc ouverture per­ma­nente au monde, com­bat inlassable contre les fermetures que veulent nous imposer la “political correc­tness” et le “nouvel ordre mondial”.

 

Mais cette propension à tout bétonner est aujourd'hui au pouvoir. Comme l'écrivait Pierre Drieu la Rochelle dans son Journal:  «J'ai mesuré l'effroyable décadence des esprits et des cœurs en Europe». Or depuis la rédaction de ce texte, la chute n'a fait que s'accélérer. C'est contre elle que nous avons voulu réagir en nous implantant partout en Europe: pour dialoguer, comparer nos héritages à ceux des autres, pour op­poser nos différEnces et participer ainsi au processus de différAnce, pour épauler ceux qui agissent en dehors des grands circuits commerciaux d'une culture homogénéisée, mise au pas, stérilisée.

 

Notre mouvement s'accroît, bon nombre d'initiatives s'adressent à nous pour œuvrer en commun: j'en veux pour preuve les associations allemandes ou italiennes qui vont participer conjointement à nos uni­versités d'été, qui nous fournissent des orateurs, qui travaillent chacune sur leur créneau, j'en veux pour preuve les journaux, grands et petits, qui s'adressent à nos cadres pour remplir leurs colonnes, j'en veux pour preuve ce théâtre de rue lombard qui pratique, de concert avec “Synergies”, le gramscisme dans sa version la plus pure. En effet, Antonio Gramsci pariait justement sur ce théâtre spontané des rues et des masses, animé par des “intellectuels organiques”, pour jeter bas le cléricalisme dominant à son époque. Berthold Brecht ne disait pas autre chose. La contestation radicale de cette fin de siècle est notre camp, notre seul camp. Nous ne luttons pas pour faire advenir en Europe une grande idéologie verrouillée, un iron heel  de nouvelle mouture, mais justement pour préserver ces spontanéités culturelles qui corrodent les raides certitudes des bigots de toutes espèces.

 

Gilbert SINCYR.

jeudi, 11 février 2010

The last of the Bo's is niet meer

The last of the Bo's is niet meer

boa sr.jpgIn India is vorige week op de gezegende leeftijd van (ongeveer) 85 Boa Sr overleden. Met het verscheiden van Boa komt een einde aan de Bo-stam. Volgens antroplogen hebben de Bo, die tot de ooit tien stammen omvattende Groot-Andamanese stamgroep behoorden, bijna 65.000 jaar op de Andamaneilanden gewoond, wat hen tot afstammelingen van een van de oudste menselijke culturen op aarde maakt(e).
 
Afgeslacht

De Groot-Andamanese groep telt nu nog 52 leden. Toen de Britten de eilanden in 1858 begonnen te koloniseren, waren er dat nog ruim 5.000. De meeste stamleden werden vervolgens ofwel door de Britten afgeslacht, ofwel overleden ze door van de kolonisten opgelopen ziektes. De Britten hielden tevens veel Andamanezen in een speciaal "home" gevangen in een poging hen "te beschaven". Geen enkele van de 150 in gevangenschap geboren kinderen werd ooit ouder dan twee jaar.
 
Te moeilijk toegangbaar
Het geluk ligt vaak in een klein hoekje: de Jarawastam, die enkele kilometer verderop leefde, ontsnapte aan een gelijkaardige uitroeiing omdat zij in een voor de kolonisten te moeilijk toegangbaar woud woonden. (belga/odbs)

 

jeudi, 14 janvier 2010

Qui était Barry Fell?

barry_fell.jpgQui était Barry Fell ?

 

Né en 1917 et décédé en 1994, Barry Fell était professeur d’océanographie à l’Université de Harvard aux Etats-Unis. Il déchiffra le Linéaire B crétois. Son domaine de recherche privilégié était la préhistoire de l’Amérique du Nord. Au cours de ses travaux, il s’intéressa tout particulièrement aux signes de l’Ibérie préhistorique, à l’écriture ogham irlandaise et à l’écriture tifinagh berbère, que les pionniers marins venus d’Europe en Amérique du Nord à la préhistoire ont laissé comme traces, surtout sous la forme d’inscriptions rupestres à l’âge du bronze. Fell est le savant qui a découvert les liaisons transatlantiques entre l’Europe et l’Amérique du Nord, telles qu’elles étaient organisées il y a des millénaires. Les résultats de ses recherches ont été publiés pour l’essentiel dans les Epigraphic Society Occasional Papers.

 

Ouvrages principaux :

America B.C. – Bronze Age America, 1982.

Saga America, 1988.

 

Son principal disciple est l’Allemand Dietrich Knauer (né en 1920).

mardi, 22 décembre 2009

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

 

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

 

 

Jacques-Olivier MARTIN

 

Considéré comme le bastion traditionnel du catholicisme, l'Amérique latine est actuellement l'enjeu de luttes d'influence entre différents groupes religieux chrétiens dont le prosélytisme atteint son paroxysme. Vivement encouragés par les dirigeants politiques du continent, le développement des sectes protestantes permet d'assurer le contrôle politique de populations misérables qui constituent le terreau des guérillas anti-américaines et dont quelques prêtres catholiques, adeptes de la Théologie de la Libération ont pris la défense. Particulièrement visés par cette stratégie, les Indiens constituent en effet une menace pour le système car ils associent revendications sociales et défense de leur identité culturelle et religieuse. D'où l'intéret d'une religion associant individualisme, universalisme et soumission à I'ordre établi, valeurs par excellence d'une société soumise à I'hégémonie américaine.

 

Un continent soumis depuis cinq siècles à l'hégémonie européenne, puis américaine

 

Avec l'accession à l'indépendance des anciennes colonies de la couronne d'Espagne, l'Amérique latine connaît tout le contraire d'un processus d'émancipation durant le XIXième siècle. Ses élites politiques, essentiellement espagnoles, ne parviennent pas à contrer les plans de l'Angleterre qui impose le morcellement de l'empire en une kyrielle de petits États. C'est ainsi qu'ils font échouer, en 1839, le projet de Grande-Colombie initié par Simon Bolivar, et font exploser les Provinces-Unies d'Amérique centrale en plusieurs petits États de taille ridicule. Conformément à sa logique de thalassocratie, l'Angleterre empêche ainsi la constitution de toute puissance continentale qui pourrait contester les règles commerciales et financières qu'elle impose facilement à de petits États clients.

 

Les États-Unis, malgré la politique de solidarité panaméricaine annoncée par la doctrine de Monroe datant de 1823, se méfient aussi de l'émergence d'une puissance ibéro-américaine. La création du micro-Etat panaméen en 1903 est la mise en application la plus éloquente de ce principe, les Américains fomentant une révolte contre la Colombie pour obtenir la sécession du Panama, afin de se faire concéder la souveraineté sur le canal par un régime panaméen faible et soumis à l'Oncle Sam.

 

L'éclatement de l'Amérique latine en une vingtaine d'États ouvre pour le continent une ère de chaos et d'anarchie entretenue par les grandes puissances. Des conflits meurtriers opposent ainsi de jeunes nations; tels que la guerre du Pacifique des années 1880, entre le Pérou et la Bolivie d'une part, et le Chili d'autre part. Les dépôts de nitrate du désert d'Atacama suscitaient en effet la convoitise des trois États mais les capitalistes européens ont soutenu financièrement le Chili, vainqueur du conflit, car le gouvernement péruvien avait appliqué une politique spoliatrice à leur égard. La stratégie américaine du Big Stick  (gros bâton) et de la diplomatie du dollar vient concurrencer les Européens, surtout vers la fin du XIXième siècle, lorsque les Etats-Unis chassent les Espagnols de Porto-Rico et de Cuba, îles dans lesquelles ils avaient investi dans les plantations de canne à sucre. En 1901, l'amendement Platt voté par le Sénat transforme Cuba en un protectorat de fait, Haïti et Saint-Domingue subissant le même sort en 1916 et en 1923. Quant à la diplomatie du dollar, elle s'applique aux États plus solides ou plus éloignés de la sphère d'influence américaine.

 

Le sous-développement endémique dont a toujours souffert l'Amérique latine s'explique donc en partie par sa dépendance politique. La composition ethnique des États de la région, héritage de la colonisation espagnole, ne fait qu'aggraver le phénomène car, face à une masse indigène, noire ou métisse, une élite créole affiche un sentiment de supériorité sociale et ne montre guère d'intérêt pour le développement économique. Lorsqu'une mine est exploitée à l'aide de capitaux et d'ingénieurs européens, il est fréquent que la ligne de chemin de fer qui achemine le minerai destiné à l'exportation vers le port ne soit même pas connectée à la ville la plus proche.

 

Eralio%20Gill%20et%20Nicolarapa.jpgLa Révolution mexicaine de 1912 est sans doute la première réaction notable à cette situation de pillage du pays par les capitalistes étrangers et leurs collaborateurs locaux. Le Mexique était en effet dépossédé de ses champs pétrolifères dont la concession était accordée aux compagnies anglo-saxonnes; tandis que lrs terres se concentraient entre les mains de quelques familles au détriment des communautés indiennes. Cette Révolution est l'aboutissement d'un mouvement pour l'émancipation des Indiens et contre le capital étranger, s'accompagnant de la lutte contre le clergé catholique qui est considéré comme le meilleur allié du régime. Le rôle de ce dernier a été déterminant dans les conflits qui ont ponctué l'histoire de l'Amérique latine, surtout au XXième siècle, période de remous et de mutations pour l'Église catholique.

 

L'Église catholique dans la tourmente révolutionnaire.

 

Les sociétés latino-américaines ont longtemps été dominées par la trilogie Evêque-Général-Propriétaire terrien. Cette alliance du sabre et du goupillon est conforme à la définition de la religion, certes restrictive  —mais particulièrement pertinente lorsque l'on analyse le rôle de l'Église catholique sur ce continent—  du sociologue français Pierre Bourdieu. Selon lui, le religieux se caractérise par sa fonction de conservation et de légitimation de l'ordre social. Si les diverses religions polythéistes traditionnelles encore pratiquées à travers le monde ont rarement pour objectif de conquérir et d'influencer le pouvoir, les monothéismes chrétien et musulman ne font quant à eux pas preuve de la même faiblesse, s'appuyant largement sur les régimes politiques en place, quelle que soit leur nature.

 

Le Vatican joue d'ailleurs un rôle direct dans la politique latino-américaine, tel le nonce apostolique négociant la reddition de Noriega à Panama ou le cardinal de Managua qui œuvre à la recomposition politique d'une opposition au gouvernement sandiniste. Si l'Église a constitué la première force d'opposition au régime du général Pinochet, la majorité de la hiérarchie catholique conservatrice du Brésil contribue à la chute du président J. Goulard en 1964 et à l'instauration du gouvernement militaire. En organisant «une marche avec Dieu pour la famille et la liberté»,en mars 1964, avec le financement de la CIA et du patronat, elle assène un coup décisif au régime civil. Son but est en effet de mettre un terme aux réformes sociales entamées par le régime, assimilées à une évolution vers le communisme et soutenues par la minorité réformiste du clergé s'inspirant de Dom Helder Camara.

 

L'Église est aussi au centre des conflits qui ensanglantent l'Amérique centrale depuis des années, où elle torpille le projet réformiste du président Arbenz au Guatemala. Au nom de l'anti-communisme, le Congrès eucharistique réunit 200.000 personnes en 1951dans une croisade pour la «défense de la propriété». Par la suite, le cardinal Casariego restera muet sur les atrocités commises par les juntes au pouvoir à partir de 1954. Quant à la famille Somoza, elle a bénéficié aussi du soutien de l'Église nicaraguéenne, l'archevêque de Managua sacrant, en 1942, la fille du dictateur reine de l'armée avec la couronne de la Vierge de Candelaria.

 

La Théologie de la libération rompt avec l'attitude traditionnelle de l'Église catholique.

 

Le changement d'attitude de l'Église date de la fin des années cinquante, à la suite du choc causé par la révolution cubaine de 1958. Bien avant la convocation du Concile Vatican II, le pape Jean XVIII manifeste en effet la volonté que l'épiscopat latino-américain sorte de son inertie et s'adapte aux réalités du continent, soulignant l'urgence d'une réforme des structures sociales. Selon lui, l'Église doit retrouver l'appui des masses en adoptant un discours différent de celui de l'acceptation des rapports sociaux, idée développée lors du congrès de Medellin de 1968.

 

Le Concile Vatican II développe ainsi plusieurs thèmes devant réconcilier le peuple et son Église, qui doit désormais se considérer comme le «peuple de Dieu». Le rôle du laïc est revalorisé afin de rendre plus active la parti­ci­pa­tion de tous les fidèles aux célébrations liturgiques et à l'enseignement du catéchisme. Les paroisses sont décentralisées pour que des «commu­nautés de base» s'auto-organisent dans le monde rural et dans les bidon­villes. L'intérêt que présentent ces communautés est double: d'une part elles intègrent dans les chants et les rituels certains éléments de la reli­gio­si­té populaire, d'autre part elles sont le lieu où les populations pau­vres dis­cu­tent des problèmes quotidiens avec des animateurs.

 

En Amérique centrale, ces théologiens de la libération sont même à l'origine du développement de plusieurs mouvements révolutionnaires, effectuant un travail de conscientisation des masses et brisant le tabou de l'incompatibilité entre chrétiens et marxistes. Che Guevara est le symbole de cette pensée christo-marxiste qui reconnaît le droit à l'insurrection. En outre, le “Che” fait figure de martyr dans les églises populaires. En disant que la révolution latino-américaine serait invincible quand les chrétiens deviendraient d'authentiques révolutionnaires, il prouvait que ce basculement idéologique de l'Église risquait de déstabiliser des régimes politiques privés de réels soutiens populaires.

 

Au Nicaragua, où les communautés de base diffusent la propagande du front sandiniste, le Père Ernesto Cardenal est converti par les Cubains aux thèses révolutionnaires et prône l'idée que le royaume de Dieu est de ce monde. Les chrétiens seront d'ailleurs représentés dans le gouvernement san­diniste dans lequel ils auront quatre ministres. Au Guatemala, la jeunes­se d'action catholique rurale se rapproche des communautés paysannes in­diennes en révolte dans les années soixante, l'accentuation de la ré­pres­sion militaire contribuant à ce phénomène.

 

C'est au Salvador que la solidarité entre les guérilleros et les chrétiens progressistes est la plus frappante, ces derniers étant plus nombreux que les marxistes dans le mouvement de guérilla. Le réseau des centres de for­ma­tion chrétienne mobilise les paysans salvadoriens, combinant évan­gé­li­sa­tion, alphabétisation, enseignement agricole et éveil socio-politique. Le par­cours de Mgr Romero, l'archevêque de San Salvador constitue presque l'ar­chétype de cette prise de conscience politique de certains hommes d'É­glise. L'élection au siège archiépiscopal de cet évêque conservateur proche de l'Opus Dei avait enchanté les dirigeants du pays, le Vatican l'ayant choisi pour faire contrepoids à son prédécesseur, Mgr Chavez, qualifié d'«ar­che­vê­que rouge». Mais, suite à l'un des nombreux assassinats de prêtres par les militaires survenu en 1977, il rejoint les rangs des révolutionnaires avant de se faire à son tour assassiné. Étant devenu le martyr de la révolution sal­va­dorienne, il est l'un des symboles d'un phénomène qui inquiète de plus en plus le Vatican.

 

La mise à pieds des chrétiens progressistes par Jean-Paul II

 

folklore.jpgLa Théologie de la libération, impulsée par des intellectuels occidentaux et par des prêtres latino-américains venus étudier dans les universités euro­péen­nes, a donc trouvé dans les réalités socio-politiques du continent le ter­reau favorable à son expansion. Dès le début des années 80, Jean-Paul II, pa­pe farouchement anticommuniste, tente cependant de juguler ce mou­ve­ment. En 1984, une “instruction sur quelques aspects de la Théologie de la li­bération” fait le point sur ce phénomène en évitant de le condamner en bloc mais en critiquant certaines de ses dérives. Dans ce document, le car­di­nal Ratzinger, préfet de la congrégation de la foi met en garde contre le ris­que de perversion de l'inspiration évangélique par la philosophie mar­xiste.

 

Par peur de se couper définitivement d'un mouvement dont il espère toujours récupérer les bénéfices, il ne condamne pas ouvertement les prêtres progressistes mais il adresse des critiques régulièrement à ceux qui confondent christianisme et marxisme. C'est ainsi qu'il avait demandé, sans succès, de se retirer aux quatre prêtres membres du gouvernement sandiniste. De même, il entretenait des relations difficiles avec Mgr Romero à qui il reprochait son zèle excessif dans l'action sociale, demandant quand même au président Carter de cesser son aide à une armée salvadorienne “qui ne sait faire qu'une chose: réprimer le peuple et servir les intérêts de l'oligarchie salvadorienne”. Au Nicaragua, alors qu'il célèbre une messe à Managua en 1983, il fait une prière pour les prisonniers du régime mais passe sous silence les crimes des contras.

 

Dans son “instruction sur la liberté chrétienne et la libération” en 1986, le cardinal Ratzinger ne renie pas la préférence de l'Eglise pour les pauvres, le discours du Vatican tentant en fait de s'approprier la théologie de la li­bé­ra­tion mais en aseptisant le discours de ses aspects les plus révolution­nai­res. La seconde stratégie adoptée par Jean-Paul II consiste à nommer systé­matiquement des évêques conservateurs de l'Opus Dei à la tête des diocèses progressistes. En Equateur, il a ainsi contenu l'influence grandis­sante d'une partie du clergé catholique qui militait en faveur de la cause indigène, incarné depuis les années 50 par Mgr Leonidas Proano, sur­nom­mé l'“évêque des Indiens”.

 

Le catholicisme latino-américain subit la concurrence croissante des sectes protestante.

 

L'engagement d'une partie du clergé en faveur des guérillas d'Amérique centrale ou de ceux qui luttent contre les latifundistes en faveur des paysans sans terres au Brésil a généré de nouvelles formes de religiosité convenant mieux aux intérêts des régimes pro-américains de la région. Il s'agit essentiellement d'églises relevant du pentecôtisme (assemblée de Dieu, Eglise de Dieu, de l'Evangile complet, Prince de la paix) ou de diverses variétés du néo-pentecôtisme (Eglise Elim, du Verbe, Club 700 de Pat Robertson ou club PTL). Ces mouvements reçoivent donc une aide importante de leur nation d'origine, les Etats-Unis, où ils sont dirigés par les anticommunistes les plus fanatiques formant l'aile droite du parti républicain.

 

On comprend dès lors pourquoi les oligarchies et les militaires ont favorisé ces sectes protestantes dont l'influence grandit sans cesse auprès des couches populaires les plus misérables. Leur message va dans le sens d'un désengagement vis-à-vis de la sphère publique en prônant une interprétation individualiste du christianisme, centré sur le perfectionnement de l'individu. Comme les protestants européens, ils assèchent la religion qui se réduit à un simple moralisme, fondé sur l'honnêteté, le refus de l'alcoolisme. Ce désintérêt pour le salut collectif se double d'une action efficace menée en direction des populations déshéritées à qui les protestants prodiguent des aides grâce à l'argent venu des Etats-Unis. Le soutien apporté aux victimes du tremblement de terre qui a frappé le Guatemala en 1976 s'est accompagné d'une vaste campagne de conversion, Jerry Faldwell et Pat Robertson venant évangéliser les foules dans les stades de football. La même année, l'Alliance évangélique se range du côté d'un régime qui a massacré entre 100.000 et 200.000 Indiens en prônant le respect des autorités. En 1982, c'est un chrétien conservateur de l'Eglise du Verbe, le général Rios Montt, qui accède au pouvoir à la suite d'un coup d'Etat. Avec lui, répression et massacres d'Indiens s'accentuent tandis que des hameaux stratégiques poussent comme des champignons. Bâtis sur le modèle des villages stratégiques de la guerre du Viet Nam, ces hameaux ont pour but de déstructurer les communautés indiennes afin de détruire les bases de la guérilla. Les Etats-Unis jouent un rôle actif en fournissant capitaux et experts à l'armée guatémaltèque.

 

Au Salvador, les militaires se servent également des évangélistes pour donner un contenu idéologique à leur action contre-révolutionnaire. Ces sectes protestantes font aussi une percée dans des pays où règne la paix. Au Brésil, ils ont supplanté les adeptes de la Théologie de la libération. Leur succès auprès des pauvres est immense car on estime qu'ils représentent près de 14% des électeurs contre seulement 2% pour les prêtres progressistes. En 1994, ils contribuent à la défaite électorale du candidat de gauche, Lula, qui est assimilé au diable. En constituant un groupe parlementaire évangélique, ils sont ainsi en mesure de négocier des aides pour leur église.

 

Un christianisme de plus en plus négateur de l'identité indienne

 

Les églises protestantes mènent aussi une politique d'éradication du «paganisme» indien avec lequel les catholiques avaient dû composer. Ce syncrétisme indien-chrétien est visible dans toutes les manifestations de la vie religieuse et dans les lieux de culte, telle l'église du village de Mixtèque s'appelant «maison du soleil» et les saints étant appelés les dieux, alors que seul le mot espagnol désigne Dieu. Les rites et les offrandes pratiqués sont d'ailleurs souvent à mi-chemin entre le sacrifice et la prière chrétienne.

 

Chez les Afro-Brésiliens, le catholicisme s'est transformé en une religion magique faite de croyance en des êtres surnaturels, de communication avec les âmes des défunts. Un rôle important est donné à l'interférence des saints dans la vie terrestre, le Dieu ne revêtant pas l'image du Père dominateur et puissant habituel.

 

Les catholiques, qui s'érigent en défenseurs des Indiens, poursuivent aussi leur vieille stratégie d'acculturation, obligeant ainsi les Amazoniens récemment convertis à adopter un mode de vie sédentaire, prélude à leur prolétarisation. Le mythe de Bartolomé de las Casas, fondateur de la pensée indigéniste, illustre l'ambiguité de ce rôle de protecteur, car, selon lui, il n'existait ni Espagnols ni Indiens, mais un seul populus christianus.  La défense des Indiens se limitait donc au domaine social mais se gardait bien d'aborder le problème de l'identité.

 

Le monothéisme latino-américain a donc été le complément indispensable à la domination socio-politique des Indiens dont la renaissance ne pourra se réaliser que par un retour aux sources de leur religion, ce que les révolutionnaires marxistes n'ont jamais compris.

 

Jacques-Olivier MARTIN.