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mardi, 08 janvier 2019

Gli Stati Uniti fra Terra e Mare

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Gli Stati Uniti fra Terra e Mare

Ex: https://www.eurasia-rivista.com

Gli studiosi di geopolitica hanno approfondito la natura messianica dell’ideologia politica americana, collegandone l’universalismo escatologico di matrice protestante non solo alle prassi politiche filosioniste ed imperialiste, ma anche al pensiero dei moderni teorici americani – da Fukuyama a Huntington. L’ideologia dell’eccezionalismo americano non si esaurisce nel neoconservatorismo, ma, sotto diversa forma, si esprime anche nel pensiero degli “idealisti” progressisti. Gli “idealisti” sono corrente trasversale a democratici e repubblicani, così come i “realisti” – da Kissinger a Brzezinski fino a Mearsheimer – non mettono in discussione l’assunto per cui o l’America è potenza globale o non è. Pur trovando compimento nella dottrina Monroe (enunciata nel discorso al Congresso del 1823), l’origine del virulento imperialismo americano può essere ricercata anche nella prassi politica di Theodore Roosevelt (1858 – 1919, presidenza dal 1901 al 1909). È ormai diffusa anche la comprensione del livello geoeconomico del predominio del dollaro e del controllo sul Medio Oriente, nonché del contrasto all’Eurasia.

È interessante inserire nell’analisi della geopolitica americana e dei suoi riflessi un ulteriore fattore: la comprensione della sua geopolitica “interna”.

Gli Stati Uniti sono un paese animato da una marcata dialettica interna, fatta di contrasti anche aspri tra le sue componenti religiose (per quanto il cattolicesimo americano sia ormai completamente “protestantizzato” e normalizzato, opera che prosegue nell’America Latina di Bolsonaro grazie all’insipienza dei Sacri Palazzi romani) ma soprattutto razziali e, prima ancora, geopolitiche. La società americana è un coacervo di contraddizioni che vengono toccate con mano se la si vive dall’interno: è importante coglierle per comprendere le debolezze presenti e future dell’iperpotenza a Stelle e Strisce.

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Seguendo un percorso ideale squisitamente geopolitico, di dialettica tra dimensione talassocratica e tellurica, possiamo dividere la storia americana in fasi marittime e terrestri. Le Tredici Colonie Britanniche, popolate da normali coloni in cerca di terra e fortuna nonché da esuli religiosi di sette protestanti, nascono dal mare e sul mare si affacciano, dovendo sì all’agricoltura ma soprattutto al commercio marittimo il proprio sostentamento e la propria incipiente fortuna. La dichiarazione di indipendenza arriva nel 1776 e sorge dall’indisponibilità delle colonie a sottostare all’oppressione fiscale e al monopolio commerciale della madrepatria britannica.

A questa primissima fase marittima succede una fase di terraferma e di espansione continua verso l’Ovest: un’immigrazione giunta da tutto il mondo in cerca di terra ed opportunità nella “Land of the Free” segna l’animo americano con quella fusione di senso dell’avventura e di autosufficienza e individualismo noto come “spirito della frontiera”. Vengono inglobate culture europee provenienti dal Vecchio Continente ma anche già presenti in quello nuovo: la Gran Bretagna (con la quale i rapporti rimarranno tesi per tutto il XIX secolo, fino a quando questa non rivolgerà le proprie attenzioni di nuovo al Vecchio Continente e all’emergente potere tedesco) verrà sconfitta in una nuova guerra nel 1812 senza guadagni territoriali, guadagni che arriveranno dalle sconfitte della Spagna (1898) e del Messico (1846-48), dall’acquisto delle colonie francesi o spagnole e dei territori russi, dall’annessione di Stati sovrani (la Repubblica del Vermont nel 1701 o quella del Texas nel 1845).

La visione degli Stati Uniti si concentra sulla conquista di terra contro le potenze coloniali europee, contro le tribù native (vittime di un vero e proprio genocidio) e contro il vicino messicano. È in questa fase storica che vanno ricercate le basi dell’isolazionismo americano del XIX secolo – isolazionismo rispetto agli affari europei. Per sopravvivere gli Stati Uniti devono concentrarsi sull’esclusione degli avversari dal proprio territorio e dal continente americano, senza intromettersi in vicende diplomatiche ad esso esterne. Una certa “mentalità dell’assedio” si salda con lo “spirito della frontiera”, temprando il carattere di un popolo bellicoso, ostinato e determinato. Popolo composto da popoli: la maggior parte degli americani bianchi discende da tedeschi ed irlandesi, seguiti da inglesi, italiani e polacchi (in ordine di incidenza). Né si può ignorare la presenza di una vasta popolazione di schiavi importati dal continente africano nei secoli trascorsi. Spartiacque della costruzione dell’identità e della fase geopolitica terrestre con la seconda fase marittima è appunto la Guerra Civile tra gli stati del Nord e del Sud. Due modelli politici e geopolitici, economici e sociali. Il Nord è industriale e tendenzialmente protezionista nonché tecnologicamente avanzato, mentre il Sud, assai meno popolato, è mercantile e liberoscambista, con un’economia agricola e cotoniera la cui prosperità dipende dal lavoro degli schiavi, dal libero commercio dell’oro bianco e dal controllo del Mississippi. Il Nord si proietta nella realizzazione della Dottrina Monroe di dominio sul continente: il Sud, filobritannico, continua a guardare al mare e al resto del mondo. Si tratta di due visioni della politica americana confliggenti anche sul piano istituzionale: un’Unione forte e centralista si contrappone ad una Confederazione di Stati gelosi della propria autonomia.

La prima grande linea di frattura della geopolitica americana, quella tra Nord e Sud, si risolve con la sconfitta del secondo, ma si riassume in una faglia tuttora irrisolta: la frattura razziale tra bianchi e neri e tra bianchi ricchi e progressisti del nord e bianchi poveri e conservatori del sud (paradossalmente, in origine repubblicani i primi e democratici i secondi).

Completata la conquista della terra col processo di autocostruzione di una nazione, la strategia americana torna volgersi al mare: gli Stati Uniti riunificati si affacciano saldamente su due oceani e, sconfitta la Spagna sul finire del secolo XIX, guadagneranno Cuba, Porto Rico e le Filippine. La disponibilità di terra e di risorse, lo spirito di intraprendenza degli immigrati europei, la saldezza dei diritti di proprietà e l’assenza di contrasti di classe nel senso europeo – l’operaio oppresso può semplicemente scegliere di cambiare vita spostandosi ad ovest – favoriscono un formidabile accumulo di capitale che proietta gli Stati Uniti ad essere la prima potenza economica globale già nei primi decenni del XX secolo. Se il consolidamento come primo potere militare e politico giunge con la vittoria nelle due guerre civili europee del ‘14-‘18 e del ’39-’45 che hanno come risultato l’autodistruzione del Vecchio Continente, la primazia geopolitica era in realtà già conseguita: gli Stati Uniti si possono volgere al mare e all’intervento nelle altre aree del mondo perché non hanno più rivali sul continente americano.

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La terza fase marittima – meglio: talassocratica – è quella che dura tutt’oggi. La geopolitica interna degli Stati Uniti che permette questo volgersi al mare è in realtà una geopolitica di tutto il continente americano, “giardino di casa” degli USA, che vi dominano con trattati commerciali, tramite l’installazione di governi vassalli o saldamente alleati (i regimi castrensi dell’Operazione Condor) o tramite l’intervento diretto (a Grenada o Panama).

Possiamo identificarvi i seguenti tre cerchi concentrici.

  1. Gli Stati Uniti propriamente detti. Se il grande contrasto tra Nord industriale (diviso tra Midwest e costa orientale) e Sud cotoniero (il Mississippi e i porti del Sud e dell’Est, piegati dal blocco marittimo dall’Unione) si è risolto, non si risolve quello tra le due coste, centro cosmopolita dell’economia globalizzata, della finanza (predominio del Dollaro) e dell’innovazione (predominio tecnologico) e quindi due vere punte di lancia del potere americano globale, e gli Stati centrali agricoli e industriali, dominati da settori dell’economia più tradizionale che vede ormai minori tassi di investimento, accumulazione e crescita delle produzione e dei redditi e dove ha avuto luogo la rivolta della classe media e povera bianca (e non solo). Per la prima volta il Nord industriale e il Sud agricolo, con l’elezione di Trump, si sono saldati contro le coste, nella seconda grande frattura geopolitica e geoeconomica americana.
  2. Il primo anello marittimo: sostanzialmente il Mediterraneo del Golfo del Messico, dallo Yucatan alla Florida, con la salda base del Portorico ma con la spina nel fianco cubana (il cui tasso di effettiva pericolosità si è estremamente ridotto nei decenni). La piaga strategica che infesta quest’area (ma che costituisce anche il pretesto per il continuo intervento statunitense nell’area) è quella di un narcotraffico che ha trasformato interi paesi (come ad esempio l’Honduras) in Stati falliti.
  3. Il terzo anello marittimo e terrestre: l’America del Sud, con il cruciale canale di Panama e i paesi dell’America Latina, che dopo la stagione dei governi progressisti sono stati normalizzati dal riflusso dei governi liberisti di destra neocon (dal Cile al Brasile di Bolsonaro), con la Bolivia ed il Venezuela isolati e minacciati. L’America di Trump, per mezzo del suo grande tessitore Steve Bannon, ha riaffermato che la sua sicurezza e la sua esistenza come potenza hanno nel controllo del Continente un piedistallo non negoziabile. La politica interna dei paesi dell’America Latina è politica interna agli USA: si pensi alla passata diffusione dell’ideologia marxista e dei movimenti anticapitalisti (dalle guerriglie sino alla stagione del movimenti pacifici di Porto Alegre) o al rischio presente, rappresentato dal narcotraffico in Stati travolti da una violenza senza limiti come Brasile, Colombia e soprattutto Messico, con i conseguenti devastanti effetti sociali sul traffico di oppioidi e di cocaina. Geopoliticamente l’America Latina si concentra sulle proprie coste sin dall’epoca dei porti coloniali (molto più che non in entroterra di foreste impenetrabili, aridi deserti o gelidi e inospitali altipiani). È troppo poco per dire che alla potenza marittima basta assicurarsi il controllo dei porti: le risorse dell’America Latina, dalle acque dei fiumi, al petrolio, al rame, agli spazi agricoli, sono nel suo interno.

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Questo sintetico excursus mira a porre il tema della complessità interna agli Stati Uniti d’America e alle loro radici geopolitiche. Visti – a ragione – come una potenza prevalentemente finanziaria, tecnologica e marittima (in una parola: talassocratica), gli Stati Uniti (non esenti in passato da contrasti giunti fino al sanguinoso conflitto civile) sono attraversati da almeno due fratture interne, una di natura sociale e una, per l’appunto, di natura geopolitica.

  1. L’irrisolto contrasto razziale tra bianchi e neri. I primi tendenzialmente più ricchi ed istruiti, i secondi tendenzialmente più poveri ed esposti a forme varie di emarginazione sociale. Si aggiunge il contrasto tra bianchi “wasp” (“white, anglo-saxon, protestant”), i bianchi portatori del nucleo culturale attorno al quale è stata edificata la costruzione statunitense dal 1776 ad oggi, e i nuovi migranti, composti sì da poveri latino-americani, ma anche da una borghesia cosmopolita di indiani, cinesi ed europei.
  2. La faglia geoeconomica che vede da un lato le due coste fulcro dell’economia globalizzata tecnologica e finanziaria, e dall’altro la fascia centrale delle tradizionali economie agricole ed industriali. Qui la vecchia classe media americana, artefice dello sviluppo votato ai consumi dei decenni passati (e spesso, ma non sempre, definibile come “wasp”) ha visto i propri redditi ristagnare nel contesto dell’economia globalizzata della quale è rimasta se non esclusa comunque ai margini. Qui si concentrano sia la classe operaia bianca e nera delle aree industriali (un tempo sicuro serbatoio elettorale democratico). Qui si trovano anche i bianchi poveri del Sud, spregiativamente definiti “redneck” (colli rossi bruciati dal sole durante i lavori agricoli) o addirittura “white trash”, “immondizia bianca”. Questa frattura riproduce lo scontro tra città e campagna, un tempo economie interdipendenti ed oggi scisse, nonché tra i centri dell’economia globalizzata (votati a finanza e tecnologia) e le periferie dell’economia tradizionale industriale ed agricola, nelle quali sopravvivono solo poche eccellenze manifatturiere, e le aree storicamente depresse. Si tratta del medesimo fenomeno in corso in Europa, per quanto su scala geograficamente assai più ridotta e con in più strumenti di coesione sociale e di welfare che agli USA sono ignoti (come del resto è ignoto all’Europa il patriottismo nazionalista americano, unico ma sin qui efficace collante sociale del paese).

Abbiamo proposto una visione in cui l’intera geopolitica del continente americano (Nord e Sud) è vista come geopolitica interna degli USA. Gli USA non possono perdere le Americhe, pena la perdita dell’inviolabilità terrestre. Se il Pacifico resta inattraversabile da forze ostili e l’Atlantico resta un “lago americano”, urge comunque porsi le seguenti domande.

  1. Sino a che punto i popoli dell’America Latina desiderano appartenere ad un proconsolato americano? La recente vittoria elettorale di governi filostatunitensi sembra indicare un forte riflusso dalla stagione delle lotte antimperialiste, ma il successo di questi governi si misurerà nel successo economico di economie deboli, a scarsa tecnologia e dominate dall’esportazione di materie prime, nonché ormai alla fine del proprio “dividendo demografico” o fortemente integrate, quando industriali, nell’economia statunitense (si pensi al Messico).
  2. Sino a che punto il confine settentrionale può restare silente e privo di minacce? Non pensiamo sicuramente al Canada – pur culturalmente molto diverso e segnato da uno stile di vita maggiormente “europeo” – integrato con l’economia americana, ricco di materie prime e spazio ma gelido e poco popolato, quanto all’eventualità che, con lo scioglimento dei ghiacci, l’Artico (e quindi l’Alaska) diventi oggetto di contesa (è già oggetto di attenzioni militari) con Russia e Cina.

Tendiamo a definire le sfide all’egemonia americana nel XXI secolo come completamente esterne all’area geopolitica statunitense, immaginando la prima potenza mondiale come un blocco geopolitico e sociale omogeneo: esse sono sempre considerate di natura economica o finanziaria (sfida al Dollaro, sfida al controllo delle materie prime delle quali pure l’America è immensa riserva), di natura militare (sfida cinese), oppure di natura sì geopolitica, ma prettamente esterna all’area americana (sfida dell’Eurasia unita, sfida dell’Africa cinese). Apprezzarne le contraddizioni sociali e persino le faglie geopolitiche interne ci porta meglio a comprendere come le istanze che gli Stati Uniti d’America dovranno e già devono affrontare siano di natura estremamente più sfaccettata. La domanda che gli osservatori dovrebbero porsi è la seguente: quanto è in primis resiliente ed in secundis flessibile la società americana per assorbire e superare queste contraddizioni in un contesto globale in cui l’America non è più una solitaria potenza egemone?

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Finché gli Stati Uniti garantiranno a larghe fette della propria popolazione livelli enormi di benessere materiale e ai nuovi arrivati opportunità di accostarvisi, tutte le contraddizioni passeranno sotto traccia. È a questo benessere che si deve anche il primato culturale e ideologico americano (il cosiddetto “soft power”) e non certo alle astrazioni “libertà”, “democrazia”, “libera circolazione delle idee”, privilegi riservati alla ristretta cerchia degli appartenenti alle classi ricche o al massimo alle sempre più ristrette classi medie. La domanda che ci poniamo non interessa alle classi politiche ed intellettuali europee, che sembrano conquistate fino a deporre qualsiasi spirito critico. Nessuno, in nessuna corrente politica con diritto di tribuna in Europa, mette in discussione il modello americano, i valori americani, nemmeno l’imperialismo americano. Il mondo “progressista”, un tempo critico, ha applaudito l’intervento in Libia, ha invocato quello in Siria, ha taciuto su quelli degli alleati degli americani in Palestina e in Yemen. Il mondo “conservatore”, che un tempo contrapponeva valori “spirituali” al materialismo (liberale o comunista che fosse), oggi ne è completamente dimentico.

Il benessere deriva dal dominio economico del pianeta, il quale deriva dal dominio tecnologico e finanziario, che a sua volta deriva da quello militare e strategico – il quale, in un circolo virtuoso, è garantito dai due precedenti. Qualora il dominio tecnologico e finanziario dovessero infrangersi o anche solo ridursi o dovesse venir meno quello militare e strategico, l’economia americana non potrebbe più garantire livelli di benessere e consumi a tutta la popolazione né opportunità ai nuovi arrivati, cosicché le faglie sociali interne potrebbero allargarsi pericolosamente. Un paese che ai propri cittadini non concede nulla gratuitamente, né assistenza sanitaria né istruzione di qualità, dovrebbe per esempio iniziare a rendere loro conto di tutto questo, una volta esauritesi le opportunità di arricchirsi e di acquistare il meglio della sanità e il meglio dell’istruzione sul mercato privato. Il dollaro è moneta globale solo finché la potenza militare americana non conoscerà sfide reali; e la potenza militare americana non conoscerà sfide reali finché il dollaro sarà moneta globale.

Non ci è dato sapere se e quando tutto ciò verrà meno, ma quello che è certo è che l’equilibrio interno della società americana dipende dalla sua potenza esterna, dalla sua capacità di espansione nel mondo; e la sua potenza nel mondo dipende viceversa da una coesione sociale interna data dal benessere. Da questo benessere sono escluse ampie fette della popolazione americana (buona parte della popolazione nera ed ispanica nonché i bianchi poveri e della ex-classe media).

In Europa, area del mondo teoricamente democratica e caratterizzata da diritti individuali affermati, il patto socialdemocratico che scambiava pace sociale con benessere si è infranto miseramente con le crisi petrolifere degli anni ’70 e con la globalizzazione; ciò ha generato società pessimiste sino alla sterilità, diseguali, patologicamente incapaci di integrare gli immigrati, nelle quali le classi medie ristagnano e quelle povere regrediscono al livello di “lumpenproletariat”, mentre la Repubblica Popolare Cinese – paese estraneo al sistema liberaldemocratico – vanta continui successi economici e tecnologici. La partecipazione del cinese medio, dell’americano medio e dell’europeo medio al “processo democratico” è del tutto simile e passiva, nonostante la diversità dei tre sistemi: a comprare il consenso sociale sembra che sia il benessere materiale. Con questo non diciamo che vivere nelle tre aree del mondo sia indifferente e che i tre stili di vita siano intercambiabili, data la diversità di ritmi, culture e tradizioni.

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È un dato di fatto che la natura multipolare del pianeta tende altresì a consolidarsi: da un lato il blocco eonomico-politico del continente americano – che sembra riesca a tenere in subordine l’inesistente Europa – dall’altro un blocco cinese asiatico e pacifico in formazione non senza difficoltà, con alcune potenze più (Russia) o meno (India) in fase di collocamento autonomo. In mezzo al guado, una Germania tristemente incapace di assumere la guida dell’Europa e di fare scelte finalmente autonome dall’area atlantica per insipienza della propria classe politica.

Indicatore chiarissimo di questa tendenza è il mercato dell’auto, settore trainante rispetto alla manifattura globale, tra i primi per consumo di acciaio, che muove, su programmazioni pluriquinquennali (se non pluridecennali), investimenti, strategie e forze produttive e tecnologiche immani. È notizia di questi giorni (inizi di Dicembre 2018) che la General Motors desidera chiudere stabilimenti nel Nord America licenziando un totale di 14.000 lavoratori circa per focalizzarsi sul mercato asiatico. È quanto decide di fare anche la Nissan, rompendo forse l’alleanza storica con i francesi della Renault. Questa rottura garantirebbe alle controparti giapponesi la mano libera sul mercato asiatico, mentre il gruppo italoamericano FCA sarebbe in procinto di essere venduto “a pezzi”, nel solco di una profonda rifocalizzazione produttiva e di vendite fuori dall’Europa e verso le Americhe.

Nel mondo multipolare, l’egemonia unica degli USA è già in discussione.

L’Amérique latine en quête d’indépendance

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L’Amérique latine en quête d’indépendance

par Oscar Fortin

Ex: http://www.zejournal.mobi

L’histoire de l’Amérique latine nous apprend que cette dernière a été et continue d’être considérée comme « la cour arrière des États-Unis ». La doctrine Monroe en consacre la légitimité et donne à Washington tous les pouvoirs sur le Continent.

1) Les États-Unis ont reconnu, l’année précédente, l’indépendance des nouvelles républiques latino-américaines ; en conséquence de quoi, l’Amérique du Nord et l’Amérique du Sud ne sont  plus ouvertes à la colonisation européenne.

2) Les États-Unis regardent désormais toute intervention de leur part dans les affaires du continent américain comme une menace pour leur sécurité et pour la paix.

3) En contrepartie, les États-Unis n’interviendront jamais dans les affaires européennes.

La doctrine de Monroe se résume en définitive comme suit : « l’Amérique aux Américains ».

De fait, la reconnaissance de l’indépendance des nouvelles républiques latino-américaines de la part de Washington permettait à ce dernier de se défaire de la présence des pays colonisateurs européens tout en ouvrant toute grande la porte pour qu’il puisse y régner en maître. L’indépendance de ces pays serait respectée dans la mesure où ces derniers harmoniseraient leurs politiques avec ses propres intérêts. De là l’expression bien connue qui qualifie l’Amérique latine comme étant la « cour arrière des États-Unis ».

On ne saurait comprendre ce qui se passe, présentement, en Amérique latine sans faire référence à cette Doctrine Monroe qui ne répond qu’aux intérêts de Washington. L’histoire des conflits du siècle dernier et ceux d’aujourd’hui illustrent de manière claire et sans équivoque le veto unilatéral de Washington sur l’indépendance et la souveraineté des pays du Continent latino-américain.

La révolution du Peuple cubain (1958-1959), sous la direction de Fidel Castro, visant la destitution du dictateur Batista, en était une qui reposait sur l’indépendance et la souveraineté de ce peuple. De toute évidence, Batista était l’homme de main de Washington lui permettant d’agir à sa guise à Cuba. Nous connaissons de plus en plus l’histoire de cette révolution qui fut et est toujours victime de l’interventionnisme de Washington. Le seul « blocus économique » qui dure depuis plus de 59 ans et que condamnent, année après année, les membres de l’Assemblée générale des Nations Unies représente un véritable crime contre l’humanité.

La révolution du Peuple chilien (1973) reproduit les mêmes comportements de Washington à l’endroit de l’indépendance et de la souveraineté de ce Peuple. À la différence de Cuba où régnait un dictateur, Salvador Allende prit le pouvoir en respectant le cadre démocratique prévu à la constitution chilienne.  Ses politiques se sont concentrées sur la récupération des richesses du pays, dont le cuivre occupe une place importante, pour en faire bénéficier le peuple. Il a agi avec les pouvoirs d’un État indépendant et souverain, dans le respect du droit international. C’était déjà trop. Washington avait déjà préparé tout son arsenal politique, économique et militaire, pour en finir avec le gouvernement de Salvador Allende. Nous connaissons l’histoire des bombardements de la Moneda (édifice du parlement chilien), de la trahison du général Augusto Pinochet ainsi que tous les crimes qui en ont suivi.

La révolution du peuple vénézuélien (1998), sous la direction d’Hugo Chavez s’impose par une élection libre et démocratique qu’il remporte avec grande majorité. Donnant suite à ses promesses électorales, il procède dès les premiers instants à la rédaction d’une nouvelle constitution, écrite et voulue par le peuple. Soumise à un référendum, l’année suivante, elle fut acceptée avec une très grande majorité. Il s’agit d’une révolution qui consacre la démocratie participative, donnant ainsi au peuple un droit de regard et d’intervention dans l’exercice des pouvoirs de l’État. Il s’agit également d’une révolution de format socialiste, humaniste, chrétien et anti-impérialiste. Encore là, Washington et les oligarchies locales ne l’entendirent pas de la même manière. Au diable, la démocratie, en avril 2002, le gouvernement est victime d’un Coup d’État et son président, Hugo Chavez, est enlevé de force et détenu en un endroit secret. En un rien de temps, le peuple et l’armée restée fidèle sont descendus dans les rues et ont repris le contrôle de la résidence du Président et arrêter les auteurs de ce coup d’État. Depuis lors, les tentatives d’intervention pour éliminer ce gouvernement n’ont cessé. Le 11 janvier prochain, on annonce une intervention musclée pour empêcher l’assermentation du  président Nicolas Maduro, élu avec grande majorité, en mai dernier, pour le mandat allant de 2019 à 2025.

Je pourrais ajouter à ces révolutions celles de la Bolivie, avec Evo Morales, du Brésil, avec Lula et Dilma Rousseff, de l’Équateur, avec Rafael Correa, du Nicaragua, avec Daniel Ortega, d’Argentine avec Hector y Cristina Kirchner. Le format d’intervention est toujours le même : guerre économique, désinformation sous toutes ses formes , mise à contribution des épiscopats catholiques qui s’apparentent bien souvent aux forces de l’opposition politique.

C’est dans ce contexte que se présente la grande alliance du Vatican et de Washington. Pendant que ce dernier veut récupérer ses pleins pouvoirs sur les gouvernements de l’Amérique latine, le Vatican veut se défaire de tout ce qui raisonne communisme, socialisme, anti-impérialisme, etc. À toute fin pratique, les deux s’entendent sur les mêmes ennemis sans pour autant partager les mêmes objectifs.

En 1982, à la bibliothèque du Vatican, un premier Pacte a été signé entre le pape Jean-Paul II et Ronald Reagan.  Ils en étaient à leur premier contact. Il s’agissait, à cette époque, de la Pologne et des mouvements socialistes en A.L, dont la théologie de libération qui en  faisait partie.

En 2014, un second Pacte est signé, cette fois entre le pape François et Obama. Ce dernier n’arrive toujours pas à se libérer de Maduro au Venezuela, de Lula et Dilma Rousseff au Brésil, de Daniel Ortega au Nicaragua, etc. L’aide du Vatican et des épiscopats nationaux de ces pays s’impose.

Dans certains de ces pays, les épiscopats utilisent à plein régime la « religion » avec tous ses symboles pour discréditer les gouvernements au pouvoir et soulever le peuple contre ces derniers. Ils assument, pratiquement en totalité, les fonctions d’une opposition qui a perdu toute crédibilité. Ils en arrivent eux-mêmes à perdre la leur. Ça sent beaucoup la « religion opium du peuple ».

Liens:

https://www.mondialisation.ca/nouveau-pacte-entre-le-vati...

http://www.elcorreo.eu.org/Nouveau-pacte-entre-le-Vatican...

https://www.courrierinternational.com/article/2005/04/07/...

http://www.les7duquebec.com/7-de-garde-2/lamerique-latine...


- Source : Humanisme Blogspot

dimanche, 06 janvier 2019

Bogdan Herzog : sortez le pétrole du pétrodollar, sortez le dollar du narcodollar

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Bogdan Herzog : sortez le pétrole du pétrodollar, sortez le dollar du narcodollar

Bogdan Herzog

Traduction française par Chlodomir

Conférence Internationale “Financial capitalism and its alternatives for the 21st century. Contributions to the 4th Economic Theory” (Le capitalisme financier et ses alternatives pour le XXIe siècle. Contributions à la 4e Théorie économique).

Chișinău, 15 décembre 2017

J’ai récemment lu l’interview du Pr. Douguine dans le magazine The Economist. C’est une interview très intéressante qui permet d’exprimer notre vision-du-monde à une audience non-eurasiste plus grande. J’ai moi-même distribué le matériel à un certain nombre de gens et il a été apprécié même par des personnes qui n’ont pas forcément la même perception de la réalité que nous. Le professeur s’avère être un intellectuel hautement distingué, un digne adversaire du libéralisme et cela peut être apprécié par des gens neutres et même par des ennemis.

Cependant, je prends l’exemple d’une question posée par l’interviewer et de la réponse du Pr. Douguine, où je proposerais une approche différente. La question posée était : « Pourquoi pensez-vous que l’autre civilisation, l’anglo-saxonne, réussit économiquement mieux que la civilisation eurasienne ? », et la réponse fut la suivante : « Précisément parce que l’économie est, pour vous, le destin. Pour nous, c’est l’esprit qui est le destin. Si vous placez une valeur matérielle comme la plus haute valeur, alors vous avez mieux réussi en cela ».

Bien que je comprenne le raisonnement philosophique et religieux qui se trouve derrière la réponse, incluant que l’on ne peut pas servir deux maîtres, Dieu et Mammon, je préférerais une approche plus directe et économiquement orientée à une telle question. Etonnamment ou pas, Marx, du moins dans ses premiers écrits, avait une approche similaire à celle du Pr.  Douguine sur cette question.

En ce qui me concerne, je voudrais d’abord noter la manière dont la question est structurée. C’est une affirmation : « L’Occident est meilleur pour développer des systèmes économiques », déguisée en une question. Répondre à la question en tentant de donner une explication revient à accepter la supposition de l’interviewer. C’était un piège. A mon avis, la réponse aurait dû être la suivante : « La civilisation anglo-saxonne n’est pas meilleure pour développer des systèmes économiques. Sa prospérité actuelle est due au fait qu’elle peut imprimer une quantité illimitée d’argent à partir de rien et qu’elle a la capacité militaire et politique à obliger les autres à l’accepter comme moyen de paiement ». C’est un vol déguisé. Obliger les autres à abandonner leurs valeurs pour rien est une forme de vol. C’est la source de leur prospérité, pas seulement leur obsession pour les biens matériels. En d’autres mots, l’Occident est meilleur pour imposer son point de vue dans le monde entier, pas pour développer des systèmes économiques supérieurs.

Et ils sont très bons pour quelque chose d’autre aussi, pour présenter leur propre intérêt comme étant, d’une manière ou d’une autre, dans l’intérêt général de l’humanité, de l’humanité en général. Ils sont les maîtres du culot ! C’est comme si un dealer de drogue, ou un voleur, demandait à un enseignant ou à un ouvrier : « Pourquoi pensez-vous que je suis plus riche que vous ? ». La réponse peut être philosophique : « Vous êtes préoccupé par l’argent », mais elle peut aussi être plus directe : « Parce que vous êtes un voleur ».

C’est un aspect important, ce n’est pas quelque chose à négliger. Puisque nous sommes en guerre, du moins dans le domaine des idées, ne laissons pas l’ennemi tenir le haut du pavé. Stratégiquement nous ne voulons pas mener une bataille pénible. Nous avons l’avantage moral même dans le monde de l’économie, et il faut rappeler cela à l’ennemi et au grand public. Nous avons affaire à un empire bâti par des voleurs, des pirates et des dealers audacieux, qui arrivent toujours au nom d’idées généreuses, comme la « liberté » et le « libre-échange », et qui repartent les poches pleines d’argent. Ce sont les gens qui nous font la leçon aujourd’hui !

Donc, mon premier message est : ne laissez pas l’ennemi prendre l’avantage moral. J’étayerai mes affirmations plus tard, avec quelques cours d’histoire, plus précisément sur les guerres de l’Opium.

Mais nous allons faire une très brève récapitulation de la nature de l’actuel système économique, et des manières possibles de le rendre plus juste.

Comme je l’ai dit avant, la prospérité de l’Occident est basée sur deux facteurs : l’impression de monnaie et la capacité d’obliger les autres à l’accepter. Puisque n’importe qui, n’importe quelle nation ou même des non-nations peut émettre de la monnaie (à Hong-Kong par exemple les billets de banque sont imprimés par des banques commerciales), il est évident que dans cette équation le facteur important est la capacité à imposer son usage. L’actuel système monétaire a un nom, le pétrodollar. Ce n’est pas par hasard. Cela vient du fait qu’en 1971, quand les Américains mirent fin à la convertibilité du dollar en or, ils la remplacèrent par la convertibilité en matières premières, et spécialement, mais pas exclusivement, en pétrole. La capacité militaire et politique des Américains à imposer leurs vues aux producteurs de pétrole, et à les obliger à vendre leurs produits en dollars, est la clé du système. La même logique peut être étendue à toutes les matières premières et au commerce international en général. La présence de troupes américaines au Moyen-Orient assure la domination du dollar sur le marché pétrolier, leur présence en Europe assure une certaine parité entre l’euro et le dollar, et ainsi de suite. Je n’entrerai pas dans les détails, mais je voulais souligner qu’en fin de compte tout se ramène au pouvoir. Ce pouvoir n’est pas limité à la capacité d’imposer un certain accord commercial à une troisième nation, mais aussi à sécuriser les voies d’approvisionnement ainsi que certaines régions.

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Pour créer un système économique meilleur et plus juste, il ne suffit pas de signer des accords de commerce bilatéraux exprimés dans d’autres monnaies. Des corridors de transit et de protection pour les pays désireux de commercer en utilisant d’autres monnaies devront être assurés. Bien sûr ce sont des réalités bien connues. L’initiative chinoise de la Nouvelle Route de la Soie et les événements du Moyen-Orient sont la preuve du fait que ces idées de base ont été comprises et que des pas sont faits dans la bonne direction. Nous devons sortir le pétrole du pétrodollar. C’est le second message du jour.

Enfin, je voudrais attirer votre attention sur une zone plus cachée, opaque, que je considère comme importante. Il y a un précédent historique au pétrodollar, en tant que monnaie fiduciaire basée sur la projection de pouvoir. Je parle de la narco-livre (britannique). Au début du XIXe siècle, les Britanniques enregistrèrent des déficits considérables dans leur commerce avec la Chine. A ce propos, c’est la Chine, et non l’Occident comme l’affirme erronément le reporter de The Economist, qui, sauf pendant 150 ans, fut le centre de l’activité économique de la planète.

Au début du XIXe siècle, exactement comme aujourd’hui, la Chine n’était pas intéressée par les produits que les Britanniques pouvaient lui offrir en échange et demandait que les dettes commerciales soient réglées par le paiement d’argent réel sous la forme de lingots d’argent. Quelle fut la solution découverte par les Britanniques pour stopper l’écoulement du « fleuve » d’argent ? Ils obligèrent les Chinois à s’adonner à la drogue, et quand ces derniers tentèrent de s’y opposer, ils déclarèrent la guerre à la Chine. Deux fois. Tout cela au nom du libre-échange et de la paix, bien sûr. Je voudrais ajouter que certaines des plus grandes banques et sociétés commerciales d’aujourd’hui ont leurs racines dans cette affaire infâme : HSBC, Jardine Matheson, Swire, etc. On peut dire la même chose de nombreuses familles « nobles », qui devinrent des lords, des pairs et des chevaliers de l’Empire britannique. Mais nous ne les nommerons pas aujourd’hui.

Pourquoi cela est-il important aujourd’hui ? Parce qu’aujourd’hui, tout comme 200 ans auparavant, le trafic de drogue est entre les mains des mêmes réseaux. L’opium est produit en Afghanistan à des niveaux record, même selon les statistiques officielles de l’ONU. Même chose pour la cocaïne de Colombie, un autre protectorat. Pourquoi cela a-t-il lieu ?

Certains disent que c’est parce que l’argent généré par les drogues est nécessaire pour financer les opérations clandestines, les dénommées « black-ops ». Peut-être, mais pour moi cette réponse est insuffisante. Ce genre d’argent est requis pour des pays de second ordre. Le système qu’utilisent la CIA et le Pentagone dispose déjà de la machine à imprimer l’argent ! Il peut envoyer tout l’argent qu’il veut, partout où il le désire. Il peut créer des sociétés fictives et leurs comptes peuvent être remplis à volonté. Donc pourquoi ont-ils besoin de contrôler le marché de la drogue et en quoi cela est-il relié au pétrodollar ?

Le système monétaire lui-même est dirigé exactement comme un cartel de la drogue. La FED américaine est l’équivalent du producteur, les banques nationales représentent les réseaux de distribution, et les banques commerciales représentent les dealers de rue. Un système de blanchiment assure la distribution des fonds et des profits. Le produit fini, l’argent, génère bien sûr sa propre addiction.

Crude-Oil-268x300.pngL’argent qui provient des drogues a deux caractéristiques : il est en grandes quantités et il est généré en cash. Le problème pour le syndicat de l’argent est de s’assurer que cet argent est réintégré dans le système bancaire, sinon il pourrait finir dans de mauvaises mains, qui pourraient demander des avoirs réels en retour. Cela pourrait bien sûr générer des déséquilibres majeurs et des fluctuations de la monnaie. Alors que dans le système bancaire, l’argent sera blanchi et distribué à travers le mécanisme du blanchiment.

Vous souvenez-vous de Pablo Escobar qui cachait des milliards de dollars en cash dans la jungle colombienne ? Je suis certain que c’est l’une des principales raisons de son élimination. Ce n’était sûrement pas pour éliminer le trafic de drogue, qui a explosé depuis. Nous devons sortir le dollar du narcodollar. C’est le troisième et dernier message pour aujourd’hui.  Pourquoi ?

Pour l’instant le système n’a pas besoin du trafic de drogue pour financer les opérations clandestines « black-ops », mais il a besoin de s’assurer que ce trafic, comme tout trafic, soit effectué dans sa monnaie et que l’argent cash revienne dans le système. De même que le pétrole, l’énergie, le cuivre ou le zinc, l’héroïne et la cocaïne doivent être payés en argent généré à partir de rien, en dollars.

Il est aussi important d’avoir la capacité de cibler avec des drogues la population des Etats rivaux. De ce point de vue, l’Afghanistan est idéalement situé à la frontière des deux principaux rivaux du système, la Chine et la Russie. En même temps, ce pays présente l’avantage que les réseaux de distribution qui en proviennent traverseront les pays musulmans d’Asie Centrale, et donc des réseaux de distribution de drogue à base ethnique peuvent être développés, créant des prémisses pour de futurs conflits interethniques.

L’annihilation des centres de production de drogue n’est pas seulement nécessaire pour le bien de la population. Leur sortie hors du système du dollar créera d’importants déséquilibres monétaires. La monnaie sortira du système et ne reviendra plus jamais, ajoutant une pression supplémentaire aux déficits commerciaux existants. Les bénéficiaires secondaires dans les pays secondaires devront être financés directement et cela requerra la redistribution des ressources.

C’est une ironie du destin, ou une justice karmique peut-être, qu’en sortant le dollar du narcodollar, l’Eurasie pourra rendre au monde anglo-saxon le cadeau empoisonné que ce dernier lui a donné il y a 200 ans. Nous ne parlons pas d’encourager la consommation de drogue de la manière dont l’ont fait les Anglo-Saxons, parce que ce serait une infamie, mais la neutralisation de cette arme, aujourd’hui encore entre les mains du système, tout en concurrençant le pétrodollar, fera renaître le « fleuve d’argent » qui sortait de l’Occident et entrait en Eurasie au XVIIIe siècle. Cela signifierait le retour à l’économie réelle.

Bogdan Herzog.

 

 

Une magnifique trilogie pour l'Europe !

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Une magnifique trilogie pour l'Europe !

par Georges FELTIN-TRACOL

Après avoir publié un excellent livre d’entretiens de Laurent Ozon et les souvenirs de Frédéric Lynn au Donbass, les éditions Bios ont fait paraître, il y a un an, trois recueils d’articles, d’entretiens et de conférences de Robert Steuckers consacrés à l’histoire, à la géopolitique et à l’avenir de l’Europe. Quelle prodigieuse triple somme ! Certes, un esprit chagrin pourrait regretter de lire ici ou là quelques répétitions, mais c’est la loi du genre; ces inévitables répétitions demeurent didactiques.

Bruxellois parlant depuis l’enfance le français, le néerlandais flamand et l’allemand, Robert Steuckers enseigne l’anglais et connaît l’italien et l’espagnol. C’est un « bon Européen » au sens que l’entendait le Grand Frédéric. Infatigable militant métapolitique et culturel de la cause identitaire européenne, il se considère pleinement comme un sujet de l’Âme sacro-impériale romaine germanique et de ses déclinaisons historiques, bourguignonne, habsbourgeoise et hispanique. Ce n’est pas un hasard si Robert Steuckers apprécie la Franche-Comté, cette terre bourguignonne puis espagnole annexée sous Louis XIV et dont maintes familles paysannes se faisaient enterrer pendant plus d’un siècle en tournant le dos à Paris pour signifier leur allégeance véritable à la Couronne espagnole.

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Fidélité à l’Empire

Robert Steuckers estime que l’idée impériale a une histoire et donc un avenir qu’il importe de forcer. Cependant, « toute notion d’empire aujourd’hui doit reposer sur les quatre vertus de Frédéric II Hohenstaufen : justice, vérité, miséricorde et constance. L’idée de justice doit se concrétiser aujourd’hui par la notion de subsidiarité, donnant à chaque catégorie de citoyens, à chaque communauté religieuse ou culturelle, professionnelle ou autre, le droit à l’autonomie, afin de ne pas mutiler un pan du réel. La notion de vérité passe par une revalorisation de la “ connaissance ”, de la “ sapience ” et d’un respect des lois naturelles. La miséricorde passe par une charte sociale exemplaire pour le reste de la planète. La notion de constance doit nous conduire vers une fusion du savoir scientifique et de la vision politique, de la connaissance et de la pratique politicienne quotidienne (I, p. 138) ». Il regrette bien sûr les tentatives impériales avortées à la fin du Moyen Âge et à la Renaissance. Le décès de la reine Mary Tudor a des « conséquences […] catastrophiques pour l’Espagne, les Pays-Bas, le Saint-Empire et, finalement, l’Europe entière (I, p. 102) ». Avant que l’Espagne et le Portugal ne forment pour six courtes décennies l’Union ibérique (1580 – 1640), on oublie qu’« en 1554, l’héritier de la couronne d’Espagne et du Cercle de Bourgogne (les Pays-Bas), Philippe II, épouse Mary Tudor, reine d’Angleterre. […] Pendant quatre ans donc, les Pays-Bas, l’Angleterre, l’Espagne, le Milanais et le Royaume de Naples et des Deux-Siciles connaîtront une direction unique, celle de Philippe II, allié aux Habsbourg d’Autriche, qui détiennent la titulature impériale (I, p. 101) ».

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Outre la Sainte-Alliance post-napoléonienne imaginée par le chancelier Metternich, Robert Steuckers se félicite à rebours de Mélancolie française d’Éric Zemmour (Fayard – Denoël, 2010) du « renversement des alliances » de 1756 validé par Louis XV et poursuivi par son petit-fils Louis XVI. « Nous avons une alliance tacite, eurasienne avant la lettre […], entre la France de Louis XVI (réconcilié avec l’Autriche par son mariage avec Marie-Antoinette de Habsbourg-Lorraine), l’Autriche de Marie-Thérèse puis de Joseph II et la Russie de Catherine II la Grande. Cette alliance tacite […] offrait un espace stratégique de la Bretagne atlantique, voire de l’Espagne des Bourbons éclairés notamment sous le règne de Carlos III, jusqu’aux confins pacifiques de la Sibérie orientale. Cette alliance eurasienne a permis, entre l’avènement de Louis XVI en 1774 et la révolution française, d’esquisser une unité géostratégique entre les trois principales puissances continentales européenne (où la France avait acquis une supériorité navale dans l’Atlantique Nord suite à la guerre d’indépendance des États-Unis) (II, p. 4). »

Judicieux rappels historiques pour quiconque souhaite la libération et l’affirmation de la civilisation européenne ! « L’Europe-croupion, que nous avons devant les yeux, est une victime consentante de la globalisation voulue par l’hegemon américain (II, p. 17). » En effet, pour la puissance thalassocratique étatsunienne, « l’ennemi, c’est l’Europe qu’il faut ré-enclaver et qu’il faut faire imploser de l’intérieur en la livrant en permanence à des politiciens écervelés et en y déversant constamment des populations hétérogènes et inassimilables, débarquant à Lampedusa et sur les îles de l’Égée grecque (II, p. 63) ». Dans ces conditions, il importe d’éliminer impitoyablement ses trois ennemis prioritaires : « L’intégrisme religieux / terroriste de pure fabrication, le banditisme organisé et les cénacles manipulateurs et pervers d’économistes néo-libéraux (II, p. 150). » Ce n’est hélas ! pas gagné…

L’influence hydrologique

N’y aurait-il donc plus aucun espoir ? Non, si l’on accepte enfin de renouer avec l’héritage du Grand-Duché d’Occident. « Comme Philippe le Bon entendait reconstituer la dorsale lotharingienne pour mieux unir l’Europe et comme l’Ordre de la Toison d’Or était destiné à devenir l’instrument de cette politique, l’épine dorsale spirituelle et militaire d’une future Europe unifiée, la “ matière bourguignonne ”, dans sa rutilante diversité, recèle in toto les linéaments de notre “ mission nationale et impériale ”. Il n’y en a pas d’autre (II, p. 170). » Robert Steuckers fait sien ce projet grandiose « repris par Maximilien Ier, dès son mariage avec Marie de Bourgogne; le projet bourguignon fusionne, dès la fin du XVe siècle, avec l’impérialité romaine – germanique; il y a donc continuité entre ce projet bourguignon et les actions du binôme austro-hongrois d’une part, et avec celles de l’Espagne et de l’Ordre de Malte en Méditerranée, d’autre part (II, p. 168) ».

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Outre la dimension historique, il s’attarde en outre sur les aspects religieux et culturels ainsi qu’aux données géographiques au point qu’il recourt au concept perspicace d’« hydropolitique ». Les cours d’eau principaux et leurs affluents expliquent en dernière analyse la configuration des espaces politiques. « La dynamique de l’histoire romaine […] ou la logique de l’expansion territoriale romaine, repose in fine sur la bonne maîtrise de ces trois bassins fluviaux d’Europe (I, pp. 151 – 152) » : le Rhône, le Rhin et le Danube. D’antiques logiques stratégiques continuent leur œuvre aujourd’hui.

L’autre précision qu’apporte Robert Steuckers concerne le caractère forcément bigarré des empires européens. Il souligne le côté polyculturaliste de tout cadre impérial conséquent et réel. Polyculturalisme et non multiculturalisme, nuance de taille ! Le polyculturalisme est l’agencement politique des cultures autochtones européennes tandis que le multiculturalisme fait cœxister sur le même sol des peuples à l’esprit divergent. « Dans un empire cohabitent diverses communautés et, partant, vu l’extension territoriale importante de tout empire, divers peuples, que l’on ne songe pas à fusionner dans un magma insipide et indifférencié. Les empires sont généralement pluri-ethniques. C’était le cas de la monarchie austro-hongroise, dernière détentrice de l’impérialité romaine-germanique, où des hommes de toutes origines ethniques ont servi (I, pp. 157 – 158). » S’il ne croit pas au cadre stato-national réductionniste normativiste forcené et négateur des différences ethno-culturelles vivantes, il n’en est pas moins favorable au concept d’État. En lecteur attentif et assidu de Carl Schmitt et de Julien Freund, il estime que l’État s’adapte aux manifestations géographiques du politique, qu’il se fonde en cité, en région, en nation ou en empire. Là encore intervient l’influence des aires hydrologiques. « La dynamique de l’histoire allemande est centrifuge parce que les bassins fluviaux qui innervent le territoire germanique sont parallèles les uns aux autres et ne permettent pas une dynamique centripète comme en Russie d’Europe et en France. Un pays dont les fleuves sont parallèles ne peut être aisément centralisé. Les bassins fluviaux restent bien séparés les uns des autres, ce qui sépare également les populations qui se fixent dans les zones très œcuméniques que sont les vallées (III, p. 2). »

Une vision originale

Tout étudiant en histoire, en géographie et en sciences politiques devrait se procurer cette trilogie Europa de Robert Steuckers ou, pour le moins, demander aux fonds universitaires d’acquérir cette somme magistrale mille fois plus profitable qu’une énième étude quelconque sur le prétendu genre. On pourrait toutefois être dérouté par l’ampleur du champ de vision de l’auteur. Très mobilisé par le sort de notre grande patrie européenne, Robert Steuckers n’hésite pas à aborder d’autres champs sur d’autres continents. Dès le tome II, il se prononce « pour une “ grande alliance ” eurasienne et ibéro-américaine (p. 133) », se manifestant entre autres par un « soutien total à l’Arménie (II, p. 143) », la rupture de « l’alliance entre Washington et Ankara (II, p. 141) » et un « soutien total à Chavez (II, p. 144) ». Certes, cette prise de position paraît maintenant dépassée avec le naufrage, en partie prémédité par Washington, du Venezuela de Maduro et au moment où l’Amérique du Sud retrouve des dirigeants de droite libérale-conservatrice atlantiste (Chili, Argentine, Colombie, Brésil). La démarche demeure néanmoins actuelle en s’appuyant sur le justicialisme argentin et l’indigénisme andin présent au Bolivie, en Équateur et au Pérou.

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Dans les trois volumes se trouvent aussi ses notes sur l’Afghanistan, l’Iran, le monde arabe, le Tibet, le Japon ou le Pakistan. À chaque fois, une vision historique de la très longue durée se combine aux interprétations psychologiques des peuples, aux faits géopolitiques les plus complets possibles et à l’arrière-plan – primordial – de la spiritualité et de la culture. Il s’agit de saisir à un instant précis la vigueur des civilisations, des peuples, des États et des nations face au « monothéisme globaliste » d’essence marchande. Le réveil et l’affirmation des peuples constituent d’excellentes nouvelles pour tous ceux qui estiment que « le monde est un “ pluriversum ” (II, p. 104) ». Il revient par conséquent aux Européens les plus éveillés la délicate mission d’obtenir une « synthèse nouvelle entre ouverture et fermeture, pour reprendre la terminologie inaugurée par Popper, [qui] postule un rejet de l’extrémisme néo-libéral, un planisme souple de gaullienne mémoire, une volonté de provoquer la “ dédollarisation ” de l’économie planétaire et de créer une alternative solide au système anglo-saxon, manchestérien et néo-libéral (II, p. 104) ». Tel est donc le combat engagé par Robert Steuckers depuis plus de quarante ans. Gageons que les nombreux jalons qu’il a dès à présent posés indiqueront aux peuples albo-européens et à leurs véritables élites organiques la juste direction à suivre.

Georges Feltin-Tracol

• Robert Steuckers, Europa. Valeurs et racines profondes de l’Europe, Éditions Bios, 2017, 338 p., 25 €; Europa. De l’Eurasie aux périphéries, une géopolitique continentale, Éditions Bios, 2017, 316 p., 25 €, et Europa. L’Europe, un balcon sur le monde, Éditions Bios, 2017, 342 p., 25 €, les trois volumes à 80 € (75 € + 5 € de frais de port).

Pour toute commande directe chez l'éditeur: https://editionsbios.fr

lundi, 31 décembre 2018

Un nouvel ordre mondial vu de Russie

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Un nouvel ordre mondial vu de Russie

A new world order: A view from Russia

par Jean Paul Baquiast

Ex: http://europesolidaire.eu

RGAff.jpgCet article, référencé ci-dessous, écrit par deux spécialistes russes de science politique internationales, Sergey Karagonov et Dmitry Suslov, est à lire d'urgence. Il présente, loin de la façon dont en France, sous l'influence des « think tanks » américains, l'on se représente la diplomatie russe, un point de vue très balancé de ce que pourrait être le rôle de la Russie dans la construction de ce que l'on commence à nommer une grande puissance eurasiatique.
Celle-ci pourrait constituer, face à un ensemble dit euro-atlantique dominé par les intérêts politiques et économiques américains, un contrepoids essentiel permettant d'éviter une guerre mondiale. Une puissance eurasiatique comprendrait, comme le nom l'indique, la Russie et certains grands pays européens ouverts au monde, comme devrait être la France. Il permettrait aussi d'associer à la Russie et à l'Europe la puissance chinoise en voie de devenir un facteur autour duquel se construira le monde de cette fin de siècle.
Mais la lecture de cet article s'impose aussi parce que celui-ci pourra faire connaître en France une revue russe de politique internationale, Russia in Global Affairs, dont on peut penser que s'inspirent Vladimir Poutine et Sergei Lavrov dans leur effort pour jouer un rôle modérateur au sein des actuels conflits militaires au Moyen-Orient.

Bref résumé de la première partie de l'article.
Nos commentaires en caractères italiques 

1. Un nouvel ordre du monde

L'ordre du monde international qui s'était imposé depuis plus d'un siècle s'est trouvé remis en cause depuis 2017-2018. une cause en a été l'élection de Donald Trump et la volonté américaine d'éliminer la Russie et la Chine des institutions en charge de le définir et le protéger. Mais plus en profondeur cet ordre du monde s'est heurté aux conflits grandissants entre puissance qui jusqu'ici s'était accordés sur la nécessité d'un tel ordre du monde. Tout laisse penser que l'ordre du monde ancien est en cours d'effondrement et qu'un nouvel ordre pourrait s'imposer. La Russie a de bonnes chances de pouvoir être un des principaux moteurs de cette transformation. Sous son influence, le nouvel ordre du monde pourrait plus équitable, stable et pacifique.

Les auteurs de l'article sont russes. On pourra objecter qu'ils défendent une thèse favorable à la Russie. Mais dans la suite de l'article ils apportent des arguments très sérieux en faveur de leur point de vue. Nous pensons que la plupart de ceux-ci mériteraient d'être pris en considération.

Malheureusement, ce nouvel ordre du monde demandera beaucoup de temps pour s'imposer. En attendant, l'état actuel des relations entre les Etats-Unis et la Russie ne contribue pas à prévenir le risque d'une 3e Guerre Mondiale qui verrait la disparition de ces deux puissance, comme sans doute de toutes les autres.

Dans ce domaine, la Russie s'efforce d'agir comme un facteur de sécurité à travers ses politiques internationales et de défense. Les réalisations actuelles de la Russie dans le domaine de nouvelles armes, exposées par Vladimir Poutine dans son discours de 2018, devraient jouer un rôle essentiel. Il s'agira d'une force de dissuasion visant à décourager les politiques d'agression des Etats-Unis.

Ceci paraîtra peu crédible au lecteur mal informé, car de nouvelles armes, aussi efficaces soient-elles en termes dissuasif, peuvent également être mises au service de politiques d'agression. Mais nous avons nous-même à l'époque indiqué que cela ne devrait pas être le cas. Un simple missile hypersonique du type de celui mis au point par la Russie, qui pourrait à lui seul détruire un porte-avions, ne pourrait jamais, à moins d'être doté d'une charge nucléaire – ce que Moscou refuse - soutenir une politique d'agression, au contraire de la flotte de porte-avions dont s'est dotée l'Amérique . Ceci étant la Russie dispose en Europe de forces terrestres largement supérieures à celles de l'Otan. Là encore il sera essentiel que la Russie continue, comme elle l'a fait jusqu'à présent, à maintenir une politique de non-agression, essentielle pour un éventuel dialogue constructif avec Washington.

Le « pivot » vers l'Asie de la Russie, se traduisant par un rapprochement avec la Chine, contribuera à créer une « Grande Eurasie ». Vu l'étendue des territoires et l'importance des forces concernées, cet ensemble pourra être un élément essentiel pour le futur ordre du monde, contrairement à ce que serait une Chine livrée à ses propres forces pour se faire respecter. De plus, la Russie s'efforcera de développer un partenariat étendu avec l'Inde et une coopération avec des alliés de l'Amérique, notamment le Japon, la Corée du sud et si possible les Etats européens. Ces différents pays cherchent à atténuer les confrontations entre l'occident et la Russie, comme entre les Etats-Unis et la Russie. Aucun n'a à y gagner.

Ceci dit, notamment pour des raisons de politique intérieure, aucun des Etats occidentaux ne paraît prêt dans les 10 prochaines années à accepter un nouvel ordre international incluant la Russie. Lorsque les élites actuellement au pouvoir auront été remplacées dans les 10 ou 20 ans prochains par d'autres plus ouvertes, c'est-à-dire vers 2030-2040, le nouvel ordre devrait devenir possible.

2) Pourquoi l'ordre du monde international actuel est-il en voie d'effondrement ?
3) La situation de l'Occident
4) Une Russie victorieuse, mais non sans problèmes
5) Les enjeux de sécurité
6) Le rôle de la Russie pour créer autour de l'Eurasie de futures politiques internationales plus ouvertes


Notes et sources

 

Référence de l'article
 https://eng.globalaffairs.ru/pubcol/A-new-world-order-A-v...

mardi, 18 décembre 2018

Le Royaume-Uni et le dernier Empire - Sur la souveraineté, l'intérêt nation et l'ordre libéral des nations

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Le Royaume-Uni et le dernier Empire
 
Sur la souveraineté, l'intérêt nation et l'ordre libéral des nations
 
par Irnerio Seminatore
Le Royaume Uni et le dernier Empire 

Le 25 Novembre 2018, après 18 mois d'âpres négociations, un projet d'accord a été signé par les Chefs d’États et de Gouvernement des 27 Pays-membres de l'Union Européenne et par la Première Ministre du Royaume-Uni, M.me Theresa May, pour mettre fin à la membership de la Grande Bretagne aux institutions européennes, après 45 ans d'adhésion(1973).

S'ensuivit une courte allocution, puis le retour amer de la Première Ministre à Londres, afin de  soumettre le texte (de 585 pages) et une déclaration politique d'accompagnement (de 26 pages), au débat et à la ratification parlementaires de Westminster.

La journée, historique et peu jubilatoire, a marqué un échec du projet européen et un tournant grave de son évolution, que certains (Macron) préconisent de "refondation".

En effet, les dangers internes du consensus de masse, exprimés par référendum et libérés des freins et des contrepoids traditionnels, ont pris le poids sur la définition de l'avenir.

Voulu par un choix populaire, ce retour à l'exercice intégrale de la "souveraineté nationale" de la part de la deuxième puissance économique du continent s'est fait dans l'amertume et dans l'incertitude.

Trois arguments ont pesés sur le vote populaire: l'immigration, la zone euro et le fossé culturel et politique entre l'Est et l'Ouest.

Confronté à un compromis insatisfaisant et au dilemme de se soumettre ou de sortir sans accord (no deal), certains ministres du gouvernement de Theresa May ont réconforté le débat,en indiquant au pays, comme objectif ambitieux, un nouveau destin planétaire, le seul à la hauteur de son passé.

Enfin, l'U.E et la Grande Bretagne sont revenues, chacune, à leurs traditions et pratiques. Les continentaux à l'utopie bureaucratique des institutions européennes avec, en corrélat, l'opposition pré-moderne du "peuple" et des"élites" (France) et le Royaume-Uni à ses fondamentaux, de liberté et de démocratie politiques, avec, en corrélat, le droit de dissidence, de sécession et de résistance à la contrainte  normative de l'Union.

Contre ce tyran (l'empire oppressif de l'U.E) on a pu invoquer ainsi le droit moyenâgeux de sédition et de mort, le tyrannicide.

La volonté de quitter l'hydre européenne  a été la première exigence à satisfaire, en parfaite conformité avec le référendum et avec les demandes des "brexiters" (les tories) de mener une politique d'austérité et, des remainers, de souhaiter une plus grande présence de l’État dans la vie économique.

Le vote en faveur du Brexit a représenté pour tous, continentaux et britanniques, une victoire du populisme, du nationalisme et du souverainisme, comme "longue usurpation du pouvoir", ou, en d'autres termes, comme fondement d'une légitimité ancienne.

Face au dernier empire (l'U.E) et à l'extrémisme normatif de la "raison", tous les avatars de l'anti-souverainisme n'ont pu éviter une crise de confiance envers les institutions et contre les "élites globalistes" de la mondialisation.

En France et en Italie, l'impuissance de l'ordo-libéralisme et des traités de l'U.E, à proposer une offre politique par le biais d'un dépassement des partis politiques,de la représentation bi-partisane (justifiant l'appel "ni droite, ni gauche"), et de l'usure des corps intermédiaires , a mis en lumière, grâce au référendum britannique, le clivage qui existe désormais entre deux visions de la société, nationale et international, à l'ère d'internet.

Il a poussé à une radicalisation des termes de l'accord, arraché par Theresa May, qui a dramatisé à l'excès le choix final, "Ou moi,ou le chaos (identifié à un "no deal", ou à une négation de l'intérêt national).

Le Royaume Uni, l'intérêt national et la "Balance of Power"

En effet et par le passé, c'est au nom de "l'intérêt national" que le Royaume Uni a toujours défini ses choix, en politique interne, prônant pour l'unité du royaume et en politique européenne et mondiale, penchant  pour l'adoption  du vieux principe de "divide et impera!"

A titre d'impact psychologique, la crise de la Grande Bretagne avec l'Union européenne, a été comparée, par les médias et par une partie de la classe gouvernementale britannique à la "crise de Suez" de 1956, qui tourna politiquement au fiasco, malgré la victoire militaire.

Cette comparaison a rappelé à l'opinion la première prise de conscience, encore circonscrite, du déclin de l'Empire.

Son déclassement géopolitique et historique confina depuis et pour l'essentiel, les deux puissances coloniales de l'époque, la France et la Grande Bretagne, à peser sur le seul continent européen.

La "limite", qu'imposait désormais au Royaume -Uni  la "surextention impériale"(P. Kennedy), n'était rien d'autre que l'adaptation de l'intérêt national à la politique de "l'équilibre de puissance" de David Hume, comportant  une surveillance permanente sur les intentions et les manœuvres des acteurs continentaux concurrents, afin que "ne soit pas tenue en une seule main une force supérieure à toutes les autres coalisées"!

Une image efficace pour définir l'opposition résolue de l'Angleterre aux ambitions continentales et montantes de toute puissance hégémonique, dont témoignèrent la première et la deuxième guerre mondiales.

Cependant, la conscience du déclin de l'Empire fut ressentie pour la première fois et de manière plus aiguë par Churchill, vis à vis de l'Amérique et de l'Union Soviétique, à la "Conférence de Téhéran, des trois Grands, Roosevelt, Staline et Churchill", en 1943, organisée pour définir la coordination militaire et politique de la dernière phase du conflit, par l'ouverture d'un deuxième front et le débarquement en Normandie, ainsi que pour redessiner la carte de la Pologne et de l'Allemagne dans l'organisation de l'ordre mondial et dans la recherche de la sécurité collective sur le théâtre européen.

Rien de comparable avec l'amertume de Theresa May, de retour à Westminster, après la conférence extraordinaire des Chefs d’État et de Gouvernement des Pays-membres de l'Union. Ni l'enjeu, ni la taille des protagonistes semble justifier une telle comparaison.

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Perspectives et équilibres planétaires

Toutefois, sur la toile de fond de l'histoire européenne la réappropriation du passé acquière désormais une valeur symbolique différente pour les diverses classes d'acteurs et mobilise différemment les deux camps, face à l'avenir et aux projets de"reforme" des institutions qui avaient été jusqu'ici communes.

Si les deux impératifs de l'intérêt national et de l'équilibre de puissance ont été les deux fils conducteurs du Royaume Uni depuis le traité de Utrecht (en 1713, reconfirmé par le Congrès de Vienne en 1805), se résumant à l'unité des îles britanniques autour de la couronne et à la division des joueurs sur le continent, rien de tel pour les 27 pays membres, irréductibles à un principe d'action commun.

Vers quelle direction tournera-t-il le vent de l'histoire du XXIème siècle et qui en saisira la force et les opportunités?

Il semble désormais acquis que l'entrée de la Grande Bretagne dans la Communauté européenne en 1973 n'a été rien d'autre que l'adaptation du principe directeur de la politique britannique traditionnelle, visant à empêcher de l'intérieur toute transformation de l'Union en puissance politique susceptible de devenir une menace et à privilégier l'élargissement, au détriment de l'approfondissement institutionnel, lors de la demande d'adhésion des pays de l'Est, en faisant accepter son pouvoir de regard et de veto, qui lui permirent de bloquer toute avancée significative du bloc concurrent et de rester libre d'agir, sans les contraintes économiques de la zone euro.

Or, l'identification claire de son intérêt de sécurité et de sa survie et l' insertion de cet intérêt vital dans les nouveaux équilibres planétaires, portera-t-elle la Grande-Bretagne à oublier son encrage insulaire entre l'Europe et l'Amérique?

Par ailleurs le Royaume-Uni vise-t-il désormais l'Océan Pacifique et l'Océan Indien, dont le contrôle représente l'enjeu majeur du XXIème siècle, comme nouveau centre de gravité du monde, où pulsera le cœur du capitalisme universel de la finance et de la grande manufacture.

A-t-il oublié que l'enjeu d'une accession à cette zone pivot est un défi et un pari disputés, impliquant simultanément le visage bifront de la paix et de la guerre, au marges extérieures d'une Asie, multiple et conflictuelle?

En est-il de même des préoccupations et des clés de lecture du système international de la part de l'Union Européenne?

Grande Bretagne, France et Allemagne face au renouveau diplomatique de l'Europe

Dans la foulée d'un renouveau diplomatique, consécutif au Brexit, concernant les relations de puissance à l'échelle mondiale et  face à une France qui demande à l'Allemagne de surmonter ses tabous économiques pour faire avancer l'Union, le Ministre des Finances et Vice-Chancelier allemand Olaf Scholz (SPD), a invité la France à consentir de transformer son siège au Conseil de Sécurité  des Nations Unies, pour permettre à l'Europe de parler d'une seule voix.

En effet le "droit de veto" au sein du Conseil de Sécurité, consent aux membres permanents de disposer d'un instrument diplomatique, permettant de traiter d'égal à égal avec les Grands de la planète.

Ainsi le retour au premier plan de la scène internationale et le risque de démantèlement de l'Union Européenne dans la lutte ouverte entre les différents principes de légitimité, visant à débarrasser le débat des vieux carcans idéologiques, impose une polarisation des idées et des positions, soit en ce qui concerne  la rétrospective historique que pour la définition de l'avenir.

Quant aux pronostics d'avenir sur la réussite du Brexit ou  sur son éventuel rejet par la Chambre des Communes, deux analystes du divorce anglo-unioniste, Kevin  O' Rourke et Marc Roche, ont formulé deux idées opposées.

Selon le premier, après le rejet quasi certain de l'accord convenu entre les négociateurs des deux parties, s'ouvrirait une crise politique majeure au Royaume Uni.  Un vrai purgatoire pour M.me Theresa May, prise dans un conflit sans fin, opposant une coalition de contraires (composée de brexiters et de remainers), pour qui l'échec du Leadership, ferait du Royaume Uni, "un pays hors d'Europe, mais encore dirigé par l'Europe et tenu de respecter des règles, qu'il n'aurait pas écrites" (Financial Times).

D'après le deuxième, non seulement Westminter votera l'accord, mais la ferveur de cette option sera telle que le Royaume Uni, deviendra plus dur, plus inégalitaire, mais beaucoup fort économiquement, de telle sorte qu'un nouveaux  destin planétaire s'ouvrira au Royaume, délibérément projeté vers le contrôle de l'Océan Indien et du Pacifique, pivots maritimes de l'Asie.

Un "Partenariat ambitieux"entre le Royaume Uni et l'U.E?

Face à une Union Européenne, à qui a fait défaut une capacité de conception et d'action géopolitique et stratégique globales et une impuissance singulière en matière monétaire, de politique étrangère et de sécurité, mais aussi de frontières et d'immigration, et encore de R&D, de technologies avancées et d'environnement, l'attractivité de jadis s'est commuée en une délégitimation, en une prise de distance et en diffractions internes multiples, qui rendent douteuses ses propositions de "partenariat ambitieux après le Brexit"(Michel Barnier/ Le Figaro du 2 août 2018).

En effet M.Barnier, se penchant sur les modalités de retrait du Royaume Uni, membre du G7 et du Conseil de sécurité des Nations Unies, après avoir passé en revue les points litigieux et les résultats positifs de la difficile négociation, précise que les fondations économiques sur lesquelles s'est construite l'U.E, ne peuvent être affaiblies.

Puis et en conclusion, il met en exergue l'essentiel de la dispute, son caractère politique, axé sur le concept de souveraineté et il précise "le Royaume Uni souhaite reprendre la souveraineté et le contrôle de sa propre législation...mais il ne peut pas demander à l'U.E de perdre le contrôle de ses frontières et de ses lois."

S'opposent, dans ce passage et dans les aspects sous-jacents de ces formulations, deux interprétations du concept de souveraineté et de sa "summa potestas".

Du côté britannique, une conception unitaire  et cohérente du pouvoir et de la légitimité, ancienne et absolue en son principe, en son étendue et en sa liberté de manifestations historiques, qui s'exprime sous forme de "balance".

Du côté de l'Union une définition relative et partagée du pouvoir souverain, inessentielle du point de vue historique, artificielle du point de vue institutionnel et circonstancielle du point de vue décisionnel, sécuritaire et stratégique.

Or, quelles histoires sont en train d'écrire aujourd'hui, ces deux acteurs de la vie contemporaine, le Royaume Uni et l'Union Européenne?

Une histoire de capitulation et de vassalisation du Royaume Uni à l'entreprise déclinante du projet européen, ou, en revanche, une nouvelle histoire de la liberté des peuples et du retour des nations?

Assistons nous, dans une période de turbulences internationales aiguës, à une recrudescence de revendications ingérables et, simultanément, à un appel à la souveraineté incontestée?

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Jo Johnson et Mike Pompeo

La souveraineté, le multilatéralisme et l'ordre libéral des États-Nations

A l'échelle européenne, la fronde de Jo Johnson, ex secrétaire d’État pro-européen aux transports, menée contre l'accord obtenu par Mme May lors des longues négociations avec l'U.E, porte sur la limitation de la souveraineté britannique, non compensée par la liberté promise, de mener une politique commerciale autonome.

Il prône ainsi pour un nouveau référendum, en donnant au peuple le dernier mot.

A l'échelle mondiale, le secrétaire d’État, MIke Pompeo, a décrété au même moment,  à Bruxelles, au German Marshall Fund, la fin du multilatéralisme, au nom de la priorité de la souveraineté américaine sur la logique du système international.

Après avoir rappelé que le vieux système de la coopération internationale ne fonctionne plus et qu'il profite à des acteurs de l'ombre (la Chine), lui permettant d'avancer ses pions, au sein des institutions supra-nationales ou de creuser un clivage entre les intérêts d'une bureaucratie non élue et leurs peuples et pays (U.E), il a rappelé que les intérêts  de l'Europe et des États Unis précèdent ceux des institutions supra-nationales (ONU, UE, FMI, BM, OMC etc), puisque seuls les États-Nations peuvent garantir les libertés démocratiques et ont pour assise le peuple libre.

En effet, seuls les États-Nations sont l'expression de la souveraineté, à l'instar des organisations multilatérales, porteuses de compétences dépourvues de contraintes et de sanctions.

Le multilatéralisme, défendu par les européens, n'est pas seulement une méthode, ou mieux, un choix de régime politique (démocratie ou autocratie), mais une question de stratégie et d'intérêt à long terme, bref de polarisation des forces et des cultures.

L'effacement des vieilles administrations américaines (Obama, Clinton, etc), et l'alignement de certains gouvernements européens (A.Merkel, F.Hollande/ E.Macron, Gentiloni, etc..), ont conduit l'Occident à la paralysie ou à l'impuissance. Or, conclut-t-il les États-Unis, qui revendiquent un rôle central dans le nouvel ordre libéral, mènent le monde vers le recouvrement des souverainetés nationales, comme le font les britanniques avec le Brexit.

Un monde libre est un monde d’États-Nations et ne peut être un univers de bureaucraties supra-nationales.

Ce nouvel ordre libéral ne peut jaillir que d'une profonde reforme des esprits et des institutions et ne peut aspirer à la stabilité que par l'affirmation d'un principe de cohérence, fondé sur le soubassement de trois notions, le Leadership, pourvu du sentiment instinctif de l'histoire, la capacité de décision et d'action et l'ordre contraignant du monde, bannissant l'inaction, les compromis sans fin et les déclarations illusoires.

Il ne s'agit pas de rééquilibrer mais de refonder!

Pas d'inclure l'ennemi ou la menace, mais de les combattre!

Lorsque la liberté et la démocratie se dissocient et la foi dans la raison disparaît ou s'affaiblit, la "guerre civile"mondiale est proche!

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La souveraineté et le "Pacte mondial pour les migrations"

Les bases normatives d'un droit futur aux migrations élaborées par les Nations Unies dans un "Pacte mondial", signé à Marrakech les 11 décembre 2018, vident les souverainetés nationales de leur substance et prétendent apporter une réponse globale à un phénomène d'ordre planétaire.

Elles poursuivent le long chemin de la proclamation des droits de l'homme et du citoyen, débuté avec les révolutions américaine et française et poursuivi après la IIème G.M, sans enfreindre la tutelle juridictionnelle des États.

L'humanité multiculturelle qui se dessine à Marrakech est destinée, dans sa rhétorique, à mettre fin à toutes les discriminations accumulées au fil des siècles.

Les États y sont réduits à des outils de gestion des flux forcés de populations, dénaturant leur fonction essentielle, mais circonscrite dans l'espace terrestre, de protection et de sécurité.

Il en découle que la marche vers le communautarisme, par l'acceptation de la part des États signataires, de la diversité, ethnique et religieuse, n'est rien d'autre que la rupture de toute cohésion et de toute solidarité nationale et, de ce fait, la dissolution des États-Nations, nés de l'idée de "raison", de liberté et d'ordre.

Par ailleurs la recommandation du "Pacte", adressée aux États de "priver de subventions...tous les médias qui promeuvent des formes de discriminations à l'égard des migrants", est un encouragement totalitaire pour tous les dictateurs de la planète, réels ou virtuels, à censurer la presse et à instaurer la"pensée unique".

En perspective la signature d'un tel "Pacte", marque l'alliance des gauches tiers-mondistes et des lobbies post-colonialistes  de la répentence et cache le coût annuel des migrants qui est évalué pour la seule France, à 12,2 milliards d'euros, sans coûts annexes.

Cette signature, au sein de l'Union européenne, n'est que le prélude à d'autres Bréxit et à d'autres litiges entre États Membres, concernant le fardeau des flux migratoires et ne peut être interprétée que comme un recul du concept de souveraineté, d’intérêt national et de frontières, bref comme un recul du cadre juridique au sein duquel la progression des droits s'accompagnait jadis,de la progression des mœurs et des sociétés.

Or, ce cadre a été celui de la civilisation occidentale moderne!

Par ailleurs, du point de vue idéologique, ce pacte, s'il consacre comme acteur culturel naissant la société civile trans-nationale, constitue néanmoins un  danger  de submersion démographique pour les sociétés européennes  et pour leur rempart identitaire, la chrétienneté.

En subordre, et dans le concret du phénomène migratoire, il demeure difficile dans le marasme des arrivées de masse, d'opérer un tri de légalité, entre émigrants économiques et émigrants politiques et d'ignorer ,dans l'accueil, le malaise profond des musulmans de vivre dans des "sociétés ouvertes", sauf à oublier, dans un univers de conflits, le rôle de la "ruse" historique  du "cheval de Troie".

La souveraineté et la géopolitique globale

Or, si "la souveraineté" est la "summa potestas" ou  l'auctoritas, superiorem non recognoscens", qui décide du cas d'exception, le Brexit est né d'un conflit entre deux principes de souveraineté et de légitimité ,millénaire pour l'empire britannique et circonstanciel pour l'empire des normes. 

En son pur concept, la souveraineté reste le nœud incontournable du maintien ou de la  déconstruction de tout ordre social, interne ou international et  permet  d'inscrire un pouvoir  dans la  géopolitique des grandes espaces, constitués, au XXIème siècle, par le Pacifique et l'Océan indien, comme pivots maritimes de l'Eurasie.

Dans le contexte d'aujourd'hui,le retrait américain du pacte de libre-échange trans-pacifique rend aléatoires les garanties de sécurité de l'immense zone maritime jadis recouverte par l'empire britannique, l'Australie et la Nouvelle Zélande, mais aussi la Malaisie et l'Indochine, où l'exacerbation de l'affrontement, pour l'heure commercial, entre la Chine et les États-Unis, conduit à la constitution d'un front commun entre le Japon et la Chine.

Ainsi, il est à parier que l'après Brexit sera marqué, moins par l'accroissement de la rivalité entre le Royaume Uni et l'Union Européenne, que par la recherche d'un nouveau destin, planétaire et multipolaire, pour les deux ensembles

De la vieille architecture euro-continentale de la sécurité, le Royaume-Uni héritera l'objectif historique d'une opposition permanente à la Russie et à toute organisation eurasienne à caractère militaire, dans le but d’empêcher un rapprochement euro-russe et, encore davantage germano-russe, qui en ferait un ensemble dominant et menaçant.

Au delà de l'espace européen, il partagera avec les États-Unis ou l'Inde, l'objectif d'une compétition sans merci, dans les domaines clés de l'espace, des big-data,de la  cyber-war et de l'intelligence artificielle. La réappropriation de la souveraineté et d'un réalisme retrouvé lui permettront  une alliance sans états d'âme avec des États autoritaires, à capitalisme publique, débarrassée du chantage encombrante du modèle démocratique et des droits de l'homme.

A l'image de son passé, il pourra actualiser à l'échelle du monde,  les principes unifiants de la cohérence stratégique, qui ont fait grande à toute époque la notion d'empire.

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La souveraineté européenne et son impasse stratégique

Le dossier nucléaire et celui des deux traités INF (interdiction des armes nucléaires à portée intermédiaire - de 500 à  5500 km, de 1987, susceptible de péremption), et START (sur le plafonnement des missiles nucléaires intercontinentaux ou sol-sol), constituent les domaines, sur lequel l'Europe montre la plus grande atonie et manque de suggestions et d'idées.

Sauver l'INF et prévoir le renouvellement de START, implique, pour les Européens, de favoriser le dialogue stratégique entre les États-Unis et la Russie et proposer l'inclusion de la Chine dans ces pourparlers et dans leurs issues, dans le but de la contraindre aux mêmes règles.

L'espace diplomatique pour de telles propositions existe, mais l'Europe, pourtant déclassée de rang et menacée en sa force vive par des systèmes d'armes placés (Pologne) ou pointés contre elle (Volgograd), n'y exprime ni des projets ni des avis.

L'Europe voudra-t-elle rester une Europe des normes et des règles budgétaires, plutôt qu'une Europe de la sécurité ou une Europe identitaire et de civilisation?

Pour l'heure elle semble préférer les disciplines de l'euthanasie et l'abandon à l'irréparable destin du "Fatum", soudé autour du nœud menaçant d'"Islam-migrations-terrorisme-démographie", plutôt que secouer la paresse intellectuelle de ses élites et s'éveiller politiquement.

La souveraineté et l'ordre libéral du monde

Le Brexit, comme beaucoup d'autres moments des relations euro-britanniques a été une victime du consensus de masse des démocraties et des tentations des classes dirigeantes, divisées, de satisfaire simultanément aux revendications populaires et aux objectifs à long terme de leurs pays.

C'est pourquoi il apparaît si difficile à Mme May de définir un nouveau rapport entre les retournements presque quotidiens des députés de Westminster et les arrangements obtenus avec les négociateurs des trois institutions de l'Union européenne.

En effet le défi est de taille et concerne l'art de gouverner, bref la capacité de conjuguer les impératifs immédiats des passions populaires et les objectifs à long terme de l'avenir.

Il ne s'agit pas d'agir pour toute l'humanité, mais  de se frayer un chemin dans la voie ardue de la complexité, autrement dit d'accorder les objectifs émotionnels de la nouvelle diplomatie avec les calculs à long termes de la diplomatie du passé.

Un difficile équilibre, consistant à ne pas se plier à la loi du nombre du consensus de masse, sans que l'ordre transcendant d'une mission publique puisse prévaloir sur la liberté et celle-ci se plier aux humeurs variables des foules, négligeant la définition de la perspective et celle de la grande stratégie.

Ainsi le Brexit marque la fin du sentiment d'appartenir à une même communauté humaine de peuples et de nations, distincte de toutes les autres, la communauté européenne, qui avait réussi à modérer par la raison et à atténuer par le calcul et par l'équilibre des forces, les rivalités de position et de principe entre ambitions concurrentes.

Ce qu'on a appelé le même système de valeurs (ou même parenté spirituelle), n'était rien d'autre que l'adaptation aux temps modernes du vieux système de Westphalie, d'apparente neutralité idéologique ou de non intervention dans les affaires intérieures d' autres pays.

Or ce sentiment, autrefois fortifiant, s'affaiblit ou disparaît, face à la submersion démographique des migrants extra-européens et à la différente perméabilité de leur acceptation dans les pays d’accueil, ce qui prouve la difficulté de traduire des cultures différentes en un système unique de civilisation.

Par ailleurs la différente appréciation de l'ordre mondial, implique une réévaluation de la notion d'équilibre des forces, à l'intérieur des différents régions et dans leurs relations d'interdépendance.

Ceci impose un réexamen philosophique du concept de "limite" dans le rapprochement de ce qui est distinct, au sein d' un système socio-politique régional ou global.

Pour conclure, le Brexit pousse à une reconsidération sur la transcendance de l’État et de la souveraineté étatique, reposant, dans la conception post-moderne du projet européen, sur le soft power, dépourvu de l'expérience millénaire du conflit, de la tragédie et de la volonté de puissance.

Ou, pour le rappeler avec David Hume, dénoué du principe-clé de l'art britannique de gouverner, le principe de "l'équilibre des forces" qui, au dessous de apparences, suppose "l'unité équilibrée des contraires" (Héraclyte).
 
Bruxelles le 12 décembre 2018
 
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vendredi, 14 décembre 2018

L’agenda caché en vue de la nouvelle provocation dans le détroit de Kertch

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L’agenda caché en vue de la nouvelle provocation dans le détroit de Kertch

par Peter Korzun

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/fr

Le 25 novembre, trois navires militaires ukrainiens ont traversé de manière non autorisée les eaux territoriales russes. La gendarmerie maritime russe a pris des mesures pour les forcer à se conformer au règlement. Ce qu’ils ont refusé de faire. Il ne fait aucun doute que Kiev a délibérément envoyé ces navires pour provoquer la Russie. Tous les vaisseaux passant par cette voie navigable doivent contacter les autorités du port marin de Kertch, signaler leurs routes et destinations et recevoir la permission de naviguer. C’est une démarche très simple, mais le groupe de vaisseaux ukrainiens n’a pas informé la Russie de ses plans. Ils ont fait la sourde oreille aux injonctions d’arrêter leurs manœuvres dangereuses. Les vaisseaux ukrainiens ont ignoré avec insolence les demandes de quitter les eaux territoriales russes.


Kiev s’est empressée d’accuser Moscou «d’agression miliaire». L’incident a immédiatement fait les grands titres, et les dirigeants occidentaux ont pris la parole pour défendre l’Ukraine sans même offrir de détails sur ce qu’il s’est passé exactement ou ce qui a déclenché ce dangereux concours de circonstances. Le secrétaire général de l’OTAN Jens Stoltenberg n’a pas perdu une minute pour exprimer le «plein appui du bloc pour l’intégrité et la souveraineté territoriale de l’Ukraine, incluant la totalité de ses droits de navigation dans ses eaux territoriales, conformément à la loi». Le Canada, la Pologne, le Danemark ainsi que d’autres pays ont rapidement joint leur voix au chœur antirusse. Cela allait dans le sens de leur intérêt propre d’écarter autant les détails que toute tentative d’obtenir un aperçu des causes réelles de cet incident en particulier ou de la situation dans la mer d’Azov en général.


Le 26 novembre, le président Ukrainien Petro Porochenko a signé une motion imposant la loi martiale. Une fois approuvée par le Parlement, cette dernière sera en vigueur pendant au moins un mois. Après cette période, elle pourra être prolongée. En 2014, lorsque la Crimée a demandé via un referendum d’être intégrée à la Russie, le président ukrainien n’avait pas soulevé la question d’imposer la loi martiale. Il ne l’a pas fait non plus, en 2015, pendant la bataille de Debalsevo Bulge [à Donezk] au cœur de la lutte dans la partie orientale du pays. Le conflit actuel des républiques auto-proclamées ne l’a jamais poussé à envisager l’état d’urgence. Cependant, il a estimé que l’incident en mer était assez grave pour justifier l’imposition de la loi martiale, cela peu de temps avant les élections présidentielles – dont les sondages indiquent son peu de chances à gagner.


Ce geste limite les libertés civiles et donne un plus grand pouvoir aux institutions étatiques durant les élections prévues pour le 31 mars 2019, si elles ne sont pas reportées. En temps de loi martiale, les élections présidentielles, parlementaires et locales ainsi que les grèves, les manifestations, les rallyes et les démonstrations de masse sont interdits. L’incident en mer pourrait ne pas être l’unique provocation prévue. La situation à la frontière des républiques autoproclamées s’est mise à se détériorer au moment même où les rapports sur l’incident en mer ont commencé à affluer. Le soir du 26 novembre, de lourds bombardements de zones résidentielles dans l’est de l’Ukraine par les forces ukrainiennes ont été reportés. 

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Autre motif: la provocation a été mise en scène pour accélérer la procédure d’adhésion à l’OTAN. L’accord entre la Russie et l’Ukraine de 2003, selon lequel la mer d’Azov est considérée comme des eaux domestiques appartenant aux deux pays, pourrait être annulé. L’été passé, un projet de loi pouvant révoquer ce traité a été présenté au Parlement ukrainien (Rada). L’accord interdit à tout bâtiment de guerre d’entrer dans cette mer sans le consentement des deux nations. Si cet accord est démantelé, la Convention des Nations unies sur le droit de la mer de 1982 prendra effet. Les eaux territoriales de la Russie et de l’Ukraine s’étendraient à 12 miles nautiques de leurs côtes respectives. L’intérieur de cette mer deviendrait des eaux internationales, ce qui permettrait aux vaisseaux de l’OTAN d’entrer dans la mer d’Azov sans restriction.


Kiev espère également une augmentation de l’aide militaire venant des pays de l’OTAN, ce qui lui permettrait de développer une flotte puissante et des défenses côtières. Elle voudrait qu’une mission d’observation internationale soit stationnée dans la mer d’Azov, probablement sous l’auspice de l’OSCE et avec la participation de forces navales au demeurant défavorables à la Russie. Une autre chose que le président ukrainien voudrait voir arriver, c’est l’annulation par le président des Etats-Unis, Trump, de sa rencontre avec le président russe Poutine lors du sommet du G20 en Argentine [ce qui a été fait].


Quel a été l’élément déclencheur des actions de Kiev? C’est le soutien de l’Occident. Le 25 octobre, le Parlement européen a adopté une résolution concernant la mer d’Azov pour exprimer son soutien à l’Ukraine. Le 19 novembre, le Haut représentant pour les Affaires étrangères et la Politique de sécurité de l’UE, Federica Mogherini, a déclaré que les ministres des Affaires étrangères de l’UE avaient discuté de prendre des «mesures ciblées» pertinentes contre la Russie à cause de la situation dans la mer d’Azov. Les Etats-Unis continuent d’étendre leur assistance militaire à l’Ukraine. Ils ont déjà une installation militaire à Otchakiv. Une fois que les frégates de la classe Oliver Hazard Perry arriveront en Ukraine, des instructeurs navals américains suivront. La présence américaine et les infrastructures militaires s’étendront graduellement. La Grande-Bretagne agit de même.


Le soutien de l’Occident encourage l’Ukraine à envenimer les tensions. La Cour constitutionnelle d’Ukraine vient d’approuver un amendement proclamant l’adhésion à l’OTAN et à l’UE comme objectif officiel de la politique étrangère. Si le Parlement approuve cet amendement, les Accords de Minsk deviendraient alors nuls et non avenus, parce que la Russie a initialement accepté de s’y conformer à condition que l’Ukraine demeure un Etat neutre.


Personne n’a besoin d’un tel accroissement des tensions dans une région avec une forte navigation. Toutes les nations maritimes veulent disposer de voies de navigation libres et protégées par la loi. Plus le soutien politique et militaire apporté à Kiev augmente, plus les chances qu’une étincelle mette le feu à la région de la mer d’Azov sont grandes. La responsabilité repose sur ceux qui incitent Kiev à attiser les tensions en vue de poursuivre leurs objectifs politiques.     •


Source: https://www.strategic-culture.org/news/2018/11/27/ukraine...  du 27/11/18

(Traduction Horizons et débats)

mardi, 27 novembre 2018

Désordre et Géopolitique : "Lorraine engagée" reçoit Jean-Michel Vernochet

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Désordre et Géopolitique : "Lorraine engagée" reçoit Jean-Michel Vernochet

dimanche, 25 novembre 2018

Geopolitics of Turkey in Asia

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Geopolitics of Turkey in Asia

 
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Turkey is a transcontinental power, and, while the European side of the country is secure and calm, the situation could not be more different on the Asian front. The collapse of the Sykes-Picot agreement is disintegrating the territorial borders from within and in the subsequent vacuum of power, major nations seek to carve out their own spheres of influence. All these activities, directly and indirectly, affect Turkey and determine the country’s geopolitical objectives in Asia.
 
Soundtrack: Dreams Become Real by Kevin MacLeod (incompetech.com)
 
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Dr. Rainer Rothfuß: Feindbild Russland, Syrien, Geopolitik verstehen, menschliche Begegnung, Frieden

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Dr. Rainer Rothfuß: Feindbild Russland, Syrien, Geopolitik verstehen, menschliche Begegnung, Frieden

 
Die Macht menschlicher Begegnung als Alternative zur militärischen Eskalationsspirale 13. März 2018 Eggenfelden Europa steht am Scheideweg. Während das entspannungspolitische Experiment des US-Präsidenten Donald Trump nach wenigen Monaten unter dem Druck der Befürworter einer konsequenten Bekämpfung des aufstrebenden geopolitischen Rivalen Russland scheiterte, steht Deutschland als führende Macht Europas nun vor der Wahl, den von der US-Regierung unter Obama aufgezwungenen Anti-Russlandkurs fortzusetzen oder zu einer eigenständigen Vision und Strategie europäisch-eurasischer Integration zurückzufinden. Noch dominiert das "Feindbild Russland" die deutsche Medienberichterstattung. Doch in der politischen Debatte werden Stimmen lauter, die eine pragmatische und an langfristigen Stabilitätsinteressen orientierte Russlandpolitik propagieren. Ist eine EU, die sich von Russland aufs Schärfste abgrenzt der einzig denkbare Entwicklungsweg? Kulturelle und historische Verknüpfungen, die sich über Jahrhunderte zwischen Ost und West herausgebildet haben, zeigen mögliche Entwicklungspfade in einem weiter gefassten Kontext auf. In der Bevölkerung regt sich das Bewusstsein, dass die dialogorientierten und auf Austausch und Kooperation zielenden Ansätze, die Europa aus der Zerstrittenheit des Zweiten Weltkriegs herausgeführt hatten, auch Grundlage werden könnten für tragfähige friedliche Beziehungen zum östlichen Nachbarn Russland. Mittels "Volksdiplomatie" bzw. "Geopolitik von unten" hat die aus Deutschland hervorgegangene "Druschba"-Initiative (russisch für "Freundschaft") einen Weg eingeschlagen, der beiderseits der imaginären "unüberwindbaren" Grenze zwischen Ost und West einen Weg aufzeigt, der die NATO-Russland-Aufrüstungsspirale durch breit angelegte Bewusstseinsarbeit stoppen könnte: Völkerfreundschaft statt militärischer Abschreckung als Weg zum Frieden im eurasischen Raum. Damit könnte eine mittlerweile internationale Bürgerbewegung zugleich zum Wegbegleiter eines sich anbahnenden langfristigen Integrationsprozesses nie da gewesenen Ausmaßes werden: Das Giga-Projekt der eurasischen Integration im Kontext des Billionen-Projekts der "Neuen Seidenstraße".
 
Katholische Erwachsenenbildung Rottal-Inn-Salzach, IPPNW http://www.keb-ris.de
 
Internationale Ärzte für die Verhütung des Atomkrieges/Ärzte in sozialer Verantwortung https://www.ippnw.de #RainerRothfußFeindbildRusslandSyrienGeopolitikverstehen
 

Karl Haushofer and the Rise of the Monsoon Countries

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Karl Haushofer and the Rise of the Monsoon Countries

Long before Robert Kaplan identified the Indian Ocean and its surrounding region as the new geopolitical pivot of world politics in his 2010 book Monsoon: The Indian Ocean and the Future of American Power, the leading intellectual theorist of German geopolitics in the 1920s and 30s, Karl Haushofer, foresaw the power potential of what he called the “Indo-Pacific” or “Asiatic Monsoon countries” and urged German policymakers to promote the geopolitical unity of this region to offset British and American sea power.

Born in Munich on the eve of the Franco-Prussian War, Haushofer studied at the Royal Maximilian Gymnasium before joining the Bavarian Army in 1887. He excelled at the Military Academy (Kriegsschule), attended artillery and engineering school, and from 1895 to 1898 studied at the General Staff College (Kriegsakademie). Between 1898 and 1908, Haushofer served with the troops at various posts, taught military history at the Military Academy, and worked on the General Staff.

In 1908, Major Haushofer was assigned to the German Embassy in Tokyo to observe and study the Japanese military that had so recently stunned the world by besting the great Russian Empire in the Russo-Japanese War. On his way there, he stopped at Cyprus, Alexandria, Aden, India, Singapore and elsewhere and noticed the Union Jack flying from those strategic outposts. Haushofer’s trip to the Orient shaped all of his subsequent geopolitical writing. As Andreas Dorpalen noted in The World of General Haushofer, it was in Japan and the Far East that his “transformation from political geographer to geopolitican was completed.”

Haushofer studied the geopolitical works of Friedrich Ratzel, Rudolf Kjellen, and Sir Halford Mackinder, calling Mackinder’s 1904 “The Geographical Pivot of History” the greatest of all geographical world views. Like Ratzel and Kjellen, Haushofer believed that nation-states were living organisms that either expanded or declined and eventually died. He included factors such as location, size, population, national unity, and economics in his analyses of the power potential of nations. Haushofer wrote his Ph.D thesis in 1911 on the geographic foundations of Japan’s power. Between 1913 and 1923 – with a gap for his service in the First World War – he wrote five more books on Japan and the Far East. Then, in 1924, he wrote his most important geopolitical work, The Geopolitics of the Pacific Ocean. In that book and in articles written for Geographische Zeitschrift and Zeitschrift fur Geopolitik, Haushofer urged German leaders to align their country to the Indo-Pacific peoples of India, China and Japan.

He described the Monsoon countries as “[e]xtending from the mouth of the Indus to that of the Amur and taking in the littoral of Southeast Asia as well as the divides of the large central highland of Asia.” With the “uniform climate rhythm” of the monsoon, more than half the world’s population, and age-old Indian and East Asian cultures, the region contains “the two greatest concentrations of mankind ever witnessed in the history of the world.” Those countries, wrote Haushofer, “are beginning to stir and to rise.”

Haushofer later criticized Japan for its invasion of China in the 1930s, predicting that it would over-extend itself and suffer defeat. He opposed Germany’s invasion of Soviet Russia in June 1941 for the same reason. Haushofer hoped instead for a great transcontinental Eurasiatic bloc to oppose the sea powers of Britain and the United States, with Japan leading the Asian sphere and Germany leading the European sphere and both powers collaborating with Russia. In this, he underestimated the powerful force of nationalism and political rivalries on the world stage.

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Haushofer and his geopolitical ideas were tarnished by his associations with key Nazi leaders, including Rudolph Hess. Some scholars have attempted to blame him for creating a geopolitical blueprint for Nazi expansion. There is no convincing evidence, however, that he was ever an adviser to Hitler or had any significant influence on Nazi foreign policy. Indeed, as noted above, Haushofer was vigorously opposed to the German invasion of Soviet Russia that was the centerpiece of Hitler’s expansionist policies. Both Haushofer and his son Albrecht wound up in concentration camps. Albrecht was later shot for his alleged involvement in a plot to kill Hitler, and Karl Haushofer and his wife committed suicide after the war.  Haushofer was interrogated after the war by Fr. Edmund Walsh of Georgetown University who determined that there was no evidence to prosecute him for war crimes.

Haushofer’s tarnished reputation should not prevent statesmen and scholars from perusing his works, especially those focused on the Indo-Pacific region. The monsoon countries, especially China and India, are rising just as he predicted more than ninety years ago. That region has become the focal point of global geopolitics in the 21st century. Skeptics should consider this quote from a 1939 article: “If an empire could arise with Japan’s soul in China’s body, that would be a power which would put even the empires of Russia and the United States in the shade.”

Francis P. Sempa is the author of Geopolitics: From the Cold War to the 21st Century (Transaction Books) and America’s Global Role: Essays and Reviews on National Security, Geopolitics, and War (University Press of America). He has written articles and reviews on historical and foreign policy topics for Strategic Review, American DiplomacyJoint Force Quarterly, the University Bookman, the Washington Times, the Claremont Review of Books, and other publications. He is an adjunct professor of political science at Wilkes University, and a contributing editor to American Diplomacy.

samedi, 24 novembre 2018

Oude en Nieuwe Zijderoutes - Geopolitiek als drijvende kracht in de geschiedenis

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Oude en Nieuwe Zijderoutes

Geopolitiek als drijvende kracht in de geschiedenis

door Jonathan van Tongeren

Ex: http://www.novini.nl

Het onderstaande artikel is de tekst van een lezing gehouden op het 2e congres van het Geopolitiek Instituut Vlaanderen-Nederland (GIVN) op 17 november 2018 te Leuven.

526 jaar geleden bereikte een groep Spaanse schepen onder het commando van de 41-jarige Genuees Cristoforo Colombo (vernederlandst Christoffel Columbus) het eiland Guanahani. Dit geldt als de ‘ontdekking van Amerika’. De zeelui hadden een reis van 5.700 kilometer in het ongewisse achter zich en hun admiraal daarenboven nog dik zeven jaar aan overtuigingswerk aan de Spaanse en Portugese hoven.

Het idee om simpelweg naar het westen te varen om de oostkust van Azië te bereiken, stamde oorspronkelijk van de Griekse filosoof en naturalist Aristoteles. In de tijd daarna werd het idee onder andere door grootheden als Seneca, Roger Bacon en Pierre d’Ailly naar voren gebracht. In de 15e eeuw was het de Florentijnse geleerde Paolo dal Pozzo Toscanelli die er de grootste voorvechter van was. Tegelijk was de voorstelling van de aarde als schijf grotendeels obsoleet geworden. Zo schreef paus Pius II in zijn rond 1460 verschenen ‘Cosmographia’, dat onze planeet een bol is die om de zon draait. In zoverre zwom Columbus echt niet meer tegen de stroom in, toen hij in 1484 begon te werven voor een zeetocht naar Azië via het westen.

Constantinopel en het Iberisch schiereiland

Bovendien waren de geopolitieke verhoudingen in het Middellandse Zeegebied hem behulpzaam. Want door de Ottomaanse verovering van Constantinopel in mei 1453 was de route over land naar China en Indië afgesneden, wat de zoektocht naar nieuwe handelsroutes over zee enorm stimuleerde.

Overigens onderschatte Columbus de afstand tussen Europa en Oost-Azië ernstig. Hij meende dat de Canarische eilanden en Japan slechts 4.500 kilometer van elkaar verwijderd waren – in werkelijkheid was het 20.000. Verantwoordelijk hiervoor waren de onjuiste gegevens over de breedte van de Euraziatische landmassa van Toscanelli en D’Ailly, waarop Columbus zich baseerde. De respectievelijke deskundigen aan het Spaanse en Portugese hof zagen dit in, en ontrieden hun vorsten in eerste instantie de Genuees te ondersteunen bij zijn onderneming.

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De kaart van Toscanelli over een hedendaagse kaart geprojecteerd

Toen kwam echter 2 januari 1492, de dag waarop de emir van Granada, Muhammad XII, capituleerde. Waarmee de Reconquista op het Iberisch schiereiland succesvol afgesloten werd. Nu groeide het verlangen van Isabella I van Castilië en León en Ferdinand II van Aragón, om de Portugese koning Johan II in te halen. Zijn zeevaarders tastten zich namelijk langs de kust van Afrika een weg naar Indië en leken daarbij kort voor een succes te staan.

Koopwaar

Columbus verlangde echter dermate veel privileges, dat de hele zaak daarop stuk dreigde te lopen. De Genuees verlangde namelijk de benoeming tot ‘admiraal van de oceaan’ als ook de titel van onderkoning en gouverneur-generaal van de door hem ontdekte gebieden. Bovendien stond hij erop, dat hij het recht zou hebben om van alle “parels, edelstenen, goud, zilver, specerijen als ook alle andere koop- en handelswaar die in zijn gebied gevonden, geplukt, verhandeld of gewonnen worden, na aftrek van de kosten, een tiende voor zichzelf te houden”. Uiteindelijk gaven Isabella en Ferdinand op advies van hun schatmeester Luis de Santángel op 17 april 1492 in de zogenaamde capitulatie van Santa Fe toe.

De voor de expeditie benodigde twee miljoen Maravedi’s (zo’n 300.000 euro) kwamen echter niet uit de schatkist van het koningspaar, maar grotendeels van het confederale politieleger Santa Hermandad (Heilige Broederschap). Daarnaast droegen Santángel en enkele Genuese kooplieden nog enkele honderdduizenden Maravedi’s bij. Van dat geld werden de grote driemaster (kraak) ‘Santa Maria’ en de twee karvelen ‘Niña’ en ‘Pinta’ gecharterd en van proviand voor een jaar voorzien. Daarnaast moesten circa 90 zeelieden ingehuurd en betaald worden.

De drie schepen verlieten in de morgen van 3 augustus 1492 de haven van Palos de la Frontera bij Huelva in Andalusië, waarbij de Santa Maria onder het bevel van Columbus zelf stond, terwijl de twee andere schepen onder het commando van Vicente Yáñez Pinzón en Martín Alonso Pinzón stonden. Om het beschadigde roer van de Niña te repareren en het grootzeil van de Pinta te vervangen, maakte Columbus weinig later halt in de haven van San Sebastián op het Canarische eiland La Gomera, om op 6 september aan de tocht dwars over de Atlantische Oceaan te beginnen.

Las Indias

In de daarop volgende weken zeilde de groep schepen met bestendige passaatwinden in de rug bij overwegend goed weer met een doorsnee snelheid van tien knopen naar het westen. De admiraal hoopte zo de door Marco Polo beschreven Chinese havenstad Quinsay, het huidige Hangzhou, te bereiken, waar hij de groot-khan brieven van zijn koninklijke opdrachtgevers Isabella en Ferdinand wilde overhandigen. Anders dan vaak onjuist gesteld wordt, was Columbus namelijk niet voornemens naar Indië zelf te varen, maar naar ‘Las Indias’, waarmee naast het eigenlijke Indië destijds ook alle landen ‘voorbij’ Indië (vanuit het westen gezien) bedoeld werden.

In de nacht van 11 op 12 oktober 1492 kreeg de joodse matroos Rodrigo de Triana alias Juan Rodriguez Bermejo van de Pinta een eiland in zicht, waarop de Genuees en zijn bemanning dan later op de dag voet aan wal zetten. Daarover lezen we in Columbus reisdagboek het volgende:

“Om 2 uur ’s morgens kwam het land in zicht, waarvan we zo’n acht zeemijlen verwijderd waren [..] Toen kwamen we bij elkaar en wachtten tot de dag aanbrak. Het was een vrijdag, waarop we voet aan wel zetten op een eiland, dat in de Indianentaal Guanahani heette.”

Met deze ontdekking ontsnapte de admiraal overigens aan een naderende muiterij, want veel van zijn mannen werd de reis, die ogenschijnlijk nergens naartoe leidde, met de dag ongemakkelijker. Om welk eiland het precies gaat, is tot op de dag van vandaag onduidelijk. Inmiddels gelden zowel het Watling-eiland dat sinds 1926 officieel de naam San Salvador heeft, als ook Samana Cay, Plana Cays en Mayaguana in de Bahama’s als mogelijke kandidaten.

Hoe het ook zij, Columbus voer aansluitend tot 16 januari 1493 door de Caraïbische Zee en ontdekte daarbij onder andere Cuba en Hispaniola. De terugtocht vond plaats zonder de Santa Maria, die op Kerstdag van het jaar daarvoor op een zandbank gelopen was. De overige twee schepen bereikten Palos op 15 maart 1493. Daarna werd Columbus als held gevierd.

Geopolitiek

Zo ziet u wat een ingrijpende gevolgen geopolitieke gebeurtenissen kunnen hebben. De verovering van Constantinopel door de Ottomanen en de voltooiing van de reconquista van het Iberisch schiereiland, leidden tot de ontdekking van Amerika. En enkele eeuwen later zou een voormalige kolonie in de Nieuwe Wereld uitgroeien tot de ‘laatste supermacht’.

Maar wat is nu eigenlijk geopolitiek? Het gebruik van de term geopolitiek lijkt de laatste jaren sterk in opkomst te zijn, nadat er enige tijd een taboe op rustte. Dat taboe kwam voort uit de associatie van geopolitiek met Duitse nationaalsocialistische noties als Lebensraum en Heim ins Reich. Een associatie kortom met een specifieke subjectieve en ideologische kijk op geopolitiek. Nu het taboe allengs afneemt, zien we het gebruik van de term sneller toenemen dan het verstaan ervan. Geopolitiek wordt dikwijls gebruikt als synoniem voor internationaal conflict. Of men veronderstelt dat het hoofdzakelijk over pijpleidingen en olie of andere delfstoffen gaat. Nu kunnen die zaken wel met geopolitiek te maken hebben, maar ze zijn niet zelf de geopolitiek. Kort gezegd gaat geopolitiek over de beheersing van geografische ruimtes. Waarbij beheersing uiteraard gradueel kan verschillen van invloed tot effectieve soevereiniteit. In het hiervoor besproken voorbeeld hebben we gezien hoe de beheersing van de geografische ruimtes van wat nu respectievelijk Turkije en Spanje zijn, leidde tot de opschorting van de Oude Zijderoute en een zoektocht naar een nieuwe zijderoute die zou leiden tot de ontdekking van de Nieuwe Wereld, oftewel de Amerika’s.

Enfin, geopolitiek dus, de beheersing van geografische ruimte. Denk maar aan het bordspel Risk, één van de manieren om verder te komen in het spel en kans te maken om te winnen, is het beheersen van continenten. In de geopolitieke realiteit is het niet veel anders. De Verenigde Staten beheersen bijvoorbeeld al geruime tijd het Noord-Amerikaanse continent en hebben stevige invloed in Latijns-Amerika, wat een goede uitgangspositie bood om uit te groeien tot de ‘enige supermacht’.

Eén van de lastigste continenten om onder controle te krijgen in het bordspel Risk is Azië. Ook in de geopolitiek ligt er een sterke focus op dit grote en centrale continent. Azië wordt gedomineerd door twee grootmachten: Rusland, dat zich in Europa bevindt, maar zich ook uitstrekt over Noord-Azië tot aan het Verre Oosten, en China. Mede daartoe gedreven door het westerse sanctiebeleid, is Rusland zich in de afgelopen jaren meer en meer op China gaan richten.

Oost-Azië

Het economisch expansieve China heeft van zijn kant te maken met een Amerikaans containmentbeleid, onder president Obama ‘pivot to Asia’ genoemd. De VS hebben een snoer van bondgenoten en meer halfslachtige partnerlanden in Oost-Azië gevormd, van Zuid-Korea tot Vietnam en verder richting India, waarmee China als het ware ingesnoerd wordt.

Juist de import en export over zee spelen echter een grote rol in de economische ontwikkeling van China. Het conflict in de Zuid-Chinese Zee draait dan ook in essentie niet om een handvol nietige eilandjes, maar om de vraag wie de zeewegen beheerst. De VS werpen zich wel op als kampioen van de vrije navigatie, maar het is veeleer China dat er vitaal belang bij heeft deze zeewegen open te houden.

Door de combinatie van containmentbeleid tegenover China en sanctiepolitiek tegenover Rusland, heeft het Westen deze twee grootmachten onbedoeld in elkaars armen gedreven en zo de consolidatie van een Euraziatische synergie in de hand gewerkt.

China heeft economisch echter zo’n sterke uitstraling in de regio, dat het niet alleen diverse Centraal-Aziatische landen aantrekt, maar dat ook diverse Zuidoost-Aziatische landen het containmentbeleid inmiddels doorbroken hebben. President Duterte van de Filipijnen nam hierin het voortouw en werd al snel gevolgd door de Maleisische regering en later zelfs de Japanse.

Zuid-Azië

China laat zich door dergelijke ontwikkelingen op de korte termijn echter niet in slaap sussen, maar houdt voor de langere termijn nog altijd rekening met een eventuele blokkade van cruciale zeewegen. Zo heeft het transportcorridors met autowegen, spoorwegen, pijpleidingen, diepzeehavens en olie- en gasterminals door Birma en Pakistan aangelegd, waardoor het toegang krijgt tot de Indische Oceaan, i.c. de Golf van Bengalen en de Arabische Zee, met omzeiling van de flessenhals van de Straat van Malakka.

Vanzelfsprekend vertegenwoordigen deze transportcorridors niet dezelfde capaciteit als die van de aanvoer langs de traditionele routes. Niettemin lijken andere spelers er het nodige aan te doen om deze Chinese strategie te doorkruisen. Zo laaide recent het conflict tussen de Rohingya-minderheid en de Birmese staat weer op, uitgerekend in die provincie waar zich de diepzeehaven van Kyaukpyu bevindt die voor China van belang is. Gewapende groeperingen, waarvan de leiders in Saoedi-Arabië zijn opgeleid, richtten dood en verderf aan in dorpen van andere etnische groepen en vielen militaire posten aan. De Birmese regering sloeg keihard terug, maar inmiddels geven ook westerse mensenrechtenorganisaties toe dat de Rohingya het conflict in gang hebben gezet.

ONZ2afgh.jpgOok de transportcorridor door Pakistan heeft met dergelijke destabilisaties te kampen. In deze regio strekken veel bevolkingsgroepen zich uit over de grens tussen Afghanistan en Pakistan, zodat instabiliteit in Afghanistan ook uitstraalt naar Pakistaanse regio’s.

Ondanks de jarenlange militaire aanwezigheid van de Amerikanen in het land floreren ‘Islamitische Staat’ en de Taliban er nog altijd, zodat de vraag rijst of men soms belang heeft bij het in stand houden van deze groepen ter rechtvaardiging van voortdurende Amerikaanse militaire aanwezigheid. Ondertussen speelt Afghanistan weer een grote rol in de drugshandel en hebben de Amerikanen hier een stevige vinger in de pap. In diverse provincies bestaat daarnaast onvrede over de vermoedelijke exploitatie van mijnen, onder andere uranium, door de Amerikanen.

Centraal-Azië

De voortdurende Amerikaanse aanwezigheid in Afghanistan dient echter ook het indirecte nut, dat men door het instabiel houden van de regio de belangen van de grote concurrent China in deze regio doorkruist. Men onttrekt Afghanistan op deze wijze grotendeels aan de mogelijke economische synergie met China, Pakistan en de Centraal-Aziatische landen en bovendien hangt het schrikbeeld van het overslaan van islamistisch radicalisme naar andere landen in de regio als een donkere wolk boven de politiek van die landen.

Het zoeken naar nieuwe handelsroutes om te ontsluiten, lijkt de aangewezen weg voor China en dit is dan ook precies wat Peking doet. Zo wordt er sterk geïnvesteerd in de economische betrekkingen en de aanleg van nieuwe transportroutes naar Rusland en Siberië en diverse Centraal-Aziatische landen, in het kader van de zogenoemde Nieuwe Zijderoutes (let op: meervoud). Hiermee kan uiteindelijk bijvoorbeeld ook de verbinding over land gelegd worden met Iran en Turkije. Economisch niet onbelangrijke spelers die ieder op hun eigen manier een moeizame verhouding met de VS hebben.

Voor de verbindingen over land naar Voor-Azië en Europa is China echter afhankelijk van de samenwerking met diverse Centraal-Aziatische landen. De regeringen van deze landen zien hier het belang van in, ze hebben zelf baat bij de economische groei en de stabiliteit die dit met zich meebrengt. Dit is de steppe- en woestijnzone tussen de traditionele Russische en Chinese beschavingsgebieden. Hier zijn islamitische en grotendeels Turkse volkeren gevestigd. Dit is echter ook de zwakke plek van de Euraziatische integratie waarop de Amerikanen geregeld in proberen te spelen. Dit was bijvoorbeeld te zien in de Tulpenrevolutie in Kirgizië en we zien het ook in het opstoken van het separatisme onder de Oeigoeren in de noordwestelijke Chinese provincie Sinkiang.

Noord-Azië

Mede vanwege dit complex aan factoren is Rusland een waardevolle partner voor China. Rusland kent reeds een hoge mate van economische en militaire integratie met voormalige Sovjetrepublieken in Centraal-Azië en heeft op die wijze een stabiliserende werking. Daarnaast heeft Rusland goede relaties met traditionele vijanden van China in Azië, zoals India en Vietnam, die anders geheel onder Amerikaanse invloed zouden kunnen komen.

Verder heeft Rusland ook vanwege zijn geografische ligging China het nodige te bieden. Zo wordt er geïnvesteerd in het revitaliseren van de Trans-Siberische spoorlijn, die vertakkingen heeft naar Binnen-Mongolië en Mantsjoerije, maar aan de andere kant ook naar Finland. Hier liggen kansen voor Europa, zowel qua economische kosten als milieukosten ligt intensivering van de handel met Eurazië meer voor de hand dan de intercontinentale handel met Noord- en Zuid-Amerika (TTIP, CETA, Mercosur) waardoor de Europese Commissie in beslag genomen wordt. De Oostenrijkse en Slowaakse regeringen hebben in ieder geval concrete plannen om aan te sluiten op de Trans-Siberische spoorlijn, waarbij in Wenen een grote terminal moet komen voor de overslag naar Europees spoor of andere transportvormen.

ONZ3arct.jpgNog groter is het potentieel van de zogeheten Arctische Zijderoute. Rusland en China verkennen in dit kader de mogelijkheden om de Noordoostelijke Doorvaart te gaan gebruiken. Het gaat om een potentiële scheepvaartroute langs de noordkust van de Russische Federatie, die de Stille Oceaan met de Atlantische verbindt via de Beringzee, de Oost-Siberische Zee, Karazee, Barentszzee en de Noorse Zee.

Dit heeft het grote (kosten)voordeel dat deze route voor vrachtschepen tussen China en Europa twee weken korter is dan de route door de Zuid-Chinese Zee, de Straat van Malakka, de Indische Oceaan, het Suez-kanaal en de Middellandse Zee. Daarnaast heeft het voor China het voordeel dat de route grotendeels door de Russische invloedssfeer verloopt en dus veel minder flessenhalzen kent dan de hierboven beschreven gangbare route.

Zo bezien komt ook de recente grootschalige NAVO-oefening Trident Juncture op IJsland, de Noorse Zee en in Noorwegen, zogenaamd tegen een eventuele Russische invasie gericht, in een geheel ander licht te staan. Maar dat terzijde.

Afrika

ONZ4afr.pngDe Noordoostelijke Doorvaart biedt dus veel voordelen ten opzichte van de nu gangbare route. Het gebied rond het Suez-kanaal is momenteel immers bepaald instabiel. De Straat van Bab el Mandeb, die vanuit de Golf van Aden toegang geeft tot de Rode Zee en het Suezkanaal, ligt immers tussen Jemen enerzijds en Eritrea/Djibouti anderzijds. In Jemen voert een Arabische coalitie onder leiding van Saoedi-Arabië en met ondersteuning van de VS, het Verenigd Koninkrijk en Frankrijk een alles vernietigende oorlog tegen de Houthi-rebellen, waarvan valselijk beweerd wordt dat het Iraanse proxy’s zouden zijn. Iets zuidelijker ligt het door burgeroorlog verscheurde Somalië, van waaruit de piraten van al Shabab opereren. Door de komst van een nieuwe Ethiopische premier lijkt de spanning tussen Ethiopië en Eritrea en tussen Ethiopië en Egypte wat af te nemen, maar een recente (mislukte) moordaanslag op deze politicus maakt behoedzaam. China heeft intussen een militair steunpunt in Djibouti ingericht ter ondersteuning van de bestrijding van de piraterij. Diverse andere landen hebben ook militaire bases in het land en Turkije heeft sinds kort een basis in buurland Somalië om de regering daar te steunen. Vooralsnog is het roeien met de voor handen zijnde riemen, maar het mag duidelijk zijn dat een dermate volatiele regio, inclusief de militaire aanwezigheid van diverse grootmachten een riskante cocktail vormt. Dit maakt een alternatieve verbinding tussen Oost-Azië en Europa des te interessanter.

Voor Rusland heeft dit het bijkomende voordeel dat het een extra impuls kan geven aan de ontwikkeling van het hoge noorden. Zowel Siberië als het Noordpoolgebied herbergen nog veel niet geëxploiteerde bodemschatten, China is dan ook zeer geïnteresseerd in het investeren in de ontsluiting hiervan. Zo neemt China bijvoorbeeld al deel aan de recent begonnen productie van vloeibaar gas (LNG) op het schiereiland Jamal. Toen de Britten tijdens de koude van de afgelopen winter een aardgastekort hadden, moest een grote tanker met LNG van het Jamal-schiereiland aanrukken om de Britten, ondanks sancties en gezwollen retoriek, toch nog een behaaglijke Kerst te geven.

Europa

Met de extra capaciteit van de Nordstream II-pijpleiding zou er zo nodig natuurlijk, via Nederland, op goedkopere wijze meer aardgas naar Engeland geloodst kunnen worden. Of die pijpleiding definitief doorgaat, is echter nog altijd niet geheel duidelijk. Er wordt immense druk uitgeoefend op de betrokken Europese landen om er vanaf te zien. Economisch is de aanleg van Nordstream II echter zeer voor de hand liggend. Russisch aardgas is relatief dichtbij, de kosten voor het transport liggen laag, terwijl de prijzen voor het Russische gas ook goed zijn. Rusland niet gunstig gezinde EU-lidstaten als Polen en Litouwen kiezen er echter om politieke redenen voor te investeren in terminals om per schip veel duurdere LNG te kunnen importeren, bij voorkeur uit Amerika, dus met grote transportkosten en uit schaliegas, dus sowieso al duurder.

De strategische logica van de pijpleiding door de Oostzee is dat hiermee de afhankelijkheid van Oekraïne als doorvoerland verkleind wordt. Om politieke redenen willen verscheidene Europese politici dit niet. Als men de antipathie tegen Rusland even tussen haakjes zet, ligt – gezien de reputatie van Oekraïne voor het illegaal aftappen van gas, waardoor EU-lidstaten met tekorten te kampen hadden – niets meer voor de hand dan het omzeilen van Oekraïne. Door de logica van de oppositie tussen het westerse, Atlantische blok en het Russische blok, zou Europa er echter nog toe komen om in dezen tegen haar eigen belangen in te handelen, zoals Polen en Litouwen reeds voordoen.

Noord-Amerika

De Russische en Chinese investeringen in het Noordpoolgebied doen in de VS intussen reeds alarmbellen afgaan. Zo riep oud-staatssecretaris Paula Dobriansky (dochter van de beruchte Lev Dobriansky) het westerse bondgenootschap op zijn positie in het Noordpoolgebied te versterken en een militaire infrastructuur uit te bouwen. De VS hebben zelf immers maar een relatief kleine claim op het poolgebied, in de vorm van Alaska. Zodoende moeten NAVO-bondgenoten als Canada, Denemarken en Noorwegen er aan te pas komen – onder Amerikaanse leiding uiteraard.

Intussen worden er in de Groenlandse politiek concrete voorbereidingen getroffen voor afscheiding van Denemarken. Chinese bedrijven zijn in de arm genomen voor het winnen van de Groenlandse bodemschatten, maar Chinese aanwezigheid op het Noord-Amerikaanse continent zou natuurlijk een doorn in het oog van Amerika zijn. De Groenlandse regering heeft echter ten eerste de inkomsten uit de winning van haar delfstoffen nodig om financieel onafhankelijk te worden van Denemarken. Ten tweede bevindt de meest noordelijke luchtmachtbasis van de Verenigde Staten zich in Groenland. Van daaruit worden spionagevluchten boven Rusland uitgevoerd. Een verlies van deze positie zou de Amerikaanse greep op de Noordpool verder verslappen.

Slotwoord

We zien kortom dat er op diverse continenten een concurrentiestrijd gaande is tussen de Verenigde Staten en China, waarbij geopolitieke realiteiten als nabijheid, bereikbaarheid en de kostenefficiëntie van transport herhaaldelijk in botsing komen met gevestigde politieke voorkeuren en ideologische vooronderstellingen. Ik durf u echter wel te voorspellen dat de geopolitieke realiteiten de langere adem zullen blijken te hebben.

Un tournant dans la politique étrangère allemande

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Un tournant dans la politique étrangère allemande

par Irnerio Seminatore

L'alliance pour le multilatéralisme et l'autonomie stratégique de l'Europe dans la redéfinition des relations euro-atlantiques.

La nouvelle responsabilité franco-allemande face à une géopolitique planétaire.

Heiko Maas et l'UE, "pilier de l'ordre international".

La tribune du quotidien allemand Handelsblaat du 22 août, portant la signature du Ministre des Affaires Étrangères Heiko Maas a marqué un tournant historique dans la diplomatie de la République Fédérale Allemande depuis sa constitution en 1949.

Heiko Maas a plaidé pour une révision de la politique étrangère de son pays et pour une "autonomie stratégique" de l'Europe, en faisant de l'Union Européenne "un pilier de l'ordre international".

Cette convergence, de l'Allemagne et de l'Union Européenne, permettra-t-elles d'instaurer "un partenariat équilibré" avec les États-Unis d'Amérique?

Pour l'heure c'est un tournant marquant de la diplomatie du Mittelage.

Après avoir surmonté les "limites de la politique rhénane"de H.Khol et de  la "voie allemande" de Schröder, la politique étrangère allemande a-t-elle tourné le dos à la "puissance discrète" de A.Merkel, en réagissant aux provocations  souverainistes de D.Trump et à la fragmentation décisionnelle de l'U.E, face aux nouveaux défis de l'ordre mondial?

Suffira-t-il à l'Allemagne et, avec elle, à l'Europe, de remplacer le concept global d'hégémonie par l'idéologie juridique du multilatéralisme et de la sécurité collective aux promesses aléatoires, en oubliant la décomposition géopolitique de la suprématie américaine, qui a pris la forme, sous Obama, d'une série de "deals régionaux" conçus pour la pérenniser?

La  déclaration de Heiko Maas, évoquant sa prise de distance avec les États-Unis évoque implicitement trois moments significatifs de l'histoire allemande et souligne ainsi la lente maturation de sa politique étrangère depuis la fin de la bipolarité:

- le "Rapport K.Lamers-W.Schauble" de 1994 sur les nouvelles responsabilités de l'Allemagne, suite à la réunification du 3 octobre 1990 et à la lecture d'une Europe reconfigurée, à partir des "intérêts nationaux allemands", jusqu'ici tabou.

- la déclaration informelle de M.me Merkel à Munich, en mai 2017, sur l'émancipation de l'Europe vis à vis des États-Unis et sur l'impératif des européens "de prendre en main leur destin". Ajoutons, dans le même sens, la déclaration du Président de la République française à l’Élysée du 27 août 2018, à l'occasion de la réunion annuelle des Ambassadeurs de France, sur "l'indispensable"autonomie stratégique de l'Europe" et sur une redéfinition générale de la politique extérieure et de défense de l'Europe".

- le Sommet de l'Otan des 12 et 13 juillet 2018 à Bruxelles, sur le partage du fardeau de la défense euro-atlantique et sur la menace du retrait des États-Unis de l'Alliance. La remise en cause de celle-ci s'est exprimée sous la forme du "veto", adressé par Trump à la Chancelière A.Merkel, à propos de la réalisation du " Nord Stream 2" et d'une politique énergétique moins dépendante de la Russie.

Quant au chef de la diplomatie allemande, Heiko Maas, dans son interview du 22 août au journal "Handelsblaat" redessine les contours d'une "nouvelle stratégie américaine" vis à vis de l'Allemagne et définit  les bases "d'un renouveau de la collaboration" avec l'allié transatlantique, en partenariat avec les autres pays européens.

Ce renouveau aurait pour fondement "le multilatéralisme", déjà rejeté  antérieurement par D.Trump, qui lui préfère le souverainisme et s’appuierait sur deux piliers:

- un "partenariat équilibré" entre les USA et l'UE

- une alliance avec tous les pays attachés au droit, aux règles contraignantes et à une concurrence loyale, au delà de l'U.E et sur la scène internationale. La carence de cette alliance est de ne pas tenir compte ni des rapports des forces, ni de l'esprit de système, autrement dit, des regroupements multipolaires du monde. Elle apparaît, de ce fait, en décalage avec les référents permanents de la politique globale et en syntonie avec les positions d'une négociation permanente et toujours précaire de l'ordre mondial.

Le changement de cap de la politique américaine vis à vis de l'U.E.- confirme le ministre allemand - a commencé  bien avant l'élection de Trump - et devrait survivre à sa présidence".

En effet, constate-t-il, " l'Atlantique est devenu politiquement plus large" de ce qu'il n'était à l'époque de la bipolarité, car la profondeur stratégique de l'Eurasie replace la menace et les dangers vers l'Asie-Pacifique.

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Les implications de la notion "d'autonomie stratégique "européenne

Les implications de ce tournant, qui sont imposées aux européens, comportent un double volet, interne et extérieur:

-à l'extérieur,

-induisant une reconsidération des relations de l'U.E.avec la Russie dans le cadre d'une architecture régionale de sécurité

-faisant de l'Europe "une puissance d'équilibre" entre Washington et Moscou. Ce positionnement inverserait la logique du "triangle stratégique" Washington- Moscou-Bruxelles, par l'adoption des recommandations de Kissinger des années 1970, selon lesquelles l'Europe doit être toujours plus proche de Washington ou de Moscou,que l'Amérique de la Russie ou Moscou de Washington.

à l'intérieur,

-poussant à une révision des fondements de toute construction politique, concernant la légitimité et la souveraineté, bref les conceptions de la démocratie, du pluralisme  et des autres formes de gouvernement.

- faisant évoluer les relations entre institutions européennes  et États-membres vers un modèle politique, organisé sur la base d'une hiérarchie contraignante , sans  avoir résolu les deux aspects majeurs de l'histoire européenne, ceux  de unité politique et du leadership.

Ainsi l'ensemble des défis posés par la notion "d'autonomie stratégique" situe cette perspective dans le long-terme, dont le calendrier échappe à toute maîtrise raisonnable et condamne cette idée à une rhétorique ordinaire.

Macron/Merkel, l'"armée européenne" et la nouvelle responsabilité franco-allemande

Or l'imprégnation de cette notion est revenue à la surface le 6 novembre dernier, à l'avant-veille des commémorations du centenaire de la "Grande Guerre 14-18",
dans l’exhortation aux européens du Président Macron, de créer une "armée européenne", pour protéger l'Europe des visées russes, américaines et chinoises.

Cette expression, reformulée en terme de "défense européenne", a été reprise par Macron dans l'enceinte du Bundestag allemand, le dimanche 11 novembre, lors des cérémonies du Volkstrauertag, consacrées aux victimes de guerre, dans le but "de ne pas laisser glisser le monde vers le chaos" et de "construire les outils de souveraineté", afin que l'Europe ne soit pas "effacer du jeu" par les grandes puissances.

"Nous devons élaborer une vision, nous permettant d'arriver un jour à une véritable armée européenne", a repris Angela Merkel à Strasbourg, devant le Parlement Européen le mardi 13, mais"pas une armée contre l'Otan", situant sa constitution dans un avenir lointain; le temps de corriger le strabisme divergent entre la France et l'Allemage. la première fixant ses priorités au Sud, la deuxième à l'Est.

Il a été observé (J.H.Soutou) que trois conditions doivent être remplies, pour répondre à ce défi:

- l'existence d'une culture stratégique commune et, de ce fait, d'une lecture partagée du système international et de ses menaces
- des moyens de défense adéquats, inclusifs d’États-majors doués de capacités de commandement opérationnels, en complément de l'Otan
- d'un budget européen, dont on ignore l'ordre de grandeur.


Les européens confrontés à l'hostilité de l'administration américaine.


Devenir un pilier de l'ordre international et instaurer une fonction de puissance d'équilibre entre Washington et Moscou, d'après le ministre allemand des affaires étrangères, sont-ils des objectifs compatibles avec l'exercice d'un "vrai dialogue de sécurité avec la Russie", prôné par les vœux du Président Macron?

En effet, dans le contexte de la nouvelle donne de sécurité transatlantique, l'autonomie stratégique de l'Europe pour se protéger des États-Unis, pouvait-elle échapper à la réaction de Trump, la jugeant "très insultante" pour le pays qui a volé au secours de la France par deux fois au cours du XXème siècle?

Le nouvel état d'insécurité du monde laisse les européens divisés et tétanisés, car le système immunitaire sur lequel a été bâtie la suprématie allemande,est aujourd'hui anéanti.
Le stress de l'urgence efface, en République Fédérale, le tabou du leadership et la faiblesse de l'économie ne compense pas, en France, l'hardiesse rhétorique des propos de Macron.

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Mais comment l'Europe peut-elle bâtir son unité, si la compétition pour le primat fertilise les esprits et la Pologne, porteuse de nouvelles perspectives stratégiques, se propose comme l'allié le plus sûr des États-Unis et si elle fédère autour d'elle des projets et des pays (l'initiative des trois mers,Baltique, Adriatique et Mer Noire), en matière d'énergie et de conceptions politiques et culturelles, qui allègent la dépendance de l'Europe vis à vis de Moscou et accroissent l’indépendance politique de la Pologne vis à vis de l'U.E?

Comment par ailleurs le divorce de la Grande Bretagne de l'Union Européenne et son choix, inacceptable pour les brexiters durs, entre la vassalisation à l'Union et le chaos d'une reddition sans conditions, pourrait -il ne pas se répercuter à l’intérieur du continent, plongeant l'Europe dans la solitude et dans la division?


La rétrospective historique et ses enseignements

Déjà le choix entre l'Europe européenne et l'Europe atlantique s'était posé dans les années cinquante/soixante, associé aux deux conceptions de la construction européenne, l'Europe des Patries et l'Europe intégrationniste, la première indépendante mais alliée des États-Unis, la deuxième tributaire d'une allégeance, qui mettra sa sécurité, au travers de l'Otan, dans les mains tutélaires du "Grand Frère" anglo-saxon et cherchera sa lumière dans les yeux de son maître.


Ce même dilemme se propose aujourd'hui, dans un système international devenu multipolaire, où la priorité n'est plus la révision de Yalta et de ses sphères d'influences et, par conséquent, des périls d'une confrontation permanente et générale, imputable à la "question allemande",mais  d'entrer pleinement dans une géopolitique planétaire, où le monde sera post-américain et post-occidental et imposera à l'Europe, sur tous les échiquiers, une montée en puissance d'autres acteurs et une diversification des fonctions d'influence, de dissuasion et de contrainte.

Dans ce nouvel environnement stratégique, l'accroissement des inconnues et des incertitudes, est signalé par la dégradation de la confiance des européens vis à vis de la nouvelle administration américaine et par le déploiement aux marges orientales du continent du projet russe d'ouverture eurasienne, ressenti comme une menace géopolitique.
 
C'était dès lors inévitable, qu'un rééquilibrage de l'axe euro-atlantique s'impose et que l'idée d'une armée européenne, à dominante franco-allemande, soit sortie de l'amnésie et proposée aux opinions et aux gouvernants, si l'Europe ne veut être effacée par les rivalités des grandes puissances.

On rajoutera à ces observations la fin du processus d'unification fonctionnelle de l'UE ( ordo-libéral ou bismarcko-keynésien), et l'urgence, pour l'Europe, de se positionner vis à vis de la Chine montante et d'autres grands pays asiatiques (Iran, Inde,Pakistan, Japon ), par le retour sur la scène mondiale des unités politiques rodées par l'expérience séculaire de la diplomatie et de l'histoire, les Nations.
 
Ça sera désormais par les alliances et par la coopération organisée entre les États européens, que seront abordées  les relations de sécurité et d'équilibre du système pluripolaire, en bannissant les prétentions universalistes de l'Occident et en embrassant en commun, comme "une vérité transcendante", les besoins mystiques et immanents de la foi.

Dans ce cadre, la pérennité des nations, qui vivent dans le temps, prévaudra sur la précarité des régimes et des formules de gouvernement, qui sont les produits de rapports aléatoires dans la vie turbulente des peuples et des conjonctures civilisationnelles.

Par ailleurs l'extension planétaire des "sociétés civiles" et la compétition entre "système de valeurs", supportant la compétition stratégique entre les États, englués dans le brouillard d'une guerre globale contre le terrorisme islamiste et dans  le maelström d'une immigration invasive et conquérante, imposeront  au monde une  configuration éthico-politique aux pôles raciaux et religieux multiples et, de ce fait, à une démultiplication des menaces, démographiques et culturelles.

C'est dans ce contexte, assombri et déstructuré par le rejet de la démocratie et de la "raison", que l'idée émancipatrice d'une volonté armée tire sa justification et sa légitimité, celles d'une nécessité défensive et existentielle, dictée par le "Struggle for Life" et éclairé par la foudre tardive d'une prise de conscience humiliante sur la solitude géopolitique et stratégique de l'Europe, que seul un rappel du réalisme politique, de l’égoïsme des intérêts et de la logique de la force peuvent soustraire au glissement désespéré et irrésistible vers la pente de la guerre, du déclin et de la mort.

Bruxelles, le 21 novembre 2018

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jeudi, 22 novembre 2018

Puissance militaire US : Vertige et délire du sommet

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Puissance militaire US : Vertige et délire du sommet

Ex: http://www.dedefensa.org & https://echelledejacob.blogspot.com

 
Le sujet de l’état des forces armées des États-Unis est particulièrement important dans la mesure où ces forces armées constituent le socle de la puissance de ce pays, pour toutes ses activités, y compris le statut dominant (pour combien de temps ?) du dollar et de la finance US qui utilisent essentiellement la menace (militaire) pour conserver (pour combien de temps ?) leur position actuelle. Aujourd’hui, ce “socle de puissance” (militaire) s’appuie essentiellement sur une “image” faite d’une perception faussaire, celle que lui donne la communication, mais sa vérité-de-situation qui s’impose de plus en plus rapidement entraîne évidemment l’érosion très rapide de cette perception. Aujourd’hui encore paraît une étude de la National Defense Strategy Commission, service interne au Pentagone, mettant en évidence la possible/probable incapacité de la puissance militaire US de l’emporter dans une guerre contre la Chine et/ou la Russie.

On en examine régulièrement des signes sur ce site, encore récemment avec le cas du porte-avions USS Gerald R. Ford, et le 12 novembre avec « Suicide, mode d’emploi ». Dans ce dernier article, nous signalions un texte très récemment paru et d’un grand intérêt, sur lequel nous voudrions revenir pour nous attarder sur certains de ses aspects : « On notera qu’un complément de très grande qualité et extrêmement détaillé sur l’état catastrophique de la puissance militaire US, de sa base industrielle et technologique, du technologisme, etc., se trouve dans un très long article d’analyse de SouthFront.org. »

Il y a notamment un passage, concernant essentiellement les forces aéronavale embarquées sur les porte-avions, qui met en évidence la fragilité structurelle des forces US, derrière la massivité des chiffres.

« Le deuxième problème, qui est peut-être plus grave encore, est le fait que les escadrons F/A-18 sur lesquels la Navy s'appuie pour effectuer presque toutes les tâches aéronavales de ses porte-avions, et surtout les missions d’attaque, de supériorité aérienne, de défense de la flotte, de ravitaillement en vol, de guerre sous-marine et de surveillance, sont dans un état de délabrement alarmant. En février 2017, la Marine a annoncé que les deux tiers, soit 62% de tous les F/A-18 Hornet et Super Hornet, étaient incapables d’accomplir leur mission en raison de problèmes de maintenance. Vingt-sept pour cent de ces aéronefs subissaient non pas des travaux de maintenance mineurs et de routine mais de très importants travaux de réhabilitation. Sur les 542 Hornet F/A-18 et E/F-18, 170 seulement sont capables de remplir leur mission avec une maintenance normale. [...] La décision a également été prise d’utiliser 140 des Hornet des plus vieilles versions (variantes A/C) de la Navy et de les cannibaliser pour des pièces ou de les transférer aux escadrons de l'USMC qui rencontrent des problèmes de maintenance similaires. Dans le cas de l'USMC, ils attendent depuis si longtemps les nouveaux F-35B que leurs anciens F-18 tombent en ruines. [...]

» Le fait que 62% des F-18 de la US Navy ne soient pas capables de remplir mission n’est pas une anomalie. En 2017, environ 72% des avions de l’US Air Force n’étaient pas capables de remplir leur mission. [...]La marine et l'armée de l'air affirment que leurs budgets respectifs ne disposent pas de suffisamment d'argent pour se procurer les pièces de rechange nécessaires à la poursuite du service normal ces avions. On pourrait se demander pourquoi, dans ce cas, des dizaines de milliards de dollars sont investis dans de nouveaux aéronefs [aux capacités incertaines et non démontrées] alors que les flottes existantes sont délabrées. Les décisions prises à l'échelon supérieur du DoD sont assez déconcertantes pour les milliers de soldats, marins et aviateurs qui luttent pour que les armes et les véhicules soient prêts à l’action. »

... On comprend que la dernière phrase concerne l’inévitable JSF/F-35, dont il a été question entre les deux extraits, pour décrire et déplorer cette incroyable catastrophe qui pompe tous les budgets disponibles et empêche de ce fait le maintien en état de vol et/ou le renouvellement en partie de la flotte des avions de combat venus des années 1970 (A-10, F-15, F-16 et F-18) constituant l’essentiel sinon la quasi-entièreté de l’aviation de combat des États-Unis. (La crise vient de loin et tout le monde est au courant ; elle est largement documentée sur ce site, notamment concernant les F-15 de l’USAF, et puis le reste de l’USAF également.)

La catastrophe-JSF est assez unique en son genre, dans ce sens qu’en plus de s’autoproduire sous la forme d’un monstre inutilisable, elle dévore autour d’elle tout ce qui fait la puissance de l’USAF, – pour ce cas spécifique de l’USAF comme principal utilisateur de l’avion, les autres services étant logés à la même enseigne. Le JSF/F-35 reste un mystère considérable, qui porte la marque de la catastrophique destinée du technologisme. Si l’on peut aisément détailler les divers aspects de cette catastrophe, tant au niveau des technologies que des aspects budgétaires, que des aspects bureaucratiques, le mystère est complet au niveau général de l’appréciation du désastre dans tous ses effets et conséquences stratégiques pour la puissance des USA. Ce mystère se résume à quelques questions fondamentales : comment la direction politico-militaire des USA n’a-t-elle pas réalisé ne serait-ce que la possibilité de l’ampleur du désastre qui se profilait de plus en plus précisément ? Comment n’a-t-elle pas admis qu’il était nécessaire de garder quelques options annexes ou complémentaires, pour limiter ces éventuels effets et ces conséquences, notamment en réservant une part budgétaire pour entretenir et renouveler en partie le parc existant depuis 1970 de l’aviation de combat ?

En cela, du fait que ces questions restent sans réponse, on mesure la confusion de la pensée et le désarroi psychologique où se trouve cette direction politico-militaire. Le même texte qu’on a pris comme référence insiste sur un autre aspect, qui montre une autre facette de cette confusion et de ce désarroi, dans une partie très longue qu’il nomme « L’obsession des MRAP » (MRAP pour Mine Resistant Ambush Protecteddésignant les véhicules résistant aux mines et autres explosifs d’embuscade, ou IED [Improvised Explosive Devices]). Il s’agit du développement, à partir de 2003, de véhicules pouvant résister aux attaques par mines et embuscades du fait de la résistance, en Irak et en Afghanistan. Les pertes du fait de ces attaques au sein des innombrables convois de ravitaillement et de livraison de la logistique, spécialité US s’il en est, déclenchèrent dès la fin 2003 une grande panique au Pentagone, où l’on se lança dans le développement et la production de MRAP de différents modèles et de plus en plus monstrueux, croulant sous les amas de blindage. La production a dû atteindre entre 45 000 et 50 000 unités depuis 2003, pour un coût affiché d’autour de $45 milliards...

« Le DoD [Pentagone]a consacré des milliards de dollars en contrats pour des véhicules blindés protégés contre les mines (MRAP) entre 2003 et aujourd'hui. Le coût total d’acquisition des différents MRAP commandés et mis en service de manière conservatrice dépasse 45 milliards USD. L'armée américaine ne compte pas moins de sept types différents de MRAP en service à ce jour, plus que tout autre pays de loin. Alors que les États-Unis ont réduit leur présence active en Afghanistan et en Irak, ils ont vendu bon nombre de ces véhicules aux forces de sécurité locales, et même aux forces de police nationales des États-Unis, ceux-ci n’étant de guère d’utilité sur un champ de bataille ouvert où l'armée américaine livrerait un conflit conventionnel avec un puissant adversaire... »

Ce cas est particulièrement intéressant pour montrer, non seulement la confusion et le désarroi que nous mentionnons plus haut, mais plus encore la perversion des esprits qui habite (qui habita à partir de la fin de la Guerre froide) la direction politico-militaire des USA. Il y eut donc cette panique déclenchée par le fait que l’“offre US” (démolition sauvage du pays puis conquête quasi-évidente des cœurs et des esprits [harts & minds] par la démocratie américaniste) avait reçu comme réponse les mines et les IED sur les routes qui réduisaient en cendres la doctrine de la guerre “zéro-mort”, autre legs de la présidence Clinton, et cette panique débouchant sur une production compulsive de plusieurs dizaine de milliers de monstres blindés sans la moindre utilité hors des bourbiers auto-créés par la politique Système dans les pays pulvérisés par les bombes very-intelligentes (smart bombs).

Mais il y a surtout ceci ; à côté et largement au-dessus, il y avait la conviction que de toutes les façons on se trouvait “à la fin de l’Histoire” aux conditions dictées par le Pentagone, et donc à part les paniques en passant produisant autour de 50 000 MRAP qui finiraient par faire de la figuration dans les blockbusters d’Hollywood, rien n’était à craindre. Cet état d’esprit explique que la puissance militaire US s’est trouvée largement distancée ces quinze dernières années au niveau de la vraie guerre conventionnelle.

(Au niveau de l’aviation de combat, et cela suggérant en partie des réponses aux questions posées plus haut, la stealth technology était censée verrouiller la “fin de l’Histoire” grâce à la formule-surprise type-air dominance.)

Tout cela se trouve largement suggéré, pour ce qui est de la philosophie inspirant cette situation, dans notre texte déjà référencé « Suicide, mode d’emploi »... Pour rappel :

« “La cupidité des entreprises américaines, l’idéologie de la globalisation et la conviction absolue d’être arrivé à la “fin de l’histoire” façon-Fukuyama sont, ensemble, sur le point de causer [et ont même d’ores et déjà causé] aux capacités de défense des États-Unis des dommages dont leurs opposants géopolitiques ne pouvaient même pas rêver.”

Cet “état de l’esprit”, qui confine à une “paralysie de l’esprit” rien de moins, s’est installé aux USA au lendemain de la Guerre froide et particulièrement durant la présidence Clinton, jusqu’à s’épanouir durablement durant le deuxième terme.

[...] Cette création fixait effectivement le monde en l’état, avec une domination-hégémonique des USA installée effectivement ad vitam aeternam. Tout juste était-il nécessaire de le rappeler de temps en temps pour les têtes de linottes françaises (à cette époque), russes, etc, pour ce cas au lendemain du 11-septembre sous la rubrique “virtualisme-narrative” (“Nous sommes un empire désormais, et lorsque nous agissons nous créons notre propre réalité”.) »
 
Puissance militaire US : fin du récit

Si nous avons développé ces remarques et rappelé la conception résumée dans notre texte référencé du 12 novembre, c’est pour aborder un autre aspect de la puissance militaire vers lequel un commentaire de ce texte d’un de nos lecteurs nous a orientés. Ce lecteur, se faisant “l’avocat du diable”, développe une appréciation de la puissance militaire US, autant que de l’état de la guerre. Nous nous arrêtons à un point de son commentaire, qui introduit notre propre commentaire d’une appréciation technique et métahistorique du destin de la puissance militaires américaniste, du “récit de son destin” si l’on veut, accordée à la psychologie et à la perception de l’américanisme :

« La faillite de l'armée US “finissante” a-t-elle été voulue ? Comme dans toutes les obsolescences précédentes (1917, 1941, etc.) sans aucun doute, mais voilà, à chaque fois les États-Unis en sont sortis plus puissants, et malgré tous les hélicoptères jetés par-dessus bord en 1975 lors de la Chute de Saigon, Nike est aujourd'hui le premier employeur privé du Viet-Nam… »

Ce texte implique qu’il y a eu plusieurs “faillites” des forces armées US, suivies d’autant de renaissance : en 1917 et en 1941, pour l’entrée dans les deux guerres mondiales avec une force militaire réduite, le “etc.” désignant par exemple le Vietnam. Cette interprétation sinusoïdale (des hauts et des bas, ou plutôt des bas suivis de hautes, avec renaissance des cendres comme un phénix) n’est pas la nôtre ; elle donne une idée qui est à notre avis trompeuse de la flexibilité et de l’adaptabilité de la puissance militaire US.

• Ni en 1917, ni en 1941 il n’y a eu faillite militaire US. Dans les deux cas, l’armée était quasiment inexistante, sauf l’US Navy dont l’existence qui garantit la sécurité des voies maritimes et du commerce est actée dans la Constitution d’un pays fondé sur le profit et sur le commerce. Quant à la chose militaire proprement dite, l’isolationnisme (sauf la parenthèse 1917-1918) domine jusqu’en 1941 et l’armée n’est qu’une force de police aux USA et dans les pays voisins (Mexique) ou un outil expéditionnaire pour les bonnes affaires à saisir (le Corps des Marines intervenant dans l’arrière-cour latino-américaine, à Cuba, etc., – avec l’extrême de l’intervention cruelle et dévastatrice aux Philippines [1899-1902] qui est l’amorce de la politique impérialiste post-1945.)

• En 1917, l’armée US partie de quasiment rien fut essentiellement formée et équipée par les conseillers français et l’industrie françaises, ce que les érudits américains commencent à reconnaître. Le Général Pershing avait obtenu ce qu’il cherchait : une structure d’armée moderne qu’il conserva et transmit malgré la réduction radicale des effectifs dès 1919. En 1941, la seule puissance militaire US opérationnelle existante fut largement liquidée à Pearl Harbor, mais selon une orientation qui fut une formidable fortune du sort : avec l’attaque, les Japonais avaient prouvé que le porte-avions était devenu le roi des mers à la place du cuirassé et ils avaient liquidé les cuirassés US de la Flotte du Pacifique, et épargné ses trois porte-avions... Quant à l’armée et à l’aviation US, leurs structures étaient prêtes, et le développement de l’industrie aéronautique militaire à partir de 1935-1936 pour l’exportation (Chine, France, Royaume-Uni) fournissait à cette expansion une base technologique exceptionnelle, – sans doute la période de l’histoire où les USA furent les plus efficaces, les plus inventifs et les plus performants en matière de technologie. (Le P-51 Mustang [d’abord A-36 Apache], le meilleur chasseur de la guerre, fut développé par North American en six mois au printemps 1940, sur commande britannique [et complète indifférence de l’USAAC, le corps aérien de combat US d’alors], pour un coût R&D de $40 000 ; les premiers exemplaires [Mustang Mark-I] furent livrés à la RAF à l’automne 1940 et l’avion fut adopté par l’USAAC/USAAF en 1942... A comparer avec le récit de la vie jusqu’ici et maintenant du F-35.)

• Au Vietnam, l’armée US ne fit pas faillite ni ne s’effondra sous les coups de l’ennemi. Simplement, elle se battit extrêmement mal, avec le marteau des bombes et des obus, comme d’habitude et comme toujours, et elle abandonna la partie pour la seule et unique raison que l’opinion publique US était au bord de la révolte et que cette révolte gagnait l’armée elle-même, par exemple avec l’épouvantable pratique courante à partir de 1969 du “freaking” (liquidation d’officiers par leurs propres hommes, selon la “technique” de jeter une grenade dans le bureau d’un officier). Le seul événement capital pour l’armée US au Vietnam fut l’abandon de la conscription en 1974, au profit d’une armée de métier, ce qui garantissait désormais l’inexistence d’un parti antiguerre aux USA et au sein de l’armée elle-même, – comme on le constate aujourd’hui.

• La seule fois dans l’histoire où l’armée US, non seulement fit faillite mais s’effondra littéralement, c’est à l’automne 1945 lorsque le Congrès décida une démobilisation en complet désordre, ce qui amena une désintégration totale de l’armée US dont le seul équivalent dans l’histoire est la désintégration de l’armée russe en 1917, après la première révolution de février. (Voir les principaux détails de cet épisode capital, totalement passé sous silence dans l’historiographie officielle, dans notre Glossaire.dde : « Le “Trou Noir” du XXème siècle ».)

Ce que nous voulons mettre en évidence essentiellement, c’est la linéarité du développement de la puissance militaire US : une droite ascensionnelle qui justement n’a jamais connu de “faillites” ni de défaites dues à l’adversaire, pour des raisons qui ne sont nullement héroïques mais tiennent simplement à la géographie. (Une spécialité des USA est d’entrer en guerre bien après ses alliés-supposés pour pouvoir s’imposer politiquement grâce à son poids, sans subir de dommages, la combinaison lui assurant la certitude d’une domination d’après-guerre.) Cette puissance a connu deux accidents internes, le plus grave (1945) ayant été passé sous silence, et le second lui ayant permis de ne plus dépendre de la volonté démocratique du pays ; aucun des deux n’a interrompu durablement le tracé rectiligne de sa montée en puissance, ni ne l’a modifié en aucune façon.

A partir de 1989-1991, s’appuyant sur un récit totalement faussaire de la fin de la Guerre froide, la puissance militaire US s’est installée sur ce qu’elle a considéré être son hégémonie absolue et elle n’a plus bougé de cette perception. La guerre a subi le même traitement que l’histoire et la réalité, selon les penseurs neocons & associés comme le rapporta Ron Suskind : au lieu du « Nous sommes un empire désormais, et lorsque nous agissons nous créons notre propre réalité », ce serait “Nous sommes la plus grande puissance militaire de tous les temps passés et à venir, et lorsque nous agissons nous créons notre propre guerre qui sera la seule guerre réelle possible”. Le moins qu’on puisse dire est que la vérité-de-situation n’a guère été impressionnée par cette profession-de-réalité : la puissance militaire US est partout, et partout elle est plus ou moins en guerre, elle n’arrive nulle part à gagner et se découvre dépassée dans des domaines qu’elle croyait verrouillés à jamais à son avantage.

(Nous sommes, quant à nous, d’avis que la possibilité d’une guerre conventionnelle de haut niveau est redevenue d’actualité, certainement dans l’esprit des militaires US qui l’affirment curieusement après avoir conclu que “la fin de l’Histoire” figeait éternellement leur supériorité, – mais la confusion et le désarroi des esprits expliquent beaucoup de choses. Entretemps, certes, les Russes ont fait l’une ou l’autre démonstration, en Crimée comme en Syrie. On peut se reporter au SACEUR d’alors, le Général Breedlove, en avril 2014, à propos de la Crimée : « Nous suivions plusieurs exercices simultanés au cours desquels des forces [russes]importantes étaient formées, manœuvraient puis s’arrêtaient... Et tout d’un coup, boum ! On les retrouve en Crimée, restructurée en une force prête au combat et fort bien préparée. »)

Au bout de ce périple, la puissance militaire US ne sait plus ce qu’est le concept de “victoire”, – si elle l’a jamais su, d’ailleurs, – parce que sa conception complètement figée et sa certitude d’être arrivée au sommet de la puissance l’empêchent autant qu’elles lui interdisent de voir une fin à quelque chose où elle serait impliquée.

Une “victoire” signifierait la fin d’une guerre, donc la réduction du rôle de la puissance militaire US, ce qui est impossible dans l’état actuel et d’ailleurs définitif de sa perception de l’histoire, savoir la “fin de l’Histoire” du type-Fukuyama. Cette paralysie touche également ses décisions bureaucratiques et technologiques, en même temps qu’elle transforme les énormes budgets annuels qu’elle reçoit en trous noirs sans fond où se contorsionnent et grouillent sur un même rythme ses propres “Quatre Cavaliers de l’Apocalypse”, – gaspillage, corruption, irresponsabilité et aveuglement. Au sommet de ce qu’elle croit être la puissance, la puissance militaire US déploie totalement et sans la moindre entrave une impuissance complète que secrète la paralysie de sa pensée alimentée par la pathologie schizophrénique de sa psychologie.

Comme on l’a compris, les USA suivent fidèlement le tracé de leur puissance militaire qui est devenue désormais leur raison d’être et leur façon d’être. Le contraste est d’ailleurs saisissant entre la communication triomphante de la puissance militaire US et la situation intérieure catastrophique des USA. La puissance militaire est la dernière structure, – ou disons, ce qu’ils croient être une structure, – à laquelle les dirigeants politiques washingtoniens s’accrochent. Washington D.C. suit aveuglément le Pentagone, pour pouvoir mieux jouer à “D.C.-la-folle” dans ses démentes querelles internes ; ce que Washington D.C. a omis de noter, c’est que le Pentagone suit aveuglément la puissance militaire US qui s’est totalement installée dans l’impuissance et la paralysie qui l’aveuglent elle-même ; c’est un défilé d’aveugles qui se guident les uns les autres, le pas ferme, vers le néant. Le pouvoir des États-Unis d’Amérique est un lieu incertain et dans un équilibre extraordinairement instable où plus personne ne sait rien de personne. Tout cela ne garantit rien de la forme et du parcours que prendra la chute, laquelle ne saurait se faire attendre puisqu’elle a déjà commencé.

Nous revenons sur un document rapidement mentionné dans notre F&C d’hier, l’« étude de la National Defense Strategy Commission, service interne au Pentagone, mettant en évidence la possible/probable incapacité de la puissance militaire US de l’emporter dans une guerre contre la Chine et/ou la Russie. » Nous le faisons parce qu’un texte de WSWS.org en fait une analyse détaillée sur un ton remarquable par son alarmisme. Gens sérieux, les analystes du site trotskiste ont lu avec attention le document, mais ils l’ont lu avec un état d’esprit particulier qui, dans son intensité, rencontre celui des membres de la commission qui ont rédigé la chose. Ainsi, deux choses nous intéressent dans ce texte :

ce qu’il nous dit du contenu du document, analysé avec précision et selon les axes qui importent comme fait d’habitude WSWS.org ;

la façon dont WSWS.org reçoit et commente ce document, selon un état d’esprit qui est similaire en intensité (bien que radicalement opposé d’un point de vue politique) à celui du document, ce qui mérite qu’on s’attache bien entendu à ce phénomène.

Contrairement à d’autres rapports sur ce document, WSWS.org insiste sur l’aspect d’un cri d’alarme et d’un appel à la mobilisation générale des forces armées US face à la probabilité d’une guerre massive avec l’une des deux puissances (ou les deux), – Chine et Russie, – dans un très court délai. Parmi les scénarios cités, il y a celui d’une guerre avec la Chine débutant en 2022 à la suite d’une déclaration d’indépendance de Taïwan et du lancement d'une invasion de Taïwan par la Chine. Le fait même d’un tel conflit n’est pas débattu dans toutes ses possibilités, et notamment et essentiellement la possibilité que les États-Unis puissent agir pour éviter le susdit conflit : la chose est présentée comme étant inéluctable, fatale, inarrêtable... « En énumérant les différents défis auxquels seraient confrontés les États-Unis pour combattre et gagner une guerre contre la Russie ou la Chine, aucun des membres distingués du comité n’est parvenu à la conclusion apparemment évidente selon laquelle les États-Unis ne devraient peut-être pas mener une telle guerre. »

D’une façon très affirmée, WSWS.org admet cette possibilité de l’absence de recherche d’une façon d’éviter un tel conflit dont la venue est par ailleurs affirmée comme une certitude alors qu’il ne s’agit que d’une hypothèse au profit de laquelle le comportement même des USA contribue très fortement. La comparaison est faite avec le comportement de Hitler tandis que la responsabilité d’un tel état d’esprit est portée au crédit du capitalisme en faillite et, – assez curieusement et sans démonstration aucune, – du “système des États-nation”...

« Mais en cela, [les rédacteurs du rapport] représentent l’énorme consensus au sein des cercles politiques américains. Dans ses derniers jours, Adolf Hitler aurait déclaré à maintes reprises que si la nation allemande ne pouvait pas gagner la Seconde Guerre mondiale, elle ne méritait pas d'exister. La classe dirigeante américaine est entièrement attachée à un plan d’action qui menace de faire disparaître non seulement une grande partie de la population mondiale, mais également la population américaine elle-même.

» Ce n'est pas la folie des individus, mais la folie d'une classe sociale qui représente un ordre social dépassé et en faillite, le capitalisme et un cadre politique également obsolète, le système des États-nation... »

L’état d’esprit de WSWS.org rencontre celui dont le rapport est imprégné tant les commentateurs trotskistes ne cessent d’annoncer la survenue inéluctable d’un conflit mondial, conventionnel au plus haut niveau, avec la panoplie des armes conventionnelles les plus puissantes, et jusqu’à l’escalade nucléaire que toute analyse raisonnable d’une telle hypothèse jugerait effectivement comme inévitable. Cela conduit le commentateur à affaiblir ou à ignorer des remarques qui sembleraient pourtant évidentes à la lecture d’un tel rapport, – à commencer, pour mémoire si mémoire il y a, une remarque à propos de l’équilibre de la psychologie collective de ces individus, en tant qu’individus tout simplement et individus américanistes, plus qu’en tant que représentant de cette “classe sociale qui représente un ordre social dépassé et en faillite”.

En effet, il n’y a pas un Hitler avec sa folie paranoïaque de la fin de la guerre parmi ces dirigeants-Système, et pas de climat qui puisse se rapprocher des années apocalyptiques 1944-1945 dans l’Allemagne nazie. Si l’on tient à cette comparaison il faut la replacer dans la chronologie et l’on observera qu’Hitler n’a jamais préparé et annoncé la guerre en doutant une seule seconde qu’il ne l’emporterait pas puisqu’il parlait au contraire d’un “Reich pour mille ans”, alors que les auteurs du rapport évoquent puissamment la possibilité d’une défaite pour une guerre dont tout semble indiquer que les USA auraient la part principale dans son déclenchement. Il est bien question ici d’un état mental en grand dérangement dans cette urgence de s’armer pour une guerre qu’on songe à déclencher soi-même sans être menacé le moins du monde, et dont on sait qu’on risque bien de la perdre. (Sans doute y a-t-il des lecteurs du Lincoln de 1839 parmi ces analystes : « ... En tant que nation d’hommes libres, nous devons éternellement survivre, ou mourir en nous suicidant. »)

Finalement, les dispositions conseillées de toute urgence par la commission pour un réarmement d’urgence des USA relèvent d’une étrange logique et d’une vision en forme de monstrueux simulacre de la situation. Le Pentagone tourne à plein régime avec un budget colossal de plus de $700 milliards officiels, et dépassant largement les $1 000 milliards en réalité. Les capacités de production de l’armement sont aujourd’hui chaotique set florissantes aux USA, avec l’imbrication antagoniste de divers programmes (par exemple, l’imbroglio des avions de combat avec l’actuelle génération en pleine décrépitude mais privée de budget pour la remettre à niveau, et le maître du chaos qu’est le programme F-35). L’idée de “militariser” l’économie US en l’orientant vers un effort de guerre total, et cela dans les quatre années qui viennent puisqu’on suggère un conflit pour 2022, est surréaliste. (« Enfin, toute la société doit être mobilisée derrière l’effort de guerre. Une approche “pangouvernementale” doit être adoptée, notamment “la politique commerciale, l’enseignement des sciences, de la technologie, de l’ingénierie et des mathématiques”. »)

Sur ce point, au reste, la présentation de WSWS.org rejoint également l’état d’esprit que le site trotskiste dénonce chez les auteurs du rapport. Cette présentation accrédite l’idée que la direction occulte des USA (les usual suspects du DeepState), se tenant aux manettes derrière la couverture factice des agitations de “D.C.-la-folle” qui n’auraient aucune importance, avanceraient masqués en cachant au public US cette préparation à une guerre totale(à ne pas confondre tout de même avec une “théorie complotiste”) :

« Il est impossible de comprendre quoi que ce soit dans la politique américaine sans reconnaître une réalité fondamentale: les événements et les scandales qui dominent le discours politique, qui font l'actualité du soir et qui font la une des journaux télévisés et des médias sociaux, ont peu à voir avec les considérations de ceux qui prennent réellement des décisions. Les responsables des médias jouent les rôles qui leur sont assignés, sachant qu’ils doivent limiter les sujets abordés dans des limites très circonscrites.


» Ceux qui élaborent les politiques – un groupe restreint de membres éminents du Congrès, de responsables du Pentagone et de personnel de groupes de réflexion, ainsi que des collaborateurs de la Maison Blanche – parlent entre eux une langue tout à fait différente et ils savent que leurs appréciations ne seront pas connues du grand public parce que les grands médias ne feront pas d’analyses sérieuses à cet égard.

» Ces personnes acceptent toutes comme un fait évident des déclarations qui, si elles faisaient la une des journaux télévisées de grande écoute seraient considérées comme des “théories complotistes”... »

On reste quelque peu étourdi d’étonnement... Il s’agit, selon les hypothèses envisagées d’une période de quatre ans, pour mobiliser une industrie énorme et fragmentée, aux capacités de production dévastées, pour rétablir une armée gonflée de $milliards, de gaspillages et de pléthores de matériels inutiles, et pour retourner toute une société vers la perspective d’une guerre totale de dévastation où les USA risqueraient, nous n’en sommes pas loin, d’être anéantis eux-mêmes. Tout cela se ferait dans l’esprit de confiance de la direction occulte et dissimulée, sans que le public ne s’aperçoive de rien, y compris sans doute lorsqu’il sera appelé à servir puisque de si grandioses alertes et démarches de ré-ré-réarmement (il y en a eu tant depuis 9/11) impliqueraient sans guère de doute le rétablissement au moins partiel de la conscription pour gonfler les effectifs, – à moins, certes, qu’on mobilise pour piloter les drones de la CIA, les chars de l’US Army et les avions (F-35, certes) de l’USAF, les troupes de Daesh et d’al Qaïda.

Peut-être bien que le théâtre de “D.C.-la-folle” est un simulacre comme les Folies Bergères et les Bouffes Parisiennes pour dissimuler le DeepState mais l’on se demande si le spectacle n’a pas finalement englobé et très fortement influencé tous les experts convoqués pour ce rapport et les diverses directions occultes qui pullulent à Washington, – et un tout petit peu, WSWS.org également... Tout cela, certes, hors de toute allusion à la moindre “théorie complotiste”.

Ci-dessous, adaptation en français du texte « Bipartisan panel: US must prepare for “horrendous,” “devastating” war with Russia and China », du 16 novembre 2018 sur WSWS.org.

dedefensa.org

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Se préparer à une guerre “horrible” et “dévastatrice”

Une commission bipartite nommée par le Congrès a publié mardi un long rapport soutenant les plans du Pentagone visant à préparer une guerre de « grandes puissances » contre la Russie, la Chine ou les deux, précisant que la politique belligérante de l’administration Trump était partagée par le Parti démocrate.

Conscients que ses conclusions ne seront jamais sérieusement relatées par les médias, les auteurs du rapport ne mâchent pas leurs mots concerenant les conditions d'une telle guerre. Une guerre entre les États-Unis et la Chine, qui, selon le rapport, pourrait éclater d'ici quatre ans, sera « horrible » et « dévastatrice ». L'armée « fera face à des pertes plus importantes qu'à tout autre moment depuis des décennies ». Une telle guerre pourrait conduire à une « escalade nucléaire rapide », et des cibles civiles américaines seront attaquées avec de nombreuses pertes.

Il est impossible de comprendre quoi que ce soit dans la politique américaine sans reconnaître une réalité fondamentale: les événements et les scandales qui dominent le discours politique, qui font l'actualité du soir et qui font la une des journaux télévisés et des médias sociaux, ont peu à voir avec les considérations de ceux qui prennent réellement des décisions. Les responsables des médias jouent les rôles qui leur sont assignés, sachant qu’ils doivent traiter des sujets abordés dans des limites très circonscrites.

Ceux qui élaborent les politiques – un groupe restreint de membres éminents du Congrès, de responsables du Pentagone et de personnel de groupes de réflexion, ainsi que des collaborateurs de la Maison Blanche – parlent entre eux une langue tout à fait différente et ils savent que leurs appréciations ne seront pas connues du grand public parce que les grands médias ne feront pas d’analyses sérieuses à cet égard.

Ces personnes acceptent toutes comme un fait évident des déclarations qui, si elles faisaient la une des journaux télévisées de grande écoute seraient considérées comme des “théories complotistes”.

Le dernier exemple de cette situation est un nouveau rapport publié par la Commission de la Stratégie de Défense Nationale, un organe créé par le Congrès pour évaluer la nouvelle stratégie de sécurité nationale du Pentagone publiée au début de cette année, qui déclare que « la compétition entre les grandes puissances, – et non le terrorisme, – est désormais le principal objectif » de l'armée américaine.

Les conclusions du panel peuvent se résumer comme suit : L’armée américaine a parfaitement raison de se préparer à la guerre avec la Russie et la Chine. Mais le Pentagone, qui dépense chaque année plus que les huit plus grandes forces militaires nationales combinées, doit bénéficier d’une augmentation massive de son budget, qui se fera aux dépens de coupes dans les programmes sociaux fondamentaux tels que Medicare, Medicaid et la sécurité sociale.

En d’autres termes, le rapport est une confirmation complète du Congrès de l’effort militaire de l’administration Trump, décrivant ce que le Congrès a accompli cette année lorsqu'il a adopté, avec un soutien écrasant des partis, la plus importante augmentation du budget militaire depuis la Guerre froide.

Mais au-delà de la reconnaissance du fait que les États-Unis doivent se préparer à une guerre imminente impliquant l’ensemble de la société, avec des conséquences « dévastatrices » pour la population américaine, le document met en garde contre une autre réalité fondamentale : les États-Unis pourraient très bien perdre une telle guerre, qui exige en effet la conquête militaire de la planète entière par un pays comptant moins de cinq pour cent de la population mondiale.

Les États-Unis « pourraient avoir du mal à gagner, ils pourraient même perdre une guerre contre la Chine ou la Russie », affirme le document. Ces guerres ne se dérouleraient pas uniquement à l’étranger, mais viseraient probablement la population américaine : « Il serait imprudent et irresponsable de ne pas attendre des adversaires qu'ils tentent des attaque de type cinétique, cybernétique ou d’autres actions paralysantes contre des Américains alors qu’ils chercheraient à vaincre nos forces armées à l’extérieur. »

Il ajoute: «En cas de guerre, les forces américaines devront faire face à des combats plus difficiles et à des pertes plus importantes qu’elles n’ont essuyés depuis des décennies. Il convient de rappeler que pendant la guerre des Malouines, un adversaire nettement inférieur, l’Argentine, a paralysé et a coulé un important navire de guerre britannique en le frappant avec un seul missile guidé. Le volume de destruction qu’un adversaire de grande puissance pourrait infliger aux forces américaines pourrait être d’une ampleur considérable. »

Pour illustrer son propos, le rapport décrit un certain nombre de scénarios. Le premier concerne la déclaration d'indépendance de Taiwan par rapport à la Chine en 2022, ce qui provoquerait des représailles de la part des Chinois. « Le Pentagone informe le président que les États-Unis pourraient probablement vaincre la Chine dans une longue guerre, si toute la puissance de la nation était mobilisée. Pourtant, ils perdraient d'énormes quantités de navires et d'aéronefs, ainsi que des milliers de vies, en plus de subir de graves perturbations économiques – le tout sans aucune garantie d'avoir un impact décisif avant que Taïwan ne soit envahie ... Mais éviter cette issue causerait des pertes horribles. »

Le rapport conclut que la solution est une armée beaucoup plus grande, financée par des augmentations constantes et pluriannuelles des dépenses. « La crise de la défense nationale doit faire face à une urgence extraordinaire », écrit-il.

L'armée a besoin de « plus de blindés, d’artillerie à longue portée, d’unités de logistique, d’unités de défense aérienne. » L'Armée de l'air a besoin de « plus de chasseurs et de bombardiers à longue distance furtifs, de ravitailleurs en vol, de capacités de transport, de plateformes de renseignement, de surveillance et de reconnaissance. » Les forces nucléaires ont besoin de plus de missiles. Et ainsi de suite.

Pour payer tout cela, il faut hacher dans les dépenses sociales. « Les programmes d’aide sociale obligatoire entraînent la croissance des dépenses », se plaint le rapport, exigeant que le Congrès se penche sur ces programmes, notamment Medicare, Medicaid et la sécurité sociale. Il avertit que « de tels ajustements seront sans aucun doute très douloureux ».

Enfin, toute la société doit être mobilisée derrière l’effort de guerre. Une approche « pangouvernementale » doit être adoptée, notamment « la politique commerciale, l’enseignement des sciences, de la technologie, de l’ingénierie et des mathématiques ».

En énumérant les différents défis auxquels seraient confrontés les États-Unis pour combattre et gagner une guerre contre la Russie ou la Chine, aucun des membres distingués du comité n’est parvenu à la conclusion apparemment évidente selon laquelle les États-Unis ne devraient peut-être pas mener une telle guerre.

Mais en cela, ils représentent l’énorme consensus au sein des cercles politiques américains. Dans ses derniers jours, Adolf Hitler aurait déclaré à maintes reprises que si la nation allemande ne pouvait pas gagner la Seconde Guerre mondiale, elle ne méritait pas d'exister. La classe dirigeante américaine est entièrement attachée à un plan d’action qui menace de faire disparaître non seulement une grande partie de la population mondiale, mais également la population américaine elle-même.

Ce n'est pas la folie des individus, mais la folie d'une classe sociale qui représente un ordre social dépassé et en faillite, le capitalisme et un cadre politique également survécu, le système État-nation. Et il ne peut être combattu que par une autre force sociale: la classe ouvrière mondiale, dont les intérêts sociaux sont internationaux et progressistes, et dont l'existence même dépend de l'opposition aux objectifs de guerre mégalomane du capitalisme américain.

André Damon, WSWS.org
 

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Afghanistan. Guerre américaine ou paix russe

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Afghanistan. Guerre américaine ou paix russe

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

L'on se souvient qu'en 1979 les troupes soviétiques, dans le cadre des accords de défense mutuelle qui liaient l'URSS à l'État afghan, ont répondu à l'appel du parti communiste au pouvoir, menacé par une rébellion armée.

Cette intervention a entraîné une forte résistance des rebelles, armés par les Etats-Unis, qui conduira après une longue guerre au retrait des forces soviétiques en 1989. En 1996,  un gouvernement  nationaliste islamique, dit des taliban avait pris le pouvoir. Il en a été chassé par une coalition internationale conduite par les Etats-Unis.

En 2004, le pays est devenu une république islamique de type présidentiel. Elle est encore très largement contrôlé par Washington, qui y a établi des bases militaires importantes. Mais l'opposition nationaliste islamique demeure partout présente. Elle dispose de moyens militaires non négligeable, vraisemblablement fournis par l'Iran. Elle aussi continue à revendiquer l'appellation de taliban. La présence militaire des Etats-Unis y est rendue de plus en plus difficile.

Cependant, ceux-ci n'entendent pas abandonner leur actuelle position dominante dans l'Afghanistan urbaine. Pour eux, l'Afghanistan dispose d'un intérêt stratégique essentiel, dans la perspective de la lutte qu'ils entendent encore mener contre la Russie. Géographiquement, elle dispose de frontières communes avec le Pakistan, le Tadjikistan et des autres Etats d'Asie centrale voisins de la Russie.

De plus elle possède des ressources naturelles considérables, encore mal exploitées. Pour Washington, s'y établir avec des implantations militaires durables permet à la fois de continuer à menacer la Russie actuelle et d'espérer pouvoir bénéficier à terme des perspectives économiques du pays.

Malheureusement pour eux, l'opposition que l'on continue d'imputer aux seuls taliban, se fait de plus en plus forte et impossible à contenir. On se souviendra que l'armée américaine avait lancé il y a quelques années contre eux une bombe classique présentée comme aussi puissante que la bombe Hiroshima, sans autres effets que tuer des civils.

L'élément nouveau que doit désormais prendre en compte Washington est le retour de la Russie. Mais celle-ci le fait non militairement mais diplomatiquement, avec un succès croissant. Moscou affirme qu'il ne cherche pas à substituer en Afghanistan l'influence russe à celle des Etats-Unis. Il dit vouloir seulement vouloir intervenir pour qu'une présence américaine reste compatible avec une influence russe pacifique, dans le cadre d'un complet accord tant du gouvernement de Kaboul que des taliban.

Conférence de Moscou

A cette fin, la Russie avait organisé avait organisé à Moscou une conférence de paix le 9 novembre, à laquelle ont participé notamment la Chine, l'Iran, le Pakistan, le Tadjikistan, l'Ouzbékistan et le Turkménistan. Une délégation de cinq membres, conduite par Sher Mohammad Abbas Stanakzaï, chef du conseil politique des taliban au Qatar, s'était rendu dans la capitale russe.Le gouvernement afghan, sous la pression américaine, n'y a pas été présent. Mais il a envoyé à Moscou des membres du Haut Conseil pour la paix, un organisme afghan chargé de superviser les efforts en vue de parvenir à un règlement politique du conflit. Bien évidemment, Washington avait refusé l'invitation.

La conférence de Moscou a été présentée par les Occidentaux comme un échec. Il est évident qu'il n'en est pas ressorti un accord pour une cessation immédiate des hostilités. Mais Moscou a fait admettre que tour accord de paix devrait dorénavant résulter d'une démarche commune américano-russe en ce sens. On peut penser que Donald Trump se ralliera à cette perspective, si du moins il peut l'imposer au Pentagone. Il s'était fait officieusement représenté à Kaboul par un envoyé spécial, Zalmay Khalilzad 1) diplomate américain connaissant bien l''Afghanistan où il semble avoir des intérêts personnels. Il y a retrouvé Zamir Kabulov,  diplomate russe exerçant les fonctions d'envoyé spécial en Afghanistan, qu'il connaît lui-même très bien. 2)

Or pour Moscou et sans doute aussi pour les taliban et même le gouvernement de Kaboul la conférence du 9 novembre a été un succès. On lira ici sa déclaration. 3)

Reste à savoir quelle sera la réaction de Donald Trump. Se résignera-t-il à admettre une présence diplomatique américaine et russe conjointe en Afghanistan, ou cédera-t-il aux pressions du lobby militaro-industriel américain pour poursuivre la guerre. On peut penser qu'il choisira la première solution, au vu de l'hostilité grandissante des électeurs américains à l poursuite d'une guerre dont ils voient les coûts grandissants, y compris en termes de pertes humains, pour des avantages qui leur paraissent de plus en plus lointains.

Macron devrait en tous cas se rapprocher de la position de Moscou, s'il entendait comme il le dit voir la France continuer à jouer un certain rôle au Moyen Orient et en Asie centrale.

1) https://en.wikipedia.org/wiki/Zalmay_Khalilzad,
2) https://en.wikipedia.org/wiki/Zamir_Kabulov
3)  https://actualite-news.com/fr/international/asie/6901-la-...


 

mercredi, 21 novembre 2018

La fin de la paix et de la sécurité en Europe

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La fin de la paix et de la sécurité en Europe

par Martin Sieff

Ex: https://echelledejacob.blogspot.com

J’ai couvert la signature du Traité sur les forces nucléaires intermédiaires (INF) en décembre 1987 lors du sommet de Washington DC, entre le président américain Ronald Reagan et le dernier président soviétique Mikhail Gorbatchev. C’était un bon moment à vivre de couvrir la diplomatie entre les superpuissances nucléaires. Il y avait un sentiment palpable d’optimisme sur le fait que les deux parties étaient résolues à détruire des milliers d’armes thermonucléaires – ce qu’elles ont fait – et à réduire les tensions en Europe. 
 
En quelques années, Gorbatchev devait également accepter la dissolution du pacte de Varsovie. L’Union soviétique a été démantelée de manière pacifique par ses pays membres, dirigés par la Russie peu de temps après.

La négociation et la signature du traité INF était un préalable indispensable à la fin de la guerre froide. Cela a inauguré deux générations de paix et de stabilité en Europe. Suite aux déclarations du président Donald Trump le 20 octobre 2018, le traité est maintenant mort debout. Le président semble déterminé à s’en retirer. Il semble être totalement sous l’influence de son troisième conseiller à la sécurité nationale, John Bolton, dont la haine pour l’INF comme pour tous les accords de contrôle des armements, à l’instar de ses collègues néo-conservateurs, a toujours été plus qu’incompréhensible.

Les Démocrates au Sénat ne feront pas non plus la moindre tentative de défense, de préservation ou de restauration de l’INF. John Kerry, dernier sénateur à prendre au sérieux les accords importants sur le contrôle des armements, a présidé sans aucune objection publique à l’encontre les États-Unis et de l’Union européenne, au renversement, par une révolution violente, d’un gouvernement élu démocratiquement et pacifiquement en Ukraine en février 2014.

La subordonnée de Kerry, Victoria Nuland, alors secrétaire d’État adjointe aux Affaires européennes et eurasiennes et épouse du chef du clan néo-conservateur Robert Kagan, a littéralement distribué des biscuits dans les rues de Kiev pour assurer, aux révolutionnaires violents qui subvertissaient le processus démocratique, que l’administration Obama était avec eux. Ni Kerry ni son propre président, Barack Obama, n’ont levé le petit doigt pour contrecarrer le comportement d’une haute responsable qui, dans n’importe quelle autre administration de l’histoire américaine, aurait été virée sommairement et bannie de toute discussion sérieuse et de la conduite des affaires publiques à vie.

Aujourd’hui, tous les sénateurs démocrates de Capitol Hill cherchent passionnément à diaboliser la Russie pour des crimes imaginaires et paranoïaques qui auraient fait rougir Joe McCarthy.

La moisson actuelle de sénateurs démocrates au Congrès, dirigée par des personnalités telles que Ben Cardin du Maryland, semble au contraire déterminée à provoquer une guerre thermonucléaire à grande échelle avec la Russie. Ils ont non seulement soutenu, mais insisté, pour une nouvelle série de sanctions financières féroces à l’encontre de la Russie, qui ont clairement pour objectif de ruiner l’économie du pays et la mettre en condition pour le type de changement de régime révolutionnaire que les administrations successives ont pris pour acquis de droit divin depuis que Ronald Reagan est entré à la Maison Blanche.

Les jours actuels sont bien différents de ceux qui ont vu Washington célébrer la signature du traité INF en 1987. À cette époque lointaine, les décideurs américains faisaient au moins semblant de consulter leurs « alliés » européens et les membres de l’OTAN qu’ils prétendaient protéger.

Jusqu’à présent, dans les déclarations de Trump sur la suppression du traité INF, rien n’indique que les Européens aient eu voix au chapitre dans cette décision de Washington qui met en jeu leur survie même. Bonjour pour l’idée que l’OTAN est un « partenariat » !

Le respect mutuel prudent que Washington entretenait encore pour Moscou dans les années 1980 – ou du moins le prétendait occasionnellement – est maintenant révolu. L’idée que supprimer les armes nucléaires et renforcer la confiance et le dialogue entre les puissances nucléaires soit une bonne chose est maintenant considérée comme risible, tant par les néo-libéraux que par les néo-cons. Toutes les voix contraires sont ridiculisées et font ricaner les couards se présentant comme des patriotes intrépides. Ils n’ont aucune considération pour ceux qu’ils ciblent avec leur tactique d’intimidation. Ils seront les premiers à hurler de terreur lorsque leurs propres fantasmes seront réalisés et que les missiles nucléaires décolleront. Mais alors, il sera trop tard.

Martin Sieff

Traduit par jj, relu par Cat pour le Saker Francophone

Carlos Paz y Muhsen Bilal, sobre Siria

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Carlos Paz y Muhsen Bilal, sobre Siria 19-10-2018

Carlos Paz y Muhsen Bilal, sobre Siria, de la derrota a la reconstrucción final !
 

Nouvelles exigences du complexe militaro-industriel américain (CMI)

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Nouvelles exigences du complexe militaro-industriel américain (CMI)

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Dans un rapport qui sera prochainement examiné par les deux Commissions de défense (Armed Services Comittee) du Sénat et de la Chambre des Représentants, intitulé  The National Defense Strategy, deux éminentes personnalités militaires signalent l'incapacité actuelle où se trouvent selon eux, les forces armées américaines.

Ils ne mentionnent volontairement pas le nucléaire, tactique ou stratégique, dans lequel les Etats-Unis disposent encore d'une incontestable supériorité. Ils se placent dans la perspective d'une guerre dite conventionnelle, dans tous les domaines, traditionnels comme nouveaux (espace, cyberguerre). Les menaces proviennent selon eux de la Russie et la Chine. Le rapport ne mentionne qu'accessoirement d'autres menaces telles que le terrorisme .

Les auteurs en sont un ancien vice-ministre de la défense sous George Bush, Eric Edelman et un amiral retraité, ancien chef des Opérations Navales sous George Bush et Barack Obama, Gary Roughead. Le rapport est extrêmement détaillé. Il peut être lu en entier sur le site du Département de la Défense 1) On en trouve des éléments importants, avec des commentaires intéressants, sur le site NBC news 2) cité en référence ainsi que sur le site Southfront 3).

On peut penser que ce rapport est une réaction à l'annonce des économies que Donald Trump a demandé au département de la défense. Elles sont de 16 milliards de dollars. Cependant ce budget est actuellement de 716 milliards environ. Ceci dépasse largement la somme cumulée des budgets de défense de l'ensemble des autres nations, incluant évidemment la Russie et la Chine.

Observons qu'en France, l'Etat-Major constatant le nombre insuffisant des matériels français, par exemple les hélicoptères de combat, et surtout leur mauvaise maintenance faute de moyens d'entretien, fait aussi pression pour des budgets militaires plus importants.

Une militarisation complète de l'Amérique

Mais en lisant le rapport, on s'aperçoit aisément que les nouveaux domaines dans lesquels les auteurs demandent que s'investissent les forces armées américaines conduiraient à des budgets militaires considérablement plus élevés. En fait, c'est une militarisation complète de l'économie et de la société américaine que demande le rapport, analogue à celle obtenue lors de la 2e guerre mondiale.

Ceci paraît paradoxal, lorsque l'on sait que le Département de la Défense et son agence de recherche la Darpa financent l'essentiel des recherches et développements conduites aux Etats-Unis dans l'ensemble des domaines intéressant les nouvelles sciences et technologies. Ceci se fait au détriment de la recherche civile, maintenue au plus bas niveau possible et surtout qui ne peut accéder aux résultats des recherches militaires couvertes par le confidentiel-défense. Contrairement par ailleurs à ce qui est d'usage en matière de recherche scientifique civile, les scientifiques non-américains n'ont pas accès à ces recherches.

Le rapport évoque en permanence le risque d'une guerre conventionnelle avec la Russie ou la Chine, sinon les deux simultanément. Mais comment peut-on croire que ces puissances prendraient le risque de déclencher une guerre de grande ampleur contre les Etats-Unis, compte-tenu du peu de bénéfice qu'elles en tireraient en regard des coûts humains et matériels difficilement estimables, mais considérables qu'une telle guerre leur imposerait...à supposer qu'elles puissent la gagner ?

Certes, les militaires américains ont, comme nous l'avions relaté, découvert récemment avec stupéfaction les avancées considérables de la Russie, suivie de près par la Chine, dans le domaine notamment des missiles hypersoniques. Mais peut-on raisonnablement supposer que de telles armes, si elles n'étaient pas dotées de têtes nucléaires, pourraient l'emporter sur les armements terrestres, maritimes et aériens dont sont amplement dotées, notamment, les nombreuses bases militaires américaines situées aux frontières de la Russie et même de la Chine via des pays dépendants comme la Corée du Sud ?

En fait une lecture plus simple de ce rapport conduit à y voir de nouvelles exigences du complexe militaro-industriel américain, dit aussi l'Etat profond. Celui-ci a pourtant gaspillé sans résultats environs 1.000 milliards de dollars dans le projet d'avion de combat dit JSF F-35 qui n'est pas encore véritablement opérationnel après 10 de financements abondants. A plus petite échelle, il faudrait mentionner les 45 milliards de dollars en contrats pour la réalisation de MRAP ou véhicules blindés protégés contre les mines utilisées au Moyen-Orient par des adversaires ne disposant pas d'autres types d'armes 4).

Il est évident qu'en imposant à la société américaine comme à l'ensemble des pays alliés de nouvelles dépenses militaires consenties au détriment des besoins civils, des centaines de milliards nouveaux pourraient être apportés au CMI américain. Nul ne peut dire ce qu'en feraient les bénéficiaires de ces ressources, sinon améliorer encore leur statut social et politique actuel. Mieux vaudrait en ce cas considérer que les Etats-Unis deviendraient une véritable dictature politique et militaire visant à une domination universelle, y compris rappelons le, dans le futur domaine capital de la colonisation de l'espace en orbite terrestre puis dans celui des planètes accessibles d'ici la fin du siècle, soit la Lune et Mars.

Rappelons que, dans un article précédent, nous avions rappelé que le Pentagone n'hésiterait à recourir au nucléaire face à un échec même mineur constaté lors d'un engagement dans le domaine conventionnel 5).

Références

1) https://dod.defense.gov/Portals/1/Documents/pubs/2018-Nat...

2) https://www.nbcnews.com/news/us-news/u-s-military-crisis-...

3) https://southfront.org/why-the-u-s-military-is-woefully-u...

4) https://en.wikipedia.org/wiki/MRAP

5) http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=3156...

On pourra lire aussi sur ce sujet un article en français  très alarmiste du World Socialist Web https://www.wsws.org/fr/articles/2018/11/17/rdwr-n17.html

Image. Un MRAP de type Cougar testé par le passage sur une mine

Note à la date du 18/11
Nouveaux éléments chiffrés concernant les dépenses militaires américaines

* Nous venons d'obtenir une étude du très officiel Institut Watson. Ceux qui s'intéressent aux dépenses militaires américiaines y apprendront que depuis le 11 septembre 2001, les Etats-Unis ont consacré approximativement 5,9 trillions de dollars aux diverses guerres menées par le monde. 1 trillion équivaut à 1 milliard de milliards. Les Etats-Unis sont riches.
ttps://watson.brown.edu/costsofwar/files/cow/imce/papers/...

* Rappelons qu'en 2017 le budget militaire américain atteignait 716 billions de dollars, soit 716 milliards. Celui de la Russie était estimé à  10 fois moins.

* Le coût annuel des 800 bases américaines dans le monde a été estimé selon une étude de David Vine datant de 2015 et publié par Amazon à 156 milliards. 
https://www.amazon.com/Base-Nation-Military-America-Ameri...

On comprend que dans ces conditions ils n'aient pas pu financer le développement d'un modeste missile hypersonique tel que le Kinzal russe

mardi, 20 novembre 2018

Schröder dénonce l’«occupation» de l’Allemagne par les USA

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Schröder dénonce l’«occupation» de l’Allemagne par les USA

Ex: https://echelldejacob.blogspot.com

 
L’ancien chancelier allemand s’en est pris dans une interview récente à la politique commerciale américaine qu’il a qualifiée d’ «occupation». Selon lui, il est inévitable que «ceux qui souffrent des conflits déclenchés par les États-Unis se rapprochent».

Dans une interview accordée à la chaîne allemande N-TV, Gerhard Schröder a dénoncé la politique commerciale américaine à l'égard de l'Allemagne.

«Nous ne pouvons pas tolérer d'être traités comme un pays occupé. Lorsque j'observe les actions de l'ambassadeur américain en Allemagne, j'ai l'impression qu'il se croit un officier d'occupation et non l'ambassadeur des États-Unis dans un État souverain», a-t-il déclaré.

Selon l'ancien chancelier allemand, Berlin doit chercher des partenaires qui ont des intérêts semblables. Parmi de tels pays, il a indiqué la Chine.

«Il est impossible d'empêcher que ceux qui souffrent des conflits déclenchés par les États-Unis se rapprochent», a-t-il résumé.

En mars dernier, la Maison-Blanche a imposé des tarifs douaniers supplémentaires à hauteur respectivement de 25 et 10% sur les importations d'acier et d'aluminium, en exemptant de manière permanente l'Argentine, le Brésil et l'Australie notamment, en échange toutefois de quotas.

Le 25 juillet, Jean-Claude Juncker s'était rendu aux États-Unis afin de rencontrer le Président américain. À l'issue de négociations, ils avaient annoncé une série de mesures sur l'agriculture, l'industrie et l'énergie pour apaiser le conflit commercial qui déchire les relations entre les États-Unis et l'Union européenne.

Donald Trump avait promis de «résoudre» la question de l'augmentation des tarifs douaniers américains de 25% sur l'acier et de 10% sur l'aluminium européens. Ce sont précisément ces taxes, appliquées depuis le 1er juin, qui ont mis le feu aux poudres entre Washington et Bruxelles. Il n'a cependant pas indiqué si cela signifiait que son administration avait l'intention de suspendre ces taxes.
 

Le Sri Lanka, enjeu géopolitique important

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Le Sri Lanka, enjeu géopolitique important

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le Sri Lanka est peu connu en France. C'est un tort car cette petite île, nommée Ceylan du temps de l'ancienne route des Indes pour laquelle elle constituait une escale obligée, située au sud-est de l'Inde et peuplée d'environ vingt-deux millions de personnes, est devenu un enjeu majeur de pouvoir entre les Etats-Unis et la Chine.
Les Etats-Unis veulent absolument y conserver leur influence traditionnelle, y compris militaire, car elle commande géographiquement la circulation maritime entre le Golfe du Bengale et la Mer Rouge autrement dit le Canal de Suez. Pour la Chine, commencer à y implanter des entreprises chinoises est considéré comme un premier pas permettant de concurrencer la domination économique de l'Inde, qui est encore aujourd'hui largement sous influence américaine.

 

 

 

L'ancien homme fort du pays, le chef du gouvernement Mahinda Rajapakse, avait accepté de nombreux prêts chinois pour la construction d'infrastructures semble-t-il démesurées. Cet endettement a fait que fin 2017, le Sri Lanka avait concédé pour 99 ans le port de Hambantota, dans le sud de l'île, à une société d'Etat chinoise en échange de l'effacement d'un peu plus de 1 milliard d'euros de dettes.

Or l'Inde et derrière elle les Etats-Unis, voient avec inquiétude la transformation possible de l'île en étape des « nouvelles routes de la soie » chinoises empruntant la voie maritime. Pékin a été l'une des rares capitales à avoir félicité Mahinda Rajapakse lorsqu'il a été nommé premier ministre fin octobre 2018.

Nous n'entrerons pas ici dans les détails fort compliqués de la vie politique du Sri Lanka et des luttes d'influences qui s'y exercent entre les différentes communautés politiques et religieuses. Disons seulement que la situation s'est tendue depuis que le président du Sri Lanka, Maithripala Sirisena, avait limogé, le 26 octobre, son premier ministre Ranil Wickremesinghe pour le remplacer par Mahinda Rajapakse. Or celui-ci, souvent présenté comme l'homme de Pékin, se voit aussi reprocher de nombreux faits de corruption.

Mais le remplacement ne s'est pas fait comme prévu, le chef du gouvernement sortant Ranil Wickremesinghe a refusé de quitter son poste de même que sa résidence officielle. Par ailleurs il bénéficie toujours d'une majorité au Parlement. Le président Maithripala Sirisena avait essayé de dissoudre la Chambre et d'organiser des élections anticipées. Mais la Cour suprême vient d'invalider ces décrets présidentiels.

Le pays est paralysé et nul ne sait qui le gouverne. Fin octobre, le Sri Lanka avait deux premiers ministres, celui qui refusait de partir, Ranil Wickremesinghe, et celui qui venait d'être nommé, Mahinda Rajapakse. Aujourd'hui, constitutionnellement, il n'en a plus aucun. Mahinda Rajapakse n'a pas le soutien du Parlement et Ranil Wickremesinghe a perdu celui du président Maithripala Sirisena. Ceci d'autant plus que Ranil Wickremesinghe envisagerait de se porter candidat à la présidence du pays fin 2019, alors que l'actuel président souhaite le rester. Les deux hommes multiplient les accusations l'un contre l'autre. Mais les citoyens du Sri Lanka restent, si l'on peut employer ce terme, dubitatifs.

Rappelons que Mahinda Rajapakse, accusé de népotisme, de corruption et de crimes de guerre lorsqu'il était président entre 2005 et 2015, avait écrasé la rébellion des Tigres tamouls en 2009. L'armée sri-lankaise qu'il dirigeait a été accusée d'avoir torturé, violé et tué des civils.

Il convient de suivre avec attention l'évolution de la crise actuelle. Elle pourra indiquer notamment sous quelle influence, indo-américaine ou chinoise, pourrait à l'avenir se retrouver le pays.

 

dimanche, 18 novembre 2018

"Turquie, quels enjeux ?"

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 "Turquie, quels enjeux ?"
 
 
Le 4ème numéro de Pragma avec Robert Steuckers est disponible !

samedi, 17 novembre 2018

The Russian Crimea: Results and Future Outlooks

Pavel Tulaev

Ex: http://www.ateney.ru

Everyone recognises that Crimea is one of the most beautiful and bountiful places in the world. Not for nothing has it been called «the blest land», «a paradise», «the throne of the Black Sea», «the Russian Holy Mount», «a precious jewel in the crown of the Russian Empire», «a Eurasian microcosm», «an unsinkable aircraft carrier».

From time out of mind different peoples have settled it. It has always been a centre of resistance to, and rivalry with, diverse forces. Over the last thousand years, the history of Crimea has been inextricably linked to Holy Rus’, Muscovy, Russia and the USSR.

The military, political and trade route «from the Varangians to the Greeks», which passed through Novgorod, Kiev and Chersonese before ending at Constantinople, connected the Baltic and Black Seas, and the Slavic and Greco-Byzantine civilisations. This route became the backbone of Russia’s living and expansion space, and led to the creation of a new Orthodox state, which proclaimed itself the heiress to the Byzantine Empire, like a third Rome.

Why is it that Taurian Chersonese, not Kiev, is seen as the cradle of the Christianisation of Rus’? The reason is that Christ’s direct apostle Andrew (‘the First-called’), was preaching the word of God there, as early as during the 1st century AD. St. Clement (Pope Clement 1), the third bishop of Rome and founder of the first Christian communities in Crimea, was martyred there. In the early Middle Ages, the city was celebrated for its many saints and martyrs of Greek, Gothic and Scythian origin. The brothers Cyril and Methodius, considered equal to the apostles, arrived in Chersonese in 860 on their teaching mission; it was they who developed the basis of Slavonic literacy. It was here that the first Russian princes, Askold and Dir, accepted Christianity, along with their company. Lastly, it was Chersonese, in 988, that Prince Vladimir Svyatoslavovitch after his baptism wedded the Byzantine Princess Anna. In company with a priest – chronicler, he took books of liturgy as well as Orthodox relics from Chersonese to Kiev. The history of Kievan Rus’ would have been different without Chersonese.

Tulaev-on-Crimea_cover.jpgThe Russian colonisation of Crimea, which began during the first campaigns against Constantinople, continued to develop during the Tmutarakan principality from the 10th to 12th centuries, on the territory of ancient Tamatarkha. Here, on the banks of the Cimmerian Bosphorus, one of the first Russian places of worship, a shrine to the Most Holy Virgin, was built. Nikon, the first of the chroniclers known to us, lived here; he was to become the abbot of the Kiev-Pechersk monastery. Here Boyan, the legendary teller of tales, sang epics to the accompaniment of his dulcimer. And on this place marched the forces of the prince of Novgorod-Severski, whose deed was celebrated in the inspired «Tale of Igor’s Campaign».

At the beginning of the 13th century, the Tartar Horde seized the peninsula by force, cutting off the road from Rus’ to Constantinople. The military and political alliance with the Ottoman Empire had allowed the Muslims to hold the peninsula in their thrall for several centuries, and, at the same time, to alarm Rus’ with vicious predatory wars, which reached as far as Moscow itself.

Suppression of the hordes, bringing them under the sway of the Orthodox Tsar’, and incorporating Crimea into the Russian state, were very intricate problems, the resolution of which did not begin in the reign of Catherine the Great, but as early as Ivan the Terrible’s time. True, the first Russian campaigns to the Black Sea were not entirely successful, but without the military experience of Prince Golytsin, without Peter the Great’s Azov campaigns, without the strategic plans of Anna Ioannovna of Russia and Elizabeth Petrovna of Russia, Prince Potemkin would have had no basis for his ambitions in Crimea.

The absorption of Crimea into the Russian Empire was a progressive development for a number of reasons. Above all, it destroyed a focus of military threat for many Christian peoples: Greeks, Armenians, Goths, and Bulgarians. The Crimean Tartars were given the opportunity to shift from a nomadic way of life, based on warfare, to peaceful, constructive labour, but preserved themselves as an ethnic group. The rich economic potential of Crimea began to be realised on a larger, more diverse, scale. Scientists began to research all aspects of life and activity on the peninsula. It became part of enlightened European civilisation. Lastly, this valuable geopolitical acquisition facilitated the spread of the Orthodox Empire to the shores of the Black Sea and to the establishment of closer ties to Mediterranean and Western European countries, which, in turn, gave impetus to the development of Ukraine and Novorossiya. A new chapter opened in the life of the entire Eurasian region.

The sacrament of marriage entered into by Rus’ and Byzantium under the veil of the Blessed Virgin made our fatherland the tabernacle of the Queen of Heaven, while the acquisition of Crimea led to the building of the new «Mount Athos (Holy Mountain)». Crimea became not only a popular Riviera, the best-loved holiday resort of the well-off, but a place of pilgrimage for simple Christians. During the Romanovs’ rule, many valuable works pertaining to our national culture were created here.

Russia’s sortie on to the vast expanse of Black Sea significantly strengthened the international position of the Orthodox Empire. However, old Europe was watching the growth of its power with envious eyes. It always took advantage of any opportunity to weaken Russia’s position in Crimea, blowing political dissension up into bloody war. The blockade and merciless bombardment of Sebastopol in the years 1855-1856 are an instructive example.

The cost of the victories in the Crimea

We must not forget the terrible price of our victories in Crimea. During the 18th century, the Russian army, during the Russo-Turkish wars, lost a total of over 250,000 men, including those killed outright, and those who died of injury and illness.
Russia, in the 19th century, was obliged to wage four large-scale wars to retain and expand its possessions in the northern Black Sea coastal zone. According to specialists, Russia’s losses were no less than 450,000 men.

About 600,000 more people perished in the defence and liberation of the peninsula during the Second World War. No accurate information is yet available on the casualties of the civil war during the revolutionary period at the start of the 20th century. In any event, the overall losses sustained in wars for the Crimea are of the order of 1.5 million people.

There is a major monument to Russian military glory in Sevastopol – the Brotherhood Cemetery. It combines the graves of the first defence of the city and of the defenders of 1941 and 1942, as well as of the sailors from the battleship «Novorossiya», and the nuclear submarines «Komsomolets» and «Kursk». Here, in mass and personal graves, lie up to 50,000 warriors, which, as we have seen, is only a fraction of the cost in human life.

The revolution turned into a social catastrophe and a terrible tragedy for the peninsula. In November 1920 alone, over 145,000 Russian refugees fled the Crimea by sea. During the Red Terror, the widespread hunger, the liquidation of the kulaks, persecution of the Cossacks and other repressions, hundreds of thousands of people lost their lives. Many places of worship were closed and destroyed, while the monasteries were converted into labour communes and stores. The estates of the aristocracy and of the rich were looted, and, if they were lucky, converted into public spas or recreation centres. However, thanks to the bravery of museum staff, some of the art treasures and libraries were saved and preserved.

The Soviet government’s foreign policy in substance brought about the so-called «localisation» of the Tartars and Ukrainians living on the peninsula. Russians were temporarily in the minority. An attempt was made to create a Jewish Republic in Crimea. However, the attempts to wrest the former Taurian province from Russia ended in failure. In Stalin’s time, the Russian portion of the peninsula’s population began again to grow. Whereas in 1927 our compatriots made up 42% of Crimea’s population, in 1959 this figure had grown to 71.4%, and, by 2003, 79%. True enough, we should bear in mind that the deportation of persons of non-Slavonic origin between 1941 and 1944 no doubt had an effect on the sharp change in the statistical data. Also, many holders of Russian passports were Ukrainian by origin.


The Russians were always the most educated section of Crimea’s population. Even in the days of Khrushchev’s recklessness, we were bringing spiritual and temporal enlightenment to other peoples. By the start of the 21st century, there were over 400 doctors habilitati, more than 2000 doctors, and more than 12,000 highly qualified specialists active in the fields of research and education.


In the post-Soviet period, after long years of atheism and terror, the Christian faith began to re-vitalise the sacred land of Taurian Chersonese. The Orthodox cross began to shine with new glory over the Crimea, and the light of Christ enlightened us sinners, so that we might understand God’s Plan and lovingly carry it out.

Ancient places of worship have been restored and new ones opened. Orthodox communities and brotherhoods are being created, and ecclesiastical newspapers and journals are being published. The awakening of an Orthodox and Slavonic movement has inspired the hope that the Russian Crimea will rise again under the flag of the apostle Andrew the First Called, which will bring together Christian, patriotic and naval traditions.


The short-lived Ukrainisation of Crimea has not outwardly changed the familiar flow of religious, scientific, cultural and leisure and tourism aspects of life on the peninsula. It has but little effect on the peninsula’s economy. However, from a military and political point of view, Ukrainisation was a destructive process. Crimea, at the transition from the 20th to the 21st century, became an area of instability, the fault line in Eurasia’s defensive alliance.

It will not be easy for Russia to develop under conditions of permanent aggression from the West, and its economic and political blockade. The West, however, is not the whole world. There is always the East, ancient, wise and powerful. There are the economically developed countries of Asia and other regions, with which Russia has strengthened its relations through such international structures as the Eurasian Economic Union (EAEU), the Shanghai Co-operation Organisation (SCO), the Collective Security Treaty Organisation (CSTO), the deliberative bodies of the BRICS countries (Brazil, Russia, India, China, and the Republic of South Africa), et cetera. Nor is our country a tiny state, it is a vigorous power, which has entered the 21st century with confidence.

A new stage in Russia’s destiny

From a geopolitical point of view, 2014 saw the beginning of a new turn in the process of integrating the Russian regions. This is being complicated by Ukrainian nationalists, who keep ‘throwing spanners in the works’, by using ideological propaganda, and economic and political levers. In essence, Kiev is organising an all-out blockade of the peninsula. This cannot fail to cause problems of another sort. However, they are all temporary. All misapprehensions and technical difficulties can be sorted out as they arise, while the strategy of developing a Russian Crimea inspires hope for a better future.

Despite the aspersions of the opponents of the reunification, the critics and the eternal complainers, the peninsula has begun to develop much more dynamically than before. This is reflected in radical economic and social reforms for the good of its citizens, the complete refurbishment of many buildings, the building of new roads, and the modernisation of education and the health service.


As we can see, much progress has been possible despite all the blockades and sanctions. Even Western researchers recognise that life in Crimea is, on the whole, much better and more stable than in Ukraine. And, when the Kerch Bridge opens, things will be easier.

Besides, the peninsula’s development should be considered in the light of events in the south- eastern regions of Ukraine, the past and present Novorossiya. The Northern Tauria has always had close ties to Crimea, while Donbas was, and still is, the most important industrial and energy centre in the southern region.

The Russian Spring drew universal attention to the Crimea, which triggered new research into the blessed land. Books by A. Shirokorad, O. Greig, M. Korsun, A. Prokhanov, N. Starikov and other authors have been published. Previous scientific experience has been collected in the «The History of Crimea» monograph, brought out on the initiative of the Russian military history society.


The National Committee for preservation the Republic of Crimea’s cultural heritage is hard at work under the supervision of military historian V. Zarubin, who co-ordinates his activity with the local government, cultural and social organisations, as well as with the Civic Chamber of the Russian Federation, which specialises in the very same subject. A list of facilities requiring additional attention and funding has been drawn up, on the basis of which the appropriate requisitions have been made.

Vladimir Putin, who is constantly monitoring the course of events on the peninsula, has pointed out that separate funds are being allocated from the national budget not only for the construction of the Kerch Bridge, roads and power lines, but also for the restoration of monuments. «Crimea’s cultural objects are the heritage of all Russia, which has been accumulated over centuries, including Aivazovski, and Chekhov, and Kuprin, the flower of Russian culture, on whose works we have been educated for generations, and on which our children and grandchildren will also be educated», states our President.

In this connection, it is fitting to recall that, in June 2016, the monument to Catherine the Great, destroyed in Soviet times, was triumphantly re-erected in Simferopol to mark Navy Day. The sculptors are Aleksandr Chekunov and Dmitri Startsev.

A monument to General Vrangel’ was unveiled in September 2016 in Kerch, at the church of the apostle Andrew the First-called. It was created to the design of sculptor Andrew Klykov, the son and successor of outstanding sculptor and public figure Vyacheslav Mikhailovich Klykov. At a time when Crimeans, busy restoring their economy, infrastructure and cultural heritage, appealed for help to the government of fraternal Russia, the Ukrainians stepped up their informational counter-measures and received tangible assistance from the USA. More than 100 nationalistically inclined journalists and their electronic resources, such as «Crimea. The realities», «The Island», «Hromadske TV») received grants from the Soros Fund amounting to 500,000 dollars, which meant that the flow of ideological propaganda from Kiev intensified.

To sum up generally the research we have conducted over many years, the following may be confidently asserted. There was no annexation in 2014. Holy Rus’, Orthodox Muscovy, the Russian Empire, and the USSR all had close ties with Tauride over many centuries. After the illegal, short-lived isolation of our compatriots from their Motherland, they went back home as soon as a real chance resented itself. The natural, completely lawful, long-awaited re-unification of a single nation took place, on the basis of a legal referendum. This was the restoration of historical justice, the triumph of Truth and Orthodoxy. A new chapter opened in the Destiny of the Russian people, a new stage of ethnic and religious re-birth. Hail the heroes! Eternal remembrance to the holy martyrs and innocent victims!

Pavel Vladimirovich Tulaev, Professor,
International Slavonic Institute, Moscow (Russia)

 

jeudi, 15 novembre 2018

America’s Permanent-War Complex

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America’s Permanent-War Complex

Eisenhower's worst nightmare has come true, as defense mega-contractors climb into the cockpit to ensure we stay overextended.

What President Dwight D. Eisenhower dubbed the “military-industrial complex” has been constantly evolving over the decades, adjusting to shifts in the economic and political system as well as international events. The result today is a “permanent-war complex,” which is now engaged in conflicts in at least eight countries across the globe, none of which are intended to be temporary.

This new complex has justified its enhanced power and control over the country’s resources primarily by citing threats to U.S. security posed by Islamic terrorists. But like the old military-industrial complex, it is really rooted in the evolving relationship between the national security institutions themselves and the private arms contractors allied with them.

The first phase of this transformation was a far-reaching privatization of U.S. military and intelligence institutions in the two decades after the Cold War, which hollowed out the military’s expertise and made it dependent on big contractors (think Halliburton, Booz Allen Hamilton, CACI). The second phase began with the global “war on terrorism,” which quickly turned into a permanent war, much of which revolves around the use of drone strikes.

The drone wars are uniquely a public-private military endeavor, in which major arms contractors are directly involved in the most strategic aspect of the war. And so the drone contractors—especially the dominant General Atomics—have both a powerful motive and the political power, exercised through its clients in Congress, to ensure that the wars continue for the indefinite future.

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The privatization of military and intelligence institutions began even before the end of the Cold War. But during the 1990s, both Congress and the Bush and Clinton administrations opened the floodgates to arms and intelligence contractors and their political allies. The contracts soon became bigger and more concentrated in a handful of dominant companies. Between 1998 and 2003, private contractors were getting roughly half of the entire defense budget each year. The 50 biggest companies were getting more than half of the approximately $900 billion paid out in contracts during that time, and most were no-bid contracts, sole sourced, according to the Center for Public Integrity.

The contracts that had the biggest impact on the complex were for specialists working right in the Pentagon. The number of these contractors grew so rapidly and chaotically in the two decades after the Cold War that senior Pentagon officials did not even know the full extent of their numbers and reach. In 2010, then-secretary of defense Robert M. Gates even confessed to Washington Post reporters Dana Priest and William M. Arkin that he was unable to determine how many contractors worked in the Office of the Secretary of Defense, which includes the entire civilian side of the Pentagon.

Although legally forbidden from assuming tasks that were “inherent government functions,” in practice these contractors steadily encroached on what had always been regarded as government functions. Contractors could pay much higher salaries and consulting fees than government agencies, so experienced Pentagon and CIA officers soon left their civil service jobs by the tens of thousands for plum positions with firms that often paid twice as much as the government for the same work.

That was especially true in the intelligence agencies, which experienced a rapid 50 percent workforce increase after 9/11. It was almost entirely done with former skilled officers brought back as contractor personnel. Even President Barack Obama’s CIA director Leon Panetta admitted to Priest and Arkin that the intelligence community had for too long “depended on contractors to do the operational work” that had always been done by CIA employees, including intelligence analysis, and that the CIA needed to rebuild its own expertise “over time.”

By 2010, “core contractors”—those who perform such functions as collection and analysis—comprised at least 28 percent of professional civilian and military intelligence staff, according to a fact sheet from the Office of the Director of National Intelligence.

The dependence on the private sector in the Pentagon and the intelligence community had reached such a point that it raised a serious question about whether the workforce was now “obligated to shareholders rather than to the public interest,” as Priest and Arkin reported. And both Gates and Panetta acknowledged to them their concerns about that issue.

Powerfully reinforcing that privatization effect was the familiar revolving door between the Pentagon and arms contractors, which had begun turning with greater rapidity. A 2010 Boston Globe investigation showed that the percentage of three- and four-star generals who left the Pentagon to take jobs as consultants or executives with defense contractors, which was already at 45 percent in 1993, had climbed to 80 percent by 2005—an 83 percent increase in 12 years.

The incoming George W. Bush administration gave the revolving door a strong push, bringing in eight officials from Lockheed Martin—then the largest defense contractor—to fill senior policymaking positions in the Pentagon. The CEO of Lockheed Martin, Peter Teets, was brought in to become undersecretary of the Air Force and director of the National Reconnaissance Office (where he had responsibility for acquisition decisions directly benefiting his former company). James Roche, the former vice president of Northrop Grumman, was named secretary of the Air Force, and a former vice president of General Dynamics, Gordon R. England, was named the secretary of the Navy.

In 2007, Bush named rear admiral J. Michael McConnell as director of national intelligence. McConnell had been director of the National Security Agency from 1992 to 1996, then became head of the national security branch of intelligence contractor Booz Allen Hamilton. Not surprisingly McConnell energetically promoted even greater reliance on the private sector, on the grounds that it was supposedly more efficient and innovative than the government. In 2009 he returned once again to Booz Allen Hamilton as vice chairman.

The Pentagon and the intelligence agencies thus morphed into a new form of mixed public-private institutions, in which contractor power was greatly magnified. To some in the military it appeared that the privateers had taken over the Pentagon. As a senior U.S. military officer who had served in Afghanistan commented to Priest and Arkin, “It just hits you like a ton of bricks when you think about it. The Department of Defense is no longer a war-fighting organization, it’s a business enterprise.”

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The years after 9/11 saw the national security organs acquire new missions, power, and resources—all in the name of a “War on Terror,” aka “the long war.” The operations in Afghanistan and Iraq were sold on that premise, even though virtually no al Qaeda remained in Afghanistan and none were in Iraq until long after the initial U.S. invasion.

The military and the CIA got new orders to pursue al Qaeda and affiliated groups in Pakistan, Yemen, Somalia, and several other African countries, parlaying what the Bush administration called a “generational war” into a guarantee that there would be no return to the relative austerity of the post-Cold War decade.

Drone strikes against targets associated with al Qaeda or affiliated groups became the common feature of these wars and a source of power for military and intelligence officials. The Air Force owned the drones and conducted strikes in Afghanistan, but the CIA carried them out covertly in Pakistan, and the CIA and the military competed for control over the strikes in Yemen.

The early experience with drone strikes against “high-value targets” was an unmitigated disaster. From 2004 through 2007, the CIA carried out 12 strikes in Pakistan, aimed at high-value targets of al Qaeda and its affiliates. But they killed only three identifiable al Qaeda or Pakistani Taliban figures, along with 121 civilians, based on analysis of news reports of the strikes.

But on the urging of CIA Director Michael Hayden, in mid-2008 President Bush agreed to allow “signature strikes” based merely on analysts’ judgment that a “pattern of life” on the ground indicated an al Qaeda or affiliated target. Eventually it became a tool for killing mostly suspected rank-and-file Afghan Taliban fighters in both Pakistan and Afghanistan, particularly during the Obama administration, which had less stomach and political capital for outright war and came to depend on the covert drone campaign. This war was largely secret and less accountable publicly. And it allowed him the preferable optics of withdrawing troops and ending official ground operations in places like Iraq.

Altogether in its eight years in office, the Obama administration carried out a total of nearly 5,000 drone strikes—mostly in Afghanistan—according to figures collected by the Bureau of Investigative Journalism.

But between 2009 and 2013, the best informed officials in the U.S. government raised alarms about the pace and lethality of this new warfare on the grounds that it systematically undermined the U.S. effort to quell terrorism by creating more support for al Qaeda rather than weakening it. Some mid-level CIA officers opposed the strikes in Pakistan as early as 2009, because of what they had learned from intelligence gathered from intercepts of electronic communications in areas where the strikes were taking place: they were infuriating Muslim males and making them more willing to join al Qaeda.

In a secret May 2009 assessment leaked to the Washington Post, General David Petraeus, then commander of the Central Command, wrote, “Anti-U.S. sentiment has already been increasing in Pakistan…especially in regard to cross-border and reported drone strikes, which Pakistanis perceive to cause unacceptable civilian casualties.”

More evidence of that effect came from Yemen. A 2013 report on drone war policy for the Council on Foreign Relations found that membership in al Qaeda in the Arabian Peninsula in Yemen grew from several hundred in 2010 to a few thousand members in 2012, just as the number of drone strikes in the country was increasing dramatically—along with popular anger toward the United States.

Drone strikes are easy for a president to support. They demonstrate to the public that he is doing something concrete about terrorism, thus providing political cover in case of another successful terrorist attack on U.S. soil. Donald Trump has shown no interest in scaling back the drone wars, despite openly questioning the stationing of troops across the Middle East and Africa. In 2017 he approved a 100 percent increase in drone strikes in Yemen and a 30 percent increase in Somalia above the totals of the final year of the Obama administration. And Trump has approved a major increase in drone strikes in Afghanistan, and has eliminated rules aimed at reducing civilian casualties from such strikes.

Even if Obama and Trump had listened to dissenting voices on the serious risks of drone wars to U.S. interests, however, another political reality would have prevented the United States from ending the drone wars: the role of the private defense contractors and their friends on Capitol Hill in maintaining the status quo.

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Unlike conventional bombing missions, drone strikes require a team to watch the video feeds, interpret them, and pass on their conclusions to their mission coordinators and pilots. By 2007 that required more specialists than the Air Force had available. Since then, the Air Force has been working with military and intelligence contractors to analyze full-motion videos transmitted by drones to guide targeting decisions. BAE, the third-ranking Pentagon contractor according to defense revenues, claims that it is the “leading provider” of analysis of drone video intelligence, but in the early years the list of major companies with contracts for such work also included Booz Allen Hamilton, L-3 Communications, and SAIC (now Leidos).

These analysts were fully integrated into the “kill chain” that resulted, in many cases, in civilian casualties. In the now-famous case of the strike in February 2010 that killed at least 15 Afghan civilians, including children, the “primary screener” for the team of six video analysts in Florida communicating via a chat system with the drone pilot in Nevada was a contract employee with SAIC. That company had a $49 million multi-year contract with the Air Force to analyze drone video feeds and other intelligence from Afghanistan.

The pace of drone strikes in Afghanistan accelerated sharply after U.S. combat ended formally in 2014. And that same year, the air war against ISIS began in Iraq and Syria. The Air Force then began running armed drones around the clock in those countries as well. The Air Force needed 1,281 drone pilots to handle as many “combat air patrols” per day in multiple countries. But it was several hundred pilots short of that objective.

To fulfill that requirement the Air Force turned to General Atomics—maker of the first armed drone, the Predator, and a larger follow-on, the MQ-9 Reaper—which had already been hired to provide support services for drone operations on a two-year contract worth $700 million. But in April 2015 the Air Force signed a contract with the company to lease one of its Reapers with its own ground control station for a year. In addition, the contractor was to provide the pilots, sensor operators, and other crew members to fly it and maintain it.

The pilots, who still worked directly for General Atomics, did everything Air Force drone pilots did except actually fire the missiles. The result of that contract was a complete blurring of the lines between the official military and the contractors hired to work alongside them. The Air Force denied any such blurring, arguing that the planning and execution of each mission would still be in the hands of an Air Force officer. But the Air Force Judge Advocate General’s Office had published an article in its law review in 2010 warning that even the analysis of video feeds risked violating international law prohibiting civilian participation in direct hostilities.

A second contract with a smaller company, Aviation Unlimited, was for the provision of pilots and sensor operators and referred to “recent increased terrorist activities,” suggesting that it was for anti-ISIS operations.

The process of integrating drone contractors into the kill chain in multiple countries thus marked a new stage in the process of privatizing war in what had become a permanent war complex. After 9/11, the military became dependent on the private sector for everything from food, water, and housing to security and refueling in Iraq and Afghanistan. By 2009 contractors began outnumbering U.S. troops in Afghanistan and eventually became critical for continuing the war as well.

In June 2018, the DoD announced a $40 million contract with General Atomics to operate its own MQ-9 Reapers in Afghanistan’s Helmand Province. The Reapers are normally armed for independent missile strikes, but in this case, the contractor-operated Reapers were to be unarmed, meaning that the drones would be used to identify targets for Air Force manned aircraft bombing missions.

♦♦♦

There appears to be no braking mechanism for this accelerating new reality. U.S. government spending on the military drone market, which includes not only procurement and research and development for the drones themselves, but the sensors, modifications, control systems, and other support contracts, stood at $4.5 billion in 2016, and was expected to increase to $13 billion by 2027. General Atomics is now the dominant player in the arena.

This kind of income translates into political power, and the industry has shown its muscle and more than once prevented the Pentagon from canceling big-ticket programs, no matter how unwanted or wasteful. They have the one-two punch of strategically focused campaign contributions and intensive lobbying of members with whom they have influence.

This was most evident between 2011 and 2013, after congressionally mandated budget reductions cut into drone procurement. The biggest loser appeared to be Northrop Grumman’s “Global Hawk” drone, designed for unarmed high-altitude intelligence surveillance flights of up to 32 hours.

By 2011 the Global Hawk was already 25 percent over budget, and the Pentagon had delayed the purchase of the remaining planes for a year to resolve earlier failures to deliver adequate “near real time” video intelligence.

After a subsequent test, however, the Defense Department’s top weapons tester official reported in May 2011 that the Global Hawk was “not operationally effective” three fourths of the time, because of “low vehicle reliability.” He cited the “failure” of “mission central components” at “high rates.” In addition, the Pentagon still believed the venerable U-2 Spy plane—which could operate in all weather conditions, unlike the Global Hawk—could carry out comparable high-altitude intelligence missions.

As a result, the DoD announced in 2012 that it would mothball the aircraft it had already purchased and save $2.5 billion over five years by foregoing the purchase of the remaining three drones. But that was before Northrop Grumman mounted a classic successful lobbying campaign to reverse the decision.

That lobbying drive produced a fiscal year 2013 defense appropriations law that added $360 million for the purchase of the final three Global Hawks. In Spring 2013, top Pentagon officials indicated that they were petitioning for “relief” from congressional intent. Then the powerful chairman of the House Armed Services Committee, California Republican Buck McKeon, and a member of the House Appropriations Defense Subcommittee, Democrat Jim Moran of Virginia, wrote a letter to incoming Defense Secretary Chuck Hagel on May 13, 2013, pressing him to fund the acquisition of the Global Hawks.

The Pentagon finally caved. The Air Force issued a statement pledging to acquire the last three Northrop Grumman spy planes, and in early 2014, Hagel and Dempsey announced that they would mothball the U-2 and replace it with the Global Hawk.

Northrop spent nearly $18 million on lobbying in 2012 and $21 million in 2013, fielding a phalanx of lobbyists determined to help save Global Hawk. It got what it wanted.

Meanwhile, Northrop’s political action committee had already made contributions of at least $113,000 to the campaign committee of House Armed Services Committee Chairman McKeon, who also happened to represent the Southern California district where Northrop’s assembly plant for the Global Hawk is located. Representative Moran, the co-author of the letter with McKeon, who represented the northern Virginia district where Northrop has its headquarters, had gotten $22,000 in contributions.

Of course Northrop didn’t ignore the rest of the House Armed Services Committee: they were recipients of at least $243,000 in campaign contributions during the first half of 2012.

♦♦♦

The Northrop Grumman triumph dramatically illustrates the power relationships underlying the new permanent-war complex. In the first half of 2013 alone, four major drone contractors—General Atomics, Northrop Grumman, Lockheed Martin, and Boeing—spent $26.2 million lobbying Congress to pressure the executive branch to keep the pipeline of funding for their respective drone systems flowing freely. The Center for the Study of the Drone observed, “Defense contractors are pressuring the government to maintain the same levels of investment in unmanned systems even as the demand from the traditional theatres such as Afghanistan dies down.”

Instead of dying down, the demand from drones in Afghanistan has exploded in subsequent years. By 2016, the General Atomics Reapers had already become so tightly integrated into U.S. military operations in Afghanistan that the whole U.S. war plan was dependent on them. In the first quarter of 2016 Air Force data showed that 61 percent of the weapons dropped in Afghanistan were from the drones.

In the new permanent-war complex the interests of the arms contractors have increasingly dominated over the interests of the civilian Pentagon and the military services, and dominance has became a new driving force for continued war. Even though those bureaucracies, along with the CIA, seized the opportunity to openly conduct military operations in one country after another, the drone war has introduced a new political dynamic into the war system: the drone makers who have powerful clout in Congress can use their influence to block or discourage an end to the permanent war—especially in Afghanistan—which would sharply curtail the demand for drones.

Eisenhower was prophetic in his warning about the threat of the original complex (which he had planned to call the military-industrial-congressional complex) to American democracy. But that original complex, organized merely to maximize the production of arms to enhance the power and resources of both the Pentagon and their contractor allies, has become a much more serious menace to the security of the American people than even Eisenhower could have anticipated. Now it is a system of war that powerful arms contractors and their bureaucratic allies may have the ability to maintain indefinitely.

Gareth Porter is an investigative reporter and regular contributor to The American Conservative. He is also the author of Manufactured Crisis: The Untold Story of the Iran Nuclear Scare.

mardi, 13 novembre 2018

"Een sterke plaats voor de Lage Landen in het Verre Westen van Eurazië"

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"Een sterke plaats voor de Lage Landen in het Verre Westen van Eurazië"

Kort gesprek met Robert Steuckers

Op 17 november aanstaande organiseert het Geopolitiek Instituut Vlaanderen-Nederland voor de tweede maal een congres in Leuven, ditmaal onder het thema ‘Een eerlijke kijk op geopolitiek’. Eén van de sprekers op dat congres is de Brusselse publicist Robert Steuckers, Novini sprak met hem.

Meneer Steuckers, u spreekt op 17 november aanstaande op het congres van het GIVN, over welk onderwerp zult u daar spreken en waarom juist dat onderwerp?

Eerst over een algemene definitie van wat in mijn ogen geopolitiek wel is: de noodzakelijkheid de lessen van de geschiedenis te onthouden op ieder specifiek stuk land op deze aarde. Geschiedenis is tijd en aardrijkskunde is ruimte. Niets gebeurt buiten tijd en ruimte. Dan, in het tweede deel, over geopolitiek in de specifieke tijd en de eigen ruimte van onze Lage Landen. Welke geopolitieke lessen kunnen wij trekken uit ons verleden, een verleden dat wij niet altijd zelfstandig hebben kunnen bepalen?

U heeft al veel geschreven over de geopolitiek van Europa, wat heeft in eerste instantie uw belangstelling voor die materie gewekt?

Ik werd altijd, zelfs als kind, gefascineerd door geschiedenis en door atlassen, in het bijzonder door historische atlassen. Met historische kaarten heb ik kunnen ontdekken dat door overwinningen en nederlagen onze huidige tijd er heel anders uit had kunnen zien. De regels van deze vooruit- of achteruitgangen uit het verleden moeten onderzocht worden. Daarom de drie delen van mijn recente drieluik, dat als titel “Europa” draagt. Wat in het verleden is gebeurd kan zich vaak herhalen op dezelfde plaatsen waar ze ooit aan de oude geschiedenis vorm en inhoud hebben gegeven.

Zijn er uit de huidige trends op dit gebied bepaalde ontwikkelingen voor de middellange termijn af te leiden? Zo ja, welke ontwikkelingen kunnen we als eerste verwachten? Zijn er bepaalde zaken die onze bijzondere aandacht verdienen als het om de toekomst van Europa gaat?

De trend die men vanuit Amsterdam, Rotterdam, Antwerpen of Brussel moet observeren en volgen, is ontwijfelbaar de strijd tussen een hernieuwde poging om de verschillende grote regio’s van Eurazië communicatief (spoorwegen, wegen, kanalen) te verbinden, meestal vanuit China, en de inspanningen van Amerika om de realisatie van deze verbindingen binnen de Euraziatische landmassa te verhinderen. Wij moeten schema’s en plannen schetsen om een sterke plaats voor de Lage Landen en voor Midden-Europa te vinden of beter, terug te vinden, hier in het Verre Westen van Eurazië. Daarom is het ook nodig de tot hiertoe verborgen gebleven wortels van een potentiële geopolitiek voor de Lage Landen grondig te doordenken.

Hartelijk dank voor uw antwoorden!

Het 2e congres van het Geopolitiek Instituut Vlaanderen-Nederland (GIVN) onder het thema ‘Een eerlijke kijk op geopolitiek’ vindt plaats op zaterdag 17 november 2018, van 14.00 tot 17.00 uur aan de Andreas Vesaliusstraat 2 te Leuven. Van deelnemers wordt een kleine bijdrage in de onkosten gevraagd.

Les relations internationales dans un monde multipolaire

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Les relations internationales dans un monde multipolaire

par Hans Köchler*

Ex: http://www.zeit-fragen.ch

Afin d’éviter tout malentendu, il est judicieux d’entreprendre d’abord une clarification concernant la formulation du sujet qui m’a été assigné «Les relations internationales dans un monde multipolaire». Pour le terme «international», c’est assez simple. Il faut cependant souligner spécifiquement ce qu’on entend par ce terme «interétatique», puisque qu’en allemand «nation» a encore une autre signification. Il s’agit donc des relations entre les Etats et implicitement, de celles entre les peuples et les individus. Cela n’entre pas en contradiction avec le fait que l’Etat obtienne sa légitimité du statut souverain du citoyen dans l’action commune.

«L’avantage décisif de la configuration multipolaire – plutôt complexe, il faut le reconnaître – est que chaque acteur, indépendamment de sa taille et de son pouvoir, a une marge de manœuvre – on pourrait aussi dire un espace de liberté – relativement plus grande que dans l’ancienne configuration unipolaire. Pour les Etats de moindre importance, un cadre multipolaire constitue clairement une meilleure garantie pour la sauvegarde de leur indépendance, qu’un système hégémonique ou aussi bipolaire.»

«Multipolaire» et «multilatéral»

Cependant, la notion de «multipolaire» nécessite d’être expliquée de manière plus précise. Il ne faut pas la confondre avec la notion de «multilatéral». Cette dernière se rapporte à la forme ou plutôt à la méthode de l’action en politique extérieure des Etats, alors qu’au contraire l’adjectif «multipolaire» met l’accent sur la configuration de pouvoir entre les Etats. Ce sont deux niveaux de compréhension totalement différents de l’application de cette notion. Les accords, par exemple, peuvent être soit bilatéraux, soit multilatéraux; ils ne peuvent cependant jamais être unilatéraux, puisque on ne peut conclure un accord avec soi-même. Les sanctions peuvent être unilatérales, si elles sont imposées par une seule partie, soit par un seul Etat, soit par un groupe ou une organisation d’Etats. Les sanctions ne deviennent des mesures de contrainte collectives, donc multilatérales, que si elles sont dispensées par le Conseil de sécurité des Nations Unies au nom de tous, donc au nom de la communauté des nations. On peut donc dire qu’un Etat agit dans un certain cas, de façon multilatérale, c’est-à-dire, qu’il prend des décisions en commun avec d’autres Etats, ou alors, dans un cas isolé ou de façon générale, il peut également agir de façon unilatérale.


Il en va tout autrement avec l’adjectif «multipolaire». A un moment donné, la configuration de pouvoir au niveau global ou régional peut être unipolaire, bipolaire ou multipolaire. Ici, il n’est pas question – tout autrement qu’avec «unilatéral», «bilatéral» ou «multilatéral» – du nombre des Etats trouvant un accord au sujet de mesures particulières, mais du nombre de pôles de pouvoir au niveau global. Juste un indice pour préciser cette différence: dans un ordre multipolaire, un Etat peut – s’il le souhaite – agir de manière unilatérale, s’il pense être assez puissant pour le faire. S’il n’y a qu’un seul centre de pouvoir, l’Etat dominant sera constamment tenté d’agir comme il le désire, sans rechercher l’entente avec les autres Etats, puisqu’il n’existe aucun contrepoids à son pouvoir. Dans une telle configuration, il peut cependant de son propre chef également agir de manière multilatérale, c’est-à-dire, accorder sa position avec d’autres Etats – s’il en ressent la magnanimité ou – selon le point de vue – suffisamment d’indulgence.

Trois questions déterminantes concernant le sujet

Après cette clarification, nous pouvons rentrer in medias res, dans le vif du sujet. Comme je vois la chose, il y a trois questions déterminantes concernant le sujet – comment avancer au niveau international dans un monde multipolaire:

  1. Quelle est la marge d’action des acteurs étatique dans une constellation multipolaire, induisant idéalement, mais non nécessairement, aussi un équilibre de pouvoir multipolaire?
  2. Quelle est la particularité des relations internationales, lorsqu’il y a plus de deux pôles de pouvoir, c’est-à-dire, quelle en est la différence d’avec une configuration unipolaire ou bipolaire?
  3. Quelles sont les perspectives d’avenir de l’action interétatique dans un contexte multipolaire – ou, très concrètement, hic et nunc: comment passer d’une configuration unipolaire à une configuration multipolaire?

Le monde est dans une phase transitoire

Je pense qu’il est clair pour nous tous que le monde se trouve actuellement dans une telle phase transitoire et que nous nous trouvons pour l’instant dans une sorte de mélange hybride. L’ordre mondial n’est plus exclusivement unipolaire, mais il n’est pas non plus entièrement multipolaire. Il est évident qu’une telle époque de bouleversements comprend pour tout le monde de l’instabilité et des risques. Il y a cependant encore une autre incertitude. Dans cette phase transitoire, il est tout à fait possible que se forme une nouvelle bipolarité – par exemple «Etats-Unis – Chine». Il n’est pas possible de donner une évaluation exacte du parallélogramme des forces globales en présence.

Rétrospective historique

Afin de comprendre correctement la situation actuelle et estimer d’une manière réaliste les chances et les perspectives de l’action étatique, il faut effectuer une brève rétrospective historique. Au cours des siècles depuis le début de l’organisation étatique, les relations internationales ont essentiellement été des démonstrations de force régies par la loi du plus fort. Il n’y avait à cela aucun cadre (légal) normatif. Pour décrire cette situation, il y a en allemand une expression adaptée: l’«anarchie de la souveraineté».


Dès le XVIIe siècle, et surtout depuis le Traité de Westphalie qui mit fin à la guerre de 30 Ans, on a essayé de formuler des règles du jeu pour les relations interétatiques – et cela dans une sorte de cadre multipolaire. Mais ce n’est qu’à partir du XIXe siècle que sont apparus les prémisses d’une codification universelle des règles devant être suivies par les Etats, ou plus exactement des règles que les Etats se sont volontairement engagés à respecter. On pourrait citer en exemples la Sainte-Alliance qui fit suite aux guerres napoléoniennes ou – à la fin du XIXe siècle – l’unification par les Conventions de La Haye et enfin, au siècle dernier déjà, la mise en forme d’un statut pour l’organisation nommée Société des Nations, devenue – après une autre guerre mondiale – l’Organisation des Nations Unies. Mais on doit admettre qu’il n’existe, à l’heure actuelle, aucun système de règles pour la mise en application homogène et généralisée de normes internationales sur lesquelles on se soit mis d’accord. Finalement, tout au long des siècles, le progrès a seulement consisté à continuellement préciser et à codifier davantage ces règles et principes.

Potentiel de la Realpolitik et le cadre légal

Ainsi, en ce qui touche au positionnement de chaque Etat dans la communauté mondiale, les relations internationales sont définies, aussi au début de notre millénaire, par une sorte d’interaction entre deux facteurs: d’une part, le potentiel de la realpolitik et d’autre part, le cadre légal. On ne peut considérer aucun de ces aspects isolés l’un de l’autre.
Passons ensuite au potentiel de realpolitik: on entend par là la capacité d’un Etat à exprimer ses intérêts vitaux – soit, à l’américaine «the national interest». Ceux-ci sont déterminés d’une part par les paramètres économiques, militaires et technologiques, donc selon le potentiel de pouvoir effectif d’un Etat. Entretemps, il est devenu à la mode d’y adjoindre l’aspect de «soft power». D’autre part, il dépend aussi du savoir-faire tactique et diplomatique d’un Etat, de la manière dont il s’investit concrètement – avec le potentiel de pouvoir dont il dispose – dans les divers débats et de sa capacité à participer à l’articulation mutuelle des intérêts, ou à négocier ses intérêts avec les autres sur la base de la réciprocité. Cette habileté diplomatique – comme on peut l’observer dans les politiques d’alliance d’un Etat – fait essentiellement partie de la force de realpolitik et se joint donc au potentiel effectif du pouvoir. Le rôle joué par Talleyrand lors du Congrès de Vienne en est un exemple particulièrement frappant: il était le représentant de la France postnapoléonienne – le perdant de la guerre! – et malgré le potentiel de pouvoir radicalement réduit de son pays, il a été capable de jouer un rôle tout à fait décisif dans les pourparlers.

Des principes légalement codifiés plutôt que l’«anarchie des souverainetés»

Le deuxième facteur important, outre le potentiel de la realpolitik, est le cadre légal. A cet égard il y a une différence fondamentale avec l’époque pré-moderne de l’anarchie des souverainetés. Alors que les conflits d’intérêts précédents prenaient un tour essentiellement belliqueux, ils peuvent à présent être négociés selon des règles précises – depuis que les principes légaux sont codifiés dans des accords. La structure des normes interétatiques toujours plus complexe devrait offrir – tout au moins selon sa conception – de la sécurité à l’acteur étatique de deux façons: d’une part dans la vie réelle, on pourrait aussi dire, au sens physique – en tant que protection des attaques et interventions contre sa souveraineté. C’est, par exemple, l’importance des dispositions dans la Charte des Nations-Unies ou, auparavant, dans le Pacte Briand-Kellog. D’autre part, l’ensemble codifié des normes devrait offrir un genre de sécurité de planification – selon le principe de la bonne foi. Un Etat doit pouvoir être sûr que les autres Etats agissent également selon le système de règles sur lequel il y a eu accord préalable.

Le dilemme des Nations Unies

Ce deuxième facteur – le cadre légal – n’est toujours pas entièrement développé. Il reste abstrait, si l’on ne le considère pas en rapport avec le potentiel de la realpolitik. A quoi servent les plus belles règles – sur le papier –, si un Etat n’est pas en mesure d’exiger leur respect face à d’autres acteurs potentiellement plus forts. Voilà en quoi consiste exactement, depuis sa fondation, le dilemme de l’Organisation des Nations Unies en tant que garant du droit et de la paix au niveau mondial.

L’unipolarité rend le cadre légal presque totalement inefficace

Les deux facteurs – le potentiel de la realpolitik et le cadre légal – sont mis en œuvre différemment selon la structure du système international (unipolaire, bipolaire, multipolaire). Quand l’un des deux domine – dans une situation d’unipolarité – les facteurs que j’ai mentionnés dans le second point – le cadre légal – demeurent en grande partie sans effet. Dans une telle configuration, ce sont avant tout les petits et moyens Etats qui y perdent leur marge de manœuvre – ce que nous avons tous pu observer durant les dernières décennies – par exemple, dans l’ordre bipolaire de la guerre froide. Dans des conditions d’unipolarité, l’Hégémon s’en tiendra au cadre légal uniquement tant que celui-ci ne s’oppose pas à ses intérêts vitaux. Pour illustration, on pourrait renvoyer à la politique de Donald Trump. La résiliation unilatérale par les Etats-Unis du traité conclu avec l’Iran a démontré de façon drastique aux gens de bonne foi les conséquences d’une politique unilatérale. Lorsqu’un Etat se sent si puissant qu’il pense ne pas devoir prendre en considération les intérêts d’autrui, alors il est capable d’ignorer les engagements des résolutions obligatoires du Conseil de sécurité des Nations-Unies ou ceux conclus par un précédent gouvernement, dans le cas où le gouvernement en poste pense qu’une telle position correspond mieux à ses intérêts nationaux.


Dans une configuration unipolaire, ce ne sont, pour les membres de la communauté internationale, pas tant les normes formellement en vigueur qui comptent, mais leur positionnement en realpolitik: soit en tant que vassal de l’Hégémon – ce qui a été, par exemple, pendant longtemps le rôle de l’Allemagne à l’égard des Etats-Unis – ou dans une tentative de se regrouper avec d’autres Etats. Nous en trouvons un exemple pour ce cas, dans les formes transnationales de coopération, comme par exemple les BRICS ou les initiatives au niveau régional telle l’Organisation de coopération de Shanghai. Il s’agit là d’une coordination politique entre Etats sympathisants dans le but de résister à la pression de l’Hégémon.

Stratégie d’accès au pouvoir dans le domaine purement militaire

Parmi les options de la realpolitik, il y a aussi la possibilité que certains Etats poursuivent une stratégie d’accès au pouvoir dans le domaine purement militaire, notamment en recourant à des armes de destruction massive. Cela signifie, on a pu l’observer tout récemment avec l’exemple de la crise au sujet de la Corée du Nord. Concernant la problématique des armes nucléaires dans le contexte de la realpolitik, il existe également une intéressante – et sibylline – étude («Advisory Opinion») de la Cour de justice internationale qui a évoqué le tabou de la question de l’admissibilité des armes nucléaires dans sa réponse à la question qui lui avait été posée à ce sujet par l’Assemblée générale, à savoir si, dans un cas où il s’agit de la survie d’un Etat en tant que tel, la question de l’utilisation d’armes de destruction massive ne devait pas être considérée autrement que seulement sur un plan formel (uniquement aux termes de la loi).

Davantage de marge de manœuvre dans un ordre multipolaire

Les options – brièvement esquissées – d’action des Etats dans le contexte unipolaire contiennent déjà en elles-mêmes les prémisses de l’émergence d’un ordre multipolaire dans lequel plus de deux centres de pouvoir négocient les règles du jeu des relations internationales et articulent ensuite leurs intérêts dans le cadre de ces règles. Il est évident que dans un tel cadre l’acteur indépendant – en comparaison du scénario unipolaire – possède une marge de manœuvre clairement plus étendue. Il n’est plus alors livré, pour le meilleur et pour le pire, à la volonté d’un Hégémon, mais peut articuler ses intérêts en coopération avec d’autres acteurs, ce qui lui ouvre toujours plusieurs options. Il peut rejoindre un groupement régional ou en créer un autre, ou participer à un forum de coopération transnational. Mentionnons comme exemples, les BRICS ou le G20. Un Etat peut également se positionner en tant que médiateur neutre, comme le démontre manifestement la politique extérieure de la Suisse. Dans une constellation bipolaire, comme durant la guerre froide, cette politique peut cependant développer une plus importante efficacité. (Cela correspond aussi à l’expérience de la diplomatie autrichienne jusqu’à son entrée dans l’Union européenne.)

Aucune obligation à participer à un des centres du pouvoir

Dans cette comparaison des différents types d’ordre universel, il est important de souligner que la multipolarité ne veut pas dire que chaque Etat aurait l’obligation de se joindre à l’un des centres du pouvoir existant (et donc de se soumettre) – et que de cette façon, les petits Etats seraient pour ainsi dire marginalisés. La multipolarité signifie au contraire l’existence de plusieurs pôles de pouvoir pouvant se former autour d’Etats indépendants, mais aussi autour de groupements d’Etats ou d’organisations interétatiques ne s’étendant pas nécessairement au monde entier. Là aussi, il y a pour un Etat indépendant la possibilité fondamentale de s’abstenir ou de décider de façon autonome s’il nécessite une sécurité supplémentaire en intégrant une organisation existante ou non. Il y a donc une large marge d’appréciation et de manœuvre diplomatique. Les petits Etats ne sont donc pas contraints à se joindre à un groupe de pays.


L’avantage décisif de la configuration multipolaire – plutôt complexe, il faut le reconnaître – est que chaque acteur, indépendamment de sa taille et de son pouvoir, a une marge de manœuvre – on pourrait aussi dire un espace de liberté – relativement plus grande que dans l’ancienne configuration unipolaire. Pour les Etats de moindre importance, un cadre multipolaire constitue clairement une meilleure garantie pour la sauvegarde de leur indépendance, qu’un système hégémonique ou aussi bipolaire.


Même si dans une configuration à deux pôles de pouvoir des Etats neutres avec un bon savoir-faire diplomatique parviennent dans des cas isolés, à avoir un «poids» plus considérable que dans un contexte multipolaire, il y a, vu les conditions structurelles de cet équilibre de pouvoir, toujours un danger accru d’être aspiré dans la domination régionale d’un des deux pôles ou alors d’être repoussé dans l’«arrière-cour» d’une des superpuissances. Les risques sont donc plus élevés que de se placer dans le cadre d’une multitude d’Etats se trouvant en concurrence ou en coalition et s’inscrivant avec dynamisme dans le polygone des forces continuellement changeantes.

Ni Etat mondial, ni gouvernement mondial

Dans le monde multipolaire de l’avenir se dessinant d’ores et déjà, il y a l’opportunité pour chaque Etat d’affirmer sa souveraineté dans la coopération librement négociée sur la base de la réciprocité avec les autres pays. Malgré la grande fluctuation – il faut en convenir – de cette configuration, il s’agit probablement de la meilleure option que la formation d’un Etat mondial dont le quotidien politique – si j’ose ironiquement m’exprimer ainsi – serait structurellement absolument semblable aux conditions dans un ordre mondial unipolaire. L’Hégémon imposant sa volonté à tous les Etats, serait, au sein de la construction d’un Etat planétaire, remplacé purement et simplement par une sorte de gouvernement mondial qui absorberait la diversité des peuples et des cultures par son exercice de son pouvoir central. Il y a là une forte ressemblance structurelle avec l’unipolarité.


Pour terminer, permettez-moi mon ceterum censeo, en dernier ajout. L’ONU, l’Organisation des Nations-Unies fondée à la suite de la Seconde Guerre mondiale, ne pourra survivre en tant que projet mondial que si elle fait son deuil de l’idée d’un gouvernement mondial exercé par un Conseil de sécurité doté de plein-pouvoirs dictatoriaux et qu’elle réussit à se transformer en un cadre normatif et organisationnel pour un nouvel équilibre multipolaire des pouvoirs. La subordination persistante de la communauté mondiale à la volonté des cinq Etats les plus puissants de l’époque – c’était la multipolarité de 1945! – est, au sein du nouveau cadre se dessinant actuellement, un anachronisme dangereux pouvant finalement faire éclater tout le système.    •
(Traduction Horizons et débats)

 
Hans Köchler

Hans Köchler a été de 1990 à 2008 directeur de l’Institut de philosophie de l’Université d’Innsbruck. Aujourd’hui, il est président du Groupe de travail autrichien pour la science et la politique, co-président de l’Académie inter­nationale de philosophie et président de l’International Progress Organization qu’il a fondée en 1972. On ne peut ici rappeler que quelques-uns des points marquants de l’activité débordante de Hans Köchler.
Les axes de recherche de Köchler sont, entre autres, la philosophie juridique, la philosophie politique et l’anthropologie philosophique, dans lesquelles ses résultats de recherche scientifique convergent sur de nombreux points avec les vues du cardinal polonais Karol Wojtyla, devenu plus tard le pape Jean Paul II.
Hans Köchler s’est fait connaître dès le début des années soixante-dix par de nombreuses publications, des voyages, des rapports, et par sa participation, au sein de diverses organisations internationales, à un dialogue des cultures, en particulier le dialogue entre le monde occidental et le monde islamique. En 1987, le professeur Köchler a lancé, en collaboration avec le lauréat du prix Nobel Sean McBride l’«Appel des juristes contre la guerre nucléaire» et a en conséquence contribué à une expertise, selon laquelle la Cour de justice internationale a établi que l’éventuelle utilisation d’armes nucléaires était incompatible avec le droit international public.
Hans Köchler a toujours pris position sur la question de la réforme des Nations Unies et a exigé leur démocratisation. Il a, en particulier, également pris position sur la question de la concrétisation du droit international, et s’est en cela opposé à une instrumentalisation politique des normes du droit international. Faisant partie des observateurs envoyés au procès de Lockerbie par Kofi Annan, alors Secrétaire général des Nations Unies, il a rédigé un rapport critique, paru en 2003 sous le titre «Global Justice or Global Revenge? International Justice at the Crossroads». Son impression était que le procès de Lockerbie s’était déroulé sous influence politique, et il en retirait l’exigence d’une séparation des pouvoirs ainsi qu’une totale indépendance de la juridiction pénale internationale.
Le texte que nous reproduisons ici est la version autorisée d’un discours donné par M. Köchler lors du colloque de septembre «Mut zur Ethik», le 1er  septembre 2018 à Sirnach en Suisse.