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vendredi, 07 septembre 2018

Carl Schmitt fra “terra e mare” alla ricerca di un “nomos” per la Terra

Carl Schmitt. Plaidoyer pour la multipolarité, 1943.png

Carl Schmitt fra “terra e mare” alla ricerca di un “nomos” per la Terra

da Giovanni Balducci
Ex: http://www.barbadillo.it

Nella postfazione a Terra e mare di Carl Schmitt, dal titolo “Il potere degli elementi”, il grande quanto sfortunato filosofo e storico della filosofia Franco Volpi (scomparso prematuramente nel 2009 a soli 57 anni in un banale incidente in bici), facendo fede sul resoconto di un discepolo del grande giurista tedesco, ci presenta la suggestiva immagine di uno Schmitt che nel suo eremo di Plettenberg, in piena seconda guerra mondiale, si interroga circa le sorti del mondo e dell’Europa in particolare, sublimando la sua nostalgia e il proprio isolamento accostando la sua sorte a quella di eminenti predecessori o di mitiche figure di valenti outsider, fra cui Niccolò Machiavelli, che dopo aver insegnato al mondo gli arcana imperii ebbe a terminare i suoi giorni nel suo ritiro di San Casciano e il letterario Benito Cereno, il capitano “bianco”, uscito dalla penna di Herman Melville, ammutinato da schiavi “negri”.

Il grosso problema che a quel tempo ossessionava Schmitt era riuscire a dirimere il conflitto, da lui individuato, fra le due concezioni del mondo cattolica ed ebraica, che caratterizzava la civiltà occidentale. Schimitt, che stranamente – stando al racconto – ha appeso alla parete del suo studio un ritratto del politico ebreo Benjamin Disraeli, quando nelle case di ogni buon tedesco anni ’40 l’unico quadro a campeggiare era quello del Führer, non fa mistero di ritenere come interpretazione vincente la visione ebraica della storia, intesa come progresso dell’umanità verso un “futuro regno di pace”, o se si vuole, verso la “Nuova Gerusalemme”, lontana sì nel tempo, ma situata nell’aldiquà, e dunque ben più concreta di quell’ipotetico aldilà cui anelava la teologia cristiano-cattolica.

Per Schmitt, tuttavia, il cristianesimo può essere interpretato come una sorta di divulgazione “essoterica” fatta ai gentili della vera dottrina giudaica. In effetti, nella stessa interpretazione della Genesi, come espressa nello Zohar, suo commentario cabbalistico, si afferma che compito di ogni pio ebreo e di ogni uomo di retta volontà tra i gentili sarebbe quello di operare per la realizzazione del «tikkun» , la riparazione dell’anima umana (tikkun ha-nefesh) e di rimando del mondo (tikkun ha olàm), riportando la “presenza divina” (Shekhinah), o meglio sarebbe dire, rendendo la stessa presente, nel dominio degli uomini, riscattando in tal modo il peccato di Adamo, che osò separare sé stesso dalla Totalità universale e divina. Lo stesso Disraeli, del resto appare a Schimitt come «un iniziato, un saggio di Sion»: è quanto testualmente scrive nell’edizione di Terra e Mare del 1942; frase saggiamente espunta a guerra finita.

Un altro tema forte delle cogitazioni del grande giurista tedesco è la lotta tra le categorie giuridico-politiche di «Staat» (“Stato”), quella, per intenderci, dello stato “Leviatano” introdotta da Hobbes, e quella, verso cui Schmitt è più propenso, ritenendola superiore sia allo «Staat» di Hobbes sia all’ideologia völkisch che animava l’azione di Hitler e del nazionalsocialismo, di «Großraum» (“grande spazio terrestre”, o anche “ spazio imperiale”).

Questa variante era preferita da Schimitt alla stessa Lega delle Nazioni, incapace di dirimere le grandi questioni europee ed internazionali e di dare nuova legge e nuovo ordine al mondo, secondo il famoso concetto schmittiano di «nomos della terra». Essa inoltre si mostrava in tutta la sua debolezza al confronto con gli Stati Uniti d’America, che Schmitt vedeva come il vero nuovo “arbitro della terra”.

Egli, tuttavia, pur ammirando la dottrina Monroe, che secondo la sua visione delle cose aveva consentito agli Stati Uniti di assurgere al primato internazionale, costituendosi come un mix di indipendentismo e sovranità (isolazionismo?) e interventismo mirato in spazi extranazionali, riteneva che gli Stati Uniti, pur non essendo, a differenza dell’Inghilterra, un fattore di “dissolvimento”, non potevano rappresentare quella che per lui doveva essere la figura del katèchon, capace di frenare il processo dissolutivo dell’Ecumene occidentale, e per due gravi motivi: l’incapacità dimostrata nel recidere il cordone ombelicale dalla madrepatria britannica e al contempo l’ideologia accarezzata di un “nuovo secolo americano”.

Ecco che proprio questo farebbe declassare agli occhi di Schmitt gli Stati Uniti, da possibile katèchon, al ruolo addirittura di “ acceleratore involontario” della definitiva dissoluzione della società occidentale.

La concezione marittima del potere, come portata avanti dagli inglesi, per Schmitt, infatti, aveva avuto un ruolo determinante nella fine della concezione continentale, dunque terrestre, dello Ius publicum Europaeum e dell’ordine tradizionale del Vecchio continente, tendendo essa a radicalizzare i conflitti fino a promuovere l’ideologia di una “guerra totale” , che più non si limita al mero scontro fra eserciti belligeranti, ma porta alla “criminalizzazione” di interi popoli, e addirittura degli stati che commerciano o in qualche modo sono accusati di sostenere l’economia del nemico.

Schmitt paragona l’Inghilterra a una “nave” – a una “nave pirata” ad esser precisi – del resto, gran parte del suo impero è stato costruito grazie ad azioni che non tenevano in nessun conto alcuna legge e il Diritto delle genti. Veri e propri atti di pirateria di schiumatori e buccaneers, come quelli di Francis Drake, poi divenuto Sir, hanno rappresentato il suo quasi consueto modus operandi.

Era pressappoco quanto si stava già profilando sullo scenario di guerra cui Schmitt sta assistendo. Siamo per la precisione nell’anno di “grazia” 1942, quando, sbarcando in Irlanda, giunge in Europa il primo contingente militare statunitense, e la guerra dopo aver attraversato gli elementi terra e aria, si appresta ad interessare l’elemento acqua, facendosi poi addirittura sottomarina.

@barbadilloit

Di Giovanni Balducci

jeudi, 06 septembre 2018

France diplomatie-Macron AN II : Un fiasco diplomatique total

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France diplomatie-Macron AN II : Un fiasco diplomatique total

 
 
Auteur : René Naba
Ex: http://www.zejournal.mobi

« Il y a plusieurs sortes d’intelligences dont la bêtise n’est pas la moindre». 

Thomas Mann.

Le président Emmanuel Macron a inauguré le 27 Août à Paris la XXVIe conférence des Ambassadeurs de France, deuxième exercice du genre depuis son élection à la magistrature suprême, en 2017. Retour sur le fiasco diplomatique français à l’arrière plan des objectifs inavoués de la diplomatie française sous la mandature Macron.

Sauvé par le gong

Sauvé par le gong. Pour paradoxal que cela puisse paraître, Emmanuel Macron est redevable de sa nouvelle visibilité internationale à Vladimir Poutine, si pourtant vilipendé par la presse française, en ce que la lune de miel entre Jupiter de France et le gougnafier de l’immobilier américain a tourné en lune de fiel.

Diner privé à la résidence de George Washington, le père de la nation américaine, discours devant le Congrès, pichenette pelliculaire sur l’épaule du président français, accolades, embrassades, poilade et fortes empoignades… Tout un tralala et patati et patata. Et puis patatras.

Certes, Vladimir Poutine, ainsi que se gaussaient les éditocrates français, éprouvait un besoin pressant de sortir de son isolement et d’alléger la Russie des sanctions économiques qui la frappaient du fait de son annexion de la Crimée et de son soutien victorieux à la Syrie. En un parfait synchronisme, la caste intellectuelle française, symptomatiquement, donnait d’ailleurs de la voix pour freiner une orientation dictée impérativement par le principe de réalité et le désastre français en Syrie, en mettant en garde contre une « alliance qui serait contraire aux intérêts de la France».

Cf à ce propos la tribune co-signée par les pontifiants Nicolas Tenzer, Olivier Schmitt et Nicolas Hénin.

C’était sans compter sur le rebond du prix du pétrole (80 dollars le baril) qui a donné une bouffée d’oxygène au trésor russe. C’était sans compter aussi sur l’unilatéralisme forcené du plus xénophobe président de l’histoire américaine qui a eu raison de la belle complicité entre deux présidents si antinomiques.

La pêche aux voix, à six mois des élections américaines du mid term (mi mandat), cruciales pour le locataire de la Maison Blanche, a terrassé la belle amitié entre la grande démocratie américaine et la « Patrie de Lafayette». En état de lévitation, Emmanuel Macron s’est retrouvé subitement en suspension devant un vide abyssal avec pour unique perspective la risée universelle.

Tuile supplémentaire, l’euphorie du Mundial 2018 dont il espérait un rebond de popularité a tourné court, phagocytée par la ténébreuse « affaire Alexandre Benhalla », dont les basses oeuvres élyséennes ont révélé la face hideuse du macronisme.

Dans l’allégresse de son élection, le président français fraichement élu avait pourtant brocardé son hôte russe, en juin 2017, dans le majestueux site du Château de Versailles, ironisant sur le travail de propagande des médias russes. Le lancement de la version française de Russia Today avait d’ailleurs donné lieu à un concert d’indignation invraisemblable de la part d’une caste journalistique qui émarge peu ou prou sur des budgets du grand capital ou des budgets publics de l’audiovisuel français, dont la quasi totalité des grands vecteurs relève d’ailleurs du service public, comme en témoigne cette liste non exhaustive (France télévision, Radio France, France 24, RFI, RFO, TV5 CFI), alors que la presse écrite est sous contrôle des conglomérats du grand capital adossés aux marchés publics de l’état (le Monde du trio BNP (Berger, Niel Pigasse), le Figaro (Dassault, aviation), Libération-l’Express (Patrick Drahi, téléphonie mobile), le Point (François Pinault), Les Echos (Bernard Arnault), le Groupe Canal + (Vincent Bolloré, le prospecteur d’une Afrique qui n’est « pas encore entrée dans l’histoire », selon l’expression de l’hôte de son yacht, Nicolas Sarkozy).

Ci joint un échantillon de la prose développée lors du lancement de RT

Sauf que la diplomatie russe s’inscrit dans la durée et le long terme et que Vladimir Poutine a survécu à quatre présidents français (Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy, François Hollande et Emmanuel Macron). De surcroît, le pardon des offenses est la marque des grands hommes.

Un an plus tard, dans un retournement de situation rare dans l’histoire, l’hôte russe brocardé a entrepris de renflouer le novice, dans un geste d’une élégance qui constitue la marque de l’assurance.

La scène, raffinement suprême, s’est déroulée devant le plan d’eau du non moins majestueux site du palais des Tsars à Saint Petersbourg, l’équivalent russe de Versailles.

Un repêchage juste au dessus de la ligne de flottaison. Car entre la Russie et la France, il existe une différence d’échelle. Celle qui distingue une puissance planétaire souveraine, d‘un sous traitant des États-Unis dans ses anciennes zones d’influence en Afrique et au Moyen Orient quand bien même il se situe au 2e rang mondial de par son domaine maritime de l’ordre de 10 millions de Km2. Suprême humiliation, le plus ancien allié des États-Unis se retrouve à la merci de ses sanctions économiques.

Dans l‘ordre symbolique, la différence d’échelle trouve d’ailleurs son illustration la plus concrète dans celle qui distingue un des grands diplomates de l’époque contemporaine, d’un bureaucrate poussif et sans relief… Entre l’impassible et inamovible russe Serguei Lavrov, en poste depuis 2004, et son homologue français Jean Yves Le Drian, y’a pas en effet photo. Deux des prédécesseurs du français, Alain Juppé et Laurent Fabius, projetés sur le tatami par le russe, peuvent en témoigner.

Sur ce lien, le traitement énergisant réservé par Sergeuï Lavrov à Alain Juppé et Laurent Fabius :

L’erreur d’Emmanuel Macron, voire son malheur, aura été son absence d’empathie cognitive pour la quasi totalité des protagonistes des conflits du Moyen orient et son étonnant alignement sur un atlantisme exacerbé, alors que ce pur produit de l’intelligentzia française aurait dû pourtant se livrer à cet exercice qui consiste à se mettre intellectuellement à la place de l’autre pour comprendre les enjeux. Cela lui aurait épargné les avanies, alors qu’il se savait héritier d’une décennie diplomatique calamiteuse, du fait d’une double mandature présidentielle chaotique du post gaulliste Nicolas Sarkozy et du socialo motoriste François Hollande.

Un Moyen Orient sous la coupe atomique d’Israël

Dans son discours prononcé mercredi 24 avril 2018 devant le Congrès américain, M. Emmanuel Macron se proposait d’aménager un Moyen orient placé sous la coupe atomique d’Israël. « L’Iran n’aura jamais d’arme nucléaire. Ni maintenant, ni dans cinq ans, ni dans dix ans », a déclaré le président français, s’engageant en outre à réduire la capacité balistique de la République islamique iranienne de même que son influence régionale au Yémen, en Irak et au Liban, sans accompagner cet engagement d’une mesure de réciprocité concernant le désarmement nucléaire d’Israël.

Dindon de la farce, Emmanuel Macron a dû donner un violent coup de barre à sa politique moins d’un mois après sa profession de foi pour éviter le ridicule, en ce que l’idylle Macron-Trump tant célébrée par la presse française a finalement débouché sur une fracture transatlantique sur fond d’une guerre commerciale potentielle des États-Unis contre l’Union Européenne du fait du retrait américain de l’accord sur le nucléaire iranien.

Pis, le sommet du G7, le 10 juin 2018, a viré lui aussi au fiasco avec un tweet rageur de Donald Trump qui a complètement torpillé l’accord final. Avec dédain, la Russie a d’ailleurs refusé de réintégrer le barnum occidental préférant se tenir à distance du capharnaüm, qui s’est déroulé en toile de fond du sommet tripartite de Shanghai (Chine, Russie, Iran). Anormalement négligé par la presse occidentale, ce sommet, tenu le même jour que le G7, a mis au point la stratégie de riposte de l’axe de la contestation à l’hégémonie atlantiste, par un soutien multiforme à l’Iran.

Au delà du psychodrame occidental, la posture diplomatique de Jupiter de France a ainsi révélé les objectifs inavoués de la diplomatie française sous sa mandature: Un Moyen orient dénucléarisé, à faible capacité balistique iranienne, placé sous la coupe atomique d’Israël. Un pays qui dispose pourtant d’un arsenal de près de deux cents ogives à charge nucléaire, soustrait à tout contrôle international. Mais ce fait là, le petit génie de la vie politique française feint de l’ignorer.

Le strabisme divergent d’Emmanuel Macron

La sécurisation d’Israël ne saurait se traduire par une soumission permanente à la terreur atomique israélienne de l‘Asie occidentale, zone intermédiaire entre l’OTAN (Atlantique Nord) et l’OTASE (Asie du Sud Est), deux pactes militaires de l’Occident qui enserrent la Zone. Ni sa sanctuarisation par une dépossession de la Palestine.

Atteint de strabisme divergent, ce président d’un pays qui a coprésidé au découpage du Moyen orient en application des accords Sykes Picot, a invité l’Iran à ne pas déployer une position hégémonique au Moyen Orient, sans mentionner là aussi, ni le rôle de l’Otan, ni celui des États-Unis, pas plus celui d’Israël, voire même de la France et du Royaume Uni, encore moins le terrorisme islamique d’inspiration wahhabite. Un rare cas de stratégie surréaliste.

La posture macronienne relève de l’outrecuidance d’un pays, pourtant un des grands pollueurs atomiques de la planète, équipementier du centre atomique de Dimona (Israël), de l’Afrique du sud du temps de l’Apartheid et de l’Iran impériale via le consortium Eurodif, par ailleurs co-belligérant d’Israël contre l’Egypte (Suez 1956), de l’Irak contre l’Iran (1979-1989) et des Etats Unis et du Royaume Uni contre la Syrie (2018).

Pour aller plus loin sur la coopération nucléaire franco israélienne, ce lien :

Sur le potentiel nucléaire israélien :

Et sur la politique arabe de la France, ce lien :

L’outrecuidance macronienne s’était déjà illustrée dans ses fausses prévisions présidentielles sur l’annonce de la fin de la guerre anti Daech en Syrie, prévue, selon lui, pour fin février 2018, et la reprise de contact avec le pouvoir syrien. Contredite dans les faits, cette prédiction surprenante a révélé rétrospectivement l’amateurisme de ce président inexpérimenté dans les affaires internationales.

Il en a été de même sur le plan européen où la formation en Italie d’un gouvernement populiste, comportant plusieurs ministres ouvertement eurosceptiques, est venu porter un coup d’arrêt aux ambitions européennes du lauréat du Prix Charlemagne 2018.

L’exigence française de désarmer les formations para militaires chiites, -le Hezbollah libanais et le Hached Al Chaabi irakien (la Mobilisation Populaire)-, mais non les Peshmergas kurdes d’Irak, de même que les manigances françaises visant à démembrer la Syrie via la création d’une entité autonome kurde dans le nord du pays, relèvent de ce même dessein.

Toutefois, la décision de 70 tribus arabes de la riche plaine centrale de la Syrie de déclarer une guerre de guérilla contre la présence des « envahisseurs américains, français et turcs », le 1er juin 2018, pourrait refroidir quelque peu les ardeurs belliqueuses d’Emmanuel Macron, faisant resurgir le cauchemar de Beyrouth, avec l’assassinat de l’ambassadeur de France Louis Delamare, et le double attentat contre l’ambassade de France dans la capitale libanaise et le PC du contingent français de la force multinationale occidentale, en 1983 et 1984.

Fsné.jpgUn Maître espion « représentant personnel du président Macron pour la Syrie »

Luxe de sophistication qui masque mal un rétropédalage discret, Emmanuel Macron a nommé le 27 juin François Sénémaud, ancien directeur du renseignement à la DGSE, « représentant personnel du président de la République pour la Syrie». Cette astuce diplomatique devrait permettre au président français de contourner l’épineux problème de l’ambassade française à Damas, fermée sur ordre d’Alain Juppé, en mars 2012 et de lui éviter de désavouer ainsi publiquement ses deux prédécesseurs Nicolas Sarkozy et François Hollande

L’absence d’affectation territoriale du représentant français en Syrie pourrait constituer l’indice d’un timide dégagement de la France de l’opposition of shore syrienne pétromonarchique, en pleine débandade, en ce que « le représentant personnel du Président de la République pour la Syrie » pourrait l’habiliter à des contacts avec le pouvoir syrien en raison de son affectation fonctionnelle de sa mission « pour la Syrie».

Autrement dit, permettre au grand espion français de grappiller à Genève ou à Astana quelques miettes d’informations et oeuvrer ainsi en coulisses pour tenter une reprise progressive des relations diplomatiques entre les deux pays. Un exercice hautement aléatoire, tant la méfiance est grande du pouvoir syrien à l’égard de Paris.

Dans le même ordre d’idées, le double triomphe électoral des formations chiites, tant au Liban qu’en Irak, au printemps 2018, et le revers corrélatif de son protégé libanais Saad Hariri, ont retenti comme des camouflets majeurs de ce novice français et vraisemblablement douché ses ardeurs.

L’exigence du désarmement du Hezbollah libanais a coïncidé avec la décision du trésor américain de placer sur la « liste noire du terrorisme » Hassan Nasrallah et le conseil de gouvernance de sa formation en vue d’entraver la formation du nouveau gouvernement libanais post élections, à tout le moins de dissuader le rescapé Saad Hariri de toute coopération future avec la formation chiite, dont les états de service en Syrie ont largement contribué à renverser le cours de la guerre.

La liste a été établie le 16 mai 2018 au lendemain du transfert de l’ambassade américaine à Jérusalem et du carnage israélien impuni de Gaza, en concertation avec les pétromonarchies suivantes : l’Arabie Saoudite, Bahreïn, Les Emirats Arabes Unis, Qatar et le Sultanat d’Oman. Des états satellites de l’Amérique, réputés pour leur grande probité politique et leur pacifisme déclaré.

Au delà des apparences, le ciblage de l’Iran et du Hezbollah libanais figuraient en filigrane dans le projet diplomatique d’Emmanuel Macron comme en témoigne la structure diplomatique mise en place à son accession au pouvoir.

Cf sur ce lien le dispositif diplomatique présidentiel

L’instrumentalisation de l’histoire de France au prétexte des turpitudes de la collaboration vichyste

Que de surcroît le terme « Palestine » ait été complètement gommé de son discours américain, alors qu’Israël se refuse à la constitution d’une commission d’enquête internationale sur le carnage qu’il a commis à Gaza depuis le 30 Mars 2018, soit au total 97 tués et près de quatre mille blessés, confirme son extrême mansuétude à l’égard de l’état hébreu, de même que pour le Royaume saoudien, ordonnateur d’un massacre à huis clos du peuple yéménite.

La France macronienne mettra toutefois un bémol à son tropisme israélien lors du nouveau carnage israélien, le 14 Mai 2018, reconnaissant le droit à la liberté d’expression des Palestiniens et à leurs manifestations pacifiques. Elle annulera dans la foulée le déplacement du premier ministre Edouard Phillipe en Israël pour le lancement des festivités France Israël organisées pour la célébration du 70me anniversaire de la création de l’Etat hébreu. Un bémol, un laps de temps, avant de recevoir à Paris le 5 juin le premier ministre israélien, moins d’un mois après le 2e carnage israélien contre Gaza.

En juin 2018, un an après son entrée en fonction, Emmanuel Macron a dû se résoudre à l’évidence et acter un double constat d’une grande amertume. Le jeune premier de la politique internationale ne disposait pas du moindre levier d’influence sur les fauves du calibre de Donald Trump (États-Unis) et Benyamin Netanyahu (Israël). Le retrait de Total et de Peugeot du grand marché iranien en a apporté une preuve éclatante, révélant au grand jour l’absence de moyens de riposte aux décisions des dirigeants de ces deux grands alliés de la France.

Pis, en recevant à trois reprises le premier ministre israélien en moins d’un an, notamment à l’occasion de la commémoration de la « Rafle du Vel d’Hiv », la déportation par la police française des juifs français sous le régime de Vichy (1940-1944), Emmanuel Macron « contribue à instrumentaliser l’Histoire de France », selon l’expression de l’historienne Suzanne Citron.

Sur ce lien, la tribune de Suzanne Citron

Manoeuvres conjointes navales franco israéliennes pour la première fois depuis 1963

En dépit des protestations de façade, la France, sous le mandat d’Emmanuel Macron, a repris ses manoeuvres conjointes avec la marine israélienne interrompue depuis 55 ans. Pour la première fois depuis 1963, deux bâtiments de la marine israélienne ont participé à des exercices communs au large de Toulon en compagnie de la marine française, en juin 2018. La corvette INS Eilat et le navire lance-missile INS Kidon ont participé avec la frégate La Fayette à un large éventail de scénarios. Des chasseurs volant à basse altitude ont simulé le lancement de missiles anti-navires. Les exercices comprenaient aussi des entraînements au tir d’artillerie. Selon le Colonel Ronen Hajaj, commandant le département de l’entraînement et de la doctrine, « La France voit en Israël un partenaire maritime fort dans la région». En 2016 et 2017, le nombre de navires de guerre français ayant fait escale à Haifa et le nombre d’escales de bâtiments américains.

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Le déploiement stratégique occidental face à l’Iran

Doux rêveur ou redoutable ignorant ? Quoiqu’il en soit, Emmanuel Macron à Washington a dilapidé son capital de crédit, signant l’arrêt de mort d’un ré-équilibrage de la diplomatie française par son alignement aux thèses les plus extrêmes du néo conservatisme israélo-américain.

Sa profession de foi tranche en effet avec les capacités stratégiques d’un pays généralement considéré à capacité limitée, malgré ses claironnades périodiques. Elle témoigne de surcroît d’une tragique méconnaissance des réalités stratégiques régionales, alors que face à l’Iran, le Golfe apparaît comme une gigantesque base flottante américaine.

La zone est, en effet, couverte d’un réseau de bases aéronavales anglo-saxonnes et françaises, le plus dense du monde, dont le déploiement pourrait à lui seul dissuader tout éventuel assaillant. Elle abrite à Doha (Qatar), le poste de commandement opérationnel du Cent Com (le commandement central américain) dont la compétence s’étend sur l’axe de crise de l’Islam qui va de l’Afghanistan au Maroc ; À Manama (Bahreïn), le quartier général d’ancrage de la Ve flotte américaine dont la zone opérationnelle couvre le Golfe arabo-persique et l’Océan indien.

S’y ajoutent, Djibouti, plateforme opérationnelle conjointe franco américaine dans la Corne de l’Afrique, la base relais de Diego Garcia (Océan indien), la base aérienne britannique de Massirah (Sultanat d’Oman) ainsi que depuis janvier 2008 la plate forme navale française à Abou Dhabi ; sans compter une vingtaine de bases américaines déployées dans le nord de la Syrie et de l’Irak, pour le faux prétexte de combattre les alliés objectifs des pays occidentaux, les groupements islamistes Daech et Al Qaida.

Enfin, dernier et non le moindre des éléments du dispositif, Israël, le partenaire stratégique des États-Unis dans la zone. En superposition à ce dispositif, des barrages électroniques ont été édifiés aux frontières de l’Arabie Saoudite et des Émirats Arabes Unis pour décourager toute invasion ou infiltration.

L’Iran, en contrepoint, est soumise à embargo depuis 38 ans, entourée par quatre puissances nucléaires (Russie, Inde, Pakistan, Israël) et a dû riposter à une guerre d’agression menée par l’irakien Saddam Hussein pour le compte des pétromonarchies pendant dix ans (1979-1989).

La préconisation d’un accord de substitution à un précédent accord international, négocié pendant douze ans par sept parties dont l’Iran, la Russie et la Chine et entériné par l’ONU ; que, de surcroît cette proposition ait été lancée en partenariat avec un président américain totalement affranchi du Droit international par sa reconnaissance unilatérale de Jérusalem comme capitale d’Israël, relève de la désinvolture à tout le moins d’un amateurisme.

Ce faisant, Emmanuel Macron s’est hissé au rang de l’adversaire le plus farouche des aspirations du Monde arabe et musulman à la sécurisation de son espace national, à égalité avec Nicolas Sarkozy, Laurent Fabius et Manuel Valls, les petits télégraphistes des Israéliens dans les négociations sur le nucléaire iranien et sur la question palestinienne.

À égalité aussi avec son repoussoir, François Hollande, le ROMEO de la « chanson d’amour » en faveur d’Israël dans la cuisine de Benyamin Netanyahu, le premier ministre du gouvernement le plus xénophobe d’Israël.

La France au Yémen, un chacal

Le dos au mur, après la débandade de l’opposition off shore pétromonarchique syrienne et les avatars de Saad Hariri, son cheval de Troie libanais dans les projets de reconstruction de Syrie, la France a engagé ses forces spéciales auprès de ses alliés déconfis, –tant au nord de la Syrie auprès des Kurdes séparatistes, qu’au Nord du Yémen en soutien à Abou Dhabi pour la prise du port de Hodeida–, dans une tentative désespérée de demeurer dans le jeu de crainte d’une évacuation définitive de la scène régionale.

Au Yémen, la France a mis à la disposition de la coalition pétromonarchique une escadrille de 6 AirBus pour le ravitaillement en vol des chasseurs bombardiers de l’Arabie Saoudite et des Emirats Arabes Unis, ainsi que 4 « Rafale » opérant depuis la base de Djibouti pour des vols de reconnaissance du théâtre des opérations et de repérage satellite.

Trois mois après le début du conflit, en mars 2015, un avion ravitailleur Airbus 330-200 MRTT a été livré à l’Arabie Saoudite, le dernier d’une flotte de six. En avril 2017, deux de ces avions étaient déployés au Yémen. Indispensables à la guerre en cours, ils ravitaillent en vol les F-15 saoudiens.

Des canons Caesar 155 mm de l’entreprise française Nexter, des hélicoptères de transport Cougar du groupe EADS et des drones de renseignement militaire SDTI de l’entreprise française SAGEM sont livrés à la coalition saoudienne; En 2016, la France a livré 276 blindés légers. Ce lot est composé de blindés légers Renault Sherpa light et Vab Mark 3 du groupe Renault Trucks Defense, originellement destinés au Liban.

Au delà de la fourniture du matériel militaire, la vocation naturelle de ce pays grand marchand d’armes, la France a assuré le blocus maritime du Yémen, prenant la relève des Saoudiens lors de la phase de révision des vedettes saoudiennes, en sus de la mise à disposition de la coalition d’un détachement des forces spéciales en vue d’épauler les envahisseurs du Golfe.

La chaine TV libanaise Al Mayadeen, constituée par des dissidents d’Al Jazeera, a comparé le comportement de la France à un « chacal se repaissant des miettes » du vautour américain. « Emmanuel Macron s’imagine être plus futé que les dirigeants britanniques en enrobant son intervention militaire au Yémen par des considérations humanitaires, justifiant la présence des militaires français aux côtés des assaillants des Emirats Arabes Unis par la nécessité de déminer le port de Hodeida », a ajouté le commentateur de la chaîne.

Le zèle de la France au Yémen vise à compenser sa défaite militaire en Syrie dans l’espoir de pouvoir conserver un strapontin diplomatique dans la renconfiguration géo stratégique qui s’opère au Proche orient

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Le syndrome de Suez

Près de dix ans d’interventionnisme débridé tous azimuth au Moyen orient, le syndrome de Suez hante à nouveau la France. L’agression tripartite menée par les deux puissances coloniales de l’époque, le Royaume Uni et la France, et leur créature Israël, en 1956, contre l’Egypte nassérienne avait entrainé une rupture de dix ans entre la France et le Monde arabe et un reflux considérable de l’influence française dans la zone, dont elle ne s’est jamais complétement remise.

Le nombre des locuteurs francophones au Liban, de l’ordre de 77 % dans la décennie 1950-1960, a ainsi chuté drastiquement au profit des locuteurs anglophones, s’inversant au profit de l’anglais (60 % pour l’anglais, 40 % pour le français).

Ce fiasco diplomatique tranche avec la prospérité boursière du grand patronat sur fond de fronde sociale avec son cortège de grèves de cheminots et du personnel d’Air France, des protestations des agriculteurs et des étudiants.

La France, en 2018, est devenue la championne du monde en matière de distribution de dividendes aux actionnaires, alors qu’elle était reléguée à la 7e position parmi les puissances économiques mondiales, supplantée désormais par l’Inde.

Le produit intérieur brut (PIB) de l’Inde a dépassé, pour la première fois, celui de l’Hexagone, en 2017, reléguant la France au septième rang des économies mondiales, selon le site de la Banque mondiale. Le PIB de l’Inde en 2017, première année de la mandature Macron, a ainsi atteint 2 597 milliards de dollars contre 2 582 milliards pour la France. En contrechamps, selon un rapport de l’ONG Oxfam publié lundi 14 mai 2018 et intitulé « CAC 40 : des profits sans partage », les groupes du CAC 40 ont ainsi redistribué à leurs actionnaires les deux tiers de leurs bénéfices entre 2009 – année de la crise financière mondiale – et 2016, soit deux fois plus que dans les années 2000. Cela a conduit ces entreprises à ne laisser « que 27,3 % au réinvestissement et 5,3 % aux salariés », ajoute OXFAM qui dénonce des choix économiques qui nourrissent une « véritable spirale des inégalités».

Pour aller plus loin sur ce sujet :

Plus policé que le gaullo-atlantiste Nicolas Sarkozy, plus suave que le socialo atlantiste François Hollande, Emmanuel Macron n’en a pas moins conduit une diplomatie aussi désastreuse pour la France que ses prédécesseurs.

Que le disciple du philosophe Paul Ricoeur procède à un tel artifice aussi grossier tranche avec les qualités abusivement attribuées au plus jeune Président de la République française.

L’Occident ne dicte plus son agenda au Monde

L’ours russe est mal léché. Ce fait est connu et reconnu. Mais face au brachycéphale d’outre atlantique, il va falloir, Manu, réviser ses classiques car nul n’ignore depuis Jean de La Fontaine, même les cancres, que « tout flatteur vit aux dépens de celui qui l’écoute » (le Corbeau et le Renard).

Autre classique à réviser : L’Europe ce n’est pas l’OTAN. Pas que l’OTAN. « L’Europe, c’est de l’Atlantique à l’Oural, car c’est l’Europe, toute l’Europe qui décidera du destin du Monde».

Tel est le mot d’ordre légué par le Grand Charles, « Libérateur de la France » au micron de France, dans un discours prémonitoire prononcé à Strasbourg en novembre 1959, dix huit ans avant la naissance de son lointain successeur.

L’horloge du monde n’est plus plantée, -du moins plus exclusivement plantée- à Washington, d’autres capitales du Monde disposent désormais de leur propre fuseau horaire. « L’Occident ne dicte plus son agenda au Monde », constatera, amer, dans un rare éclair de lucidité, François Hollande, avant de jeter l’éponge, vaincu par ses déboires de Syrie. Sergueï Lavrov, ministre russe des affaires étrangères, plus laconique, édictera que le Monde est passé à « la phase post occidentale».

Pour un pays qui traîne un lourd passif militaire: Quatre capitulations militaires en deux siècles (Waterloo 1915, Sedan 1880, Montoire 1940, Dien Bien Phu 1954), soit le double de l’Allemagne (pour les deux Guerres Mondiales du XX me siècle 1918, 1945), et zéro capitulation au Royaume Uni, -record absolu parmi les pays occidentaux-, il est à craindre, à n’y prendre garde, que ne surgisse une nouvelle « déposition d’un vaincu » d’« une étrange défaite». (Marc Bloch).

Pour aller plus loin sur le thème de la diplomatie française sous Emmanuel Macron


- Source : Madaniya (Liban)

mardi, 04 septembre 2018

Le néo-impérialisme américano-britannique et ses « missionnaires » des temps modernes

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Le néo-impérialisme américano-britannique et ses « missionnaires » des temps modernes

 
 
Auteur : Tony Cartalucci
Ex: http://www.zejournal.mobi

La pire des tromperies est celle perpétrée par ceux qui prétendent défendre les plus vulnérables alors qu’ils tirent profit de leur situation, exploitent leur souffrance et, dans de nombreux cas, jouent un rôle direct dans la perpétuation des deux.

Il s’agit d’une description pertinente du racket mondial des droits de l’homme par Washington, Londres et Bruxelles – utilisé à plusieurs reprises comme prétexte à l’ingérence politique et parfois même à la guerre.

Un exemple particulièrement cynique de ce phénomène se produit au Myanmar, un pays d’Asie du Sud-Est.

Alors que les liens entre le Myanmar et la Chine se resserrent, les États-Unis et leurs partenaires européens s’efforcent de faire pression, de coopter, voire de renverser l’ordre politique actuel du Myanmar, qui comprend non seulement une armée puissante et indépendante, mais aussi un gouvernement civil que les États-Unis et le Royaume-Uni ont directement aidé à mettre au pouvoir.

Les décennies de soutien américano-britanniques à Aung San Suu Kyi – l’actuelle conseillère d’État du Myanmar – s’accrochent à elle et aux membres de son parti politique de la Ligue Nationale pour la Démocratie (NLD) comme un boulet. Les réseaux parrainés par l’étranger qu’ils ont faits entrer au Myanmar pour les aider à prendre le pouvoir sont maintenant utilisés contre eux pour contraindre la politique intérieure et étrangère du Myanmar.

Un autre rapport douteux de l’ONU

Un récent rapport de l’ONU sur les atrocités présumées commises contre la minorité Rohingya au Myanmar s’est accompagné d’une campagne de relations publiques coordonnée menée par les médias occidentaux et les organisations non gouvernementales (ONG) financées par les Etats-Unis, le Royaume-Uni et l’Union européenne.

Dans le cadre de cette campagne de relations publiques, de nombreux chefs militaires du Myanmar ont été appelés à saisir la Cour Pénale Internationale (CPI) – une institution considérée dans le monde entier comme la continuation de la colonisation occidentale – en particulier en Afrique. Des pressions ont également été exercées sur le gouvernement civil du Myanmar, dirigé par Aung San Suu Kyi et son parti, la NLD.

Cela se traduit par la capacité de l’Occident à tirer parti de la violence ethnique pour faire pression sur le Myanmar, ce qui permet à l’Occident d’exiger des concessions et d’imposer des sanctions ou de retirer du pouvoir à volonté toute personnalité politique ou militaire de premier plan.

L’objectif principal de la politique étrangère de l’Occident est de rompre les liens du Myanmar avec la Chine, de transformer le Myanmar en un État client obéissant et d’utiliser le succès de ce pays pour étendre des actions similaires dans le reste de l’Asie du Sud-Est.

Le rapport de l’ONU intitulé officiellement « Rapport de la mission internationale indépendante d’établissement des faits sur le Myanmar » (PDF), révèle que sa méthodologie a été basée sur des entretiens. Il prétend :

« La Mission a rassemblé une grande quantité d’informations essentielles. Elle a réalisé 875 entretiens approfondis avec des victimes et des témoins oculaires, ciblés et choisis au hasard. Elle a obtenu des images satellites et authentifié une série de documents, de photographies et de vidéos. Elle a comparé ces informations à des informations secondaires jugées crédibles et fiables, y compris les données brutes ou les commentaires des organisations, les interviews d’experts, les contributions et le matériel open source ».

Le rapport admet également :

« La Mission a également tenu plus de 250 consultations avec d’autres parties prenantes, y compris des agences transgouvernementales et non gouvernementales, des chercheurs et des diplomates, en personne et à distance. Elle a reçu des soumissions écrites, et par appel public ».

C’est ce deuxième point qui est particulièrement préoccupant.

Il semble qu’une grande partie de ce que contient le rapport de l’ONU n’est qu’une simple répétition d’informations que des « ONG » supposées, financées par les États-Unis, le Royaume-Uni et l’UE – éléments centraux du racket des droits de l’homme en Occident – ont déjà rapportées dans leurs propres publications hautement suspectes.

Parmi celles-ci, il y a Fortify Rights – financé par les gouvernements des États-Unis, du Royaume-Uni, du Canada et des Pays-Bas, ainsi que l’Open Society Foundation de George Soros, un criminel financier reconnu coupable. Le rapport de l’ONU semble n’être qu’un bref résumé du rapport de Fortify Rights, « They gave them long swords » (PDF).

Les « Missionnaires » des temps modernes financés par les États-Unis et le Royaume-Uni 

Fortify Rights divulgue son financement dans au moins deux rapports annuels de 2015 et 2016.

En 2015 (PDF), les sponsors comprenaient les gouvernements néerlandais, canadien et américain par l’intermédiaire du National Endowment for Democracy (NED). Elle comprenait également Open Society Foundations et Avaaz. En 2016 (PDF), le gouvernement du Royaume-Uni a également été inclus dans sa liste de donateurs.

Face aux questions concernant l’acceptation par Fortify Rights de l’argent des gouvernements actuellement engagés dans des violations des droits de l’homme dans le monde entier – y compris la vente d’armes à Riyad et l’assistance dans la guerre de Riyad contre le Yémen – le fondateur de Fortify Rights, l’Américain Matthew Smith, a tenté de détourner et de minimiser le financement de son organisation.

Il a affirmé que l’argent de la NED ne constituait pas un financement du gouvernement américain parce que les fonds du Congrès américain ont transité par la NED avant de lui parvenir.

Il a également affirmé que l’argent que son organisation a accepté du Royaume-Uni n’a pas été utilisé pour le Myanmar, prétendant qu’il avait servi à la place à un programme que son organisation dirige en Thaïlande – apparemment convaincu que cette explication résoudrait les inquiétudes sur le conflit d’intérêts évident que représentent les activités de son organisation et son financement.

Pire encore, Smith a reconnu le rôle du Royaume-Uni dans la crise actuelle au Myanmar. C’est le colonialisme britannique qui a intentionnellement fomenté et exploité les tensions ethniques qui existent encore aujourd’hui au Myanmar. Cela inclut pratiquement tous les groupes ethniques pour lesquels Fortify Rights se pose en champion.

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Smith et d’autres membres de Fortify Rights ont été interrogés à plusieurs reprises et n’ont pas expliqué comment des étrangers financés par les gouvernements qui ont créé les tensions ethniques au Myanmar, peuvent servir de solution à ce conflit en s’insérant dans la violence actuelle.

Au lieu de cela, il est clair que ce que les Britanniques avaient intentionnellement accompli il y a des générations pour diviser et conquérir la Birmanie d’alors, se poursuit dans le Myanmar d’aujourd’hui.

Matthew Smith et son organisation, Fortify Rights, sont les équivalents modernes des missionnaires qui ont contribué à la conquête d’une grande partie de la planète par l’Empire britannique.

« L’avant-garde du colonialisme : Missionnaires et frontières en Afrique australe au XIXe siècle », écrit par le professeur Paul Gifford, donne un aperçu utile du rôle des missionnaires à l’apogée de la colonisation européenne :

« Le rôle des sociétés missionnaires en Afrique australe est controversé. À bien des égards, leurs objectifs déclarés étaient admirables : la création d’une société pacifique sans guerre intestine, l’éducation et l’élévation du peuple, et ainsi de suite. Mais dans la pratique, les missionnaires rempliraient des rôles très similaires et souvent interchangeables avec les explorateurs et diplomates européens laïcs, utilisant et manipulant les Africains qu’ils ont rencontrés comme il leur convient le mieux« .

Le professeur Gifford conclut :

« En fin de compte, la guerre n’était pas entre Dieu et Satan pour les âmes des Africains, mais entre l’Europe et l’Afrique pour les cœurs et les esprits des peuples, et le résultat final de cette bataille est encore indécis à ce jour ».

L’histoire du colonialisme européen en Asie du Sud-Est n’est pas différente.

Et ironiquement, Matthew Smith de Fortify Rights admettrait lui-même :

« …nous ne sommes pas du tout satisfaits de l’approche britannique au Myanmar en ce qui concerne l’avancée de la responsabilisation. Et nous sommes bien conscients de la terrible histoire coloniale et de ses conséquences, qui se poursuit encore aujourd’hui ».

C’est ironique parce que Smith soit ignore, soit refuse de reconnaître que la crise du Myanmar n’est pas seulement la « conséquence » de l’histoire coloniale britannique, c’est une continuation de celle-ci, et le Fortify Rights de Smith sert le rôle – textuellement – décrit par le professeur Gifford concernant les missionnaires dans la facilitation de la colonisation occidentale.

La NED finance Fortify Rights, et cette même Fortify Rights est supposée « enquêter »

Le rapport de l’ONU – 20 pages au total – ne mentionne Aung San Suu Kyi qu’une seule fois et uniquement dans le contexte de l’absence de condamnation de la violence en cours. Le rapport de l’ONU ne mentionne que les acteurs non militaires impliqués dans les violences ethniques en une seule phrase.

Pourtant, la vérité est que beaucoup de ceux qui ont directement facilité la prise de pouvoir politique par Aung San Suu Kyi en 2016 encouragent ouvertement la haine envers des groupes ethniques comme le Rohingya au Myanmar depuis des décennies. Ils ont aussi ouvertement incité et appelé à la violence contre les Rohingya. Personne n’a attiré autant l’attention que Fortify Rights ou l’ONU.

Une grande partie de la base de soutien de Aung San Suu Kyi est infectée. Les groupes qui ont reçu les éloges et le soutien des États-Unis ont ouvertement nié la reconnaissance ou la protection des groupes ethniques – en particulier des Rohingya. Beaucoup ont ouvertement incité à la haine et même à la violence contre les Rohingya.

Cela inclut non seulement les extrémistes se faisant passer pour des moines bouddhistes, mais aussi des groupes politiques comme le Groupe d’Étudiants de la Génération 88 dont le membre fondateur Min Ko Naing a reçu le prix « Democracy Award » 2012 de la NED.

L’Irrawaddy – un autre front financé par la NED américaine – dans son article « Analyse : Utiliser le terme « Rohingya », dévoile une liste de militants financés par les États-Unis et de membres de la NLD soutenus par les États-Unis et le Royaume-Uni qui dénoncent les Rohingya, contribuant ainsi à alimenter les lignes de fractures ethniques qui ont divisé le pays et apporté la violence des deux côtés.

Selon Irrawaddy, Min Ko Naing, lauréat du prix « Democracy Award » du NED, affirmerait que :

« Ils (ceux qui s’auto-identifient Rohingya) ne font pas partie des 135 groupes ethniques du Myanmar ».

U Win Tin, membre fondateur de la NLD de Suu Kyi, et récompensé par Reporters sans frontières pour le titre de « journaliste de l’année », a recommandé l’internement des Rohinya dans des camps, en revendiquant :

« Ma position est que nous ne devons pas violer les droits humains de ces personnes, les Rohingya, ou quoi qu’ils soient. Une fois qu’ils sont à l’intérieur de nos terres, nous devons peut-être les contenir en un seul endroit, comme un camp, mais nous devons respecter leurs droits humains ».

Ko Ko Gyi, un autre membre du Groupe d’Étudiants de la Génération 88, financé et soutenu par les Etats-Unis, irait jusqu’à jurer de prendre les armes contre les Rohingya qu’il appelle « envahisseurs étrangers ».

Dans un autre article sur l’Irrawaddy financé par le NED, publié en 2012 et intitulé « Le traumatisme va durer longtemps : Ko Ko Gyi », il serait révélé que :

« Début juin, Ko Ko Gyi a accusé les « pays voisins » d’alimenter les troubles dans l’État d’Arakan, et a déclaré catégoriquement que le groupe de la génération 88 ne reconnaîtra pas les Rohingyas comme une ethnie du Myanmar. Il a déclaré que son organisation et ses partisans sont prêts à prendre les armes aux côtés de l’armée pour lutter contre les « envahisseurs étrangers ».

Ko Ko Gyi – qui s’est juré en 2012 de commettre les violences qui se déroulent aujourd’hui au Myanmar – s’est retrouvé à Washington D.C. en 2013 après avoir fait ses remarques virulentes en faveur du génocide. Il a été invité spécifiquement par le NED américain à participer à une table ronde sur le thème « Examiner la transition vers la démocratie en Birmanie » (vidéo).

Même à première vue, Fortify Rights, chargée « d’enquêter » sur la violence contre les Rohingya et d’autres groupes minoritaires – y compris la violence et les appels à la violence lancés par d’autres bénéficiaires du soutien de la NED – représente un énorme conflit d’intérêts qui compromet entièrement la légitimité de l’enquête et renforce la légitimité de Fortify Rights en tant que groupe « de défense des droits de l’homme ».

Il n’est pas étonnant que dans le rapport de 162 pages de Fortify Right, « They gave them long swords » (PDF), seulement 4 pages soient consacrées aux « auteurs civils » qui sont directement reliés aux militaires et il n’y est jamais fait mention des organisations financées par les Etats-Unis auxquelles ils sont liés et par lesquelles ils sont incités.

Perpétuer la violence, ne pas protéger les personnes vulnérables

Fortify Rights rend compte de manière sélective de ce qui se passe au Myanmar. Pour l’instant, elle blâme l’armée de la retirer entièrement du paysage politique du Myanmar, expulsant ainsi une obstruction de longue date aux intérêts américains et britanniques. Elle prépare également le terrain pour contraindre le gouvernement civil si nécessaire.

Fortify Rights fournit à son gouvernement occidental, aux entreprises et aux fondations missionnaires qui la financent, un prétexte pour s’insérer dans les tensions ethniques afin de reprendre le contrôle du Myanmar, de son gouvernement, de son armée, de sa population, de ses ressources et de sa politique – comme l’ont fait les Britanniques lorsque le Myanmar était une colonie.

Il existe une véritable défense des droits de l’homme et des organisations non gouvernementales. Elle existe dans les communautés, soutenue par les personnes qu’elle prétend représenter. La défense internationale des « droits de l’homme » a toujours été, et continue d’être aujourd’hui, un écho vivant du passé colonial de l’Europe. Cela inclut les « missionnaires » qui ont aidé à la faciliter et qui se manifestent maintenant en tant « qu’ONG ».

Fortify Rights a catégoriquement échoué à répondre aux questions légitimes concernant son financement et ses méthodes, y compris pourquoi les « auteurs civils » financés – comme elle – par la NED américaine ne sont mentionnés nulle part dans leur long rapport de 162 pages.

Bien que Smith reconnaisse lui-même que la colonisation britannique a ouvert la voie à la violence ethnique au Myanmar, il couvre sciemment son propre rôle dans sa continuation aujourd’hui.

La crise du Myanmar se poursuivra tant qu’elle donnera à l’Occident l’occasion de s’impliquer dans les affaires intérieures du Myanmar par la coercition fondée sur des « préoccupations humanitaires« , alors que l’Occident lui-même alimente intentionnellement toutes les parties au conflit.

Pour le peuple du Myanmar, tenté par des querelles ethniques persistantes, le seul moyen d’expulser l’ingérence étrangère est la seule façon de parvenir à l’indépendance de la nation – une indépendance qui a toujours été incomplète en raison des vestiges du colonialisme britannique qui pèsent encore aujourd’hui sur la nation. C’est la division qui a permis aux Britanniques de s’installer, et c’est aujourd’hui la division qui continue de permettre au Royaume-Uni, aux États-Unis et à l’UE de rester sur le territoire.

Photo d'illustration: membres de la Fortify Rights

Traduit par Pascal, revu par Martha pour Réseau International


- Source : NEO (Russie)

vendredi, 31 août 2018

Idlib. Nouveau risque de conflit entre la Turquie et la Syrie

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Idlib. Nouveau risque de conflit entre la Turquie et la Syrie

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Une offensive de l'armée de Bashar al Assad (SAA, Syrian Arab Army) se prépare a reprendre le contrôle de la région de la Syrie NW, nommée Idlib qui est le dernier point du territoire tenu par l'opposition syrienne se présentant sous le nom de Syrian Free Army.

Il s'agit en fait du dernier point où Daesh, chassée de partout ailleurs, dispose encore de quelques forces. Tous les « terroristes » éliminés de Syrie par les offensives victorieuses de Bashar s'y sont réfugiés, se mêlant souvent à la population. Il est clair que la reprise d'Idlib signera la défaite complète de Daesh, en Syrie et sans doute même au Moyen Orient.

Comme l'on sait, la SAA a dès le début été appuyée par des moyens militaires aériens et terrestres russes. La Russie, qui dispose de deux petites bases en Syrie, cherche évidemment à travers son alliance de longue date avec Damas, à faire reculer l'influence américaine dans la région, au profit de la sienne. Washington le sait, mais n'a pu empêcher ces derniers mois de se faire repousser, militairement et économiquement, par l'alliance Damas-Moscou. Inutile de dire que la reprise d'idlib par Bashar sera considérée par le Pentagone comme une défaite majeure.

Aussi bien différents moyens sont utilisés par les Occidentaux alliés des Etats-Unis pour retarder voire pour empêcher l'offensive contre Idlib. Le plus visible consiste à la campagne actuellement menée par les organisations internationales humanitaires faisant valoir les morts civiles prévisibles. Mais celles-ci, à supposer qu'elles se produisent, ne seront pas plus nombreuses que lors de la reconquête par Bashar et par la coalition américano-arabe des positions de Daesh en Syrie. Comme nous venons de le rappeler l'organisation terroriste s'est toujours fondue parmi les populations pour se protéger.

Un nouvel élément est à prendre en considération, le risque de voir la Turquie, qui avait précédemment rejoint la coalition Syrie, Iran et Russie, s'y opposer à nouveau. La raison est qu'elle avait été récemment chargée par celle-ci de la prise en charge d'une zone dite de deconflictualisation comprenant essentiellement la région d'Idlib. Mais celle-ci est devenue depuis ces derniers mois le refuge de tous les combattants islamiques se rattachant à Daesh ou à l'ex. Al Qaida et ayant fui la Syrie.

Or Ankara n'a aucune envie de voir ces effectifs terroristes chassés d'Idlib se réfugier en Turquie. Bien plus, comme nul ne l'ignore, Ankara avait depuis des années financé et armé ces terroristes dans l'espoir, notamment, de les voir contribuer à renverser Bashar, considéré longtemps par Erdogan comme un rival insupportable. Les Etats-Unis le savaient et avaient encouragé ces implications d'Ankara dans le soutien aux terroristes. Ceux-ci ont été officiellement combattus par Washington, mais ils ont été discrètement pourvus en armes et en dollars par les Américains dans la mesure où ils pouvaient contribuer à la chute de Bashar et à un échec majeur pour la Russie.

La Turquie n'a pas encore choisi son camp entre Washington et Moscou. Elle a certes décidé de quitter l'Otan mais elle veut conserver des liens commerciaux et diplomatiques avec les Américains. Dans ce but, l'on peut craindre qu'elle ne se confronte, éventuellement militairement, avec la SAA lors de la bataille pour Idlib. Elle récupérerait ainsi une grande partie du soutien américain, ce qui lui sera précieux à l'avenir dans son désir de s'affirmer comme une super-puissance régionale.

Une confrontation majeure se produira-t-elle ces prochains jours dans la bataille d'Idlib?

Note 

On peut penser qu'aucune offensive ne sera déclenchée avant le 8 septembre, c'est-à-dire après la prochaine rencontre tripartite Iran-Russie-Turquie du 7, dans le cadre des accords d'Astana, qui se tiendra en Iran, où se rendra donc Erdogan. Ils vont problablement trouver un accord pour régler le cas d'Idlib sans qu'il y ait un affrontement direct entre la Syrie et la Turquie.

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Probable annexion de la région d'Idlib par la Turquie

par Jean-Paul Baquiast
 
Dans l'article récent, Idlib, l'embarras russe, nous indiquons que face à la volonté de Bashar el Assad de reconquérir la province d'Idlib, et à celle des Turcs d'y établir définitivement leur présence, les Russes, dans la mesure où il leur reste un pouvoir d'arbitre dans ce conflit, donneraient leur soutien à Damas.

Aujourd'hui, il semble bien au contraire que Recep Erdogan n'a aucune volonté de se retirer de la province d'Idlib. Au contraire, il désire l'annexer au sens propre du terme, c'est-à-dire en faire une véritable province turque.

Un article détaillé de Syria Direct en donne la raison, à la suite d'enquêtes précises de ses reporters en Syrie 1). Nous pouvons en retenir les éléments suivants :

Les Turcs semblent définitivement établis au nord de la province d'Alep, région où se trouve Idlb, à la suite de leur opération militaire lourde dite « Rameau d'olivier ». Celle-ci, entre autres visait à éliminer les Kurdes de Syrie dans cette région où ils sont traditionnellement établis. La volonté première d'Ankara est évidemment d'empêcher que la présence des Kurdes dans la région d'Alep n'encourage la dissidence de leurs propres Kurdes du PKK en Turquie.

Il est moins connu que les Turcs sont aidés dans toute cette région par des groupes militaires sunnites que Damas qualifie de terroristes et que la Turquie soutient de diverses façons, notamment par la fourniture d'armes et en y facilitant l'entrée de centaires de combattants de Daesh chassés de Syrie par les opérations victorieuses de Bashar.

Il est également peu connu que les Turcs et leurs alliés rebelles islamiques se sont établis dans la région en multipliant les violences contre la population, notamment à Afrin. Amnesty International s'en est ému 2). Il est vrai qu'Amnesty n'est pas neutre. Il s'agit d'une organisation soutenant en général la politique américaine. Néanmoins les faits semblent avérés.

La très prochaine bataille pour Idlib renouvellera les tensions entre Ankara et Damas. Les Turcs, à nouveau, bénéficieront de l'aide des musulmans sunnites de cette région, considérant que ce faisant ils se comportent quasiment en « soldats d'Allah ».

Pour les Turcs, une implantation définitive dans cette région, à commencer par une présence militaire, confortera leurs frontières avec la Syrie et pourra éviter que des centaines de milliers de réfugiés syriens fuyant la présence d'Assad ne viennent s'y établir définitivement, débordant inévitablement vers la Turquie, renforçant les quelques 3 millions de réfugiés y vivant déjà.

Un accord avec Bashar serait envisageable si ce dernier renonçait à reprendre la région d'Idlib en échange d'un soutien turc plus général au gouvernement de Damas, qui en aurait évidemment besoin. Mais il semble évident que la Turquie ne fait pas confiance à Bashar al Assad. Elle veut conserver un moyen de pression sur lui en s'établissant dans la région d'Idlib.

Contrairement à ce que concluait notre article précité, la Russie dans ce conflit mettra sans doute son pouvoir d'arbitrage au service de la Turquie, son alliée dans le processus d'Astana et aux dépends de son autre allié Bashar. Le soutien de celui-ci lui paraît définitivement acquis, car il n'a pas d'autres alternatives. Au contraire, maintenir la Turquie dans la coalition des Etats sur lesquels elle s'appuie pour éliminer l'influence américaine sera de plus en plus important.

Ajoutons que certains commentateurs, notamment libanais, considèrent que l'armée de Bashar al Assad est un relais utilisé par la Russie pour s'établir à la frontière syro-libanaise sans paraître intervenir directement dans cette région. 3)

Nous pourrions dire, avec prudence, que si ce n'est pas totalement exact, ce n'est pas totalement faux. Dans ces conditions, l'installation de la Turquie dans cette région ne pourra que provoquer des tensions entre Ankara et Moscou. Mais il nous parait probable que, comme indiqué par le présent article, la Russie, pour ne pas heurter de front l'allié turc, prendra son parti de l'arrivée des Turcs.

Références

1) https://syriadirect.org/news/as-syria%e2%80%99s-proxies-co.../

2) https://www.amnesty.org/en/latest/news/2018/08/syria-turkey...

3) https://www.lorientlejour.com/article/1123914/le-deploiem...

Note.

Concernant Syria Direct https://syriadirect.org/, il faut une nouvelle fois regretter que l'homologue, sauf erreur, n'existe pas dans la presse française. On peut lire :

Syria Direct is a non-profit journalism organization that produces timely, credible coverage of Syria while training a small group of highly talented, aspiring Syrian and American journalists in professional news-gathering and accurate, in-depth reporting. As a result of agenda-free funding, our focus is on providing credible, original, relevant and immediate news and analysis of the conflict.

Certes de telles initiatives  peuvent servir de couverture à l'intervention de différentes grandes puissances. Mais il ne faut pas prétexter de telles possibilités pour ne pas s'y intéresser.

mardi, 28 août 2018

Entre la Caspienne et la Mer Noire : bientôt le Canal Eurasien !

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Entre la Caspienne et la Mer Noire : bientôt le Canal Eurasien !

Supplantera-t-il le Canal de Suez ?

Par Thomas W. WYRWOLL

Après des tractations préliminaires couronnées de succès, le président du Kazakhstan, Noursoultan Nazarbaïev a une nouvelle fois suggéré la mise en œuvre d’un projet, formulé déjà du temps des Tsars, lors du sommet du Haut Conseil de la Communauté Economique Eurasienne, c’est-à-dire la construction d’un canal entre la Caspienne et la Mer Noire.

Pour être précis, il existe déjà un canal qui fait le lien entre ces deux mers, le Canal Don-Volga (CDV). Cependant, ce canal, qui date de l’ère stalinienne et s’étend sur une distance de 101 km, constitue aujourd’hui un goulot d’étranglement entre les deux fleuves et est régulièrement embouteillé. Ses dimensions sont désormais inappropriées, même pour les péniches fluviales de la Volga, dont le gabarit est pourtant assez petit. Après l’ébauche des premiers projets, formulés dans les années 1930, de réaliser un canal menant directement de la Caspienne à la Mer Noire, les autorités soviétiques ont mis ceux-ci au frigo, suite à la guerre. Après la fin des hostilités, le projet ne fut pas remis à l’ordre du jour car, finalement, les Soviétiques se sont rendu compte que le Canal Don-Volga suffisait amplement pour les tâches limitées de l’époque.

Mais vu l’ampleur de l’exploitation pétrolière dans la zone caspienne et le développement des projets de « routes de la soie », l’idée d’un tel canal est plus actuelle que jamais. En 2007 déjà, le président russe Vladimir Poutine envisageait soit de creuser un canal parallèle au CDV soit de tracer un nouveau canal qui serait une liaison directe entre les deux mers. La même année, son collègue kazakh a estimé que c’était là une excellente suggestion et il s’est fait l’avocat d’un canal direct, auquel il a donné le nom de « Canal Eurasien ». En allemand, on parle donc désormais de « Canal Eurasien » (Eurasien-Kanal). Le président kazakh proposait alors un tracé partant de la courbe du fleuve Manytch en direction de la Caspienne. Ce tracé serait de 700 km.

Deux ans plus tard, la Banque Eurasienne de Développement sort une étude pour la construction d’un tel canal et pour d’éventuelles alternatives. Cette étude reste alors secrète et n’a pas été publiée. Il est évident qu’un nouveau CDV serait plus long d’environ 300 km qu’un canal direct et, pendant l’hiver, ne serait que partiellement utilisable pendant trois à cinq mois, un handicap sérieux que n’aurait pas un tracé situé plus au sud, où l’hiver ne sévirait que deux mois. On a appris que le coût des deux projets ne serait pas très différent et, en tout cas, constituerait l’initiative la plus onéreuse de l’histoire russe récente, plus chère encore que la construction du pont de Crimée. Malgré le caractère secret du projet, le monde entier était au courant de celui-ci, suite aux multiples conférences russo-sino-kazakhs. A plusieurs reprises, le président Nazarbaïev, en particulier, a tenté de le promouvoir.

Pour le Kazakhstan, les avantages d’un tel canal sont évidents : le pétrole tiré des énormes gisements  de la Mer Caspienne (10% des réserves mondiale, selon les dernières estimations)  est transporté dans un premier temps par navires pétroliers depuis les côtes kazakhs et, de là, est acheminé plus loin grâce à un système d’oléoducs, pour lequel le Kazakhstan doit payer des sommes considérables. Un canal vers la Mer Noire constituerait un mode de transport direct et donc nettement plus avantageux par mer jusqu’au pays européens clients. La Communauté Economique Eurasienne ne parlait naguère que d’améliorer les infrastructures régionales, de créer des emplois nécessaires et de promouvoir la construction de bateaux.

Pour la Chine, le canal constituerait un bon compromis entre les avantages offerts par le rail et par la navigation fluviale, permettant de raccourcir encore la distance entre la Chine et l’Europe, surtout depuis que Beijing s’active à déplacer à grande échelle ses centres de production industrielle de l’Est vers l’Ouest. Les financements proviendraient de la Banque Asiatique d’Investissements et d’Infrastructures, créée par la Chine ; pour l’exécution des travaux, on prévoit l’intervention du géant Sinohydro, relevant de l’Etat chinois. Sinohydro est l’une des plus grandes entreprises de construction au monde qui a notamment réalisé la fameux barrage des Trois Gorges. Les Chinois, toujours très actifs, prévoient un temps de construction de trois ans, plus six mois de planification. Les experts russes, en revanche, estiment que le temps de construction sera deux ou trois fois plus long.

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Un aspect intéressant dans la construction de ce canal est qu’il passera par la République de Kalmoukie. A l’origine, le peuple kalmouk vient du Nord-Ouest de la Chine, de Dzoungarie. Il s’est installé sur le cours de la Volga au 17ème siècle. Sous Staline, il a subi un véritable génocide, poussant de nombreux Kalmouks à combattre dans les rangs allemands pendant la seconde guerre mondiale. Sous Khrouchtchev, les survivants ont pu revenir dans leur patrie et sont de nouveau, à l’embouchure de la Volga, le peuple le plus nombreux, après les Russes. Un deuxième grand groupe de Kalmouks vit encore dans l’Ouest de la Chine, où leurs ancêtres, après la dissolution du Khanat de Kalmoukie par Catherine la Grande en 1771, y étaient revenus à l’invitation des empereurs mandchous. Aujourd’hui, il y a presque autant de Kalmouks en Chine qu’en Russie.

Le gouvernement de la République kalmouk a signé récemment avec la Chine un accord, accepté par les Russes, invitant à un nouveau retour des Kalmouks de Chine dans la région russe de la Volga. Si ces Kalmouks de Chine revenaient effectivement, le peuple titulaire de la République kalmouk actuelle serait dominant sur son territoire « ethnique » et pourrait s’étendre aussi à des régions contigües que Staline avait annexées à la Russie. Les Kalmouks de Chine sont cependant très loyaux à l’égard de la Chine, fait intéressant à plus d’un titre sur le plan géostratégique. Jusqu’ici, la Chine s’est montré très réticente pour installer des fragments de ses propres populations sur le territoire russe, car les autorités chinoises savent que les Russes sont très méfiants et très sensibles à ce genre de transferts de populations ; cependant, l’installation de Kalmouks originaires de Chine dans le cadre de la construction du Canal Eurasien pourrait s’avérer plus aisé.

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Potentiellement, les problèmes écologiques que poserait la construction de ce canal sont importants. Non seulement, les biotopes aquatiques s’entremêleraient mais les routes de migrations d’une grande partie des populations d’antilopes saïga à l’Ouest de la grande steppe, ce qui aurait d’énormes répercussions sur celles-ci et sur la part de l'écosystème de cette steppe dépendant de ces animaux. On a songé à installer des ponts pour faire passer cette faune sauvage mais ces antilopes sont craintives et risqueraient de ne pas les emprunter. De plus, leur nombre serait insuffisant : ils devraient être complétés par des ouvrages plus larges sous formes de corrals devant être entretenus par l’homme. Pour la faune ornithologique, plusieurs zones humides seraient mises en danger, notamment par la salinisation des sols. On pourrait y remédier par un réglage compliqué des adductions d’eau pour le canal. La Mer d’Azov serait elle aussi menacée, alors que son état est déjà déplorable. Minimiser les dégâts écologiques potentiels est l’un des principaux défis à relever pour les constructeurs du Canal.

Ces défis pourront toutefois être surmontés. Réaliser ce projet, vieux de plus d’un siècle, apporterait de grands changements géostratégiques, comparables au creusement du Canal de Suez, dont le rôle serait alors considérablement minimisé.

Thomas W. Wyrwoll.

(article tiré de « zur Zeit », Vienne, n°34/2018, http://www.zurzeit.at ).

jeudi, 16 août 2018

Moscou se veut désormais le protecteur des Kurdes

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Moscou se veut désormais le protecteur des Kurdes

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Depuis les événements au Moyen-Orient, ceux que l'on nomme par facilité les Kurdes ont joué un rôle permanent dans les conflits entre puissances.

Les Kurdes ne sont pas généralement évoqués sous la forme d'une communauté. Nous avons nous-mêmes relaté le rôle de ceux que l'on appelle les Kurdes de Syrie, ayant joué un rôle important dans les batailles contre Daesh, généralement soit de leurs propres chefs, soit comme alliés des coalitions arabo-américaine, ces mêmes Kurdes de Syrie étant considérés par Bashar al Assad ou parfois par les Russes comme des obstacles à une réunification de la Syrie sous l'autorité de Damas. On mentionne aussi les Kurdes d'Irak, souvent proches des Kurdes de Syrie.

Recip Erdogan, dotés en Turquie d'une importante communauté de Kurdes turcs, disposant de larges pouvoirs d'auto-gouvernement, a toujours manifesté le refus de négocier avec les Kurde de Syrie ou d'Irak, de peur qu'ils ne s'allient avec les Kurdes de Turquie pour reconstituer une entité autonome établie à cheval sur des 3 territoires, Turquie, Syrie et Irak et susceptible de ressusciter l'antique Royaume du Kurdistan https://fr.wikipedia.org/wiki/Kurdistan . Celui-ci l'amputerait d'un petit tiers de son territoire.

Il faut ajouter que les Kurdes de Syrie, traditionnellement établis sur les vastes réserves pétrolières et gazières de la province de Deir Es Zor, à la frontière syro-turque, en jouent pour se rendre indispensables à toute exploitation sérieuse de ces ressources.

Rappelons que les Kurdes sont en majorité musulmans, mais de ce que l'on pourrait appeler en France des musulmans laïcs, ayant depuis longtemps renoncé aux prescriptions rigoristes de l'Islam, concernant notamment la nécessité de maintenir les femmes dans un rôle subordonné. Les Kurdes de Syrie et d'Irak, excellents combattants par ailleurs, se sont fait remarquer par la présence de militaires femmes dans leurs rangs, en uniforme et certaines ayant d'importantes responsabilités d'encadrement.

Les Kurdes se rapprocheraient dorénavant de Damas et de Moscou

Vu le poids politique des Kurdes de Syrie, les Etats-Unis ont longtemps réussi à les faire combattre contre Bashar al Assad aux côtés des autres mercenaires, provenant d'organisations terroristes, qu'ils recrutaient à cette fin en leurs fournissant des armes et des dollars. Cependant, ces derniers jours, un accord semblait conclu entre les Kurdes de Syrie et Damas, sur le base d'un respect réciproque et la renonciation à toute action agressive. On lira à ce sujet un article de EJ Magnier datant du 30/07 1). Celui-ci estime que cet accord obligera les Américains à cesser de manipuler la communauté kurde à son profit, et plus généralement à se retirer complètement de Syrie, n'ayant plus guère de moyens d'action.

Mais la Russie, jusqu'ici très réservée à l'égard des Kurdes parait désormais décidée à les aider. Elle ne s'adresse pas uniquement aux problèmes des Kurdes de Syrie mais à l'ensemble du problème kurde. On apprend, comme l'indique le message référencé ci-dessous de M.K. Bhadrakumar 2), qu'elle a facilité la création à Moscou d'une Fédération Internationale des Communautés Kurdes.

Cette Fédération sera animée par un certain Mirzoyev Knyaz Ibragimovich, intellectuel Kazakh renommé originaire des Kurdes d'Arménie. Elle devrait, dans l'esprit des autorités russes, être une « plate-forme » où pourraient se retrouver l'ensemble des Kurdes. L'objectif prioritaire devrait être d'encourager tous les Kurdes à lutter contre Daesh et les autres groupes terroristes.

Reste à savoir comment cette initiative sera reçue par les Kurdes de Syrie et d'Irak. Comment par ailleurs Recep Erdogan, allié actuel de la Russie, soutiendra-t-il cette démarche ?

On rappellera que depuis le 19e siècle, sinon avant, les Russes et les Kurdes ont eu des échanges politiques et culturels nombreux, dont le cœur se trouvait à Saint-Pétersbourg. Les slaves russes et les musulmans kurdes se sont retrouvés dans de nombreux domaines.

Références

1) https://ejmagnier.com/2018/07/30/why-will-the-us-leave-sy...

2) http://blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/2018/08/07/russia-p...

 

vendredi, 03 août 2018

Ruimterevolutie: Hoe de walvisjacht ons wereldbeeld veranderde

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Ruimterevolutie: Hoe de walvisjacht ons wereldbeeld veranderde

door Erwin Wolff

Ex: http://www.novini.nl

Het boek Land en zee van de Duitse rechtsfilosoof Carl Schmitt is een opvallende afwijking van zijn gebruikelijke discours. In zijn andere werken schrijft hij vooral over recht, politiek en direct aanverwante zaken. Een voorbeeld is het boek Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus waarin Schmitt in 1923 de parlementaire democratie van de Weimarrepubliek bekritiseert. Bekender is het werk Der Begriff des Politischen waarin hij de politiek tot wij-zij tegenstellingen herleidt. In Land en zee gaat hij echter op heel andere zaken in.

Wat is de aarde eigenlijk en hoe komt het dat we de aarde zien zoals wij die zien? Hoe komt het dat wij anno 2018 de aarde zien als een groen-blauwe bol in een oneindige ruimte? Hoe kan dat zo verschillen van het wereldbeeld van andere volkeren? Volgens Carl Schmitt ligt hier een zogenoemde “ruimterevolutie” aan ten grondslag en die heeft alles te maken met de manier waarop onze voorouders naar hun wereld keken.

CSlandenzee.jpgDe eersten die de omslag maken zijn de oude Grieken in de klassieke Oudheid. Griekenland bestaat uit vele stadstaten, maar de zeemacht Athene en de landmacht Sparta steken in deze Griekse wereld boven allen uit. Het denken van de Grieken veranderde van een volk dat zich enkel met landbouw bezighield naar een zeemacht, omdat het op een gegeven moment het gehele oostelijke deel van de Middellandse zee ging beheersen. De Grieken waren opgesloten in deze context en ze misten de mankracht om hieruit te breken.

Pas toen het Romeinse Rijk uitdijde naar het tegenwoordige Frankrijk en dus naar de Atlantische oceaan, wist de klassieke Oudheid uit deze kooi te breken in de eerste eeuw van onze jaartelling. Maar toen was het eigenlijk al gedaan. Het Romeinse Rijk stortte zichzelf daarna in chaos en er was onder Romeinse leiding geen paradigmaverschuiving.

In de middeleeuwen was heel Europa, van het noorden tot het hele zuiden, opgemaakt uit verschillende agrarische staten. Aan de randen van deze boerenstaten werd er visserij bedreven. Met de Bijbel in de hand werden de Germaanse volkeren van noord tot zuid bekeerd tot het Christendom. De ruimte op de aarde is wat de Middeleeuwers betreft een heleboel land en een heleboel agrarische producten op dat land. Tot het einde van de middeleeuwen is er geen echte verandering in deze zienswijze.

In het Oude Testament is er een mythisch zeedier te vinden, de leviathan (Job, hoofdstuk 40 en 41), en leviathan gaat een grote rol spelen in de omslag van het besef van ruimte van de Germaanse volkeren in Europa. De leviathan, meestal afgebeeld als walvis, lokt de vissers van Europa de zee op omdat deze vis zich niet laat vangen aan de kust. Zonder de walvisjacht zouden de Europese vissers in een smalle strook van de kust zijn gebleven. Het besef van de ruimte op aarde verandert onder druk van de walvisjacht razendsnel. Carl Schmitt beschrijft dit fenomeen als een “ruimterevolutie”. De ruimte waarin men denkt te leven verandert van landmassa naar land- en zeemassa.


Ook de middelen om zich op de zee te begeven veranderen. De galei van de Klassieke wereld worden afgedaan en schepen die de wind opvangen met zeilen doen hun intrede. Men kan veel verder en veel sneller zich op zee begeven. Er wordt een nieuw continent ontdekt en daarmee nieuwe handel, nieuwe regels, nieuwe innovaties. Ongeveer tussen de jaren 1490 en 1600 vinden deze veranderingen plaats. Het besef van de ruimte waarin men denkt te leven verandert en de middeleeuwse ordening der dingen komt definitief ten einde. Hulpeloos rolt de Europese beschaving een nieuw tijdperk binnen.

Het begin is nog wat onhandig. Er gebeurt ook iets geks met Engeland. Vooral Engeland is in de middeleeuwen ook een boerenstaat die zich voornamelijk bezighoudt met schapen, textiel en Frankrijk proberen te veroveren. Het protestantse Engeland draait zijn rug naar het continent Europa en richt zich op de zee. Met zo’n succes zelfs dat het de katholieke landen Spanje en Portugal inhaalt. De heerschappij van de zee is van niemand of iedereen. Maar eigenlijk vooral van één land: Engeland. Dit Germaanse volk beheerst in de negentiende eeuw de zee, de zeehandel en daarmee de wereld. Zozeer zelfs dat Engeland zichzelf niet meer als Europese macht ziet.

We belanden aan in de 20e eeuw en dan vindt een tweede ruimterevolutie plaats. Het oudtestamentische monster, Leviathan, is niet meer zozeer een vis, maar een ijzeren monster in de vorm van een modern slagschip. De overgang van stoomboot naar modern slagschip is niet kleiner dan de overgang van galei naar zeilschip, verklaart Carl Schmitt. Duitsland en enkele andere landen zijn industriële machten geworden en kunnen net zo produceren als Engeland. Hiermee komt de onbetwiste heerschappij over de zee door Engeland ten einde.

Land en Zee is een bijna dichterlijke beschrijving van deze gigantische veranderingen. Het zijn mooie woorden die laten zien hoe het komt dat de Europese beschaving andere volkeren ontdekte en dat het niet die andere volkeren zijn geweest die ons ontdekt hebben.

lundi, 30 juillet 2018

Une “OTAN arabe” - L’instrument de Trump contre l’Iran

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Une “OTAN arabe”

L’instrument de Trump contre l’Iran

A Washington, on sait qu’en cas de guerre avec l’Iran, les Etats-Unis auront le besoin urgent du soutien des pays arabes voisins. Une OTAN arabe serait dès lors bien utile !

Par Marco Maier

Au Proche Orient, on envisage la création d’une nouvelle alliance militaire et politique, que l’on désigne déjà comme une « OTAN arabe », car la comparaison semble licite. Six pays arabes du Golfe, l’Eypte et la Jordanie agiraient ensemble au sein de cette organisation, en tant qu’alliés des Etats-Unis et uniraient leurs efforts contre l’Iran.

Selon certaines informations, la Maison Blanche inciterait ces pays à coopérer plus étroitement dans la défense anti-missiles, dans les manœuvres militaires communes et dans les mesures anti-terroristes et à renforcer leurs relations économiques et diplomatiques dans la région. Il s’agirait surtout de ruiner les efforts de Téhéran qui cherche à étendre son influence dans la région, en tablant notamment sur les pays à dominante chiite, comme, par exemple, l’Irak ou le Yémen.

Officiellement, les Américains appliquent la doctrine du « No Regime Change » en ce qui concerne l’Iran ; cependant, il est de notoriété que la CIA, le Mossad et d’autres services utilisent tous les moyens à leur disposition pour susciter ou envenimer des troubles au sein de la théocratie chiite, afin, dans la mesure du possible, de précipiter le pays dans une guerre civile qui entraînerait, en bout de course, la chute des mollahs. Voilà ce qu’espèrent les services secrets. Et si, finalement, le régime des mollahs ne tombe pas ? Alors, la situation chaotique, qui règnerait suite à toutes ces amorces de conflit civils, ferait en sorte que Téhéran serait forcé à se replier sur son front intérieur et ne pourrait plus œuvrer à s’installer comme puissance régionale qui compte.

En cas d’extrême nécessité, on pourrait aussi fabriquer un prétexte pour autoriser cette OTAN arabe de rentrer en Iran pour obliger les chiites perses, traités d’« adorateurs du diable », à « rentrer dans la droit chemin » (les sunnites radicaux haïssent davantage les chiites que les « mécréants »). Selon la bonne habitude, ce seront alors les Arabes qui feraient le sale boulot, verseraient leur sang en abondance, pour qu’à la fin, les Américains arrivent comme des héros resplendissants, comme des libérateurs.

Ex: https://www.compact-magazin.com

mardi, 24 juillet 2018

Succès de la Route maritime du Nord

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Succès de la Route maritime du Nord

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le 10 juillet le cargo gazier russe brise-glace du type Arc7 Vladimir Roussanov est arrivé au port chinois de Xian de Rudong, avant d'être rejoint dans la nuit par l'Edouard Toll.

Les deux cargos russes transportant du gaz naturel liquéfié (GNL) de Yamal LNG ont quitté le port de Sabetta en Arctique russe les 25 et 27 juin respectivement.

Le voyage jusqu'à la Chine a demandé un peu plus de trois semaines. «C'est une première dans l'histoire de la Route maritime du Nord: des cargos ont franchi l'itinéraire Est en direction du détroit de Béring sans être accompagnés de brise-glaces», a annoncé le producteur de gaz russe Novatek.

Le même itinéraire est suivi actuellement par le cargo français de Total Christophe de Margerie. Son déchargement est prévu pour le 31 juillet au terminal Tangshan LNG au nord-est de la Chine

Yamal LNG 1) est la première usine de Novatek pour la liquéfaction de gaz dans la région arctique de la Russie. Sa capacité est de 17,5 millions de tonnes de GNL par an. Les partenaires de la compagnie russe dans ce projet sont Total (20%) et les compagnies chinoises CNPC (20%) et Silk Road Fund (9,9%). La première chaîne technologique de l'usine (5,5 millions de tonnes) a commencé le déchargement du produit fini le 8 décembre 2017. L'entreprise fonctionnera à plein régime l'an prochain.

yamal.gifL''acheminement de GNL par le détroit de Béring est 1,5 fois plus rapide qu'en contournant l'Europe par la Méditerranée, l'océan Indien, puis le Pacifique (un aller-retour prend 44 jours au lieu de 68). Ce qui représente une économie de 3,2 millions de dollars pour chaque trajet.

La démonstration du fonctionnement de l'itinéraire Est pourrait accroître l'intérêt des partenaires potentiels pour d'autres projets en cours de mise en place, notamment  le projet Arctic LNG 2.

Inutile de souligner que Total, malgré les menaces de rétorsion de Washington, continue à coopérer avec la Russie. Il y trouvera certainement plus d'intérêt qu'en tentant de s'accorder avec les compagnies pétrolières américaines qui ne lui veulent aucun bien.

Sans doute aussi perçoit-il les intérêts géopliques de cette coopération, pour lui-même comme au delà pour l'économie française. En cela il est plus digne d'être qualifié d'entreprise française que toutes celles qui, par peur des « sanctions » américaines, ont renoncé à poursuivre en Russie des projets pourtant déjà bien engagés.

Note

1) Yamal SPG (Yamal LNG) . Voir https://www.total.com/fr/expertise-energies/projets/petro...

lundi, 23 juillet 2018

L’Union Européenne est l’ennemie des Etats-Unis depuis la fin de l’ancienne guerre froide

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L’Union Européenne est l’ennemie des Etats-Unis depuis la fin de l’ancienne guerre froide

Par Tyler Durden

Trump a fait sensation cette semaine en décrivant l’Union Européenne comme une ennemie des Etats-Unis

Cette Remarque du Président américain, “politiquement incorrecte” et impensalbe jusqu’il y a peu a été prononcée après le sommet de l’OTAN, à l’occasion d’un entretien que Trump a donné à CBS News. Les journalistes ont demandé à Trump de décrire « le plus grand ennemi global d’aujourd’hui » : celui-ci a répondu, laissant tout un chacun complètement pantois : « Eh bien, je pense que nous avons un tas d’ennemis. Je pense que l’Union Européenne en est un pour ce qu’elle inflige à notre commerce. Certes, je comprends votre stupéfaction, car vous ne songiez pas à l’Union Européenne, mais, oui, elle est un ennemi ».

Très vite, le Président américain a édulcoré ses propres paroles en disant : « Je respecte les dirigeants de ces pays. Mais, du point de vue commercial, ils ont fini par prendre l’avantage sur nous et bon nombre de ces pays sont dans l’OTAN et ne paient pas leurs factures ». Mais le mal était fait.

Un sondage recent (recent poll ) nous apprend que deux tiers des Allemands pensent que Trump est « plus dangereux » que le Président russe Poutine. Quant au ministre allemand des affaires étrangères, il a déclaré lundi que son pays « ne pouvait plus entièrement faire confiance à la Maison Blanche » (voir : déclaration ).

Les médias « mainstream » décrivent cet incident majeur comme un désastre que l’Amérique s’inflige à elle-même « en rejetant ses liens traditionnels transatlantiques » et en répétant « que Trump a trahi les alliés les plus proches des Etats-Unis ». Cependant la situation est bien plus complexe que ne le veulent ces explications simplistes.

L’idéologie « America First » de Trump est complètement opposée  à l’approche globaliste de l’élite européenne de gauche. Trump, l’homme d’affaires milliardaire, n’accepte pas que les contribuables américains continuent à financer injustement les notes de l’OTAN tandis que les Européens gardent les mains libres grâce à leurs sacrifices. De plus, Trump n’accepte pas le déséquilibre tarifaire existant entre les Etats-Unis et l’Union Européenne ; toutefois, sa réponse est le résultat d’une manipulation des chiffres due à une tactique habile de gestion de la perception (cf. skillful perception management tactics ), tendant à faire croire à « une attaque non provoquée contre le commerce libre et honnête ». La réalité nous oblige à dire qu’il n’y a jamais eu de véritable commerce « libre et honnête » et que ce conflit larvé a toujours existé.

Les Etats-Unis avaient décidé, dès la fin des années 1940, de subsidier “l’utopie socialiste de l’Etat-Providence” dans l’Union Européenne, pour gagner des atouts lors de l’ancienne guerre froide. Cette raison, dorénavant caduque, a pourtant toujours été évoquée et traduite dans la pratique pour  faire triompher des objectifs globalistes favorisant l’unipolarité américaine (cf.  continued for unipolar globalist ends ).

Exactement comme les Russes soviétiques n’ont jamais cessé de redistribuer leurs ressources aux autres républiques de l’URSS puis aux pays européens du bloc de l’Est et aux pays alliés du « Sud soviétique » en Afrique et en Asie. Les Américains éprouvent des sentiments négatifs à l’égard de leurs gouvernements qui, pendant des décennies, ont favorisé les Européens et même les Chinois en leur octroyant des arrangements commerciaux asymétriques.

Aujourd’hui, les implications possibles en matière de sécurité, sur le long terme, qu’a ce transfert continu de richesses des Etats-Unis vers l’Europe, sont les motifs principaux pour lesquels Trump a considéré l’Union Européenne comme un « ennemi » car c’est là une façon simple et claire de définir la concurrence économique et stratégique entre ces deux pôles qui sont des « amis/ennemis » ; certes, cela a surpris considérablement les Européens d’être apostrophés de la sorte par le Président américain lui-même.

Ex: https://www.zero-hedge.com

samedi, 21 juillet 2018

Le chef de la fraction des “Verts” en Allemagne veut de nouvelles alliances asiatiques pour l’Europe !

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Adieu à l’alliance américaine ?

Le chef de la fraction des “Verts” en Allemagne veut de nouvelles alliances asiatiques pour l’Europe !

Robert Habeck, chef de la fraction des Verts estime que l’Europe a besoin de nouveaux partenaires et alliés, surtout en Asie, quitte à ne plus être orientée exclusivement sur le partenariat transatlantique.

Par Marco Maier

Enfin, un gars parmi les Verts qui devient intelligent ! Après avoir quasiment exclu le mouvement pacifiste de ses rangs et surtout depuis le gouvernement Schröder/Fischer, les Verts de la tendance « Realo » et leurs amis ralliés à l’établissement ont donné le ton dans le parti qui, depuis, n’a cessé de vouloir pratiquer une politique férocement antirusse, surtout sous la pression du lobby homosexuel, ce qui a permis aux atlantistes de contrôler la marche des affaires en politique étrangère, induisant une suite ininterrompue de stratégies filandreuses et boiteuses. Aujourd’hui, les choses semblent changer : le chef du parti, Robert Habeck veut que l’Union Européenne se choisisse de nouveaux partenaires et alliés.

“Certes, nous ne pouvons pas abandonner l’espoir que nous plaçons dans une Amérique après Trump, où les relations transatlantiques reprendraient vigueur”, a déclaré Habeck, “mais une chose doit être claire désormais : l’Europe doit forger de nouvelles alliances, surtout en Asie ». L’Europe doit abandonner l’idée qu’il n’y aurait « qu’un seul véritable allié », a insisté Habeck. « En lieu et place du vieux camp (atlantiste), nous devons faire émerger un tissu d’alliance, suffisamment puissant, pour éviter toutes nouvelles guerres ». Ce qui est important, c’est que « l’Europe doit agir à l’unisson », a demandé le chef des Verts, « sinon nous ne jouerons plus aucun rôle (sur la scène internationale), y compris l’Allemagne ».

Le Président des Etats-Unis, a-t-il ajouté, « a un plan : la destruction de l’ordre ancien ». Dans le conflit qui oppose désormais l’Europe aux Etats-Unis, la Chine pourrait devenir l’un de nos partenaires, a dit Habeck, même si la République Populaire n’est nullement un modèle sur le plan des droits de l’homme (ce qui semble important pour les Verts…). Notre commentaire : s’il faut s’unir contre Trump, les droits de l’homme semblent tout d’un coup revêtir une importance bien moindre pour les Verts.

Toutefois, le politicien vert s’oppose contre toute augmentation aveugle du budget militaire allemand, comme l’a réclamé le Président des Etats-Unis et quelques politiciens allemands de la CDU, de la CSU et de la FDP. « Avant de poser la question ‘combien ?’, il faut poser la question du pourquoi et l’expliquer”, selon Habeck.  « Au départ, il faut procéder à une analyse stratégique pour déterminer quelles sont les tâches de la Bundeswehr et celles de ses partenaires européens aujourd’hui ». Et c’est sur la base de cette analyse stratégique qu’il faudra fixer les dépenses et non autrement.

Ex : https://www.contra-magazin.com

lundi, 16 juillet 2018

Manœuvre dilatoire ukrainienne : Porochenko exige l’arrêt de la construction du gazoduc Nord Stream 2

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Manœuvre dilatoire ukrainienne : Porochenko exige l’arrêt de la construction du gazoduc Nord Stream 2

 

Kiev/Bruxelles – On le sait : les Etats-Unis déploient tous leurs efforts pour mettre un terme au projet germano-russe du gazoduc Nord Stream 2. Cette fois, sans que cela n’étonne personne, le gouvernement ukrainien participe à la manœuvre. Il est vrai que l’Ukraine est directement concernée par la construction de ce nouveau gazoduc car, comme d’autres pays de transit qui posent problème, elle sera contournée à l’avenir et perdra une masse d’argent en ne pouvant plus prélever de taxes de transit.

Le Président ukrainien Porochenko a exié l’arrêt pur et simple des travaux de construction du gazoduc de la Baltique. Ses arguments sont les suivants ; il les a énoncés lors du sommet de l’OTAN à Bruxelles : « Nord Stream 2 n’est pas un projet économique et n’est mis en œuvre que pour des motivations politiques ». Ce serait une immixtion de la Russie et, de ce fait, totalement inacceptable. L’Europe occidentale pourrait utiliser les gazoducs passant par l’Ukraine car leurs capacités sont plus élevées que celles de Nord Stream 2. Et Porochenko a ajouté, sans la moindre circonlocution verbale : « Je formule l’espoir, a-t-il déclaré, qu’ensemble nous pourrons tous arrêter la construction de Nord Stream 2 ».

Quelques temps auparavant, le gouvernement américain avait menacé de sanctions toutes les entreprises qui participeraient à la construction de Nord Stream 2. Le président américain Trump n’avait pas hésité à critiquer l’Allemagne lors du sommet de l’OTAN et l’avait traitée de « prisonnière de la Russie » parce que la République Fédérale tirait majoritairement ses besoins énergétiques de sources russes.

Toutefois, ce n’est un secret pour personne que Wahington, en s’attaquant au projet Nord Stream 2, défend bec et ongles ses propres intérêts économiques et poursuit une géostratégie bien établie. Les Etats-Unis veulent vendre en Europe leur propre gaz de schiste et torpiller, pour y parvenir, toute consolidation des relations commerciales germano-russes.

Ex: http://www.zuerst.de

dimanche, 15 juillet 2018

Investissements le long des nouvelles routes de la Soie : l’Allemagne et la Chine signent 22 traités !

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Investissements le long des nouvelles routes de la Soie : l’Allemagne et la Chine signent 22 traités commerciaux !

Berlin – Malgré l’indécrottable obsession occidentaliste et atlantiste des dirigeants politiques de la République fédérale d’Allemagne, les relations économiques inter-eurasiatiques s’intensifient, en marge des querelles sous-jacentes qui troublent les relations transatlantiques. Suite à sa visite lors de la rencontre dite « 16 + 1 », à Sofia, capitale de la Bulgarie, le Président chinois Li Kequiang s’est rendu à Berlin, où il a plaidé pour une imbrication économique plus étroite entre Européens et Chinois. A cette occasion, plusieurs traités économiques germano-chinois ont été signé pour un valeur totale de 20 milliards d’euros.

Le but de ces pourparlers communs était de discuter des mauvaises conditions dans lesquelles évoluait le commerce internationale suite aux dernières sanctions douanières américaines. Tant la Chancelière Merkel que son hôte venu de Chine ont plaidé en faveur d’un commerce libre, libéré de toute entrave. Li a déclaré : « Nous sommes en faveur du commerce libre, du multilatéralisme ».

Beijing, ces derniers jours, a réagi face aux sanctions douanières américaines en imposant des taxes spéciales sur les produits américains importés en Chine.

En marge de ces consultations germano-chinoises, vingt-deux traités gouvernementaux et économiques ont été signés. Le principal de ces traités porte sur la construction d’une usine pour piles cellulaires destinées aux automobiles électriques et qui s’établira à Erfurt en Thuringe. Le producteur chinois CATL veut y investir, dans un premier temps, plusieurs centaines de millions. Le premier gros client pour ces piles est BMW. Le constructeur automobile bavarois veut faire construire des piles à Erfurt et en acheté pour 1,5 milliards d’euros. Merkel a aussitôt déclaré : « C’est un grand jour pour la Thuringe » mais elle a déploré, dans la foulée, que la Chine avait acquis une avance indubitable en ce domaine. "Si nous avions pu les produire par nous-mêmes, je n’aurais pas été triste ".

En Chine, désormais, plus de 5000 entreprises allemandes se sont installées. Le Chine est, depuis deux ans, le principal partenaire commercial de l’Allemagne.

Ex : http://www.zuerst.de

 

samedi, 14 juillet 2018

Projet de loi au Congrès américain : le gazoduc Nord Stream 2 est visé !

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Projet de loi au Congrès américain : le gazoduc Nord Stream 2 est visé !

Washington – Les Etats-Unis ne lâchent pas le morceau : ils ne veulent pas du projet de gazoduc germano-russe Nord Stream 2. Un projet de loi a été introduit au Congrès américain : il concerne les conséquences politiques et économiques qu’aura le projet de gazoduc. Le texte du document en question est paru sur le site officiel du Congrès. On y trouve les exigences du ministre américain des affaires étrangères, du chef des services de renseignement et du ministre des finances : tous veulent des rapports détaillés sur les effets que pourrait avoir l’installation de ce gazoduc dans la Baltique.

Littéralement, on peut lire la phrase suivante dans le texte du projet de loi : « La Fédération de Russie propose de construire un gazoduc partant de Russie pour aboutir en Allemagne ; ce gazoduc portera le nom de Nord Stream 2. Sa construction permettrait de couvrir l’augmentation éventuelle de la consommation d’énergie en Europe mais accroîtrait simultanément la dépendance de l’Europe à l’endroit de l’énergie russe et aurait des effets déstabilisants pour le gouvernement ukrainien si l’Ukraine, suite à la construction de ce gazoduc Nord Stream 2, perdait des dividendes dus au transit de l’énergie ».

Le projet de loi avance d’autres arguments : les Etats-Unis continueront à s’opposer à la réalisation de ce projet en Europe du Nord et prendront des « mesures diplomatiques » pour empêcher la construction du gazoduc.

Si la loi est adoptée, le chef des services de renseignement américain serait alors dans l’obligation de rédiger un rapport sur les effets du gazoduc Nord Stream 2 sur la sécurité énergétique de l’Union Européenne, sur les intérêts des Etats-Unis et de l’Ukraine dans cette affaire.

Le projet de loi a été introduit par le député démocrate Dennis Heck et son collègue républicain Ted Poe. Préalablement, le ministre américain des affaires étrangères Mike Pompeo avait déclaré que les Etats-Unis tenteraient de convaincre l’Union Européenne d’abandonner le projet Nord Stream 2.

Ex : http://www.zuerst.de

 

jeudi, 12 juillet 2018

Sommet de l’OTAN et sommet Trump/Poutine : que faut-il en penser ?

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Sommet de l’OTAN et sommet Trump/Poutine : que faut-il en penser ?

Par Robert Steuckers

Script de l'entretien d'aujourd'hui, 11 juillet 2018, accordé à Channel 5 (Moscou), sous la houlette d'Alexandra Lusnikova

Le sommet de l’OTAN qui se tient aujourd’hui, 11 juillet 2018, et se poursuivra demain à Bruxelles, aura pour point principal à son ordre du jour la volonté affichée par Donald Trump d’obtenir de ses partenaires, plutôt de ses vassaux, européens ce qu’il appelle un « Fair Share », c’est-à-dire une participation financière accrue des petites puissances européennes dans le budget de l’OTAN. Pour Trump, les pays européens consacrent trop d’argent au « welfare » et pas assez à leurs armées. C’est une antienne que l’on entend depuis belle lurette de la part de tous les ténors américains de l’atlantisme. Ceux-ci veulent que tous les pays européens consacrent au moins 2% de leur PNB à la chose militaire. Les Etats-Unis, engagés sur de multiples fronts de belligérance, consacrent 3,58% de leur PIB à leurs dépenses militaires. En Europe, la Grèce (qui craint surtout son voisin turc et doit sécuriser les îles de l’archipel égéen), le Royaume-Uni, la Pologne, l’Estonie et la Roumanie dépassent ces 2% exigés par Trump. La France consacre 1,79% à ses forces armées ; l’Allemagne 1,22%. Evidemment, ces 1,22% du PIB allemand sont largement supérieurs aux 2% consacrés par des pays moins riches. Malgré les 3,58% dépensés par les Etats-Unis,  précisons toutefois que ce budget, certes énorme, est en constante diminution depuis quelques années.

L’exigence américaine se heurte à plusieurs réalités : d’abord, les Etats-Unis ont sans cesse, depuis la création de l’OTAN, empêché les pays européens de développer leurs aviations militaires, en mettant des bâtons dans les roues de Dassault, de Saab, de Fiat, etc. et en interdisant la renaissance des usines aéronautiques allemandes. Si l’Europe avait reçu de son « suzerain » le droit de développer ses propres usines aéronautiques, ses budgets militaires, même réduits en apparence, auraient permis de consolider sérieusement ses armées, tout en créant des emplois de qualité sur le marché du travail ; ensuite, certains chiffres parlent pour eux-mêmes : si l’on additionne les budgets militaires des principales puissances européennes de l’OTAN (Royaume-Uni, France, Allemagne, Italie, Espagne), ceux-ci dépassent de loin le budget de la Russie, posée comme « ennemi majeur ». Le bugdet de l’OTAN, Etats-Unis compris, est donc pharamineux.

Bon nombre de voix estiment que cette problématique de « Fair Share » est le rideau de fumée qui masque le problème réel: celui de la guerre commerciale larvée entre l’Europe et les Etats-Unis. Le but réel de Trump et du « Deep State » américain est de réduire les importations européennes (et chinoises) vers les Etats-Unis. Le but de Trump, louable pour un Président des Etats-Unis, est de remettre l’industrie américaine sur pied, de manière à débarrasser la société américaine des affres qu’a laissées la désindustrialisation du pays. Pour Trump, mais aussi pour ses prédécesseurs, l’UE imposerait des barrières, en dépit de ses crédos néolibéraux, qui empêcheraient les Etats-Unis d’exporter sans freins leurs produits finis en Europe, comme ils le faisaient dans les deux décennies qui ont immédiatement suivi la seconde guerre mondiale. L’UE est un problème pour l’élite financière américaine, tout simplement parce qu’elle est largement (bien qu’incomplètement) autarcique. Trump estime que, dans les relations commerciales bilatérales, les pertes américaines, par manque à gagner, s'élèveraient à 151 milliards de dollars. Le déficit commercial entre l’UE et les Etats-Unis serait actuellement de 91 milliards de dollars, au détriment de Washington.

Autre point à l’agenda : les efforts qui vont devoir, selon l’OTAN, être déployés pour que la Géorgie puisse adhérer le plus rapidement possible à l’Alliance Atlantique. Dans l’ordre du jour du sommet d’aujourd’hui et de demain, ici à Bruxelles, la question géorgienne est évidemment le thème le plus intéressant à analyser. La stratégie habituelle des puissances maritimes, l’Angleterre au 19ième siècle et puis les Etats-Unis qui prennent son relais, est de contrôler les bras de mer ou les mers intérieures qui s’enfoncent le plus profondément à l’intérieur de la masse continentale eurasienne et africaine. L’historien des stratégies navales anglaises depuis le 17ième siècle, l’Amiral américain Mahan, s’intéressait déjà à la maîtrise de la Méditerranée où l’US Navy avait commis sa première intervention contre les pirates de Tripolitaine à la fin du 18ième siècle. Halford John Mackinder retrace aussi, dans ses principaux traités de géopolitique, l’histoire de la maîtrise anglaise de la Méditerranée. Dans le cadre des accords Sykes-Picot et de la Déclaration Balfour, les Anglais protestants, en imaginant être un « peuple biblique », accordent, contre l’avis de leurs compatriotes et contemporains conservateurs, un foyer en Palestine pour les émigrants de confession mosaïque. Le but, que reconnaissait pleinement le penseur sioniste Max Nordau, était de faire de cette entité juive la gardienne surarmée du Canal de Suez au bénéfice de l’Empire britannique et de créer un Etat-tampon entre l’Egypte et l’actuelle Turquie afin que l’Empire ottoman ne se ressoude jamais. Les guerres récentes dans le Golfe Persique participent d’une même stratégie de contrôle des mers intérieures. Aujourd’hui, les événements d’Ukraine et la volonté d’inclure la Géorgie dans le dispositif de l’OTAN, visent à parachever l’œuvre de Sykes et de Balfour en installant, cette fois au fond de la Mer Noire, un Etat, militairement consolidé, à la disposition des thalassocraties. Le fond du Golfe Persique, le fond de la Méditerranée et le fond de la Mer Noire seraient ainsi tous contrôlés au bénéfice de la politique globale atlantiste, contrôle qui serait encore renforcé par quelques nouvelles bases dans la Caspienne. Je pense vraiment que ce point à l’ordre du jour est bien plus important que les débats autour du « Fair Share » et de la balance commerciale déficitaire des Etats-Unis.

Le sommet Trump-Poutine

D’après maints observateurs, le sommet prochain entre Trump et Poutine à Helsinki en Finlande aurait pour objet principal de laisser la Syrie à la Russie, après les succès de l’armée régulière syrienne sur le terrain. Reste à savoir si la Syrie, laissée à Assad, sera une Syrie tronquée ou une Syrie entière, dans ses frontières d’avant l’horrible guerre civile qu’elle a subi depuis 2011. L’objectif des Etats-Unis et d’Israël semble être de vouloir tenir l’Iran, et son satellite le Hizbollah, hors de Syrie. Poutine, apparemment, y consentirai et offre d’ores et déjà une alternative à l’Iran qui, depuis les premiers empires perses de l’antiquité, souhaite obtenir une façade sur la Méditerranée, directement ou indirectement par tribus ou mouvements religieux interposés. Poutine offre à l’Iran la possibilité d’emprunter une voie par la Caspienne (d’où l’intérêt récent des Américains à avoir des bases dans cette mer intérieure et fermée), la Volga, le Canal Volga/Don, le Don (par Rostov), la Mer d’Azov, l’isthme de Crimée et la Mer Noire. L’Iran préfère évidemment la voie directe vers la Méditerranée, celle qui passe par la Syrie et la partie chiite de l’Irak. Mais si l’Iran doit renoncer à son fer de lance qu’est le Hizbollah, les Etats-Unis devraient renoncer, en toute réciprocité, à soutenir des mouvements protestataires, souvent farfelus, en Iran.

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Deuxième condition, pour que l’éviction hors de Syrie de l’Iran soit crédible, il faudrait aussi expurger définitivement la Syrie de toutes les séquelles du djihadisme salafiste ou wahhabite. Or, on observe, ces derniers mois, que ces forces djihadistes sont alimentés voire instruites au départ de la base américaine d’al-Tanf sur la frontière syro-irakienne. Question à l’ordre du jour : les Etats-Unis vont-ils quitter cette base terrestre entre la Méditerranée et le Golfe Persique ou y rester, en tolérant des poches de résistance djihadiste qu’ils alimenteront au gré de leurs intérêts ?

L’objectif des Russes, dans le cadre syrien, est de sauver la viabilité économique du pays, de rouvrir les grands axes de communication et de soustraire définitivement ceux-ci à toute forme de guerre de basse intensité (low intensity warfare), à toute stratégie lawrencienne modernisée. Pour y parvenir, Poutine et Lavrov suggèreront sans nul doute le rétablissement d’une Syrie souveraine dans ses frontières de 2011, ce qui implique de purger le pays de toutes les formes de djihadisme, portées par les « Frères Musulmans » ou par Daesh et de prier la Turquie d’évacuer les zones qu’elle occupe au Nord du pays, le long de sa frontière. Le Hizbollah, lui, a toujours promis d’évacuer les territoires syriens où il est présent, dès que les forces djihadistes sunnito-wahhabites en auront été éliminées.

Force est de constater que le projet russe correspond certes aux intérêts traditionnels de la Russie, tsariste, soviétique ou poutinienne, mais aussi aux intérêts des puissances ouest-européennes comme la France et l’Italie et même à une puissance germano-centrée ou austro-centrée qui aurait retrouvé sa pleine souveraineté dans le centre de la presqu’île européenne.

Le volet géorgien du sommet de l’OTAN et les futurs échanges sur la Syrie et la présence iranienne en Syrie, entre Trump et Poutine, me paraissent les enjeux les plus intéressants de l’actualité qui se fait et se fera, aujourd’hui et demain, ici à Bruxelles.

Robert Steuckers, Bruxelles, 11 juillet 2018.

mercredi, 11 juillet 2018

Brzezinski, le Zbig boss du grand échiquier

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Brzezinski, le Zbig boss du grand échiquier

par Edouard Rix

Zbigniew Brzeziński, dont l’économiste James K. Galbraith disait que « son passe-temps est de nuire à la Russie », s’est éteint le 26 mai dernier à l’âge de 89 ans. Moins connu du grand public que son alter ego républicain Henry Kissinger, peut-être à cause de son nom imprononçable (on le surnomme Zbig à Washington), son influence a été tout aussi forte.

Zbigniew Brzeziński est né à Varsovie le 28 mars 1928, au sein d’une famille noble et catholique. Fils d’un diplomate au service de la jeune République de Pologne, il émigre au Canada à l’âge de dix ans lorsque son père y est muté. Le partage de la Pologne entre l’Allemagne et l’URSS empêche la famille de rentrer au pays. Massacre de Katyn, soviétisation de la Pologne, Rideau de Fer, autant d’événements tragiques qui façonnent sa future vision géopolitique, viscéralement anticommuniste et antirusse. « Son objectif, fixé dès sa jeunesse, était de détruire l’Empire soviétique, faire cesser sa mainmise sur l’Europe de l’Est et faire imploser l’URSS elle-même », écrit l’historien français Julien Vaïsse[1].

Diplômé de l’université McGill de Montréal, il poursuit ses études à Harvard, où il soutient en 1953 une thèse de doctorat sur Le totalitarisme soviétique et les purges. Il y reste pour y enseigner de 1953 à 1960, puis rejoint l’université de Columbia où il sera professeur de 1960 à 1989. Membre entre 1966 et 1968 du Conseil de planification politique du Département d’État lors de la campagne présidentielle de 1968, il appartient à l’équipe du candidat démocrate qui sera battu par Nixon.

De la Trilatérale à la Maison Blanche

En 1970, dans Between Two Ages[2], il expose sa vision d’un nouvel ordre politique mondial s’appuyant sur un lien économique trilatéral entre le Japon, l’Europe et les USA. Enthousiasmé, le millionnaire David Rockefeller le recrute alors pour créer la très mondialiste Commission Trilatérale qui regroupe les décideurs économiques et politiques nord-américains, européens et japonais. Brzeziński en sera le directeur de 1973 à 1976.

Un proche de la Commission, Jimmy Carter, est élu à la Maison Blanche, et Zbig devient directeur du Conseil national de sécurité de 1977 à 1981. Bien que démocrate, il défend des positions conservatrices et anticommunistes. Très critique envers la politique de « coexistence pacifique » suivie par Nixon et Ford qu’il dénonce comme « coexistence passive », il pense que l’URSS profite de la détente pour progresser dans le Tiers monde, et contre le secrétaire d’État Cyrus Vance prône la fermeté.

C’est ainsi qu’il est l’un des promoteurs de l’Opération Cyclone, visant à soutenir les moudjahidin afghans dès juillet 1979 et enliser l’armée russe dans un conflit périphérique. Dans un entretien accordé au Nouvel Observateur, il précisera : « Selon la version officielle de l’histoire, l’aide de la CIA aux moudjahidines a débuté courant 1980, c’est-à-dire après que l’armée soviétique eut envahi l’Afghanistan le 24 décembre 1979. Mais la réalité, gardée secrète jusqu’à présent, est tout autre : c’est en effet le 3 juillet 1979 que le président Carter a signé la première directive sur l’assistance clandestine aux opposants du régime prosoviétique de Kaboul. Et ce jour-là j’ai écrit une note au président dans laquelle je lui expliquais qu’à mon avis cette aide allait entraîner une intervention militaire des Soviétiques. » Il poursuit : « Cette opération secrète était une excellente idée. Elle a eu pour effet d’attirer les Russes dans le piège afghan []. Le jour où les Soviétiques ont officiellement franchi la frontière, j’ai écrit au président Carter, en substance : “Nous avons maintenant l’occasion de donner à l’URSS sa guerre du Vietnam“. » À ceux qui lui reprochent d’avoir favorisé le terrorisme islamiste, il répond cyniquement : « Qu’est-ce qui est le plus important au regard de l’histoire du monde ? Les talibans ou la chute de l’empire soviétique ? Quelques excités islamistes ou la libération de l’Europe centrale et la fin de la Guerre froide ? [3] »

Il poursuit la normalisation des relations sino-américaines amorcée par Kissinger. Soutien indéfectible du régime du Shah, il sera l’un des promoteurs, en avril 1980, de l’opération commando Eagle Claw visant à libérer les otages américains de Téhéran.

ZBZ-Gech.jpgLe grand échiquier

Il rompt avec les Démocrates en 1988 en soutenant la candidature du républicain George Bush, dont il est l’un des conseillers à la sécurité nationale durant la campagne. L’année suivante, il publie The Grand Failure[4] (« Le grand échec »), ouvrage dans lequel il prédit l’échec de la politique de glasnost et perestroïka de Gorbatchev et l’effondrement final de l’URSS… d’ici quelques décennies. En 1990, il critique les thèses de Fukuyama sur la « fin de l’Histoire » et s’oppose à la guerre du Golfe. Au cours des années 1990, on le retrouve émissaire spécial du président des USA pour la promotion du plus grand projet d’infrastructure pétrolière au monde, l’oléoduc Bakou-Tbilissi-Ceyhan, destiné à contourner la Russie.

En 1997 sort son magnum opus, The Grand Chessbord[5] (« Le grand échiquier »), « l’analyse politique et stratégique la plus rigoureuse du nouvel ordre mondial dominé par les États-Unis et des voies et moyens pour que perdure cette suprématie »[6] selon le géostratège Gérard Chaliand. Conformément à l’enseignement des géopoliticiens anglo-saxons, Brzeziński tient le continent eurasiatique, qui regroupe 75% de la population mondiale, une grande partie des ressources naturelles et les deux tiers de la production mondiale, pour le pivot du monde. « L’Eurasie reste l’échiquier sur lequel se déroule la lutte pour la primauté mondiale », écrit-il, car « se situant au centre du monde, quiconque contrôle ce continent, contrôle la planète[7] ». Pour que la suprématie américaine perdure, il faut empêcher qu’un État n’y devienne hégémonique.

Zbig entend profiter du recul de la Russie pour passer de l’endiguement de la guerre froide au refoulement (roll back). C’est ainsi qu’il souhaite que les USA s’emploient à détacher de l’orbite russe ce que Moscou appelle « l’étranger proche », c’est-à-dire les États qui constituaient l’URSS autour de la Fédération de Russie. Selon lui, l’effort américain doit porter prioritairement vers l’Ukraine, l’Azerbaïdjan, riche en hydrocarbures et l’Asie centrale musulmane – pour lui la clef pour contrôler l’Eurasie est l’Asie centrale, et la clef pour contrôler l’Asie centrale est l’Ouzbékistan -. Il insiste sur l’importance géopolitique de l’Ukraine : « « L’indépendance de l’Ukraine modifie la nature même de l’État russe. De ce seul fait, cette nouvelle case importante sur l’échiquier eurasien devient un pivot géopolitique. Sans l’Ukraine, la Russie cesse d’être un empire en Eurasie. Et quand bien même elle s’efforcerait de recouvrer un tel statut, le centre de gravité en serait alors déplacé, et cet empire pour l’essentiel asiatique serait voué à la faiblesse[8] ». Il estime aussi que la Russie doit être évincée de la zone qu’il appelle les « Balkans d’Eurasie », à savoir la Turquie, le Caucase, l’Iran, l’Afghanistan et l’Asie centrale. Son objectif final : que les USA dominent l’espace de l’ancienne route de la soie (Silk road), une route non plus caravanière mais pétrolière et gazière parsemée d’oléoducs et de gazoducs, en reliant l’Europe à la Chine par une chaîne de petits États vassaux de l’Amérique.

Il s’oppose à la première guerre de Tchétchénie et préside dès 1999 le Comité américain pour la paix en Tchétchénie, qui apporte un soutien occulte aux indépendantistes. Il s’agit, comme jadis en Afghanistan, d’entretenir une guerre périphérique qui affaiblisse la Russie et l’éloigne des richesses de la Caspienne. Après l’arrivée de Poutine au pouvoir, il prône l’extension de l’OTAN aux États post-soviétiques, idée qui se concrétisera en 2002 avec l’intégration des trois républiques baltes à l’Organisation.

Renouant avec les démocrates, Zbig est nommé conseiller aux affaires étrangères par Obama lors de sa campagne présidentielle, ce qui provoque l’ire des néoconservateurs, qui lui reprochent d’avoir soutenu les auteurs du livre Le lobby pro-israélien et la politique étrangère américaine.

Dans son dernier ouvrage, paru en 2012, Strategic vision[9], il prend acte du recul des USA et de l’avènement d’un monde multipolaire, et abandonne temporairement son hostilité à la Russie. Toutefois, lorsqu’éclate en 2014 la crise ukrainienne, repris par son tropisme antirusse, il pousse à l’affrontement dans un article intitulé « Qu’est-ce qui doit être fait ? L’agression de Poutine en Ukraine nécessite une réponse » : « L’Occident doit reconnaître rapidement le gouvernement actuel de l’Ukraine comme légitime [...]. L’Occident doit affirmer que l’armée ukrainienne peut compter sur l’aide occidentale immédiate et directe afin de renforcer ses capacités de défense[10] ». Encore et toujours nuire à la Russie !

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, automne 2017, n°57, pp. 12-14.

Notes:

[1] J. Vaïsse, Zbigniew Brzeziński, le stratège de l’Empire, Odile Jacob, 2016.

[2] Between Two Ages : America’s Role in the Technetronic Era, Viking Press, New York, 1970.

[3] Le Nouvel Observateur, 15 au 21 janvier 1998, n° 1732, p. 76.

[4] The Grand Failure : The Birth and Death of Communism in the Twentieth Century, Charles Scribner’s Sons, New York, 1989.

[5] Le grand échiquier : L’Amérique et le reste du monde, Bayard, coll. « Actualité », 1997.

[6] Ibid, p. 21.

[7] Ibid, p. 24.

[8] Ibid, p. 74.

[9] Strategic Vision : America and the Crisis of Global Power, Basic Books, New York, 2012.

[10] Washington Post, 3 mars 2014.

samedi, 07 juillet 2018

Le pétrole roumain pendant la seconde guerre mondiale

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Le pétrole roumain pendant la seconde guerre mondiale

Par Erich Körner-Lakatos

Ploesti (Ploiesti) se trouve dans la plaine de Valachie sur le flanc sud des Carpates, à soixante kilomètres au nord et à vol d’oiseau de la capitale roumaine Bucarest. En 1810, la localité ne compte que 2024 habitants. En 1859, elle en compte déjà 26.468 et en 1912, 56.460. La raison de cette croissance démographique rapide est due à la découverte de pétrole, hydrocarbure qui doit son nom à petroleum, c’est-à-dire « huile de roche », du grec ancien pétra (pierre, roche) et du latin oleum (huile).

Au cours du deuxième tiers du 19ème siècle, l’exploitation du gisement de pétrole commence aux alentours de la petite ville. Comme dans toutes les zones où l’on a commencé à exploiter du pétrole à cette époque, les nappes sont quasiment à fleur de terre dans cette région au sud des Carpates. Grâce à la collaboration d’entreprises américaines, on construisit en décembre 1856, à Rifov près de Ploesti, la première raffinerie valaque, la troisième au monde en ce temps-là. La première destination de cette raffinerie était de procurer du pétrole pour l’éclairage des rues. Pourquoi parlait-on à l’époque de « pétrole valaque » ? Parce que nous étions encore aux temps de la Principauté de Valachie puisque la Roumanie ne naîtra qu’en 1862 par le fusion des principautés de Moldavie et de Valachie. C’est la Valachie qui dominera dans cette union.

Oil eruption at begining of oil industry-Romania.JPGDès 1857, la Valachie parvient à stabiliser une production de pétrole de 250 tonnes. C’est évidemment très modeste. En comparaison, la Russie produit 1863 t et, juste derrière elle, les Etats-Unis en produisent 1859. La même année, Bucarest devient la première ville au monde à avoir un éclairage public grâce à des lanternes au pétrole. L’inventeur de la lampe à pétrole est, dit-on, le pharmacien Ignaz Lukasiewicz, natif de Polanka en Galicie occidentale. Ce maître en sciences pharmaceutiques construisit en 1850 un récipient de cuivre, dans lequel il épure et distille le pétrole brut et l’amène à la combustion.  

La production augmente rapidement à Ploesti : on passe ainsi de 3000 t en 1862 à 15.900 t en 1882. A partir de 1890, les Roumains font usage de procédés de forage par machines, ce qui accroît encore davantage la production : en 1900, celle-ci atteint 250.000 t. Mais il faudra encore attendre quelques années pour que la Roumanie atteigne une place importante parmi les pays producteurs de pétrole.

Peu le savent encore mais l’Empire austro-hongrois, en 1909, produit 5,02% du pétrole mondial avec les gisements qu’il exploite en Galicie. Il est ainsi le troisième producteur de pétrole au monde, après les Etats-Unis (le Texas), avec 61,2% et la Russie avec 22,2%. L’Empire des Tsars le doit surtout aux gisements de Bakou. En 1904, l’exploitation du pétrole galicien atteint 827.100 t et en 1910, avec 2841 sites de forage, elle passe à 2,1 millions de tonnes. A l’échelle mondiale, à l’époque, la production totale de pétrole est de 43,2 millions de tonnes. Plus tard, on a décidé de juguler cette production, tant et si bien que l’Empire austro-hongrois passe à la sixième place mondiale, avec 2,1% de la production globale. Il est alors dépassé par la Roumanie.

Au début de la première guerre mondiale, la Roumanie est le principal fournisseur de pétrole de l’Empire allemand. Mais en 1916, quand la Roumanie entre en guerre avec l’Empire austro-hongrois, elle perd rapidement l’initiative de la belligérance et, au bout de quelques mois, les troupes des Centraux chassent les armées de Bucarest du nord du pays et les gisements de pétrole sont occupés par les Allemands.

Des équipes de saboteurs britanniques avaient, avant la retraite des armées roumaines, détruit les installations : 1677 puits sont inaccessibles, dont 1047 avaient auparavant été exploités. 827.000 t de pétrole partent en flammes. Les Allemands mettront des mois à remettre les puits et les tours de forage en état de fonctionner. Lors de la signature du Traité de Bucarest le 7 mai 1918, la Roumanie est contrainte de céder aux empires centraux des droits d’exploitation. Six mois plus tard cependant, les Roumains appartiennent au camp des vainqueurs. Elle peut à nouveau disposer de ses gisements pétroliers.

En 1924, on passe à l’exploitation en profondeur, avec des puits allant jusqu’à 141 m sous le sol. L’objectif est de tripler la production. Trois ans plus tard, il y a 1566 puits de pétrole exploités en Roumanie, dont 1014 dans la région de Ploesti. En 1936, la production atteint 8,8 millions de tonnes, son plus haut niveau pendant l’entre-deux-guerres. Une grosse partie de cette production est destinée à l’Allemagne. Pour le plan quadriennal de 1936, la Wehrmacht et l’Office allemand de la croissance économique établissent des rapports où ils posent comme principe que les champs pétrolifères roumains constituent des objectifs de guerre pour le Reich. Ploesti sera en effet la principale source de pétrole du Reich pendant la seconde guerre mondiale. En mai 1940, le pacte germano-roumain dit « Armes contre pétrole » est signé : Berlin importera du pétrole roumain et, en compensation, les Roumains obtiendront des armes. L’industrie pétrolière de Ploesti se développe rapidement dans le cadre de l’industrie de guerre, supervisée par les Allemands qui utilisent évidemment ce pétrole pour leurs forces armées. En 1940, 1,4 million de tonnes de pétrole roumain part vers l’Allemagne ; en 1941, 3 millions de tonnes. Près de 18.500 personnes travaillent dans l’industrie pétrolière qui utilise principalement la langue allemande.

Il convient dès lors de changer les titres de propriété de ces gisements : l’exploitation du pétrole roumain à Ploesti était, jusqu’alors, sous le contrôle de la Standard Oil américaine. Au printemps de l’année 1941, Berlin et Bucarest arrivent à un accord pour affirmer que, désormais, c’est l’Etat allemand qui exploitera directement les gisements. Pour obtenir ce droit d’exploitation, les Allemands dédommagent la Standard Oil et lui versent 11 millions de dollars américains. Quelques temps auparavant, les actionnaires belges et français, plus ou moins mis sous pression, sont amenés à vendre leurs parts à des prix en-dessous de ceux du marché.

Hitler s’est exprimé à propos du pétrole roumain, lors de sa visite à son allié finlandais, à l’occasion du 75ième anniversaire du Maréchal Carl Gustav Mannerheim, le 4 juin 1942 : « Si les Russes avaient occupé la Roumanie à l’automne 1940 et s’étaient emparé des puits de pétrole roumains, nous aurions été totalement sans ressources en 1941. (…) Nous avons une production allemande importante mais rien que ce qu’ingurgite la Luftwaffe et les divisions blindées est énorme. Il s’agit d’une consommation qui dépasse l’imagination. (…) Sans une production d’au moins quatre à cinq millions de tonnes de pétrole roumain, nous ne pourrions mener la guerre et nous aurions dû abandonner la lutte ».

La protection des ressources de pétrole roumaines à jouer un rôle de premier plan pendant la seconde guerre mondiale. Du point de vue allemand, la présence britannique en Grèce menace ces champs pétrolifères car ils sont ipso facto dans le rayon d’action des bombardiers britanniques. La Crète, surtout, constitue une base britannique qui permet le contrôle complet de l’Egée et de bombarder les installations pétrolières de Roumanie. C’est la raison pour laquelle les Allemands décident d’envahir les Balkans en 1941, de prendre le contrôle de la Grèce et de lancer une opération de parachutistes en Crète.

D’après les souvenirs du Général Heinz Guderian, Hitler a évoqué le 23 août 1941  -lors de discussions menées au Quartier Général du Wolfsschanze en Prusse orientale, sur la décision de commencer la bataille de Kiev-  l’importance de la Crimée, véritable porte-avions soviétique à partir duquel Staline pouvait s’attaquer aux champs pétrolifères roumains et les détruire. C’est à cette occasion que Hitler aurait prononcé cette parole : « Mes généraux ne comprennent rien à l’économie de guerre ».

Ploesti subit des attaques aériennes entre le 13 juillet 1941 et le 19 août 1944. Ces attaques avaient pour but de détruire les onze raffineries de pétrole et de ralentir ou arrêter la production de carburants, matière première vitale pour les Allemands.

Les premières attaques aériennes des 13 et 14 juillet 1941 sont perpétrées par six bombardiers soviétiques, volant à 2000 m d’altitude. Ils endommagent sérieusement l’une des raffineries, incendient douze wagons citernes. Suite à cette attaque, le chef de l’Etat roumain, Ion Antonescu, détache des chasseurs roumains du front de l’Est et les affecte à la protection des installations pétrolières.

Treize bombardiers américains de type B-24 Liberator décollent le 12 juin 1942 d’un champ d’aviation britannique en Egypte pour mettre le cap sur la Roumanie. D’une altitude de 4000 m, ils lâchent leurs bombes sur la zone des raffineries. Les Allemands et les Roumains reconnaissent le danger qui menace Ploesti depuis les airs. Ils ne cesseront plus de renforcer la défense aérienne autour de la ville.

ploesti.jpgL’opération « Tidal Wave » du dimanche 1 août 1943 s’est avérée un fiasco complet pour les 178 bombardiers américains de la 9ième Flotte aérienne, partis de Benghazi en Libye. Une partie des escadres s’égare en direction de Bucarest. Les appareils sont repérés très rapidement, si bien qu’ils perdent l’effet de surprise sur lequel ils comptaient.

Une bataille aérienne, brève mais acharnée, s’ensuivit. Les 69 chasseurs allemands sont engagés dans la bataille : ils descendent 54 bombardiers. Quelques-uns de ceux-ci atterrissent en Turquie neutre. Cinq d’entre eux, sur le chemin du retour, sont abattus par les chasseurs Messerschmidt Be109 des forces aériennes bulgares. Seuls 88 appareils parviennent à retourner à Benghazi, dont les deux tiers sont sévèrement endommagés. Pour les Américains, ce seront les pertes les plus sévères lors d’une attaque aérienne. Les dégâts provoqués par les bombes sont réparés dès le 18 août, date où la production atteint à nouveau 80% du niveau d’avant l’attaque.

Il faudra attendre avril 1944 pour que les Américains osent une nouvelle offensive, cette fois au départ de Foggia en Italie. Elle ne réussit que partiellement car, en juillet 1944, malgré les attaques répétées, la production atteint toujours 70% de ses capacités. Le mois suivant, la Roumanie abandonne son alliance avec l’Allemagne. Le 24 août 1944, les troupes soviétiques s’emparent des installations pétrolières. Le pétrole roumain cesse définitivement d’être un atout pour l’économie de guerre allemande.

Erich Körner-Lakatos

Article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°16/2018 ; http://www.zurzeit.at .

jeudi, 05 juillet 2018

Nouvelles Routes de la Soie : Russes et Chinois construisent la voie maritime arctique vers l’Europe

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Nouvelles Routes de la Soie : Russes et Chinois construisent la voie maritime arctique vers l’Europe

Moscou/Beijing : On le sait : les tensions s’accumulent entre la Chine, qui gagne en puissance, et ses concurrents américains, étrangers à l’espace asiatique. Ces tensions sont particulièrement fortes dans la Mer de Chine du Sud. Chinois et Américains s’y livrent une bataille propagandiste toujours plus virulente.

Mais le site de la confrontation sino-américaine le plus important pourrait être demain le gigantesque littoral au Nord de la masse continentale eurasienne. En effet, les Chinois et les Russes travaillent à créer en cette zone une nouvelle voie conduisant de l’Asie extrême-orientale vers l’Europe, un tracé complémentaire aux fameuses « Routes de la Soie » que la Chine entend promouvoir, à grand renforts d’investissements depuis quelques années. La voie arctique serait la route commerciale la plus rapide et la plus sûre entre l’Extrême-Orient et l’Extrême-Occident européen. Comparons ce tracé avec la route maritime principale actuelle entre la Chine et l’Europe, qui passe par le Détroit de Malacca et le Canal de Suez et prend 35 jours : la route arctique, elle, serait plus courte de 6500 km, ferait gagner énormément de temps, au moins deux semaines.

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De surcroît, la voie maritime arctique aurait l’avantage de permettre l’exploitation des énormes réserves de matières premières de la plate-forme continentale face aux côtes russes. Il y a quelques semaines, la Russie a envoyé l’Akademik Lomonossov, la première centrale nucléaire flottante, dans l’Arctique, au départ de Mourmansk avec, pour destination, la presqu’île des Tchouktches, où elle jettera l’ancre dans le port de Pewel. A partir de ces installations portuaires, la station énergétique flottante pourra fournir de l’énergie à ces régions éloignées de tout et à des plates-formes pétrolières.

L’Arctique est très riche en énergies fossiles. Les scientifiques américains estiment qu’un cinquième des réserves de pétrole du monde s’y trouve, de même qu’un quart des ressources en gaz naturel. Il y a là-bas, en plus, d’énormes réserves d’or, d’argent et de terres rares.

Récemment, le Président russe Vladimir Poutine a accompagné une délégation chinoise lors d’une visite à un chantier de gaz de schiste sur la presqu’île sibérienne de Iamal, où les Chinois sont partie prenante. Poutine a exhorté ses hôtes : « La Route de la Soie est arrivée dans le Grand Nord. Raccordons-là à la voie maritime arctique et, alors, nous aurons ce dont nous avons besoin ».

La Chine, entre-temps, vient de publier un livre blanc sur l’exploitation future de l’Arctique, où l’on peut lire que Beijing souhaite, « avec le concours d’autres Etats » (mais il est évident qu’il s’agit surtout de la Russie), ouvrir des voies maritimes dans la région arctique et de créer ainsi une « Route de la Soie polaire ».

Il va de soi que les activités arctiques des deux grandes puissances eurasiennes suscitent l’hostilité de Washington. L’ancienne vice-ministre des affaires étrangères américaine, Paula Dobriansky, a demandé avec insistance à l’OTAN de renforcer ses positions dans l’Arctique. Les Etats-Unis, conseille-t-elle vivement, devraient mettre sur pied une infrastructure militaire dans la Grand Nord, comprenant un quartier général. Car les Etats-Unis doivent montrer qui est le « véritable chef d’orchestre dans l’OTAN et dans le reste du monde ». Les Etats-Unis ne doivent plier devant rien ni personne et doivent imposer leur domination économique et politique contre tous. Une nouvelle zone de turbulences et de conflits vient de voir le jour.

Ex : http://www.zuerst.de

 

dimanche, 01 juillet 2018

Gazoduc contesté : Washington s’insurge encore et toujours contre le projet « Nord Stream 2 »

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Gazoduc contesté : Washington s’insurge encore et toujours contre le projet « Nord Stream 2 »

Washington. Le gouvernement américain cherche encore à torpiller le projet germano-russe de gazoduc « Nord Stream 2 » qui traverse la Mer Baltique. Il ne fait pas mystère de ses tentatives d’immixtion.

Devant le Sénat des Etats-Unis, Pompeo, le ministre américain des affaires étrangères, a déclaré sans circonlocutions verbales : « Nous travaillons activement (…) à convaincre les pays européens et les entreprises européennes que toute augmentation de la dépendance énergétique vis-à-vis de la Russie est en contradiction avec nos projets de contrer les initiatives russes ». Dans le cas où la construction du gazoduc « Nord Stream 2 » serait décidée, la Russie, a ajouté Pompeo, « aurait encore davantage de possibilité d’exercer son influence sur tous les pays européens ».

Le projet « Nord Stream 2 » prévoit un double tracé avec une capacité annuelle de 55 milliards de m3. Ce nouveau gazoduc devrait être opérationnel en 2019. Plusieurs pays s’opposent au projet, avec l’appui énergique de Washington. Parmi ces pays, il y a l’Ukraine, qui craint de voir disparaître ses revenus dus au transit du gaz russe, alors qu’elle a toujours utilisé dans le passé sa position de pays-transit comme moyen de chantage. Les Etats-Unis, de leur côté, caressent des projets ambitieux pour exporter du gaz de schiste vers l’Europe et cherchent à éliminer leurs concurrents russes. Pour des motifs russophobes, la Lettonie, la Lituanie et la Pologne s’opposent aussi au projet germano-russe.

Source : http://www.zuerst.de

lundi, 25 juin 2018

Géopolitique de la Belgique, géopolitique en Belgique

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Géopolitique de la Belgique, géopolitique en Belgique

Par Robert Steuckers

Depuis de nombreuses années, j’ai consacré articles et causeries à la géopolitique, le plus souvent celle des points chauds de la planète, puisque ce sont évidemment ces thèmes-là qui intéressent le public, friand de découvrir des explications aux événements dramatiques qui animent la scène internationale.

En marge de ces conférences, dans des conversations privées avec des collègues ou des amis qui ne souhaitent pas fréquenter des cercles métapolitiques ou politisés, une question revient très souvent : qu’en est-il de la géopolitique en Belgique ? Qu’en est-il d’une pensée et d’une stratégie géopolitiques proprement belges, du moins si l’extrême petitesse du territoire permet d’en élaborer une sans susciter des sourires de commisération ?

David_Criekemans.jpgLe travail du Prof. David Criekemans

Pendant longtemps, le thème d'une géopolitique proprement belge n’intéressait personne. Cette discipline, mixte de sciences concrètes comme la géologie, l’hydrographie ou l’économie politique et de spéculations stratégiques, a été la grande absente de l’espace universitaire et des débats (où l’on répétait stupidement les axiomes d’une géopolitique américaine, britannique ou française, dans tous les cas « occidentale »). Si les Français ont pu bénéficier d’ouvrages généraux majeurs et incontournables comme ceux d’Yves Lacoste, d’Ayméric Chauprade ou de Pascal Gauchon, les Belges, soit la population vivant sur le dernier lambeau de la Lotharingie historique non conquis par les héritiers de la Francie occidentale de Charles le Chauve, n’avaient pas un ouvrage majeur de référence à leur disposition. C’est chose faite, cependant, depuis la parution de l’énorme pavé dû à la plume du Professeur David Criekemans, intitulé Geopolitiek – « geografisch geweten » van de buitenlandse politiek ?, composé de trois parties :

  • Une étude scientifique du rapport territorialité/politique ;
  • Une généalogie critique de la « géopolitique » (avec notes sur Hérodote, Thucydide, Aristote, Strabon, Bodin, Montesquieu, von Humboldt, Toynbee, Ratzel, Mahan, Mackinder, Kjellen, Haushofer, Vidal de la Blache, Demangeon, Spykman, Mead Earle, Strausz-Hupé, Morgenthau, etc.) ;
  • Une approche géopolitique dans l’étude des relations internationales ;

A ces trois parties s’ajoutent deux longues annexes :

  • Sur les conceptualisations possibles du néologisme « géopolitique » ;
  • Sur un survol général des centres d’études scientifiques autour du concept de géopolitique dans le monde (aux Etats-Unis, en France avec un passage en revue de toutes les universités qui offrent des modules géopolitiques à leurs étudiants, aux Pays-Bas, en Italie, en Allemagne, en Scandinavie, en Amérique latine, en Israël, en Russie et dans les pays asiatiques, etc.).

Le travail de Criekemans est gigantesque, est source d’informations incontournables, d’autant plus que ce professeur flamand maîtrise à coup sûr les six langues acceptées par l’Académie Royale de Belgique, soit le français, le néerlandais, l’allemand, l’anglais, l’italien et l’espagnol, modèle d’ouverture que j’ai essayé de concrétiser au sein de l’association « Synergies européennes » que j’animais avec Gilbert Sincyr et Robert Keil, tous deux décédés en 2014.

RC-polext.gifTropisme anglo-saxon et spaakisme atlantiste

Depuis la seconde guerre mondiale, la Belgique officielle, réceptacle d’ignorance et d’opportunisme, est entièrement alignée sur le monde anglo-saxon. A Londres, contre l’avis du roi Léopold III, le gouvernement en exil Spaak/Pierlot envisage même l’annexion déguisée de la Belgique et du Congo à la couronne britannique ou, au moins, songe à une inféodation quasi complète qui ne garderait que les formes les plus superficielles de l’indépendance. Rien de cela n’arrivera mais l’adhésion précoce à l’OTAN, dont Spaak fut le premier secrétaire général, introduira le « suivisme » atlantiste dans la pratique des relations internationales. Ce suivisme sera contesté, en surface, par l’idée d’« Europe totale », lancée dans les années 1960 par le ministre Pierre Harmel. Le Professeur Rik Coolsaet, de l’université de Gand, dressera, il y a plus d’une vingtaine d’années, un bilan de toutes les tentatives de sortir de l’étau otanesque et « spaakiste ». En fait, seules les marges politiques, sans espoir d’asseoir ne fût-ce qu’une minorité parlementaire, ont élaboré des esquisses de politique étrangère intéressantes parce que non alignées sur les Etats-Unis : c’est pourquoi l’étude de leurs projets ou de leurs espoirs est plus intéressante à parfaire aujourd’hui, à l’heure où le leadership américain est contesté, au vu des désastres que le bellicisme atlantiste a provoqué en Afghanistan, en Irak, en Syrie, en Ukraine et dans les Balkans.

harmel.JPGCependant, le projet d’« Europe totale » du catholique Pierre Harmel, admiré par le socialiste alternatif Coolsaet, n’est possible que si tous les pays européens, à l’unisson, décidait, en un espace-temps très court, de suivre le même ordre du jour. Dans le contexte actuel, c’est évidemment impossible, l’idéal d’un Axe Paris-Berlin-Moscou, explicité en son temps par Henri de Grossouvre, n’ayant été qu’éphémère. Les dirigeants post-gaulliens que sont Sarközy, Hollande et Macron ne peuvent imaginer enclencher une audace innovante qui adhèrerait spontanément et très rapidement à l’idée harmélienne d’« Europe totale » (et à celle, tout aussi totale, d’un Jean Thiriart…). Cette absence de réalisme politique, métapolitique et géopolitique interdit de sortir de ce qu’il faut bien appeler une impasse, à l’heure où Washington appelle à une guerre contre la Russie de Poutine, à refouler toute présence chinoise en Mer de Chine du Sud et à un boycott général contre l’Iran, excellent client des industries européennes. Une impasse où nous ne pourrons connaître rien d’autre que le marasme et le déclin.

Venons-en maintenant à la géopolitique de la Belgique.

Avant-guerre, Jacques Crokaert, père de Monique Crokaert, épouse de Marc Eemans, avait écrit, pour l’éditeur Payot, un ouvrage remarqué sur la « Méditerranée américaine », soit les Caraïbes, sécurisées au bénéfice de Washington suite à l’éviction de l’Espagne hors de Cuba en 1898. Cet ouvrage de géopolitique important ne concernait pas l’espace réduit de la Belgique dans le Nord-Ouest européen. Pendant la seconde guerre mondiale, la collaboration germanophile opte évidemment pour une réorientation complète des stratégies en politique internationale. Le modèle centre-européen, préconisé par les Allemands, est alors interprété en Belgique comme un retour à Charles-Quint. Dans le chef des rexistes, autour de Léon Degrelle, s’ajoute, à ce tropisme germanisant (théorisé par Léon Van Huffel dès juin 1940), un universalisme camouflé, d’inspiration catholique et hispanisant où l’on cultivait sans doute l’espoir de « re-catholiciser » l’espace germanique, non pas en modifiant les cultes mais en absorbant les énergies allemandes pour un projet européen et global, né aux temps de la Grande Alliance entre les Habsbourgs/Bourgogne et les Aragonnais/Castillans. L’option pour le drapeau à Croix de Bourgogne (ou Croix de Saint André) symbolise ce choix  absolument non allemand et non national-socialiste, à peine dissimulé.

LH-MY.jpgMatière bourguignonne

Pendant la seconde guerre mondiale, nous avions donc un engouement néo-bourguignon, dont le théoricien premier n’était pas un rexiste mais un de leurs adversaires, en l’occurrence Luc Hommel, historien ardennais de la matière de Bourgogne et auteur d’un ouvrage sur la formation de la « Grande Alliance » hispano-bourguignonne. Hommel avait été le secrétaire du principal adversaire politique de Degrelle, le catholique technocratique Paul Van Zeeland.

En dehors de cet engouement « bourguignon » des rexistes, engouement vite abandonné par leurs adversaires qui ne voulaient plus être comparés à eux, il y avait une petite brochure, totalement oubliée et signée « J. Mercier » et intitulée « Géopolitique du Nord-Ouest ». Cette brochure, probablement tirée à compte d’auteur et non liée à une quelconque officine politique, collaborationniste ou non, est remarquable à plus d’un titre : en effet, elle ne développe pas une théorie géopolitique où l’espace belge ferait partie d’un plus vaste ensemble, comme le Saint-Empire ou la « Grande Alliance », mais prend acte de la réduction territoriale subie depuis le 17ième siècle, avec la perte des territoires qui forment aujourd’hui les départements français du Nord et du Pas-de-Calais, avec la disparition graduelle de l’espace lorrain contigu, arraché au Saint-Empire par lambeaux de François I à Louis XV, et, enfin, avec la perte du glacis franc-comtois, projection vers l’espace rhodanien et méditerranéen.

Le petit opuscule de J. Mercier

L’opuscule de Mercier définit l’espace belge actuel comme situé dans un « Nord-Ouest » englobant évidemment le Grand-Duché du Luxembourg, le cours de la Moselle, une partie de l’espace rhénan et les parties des Pays-Bas au sud des grandes rivières (Meuse, Rhin, Waal). C’est l’espace où se sont déroulées toutes les grandes batailles de l’histoire de ce « Nord-Ouest » depuis le haut moyen-âge et que les Anglais appellent la « fatal avenue ». Pour ce Mercier, demeuré inconnu, cet espace se subdivise en trois parties :

  • L’espace scaldien, entre l’Escaut et la Meuse, avec la vallée de la Sambre ; c’est l’espace central et principal de l’ensemble belge ;
  • L’espace transmosan, avec le massif ardennais ;
  • L’espace flandrien, poldérien et littoral, permettant, le cas échéant de prendre l’espace scaldien par l’Ouest.

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Mercier montre que l’ennemi principal, qui fut français pendant près d’un millénaire et fit de notre espace un espace exposé frontalement à ses coups réguliers, concentrera ses poussées vers le Nord en exploitant la « trouée de l’Oise » (die Oisepforte dans le langage des géopolitologues allemands), là où l’Oise prend sa source au sud de la petite ville de Chimay.

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La fameuse bataille de Rocroy (Rocroi), dans la zone de la « trouée de l’Oise », illustre très bien cette volonté de prendre Bruxelles et Anvers : sous les ordres du vieux Colonel Fontaine (‘de la Fuente’ dans les sources en castillan), qui mourra au combat à 80 ans, les tercios espagnols se battront aux côtés de leurs homologues allemands, luxembourgeois, wallons, alsaciens, francs-comtois et croates pour barrer la route de Bruxelles aux troupes françaises. Ils seront vaincus mais l’ennemi, assez durement éprouvé, n’exploitera pas sa victoire car les Luxembourgeois du Colonel espagnol von Beck approchaient avec des troupes fraîches. Jourdan aura plus de chance en 1794 et sera vainqueur à Fleurus. Napoléon passe par la « trouée de l’Oise » lors de la campagne des Cent Jours. La leçon, tirée du choc de Rocroi (1643), amène le Vauban espagnol, Monterrey, à construire sur le territoire du petit village de Charmoy, la forteresse de Charleroi, appelée à défendre, sur la Sambre, le Brabant, cœur de l’espace scaldien. Il en fait bâtir une autre, à Bruxelles, face à la Porte de Hal, sur le territoire de la commune de Saint-Gilles, si prisée par les bobos français qui s’installent de nos jours dans la capitale belge. De cette forteresse de Monterrey, il ne reste d’autres souvenirs que le nom de deux rues : la rue du Fort et la rue des Fortifications.

Flandre poldérienne et « trouée de l’Oise »

A l’ouest de l’espace scaldien, s’étendant des rives orientales de l’Escaut aux rives occidentales de la Meuse, se trouve l’ancien comté de Flandre, qui s’était étendu vers le sud au haut moyen-âge, s’était détaché de la tutelle française au fil des siècles pour y échapper de jure suite à la bataille de Pavie, gagnée par les armées de Charles-Quint en 1525. Il a été le théâtre de combats entre protestants néerlandais et catholiques, sujets du roi d’Espagne, à Nieuport lors de la bataille des plages en 1600, où les tercios espagnols étaient majoritairement composés de Wallons et de Britanniques catholiques (Anglais et Irlandais), et les troupes hollandaises de Wallons et de Britanniques protestants (Anglais et Ecossais). Louis XVI annexa Nieuport et Furnes à l’ouest de l’Escaut pendant ses campagnes militaires contre les Pays-Bas espagnols mais dut rendre finalement ces villes aux Habsbourgs. En 1794, le Général révolutionnaire Moreau prend la ville de Nieuport aux Autrichiens et y fait massacrer tous les émigrés royalistes français qui s’y trouvaient. La basse Flandre poldérienne a donc également été un axe de pénétration pour les armées françaises. En 1600, l’objectif de l’archiduc Albert, commandant des troupes du roi d’Espagne, était de protéger Dunkerque, encore espagnole à l’époque, contre un envahisseur venu du Nord.

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En 1690, le Duc de Luxembourg, commandant des armées françaises, pénètre, à son tour, par la « trouée de l’Oise et s’avance vers Fleurus où il livre victorieusement bataille au général zu Waldeck, commandant des troupes impériales et espagnoles : il ne prend pas Charleroi et ne peut exploiter sa victoire, pourtant retentissante. Les Impériaux et les Espagnols rameutent leurs troupes de réserve et les Brandebourgeois et les Liégeois compensent les pertes en mobilisant des troupes dans toute la région. En 1794, l’axe de pénétration des sans-culottes en Flandre poldérienne est un axe secondaire puisque c’est juste au-delà de la « trouée de l’Oise » que Jourdan emporte la décision finale et conquiert définitivement les Pays-Bas autrichiens, qui seront annexés à la République l’année suivante, en 1795, suite au Traité de Campoformio. Les révolutionnaires avaient pris Charleroi, assurant leur victoire qui, elle, sera bien exploitée. En 1815, Napoléon emporte une nouvelle victoire française à Fleurus/Ligny contre les Prussiens mais ne l’exploite pas, oublieux, peut-être, de la leçon de 1690 : des troupes fraiches attendaient aussi au-delà de la Meuse, où les Prussiens avaient une brigade intacte, qui allait épauler les trois autres brigades, étrillées durement à Ligny mais qui s’étaient regroupées et réorganisées, n’ayant pas été poursuivies. De plus, une armée russe était stationnée à Cologne et les Suédois campaient dans le Brabant septentrional. Cette négligence napoléonienne permit la victoire anglo-prussienne à Waterloo, le 18 juin 1815.

ballon_fleurus.jpgFleurus, 1794

Ces attaques par la « trouée de l’Oise » visent à prendre le cœur de l’espace scaldien, situé autour de Bruxelles et de Malines, et à s’emparer d’Anvers, port de guerre potentiel au fond de l’estuaire de l’Escaut. La victoire de Jourdan en 1794 amène les Britanniques à rejeter toute alliance avec la France révolutionnaire puis bonapartiste, tant que celle-ci se trouve à Anvers et libère le port du blocus imposé par les Pays-Bas protestants. La victoire française de Fleurus est à l’origine de la détermination des Anglais qui finiront par l’emporter à Waterloo, onze ans plus tard. Les manœuvres par la « trouée de l’Oise » sont aussi des manœuvres dans l’Entre-Sambre-et-Meuse, glacis devant le cœur de l’espace scaldien et face à la vallée mosane. Toute conquête de l’Entre-Sambre-et-Meuse permet d’anticiper la conquête de tout l’espace scaldien et d’arriver dans la vallée mosane.

La portion du cours de la Meuse, qui appartint jadis aux Pays-Bas espagnols puis autrichiens et qui est sous souveraineté belge aujourd’hui, part de Givet (actuellement ville française) pour arriver à Dinant, Namur, Huy, Liège et Maastricht, autant de villes dotées de forteresses destinées à empêcher toute pénétration française en direction de Cologne et des plaines westphaliennes. A l’est du fleuve se trouve le massif ardennais, jugé difficilement pénétrable jusqu’en 1914 et même jusqu’en 1940. L’espace transmosan, exclusivement wallon, alors que l’espace scaldien est bilingue roman/germanique, a généralement été contourné par les envahisseurs du sud qui préféraient l’axe mosan à l’ouest du massif ardennais et l’axe mosellan à l’est de celui-ci, dont la continuation géologique en Allemagne s’appelle l’Eifel.

Raisonner en termes hydrographiques et hydropolitiques

Comprendre la géopolitique de l’espace belge implique de raisonner en termes hydrographiques et hydropolitiques. L’Oise, l’Escaut, la Sambre, la Meuse et la Moselle sont des axes fluviaux et stratégiques dont il faut impérativement saisir l’importance pour comprendre les dynamiques historiques qui ont tout à la fois façonné et disloqué le territoire aujourd’hui belge. L’Oise avait été, à l’aurore de l’histoire française, l’axe de pénétration pacifique des tribus franques/germaniques vers le bassin parisien. On nous donnait à méditer un chromo avec de grands guerriers débonnaires, barbus, qui accompagnait leurs riantes marmailles et leurs plantureuses épouses à tresses, paisiblement assises sur des chars à bœufs tandis que chevaux et bétail buvaient l’eau de l’Oise. Ils allaient, nous disait-on, régénérer un pays ravagé par l’effondrement de l’empire romain et en proie à une population autochtone et bigarrée (les bagaudes) retournée à une anarchie féroce et improductive, que Jean-François Kahn fait mine de prendre pour une panacée. Elle deviendra, après bien des vicissitudes historiques et a contrario, la voie de pénétration des armées françaises vers l’axe mosan et l’espace scaldien, d’où les Francs étaient venus.

Battle_audenarde.pngL’Escaut, curieusement, n’a guère été, sur ses rives et dans les environs immédiats de son cours, le théâtre de batailles aussi mémorables que celles de Rocroi, Fleurus ou Ligny, à l’exception peut-être de celle d’Audenarde (Oudenaarde), convoitée par les Français à plusieurs reprises au 17ième siècle, sous Louis XIV. En 1708, la coalition regroupant Autrichiens, Impériaux et Anglais, sous la conduite du Prince Eugène de Savoie-Carignan, du Duc de Marlborough (le «Malbrouck » de la chanson) et d’Henri de Nassau battent les troupes du Duc de Vendôme qui avaient fait de cette place flamande un redoutable bastion français.

La Meuse, axe de pénétration français en direction de la capitale symbolique du Saint-Empire, Aix-la-Chapelle, a été fortifiée en tous ses points, à Givet, où un régiment de zouaves est stationné aujourd’hui, à Dinant, Namur, Huy, Liège et Maastricht. Les Prussiens surtout entendaient sécuriser cet axe mosan pour tenir les Français éloignés du Rhin. Les Hollandais refuseront, avec l’appui prussien et russe, de rétrocéder à la nouvelle Belgique, la place de Maastricht (Mosae trajectum en latin, soit « le passage au-dessus de la Meuse », à une grosse vingtaine de kilomètres d’Aix-la-Chapelle). Sur un plan diplomatique, les Français, au 17ième siècle, chercheront à s’assurer de la neutralité des Princes-Evêques de Liège, maîtres de toute la vallée mosane qui, elle, rappelons-le, n’appartenait pas aux Pays-Bas espagnols puis autrichiens, contrairement à l’espace scaldien et aux Ardennes luxembourgeoises.

L’axe mosellan

La Moselle, formant une partie importante des frontières de l’ancien duché impérial du Luxembourg, est l’axe de pénétration français en direction du Palatinat et de la ville rhénane de Coblence, au confluent de cette rivière avec le Rhin. L’axe stratégique mosellan donne à la forteresse de la ville de Luxembourg une importance stratégique majeure, disputée depuis 1815, où les Prussiens ne voulaient pas la laisser aux mains des Français, les Hollandais aux mains des Belges après 1830, les Belges à la portée des Français immédiatement après la première guerre mondiale. L’importance de cet axe est notamment souligné dans un pamphlet signé par l’Abbé Norbert Wallez, le mentor d’Hergé : il ne fallait pas laisser à la République, qui voulait détacher la Rhénanie du Reich et autonomiser une république fantoche de Rhénanie, l’occasion d’occuper indirectement la vallée de la Moselle.

leapic.jpgEnfin, pour trouver des positions géopolitiques et géostratégiques directement liées à l’espace aujourd’hui belge, nous devons nous référer à un ouvrage absolument fondamental, toujours exploité par les puissances thalassocratiques anglo-saxonnes de nos jours : celui d’Homer Lea, intitulé The Day of the Saxons. Cet ouvrage de 1912, réédité immédiatement après l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan en 1979 et pourvu d’une remarquable préface du stratégiste suisse Jean-Jacques Langendorf, explique, à la suite de Halford John Mackinder, comment sécuriser les « rimlands » persan et indien contre les poussées russes dans le cadre du fameux « Great Game ». C’est là l’essentiel du livre mais rien n’a pris une ride : Lea préconise une politique de fermeté extrême voire prévoit un casus belli si l’influence russe dépasse la ligne Téhéran-Kaboul. En 1979, Brejnev a franchi délibérément cette ligne. La guerre afghane et toutes les guerres connexes dans l’espace entre Méditerranée et Indus sont le résultat d’un refus américain et britannique de voir s’étendre une influence russe ou soviétique au-delà de la ligne Téhéran-Kaboul.

Lea et la géopolitique anglaise en Mer du Nord

Mais Lea développe également une géostratégie visant à protéger les abords de la métropole anglaise. Les craintes anglaises ne remontent pas tellement à l’aventure tragique de la Grande Armada espagnole, battue par la marine et les pirates d’Elizabeth I. Elles se justifient plutôt par le souvenir cuisant des expéditions de l’Amiral hollandais De Ruyter au 17ième siècle. Les vaisseaux de De Ruyter mettaient une nuit à franchir la Mer du Nord depuis le « Hoek van Holland », à pénétrer dans l’estuaire de la Tamise et à incendier Londres. Il faut dès lors sécuriser les côtes et l’arrière-pays qui fait face aux Iles Britanniques. Ceux-ci doivent avoir une politique étrangère neutre et bienveillante à l’égard de l’Angleterre et ne jamais tomber aux mains d’une puissance disposant d’un hinterland de grandes dimensions, comme la France ou l’Allemagne réunifiée sous la férule de Bismarck. Lea a donc énoncé les règles qui ont justifié l’intervention immédiate des Britanniques aux côtés des Français dès que l’Allemagne de Guillaume II a fait valoir son « droit historique » à sécuriser la vallée de la Meuse et à l’interdire aux Français. Parce que les Allemands, en août 1914, pour faire face aux armées de la IIIème République, devaient non seulement sécuriser les axes mosan et mosellan, ce dont pouvait s’accommoder les Anglais, mais simultanément occuper tout l’espace scaldien et la côte de la Flandre poldérienne. L’Allemagne aurait alors disposé d’une façade maritime en Mer du Nord, ce qu’elle consolidera en effet pendant la première guerre mondiale : les ports de Zeebrugge et d’Ostende ont été développés par les ingénieurs de la Kriegsmarine, ont été sortis de l’insignifiance où ils avaient été plongés depuis plusieurs siècles. Les Allemands pouvaient dès lors rééditer les exploits de l’Amiral De Ruyter. L’historien flamand Ryheul, spécialiste de cette politique allemande pendant la première guerre mondiale et auteur d’un ouvrage de référence sur le « Marinekorps Flandern », montre comment le Canal maritime de Bruges grouillait de sous-marins sans protection antiaérienne à une époque où l’aviation militaire en était encore à ses premiers balbutiements : les Britanniques couleront un vieux navire en face de ce canal afin de barrer la route aux redoutables sous-marins du Kaiser.

mkfl.jpgPour les Allemands, l’espace scaldien et la zone transmosane sont donc des tremplins pour arriver à Paris. Comme le firent les Francs à l’aurore de l’histoire de France. L’histoire prouve toutefois que l’espace change de qualité et de dimensions entre l’ancienne frontière méridionale des Pays-Bas espagnols et le bassin parisien. L’espace s’y étire, l’habitat s’y raréfie, rendant la logistique plus compliquée voire ingérable avec un charroi précaire et exclusivement hippomobile. Les armées de Philippe II d’Espagne, commandées par le Comte d’Egmont et par Emmanuel-Philibert de Savoie, ne dépasseront pas Saint-Quentin malgré leur belle victoire. Les lansquenets de Götz von Berlichingen s’arrêteront à Saint-Dizier en Haute-Marne. En 1914, les troupes du Kaiser arriveront jusqu’à la Marne mais ne pourront pousser plus loin.

Le destin géopolitique de tous les Européens est désormais lié !

Pour vaincre l’espace entre les Flandres et le Bassin parisien, il faut un élément motorisé et suffisamment de pétrole. Gallieni parvient à sauver Paris en mobilisant les taxis de la capitale qui amèneront les renforts nécessaires. Pétain introduit une logistique motorisée sur la Voie Sacrée qui mène à Verdun. Fort des pétroles livrés par les Soviétiques de Staline, Hitler franchit allègrement l’espace que les armées du Kaiser n’avaient pas pu franchir. La mise en place de l’alimentation en carburant ralentit pendant plusieurs semaines la progression des Alliés anglo-américains vers le Nord, après le débarquement du 6 juin 1944 dans le Calvados. Les Allemands, malgré leurs carences en pétrole, peuvent gagner encore la bataille d’Arnhem en octobre 1944 parce que la logistique alliée reste encore lente. L’Europe, après la seconde guerre mondiale, est devenue un petit espace stratégique gérable : elle nous apprend que le destin géopolitique de tous les Européens est désormais indissolublement lié. La Mitteleuropa est accessible facilement depuis tous les littoraux de la péninsule eurasienne qu’est la Vieille Europe. On prend Hambourg au départ des plages normandes, Stuttgart à partir d’un débarquement réalisé en Provence, Berlin ou Vienne suite à une victoire à Koursk dans l’espace steppique russe.

Il reste sans doute beaucoup à écrire sur tous les aspects que j’ai évoqués dans cette modeste réponse aux questions qui me sont habituellement posées lors d’agapes entre amis ou de débats avec des collègues historiens. Certains sont férus de géopolitique, d’autres sont des historiens éminents, tantôt spécialistes de la diplomatie belge suite à des lectures sur Harmel ou émanant de la plume du Prof. Coolsaet, de l’histoire de la neutralité belge entre le Traité de Londres de 1839 et l’invasion allemande d’août 1914, de la Flamenpolitik des Allemands pendant la première guerre mondiale, des relations belgo-russes au fil de l’histoire, de la Principauté de Liège aux 17ième et 18ième siècles, de la gestion des Pays-Bas méridionaux sous les règnes de Marie-Thérèse et de Joseph II, etc.

Pluriversum et grands espaces

Je pense notamment à une analyse des travaux de Drion du Chapois, qui dirigea jadis le journal Le Rappel à Charleroi, où oeuvrait aussi Pol Vandromme. Ses travaux sur la « mission européenne des Belges » sont remarquables et expliquent pourquoi le « petit nationalisme » ne fait guère recette chez les esprits lucides de nos régions, où l’on préfère alors le repli sur le vernaculaire flamand ou wallon ou l’engouement pour l’Europe, dans une perspective rupturaliste  dans les cénacles nationaux-révolutionnaires (héritiers du militantisme de « Jeune Europe ») ou, chez les alignés par opportunisme ou par souci d’œuvrer dans un cadre institutionnel établi, dans une perspective européiste mais eurocratique donc a-historique et purement technocratique. Au-delà, il y a les universalistes qui émettent de lassants vœux pieux et imaginent un « universum » homogénéisable, alors que le monde restera toujours un « pluriversum » de variétés et de bigarrures. Si l’on veut dépasser le vernaculaire ou les nationalismes trop étroits, il faut penser, avec Carl Schmitt, en termes de « grands espaces », de Grossräume.  

Robert Steuckers,

Forest-Flotzenberg, juin 2018.

 

vendredi, 25 mai 2018

Visión Geopolítica - Manipulación Mediática: Control de la libertad

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Visión Geopolítica

Manipulación Mediática:

Control de la libertad

 
Esta edición de Visión Geopolítica, conducida por el
analista geopolítico Pedro Baños, analiza la situación
de los medios de comunicación en el mundo global
y la manipulación que muchas veces se hace de la
información. Participan los expertos José Javier
Esparza, Juan Antonio Aguilar y Luis Togores.
 
 
 
 

Hat die «Allianz» Russland-Türkei eine Zukunft?

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Hat die «Allianz» Russland-Türkei eine Zukunft?

Ex: http://stategische-studien.com 

Byzanz dürfte 660 v. Chr. durch griechische Dorier als Byzantion gegründet worden sein. Der römische Kaiser Konstantin liess nach sechs Jahren Bau über dem ursprünglichen Byzantion seine Stadt am 11. Mai 330 n.Chr., die später als Konstantinopel seinen Namen erhielt, als Hauptstadt des römischen Reichs konsekrieren. Zu diesem Zeitpunkt war der Kaiser 58 Jahre alt. Konstantin hatte eine neue Metropolis an der Meeresenge, die Asien von Europa trennt, errichten lassen. Nach der Aufteilung des Römischen Reiches 395 n.Chr. wurde die Stadt zur Hauptstadt des oströmischen Reiches. Später wurde dieses Teilreich als byzantinisches Reich bezeichnet.[1] Obwohl ab dem 7. Jahrhundert in Byzanz das Griechische das Latein als Hof- und Verwaltungssprache immer mehr verdrängte, bezeichneten sich die Bewohner der Stadt bis zu ihrer Eroberung durch die Osmanen 1453 immer noch als Römer (Rhomäer).

Immer wieder wurde Konstantinopel während Jahrhunderten durch fremde Völker belagert. Nur zweimal gelang eine Eroberung der Stadt. Die ersten, die eine Eroberung dieser geostrategischen Drehscheibe versuchten, waren die Goten 378 n. Chr.[2]. Es folgte 626 die Belagerung von Konstantinopel durch den Sassaniden Chosro II., dem Herrscher über das neupersische Reich.[3]. Als Folge dieses «letzten grossen Krieges der Antike» waren am Ende beide Reiche ausgeblutet. 636 konnten die arabischen Heere nach der Schlacht von Yarmuk Syrien erobern.[4] 640 folgte die arabische Eroberung von Ägypten und 647 von Nordafrika.[5] Byzanz konnte noch Anatolien, sowie Gebiete auf dem Balkan und in Italien bewahren. 674-78 belagerten die Araber zum ersten Mal Konstantinopel. Durch den Einsatz des griechischen Feuerswurden die arabischen Seestreitkräfte vernichtet.[6] Zu dieser Zeit war das Sassanidenreich bereits durch die Arabererobert worden. 717 folgte die zweite Belagerung Konstantinopels durch die Araber. Wiederum wurde das griechische Feuer eingesetzt. Die Provinzarmeen der Themen waren bei der Abwehr der Araber sehr erfolgreich.[7] Nach dem Sturz der Dynastie der Omayyaden 750 war das Reich durch Angriffe der Araber nicht mehr gefährdet.[8]

Nach der Schlacht von Mantzikert, 1071, verlor Byzanz beinahe ganz Anatolien an die türkischen Seldschuken.[9]Gleichzeitig wurde das Reich durch normannische Abenteurer aus Sizilien und Italien verdrängt. Diese eroberten unter ihrem Anführer Robert Guiscard 1081 auch Illyrien. Nach verlustreichen Kämpfen mussten sich die Normannen unter dem Sohn von Guiscard, Bohemund, nach Italien zurückziehen. Als das Ritterheer des ersten Kreuzzuges 1096 in Byzanz eintraf, war einer der Anführer der Kreuzfahrer der Normanne Bohemund.[10] Sehr bald kam es zu Spannungen zwischen den Kreuzfahrern und Byzanz. 1204 hetzte Venedig, ein früherer Alliierte von Byzanz, die Teilnehmer am vierten Kreuzzug gegen Konstantinopel auf. Im April dieses Jahres wurde die grösste Stadt der Christenheit nach ihrer Eroberung durch die Kreuzfahrer während drei Tagen geplündert und gebrandschatzt.[11] Venedig und seine Alliierten gründeten das kurzlebige Lateinische Kaiserreich. Gleichzeitig entstanden drei byzantinische Nachfolgestaaten, die den Kreuzfahrern Widerstand leisteten.

1261 konnte Michael VIII. Palaiologos (1259-82), Herrscher über das byzantinische Nachfolgereich Nikäa, Konstantinopel zurückerobern.[12] Seine Dynastie konnte während zwei Jahrhunderten über ein Reich herrschen, zu dem Griechenland, Teile von Kleinasien und des Balkans gehörten.[13] Durch dieses kleine Territorium konnten aber nicht genügend Ressourcen für den Unterhalt einer wirkungsvollen Streitmacht generiert werden. Der Sieg von Timur in der Schlacht von Ankara von 1402 verhalf Konstantinopel zu einer Atempause. Schlussendlich eroberte der osmanische Sultan Mehmet II. (1444-46/1451-81) am 29. Mai 1453 dank seinen genuesischen Geschützen und seiner Übermacht von 80’000 Muslimen gegenüber den 7’000 Verteidigern die Stadt. Während 1’000 Jahren hatte Byzanz eine hohe militärische Professionalität bewiesen[14] und während Jahrhunderten Europa vor einer islamischen Eroberung geschützt und bewahrt. Als Dank dafür wurde das Reich der Rhomäer in seinem Abwehrkampf gegen die Osmanen am Ende durch das christliche Abendland im Stich gelassen.

Eines der wichtigsten Ereignisse in der Geschichte von Byzanz war die Taufe des Grossfürsten von Kiew, Wladimir I. der Grosse (980-1015), Nachkomme des Waräger Rjurik (als Rus bezeichnet) 987 nach dem orthodoxen Ritus.[15] Ein Grund für diese Taufe war die Hilfe von Wladimir bei der Rekrutierung von Skandinaviern für die Waräger-Garde des byzantinischen Kaisers. Diese Taufe wurde durch den Vertrag von 1046 und die Heiraten zwischen den beiden Herrschaftshäusern besiegelt.[16] Nachdem die Rus früher mehrmals versucht hatten Byzanz zu erobern, wurden die Beziehungen zwischen den beiden Reichen immer freundschaftlicher. Die heutigen Gebiete von Russland, Serbien, die Ukraine, Belarus, Rumänien und Bulgarien übernahmen Tradition, Kultur und den orthodoxen Glauben von Byzanz.[17]

Nach dem Fall von Konstantinopel bezeichnete der russische Mönch Filofei (Filotheos) in einer Schrift an die russischen Grossfürsten Moskau als das dritte Rom.[18] Im ersten Rom würden Häretiker herrschen und das zweite Rom, Konstantinopel, sei durch die Ungläubigen erobert worden. Dieses Konzept übernahm der Herrscher über Moskau, Grossfürst Ivan IV. (1534-1584). Ivan IV. liess sich 1547 als Nachfolger der byzantinischen Kaiser zum Zar krönen.[19] Die Legimitation dazu konnte er auch mit seinem Grossvater, Ivan III. (1462-1505), begründen, der mit Zoë Palaiologos, Nichte des letzten byzantinischen Kaisers, verheiratet gewesen war.[20] Ivan IV. war nun der einzige freie orthodoxe Herrscher. Seine Religion bestimmte die Kreuzzüge Russlands gegen das katholische Königreich Polen-Litauen, der Feind im Westen, Schweden, das Tartaren-Kanat von Kazan und das osmanische Reich. Ziel der Kriege gegen das osmanische Reich war die Befreiung der Balkan-Völker und Konstantinopels vom türkischen Joch.[21]

Ab dem 16.Jahrhundert wurde Russland in den orthodoxen Kirchen als Erbe von Konstantinopel und der Zar von Russland als Wächter über die gesamte orthodoxe Welt anerkannt.[22] Die russische Kirche war von einer siegreichen Mission gegen die muslimischen Ungläubigen und über die katholische Gegnerschaft überzeugt.[23] Russland hatte den byzantinischen Thron zu bewahren. Von dieser Mission und dem Kreuzzug waren alle Zaren bis und mit der Romanow-Dynastie überzeugt. Die verschiedenen Kriege des russischen Imperiums gegen das osmanische Reich, die vom 18. Jahrhundert bis zum ersten Weltkrieg dauerten, belegen dies.[24] Diese Mission dürfte grundsätzlich auch die Aussenpolitik von Wladimir Putin bestimmen.

Zur Durchsetzung ihrer Interessen in Syrien verfolgen Russland und die Türkei seit 2017 eine Art «Allianz». Syrien soll durch diese gemeinsame «Allianz», zusammen mit der Islamischen Republik Iran,  befriedet werden. Wladimir Putin dürfte dabei auch das Ziel verfolgen, die Türkei aus dem westlichen Bündnis NATO herauszubrechen. Der türkische Machthaber Erdogan dürfte seinem Machtstreben im Mittleren Osten frönen und von der Wiedererrichtung des osmanischen Reichs träumen. Auf dem Hintergrund der während Jahrhunderten verfolgten russischen Machtansprüche und der Kriege gegen die Osmanen erscheint diese «Allianz» als widernatürlich. Das Endziel von Russland könnte nach wie vor die «Befreiung» von Konstantinopel von den muslimischen Ungläubigen sein.

 

[1] Decker, M.J., The Byzantine Art of War, Westholme Publishing, Yardley, Pennsylvania, 2013, P,1.

[2] Decker, M.J., P. 13.

[3] Decker, M.J., P. 15-18.

[4] Decker, M.J., P. 21.

[5] Decker, M.J., P. 21.

[6] Decker, M.J., P. 22.

[7] Decker, M.J., P. 24.

[8] Decker, M.J., P. 24.

[9] Decker, M.J., P. 32/33.

[10] Decker, M.J., P. 36.

[11] Decker, M.J. P. 37.

[12] Decker, M.J., P. 37.

[13] Decker, M.J., P. 40.

[14] Decker, M.J., P. 40.

[15] Decker, M.J., P. 30.

[16] Obolensky, D., The Relations between Byzantium and Russia (11th-15th Century), Oxford University, Updated 02 July 2001, P. 2.

[17] Obolensky, D., P. 4ff.

[18] Laats, A., The Concept of the Third Rome and its Political Implications, P. 98.

[19] Laats, A., P. 104.

[20] Laats, A., P. 104.

[21] Laats, A. P. 105.

[22] Laats, A., P. 106.

[23] Laats, A., P. 108.

[24] Laats, A., P. 112.

 

jeudi, 24 mai 2018

«La force de la géographie: comment expliquer la politique mondiale à l’aide de dix cartes géographiques»

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«La force de la géographie: comment expliquer la politique mondiale à l’aide de dix cartes géographiques»

par Wolfgang van Biezen

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/fr

«Après la lecture de ce livre, on comprend mieux les crises actuelles de notre monde, on considère les articles exigeants de la presse quotidienne de manière moins fragmentaire, ce qui mène à une meilleure compréhension. La mutation de la seule puissance mondiale, les Etats-Unis, vers un monde multipolaire est déjà accomplie. Pourquoi il en est ainsi est bien décrit dans ce livre captivant et intéressant à lire.»

TMgéo2.jpgAu début de l’année 20151, lors d’une intervention au sein du Chicago Council on Foreign Relations, George Friedman de la société de renseignement américaine Stratfor a insisté sur l’intention des Etats-Unis de continuer à faire la guerre et comment, depuis un siècle, la politique américaine avait défini, de façon primordiale et doctrinale, l’empêchement d’une quelconque réconciliation entre l’Allemagne et la Russie. Cela concorde entièrement avec politique de guerre et la politique étrangère des Britanniques pour l’Europe, menées depuis plusieurs siècles conformément à la tradition et connue sous le nom d’«équilibre des forces». Actuellement cela correspond au déplacement dans le cadre de l’OTAN des Rapid Forces internationales vers l’Est jusqu’à la frontière russe.


La transformation de l’OTAN d’une alliance défensive en une alliance offensive sous la direction des Etats-Unis, les guerres au Proche-Orient, les alliances opaques dans le conflit syrien, la sécession armée en Ukraine orientale et une ministre de la Défense allemande semblant être prête à tout, nous rappelle fatalement la situation à la veille de la Première Guerre mondiale. A cette époque, il ne manquait plus que l’étincelle serbe pour faire sauter l’Europe. Le les poudrières sont en place. Selon George Friedman, l’Allemagne ne s’est pas encore décidée d’assumer le rôle de chef en Europe que ses alliés veulent lui imposer. Rappelons-nous: le mensonge de l’ancien ministre allemand de la Défense M. Scharping, a fourni la raison pour l’intervention militaire illégale au Kosovo. Jusqu’aujourd’hui, il est préférable de ne pas parler ouvertement sur l’horrible souffrance humaine provoquée par l’emploi des armes à l’uranium appauvri utilisées par les forces alliées dans cette région.


Il est difficile de ne pas voir les signes d’une nouvelle guerre, et les citoyens européens réalisent de plus en plus qu’un nouveau conflit est en préparation. Quiconque ne veut pas fermer les yeux, désire comprendre l’histoire récente de l’Europe et décèle des parallèles avec la Première et la Seconde Guerre mondiale dans les activités bellicistes contemporaines, ferait bien de s’approfondir dans la lecture du livre de Tim Marshall intitulé «Die Macht der Geographie – Wie sich Weltpolitik anhand von 10 Karten erklären lässt» (DTV-Paperback 34917) [La force de la géographie. Comment expliquer la politique mondiale à l’aide de dix cartes]. (Version originale en anglais: «Prisoners of Geography. Ten Maps That Explain Everything About the World»).


Le livre met l’accent sur le mot «géo» et entend par là simplement ceci: «La géopolitique démontre comment on peut comprendre des affaires internationales dans le contexte de facteurs géographiques.» En fonction de l’histoire, l’auteur britannique Tim Marshall sensibilise l’œil du lecteur à la situation actuelle de dix régions choisies de notre monde. Il le fait de façon cohérente sur la base de la géographie et de la topographie.


Le premier chapitre déjà clarifie pourquoi Staline, n’avait guère l’intention, après la Seconde Guerre mondiale, d’étendre l’ancienne Union soviétique jusqu’à l’Atlantique, comme l’ont appris des générations d’élèves mais également des stratèges miliaires pendant leur formation.


Les attaques contre la Russie et la sécurisation du ravitaillement nécessaire venant de l’Ouest ont toujours eu lieu par la plaine nord-européenne. Toutes les autres voies sont bloquées par des chaînes de montagnes. Cette voie fut choisie par Napoléon tout comme les armées allemandes pendant les deux guerres mondiales. Actuellement, la Pologne et l’Ukraine servent à nouveau de têtes de pont stratégique et sont ainsi essentiel pour les militaires occidentaux. En même temps cela représente d’autre part une énorme menace pour la Russie. Nous apprenons aussi pourquoi le contrôle et la fermeture de la «ligne GIUK»2 ont à plusieurs reprises barré le chemin de la marine russe vers les océans. Et lorsqu’on peut lire dans la presse quotidienne que toutes les transactions financières de l’Europe vers les Etats-Unis et retour passent par des faisceaux de câbles sous-marins transatlantiques, parallèles à la «ligne GIUK», et comment les Russes seraient capables de couper ces liaisons à l’aide de leur sous-marins, le lecteur attentif se rend compte du fait qu’il s’agit ici éventuellement d’une préparation d’un casus belli.


tmgéo3.jpgLe projet chinois du réseau des Routes de la soie, peu considéré par les Etats-Unis, est vu comme une réponse aux questions urgentes de la communauté mondiale. L’Eurasie se rapproche et collabore dans ce programme d’infrastructure (One Belt One Road – OBOR). Des transports ferroviaires de Pékin à Duisbourg ont déjà lieu plusieurs fois par semaine. La Russie soutient ce projet. La Chine désire davantage de coopération non seulement sur le contient eurasiatique, mais dans tous les domaines et au bénéfice mutuel de tous les participants. Par le port de Gwadar, la Chine atteint l’océan Indien et inclut le Pakistan et l’Iran dans ce projet eurasiatique.


D’autres chapitres importants déchiffrent la géopolitique actuelle des Etats-Unis, de l’Europe occidentale, du Moyen-Orient, de l’Inde et du Pakistan, de la Corée et du Japon aussi bien que de l’Amérique latine.
Le livre fort inspirant de M. Marshall se termine par un chapitre sur l’Arctique. Dans cette région, le soi-disant «changement climatique» travaille en faveur de la Russie. Nulle part, les Etats-Unis et la Russie ne sont si proches l’un de l’autre. Toutefois, le dégel ouvre des possibilités de nouveaux passages entre l’Atlantique et le Pacifique. Là aussi, sur son propre plateau continental, il semble que la Russie tienne la corde, relativement inaperçue et tranquille.


Après la lecture de ce livre, on comprend mieux les crises actuelles de notre monde, on considère les articles exigeants de la presse quotidienne de manière moins fragmentaire, ce qui mène à une meilleure compréhension. La mutation de la seule puissance mondiale, les Etats-Unis, vers un monde multipolaire est déjà accomplie. Les raisons pour lesquelles il en est ainsi sont bien décrites dans ce livre captivant et intéressant à lire.    •

1     https://www.youtube.com/watch?v=ablI1v9PXpI newscan du 17/3/2015
2     Le GIUK est une ligne imaginaire de l’Atlantique nord formant un passage stratégique pour les navires militaires. Ce nom est l’acronyme de l’anglais «Greenland, Iceland, United Kingdom». En cas de conflit, la ligne sera bloquée par les Etats-Unis ou plutôt par l’OTAN. (cf. aussi la NZZ du 13/2/18, p. 7)

mercredi, 23 mai 2018

Les Etats-Unis veulent l’escalade : Pompeo annonce « les sanctions les plus dures de toute l’histoire » !

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Les Etats-Unis veulent l’escalade : Pompeo annonce « les sanctions les plus dures de toute l’histoire » !

Washington : Téhéran et même les Européens usent de la diplomatie dans le conflit du nucléaire iranien. Les Etats-Unis, en revanche, ne cessent de chercher la confrontation e l’escalade. Le ministre américain des affaires étrangères, Mike Pompeo, a annoncé, sans circonlocutions, “les sanctions les plus dures de toute l’histoire” contre l’Iran. La pression financière sera plus forte que jamais, a-t-il déclaré à Washington dans un discours révélant ses principes d’action. Lorsque toutes les mesures punitives entreront en action, l’Iran devra se battre pour maintenir son économie en vie.

Pompeo a soumis douze exigences aux dirigeants iraniens, ce qui équivaut à du chantage car certaines d’entre elles sont irréalisables en pratique, comme, par exemple, le retrait des troupes iraniennes hors de Syrie. Dans ce pays, les Iraniens sont aux côtés des Russes depuis plusieurs années pour battre et éliminer les milices terroristes de l’Etat dit islamique. Les sanctions ne seront levées que si l’Iran change de politique sur le long terme, a ajouté Pompeo expressis verbis. Il a déclaré : « Nous exercerons une pression financière sans exemple sur le régime iranien. Les dirigeants de Téhéran ne pourront jamais douter de notre détermination ».

Mais les chantages américains affectent désormais les Européens aussi. Pompeo s’est adressé à l’Union Européenne pour dire que les entreprises qui feront des « affaires interdites » avec l’Iran, devront faire face à leurs responsabilités. Pompeo a présenté la nouvelle stratégie iranienne du gouvernement américain lors d’un événement organisé par le think tank néoconservateur Heritage Foundation.

(Ex : http://www.zuerst.de ).  

Renseignements russes et chinois : début d’une invasion de l’Asie centrale par l’EI couverte par les Etats-Unis

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Renseignements russes et chinois : début d’une invasion de l’Asie centrale par l’EI couverte par les Etats-Unis

 
 
Auteur : Par Andrey Afanasyev
Ex: http://www.zejournal.mobi

Des sources dans les agences militaires et de renseignement russes, disent que la préparation d’une opération offensive à grande échelle contre la Russie à travers le Tadjikistan et l’Ouzbékistan est dans la phase finale. Citant des données provenant de canaux de communication avec les ministères de la Défense de la Chine, du Pakistan et de l’Afghanistan, ils disent que l’Afghanistan est la pierre angulaire de ce plan.

Des messages similaires ont déjà été reçus, en particulier lors d’une récente conférence sur la sécurité qui s’est tenue à Tachkent, la capitale ouzbèke. Puis le ministre tadjik des Affaires étrangères Sirodzhiddin Aslov a annoncé publiquement l’activation des terroristes dans la région :

« Nous voyons l’activation de groupes terroristes, leur progression dans les régions du nord de l’Afghanistan, en particulier dans les territoires limitrophes du Tadjikistan, l’augmentation du nombre de partisans de l’EI et la participation d’un certain nombre de citoyens des républiques post-soviétiques aux groupes et mouvements terroristes présents en Afghanistan…. cela nous préoccupe sérieusement ».

Selon les agences de renseignement russes, le nombre de terroristes de l’EI opérant en Afghanistan varie de 2500 à 4000 personnes. Ces données ont été confirmées par le ministère de la Défense de la Chine. Les sources de la RPC affirment qu’au moins 3800 combattants opèrent dans 160 cellules terroristes mobiles. Ils sont concentrés dans la province de Nangarhar, à la frontière avec le Pakistan, où l’État islamique a augmenté la production et le trafic de drogue, ainsi que la création d’infrastructures pour la formation de combattants et de kamikazes.

Comment ça va se passer

Selon des sources militaires russes, des terroristes se retirent actuellement de Syrie et d’Irak par voie maritime jusqu’au port de Karachi, dans le sud du Pakistan. Après cela, ils arrivent à Peshawar près de la frontière afghane et s’installent dans la province de Nangarhar. Le nouveau siège de l’EI dans la région est situé dans le district d’Achin.

À partir de la fin de l’année 2017, les terroristes ont réussi à rassembler jusqu’à 500 combattants syriens et irakiens, dont plusieurs dizaines de femmes. Des sources disent que la plupart d’entre eux sont des citoyens de la France, du Soudan, du Kazakhstan, de la République tchèque, de l’Ouzbékistan, etc.

L’objectif principal de l’EI en Afghanistan est non seulement la déstabilisation du pays, mais aussi une invasion à grande échelle des républiques post-soviétiques d’Asie centrale : le Turkménistan, l’Ouzbékistan et le Tadjikistan afin d’attiser les tensions aux frontières sud de la Russie.

Les sources de renseignement russes disent qu’il y aura deux voies pour l’offensive de l’EI. L’une mènera au Tadjikistan à travers les provinces du Nuristan et du Badakhshan, l’autre passera par Farakh, Ghor, Sari-Pul et Faryab au Turkménistan.

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Mohammed Gulab Mangal.

Le principal responsable des opérations de l’EI est le gouverneur de la province de Nangarhar, Mohammad Gulab Mangal. Il utilise la structure des radicaux pour renforcer son influence dans les régions voisines. De plus, Mangal est bien connu pour sa participation aux opérations financières de l’EI. Des sources affirment que toute tentative de protestation des populations locales est violemment réprimée par les autorités, y compris par des opérations punitives contre les zones peuplées.

Mangal a été connecté aux services spéciaux américains pendant une longue période. La page Wikipédia à son propos dit que le gouverneur actuel de Nangarhar a pris part à une guerre contre les troupes soviétiques dans les années 80. Juste après l’invasion américaine en 2001, il a été nommé à la tête de l’autorité locale. Les médias occidentaux le considèrent comme un homme d’État efficace et juste. La BBC a même qualifié Mangal de « nouvel espoir pour Helmand », une province qu’il gouvernait.

Selon le ministère de la Défense afghan, l’EI prévoit d’augmenter son effectif à 5000 soldats dont la plupart seront cantonnés dans la province de Mangals.

Il est à noter que les deux plus grandes bases militaires américaines dans le pays sont situées près de la région de NAngarhar contrôlée par l’EI et un gouvernement corrompu.

Traduction : Avic – Réseau International