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mercredi, 03 novembre 2010

Il tramonto del Leviathan statunitense

Il tramonto del Leviathan statunitense

di ANTONIO GREGO

Ex: http://www.centroitalicum.it/

PREMESSA SULL’ESPANSIONISMO STATUNITENSE

uncle-sam-cartoon-pelosi-reid-obama.jpgNel libro Terra e Mare (1) il grande giurista e teorico dello Stato Carl Schmitt interpreta la storia del mondo alla luce della centralità dello scontro geostrategico tra l’elemento tellurico e l’elemento marino, dai quali discendono due diverse concezioni della politica, del diritto e della civiltà. Lo scontro tra questi due elementi ha origine con la storia dell’uomo, basti pensare alla rivalità tra Roma e Cartagine, ma è solo con l’avvento della modernità che l’elemento marino, fino ad allora sottomesso a quello tellurico sembra essere in grado di fronteggiarlo alla pari e anche di avere la meglio su di esso.
L’Inghilterra, conquistando le terre al di là dell’oceano ed esercitando la supremazia sui mari, si è affermata come potenza marittima mondiale: essa è il Leviathan, che si oppone alla potenza terrestre (Behemoth) rappresentata dagli Stati continentali, fondati sull’identità collettiva della nazione e sulla difesa della patria e dell’integrità territoriale.
Con il tramonto della potenza inglese sono gli Stati Uniti a prenderne il posto, rivendicando non solo l’egemonia sulle Americhe con la ‘dottrina Monroe’, ma anche la supremazia negli oceani, attraverso la forza aeronavale, e tramite quest’ultima il dominio globale. Nell’affermazione di questa egemonia marittima mondiale si nasconde, secondo Schmitt, il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale, cioè in diritto commerciale, e introduce una forma di moralismo universalistico, politicamente pericoloso, perché fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta. Sicché il forte radicamento tellurico caratteristico del Vecchio Mondo (Eurasia e Africa) si confronta con il Nuovo Mondo, il luogo dell’universalismo indistinto e delocalizzato, ricettacolo di progetti messianici e mondialisti. Di qua una visione imperiale tellurica, di là una talassocrazia che mira all’egemonia mondiale; di qua il nomos della terra, di là la ‘tirannia dei valori’, il relativismo e il nichilismo assoluto che derivano dallo sradicamento e dal primato dell’economia sulla politica. Si tratta quindi di due concezioni geopolitiche, giuridiche e spirituali radicalmente opposte. Tale percezione di uno scontro fatale tra due opposte visioni del mondo si giustifica anche con il vissuto contingente e le posizioni assunte da Schmitt, basti pensare che alla fine degli anni Trenta questi applaudì al Patto Ribbentrop-Molotov ed al contempo riconobbe nell’Occidente, Gran Bretagna e Stati Uniti, l’avversario irriducibile dell’Europa.
Gli Stati Uniti infatti, fin dalla loro fondazione, si sono basati su un costrutto ideologico che postula la loro unicità come luogo della giustizia e della pace (Occidente) in contrapposizione all’Europa (Vecchio Mondo) luogo dell’oscurantismo e della tirannia. Tale forma di ideologia con venature messianiche trova il suo fondamento nel calvinismo professato dai Padri Pellegrini fuggiti dal Vecchio Continente per approdare sulle coste dell’America con l’intento di costruire la ‘Nuova Gerusalemme’. Riassumendo gli Stati Uniti si possono definire, per dirla con Damiano, «una nazione ideocratica, ‘aiutata’, nel suo ‘tracciato’ espansionista, da una costellazione iniziale di favorevoli circostanze geostoriche, quali, l’immenso spazio a disposizione; l’isolamento geografico; l’assenza di potenti vicini; una forte immigrazione di popolamento; la conflittualità europea, specie nei primi decenni dopo l’indipendenza; il predominio inglese sui mari. A ciò va aggiunta la circostanza storica probabilmente più importante, ossia la “deriva suicidaria dell’Europa”, a partire dalla prima guerra mondiale» (2).

SEGNALI INEQUIVOCABILI DI DECADENZA
L’espansionismo statunitense, che ha avuto diverse fasi, arriva al suo culmine nel ventesimo secolo, quando Washington decide di superare la dottrina Monroe di egemonia continentale per passare alla fase ulteriore dell’egemonia globale imponendosi come agente di ‘sovversione’ mondiale (con, a partire dal 1948, Israele quale sub-agente di destabilizzazione regionale nel Mediterraneo e Vicino Oriente). Si badi bene che l’opera di ‘distruzione creativa’ messa in atto dagli Stati Uniti, parte essenziale del suo moto espansionistico, ha agito ed agisce ancora in tutti i campi: economico, culturale, giuridico, spirituale, ma soprattutto a livello politico e geopolitico.
A partire dal 1945, l’emisfero occidentale, coincidente fino a quel momento con le Americhe secondo l’originaria formulazione della dottrina Monroe, si espande fino ad includere prima l’Europa occidentale ed il Giappone, sconfitti ed occupati militarmente, poi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo intero. La fine del bipolarismo est-ovest ha, difatti, prodotto un vuoto nel continente eurasiatico che, data l’estrema debolezza e mancanza di obiettivi degli Stati europei, gli Stati Uniti, come unica superpotenza rimasta, hanno cercato velocemente di colmare prima che nuovi attori sorgessero a contrastarla. All’interno di questa strategia americana rientra il fenomeno della globalizzazione, esso non rappresenta altro che il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di estendere al mondo la propria Ordnung. Nasce, infatti, proprio in questa fase il Project for the New American Century (PNAC, Progetto per il Nuovo Secolo Americano), un think tank americano, fondato nel 1997, che delineerà la politica americana negli anni successivi. Tra i fondatori del PNAC, in prevalenza ebrei americani, ci sono personaggi che durante i due mandati presidenziali di Bush Jr. assumeranno incarichi di governo, basti pensare a Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. Il PNAC non è altro che un progetto scaturito dal filone neoconservatore che, preso il sopravvento nella seconda metà degli anni ’90, fa l’esaltazione fanatica e millenarista dei predetti miti fondatori degli Stati Uniti e del ‘destino manifesto’ quale missione affidata da Dio di civilizzare il mondo, uniti alla crociata ideologica trockista per l’‘esportazione della democrazia’ e la ‘guerra permanente’. Proprio negli anni ’90 si assiste ad una politica estremamente aggressiva e unilateralista di Washington che tuttavia nel mentre continua attivamente a stimolare negli altri Paesi, specialmente in Europa, il multilateralismo e l’interconnessione finanziaria, da utilizzare come leve per indebolire ulteriormente la loro sovranità. Tuttavia la ‘fine della storia’ pronosticata da Francis Fukuyama e il trionfo definitivo del capitalismo di stampo americano che avrebbe portato la globalizzazione e l’americanizzazione del mondo, non si sono verificati.
La fase unipolare dell’espansionismo americano, iniziata approssimativamente nel 1991 e terminata approssimativamente nel 2001, rappresenta non l’inizio del “Nuovo Secolo Americano”, come auspicato dagli americanisti di tutte le risme, ma bensì la sua conclusione, il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di preservare l’egemonia globale e frenare la nuova fase multipolare subentrante. A ben vedere il momento di massimo unipolarismo americano ha coinciso con il culmine della globalizzazione.
Il processo della globalizzazione, le cui origini risalgono al periodo 1944-1947 (Istituzione degli accordi di Bretton Woods, creazione del Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e accordi GATT), rappresenta la proiezione mondiale del sistema statunitense in una logica unipolare egemonica. Si può delimitare la fase ascendente della globalizzazione propriamente detta nel periodo che va dai primi anni ’80 (1980: elezione di Reagan, 1982: morte di Brezhnev) al 1995, quando raggiunge il suo culmine con la creazione dell’OMC ovvero l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attestando l’apparente trionfo dell’ideologia liberista che necessita della libera circolazione di capitali, beni e persone.
Non è un caso che proprio in questo breve periodo di trionfo statunitense avviene quella che per Vladimir Putin è stata «la peggior tragedia geopolitica del XX secolo », ovvero il crollo e lo smembramento dell’Unione Sovietica. Un’altra ‘tragedia geopolitica’ avverrà in piena Europa con la dissoluzione della Jugoslavia nel 1991, la conseguenti guerre separatiste e l’apice dell’aggressività anti-europea statunitense raggiunto nel 1999, con i bombardamenti sulla Serbia dietro il paravento della NATO. Tuttavia oggi possiamo affermare che il culmine del ‘momento unipolare’ degli Stati Uniti raggiunto negli anni ’90 piuttosto che rappresentarne il trionfo ne segna già l’inizio della discesa nel baratro.
Al volgere del Terzo Millennio gli USA erano in forte difficoltà sul piano politico-economico, entrando in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata, sorretta da un fortissimo indebitamento interno, da un grande passivo della bilancia dei pagamenti con forte indebitamento esterno, da una tendenza fortemente al ribasso sulla quota imputabile di commercio internazionale. Anche sul piano internazionale la loro egemonia era messa in discussione dall’emersione del potenziale polo geopolitico e geoeconomico rappresentato dall’Unione Europea. La recessione ed il declino della superpotenza USA, la fine delle forme specifiche della globalizzazione, stavano, infatti, avvenendo da diversi anni prima dell’11 settembre 2001, ed evidenti ne erano i segnali. La situazione interna degli USA, già dagli inizi degli anni ’90, presentava dei problemi: basti ricordare che nel 1992 il debito nazionale generale era di oltre 4.000 miliardi di dollari (3), l’assistenza sanitaria era carente e una gran parte della popolazione americana si ritrovava a non avere una minima protezione sociale, il livello degli investimenti e dei risparmi erano inferiori a quelli dei paesi europei, e dal punto di vista produttivo vi era una bassa competitività con minimi tassi di crescita di produttività. La distanza esistente tra ricchi e poveri negli USA è aumentata a dismisura negli ultimi 30 anni; se nel 1969 infatti, l’1% della popolazione possedeva il 25% di ricchezza nazionale, nel 1999 questa percentuale è salita a circa il 40%, mentre l’indebitamento finanziario interno è passato da 12 a 22 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2000. Se a ciò si aggiunge l’enorme indebitamento degli USA nei confronti del resto del mondo, coperto da appena il 4% delle riserve di valuta, e il sempre più alto disavanzo commerciale, si comprende quanto diventano forti le debolezze dell’economia americana negli anni ‘90, in piena era della globalizzazione. Inoltre, l’eccedenza degli investimenti attuati da un esagerato afflusso di capitali esteri e da una politica monetaria troppo espansiva ha portato a valori artificialmente gonfiati in Borsa con la conseguente crisi che ne è seguita; i livelli di profitto sono scesi, così come i consumi, ed è evidente che gli Stati Uniti erano in una seria fase di difficoltà economica, ben nascosta dai media e dalle istituzioni internazionali compiacenti, fino a giungere alla recessione, molto prima dei tragici eventi dell’11 settembre.
Un falso grande boom americano sostenuto da un decennio in cui le famiglie e le imprese hanno speso molto di più di quanto guadagnavano e un indebitamento non più sostenibile che, con la successiva moderazione dei comportamenti economici, porta ad un forte rallentamento dell’economia, fino alla recessione. Ecco quindi che, nella seconda metà degli anni ’90, attraverso la guerra del dollaro contro l’euro, la crisi petrolifera a guida americana e la gestione della New Economy nel contesto generale della finanziarizzazione dell’economia, gli Stati Uniti hanno cercato di nascondere la loro crisi ed hanno giocato le loro carte per soffocare le mire di affermazione ed espansionistiche innanzitutto del nuovo polo dell’Unione Europea e in misura via via maggiore anche degli altri poli geopolitici mondiali emergenti. Il gioco del caro dollaro e del caro petrolio si accompagna, quindi, alla ‘bolla finanziaria’ sui titoli della “Net Economy”; questo è uno specifico aspetto del modello complessivo neoliberista imposto dalla globalizzazione americana, una speculazione finanziaria che fa sì che società con scarso fatturato, o appena quotate, nel giro di un mese triplichino, quadruplichino il loro valore. Una globalizzazione finanziaria che da una parte crea forti condizioni e aspettative di guadagno facile e dall’altra determina in continuazione paure di disastrosi crolli. Un NASDAQ, il mercato azionario dei titoli tecnologici, continuamente sbalzato fra eccessi rialzisti ed eccessi ribassisti. E questi terremoti del NASDAQ trovano i loro mandanti proprio negli Stati Uniti, capaci di attirare attraverso i titoli della Net Economy enormi capitali europei sottoposti poi al rischio di continui ed improvvisi crolli. Tuttavia nemmeno la guerra contro l’Euro, l’imposizione del neoliberismo globale e la finanziarizzazione dell’economia sono riusciti ad impedire il declino della potenza americana e l’ascesa di poli geopolitici alternativi, già percepibile all’inizio del terzo millennio. A questo punto, persa la partita per imporre ‘con le buone’, attraverso la globalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione speculativa, il loro dominio sul mondo e la ‘fine della storia’, gli Stati Uniti sono costretti a ricorrere ‘alle maniere cattive’, alla guerra, ultima risorsa per uscire dalla crisi sistemica. Dal cilindro viene tirato fuori Bin Laden e il terrorismo islamico, diviene vitale per evitare il disastro che sarebbe anche solo il rallentarsi dei movimenti di capitale verso New York, un attacco al cuore dell’Eurasia con il pretesto della “guerra infinita contro il terrorismo”.

IL DECLINO DELLA POTENZA AMERICANA NEL MONDO
La fase finale e irreversibile del declino americano inizia nel 2001, volendo fare riferimento ad un evento spartiacque si può prendere l’attacco alle torri gemelle av- venuto l’11 settembre del 2001 come simbolo del ‘crollo’ del ‘sogno americano’ e della fine del dominio assoluto della sola superpotenza fino a quel momento.
L’estrema aggressività e l’avventurismo di Washington nel periodo 1995 – 2001 sono stati una disperata reazione alla consapevolezza della fine della fase unipolaristica che ha subito un colpo mortale grazie a due eventi fondamentali: l’adozione dell’Euro nel 1999 e l’elezione di Vladimir Putin alla presidenza russa nel 2000. Come detto in precedenza, tramontato il sogno di egemonia mondiale non restava che la guerra quale extrema ratio per impedire o ritardare l’avvento del multipolarismo. Il periodo 2001 – 2003 è il colpo di coda dell’unipolarismo morente, nel quale gli USA camuffandosi dietro una riesumata NATO si impadroniscono dell’Afghanistan e mettono piede nel Kirghisistan e dell’Uzbekistan, per poi passare all’occupazione dell’Iraq. Nel frattempo la NATO si espande all’inverosimile e attraverso le ‘rivoluzioni colorate’ finanziate da Soros in Ucraina e Georgia arriva a minacciare i confini della Russia. In questo periodo la dottrina della ‘stabilità’ politico-economica internazionale diventa elemento propagandistico prioritario nel tentativo di aggressione all’Eurasia e di dominio manu militari del mondo, dominio imposto attraverso il nuovo ruolo dell’ONU depotenziato e sostituito in pieno dalla NATO. In questo periodo la situazione interna degli USA si aggrava. La disoccupazione ha registrato un notevole aumento, dall’inizio del 2001 si sono avuti oltre 1 milione e 200.000 di disoccupati in più ed il tasso di disoccupazione nell’agosto di quell’anno è arrivato al 4,9%; si è registrata una diminuzione nei consumi di oltre lo 0,5% mentre il PIL nel secondo semestre del 2001 cresce solo dello 0,2%, e il terzo trimestre è addirittura negativo (-0,4%) segnalando, anche ufficialmente, la fase recessiva. Negli anni successivi la situazione si aggrava a causa del drammatico legame fra disoccupazione e logiche liberiste di precarizzazione del vivere sociale. Si aggiunga un mercato di capitali ‘pompato’, dove anche i rialzi e le piccole riprese sono imputabili ai giochi a sostegno dei titoli delle imprese meglio proiettate nei nuovi scenari di economia di guerra post-globale. Si decide di marciare secondo i parametri del sostenimento della domanda e della produzione attraverso una sorta di keynesismo militare come tentativo di risolvere, o almeno gestire, la crisi; per questo l’economia di guerra dell’era Bush Jr. aveva carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata sostituendo il Warfare al Welfare, con continui tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale. Dopo l’iniziale apparente successo dell’avventurismo militare americano, nel periodo 2001 – 2003, dovuto all’incertezza internazionale che caratterizzava l’alba della nuova fase multipolare e alla disorganizzazione delle nazioni emergenti, il successivo periodo 2004 – 2009 sancisce la definitiva sconfitta del modello Bush–neocon di attacco al cuore dell’Eurasia quale misura estrema per uscire dall’impasse della crisi. Nel 2006 il PNAC chiude i battenti, attestando il fallimento del progetto di egemonia mondiale.
La guerra russo-georgiana del 2008 o, meglio, la fallita aggressione alla Russia perpetrata per il tramite dell’esercito georgiano armato da Israele e Stati Uniti, ha definitivamente posto la pietra tombale sull’unipolarismo statunitense ed ha sancito e reso effettivo il sistema geopolitico multipolare.

CAUSE DEL DECLINO AMERICANO
In un saggio del 2007 il giornalista Luca Lauriola afferma che l’attuale crisi dell’egemonia americana va imputata ad una molteplicità di cause quali: il ridimensionamento geopolitico del ruolo USA dovuto alla crescita economica e tecnologica dei poli rivali russo, cinese ed indiano; la crisi economica e finanziaria degli USA dovuta a cause sistemiche e non reversibile perché connaturata alla forma del capitalismo americano; il castello di menzogne su cui si basa la strategia di dominio americana per legittimare il proprio espansionismo ha ormai oltrepassato la soglia di tollerabilità ed è sul punto di crollare; le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; il ruolo politico sempre maggiore ricoperto dalla lobby sionista.
Per quanto riguarda l’aspetto economico e finanziario, esaminando il periodo 2001 – 2010 praticamente non c’è un solo dato che non indichi una crisi irreversibile del sistema americano. Basti dire tra il 2005 ed il 2010 il numero di disoccupati in USA è praticamente raddoppiato così come, tra questi, è più che quadruplicato il numero di quelli a lungo termine (6 mesi o più) (4). Giova ricordare che gli americani hanno già rischiato la bancarotta e la dissoluzione come entità statale nel 2008 con lo scoppio della ‘bolla immobiliare’ dalla quale si sono salvati in extremis solo grazie all’intervento di Giappone e Cina, timorosi di perdere il mercato di sbocco principale per i loro prodotti. Ma i dati che illustrano in maniera devastante la crisi americana sono quelli del debito pubblico e della bilancia commerciale. A cominciare dagli anni ‘80 (durante l’amministrazione Reagan) gli Stati Uniti hanno iniziato ad avere sia un grande debito pubblico sia un disavanzo commerciale. Il debito pubblico era intorno ai 50-75 miliardi di dollari alla fine degli anni ‘70 e crebbe a oltre 200 miliardi nel 1983. Il disavanzo della bilancia commerciale era attorno allo zero all’inizio degli anni ‘80 ma superò i 100 miliardi di dollari nel 1985. Oggi analizzando il disavanzo commerciale dei vari Paesi gli USA si situano all’ultimo posto della lista con un disavanzo che è piu’ del doppio rispetto a quello della Cina che è in surplus e si situa al primo posto.
Inoltre, il debito pubblico americano ha superato la quota record dei 12 mila miliardi di dollari e non accenna a diminuire risultando essere il più alto al mondo. Ma come mai gli Stati Uniti dopo un ventennio di apparente prosperità, nel quale hanno guidato il processo di globalizzazione, sono oggi sul punto di collassare? Come mai gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporre la propria Ordnung al mondo intero? La risposta, più che nell’economia, va ricercata nella natura e nella geopolitica degli USA: « Gli Stati Uniti d’America – potenza talassocratica mondiale – hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos”, vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità a realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale» (5).
La natura talassocratica degli USA e l’incapacità di governare e amministrare il territorio sono l’origine del loro declino, perciocché non è dato loro il potere di esercitare una funzione regolatrice ed equilibratrice dei vari popoli ed etnie che vivono in un territorio delimitato e di fornire quel senso di unità spirituale basato sulla coscienza di appartenere ad una medesima ecumene, quali invece sono i tratti caratteristici di un impero propriamente detto.

DOPO L’AMERICA

Ricapitolando, l’ultimo ventennio del XX secolo (1980 – 2001), ha visto la potenza degli Stati Uniti raggiungere il suo picco massimo. Quella che oggi viene definita ‘era della globalizzazione’, che ha raggiunto il suo culmine nella metà degli anni ’90, non è stata altro che il tentativo di egemonizzare il mondo, attraverso gli strumenti della finanza speculativa e del soft power (diffusione dei concetti di ‘esportazione della democrazia’, ‘diritti umani’, liberismo, utilizzando anche Hollywood, la musica pop-rock e i ‘nuovi media’, internet in testa), messo in campo dagli USA nel loro ‘momento unipolare’.
Fallito il tentativo di imporsi come soggetto egemone a livello mondiale attraverso l’esportazione dei propri ‘valori’ gli USA nel periodo 2001 – 2008 hanno deciso di puntare tutto in un attacco disperato all’Heartland con tutto il volume di fuoco di cui sono stati capaci, ma anche questa mossa dopo una iniziale serie di successi viene bloccata dalle potenze continentali emergenti. Sempre più si profila all’orizzonte il conflitto aperto, multipolare, tra la ormai ex superpotenza in declino degli USA e i nuovi poli emergenti costituiti dal BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) con in più l’Iran in crescita strepitosa.
Non bisogna però sottovalutare l’attuale potenza degli USA ne la residua capacità di reazione al declino in corso, per due ordini di motivi: come detto all’inizio la natura dell’espansionismo talassocratico americano non si basa sulla sovranità e sul controllo del territorio, perché questo avviene sospinto da forze non-statali, finanziarie ed economiche, che ne costituiscono il vero motore. Sono forze ‘liquide’ come liquido è il mezzo che storicamente hanno prediletto per espandersi, cioè il mare. Questa ‘liquidità’ che contraddistingue l’impalcatura economica e geopolitica degli USA comporta una seria difficoltà a batterli sul loro terreno, che è quello, in senso fisico, dei mari e dei cieli, in senso lato, della finanza e del soft power. In secondo luogo gli USA sono riusciti negli anni addietro ad acquisire posizioni di predominio nel settore finanziario (attraverso il controllo di organismi quali lo SWIFT), in quello della sicurezza mondiale e nel controllo dei ‘nuovi media’, internet in testa.
Dal punto di vista militare la NATO, strumento di accerchiamento della massa eurasiatica, è ancora vitale ed in grado di esercitare la sua funzione antieuropea e antieurasiatica, inoltre restano le centinaia di basi militari e avamposti che gli statunitensi sono riusciti a installare in giro per il mondo e attraverso i quali sono in grado di esercitare ancora una capacità di deterrenza e di controllo sugli Stati ‘ospitanti’. In conclusione pur se in una fase di declino gli Stati Uniti sono ancora capaci di esercitare una residua forma di egemonia, soprattutto nelle zone sotto la loro influenza diretta (Europa e Giappone, in quanto ‘colonizzati’ a tutti gli effetti), piuttosto l’attuale fase è da ritenersi potenzialmente più pericolosa della precedente fase unipolare perché è proprio quando l’animale è ferito mortalmente che la sua reazione diventa più sconsiderata e furente, come dimostrano l’avventurismo in Georgia e le recenti esplicite minacce di attacco nucleare nei confronti di Iran e Corea del Nord.
Tali minacce saranno scongiurate solo da una decisa azione di concerto tra le potenze del blocco eurasiatico e quelle dell’america indiolatina.

NOTE
1) C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Leipzig 1942, trad. it. Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.
2) G. Damiano, L’espansionismo americano, un «destino manifesto»?, Edizioni di Ar, Padova 2006, pp. 14-15. Il termine ‘ideocrazia’ riferito agli Stati Uniti è stato coniato da Costanzo Preve, cfr. C. Preve, L’ideocrazia imperiale americana, Settimo Sigillo, Roma 2004.
3) Da questo punto in avanti e dove non specificato diversamente si tratta di dati ufficiali del governo americano. Cfr. http://www.whitehouse.gov/ e http://www.cbo.gov/
4) Fonte: Bureau of labor statistics, http://www.bls.gov/
5) T. Graziani, America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare, “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”, XV, 3/2008, p. 7.

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Walter Darré: Bio-Ecologia del Campesinado

WALTER DARRÉ: BIO-ECOLOGÍA DEL CAMPESINADO

Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/ 

Sebastian J. Lorenz
La antigua nobleza: sangre y tierra.
Walter Darré, alemán nacido en Argentina, autor de “El campesinado como fuente de vida la raza nórdica” y de “Nueva nobleza de sangre y suelo”, y creador de la doctrina conocida como “sangre y suelo” (Blut und Boden) que propugnaba una nueva nobleza de la raza nórdica ligada a la tierra y a la tradición campesina. Fue Reichsminister de Agricultura, líder del campesinado alemán (Reichsbauernführer) y Obergruppenführer-SS, en cuya calidad ostentó el cargo de director de la Oficina de la Raza y el Reasentamiento (Rasse und Siedlungshauptamt-RusHA). Darré contó con el apoyo de Himmler y de la Ahnenerbe, como se vio en capítulos anteriores, hasta que el propio Führer prescindió de sus servicios y depositó su confianza en los abastecimientos producidos gracias a los “planes cuatrienales” de Göering.
Darré no ocultó nunca un decidido nordicismo: «Es la raza germánica – la raza nórdica según la expresión en boga- quien ha insuflado la sangre y la vida de nuestra nobleza; es esta raza la que ha dictado sus costumbres … Pudiéndose demostrar el origen de esta raza localizada en el noroeste de Europa, se llegó a un acuerdo para dar a esta especie de hombres el nombre utilizado por las ciencias naturales de “raza nórdica, también se habla de “hombre nórdico”. Muchos alemanes auténticos se oponen todavía, en su fuero interno, a que se designe como “nórdico” lo que ellos han considerado toda su vida como germánico por auténticamente alemán … Es imposible hablar de “raza germánica” pues entonces llegaríamos a la falsa conclusión de que las culturas romana, griega, persa, etc, fueron creadas por los germanos. Necesitamos una concepción que exprese esta raza, que fue común a todos estos pueblos». A Darré no le gustaban las denominaciones de “arios” ni de “indogermanos”, por tratarse de designaciones exclusivamente lingüísticas, dándose el hecho de pueblos en los que se ha extinguido la “sangre nórdica” pero que conservan una lengua “indogermánica”. La “idea nórdica”, sin embargo, expresaba la raíz misma de lo alemán y de los pueblos europeos emparentados con él, más allá incluso de lo puramente germánico.
El “ideal de la raza nórdica” sólo podía tener un objetivo posible: «conseguir por todos los medios posibles que la sangre creadora en el cuerpo de nuestro pueblo, es decir, la sangre nórdica sea conservada y multiplicada, pues de eso depende la conservación y el desarrollo del germanismo». En consecuencia, la única conclusión para Darré es que «el hecho de que constatemos hoy un fuerte mestizaje en nuestro pueblo no es razón para continuar por el mismo camino. Es, al contrario, una razón para detener indirectamente el mestizaje designando claramente un resultado a alcanzar como objetivo de selección de nuestro pueblo. Hemos absorbido tanta sangre no-nórdica, que incluso si solamente reserváramos el matrimonio a las muchachas de sangre nórdica, conservaríamos todavía durante milenio en el cuerpo de nuestro pueblo partes de sangre no-nórdica suficientes para aportar el más rico alimento a la diversidad de los temperamentos creadores. Por lo demás, toda parcialidad en el terreno de la selección es compensada siempre por una aportación prudente de la sangre deseada, incluso si es no-nórdica, mientras que la purificación de las partes de sangre extraña en el protoplasma hereditario del pueblo devenido no creador por inconscientes mestizajes es difícil … Para inspirarnos nuevamente de la experiencia de la cría de animales, deduciremos que hay que educar al pueblo alemán para reconozca como objetivo al hombre nórdico y, particularmente, sepa discernir sus rasgos en un mestizo. La selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces; así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera …». Veamos ahora cómo pensaba Darré efectuar la selección de la sangre nórdica a través de la fuente pura y original del campesinado germánico.
La nobleza del campesinado nórdico.
La ruptura entre Himmler y Darré respondió, además, a dos concepciones muy distintas sobre el alma de la raza germánica, que para el primero era, sin duda, la figura del guerrero nórdico conquistador (krieger) y, para el segundo, el campesino nórdico colonizador (bauer), que Hitler sintetizaría en su doctrina racial del espacio vital: soldados para conquistar y campesinos para cultivar. Y a estas dos cosmovisiones tan dispares se había llegado mediante una reinterpretación de la historia de los germanos: Darré rechazaba, por ejemplo, que la institución más característica del medievo germánico, el régimen feudal, fuera de tradición nórdica, porque era propia de unos francos carolingios, romanizados y cristianizados, frente a los cuales se situaban sus enemigos y paganos sajones, que sí representaban los auténticos sentimientos nórdicos de libertad personal y fidelidad a la tierra. La raza nórdica no era pues la del guerrero conquistador o del aventurero nómada, sino una raza de campesinos –armados, desde luego, cuando se presentaba la ocasión para el combate- dirigidos por una nobleza electa extraída de sus mismas fuentes agrarias. La contradicción ideológica interna del marxismo obrero, que triunfó en un país desindustrializado como Rusia, se reproducía inversamente en el nacionalsocialismo de inspiración campesina que se había impuesto en un país urbano e industrial como Alemania.
El romanticismo alemán construyó una imagen idealizada de los antiguos germanos, que basculaba entre el guerrero libre y el agricultor, como una especie de campesino-soldado (wehrbauer), arraigado en la tierra, dispuesto sólo a coger las armas para defender su solar o emprender la búsqueda de otros nuevos que cultivar. Esta tesis se separaba de otras visiones que hacían de los germanos unas tribus nómadas tremendamente belicosas, contraponiendo además la figura del germano pegado a su tierra, libre de contaminación física y espiritual, frente a la tradición urbana de la decadente civilización romana, a la moral parasitaria del judío o al nomadismo depredador de eslavos y mongoles. De esta manera, se producía una comunión mística entre la sangre y la tierra que, en un mundo rural idílico, debía ser el instrumento fundamental de purificación y conservación de la raza nórdica. Aunque el modelo campesino de Darré estaba diseñado para una “renordización interna” de la propia Alemania, tanto Hitler como Himmler pensaban implementarlo en la colonización y consiguiente “nordización” (aufnordung) de los territorios conquistados a los eslavos, como ya había sucedido en otras épocas anteriores gracias al ímpetu aniquilador y colonizador de la orden teutónica.
Evola constataba cómo el campesinado de Europa central había conservado una cierta dignidad que lo volvía diferente del de países meridionales y orientales. Darré veía en el campesino alemán fiel a su tierra la fuente de fuerzas más sana de la sangre, de la raza, del volk, una tradición que fundamentaba en las antiguas civilizaciones indoeuropeas. Ya S.H. Riehl había visto en el campesinado a la única capa social, junto a la nobleza terrateniente (Junkers), los únicos sustratos que no se encontraban desarraigados: sobre estas premisas fue forjándose la consigna según la cual “la tierra libera del dinero”, representándola con el clásico esquema del viejo campesino amante de su tierra pero endeudado con el prestamista enamorado de la usura. Por eso, Darré se ocupó de proponer medidas para evitar el éxodo urbano y el desarraigo del campesino, protegiendo no sólo las tierras contra la especulación, sino también contra el endeudamiento, mediante la institución llamada Hegehof: una propiedad hereditaria inalienable (Erbhof), transmisible al heredero más cualificado en el trabajo de la tierra, y que se conservaría a través de las generaciones por “la herencia del linaje en las manos de campesinos libres”.
Sangre y suelo, raza y tierra, son pues las dos coordenadas nucleares de la ideología campesina de Darré. La raza nórdica podía conservar su primacía sobre las demás por razón de la pureza de su sangre, debiendo para ello retornar a los principios sobre la tierra, el matrimonio y la familia que habían regido las antiguas tribus germánicas. «Para el germano, el suelo y la tierra son un miembro constitutivo más de la unidad del grupo familiar». El asentamiento en las tierras de los antepasados y las uniones entre individuos arraigados en las mismas garantizaba la integridad biológica, previniendo además la contaminación de sangre foránea procedente de otras razas, por cuanto éstas no se encuentran unidas por la herencia al solar patrio. La familia nórdica, cuya existencia estaría garantizada por una unidad agrícola suficiente, sería capaz de producir niños racialmente puros, garantizando el futuro de la raza. El ideal agrario de Darré identificaba al campesino con el noble, afirmando que en el origen de los pueblos germánicos no había distinción entre uno y otro, puesto que la “nobleza de la sangre” había sido aquélla que podía demostrar su más antiguo arraigo a las tierras nórdicas, pero el cristianismo, el igualitarismo afrancesado y el marxismo corrompieron el viejo ideal alemán de nobleza y mutaron las ancestrales leyes de la herencia promoviendo el reparto indiscriminado de la tierra y fomentando las uniones entre individuos de distintos linajes raciales.
La selección del campesinado nórdico.
Para Darré la verdadera noción de nobleza, en sentido germánico, debe caracterizarse por una selección de sus dirigentes sobre la base de “núcleos hereditarios seleccionados”. Darré advertirá que «si queremos organizar la nueva nobleza alemana de acuerdo con la concepción germánica, debemos procurar que nuestra actual nobleza no-germánica desde la Edad Media vuelva a los principios de la nobleza de los antiguos germanos, basada en los valores intrínsecos. Hay que proporcionarle los medios para conservar por herencia la sangre que ha demostrado su valía, para eliminar la sangre de calidad inferior y permitirle apropiarse, en caso de necesidad, de los nuevos caracteres de valor que surjan del pueblo». Para conservar esta unidad sanguínea «hay que fundamentarla en una materialidad nutricia: así, la propiedad del suelo es fundamento obligatorio de la familia germánica», porque el progreso de la civilización se perpetúa cuando los mejores se hacen cargo del cuidado de la tierra. En definitiva, «la tierra, para el pueblo alemán, es tanto una base sana para el mantenimiento y la renovación de su sangre, como un medio para alimentarse».
Para Günther, que se adhirió a la “tesis campesina” de Darré, «la nobleza germánica, al igual que toda nobleza indogermánica, ha tenido originariamente una base biológica, y la igualdad del linaje ha significado, alguna vez en los tiempos primigenios de estos pueblos, tanto como idéntico nivel de capacidad hereditaria e igual preeminencia de las características de la raza nórdica». De esta forma, un Estado de cuño germánico dependería de la existencia de una “nobleza de nacimiento”, de una capa dirigente de familias de “alto valor hereditario” que –según Günther- sólo puede lograrse recuperando los valores biológicos y anímicos de los antepasados de raza nórdica y garantizando su transmisión y perpetuación en las generaciones venideras.
Sin embargo, Darré considera que no podía crearse una nobleza de sangre, una aristocracia racial, sino por aplicación de la idea de selección a la reproducción humana, mediante la utilización de los conocimientos sobre la herencia, llegando a afirmar que la palabra “raza” (rasse) no debía aplicarse a los alemanes, debiendo usar el concepto de “especie” (art) –Darré hacía descender a los nórdicos de una especie divina-, si bien reconoce que “raza” había pasado a convertirse en una unidad de apreciación del hombre desde el punto de vista étnico. «Es solamente con todos los medios posibles que podrá conseguirse que la sangre creativa en el cuerpo de la nación, la sangre de los hombres de raza nórdica, sea mantenida e incrementada». Pero la cuestión no era, para Darré, aumentar indiscriminadamente el número de niños alemanes, sino de garantizar la pureza biológica de sus progenitores. Y por ello, la mujer se convertía en el centro de la supervivencia de la familia, debiendo ser consciente de que su misión consistía en la conservación, fomento y multiplicación de individuos raciales sanos, si bien con el apoyo material y espiritual del Estado y de la propia comunidad popular.
Por su parte, el hombre nórdico debía ser aleccionado sobre la forma de elegir a las mujeres para procrear, no sólo desde un punto de vista sexual, sino predominantemente racial: se crearían para ello oficinas de selección de las mujeres óptimas para tener hijos, separando a las que debían ser esterilizadas, y procurando, al mismo tiempo, que cada hombre pudiera tener descendencia con varias mujeres sin sufrir ningún reproche moral, pues la inmoralidad estaba en las relaciones con hembras de otras razas. «Desde el punto de vista de la selección –escribía Darré- nuestro pueblo debe primero clasificar a sus hombres según sus capacidades, pero debe exigirles escoger como esposas, dentro de lo posible, según su coeficiente de selección nórdica». Darré rechazaba el “espiritualismo racial” de Clauss o el posicionamiento de Günther relativo a una definición de lo nórdico más allá de lo puramente antropológico, pues consideraba que en la elección de una mujer no debe subestimarse la importancia racial de las cualidades corporales: «la selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces y así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera, cuyo efecto resulta incalculable sobre la herencia sanguínea de la descendencia y del pueblo».
Para ello, Darré proponía una selección biológica de las ciudadanas alemanas aptas para fecundar: la primera clase comprendería a las mujeres cuyo matrimonio era deseable para la comunidad desde todos los puntos de vista, raciales y morales; la segunda clase incluía al resto de mujeres sin objeciones desde un punto de vista racial, con independencia de valoraciones morales; la tercera clase englobaría a aquellas mujeres irreprochables moralmente pero con taras hereditarias, a las que sólo podría permitirse el matrimonio en caso de previa esterilización; y la última comprendería a aquellas mujeres cuyo matrimonio debía impedirse tanto por motivos físicos como éticos, por no adecuarse a la naturaleza biopsíquica de la raza nórdica. En definitiva, la ecología genética de Darré pretendía cultivar alemanes campesinos desde la biología, pero no desde la sociología de las costumbres y de las tradiciones.

mardi, 02 novembre 2010

Soft Power: la guerre culturelle des Etats-Unis contre la Russie (1991-2010)

Soft power: la guerre culturelle des Etats-Unis contre la Russie (1991–2010)

La nouvelle stratégie et ses organismes

par Peter Bachmaier*

Au cours des deux dernières décennies, les Américains ont modifié leur stratégie: La guerre n’est plus définie purement sous l’angle militaire, elle a recours également à des méthodes informationnelles et psychologiques qu’on appelle «guerre psycholo­gique» ou «guerre culturelle». Ces méthodes ont une longue histoire. Le stratège militaire américain Liddell Hart avait développé avant la Seconde Guerre mondiale la stratégie de l’approche indirecte.1 Pendant cette guerre, les forces américaines et britanniques appliquèrent la guerre psychologique contre l’Allemagne, laquelle fut ensuite utilisée pour rééduquer le peuple allemand. A l’issue du conflit, la CIA et le ministère de la Dé­fense fondèrent, sur le modèle du Tavistock Institute of Human Relations, spécialisé dans la guerre psychologique en Angleterre, des think tanks (laboratoires d’idées) comme la Rand Corporation, l’Hudson Institute d’Herman Kahn, qui étaient dirigés avant tout contre l’Union soviétique.

Soft-power-Joseph-S-Nye.jpgLes méthodes de ces organismes ont été développées par des instituts de sciences soci­ales. Les sciences sociales empiriques améri­caines, c’est-à-dire notamment la sociologie, la psychologie, l’anthropologie, les sciences politiques et les sciences de la communication, sont nées sous leur forme actuelle à l’initia­tive et grâce au financement d’agences militaires et de renseignements dans les années 1940 et 1950.2 Une autre source sont les grandes fondations comme la Carnegie Corporation, la Ford Foundation et la Rockefeller Foundation. Les missions de recherches ont été confiées à des centres scientifiques réputés comme la New School for Social Research de New York, le Bureau of Applied Social Research de Princeton (dirigé par Paul Lazarsfeld), l’Institut für Sozialforschung (dirigé par Max Horkheimer et Theodor W. Adorno), qui était retourné à Francfort en 1949, le Center for International Studies (CENIS) du Massachusetts Institute of Technology, de même que l’Esalen Institute californien, centre de contre-culture qui participa à l’organisation du festival de Woodstock en 1968. Ce sont surtout les principaux instituts de sciences de la communication qui ont participé aux programmes de la guerre psychologique.
Ces instituts publiaient des revues comme le Public Opinion Quarterly (POQ), l’American Sociological Review, l’American Political Science Review et d’autres encore. Les gens qui y travaillaient étaient surtout des immigrants venus d’Allemagne et d’Au­triche qui, plus tard, se sont fait un nom dans leur science: Paul Lazarsfeld, Oskar Morgenstern, Leo Loewenthal, Herbert Marcuse, Walter Lippmann, Harold Lasswell, Gabriel Almond, Daniel Lerner, Daniel Bell, Robert Merton, etc. C’étaient les mêmes centres et les mêmes spécialistes qui étaient respon­sables de la rééducation du peuple allemand. Certains de ces projets concernaient également la préparation de la révolution culturelle des années 1960 avec ses effets secondaires: musique rock, culture de la drogue et révolution sexuelle.
Les «études soviétiques» dépendaient tout particulièrement du gouvernement. Le Russian Research Project de Harvard, dirigé par Raymond Bauer et Alex Inkeles, était une entreprise commune de la CIA, des Forces de l’air et de la Carnegie Corporation. L’Institut publia en 1956 une étude intitulée «How the Soviet System Works» qui devint un clas­sique des Soviet Studies.3 La guerre psychologique comprenait également des émissions de radio de la CIA à l’intention de l’Eu­rope de l’Est – selon Jean Kirkpatrick «un des instruments les meilleurs marché, les plus sûrs et les plus efficaces de la politique étran­gère des Etats-Unis» – c’est-à-dire la Voice of America, RIAS Berlin, Radio Free Europe et Radio Liberty, qui aujourd’hui encore émettent en russe et dans les autres langues de la CEI.4 Ces stations étaient placées sous l’autorité du Congress for Cultural Liberty qui fut fondé en 1950 à Paris par la CIA et qui employait 400 collaborateurs.5
La victoire sur l’Union soviétique a été réalisée avant tout à l’aide de ces méthodes non militaires. La stratégie dont l’objectif n’était pas la coexistence avec l’Union soviétique mais un «démantèlement» du système sovié­tique fut élaborée en 1982 par le gouvernement Reagan.6 Le projet comprenait 7 initiatives stratégiques dont le point 4 était: guerre psycholo-
­gique visant à pro­duire dans la nomenklatura et la population la peur, le sentiment d’insécurité et la perte de re­pères.7 Cette guerre n’était pas dirigée seulement contre le communisme mais contre la Russie, comme le prouvent les affirmations de Zbigniew Brzezinski: «Nous avons détruit l’URSS et nous détruirons la Russie.» «La Russie est un Etat superflu.» «L’orthodoxie est le principal ennemi de l’Amérique. La Russie est un Etat vaincu. On le divisera et le mettra sous tutelle.»8
En 1990, Joseph Nye, collaborateur du Council on Foreign Relations qui défend les mêmes idées que Brzezinski, a forgé pour ces méthodes la notion de «soft power» (pouvoir doux, pacifique) ou «smart power» (pouvoir intelligent) qui a la même origine que l’«ingénierie sociale».9 Il a publié en 2005 son livre intitulé «Soft Power: The Means to Success to World Politics» dans lequel il suggère que l’Amérique devienne attractive par sa culture et ses idéaux politiques. Le Center for Strategic and International Studies de Washington, think tank néoconservateur au conseil de surveillance duquel siègent Henry Kissinger et Zbigniew Brzezinski, a fondé en 2006 une Commission on Smart Power présidée par Joseph Nye et Richard Armitage, qui a déposé en 2009 un mémorandum intitulé «A Smarter, more Secure America» dont l’objectif est de renforcer l’influence des Etats-Unis dans le monde à l’aide de mé­thodes «douces».

Premier succès de la nouvelle stratégie: la perestroïka

Cette stratégie a été appliquée pour la pre­mière fois lors de la perestroïka, lorsque Mikhaïl Gorbatchev est arrivé au pouvoir. Elle a eu des aspects positifs: elle a rétabli la liberté d’opinion et de circulation mais elle a été l’effet d’une influence considérable de l’Occident.11 Au sein du Comité central du Parti communiste d’Union soviétique et de la nomenklatura, un groupe se forma qui adopta les positions occidentales et voulut introduire le système néolibéral occidental.
Le vrai architecte de la perestroïka fut Alexandre Iakovlev, secrétaire depuis 1985 du Comité central responsable de l’idéologie qui avait fait ses études à Washington dans les années 1950 et était depuis lors un partisan convaincu du néolibéralisme, d’après ce qu’il m’a dit lors d’un entretien à Vienne le 9 novembre 2004. Son réseau comprenait des gens comme Egor Gaïdar, Grigori Iavlinski, Boris Nemtsov, Victor Tchernomyrdin, German Gref et Anatoli Tchoubaïs.
Jakovlev créa avec eux une cinquième colonne de l’Occident qui, aujourd’hui encore, tire les ficelles en coulisses. Boris Eltsine fut aussi une créature des Américains. En septembre 1989, lors d’une visite à Washington à l’invitation de l’Esalen Institute, qui entretenait depuis 1979 un programme d’échanges américano-soviétiques, il fut quasiment recruté par le Congrès et put prendre le pouvoir avec l’aide des Américains en 1991.
Grâce à l’intervention de George Soros, Gorbatchev devint membre de la Commission trilatérale qui organisa à Moscou, en janvier 1989, une conférence à laquelle participèrent notamment Henry Kissinger et Valéry Giscard d’Estaing.

Organisations occidentales destinées à influencer culturellement la Russie

A l’époque de la perestroïka, les loges maçonniques et leurs organisations satellites furent à nouveau autorisées.13 A la demande de Kissinger, Gorbatchev autorisa en mai 1989 la fondation de la B’nai Brith Loge à Moscou. Depuis, 500 Loges ont été créées en Russie par les Grandes Loges de Grande-Bretagne, de France, d’Amérique, notamment. En même temps, à l’intention des politiques, des chefs d’entreprise et des membres des professions libérales qui ignoraient les rituels mais partageaient les principes de Loges, on créa des organisations, clubs, comités et fondations plus ouverts. Il y a actuellement plusieurs milliers de membres de Loges en Russie qui participent aux rituels mais dix fois plus de personnes qui appartiennent à la «maçonnerie blanche» et n’observent pas les rituels mais acceptent les principes et sont guidés par les Frères des Loges. Ces organisations sont le Club Magisterium, le Rotary Club, le Lions Club et la Fondation Soros. Leurs membres se consi­dèrent comme une élite qui a des droits particuliers pour gouverner.14
Pour contrôler les écrivains, on a fondé le Centre P.E.N. russe, autre organisation satellite. En ont fait partie des écrivains et des po­ètes connus comme Bella Achmadulina, Anatoli Pristavkin, Ievgueni Ievtouchenko, Vassili Aksionov et Victor Erofeev.
L’Institut pour la société ouverte de George Soros, fondé à Moscou en 1988 déjà, fut dans les années 1990 le principal instrument de déstabilisation et de destruction entre les mains des puissances instigatrices. Soros a orienté ses activités vers le changement d’idéologie des hommes dans l’esprit du néolibéralisme, l’imposition de l’american way of life et la formation de jeunes Russes aux Etats-Unis. La Fondation Soros a financé les plus importantes revues russes et attribué des prix spéciaux afin de soutenir la littérature.15
Dans le cadre de son programme, la Fondation a publié des manuels dans lesquels l’histoire russe est présentée sous l’angle néolibéral et cosmopolite. En septembre 1993, alors que le Parlement subissait des tirs, j’ai eu l’occasion de participe à une remise de prix au ministère russe de l’Education. George Soros a attribué des prix aux auteurs de manuels russes d’histoire et de littérature et le mi­nistre russe de l’Education Evgueni Tcatchenko a déclaré que l’objectif des nouveaux manuels était de «détruire la mentalité russe».
Les programmes de Soros dans le do­maine culturel étaient si variés que pratiquement tout le secteur privé dépendait du financement par la «Société ouverte». L’Institut für die Wissenschaften vom Menschen (IWM), fondé à Vienne en 1983 et également soutenu par Soros a promu la réforme du sys­tème scolaire et universitaire en Russie et dans les pays postsocialistes. Au cours des seules années 1997 à 2000, la Fondation a attribué 22 000 bourses pour un total de 125 millions de dollars.16
Un autre think tank américain est le National Endowment for Democracy (NED) fondé en 1982 par Reagan. Cette institution finance les instituts des partis républicain et démocrate et leurs bureaux de Moscou. Elle soutient avant tout les médias privés et les partis et mouvements politiques pro-occidentaux. Le budget du NED est voté par le Congrès américain au titre de soutien du Département d’Etat. Des politiques éminents font partie de son Comité directeur: John Negroponte, Otto Reich, Alliot Abrams. La NED est la continuation des opérations de la CIA par d’autres moyens. En 2005, elle finançait 45 organisations russes dont les suivantes: la société Memorial pour la formation historique et la protection des droits de l’homme, le Groupe d’Helsinki de Moscou, le Musée Sakharov, les Mères de Tchétchénie pour la paix, la Société pour l’amitié russo-tchétchène, le Comité tchétchène de salut national. 17
Le Centre Carnegie de Moscou a été fondé en 1993 en tant que section de la Fondation Carnegie pour la paix internationale fondée en 1910 par Andrew Carnegie en tant que centre indépendant de recherches pour les relations internationales. Les spécialistes du centre de Moscou étudient les questions les plus importantes de la politique intéri­eure et extérieure de la Russie. Il rassemble des informations sur les problèmes du développement du pays et publie des livres (recueil d’articles, monographies, ouvrages de référence), des périodiques, une revue trimestrielle, «Pro et contra», et la série «Working papers». Il organise régulièrement des conférences. La Fondation est financée par des firmes importantes comme BP, General Motors, Ford, Mott, de même que par Soros, Rockefeller, le Pentagone, le Département d’Etat et le ministère des Affaires étrangères britannique.
La directrice en était jusqu’ici Rose Goettemoeller, ancienne collaboratrice de la RAND Corporation et actuelle ministre américaine adjointe des Affaires étrangères.
Les représentants du monde russe des affaires au conseil de surveillance sont Piotr Aven, Sergueï Karaganov, Boris Nemtsov, Grigori Javlinski et Evgueni Jasine, président de l’Université économique de Moscou. Les collaborateurs de premier plan sont Dmitri Trenine, qui travaille également pour Radio Free Europe et Radio Liberty, et Lilia Chevtsova, tous les deux étant régulièrement invités à l’Ouest pour expliquer que la Russie restreint les libertés démocratiques. Les recherches du Centre de Moscou sont beaucoup utilisées par les classes politiques russe et occidentale. Le travail du Centre est soutenu par la centrale de Washington grâce à un «Programme Russie et Eurasie».18
La fondation Freedom House, créée en 1941 à l’initiative d’Eleanor Roosevelt, est née de la lutte contre l’isolationnisme aux Etats-Unis. Son objectif officiel était de lutter contre le national-socialisme et le communisme. Aujourd’hui, elle est financée par Soros et le gouvernement. Dans les années 1990, Freedom House a créé des bureaux dans presque tous les pays de la CEI et le Comité américain pour la paix en Tchétchénie (membres: Brzezinski, Alexander Haig, James Woolsey, ancien patron de la CIA). Son projet le plus connu est aujourd’hui «Liberté dans le monde» qui, depuis 1972, analyse chaque année tous les pays du monde et les classe en trois catégories: pays «libres», «partiellement libres» et «non-libres» selon le degré de libertés civiles et de droits politiques.19
En 1992, la filiale russe de la fondation Rockefeller Planned Parenthood Federation a été créée à Moscou et dans 52 autres villes russes. Elle a essayé de faire introduire dans toutes les écoles russes la matière «éducation sexuelle» qui a en réalité pour objectif de dissoudre la famille et de créer un homme nouveau, mais ce fut un échec car les fonctionnaires du ministère de l’Education, les enseignants, les parents et l’Eglise ortho­doxe s’y sont opposés, si bien que le projet a été refusé en 1997 lors d’une conférence de l’Académie russe pour l’école. 20
En Occident, les organisations non-gouvernementales (ONG) sont considérées comme des piliers de la société civile. En Russie, elles n’ont rien à voir avec l’édification d’une démocratie directe: ce sont des agences financées et dirigées par l’Occident.

Influence occidentale sur l’école et les médias

Un important objectif de l’influence occidentale est le système scolaire et universitaire. Tout d’abord, après le tournant de 1991, le centralisme et l’idéologie marxiste ont été liquidés avec l’aide de conseillers occidentaux. La loi sur l’école de 1992 et la Constitution de la Fédération de Russie de 1993 ont codifié une profonde réorientation de l’école sous le signe du paradigme démocratique et néolibéral occidental. Elle comprenait l’introduction d’éléments d’économie de marché dans le système scolaire et la création d’une société civile.21
L’octroi de crédits occidentaux à l’école était lié à l’application de certaines directives. C’est ainsi que le système scolaire a été transformé dans le sens du néolibéralisme. Un secteur d’écoles privées onéreuses a été créé. Les écoles secondaires et les universités se sont orientées vers le profit et ont exigé des frais de scolarité. Grâce aux enquêtes PISA de l’OCDE, le système scolaire a été orienté vers l’économie. De nombreuses écoles des zones rurales qui n’étaient plus «rentables» ont été fermées. Beaucoup d’enfants ne sont plus allés à l’école ou l’ont quittée sans diplôme. En 2000, selon un rapport de l’UNESCO, 1,5 million d’enfants russes n’allaient pas à l’école. On a vu se développer la toxicomanie chez les élèves, phénomène inconnu jusque-là.22
La plus importante réforme est celle des universités qui ont été évaluées tout de suite après le tournant de 1991 par la Banque mondiale et le Fonds monétaire international qui ont ensuite élaboré un programme de restructuration sur le modèle anglo-saxon. En 2004 a été adoptée la Déclaration de Bologne qui prévoit le passage à un bachelor (licence) de quatre ans suivi d’un master de deux ans ainsi qu’une présidence avec des conseils d’université où siègent des représentants de l’économie. De nombreux spécialistes de l’éducation y voient une destruction de la tradition de l’université russe car l’enseignement se limite à la transmission d’informations. Aujourd’hui, parmi les quelque 1000 universités et autres établissements supérieur russes, 40% sont privés. Beaucoup d’entre eux ont été créés par l’Occident et l’on y forme une nouvelle élite.23
Un autre secteur suivi avec beaucoup d’attention par l’Occident sont les médias qui, après 1991, ont vécu leur plus grande transformation. Ils ont été privatisés par les réformes néolibérales d’après 1991 et repris par des oligarques ou l’étranger. De nombreuses stations de radio, des journaux et des magazines ont passé aux mains de propriétaires étrangers comme la News Corporation de Rupert Murdoch qui publie, en collaboration avec le Financial Times, le quotidien Vedomosti, le plus important journal financier de Russie et le News Outdoor Group, qui possède la plus grande agence de publicité, présente dans quelque 100 villes russes. Bertelsmann AG, qui possède la plus grande chaîne de télévision européenne, RTL, exploite en Russie la chaîne Ren TV qui diffuse dans tout le pays.24 La Fondation Bertelsmann, créée en 1977 par Reinhard Mohn, un des think tanks les plus puissants de l‘UE, travaille en collaboration avec la Fondation Gorbatchev dont le siège est à Moscou mais qui entretient également des succursales en Allemagne et aux Etats-Unis.
Sous Eltsine, les médias étaient presque tous entre les mains de la nouvelle oligarchie, qui était liée aux centres financiers occidentaux. Vladimir Gousinski possédait la plus grande chaîne de télévision, NTV, et Boris Berezovski contrôlait les journaux. Lorsque Poutine commença à stabiliser le pays, sa tâche la plus urgente fut de contrôler les médias, car sinon, le gouvernement aurait été renversé.
L’américanisation concerne, last but not least, la culture quotidienne qui, sous la forme de concerts rock, d’Internet, de chaînes de télévision privées, de cinémas géants, de discothèques, de CD musicaux, de bandes dessinées, de publicité et de mode, est presque la même qu’en Occident.
L’objectif de la stratégie américaine est d’introduire le système de valeurs occidental dans la société russe. Il s’agit de désidéologiser l’Etat. Dans la Constitution de 1993, l’idéologie étatique a été condamnée en tant que manifestation du totalitarisme et interdite à l’article 13.25
L’idéologie soviétique officielle reposait sur une philosophie matérialiste mais comportait des éléments de nationalisme qui constituaient le ciment maintenant l’Etat. Cette interdiction a privé l’Etat des valeurs nationalistes. Le vide spirituel est rempli aujourd’hui par la culture populaire occidentale.
L’offensive culturelle américaine a pour but de créer en Russie une société multiculturelle, c’est-à-dire cosmopolite, pluraliste et laïque qui dissout la culture nationale russe commune. Le peuple, qui a une histoire et une culture communes, doit être transformé en une population multinationale.

Résistance de l’Etat et de l’intelligentsia russes

Le concept d’Etat imposé depuis 2000 par le président Vladimir Poutine, en particulier le concept d’Etat fort, impliquait une recentralisation partielle, le passage de l’idée d’un Etat multinational à un Etat nationaliste russe et la tendance à réserver une place spéciale à l’Eglise et à la religion orthodoxes.
En avril 2001, le groupe énergétique public Gazprom a pris le contrôle de la chaîne NTV. Le quotidien Sevodnia (Aujourd’hui) a dû cesser de paraître et le rédacteur en chef du magazine a été mis à pied. La chaîne de télévision de Boris Berezovski TV-6 a été fermée en janvier 2002 et Berezovski a émigré en Angleterre.
En septembre 2003, le magnat du pé­trole Mikhaïl Khodorkovski voulait racheter l’hebdomadaire libéral Moscovskie Novosti afin de soutenir les partis de l’opposition libé­rale Union des forces de droite et Iabloco dans la prochaine campagne électorale. Son engagement politique a été une raison impor­tante de son arrestation en octobre 2003. Cette mesure était nécessaire car sinon l’oligarchie aurait réussi, avec l’aide des médias, à prendre le contrôle du gouvernement lui-même. Les trois plus importantes chaînes de télévision, ORT, Russia et NTV et une partie importante de la presse écrite sont contrôlées aujourd’hui par des grands groupes publics (Gazprom et Vnechtorbank) ou directement par l’Etat (RTR).
L’oligarque Vladimir Potanin continue de contrôler les quotidiens Izvestia et Komsomolskaïa Pravda. Actuellement, Novaïa Gazeta (sous le contrôle de l’oligarque Ale­xandre Lebedev et de Gorbatchev) et le quotidien Vedomosti, créé à l’initiative du Wall Street Journal et du Financial Times, sont considérés comme des organes de presse indépendants du gouvernement.26 Depuis 1993, selon une statistique, 214 journalistes ont été assassinés dont 201 sous l’ère Eltsine et 13 depuis l’accession au pouvoir de Poutine (10 pendant son premier mandat et 3 pendant le second).27
La Doctrine nationale pour l’éducation de 1999 et le Concept de 2001 ont réintroduit dans le domaine idéologique les idées patriotiques et nationalistes. Le retour aux valeurs de l’époque tsariste s’est ajouté à la volonté de conserver les avantages du système éducatif de l’Union soviétique. Les écoles privées et les académies soutenues par l’Eglise orthodoxe russe, reconnues par l’Etat depuis 2007, occupent une place particulière. De nou­velles matières ont été introduites dans les pro­grammes des écoles, comme la préparation obligatoire au service militaire, depuis 1999, et les «fondements de la culture orthodoxe», depuis 2007.28
Fait également partie de la guerre psychologique la campagne des médias contre la Russie, menée depuis 10 ans mais surtout depuis l’arrestation de Khodorkovski en 2003 sous la devise «La Russie est en passe de revenir au système soviétique». Un exemple en est la «persécution» des artistes progres­sistes qui consisterait dans le fait de retirer des expositions publiques les œuvres blasphématoires ou pornographiques. Il s’agirait en général de provocations d’ONG financées par l’Occident. Le Centre Sakharov, qui s’est fixé pour but d’imposer une société ou­verte, a organisé en 2003 une exposition intitulée «Attention religion!» où étaient exposées entre autres des œuvres antichrétiennes blasphématoires. La Douma a demandé au Minis­tère public d’engager des poursuites contre le Centre. Les organisateurs ont été condamnés à une amende en 2005.
En 2005, le gouvernement a introduit un nouveau jour de fête nationale: le 4 novembre, date proche de l’ancienne Fête de la Révolution d’Octobre le 7 novembre. Cette fois, il s’agissait de commémorer la victoire sur les troupes d’invasion polonaises en 1612. En 2006, une nouvelle Loi sur les organisations non gouvernementales a été adoptée en vertu de laquelle elles doivent toutes se faire réenregistrer. Leur financement par l’étranger devra être contrôlé plus strictement. Au début de 2008, tous les bureaux régionaux du British Council, à l’exception de celui de Moscou, ont été fermés parce qu’on leur reprochait des activités antirusses.29
Contrairement à l’époque de la perestro­ïka et à l’ère Eltsine, l’intelligentsia russe, depuis l’attaque de la Yougoslavie par l’OTAN en 1999, n’est plus libérale mais nationa­liste. Les écrivains, artistes, réalisateurs et metteurs en scène sont aujourd’hui des patriotes nationalistes et sont soutenus par le Kremlin. Le gouvernement contrôle également les informations politiques des médias, avant tout celles de la télévision, un peu moins celles des journaux.
Auparavant, le représentant principal des traditionnalistes était Alexandre Soljenitsyne à qui on a cependant reproché de ne pas être assez critique à l’égard de l’Occident. Aujourd’hui, le groupe leader est constitué par les po venniki (enracinés dans le terroir). Ils sont chrétiens-orthodoxes, mais envi­sagent la période soviétique dans la tradition de l’histoire russe. Leurs idéologues sont des écrivains ruralistes: Valentin Raspoutine, Vassily Belov et Victor Astafiev. C’est dans les revues Nas Sovremennik, Moskva et Molodaïa gvardia que, dès les années 1970–80, l’idéologie patriotique a été élaborée.
La Fondation pour la perspective historique, dirigée par l’ancienne députée à la Douma Natalia Narotchniskaïa, défend un programme patriotique et chrétien, pos­sède la série éditoriale Svenia, la revue Internet Stoletie et organise des conférences et des congrès. L’intelligentsia patriote nationa­liste débat à propos d’une modification fondamentale du système prévoyant un renforcement de l’Etat et la fermeture des frontières. Les associations d’écrivains, d’artistes et de cinéastes possèdent des maisons de la culture, des galeries d’art, des cinémas et des revues et organisent de nombreuses manifestations. Il y a à Moscou 150 théâtres, opéras et salles de concerts qui jouent essentiellement des œuvres classiques. Le théâtre de metteur en scène, l’art abstrait et la musique atonale occupent une place secondaire.30
L’Autriche et l’Allemagne jouissent d’une image positive, mais c’est surtout la culture alle­mande et l’histoire du passé que l’on connaît. On ne sait pas vraiment ce qui se passe actuellement en Allemagne. Soljenitsyne a toujours espéré que l’Allemagne deviendrait une sorte de pont entre la Russie et le reste du monde parce que les deux pays se sentaient attirés mutuellement.31 Mais les médias allemands transmettent une image déformée de la Russie: selon eux, la Russie serait en passe de revenir au système soviétique et les intellectuels néolibéraux mèneraient un combat dés­espéré. On cite en exemple l’écrivain pornographique Victor Erofeïev qui a été invité en Allemagne par l’hebdomadaire hambourgeois Die Zeit.32 Aujourd’hui, en Russie, la question déterminante n’est pas de savoir si le pays est en train de redevenir une dictature communiste mais une «dictature du relativisme» sur le modèle occidental ou une société chrétienne.33

Le renouveau religieux

La véritable résistance contre l’occidentalisation vient aujourd’hui de l’Eglise ortho­doxe qui est traditionnaliste. Elle défend des valeurs traditionnelles comme le mariage, la famille, la maternité et s’oppose à l’homosexualité. Les églises sont pleines, surtout de jeunes gens. La majorité des jeunes se disent orthodoxes, c’est-à-dire chrétiens et se marient à l’église. Il y a de nouveau 100 millions de croyants, 30 000 prêtres et 600 couvents. L’Académie spirituelle de Serguiev Possad est pleine, elle reçoit 4 candidatures pour une place. Il existe une station de radio ortho­doxe, une maison d’édition, une série de revues, des aumôniers dans l’Armée, les hôpitaux et les prisons et on a réintroduit de facto la disci­pline religion dans les écoles, pour la premi­ère fois depuis 1917. Selon des sondages, 70% des Russes se disent croyants.34
En 2007, l’Eglise orthodoxe russe et le Vatican ont décidé d’engager des pourparlers pour aplanir leurs différends. L’archevêque Ilarion, directeur du département des Af­faires ecclésiastiques étrangères du Patriarcat, ancien évêque russe-orthodoxe de Vienne, a déclaré à ce sujet: «Nous sommes des alliés et nous nous trouvons face au même défi: un laïcisme agressif».35
En Russie, le christianisme ortho­doxe est qualifié de «religion majoritaire». Un 4 novembre, Jour de l’unité nationale en Russie, j’ai eu l’occasion d’assister à une procession extraordinaire sur la place Rouge: le Patriarche marchait au premier rang, puis venaient les dignitaires de l’islam, de la communauté juive et des bouddhistes. C’était un symbolisme intentionnel: «Le Patriarche est le chef de la religion majoritaire, il rassemble les croyants et encourage la collaboration des différentes communautés religieuses. Il est le chef spirituel du peuple tout entier, et pas seulement des croyants orthodoxes.»36

Conclusions

Aujourd’hui, la Russie traverse une crise qui se traduit tout d’abord dans les systèmes financier et monétaire, mais concerne égale­ment le domaine culturel. C’est d’ailleurs là qu’elle a son origine la plus profonde qui consiste en ce que la société laïque pluraliste n’apporte aux hommes ni véritable communauté, ni conception du monde ni sens.
La Russie n’a pas besoin de la «culture matérialiste et égoïste» de la société occidentale actuelle mais d’une idéologie nationale universelle qui comprenne tous les aspects de la vie, développe le pays et rejette tout ce qui menace l’existence du peuple.37
La reprise des relations russo-américaines depuis deux ans ne change cependant rien à l’orientation antirusse à long terme de la politique américaine et n’empêche pas la CIA de redoubler d’activités en Russie. Après la visite d’Obama à Moscou, Hillary Clinton elle-même a insisté sur l’attachement des Etats-Unis à leur concept de leadership mondial absolu. Tôt ou tard, la Russie va devoir choisir entre créer un Etat souverain qui ferme ses frontières et empêche la destruction de sa culture ou capituler et devenir une province de l’Occident.    •
(Traduction Horizons et débats)

1    Basil Liddell Hart, Strategy: The Indirect Approach, 1re éd. 1929, 2e éd. 1954
2    Christopher Simpson, Science of Coercion: Communication Research and Psychological Warfare, 1945–1960, New York, Oxford U.P,. 1994, p. 4
3    Simpson, Science of Coercion, p. 87
4    A. Ross Johnson, R. Eugene Parta, Cold War Broad­casting: Impact on the Soviet Union and Eastern Europe, Woodrow Wilson International Center, Washington, 2010
5    Frances Stonor Saunders, Who Paid the Piper? The CIA and the Cultural Cold War, London 1999
6    Peter Schweizer, Victory: The Reagan Administration’s Secret Strategy That Hastened the Collapse of the Soviet Union, New York, 1994
7    S.G. Kara-Murza, A.A. Aleksandrov, M.A. Muraškin, S.A. Telegin, Revolucii na eksport, Moskva, 2006
8    Cité d’après: V.I. Jakunin, V. Bagdasarjan, S.S. Sulakšin, Novye technologii bor’by s rossijskoj gosudarstvennost’ju, Moskva, 2009, str. 50
9    Joseph Nye, Bound to Lead: the Changing Nature of American Power, Basic Books, 1990 ; Joseph Nye, Transformational Leadership and U.S. Grand Strategy, Foreign Affairs, vol. 85, No 4, July/August 2006, pp. 139–148
10    Richard Armitage, Joseph S. Nye, A Smarter, More Secure America, CSIS Commission on Smart Power, 2009
11    Peter Schweizer, Victory: The Reagan Administrations’s Secret Strategy That Hastened the Collapse oft he Soviet Union, New York, 1994
12    Cela figure dans la biographie officielle d’Eltsine de Vladimir Solovyov et Elena Klepikova, Boris Yeltsin. A political Biography. Après l’audition d’Eltsine devant le Congrès, David Rockefeller a déclaré: «C’est notre homme!»
13    O. A. Platonov, Rossija pod vlast’ju masonov , Moskva 2000, p. 35
14    Platonov, Rossija, p. 3
15    Platonov, Rossija, p. 15
16    Jakunin, Novye techologii, p. 81
17    Jakunin, Novye technologii, p. 90
18    Jakunin, Novye technologii, p. 94 sqq.
19    Jakunin, Novye technologii, p. 92
20    www.pravda.ru 03/19/2008
21    Gerlind Schmidt, Russische Föderation, in: Hans Döbert, Wolfgang Hörner, Botho von Kopp, Lutz R. Reuter (Hrsg.), Die Bildungssysteme Europas, Hohengehren 2010 (= Grundlagen der Schulpädagogik, Bd. 46, 3. Aufl.), p. 619
22    Schmidt, Russische Föderation, p. 635
23    Schmidt, Russische Föderation, p. 632
24    Pierre Hillard, Bertelsmann – un empire des médias et une fondation au service du mondialisme, Paris, 2009, p. 27
25    «1. Le pluralisme idéologique est reconnu dans la Fédération de Russie. 2. Aucune idéologie ne peut s’instaurer en qualité d’idéologie d’Etat ou obligatoire.» Art. 13 de la Constitution de la Fédération de Russie de décembre 1993
26    A. Cernych, Mir sovremennych media, Moskva, 2007
27    Roland Haug, Die Kreml AG, Hohenheim, 2007
28    Schmidt, Russische Föderation, p. 639
29    Das Feindbild Westen im heutigen Russland, Stiftung Wissenschaft und Politik, Berlin, 2008
30    Vladimir Malachov, Sovremennyj russkij nacionalizm in: Vitalij Kurennoj, Mysljaškaja Rossija: Kartografija sovremennych intellektual’nych napravlenij, Moskva 2006, pp. 141 sqq.
31    Interview d’Alexandre Sojénitsyne, Der Spiegel
no 30, 23/07/07; Marc Stegherr, Alexander
Solschenizyn, Kirchliche Umschau, no 10,
Octobre 2008
32    Nikolaj Plotnikov, Russkie intellektualy v Germanii, in: Kurennoj, Mysljaškaja Rossija, p. 328
33    Westen ohne Werte? Interview de Natalia Narotchniskaïa, directrice de l’Institut russe pour la démocratie et la coopération de Paris, Frankfurter Allgemeine Zeitung, no 51, 29/02/08
34    Jakunin, Novye technologii, pp. 196 sqq.
35    Interview du Spiegel
36    Der Spiegel, no 51, 14/12/09
37    Pape Benoît XVI, Encyclique «Spe salvi», Rome, 2007, dans laquelle il parle d’une «dictature du relativisme».

*    Né en 1940 à Vienne, Peter Bachmaier a fait ses études à Graz, Belgrade et Moscou. De 1972 à 2005, il a été collaborateur de l’Österreichisches Ost- und Südeuropa-Institut. Depuis 2006, il est secrétaire du Bulgarisches Forschungsinstitut en Autriche. En 2009, il a effectué un séjour de recherches à Moscou. Le présent texte est l’exposé
qu’il a présenté au Congrès «Mut zur Ethik» à Feldkirch, le 3 septembre 2010.

«Ateliers du futur» en Russie

En juillet 2010 a eu lieu, à Ekaterinbourg, le 21e atelier du futur organisé dans le cadre du Dialogue de Pétersbourg entre l’Allemagne et la Russie et qui a réuni 40 participants. Ces séminaires, auxquels sont invités des jeunes managers russes, ont été fondés en 2004 par la Société allemande pour la politique étrangère qui a organisé, dans les locaux de l’éditeur Gruner & Jahr, qui fait partie du groupe Bertelsmann, le premier «atelier du futur» sur le thème «L’Allemagne et la Russie dans le monde globalisé». L’objectif des séminaires, qui sont soutenus aujourd’hui par la Fondation Körber, est d’analyser le passé communiste et de répandre l’idée d’une société civile démocratique. Les intervenants allemands expliquent aux jeunes Russes qu’un partenariat stratégique avec la Russie n’est possible que sur la base des valeurs occidentales. Ils leur conseillent de rejeter l’héritage impérial russe et de se soumettre aux règles du jeu de la globalisation.
Les Allemands disent aux Russes que depuis les années 1960, ils se sont confrontés à la guerre et au national-socialisme et qu’ils ont assumé leur passé. Ils reprochent aux Russes de rester at­tachés à l’identité soviétique dans le souvenir de la victoire de la Se­conde Guerre mondiale et de ne pas être prêts à surmonter entièrement le totalita­risme, ce qui les empêche de continuer à démocratiser la société. Les participants russes répondent que 1991 a repré­senté une rupture dans leur conscience historique qui a entraîné la dissolution des valeurs fondamentales de la société. Jusqu’ici, les Russes n’ont pas été disposés à «se détacher complètement du passé» et à accepter les «valeurs universelles».

Source: Newsletter, DGAP, 20/7/10

(Traduction Horizons et débats)

Europees burgerinitiatief over toetreding Turkije?

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Europees burgerinitiatief over toetreding Turkije?

JA

Verschillende extreemrechtse Europese partijen, waaronder Vlaams Belang,
willen een Europees referendum houden over de toetreding van Turkije tot
de EU. Volgens Derk Jan Eppink, EU-parlementslid voor Lijst Dedecker, kan
dat nu niet. Maar is het uiteindelijk wel wenselijk.

Alle lidstaten moeten de toetreding van Turkije sowieso ratificeren voor die
van kracht wordt. Ze kunnen daartoe elk apart een referendum organiseren.
Waarom is dan een burgerinitiatief op Europees niveau nodig?

Of de EU 'ja' of 'nee' zegt tegen Turkije, is nog niet aan de orde. De
onderhandelingen over de Turkse toetreding zijn nog volop bezig en kunnen
nog mislukken. Maar áls er ooit een toetredingsverdrag op tafel ligt, moet
zowel Turkije als de Europese bevolking zich daarover kunnen uitspreken. Dat
alle lidstaten dat apart doen, volstaat niet. Slechts één land zou de
toetreding dan kunnen blokkeren - Bulgarije of Cyprus, bijvoorbeeld. Omdat
de Turkse toetreding een immense verandering zou betekenen voor de EU, moet
de hele bevolking van de EU zich daarover kunnen uitspreken. One man, one
vote . Dit is een zeer pro-Europees voorstel.

Maar kán een burgerinitiatief überhaupt wel tot een referendum leiden?

Voor een goed begrip: ik denk het niet. Het Europees burgerinitiatief is
niet echt een referendum, maar een vorm van petitierecht. Doordat de
initiatiefnemers een groot aantal handtekeningen moeten verzamelen - 1
miljoen - is het verleidelijk dat voor te stellen als een plebisciet, maar
technisch gezien is het dat niet.

Het doel van het burgerinitiatief is wel dat de bevolking een signaal kan
geven aan Brussel. Als de EU de notie van directe en rechtstreekse inspraak
serieus neemt, moet het ooit mogelijk zijn om de Europese bevolking te
raadplegen over de toetreding van Turkije. Anders houdt men de burger voor
de gek.

De modaliteiten voor het burgerinitiatief liggen nog niet vast, maar een van
de belangrijkste vereisten is dat het voorwerp tot de bevoegdheden van de EU
behoort. Omdat het hier over de toetreding van Turkije gaat, is daar alvast
wél aan voldaan.

NEE

Volgens Bart Staes, EU-parlementslid voor Groen!, kan een referendum over de
Turkse toetreding evenmin. Over dit thema is het bovendien niet wenselijk,
zegt hij. 'Ik vrees dat de bedoelingen van de initiatiefnemers niet eerbaar
zijn.'

Waarom vindt u een referendum over de toetreding van Turkije niet wenselijk?

Dit is niet het moment. Voor de start van de toetredingsonderhandelingen of
aan het eind van dat proces, dat zijn de enige momenten waarop een
referendum aan de orde zou kunnen zijn.

Over dit thema een volksraadpleging houden, is evenwel geen goed idee. Het
debat zou, zeker door het nee-kamp, niet worden gevoerd op basis van
rationele overwegingen, maar inspelen op de angst voor de islam.

Voor de goede orde: vind ik dat Turkije vandaag moet toetreden tot de EU?
Nee. Daartoe moet het niet alleen een democratische rechtsstaat zijn en de
vrijheid van meningsuiting en minderheidsrechten respecteren, maar ook alle
EU-wetgeving hebben omgezet en toepassen. Of dat alles ooit lukt, weten we
vandaag niet.

Groen! is voorstander van het burgerinitiatief. Vormt dit thema een
uitzondering op uw principe?

Ik vrees dat de bedoelingen van de initiatiefnemers niet eerbaar zijn. Het
is hen niet te doen om een eerlijke afweging over de vraag of Turkije
voldoet aan alle criteria. Zij sturen aan op stemmingmakerij.

De modaliteiten voor het burgerinitiatief liggen nog niet allemaal vast. Wel
zeker is dat er minstens één miljoen handtekeningen nodig zijn uit - allicht
- negen lidstaten. Zullen de initiatiefnemers dat halen, denkt u?

Het Europees Parlement en de Raad onderhandelen nog over de finale wet. Maar
voor alle duidelijkheid: volgens mij kun je via een EU-burgerinitiatief,
zoals bedoeld in het Verdrag van Lissabon, geen referendum afdwingen. Het
burgerinitiatief is bedoeld om rond een welbepaald thema wetgeving te maken.
Als één miljoen burgers daarom vragen, moet de Europese Commissie daar
gevolg aan geven. Ze moet er iets mee doen. Maar een EU-referendum afdwingen
over de toetreding van Turkije, dat kán vandaag niet.

Als dat ooit wel mogelijk is, wil ik het overwegen.

© 2010 Roularta Media Group
 
Publicatie:  Knack / Knack 
Publicatiedatum:  27 oktober 2010
Auteur:  Jan Jagers; 
Pagina:  20
Aantal woorden:  1256


Un esprit libre: Slavoj Zizek

Un esprit libre: Slavoj Zizek

Ex: http://unitepopulaire.over-blog.com/

Slavoj_Zizek.jpg« Ce philosophe, issu d’un pays encore plus improbable que la Pologne d’Ubu Roi, la Slovénie, est un dur, aux antipodes des essayistes tièdes dont la France s’est fait une manière de spécialité. Mais sa dureté est bardée d’humour. [...] Marxisme et christianisme, qui ont été chats et chiens avant d’être copains comme cochons ont aujourd’hui un ennemi commun : les "nouvelles spiritualités", c’est-à-dire, en langage politiquement incorrect, la bétise bleu ciel. "L’héritage chrétien authentique est bien trop précieux pour être abandonnés aux freaks intégristes" insiste avec vigueur et jubilation Zizek. [...] Confrontant l’amour (la charité chrétienne) à la loi (la prescription judaïque), et défaisant la première par la seconde à partir des épîtres de Saint Paul, comme l’avait déjà fait son maître Alain Badiou, Zizek montre avec brio que les droits de l’homme sont en réalité des droits autorisant la violation des dix commandements. L’ONU ne descend pas du Sinaï, elle le contourne. [...] Aussi rappelle-t-il comment [en Slovénie] la régression ethnique et nationaliste a été vécue par ceux qui s’y étaient éclatés comme une formidable libération vis-à-vis d’une société postmoderne mondialisée, permissive et hédoniste en apparence, corsetée de restrictions et d’interdits en réalité, et donnée comme indépassable partout. Les démocraties occidentales ont tout faux lorsqu’elles s’imaginent que toutes les libertés sont de leur côté et toutes les servitudes de l’autre. »


Christian Godin, "Slavoj Zizek : sauver le christianisme... et le marxisme !", Marianne, du 16 au 22 février 2008



Sur la Suisse :

« Je l’aime beaucoup et je déteste les gauchistes qui la trouvent trop aseptisée. Au moment de son indépendance, le rêve de la Slovénie était d’ailleurs de devenir une autre Suisse. D’une certaine manière, elle a réussi : on est anonyme, personne ne sait qui est notre premier ministre... »

 

Sur la liberté et l’ordre :

« Je suis absolument hostile à l’idée selon laquelle l’ennemi serait l’autorité ou l’ordre. La liberté suppose d’abord que les choses fonctionnent. Aujourd’hui, dès que vous dites discipline ou sacrifice, ou vous répond fascisme ou goulag. La gauche devrait rejeter ce chantage et se réapproprier l’ordre et l’héroïsme. »

 

Sur la société hédoniste :

« Les psychanalystes constatent qu’on se sent coupable lorsqu’on ne peut pas jouir. La jouissance est littéralement élevée au rang de devoir. La formule libérale est : ton devoir est de jouir. La formule autoritaire : tu dois jouir de ton devoir. Cet hédonisme radical est hégémonique. [...] Le destin de la psychanalyse se joue là : est-ce qu’elle va nous apprendre à nous libérer de ce surmoi obscène qui nous contraint à la jouissance ? »

 

Sur la gauche :

« Qu’est devenue la gauche ? Quand j’étais jeune, on parlait de socialisme à visage humain. Aujourd’hui, tout ce que la gauche est capable d’imaginer, c’est le capitalisme à visage humain, avec plus d’écologie, un peu plus de respect pour le tiers-monde... Mais on reste devant le même horizon : tout le monde considère qu’on ne peut pas penser au-delà du capitalisme associé à la démocratie libérale. »

 

Sur le marxisme :

« Je ne suis pas un marxiste en quête de révolution, je suis plutôt un marxiste pessimiste qui observe les contradictions du capitalisme global. [...] Nous ne sommes pas devant une alternative entre le capitalisme sous sa forme actuelle et autre chose. Dans quelques décennies, il est clair que cela sera autre chose. »

 

 

Slavoj Zizek, L’Hebdo, 6 mars 2008

00:15 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : philosophie, slovénie, sociologie, esprits libres | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

An Aristocracy of Industry? Andrew Fraser's "Reinventing Aristocracy"

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An Aristocracy of Industry?
Andrew Fraser’s Reinventing Aristocracy

F. Roger DEVLIN

Ex: http://www.counter-currents.com/

Andrew Fraser
Reinventing Aristocracy:
The Constitutional Reformation of Corporate Governance

Brookfield, Vermont: Ashgate Publishing Company, 1998

If you own even a single share of stock, you have probably been pestered with letters requiring your opinion on matters of corporate policy well beyond your competence to decide. Should the firm add Joe Schmedlep to its Board of Directors? Do you approve the proposal (200 pages long) for the creation of a new subsidiary? Should the company outsource accounting and make its own ball-bearings, or find a ball-bearing supplier and do its own accounting?

You are holding stock in this company for one reason only: you think you might one day be able to sell it for a higher price than you bought it. Your natural reaction to the letter, therefore, is to toss it in the trash. “Rational apathy” is Professor Fraser’s useful term for this.

The company, of course, knows that you will feel this way. So, reducing the demand on your attention to an absolute minimum, they are even telling you how to vote: normally, they “recommend” that you approve all their proposals. Still, you must find a pen, check a box, stuff the paper in an envelope, and mail it in. “No way,” you say; “into the can.”

If you are lucky, the matter will end there. But sometimes the law forbids the company from acting without consulting its owners—and that’s you, as long as you hold their stock. So they may pursue you further. I have known of people on vacation receiving emergency phone calls from frantic boards of directors seeking their views on matters wholly unintelligible to them. “Shareholder democracy,” this is called. Does it sound like any way to run a business? Professor Fraser thinks not, and it is hard to disagree with him.

On the other hand, there also exists a class of persons who take their shareholder rights with extreme seriousness. Armed, perhaps, with a single share of company stock, they march into the annual meeting, head high, and seize the agenda: is the firm protecting the ears of homosexuals in its employ from disagreeable pleasantries? Has it provided reasonable accommodation for deaf, dumb, and blind quadriplegics? Might its manufacturing process bring about the extinction of the critically-endangered Rocky Mountain Stinkweed? Has, in short, the base pursuit of lucre made the greedy capitalists forgetful of justice and righteousness?

Very often, these moral crusaders have bought stock only for the privilege of delivering their tirades. Corporations have been forced to devise procedural methods for limiting such people’s ability to monopolize shareholder meetings. Surely allowing them to push management around would be no way to run a business either. But then isn’t “shareholder democracy” a bit of a sham?

Well, yes it is, says Professor Fraser. His central thesis is that the public would be better served by a smaller, more committed “shareholder aristocracy.” The term aristocracy is “a metaphor for the civic virtues that a free people might expect of their leaders in politics, business and intellectual life” (p. 1). It should not conjure up a picture of effete fops dancing the minuet at Versailles. Fraser’s proposed aristocracy would even be self-selecting rather than hereditary (pp. 21-22).

Fraser quotes Christopher Lasch’s remark that “the value of cultural elites [such as an aristocracy] lay in their willingness to assume responsibility for the exacting standards without which civilization is impossible.” Such an elite must “live in the service of demanding ideals.” Ortega y Gassett similarly writes that “nobility is defined by the demands it makes on us—by obligations, not by rights” (p. 8).

Why, after all, does the prima donna of the shareholders’ meeting strike us as silly? Because he has no obligations toward the company, its employees, its other shareholders, its customers, or the general public. The neo-puritan crusader accuses others and poses demands, but bears no responsibility if his own proposals lead to disaster.

In smaller, family-run businesses the issue of placing responsibility hardly arises; everyone can see that the buck stops with the owner, who also runs his business from day to day. But in the modern corporation described by Berle and Means, characterized by a “separation of ownership and control,” it becomes unclear who is responsible for corporate acts.

The law at least makes clear that it does not hold individual shareholders responsible. This is the principle of limited liability, which only gained widespread acceptance around the middle of the nineteenth century. A company has legal personality, and can be held liable for harm it causes (think of the Exxon Valdez oil spill of 1989). But the individual shareholder cannot be held liable for any amount greater than the value of his stock. Thus, while it is possible to lose all the money you invest in stocks, it is not possible to lose more than that. Would you want to invest in Exxon if you knew you would have to share responsibility for Exxon Valdez-type disasters?

Probably not. Limited shareholder liability has even been credited with causing the industrial explosion of the late nineteenth century. Nicholas Murray Butler, President of Columbia University wrote in 1911 that “the limited liability corporation is the greatest single discovery of modern times. . . . Even steam and electricity are less important.” (Some scholars dissent; cf., e.g., Michael S. Rozeff, “Limited Liability” at http://www.lewrockwell.com/rozeff/rozeff28.html.)

Who if not the owners, then, should bear public responsibility for corporate behavior? The next likeliest suspect would seem to be the managers. But they have been notably successful at disclaiming responsibility on the grounds that they are mere agents of the shareholders, and act only upon the objective demands of economic efficiency.

This view finds support from surprisingly many scholars. They believe our dominant form of corporate governance is itself the result of market competition. The Berle and Means model, combining shareholder passivity with managerial irresponsibility, exists today, in other words, because it has proven itself the most economically efficient corporate constitutional model in free competition with all possible alternatives. (Best not ask these theorists to fill you in on the historical details.)

Professor Fraser sarcastically speaks of this view as a “cult of the divine economy” in which sovereignty has slipped from human hands into an impersonal system of economic demands. These demands rule over us like the inscrutable God of the Old Testament (p. 11); the managers function as its priesthood, interpreting and carrying out the divine will. No mere mortal is responsible.

Now, the market undoubtedly does impose some constraints on managerial behavior. But it would be difficult to believe, e.g., that the demands of profitability are what force the entertainment industry to churn out movies which consistently insult the religious and moral sentiments of the majority of American moviegoers. “Diversity training” does not improve efficiency either, but managerial enthusiasm for this fad goes well beyond what could be explained by fear of lawsuits. I will not undertake to determine the precise degree of freedom which the market leaves to managers, but it is certainly greater than zero.

Furthermore, a markedly different corporate structure is the rule in both Germany and Japan, where relatively “permanent” shareholders exercise control over major enterprises (pp. 17, 62).

Professor Fraser distinguishes “accountability for behavior” from “responsibility for actions.” Managers are accountable to shareholders for keeping firms profitable; this involves responding to the objective economic demands of the market. But human action is more than a reaction to circumstances. Managerial decisions affect not merely the profitability of the firms they direct but also the life of the larger society within which their firms operate. Financial accountability is too narrow a notion to substitute for public responsibility.

For example, “whenever risks generated by corporate activity become known, someone must decide how much danger to allow and assess the costs of preventing the danger.” Think of automobile design: morally responsible decisions about safety features may not be economically efficient. “Whenever government has failed to provide a policy of its own, corporate officials decide in ways that are practically binding for the ordinary citizen” (p. x). Just as Henry Ford’s customers were offered the Model T in “any color so long as it’s black,” the public today has neither any voice in nor any recourse from the safety decisions made on their behalf.

The author oddly neglects to mention government regulation at this point. Safety is, in fact, the main pretexts for such regulation, which is often onerous, arbitrary, and of questionable benefit to the public. While others worry that government is strangling private initiative, Professor Fraser baldly asserts that “the problem we face is the appropriation of public power by the corporate sector” (p. 2). Note, however, that he never recommends governmental regulation as a solution to the problem of corporate responsibility.

Safety is merely one example. Corporations today—like governments—allocate values by controlling the distribution of goods, services, honors, statuses, and opportunities. Corporate policies can be made binding and effective through the use of sanctions. These need not involve physical coercion or violence: punishment commonly takes the form of severe economic loss or a psychologically painful loss of social status. In any case, the modern corporation is private only in the formal sense that it remains extra-constitutional (pp. 73-74). Being a law unto itself, it is a legitimate target for constitutional reform.

“Corporate politics continues as a secretive affair conducted in corridors and behind closed doors,” Fraser points out; “our problem is that corporate elites have freed themselves only from constitutional politics. (p. 22). This, he believes, is leading us toward a kind of “neo-feudalism,” in which structures of corporate authority are based upon exchanges of services between persons: a system of private patronage without any place for rational deliberation or public involvement. Resistance by wage-earners would become virtually impossible, due to their economic dependence upon the managerial elite. (Professor Fraser is aware of the “managerial revolution” theory of James Burnham and Sam Francis.)

The author harks back to an older legal tradition which recognized the corporation not merely of a profit-generating system but as a civil body politic—a kind of tiny republic, in fact. In America before about 1840, the business corporation was created by a special act of a state legislature: the charter, which explicitly vested public service functions in it. Turnpikes, e.g., were not merely investments on the part of those who built and operated them, but were also authorized in order to provide a service to the community. Even banks and insurance companies were understood as hybrid amalgams of private interests and public purposes. The charter endowed each corporation with a specific raison d’être, and the corporation could be legally challenged if it acted outside its sphere of competence. Corporate decisions were sometimes voted upon by members according to the principle “one man one vote”; more often, caps were set upon the voting power of the larger shareholders. These constitutional features cannot be explained solely in terms of economic utility (p. 27).

As the nineteenth century progressed, special charters were replaced by general rules of incorporation. The notion of a defined sphere of corporate competence fell by the wayside, so that directors could seize upon any business opportunities that might arise. The principle of “one share one vote” became firmly established, entrenching monied interests. Ordinary shareholders came to be understood not as partners in a common public enterprise, but as passive investors whose preferences are fixed, unitary and homogeneous, viz., to maximize profits (p. 28). This assumed unanimity obviates the need for any deliberation on the public effects of their actions, such as is supposed to occur in a legislature. In Professor Fraser’s terminology, the bourgeois drove the citizen out of corporate life.

The nature of property itself was gradually transformed. Ownership once signified a form of personal dominion over the external things of the world. But property in a corporate entity does not carry with it the right of dominion over the physical plant and equipment, which remain the property of the corporation conceived as an entity distinct from the shareholders. Corporate shares establish instead a complex set of relationships between persons (pp. 18, 77). So complex, indeed, that a stockholder today would need to make an advanced study of international finance just to understand what it is he owns.

Yet Fraser notes the interesting circumstance that it is still illegal for a shareholder to sell his voting rights in a corporation. Such behavior is seen, perhaps inconsistently, as a violation of duty. Even corporate raider T. Boone Pickens “has been moved to outrage at the corrupt practice of vote selling, describing it as ‘un-American’ and akin to ‘prostitution’” (p. 37).

One thing these residual scruples may indicate is a still widespread feeling that the public good cannot safely be entrusted to a body of men motivated wholly by individual self interest and not liable for the effects of their actions. What is needed is a counterweight to managerial power which operates more effectively than our inherited system of an annual general shareholders’ meeting.

Professor Fraser’s central proposal is to establish a special class of corporate shares conferring both voting rights and responsibilities for corporate conduct. The ordinary investor will be able to buy stock up to some certain limit just as before. Meanwhile, “propertied persons could trade less diversity in their investment portfolios for the opportunity to play an active civic role in the governance of a narrower range of corporate enterprises” (p. 19). They would be expected to deliberate regularly with other shareholders and pass binding resolutions according to the principle “one man one vote.” This recognizes that the corporate enterprise involves deliberative rationality and not merely the pooling of economic assets. Such a voting procedure would counteract the plutocratic tendency of current corporate law.

Professor Fraser derives his model from classical aristocracy, an exclusive group of peers charged with public duties; but his proposal is a “reinvention” of aristocracy in that the peerage would not be a hereditary caste. In fact, his aristocracy would be entirely self-selected, and other investors would be free to exclude themselves from the order of corporate citizens. Such self-exclusion, “far from being arbitrary discrimination, would in fact give substance and reality to one of the most important negative liberties we have enjoyed since the end of the ancient world, namely, freedom from politics” (p. 22).

The central purpose of his proposal is to restore the role of collective deliberation in the conduct of public affairs, and he sees the ostensibly “private” corporate world as the venue where this can best be achieved today. “It may still be possible,” he concludes, “to govern corporations in the public interest without relying solely on the heavy hand of the nanny state” (p. 21).

Professor Fraser does not recommend simply imposing his republican model on all existing corporations:

It would be more useful to experiment with the concept in corporate enterprises whose business has an obvious public service dimension. Media corporations come immediately to mind. If media corporations have become surrogates and not just vehicles for public opinion, it may not be unreasonable to expect those firms to be governed in accordance with republican principles. So far the courts have not explained how a few autocratic media moguls can be expected to use their freedom from state interference to enhance rather than to corrupt the civic culture of constitutional democracy.

He goes on to mention “hospitals, universities and even prisons . . . tobacco, liquor and gambling interests . . . weapons manufacturers and defense industries generally” (p. 50).

The active shareholders would have to give up limited liability; they would be fully liable for the actions of managers under their direction. They “would become a political surrogate for the elusive ‘directing mind’ that the law requires as the sine qua non of corporate criminal liability. By holding active shareholders responsible for criminal misdeeds, the law could encourage them to create and sustain internal justice systems capable of preventing or punishing unlawful behavior by agents and employees of the firm” (p. 72).

The agonistic dimension of citizenship offers the real possibility of self-fulfillment, along with the dramatic risk of personal disaster. If Aristotle was right in claiming that man is a political animal, civic action may not be motivated solely by the hope of extrinsic rewards but also by the opportunity to exercise in public powers of reasoned speech and dramatic action [where] individuals compete for glory and recognition in the eyes of their peers. (p. 16)

Not to mention that their words would carry more weight than those of the itinerant one-share moralizers of today’s general shareholders’ meetings.

If the Western “democracies” were to implement Professor Fraser’s reform proposal, what could we expect? My guess is that the racial composition of shareholder boards would instantly become the biggest issue in politics and clog the courts with litigation. For similar reasons, I would be more enthusiastic about internal corporate judicial proceedings if I did not know that kangaroo-courts were already busy meting out punishment to white men who “offend” their colleagues. Professor Fraser is thinking of Cato and George Washington, but we would be more likely to get stuck with Al Sharpton and Catharine MacKinnon.

But these reservations are meant more in criticism of the present state of our civilization than of Professor Fraser, a contributor to TOQ who has gained international notoriety for defending the late White Australia policy to his ideologically besotted fellow-countrymen. A reading of Reinventing Aristocracy proves that long before emerging as a lightening rod for the “anti-racist” left, he had already demonstrated himself an independent thinker with an uncommon degree of political imagination.

TOQ Online, April 26, 2009

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Céline e il dramma biologico della storia

Céline e il dramma biologico della storia

di Luca Leonello Rimbotti

Fonte: Italicum [scheda fonte]


celine.jpgInfernale manipolatore della parola oppure sacerdote ideologico della décadence?  Inventore nichilista di quadri solo letterari, oppure geniale interprete politico di una civiltà al tramonto? Insomma: il fin troppo noto anarchisme di Céline è una posa individualista, oppure un vero e proprio manifesto sociale e antropologico? Possiamo ancora oggi leggerlo in tanti modi, Céline. Ma, se vogliamo andare al fondo della sua anima, tra gli squarci e gli urli, le maledizioni e le ingiurie è possibile trovare netta e precisa un’interpretazione della storia europea. Céline è un analista del tracollo dell’Europa, rappresenta un sensore sensibile agli smottamenti e alle derive, denuncia e preavverte, minaccia e sibila oltraggi alla maniera di un apocalittico profeta antico: magari l’“Ezechiele parigino” di cui parlò Pol Vandromme. C’è in Céline la sensiblerie di un osservatore straziato, che ha sottomano la disintegrazione della civiltà europea e ne grida i misfatti, attraverso le sue storie disperate, ma anche attraverso pagine e pagine di lamentazioni millenaristiche. Céline sa di trovarsi di fronte a uno sbocco, nel centro di uno snodo di epoche, dal cui scioglimento dipenderà l’avvenire del suo mondo. E il suo mondo è l’Europa tradizionale. L’Europa nordica franco-germanica. L’Europa dei popoli sani che fanno la civiltà e la storia.

L’Europa delle aristocrazie di stirpe. Céline – è stato osservato – fu allievo del de Gobineau nel soffrire la decadenza come un’ingiuria ineluttabile, forse anche necessaria. Come una fine obbligata, soltanto dalla quale poi ripartire per un nuovo inizio. Già molti anni fa, nel 1974, lo studioso Paolo Carile rilevò la filiazione di Céline dalla inquadratura gaubinista e dall’antropologia di Ėlie Faure, e la rilevò dalla sua lettura degli eventi moderni come dramma biologico della storia, al culmine del quale si attua il precipitare dell’ordine antico in una sequela di accelerati sfaldamenti.


Faure era un critico d’arte socialista che spiegava le aggregazioni estetiche come esito di combinazioni positive di sangue e di influssi ambientali, e in questo modo si confrontò con l’ideologia di Gobineau, di cui però rovesciava gli assunti: gli incroci come esiti positivi, come moltiplicatori delle possibilità creative. Nondimeno, egli attribuiva alla forza dinamica ìnsita nei popoli e negli individui il valore di un condizionamento, attraverso il dispiegarsi di dispositions ethnobiologiques determinanti nel formare l’anima collettiva. Céline, che fu in rapporti col Faure, si abbeverò a questa dimensione di un’energia occulta che sanziona le predisposizioni, e Carile appunto ne scorse la manifestazione nel concetto céliniano di âme, l’anima “ancorata ad un’interpretazione strettamente biologica che non accetta gli slanci mistici fauriani”, quale compare, ad esempio, in Mea culpa del 1936. “Céline si credeva depositario di una profezia la cui rivelazione era fondamentale per la salvezza dell’umanità”, ha scritto molti anni fa Vandromme. Difatti, sembra sempre di sentire rintoccare la campana apocalittica di un ultimo evento, di una imminente catastrofe che attende l’Europa nel fondo del suo declino. E questo, tanto nelle sue storie di trascinamenti nei degradi scuri della psiche metropolitana, quanto nelle filippiche nevrotiche dei suoi luciferini e brutali pamphlet. Con, al centro, ogni volta, l’allucinazione dello sfacelo fisico e mentale, dell’abbrutimento, la febbricitante sofferenza per l’oscenità della lenta, sicura consunzione che attanaglia l’individuo spoglio e isolato, così come le plebi, i popoli, l’Europa intera.
Si è individuato nell’inizio del 1942 – con la brutta piega presa dalla guerra “tedesca” - il momento del distacco di Céline da ogni furore di lotta positiva: ciò che fino a quella data egli ancora riteneva possibile attraverso la violenta liberazione di tutte le energie ancora inespresse dalla Francia e dall’Europa germanizzate, cioè un arresto della nostra civiltà sull’orlo dell’abisso e un raddrizzamento dei fini e dei modi, da allora in poi divenne disperata ricerca di un precipizio in cui gettare l’uomo e la sua incapacità di salvarsi. Il fatalismo céliniano non è tuttavia rassegnato: è esibizione di volontà di rovina. In questo, egli rappresenta al meglio la tragicità di un modo d’essere incapace di interpretare la realtà, altrimenti che nei modi manichei del trionfo o della catastrofe. E allora, se il trionfo non poteva più aversi, si sarebbe dovuto volere la catastrofe. E tanto più grandiosa e definitiva, tanto meglio.

“Cronista tragico”, si definì Céline in un’intervista del 1960. Cronista in grado di intercettare e di rappresentare il tragico dell’epoca, come a pochi era stato concesso. Poiché, così aggiunse, “la maggior parte degli autori cercano la tragedia senza trovarla”. Lui invece la trovò, si agitò al centro del ciclone e sospinse il dramma fino ai suoi limiti radicali. Lo psicodramma di Céline – che non fu certo il solo nella sua epoca a vivere questa dimensione dell’assurdo totale – rappresenta il destino europeo sotto la specie di una tragedia personale elevata a simbolo di un mondo e di una generazione.


L’ossessione per la degenerazione psico-fisica dell’uomo occidentale diventa in Céline una sorta di  manifesto bioetico, depotenziato forse per l’ambiguo estremismo del linguaggio popolaresco, che cerca nell’argot dei bassifondi la parola infame per descrivere le brutture della vita; ma potenziato, d’altra parte, proprio dalla consapevolezza, vissuta forse come bagaglio d’esperienze del “medico dei poveri”, dell’illimitata miseria delle masse umane urbanizzate e rese indegne, ignobili, dalle logiche della società capitalista moderna. La purezza, in questo quadro, è un vero richiamo al mito di un’unità di specie che è andata perduta per la violenza e le ingiustizie del mondo. Una purezza introvabile ormai, il paradiso perduto dell’uomo nel suo eterno inganno moralista. Già nel Viaggio al termine della notte, Céline tratteggia la sua rabbia per l’impossibilità fisica di igienizzare l’umanità povera, per redimerla, per dunque ripulire dal male la razza e restituirla a una qualunque dignità. Le parole con cui rappresenta la mescolanza oscena dei miserabili della banlieue e dei quartieri poveri – da lui ben conosciuta di persona – sono l’attestato del suo dolore per un disfacimento ormai irrefrenabile: “la razza…è un ammasso di malandati, pidocchiosi, miserabili che sono capitati qui per causa di fame, peste, tumori e freddo…da tutte le parti del mondo…”.

Ed ecco qua, pertanto, una prima applicazione di quella consapevolezza per il “dramma biologico della storia” di cui dicevamo, e che Céline vedeva chiaramente all’opera nel cuore parigino della France eternelle. Un cuore marcio, scolpito con tutte le putredini della mescolanza. Questo orrifico affastellamento di destini assemblati dal caso è la risultante del tradimento che l’uomo moderno ha compiuto nei confronti della nobiltà dell’appartenenza di stirpe. Céline il bretone, orgoglioso della sua nordicità, della limpidezza dei suoi trascorsi ereditari di terra e di sangue, vive la lacerazione dolorosa di una realtà, quella della cosmopoli parigina, borghese e progressista, liberale e capitalista, che affoga ogni nobile istinto nella primitiva lotta per il possesso materiale, per il lusso. Sopra sta la borghesia che si rimpinza le budella e, dice Céline, si dimentica sempre di passare alla cassa per pagare. Sotto sta la massa dei disperati disonorati, condannati alla perversione di pagare il benessere altrui con la propria allucinante miseria. Non più un popolo, ma feccia senza nome. Non più nemmeno massa, ma semplice turba depravata, scavata dalla malattia, finita dal degrado.

Questo è il “socialismo nazionalista” di Céline: una rivolta del sentimento estetico, prima ancora che sociale. Una rivolta per la sanità del corpo e della mente liberati, un gridare carico d’odio in nome della vendetta per le masse deturpate dall’alcool, dal lavoro logorante e animalesco, dall’assenza di ogni segno di nobiltà. Poiché – lo scrisse proprio Vandromme – ciò che vuole questo anarchista (più che anarchico), irrazionalmente devoto alle sue radici celtiche di purezza, è per l’appunto la restaurazione di un mito aristocratico di nobiltà.

 
“Céline crede nella sola cosa necessaria, nel ritorno a una vita nobile”, ha commentato infatti Vandromme. Una nobiltà che appartiene alla concezione tradizionale e antimodernista della vita, di cui Céline fu uno dei massimi rappresentanti novecenteschi. “Vedo l’uomo tanto più inquieto quanto più ha perduto il gusto delle favole, del mito, inquieto fino alla disperazione…” scrisse Céline in Les beaux draps. E aggiunse che l’uomo moderno è come preda di una comune pazzia acquisitiva, un tormento superficiale per i beni materiali che gli fa dimenticare ogni dimensione legata all’irrazionale, al bello, al superiore, al gratuito. Ogni dimensione legata insomma alla natura, rappresentando la società progressista essenzialmente l’anti-natura. E questa anti-natura si esprime sinistramente nel dilagare di tutto ciò che è basso e informe, dando vita a una specie di Sodoma universale, in cui l’impuro imbratta ogni retaggio, corrompe ogni antica bellezza. “Il fatalismo biologico lombrosiano che implica il naufragio di ogni capacità autodecisionale non è lontano da certe pessimistiche considerazioni antropologiche di Céline”. Questa osservazione di Carile ci mostra quanto centrale fosse nel dottor Destouches l’apprensione per il destino del corpo dell’uomo europeo, aggredito da tutte le degenerazioni della massificazione e dell’edonismo borghese. Davanti allo spettacolo di corruzione dei corpi e delle menti, Céline reagisce con l’insulto e con l’odio forsennato, oppure con il gesto picaresco dello sberleffo, l’ironia, la rigolade. Ultimo rifugio – come nel “lazzarone” napoletano – di un’umanità di vinti condannata al disonore e all’anonimato sociale.


Della sua epoca fortemente ideologizzata e rivoluzionaria, densa di contraddizioni sociali e di aperture politiche chiliastiche, Céline apprese l’inclinazione radicale verso l’apocalisse. Interpretò il fascismo come un’arma di raddrizzamento del piano inclinato e in favore di un sorgere dell’élite nuova, della giovane aristocrazia che imponesse nuovi codici di etica comunitaria e di onore sociale. Il tutto inquadrando nel contesto di un amore viscerale per la carne, per il corpo fisico dell’uomo, elevato a simbolo sommo dell’ideale di purezza. Le pagine che, ad esempio, Céline dedicò alla bellezza estetica della danza, di cui era ammirata interprete la moglie, gli accenti lirici che spese a proposito del bel gesto armonico, dell’aggraziato flettersi del corpo, della grandezza dell’arte perché in-utile, non monetizzabile, gratuita, sono l’attestato di questo amore celiniano per l’incanto della purezza, priva di prezzo ma grandemente preziosa. Un sovramondo che aveva il suo tenebroso contraltare nel sottomondo dei deformi, degli sfiancati, dei ruderi umani che erano gli avanzi antropologici del capitalismo borghese.

Leggiamo un attimo quanto sempre Carile scrisse circa l’antropologia etica di Céline: “Céline riprende le tesi tipiche della sua generazione al fine di giustificare il proprio elitismo, frutto di un movimento psicologico di difesa dalla pessimistica sensazione della decadenza della civiltà europea. In tal modo lo scrittore, ergendosi contro il mondo moderno, crede di far barriera contro la tecnologia e il consumismo dilaganti che caratterizzano la nostra epoca ‘decadente’. L’elitismo razzista – continuava Carile – lo preserverebbe da quanto ai suoi occhi è simboleggiato negativamente dalla routine democratico-borghese. La sua ribellione lo porta ad esaltare l’irrazionalismo, la gratuità della danza e nel contempo a sublimare il proprio orgoglio aristocratico di ‘autentico celte’; dato che si considerava uno degli ultimi esempi di una razza etnicamente intatta, al di qua della torre di Babele dei popoli e delle culture imbastardite del suo tempo”. In questa analisi c’è tutto quanto il significato epocale della figura e della scrittura di Céline, questo Spengler narratore dei bassifondi del tardo impero europeo, che invoca con fanatismo disperato un’ultima resurrezione del popolo.


Céline sapeva di essere uno dei pochi capaci di andare davvero fino in fondo. Le sue scelte oltranziste – dall’antisemitismo al filogermanesimo, da Sigmaringen alla cocciuta ostinazione postbellica di non rinnegare nulla – gli attirarono un carico d’odio che soltanto oggi viene meno, per via di certi biografi che però fanno anche di peggio, dato che vogliono fare di Céline non il felino ungulato che era, ma un cappone da cortile, solo un po’ bizzarro. Lo sapeva che imboccando la strada di una difesa antropologica ed etnica dell’uomo europeo si sarebbe guadagnato una fama luciferina. Lo sapeva almeno dai tempi di Bagatelles quando, rivolgendosi a se stesso, scrisse: “Ferdinand,…t’auras le monde entier contre toi”. Avere tutto il mondo contro di sé…È il destino dei veri profeti.
                                                                                                                               


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Tradition et Révolution

Tradition et Révolution

par Edouard RIX

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Pour quoi combattons-nous ? Cette question fondamentale, tout soldat politique doit se la poser. Aussi contradictoire que cela puisse paraître, nous sommes tentés de répondre que nous luttons pour la Tradition et la Révolution.

LA TRADITION

Tout d’abord, il ne faut pas confondre la Tradition avec les traditions, c’est-à-dire les us et coutumes.

La Tradition désigne l’ensemble des connaissances d’ordre supérieur portant sur l’Etre et ses manifestations dans le monde, telles qu’elles nous ont été léguées par les générations antérieures. Elle porte non pas sur ce qui a été donné une fois dans un temps et un espace déterminés, mais sur ce qui est toujours. Elle admet une variété de formes -les traditions-, tout en restant une dans son essence. On ne saurait la confondre avec la seule tradition religieuse, car elle couvre la totalité des activités humaines -politique, économie, social, etc…

A la suite de Joseph de Maistre, de Fabre d’Olivet et, surtout, de René Guénon, Julius Evola parle d’une «Tradition primordiale» qui, historiquement, permettrait d’envisager l’origine concrète d’un ensemble de traditions. Il s’agirait d’une «tradition hyperboréenne», venue de l’Extrême Nord, située au commencement du présent cycle de civilisation, en particulier des cultures indo-européennes.

Du point de vue d’Evola, «une civilisation ou une société est traditionnelle quand elle est régie par des principes qui transcendent ce qui n’est qu’humain et individuel, quand toutes ses formes lui viennent d’en haut et qu’elle est toute entière orientée vers le haut». La civilisation traditionnelle repose donc sur des fondements métaphysiques. Elle est caractérisée par la reconnaissance d’un ordre supérieur à tout ce qui est humain et contingent, par la présence et l’autorité d’élites qui tirent de ce plan transcendant les principes nécessaires pour asseoir une organisation sociale hiérarchiquement articulée, ouvrir les voies vers une connaissance supérieure et enfin conférer à la vie un sens vertical.

Le monde moderne est quant à lui, à l’opposé du monde de la Tradition qui s’est incarné dans toutes les grandes civilisations d’Occident et d’Orient. Lui sont propres la méconnaissance de tout ce qui est supérieur à l’homme, une désacralisation généralisée, le matérialisme, la confusion des castes et des races.

LA REVOLUTION

Quant au terme Révolution, il doit être rapporté à sa double acception. Dans son sens actuel, le plus couramment utilisé, Révolution veut dire changement brusque et violent dans le gouvernement d’un Etat. La Révolution française et la Révolution russe de 1917 en sont l’illustration parfaite.

Toutefois, au sens premier, Révolution ne signifie pas subversion et révolte, mais le contraire, à savoir retour à un point de départ et mouvement ordonné autour d’un axe. C’est ainsi que, dans le langage astronomique, la révolution d’un astre désigne précisément le mouvement qu’il accomplit en gravitant autour d’un centre, lequel en contient la force centrifuge, empêchant ainsi l’astre de se perdre dans l’espace infini.

Or nous sommes aujourd’hui à la fin d’un cycle. Avec la régression des castes, descente progressive de l’autorité de l’une à l’autre des quatre fonctions traditionnelles, le pouvoir est passé des rois sacrés à une aristocratie guerrière, puis aux marchands, enfin aux masses. C’est l’âge de fer, le Kalî-Yuga indo-aryen, âge sombre de la décadence, caractérisé par le règne de la quantité, du nombre, de la masse, et la course effrénée à la production, au profit, à la richesse matérielle.

Etre pour la Révolution aujourd’hui, c’est donc vouloir le retour de notre civilisation européenne à son point de départ originel, conforme aux valeurs et aux principes de la Tradition, ce qui passe, pour reprendre l’expression de Giorgio Freda, par « la désintégration du système» actuel, antithèse du monde traditionnel auquel nous aspirons.

Edouard Rix, Le Lansquenet, automne 2002, n°16.

lundi, 01 novembre 2010

Des protozoaires de la gauche Caviar-Carla

Des protozoaires de la gauche Caviar-Carla

Ex: http://ruminances.unblog.fr/

caviar01.jpgA l'origine, j'avais envisagé d'écrire un billet sur la gauche Caviar-Carla (Ca²). La composante la plus récente mais non la moins influente du Sarkozysme. Celle qui a permis à notre président de découvrir à 54 ans les joies de la lecture, du théâtre et des concerts branchouilles. Celle pour qui l'argent a une odeur fétide mais qui est bien contente d'en posséder un max. Celle qui méprise la bande du Fouquet's, noyau dur et socle initial du Sarkozysme, constituée avant tout de puissants patrons de groupes industrialo-médiatiques comme Bernard Arnault, Martin Bouygues, Vincent Bolloré ou Serge Dassault mais également de poids lourdingues du monde du show bizz et du sport  comme Johnny Hallyday, Christian Clavier, Jean Réno, Arthur, Basile Boli, Bernard Laporte ou encore Richard Virenque. Une belle brochette de joyeux drilles soit dit en passant…

La gauche Ca² n'a pas plus de considération pour la branche politique du Sarkozysme, faite de courtisans du premier cercle qui doivent tout à Nico 1er. Un aréopage improbable de perroquets dressés à répéter dans les médias exactement les mots que leur a appris leur maître le matin même. Des porte-flingues fidèles à jamais, prêts à tout pour sauver leur chef car ils n'existent politiquement que grâce à lui. Et là, on trouve pêle-mêle Frédéric Lefebvre, Xavier Bertrand, Brice Hortefeux, Nadine Morano, Christian Estrosi, les époux Balkany, Roger Karoutchi (actuellement sur la touche) ou encore Rachida Dati (revenue  en cour)…

Non la gauche Ca², c'est autre chose, voyez-vous. Je m'apprêtais à essayer de savoir ce qu'elle recouvrait exactement quand je suis tombé sur un excellent papier du Monde signé Ariane Chemin. Il narre la soirée de mariage d'Henri Weber et de Fabienne Servan Schreiber, le 15 septembre 2007, soit quelques jours avant la rencontre mythique chez Séguéla entre la belle transalpine et le petit teigneux.  Force est de constater que tous les composants de la gauche Ca² sont au rendez-vous. Ils sont venus, ils sont tous là. Inutile d'en rajouter…

La gauche à la noce
Gare aux trompettes de la renommée. Par un bouche-à-oreille très parisien, le mariage de Fabienne Servan-Schreiber, productrice de cinéma et de télévision, et d’Henri Weber, héros trotskiste devenu député socialiste européen, s’est transformé en quelques jours en un petit happening politique, échappant malgré eux à ses organisateurs. Restes d’une belle lucidité soixante-huitarde, génération qui aime tant se raconter ? Nombre des 800 invités de la fête ont éprouvé l’envie de rapporter, les jours suivants, leur soirée du samedi 15 septembre, sentant confusément que, sous les rampes du Cirque d’hiver, s’était dessiné un tableau allégorique. Ou devinant que, dans ces retrouvailles de la gauche arrivée, s’était écrite, volens nolens, une petite fable.

Quand ils ont trouvé le carton d’invitation dans leur boîte aux lettres, grâce au carnet d’adresses impeccablement tenu de “Fabienne”, certains se sont d’abord demandé : “Comment ? Ces deux-là ne sont pas encore mariés ?” Beaucoup ont souri sans méchanceté : “Ce vieux soixante-huitard d’Henri souscrit même au rite bourgeois et passe la bague au doigt devant monsieur le maire !” Le dernier samedi de l’été, jour de ciel bleu, de Vélib’ et de Technoparade, ce couple star de Mai 68, en présence de ses trois grands enfants, s’est donc dit “oui” devant Bertrand Delanoë, avant d’être accueilli par les clowns du Cirque d’hiver. Une adresse fameuse, entre République et Bastille, là où, au XXe siècle, quand elle gagnait encore les élections présidentielles, la gauche fêtait ses victoires, fidèle au Paris ouvrier et rebelle.

Avec la Mutualité, le Cirque d’hiver demeure l’un des lieux de mémoire parisiens. C’est ici, sur la piste aux étoiles des Bouglione, qu’est né le MRAP, organisation antiraciste, en mai 1949. Là que se sont tenus quelques célèbres meetings de campagne de François Mitterrand, Lionel Jospin, puis Ségolène Royal. Là que s’est souvent réunie en messes unitaires la gauche partisane et syndicaliste. “On se fait une Mutu ?” “On se tente un Cirque ?”, demandaient les responsables. La “Mutu” est moins chère - entre 12 000 et 15 000 euros la salle -, mais le “Cirque” est plus vaste. Or, a expliqué sur la piste Denis Olivennes, le patron de la FNAC, dans un compliment bien troussé : “Quand on se marie à 25 ans, on invite 50 amis ; à 35, 200. Quand on se marie beaucoup plus tard, on en reçoit 800. Et avec les connaisssances, il leur aurait fallu le Stade de France !

Durant la campagne présidentielle, Fabienne Servan-Schreiber, indéfectible soutien de la gauche, avait réuni artistes et intellectuels prêts à soutenir Ségolène Royal dans un gymnase parisien. A 63 an, le marié, lui, est un lieutenant fidèle de Laurent Fabius, comme son ami Claude Bartolone, y compris lorsqu’il lui a fallu dire non à la Constitution européenne. Foin des querelles entre ex-trotskistes, des oukases contre ceux qui lorgnent trop, depuis quelques mois, vers la droite : du groupe trotskiste lambertiste OCI aux hauts fonctionnaires centristes des Gracques, ce soir-là, Henri Weber réunissait gaiement tout le monde.

Lionel Jospin et son épouse, Sylviane Agacinski, dînaient à quelques tables de la présidente de la région Poitou-Charentes, venue avec ses enfants. “Il paraît qu’il a écrit un livre terrible et ignoble contre moi“, confiait-elle à ses voisins (c’était deux jours avant que Libération ne publie les extraits chocs de L’Impasse - éd. Flammarion). Entre deux avions, Dominique Strauss-Kahn, alors futur patron du FMI, honorait les mariés de sa présence. “On le regardait déjà différemment, il est devenu international“, s’amusait un convive.

Enfin, last but not least, la gauche sarko-compatible, des chargés de mission aux ministres, avait fait le déplacement en masse : l’ex-patron d’Emmaüs, Martin Hirsch, haut-commissaire aux solidarités actives, le secrétaire d’Etat aux affaires européennes, Jean-Pierre Jouyet, le ministre des affaires étrangères, Bernard Kouchner - une des vedettes de la fête. “Il est resté tard, pour montrer qu’il n’avait pas de problème avec sa famille politique, commente un invité. Quand on pense en revanche à tout ce qu’Henri lui a donné, Fabius aurait pu s’attarder.” Arrivé pour le cocktail, l’ancien premier ministre est reparti avant le dîner…

Est-ce la présence des banquiers - Bruno Roger, le patron de Lazard, Philippe Lagayette, de chez JP Morgan, ou Lindsay Owen-Jones, le patron de L’Oréal ? Celle des ténors du barreau, ou des patrons de télévision - Patrice Duhamel, Jérôme Clément, Patrick de Carolis ? “C’était comme si la gauche n’avait pas perdu les élections“, sourit un membre de la noce. “Si on n’est pas invité ce soir, c’est qu’on n’existe pas socialement“, souffle le psychanalyste Gérard Miller à ses camarades de table. Patrick Bruel, Carla Bruni ou Julien Clerc… Mélange des étiquettes et des genres provoquent toujours quelques scènes dignes du cinéma, comme l’arrivée spectaculaire de Georges Kiejman accompagné de Fanny Ardant, ou le compagnonnage du journaliste Jean-François Kahn, patron de Marianne, avec Alain Minc, ami du président de la République.

S’ils sont tous là, c’est parce que la petite histoire des héros de la soirée a rencontré celle de la gauche. Leurs vies militantes se sont emmêlées avec la grande politique, puis, une fois la gauche au pouvoir, avec la réussite. Avant de devenir sénateur à Paris puis député à Bruxelles, le fabiusien Henri Weber fut un enfant de Mai 68. Cofondateur de la Ligue communiste révolutionnaire (LCR) avec Alain Krivine, il a dirigé Rouge, le journal de l’organisation trotskiste, qu’il a créé avec les droits d’auteur de son Mai 1968 : une répétition générale - réédité tous les dix ans en “poche”. Pour le mariage, Fabienne portait d’ailleurs une robe bustier écarlate, dessinée par Sonia Rykiel. Et c’est une ancienne claviste de Rouge, Sophie Bouchet-Petersen, devenue “plume” et amie de Ségolène Royal, qui prononça le deuxième discours de la soirée. “Les bonnes formations passent les années !”, applaudit en expert l’un des trotskistes de la fête au Cirque d’hiver.

C’est justement là, en juin 1973, que s’est nouée l’idylle. Avec la petite caméra qui ne la quitte jamais, une jolie étudiante filme, devant le bâtiment, la foule qui proteste contre la dissolution de la Ligue communiste, après les affrontements violents qui ont opposé ses militants à ceux du groupe d’extrême droite Ordre nouveau. A l’intérieur, Jacques Duclos, secrétaire général du PCF, s’indigne - grande première - des ennuis causés aux “gauchistes” par le ministre de l’intérieur, Raymond Marcellin. Perché sur un feu rouge, un jeune homme vocifère dans son mégaphone et tempête contre l’emprisonnement du camarade Krivine. Belle gueule, bel esprit. Dans le viseur de sa super-8, Fabienne Servan-Schreiber tombe amoureuse du fils d’immigré d’Europe de l’Est grandi à Belleville…

L’avantage, quand on devient célèbre et qu’on se marie tard, c’est qu’on échappe aux discours potaches et aux mauvaises vidéos amateurs. De sa maison de production, Cinétévé, Fabienne Servan- Schreiber, scénariste et réalisatrice du film de ses noces, a tout prévu. Côté archives, le fonds “maison” est large. On peut aussi puiser dans celui des invités : Romain Goupil et son Mourir à trente ans, les épisodes de Génération des historiens de Mai 68 Patrick Rotman et Hervé Hamon…

La mariée a confié les commentaires du film-souvenir, Trente-quatre ans de fiançailles, à l’un des plus solides amis du couple, celui des bons et des mauvais jours : Régis Debray. Devant Edgar Morin et un parterre d’intellectuels sexagénaires, le philosophe peut enfin commenter à sa sauce les fameux “événements” d’il y a presque quarante ans et… leur apothéose. Les Weber cabotant le long des côtes dans leur caïque turc à voiles plutôt qu’en croisière sur le Paloma, n’est-ce pas la dernière différence entre la droite et la gauche ? “Tendres sarcasmes”, signe Régis Debray au générique.

Ont-ils trop vieilli, l’ont-ils trop aimée, la révolution ? Sur la piste, une fois le sirtaki de Bernard Kouchner et de Christine Ockrent fini, il n’y eut vite plus que les enfants des invités pour danser sur les “compil” du DJ déniché par “Fabienne” au festival du documentaire de Biarritz. Lionel Jospin est resté assis sur le bord de la piste. Le dernier carré des révolutionnaires est parti se coucher, après avoir exhumé, tristes et désolés, les jolis coups et les bons mots de l’ami Jean-François Bizot, grand absent de la fête, mort juste une semaine plus tôt.

Des convives présents, on n’a guère entendu que le chercheur Patrick Weil protester, les jours suivants, contre la politique d’immigration du nouveau gouvernement. Invité aux noces, Alain Krivine avait décliné l’invitation.

Que le très fabiusien Henri Weber se marie, c’est son droit le plus strict, commentait Rouge d’une brève, le 21 septembre. Qu’il organise un dîner politico-mondain où se sont retrouvés, outre le panel des dirigeants socialistes, la députée UMP Françoise de Panafieu et Bernard Kouchner, le va-t-en-guerre, montre que nous ne vivons pas dans le même monde et que nous n’avons pas la même conception de la politique.” Cette fois-ci, c’est Krivine qui jouait les trouble-fête. Pour parfaire la légende, il faut toujours quelques absents au banquet de la jeunesse disparue.

Ariane Chemin

Photo : Fabrizio Ferri

De ironie van de geschiedenis: Rusland "terug" naar Afghanistan

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De ironie van de geschiedenis: Rusland “terug” naar Afghanistan

Ex: http://yvespernet.wordpress.com

De geschiedenis heeft zo haar ironische verrassingen. Toen socialistisch Rusland, toen nog de Sovjetunie, Afghanistan binnenviel om daar het socialistische regime te ondersteunen, steunde de VSA de moedjahedien die de Russen bevochten. De CIA leverde wapens (de beruchte Stinger-raketten die Russische helikopters konden neerschieten), geld en training aan deze Afghaanse strijders en legde zo, nogmaals ironisch genoeg, de basis voor de Taliban en Al-Qaida vandaag de dag. Dit was de zogenaamde Operatie Cyclone. Deze oorlog zou uiteindelijk ook een grote rol spelen in het instorten van de Sovjetunie wegens de grote verliezen en de onuitzichtbare situatie. In Afghanistan wordt de terugtocht van de Sovjetunie uit hun land ook nog steeds jaarlijks gevierd. Nu dat de NAVO-aanvoerroutes steeds meer blootgesteld worden aan steeds effectievere aanvallen en de Pakistanen de belangrijke Khyber-pas sinds eind september hebben gesloten, zoeken de Amerikanen naar mogelijkheden om dit te compenseren.

De ironie van dit alles? De VSA gaan deze hulp zoeken bij de Russen. Rusland verkoopt militair materiaal aan de NAVO-leden in Afghanistan en aan het Afghaanse leger zelf. Tevens zouden zij piloten opleiden en het Russische grondgebied en luchtruim openzetten voor de bevoorrading van NAVO-troepen. Momenteel zou Rusland al vijf Mi-17 helikopters aan Polen verkocht hebben. Russisch onderminister van Buitenlandse Zaken, Aleksander Grushko, deelde ook al mee dat Afghaanse officieren momenteel in Rusland opgeleid worden. Anatoly Serdyukov, de Russische Minister van Defensie, melde ook dat de NAVO meerdere dozijnen Mi-17′s zou kopen of huren van Rusland. Zelf zouden er geen Russische troepen Afghanistan binnentrekken.

In ruil bouwt de VSA hun “anti-rakettenschild” (ARK), in de praktijk een radar-”afluister”systeem om Rusland te bespioneren, steeds verder af. Zo is dit ARK reeds geschrapt in Polen en Tsjechië. Ook zal Rusland geconsulteerd worden bij de opbouw van een eventueel alternatief voor dit ARK. Verder zou Rusland eisen van de NAVO dat zij de situatie in Georgië, waar o.a. Zuid-Ossetië nog steeds de facto onafhankelijk is onder Russische voogdij, officieel erkennen.

Ook is deze geopolitieke keuze van Rusland geen verrassing. Tegenover islamistisch fundamentalisme voert Rusland een containment-politiek, waar de VSA eerder een roll-back-politiek wensen te volgen. Voor Rusland is het het belangrijkste om het islamitisch fundamentalisme in Afghanistan en Pakistan te houden en ervoor te zorgen dat het zich niet meer naar het noorden, naar de onderbuik van Rusland, verplaatst. Dat daarbij de NAVO zich druk bezig houdt en grote materiële inspanningen moet leveren in Afghanistan, ten koste van hun aandacht naar Rusland toe, is nog eens goed meegenomen. Rusland heeft er dan ook alle belang bij om zowel de islamistische fundamentalisten als de NAVO-troepen met elkaar bezig te laten zijn in Afghanistan.

Volgende maand is er een NAVO-top in Lissabon waar deze gesprekken en besluiten officieel zouden meegedeeld worden. De Russische president, Dmitry Medvedev zou hier ook bij aanwezig zijn.

Lettree au Président de la Commission Européenne

M. I. N. E. R. V. E
7, Rempart St. Thiébault –F 57000 METZ

Mouvement pour l' Impérium, la Nature, l'Ethique, les Régions et pour la Vitalité de l'Europe.

Objectif:
Institutionnalisation de l'indépendance, de la communauté, de la puissance, de l'identité, de la justice, de la générosité, de l'éthique et de la spiritualité dans une Europe unie.

15 octobre 2010 (original italien – traduction)

Lettre au Président de la Commission Européenne


(Copie aux Présidents du Parlement européen, du Conseil européen, du Comité économique et social européen, du Comité européen des Régions).


Monsieur le Président,

Notre association politico-culturelle MINERVE, qui se consacre principalement à la promotion de l’intégration européenne, se permet de s’adresser à l’Union européenne en tant qu’institution supranationale politico-diplomatique et à ses divers organes pour leur suggérer une action concertée effective dans les domaines suivants partant de deux priorités fondamentales :

◊ I. Survie, gravement menacée à relativement court terme, de toutes les espèces animales et donc de l’homme sur notre planète.

◊ II. Attaques ethniques et monétaires actuellement en cours contre l’Europe .

Concernant I

Urgence d’une initiative commune de politique environnementale conçue comme suit :

◊ A. Viser à imposer, au niveau mondial, des objectifs chiffrés (cf. Protocole de Kyoto) assortis d’engagements dont le non-respect engagerait des sanctions.

◊ B. Si aucun accord concret et précis n’est atteint au niveau mondial avant une date limite prochaine, l’Union européenne doit décider d’agir seule, en renforçant, pour ce qui la concerne, les objectifs qu’elle s’est déjà fixés de manière à compenser le manque de volonté effective de certains Etats refusant des objectifs chiffrés précis et des obligations impératives, et s’organiser en vue de vivre en autarcie (avec des accords bilatéraux spécifiques avec certains Etats quand des ressources lui appartenant en propre ne sont pas disponibles dans le cadre de la zone géopolitique de l’UE) en appliquant des sanctions économiques politiques et diplomatiques aux Etats récalcitrants. Il n’est plus possible de perdre du temps : il s’impose de fixer une date limite après laquelle des sanctions draconiennes seront appliquées ! C’est le prix de la survie pour tous !

Concernant II

Nous assistons aujourd’hui à des attaques « ethniques » et monétaires contre l’Europe, cela surtout depuis que l’Union européenne est devenue, par le Traité de Lisbonne, une superpuissance non plus seulement économique et commerciale, mais aussi politique et diplomatique. Ces attaques sont un fait documenté. Elles sont voulues essentiellement par certains milieux de la haute finance internationale spéculative et frappent, certes, principalement l’UE et ses Etats-membres, mais aussi d’autres Etats et zones géopolitiques, risquant de provoquer un effondrement complet de l’économie mondiale et la dissolution de toute forme de société organisée ainsi que la fin de nos peuples-nations (et donc de la civilisation européenne dans son ensemble), pour le profit exclusif de ces milieux et leur domination absolue sur une masse malléable et exploitable sans aucune limite parce qu’elle aura perdu toute dignité et capacité de résistance liée à l’identité propre des différents peuples-nations du monde.


Façons pour l’UE et ses Etats-membres, de s’opposer à ces attaques :
Politiques cencertées dans les domaines suivants :

◊ 1. Domaine de la politique économique :
- Economie sociale de marché
- Protection de nos propres entreprises et de nos propres travailleurs
- Planification économique en vue d’une politique « verde »
- Croissance évaluée en fonction d’une révision du calcul du PIL
- Politique économique commune (concurrence loyale entre les entreprises et non entre les Etats-membres)
- Politique commerciale fondée sur la préférence communautaire
- Conception de la politique monétaire fondée sur la notion de la monnaie en tant qu’instrument et non de but.

◊ 2. Domaine de la politique sociale (liée à la politique économique)
- Respect scrupuleux des directives sociales communautaires
- Aucun démantèlement des politiques sociales, mais harmonisation de celles-ci vers le haut et non vers les moins exigeantes.
- Répartition équitable des profits (1/3 destiné aux investissements internes, 1/3 destiné au personnel sous forme de participation, 1/3 destiné aux actionnaires )

◊ 3. Domaine de la politique ethnique (déjà pratiquée dans certains Etats-membres) dans le respect des règles de non discrimination selon l’origine et le sexe (cf. Charte des droits fondamentaux de l’Union européenne ).

◊ A.
Préservation des identités ethniques et culturelles des populations européennes d’origine, plurilinguisme sur la base des langues officielles des Etats-membres de l’UE, mais reconnaissance comme langues officielles uniquement pour des langues européennes, à l’exclusion des langues extra communautaires pratiquées par des immigrés non européens (Arabe, Chinois, etc.. ).

◊ B.
Intégration des résidents extracommunautaires selon des règles précises : respect absolu par ces résidents, des législations européennes, adoption du mode de vie et des comportements du pays européen de résidence.

◊ C.
Citoyenneté (européenne et des divers Etats-membres) : règles communes pour la naturalisation, qui doit être accordée uniquement en fonction d’obligations précises non liées uniquement à la durée du séjour, mais aux engagements auxquels le candidat à la naturalisation doit souscrire, la naturalisation pouvant être révoquée en cas de non respect de ces engagements.

Pour tous les citoyens (aussi bien par la naissance que par nationalisation), possibilité, pour les Ministères de l’Intérieur, de déchoir une personne de la citoyenneté si cette personne possède, en plus de la nationalité de l’Etat-membre considéré, une autre nationalité, où au cas où il ne possèderait pas une autre nationalité, de la déclarer « incivique » (perte du droit de participer à la vie démocratique ) .

◊ D.
Immigration.
Principe de base : l’Europe n’est pas un Continent d’immigration, étant, dans son ensemble, déjà surpeuplée.
◊ a) Immigration économique : uniquement sur la base de contrats temporaires ou exceptionnellement définitifs conclu dans le pays d’origine selon des conditions bien précises, à l’exclusion de tout contrat conclu durant un séjour touristique ou illégal de l’intéressé.

◊ b) Immigration de réfugiés politiques, religieux ou victimes d’autres types de persécution dans le pays d’origine pour autant que cette persécution implique des risques de mort ou de traitements dégradants et que ces risques soient certains.
Deux possibilités :
- personnes qui se réfugient dans une ambassade ou un consulat d’un quelconque pays de l’Union européenne.

- personnes qui se présentent à la frontière d’un Etat-membre de l’UE et sollicitent le statut de réfugiés.

Dans les deux cas, un séjour obligatoire dans un centre fermé, dans l’attente de l’examen de leur cas. Si la personne sollicite l’asile pour l’un des motifs précités, cet asile doit lui être immédiatement accordé après vérification de ses assertions ou d’emblée en cas d’urgence, mais dans ces derniers cas, séjour obligatoire en centre fermé (éventuellement pour quelques jours seulement) dans l’attente de l’admission, décidée par l’autorité compétente, à la résidence dans le pays de l’UE le plus approprié (l’intéressé pouvant exprimer une préférence pour des raisons linguistiques ou personnelles). Le réfugié reconnu comme tel doit jouir, dans le pays d’accueil auquel il est attribué, de tous les droits à l’assistance sociale du pays et du droit à occuper un emploi dans les mêmes conditions que les citoyens de l’UE, pour toute la durée de l’asile. Celui-ci ne prend fin que si les conditions qui ont déterminé la demande d’asile changent substantiellement dans le pays d’origine. Néanmoins le réfugié a l’obligation de s’engager :
- à respecter strictement les lois européennes et du pays d’accueil
- à n’exercer aucune activité politique pouvant porter préjudice aux relations entre l’UE ou l’un des Etats-membres de l’UE avec son pays d’origine ;
- à se conformer au mode de vie du pays d’accueil (cela en tant qu’hôte de ce pays).

◊ E.
Protection des minorités
La politique ethnique de l’UE et de ses Etats-membres doit en outre tenir compte de la protection des minorités d’origine (et non immigrées !) vivant dans les Etats-membres et respecter leurs langues et leurs traditions ethno-culturelles. Cela signifie avant tout que certains Etats-membres doivent renoncer à leurs politiques actuelles d’assimilation forcée des populations d’origine de certaines régions, principalement de régions frontières. En ce qui concerne les mesures récemment adoptées par le Gouvernement français et annoncées par le gouvernement italien, visant à expulser des Roms citoyens d’Etats-membres de l’Union européenne, nous sommes d’avis que ces Roms ne constituent pas une minorité ethnique, mais un groupe de personnes ayant adopté un mode de vie fondé sur le nomadisme et l’asocialité, ce qui est le véritable motif de l’hostilité manifestée à leur égard par la population au milieu de laquelle ils s’installent et qui est sédentarisée et socialisée, de même que l’explication de soi-disantes « persécutions » de la part des autorités de certaines régions et même aujourd’hui encore de la part de divers Etats de l’UE, « persécutions » qui ne sont pas dues à des motivations « ethniques », mais au refus des groupes de personnes en question de se conformer à certaines obligations valables pour tous les citoyens. Il est évident que tous les Etats-membres de l’UE sont tenus au respect du droit de tout citoyen de l’Union européenne de se déplacer et de s’établir librement sur tout le territoire de l’Union, mais il est tout aussi évident que ces Etats ont le droit de faire respecter, par des mesures appropriées, leurs propres lois civiles par tous les résidents et en premier lieu par leurs propres citoyens de l’UE, cela également en recourant à des dispositions radicales.

◊ F.
Dans un autre contexte il est par ailleurs évident que l’Europe doit absolument s’opposer à un autre aspect de l’offensive « ethnique » et monétaire à laquelle elle doit faire face d’urgence. Il s’agit du risque d’une islamisation rampante de l’Europe. Sans mettre en question le principe de liberté religieuse, il ne peut échapper à personne que l’Islam, surtout sous ses formes radicales, mais également sous ses formes « modérées », met en question les valeurs mêmes de notre civilisation européenne et en premier lieu celles, fondamentales, de la liberté individuelle et de l’égalité des sexes, au nom d’une loi « divine » fondée sur des principes souvent barbares et cruels que nous ne saurions admettre, ni même tolérer dans nos pays. A cet égard, la Charte des droits fondamentaux de l’UE est très claire. Il s’agit d’un problème que nous nous devons de poser de la manière la plus absolue, cela d’autant plus qu’il donne déjà lieu, dans nos populations, à des affrontements violents.


◊ 4 . Domaine de la politique monétaire.

Les attaques dont l’Europe fait l’objet dans le domaine de la politique monétaire (laquelle détermine largement toutes les autres politiques de tout Etat) dans le cadre du Système monétaire international où dans la pratique la valeur des différentes monnaies, y compris, la monnaie guide, c’est-à-dire le Dollar USA , dépend des vicissitudes boursières, visant à leur affaiblissement, et à leur dépréciation généralisée à des fins spéculatives . L’effet inévitable en est, pour tous les Etats, de se trouver en difficulté pour le financement de leurs politiques. En ce qui concerne l’Europe, cette situation est considérablement aggravée par le fait que les USA manœuvrent, pour faire face aux conséquences extrêmement graves de la récession économique qu’ils subissent et aux dépenses militaires astronomiques qui résultent des guerres en Irak et en Afghanistan, etc.., de manière à faire payer une part considérable de leur déficit généralisé des finances publiques par l’Europe. Or celle-ci doit elle aussi faire face aux conséquences d’une récession mondiale. L’Union européenne essaie, certes, par le biais de mesures coordonnées, de financer ses propres objectifs sans augmenter de manière excessive son propre déficit public et celui de ses différents Etats-membres, cela surtout à la suite des manœuvres spéculatives dont plus particulièrement la Grèce a été victime. Dans ce contexte un effondrement spectaculaire des monnaies européennes, plus spécialement de l’Euro, qui du fait de son renforcement par rapport au Dollar USA pourrait éventuellement prendre sa place dans le futur en tant que monnaie-guide mondiale, serait l’équivalent d’un désastre.

Heureusement, ce désastre a été évité grâce à la cohésion dont l’UE a fait preuve. Sans cette cohésion, l’existence même de l’Union européenne, devenue grâce au Traité de Lisbonne la troisième superpuissance politique et diplomatique du monde, risquait d’être mise en discussion et en péril (tentation de la Grèce et peut-être aussi d’autres pays de la zone Euro de se retirer de cette zone et de revenir à leur monnaie antérieure à l’euro pour être plus libres en matière d’émission de signes monétaires, ce qui ne résoudrait pas leurs problèmes, mais les aggraverait d’une façon effrayante par une inflation irrémédiable) .

Le « remède » adopté par la Grèce et par certains autres pays , à savoir une politique déflationniste draconienne, ne peut représenter une solution ni pour chaque Etat-membre considéré individuellement, ni pour l’Union européenne en tant qu’entité. Il s’agit d’un remède qui dans les années trente du siècle dernier fut appliquée dans le Reich allemand par le Chancelier Brünnig. Il eut des conséquences si graves dans le domaine économique et surtout dans le domaine social qu’il provoqua l’effondrement politique de la République de Weimar et l’accession au pouvoir du parti national-socialiste, et le recours par le nouveau régime, à une politique monétaire totalement différente, non orthodoxe, pratiquée par le Ministre de l’économie et des finances Hjalmar Schacht, un spécialiste sans parti, avec un succès évident qui n’a pas peu contribué à la popularité du nouveau Chancelier et ensuite « Führer » après le décès du Président Hindenburg.

Selon MINERVE, les conséquences d’une politique déflationniste du type de celle mise en œuvre par le Gouvernement grec et qui représente peut-être une tentation pour d’autres Etats-membres de l’UE, serait politiquement désastreuse dans un moment où se manifeste de façon croissante une désaffection des populations de l’Union européenne pour la politique, avec certaines tendances à l’hostilité envers l’Union européenne, hostilité favorisée par une désinformation généralisée due dans une large mesure à une propagande souvent insidieuse, d’origine extra-communautaire. Par ailleurs une politique déflationniste du type grec ou de quelque autre type que ce soit, même un peu moins radical, serait absolument inacceptable pour les forces économico-sociales vitales organisées au niveau de chacun des Etats-membres de l’UE et au niveau européen (Confédérations professionnelles, industrielles, syndicales) qui manifestent déjà leur opposition, parfois radicale et draconienne à une telle politique.

Les objectifs, par ailleurs approuvés par les différents Etats-membres de l’UE au niveau du Conseil européen et du Conseil des Ministres européens (économie sociale de marché et politique économique « verte ») sont de nature à contribuer largement à une reprise économique substantielle relativement prochaine et au retour à la prospérité générale. Dans l’immédiat des incitations étatiques et des dispositions sociales effectives (et non illusoires !) peuvent induire une relance vigoureuse de l’activité économique, relance qui est urgente dans l’actuelle situation de récession (exemples à suivre : France et Allemagne).

En ce qui concerne le futur, l’économie « verde », qui implique des choix audacieux de politique industrielle et de production de toutes natures, de même qu’une réorientation appropriée de la consommation, aboutira au développement de technologies nouvelles, d’industries innovatrices et à la création de nombreuses entreprises de types nouveaux et de nombreux emplois, avec pour conséquence un retour au plein emploi et même une amélioration substantielle de la vie et en particulier des conditions de travail. Mais pour atteindre ces objectifs, il est évident que des investissements à grande échelle sont indispensables. Leur financement n’est pas possible si l’UE et ses Etats-membres ne se procurent par les ressources nécessaires et persistent à donner la priorité à une réduction des dépenses publiques considérée comme moyen pour parvenir à l’équilibre considéré comme un dogme tout au moins dans la logique monétariste qui a prévalu sur la logique keynésienne. Les Gouvernements et les hommes politiques tant des majorités gouvernementales que des oppositions, devraient en premier lieu renoncer à des promesses démagogiques : la réduction des impôts n’est pas possible sans conséquences économiques et sociales négatives ; en revanche l’Etat doit pouvoir disposer de ressources pour le maintien des conditions de vie des populations et leur amélioration. Il est évident que s’agissant de se procurer les ressources nécessaires et éventuellement les augmenter, le poids de la fiscalité être réparti de manière équitable entre toutes les catégories sociales de la population (actuellement cette répartition est très injuste dans divers Etats-membres de l’UE.

Une réforme fiscale est indispensable dans certains Etats-membres, mais étant donné les objectifs communs de l’UE, il serait préférable de procéder à une réforme fiscale généralisée au niveau européen, en partant du principe-base d’une harmonisation fiscale, que le Luxembourg a toujours défendue, mais à laquelle d’autres Etats-membres se sont malheureusement déclarés hostiles.

En ce qui concerne le problème du Système monétaire international, l’Union européenne devrait selon MINERVE, prendre l’initiative en sa qualité de plus grande puissance économique et commerciale du Monde, et proposer le remplacement de ce Système par un système nouveau comportant un retour à la convertibilité en or, si possible de toutes les monnaies, mais tout au moins d’une monnaie-guide qui dans les circonstances actuelles ne doit plus nécessairement être le Dollar USA, étant donné que le principe qui avait prévalu à Bretton Woods, d’une division du monde entre vainqueurs et vaincus de la Seconde guerre mondiale, est aujourd’hui dépassé. Le Système proposé par la Chine, fondé sur un paquet de monnaies, pourrait être valable, mais toujours avec une référence à l’or, d’une manière ou d’une autre.

En effet selon MINERVE, la faillite du Système de Bretton Woods et toutes les spéculations, contraires à l’intérêt véritable de tous les Etats du Monde, qui en résultent ont pour cause l’instabilité due à l’absence d’une référence des monnaies à une valeur matérielle effective, laquelle a toujours été l’or depuis l’invention de la monnaie !

Veuillez agréer, Monsieur le Président …….


Dea BUCCILLI, Membre du Bureau de Minerve – responsable MINERVE pour l’Italie.

André WOLFF, Fonctionnaire européen (Chef de Division linguistique – Comité économique et social européen, e. r. – Président d’honneur de MINERVE.

To Cleanse America: Some Practical Proposals

To Cleanse America:
Some Practical Proposals

Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Author’s Note:

The following short piece from 2002 or 2003 has the same major flaw as “Separatism vs. Supremacism,” namely, it deals with the issue in the abstract. Racial separation is not likely to happen this way. Nonetheless, it has the virtue of broadening the reader’s sense of what is morally and practically possible.

50s.jpgI hear a lot of defeatist talk among White Nationalists. A recurring theme is that there are too many non-whites in America to even consider an all-white nation. The most optimistic solution is to partition the country into ethnically pure nations.

The answer to this kind of talk is simple: If it was not too much trouble for all these people to come here, then it will not be too much trouble for them to go back. If whites could conquer and settle this country once, then we can do it again. The only thing stopping us from doing it again is lack of nerve, not lack of ability. But an awakened white nation could quickly set things right.

Part of the problem may be that people are trying to envision a government program that could remove tens of millions of non-whites. It seems impossible, so they give up in dismay. But as a matter of fact, there have already been such programs. From 1929 to 1939, more than one million Mexicans — more than half of them US citizens — were forced to return to Mexico. In the 1950s, more than one million Mexicans were again repatriated by Operation Wetback. Surely with modern computers and law enforcement techniques, it would be relatively easy to scale such programs up to deal with more than 20 million Mexicans plus other non-whites.

But does one really need a massive government operation to cleanse America? After all, most non-whites did not come here through government programs, but through private initiative. They came because there were economic incentives to come. They will leave when there are economic incentives to leave.

And I am not talking about the use of government money to bribe non-whites to leave. That was the feeble proposal of the British National Party, before they abandoned the idea of repatriation altogether as unfeasible.

We need to make a distinction between government programs, in which the state takes the initiative, and government policies, which allow or encourage private initiative. The economic incentives that lead to non-white immigration work only by the government’s permission. If immigration were banned and the ban rigorously enforced, these incentives would become impotent. By the same token, the government can pass laws creating economic incentives for non-whites to go home.

Of course before we talk of incentives, we need to deal with the hundreds of thousands of non-whites, citizens and aliens, who are already incarcerated at public expense for breaking the law. These people should be immediately deported. Then we should crack down on non-white crime and automatically deport all new offenders. That would rid us of millions in short order.

As for non-whites who are here illegally, but who are not already incarcerated, we should first levy fines of $10,000 per day per alien on any business that employs them and any landlord who rents to them. That should send most of them scurrying for the border. After six months or so, the police can scour out the ones who remain and deport them. After another six months, the government can offer a bounty for those who slipped through the cracks.

As for the ones here legally: They should be immediately stripped of their citizenship and all the benefits that come from it. They should be denied any government or government subsidized benefits, e.g., education, welfare, unemployment insurance, health care. We should allow them to sell their property and take the proceeds with them. But to make a quick departure even more appealing, that option would expire after a year. Those who cannot take a hint would then be deported, with a bounty for those who remain.

Such policies, after a couple of years, would rid us of millions of non-whites. Only diplomats, tourists, and traveling businessmen would remain within our borders. Yes, these would be government policies. But the beauty of them is that they would encourage most non-whites to leave on their own initiative. The government would not have to track down, incarcerate, and deport each one, which would be an enormously expensive burden on the taxpayer and economy.

Instead, the policies I propose would stimulate economic activity, especially in travel and real estate. One appealing result is that home prices would drop, making it easier for white couples to get a start. Another result would be higher wages for white workers.

Only after the non-white population had been significantly reduced would a more active government role be necessary, but by that time the problem would be much more manageable.

“But there would be violence! There would be race war!” the defeatists will bleat. Of course there would be.

I am all for minimizing violence. But let’s be real: There already is violence. There already is race war. There already is ethnic cleansing.

Every time a white is robbed, raped, or murdered by a non-white predator, that is race war. The Cincinnati riots were race war. The Wichita Massacre was race war. “Beat up a White Kid Day” was race war. “Polar Bear Hunting” is race war. When tens of thousands of whites fled American cities and lost tens of millions in property because of desegregation, that was ethnic cleansing.

The race war and the cleansing are already upon us. It is just that we are not fighting back. And if we don’t start fighting back, we are going to be destroyed.

Yes, there would be thousands of white race traitors marching and holding candlelight vigils. That’s why we have rubber bullets and fire hoses. Yes, Blacks and Mexicans would riot and burn down their neighborhoods and Korean convenience stores. But that’s why we have police and the National Guard. In the end, non-white lawlessness would simply allow us to accelerate their expulsion.

Yes, violence would have economic costs, but they would be nothing compared to the costs in crime, chaos, ugliness, and inefficiency of keeping these people here. Yes, there would be white casualties. But the white death toll would be nothing compared to the white death toll that is inevitable if we do nothing: namely, extinction.

Pound, Jefferson, Adams e Mussolini

Pound, Jefferson, Adams e Mussolini

Autore: Giano Accame

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

È vero: siamo in tempo di crisi e accadono cose davvero sorprendenti. Anche nel movimento delle idee. Occupa appena una trentina di pagine il saggio di Ezra Pound su Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento ed è quindi motivo di un lieve stupore l’ampiezza dell’interesse che ha suscitato. Il 18 febbraio scorso si parte con un’intera pagina del Corriere della Sera per una recensione di Giulio Giorello, filosofo della scienza, ma anche raffinato lettore dei Cantos da un versante laico-progressista, che ha acceso la discussione a cominciare dal titolo: Elogio libertario di Ezra Pound. Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni. Di quel titolo il giorno dopo profittava Luciano Lanna per ribadire sul nostro Secolo: “Pound (come Jünger) era libertario”. Due giorni dopo (venerdì 20 febbraio) nelle pagine culturali del Corriere della Sera Dino Messina riapriva il dibattito : “Fa scandalo il “Pound libertario”, mentre il 21 febbraio il tema veniva approfondito da Raffaele Iannuzzi nel paginone centrale ancora del Secolo.

Ricordo ancora le critiche rivolte a Pound e a Giorello il 27 febbraio da Noemi Ghetti su LEFT. Avvenimenti settimanali dell’Altraitalia: era abbastanza facile indicare qualche contraddizione tra la censura fascista e lo spirito libertario, pur essendo altrettanto innegabile il durissimo prezzo pagato da Ezra Pound pacifista alla sua appassionata predicazione contro l’usura, la speculazione finanziaria internazionale e le guerre, con le settimane vissute in gabbia nella prigionia americana di Pisa e i dodici anni di manicomio criminale a Washington. Tuttavia nell’ampio dibattito di cui ho segnalato le tappe è comparso solo marginalmente il nome di Luca Gallesi (Antonio Pannullo lo ha però intervistato il 5 marzo in queste pagine sull’etica delle banche islamiche), geniale studioso di Pound cui si deve la pubblicazione del saggio su Jefferson, ma anche e soprattutto l’apertura di nuovi percorsi in una materia di crescente interesse quale è la storia delle idee.

Occorre rimediare alla disattenzione per l’importanza dei contributi che Gallesi ci sta suggerendo e per i risultati che nel campo degli studi poundiani sta raccogliendo con l’editrice Ares guidata da Cesare Cavalleri insieme alla rivista Studi cattolici, anch’essa molto attenta al pensiero economico di un poeta che sin dai primi anni ’30 aveva previsto lo spaventoso disordine della finanza globale e il dissesto con cui oggi il mondo è alle prese. Le Edizioni Ares avevano già pubblicato gli atti di due convegni internazionali curati da Luca Gallesi, prima Ezra Pound e il turismo colto a Milano, poi Ezra Pound e l’economia, e dello stesso Gallesi lo studio su le origini del fascismo di Pound ove dimostra che il più innovativo poeta di lingua inglese del secolo scorso era stato predisposto a larga parte dei programmi socio-economici mussoliniani degli anni di collaborazione a Londra con la rivista The New Age diretta da Alfred Richard Orage, espressione di una corrente gildista, cioè corporativa del laburismo. Dalla frequentazione della società inglese Pound si portò dietro anche alcuni trattati del tutto sgradevoli d’antisemitismo, che negli anni Venti salvo rare eccezioni erano ancora ignote al fascismo italiano. L’introduzione di Gallesi al breve saggio di Pound sul carteggio Jefferson-Adams punta a estendere agli Usa la ricerca già avviata in Inghilterra sulle origini anglosassoni del fascismo poundiano. Questa volta paragoni diretti tra i fondatori degli stati Uniti e il fascismo non emergono come nel più noto Jefferson e Mussolini ripubblicato nel ’95 a cura di Mary de Rachelwiltz e Luca Gallesi da Terziaria dopo che era andata dispersa la prima edizione per la Repubblica sociale del dicembre ’44. Di Jefferson e Adams da Gallesi viene ricordato l’impegno, da primi presidenti americani, nello sventare i tentativi di Hamilton di togliere al Congresso, cioè al potere politico elettivo, il controllo sull’emissione di moneta per delegarlo ai banchieri e alla speculazione attraverso la creazione di una banca centrale controllata, come nel modello inglese, da gruppi privati. Un’altra traccia innovativa per la storia delle idee è stata suggerita da Gallesi il 4 marzo sul quotidiano Avvenire segnalando il saggio dell’americano Jonah Goldberg, che stufo di sentirsi accusare di fascismo ha scalato i vertici delle classifiche librarie con Liberal Fascism, un saggio ove ha sostenuto la natura rivoluzionaria del fascismo, che durante la stagione roosveltiana del New Deal suscitò “negli Usa stima e ammirazione soprattutto negli ambienti progressisti, mentre all’estrema destra il Ku Klux Klan faceva professione di antifascismo”.

Una storia trasversale di idee al di là della destra e della sinistra che Gallesi si prepara a approfondire lungo l’Ottocento americano attraverso la secolare resistenza che da Jefferson in poi vide opporsi correnti legate allo spirito dei pionieri e delle fattorie alla creazione di una banca centrale, che avvenne solo nei primi del Novecento, alla speculazione monetaria e alla dilagante corruzione. Tutti contributi a una interpretazione di Pound, che senza indebolire le posizioni ideali a cui teniamo, risulterà più autentica, più ricca, più fuori dagli schemi, più prossima alla definizione di ”libertario” che della lettura poundiana di Jefferson ha ricavato Giorello.

E non so trattenermi dal riportare due frasi che avevo sottolineate un quindicina di anni fa leggendo la prima volta l’ancor più scandaloso confronto tra Jefferson e Mussolini. Una tesa a far somigliare i due leader nella lotta alla corruzione: “In quanto all’etica finanziaria, direi che dall’essere un pese dove tutto era in vendita Mussolini in dieci anni ha trasformato l’Italia in un paese dove sarebbe pericoloso tentare di comprare il governo”. E proprio alla fine del libro l’invenzione della settimana corta, per una gestione politica della decrescita economica che solo adesso assume aspetti marcati d’attualità: “Nel febbraio del 1933 il governo fascista precedette gi altri, sia di Europa che delle Americhe, nel sostenere che quanto minor lavoro umano è necessario nelle fabbriche, si deve ridurre la durata della giornata di lavoro piuttosto che ridurre il numero del personale impiegato. E si aumenta il personale invece di far lavorare più ore coloro che sono già impiegati”. Queste erano le soluzioni pratiche che piacevano a Pound, autore di solito complicato, ma reso a volte paradossalmente difficile per eccesso di semplicità.

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Tratto da Il Secolo d’Italia del 28 aprile 2009.