mardi, 29 octobre 2013
Spengler e l’anima russa
Spengler e l’anima russa
La Russia antica e la “pseudomorfosi” illuminista
Nel Tramonto dell’Occidente[1], Oswald Spengler si sofferma ampiamente sulle peculiarità dell’anima russa. Tale analisi è collocata nella seconda parte dell’opera, che si intitola “Prospettive della storia mondiale”[2], la prima parte essendo dedicata a “Forma e realtà”, ove delinea la sua visione ciclica della storia, definisce l’“anima” di ogni civiltà, con le famose fasi, l’una ascendente (Kultur) e l’altra discendente (Zivilisation) di ogni ciclo storico, per poi tracciare una morfologia comparata delle civiltà che offre un grande scenario di macrostoria [3].
Altrettanto interessante e stimolante è l’applicazione del metodo comparativo spengleriano per studiare e decifrare l’affinità morfologica che connette interiormente la lingua delle forme di tutti i domini interni ad una data civiltà, dall’arte alla matematica alla geometria, al pensiero filosofico e al linguaggio delle forme della vita economica, essa stessa espressione di una data “anima”, ossia di un “sentimento del mondo” che contraddistingue un certo tipo di sensibilità.
In questa prospettiva, anche i fatti politici, assumono il valore di potenti simboli; per Spengler occorre saper cogliere che cosa significa il loro apparire, l’ “anima” di cui essi sono espressione.
Pseudomorfosi
Nella seconda parte dell’opera, l’Autore colloca lo studio dell’anima russa nel capitolo sulle pseudomorfosi storiche ed è partendo da questa categoria spengleriana che si può comprendere il suo modo di descrivere il mondo russo.
Per spiegare la pseudomorfosi, Spengler parte da una nozione di mineralogia. Egli attinge ad un fenomeno naturale per spiegare e definire un fenomeno storico, in ciò accogliendo un procedimento di osservazione scientifico-naturalistico tipico di Goethe, al quale esplicitamente si richiama nella prima parte della sua opera.
“Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua si infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupate. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contraddice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto le specie esteriori di un altro. E’ ciò che i mineralogisti chiamano pseudomorfosi” [4].
Dalla nozione di mineralogia passa quindi alle pseudomorfosi storiche.
“Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione, ma nemmeno alla perfetta coscienza di sé stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell’adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora si subisce da parte di una realtà lontana nel tempo”[5].
Di questo fenomeno Spengler ci offre vari esempi quali la civiltà araba – che egli fa risalire, come sentimento del mondo, al III secolo a.C. – che fu costretta e soffocata nelle forme di una civiltà straniera, quale quella macedone col suo relativo dominio (impresa di Alessandro Magno e civiltà ellenistica).
Non è questa la sede per esaminare la pseudomorfosi araba, perché tale tema ci porterebbe lontano, considerando la peculiarità della visione storica spengleriana, rispetto allo specialismo della storiografia occidentale del suo tempo con la quale egli polemizza e argomenta in modo approfondito.
Altra pseudomorfosi è quella che inizia con la battaglia di Azio del 31 a. C.
“Qui non si trattò di una lotta per la supremazia della romanità o dell’ellenismo; una lotta del genere era stata già combattuta a Canne e a Ama, ove ad Annibale toccò il destino tragico di battersi non per la sua patria bensì per l’ellenismo. Ad Azio la nascente civiltà araba si trovò di fronte alla civilizzazione antica senescente. Si doveva decidere il trionfo dello spirito apollineo o di quello magico, degli dei o del Dio, del principato o del califfato. La vittoria di Antonio avrebbe liberato l’anima magica; invece la sua sconfitta ebbe per conseguenza che sul paesaggio di tale anima si riaffermarono le rigide, disanimate strutture del periodo imperiale”[6].
Pseudomorfosi russa
Un ulteriore esempio di pseudomorfosi ce lo offre la Russia di Pietro il Grande. L’anima russa originaria si esprime nelle saghe di Kiev riguardanti il principe Vladimiro (verso il 1000 d. C.) con la sua Tavola Rotonda e l’eroe popolare Ilja di Muros. Qui il pensatore tedesco coglie l’immensa differenza fra anima russa e anima faustina (ossia quella europea tesa verso l’infinito e simboleggiata dalle cattedrali gotiche) nel divario che intercorre fra tali poemi slavi e quelli sincronici – rispetto ad essi – della saga di Malthus e dei Nibelunghi del periodo delle invasioni “nella forma dell’epica di Ildebrando”[7].
Il periodo “merovingio” russo (ossia il periodo aurorale) inizia con la liberazione dal dominio tartaro di Ivan III (1480) e si sviluppa attraverso gli ultimi Rurik e i primi Romanov fino a Pietro il Grande (1689-1725). Esso corrisponde al periodo che va, in Francia, da Clodoveo(465-511) fino alla battaglia di Testry (687) con la quale i Carolingi si assicurano il potere effettivo. Spengler coglie qui un’affinità morfologica.
“A questo periodo moscovita delle grandi stirpi bojare e dei patriarchi, durante il quale un partito della Vecchia Russia lottò continuamente contro gli amici della civiltà occidentale, segue, con la fondazione di Pietroburgo (1703) la pseudomorfosi, la quale impose all’anima russa primitiva le forme straniere dell’alto Barocco, poi quelle dell’illuminismo e infine quelle del diciannovesimo secolo. Pietro il Grande fu fatale per la civiltà russa. Si pensi alla sua corrispondenza “sincronica”, a Carlomagno, che metodicamente e con tutte le sue energie attuò ciò che Carlo Martello pochi anni prima aveva scongiurato con la sua vittoria sugli Arabi; il sopravvento dello spirito mauro-bizantino”[8].
Nella visione spengleriana, Pietro il Grande impone alla Russia una forma che non le è congeniale, che è lontana dallo spirito contadino, antico, mistico e religioso della Vecchia Russia. Carlomagno avrebbe mutuato in Occidente una forma mauro-bizantina (l’Impero, la struttura gerarchizzata sul modello romano-orientale) che non sarebbe stata congeniale all’Europa dell’alto Medio Evo (adopero questa periodizzazione per farmi intendere, anche se essa non è affatto spengleriana).
Qui lo studioso tedesco introduce una riflessione che è di rilievo centrale e che contribuisce a far comprendere anche la storia della Russia contemporanea.
“Lo zarismo primitivo di Mosca è l’unica forma che ancor oggi sia conforme alla natura russa, ma esso a Pietroburgo fu falsato nella forma dinastica propria all’Europa occidentale. La tendenza verso il Sud sacro, verso Bisanzio e Gerusalemme, profondamente radicata in tutte le anime greco-ortodosse, si trasformò in una diplomazia mondana, in uno sguardo rivolto verso l’Occidente … Furono importate arti e scienze tarde, l’illuminismo, l’etica sociale, il materialismo cosmopolita, benché in questo primo periodo del ciclo russo la religione fosse l’unica lingua nella quale ognuno comprendeva se stesso e comprendeva il mondo” [9].
Questa imposizione di un modello straniero generò un sentimento di odio “davvero apocalittico” contro l’Europa, intendendo con tale termine tutto quanto non era russo, anche Roma e Atene, insomma l’Occidente nella varietà ed anche nell’antichità delle sue manifestazioni.”La prima condizione a che il sentimento nazionale russo si liberi è odiare Pietroburgo con tutto il cuore e con tutta l’anima” scriveva Aksakoff a Dostoevskij.
In altri termini, Mosca è sacra, Pietroburgo è Satana e Pietro il Grande, in una leggenda popolare, viene presentato come l’Anticristo[10].
Tolstoi e Dostoevskij
Per Spengler, se si vogliono comprendere i due grandi interpreti della pseudomorfosi russa, occorre vedere in Dostoevskij il contadino, in Tolstoi l’uomo cosmopolita.
“L’uno non poté mai liberarsi interiormente dalla campagna, l’altro la campagna, malgrado ogni suo disperato sforzo, non riusci mai a ritrovarla”[11].
Qui la lettura di Spengler diviene dirompente e innovativa, con tratti tipici da “rivoluzione conservatrice”.
Egli considera, infatti, Tolstoi come la Russia del passato e Dostoevskij come simbolo della Russia dell’avvenire, il che equivale a dire che l’anima contadina antica della Russia, l’anima legata al sentimento delle radici e delle tradizioni, rappresenta l’avvenire, mentre lo spirito cosmopolita e illuminista, di stampo occidentale moderno, è destinato a tramontare.
Peraltro, questa spirito cosmopolita era profondamente divorato da un odio viscerale contro un’Europa moderna da cui non poteva liberarsi, essendovi profondamente legato. In altri termini, una sorta di amore/odio verso l’Europa.
“Tolstoi odiò potentemente l’Europa da cui non poteva liberarsi. Egli l’odiò in sé stesso e odiò se stesso. Per questo fu il padre del bolscevismo[12]..
Dostoevskij, al contrario, non nutrì un tale odio ma un fervido amore per tutto ciò che è occidentale, nel senso delle antiche radici culturali dell’Europa.
“Un simile odio Dostoevskij non lo conobbe. Egli nutrì un amore altrettanto fervido per tutto quello che è occidentale. “Io ho due patrie, la Russia e L’Europa”[13]. Questa affermazione dello scrittore russo è molto sintomatica delle sue inclinazioni. Spengler passa poi a citare un brano del romanzo I Fratelli Karamazov che è molto eloquente circa quello che lo scrittore russo intende per richiamo interiore verso l’Europa.
“Partirò per l’Europa – dice Ivan Karamazov al fratello Alioscia – io so di non andare che verso un cimitero, ma so anche che questo cimitero mi è caro, che è il più caro di tutti i cimiteri. I nostri sacri morti sono seppelliti là, ogni pietra delle loro tombe parla di una vita passata così fervida, di una fede così appassionata nelle azioni che hanno compiute, nelle loro verità, nelle loro lotte e nelle loro conoscenze che io, lo so di già, mi prosternerò per baciare quelle pietre e per piangere su di esse”[14]
L’Europa, per Dostoevskij, è quella delle radici antiche, della memoria storica, dell’identità, degli avi, delle antiche fedi e delle antiche lotte. In altri termini, l’Europa non è quella dell’illuminismo cui guardava Pietro il Grande, ma esattamente il contrario.
Mentre Tolstoi si muove nell’ottica dell’economia politica e dell’etica sociale, in una dimensione intellettualistica, tipicamente occidentale e moderna, Dostoevskij era al di là delle categorie occidentali, comprese quelle di rivoluzione e di conservatorismo.
“Per lui fra conservatorismo e rivoluzione – scrive Spengler – non vi era differenza alcuna: entrambi erano per lui fenomeni occidentali. Lo sguardo di una tale anima si librava di là da tutto quanto è sociale. Le cose di questo mondo gli apparivano così insignificanti, che egli non dette alcuna importanza al tentativo di migliorarle. Nessuna vera ragione vuole migliorare il mondo dei fatti. Come ogni vero Russo, Dostoevskij un tale mondo non lo nota affatto: gli uomini come lui vivono in un secondo mondo, in un mondo metafisico esistente di là da esso. Che cosa hanno a che vedere i tormenti di un’anima col comunismo?” [15]
Spengler conclude asserendo che “il Russo autentico è un discepolo di Dostoevskij benché non lo abbia letto, anzi proprio perché non sa leggere. Lui stesso è un pezzo di Dostoevskij”[16]
Per Spengler il cristianesimo sociale di Tolstoi era intriso di marxismo; Tolstoi parlava di Cristo ma intendeva Marx, mentre “al cristianesimo di Dostoevskij appartiene invece il millennio che viene”[17]
L’analisi spengleriana si proietta nel futuro, anticipando di circa un secolo gli sviluppi della storia russa, in un momento storico in cui trionfava il bolscevismo e tutto sembrava andare in direzione contraria. Il punto è capire cosa intenda Spengler per “cristianesimo di Dostoevskij”. Lo studioso tedesco ha fatto riferimento a questa vocazione mistica che trascende il mondo dei fenomeni, dei fatti, ai quali l’anima russa non attribuisce un valore decisivo, il mondo metafisico essendo l’oggetto di interesse centrale e prioritario.
“L’immensa differenza fra anima faustiana e anima russa si tradisce già nel suono di certe parole. Il termine russo per cielo è njèbo ed è negativo nel suo n. L’uomo d’Occidente volge il suo sguardo verso l’alto, mentre il Russo fissa i lontani orizzonti. Occorre dunque vedere la differenza dell’impulso verso la profondità dell’uno e dell’altro nel fatto che nel primo esso è una passione di penetrare da ogni lato nello spazio infinito, nel secondo è un esteriorizzarsi fino a che l’elemento impersonale nell’uomo si faccia uno con la pianura senza fine…La mistica russa non ha nulla di quel fervore, proprio al gotico, a Rembrandt, a Beethoven, che si porta verso l’alto e che può svilupparsi fino ad un giubilo che invade il cielo. Qui Dio non è la profondità azzurra delle altezze. L’amore mistico russo è quello della pianura, quello verso fratelli che subiscono lo stesso giogo, sempre nella direzione terrestre; è quello per i poveri animali tormentati che vagano sulla terra, per le piante, mai per gli uccelli, per le nubi e per le stelle” [18].
Il cristianesimo russo-ortodosso è, dunque, per Spengler, un misticismo della Madre Terra, dell’immensa pianura, degli spazi sconfinati.
Fra Spengler e Steiner
Introduco qui alcune mie riflessioni. Questa pianura sconfinata è geograficamente - e simbolicamente - un ponte fra Oriente e Occidente. La Russia è una terra che sente storicamente il richiamo di Bisanzio, ossia dell’Impero Romano d’Oriente, come ho dimostrato nei miei contributi su Toynbee e su Zolla ed il loro modo di intendere l’anima russa e i suoi archetipi.
La Russia risente, però, anche di influssi spirituali e culturali spiccatamente orientali.
Un fenomeno che merita di essere osservato con attenzione è quello dell’attuale diffusione del buddhismo in Russia (di cui abbiamo testimonianze e riscontri anche qui in Italia presso i centri buddhisti frequentati dai russi provenienti direttamente dalla loro terra), particolarmente di quello tibetano che, nella sua iconografia e nel suo simbolismo, è segnato da figure luminose, da un senso di chiarità e di Luce spirituale che tradisce anche antiche influenze iraniche, come Filippani Ronconi ha evidenziato in Zarathustra e il Mazdeismo [19].
Questa “mistica della Luce” (adopero qui tale termine in un senso lato, non tecnico) si incontra necessariamente col misticismo della Madre Terra, con propensioni tipiche dell’anima slava.
È a questo punto che va considerata la previsione di Rudolf Steiner, secondo il quale in Russia rinascerà la religione di Zarathustra[20] , ossia una nuova mistica della Luce ed un nuovo sentimento del mondo, quello della lotta fra Luce e Tenebre nella storia, nella dimensione terrena, in forme adatte ad un ben diverso contesto storico, etnico e geografico rispetto a quello in cui maturò la riforma spirituale del Profeta iranico. Nella morfologia delle civiltà di Steiner la civiltà russa sarebbe la sesta civiltà – quella del futuro – dopo le prime cinque (Indiana, Iranica, Egizio-Caldaica-Babilonese, greco-romana, anglo-tedesca) che nel loro susseguirsi denotano una sorta di movimento pendolare da est ad ovest e poi di nuovo verso est. Una tale previsione sulla rinascita della religione di Zarathustra può avere una sua plausibilità ove si consideri appunto la posizione di ponte che la terra russa ha fra Oriente e Occidente e quindi simbolicamente di collegamento, di raccordo spirituale e culturale.
Il bolscevismo aveva significato, per un arco di 70 anni, una interruzione nella comunicazione spirituale fra Oriente e Occidente, un blocco materialistico, nel che può vedersi l’azione di influenze non meramente profane, secondo quella dimensione di profondità della storia che è tipica del “metodo tradizionale”di cui Evola ha parlato ampiamente in Rivolta contro il mondo moderno e sul quale chi scrive è tornato ampiamente ne I Misteri del Sole.
Un tale culto della Luce, ove un domani dovesse diffondersi, dovrà necessariamente innestarsi sul “sentimento della pianura” costitutivo dell’anima russa, per dirla con Spengler, e cogliere nella Madre Terra – la “Santa Madre Russia” – il teatro di una lotta fra Luce e Tenebre, fra Verità e Menzogna, fra elevazione dello spirito e demonìa della materia e dell’economia.
Si colgono, in definitiva, i primi segni premonitori – dal Buddhismo al rilancio dell’Ortodossia – dell’affiorare graduale di una nuova “forma spirituale” che ha profonde connessioni col risveglio del sentimento nazionale russo, di un forte senso delle proprie tradizioni e della propria identità che si esprime oggi nella linea politica di Putin e nel suo rilancio del ruolo di grande potenza della Russia, della sua proiezione mediterranea, del suo interagire e fare blocco con le nazioni del BRICS.
La stessa legislazione contraria alla propaganda dei gay, il rifiuto di Putin a dare i bambini russi in adozione alle coppie gay in Occidente, il forte richiamo alla tradizione religiosa russo-ortodossa, l’opposizione al “politicamente corretto”, sono tutti fatti politici sintomatici di un risveglio dell’anima russa, quella antica, interpretata e sentita da Dostoevskij.
I fatti politici, come diceva Spengler, vanno letti nella loro valenza simbolica, cogliendo i fermenti profondi di cui essi sono espressione e cercando d’intuire e anticipare le linee di tendenza che essi prefigurano.
[1] L’opera è del 1917 in prima edizione; la traduzione che ho consultato e studiato fa riferimento alla seconda edizione del 1923.
[2] O.Spengler, Il Tramonto dell’Occidente, Guanda, Parma, 1991, p. 653 ss.
[3] Id., op.cit., p. 89 ss.
[4] Id., op.cit., p.927.
[5] Id., op.cit., pp.927-928
[6] Id., op .cit., pp. 930-931.
[7] Id., op.cit., p.932.
[8] Id., op.cit., p.932.
[9] Id., op.cit., pp.932-933.
[10] Id., op.cit., p. 934.
[11] Id., op.cit., p.934.
[12] Id., op.cit., p. 936.
[13] Id., op.cit., p. 936
[14] Id., op.cit., p.936.
[15] Id., op.cit., p.937.
[16] Id., op.cit., p. 939.
[17] Id., op.cit., p.939.
[18] Id., op.cit., nt.178, pp.1459-1460.
[19] P. Filippani Ronconi, Zarathustra e il Mazdeismo, Irradiazioni, Roma, 2007.
[20] R. Steiner, Miti e Misteri dell’ Egitto rispetto alle forze spirituali attive nel presente, Antroposofica, Milano, 2000.
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samedi, 19 octobre 2013
Rivoluzione conservatrice
Rivoluzione conservatrice
Questa sezione multilingue ospita pagine sulla rivoluzione conservatrice europea e il pensiero dei suoi maggiori esponenti.
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jeudi, 17 octobre 2013
Die Geburt der Moderne
Die Geburt der Moderne
von Benjamin Jahn Zschocke
Ex: http://www.blauenarzisse.de
Der Nationalsozialismus ist der absolute Fixpunkt der deutschen Geschichte – wirklich alles ballt sich zu ihm hin. Alle zeitlich daran angrenzenden Epochen verschwinden in seinem Schatten.
Der in Chemnitz lehrende Professor für Europäische Geschichte des 19. und 20. Jahrhunderts Frank-Lothar Kroll ist dafür bekannt, eine mittelbar an diese Zeit angrenzende Epoche, nämlich das Deutsche Kaiserreich von 1871 bis 1918, dankenswerter Weise aus diesem Schatten hervorzuholen. Unter Zuhilfenahme aller verfügbaren historischen Quellen betrachtet er diese Epoche so, wie sie war und nicht, wie sie laut der verengten Sichtweise eines „deutschen Sonderweges“ – bei einem gleichzeitig angenommenen „westeuropäischen Normalweg“ – gewesen sein soll.
Ein umfassendes Update der Quellenlage
Krolls aktuellstes Werk Geburt der Moderne. Politik, Gesellschaft und Kultur vor dem Ersten Weltkrieg unternimmt auf reichlich 200 Seiten den Versuch, einen Gesamtüberblick über die gesellschaftlichen Entwicklungslinien zwischen 1900 und 1914 zu geben. Da dies in solcher Kürze fast unmöglich scheint, verzichtet Kroll auf alle narrativen Elemente und gibt dem Leser in höchster Komprimierung sozusagen ein Update der aktuellen Quellenlage, in deren Ergebnis die Annahme des besagten „deutschen Sonderweges“ ebenso definitiv zu den Akten gelegt werden muß, wie das „persönliche Regiment“ unseres letzten Kaisers Wilhelm II.
Die seit gut fünfzig Jahren praktizierte „germanozentrische“ Herangehensweise gelangt bei Kroll ebenfalls auf die Deponie. Vielmehr gehört der historische Blickwinkel nach seinem Verständnis auf eine europäische Dimension geweitet, was allein angesichts der verästelten außenpolitischen Bündnisse dieser Epoche gar nicht anders möglich ist.
Doch Krolls Schwerpunkt liegt in diesem Buch definitiv nicht auf dem Ersten Weltkrieg: ungleich mehr interessiert ihn der kulturelle und soziale Entwicklungsstand eines Landes, das zur damaligen Zeit das fortschrittlichste der Welt war. Krolls große Stärke ist es, nicht nach Belieben zu werten, sondern nüchtern Fakten um Fakten vorzutragen und damit großkalibrig gegen die an deutschen Gymnasien, Universitäten und in den Medien herrschende Guido Knopp-Mentalität vorzugehen.
Kultureller Vorreiter des Kontinents
Besonders der kulturelle Schwerpunkt reizt an Krolls Buch. Die titelgebende These, nach der die Moderne bereits zwischen 1900 – 1914 unter Wilhelm II. ihren Anfang nahm sowie erste Schwerpunkte herauskristallisierte – und damit nicht erst in den gepriesenen (dekadenten und auf Kredit finanzierten) so genannten Goldenen Zwanzigern – macht die Lektüre besonders empfehlenswert. Walther Rathenau schrieb schon 1919 in seinem Text Der Kaiser: „Für Kunst lag [beim Kaiser, Anm. BJZ] eine entschiedene formale Begabung zugrunde, die in rätselhafter Weise über die kunstfremde Umgebung emporhob […]. So ergab sich von selbst der Anspruch des künstlerischen Oberkommandos.“
Unter anderem am Beispiel der Kulturreform aber auch der Jugendbewegung arbeitet Kroll heraus, welche in Europa zur damaligen Zeit einmalige Fülle an verschiedenartigsten Kulturinstitutionen entstand und sich in aller Ruhe, teils sogar mit erheblichen Finanzspritzen, entwickeln konnte. Am bekanntesten sind auf dem Gebiet der Kunst wohl die Strömungen des Jugendstils, des Expressionismus und des Impressionismus, die zwischen 1900 – 1914 ihren Anfang nahmen. Besonders mit Blick auf Letzteren lohnt ebenso die Lektüre des bereits 1989 bei Königshausen & Neumann erschienenen Werkes von Josef Kern Impressionismus im Wilhelminischen Deutschland.
Weimars Probleme im Voraus erkannt – und behoben
Der oben mit „Guido Knopp-Mentalität“ zusammengefaßten Erscheinung heutiger Geschichtsschreibung (eigentlich politischer Bildung), tritt Kroll mit aller Entschiedenheit entgegen: Erhellend sind zum Beispiel seine Erkenntnisse auf dem Gebiet der Presse– und Parteienlandschaft. Er spricht hier von einem „beispiellosen Pluralismus“. Außerdem wird die vielzitierte, himmelschreiende Armut der späten Phase der Industrialisierung (auf die im gymnasialen Geschichtsunterricht „zufällig“ eine monatewährende Behandlung der deutschen Arbeiterbewegung folgt) als Ammenmärchen enttarnt: „Wirkliche Massenarmut, die zur Verelendung trieb, gab es im wilhelminischen Deutschland – anders als im viktorianischen und edwardianischen England – nicht, wenngleich, die Mehrheit der Arbeiterschaft von sehr bescheidenen Einkommen zehrte.“
Am schwerwiegendsten sind, mit Blick auf den anfangs benannten Schatten einer gewissen Epoche wohl Krolls Feststellungen zum angeblich durch und durch judenfeindlichen Deutschland unter Wilhelm II.: „Die unmissverständliche Zurückweisung solcher Zumutungen seitens des Kaisers und der Reichsregierung verdeutlichte einmal mehr, dass im ‚ausgleichenden Klima des wilhelminischen Obrigkeitsstaates‘ dem politischen Einfluss radikalisierter Massen und Massenbewegungen, anders als in den späten Jahren der Weimarer Republik, enge Grenzen gesetzt waren.“
An anderer Stelle wird Kroll noch deutlicher: „Dass sich die Mobilisierung antisemitischer Ressentiments in Deutschland – und nicht etwa in Frankreich, wo sie vor und nach der Jahrhundertwende weitaus stärker verbreitet waren – Jahrzehnte später zu einer parteipolitischen Massenformation verdichten und schließlich in die Katastrophe des ‚Dritten Reiches‘ einmünden sollte, lag, bei aller partiell vorhandenen gesellschaftlichen Diskriminierung der rechtlich gleichgestellten Juden im Kaiserreich, nicht an strukturellen Defiziten oder Defekten des vermeintlichen wilhelminischen Obrigkeitsstaates. Eigentliche Ursache waren vielmehr die fatalen Konsequenzen der militärischen und politischen Niederlage Deutschlands im Ersten Weltkrieg.“
Hörenswerte Audio-Rezension bei Deutschlandradio Kultur.
Frank-Lothar Kroll: Geburt der Moderne. Politik, Gesellschaft und Kultur vor dem Ersten Weltkrieg. Band 1 der Reihe Deutsche Geschichte im 20. Jahrhundert. 224 Seiten, Be.Bra Verlag 2013. 19,90 Euro.
Josef Kern: Impressionismus im Wilhelminischen Deutschland. Studien zur Kunst– und Kulturgeschichte des Kaiserreichs. 476 Seiten, Königshausen & Neumann Verlag 1989. 50,00 Euro.
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mercredi, 16 octobre 2013
Armin Mohler und die Freuden des Rechtsseins
Armin Mohler und die Freuden des Rechtsseins
Martin Lichtmesz
Ex: http://www.sezession.de
Vor mir liegt ein frisch gedrucktes Büchlein, das mich wieder daran erinnert, was für eine große geistige Freude das „Rechtssein“ machen kann. Fast hätte ich es schon vergessen. Aber irgendeinen guten Grund muß ein Mensch ja haben, warum er sich all den Ärger antut, der damit einhergeht, nicht im linken Schafswolfsrudel mitzuheulen bzw. zu -blöken.
Die Rede ist von dem Kaplaken-Band „Notizen aus dem Interregnum“ [2], der dreizehn Kolumnen versammelt, die Armin Mohler [3] im Laufe des Jahres 1994 für die damals noch junge Junge Freiheit schrieb. Diese war eben auf das wöchentliche Format umgestiegen, und stand am Anfang ihres Siegeszuges als wichtigstes Organ und Sammelbecken der deutschen Rechten und Konservativen. Letzteres sind Begriffe, die Mohler meistens synonym oder alternierend gebrauchte, auch wenn es viele Rechte gibt, die sich nicht als „konservativ“ und viele Konservative, die sich nicht als „rechts“ betrachten. Außerhalb ihrer Milieus interessiert das allerdings bekanntlich keine Sau.
Die „Notizen“ sind, wie Götz Kubitschek im Nachwort formuliert, in einem „didaktisch-drängenden Ton“ verfaßt. Der 74jährige Mohler, einer der bedeutendsten Köpfe des deutschen Nachkriegskonservatismus, wollte mit seinen Kolumnen eine Art Orientierungshilfe, einen „Crash-Kurs“ im „Rechtssein“ bieten. So behandelte er noch einmal die Begriffe und Positionen, die in seinem Werk immer wiederkehren. Seine zentrale Formel war diese:
Bekannt ist der kokette Spruch: Wer nicht einmal links (oder wenigstens liberal) war, der wird kein richtiger Rechter. Der Schreibende hat jedoch Freunde, auf die das nicht zutrifft. Er sagt darum lieber: ein Rechter wird man durch eine Art von »zweiter Geburt«. Man hat sie durchlebt, wenn man sich – der eine früher, der andere später – der Einsicht öffnet, daß kein Mensch je die Wirklichkeit als Ganzes zu verstehen, zu erfassen und zu beherrschen vermag. Diese Einsicht stimmt manchen melancholisch, vielen aber eröffnet sie eine wunderbare Welt. Jedem dieser beiden Typen erspart sie, sein Leben mit Utopien, diesen Verschiebebahnhöfen in die Zukunft zu verplempern.
Das leuchtet wohl jedem unmittelbar ein, der die Erfahrung gemacht hat, daß eine zu eng gefaßte Weltanschauung blind für die Wirklichkeit machen kann, die nach einem Wort von Joachim Fest „immer rechts steht“. Ein Gitter von Abstraktionen verhindert, daß man sie sieht, wie sie ist (insofern man das eben mit seinen – stets beschränkten – Mitteln kann), daß man ihre Komplexität und Widersprüchlichkeit wahrnimmt und akzeptiert. (Damit ist aber nicht die typisch linke Rede von der „Komplexität“ gemeint, die genau auf das Gegenteil abzielt, nämlich eine Wahrnehmungschwäche kaschiert und sich um eine Entscheidung drücken will.)
Der von Mohler hochgeschätzte österreichische Schriftsteller Heimito von Doderer sprach an dieser Stelle gerne griffig von den „All-Gemeinheiten“ und von der „Apperzeptionsverweigerung“, einer nicht selten willentlichen Blockierung der Wahrnehmung, die zunächst zur Verdummung und schließlich gar zum Bösen führe.
Mohler kannte den Begriff der „political correctness“ noch nicht – aber es handelt sich hierbei um genau die Art von Abstraktionengitter, die er sein Leben lang bekämpfte. „Political correctness“ stellt zuerst ein Ideal auf, wie die Realität sein sollte, führt alsdann zu ihrer Leugnung (nach Doderer das „Dumme“), ob aus Angst (Doderer sprach vom „Kaltschweiß der Lebensschwäche“) oder aus Wunschdenken oder aus Opportunismus oder aus ideologischer Verblendung; dann aber zu unerbittlichen Verfolgung (nach Doderer wäre dies dann das „Böse“) all jener, die immer noch sehen und immer noch benennen,was sie eigentlich gar nicht sehen dürfen, etwa, daß der Kaiser nackt ist .
Auch das eng mit der „political correctness“ verbundene Gleichheitsdenken ist so eine Scheuklappe und „All-Gemeinheit“. In Notiz 7 (15. April 1994) diskutiert Mohler den italienischen Politologen Norberto Bobbio, der die Formel aufstellte, daß die Rechte vor allem mit dem beschäftigt sei, was die Menschen unterscheidet, und die Linke, mit dem, was die Menschen einander angleicht. Das geht soweit, daß der Linke die Gleichheit mit Gerechtigkeit gleichsetzt und zum absoluten moralischen Gut erhebt – die Menschen sollen „vernünftigerweise lieber gleicher als ungleich sein“. Der Rechte dagegen bejaht die Ungleichheit, die es ja nur als relativen Begriff gibt. Erst die Ungleichheit gibt dem Leben seine Spannung, Vielfältigkeit und Farbe.
Die Absage an die prinzipielle „Durchschaubarkeit“ und daher „Machbarkeit“ aller Dinge ist kein Aufruf zum Nichthandeln – im Gegenteil. Vielmehr ergibt sich daraus die Notwendigkeit einer Entscheidung, die Aufgabe, dem stetig sich wandelnden Chaos der Welt eine haltbare und dauerhafte Form abzutrotzen, mit dem Material zu bauen, das da ist, statt ständig auf das zu warten, was sein soll.
Das heißt allerdings nicht, daß man sich mit einem bloßen „Gärtnerkonservatismus“ begnügen muß. Vielmehr gilt es, aus dem Menschen das Bestmögliche herauszuholen und ihn an einer gewissen Intensität des Daseins teilhaben zu lassen, das auch immer „Agon“, also Wettstreit und Kampf ist – gegen die Unordnung, die Formlosigkeit, die Erschlaffung, den Verfall, den Tod, aber auch den konkreten Feind, den es immer geben wird.
Dem „Feind“ wird aber auch eine bestimmter Standort und ein prinzipielles Existenzrecht zugebilligt- er ist kein absoluter Feind, zu dem ihn bestimmte ideologische Zuspitzungen machen, insbesondere jene mit egalitärer Stoßrichtung. In der Notiz 9 vom 24. Juni 1994 untersucht Mohler den Begriff der „Mentalität“ . Dabei hat es ihm besonders eine Formulierung aus dem alten Brockhaus aus der Zeit vor dem Einbruch des „68er-Geistes“ angetan. „Mentalität“ bezeichnet
die geistig-seelische Disposition, die durch die Einwirkung von Lebenserfahrungen und Milieueindrücken entsteht, denen die Mitglieder einer sozialen Schicht unterworfen sind.
Das bedeutet nicht nur, daß der Mensch (hier folgt Mohler seinem großen Lehrmeister Arnold Gehlen) „anpassungsfähig“ ist, ein Wesen, das ebenso geformt wird, wie es selbst formend eingreift, „das sich selbst konstruiert, was er zum Überleben braucht“. Das heißt auch, daß jeder Mensch seinen soziologischen Ort, seine eigene Geschichte, seine eigenen guten oder schlechten Gründe und Beweggründe hat. Von hier aus wird auch eine rein moralistische Betrachtung und Verurteilung, eines einzelnen Menschen wie eines ganzen Volkes, unmöglich.
Mohlers Ansatz war verblüffend, besonders für solche Leser, die ein allzu vorgefaßtes Bild vom „Rechten“ mit sich herumtrugen. Dieser ist ja in der freien Wildbahn des Mainstreams eine geradezu geächtete Figur, im Gegensatz zu seinem umhätschelten Pendant, dem Linken, der „für seine guten Absichten belohnt wird“, und der auch dafür sorgt, daß vom Rechten möglichst nur Zerrbilder kursieren. „Rechts“ ist, wen er als solchen definiert, und wie er ihn definiert.
Es geht an dieser Stelle natürlich um den Rechten als Typus. Was die personifizierten Vertreter beider Lager angeht, so gibt es leider genug abschreckende Beispiele. Doderer sah sie als „Herabgekommenheiten“ – nicht etwa der nicht minder verabscheuungswürdigen „Mitte“ – sondern
jener Ebene, darauf der historisch agierende Mensch steht, der immer konservativ und revolutionär in einem ist, und diese Korrelativa als isolierte Möglichkeiten nicht kennt.
Mit einem Schlagwort: „konservative Revolution“. Das war für Mohler nicht nur das Etikett für ein bestimmtes, zeitlich eingegrenztes politisches Phänomen, sondern eine ganz grundsätzliche Idee, die er gerne vieldeutig schillern ließ. Seine Begriffe haben oft etwas bewußt Unscharfes, „Stimmungen“ Evozierendes, Wandelbares – sie müssen der jeweiligen konkreten Situation angepaßt werden.
Ich bin nun selber ein Initiat jener verschworenen Bruderschaft, die durch Mohler ihre entscheidenden politischen Impulse und Erweckungserlebnisse erfahren hat. Mit 25 Jahren verschlang ich in einer Nacht die Essaysammlung „Liberalenbeschimpfung“. Als ich das Buch zuklappte, war mir klar: wenn das nun „rechts“ ist, dann ist es nicht nur völlig legitim „rechts“ zu sein, dann bin ich es auch. Mir war bislang nur vorenthalten worden, daß es ein solches „Rechtssein“ auch gab – und das hatte mit einer Art zu denken ebenso wie mit einer Art zu schreiben und zu sprechen zu tun. Letztlich würde es aber vor allem, das betonte Mohler immer wieder, auch auf eine „Haltung“ und eine Art zu handeln ankommen, wobei er zugab, daß die Schreiber auch selten gleichzeitig „Täter“ sind.
Und hier fand ich nun die Quelle der „Freude“, von der ich oben sprach. Man erkennt, daß die Sprache eine Waffe ebenso wie ein Gefängnis sein kann, und daß ihre Grenzen schier unendlich erweiterbar sind. Dadurch stürzen die Begriffsgötzen und die falschen Autoritäten und die Laufgitter reihenweise ein und der Weg ins Freie wird sichtbar.
Fortan tat sich mir eine völlig neue und aufregende Welt auf. Zunächst war das nur eine Sache zwischen mir und meinem Bücherschrank. Ich suchte jahrelang keinerlei persönlichen Kontakt zu rechten oder konservativen „Milieus“, zum Teil aus Desinteresse, zum Teil aus weiterhin bestehenden Vorurteilen. Stattdessen ackerte ich sämtliche Hefte des „Criticón“ in der Berliner Staatsbibliothek durch, dem bedeutendsten Organ des konservativen Binnenpluralismus der 70er und 80er Jahre, und stieß dort auf die Namen all der konservativen Fabeltiere: neben Mohler auch Caspar von Schrenck-Notzing, Hans-Dietrich Sander, Günter Rohrmoser, Hellmut Diwald, Hans-Joachim Arndt, Günter Zehm, Wolfgang Venohr, Salcia Landmann, Robert Hepp, Gerd-Klaus Kaltenbrunner, Bernard Willms, Erik von Kuehnelt-Leddihn, Günter Maschke oder Alain de Benoist.
Und auf die großen Vordenker – Jünger, Blüher und Spengler waren mir schon bekannt, nun aber lernte ich Namen wie Carl Schmitt, Ernst Niekisch, Julius Evola, Edgar Julius Jung, Georges Sorel, Arnold Gehlen oder auch Donoso Cortés, Edmund Burke, Vilfredo Pareto usw. kennen. Ganz zu schweigen von all den schillernden Figuren, den Dichtern und Träumern, darunter eine erkleckliche Anzahl von poètes maudits, die ein verlockender Hauch des Hades umgab: Drieu La Rochelle, Yukio Mishima, Ezra Pound, Gabriele d‘Annunzio, Emile Cioran, Lucien Rebatet, Curzio Malaparte, Louis-Ferdinand Céline, Friedrich Hielscher, Alfred Schmid… man konnte wahrlich nicht klagen, daß es drüben am „rechten Ufer“ langweilig war.
Natürlich half auch das Internet enorm weiter, und früher oder später landete jeder mit einschlägigen Interessen bei der Jungen Freiheit, deren Netzarchive ich geradezu plünderte. Bald war ich begeisterter Abonnent, und entdeckte „neue“, aktuelle Stars: Thorsten Hinz, Baal Müller (was für ein Name!), Manuel Ochsenreiter, Claus-Michael Wolfschlag, Angelika Willig. Viele Ausgaben der JF von 2002/3 habe ich heute noch aufgehoben und bewahre sie geradezu liebevoll und nostalgisch auf.
Bei der JF allein blieb es freilich nicht. Um den schwarzen Kontinent zu erobern, las ich zu diesem Zeitpunkt wie ein Scheunendrescher alles, wirklich „alles, was recht(s) ist“, frei nach einem Buchtitel von Karlheinz Weißmann, heute ein selbsterklärtes „lebendes Fossil der Neuen Rechten“, [4] der ebenfalls rasch in mein stetig wachsendes Pantheon aufgenommen wurde.
Besonders fielen mir jene Artikel in der JF und bald auch schon der Sezession auf, die von den Namen Ellen Kositza und Götz Kubitschek gezeichnet waren. Beide waren nur um wenige Jahre älter als ich, hatten markante Gesichter (dergleichen ist für mich bis heute von Bedeutung) und ihre Beiträge erklangen in einem frischen und zupackenden Ton – unverkennbar die Mohler’sche Schule. Vor allem wurde darin nicht fade herumgeschwätzt, es ging darin um etwas: um unser jetziges, wirkliches Leben, um unsere Gegenwart und Zukunft, und ich erkannte, daß all dies auch etwas mit mir und meinem Leben zu tun hatte.
Gewiß war das Netz auch damals schon voll von Antifaseiten, die mal mehr, mal weniger offensichtlich ideologisch zugespitzt auftraten. Zentraler Anlaufpunkt war eine Seite namens „IDGR“- „Informationsdienst gegen Rechtsextremismus“, die freilich auch ganz hilfreich war, wenn man neue „Lesetips“ suchte. Was mich damals besonders empörte, war die Diskrepanz zwischen der hetzerisch-dummen, schablonenartigen, immer-gleichen Sprache dieser Seiten und dem, was die denunzierten Autoren tatsächlich geschrieben und gemeint hatten. Ich konnte nur krasse Desinformation, Verleumdung und Verzerrung erkennen, und das bestärkte mich umso mehr in dem Gefühl, auf der richtigen Spur zu sein.
Das fiel besonders bei Mohler auf. Es gab einerseits den Antifa-Popanz, andererseits den Autor, der mir freier, „liberaler“ und, ja, „toleranter“ und menschlicher erschien, als irgendeine rote Schranze, die ihre Säuberungswütigkeit mit hochtrabenden Ansprüchen schmückte. Besonders nahm mich seine Kunstsinnigkeit ein. Nicht nur vermochte er es, handfest und subtil zugleich über Belletristik, Lyrik und Malerei zu schreiben – er hatte auf jedes Thema, das er behandelte, einen unverwechselbaren Zugriff.
Und es gab ein Gebiet, wo Mohler eine besonders befreiende Wirkung ausübte: nämlich in seinen Betrachtungen zum Komplex der „Vergangenheitsbewältigung“ (ein Begriff, der heute kaum mehr benutzt wird, was der Praxis, die er bezeichnete, allerdings keinerlei Abbruch tut.) Diese Bücher, insbesondere „Der Nasenring“, haben endgültig mein Klischee von einem „Rechten“ zerstört. Ihre Argumentation erschien mir gescheit, realistisch, vernünftig, erwachsen, im besten Sinne humanistisch, auch wenn ich nicht immer d‘accord war.
Ich glaube, daß jeder denkende und fühlende Mensch, der in Deutschland oder Österreich geboren ist, irgendwann einmal mit der Geschichte seines Landes und den daraus folgenden Belastungen ins Klare kommen muß. Es ist wohl kein Zufall, daß Mohler gerade dieses Schlachtfeld wiederholt aufgesucht hat, denn keines ist dichter von „All-Gemeinheiten“, ahistorischen Abstraktionen, falschen Moralisierungen, „schrecklichen Vereinfachungen“, pauschalen Urteilen und so weiter umzäunt als dieses. Wohlfeile und wohlkalkulierte oder zur Gewohnheit eingerastete Instrumentalisierungen gehen hier mit deutschen Identitätsstörungen und unverarbeiteten Traumata einher, der nationale Selbsthaß mit dem „Klageverbot“ (so Hans-Jürgen Syberberg), die politische Erpressung mit der Unfähigkeit, zu trauern.
Mohlers Ausweg aus diesem Dschungel war genial. Er leitete sich aus seiner lebenslangen Begeisterung für die schöne Literatur [5]ab, die ihm als ein unentbehrlicher Weg zur „Welterfassung“ erschien. Er lautete: dort wo, die Zangenbacken der ideologischen Abstraktionen und der moralistischen All-Gemeinheiten zubeißen wollen, dort soll man eine Geschichte erzählen.
Etwa die eines einzigen Menschen, der die Zeit des Dritten Reichs und des Zweitens Weltkriegs erlebt hat. Von Anfang an und nach der Reihe. Und dann die eines anderen, der genau das Gegenteil erlebt, und genau gegenteilig gedacht und gehandelt hat. Und dann eine dritte und eine vierte. Allmählich können wir auch wieder von Moral sprechen und von „Tätern und Opfern“, aber auf einer völlig veränderten Ebene. Diese Geschichten können Lebensberichte und Memoiren ebenso wie durchgestaltete Romane und Erzählungen sein.
Wer all dies wirklich in sich aufgenommen hat, wird zunehmends davor zurückscheuen, den Stab über vorangegangene Generationen zu brechen. Gerade die Deutschen müssen aufhören, über ihre Mütter und Väter, ihre Großmütter und Großväter, zu urteilen – sie sollten stattdessen versuchen, sie verstehen zu lernen. Wir müssen unsere ganze Geschichte annehmen, und wir brauchen uns dazu auch nicht die schlechten Dinge schönzureden.
Schließlich aber, und hier war Mohler sehr scharf, kann ein richtiges Verhältnis zur eigenen Vergangenheit nicht gewonnen werden, wenn die historische Forschung zu stark politisiert wird, wenn Fragestellungen tabuisiert werden, wenn Historiker die Ächtung fürchten müssen (und es traf auch einen Diwald, einen Nolte, nicht nur einen Irving, der indes noch in den frühen Achtzigern mit Vorabdrucken im Spiegel rechnen konnte) und wenn per Gesetz entschieden wird, was historische Wahrheit ist und was nicht. Jeder Wissenschaftler, der hier noch seine Siebensachen beisammen hat [6], wird zugeben müssen, daß eine solche Praxis äußerst problematisch ist, und daß nicht damit geholfen ist, wenn man auf die Exzesse des lunatic fringe verweist.
Nun könnte man natürlich, etwa mit Egon Friedell, sagen, daß es eine rein „objektive“ und „interessenlose“ Geschichtsschreibung nicht gibt und nicht geben kann, daß man Historiographie, die wie die Künste einer Muse unterstellt ist, nicht so betreibt wie Naturwissenschaft – aber gerade dieser Gedanke ist in alle Richtungen hin gültig. Eine Buchveröffentlichung wie Stefan Scheils jüngster Kaplakenband „Polen 1939″ [7] steht von vornherein in einem politischen Raum, da die Vorgeschichte des Weltkriegs im Staatshaushalt der Bundesrepublik kein neutrales, sondern vielmehr ein mit politischer Bedeutung hoch aufgeladenes Feld ist. Dies gilt völlig unabhängig davon, ob sich Scheils Thesen als richtig oder falsch erweisen – sie bleiben so oder so ein Politikum.
Das nun also ist auch das eigentliche Thema von Mohlers Notiz 11 (5. August 1994), die sich in vermintes Gelände vorwagte, und darum von JF-Chefredakteur Dieter Stein von einer redaktionellen Infragestellung und einer Replik von Salcia Landmann [8] eingerahmt wurde. Man kann das alles im Kaplaken-Band nachlesen, darum will ich es an dieser Stelle nicht breittreten. Landmanns Antwort fiel, bei allem Respekt, zum Teil unterirdisch undifferenziert aus und schoß meilenweit und halbmanisch am eigentlichen Thema vorbei. Mohler kannte die sehr alte und sehr eigenwillige Dame noch aus Criticón-Tagen und nahm ihr selbst den Angriff nicht übel.
Anders erging es ihm allerdings mit dem Verhalten Dieter Steins. Dieser hatte im Grunde die „Notiz“ mit großen, roten Distanzierungsrufzeichen versehen, die vielleicht ein Spur zu dick aufgetragen waren. In seinem redaktionellen Beiwort wurde Mohler als eine Art seitenverkehrter, ebenfalls auf die Täter fixierter Habermas hingestellt, der lediglich die Deutschen exkulpieren wolle, wo der andere sie in pauschale Geiselhaft nahm.
Tatsächlich hatte Mohler in seiner „Notiz“aber genau vor diesem Ping-Pong des einseitigen Anschuldigens als auch einseitigen Exkulpierens gewarnt. Freillich hatte Stein das Recht, seine eigene Position zu markieren. Es ging hier aber vor allem um das „Wie“ des Vorgangs. Mohler fühlte sich verraten und in ungerechter Weise bloßgestellt, und schrieb an den noch sehr jungen Chefredakteur:
Was ist das für ein Kapitän, der einen aus der Mannschaft dem Feind zum Fraß vorwirft?
In der aktuellen JF [9] findet sich ein wie immer ausgezeichneter Leitartikel von Thorsten Hinz über die „Macht des Wortes“. Darin zeigt Hinz an konkreten Beispielen, was Gómez Dávila mit zwei Sätzen auf den Punkt gebracht hat.
Wer das Vokabular des Feindes akzeptiert, ergibt sich ohne sein Wissen. Bevor die Urteile in den Sätzen explizit werden, sind sie implizit in den Wörtern.
Auf der Titelseite ist ein mir nicht bekannter Schauspieler namens Hannes Jaenicke zu sehen, der ein Buch mit dem Titel „Die große Volksverarsche“ geschrieben hat, in dem er „mit deutschen Journalisten abrechnet“, Zitat in der Schlagzeile: „Eure Blätter lese ich nicht mehr.“
Im Kulturteil ist skurrilerweiser versehentlich ein Old-School-Antifa-Bericht über den zwischentag [10] abgedruckt worden, der eigentlich in der taz erscheinen sollte. Der Autor, vermutlich ein Praktikant, legt darin den „Rechten“ die Freuden der sozialistischen Selbstkritik ans Herz. Er meint es gewiß nur gut, fragt sich bloß, mit wem. Vielleicht weiß auch die rechte Hand nicht mehr was die linke tut, oder irgendjemand ist mal wieder so listig wie die Tauben und so sanft wie die Schlangen, zu welchem Zweck auch immer.
Mein Artikel sollte aber von ganz anderen Freuden handeln. Aus diesem Grund will ich mit dem diesjährigen Neujahrsgeleitwort von Michael Klonovsky enden:
Lang leben die Völker dieser Erde! Es leben ihre Religionen, ihre Sitten, ihre Sprachen! Es lebe die traditionelle Familie! Es lebe die Ehe! Es leben die Geschlechterrollen! Es lebe die Weiblichkeit und die Männlichkeit! Vive la Mademoiselle! Es lebe die Monarchie! Es leben die Rassen und ihre fundamentalen Unterschiede! Es leben die Klassenschranken! Es lebe die soziale Ungerechtigkeit! Es lebe der Luxus! Es lebe die Eleganz! Es leben die Kathedralen, Kirchen und Tempel! Es lebe das Papsttum! Es lebe die Orthodoxie! Es leben die Atomkraft und die bemannte Raumfahrt! Es lebe der private Waffenbesitz! Es lebe der Aberglaube, der Geschichtsrevisionismus und der Biologismus! Es leben die Vorurteile und die Gemeinplätze! Es leben die Mythen! Es lebe alles Ehrwürdig-Althergebrachte! Es lebe die Meisterschaft in Kunst und Handwerk! Es lebe die Gewohnheit und die Regel! Es lebe der Alkohol, das Rauchen und das Fett im Essen! Es lebe die Aristokratie! Es lebe die Meritokratie! Es lebe die Kallokratie! Es lebe das Versmaß, die Hochkultur und die Distinktion! Es lebe die Bosheit! Es lebe die Ungleichheit!
Ich sage dazu, auch mitten im Jahr, Ja und Amen, und Prost, Cheers, Sláinte, Skøl und Masel tov!
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dimanche, 13 octobre 2013
Jünger und Mohler
Jünger und Mohler
Karlheinz Weißmann
Ex: http://www.sezession.de
Die Beziehung zwischen Ernst Jünger und Armin Mohler hat sich über mehr als fünf Jahrzehnte erstreckt. Sie wird – wenn in der Literatur erwähnt – als Teil der Biographie Jüngers behandelt. Man hebt auf Mohlers Arbeit als Jüngers Sekretär ab und gelegentlich auf das Zerwürfnis zwischen beiden. Mit den Wilflinger Jahren hatte dieser Streit nichts zu tun. Seine Ursache waren Meinungsverschiedenheiten über die erste Ausgabe der Werke Jüngers. Der Konflikt beendete für lange das Gespräch der beiden, das mit einer Korrespondenz begonnen hatte, im direkten Austausch und dann wieder im – manchmal täglichen – Briefwechsel zwischen der Oberförsterei und dem neuen französischen Domizil Mohlers in Bourg-la-Reine fortgesetzt wurde. Von 1949, als Mohler seinen Posten in Ravensburg antrat, bis 1955, als Jünger seinen 60. Geburtstag feierte, war ihre Verbindung am intensivsten, aber es gab auch eine Vor- und eine Nachgeschichte von Bedeutung.
Die Vorgeschichte hängt zusammen mit Mohlers abenteuerlichem Grenzübertritt vom Februar 1942. Er selbst hat für den Entschluß, aus der Schweizer Heimat ins Reich zu gehen und sich freiwillig zur Waffen-SS zu melden, zwei Motive angegeben: die Nachrichten von der Ostfront, damit verknüpft das Empfinden, hier gehe es um das Schicksal Deutschlands, und die Lektüre von Jüngers Arbeiter. Die Verknüpfung mag heute irritieren, der Eindruck würde sich aber bei genauerer Untersuchung der Wirkungsgeschichte Jüngers verlieren. Denn, was er im Schlußkapitel des Arbeiters über den „Eintritt in den imperialen Raum“ gesagt hatte, war mit einem Imperativ verknüpft gewesen: „Nicht anders als mit Ergriffenheit kann man den Menschen betrachten, wie er inmitten chaotischer Zonen an der Stählung der Waffen und Herzen beschäftigt ist, und wie er auf den Ausweg des Glückes zu verzichten weiß. Hier Anteil und Dienst zu nehmen: das ist die Aufgabe, die von uns erwartet wird.“
Mohlers Absicht war eben: „Anteil und Dienst zu nehmen“. Es ging ihm nicht um „deutsche Spiele“, nicht um eine Wiederholung von Jüngers Abenteuer in der Fremdenlegion, sondern darum, in einer für ihn bezeichnenden Weise, Ernst zu machen. Daß daraus nichts wurde, hatte dann – auch in einer für ihn bezeichnenden Weise – mit romantischen Impulsen zu tun: der Sehnsucht nach intensiver Erfahrung, nach großen Gefühlen, dem „Bedürfnis nach Monumentalität“, ein Diktum des Architekturtheoretikers Sigfried Giedion, das Mohler häufig zitierte. Daß der nationalsozialistische „Kommissarstaat“ kein Interesse hatte, solches Bedürfnis abzusättigen, mußte Mohler rasch erkennen. Er zog sein Gesuch zurück und ging bis Dezember 1942 zum Studium nach Berlin. Dort saß er im Seminar von Wilhelm Pinder und hörte Kunstgeschichte. Vor allem aber verbrachte er Stunde um Stunde in der Staatsbibliothek, wo er seltene Schriften der „Konservativen Revolution“ exzerpierte oder abschrieb, darunter die von ihm als „Manifeste“ bezeichneten Aufsätze Jüngers aus den nationalrevolutionären Blättern. Dieser Textkorpus bildete neben dem Arbeiter, der ersten Fassung des Abenteuerlichen Herzens sowie Blätter und Steine die Grundlage für Mohlers Faszination an Jünger.
Zehn Jahre später schrieb er über die Wirkung des Autors Jünger auf den Leser Mohler: „Sein Stil könnte mit seiner Oberfläche auf mathematische Genauigkeit schließen lassen. Aber diese Gestanztheit ist Notwehr. Durch sie hindurch spiegelt sich im Ineinander von Begriff und Bild eine Vieldeutigkeit, welche den verwirrt, der nur die Eingleisigkeit einer universalistisch verankerten Welt kennt. In Jüngers Werk … ist die Welt nominalistisch wieder zum Wunder geworden.“ Wer das Denken Mohlers etwas genauer kennt, weiß, welche Bedeutung das Stichwort „Nominalismus“ für ihn hatte, wie er sich bis zum Schluß auf immer neuen Wegen eine eigenartige, den Phänomenen zugewandte Weltsicht, zu erschließen suchte. Er hatte dafür als „Augenmensch“ bei dem „Augenmenschen“ Jünger eine Anregung gefunden, wie sonst nur in der Kunst.
Es wäre deshalb ein Mißverständnis, anzunehmen, daß Mohler Jünger auf Grund der besonderen Bedeutung, die er den Arbeiten zwischen den Kriegsbüchern und der zweiten Fassung des Abenteuerlichen Herzens beimaß, keine Weiterentwicklung zugestanden hätte. Ihm war durchaus bewußt, daß Gärten und Straßen das Alterswerk einleitete und zu einer deutlichen – und aus seiner Sicht legitimen – Veränderung des Stils geführt hatte. Es ging ihm auch nicht darum, Jünger auf die Weltanschauung der zwanziger Jahre festzulegen, wenngleich das Politische für seine Zuwendung eine entscheidende Rolle gespielt und zum Bruch mit der Linken geführte hatte. Sein Freund Werner Schmalenbach schilderte die Verblüffung des Basler Milieus aus Intellektuellen und Emigranten, in dem sich Mohler bis dahin bewegte, als dessen Begeisterung für Deutschland und für Jünger klarer erkennbar wurde. Nach seiner Rückkehr in die Schweiz und dem Bekanntwerden seines Abenteuers wurde er in diesen Kreisen selbstverständlich als „Nazi“ gemieden. Beirrt hat Mohler das aber nicht, weder in seinem Interesse an der Konservativen Revolution, noch in seiner Verehrung für Jünger.
Die persönliche Begegnung zwischen beiden wurde dadurch angebahnt, daß Mohler 1946 in der Zeitung Weltwoche einen Aufsatz über Jünger veröffentlichte, der weit von den üblichen Verurteilungen entfernt war. Es folgte ein Briefwechsel und dann die Aufforderung Jüngers, Mohler solle nach Abschluß seiner Dissertation eine Stelle als Sekretär bei ihm antreten. Als Mohler dann nach Ravensburg kam, wo Jünger vorläufig Quartier genommen hatte, war die Atmosphäre noch ganz vom Nachkrieg geprägt. Man bewegte sich wie in der Waffenstillstandszeit von 1918/19 in einer Art Traumland – zwischen Zusammenbruch und Währungsreform –, und alle möglichen politischen Kombinationen schienen denkbar. Der Korrespondenz zwischen Mohler und seinem engsten Freund Hans Fleig kann man entnehmen, daß damals beide die Wiederbelebung der „Konservativen Revolution“ erwarteten: die „antikapitalistische Sehnsucht“ des deutschen Volkes, von der Gregor Strasser 1932 gesprochen hatte, war in der neuen Not ungestillt, ein „heroischer Realismus“ konnte angesichts der verzweifelten Lage als Forderung des Tages erscheinen, auch die intellektuelle Linke glaubte, daß die „Frontgeneration“ ein besonderes Recht auf Mitsprache besitze, und das Ausreizen der geopolitischen Situation mochte als Chance gelten, die Teilung Deutschlands zwischen den Blöcken zu verhindern. Wie man Mohlers Ravensburger Tagebuch, aber auch anderen Dokumenten entnehmen kann, waren Jünger solche Gedanken nicht fremd, wenngleich die Erwägungen – bis hin zu nationalbolschewistischen Projekten – eher spielerischen Charakter hatten.
Differenzen zwischen beiden ergaben sich auf literarischem Feld. Mohler hatte Schwierigkeiten mit den letzten Veröffentlichungen Jüngers. Ihn irritierten die Friedensschrift (1945) und der große Essay Über die Linie (1951), und den Roman Heliopolis (1949) hielt er für mißlungen. Die Sorge, daß Jünger sich untreu werden könnte, schwand erst nach dem Erscheinen von Der Waldgang (1951). Mohler begrüßte das Buch enthusiastisch und als Bestätigung seiner Auffassung, daß man angesichts der Lage den Einzelgänger stärken müsse. Was sonst zu sagen sei, sollte getarnt werden, wegen der „ausgesprochenen Bürgerkriegssituation“, in der man schreibe. Er erwartete zwar, daß der „Antifa-Komplex“ bald erledigt sei, aber noch wirkte die Gefährdung erheblich und der „Waldgänger“ war eine geeignetere Leitfigur als „Soldat“ oder „Arbeiter“.
Mohler betrachtete den Waldgang vor allem als erste politische Stellungnahme Jüngers nach dem Zusammenbruch, eine notwendige Stellungnahme auch deshalb, weil die Strahlungen und die darin enthaltene Auseinandersetzung mit den Verbrechen der NS-Zeit viele Leser Jüngers befremdet hatte. In der aufgeheizten Atmosphäre der Schulddebatten fürchteten sie, Jünger habe die Seiten gewechselt und wolle sich den Siegern andienen; Mohler vermerkte, daß in Wilflingen kartonweise Briefe standen, deren Absender Unverständnis und Ablehnung zum Ausdruck brachten.
Mohler schloß sich dieser Kritik ausdrücklich nicht an und hielt ihr entgegen, daß sie am Kern der Sache vorbeigehe. „Der deutsche ‚Nationalismus‘ oder das ‚nationale Lager‘ oder die ‚Rechte‘ … wirkt heute oft erschreckend verstaubt und antiquiert – und dies gerade in einem Augenblick, wo [ein] bestes nationales Lager nötiger denn je wäre. Die Verstaubtheit scheint mir daher zu kommen, daß man glaubt, man könne einfach wieder da anknüpfen, wo 1933 oder 1945 der Faden abgerissen war.“ Einige arbeiteten an einer neuen „Dolchstoß-Legende“, andere suchten die Schlachten des Krieges noch einmal zu führen und nun zu gewinnen, wieder andere setzten auf einen „positiven Nationalsozialismus“ oder auf eine Wiederbelebung sonstiger Formen, die längst überholt und abgestorben waren. In der Überzeugung, daß eine Restauration nicht möglich und auch nicht wünschenswert sei, trafen sich Mohler und Jünger.
Die Stellung Mohlers als „Zerberus“ des „Chefs“ war nie auf Dauer gedacht. Mohler plante eine akademische Karriere und betrachtete seine Tätigkeit als Zeitungskorrespondent, die er 1953 aufnahm, auch nur als Vorbereitung. Der Kontakt zu Jünger riß trotz der Entfernung nie ab. interessanterweise bemühten sich in dieser Phase beide um eine Neufassung des Begriffs „konservativ“, die ausdrücklich dem Ziel dienen sollte, einen weltanschaulichen Bezugspunkt zu schaffen.
Wie optimistisch Jünger diesbezüglich war, ist einer Bemerkung in einem Brief an Carl Schmitt zu entnehmen, dem er am 8. Januar 1954 schrieb, er beobachte „an der gesamten Elite“ eine „entschiedene Wendung zu konservativen Gedanken“, und im Vorwort zu seinem Rivarol – ein Text, der in der neueren Jünger-Literatur regelmäßig übergangen wird – geht es an zentraler Stelle um die „Schwierigkeit, ein neues, glaubwürdiges Wort für ‚konservativ‘ zu finden“. Jünger hatte ursprünglich vor, gegen ältere Versuche eines Ersatzes zu polemisieren, verzichtete aber darauf, weil er dann auch den Terminus „Konservative Revolution“ hätte einbeziehen müssen, was er aus Rücksicht auf Mohler nicht tat. Daß ihn seine intensive Beschäftigung mit den Maximen des französischen Gegenrevolutionärs „stark in die politische Materie“ führte, war Jünger klar. Wenn dagegen so wenig Vorbehalte zu erkennen sind, dann hing das auch mit dem Erfolg und der wachsenden Anerkennung zusammen, die er in der ersten Hälfte der fünfziger Jahre erfuhr. Zeitgenössische Beobachter glaubten, daß er zum wichtigsten Autor der deutschen Nachkriegszeit werde.
Dieser „Boom“ erreichte einen Höhepunkt mit Jüngers sechzigstem Geburtstag. Es gab zwar auch heftige Kritik am „Militaristen“ und „Antidemokraten“, aber die positiven Stimmen überwogen. Mohler hatte für diesen Anlaß nicht nur eine Festschrift vorbereitet, sondern auch eine Anthologie zusammengestellt, die unter dem Titel Die Schleife erschien. Der notwendige Aufwand an Zeit und Energie war sehr groß gewesen, die prominentesten Beiträger für die Festschrift, Martin Heidegger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, bei Laune zu halten, ein schwieriges Unterfangen – Heidegger zog seinen Beitrag aus nichtigen Gründen zweimal zurück. Ganz zufrieden war der Jubilar aber nicht; Jünger mißfiel die geringe Zahl ausländischer Autoren, und bei der Schleife hatte er den Verdacht, daß hier suggeriert werde, es handele sich um ein Buch aus seiner Feder. Die Ursache dieser Verstimmung war eine kleine Manipulation des schweizerischen Arche-Verlags, in dem Die Schleife erschienen war, und der auf den Umschlag eine Titelei gesetzt hatte, die einen solchen Irrtum möglich machte.
Im Hintergrund spielte außerdem der Wettbewerb verschiedener Häuser um das Werk Jüngers mit, dessen Bücher in der Nachkriegszeit zuerst im Furche-, den man ihm zu Ehren in Heliopolis-Verlag umbenannt hatte, dann bei Neske und bei Klostermann erschienen waren. Außerdem versuchte ihn Ernst Klett für sich zu gewinnen. Wenn Klostermann die Festschrift herausbrachte, obwohl er davon kaum finanziellen Gewinn erwarten durfte, hatte das mit der Absicht zu tun, die Bindung Jüngers zu festigen. Deshalb korrespondierte der Verleger mit Mohler nicht nur wegen der Ehrengabe, sondern gleichzeitig auch wegen einer Edition des Gesamtwerks, die Jünger dringend wünschte.
Klostermann und Mohler waren einig, daß eine solche Sammlung nach „Wachstumsringen“ geordnet werden müsse, jedenfalls der Chronologie zu folgen und die ursprünglichen Fassungen zu bringen beziehungsweise Änderungen kenntlich zu machen habe. Bekanntermaßen ist dieser Plan nicht in die Tat umgesetzt worden. Rivarol war das letzte Buch, das Jünger bei Klostermann veröffentlichte, danach wechselte er zu Klett, dem er gleichzeitig die Verantwortung für die „Werke“ übertrug. In einem Brief vom 15. Dezember 1960 schrieb Klostermann voller Bitterkeit an Mohler, daß er die Ausgabe im Grunde für unbenutzbar halte und mit Bedauern feststelle, daß Jünger gegen Kritik immer unduldsamer werde. Zwei Wochen später veröffentlichte Mohler einen Artikel über die Werkausgabe in der Züricher Tat. Jüngers „Übergang in das Lager der ‚Universalisten‘“ wurde nur konstatiert, aber die Eingriffe in die früheren Texte scharf getadelt.
Noch grundsätzlicher faßte Mohler seine Kritik für einen großen Aufsatz zusammen, der im Dezember 1961 in der konservativen Wochenzeitung Christ und Welt erschien und von vielen als Absage an Jünger gelesen wurde. Mohler verurteilte hier nicht nur die Änderung der Texte, er mutmaßte auch, sie folgten dem Prinzip der Anbiederung, man habe „ad usum democratorum frisiert“, es gebe außerdem ein immer deutlicher werdendes „Gefälle“ im Hinblick auf die Qualität der Diagnostik, was bei den letzten Veröffentlichungen Jüngers wie An der Zeitmauer (1959) und Der Weltstaat (1960) zu einer Beliebigkeit geführt habe, die wieder zusammenpasse mit anderen Konzessionen Jüngers, um „sich mit der bis dahin gemiedenen Öffentlichkeit auszugleichen“. Mohler deutete diese Tendenz nicht einfach als Schwäche oder Verrat, sondern als negativen Aspekt jener„osmotischen“ Verfassung, die Jünger früher so sensibel für kommende Veränderungen gemacht habe.
Jünger brach nach Erscheinen des Textes den Kontakt ab. Daß Mohler das beabsichtigte, ist unwahrscheinlich. Noch im Juni 1960 hatte Jünger ihn in Paris besucht, kurz bevor Mohler nach Deutschland zurückkehrte, und im Gästebuch stand der Eintrag: „Wenige sind wert, daß man ihnen widerspricht. Bei Armin Mohler mache ich eine Ausnahme. Ihm widerspreche ich gerne.“ Jetzt warf Jünger Mohler vor, ihn ideologisch mißzuverstehen und äußerte in einem Brief an Curt Hohoff: „Das Politische hat mich nur an den Säumen beschäftigt und mir nicht gerade die beste Klientel zugeführt. Würden Mohlers Bemühungen dazu beitragen, daß ich diese Gesellschaft gründlich loswürde, so wäre immerhin ein Gutes dabei. Aber solche Geister haben ein starkes Beharrungsvermögen; sie verwandeln sich von lästigen Anhängern in unverschämte Gläubiger.“
Sollte Jünger Mohlers Text tatsächlich nicht gelesen haben, wie er hier behauptete, wäre ihm auch der Schlußpassus entgangen, in dem Mohler zwar nicht zurücknahm, was er gesagt hatte, aber festhielt, daß ein einziges der großen Bücher Jüngers genügt hätte, um diesen „für immer in den Himmel der Schriftsteller“ eingehen zu lassen: „An dessen Scheiben wir Kritiker uns die Nase plattdrücken.“ Die Ursache für Mohlers Schärfe war Enttäuschung, eine Enttäuschung trotz bleibender Bewunderung. Mohler warf Jünger mit gutem Grund vor, daß dieser in der zweiten Hälfte der fünfziger Jahre ohne Erklärung den Kurs geändert hatte und sich in einer Weise stilisierte, die ihn nicht mehr als „großen Beunruhiger“ erkennen ließ. Man konnte das wahlweise auf Jüngers „Platonismus“ oder sein Bemühen um Klassizität zurückführen. Tendenzen, mit denen Mohler schon aus Temperamentsgründen wenig anzufangen wußte.
Die Wiederannäherung kam deshalb erst nach langer Zeit und angesichts der Wahrnehmung zustande, daß Jünger eine weitere Kehre vollzog. Das Interview, das der Schriftsteller am 22. Februar 1973 Le Monde gab, wirkte auf Mohler elektrisierend, was vor allem mit jenen Schlüsselzitaten zusammenhing, die von der deutschen Presse regelmäßig unterschlagen wurden: Zwar hatte man mit einer gewissen Irritation Jüngers Äußerung gemeldet, er könne weder Wilhelm II. noch Hitler verzeihen, „ein so wundervolles Instrument wie unsere Armee vergeudet zu haben“, aber niemand wagte sein Diktum hinzuzufügen: „Wie hat der deutsche Soldat zweimal hintereinander unter einer unfähigen politischen Führung gegen die ganze wider ihn verbündete Welt sich halten können? Das ist die einzige Frage, die man meiner Ansicht nach in 100 Jahren stellen wird.“ Und nirgends zu finden war die Prophetie über das Schicksal, das den Deutschen im Geistigen bevorstand: „Alles, was sie heute von sich weisen, wird eines schönen Tages zur Hintertüre wieder hereinkommen.“
Mohler stellte die Rückkehr zum Konkret-Politischen mit der Wirkung von Jüngers Roman Die Zwille zusammen, ein „erzreaktionäres Buch“, so sein Urteil, das in seinen besten Passagen jene Fähigkeit zum „stereoskopischen“ Blick zeigte, die von Mohler bewunderte Fähigkeit, das Besondere und das Typische – nicht das Allgemeine! – gleichzeitig zu erkennen. Obwohl Mohler an seiner Auffassung vom „Bruch“ im Werk festhielt, hat der Aufsatz Ernst Jüngers Wiederkehr wesentlich dazu beigetragen, den alten Streit zu beenden. Die Verbindung gewann allmählich ihre alte Herzlichkeit zurück, und seinen Beitrag in der Festschrift zu Mohlers 75. Geburtstag versah Jünger mit der Zeile „Für Armin Mohler in alter Freundschaft“; beide telefonierten häufig und ausführlich miteinander, und wenige Monate vor dem Tod Jüngers, im Herbst 1997, kam es zu einer letzten persönlichen Begegnung in Wilflingen.
Nachdem Jünger gestorben war, gab ihm Mohler, obwohl selbst betagt und krank, das letzte Geleit. Er empfand das mit besonderer Genugtuung, weil es ihm nicht möglich gewesen war, Carl Schmitt diese letzte Ehre zu erweisen. Jünger und Schmitt hatten nach Mohlers Meinung den größten Einfluß auf sein Denken, mit beiden war er enge Verbindungen eingegangen, die von Schwankungen, Mißverständnissen und intellektuellen Eitelkeiten nicht frei waren, zuletzt aber Bestand hatten. Den Unterschied zwischen ihnen hat Mohler auf die Begriffe „Idol“ und „Lehrer“ gebracht: Schmitt war der „Lehrer“, Jünger das „Idol“. Wenn man „Idol“ zum Nennwert nimmt, dann war Mohlers Verehrung eine besondere – von manchen Heiden sagt man, daß sie ihre Götter züchtigen, wenn sie nicht tun, was erwartet wird.
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mardi, 24 septembre 2013
Sur l’entourage et l’impact d’Arthur Moeller van den Bruck
Robert STEUCKERS:
Sur l’entourage et l’impact d’Arthur Moeller van den Bruck
Conférence prononcée à la tribune du “Cercle Proudhon”, à Genève, 12 février 2013
Pourquoi parler ou reparler de Moeller van den Bruck aujourd’hui, 90 ans après la parution de son livre au titre apparemment fatidique, “Le Troisième Reich” (= “Das Dritte Reich”)? D’abord parce que l’historiographie récente s’est penchée sur lui (cf. bibliographie) en Allemagne, d’une manière beaucoup plus systématique qu’auparavant. Il est l’apôtre raté d’un “Troisième Règne”, qui n’adviendra pas de son vivant mais dont le nom sera repris par le mouvement hitlérien, dans une acception bien différente et à son corps défendant. Il s’agit de savoir, aujourd’hui, ce que Moeller van den Bruck entendait vraiment par “Drittes Reich”. Il s’agit aussi de cerner ce qu’il entendait par sa notion de “peuples jeunes”. Comment il entrevoyait la coopération entre l’Allemagne et la Russie (devenue l’URSS) dans le cadre de la République de Weimar, dont il méprisait les principes et le personnel. Arthur Moeller van den Bruck a participé à la formulation d’un “nationalisme de rupture”, d’un “néo-nationalisme” qu’Armin Mohler, dans sa célèbre thèse, a classé dans le phénomène de la “révolution conservatrice”. Une chose est certaine: Arthur Moeller van den Bruck n’est ni un “libéral” (au sens où l’entendait la démocratie de la République de Weimar) ni un pro-occidental, dans la mesure où il entendait détacher l’Allemagne de l’Occident français, anglais et américain.
L’oeuvre politique d’Arthur Moeller van den Bruck est toutefois ténue. Il n’a pas été aussi prolixe qu’Oswald Spengler, dont le célèbre “Déclin de l’Occident” est fort dense, d’une épaisseur bien plus conséquente que “Das Dritte Reich”. De plus, la définition, finalement assez ambigüe, que donne Spengler de l’Occident ne correspond pas à celle que donnera plus tard Moeller van den Bruck. Sans doute la brièveté de l’oeuvre politique de Moeller van den Bruck tient-elle au simple fait qu’il est mort jeune et suicidé, à 49 ans. Son oeuvre littéraire et artistique en revanche est beaucoup plus vaste. Moeller van den Bruck, en effet, a écrit sur le théâtre de variétés, sur le théâtre français, sur l’esthétique italienne, sur la mystique allemande, sur les personnages-clefs de la culture germanique (ceux qui en font son essence), sur la littérature moderniste, allemande et européenne, de son temps. Son oeuvre politique, qui ne prend son envol qu’avec la Grande Guerre, se résume à un ouvrage sur le “style prussien” (avec un volet sur l’art néo-classique), à l’ouvrage intitulé “Troisième Reich”, au livre sur la “révolte des peuples jeunes”, à ses articles parus dans des revues comme “Gewissen”. Moeller van den Bruck a donc été un séismographe de son époque, celle d’un extraordinaire foisonnement d’idées, de styles, d’audaces.
Zeev Sternhell et la “droite révolutionnaire”, Armin Mohler et la “Konservative Revolution”
La question qu’il convient de poser est donc la suivante: d’où viennent ses idées? Quel a été son cheminement? Quelles rencontres, apparemment “apolitiques”, ont-elles contribué à forger, parfois à leur corps défendant, son “Jungkonservativismus”? Le fait d’être homme, dit-on, c’est mener une quête, sans jamais s’arrêter. Quelle a donc été la quête personnelle, unique et inaliénable de Moeller van den Bruck? Il convient aussi de resituer cette quête dans un cadre historique et social. Cette démarche interpelle l’historiographie contemporaine: Zeev Sternhell avait tracé la généalogie du fascisme français depuis 1870 environ, avant de se pencher sur les antécédents de l’Italie fasciste et du sionisme. Après la parution en France, au “Seuil” à Paris, du premier ouvrage “généalogique” de Sternhell, intitulé “La droite révolutionnaire”, Armin Mohler, auteur d’un célèbre ouvrage synoptique sur la “révolution conservatrice”, lui rendait hommage dans les colonnes de la revue “Criticon”, en disant que le cadre de sa propre enquête avait été fixé, par son promoteur Karl Jaspers, à la période 1918-1932, mais que l’effervescence intellectuelle de la République de Weimar avait des racines antérieures à 1914, plongeant finalement dans un bouillonnement culturel plus varié et plus intense, inégalé depuis en Europe, dont de multiples manifestations sont désormais oubliées, se sont estompées des mémoires collectives. Et qu’il fallait donc les ré-exhumer et les explorer. Exactement comme Sternhell avait exploré l’ascendance idéologique de l’Action Française et des autres mouvements nationaux des années 20 et 30.
Ascendance et jeunesse
Resituer un auteur dans son époque implique bien entendu de retracer sa biographie, de suivre pas à pas la maturation de son oeuvre. Arthur Moeller van den Bruck est né en 1876 à Solingen, dans une famille prussienne originaire de Thuringe. Dans cette famille, il y a eu des pasteurs, des officiers, des fonctionnaires, dont son père, inspecteur général pour la construction des bâtiments publics. Cette fonction paternelle induira, plus que probablement, l’intérêt récurrent de son fils Arthur pour l’architecture (l’architecture de la Ravenne ostrogothique, le style prussien et l’architecture de Peter Behrens et du “Deutscher Werkbund”, comme nous allons le voir). L’ascendance maternelle, la famille van den Bruck, est, comme le nom l’indique, hollandaise ou flamande, mais compte aussi des ancêtres espagnols. Le jeune Arthur est un adolescent difficile, en rupture avec le milieu scolaire. Il ne décroche pas son “Abitur”, équivalent allemand du “bac”, ce qui lui interdit l’accès à l’université. Il restera, en quelque sorte, un marginal. Il quitte sa famille et se marie, à 20 ans, avec Hedda Maase. Nous sommes en 1896, année où survienent deux événements importants pour l’idéologie allemande de l’époque, qui donnera ultérieurement un certain lustre à la future “révolution conservatrice”: la naissance du mouvement de jeunesse “Wandervogel” sous l’impulsion de Karl Fischer et la création des éditions Eugen Diederichs à Iéna. Le jeune couple s’installe à Berlin cette année-là et Moeller van den Bruck vit de l’héritage de son grand-père maternel.
Baudelaire, Barbey d’Aurevilly, Poe...
Les jeunes époux vont entamer leur quête spirituelle en traduisant de grands classiques des littératures française et anglaise. D’abord Baudelaire qui communiquera à coup sûr l’idée du primat de l’artiste et du poète sur le “philistin” et le “bourgeois”. Ensuite Hedda et Arthur traduisent les oeuvres de Barbey d’Aurevilly. Cet auteur aura un impact important dans le rejet par Moeller van den Bruck du libéralisme et du bourgeoisisme. Barbey d’Aurevilly communique une certaine foi à Arthur, qui ne la christianisera pas —mais ne l’édulcorera pas pour autant— vu l’engouement de l’époque toute entière pour Nietzsche. Cette foi anti-bourgeoise, anti-philistine, se cristallisera surtout plus tard, au contact de l’oeuvre de Dostoïevski et de la personnalité de Merejkovski. Barbey d’Aurevilly était issu d’une famille monarchiste. Jeune, par défi, il se proclame “républicain”. Il lit ensuite Jospeh de Maistre et redevient monarchiste. Il le restera. En 1846, il se mue en catholique intransigeant, partisan de l’ultramontanisme. Barbey d’Aurevilly est aussi une sorte de dandy, haïssant la modernité bourgeoise, cultivant un style qui se veut esthétisme et rupture: deux attitudes qui déteindront sur son traducteur allemand. Le couple Moeller/Maase traduit ensuite le “Germinal” de Zola et quelques oeuvres de Maupassant. C’est donc, très jeune, à Berlin, que Moeller van den Bruck connaît sa période française, où le filon de Maistre/Barbey d’Aurevilly est déterminant, beaucoup plus déterminant que l’idéologie républicaine, qui donne le ton sous la III° République.
Mais ses six années berlinoises sont aussi sa période anglaise. Avec son épouse, il traduit l’ensemble de l’oeuvre de Poe, puis Thomas de Quincey, Daniel Defoe et Dickens. La période “occidentale”, franco-anglaise, de Moeller van den Bruck, futur pourfendeur de l’esprit occidental, occupe donc une place importante dans son itinéraire, entre 20 et 26 ans.
Zum Schwarzen Ferkel
Moeller van den Bruck fréquente le local branché de la bohème littéraire berlinoise, “Zum Schwarzen Ferkel” (“Au Noir Porcelet”) puis le “Schmalzbacke”. Le “Schwarzer Ferkel” est le pointde rencontre d’intellectuels et de poètes allemands, scandinaves et polonais, faisceau de diversités européennes qui constitue un “unicum” dans l’histoire des idées. A côté des poètes, il y a aussi des médecins, des artistes, des juristes: les débats y sont pluridisciplinaires. Le nom du local est une invention du Suédois August Strindberg et du poète allemand Richard Dehmel.
Detlev von Liliencron
Parmi les personnages qu’y rencontre Moeller, on trouve un poète, aujourd’hui largement oublié, Detlev von Liliencron. Il est un poète-soldat du 19ème siècle: il a fait les guerres de l’unification allemande, en 1864, en 1866 et en 1870, contre les Danois, les Autrichiens et les Français. Son oeuvre majeure est “Adjutantenritte und andere Geschichten” (“Les chevauchées d’un aide de camp et autres histoires”) qui parait en 1883, où il narre ses mésaventures militaires. En 1888, dans la même veine, il publie “Unter flatternden Fahnen” (“Sous les drapeaux qui claquent au vent”). C’est un aristocrate pauvre du Slesvig-Holstein qui a opté pour la vie de caserne mais qui s’adonne au jeu avec beaucoup trop de frénésie, espérant redorer son blason. Le jeu devient chez lui un vice persistant qui brisera sa carrière militaire. Sur le plan littéraire, Detlev von Liliencron est une figure de transition: les aspects néo-romantiques, naturalistes et expressionnistes se succèdent dans ses oeuvres de prose et de poésie. Il refuse les étiquettes, refuse aussi de s’encroûter dans un style figé. Simultanément, ce reître rejette la vie moderne, proposée par la nouvelle société industrielle de l’Allemagne post-bismarckienne et wilhelminienne. Il entend demeurer un “cavalier picaresque”, refuse d’abandonner ce statut, plus exaltant qu’une carrière de rond-de-cuir inculte et étriqué. Il influencera Rilke et von Hoffmannsthal. Le destin de poète et de prosateur picaresque de Detlev von Liliencron a un impact sur Moeller van den Bruck (comme il en aura un aussi, sans doute, sur Ernst Jünger): Moeller, comme von Liliencron, voudra toujours aller “au-delà du donné conventionnel bourgeois”, d’où l’idée de “jouvance”, l’utilisation systématique et récurrente du terme “jeune”: est “jeune” qui veut conserver le fond sans les formes mortes, dans la mesure où les fonds ne meurent jamais et les formes meurent toujours. Il y a là sans nul doute un impact du nietzschéisme qui prend son envol: l’homme supérieur (dont le poète selon Baudelaire) se hisse très haut au-dessus des ronrons inlassablement répétés des philistins. Depuis les soirées du “Schwarzer Ferkel” et les rencontres avec von Liliencron, Moeller s’intéresse aux transitions, entendra favoriser les transitions, au détriment des fixités mentales ou idéologiques. Etre actif en ère de transition, aimer cet état de passage, vouloir être perpétuellement en état de mouvance et de quête, est la tâche sociale et nationale du littérateur et du séismographe, figure supérieure aux “encroûtés” de tous acabits, installés dans leurs créneaux étroits, où ils répétent inlassablement les mêmes gestes ou assument les mêmes fonctions formelles.
Richard Dehmel
Deuxième figure importante pour l’itinéraire de Moeller van den Bruck, rencontrée dans les boîtes de la nouvelle bohème berlinoise: Richard Dehmel (1863-1920). Cet homme a de solides racines rurales. Son père était garde forestier et fonctionnaire des eaux et forêts. Contrairement à Moeller, il a bénéficié d’une bonne scolarité, il détient son “Abitur” mais n’a pas été l’élève modèle que souhaitent tous les faux pédagogues abscons: il s’est bagarré physiquement avec le directeur de son collège. Après son adolescence “contestatrice” au “Gymnasium”, il étudie le droit des assurances, adhère à une “Burschenschaft” étudiante puis entame une carrière de juriste auprès d’une compagnie d’assurances. Simultanément, il commence à publier ses poèmes. Il participe au journal avant-gardiste “Pan”, organe du “Jugendstil” (“Art Nouveau”), avec le sculpteur et peintre Franz von Stuck et le concepteur, architecte et styliste belge Henri van de Velde. Cet organe entend promouvoir une esthétique nouvelle, fusion du naturalisme et du symbolisme. Moeller van den Bruck s’y intéresse longuement (entre 1895 et 1900), avant de lui préférer l’architecture ostrogothique de l’Italie de Théodoric (à partir de 1906) et, pour finir, le classicisme prussien (entre 1910 et 1915).
Richard Dehmel est d’abord un féroce naturaliste, qui ose publier en 1896, deux poèmes, jugés pornographiques à l’époque, “Weib und Welt” (“Féminité et monde”) et “Venus Consolatrix”. La réaction ne tarde pas: on lui colle un procès pour “pornographie”. Dans les attendus de sa convocation, on peut lire la phrase suivante: “Atteinte aux bons sentiments religieux et moraux”. Il n’est pas condamné mais censuré: le texte peut paraître mais les termes litigieux doivent être noircis! Dehmel est aussi, avec Stefan Zweig, le traducteur d’Emile Verhaeren, avec qui il était lié d’amitié, avant que la première guerre mondiale ne détruisent, quasi définitivement, les rapports culturels entre la Belgique et l’Allemagne. Pour Zweig, qui connaissait et Dehmel et Verhaeren, les deux poètes étaient les “Dioscures d’une poésie vitaliste d’avenir”. Dehmel voyagera beaucoup, comme Moeller. Lors de ses voyages à travers l’Allemagne, Dehmel rencontre Detlev von Liliencron à Hambourg. Cette rencontre avec le vieux reître des guerres d’unification le poussera sans doute à s’engager comme volontaire de guerre en 1914, à l’âge de 51 ans. Il restera deux ans sous les drapeaux, dans l’infanterie de première ligne et non pas dans une planque à l’arrière du front. En 1918, il lance un appel aux forces allemandes pour qu’elles “tiennent”. Le “pornographe” a donc été un vibrant patriote. En 1920, il meurt suite à une infection attrapée pendant la guerre. L’influence de Dehmel sur ses contemporains est conséquente: Richard Strauss, Hans Pfitzner et Arnold Schönberg mettent ses poèmes en musique. Par ailleurs, il a contribué à l’élimination de la pudibonderie littéraire, omniprésente en Europe avant lui et avant Zola: la sexualité est, pour lui, une force qui va briser le ronron des conventions, sortir l’humanité européenne de la cangue des conventions étriquées, d’un moralisme étroit et étouffant, où la joie n’a plus droit de cité. C’est l’époque d’un pansexualisme/panthéisme littéraire, avec Camille Lemonnier, le “Maréchal des lettres belges”, son contemporain (traduit en allemand chez Diederichs), puis avec David Herbert Lawrence, son élève, quand celui-ci pourfend le puritanisme de l’ère victorienne en Angleterre. Il me paraît utile de préciser ici que Dehmel s’est plus que probablement engagé dans les armées du Kaiser parce que l’effervescence culturelle, libératrice, de l’Allemagne de la Belle Epoque devait être défendue contre les forces de l’Entente qui ne représentaient pas, à ses yeux, une telle beauté esthétique; celle-ci ne pourra jamais se déployer sous les platitudes de régimes libéraux, de factures française ou anglaise.
Max Dauthendey
Troisième figure rencontrée dans les cafés littéraires de Berlin, plutôt oubliée aujourd’hui, elle aussi: Max Dauthendey (1867-1918). Il est le fils d’un photographe et daguerrotypiste. Il a vécu à Saint-Pétersbourg où il représentait les affaires de son père. C’était le premier atelier du genre en Russie tsariste. Le jeune Max est le fils d’un second mariage et le seul héritier d’un père qu’il déteste, parce qu’il lui administrait un peu trop souvent la cravache. Ce conflit père/fils va générer dans l’âme du jeune Max une haine des machines et des laboratoires, lui rappelant trop l’univers paternel. Il fugue deux fois, à treize ans puis à dix-sept ans où il se porte volontaire dans un régiment étranger des armées néerlandaises en partance pour Java. Après cet intermède militaire en Insulinde, il se réconcilie avec son père et travaille à l’atelier. En 1891, il s’effondre sur le plan psychique, séjourne dans un centre spécialisé en neurologie et, avec la bénédiction paternelle, cette fois, s’adonne définitivement à la poésie, sous la double influence de Dehmel et du poète polonais Stanislas Przybyszewski (1868-1927). Il fréquente les cafés littéraires et voyage beaucoup, en Suède, à Paris, en Sicile (comme Jünger plus tard), au Mexique (comme D. H. Lawrence), en Grèce et en Italie. Cette existence vagabonde le plonge finalement dans la misère: il est obligé de vivre aux crochets de toutes sortes de gens. Il décide toutefois, à peine renfloué, de faire un tour du monde. Il embarque à Hambourg le 15 avril 1914 et arrive pour la deuxième fois de sa vie à Java, où il restera quatre ans. Impossible d’aller plus loin: la guerre le force à l’immobilité. Il meurt de la malaria en Indonésie en août 1918. Peu apprécié des autorités nationales-socialistes qui le camperont comme un “exotiste”, son oeuvre disparaîtra petit à petit des mémoires. Sa femme découvre dans son appartement de Dresde 300 aquarelles, qui disparaîtront en fumée lors du bombardement de la ville d’art en février 1945.
Stanislas Przybyszewski
Quatrième figure: Stanislas Przybyszewski, un Polonais qui a étudié en allemand à Thorn en Posnanie. Lui aussi, comme Moeller et Dehmel, a eu une scolarité difficile: il a multiplié les querelles vigoureuses avec ses condisciples et son directeur. Cela ne l’empêche pas d’aller ensuite étudier à l’université la médecine et l’architecture. Il adhère d’abord au socialisme et fonde la revue “Gazeta Robotnicza” (= “La gazette ouvrière”). En deuxièmes noces, il épouse une figure haute en couleurs, Dagny Juel, une aventurière norvégienne, rencontrée lors d’un voyage au pays des fjords. Elle mourra quelques années plus tard en Géorgie où elle avait suivi l’un de ses nombreux amants. Lecteur de Nietzsche, comme beaucoup de ses contemporains, Przybyszewski est amené à réfléchir sur les notions de “Bien” et de “Mal” et, dans la foulée de ces réflexions, à s’intéresser au satanisme. Il fonde en 1898 la revue “Zycie” (= “La Vie”), couplant, Zeitgeist oblige, l’intérêt pour le mal (inséparable du bien et défini selon des critères étrangers à toute morale conventionnelle et répétitive), l’intérêt pour l’oeuvre de Nietzsche et de Strindberg et pour le vitalisme. Avant que ne se déclenche la première grande conflagration inter-européenne de 1914, il devient le chef de file du mouvement artistique, littéraire et culturel des “Jeunes Polonais” (“Mloda Polska”), fondé par Artur Gorski (1870-1959), quand la Pologne était encore incluse dans l’Empire du Tsar. La préoccupation majeure de ce mouvement culturel, partiellement influencé par Maurice Maeterlinck (1862-1949), est de s’interroger sur le rapport entre puissance créatrice et vie réelle. En ce sens, la tâche de l’art est de saisir l’“être originel” des choses et de le présenter sous forme de symboles, que seul une élite ténue est capable de comprendre (même optique chez l’architecte Henri van de Velde). Mloda Polska connaît un certain succès et s’affichera pro-allemand pendant la première guerre mondiale, tout comme le futur chef incontesté de la nouvelle Pologne, le Maréchal Pilsudski.
Après 1918, comme Moeller van den Bruck, Przybyszewski s’engage en politique et travaille à construire le nouvel Etat polonais indépendant, tout en poursuivant sa quête philosophique et son oeuvre littéraire. Pour Przybyszewski, comme par ailleurs pour le Moeller van den Bruck du voyage en Italie (1906), l’art dévoile le fond de l’être: la part ténue d’humanité émancipée des pesanteurs conventionnelles (bourgeoises) atteint peut-être le sublime en découvrant ce “fond” mais cette élévation et cette libération sont simultanément un plongeon dans les recoins les plus sombres de l’âme et dans le tragique (on songe, mutatis mutandi, au thème d’“Orange mécanique” d’Anthony Burgess et du film du même nom de Stanley Kubrik). Les noctambules, les dégénérés et les déraillés, ainsi que la lutte des sexes (Strindberg, Weininger), intéressent notre auteur polonais, qui voulait devenir psychiatre au terme de ses études inachevées de médecine, comme ils avaient intéressé Dostoïevski, observateur avisé du public des bistrots de Saint-Pétersbourg. En 1897, leur sort, leurs errements sont l’objet d’un livre qui connaîtra deux titres “Die Gnosis des Bösen” et “Die Synagoge Satans”.
Figure plus exubérante que Moeller, Przybyszewski fait la jonction entre l’univers artistique d’avant 1914 et la nécessité de reconstruire le politique après 1918. La trajectoire du Polonais a sûrement influencé les attitudes de l’Allemand. Des parallèles peuvent aisément être tracés entre leurs deux itinéraires, en dépit de la dissemblance entre leurs personnalités.
Les cabarets
Parmi tous les clubs et lieux de rencontre de cette incroyable bohème littéraire, il y a bien sûr les cabarets, où les animateurs critiquent à fond les travers de la société wilhelminienne, qui, par son fort tropisme technicien, oublie le “fonds” au profit de “formes” sans épaisseur temporelle ni charnelle. A Berlin, c’est le cabaret “Überbretteln” qui donne le ton. Il s’est délibérément calqué sur son homologue parisien “Le Chat noir” de Montmartre, créé par Rodolphe Salis. Sous la dynamique impulsion d’Ernst von Wolzogen, il s’ouvre le 18 janvier 1901. A Munich, le principal cabaret contestataire est “Die Elf Scharfrichter”, où sévit Frank Wedekind. Celui-ci est maintes fois condamné pour obscénité ou pour lèse-majesté: il a certes critiqué, de la façon la plus caustique qui soit, l’Empereur et le militarisme mais, Wedekind, puis Wolzogen, qui l’épaulera, ne sont pas des figures de l’anti-patriotisme: ils veulent simplement une “autre nation” et surtout une autre armée. Leur but est de multiplier les scandales pour forcer les Allemands à réfléchir, à abandonner toutes postures figées. Dans ce sens, et pour revenir à Moeller van den Bruck, qui vit au beau milieu de cette effervescence, inégalée en Europe jusqu’ici, ces cabarets sont des instances de la “transition”, vers un Reich (ou une Cité) plus “jeune”, neuf, ouvert en permanence et volontairement à toutes les innovations ravigorantes.
L’époque berlinoise de Moeller van den Bruck a duré six ans, de 1896 à 1902. Dans ces cercles, il circule en affichant le style du dandy, sans doute inspiré par Barbey d’Aurevilly. Moeller est quasi toujours vêtu d’un long manteau de cuir, coiffé d’un haut-de-forme gris, l’oeil cerclé par un monocle. Il parle un langage simple mais châtié, sans doute pour compenser son absence de formation post-secondaire. Il est un digne et quiet héritier de Brummell. En 1902, sa femme Hedda est enceinte. La fortune héritée du grand-père van den Bruck est épuisée. Il abandonne sa femme, qui se remariera avec un certain Herbert Eulenberg, appartenant à une famille qui sera radicalement anti-nazie. Elle continuera à traduire des oeuvres littéraires françaises et anglaises jusqu’en 1936, quand le pouvoir en place lui interdira toute publication.
Arrivée à Paris
Moeller van den Bruck quitte donc l’Allemagne pour Paris où il arrive fin 1902. On dit parfois qu’il a cherché à échapper au service militaire: les patriotes, en effet, ne sont pas tous militaristes dans l’Allemagne wilhelminienne et Moeller n’a pas encore vraiment pris conscience de sa germanité, comme nous allons le voir. Les patriotes non militaristes reprochent à l’Empereur Guillaume II de fabriquer un “militarisme de façade”, encadré par des officiers caricaturaux et souvent incompétents, parce qu’il a fallu recruter des cadres dans des strates de la population qui n’ont pas la vraie fibre militaire et compensent cette lacune par un autoritarisme ridicule. C’est ainsi que Wedekind dénonçait le militarisme wilhelminien sur les planches du cabaret “Die Elf Scharfrichter”. Son anti-militarisme n’est donc pas un anti-militarisme de fond mais une volonté de mettre sur pied une armée plus jeune, plus percutante.
Dès son arrivée dans la capitale française, une idée le travaille: il l’a puisée dans sa lecture des oeuvres de Jakob Burckhardt. On ne peut pas être simultanément une grande culture comme l’Allemagne et peser d’un grand poids politique sur l’échiquier planétaire comme la Grande-Bretagne ou la France. Pour Moeller, lecteur de Burckhardt, il y a contradiction entre élévation culturelle et puissance politique: nous avons là l’éclosion d’une thématique récurrente dans les débats germano-allemands sur la germanité et l’essence de l’Allemagne; elle sera analysée, dans une perspective particulièrement originale par Christoph Steding en 1934: celui-ci fustigera l’envahissement de la culture allemande par tout un fatras “impolitique” et esthétisant, importé de Scandinavie, de Hollande et de Suisse. En ce sens, Steding dépasse complètement Moeller van den Bruck, encore lié à cette culture qu’il juge “impolitique”; toutefois, c’est au sein de cette culture impolitique qu’ont baigné ceux qui, après 1918, ont voulu oeuvrer à la restauration “impériale”. Le primat du culturel sur le politique sera également moqué dans un dessin de Paul A. Weber montrant un intellectuel binoclard, malingre et macrocéphale, jetant avec rage des livres de philo contre un tank britannique (de type Mk. I) qui défonce un mur et fait irruption dans sa bibliothèque; le chétif intello “mitteleuropéen” hurle: “Je vous pulvérise tous par la puissance de mes pensées!”.
Récemment, en 2010, Peter Watson, journaliste, historien, attaché à l’Université d’Oxford, campe l’envol vertigineux de la pensée et des sciences allemandes au 19ème siècle comme une “troisième renaissance” et comme une “seconde révolution scientifique”, dans un ouvrage qui connaîtra un formidable succès en Angleterre et aux Etats-Unis, malgré ses 964 pages en petits caractères (cf. “The German Genius – Europe’s Third Renaissance, the Second Scientific Revolution and the Twentieth Century”, Simon & Schuster, London/New York, 2010). Ce gros livre est destiné à bannir la germanophobie stérile qui a frappé, pendant de longues décennies, la pensée occidentale; il réhabilite la “Kultur” que l’on avait méchamment moquée depuis août 1914 mais cherche tout de même, subrepticement, à maintenir la germanité contemporaine dans un espace mental impolitique. La culture germanique depuis le début du 19ème, c’est fantastique, démontre Watson, mais il ne faut pas lui donner une épaisseur et une vigueur politiques: celles-ci ne peuvent être que de dangereux ou navrants dérapages. Watson évoque Moeller van den Bruck (pp. 616-618). L’interrogation de Moeller van den Bruck demeure dont d’actualité: on tente encore et toujours d’appréhender et de définir les contradictions existantes entre la grandeur culturelle de l’Allemagne et son nanisme politique sur l’échiquier européen ou mondial, entre l’absence de profondeur intellectuelle et de musicalité de la France républicaine et du monde anglo-saxon et leur puissance politique sur la planète.
Moeller van den Bruck découvre la pensée russe à Paris
Les quatre années parisiennes de Moeller van den Bruck ne vont pas renforcer la part française de sa pensée, acquise à Berlin lors de ses travaux de traduction réalisés avec le précieux concours d’Hedda Maase. A Paris —où il retrouve Dauthendey et le peintre norvégien Munch à la “Closerie des Lilas”— c’est la part russe de son futur univers mental qu’il va acquérir. Il y rencontre deux soeurs, Lucie et Less Kaerrick, des Allemandes de la Baltique, sujettes du Tsar. Lucie deviendra rapidement sa deuxième épouse. Le couple va s’atteler à la traduction de l’oeuvre entière de Dostoïevski (vingt tomes publiés à Munich chez Piper entre le séjour parisien et le déclenchement de la première guerre mondiale). Pour chaque volume, Moeller rédige une introduction, qui disparaîtra des éditions postérieures à 1950. Ces textes, longtemps peu accessibles, figurent toutefois tous sur la grande toile et sont désormais consultables par tout un chacun, permettant de connaître à fond l’apport russe au futur “Jungkonservativismus”, à la “révolution conservatrice” et à l’“Ostideologie” des cercles russophiles nationaux-bolcheviques et prussiens-conservateurs. Moeller est donc celui qui crée l’engouement pour Dostoïevski en Allemagne. L’immersion profonde dans l’oeuvre du grand écrivain russe, qu’il s’inflige, fait de lui un russophile profond qui transmettra sa fascination personnelle à tout le mouvement conservateur-révolutionnaire, “jungkonservativ”, après 1918.
L’anti-occidentalisme politique et géopolitique, qui transparaît en toute limpidité dans le “Journal d’un écrivain” de Dostoïevski, a eu un impact déterminant dans la formation et la maturation de la pensée de Moeller van den Bruck. En effet, ce “Journal” récapitule, entre bien d’autres choses, l’anthropologie de Dostoïevski et énumère les tares des politiques occidentales. L’anthropologie dostoïevskienne dénonce l’avènement d’un homme se voulant “nouveau”, un homme sans ancêtres qui se promet beaucoup d’enfants: un homme qui a coupé le cordon invisible qui le liait charnellement à sa lignée mais veut se multiplier, se cloner à l’infini dans le futur. Cet homme, auto-épuré de toutes les insuffisances qu’il aurait véhiculées depuis toujours par le biais de son corps créé par Dame Nature, s’enfermera bien vite dans un petit monde clos, dans des “clôtures” et finira par répéter une sorte de catéchisme positiviste, pseudo-scientifique, intellectuel, sec, mécanique, qui n’explique rien. Il ne vivra donc plus de “transitions”, de périodes où l’on innove sans trahir le fonds, puisqu’il n’y aura plus de fonds et qu’il n’y aura plus besoin d’innovations, tout ayant été inventé. Nous avons là l’équivalent russe du dernier homme de Nietzsche, qui affirme ses platitudes “en clignant de l’oeil”. L’avènement de cet “homunculus” est déjà, à l’époque de Dostoïevski, bien perceptible dans le vieil Occident, chez les peuples vieillissants. Et la politique de ces Etats vieillis empêche la vigoureuse vitalité slave (surtout serbe et bulgare) de vider “l’homme malade du Bosphore” (c’est-à-dire l’Empire ottoman) de son lit balkanique, et surtout de la Thrace des Détroits. L’Occident est resté “neutre” dans le conflit suscité par la révolte serbe et bulgare (1877-78), trahissant ainsi la “civilisation chrétienne”, face à son vieil ennemi ottoman, et ne s’est manifesté, intéressé et avide, que pour s’emparer des meilleures dépouilles turques, disponibles parce que les peuples jeunes des Balkans avaient versé leur sang généreux. Phrases qu’on peut considérer comme prémonitoires quand on les lit après les événements de l’ex-Yougoslavie, surtout ceux de 1999...
Rencontre avec Dmitri Merejkovski et Zinaïda Hippius
Moeller refuse donc l’avènement des “homunculi” et apprend, chez Dostoïevski, à respecter l’effervescence des révoltes de peuples encore jeunes, encore capables de sortir des “clôtures” où on cherche à les enfermer. Mais un autre écrivain russe, oublié dans une large mesure mais toujours accessible aujourd’hui, en langue française, grâce aux efforts de l’éditeur suisse “L’Age d’Homme”, aura une influence déterminante sur Moeller van den Bruck: Dmitri Merejkovski. Cet écrivain habitait Paris, lors du séjour de Moeller van den Bruck dans la capitale française, avec son épouse Zinaïda Hippius (ou “Gippius”). L’objectif de Merejkovski était de rénover la pensée orthodoxe tout en maintenant le rôle central de la religion en Russie: rénover la religion ne signifiait pas pour lui l’abolir. Merejkovski était lié au mouvement des “chercheurs de Dieu”, les “Bogoïskateli”. Il éditait une revue, “Novi Pout” (= “La Nouvelle Voie”), où notre auteur envisageait, conjointement au poète Rozanov, de réhabiliter totalement la chair, de réconcilier la chair et l’esprit: idée qui se retrouvait dans l’air du temps avec des auteurs comme Lemonnier ou Dehmel et, plus tard, D. H. Lawrence. Par sa volonté de rénovation religieuse, Merejkovski s’opposait au théologien sourcilleux du Saint-Synode, le “vieillard jaunâtre” Pobedonostsev, intégriste orthodoxe ne tolérant aucune déviance, aussi minime soit-elle, par rapport aux canons qu’il avait énoncés dans le but de voir régner une “paix religieuse” en Russie, une paix hélas figeante, mortifère, sclérosant totalement les élans de la foi. Comme le faisait en Allemagne, dans le sillage de tout un éventail d’auteurs en vue, l’éditeur Eugen Diederichs à Iéna depuis 1896, Merejkovski recherche, dans le monde russe cette fois, de nouvelles formes religieuses. Il rend visite à des sectes, ce qui alarme les services de Pobedonostsev, liés à la police politique tsariste. Son but? Réaliser les prophéties de l’abbé cistercien calabrais Joachim de Flore (1130-1202). Pour cet Italien du 12ème siècle, le “Troisième Testament” allait advenir, inaugurant le règne de l’Esprit Saint dans le monde, après le “Règne du Père” et le “Règne du Fils”. Cette volonté de participer à l’avènement du “Troisième Testament” conduit Merejkovski à énoncer une vision politique, jugée révolutionnaire dans la première décennie du 20ème siècle: Pierre le Grand, fondateur de la dynastie des Romanov, est une figure antéchristique car il a ouvert la Russie aux vices de l’Occident, l’empêchant du même coup d’incarner à terme dans le réel ce “Troisième Testament”, que sa spiritualité innée était à même de réaliser. En émettant cette critique hostile à la dynastie, Merejkovski se pose tout à la fois comme révolutionnaire dans le contexte de 1905 et comme “archi-conservateur” puisqu’il veut un retour à la Russie d’avant les Romanov, une contestation qui, aujourd’hui encore, brandit le drapeau noir-blanc-or des ultra-monarchistes qui considèrent la Russie, même celle de Poutine avec son drapeau bleu-rouge-blanc, comme une aberration occidentalisée. En 1905 donc, la Russie qui s’est alignée sur l’Occident depuis Pierre le Grand subit la punition de Dieu: elle perd la guerre qui l’oppose au Japon. L’armée, qui tire dans le tas contre les protestataires emmenés par le Pope Gapone, est donc l’instrument des forces antéchristiques. Le Tsar étant, dans un tel contexte, lui aussi, une figure avancée par l’Antéchrist. La monarchie des Romanov est posée par Merejkovski comme d’essence non chrétienne et non russe. Mais en cette même année 1905, Merejkovski sort un ouvrage très important, intitulé “L’advenance de Cham” ou, en français, “L’avènement du Roi-Mufle”.
L’advenance de Cham
Cham est le fils de Noé (Noah) qui s’est moqué de son père (de son ancêtre direct); à ce titre, il est une figure négative de la Bible, le symbole d’une humanité déchue en canaille, qui rompt délibérément le pacte intergénérationnel, brise la continuité qu’instaure la filiation. C’est cette figure négative, comparable à l’“homme sans ancêtres” de l’anthropologie dostoïevskienne, qui adviendra dans le futur, qui triomphera. Le Cham de Merejkovski est un cousin, un frère, une figure parallèle à cet “homunculus” de Dostoïevski. Dans “L’advenance de Cham”, Merejkovski développe une vision apocalyptique de l’histoire, articulée en trois volets. Il y a eu un passé déterminé par une église orthodoxe figée, celle de Pobedonostsev qui a abruti les hommes, en les enfermant dans des corsets confessionnels trop étriqués, jugulant les élans créateurs et bousculants de la foi et, eux seuls, peuvent réaliser le “Troisième Testament”. Il y a un présent où se déploie une bureaucratie d’Etat, dévoyant la fonction monarchique, la rendant imparfaite et lui inoculant des miasmes délétères, tout en conservant comme des reliques dévitalisées et le Saint-Synode et la monarchie. Il y aura un futur, où ce bureaucratisme se figera et donnera lieu à la révolte de la lie de la société, qui imposera par la violence la “tyrannie de Cham”, véritable cacocratie, difficile à combattre tant elle aura installé des “clôtures” dans le cerveau même des hommes. Merejkovski se veut alors prophète: quand Cham aura triomphé, l’Eglise sera détruite, la monarchie aussi et l’Etat, système abstrait et contraignant, se sera consolidé, devenant un appareil inamovible, lourd, inébranlable. Et l’âme russe dans ce processus? Merejkovski laisse la question ouverte: constituera-t-elle un môle de résistance? Sera-t-elle noyée dans le processus? Interrogations que Soljénitsyne reprendra à son compte pendant son long exil américain.
Itinéraire de Merejkovski
En 1914, Merejkovski se déclare pacifiste, sans doute ne veut-il ni faire alliance avec les vieilles nations occidentales, ennemies de la Russie au 19ème siècle et qui se servent désormais de la chair à canon russe pour broyer leur concurrent allemand, ni avec une Allemagne wilhelminienne qui, elle aussi, ne correspond plus à aucun critère traditionnel d’excellence politique. En 1917, quand éclate la révolution à Saint-Pétersbourg, Merejkovski se proclame immédiatement anti-communiste: les soulèvements menchevik et bolchevique sont pour lui les signes de l’avènement de Cham. Ils créeront le “narod-zver”, le peuple-Bête, serviteur de la Bête de l’Apocalypse. Ces révolutions, ajoute-t-il, “feront disparaître les visages”, uniformiseront les expressions faciales; le peuple ne sera plus que de la “viande chinoise”, le terme “chinois” désignant dans la littérature russe de 1890 à 1920 l’état de dépersonnalisation totale, auquel on aboutit sous la férule d’une bureaucratie omni-contrôlante, d’un mandarinat à la chinoise et d’un despotisme fonctionnarisé, étranger aux tréfonds de l’âme européenne et du personnalisme inhérent au message chrétien (dans l’aire culturelle germanophone, le processus de “dé-facialisation” de l’humanité sera dénoncé et décrit par Rudolf Kassner, sur base d’éléments préalablement trouvés dans l’oeuvre du “sioniste nietzschéen” Max Nordau). En 1920, Merejkovski appelle les Russes anti-communistes à se joindre à l’armée polonaise pour lutter contre les armées de Trotski et de Boudiénny. Fin juin 1941, il prononce un discours à la radio allemande pour appeler les Russes blancs à libérer leur patrie en compagnie des armées du Reich. Il meurt à Paris avant l’arrivée des armées anglo-saxonnes, échappant ainsi à l’épuration. Son épouse, éplorée, entame, nuit et jour, la rédaction d’une biographie intellectuelle de son mari: elle meurt épuisée en 1946 avant de l’avoir achevée. Ce travail demeure néanmoins la principale source pour connaître l’itinéraire exceptionnel de Merejkovski.
Traduction de l’oeuvre entière de Dostoïevski, fréquentation de Dmitri Merejkovski: voilà l’essentiel des années parisiennes de Moeller van den Bruck. Les années berlinoises (1896-1902) avaient été essentiellement littéraires et artistiques. Moeller recherchait des formes nouvelles, un “art nouveau” (qui n’était pas nécessairement le “Jugendstil”), adapté à l’ère de la production industrielle, exprimant l’effervescence vitale des “villes tentaculaires” (Verhaeren). De même, il s’était profondément intéressé aux formes nouvelles qu’adoptait la littérature de la Belle Epoque. A Paris, il prend conscience de sa germanité, tout en devenant russophile et anti-occidentaliste. Il constate que les Français sont un peuple tendu vers la politique, tandis que les Allemands n’ont pas de projet commun et pensent les matières politiques dans la dispersion la plus complète. Les Français sont tous mobilisés par l’idée de revanche, de récupérer deux provinces constitutives du défunt “Saint-Empire”, qui, depuis Louis XIV, servent de glacis à leurs armées pour contrôler tout le cours du Rhin et tenir ainsi tout l’ensemble territorial germanique à leur merci. Barrès, pourtant frotté de culture germanique et wagnérienne, incarne dans son oeuvre, ses discours et ses injonctions, cette tension vers la ligne bleue des Vosges et vers le Rhin. Rien de pareil en Allemagne, où, sur le plan politique, ne règne que le désordre dans les têtes. Les premiers soubresauts de la crise marocaine (de 1905 à 1911) confirment, eux aussi, la politisation virulente des Français et l’insouciance géopolitique des Allemands.
“Die Deutschen”: huit volumes
Moeller tente de pallier cette lacune dangereuse qu’il repère dans l’esprit allemand de son époque. En plusieurs volumes, il campe des portraits d’Allemands (“Die Deutschen”) qui, à ses yeux, ont donné de la cohérence et de l’épaisseur à la germanité. De chacun de ces portraits se dégage une idée directrice, qu’il convient de ramener à la surface, à une époque de dispersion et de confusion politiques. L’ouvrage “Die Deutschen”, en huit volumes, parait de 1904 à 1910. Il constitue l’entrée progressive de Moeller van den Bruck dans l’univers de la “germanité germanisante” et du nationalisme, qu’il n’avait quasi pas connu auparavant —von Liliencron et Dehmel ayant eu, malgré leur nationalisme diffus, des préoccupations bien différentes de celles de la politique. Ce nationalisme nouveau, esquissé par Moeller en filigrane dans “Die Deutschen”, ne dérive nullement des formes diverses de ce pré-nationalisme officiel et dominant de l’ère wilhelminienne dont les ingrédients majeurs sont, sur fond du pouvoir personnalisé de l’Empereur Guillaume II, la politique navale, le mouvement agrarien radical (souvent particulariste et régional), l’antisémitisme naissant, etc. Le mouvement populaire agrarien oscillait —l’ “oscillation” chère à Jean-Pierre Faye, auteur du gros ouvrage “Les langages totalitaires”— entre le Zentrum catholique, la sociale-démocratie, la gauche plus radicale ou le parti national-libéral d’inspiration bismarckienne. Les expressions diverses du nationalisme (agrarien ou autre) de l’ère wilhelminienne n’avaient pas de lieu fixe et spécifique dans le spectre politique: ils “voyageaient” transversalement, pérégrinaient dans toutes les familles politiques, si bien que chacune d’elles avait son propre “nationalisme”, opposé à celui des autres, sa propre vision d’un futur optimal de la nation.
Les transformations rapides de la société allemande sous les effets de l’industrialisation généralisée entraînent la mobilisation politique de strates autrefois quiètes, dépolitisées, notamment les petits paysans indépendants ou inféodés à de gros propriétaires terriens (en Prusse): ils se rassemblent au sein du “Bund der Landwirte”, qui oscille surtout entre les nationaux-libéraux prussiens et le Zentrum (dans les régions catholiques). Cette mobilisation de l’élément paysan de base, populaire et révolutionnaire, fait éclater le vieux conservatisme et ses structures politiques, traditionnellement centrées autour des vieux pouvoirs réels ou diffus de l’aristocratie terrienne. Le vieux conservatisme, pour survivre politiquement, se mue en d’autres choses que la simple “conservation” d’acquis anciens, que la simple défense des intérêts des grands propriétaires aristocratiques, et fusionne lentement, dans un bouillonnement confus et contradictoire s’étalant sur deux bonnes décennies avant 1914, avec des éléments divers qui donneront, après 1918, les nouvelles et diverses formes de nationalisme plus militant, s’exprimant cette fois sans le moindre détour. Le but est, comme dans d’autres pays, d’obtenir, en bout de course, une harmonie sociale nouvelle et régénérante, au nom de théories organiques et “intégrationnistes”. Cette tendance générale —cette pratique moderne et populaire d’agitation— doit faire appel à la mobilisation des masses, critère démocratique par excellence puisqu’il présuppose la généralisation du suffrage universel. C’est donc ce dernier qui fait éclore le nationalisme de masse, qui, de ce fait, est bien —du moins au départ— de nature démocratique, démocratie ne signifiant a priori ni libéralisme ni permissivité libérale et festiviste.
Bouillonnement socio-politique
Moeller van den Bruck demeure éloigné de cette agitation politique —il critique tous les engagements politiques, dans quelque parti que ce soit et ne ménage pas ses sarcasmes sur les pompes ridicules de l’Empereur, “homme sans goût”— mais n’en est pas moins un homme de cette transition générale et désordonnée, encore peu étudiée dans les innombrables avatars qu’elle a produits pendant les deux décennies qui ont précédé 1914. Ce n’est pas dans les comités revendicateurs de la population rurale —ou de la population anciennement rurale entassée dans les nouveaux quartiers insalubres des villes surpeuplées— que Moeller opère sa transition personnelle mais dans le monde culturel, littéraire: il est bien un “Literatentyp”, un “littérateur”, apparemment éloigné de tout pragmatisme politique. Mais le bouillonnement socio-politique, où tentaient de fusionner éléments de gauche et de droite, cherchait un ensemble de thématiques “intégrantes”: il les trouvera dans les multiples définitions qui ont été données de l’“Allemand”, du “Germain”, entre 1880 et 1914. De l’idée mobilisatrice de communisme primitif, germanique ou celtique, évoquée par Engels à l’exaltation de la fraternité inter-allemande dans le combat contre les deux Napoléon (en 1813 et en 1870), il y a un dénominateur commun: un “germanisme” qui se diffuse dans tout le spectre politique; c’est le germanisme des théoriciens politiques (marxistes compris), des philologues et des poètes qui réclament un retour à des structures sociales jugées plus justes et plus équitables, plus conformes à l’essence d’une germanité, que l’on définit avec exaltation en disant sans cesse qu’elle a été oblitérée, occultée, refoulée. Moeller van den Bruck, avec “Die Deutschen”, va tenter une sorte de retour à ce refoulé, de retrouver des modèles, des pistes, des attitudes intérieures qu’il faudra raviver pour façonner un futur européen radieux et dominé par une culture allemande libertaire et non autoritaire, telle qu’elle se manifestait dans un local comme “Zum schwarzen Ferkel”. Toutefois, Moeller soulignera aussi les échecs à éviter dans l’avenir, ceux des “verirrten Deutschen”, des “Allemands égarés”, pour lesquels il garde tout de même un faible, parce qu’ils sont des littérateurs comme lui, tout en démontrant qu’ils ont failli malgré la beauté poignante de leurs oeuvres, qu’ils n’ont pu surmonter le désordre intrinsèque d’une certaine âme allemande et qu’ils ne pourront donc transmettre à l’homme nouveau des “villes tentaculaires” —détaché de tous liens fécondants— cette unité intérieure, cette force liante qui s’estompent sous les coups de l’économisme, de la bureaucratie et de la modernité industrielle, camouflés gauchement par les pompes impériales (le parallèle avec la sociologie de Georg Simmel et avec certains aspects de la pensée de Max Weber est évident ici).
Le voyage en Italie
Après ses quatre années parisiennes, Moeller quitte la France pour l’Italie, où il rencontre le poète Theodor Däubler et lui trouve un éditeur pour son poème de 30.000 vers, “Nordlicht” qui fascinera Carl Schmitt. Il se lie aussi au sculpteur expressionniste Ernst Barlach, qui s’était inspiré du paysannat russe pour parfaire ses oeuvres. Ce sculpteur sera boycotté plus tard par les nationaux-socialistes, en dépit de thématiques “folcistes” qui n’auraient pas dû les effaroucher. Ces deux rencontres lors du voyage en Italie méritent à elles seules une étude. Bornons-nous, ici, à commenter l’impact de ce voyage sur la pensée politique et métapolitique de Moeller van den Bruck. Dans un ouvrage, qui paraîtra à Munich, rehaussé d’illustrations superbes, et qui aura pour titre “Die italienische Schönheit”, Moeller brosse une histoire de l’art italien depuis les Etrusques jusqu’à la Renaissance. Ce n’est ni l’art de Rome ni les critères de Vitruve qui emballent Moeller lors de son séjour en Italie mais l’architecture spécifique de la Ravenne de Théodoric, le roi ostrogoth. Cette architecture, assez “dorienne” dans ses aspects extérieurs, est, pour Moeller, l’“expression vitale d’un peuple”, le “reflet d’un espace particulier”, soit les deux piliers —la populité et la spatialité— sur lesquels doit reposer un art réussi. Plus tard, en réhabilitant le classicisme prussien, Moeller renouera avec un certain art romain, vitruvien dans l’interprétation très classique des Gilly, Schinckel, etc. En 1908, il retourne en Allemagne et se présente au “conseil de révision” pour se faire incorporer dans l’armée. Il effectuera un bref service à Küstrin mais sera rapidement exempté, vu sa santé fragile. Il se fixe ensuite à Berlin mais multiplie les voyages jusqu’en 1914: Londres, Paris, l’Italie (dont plusieurs mois en Sicile), Vienne, les Pays Baltes, la Russie et la Finlande. En 1914, avant que n’éclate la guerre, il est au Danemark et en Suède.
Style prussien et “Deutscher Werkbund”
Quand la Grande Guerre se déclenche, Moeller est en train de rédiger “Der preussische Stil”, retour à l’architecture des Gilly, Schinckel et von Klenze mais aussi réflexions générales sur la germanité qui, pour trouver cette unité intérieure recherchée tout au long des huit volumes de “Die Deutschen”, doit opérer un retour à l’austérité dorienne du classicisme prussien et abandonner certaines fantaisies ou ornements prisés lors des décennies précédentes: même constat chez l’ensemble des architectes, qui abandonnent la luxuriance du Jugendstil pour une “Sachlichkeit” plus sobre. La réhabilitation du “style prussien” implique aussi l’abandon de ses anciennes postures de dandy, une exaltation des vertus familiales prussiennes, de la sobriété, de la “Kargheit”, etc. Le livre “Der preussische Stil” sera achevé pendant la guerre, sous l’uniforme. Il s’inscrit dans la volonté de promouvoir des formes nouvelles, tout en gardant un certain style et un certain classicisme, bref de lancer l’idée d’un modernisme anti-moderne (Volker Weiss). Moeller s’intéresse dès lors aux travaux d’architecture et d’urbanisme de Peter Behrens (1868-1940; photo), un homme de sa génération. Behrens est le précurseur de la “sachliche Architektur”, de l’architecture objective, réaliste. Il est aussi, pour une large part, le père du “design” moderne. Pas un objet contemporain n’échappe à son influence. Behrens donne un style épuré et sobre aux objets nouveaux, exigeant des formes nouvelles, qui meublent désormais les habitations dans les sociétés hautement industrialisées, y compris celles des foyers les plus modestes, auparavant sourds à toute esthétique (cf. H. van de Velde).
Le style préconisé par Behrens, pour les objets nouveaux, n’est pas chargé, floral ou végétal, comme le voulait l’Art Nouveau (Jugendstil) mais très dénué d’ornements, un peu à la manière futuriste, le groupe futuriste italien autour de Marinetti ayant appelé, avec virulence, à rejeter toutes les ornementations inutiles prisées par l’académisme dominant. On trouve encore dans nos magasins, aujourd’hui, bon nombre de théières, de couverts, de téléphones, d’horloges ou de pièces de vaisselle qui proviennent en droite ligne des ateliers de Behrens, avec très peu de changements. Le mouvement d’art et de design, lancé par Behrens, s’organise au sein du “Deutscher Werkbund”, où oeuvrent également des célébrités comme Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe ou Le Corbusier. Le “Werkbund” travaille pour l’AEG (“Allgemeine Elektrische Gesellschaft”), qui produit des lampes, des appareils électro-ménagers à diffuser dans un public de plus en plus vaste. Le “Werkbund” préconise par ailleurs une architecture monumentale, dont les fleurons seront des usines, des écoles, des ministères et l’ambassade allemande à Saint-Pétersbourg. Pour Moeller, Behrens trouve le style qui convient à l’époque: le lien est encore évident avec le classicisme prussien, il n’y a pas rupture traumatisante, mais le résultat final est “autre chose”, ce n’est pas une répétition pure et simple.
Henry van de Velde
Après 1918, la recherche d’un style bien particulier, d’une architecture majestueuse, monumentale et prestigieuse n’est, hélas, plus de mise: il faut bâtir moins cher et plus vite, l’art spécifique du “Deutscher Werkbund” glisse rapidement vers la “Neue Sachlichkeit”, où excelleront des architectes comme Gropius et Mies van der Rohe. L’évolution de l’architecture allemande est typique de cette époque qui part de l’Art Nouveau (Jugendstil), avec ses ornements et ses courbes, pour évoluer vers un abandon progressif de ces ornements et se rapprocher de l’austérité vitruvienne du classicisme prussien du début du 19ème, sans toutefois aller aussi loin que la “neue Sachlichkeit” des années 20 dans le rejet de toute ornementation. L’architecte Paul Schulze-Naumburg , qui adhèrera au national-socialisme, polémique contre la “Neue Sachlichkeit” en l’accusant de verser dans la “Formlosigkeit”, dans l’absence de toute forme. Dans cette effervescence, on retrouve l’oeuvre de Henry van de Velde (1863-1957), partie, elle aussi, du pré-raphaëlisme anglais, des idées de John Ruskin (dont Hedda Maase avait traduit les livres), de William Morris, etc. Fortement influencé par sa lecture de Nietzsche, van de Velde tente de traduire la volonté esthétisante et rénovatrice du penseur de Sils-Maria en participant aux travaux du Werkbund, notamment dans les ateliers de “design” et dans la “colonie des artistes” de Darmstadt, avant 1914. Revenu en Belgique peu avant la seconde guerre mondiale, il accepte de travailler au sein d’une commission pour la restauration du patrimoine architectural bruxellois pendant les années de la deuxième occupation allemande: il tombe en disgrâce suite aux cabales de collègues jaloux et médiocres qui saccageront la ville dans les années 50 et 60, tant et si bien qu’on parlera de “bruxellisation” dans le jargon des architectes pour désigner la destruction inconsidérée d’un patrimoine urbanistique. Le procès concocté contre lui n’aboutit à rien, mais van de Velde, meurtri et furieux, quitte le pays définitivement, se retire en Suisse où il meurt en 1957.
Les figures de Peter Behrens, Henry van de Velde et Paul Schulze-Naumburg méritent d’être évoquées, et situées dans le contexte de leur époque, pour montrer que les thèmes de l’architecture, de l’urbanisme et des formes du “design” participent, chez Moeller van den Bruck, à l’élaboration du “style” jungkonservativ qu’il contribuera à forger. Ce style n’est pas marginal, n’est pas l’invention de quelques individus isolés ou de petites phalanges virulentes et réduites mais constitue bel et bien une synthèse concise des innovations les plus insignes des trois premières décennies du 20ème siècle. La quête de Moeller van den Bruck est une quête de formes et de style, de forme pour un peuple enfin devenu conscient de sa force politique potentielle, équivalente en grandeur à ses capacités culturelles, pour un peuple devenu enfin capable de bâtir un “Troisième Règne” de l’esprit, au sens où l’entendait le filon philosophique, théologique et téléologique partant de Joachim de Flore pour aboutir à Dmitri Merejkovski.
La guerre au “Département de propagande”
Pendant que Moeller rédigeait la première partie de “Der preussische Stil”, l’Allemagne et l’Europe s’enfoncent dans la guerre immobile des tranchées. Le réserviste Moeller est mobilisé dans le “Landsturm”, à 38 ans, vu sa santé fragile, la réserve n’accueillant les hommes pleinement valides qu’à partir de 39 ans. Il est affecté au Ministère de la guerre, dans le département de la propagande et de l’information, l’“Auslandsabteilung”, ou le “MAA” (“Militärische Stelle des Auswärtigen Amtes”), tous deux chargés de contrer la propagande alliée. En ce domaine, les Allemands se débrouillent d’ailleurs très mal: ils publient à l’intention des neutres, Néerlandais, Suisses et Scandinaves, de gros pavés bien charpentés sur le plan intellectuel mais illisibles pour le commun des mortels: à l’ère des masses, cela s’appelle tout bonnement rater le coche. Cette propagande n’a donc aucun impact. Dans ce département, Moeller rencontre Max Hildebert Boehm, Waldemar Bonsels, Herbert Eulenberg (le nouveau mari de sa première femme), Hans Grimm, Friedrich Gundolf et Börries von Münchhausen. Tous ces hommes constitueront la base active qui militera après guerre, dans une Allemagne vaincue, celle de la République de Weimar, pour restaurer l’autonomie du politique et la souveraineté du pays.
Dans le double cadre de l’“Auslandsabteilung” et du MAA, Moeller rédige “Belgier und Balten” (= “Des Belges et des Baltes”), un appel aux habitants de Belgique et des Pays Baltes à se joindre à une vaste communauté économique et culturelle, dont le centre géographique serait l’Allemagne. Il amorce aussi la rédaction de “Das Recht der jungen Völker” (= “Le droit des peuples jeunes”), qui ne paraîtra qu’après l’armistice de novembre 1918. Le terme “jeune” désigne ici la force vitale, dont bénéficient encore ces peuples, et la “proximité du chaos”, un chaos originel encore récent dans leur histoire, un chaos bouillonnant qui sous-tend leur identité et duquel ils puisent une énergie dont ne disposent plus les peuples vieillis et éloignés de ce chaos. Pour Moeller, ces peuples jeunes sont les Japonais, les Allemands (à condition qu’ils soient “prussianisés”), les Russes, les Italiens, les Bulgares, les Finlandais et les Américains. “Das Recht der jungen Völker” se voulait le pendant allemand des Quatorze Points du président américain Woodrow Wilson. Le programme de ce dernier est arrivé avant la réponse de Moeller qui, du coup, n’apparait que comme une réponse tardive, et même tard-venue, aux Quatorze Points. Moeller prend Wilson au mot: ce dernier prétend n’avoir rien contre l’Allemagne, rien contre aucun peuple en tant que peuple, n’énoncer qu’un programme de paix durable mais tolère —contradiction!— la mutilation du territoire allemand (et de la partie germanique de l’empire austro-hongrois). Les Allemands d’Alsace, de Lorraine thioise, des Sudètes et de l’Egerland, de la Haute-Silésie et des cantons d’Eupen-Malmédy n’ont plus le droit, pourtant préconisé par Wilson, de vivre dans un Etat ne comprenant que des citoyens de même nationalité qu’eux, et doivent accepter une existence aléatoire de minoritaires au sein d’Etats quantitativement tchèque, français, polonais ou belge. Ensuite, Wilson, champion des “droits de l’homme” ante litteram, ne souffle mot sur le blocus que la marine britannique impose à l’Allemagne, provoquant la mort de près d’un million d’enfants dans les deux ou trois années qui ont suivi la guerre.
La transition “jungkonservative”
L’engagement politique “jeune-conservateur” est donc la continuation du travail patriotique et nationaliste amorcé pendant la guerre, en service commandé. Pour Moeller, cette donne nouvelle constitue une rupture avec le monde purement littéraire qu’il avait fréquenté jusqu’alors. Cependant l’attitude “jungkonservative”, dans ce qu’elle a de spécifique, dans ce qu’elle a de “jeune”, donc de dynamique et de vectrice de “transition”, est incompréhensible si l’on ne prend pas acte des étapes antérieures de son itinéraire de “littérateur” et de l’ambiance prospective de ces bohèmes littéraires berlinoises, munichoises ou parisiennes d’avant 1914. Le “Jungkonservativismus” politisé est un avatar épuré de la grande volonté de transformation qui a animé la Belle Epoque. Et cette grande volonté de transformation n’était nullement “autoritaire” (au sens où l’Ecole de Francfort entend ce terme depuis 1945), passéiste ou anti-démocratique. Ces accusations récurrentes, véritables ritournelles de la pensée dominante, ne proviennent pas d’une analyse factuelle de la situation mais découlent en droite ligne des “vérités de propagande” façonnées dans les officines françaises, anglaises ou américaines pendant la première guerre mondiale. L’Allemagne wilhelminienne, au contraire, était plus socialiste et plus avant-gardiste que les puissances occidentales, qui prétendent encore et toujours incarner seules la “démocratie” (depuis le paléolithique supérieur!). Les mésaventures judiciaires du cabaretier Wedekind, et la mansuétude relative des tribunaux chargés de le juger, pour crime de lèse-majesté ou pour offense aux bonnes moeurs, indique un degré de tolérance bien plus élevé que celui qui règnait aileurs en Europe à l’époque et que celui que nous connaissons aujourd’hui, où la liberté d’opinion est de plus en plus bafouée. Mieux, le sort des homosexuels, qui préoccupe tant certains de nos contemporains, était enviable dans l’Allemagne wilhelminienne, qui, contrairement à la plupart des “démocraties” occidentales, ne pratiquait, à leur égard, aucune forme d’intolérance. Cet état de choses explique notamment le tropisme germanophile d’un écrivain flamand (et homosexuel) de langue française, Georges Eeckoud, par ailleurs pourfendeur de la mentalité marchande d’Anvers, baptisée la “nouvelle Carthage”, pour les besoins de la polémique.
“Montagstische”, “Der Ring”
Les anciens du MAA et des autres bureaux de (mauvaise) contre-propagande allemande se réunissent, après novembre 1918, lors des “Montagstische”, des “tables du lundi”, rencontres informelles qui se systématiseront au sein d’un groupe nommé “Der Ring” (= “L’Anneau”), où l’on remarquait surtout la présence de Hans Grimm, futur auteur d’un livre à grand succès “Volk ohne Raum” (“Peuple sans espace”). Les initiatives post bellum vont se multiplier. Elles ont connu un précédent politique, la “Vereinigung für nationale und soziale Solidarität” (= “Association pour la solidarité nationale et sociale”), émanation des syndicats solidaristes chrétiens (surtout catholiques) plus ou moins inféodés au Zentrum. Le chef de file de ces “Solidarier” (“solidaristes”) est le Baron Heinrich von Gleichen-Russwurm (1882-1959), personnalité assez modérée à cette époque-là, qui souhaitait d’abord un modus vivendi avec les puissances occidentales, désir qui n’a pu se concrétiser, vu le blocus des ports de la Mer du Nord qu’ont imposé les Britanniques, pendant de longs mois après la cessation des hostilités. Heinrich von Gleichen-Russwurm réunit, au sein du “Ring”, une vingtaine de membres, tous éminents et désireux de sauver l’Allemagne du naufrage consécutif de la défaite militaire. Parmi eux, l’Alsacien Eduard Stadtler et le géopolitologue Adolf Grabowski (qui restera actif longtemps, même après la seconde guerre mondiale).
Eduard Stadtler
L’objectif est de penser un “nouvel Etat”, une “nouvelle économie” et une “nouvelle communauté des peuples”, où le terme “nouveau” est équivalent à celui de “jeune”, proposé par Moeller. Ce cercle attire les révolutionnaires anti-bolchéviques, anti-libéraux et anti-parlementaires. D’autres associations proposent les mêmes buts mais c’est incontestablement le “Ring” qui exerce la plus grande influence sur l’opinion publique à ce moment précis. Sous l’impulsion d’Eduard Stadtler (1886-1945, disparu en captivité en Russie), se crée, en marge du “Ring”, la “Ligue anti-bolchevique”. Natif de Hagenau en Alsace, Eduard Stadtler est, au départ, un militant catholique du Zentrum. Il est, comme beaucoup d’Alsaciens, de double culture, française et allemande. Il est détenteur du “bac” français mais combat, pendant la Grande Guerre, dans les rangs de l’armée allemande, en tant que citoyen allemand. En 1917 et en 1918, il est prisonnier en Russie. Après la paix séparée de Brest-Litovsk, signée entre les Bolcheviques et le gouvernement impérial allemand, Stadtler dirige le bureau de presse du consulat allemand de Moscou. Il assiste à la bolchévisation de la Russie, expérience qui le conduit à honnir l’idéologie léniniste et ses pratiques. Revenu en Allemagne, il fonde la “Ligue anti-bolchevique” en décembre 1918 puis rompt début 1919 avec le Zentrum de Matthias Erzberger, qui sera assassiné plus tard par les Corps Francs. Il est un de ceux qui ordonnent l’exécution des deux leaders communistes allemands, Rosa Luxemburg et Karl Liebknecht. La “Ligue” est financée par des industriels et la Banque Mankiewitz et reçoit l’appui du très influent diplomate Karl Helfferich (1872-1924), l’ennemi intime de Walther Rathenau. Stadtler est un orateur flamboyant, usant d’une langue suggestive et colorée, idéale pour véhiculer un discours démagogique. Entre 1919 et 1925, il participe activement au journal hebdomadaire des “Jungkonservativen”, “Das Gewissen” (= “Conscience”), auquel Moeller s’identifiera. Après 1925, la République de Weimar se consolide: le danger des extrémismes virulents s’estompe et la “Ligue anti-bolchevique” n’a plus vraiment raison d’être. Stadtler en tirera le bilan: “Les chefs [de cette ligue] n’étaient pas vraiment animés par un “daimon” et n’ont pu hisser de force l’esprit populaire, le tirer des torpeurs consécutives à l’effondrement allemand, pour l’amener au niveau incandescant de leurs propres volontés”. Stadtler rejoindra plus tard le Stahlhelm, fondera l’association “Langemarck” (structure paramilitaire destinée aux étudiants), sera membre de la DNVP conservatrice puis de la NSDAP; il participera aux activités de la maison d’édition Ullstein, après le départ de Koestler, quand celle-ci s’alignera sur le “renouveau national” mais Stadtler se heurtera, dans ce cadre, à la personnalité de Joseph Goebbels. Stadtler reste chrétien, fidèle à son engagement premier dans le Zentrum, fidèle aussi à son ancrage semi-rural alsacien, mais son christianisme est social-darwiniste, mâtiné par une lecture conjointe de Houston Stewart Chamberlain et des ouvrages du géopolitologue suédois Rudolf Kjellén, figure de proue des cercles germanophiles à Stockholm, et créateur de la géopolitique proprement dite, dont s’inspirera Karl Haushofer.
Du “Jungkonservativismus” au national-bolchevisme
Après le ressac de la “Ligue anti-bolchevique”, les “Jungkonservativen” se réunissent au sein du “Juni-Klub”. Dans le paysage politique allemand, le Zentrum est devenu un parti modéré (c’est pour cela que Stadtler le quitte en dénonçant le “modérantisme” délétère d’Erzberger). La gauche libérale et nationale de Naumann, théoricien de l’union économique “mitteleuropéenne” pendant la première guerre mondiale, ne se profile pas comme anti-parlementaire. Naumann veut des partis disciplinés sinon on aboutit, écrit-il à ses amis, à l’anarchie totale. Les “Jungkonservativen”, une fois le danger intérieur bolchevique éliminé en Allemagne, optent pour un “national-bolchevisme”, surtout après l’occupation de la Ruhr par les Français et l’exécution d’Albert-Leo Schlageter, coupable d’avoir commis des attentats en zone occupée. Le martyr de Schlageter provoque l’union nationale en Allemagne: nationalistes et communistes (avec Karl Radek) exaltent le sacrifice de l’officier et fustigent la “France criminelle”. Les “Jungkonservativen” glissent donc vers le “national-bolchevisme” et se rassemblent dans le cadre du “Juni-Klub”. Ce club est composé d’anciens “Solidarier” et de militants de diverses associations patriotiques et étudiantes, de fédérations d’anciens combattants. Max Hildebert Boehm y amène des Allemands des Pays Baltes, qui seront fort nombreux et y joueront un rôle de premier plan. Arthur Moeller van den Bruck y amène, lui, ses amis Conrad Ansorge, Franz Evers, Paul Fechter, Rudolf Pechel et Carl Ludwig Schleich. L’organisateur principal du club est von Gleichen. Le nom de l’association, “Juin”, vient du mois de juin 1919, quand le Traité de Versailles est signé. A partir de ce mois de juin 1919, les membres du club jurent de lutter contre tous les effets du Traité, du “Diktat”. Ils s’opposent au “November-Klub” des socialistes, qui se réfèrent au mois de la capitulation et de la proclamation de la république en 1918. Ce “Juni-Klub” n’a jamais publié de statuts ou énoncé des principes. Il a toujours gardé un caractère informel. Ses activités se bornaient, dans un premier temps, à des conversations à bâtons rompus.
Dictionnaire politique et revue “Gewissen”
La première initiative du “Juni-Klub” a été de publier un dictionnaire politique, tiré à 125.000 exemplaires. Les membres du club participent à la rédaction de l’hebdomadaire “Gewissen”, fondé le 9 avril 1919 par Werner Wirth, ancien officier combattant. Après la prise en charge de l’hebdomadaire par Eduard Stadtler, le tirage est de 30.000 exemplaires déclarés en 1922 (on pense qu’en réalité, il n’atteignait que les 4000 exemplaires vendus). La promotion de cette publication était assurée par la “Société des Amis de Gewissen”. Moeller van den Bruck, homme silencieux, piètre orateur et timide, prend sur ses épaules tout le travail de rédaction; la tâche est écrasante. Une équipe d’orateurs circule dans les cercles d’amis; parmi eux: Max Hildebert Boehm, le scientifique Albert Dietrich, le syndicaliste Emil Kloth, Hans Roeseler, Joachim Tiburtius et l’ancien communiste devenu membre du “Juni-Klub”, Fritz Weth. Le public qui assiste à ces conférences est vaste et élitaire mais provient de tous les horizons politiques de l’Allemagne de la défaite, socialistes compris. Un tel aréopage serait impossible à reconstituer aujourd’hui, vu l’intolérance instaurée partout par le “politiquement correct”. Reste une stratégie possible dans le contexte actuel: juxtaposer des textes venus d’horizons divers pour mettre en exergue les points communs entre personnalités appartenant à des groupes politiques différents et antagonistes mais dont les réflexions constituent toutes des critiques de fond du nouveau système globalitaire et du nouvel agencement du monde et de l’Europe, voulu par les Bush (père et fils), par Clinton et Obama, comme le nouvel ordre de la victoire avait été voulu en 1919 par Wilson et Clémenceau.
Diverses initiatives
Les années 1919 et 1920 ont été les plus fécondes pour le “Juni-Klub” et pour “Gewissen”. Dans la foulée de leurs activités, se crée ensuite le “Politisches Kolleg” (= “Collège politique”), dont le modèle était français, celui de l’“Ecole libre des sciences politiques”, fondé à Paris en 1872, après la défaite de 1871. Le but de cette “Ecole libre” était de faire émerger une élite revencharde pour la France. En 1919, les Allemands, vaincus à leur tour, recourent au même procédé. L’idée vient de Stadtler, qui connait bien la France, et de son professeur, le catholique, issu du Zentrum comme lui, Martin Spahn (1875-1945), fils d’une des figures fondatrices du Zentrum, Peter Spahn (1846-1925). Le national-libéral Friedrich Naumann fonde de son côté la “Staatsbürgerschule” (= “L’école citoyenne”), tandis qu’Ernst Jäkh, qui fut également propagandiste pendant la première guerre mondiale et spécialisé dans les relations germano-turques, crée la “Hochschule für Politik” (= “Haute Ecole de Politique”). Les passerelles sont nombreuses entre toutes ces initiatives. Le 1 novembre 1920 nait, sous la présidence de Martin Spahn, le “Politisches Kolleg für nationalpolitische Schulungs- und Bildungsarbeit” (= “Collège politique pour l’écolage et la formation nationales-politiques”). Les secrétaires sont von Gleichen et von Broecker. Mais c’est Moeller van den Bruck, une fois de plus, qui est la cheville ouvrière de l’ensemble: il garde la cohérence du “Juni-Klub”, du “Politisches Kolleg” et du “Ring”, qui tous prennent de l’extension et nécessitent un financement accru. Ecrasé sous le travail, Moeller s’effondre, tombe gravement malade. Du coup, les liens entre membres et entre structures similaires se disloquent. En décembre 1924, le “Juni-Klub” se transforme en “Herren-Klub”, glissement que Moeller juge “réactionnaire”, contraire aux principes fondamentaux du “Jungkonservativismus” et à la stratégie “nationale-bolchevique”. La maladie, la déception, l’épuisement physique et moral, la mort de son fils Wolfgang souffrant de tuberculose (il était né de son premier mariage avec Hedda Maase) sont autant de coups durs qui l’amènent à se suicider le 30 mai 1925.
Immédiatement après la mort de Moeller van den Bruck, Max Hildebert Boehm quitte le “Politisches Kolleg” et fonde une organisation nouvelle, l’“Institut für Grenz- und Auslandsstudien” (= “Institut pour les études des frontières et de l’étranger”). L’ensemble des structures supervisées par Moeller van den Bruck se disloque. Une partie des membres se tourne vers la “Hochschule für Politik” d’Ernst Jäkh. Le corporatiste moderne issu du Zentrum Heinz Brauweiler et l’Alsacien Eduard Stadtler rejoignent tous deux le Stahlhelm, puis la DNVP.
“Altkonservativismus” et “Jungkonservativismus”
Quelles ont été les idées de cette nébuleuse patronnée par Moeller van den Bruck? Comment se sont articulées ces idées? Quelle est la teneur du “Jungkonservativismus”, parfois appelé “nouvelle droite” ou “jeune droite”? Sa qualité de “jung”, de “jeune”, le distingue forcément du “Konservativismus” tout court, ou de l’“Altkonservativismus” (le “vieux-conservatisme”). On peut définir le “Konservativismus” comme l’ensemble des réactions politiques à la révolution française et/ou aux effets de cette révolution au cours du 19ème siècle. Comme l’a un jour souligné dans les colonnes de “Criticon” et de “Vouloir” le polémologue suisse Jean-Jacques Langendorf, la contre-révolution est un véritable kaléidoscope d’idées diverses, hétérogènes. On y trouve évidemment la critique de l’Anglais Edmund Burke qui déplore la rupture de continuité provoquée par la révolution mais, comme le signalait naguère, à son propos, le Prof. Claude Polin à Izegem lors d’un colloque de la “nouvelle droite” flamande, si les forces qui ont provoqué la rupture parviennent à assurer une continuité nouvelle, cette continuité, parce qu’elle est continuité, mérite à son tour d’être conservée, puisqu’elle devient “légitime”, tout simplement parce qu’elle a duré quelques décennies. Pour Polin, cette sacralisation d’idées révolutionnaires, tout simplement parce qu’elles ont duré, prouve qu’il n’y a pas véritablement de “conservatisme” britannique et burkéen: nous avons alors affaire à une justification du “révolutionarisme institutionalisé”, ce que confirme le folklore de la république française actuelle et l’usage immodéré des termes “République”, “républicain”, “idéal républicain”, “valeurs républicaines”, etc. que l’on juxtapose à ceux de “laïcisme” et de “laïcité”. Cet usage est inexportable et ne permet pas de forger une “Leitkultur” acceptée de tous, surtout de la majorité autochtone, tandis que les communautés immigrées musulmanes rejettent également ce fatras laïciste, dégoûtées par l’écoeurante platitude de ce discours, partagé par toutes les gauches, mêmes les plus intéressantes, comme celles de Régis Debray ou Elizabeth Lévy (cf. le mensuel “Le Causeur”).
Dans le kaléidoscope de la contre-révolution, il y a ensuite l’organicisme, propre du romantisme post-révolutionnaire, incarné notamment par Madame de Staël, et étudié à fond par le philosophe strasbourgeois Georges Gusdorf. Cet organicisme génère parfois un néo-médiévisme, comme celui chanté par le poète Novalis. Qui dit médiévisme, dit retour du religieux et de l’irrationnel de la foi, force liante, au contraire du “laïcisme”, vociféré par le “révolutionarisme institutionalisé”. Cette revalorisation de l’irrationnel n’est pas nécessairement absolue ou hystérique: cela veut parfois tout simplement dire qu’on ne considère pas le rationalisme comme une panacée capable de résoudre tous les problèmes. Ensuite, le vieux-conservatisme rejette l’idée d’un droit naturel mais non pas celle d’un ordre naturel, dit “chrétien” mais qui dérive en fait de l’aristotélisme antique, via l’interprétation médiévale de Thomas d’Aquin. Ce mélange de thomisme, de médiévisme et de romantisme connaîtra un certain succès dans les provinces catholiques d’Allemagne et dans la zone dite “baroque” de la Flandre à l’Italie du Nord et à la Croatie.
“Fluidifier les concepts”
Tels sont donc les ingrédients divers de la “vieille droite” allemande, de l’Altkonservativismus. Pour Moeller, ces ingrédients ne doivent pas être rejetés a priori: il faut plutôt les présenter sous d’autres habits, en les dynamisant par la volonté (soit par l’idée post-nietzschéenne d’“assaut” chez Heidegger, formulée bien après après le suicide de Moeller, qui la devinait, chez qui elle était en germe). L’objectif philosophique fondamental, diffus, des courants de pensée, dans lesquels Moeller a été plongé depuis son arrivée à Berlin, à l’âge de vingt ans, est, comme le dira Heidegger plus tard, de “fluidifier les concepts”, de leur ôter toute rigidité inopérante. Le propre d’un “jeune-conservatisme” est donc, en fait, de briser les fixismes et de rendre un tonus offensif à des concepts que le 19ème siècle avait contribué à rendre désespérément statiques. Cette volonté de “fluidifier” les concepts ne se retrouvait pas qu’à droite de l’échiquier politique, à gauche aussi, on tentait de redynamiser un marxisme ou un socialisme que les notables et les oligarques partisans avaient rigidifié (cf. les critiques pertinentes de Roberto Michels). La politique est un espace de perpétuelles transitions: les vrais hommes politiques sont donc ceux qui parviennent à demeurer eux-mêmes, fidèles à des traditions —à une “Leitkultur” dirait-on aujourd’hui— mais sans figer ces traditions, en les maintenant en état de dynamisme constant, bref, répétons-le une fois de plus, l’état de dynamisme d’une anti-modernité moderniste.
De même, le regard que doivent poser les hommes politiques “jeunes-conservateurs” sur les peuples voisins de l’Allemagne est un regard captateur de dynamiques et non un regard atone, habitué à ne voir qu’un éventail figé de données et à le croire immuable. Pour Moeller, l’homme politique “jeune-conservateur” cherche en permanence à comprendre l’existence, les dimensions existentielles (et pas seulement les “essences” réelles ou imaginaires) des peuples et des nations ainsi que des personnalités marquantes de leur histoire politique, tout cela au départ d’un donné historique précis (localisé dans un espace donné qui n’est pas l’espace voisin ou l’espace éloigné ou l’espace du globe tout entier, comme le souhaiteraient les cosmopolites).
L’ordre naturel n’est pas immuable
Le “Jungkonservativismus” se démarque de l’“Altkonservativismus” en ne considérant pas l’ordre naturel comme immuable. Une telle vision de l’ordre naturel est jugée fausse par les “jeunes-conservateurs”, qui n’entendent pas retenir son caractère “immuable”, l’observation des faits de monde dans la longue période de transition que furent les années 1880-1920 n’autorisant pas, bien entendu, un tel postulat. De plus, la physique de la deuxième révolution thermodynamique ne retient plus la notion d’un donné physique, géographique, naturel, biologique stable. Au contraire, toutes les réalités, fussent-elles en apparence stables dans la durée, sont désormais considérées comme mouvantes. L’attitude qui consiste à se lamenter face à la fluidification des concepts, à déplorer la disparition de stabilités qu’on avait cru immuables, est inepte. Vouloir arrêter ou ralentir le flux du réel est donc une position inféconde pour les “jeunes-conservateurs”. Arthur Moeller van den Bruck exprime le sentiment de son “Jungkonservativismus” en écrivant que “les conservateurs ont voulu arrêter la révolution, alors qu’ils auraient dû en prendre la tête”. Il ne s’agit plus de construire des barrages, d’évoquer un passé révolu, de faire du médiévisme religieux ou, pour s’exprimer comme les futuristes dans la ligne de Marinetti, de se complaire dans le “passatisme”, dans l’académisme répétitif. Moeller ajoute que le piétisme des protestants prussiens est également une posture devenue intenable.
Troisième Voie
Vers 1870, les premiers éléments de nationalisme s’infiltrent dans la pensée conservatrice, alors que les vieux-conservateurs considéraient que toute forme de nationalisme était “révolutionnaire”, située à gauche de l’échiquier politique. Le nationalisme était effectivement une force de gauche en 1848, organisé qu’il était non en partis mais en associations culturelles ou, surtout, en ligues de gymnastique, en souvenir de “Turnvater Jahn”, l’hébertiste allemand anti-napoléonien. Les “vieux-conservateurs” considéraient ce nationalisme virulent et quarante-huitard comme trop dynamique et trop “bousculant” face aux institutions établies, qui n’avaient évidemment pas prévu les bouleversements de la société européenne dans la seconde moitié du 19ème siècle. Arthur Moeller van den Bruck propose une “troisième voie”: la répétition des ordres metternichien, bismarckien et wilhelminien est devenue impossible. Les “Jungkonservativen” doivent dès lors adopter une position qui rejette tout à la fois la réaction, car elle conduit à l’immobilisme, et la révolution, parce qu’elle mène au chaos (au “Règne de Cham” selon Merejkovski). Cette “troisième voie” (“Dritter Weg”) rejette le libéralisme en tant que réduction des activités politiques à la seule économie et en tant que force généralisant l’abstraction dans la société (en multipliant des facteurs nouveaux et inutiles, dissolvants et rigidifiants, comme les banques, les compagnies d’assurance, la bureaucratie, les artifices soi-disant “rationnels”, etc., dénoncés par la sociologie de Georges Simmel); le libéralisme est aussi le terreau sur lequel s’est développé ce que l’on appelait à l’époque le “philistinisme”. Carlyle, Matthew Arnold et les Pré-Raphaëlites anglais autour de Ruskin et de Morris avaient dénoncé l’effondrement de toute culture vraie, de toute communauté humaine saine, sous les coups de la “cash flow society”, de l’utilitarisme, du mercantilisme, etc. dans l’Angleterre du 19ème, première puissance libérale et industrielle du monde moderne. Comme l’avait envisagé Burke, ce libéral-utilitarisme était devenu une “continuité” et, à ce titre, une “légitimité”, justifiant plus tard l’alliance des libéraux (ou des “vieux-libéraux”) avec le vieux conservatisme. Les “Jungkonservativen” allemands d’après 1918 ne veulent pas d’une telle alliance, qui ne défend finalement rien de fondamental, uniquement des intérêts matériels et passagers, au détriment de tout principe (éternel). Pour défendre ces principes éternels, battus en brèche par le libéralisme, il faut recourir à des réflexes nationalistes et/ou socialistes, lesquels bousculent les concepts impassables du conservatisme sans les nier et en les dynamisant.
Critique du libéralisme
Le libéralisme, dans l’optique “jungkonservative”, repose sur l’idée d’un progrès qui serait un cheminement inéluctable vers du “meilleur”, du moins un “meilleur” quantitatif et matériel, en aucun cas vers une amélioration générale du sort de l’humanité sur un plan qualitatif et spirituel. L’idée de progrès, purement quantitative, dévalorise automatiquement le passé, les acquis, les valeurs héritées, tout comme l’idéal marchand, l’idéal spéculateur, du libéralisme dévalorise les valeurs éthiques et esthétiques, qui seules donnent sel au monde. Pour Moeller van den Bruck, c’est là la position la plus inacceptable des libéraux. Ignorer délibérément le passé, dans ce qu’il a de positif comme dans ce qu’il a de négatif, est une posture à rejetter à tout prix. Le libéral veut donc que l’on ignore obligatoirement tous les acquis du passé: son triomphe dans les premières années de la République de Weimar fait craindre une éradication totale et définitive des mémoires collectives, de l’identité allemande. Face à cette attitude, le “Jungkonservativismus” doit devenir le gardien des formes vivantes, des matrices qui donnent vie aux valeurs, pour ensuite les conduire jusqu’à leur accomplissement, leur paroxysme; il doit appeler à la révolte contre les forces politiques qui veulent que ces formes et matrices soient définitivement oubliées et ignorées; il doit également dépasser ceux qui entendent garder uniquement des formes mortes, relayant de la sorte le message des avant-gardes naturalistes, symbolistes, expressionnistes et futuristes. Ce recours implicite aux audaces des avant-gardes fait que le “Jungkonservativismus” n’est pas un “cabinet des raretés” (“eine Raritätenkammer”), un musée exposant des reliques mortes, mais un atelier (“ein Werkstatt”), où l’on bâtit l’avenir, n’est pas un réceptacle de quiétisme mais une forge bouillonnante où l’on travaille à construire une Cité plus conforme au “Règne de l’Esprit”. Pour les “jeunes-conservateurs”, les formes politiques sont des moyens, non des fins car si elles sont de simples fins, elles butent vite, à très court terme, contre leur finitude, et deviennent stériles et répétitives (comme à l’ère du wilhelminisme). Il faut alors trouver de nouvelles formes politiques pour lutter contre celles qui ont figé les polities, après avoir été, le temps de trouver leur “fin”, facteurs éphémères de fluidification des concepts.
Monarchiste ou républicain?
Alors, dans le contexte des années 1919-1925, le “Jungkonservativismus” est-il monarchiste ou républicain? Peu importe! L’idéal dynamique du “Jungkonservativismus” peut s’incarner dans n’importe quelle forme d’Etat. Comment cette perspective s’articule-t-elle chez Moeller van den Bruck? Son “Troisième Reich” pourra être monarchiste mais non pas wilhelminien, non pas nécessairement lié aux Hohenzollern. Il pourra viser l’avènement d’un “Volkskaiser”, issu d’une autre lignée aristocratique ou issu directement du peuple: cette idée est un héritage des écrits révolutionnaires de Wagner à l’époque des soulèvements de 1848. L’Etat est alors, dans une telle perspective, de forme républicaine mais il a, à sa tête, un monarque plébiscité. En dépit de son anti-wilhelminisme, Moeller envisage un Volkskaiser ou un “Jugendkaiser”, un empereur de la jeunesse, idée séduisante pour les jeunes du Wandervogel et de ses nombreux avatars et pour bon nombre de sociaux-démocrates, frottés de nietzschéisme. Contrairement à ce que voulaient les révolutionnaires français les plus radicaux à la fin du 18ème siècle, en introduisant leur calendrier révolutionnaire, l’histoire, pour Moeller, ne présente pas de nouveaux commencements: elle est toujours la continuité d’elle-même; les communautés politiques, les nations, sont immergées dans ce flot, et ne peuvent s’y soustraire. Il paraît par ailleurs préférable de parler de “continuité” plutôt que d’ “identité”, dans un tel contexte: les “jungkonservativen” sont bel et bien des “continuitaires”, en lutte contre ceux qui figent et qui détruisent en rigidifiant. Moeller van den Bruck préconise donc une sorte d’archéofuturisme (le néo-droitiste Guillaume Faye, à ce titre, s’inscrit dans sa postérité): les forces du passé allemand et européen sont mobilisées en des formes nouvelles pour établir un avenir non figé, en perpétuelle effervescence constructive. Moeller mobilise les “Urkräfte”, les forces originelles, qu’il appelle parfois, avec un lyrisme typique de l’époque, les “Urkräfte” barbares ou les “Urkräfte” de sang, destinées à briser les résistances “passatistes” (Marinetti).
De Novalis au wagnérisme
Les positions “bousculantes” du “Jungkonservativismus” interpellent aussi le rapport au christianisme. La révolution française avait appelé à lutter contre les “superstitions” de la religion traditionnelle de l’ancien régime: les réactions des révolutionnaires déçus par la violence jacobine et des contre-révolutionnaires, à l’époque romantique du début du 19ème siècle, vont provoquer un retour à la religion. Le romantisme était au départ en faveur de la révolution mais les débordements et les sauvageries des révolutionnaires français vont décevoir, ce qui amènera plus d’un ex-révolutionnaire romantique à retourner au catholicisme, à se convertir à l’idée d’une Europe d’essence chrétienne (Novalis). Dans une troisième étape, les ex-révolutionnaires et certains de leurs nouveaux alliés contre-révolutionnaires vont parfois remplacer Dieu et l’Eglise par le peuple et la nation: ce sera le romantisme nationalitaire, révolutionnaire non pas au sens de 1789 mais de 1848, celui de Wagner, qui, plus tard, abandonnera toutes références au révolutionarisme pour parier sur l’univers mythologique et “folciste” de ses opéras, censés révéler au peuple les fondemets mêmes de son identité, la matrice de la continuité dans laquelle il vit et devra inéluctablement continuer à vivre, sinon il court le risque d’une disparition définitive en tant que peuple. La fusion d’une volonté de jeter bas le régime metternichien du début du 19ème siècle et du recours aux racines germaniques les plus anciennes est le legs du wagnérisme.
Déchristianisation et nietzschéanisation
Après 1918, après les horreurs de la guerre des tranchées à l’Ouest, on assiste à un abandon généralisé du christianisme: peuples protestants et catholiques abandonnent les références religieuses piétistes ou sulpiciennes, impropres désormais à apaiser les âmes ensauvagées par une guerre atroce. Ou ne retiennent plus du christianisme que la virulence de certains polémistes comme Léon Bloy ou Jules Barbey d’Aurevilly, comme ce sera le cas dans les filons pré-rexistes en Belgique francophone ou chez les adeptes conservateurs-révolutionnaires du prêtre Wouter Lutkie aux Pays-Bas. Sans nul doute parce que la fougue de Bloy et de Barbey d’Aurevilly marche au vitriol, qui dissout les certitudes des “figés”. La déchristianisation d’après 1918 est tributaire, bien évidemment, de l’influence, de plus en plus grande, de Nietzsche. Le processus de sécularisation et de nietzschéanisation s’infiltre profondément dans les rangs “conservateurs”, les muant en “conservateurs-révolutionnaires”. On en vient à rejeter la promesse chrétienne d’un monde meilleur, “quiet” (dépourvu d’inquiétude incitant à l’action) et “bonheurisant”. Cette promesse est, aux yeux des nietzschéens, la consolation des faibles (cf. les thèses de Nietzsche dans “L’Antéchrist” et “La généalogie de la morale”). Moeller n’a pas une position aussi tranchée que les nietzschéens les plus virulents. Il demeure le lecteur le plus attentif de Dostoïevski, qui ne partageait pas l’anti-christianisme farouche de Nietzsche. Il garde sans doute aussi en mémoire les positions de Barbey d’Aurevilly, qu’il a traduit avec Hedda Maase à Berlin entre 1896 et 1902. Pour Moeller la culture allemande (et européenne) est le produit d’une fusion: celle de l’antiquité hellénique et romaine et du christianisme. Pour lui, il n’est ni pensable ni souhaitable que nous ne soyons plus l’incarnation de cette synthèse. L’objectif de la germanité innovante qu’il a toujours appelé de ses voeux est de forger une “Wirklichkeitsreligion”, une “religion du réel”, comme le suggéraient par ailleurs bon nombre d’ouvrages parus chez l’éditeur Eugen Diederichs à Iéna.
Cependant le christianisme n’est pas “national”, c’est-à-dire ne cherche pas à s’ancrer dans un humus précis, inscrit dans des limites spatio-temporelles repérables. Il est même anti-national sauf quand certaines forces de l’Eglise cherchent à protéger des catholiques vivant sous un statut de minorité opprimée ou marginalisée comme les Irlandais au Royaume-Uni, les Croates dans le nouveau royaume de Yougoslavie à dominante serbe ou les Flamands dans la Flandre des “petits vicaires” en rébellion contre leur hiérarchie francophile (Mercier), face aussi à un Etat à dominante non catholique ou trop prompt à négocier des compromis avec la part laïque, voire maçonnique, de l’établissement belge. Même scénario dans la sphère orthodoxe: les églises auto-céphales s’épaulent contre les offensives catholiques ou musulmanes. Mais une chose était désormais certaine, entre 1918 et 1925: depuis la révolution française, le christianisme a échoué à donner forme au cosmopolitisme dominant, qui est de facture libérale et laïque ou révolutionnaire et communiste (trotskiste). Le christianisme ne peut se sauver du naufrage que s’il adopte des contenus nationaux: c’est à quoi s’était employé le programme des éditions Eugen Diederichs, en rappelant que la conversion des Germains d’Europe centrale ne s’était pas faite par l’Evangile tel qu’on nous le lit encore lors des offices religieux mais par une version aujourd’hui oubliée, l’Heliand, le Sauveur, figure issue de la religiosité iranienne-sarmate importée en Europe par les cavaliers recrutés par Rome dans les steppes est-européennes et dont l’archéologie contemporaine révèle le rôle crucial dans l’émergence de l’Europe médiévale, non seulement autour du mythe arthurien mais aussi dans la geste des Francs et des Sicambres. Le Christ y est effectivement un homme à cheval qui pérégrine, armé et flanqué d’une douzaine de compagnons bien bâtis.
Ensuite, la conversion d’une vaste zone aujourd’hui catholique, de Luxueil-les-Bains au Tyrol autrichien, a été l’oeuvre de moines irlandais, dont le christianisme était quelque peu différent de celui de Rome. Le christianisme doit donc se “nationaliser”, comme il s’était germanisé (sarmatisé?) aux temps de la conversion, pour être en adéquation avec la spécificité “racique” des nouvelles ouailles nord-européennes ou issues de la cavalerie des Légions de l’Urbs. De même, le socialisme, lui aussi, doit puiser ses forces bousculantes dans un corpus national, religieux ou politique voire esthétique (avec impulsion nietzschéenne). L’apport “belge” (flamand comme wallon) est important à ce niveau: Eugen Diederichs avait fait traduire De Coster, Maeterlinck, De Man, Verhaeren et bien d’autres parce qu’ils apportaient un supplément de tonus à la littérature, à la religiosité “réalitaire” et à un socialisme débarrassé de ses oeillères matérialistes donc de ses cangues aussi pesantes que les bigoteries sulpiciennes de la religion conventionnelle, celle des puritains anglais ou suédois, fustigés par Lawrence et Strindberg, celle de Pobedonostsev, fustigée par Merejkovski et Rozanov.
Théologie et politique en Europe occidentale de 1919 aux années 60
Parce que les “Jungkonservativen” abandonnent les formes mortes du protestantisme et du catholicisme du 19ème siècle, les “Altkonservativen” subsistants ne les considèrent plus comme des “Konservativen” et s’insurgent contre l’audace jugée iconoclaste de leurs affirmations. Moeller van den Bruck rétorque: “Si le conservatisme ne signifie plus le maintien du statu quo à tout prix mais la fusion évolutionnaire du neuf avec la tradition vivante et, de même, induit le don de sens à cette fusion, alors il faut poser la question: un conservatisme occidental est-il possible sans qu’il ne soit orienté vers le christianisme?”. Moeller répond évidemment: “Oui”. Il avait d’abord voulu créer un mythe national, avec les huit volumes de “Die Deutschen”, incluant des éléments chrétiens, surtout luthériens. C’était le mythe de l’Allemand en perpétuelle rébellion contre les pesanteurs d’une époque, de son époque, dominée politiquement ou intellectuellement par l’étranger roman, celui-ci étant, alors, par déduction arbitraire, le vecteur de toutes les pesanteurs, de toutes les lourdeurs qui emprisonnent l’âme ou l’esprit, comme l’Asiatique, pour les Russes, était vecteur d’“enchinoisement”. Après la mort de Moeller, et dans le sillage des livres prônant un renouveau religieux réalitaire et enraciné, une théologie germanisée ou “aryanisée” fera florès sous le national-socialisme, une théologie que l’on analyse à nouveau aujourd’hui en la dépouillant, bien entendu, de toutes les tirades simplificatrices rappelant lourdement la vulgate du régime hitlérien. L’objectif des théologiens contemporains qui se penchent sur les oeuvres de leurs homologues allemands alignés sur le nouveau régime des années 30 vont au fond de cette théologie, ne se contentent pas de critiquer ou de répéter le vocabulaire de surface de ces théologies “aryanisées” ou germanisées, qui peut choquer aujourd’hui, mais veulent examiner comment on a voulu donner une substance incarnée à cette théologie (au nom du mythe chrétien de l’incarnation); il s’agit donc là d’une théologie qui réclame l’ancrage du religieux dans le réel politique, ethnique, linguistique et l’abandon de toute posture déréalisante, “séraphique” serait-on tenté de dire.
Après 1945, les discours officiels des églises protestantes et catholique s’alignent sur l’“humanisme” ou du moins sur ce qu’il est convenu de définir comme tel depuis les réflexions et les “aggiornamenti” de Jacques Maritain. Cet humanisme a été l’idéologie officielle des partis démocrates-chrétiens en Europe après 1945: on avait espéré, de cet humanisme, aligné sur Gabriel Marcel ou Jacques Merleau-Ponty, qu’il soit un barrage contre l’envahissement de nos polities par tous les matérialismes privilégiant l’avoir sur l’être. L’offensive néo-libérale, depuis la fin des années 70 du 20ème siècle, a balayé définitivement ces espoirs. L’“humanisme” des démocrates-chrétiens a été pure phraséologie, pure logorrhée de jongleurs politiciens, ne les a certainement pas empêchés de se vautrer dans les pires des corruptions, à l’instar de leurs adversaires (?) socialistes. Ils n’ont pas été capables de donner une réponse au néo-libéralisme ou, pire, les quelques voix qui se sont insurgées, même depuis les hautes sphères du Vatican, se sont perdues dans le tumulte cacophonique des médias: l’analyse de Moeller van den Bruck est donc la bonne, le libéralisme dissout tout, liens communautaires entre les hommes comme réflexes religieux.
Le jugement d’Armin Mohler
Armin Mohler, ancien secrétaire d’Ernst Jünger et auteur du manuel de référence incontournable, “Die konservative Revolution in Deutschland 1918-1932”, dresse le bilan de la déchristianisation graduelle et irréversible de la sphère politique, y compris en milieux “conservateurs”, toutes tendances confondues. Pour Mohler, le christianisme s’est effiloché et ne se maintient que par la “Trägheit der Wirklichkeit”, par la lenteur et la pesanteur du réel. Mohler: “Le christianisme, dans l’espace où tombent les décisions, a perdu sa position jadis englobante et, depuis lors, il n’est plus qu’une force parmi d’autres, y compris sous les oripeaux de ses traditions les plus fortes ou de ses ‘revivals’, tels le néo-thomisme ou la théologie dialectique”. Pire: “Ce processus [d’effilochement] s’est encore accéléré par l’effondrement de l’héritage antique, qui avait aidé le christianisme au fil des siècles à se donner forme. Les éléments de jadis sont donc encore là mais isolés, sans centre fédérateur, et virevoltent littéralement de manière fort désordonnée dans l’espace (politique/idéologique). Le vieux cadre de l’Occident comme unité nourrie par la migration des peuples [germaniques] en tant qu’éléments neufs dans l’histoire, est détruite et il n’y a pas encore de nouvelle unité en vue”. Mohler annonçait, par ces constats, la rupture entre la “nouvelle droite” et l’espace théologico-politique chrétien. Eugen Diederichs et Moeller van den Bruck ont également eu raison de dire que le christianisme devait être étoffé d’éléments réalitaires, comme a tenté de le faire à sa manière et sans générer d’“hérésie”, le Prof. Julien Ries, à l’Université de Louvain, notamment dans “Les chemins du sacré dans l’histoire” (Aubier, 1985): dans cet ouvrage, comme dans d’autres, il cherchait à cerner la notion de sacré dans le monde indo-européen suite aux travaux de Mircea Eliade. La mise en exergue de ces multiples manières indo-européennes d’appréhender le sacré, permetterait d’incarner celui-ci dans les polities et les “Leitkulturen” réelles et de les innerver sans les meurtrir ou les déraciner, barrant ainsi la route à l’envahissement de ces “laïcismes” sans substance ni profondeur temporelle qui se veulent philosophèmes de base du “révolutionarisme institutionalisé”.
Premier, Deuxième et Troisième Reich
Vu l’“effilochement” du christianisme, dès la fin du 19ème siècle, vu son ressac encore plus net après les boucheries de 1914-1918, les forces nouvelles dans la nouvelle Allemagne républicaine devaient créer un “cadre nouveau”, qui ne devait plus nécessairement être innervé d’apports chrétiens, du moins visibles, car, il ne faut pas l’oublier, toute idée politique possède un modèle théologique qu’elle laïcise, consciemment ou inconsciemment, comme le constatait Carl Schmitt. Pour Moeller van den Bruck, ce sera, à son corps défendant comme nous le verrons, un “Troisième Reich”; pour Mohler —désobéissant sur ce plan à Ernst Jünger, résigné et conscient qu’aucune politique féconde n’était encore suggérable à l’ère atomique, à partir de 1960, année où paraît son livre “L’Etat universel”— il fallait, dès la fin des années 50 du 20ème siècle, instaurer une Europe nouvelle, capable de décision, centrée autour du binôme franco-allemand du tandem De Gaulle-Adenauer, qui devait chercher systématiquement à s’allier aux Etats que les Etats-Unis décrétaient “infréquentables” (Chine, monde arabe,...). Au temps de Moeller van den Bruck, les cercles qu’il animaient font dès lors recours au mythe du “Reich” dans l’histoire germanique et lotharingienne. Dans cet espace germano-lotharingien, défini par les cartographes français contemporains, Jean et André Sellier comme étant l’addition des héritages de Lothaire et de Louis le Germanique lors du Traité de Verdun de 843, il y a eu un Premier Reich, celui d’Othon I qui va survivre vaille que vaille jusqu’à sa dissolution en 1806. Le Deuxième Reich est le Reich petit-allemand de Bismarck et de Guillaume II, qui ne comprend pas l’espace autrichien ni les anciens Pays-Bas ni la forteresse alpine qu’est la Suisse. Ce Reich, très incomplet par rapport à celui, par exemple, de Conrad II au 11ème siècle, n’englobe pas tous les Allemands d’Europe, ceux-ci sont disséminés partout et une émigration de grande ampleur conduit des masses d’Allemands à s’installer aux Etats-Unis (où leurs descendants constituent à peu près un quart de la population actuelle et occupent plus de la moitié des terres en zones non urbaines). Ce “Deuxième Reich” s’effondre en 1918, perdant encore des terres à l’Est comme à l’Ouest, créant de nouvelles minorités allemandes au sein d’Etats slaves ou romans. Un “Troisième Reich” doit prendre dès lors la relève mais il serait hasardeux et fallacieux de dire que les projets, formulés entre 1918 et 1925, aient tous anticipé le “Troisième Reich” de Hitler.
Origine théologienne des concepts politiques
Le “Premier Reich” est la promesse d’un Empire terrestre de mille ans, qui prend le relais d’un Empire romain, de l’Ordo Romanus, désormais assumé par les Francs (Charles Martel, Pépin de Herstal, Pépin le Bref, Charlemagne) puis par l’ensemble des peuples germaniques (Othon I et ses successeurs). Il est dès lors un “Saint-Empire” christianisé et porté par la nation germanique, un “Sacrum Imperium Romanum Nationis Germaniae”, un “Saint-Empire romain de la nation germanique”. Le concept d’Empire, de “Reich”, revêt une double signification: il est la structure politique impériale factuelle que l’on a connue à partir d’Othon I puis à partir de Bismarck. Il est aussi le “Regnum”, le “Règne” religieux, défini par la théologie depuis Augustin. Comme Moeller van den Bruck a fréquenté de très près Dmitri Merejkovski, il est évident que la notion de “Reich” qu’il utilise dans ses écrits est plus proche de la notion théologique de “Règne” que de la notion politique, mise en oeuvre par Bismarck d’abord, par Hitler ensuite (qui sont des imitateurs de Napoléon plutôt que des disciples d’Augustin). Moeller n’a donc pas de discours religieux en apparence mais est subrepticement tributaire de la théologie sollicitée par Merejkovski. Dans son étude patronnée par Karl Jaspers, Armin Mohler —schmittien conscient de l’origine théologienne de tous les concepts politiques modernes— rappelle justement l’origine théologienne des notions d’“Empire de l’Esprit Saint” et de “Troisième Règne”. Il rappelle la vision de Montanus, chef d’une secte chrétienne de Hierapolis en Phrygie au 2ème siècle après J. C., dont le prophétisme s’était rapidement répandu dans le bassin méditerranéen, y compris à Rome où deux écoles “montanistes” cohabitaient, dont celle de Proclos, qui influencera Tertullien. Ce dernier prendra fait et cause pour le prophétisme montaniste, qu’il défendra contre les accusations d’un certain Praxeas. Le montanisme et les autres formes de prophétisme, décrétées hérétiques, puisent leurs inspirations dans l’Evangile de Jean. Toute une littérature johannite marque le christianisme jusqu’au moyen âge européen. Elle a pour dénominateur commun d’évoquer trois visions du monde qui se succéderont dans le temps. La troisième de ces visions sera entièrement spiritualisée. Ce sera le “Règne de l’Esprit”.
Joachim de Flore
Joachim de Flore développe une sorte de “mythe trinitaire”, où le “Règne du Père” constitue la “vieille alliance”, le “Règne du Fils”, la “nouvelle alliance” et le “Règne” à venir, celui de l’esprit saint. La “vieille alliance”, procédant de la transmission de la “Loi” à Moïse, débouche involontairement, par “hétérotélie”, sur un esclavage des hommes sous la férule d’une Loi, devenue trop rigide au fil du temps; le “Règne du Fils” vient délivrer les hommes de cet esclavage. Mais entre les divers “Règnes”, il y a des périodes de transition, d’incubation. Chaque “Règne” a deux commencements: celui, initial, où ses principes se mettent progressivement en place, tandis que le “Règne” précédent atteint sa maturité et amorce son déclin, et celui où il commence vraiment, par la “fructification”, dit Joachim de Flore, le précédent ayant alors terminé son cycle. Il existe donc des périodes de transition, où les “Règnes” se chevauchent. Celui du Fils commence avec l’arrivée du Christ et se terminera par le retour d’Elie, qui amorcera le “Règne de l’Esprit Saint”, celui-ci hissera alors, après la défaite des Mahométans, l’humanité au niveau supérieur, celui de l’amour pur de l’esprit saint, message de l’Evangile éternel, bref, le “Troisième Règne” ou le “Troisième Reich”, les termes français “Règne” et “Empire” se traduisant tous deux par “Reich” en allemand. De Joachim de Flore à Merejkovski, le filon prophétique et johannite est évident: Moeller van den Bruck le laïcise, le camoufle derrière un langage “moderne” et a-religieux, avec un certain succès dû au fait que le terme était prisé par une littérature subalterne, ou une para-littérature, qui, entre 1885 et 1914, présente des utopies ou des Etats idéaux de science-fiction qui évoquent souvent un “Troisième Reich”, société parfaite, débarrassée de toutes les tares du présent (wilhelminien); parmi ces ouvrages, le plus pertinent étant sans doute celui de Gerhard von Mutius, “Die drei Reiche” (1916).
Quand paraît “Das Dritte Reich”...
En 1923, quand son manuscrit est prêt à l’impression, Moeller ne choisit pas pour titre “Das Dritte Reich” mais “Die dritte Partei” (= “Le tiers-parti”), formation politique appelée à se débarrasser des insuffisances révolutionnaires, libérales et vieilles-conservatrices. On suggère à Moeller de changer de titre, d’opter par exemple pour “Der dritte Standpunkt” (= “La troisième position”). Finalement, pour des raisons publicitaires, on opte pour “Das Dritte Reich”, car cela a des connotations émotives et eschatologiques. Cela rappelle quantité d’oeuvres utopiques appréciées des contemporains. Du vivant de Moeller, le livre est un vrai “flop” éditorial. Ce n’est qu’après sa mort que ce petit volume programmatique connaîtra le succès, par ouï-dire et par le lancement d’une édition bon marché auprès de la “Hanseatische Verlagsanstalt”. L’idée de “Reich” n’apparaît d’ailleurs que dans le dernier chapitre, ajouté ultérieurement! Les cercles et salons fréquentés et animés par Moeller ne doivent donc pas être considérés comme les anti-chambres du national-socialisme, même si des personnalités importantes comme Stadtler ont fini par y adhérer, après le suicide du traducteur de Baudelaire et de Dostoïevski. Grâce à un travail minutieux et exhaustif du Prof. Wolfgang Martynkiewicz (“Salon Deutschland – Geist und Macht 1900-1945”, Aufbau Verlag, 2011), on sait désormais que c’est plutôt le salon des époux Hugo et Elsa Bruckmann, éditeurs à Munich et animateurs d’un espace de débats très fréquenté, qui donnera une caution pleine et entière au national-socialisme en marche dès la fin des années 20, alors que ce salon avait attiré les plus brillants esprits allemands (dont Thomas Mann et Ludwig Klages), conservateurs, certes, mais aussi avant-gardistes, libéraux, socialistes et autres, inclassables selon l’étiquettage usuel des politistes “normalisés” d’aujourd’hui, notamment les “anti-fascistes” auto-proclamés.
Un état de tension militante permanente
Pour Moeller van den Bruck, préfacé en France par Thierry Maulnier, post-maurrassien et non-conformiste des années 30 (cf. Etienne de Montety, “Thierry Maulnier”, Perrin-Tempus, 2013), l’idée de “Reich”, c’est-à-dire, selon son mentor Merejkovski, l’idée d’un “Règne de l’Esprit Saint”, est aussi et surtout —avant d’être un état stable idéal, empreint de quiétude— un état de tension militante permanente. Ce “Troisième Empire”, qui n’est évoqué que dans le dernier chapitre du livre du même nom, et constitue d’ailleurs un addendum absent de la première édition, n’adviendra pas nécessairement dans le réel puisqu’il est essentiellement une tension permanente qu’il s’agit de ne jamais relâcher: les élites, ou les “élus”, ceux qui ont compris l’essence de la bonne politique, qui n’est ni le fixisme déduit de l’idée d’un ordre naturel immuable ni le chaos du révolutionnarisme constant, doivent sans cesse infléchir les institutions politiques dans le sens de ce “Troisième Règne” de l’Esprit, même s’ils savent que ces institutions s’usent, s’enlisent dans l’immobilité; il y a donc quelque chose du travail de Sisyphe dans l’oeuvre des élites politiques constantes.
Dans les écrits antérieurs de Moeller van den Bruck, on peut repérer des phrases ou des paragraphes qui abondent déjà dans ce sens; ainsi en 1906, il avait écrit: “L’Empire de la troisième réconciliation va combler le fossé qu’il y a entre la civilisation moderne et l’art moderne”. Dans les années 1906-1907, Moeller évoque la “Sendungsgedanke”, l’idée de mission, religieuse et forcément a-rationnelle, dont les racines sont évidemment chrétiennes mais aussi révolutionnaires: le christianisme a apporté l’idée d’une mission “perfectibilisante” (mais c’est aussi un héritage du mithraïsme et de ses traductions christianisées, archangéliques et michaëliennes); quant aux révolutionnaires français, par exemple, ils font, eux aussi, montre d’une tension militante dans leur volonté de promouvoir partout l’idéal des droits de l’homme. Pour parvenir à réaliser cette “Sendungsgedanke”, il faut créer des communautés pour les porteurs de l’idée, afin que la dynamique puisse partir d’en haut et non de la base, laquelle est plongée dans la confusion; ces communautés doivent se développer au-delà des Etats existants, que ceux-ci soient les Etats allemands (Prusse, Bavière, Baden-Würtemberg) ou soient les pays autrichiens ou les nouveaux Etats construits sur les débris de l’Empire austro-hongrois, où vivent des minorités allemandes, ou soient des Etats quelconques dans le reste de l’Europe où vivent désormais des populations allemandes résiduaires ou très minoritaires. Les porteurs de l’idée peuvent aussi appartenir à des peuples proches de la culture germanique (Baltes, Flamands, Hollandais, Scandinaves, etc.). Ces communautés de personnalités chosies, conscientes des enjeux, formeront le “parti de la continuité” (Kontinuität), celui qui poursuivra donc dans la continuité l’itinéraire, la trajectoire, de l’histoire allemande ou germanique. Ce parti rassemblera des Allemands mais aussi tous ceux qui, indépendamment de leur ethnicité non germanique, partageront les mêmes valeurs (ce qui permet de laver Moeller de tout soupçon d’antisémitisme et, forcément, d’antislavisme).
De Moeller à la postmodernité
Nous constatons donc que, dans le sillage de Dostoïevski et Merejkovski, Moeller van den Bruck parie résolument sur le primat de l’esprit, des valeurs. Ces communautés et ce futur parti constituent dès lors, à eux tous, une “Wertungsgemeinschaft” (une communauté de valeurs), Moeller étant le seul à avoir utilisé cette expression dans ses écrits à l’époque. Autre aspect qui mérite d’être souligné: Moeller anticipe en quelque sorte les bons filons aujourd’hui galvaudés de la postmodernité; c’est en ce sens qu’Armin Mohler —qui avait la volonté de perpétuer la “révolution conservatrice”— avait voulu embrayer sur le discours postmoderne à la fin des années 80 du 20ème siècle; en effet, Moeller avait écrit: “Wir müssen die Kraft haben, in Gegensätzen zu leben”, “Nous devons avoir la force de vivre au beau milieu des contradictions (du monde)”. Moeller avait vécu très intensément l’effervescence culturelle de la Belle Epoque, avant l’emprise sur les âmes des totalitarismes d’après 1917, magnifiquement mise en scène dans les romans noirs de Zamiatine et Mikhaïl Boulgakov. L’oeuvre de Moeller van den Bruck est le résultat de cette immersion. La Belle Epoque acceptait ses contradictions, les confrontait dans la convivialité et la courtoisie. Les totalitarismes ne les accepteront plus. Après l’effondrement du “grand récit” communiste (hégélo-marxiste), suite à la perestroïka et la glasnost de Gorbatchev, le monde semble à nouveau prêt à accepter de vivre avec ses contradictions, d’où la pensée “polythéiste” d’un Jean-François Lyotard ou d’un Richard Rorty. Mais l’espoir d’un renouveau tout à la fois postmoderne et révolutionnaire-conservateur, que nous avions cultivé avec Mohler, s’effondrera dès le moment où le néo-libéralisme niveleur et le bellicisme néo-conservateur américain, flanqués des “idiots utiles” de la “nouvelle philosophie parisienne” (avec Bernard-Henri Lévy), auront imposé une “political correctness”, bien plus homogénéisante, bien plus arasante que ne l’avait été le communisme car elle a laissé la bride sur le cou, non seulement à l’engeance des spéculateurs, mais aussi à tout un fatras médiatique festiviste et à un “junk thought” ubiquitaire, qui empêche les masses d’avoir un minimum de sens critique et qui noie les rationalités du “zoon politikon” dans un néant de variétés sans fondements et de distractions frivoles.
Le peuple portera l’idée de “Reich”
En termes politiques, l’acceptation moellerienne des contradictions du monde le conduit à esquisser la nature du “Reich” à venir: celui-ci ne pourra pas être centralisé car toute centralisation excessive et inutile conduit à un égalitarisme araseur, qui brise les continuités positives. Le “Troisième Reich” de Moeller entend conserver les diverses dynamiques, convergentes ou contradictoires, qui ont été à l’oeuvre dans l’histoire allemande (et européenne) et la nouvelle élite “jungkonservativ” doit veiller à maintenir une “coïncidentia oppositorum”, capable de rassembler dans l’harmonie des forces au départ hétérogènes, à l’oeuvre depuis toujours dans la “continuité” allemande. C’est le peuple, le Volk, qui doit porter cette idée de “Reich”, dans le même esprit, finalement, que le “populus romanus” portait les “res publicae” romaines puis, en théorie, l’Empire à partir d’Auguste. Ou du moins l’élite consciente de la continuité qui représente le peuple, une continuité qui ne peut se perpétuer que si ce peuple demeure, en évitant, si possible, toute “translatio imperii” au bénéfice d’une tierce communauté populaire, dont le moment historique viendra ultérieurement. Le Sénat romain —l’assemblée des “senes”, homme plus âgés et dotés, par la force de l’âge, d’une mémoire plus profonde que les “adulescentes” (hommes de 15 à 35 ans) ou même que les “viri” (de 35 à 50 ans)— était le gardien de cet esprit de continuité, qu’il ne fallait pas rompre —en oubliant les rituels— afin de préserver pour l’éternité le “mos majorum”, d’où l’expression “Senatus PopulusQue Romanus” (SPQR), la longue mémoire étant ainsi accolée à la source vive, vitale, de la populité romaine. La Belle Epoque subit, elle, de plein fouet une remise en question générale de l’ordre, qui ne peut plus être perçu comme figé: avec des personnalités comme Moeller, elle parie pour les “adulescentes” et les “viri”, à condition qu’ils fassent éclore des formes nouvelles, pour remplacer les formes figées, qui exprimeront mieux le “mos majorum”, germanique cette fois, car le germanisme d’avant 1914 était, selon l’étude magistrale et copieuse de Peter Watson (cf. supra), une “troisième renaissance” dans l’histoire culturelle européenne, après la renaissance carolingienne et la renaissance italienne. Toute renaissance étant expression de jouvence, d’où l’usage licite des termes “jung” et “Jungkonservativismus”, si l’on veut agir et oeuvrer dans le sens de cette “troisième renaissance” qui n’a pas encore déployé toutes ses potentialités.
Moeller parle donc d’un Empire porté par le peuple et par la jeunesse du peuple, instances vitales, et non par l’Etat puisque la machine étatique wilhelminienne a figé, donc tué, l’énergie vitale que nécessité la mission impériale de la jeunesse, en multipliant les formes abstraites, en oblitérant le vivant populaire par toute sorte d’instances figeantes, appelées à devenir tentaculaires: dénoncer cette emprise croissante des rationalités figées sera la leçon du sociologue Georg Simmel et de sa longue postérité (jusqu’à nos jours), ce sera aussi le message angoissé et pessimiste du “Château” de Franz Kafka. Parmi les instances figeantes, il faut compter les partis qui, comme le soulignait un socialiste engagé puis déçu tel Roberto Michels, finissaient par ne plus représenter le peuple des électeurs mais seulement des oligarchies détachées de celui-ci. La démocratie nécessaire au bon fonctionnement du nouveau “Reich” ne doit pas représenter la base par des partis mais, explique Moeller van den Bruck, par des corporations (expressions de métiers réels), des ordres professionnels, des conseils ou des soviets ouvriers, des syndicats. Indirectement, peut-être via Thierry Maulnier, préfacier du “Troisième Reich” de Moeller et chroniqueur du “Figaro” après 1945, ces idées de Moeller (mais aussi de Heinz Brauweiler) auront un impact sur les idées gaulliennes des années 60, celles de la participation et de l’intéressement, celle aussi du Sénat des Régions et des Professions. Le rôle des “non-conformistes” français des années 30 et des néo-socialistes autour de Marcel Déat, lui-même inspiré par Henri De Man, a sans nul doute été primordial dans cette transmission, malgré tout incomplète. Le Sénat, envisagé par les gaullistes après la rupture avec l’OTAN, était appelé, s’il avait été instituté, à représenter un tissu social réel et performant au détriment de politiciens professionnels qui ne produisent que de la mauvaise jactance et finissent par se détacher de toute concrétude.
“Ostideologie”
Ces spéculations sur le “Troisième Règne” à venir, sur le “Règne de l’Esprit” débarrassé des pesanteurs anciennes, s’accompagnaient, dans l’Allemagne des premières années de la République de Weimar, par une volonté de lier le destin du pays à la Russie, fût-elle devenue soviétique. Lénine était d’ailleurs revenu de Suisse dans un wagon plombé avec la bénédiction du Kaiser et de l’état-major général des armées allemandes. Sans cette bénédiction, on n’aurait sans doute jamais entendu parler d’une Russie bolchevisée, tout au plus d’une pauvre Russie qui aurait sombré dans le chaos de la pusillanimité menchevik (cf. Soljénitsyne) ou serait revenue à un tsarisme affaibli, après la victoire des armées blanches, soutenues par l’Occident. Cette volonté de lier l’Allemagne vaincue à la nouvelle puissance de l’Est s’appelle, dans le langage des historiens et des politologues, l’“Ostideologie” ou le national-bolchevisme. L’Ostideologie n’est ni une idée neuve en Allemagne, et en particulier en Prusse, ni une idée dépassée aujourd’hui, les liens économiques de l’Allemagne de Schröder et de Merkel avec la Russie de Poutine attestant la pérennité de cette option, apparemment indéracinable. La permanence de cette volonté d’alliance prusso-russe depuis Frédéric II et depuis les accords de Tauroggen contre Napoléon I explique le succès que le “national-bolchevisme” a connu au début des années 20, y compris dans des cercles peu propices à applaudir à l’idéologie communiste. Depuis la Guerre de Sept Ans au 18ème siècle, depuis le retournement de la Prusse après le désastre napoléonien de la Bérézina, nous avons eu plus de 150 ans d’Ostpolitik: Willy Brandt, ancien des Brigades Internationales lors de la Guerre d’Espagne, la relance sur l’échiquier politique européen dès la fin des années 60, dès la fin de l’ère Adenauer et de la Doctrine Hallstein. Elle se poursuivra par les tandems Kohl/Gorbatchev et Schröder/Poutine, visant surtout des accords énergétiques, gaziers. La chute de Bismarck a mis un terme provisoire à l’alliance implicite entre l’Allemagne et la Russie tsariste, colonisée par les capitaux français. En 1917, la révolution russe reçoit le soutien de l’état-major allemand, puisqu’elle épargne à l’Allemagne une guerre sur deux fronts, tout en lui procurant un apport de matières premières russes. Seule l’intervention américaine a sauvé les Français et les Britanniques d’une défaite calamiteuse.
L’option pro-soviétique
En novembre 1918, les Soviets proposent d’envoyer deux trains de céréales pour rompre le blocus anglais qui affame les grandes villes allemandes. Les sociaux-démocrates, vieux ennemis de la Russie tsariste d’avant 1914, contre laquelle ils avaient voté les crédits de guerre, refusent cette proposition car, même après novembre 1918, ils demeurent toujours, envers et contre tout, des ennemis de la Russie, malgré qu’elle soit devenue bolchevique . Ils avancent pour argument que les Etats-Unis ont promis du blé pour tenir une année entière. Ce refus est un des faits les plus marquants qui ont suscité les clivages des premières années de Weimar: la gauche sociale-démocrate au pouvoir reste anti-russe et devient donc, dans un esprit de continuité et par le poids des habitudes, anti-bolchevique, tandis que la droite, divisée en plusieurs formations partisanes, adopte des positions favorables à la nouvelle Russie soviétique, sans pour autant soutenir les communistes allemands sur le plan intérieur. Lloyd George perçoit immédiatement le danger: la sociale-démocratie risque de perdre sa base électorale et la droite musclée risque bel et bien de concrétiser ses projets d’alliance avec les Soviets. Il demande à Clémenceau de modérer ses exigences et écrit: “The greatest danger that I see in the present situation, is that Germany may throw her lot with Bolshevism and place her resources, her brains, her vast organizing power at the disposal of the revolutionary fanatics whose dreams it is to conquer the world for Bolshevism by force of arms”. En dépit de cet appel britannique à la modération, Versailles, en juin 1919, consacre le triomphe de Clémenceau. D’où l’option pro-soviétique demeure le seul moyen de s’en sortir pour l’Allemagne vaincue.
Hugo Stinnes, pour le cartel industriel, les généraux von Seeckt et von Schleicher pour l’état-major, joueront cette carte. D’une part, les Britanniques avaient imposé un blocus de longue durée à l’Allemagne, provoquant une famine désastreuse et des centaines de milliers de morts. Après avoir infligé ce sort à l’Allemagne, les deux puissances occidentales de l’Entente l’appliquent ensuite à la Russie soviétique. Sous l’impulsion des élites industrielles et militaires, désormais russophiles, l’Allemage refuse de participer au blocus anti-soviétique. En juillet 1920, l’armée rouge entre en Pologne: les Allemands restent neutres et refusent qu’armes et appuis logistiques transitent par leur territoire. Les ouvriers du port de Dantzig se mettent en grève, privant la Pologne de tous approvisionnements. C’est à ce moment-là que l’on commence aussi à parler de “Dritte Kraft”, de “Troisième Force”: il ne s’agit alors nullement du KPD communiste ou d’éléments précurseurs de la NSDAP mais de la KAPD, une dissidence communiste et nationale, née à Hambourg en avril 1920 et dirigée par Lauffenberg et Wolfheim. Ce parti, somme toute groupusculaire, fera long feu mais sa courte existence donne naissance au vocable “national-bolchevisme”, vu qu’il avait essayé d’harmoniser en son sein éléments nationalistes et éléments communistes radicaux. Le “Solidarier” et membre du “Ring” Ernst Troeltsch, dans un article du 12 novembre 1920, résume la situation: “La pression de l’Entente détruit toutes les conditions de vie et radicalise les masses affamées; le succès du bolchevisme en Allemagne encourage l’Entente à cultiver d’autres projets de destruction, tant et si bien que les croisements idéologiques les plus étonnants verront le jour: une partie du monde ouvrier va devenir radicalement nationaliste et une partie de la bourgeoisie se fera bolchevique; quant aux adversaires les plus rabiques de l’Entente, ils se placeront aux côtés du capitalisme de l’Entente pour se sauver du bolchevisme et les adversaires les plus radicaux de la classe ouvrière se convertiront à une sorte de bolchevisme du désarroi”. Les repères habituels sont dès lors brouillés et les extrêmes se rejoignent, en dépit de ce qui les a différenciées (cf. Jean-Pierre Faye, qui a démontré qu’en de tels moments, “les extrémités du fer à cheval idéologico-politique se touchent”).
Rapallo
Le résultat le plus tangible de ce national-bolchevisme diffus, partagé par les ouvriers de Hambourg comme par les généraux de l’état-major ou les dirigeants des gros cartels industriels de l’Allemagne, est le Traité de Rapallo (1922) signé entre Rathenau et Tchitchérine, inaugurant ainsi la phase évolutionnaire et non plus révolutionnaire du national-bolchevisme.
Les milieux déplomatiques le reprennent à leur compte sous la houlette du Comte Ulrich von Brockdorff-Rantzau, ancien ministre des affaires étrangères de la République de Weimar (cabinet Scheidemann), démissionnaire pour ne pas avoir à signer le Traité de Versailles, puis ambassadeur allemand à Moscou (en 1922). Avec deux autres diplomates, Rudolf Nadolny et Richard von Kühlmann, il avait mis au point la stratégie de “révolutionner” la Russie en 1917, pour que le Reich n’ait plus à lutter sur deux fronts. Les trois diplomates s’étaient assuré le concours du banquier Alexander Parvus, artisan financier de la révolution bolchevique (cf. Gerd Koenen, v. bibliographie). Malgré son passé d’artisan majeur de la prise du pouvoir par Lénine en Russie, von Brockdorff-Rantzau, aristocrate favorable à un régime populaire et démocratique, favorable aussi à des liens limités avec l’URSS, n’acceptera pas les clauses du Traité de Rapallo, jugé trop bénéfique aux Soviétiques. Il sera en revanche l’artisan du Traité de Berlin (cf. infra). De même, le principal soutien de Stadtler et de sa “Ligue anti-bolchevique”, Karl Helfferich, intriguera contre le Traité de Rapallo et contre Walther Rathenau, qui finira assassiné par des éléments issus des Corps Francs, dont l’écrivain Ernst von Salomon.
Débat: Radek, Moeller, Reventlow
En cessation de paiement, la République de Weimar doit accepter en 1923 l’occupation de la Ruhr par les troupes françaises et belges qui se paieront en nature pour honorer les réparations imposées à l’Allemagne par le Traité de Versailles. Les communistes s’insurgent contre cette occupation. Karl Radek prononce un discours contre les occupants, suite à l’exécution, par les Français, de l’officier nationaliste Albrecht Leo Schlageter, qui avait organisé des opérations de sabotage pour entraver la logistique des troupes d’occupation ou pour éliminer les séparatistes rhénans, stipendiés par Paris. Radek pose Schlageter comme une “victime des capitalistes de l’Entente”. Le Comte Ernst zu Reventlow, nationaliste, rédige même un article en faveur de Schlageter dans le journal communiste “Die Rote Fahne”. Pour répondre directement aux questions que lui avait posées Radek dans les colonnes de “Die Rote Fahne”, Moeller entre, à son tour, dans le débat, où nationalistes et communistes conjugueront leurs efforts pour mettre fin à l’occupation de la Ruhr. Il rédige trois articles dans “Gewissen”, en réponse à Radek. Il précise que sur le plan de la “politique spatiale”, de la “Raumpolitik”, les destins de l’Allemagne et de la Russie sont unis, inexorablement unis, mais il réfute le centralisme bolchevique et s’oppose à toute politique communiste visant à tout centraliser autour du PCUS.
Pour Arthur Moeller van den Bruck, l’URSS doit renoncer à son agitation en Allemagne, ne plus faire du communisme un instrument de subversion et laisser éclore et se développer un “socialisme allemand”, qui serait son allié et non son “clone”, se défaire d’un radicalisme inopérant sur le long terme (Gorbatchev!) et développer un socialisme véritablement démocratique. Moeller précise aussi que le prolétariat allemand peut certes être l’instrument d’une révolution aussi bien communiste que nationaliste, d’une révolution libératrice; toutefois, ce prolétariat, rappelle le Prof. Louis Dupeux en citant Moeller, forme bien sûr la “majorité arithmétique” de la nation mais il “n’est pas capable d’administrer la très complexe économie allemande”, bien différente et bien plus ancienne et diversifiée que l’économie russe. Pour Moeller, uniquement les “travailleurs intellectuels” peuvent remédier aux lacunes et aux insuffisances politiques du prolétariat parce qu’ils sont conscients des enjeux: les entrepreneurs allemands ne sont pas des capitalistes mais d’autres “travailleurs intellectuels” —différents des littérateurs et des philosophes aux regards plus perçants et dépositaires de la “longue mémoire”— car, contrairement à leurs homologues occidentaux, ils créent des valeurs (matérielles et exportables), ne sont pas des spéculateurs mais les administrateurs du génie productif des ingénieurs innovateurs, eux aussi expression du génie populaire. Géopolitiquement, l’Allemagne et la Russie, devenue bolchévique, sont liées par un “destin tellurique” —elles se procurent mutuellement une liberté de mouvement en politique étrangère— mais l’alliance potentielle et indéfectible entre les deux puissances ne peut se faire sous le signe du seul bolchevisme léniniste car celui-ci conduira au blocage de l’économie russe. Seulement aux conditions énoncées par Moeller dans “Gewissen” en réponse à Radek, une coopération entière et permanente est possible. Moeller garde donc une vision particulière, non bolchévique et véritablement “jungkonservativ” de la Russie, héritage direct de son mariage avec Lucie Kaerrick, de son travail de traducteur avec Less Kaerrick et de son amitié pour Merejkovski. Reste à constater que Moeller est prophète: la perestroïka de Gorbatchev et les accords Poutine/Schröder et Poutine/Merkel, bien analysés par le diplomate contemporain Alexander Rahr, sont autant de faits politiques et géopolitiques contemporains qui démontrent que le dialogue germano-russe est possible et fécond mais sans bolchevisme pétrifiant, avec toutefois un système russe plus dirigiste, non occidental, non influencé par le manchestérisme et la spéculation financière, et un système allemand, fidèle à ce que l’économiste français Michel Albert appelait le “capitalisme patrimonial rhénan”.
Jouvence russe et allemande
L’immersion profonde de Moeller dans l’univers romanesque de Dostoïevski le conduit à croire que la spiritualité russe est un ingrédient nécessaire à la renaissance allemande, idée partagée aussi par Eugen Diederichs qui avait fait traduire de nombreux auteurs russes et slaves. Cette spiritualité russe et dostoïevskienne, ainsi que l’apport de Merejkovski, est appelée à faire contre-poids à l’influence occidentale, qui distille dans l’Allemagne les idées délétères de la révolution française et du manchestérisme anglais. Cette spiritualité est aussi perçue comme un élément d’éternelle jouvence, comme un barrage sûr contre la sénescence à laquelle l’occidentalisme conduit les peuples (idée réactualisée par Edouard Limonov qui décrit l’Occident contemporain comme un “Grand Hospice”). Les Slaves —avec les idéologues panslavistes, qui se font les véhicules des idées lancées par Nikolaï Danilevski au 19ème siècle— se considèrent comme des peuples jeunes, parce qu’ils sont plus spiritualisés que les Occidentaux laïcisés et trop rationalisés, parce qu’ils ont une démographie plus prolifique. Immédiatement après la première guerre mondiale, Moeller van den Bruck mobilise l’idée de “peuple jeune” dans une polémique anti-française: la France est alors campée comme une “vieille nation”, à la démographie défaillante depuis plusieurs décennies, qui n’a pu vaincre l’Allemagne que parce qu’elle s’était alliée à deux peuples jeunes, les Américains et les Russes. Si l’Allemagne avait été alliée à la Russie, elle aurait incarné un principe de “plus grande jouvence” et les soldats allemands et russes, portés par l’élan putatif de leur jeunesse intrinsèque, se seraient promenés sur les Champs Elysées et sur la Canebière; un facteur de sénescence particulièrement dangereux pour l’Europe aurait été éliminé, pensaient Moeller van den Bruck et son entourage. Pour faire charnière entre l’idée russe d’une jouvence slave et l’injection (ou la ré-injection) d’idéologèmes de jouvence dans l’espace politique allemand, il faut raviver le “mythe prussien”, pense Moeller. La Prusse est effectivement un mélange d’ingrédients germaniques, vénètes (“wendisch”), slaves et baltes. Ce cocktail interethnique, réussi selon Moeller van den Bruck, doit devenir l’élément de base, l’élément essentiel, du futur Reich, et le territoire sur lequel il s’est constitué devenir son centre de gravitation historique, situé plus à l’Est, dans une région non soumise aux influences françaises et anglaises. L’esthétique visibilisée, l’urbanisme nouveau et l’architecture de prestige de l’Etat seront alors les signes de cette prussianisation de l’Allemagne: ils seront autant de réactualisations de l’esprit de l’architecture du classicisme prussien, des réactualisations à peine modifiées des oeuvres de Gilly, Schinckel,etc.
Dans le “Dictionnaire politique”, édité par le “Juni-Klub”, Max Hildebert Boehm écrivait: “La jeunesse de gauche et de droite trouve un terrain d’entente quand il s’agit de rejeter l’occidentalisme bourgeois et perçoit dans la contamination morale qu’irradie l’Occident vieillissant, surtout par le biais de l’américanisation, le pire des dangers pour la germanité. Contre les miasmes empoisonnés qui nous viennent de l’Occident, il nous faut constituer un front intellectuel contre l’Ouest...”. On notera ici que Boehm considère l’Amérique comme facteur de sénescence ou de contamination morale, alors que Moeller la considérait comme un élément de jouvence.
Nous avons surtout insisté, dans ce bref essai, sur trois aspects du livre le plus célèbre de Moeller van den Bruck, à défaut d’être le plus original et le plus profond: la définition du “Jungkonservativismus” (incompréhensible sans dresser le bilan des années littéraires de Moeller), le mythe du “Reich” (avec ses racines religieuses prophétiques) et l’“Ostideologie” (tributaire de Merejkovski et Dostoïevski).
En 1925, le Traité de Locarno instaure un modus vivendi avec l’Ouest: un certain rapprochement franco-allemand devient possible, sous la double impulsion de Briand et Stresemann. En 1926, le Traité de Berlin, signé entre la République de Weimar et l’URSS, reconduit bon nombre de clauses du Traité de Rapallo, cette fois flanqué d’un apaisement à l’Ouest par le truchement du Traité de Locarno. Le Traité de Berlin signale au monde que l’Allemagne entend encore et toujours coopérer avec l’Union Soviétique, sur les plans économique et militaire, en dépit d’un rapprochement avec l’Ouest et la SdN, que l’URSS avait voulu éviter à tout prix au début des années 20. Les Allemands, dans les clauses de ce Traité de Berlin, déclarent qu’ils resteront neutres —et non belligérants actifs aux côtés des Soviétiques— en cas de conflit entre l’URSS et une tierce puissance, en l’occurrence la Pologne, rendant de la sorte impossible toute intervention française dans le conflit en faveur de Varsovie. Simultanément, l’Allemagne des nationalistes espérait affaiblir la Pologne, allié de revers de la France. Quant à Stresemann, l’homme de Locarno avec Briand, il entendait plutôt “modérer” l’URSS, l’Allemagne, aux yeux de ce social-démocrate, devant servir d’interface entre l’Ouest et l’URSS, dans le but d’assurer paix et stabilité sur le continent européen. Le Traité de Berlin devait rester en vigueur pendant cinq ans: le gouvernement Brüning le prolongera pour cinq nouvelles années en 1931 mais l’URSS ne le ratifiera qu’en mai 1933, cinq mois après la prise de pouvoir par la NSDAP d’Hitler!
Modus vivendi en Europe
Les traités de Locarno et de Berlin instaurent de ce fait un modus vivendi en Europe, où plus aucune révolution régénérante —poussant les peuples, et le peuple allemand en particulier, vers un “Règne de l’Esprit”— n’est envisageable: le vieux monde est sauvé. Pour les activistes les plus audacieux, c’est la déception. Pour Moeller, en effet, la défaite de novembre 1918 avait été une aubaine: une victoire de l’Allemagne wilhelminienne ou une paix de compromis, comme le projet de “partie nulle” soutenu par le Pape Benoit XV, aurait maintenu le Reich dans une misère intellectuelle similaire à celle du wilhelminisme que brocardaient les “cabaretistes” autour de Wedekind et Wolzogen. La révolution esthétique et politique, rêvée par Moeller, n’était plus possible. La défaite et le marasme, dans lequel l’Allemagne avait été plongée depuis la défaite et Versailles, rendaient plausible la perspective d’un grand bouleversement salutaire, capable de faire advenir le “Troisième Règne de l’Esprit”. Rien d’aussi glorieux n’était plus envisageable sous les clauses des nouveaux traités et, pire, sous les conditions du Plan Dawes de refinancer l’Allemagne par des capitaux américains. L’ère des masses sans conscience s’annonçait, obligeant les “nationaux-révolutionnaires”, qui avaient tous espéré le déchaînement proche d’une révolution purificatrice, à quitter la scène politique, à abandonner tout espoir en l’utilité révolutionnaire des petites phalanges ultra-politisées de “cerveaux hardis”: le retrait d’Ernst Jünger étant, après la mort de Moeller, le plus emblématique; surtout, Ernst Jünger et son frère Friedrich-Georg Jünger sont ceux qui nous laissent les témoignagnes littéraires les plus complets de cette époque où l’on attendait une révolution régénérante. Pour Jünger, dorénavant, l’écriture est la seule forme possible de résistance contre l’avancée arasante de la modernité. Le Règne de Cham pouvait alors commencer, sous des formes multiples, utilisant les élans de l’âme à mauvais escient, étouffant cette “Glut”, signe de jouvence évoqué maintes fois par Moeller, soit cette incandescence des âmes fortes, des âmes qui brûlent. Cham nous a menés tout droit à l’étouffoir dans lequel nous survivons péniblement aujourd’hui. Voilà pourquoi, pour vivre au milieu des ruines, il faut se rappeler l’itinéraire si riche d’Arthur Moeller van den Bruck et raviver sans cesse les flammèches allumées jadis par les auteurs et les activistes qu’il a côtoyés, afin de ne pas se laisser submerger par les fadaises de notre époque, la plus triviale que l’histoire européenne ait jamais connue, celle d’une “Smuta”, dont on ne perçoit pas encore la fin, afin aussi d’être les premiers lorsque prendra fin cette ère de déclin.
Robert STEUCKERS.
Fait à Forest-Flotzenberg, Fessevillers et Genève, de février à septembre 2013.
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Über Othmar Spann
Über Othmar Spann
von Michael Rieger
Ex: http://www.sezession.de
Als »Nazi« verdammt, darf der Wiener Nationalökonom und Sozialphilosoph Othmar Spann (1878–1950) als aus der Geistesgeschichte getilgt gelten. Otto Neurath – Positivist, Austromarxist – ließ 1944 keine Zweifel: Sicher sei Spann ein Nazi.
Seine Mißhandlung durch die Gestapo wie das Lehrverbot könnten nur das Ergebnis einer »Abweichung« sein, schließlich hätte Spann einen »nationalen Totalitarismus« gepredigt, »schlicht und einfach«. Schlicht und einfach liegen die Dinge selten und bei Spann, der »in der Spur Schellings … inmitten der Moderne … den Universalismus und Theozentrismus des christlichen Denkens zu rekonstituieren« suchte (Ernst Nolte), schon gar nicht. Man darf sogar von einer unverminderten Bedeutung dieses »zu Unrecht Vergessenen« (Kurt Hübner) sprechen.
Doch Schnittmengen bleiben: Die Bücherverbrennung war Spann »ein Ruhmesblatt der nationalsozialistischen Umwälzung«; die deutschen Juden wollte er in Ghettos sehen. Aber er verurteilte den biologistisch-rassistischen Charakter der »NS-Judenpolitik«, um deren fatalen Kurs durch eine naive wie mutige Intervention zu verändern – im September 1935, lange nach dem »Röhm-Putsch« und kurz nach den »Nürnberger Gesetzen«, einer der letzten Versuche konservativ-revolutionärer Selbstbehauptung. »Schlicht und einfach«?
Am 23. Februar 1929 kritisierte Spann die »unwürdigen« NS-Aufmärsche, was dem im Münchner Audimax anwesenden Adolf Hitler nicht eben gefiel. Am 9. Juni 1933 erteilte der Wiener Professor der Confederazione Nazionale Fascista del Commercio Nachhilfe: Seit 1929 praktizierte man in Rom staatlichen Dirigismus, Spann warb für das Gegenteil, eine ständisch-dezentralisierte Wirtschaft. Ähnliche Kritik hielt er, vom Hitler-Förderer Fritz Thyssen unterstützt, auch für das Deutsche Reich parat, dabei der Fehleinschätzung erlegen, die Entwicklung mitprägen zu können. Als man den Spann-Kreis 1938 eine »Gefahr für die gesamtdeutsche Entwicklung« nannte, wußten Hitler und Rosenberg längst um die Unverträglichkeit ihrer totalitären Ansprüche mit Spanns Ganzheitslehre. Es gilt Gerd-Klaus Kaltenbrunners Klage über die wohlfeile Sicht auf Spann, den »liberale Flachköpfe und sozialistische Schreihälse für einen ›Faschisten‹ ausgeben dürfen«.
Sachlichere Töne kamen von Katholiken. Gustav Gundlachs Einwand, Spann vernachlässige die Person, klingt bis heute im Lexikon für Theologie und Kirche nach: Obschon in katholischer Mystik gründend, sich gegen Mechanismus und Marxismus wendend, werde Spanns Philosophie »der Wirklichkeit des Menschen« nicht gerecht, da sie sich »auf ein abstraktes Ganzes« konzentriere. Vor allem aber hielt ein Kreis von Wissenschaftlern die Erinnerung wach: Initiiert von Spanns bedeutendstem Schüler, Walter Heinrich, arbeitete man im Umfeld der Zeitschrift für Ganzheitsforschung (1957–2008) das umfangreiche Werk auf, vernetzte es mit anderen Denktraditionen. Über Schüler und Enkelschüler (Baxa, Riehl, Pichler, Romig) läßt sich eine Linie ziehen bis zur jüngsten Monographie von Sebastian Maaß, die Spann als »Ideengeber der Konservativen Revolution« würdigt.
Armin Mohler betonte, daß der Spann-Kreis der Konservativen Revolution »das durchgearbeitetste Denksystem geliefert« habe. Doch nicht an diesem imposanten Bau aus Gesellschaftslehre (1914), volkswirtschaftlichen Standardwerken, Kategorienlehre (1924), Geschichtsphilosophie (1932), Naturphilosophie (1937) und abschließender Religionsphilosophie (1947) entzündete sich der Antifa-Furor, sondern an den politischen Implikationen, an Spanns Generalkritik des Individualismus und der Demokratie, nachzulesen in seinem bekanntesten Werk Der wahre Staat (1921).
Die historische Entwicklung seit dem Humanismus wertet Spann als Austreibung alles Höheren, als Weg in Atomisierung und Materialismus: Wo der Mensch »nur aus sich selbst heraus lebt«, übt er Sittlichkeit und Pflicht sich selbst, »aber nicht dem anderen gegenüber«. Es ist eine asoziale Welt triebgesteuerter Atome ohne Verantwortlichkeit und Rückbindung. Diesem Auflösungsprozeß begegnet Spann zunächst anthropologisch: Das autarke Ich sei eine »knabenhafte Anmaßung«, der einzelne werde nur durch »Zugehören«, »Mitdabeisein eines anderen Geistes« gleichsam »wachgeküßt«.
Gegen die hybride individualistische Erkenntnistheorie denkt Spann vom Ganzen her, da »alles mit allem verwandt, alles an alles geknüpft ist«. Das Ganze gehe den Gliedern voraus, »offenbart« sich in ihnen. Von diesem Perspektivwechsel erhofft er eine »vollständige Umkehr« im Verhältnis des Menschen zu Welt und Gesellschaft, die nicht mehr als Summe gleicher Einzelkämpfer erscheint, sondern als verwobene, abgestufte Wirklichkeit. Hier nun bricht Spann, politisch höchst unkorrekt, mit dem Gleichheitsbegriff: Zwar besäßen »der Verbrecher wie der Heilige … einen unverletzlichen Kern ›Mensch‹! Niemals aber heißt dies: Sie seien gleiche Menschen«. Während die Menschenwürde »gewiß nicht angetastet werden darf«, rekurriert Spann auf eine »organische Ungleichheit«, die aus dem »inneren Verrichtungsplane« des Ganzen hervorgehe. Die Ungleichheit der Menschen, die jeweils nach geistigen Grundinhalten Gemeinschaften bilden (Demokraten, Katholiken, Facharbeiter, Vegetarier, Sportler …), schaffe eine »maßlose Zerklüftung«: »Der Bestand der Gesellschaft … wäre gefährdet, wenn die kleinen, einander fremden Gemeinschaften« in dieser »Zusammenhanglosigkeit« verblieben. Also bedarf es einer Integration, einer Rangordnung und »organischen Schichtung nach Werten«, die nur qua Herrschaft Form gewinnt.
Mittelalterliche und romantische Ordnungsmuster aktualisierend, faßt Spann die gesellschaftlichen Glieder als Hierarchie von Ständen: von den Handarbeitern über die höheren Arbeiter zu den »Wirtschaftsführern«; darüber bestimmt Spann einen Stand von Staats-, Heer-, Kirchen- und Erziehungsführern und zuletzt einen zielgebenden »schöpferischen Lehrstand«. Da alle aufeinander angewiesen sind, der Soziologe auf den Schreiner, der auf den Förster, der wiederum auf den Priester, besteht eine »gleiche Wichtigkeit für die Erreichung des Zieles«: Stabilität, soziale Harmonie, Gerechtigkeit. Welche darin liegt, daß jeder in der ihm gemäßen Stellung im Ganzen sein »Lebenshöchstmaß« realisiere, als sinnvolles Glied einer Gemeinschaft und, berufsständisch organisiert, einer Korporation. Dieses natürliche, dynamische Gefüge, mitnichten die Erstarrung in »Geburtsadel oder Geburtsuntertänigkeit«, ist Spanns Gegenbild zur linken Einheitsschablone wie auch zur machiavellistischen »Kampfeswirtschaft« des Kapitalismus.
Da mit der Auflösung der Stände in der Neuzeit »weder das Phänomen des differierenden sozialen Status, noch der Bedarf an ›erzogenen Führern‹ verschwindet«, so Mohammed Rassem, stellt Spann in einer »Gegenrenaissance« – gegen die Verabsolutierung liberaler Werte – ein traditionelles Ordnungsgesetz neu her. Politisch gewendet: Aus dem (potentiell veränderlichen) Standort in der Gliederung, aus der »Lebensaufgabe« und Leistung für die Gesellschaft ergeben sich der jeweilige Ort und Grad der »Mitregierung«. So will Spann, gestützt auf die Selbstverwaltung der Stände und das fundamentale Prinzip der Subsidiarität, die defizitären demokratischen Mechanismen überwinden, wobei die Staatsführer einen übergreifenden »Höchststand« bilden, eine sachverständige, »staatsgestaltende« Elite. Überzeugt, daß man »Stimmen nicht zählen, sondern wägen« solle, forderte er, die Besten mögen herrschen: Mehrheiten assoziierte Spann mit Wankelmut, Inkompetenz, Einheitsbrei, kurz: mit »demokratischem Kulturtod«, ja »Kulturpest«, wie der »alle Überlieferung, alle Bildung« zerschlagende Bolschewismus zeige.
Von einiger Sprengkraft ist Spanns Begriff der Wirtschaft. Dem »Bereich des Handelns« angehörend, liege ihr Wesen darin, »Mittel für Ziele zu sein«. Sie sei »dienend, nicht eigentlich primär«, worunter Spann allein »ein Geistiges« verstand. »Handeln kann ich nur, um einem Ziele zu dienen, … z.B. um eine Kirche zu bauen.« An höhere Ziele gebunden, bilde die Wirtschaft »keinen selbsttätigen Mechanismus mehr«, ein Primat komme ihr nicht zu. In der ständischen Ordnung sei auch Privateigentum »der Sache nach« Gemeineigentum. Mit dieser »Zurückdrängung« der Ökonomie reagierte Spann auf die »Verwirtschaftlichung des Lebens«, die der alles verwertende Kapitalismus so rücksichtslos betrieben hat wie der alles auf ökonomische Kategorien reduzierende Marxismus.
Doch die Geschichte hat Spanns Begriff einer dienenden Wirtschaft auf den Kopf gestellt. Im Rahmen einer globalen Amerikanisierung erweisen sich die politischen Akteure als Erfüllungsgehilfen der Wirtschaft. Bei Staatsbesuchen werden wie selbstverständlich Verträge für die mitreisende Großindustrie angebahnt; Entscheidungen zugunsten partikularer Interessen gelten als »alternativlos«; subsidiäre Strukturen werden leichthin preisgegeben; »Flexibilität« und »Mobilität« bemänteln die Entwurzelung der Arbeitnehmer … Nicht die Wirtschaft dient der Gesellschaft, vielmehr assistiert die Politik der Wirtschaft bei der Indienstnahme der Gesellschaft. Aktuell illustrieren Finanzkrise und Euro-Misere, wie von Spanns Enkelschüler Friedrich Romig analysiert, die strukturelle Verantwortungslosigkeit dieses Verhältnisses: Wirtschaftliches Handeln ist nicht höheren Zielen, etwa der Stabilität, sondern nur kurzfristigen Profiten verpflichtet. Verluste aus Spekulationen werden, jeden Begriff von Gerechtigkeit negierend, auf die Gemeinschaft abgewälzt. In Europa zeichnet sich eine gleichmacherische Schuldenunion ab, vermittels derer die Schuldenberge in jenen Ländern anwachsen, die nicht für diese Entwicklung verantwortlich sind. In der »hastigen Unruhe« ist der einzelne nicht »aufgehoben«, sondern seinen Zukunftsängsten überlassen. Die Inkompetenz der Politik spiegelt die Hilflosigkeit des Staates, dessen Souveränität dahin ist. Vor genau achtzig Jahren hat Walter Heinrich dieses Szenario antizipiert: »Die zum Selbstzweck gewordene Wirtschaft bedeutet Verfall des Staates und der Kultur. … Der Staat, der die Führung verloren hat, hört auf Staat zu sein«. Und das geistige Leben verkommt – um mit Spann zu sprechen – vollends zur »Krämerbude«.
In Spanns Alternative liegen hingegen grundsätzliche Umwertungen beschlosen: Als »Organ einer genossenschaftlichen Ganzheit« werde der einzelne in seinem wirtschaftlichen Handeln eingeschränkt, woraus ein relatives »Stillstehen des technischen Fortschrittes« folge. Die »ungehemmt vorwärts strebende Entfaltung der produktiven Kräfte« werde beschränkt. »Der Mensch ist nicht mehr derselbe. Wer das Äußere bändigt und bindet, kann es nicht zugleich ins Unbegrenzte« entwickeln. Denn »auf Innerlichkeit und auf Bindung der Wirtschaft« hinzusteuern, heißt zugleich, »daß wir ärmer werden!« Die übliche Kritik an der Trägheit der Stände übersieht stets, wie sehr sich in den Momenten der Bescheidung, Verlangsamung und Langfristigkeit eine neue Sittlichkeit, ein antisäkulares Ethos ausdrückt.
Das Ziel dieser Ordnung läßt sich über die irdische Gerechtigkeit hinaus in einer übersinnlichen Dimension fassen: Spanns Konzeption macht die Rückverbundenheit aller Glieder sichtbar, zuletzt ihre Vermittlung zwischen Welt und kosmischer, göttlicher Ordnung. Es geht darum, den verlorenen Blick fürs Ganze wiederzugewinnen.
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lundi, 23 septembre 2013
L’etno-nazionalismo e l’ideologia völkisch
L’etno-nazionalismo e l’ideologia völkisch
Il pensiero etnonazionalista si rifà ad una concezione oggettiva della nazione, che corrisponde al Volk della tradizione di Herder, Fichte e M.H. Boehm.
Un extraeuropeo che lavora da 30 anni in una delle comunità etnonazionali che costituiscono la Padania (ad esempio il Veneto) non sarà mai un cittadino Veneto, dal momento che conserva le sue racines, la sua cultura allogena, la sua lingua. Il diritto di cittadinanza, a nostro avviso, dovrà spettare, infatti, solo a chi appartiene alla comunità etnica, cioè, ad esempio in Veneto, è cittadino chi è Veneto di sangue.
- Il federalismo basato sul criterio etnico quale elemento costitutivo di un nuovo ordine europeo (“L’Europa delle comunità etnonazionali e delle Stirpi”), in cui alla disintegrazione degli Stati nazionali etnicamente eterogenei corrisponda la nascita di una federazione di Stati regionali etnicamente omogenei; il federalismo quale forma istituzionale che consenta l’esercizio del diritto all’autodeterminazione;
- La richiesta di una nuova mappa politica dell’Europa, con la modifica degli odierni confini, da noi considerati artificiali;
- La priorità assegnata ai diritti collettivi, di gruppo, rispetto ai diritti fondamentali dell’individuo; l’avversione verso l’universalismo;
- Il rigetto della società multiculturale, considerata fonte di conflitti interetnici, la teorizzazione di forme del pensiero differenzialista;
- L’esaltazione di comunità naturali e omogenee contrapposte all’idea di nazione nata dalla rivoluzione francese;
- La relativizzazione della democrazia liberale, che necessita di correttivi etnici.
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Intereg (Internationales Institut fur Nationalitatenrecht und Regionalismus, ossia Istituto Internazionale per il diritto dei gruppi etnici e il regionalismo). Finanziato attraverso la Bayerische Landeszentrale fur Politische Bildungsarbeit (ente centrale bavarese di istruzione politica), fino alla sua scomparsa è sostenuto caldamente da Franz Joseph Strauss. Nella dichiarazione istitutiva dell’Intereg si precisa l’obbiettivo di una “relativizzazione degli stati nazionali”, al fine di conseguire “l’affermazione di un diritto dei gruppi etnici e dei princìpi dell’autodeterminazione e dell’autonoma stabilità delle regioni”.
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BdV (Bund der Vertriebenen), è l’associazione regionale dei tedeschi espulsi dopo il 1945 dai territori orientali del Terzo Reich. BdV nasce grazie al land della Baviera e su iniziativa dei profughi dei Sudeti, la regione popolata da tedeschi grazie a cui Hitler invase la Cecoslovacchia. Il BdV non riconosce gli attuali confini della Germania.
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SL: (Sudetendeutsche Landsmannschaft), è la lega dei profughi dei Sudeti
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Fuev (Federalistiche Union Europaischer Volksgruppen), Unione federalista delle comunità etniche in Europa. Per gruppo etnico, secondo la Fuev, si intende una comunità che si definisce “attraverso caratteri che vuole mantenere come la propria etnia, lingua, cultura e storia”. Dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Urss, tre milioni di cittadini di origine tedesca sono presenti negli stati post sovietici, per cui Bonn, dopo il 1989, ha iniziato a finanziare la Fuev.
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VdA: (Verein fur das Deutschtum in Ausland), associazione per la germanicità all’estero.
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Guy Héraud: coeditore di “Europa Etnica”, organo ufficiale della Fuev e di Intereg, figura nel comitè de patronage della “Nouvelle Ecole”, la rivista della nuova Destra francese. È il padre del federalismo etnico, la dottrina istituzionale che presenta le “Piccole Patrie”, nate dalla secessione dallo Stato nazionale multietnico, come l’estremo bastione contro la globalizzazione e l’invasione allogena. “Padre spirituale” del nazionalismo etnico è R.W. Darré e il suo testo, fondamentale per ogni etnonazionalista, è Neuadel aus Blut un Boden (Ed. italiana: Edizioni di Ar, Padova 1978): l’indissolubile binomio di “sangue e suolo” esprimeva la carica fortemente etnonazionalista e biologista del pensiero ruralistico di Darré. L’uomo, considerato innanzi tutto nella dimensione biologica di portatore e custode nel suo sangue di un prezioso patrimonio genetico, doveva realizzare la sua esistenza attraverso un’intima fusione con la terra.
La battaglia è appena iniziata: siamo noi, tutti noi Popoli Padano-Alpini ed Europei che dobbiamo alzare il grido di battaglia, serrare i ranghi, e inondare le piazze di questa Terra antica dal nuovo destino. Inondarla delle nostre millenarie bandiere di libertà! E soprattutto noi etnonazionalisti dobbiamo restare uniti e legati come lo sono gli alberi di una stessa foresta, le onde di uno stesso fiume, le gocce di uno stesso sangue. Allora sarà veramente impossibile fermarci! Forza dunque: Padania, Europa in piedi!
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vendredi, 13 septembre 2013
La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa
La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa
di Luigi Iannone
Ex: http://www.azionetradizionale.com
La grandezza di Ernst Jünger sta nell’aver conosciuto e intellettualmente dominato il moderno carattere faustiano della tecnica, gli scenari di crisi aperti dai totalitarismi e di aver intuito l’accelerazione del tempo. E, infatti, in Italia, la sua recezione si snoda attraverso una mole enorme di saggi scientifici che ne scandagliano in profondità questi aspetti. La biografia scritta da Heimo Schwilk (Ernst Junger. Una vita lunga un secolo, Effatà editrice, pp.720), amico personale di Jünger, è la prima nel nostro Paese e quindi apre finalmente una prospettiva completamente nuova integrando i temi della produzione saggistica con le vicende private.
Come era la giornata tipo di Jünger?
«Non era uno scrittore disciplinato, faceva quello che in quel momento gli passava per la mente. Sulla scrivania c’erano sempre più progetti in contemporanea, lettere, manoscritti, su due o tre livelli, e sempre tantissimi insetti. Ma si faceva facilmente distogliere dal lavoro. Bastava si presentasse una persona interessante per indurlo ad alzarsi e a dedicarsi ad essa. E poi amava moltissimo la televisione e guardava i telefilm del Tenente Colombo.»
Commentava le lotte partitiche degli anni ottanta?
«Aveva un distacco totale. Quando il cancelliere Helmut Schmidt perse le elezioni e Helmut Kohl divenne cancelliere, il suo commento fu laconico: “Un Helmut va, un Helmut viene”. Kohl ha cercato molto la vicinanza di Jünger, perché riteneva che la cosa gli desse prestigio, per cui andava spesso a trovarlo. Io gli chiesi: “Come mai viene così spesso?” Lui mi rispose: “Adesso basta, la mia capacità di averlo vicino è arrivata al limite”.»
In privato che giudizio dava di Kohl, Mitterand e Gonzalez?
«Kohl non era un intenditore di letteratura né un conoscitore dell’opera jüngeriana. Discorreva soprattutto della sua storia personale e Jünger ascoltava senza essere coinvolto. Quando intervenne al novantesimo compleanno di Jünger, quest’ultimo aveva appena pubblicato Un incontro pericoloso; nella dedica ironicamente gli scrisse: “Dopo un incontro non pericoloso”. Con Mitterand il dialogo era facilitato dal fatto che il Presidente francese aveva una profonda conoscenza della sua opera e nel suo staff personale c’era anche un traduttore dei libri di Jünger. González era invece un intenditore di botanica e quindi si trovavano in sintonia su questo tema.»
Il crollo del Muro lo colpì enormemente.
«“Sono molto felice che la Germania è stata riunificata”, fu il suo primo commento. Poi fece una pausa e aggiunse: “Ma ne manca ancora un terzo”, riferendosi ai territori ancora oggi parte di Polonia e Russia.»
Ha mai parlato del fatto di non aver ricevuto il Premio Nobel?
«Con me non ha mai parlato del Nobel, ma io so che l’ambasciatore Dufner, profondo conoscitore di Jünger, si era rivolto al governo tedesco affinché lo proponesse al comitato del Nobel; la risposta fu che rischiava di non essere accettato e questo sarebbe stato negativo per la sua reputazione. Fu una scusa. Comunque è nella Bibliothèque de la Pléiade dell’editore Gallimard. E lì ci sono soltanto tre tedeschi: Kafka, Brecht e Jünger.»
Come affrontò la morte?
«Ne parlava dicendo che la morte era per lui una grande curiosità. La stava aspettando perché la considerava l’inizio di un qualcosa. Aveva fatto una collezione delle ultime parole di molte persone che stavano per morire, perché voleva capire cosa si provasse di fronte alla morte. Ma la sua morte non è stata spettacolare; è morto in ospedale, anche se avevano già comprato un letto speciale per poterlo accudire a casa. Ho chiesto alla moglie se avesse detto un’ultima frase e mi ha risposto che il giorno prima aveva parlato tantissimo, ma al momento di lasciare questa vita è rimasto muto, impenetrabile. L’ultimo anno godeva di buona salute, ma la sua scrivania era praticamente vuota, non faceva quasi più niente: “Dopo cent’anni”, disse, “è stato detto abbastanza”. »
Può chiarirci le idee sulla questione della conversione?
«Jünger aveva sempre avuto una predisposizione favorevole verso il cattolicesimo, specie perché la madre, bavarese, era cattolica mentre il padre era protestante. Insomma, era come vivere un ecumenismo familiare che gli aveva dato una grande apertura su questi temi. Negli anni Venti gli piaceva molto il cattolicesimo perché era una religione combattiva, difensiva di norme certe, mentre da parte dei protestanti vedeva un abbandono di queste posizioni che avrebbe poi portato a quelli che definiva due grandi tradimenti: quello dei Deutsche Christen, schierati con il nazismo e quello della Kirche im Sozialismus integrata nel sistema comunista. Ammirava tantissimo i Gesuiti e il loro stile di vita e negli ultimi anni, viveva non lontano da casa sua un prete polacco che aveva combattuto il comunismo ed era stato vicino a Karol Wojtyła. Questo fatto lo attirava non poco. Si è convertito a 101 anni dicendo: “Adesso è venuto il momento di tornare nel luogo a me familiare, il cattolicesimo che ho conosciuto da mia madre”.»
Fonte: Il Borghese- Agosto, Settembre 2013
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jeudi, 12 septembre 2013
Ernst Jünger: The Resolute Life of an Anarch
Ernst Jünger: The Resolute Life of an Anarch 8
by Keith Preston
Ex: http://www.attackthesystem.com
Perhaps the most interesting, poignant and, possibly, threatening type of writer and thinker is the one who not only defies conventional categorizations of thought but also offers a deeply penetrating critique of those illusions many hold to be the most sacred. Ernst Junger (1895-1998), who first came to literary prominence during Germany’s Weimar era as a diarist of the experiences of a front line stormtrooper during the Great War, is one such writer. Both the controversial nature of his writing and its staying power are demonstrated by the fact that he remains one of the most important yet widely disliked literary and cultural figures of twentieth century Germany. As recently as 1993, when Junger would have been ninety-eight years of age, he was the subject of an intensely hostile exchange in the “New York Review of Books” between an admirer and a detractor of his work.(1) On the occasion of his one hundreth birthday in 1995, Junger was the subject of a scathing, derisive musical performed in East Berlin. Yet Junger was also the recipient of Germany’s most prestigious literary awards, the Goethe Prize and the Schiller Memorial Prize. Junger, who converted to Catholicism at the age of 101, received a commendation from Pope John Paul II and was an honored guest of French President Francois Mitterand and German Chancellor Helmut Kohl at the Franco-German reconciliation ceremony at Verdun in 1984. Though he was an exceptional achiever during virtually every stage of his extraordinarily long life, it was his work during the Weimar period that not only secured for a Junger a presence in German cultural and political history, but also became the standard by which much of his later work was evaluated and by which his reputation was, and still is, debated. (2)
Ernst Junger was born on March 29, 1895 in Heidelberg, but was raised in Hanover. His father, also named Ernst, was an academically trained chemist who became wealthy as the owner of a pharmaceutical manufacturing business, finding himself successful enough to essentially retire while he was still in his forties. Though raised as an evangelical Protestant, Junger’s father did not believe in any formal religion, nor did his mother, Karoline, an educated middle class German woman whose interests included Germany’s rich literary tradition and the cause of women’s emancipation. His parents’ politics seem to have been liberal, though not radical, in the manner not uncommon to the rising bourgeoise of Germany’s upper middle class during the pre-war period. It was in this affluent, secure bourgeoise environment that Ernst Junger grew up. Indeed, many of Junger’s later activities and professed beliefs are easily understood as a revolt against the comfort and safety of his upbringing. As a child, he was an avid reader of the tales of adventurers and soldiers, but a poor academic student who did not adjust well to the regimented Prussian educational system. Junger’s instructors consistently complained of his inattentiveness. As an adolescent, he became involved with the Wandervogel, roughly the German equivalent of the Boy Scouts.(3)
It was while attending a boarding school near his parents’ home in 1913, at the age of seventeen, that Junger first demonstrated his first propensity for what might be called an “adventurist” way of life. With only six months left before graduation, Junger left school, leaving no word to his family as to his destination. Using money given to him for school-related fees and expenses to buy a firearm and a railroad ticket to Verdun, Junger subsequently enlisted in the French Foreign Legion, an elite military unit of the French armed forces that accepted enlistees of any nationality and had a reputation for attracting fugitives, criminals and career mercenaries. Junger had no intention of staying with the Legion. He only wanted to be posted to Africa, as he eventually was. Junger then deserted, only to be captured and sentenced to jail. Eventually his father found a capable lawyer for his wayward son and secured his release. Junger then returned to his studies and underwent a belated high school graduation. However, it was only a very short time later that Junger was back in uniform. (4)
Warrior and War Diarist
Ernst Junger immediately volunteered for military service when he heard the news that Germany was at war in the summer of 1914. After two months of training, Junger was assigned to a reserve unit stationed at Champagne. He was afraid the war would end before he had the opportunity to see any action. This attitude was not uncommon among many recruits or conscripts who fought in the war for their respective states. The question immediately arises at to why so many young people would wish to look into the face of death with such enthusiasm. Perhaps they really did not understand the horrors that awaited them. In Junger’s case, his rebellion against the security and luxury of his bourgeoise upbringing had already been ably demonstrated by his excursion with the French Foreign Legion. Because of his high school education, something that soldiers of more proletarian origins lacked, Junger was selected to train to become an officer. Shortly before beginning his officer’s training, Junger was exposed to combat for the first time. From the start, he carried pocket-sized notebooks with him and recorded his observations on the front lines. His writings while at the front exhibit a distinctive tone of detachment, as though he is simply an observer watching while the enemy fires at others. In the middle part of 1915, Junger suffered his first war wound, a bullet graze to the thigh that required only two weeks of recovery time. Afterwards, he was promoted to the rank of lieutenant.(5)
At age twenty-one, Junger was the leader of a reconnaissance team at the Somme whose purpose was to go out at night and search for British landmines. Early on, he acquired the reputation of a brave soldier who lacked the preoccupation with his own safety common to most of the fighting men. The introduction of steel artifacts into the war, tanks for the British side and steel helmets for the Germans, made a deep impression on Junger. Wounded three times at the Somme, Junger was awarded the Iron Medal First Class. Upon recovery, he returned to the front lines. A combat daredevil, he once held out against a much larger British force with only twenty men. After being transferred to fight the French at Flanders, he lost ten of his fourteen men and was wounded in the left hand by a blast from French shelling. After being harshly criticized by a superior officer for the number of men lost on that particular mission, Junger began to develop a contempt for the military hierarchy whom he regarded as having achieved their status as a result of their class position, frequently lacking combat experience of their own. In late 1917, having already experienced nearly three full years of combat, Junger was wounded for the fifth time during a surprise assault by the British. He was grazed in the head by a bullet, acquiring two holes in his helmet in the process. His performance in this battle won him the Knights Cross of the Hohenzollerns. In March 1918, Junger participated in another fierce battle with the British, losing 87 of his 150 men. (6)
Nothing impressed Junger more than personal bravery and endurance on the part of soldiers. He once “fell to the ground in tears” at the sight of a young recruit who had only days earlier been unable to carry an ammunition case by himself suddenly being able to carry two cases of missles after surviving an attack of British shells. A recurring theme in Junger’s writings on his war experiences is the way in which war brings out the most savage human impulses. Essentially, human beings are given full license to engage in behavior that would be considered criminal during peacetime. He wrote casually about burning occupied towns during the course of retreat or a shift of position. However, Junger also demonstrated a capacity for merciful behavior during his combat efforts. He refrained from shooting a cornered British soldier after the foe displayed a portrait of his family to Junger. He was wounded yet again in August of 1918. Having been shot in the chest and directly through a lung, this was his most serious wound yet. After being hit, he still managed to shoot dead yet another British officer. As Junger was being carried off the battlefield on a stretcher, one of the stretcher carriers was killed by a British bullet. Another German soldier attempted to carry Junger on his back, but the soldier was shot dead himself and Junger fell to the ground. Finally, a medic recovered him and pulled him out of harm’s way. This episode would be the end of his battle experiences during the Great War.(7)
In Storms of Steel
Junger’s keeping of his wartime diaries paid off quite well in the long run. They were to become the basis of his first and most famous book, In Storms of Steel, published in 1920. The title was given to the book by Junger himself, having found the phrase in an old Icelandic saga. It was at the suggestion of his father that Junger first sought to have his wartime memoirs published. Initially, he found no takers, antiwar sentiment being extremely high in Germany at the time, until his father at last arranged to have the work published privately. In Storms of Steel differs considerably from similar works published by war veterans during the same era, such as Erich Maria Remarque’s All Quiet on the Western Front and John Dos Passos’ Three Soldiers. Junger’s book reflects none of the disillusionment with war by those experienced in its horrors of the kind found in these other works. Instead, Junger depicted warfare as an adventure in which the soldier faced the highest possible challenge, a battle to the death with a mortal enemy. Though Junger certainly considered himself to be a patriot and, under the influence of Maurice Barres (8), eventually became a strident German nationalist, his depiction of military combat as an idyllic setting where human wills face the supreme test rose far above ordinary nationalist sentiments. Junger’s warrior ideal was not merely the patriot fighting out of a profound sense of loyalty to his country nor the stereotype of the dutiful soldier whose sense of honor and obedience compels him to follow the orders of his superiors in a headlong march towards death. Nor was the warrior prototype exalted by Junger necessarily an idealist fighting for some alleged greater good such as a political ideal or religious devotion. Instead, war itself is the ideal for Junger. On this question, he was profoundly influenced by Nietzsche, whose dictum “a good war justifies any cause”, provides an apt characterization of Junger’s depiction of the life (and death) of the combat soldier. (9)
This aspect of Junger’s outlook is illustrated quite well by the ending he chose to give to the first edition of In Storms of Steel. Although the second edition (published in 1926) ends with the nationalist rallying cry, “Germany lives and shall never go under!”, a sentiment that was deleted for the third edition published in 1934 at the onset of the Nazi era, the original edition ends simply with Junger in the hospital after being wounded for the final time and receiving word that he has received yet another commendation for his valor as a combat soldier. There is no mention of Germany’s defeat a few months later. Nationalism aside, the book is clearly about Junger, not about Germany, and Junger’s depiction of the war simultaneously displays an extraordinary level detachment for someone who lived in the face of death for four years and a highly personalized account of the war where battle is first and foremost about the assertion of one’s own “will to power” with cliched patriotic pieties being of secondary concern.
Indeed, Junger goes so far as to say there were winners and losers on both sides of the war. The true winners were not those who fought in a particular army or for a particular country, but who rose to the challenge placed before them and essentially achieved what Junger regarded as a higher state of enlightenment. He believed the war had revealed certain fundamental truths about the human condition. First, the illusions of the old bourgeoise order concerning peace, progress and prosperity had been inalterably shattered. This was not an uncommon sentiment during that time, but it is a revelation that Junger seems to revel in while others found it to be overwhelmingly devastating. Indeed, the lifelong champion of Enlightenment liberalism, Bertrand Russell, whose life was almost as long as Junger’s and who observed many of the same events from a much different philosophical perspective, once remarked that no one who had been born before 1914 knew what it was like to be truly happy.(10) A second observation advanced by Junger had to do with the role of technology in transforming the nature of war, not only in a purely mechanical sense, but on a much greater existential level. Before, man had commanded weaponry in the course of combat. Now weaponry of the kind made possible by modern technology and industrial civilization essentially commanded man. The machines did the fighting. Man simply resisted this external domination. Lastly, the supremacy of might and the ruthless nature of human existence had been demonstrated. Nietzsche was right. The tragic, Darwinian nature of the human condition had been revealed as an irrevocable law.
In Storms of Steel was only the first of several works based on his experiences as a combat officer that were produced by Junger during the 1920s. Copse 125 described a battle between two small groups of combatants. In this work, Junger continued to explore the philosophical themes present in his first work. The type of technologically driven warfare that emerged during the Great War is characterized as reducing men to automatons driven by airplanes, tanks and machine guns. Once again, jingoistic nationalism is downplayed as a contributing factor to the essence of combat soldier’s spirit. Another work of Junger’s from the early 1920s, Battle as Inner Experience, explored the psychology of war. Junger suggested that civilization itself was but a mere mask for the “primordial” nature of humanity that once again reveals itself during war. Indeed, war had the effect of elevating humanity to a higher level. The warrior becomes a kind of god-like animal, divine in his superhuman qualities, but animalistic in his bloodlust. The perpetual threat of imminent death is a kind of intoxicant. Life is at its finest when death is closest. Junger described war as a struggle for a cause that overshadows the respective political or cultural ideals of the combatants. This overarching cause is courage. The fighter is honor bound to respect the courage of his mortal enemy. Drawing on the philosophy of Nietzsche, Junger argued that the war had produced a “new race” that had replaced the old pieties, such as those drawn from religion, with a new recognition of the primacy of the “will to power”.(11)
Conservative Revolutionary
Junger’s writings about the war quickly earned him the status of a celebrity during the Weimar period. Battle as Inner Experience contained the prescient suggestion that the young men who had experienced the greatest war the world had yet to see at that point could never be successfully re-integrated into the old bougeoise order from which they came. For these fighters, the war had been a spiritual experience. Having endured so much only to see their side lose on such seemingly humiliating terms, the veterans of the war were aliens to the rationalistic, anti-militarist, liberal republic that emerged in 1918 at the close of the war. Junger was at his parents’ home recovering from war wounds during the time of the attempted coup by the leftist workers’ and soldiers’ councils and subsequent suppression of these by the Freikorps. He experimented with psychoactive drugs such as cocaine and opium during this time, something that he would continue to do much later in life. Upon recovery, he went back into active duty in the much diminished Germany army. Junger’s earliest works, such as In Storms of Steel, were published during this time and he also wrote for military journals on the more technical and specialized aspects of combat and military technology. Interestingly, Junger attributed Germany’s defeat in the war simply to poor leadership, both military and civilian, and rejected the “stab in the back” legend that consoled less keen veterans.
After leaving the army in 1923, Junger continued to write, producing a novella about a soldier during the war titled Sturm, and also began to study the philosophy of Oswald Spengler. His first work as a philosopher of nationalism appeared the Nazi paper Volkischer Beobachter in September, 1923.
Critiquing the failed Marxist revolution of 1918, Junger argued that the leftist coup failed because of its lacking of fresh ideas. It was simply a regurgitation of the egalitarian outllook of the French Revolution. The revolutionary left appealed only to the material wants of the Germany people in Junger’s views. A successful revolution would have to be much more than that. It would have to appeal to their spiritual or “folkish” instincts as well. Over the next few years Junger studied the natural sciences at the University of Leipzig and in 1925, at age thirty, he married nineteen-year-old Gretha von Jeinsen. Around this time, he also became a full-time political writer. Junger was hostile to Weimar democracy and its commercial bourgeiose society. His emerging political ideal was one of an elite warrior caste that stood above petty partisan politics and the middle class obsession with material acquisition. Junger became involved with the the Stahlhelm, a right-wing veterans group, and was a contributer to its paper, Die Standardite. He associated himself with the younger, more militant members of the organization who favored an uncompromised nationalist revolution and eschewed the parliamentary system. Junger’s weekly column in Die Standardite disseminated his nationalist ideology to his less educated readers. Junger’s views at this point were a mixture of Spengler, Social Darwinism, the traditionalist philosophy of the French rightist Maurice Barres, opposition to the internationalism of the left that had seemingly been discredited by the events of 1914, irrationalism and anti-parliamentarianism. He took a favorable view of the working class and praised the Nazis’ efforts to win proletarian sympathies. Junger also argued that a nationalist outlook need not be attached to one particular form of government, even suggesting that a liberal monarchy would be inferior to a nationalist republic.(12)
In an essay for Die Standardite titled “The Machine”, Junger argued that the principal struggle was not between social classes or political parties but between man and technology. He was not anti-technological in a Luddite sense, but regarded the technological apparatus of modernity to have achieved a position of superiority over mankind which needed to be reversed. He was concerned that the mechanized efficiency of modern life produced a corrosive effect on the human spirit. Junger considered the Nazis’ glorification of peasant life to be antiquated. Ever the realist, he believed the world of the rural people to be in a state of irreversible decline. Instead, Junger espoused a “metropolitan nationalism” centered on the urban working class. Nationalism was the antidote to the anti-particularist materialism of the Marxists who, in Junger’s views, simply mirrored the liberals in their efforts to reduce the individual to a component of a mechanized mass society. The humanitarian rhetoric of the left Junger dismissed as the hypocritical cant of power-seekers feigning benevolence. He began to pin his hopes for a nationalist revolution on the younger veterans who comprised much of the urban working class.
In 1926, Junger became editor of Arminius, which also featured the writings of Nazi leaders like Alfred Rosenberg and Joseph Goebbels. In 1927, he contributed his final article to the Nazi paper, calling for a new definition of the “worker”, one not rooted in Marxist ideology but the idea of the worker as a civilian counterpart to the soldier who struggles fervently for the nationalist ideal. Junger and Hitler had exchanged copies of their respective writings and a scheduled meeting between the two was canceled due to a change in Hitler’s itinerary. Junger respected Hitler’s abilities as an orator, but came to feel he lacked the ability to become a true leader. He also found Nazi ideology to be intellectually shallow, many of the Nazi movement’s leaders to be talentless and was displeased by the vulgarity, crassly opportunistic and overly theatrical aspects of Nazi public rallies. Always an elitist, Junger considered the Nazis’ pandering the common people to be debased. As he became more skeptical of the Nazis, Junger began writing for a wider circle of readers beyond that of the militant nationalist right-wing. His works began to appear in the Jewish liberal Leopold Schwarzchild’s Das Tagebuch and the “national-bolshevik” Ernst Niekisch’s Widerstand.
Junger began to assemble around himself an elite corps of bohemian, eccentric intellectuals who would meet regularly on Friday evenings. This group included some of the most interesting personalities of the Weimar period. Among them were the Freikorps veteran Ernst von Salomon, Otto von Strasser, who with his brother Gregor led a leftist anti-Hitler faction of the Nazi movement, the national-bolshevik Niekisch, the Jewish anarchist Erich Muhsam who had figured prominently in the early phase of the failed leftist revolution of 1918, the American writer Thomas Wolfe and the expressionist writer Arnolt Bronnen. Many among this group espoused a type of revolutionary socialism based on nationalism rather than class, disdaining the Nazis’ opportunistic outreach efforts to the middle class. Some, like Niekisch, favored an alliance between Germany and Soviet Russia against the liberal-capitalist powers of the West. Occasionally, Joseph Goebbels would turn up at these meetings hoping to convert the group, particularly Junger himself, whose war writings he had admired, to the Nazi cause. These efforts by the Nazi propaganda master proved unsuccessful. Junger regarded Goebbels as a shallow ideologue who spoke in platitudes even in private conversation.(13)
The final break between Ernst Junger and the NSDAP occurred in September 1929. Junger published an article in Schwarzchild’s Tagebuch attacking and ridiculing the Nazis as sell outs for having reinvented themselves as a parliamentary party. He also dismissed their racism and anti-Semitism as ridiculous, stating that according to the Nazis a nationalist is simply someone who “eats three Jews for breakfast.” He condemned the Nazis for pandering to the liberal middle class and reactionary traditional conservatives “with lengthy tirades against the decline in morals, against abortion, strikes, lockouts, and the reduction of police and military forces.” Goebbels responded by attacking Junger in the Nazi press, accusing him being motivated by personal literary ambition, and insisting this had caused him “to vilify the national socialist movement, probably so as to make himself popular in his new kosher surroundings” and dismissing Junger’s attacks by proclaiming the Nazis did not “debate with renegades who abuse us in the smutty press of Jewish traitors.”(14)
Junger on the Jewish Question
Junger held complicated views on the question of German Jews. He considered anti-Semitism of the type espoused by Hitler to be crude and reactionary. Yet his own version of nationalism required a level of homogeneity that was difficult to reconcile with the subnational status of Germany Jewry. Junger suggested that Jews should assimilate and pledge their loyalty to Germany once and for all. Yet he expressed admiration for Orthodox Judaism and indifference to Zionism. Junger maintained personal friendships with Jews and wrote for a Jewish owned publication. During this time his Jewish publisher Schwarzchild published an article examining Junger’s views on the Jews of Germany. Schwarzchild insisted that Junger was nothing like his Nazi rivals on the far right. Junger’s nationalism was based on an aristocratic warrior ethos, while Hitler’s was more comparable to the criminal underworld. Hitler’s men were “plebian alley scum”. However, Schwarzchild also characterized Junger’s rendition of nationalism as motivated by little more than a fervent rejection of bourgeoise society and lacking in attention to political realities and serious economic questions.(15)
The Worker
Other than In Storms of Steel, Junger’s The Worker: Mastery and Form was his most influential work from the Weimar era. Junger would later distance himself from this work, published in 1932, and it was reprinted in the 1950s only after Junger was prompted to do so by Martin Heidegger.
In The Worker, Junger outlines his vision of a future state ordered as a technocracy based on workers and soldiers led by a warrior elite. Workers are no longer simply components of an industrial machine, whether capitalist or communist, but have become a kind of civilian-soldier operating as an economic warrior. Just as the soldier glories in his accomplishments in battle, so does the worker glory in the achievements expressed through his work. Junger predicted that continued technological advancements would render the worker/capitalist dichotomy obsolete. He also incorporated the political philosophy of his friend Carl Schmitt into his worldview. As Schmitt saw international relations as a Hobbesian battle between rival powers, Junger believed each state would eventually adopt a system not unlike what he described in The Worker. Each state would maintain its own technocratic order with the workers and soldiers of each country playing essentially the same role on behalf of their respective nations. International affairs would be a crucible where the will to power of the different nations would be tested.
Junger’s vision contains a certain amount prescience. The general trend in politics at the time was a movement towards the kind of technocratic state Junger described. These took on many varied forms including German National Socialism, Italian Fascism, Soviet Communism, the growing welfare states of Western Europe and America’s New Deal. Coming on the eve of World War Two, Junger’s prediction of a global Hobbesian struggle between national collectives possessing previously unimagined levels of technological sophistication also seems rather prophetic. Junger once again attacked the bourgeoise as anachronistic. Its values of material luxury and safety he regarded as unfit for the violent world of the future. (16)
The National Socialist Era
By the time Hitler took power in 1933, Junger’s war writings had become commonly used in high schools and universities as examples of wartime literature, and Junger enjoyed success within the context of German popular culture as well. Excerpts of Junger’s works were featured in military journals. The Nazis tried to coopt his semi-celebrity status, but he was uncooperative. Junger was appointed to the Nazified German Academcy of Poetry, but declined the position. When the Nazi Party’s paper published some of his work in 1934, Junger wrote a letter of protest. The Nazi regime, despite its best efforts to capitalize on his reputation, viewed Junger with suspicioun. His past association with the national-bolshevik Ersnt Niekisch, the Jewish anarchist Erich Muhsam and the anti-Hitler Nazi Otto von Strasser, all of whom were either eventually killed or exiled by the Third Reich, led the Nazis to regard Junger as a potential subversive. On several occasions, Junger received visits from the Gestapo in search of some of his former friends. During the early years of the Nazi regime, Junger was in the fortunate position of being able to economically afford travel outside of Germany. He journeyed to Norway, Brazil, Greece and Morocco during this time, and published several works based on his travels.(17)
Junger’s most significant work from the Nazi period is the novel On the Marble Cliffs. The book is an allegorical attack on the Hitler regime. It was written in 1939, the same year that Junger reentered the German army. The book describes a mysterious villian that threatens a community, a sinister warlord called the “Head Ranger”. This character is never featured in the plot of the novel, but maintains a forboding presence that is universal (much like “Big Brother” in George Orwell’s 1984). Another character in the novel, “Braquemart”, is described as having physical characteristics remarkably similar to those of Goebbels. The book sold fourteen thousand copies during its first two weeks in publication. Swiss reviewers immediately recognized the allegorical references to the Nazi state in the novel. The Nazi Party’s organ, Volkische Beobachter, stated that Ernst Jünger was flirting with a bullet to the head. Goebbels urged Hitler to ban the book, but Hitler refused, probably not wanting to show his hand. Indeed, Hitler gave orders that Junger not be harmed.(18)
Junger was stationed in France for most of the Second World War. Once again, he kept diaries of the experience. Once again, he expressed concern that he might not get to see any action before the war was over. While Junger did not have the opportunity to experience the level of danger and daredevil heroics he had during the Great War, he did receive yet another medal, the Iron Cross, for retrieving the body of a dead corporal while under heavy fire. Junger also published some of his war diaries during this time. However, the German government took a dim view of these, viewing them as too sympathetic to the occupied French. Junger’s duties included censorship of the mail coming into France from German civilians. He took a rather liberal approach to this responsibility and simply disposed of incriminating documents rather than turning them over for investigation. In doing so, he probably saved lives. He also encountered members of France’s literary and cultural elite, among them the actor Louis Ferdinand Celine, a raving anti-Semite and pro-Vichyite who suggested Hitler’s harsh measures against the Jews had not been heavy handed enough. As rumors of the Nazi extermination programs began to spread, Junger wrote in his diary that the mechanization of the human spirit of the type he had written about in the past had apparently generated a higher level of human depravity. When he saw three young French-Jewish girls wearing the yellow stars required by the Nazis, he wrote that he felt embarrassed to be in the Nazi army. In July of 1942, Junger observed the mass arrest of French Jews, the beginning of implementation of the “Final Solution”. He described the scene as follows:
“Parents were first separated from their children, so there was wailing to be heard in the streets. At no moment may I forget that I am surrounded by the unfortunate, by those suffering to the very depths, else what sort of person, what sort of officer would I be? The uniform obliges one to grant protection wherever it goes. Of course one has the impression that one must also, like Don Quixote, take on millions.”(19)
An entry into Junger’s diary from October 16, 1943 suggests that an unnamed army officer had told Junger about the use of crematoria and poison gas to murder Jews en masse. Rumors of plots against Hitler circulated among the officers with whom Junger maintained contact. His son, Ernstl, was arrested after an informant claimed he had spoken critically of Hitler. Ernstl Junger was imprisoned for three months, then placed in a penal battalion where he was killed in action in Italy. On July 20, 1944 an unsuccessful assassination attempt was carried out against Hitler. It is still disputed as to whether or not Junger knew of the plot or had a role in its planning. Among those arrested for their role in the attemt on Hitler’s life were members of Junger’s immediate circle of associates and superior officers within the German army. Junger was dishonorably discharged shortly afterward.(20)
Following the close of the Second World War, Junger came under suspicion from the Allied occupational authorities because of his far right-wing nationalist and militarist past. He refused to cooperate with the Allies De-Nazification programs and was barred from publishing for four years. He would go on to live another half century, producing many more literary works, becoming a close friend of Albert Hoffman, the inventor of the hallucinogen LSD, with which he experimented. In a 1977 novel, Eumeswil, he took his tendency towards viewing the world around him with detachment to a newer, more clearly articulated level with his invention of the concept of the “Anarch”. This idea, heavily influenced by the writings of the early nineteenth century German philosopher Max Stirner, championed the solitary individual who remains true to himself within the context of whatever external circumstances happen to be present. Some sample quotations from this work illustrate the philosophy and worldview of the elderly Junger quite well:
“For the anarch, if he remains free of being ruled, whether by sovereign or society, this does not mean he refuses to serve in any way. In general, he serves no worse than anyone else, and sometimes even better, if he likes the game. He only holds back from the pledge, the sacrifice, the ultimate devotion … I serve in the Casbah; if, while doing this, I die for the Condor, it would be an accident, perhaps even an obliging gesture, but nothing more.”
“The egalitarian mania of demagogues is even more dangerous than the brutality of men in gallooned coats. For the anarch, this remains theoretical, because he avoids both sides. Anyone who has been oppressed can get back on his feet if the oppression did not cost him his life. A man who has been equalized is physically and morally ruined. Anyone who is different is not equal; that is one of the reasons why the Jews are so often targeted.”
“The anarch, recognizing no government, but not indulging in paradisal dreams as the anarchist does, is, for that very reason, a neutral observer.”
“Opposition is collaboration.”
“A basic theme for the anarch is how man, left to his own devices, can defy superior force – whether state, society or the elements – by making use of their rules without submitting to them.”
“… malcontents… prowl through the institutions eternally dissatisfied, always disappointed. Connected with this is their love of cellars and rooftops, exile and prisons, and also banishment, on which they actually pride themselves. When the structure finally caves in they are the first to be killed in the collapse. Why do they not know that the world remains inalterable in change? Because they never find their way down to its real depth, their own. That is the sole place of essence, safety. And so they do themselves in.”
“The anarch may not be spared prisons – as one fluke of existence among others. He will then find the fault in himself.”
“We are touching one a … distinction between anarch and anarchist; the relation to authority, to legislative power. The anarchist is their mortal enemy, while the anarch refuses to acknowledge them. He seeks neither to gain hold of them, nor to topple them, nor to alter them – their impact bypasses him. He must resign himself only to the whirlwinds they generate."
“The anarch is no individualist, either. He wishes to present himself neither as a Great Man nor as a Free Spirit. His own measure is enough for him; freedom is not his goal; it is his property. He does not come on as foe or reformer: one can get along nicely with him in shacks or in palaces. Life is too short and too beautiful to sacrifice for ideas, although contamination is not always avoidable. But hats off to the martyrs.”
“We can expect as little from society as from the state. Salvation lies in the individual.” (21)
Notes:
1. Ian Buruma, “The Anarch at Twilight”, New York Review of Books, Volume 40, No. 12, June 24, 1993. Hilary Barr, “An Exchange on Ernst Junger”, New York Review of Books, Volume 40, No. 21, December 16, 1993.
2. Nevin, Thomas. Ernst Junger and Germany: Into the Abyss, 1914-1945. Durham, N.C.: Duke University Press, 1996, pp. 1-7. Loose, Gerhard. Ernst Junger. New York: Twayne Publishers, 1974, preface.
3. Nevin, pp. 9-26. Loose, p. 21
4. Loose, p. 22. Nevin, pp. 27-37.
5. Nevin. p. 49.
6. Ibid., p. 57
7. Ibid., p. 61
8. Maurice Barrès (September 22, 1862 - December 4, 1923) was a French novelist, journalist, an anti-semite, nationalist politician and agitator. Leaning towards the far-left in his youth as a Boulangist deputy, he progressively developed a theory close to Romantic nationalism and shifted to the right during the Dreyfus Affair, leading the Anti-Dreyfusards alongside Charles Maurras. In 1906, he was elected both to the Académie française and as deputy of the Seine department, and until his death he sat with the conservative Entente républicaine démocratique. A strong supporter of the Union sacrée(Holy Union) during World War I, Barrès remained a major influence of generations of French writers, as well as of monarchists, although he was not a monarchist himself. Source: http://en.wikipedia.org/wiki/Maurice_Barr%C3%A8s
9. Nevin, pp. 58, 71, 97.
10. Schilpp, P. A. “The Philosophy of Bertrand Russell”. Reviewed Hermann Weyl, The American Mathematical Monthly, Vol. 53, No. 4 (Apr., 1946), pp. 208-214.
11. Nevin, pp. 122, 125, 134, 136, 140, 173.
12. Ibid., pp. 75-91.
13. Ibid., p. 107
14. Ibid., p. 108.
15. Ibid., pp. 109-111.
16. Ibid., pp. 114-140.
17. Ibid., p. 145.
18. Ibid., p. 162
19. Ibid., p. 189.
20. Ibid., p. 209.
21. Junger, Ernst. Eumeswil. New York: Marion Publishers, 1980, 1993.
Bibliography
Barr, Hilary. “An Exchange on Ernst Junger”, New York Review of Books, Volume 40, No. 21, December 16, 1993.
Braun, Abdalbarr. “Warrior, Waldgaenger, Anarch: An Essay on Ernst Junger’s Concept of the Sovereign Individual”. Archived at http://www.fluxeuropa.com/juenger-anarch.htm
Buruma, Ian. “The Anarch at Twilight”, New York Review of Books, Volume 40, No. 12, June 24, 1993.
Hofmann, Albert. LSD: My Problem Child, Chapter Seven, “Radiance From Ernst Junger”. Archived at http://www.flashback.se/archive/my_problem_child/chapter7.html
Loose, Gerhard. Ernst Junger. New York: Twayne Publishers, 1974.
Hervier, Julien. The Details of Time: Conversations with Ernst Junger. New York: Marsilio Publishers, 1986.
Junger, Ernst. Eumeswil. New York: Marsilio Publishers, 1980, 1993.
Junger, Ernst. In Storms of Steel. New York: Penguin Books, 1920, 1963, 2003.
Junger, Ernst. On the Marble Cliffs. New York: Duenewald Printing Corporation, 1947.
Nevin, Thomas. Ernst Junger and Germnay: Into the Abyss, 1914-1945. Durham, N.C.: Duke University Press, 1996.
Schilpp, P. A. “The Philosophy of Bertrand Russell”. Reviewed Hermann Weyl, The American Mathematical Monthly, Vol. 53, No. 4 (Apr., 1946), pp. 208-214.
Stern, J. P. Ernst Junger. New Haven: Yale University Press, 1953.
Zavrel, Consul B. John. “Ernst Junger is Still Working at 102″. Archived at http://www.meaus.com/Ernst%20Junger%20at%20102.html
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jeudi, 11 juillet 2013
Ernst Jünger et la révolution conservatrice
Dominique Venner, Le choc de l'histoire
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dimanche, 30 juin 2013
„Jetzt ist Ewigkeit“
„Jetzt ist Ewigkeit“
von Christoph George
Ex: http://www.blauenarzisse.de/
Mit „Letzte Worte“ veröffentlicht Jörg Magenau eine umfangreiche Auswahl letzter Worte namhafter Persönlichkeiten aus dem Nachlaß Ernst Jüngers.
Bereits in einem der Pariser Tagebücher äußerte Ernst Jünger die Idee, eine Sammlung letzter Worte anzulegen. Auf ihre Veröffentlichung wartete seine Leserschaft jedoch zu Lebzeiten des Meisters vergeblich. Was er selbst nicht mehr tat, bringt nun der Autor und Literaturkritiker Jörg Magenau in einem edlen Sammelband heraus.
Magenau wählte für das Buch vor allem bekannte Persönlichkeiten der Geschichte aus, von Abraham bis Ulrich Zwingli. Schöpfen konnte er dabei aus einer breiten Jüngerschen Sammlung, welche mehrere Tausend Karteikarten umfasst und vollständig im Deutschen Literaturarchiv in Marburg liegt. Jene stellte Ernst Jünger vor allem in der Zeit nach dem 2. Weltkrieg aus anderen Nachschlagewerken zu diesem Thema zusammen. Aber auch vorgedruckte Karteikarten, welche er zum Ausfüllen an Freunde und Bekannte verteilte, finden sich darin wieder.
Sokrates: „Kriton, wir schulden dem Äskulap noch einen Hahn. Vergeßt nicht, die Schuld zu bezahlen!“
Als Vorwort dient eine unvollendete Abhandlung Jüngers aus den frühen 1960ern, in welcher er auf die Besonderheiten letzter Worte eingeht. Demnach sind nicht alle letzten Worte für eine Aufnahme in einen solchen auserwählten Kreis geeignet. Es fallen jene finalen Äußerungen heraus, welche ein noch zu starkes Klammern am Diesseits erkennen lassen. Erst ein gewisses Maß an Loslassen verleiht ihnen überhaupt den Charakter letzter Worte, wenngleich sie auch noch auf das Leben gerichtet sein mögen. Von Sokrates ist überliefert, er hätte an die Begleichung einer Schuld erinnert, bevor er zum Schluck aus dem Schierlingsbecher ansetzte.
Weiterhin besitzt zuletzt Gesprochenes für die Nachwelt etwas Prophetisches. Ihm geht zumeist aufgrund ungenauer Überlieferung und mehrfachen Interpretationsmöglichkeiten ein gesicherter historischer Gehalt ab. Sie sind so eher dem Bereich des Mythischen zuzuschreiben, haben anekdotischen Charakter. Die gute Anekdote will hier mit Begleitumständen erscheinen, um so der Dichtung näher zu kommen. Sie enthüllt dabei das Wesen der Dinge und erfaßt so ihren eigentlichen Kern. Deswegen würde es dem Gehalt der überlieferten letzten Worte auch keinen Abbruch tun, erwiesen sich einige im Nachhinein als falsch: „Trotzdem summieren sie sich zur Wahrheit, die ihnen innewohnt“, schlußfolgert Jünger.
Im Angesicht des Todes die Haltung wahren
Unterteilt ist die von Ernst Jünger selbst teilweise kommentierte Sammlung nach verschiedenen Themenbereichen wie etwa: Lebensbilanzen, letzte Einsichten und Anrufungen, Gebete. Hier stechen vor allem tiefsinnige Sprüche hervor, wie z.B. der des schwedischen Erzbischofs Nathan Söderblom: „Jetzt ist Ewigkeit“. Aber auch höchst unfreiwillig komische Varianten sind darin versammelt. Die letzten Worte Egon Friedells, welcher sich 1938 in Wien aus dem Fenster stürzte, sollen zum unten stehenden Hauswirt gewesen sein: „Bitt‘ schön, gehn’s zur Seite!“
Für Jünger sind jedoch nicht alle gültigen letzten Worte gleich zu werten. So kommentierte er den Abschied Elisabeths I. von England: „Alle meine Schätze für eine einzige Minute“, kurz und knapp mit: „Recht unköniglich“. Im Gegensatz dazu wird ein unbekannter Soldat aus dem Deutsch-Französischen Krieg von 1870 aufgeführt. Der Eintrag hierzu lautet „,Herr Hauptmann, melde gehorsamst, daß ich tödlich getroffen bin!‘ salutierte stramm der Obergefreite Müller am nämlichen Geschütz, indem er noch weiterbediente.“ Im Angesicht des Unausweichlichen will die Haltung gewahrt bleiben – eine Forderung, die man vom frühen Jünger nur zu gut kennt.
Augustinus: „Laß mich sterben, mein Gott, daß ich lebe!“
Die Beschäftigung mit letzten Worten führt den Leser dabei nicht nur an das individuelle Lebensende des jeweiligen Protagonisten. Es zwingt ihn darüber hinaus zu einer Beschäftigung mit jener Grenze, die auch er einmal überschreiten muß. Das letzte Wort ist somit, trotz seiner Vagheit, in ein transzendentes Verhältnis zu setzen. „Dies also war sein zuletzt gesprochenes auf Erden – und dann?“ Die Lektüre ist deswegen weniger im Sinne eines reinen Nachschlagewerkes konkreter letzter Sätze interessant. Sie lohnt sich vielmehr, da sie zu einer persönlichen Auseinandersetzung mit dem Tode zwingt. Was das Buch zu einem guten Geschenktip werden läßt für diejenigen, welche einem nahe stehen, aber in ihrer Lebensart entschieden zu sehr an der Oberfläche der Welt verbleiben.
Den Schluß des Buches bildet ein Nachwort Magenaus, in welchem er einen engeren Bezug zwischen Ernst Jünger und unserer Gegenwart herstellt. So zitiert er hier Jünger damit, was dieser über eine USA-Reise im Januar 1958 schrieb: „Die Uhren gehen dort vor – und wie seinerzeit Tocqueville, so können auch wir heute ablesen, was uns blühen wird – eine Welt, die den Tod und die Liebe nicht kennt. Das hat mich unendlich bestürzt, obwohl es ja nur eine Bestätigung war.“ Magenau kommentiert dies anschließend ganz richtig mit: „In der Begegnung mit dem Tod kommt der Mensch zu sich selbst; will er vom Tod nichts mehr wissen, dann verleugnet er auch das Leben.“
Nach einem letzten Wort Ernst Jüngers sucht der Leser indes leider vergeblich. Was aber auch nicht weiter verwunderlich ist; die eigenen letzten Worte schreibt man selbst eben nicht mehr nieder.
Jörg Magenau (Hrsg.): Ernst Jünger – Letzte Worte. 245 Seiten, Klett-Cotta Verlag 2013. 22,95 Euro.
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mercredi, 05 juin 2013
La fascinante experiencia de la Revolución Conservadora alemana (1919-1932)
La fascinante experiencia de la Revolución Conservadora alemana (1919-1932)
Bajo la fórmula “Revolución Conservadora” (RC) acuñada por Armin Mohler (Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932) se engloban una serie de corrientes de pensamiento, cuyas figuras más destacadas son Oswald Spengler, Ernst Jünger, Carl Schmitt y Moeller van den Bruck, entre otros. La denominación de la RC (o KR en sus siglas originales), quizás demasiado ecléctica y difusa, ha gozado, no obstante, de aceptación y arraigo, para abarcar a una serie de intelectuales alemanes “idiosincráticos” de la primera mitad del siglo XX, sin unidad organizativa ni homogeneidad ideológica, ni –mucho menos- adscripción política común, que alimentaron proyectos para una renovación cultural y espiritual de los auténticos valores contra los principios demoliberales de la República de Weimar, dentro de la dinámica de un proceso palingenésico que reclamaba un nuevo renacimiento alemán y europeo (una re-generación).
Aun siendo consciente de que los lectores de El Manifiesto cuentan ya con un cierto bagaje de conocimientos sobre la llamada “Revolución Conservadora”, parece conveniente abordar un intento por situarla ideológicamente, especialmente a través de determinadas descripciones de la misma por sus protagonistas, complementadas por una síntesis de sus principales actitudes ideológicas –o mejor, de rechazos– que son, precisamente, el único vínculo de asociación entre todos ellos. Porque lo revolucionario-conservador se define principalmente por una actitud ante la vida y el mundo, un estilo, no por un programa o doctrina cualquiera.
Según Giorgio Locchi, entre 1918 y 1933 la Konservative Revolution nunca presentó un aspecto unitario o monolítico y «acabó por perfilar mil direcciones aparentemente divergentes», contradictorias incluso, antagónicas en otras ocasiones. Ahí encontraremos personajes tan diversos como el primer Thomas Mann, Ernst Jünger y su hermano Friedrich Georg, Oswald Spengler, Ernst von Salomon, Alfred Bäumler, Stefan Georg, Hugo von Hofmanssthal, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Jacob von Üexküll, Günther, Werner Sombart, Hans Blüher, Gottfried Benn, Max Scheler y Ludwig Klages. Todos ellos dispersados en torno a una red de asociaciones diversas, sociedades de pensamiento, círculos literarios, organizaciones semi-clandestinas, grupúsculos políticos, en la mayoría de las ocasiones sin conexión alguna. Esas diferencias han llevado a uno de los grandes estudiosos de la Revolución Conservadora, Stefan Breuer, a considerar que realmente no existió la Revolución Conservadora y que tal concepto debe ser eliminado como herramienta interpretativa. Pero, como afirma Louis Dupeux, la Revolución Conservadora fue, de hecho, la ideología dominante en Alemania durante el período de Weimar.
Los orígenes de la RC –siguiendo la tesis de Locchi– hay que situarlos a mediados del siglo XIX, si bien situando lo que Mohler llama las “ideas”, o mejor, las “imágenes-conductoras” (Leitbilder) comunes al conjunto de los animadores de la Revolución Conservadora. Precisamente, uno de los efectos del hundimiento de la vieja y decadente actitud fue el desprestigio de los conceptos frente a la revalorización de las imágenes. Estética frente a ética es la expresión que mejor describe esta nueva actitud.
En primer lugar, se sitúa el origen de la imagen del mundo en la obra de Nietzsche: se trata de la concepción esférica de la historia, frente a la lineal del cristianismo, el liberalismo y el marxismo; se trata, en realidad, de un “eterno retorno”, pues la historia no es una forma de progreso infinito e indefinido; en segundo lugar, la idea del “interregno”: el viejo orden se hunde y el nuevo orden se encuentra en el tránsito de hacerse visible, siendo nuevamente Nietzsche el profeta de este momento; en tercer lugar, el combate del nihilismo positivo y regenerativo, una “re-volución, un retorno, reproducción de un momento que ya ha sido”; y en cuarto y último lugar, la renovación religiosa de carácter anticristiano, a través de un “cristianismo germánico” liberado de sus formas originales o de la resurrección de antiguas divinidades paganas indoeuropeas.
Resulta, pues, que Nietzsche constituye no sólo el punto de partida, sino también el nexo de unión de los protagonistas de la RC, el maestro de una generación rebelde, que sería filtrado por Spengler y Moeller van den Bruck, primero, y Jünger y Heidegger, posteriormente, como de forma magistral expuso Gottfried Benn. En las propias palabras de Nietzsche encontramos el primer aviso del cambio: «Conozco mi destino. Algún día se unirá mi nombre al recuerdo de algo tremendo, a una crisis como no la hubo sobre la tierra, al más hondo conflicto de conciencia, a una decisión pronunciada contra todo lo que hasta ahora ha sido creído, exigido, reverenciado».
Nietzsche es la punta de un iceberg que rechazaba el viejo orden para sustituirlo por un nuevo renacimiento. Y los representantes generacionales de la Revolución Conservadora percibieron que podían encontrar en el filósofo germano a un “ancestro directo” para adaptar la revolución de la conciencia europea a su Kulturpessimismus. Ferrán Gallego ha realizado el siguiente resumensobre la esencia de la Konservative Revolution:
«El elogio de las élites […], la concepción instrumental de las masas, el rechazo de la “nación de ciudadanos” [entendidos como átomos aislados] a favor de la nación integral, la visión orgánica y comunitaria de la sociedad frente a las formulaciones mecanicistas y competitivas, la combinación del liderazgo con la hostilidad al individualismo, el ajuste entre la negación del materialismo y la búsqueda de verificaciones materiales en las ciencias de la naturaleza. Todo ello, presentado como un gran movimiento de revisión de los valores de la cultura decimonónica, como un rechazo idéntico del liberalismo y del socialismo marxista, estaba aún lejos de organizarse como movimiento político. La impresión de que había concluido un ciclo histórico, de que el impulso de las ideologías racionalistas había expirado, la contemplación del presente como decadencia, la convicción de que las civilizaciones son organismos vivos, no fueron una exclusiva del pesimismo alemán, acentuado por el rigor de la derrota en la gran guerra, sino que se trataba de una crisis internacional que ponía en duda las bases mismas del orden ideológico contemporáneo y que muchos vivieron en términos de tarea generacional.»
Louis Dupeux insiste, no obstante, en que la RC no constituye, en momento alguno, «una ideología unificada, sino una Weltanschauung plural, una constelación sentimental». Ya sean considerados “idealistas”, “espiritualistas” o “vitalistas”, todos los revolucionario-conservadores consideran prioritaria la lucha política y el liberalismo es considerado como el principal enemigo, si bien el combate político se sitúa en un mundo espiritual de oposición idealista, no en el objetivo de la conquista del poder ansiada por los partidos de masas. Según Dupeux, la fórmula de esta “revolución espiritualista” es propiciar el paso a la constitución de una “comunidad nacional orgánica”, estructurada y jerarquizada, consolidada por un mismo sistema de valores y dirigida por un Estado fuerte.
En fin, una “revuelta cultural” contra los ideales ilustrados y la civilización moderna, contra el racionalismo, la democracia liberal, el predominio de lo material sobre lo espiritual. La causa última de la decadencia de Occidente no es la crisis sentimental de entreguerras (aunque sí marque simbólicamente la necesidad del cambio): la neutralidad de los Estados liberales en materia espiritual debe dejar paso a un sistema en el que la autoridad temporal y la espiritual sean una y la misma, por lo que sólo un “Estado total” puede superar la era de disolución que representa la modernidad. Así que la labor de reformulación del discurso de la decadencia y de la necesaria regeneración será asumida por la Revolución Conservadora.
Si hubiéramos de subrayar ciertas actitudes o tendencias básicas como elementos constitutivos del pensamiento revolucionario-conservador, a pesar de su pluralidad contradictoria, podríamos señalar diversos aspectos como los siguientes: el cuestionamiento de la supremacía de la racionalidad sobre la espiritualidad, el rechazo de la actividad política de los partidos demoliberales, la preferencia por un Estado popular, autoritario y jerárquico, no democrático, así como un distanciamiento tanto del “viejo tradicionalismo conservador” como de los “nuevos liberalismos” capitalista y marxista, al tiempo que se enfatizaba la experiencia de la guerra y el combate como máxima realización. La reformulación del ideario se fundamenta en la necesidad de construir una “tercera vía” entre el capitalismo y el comunismo (sea el socialismo prusiano de van den Bruck, el nacionalismo revolucionario de Jünger o el nacional-bolchevismo de Niekisch). Y por encima de estas actitudes se encontraba presente el sentimiento común de la necesidad de barrer el presente decadente y corrupto como tránsito para recuperar el contacto con una vida fundamentada en los valores eternos.
El propio Mohler, que entendía la “Revolución Conservadora” como «el movimiento espiritual de regeneración que trataba de desvanecer las ruinas del siglo XIX y crear un nuevo orden de vida» –igual que Hans Freyer consideraba que “barrerá los restos del siglo XIX”–, proporciona las evidencias más convincentes para una clasificación de los motivos centrales del pensamiento de la RC que, según su análisis, giran en torno a la consideración del final de un ciclo, su repentina metamorfosis, seguida de un renacimiento en el que concluirá definitivamente el “interregno” que comenzó en torno a la generación de 1914. Para ello, Mohler rescata a una serie de intelectuales y artistas alemanes que alimentaban proyectos comunitarios para la renovación cultural desde un auténtico rechazo a los principios demoliberales de la República de Weimar.
Para Mohler, según Steuckers, el punto esencial de contacto de la RC era una visión no-lineal de la historia, si bien no recogió simplemente la tradicional visión cíclica, sino una nietzscheana concepción esférica de la historia. Mohler, en este sentido, nunca creyó en las doctrinas políticas universalistas, sino en las fuertes personalidades y en sus seguidores, que eran capaces de abrir nuevos y originales caminos en la existencia.
La combinación terminológica Konservative Revolution aparecía ya asociada en fecha tan temprana como 1851 por Theobald Buddeus. Posteriormente lo hacen Youri Samarine, Dostoïevski y en 1900 Maurras. Pero en 1921 es Thomas Mann el primero en utilizar la expresión RC con un sentido más ideologizado, en su Russische Anthologie, hablando de una «síntesis […] de ilustración y fe, de libertad y obligación, de espíritu y cuerpo, dios y mundo, sensualidad y atención crítica de conservadurismo y revolución». El proceso del que hablaba Mann «no es otro que una revolución conservadora de un alcance como no lo ha conocido la historia europea.»
La expresión RC también tuvo fortuna en las tesis divulgadas por la Unión Cultural Europea (Europïsche Kulturband) dirigida por Karl Anton, príncipe de Rohan, aristócrata europeísta y animador cultural austríaco, cuya obra La tarea de nuestra generación de 1926 –inspirada en El tema de nuestro tiempo de Ortega y Gasset– utiliza dicha fórmula en varias ocasiones. Sin embargo, la fórmula RC adquirió plena popularidad en 1927 con la más célebre conferencia bávara de Hugo von Hofmannsthal, cuando se propuso descubrir la tarea verdaderamente hercúlea de la Revolución Conservadora: la necesidad de girar la rueda de la historia 400 años atrás, toda vez que el proceso restaurador en marcha «en realidad se inicia como una reacción interna contra aquella revolución espiritual del siglo XVI» (se refiere al Renacimiento). Hofmannsthal, en definitiva, reclamaba un movimiento de reacción que permitiera al hombre escapar a la disociación moderna y reencontrar su “vínculo con la totalidad”.
En palabras de uno de los más destacados representantes de la RC, Edgar J. Jung: «Llamamos Revolución Conservadora a la reactivación de todas aquellas leyes y valores fundamentales sin los cuales el hombre pierde su relación con la Naturaleza y con Dios y se vuelve incapaz de construir un orden auténtico. En lugar de la igualdad se ha de imponer la valía interior; en lugar de la convicción social, la integración justa en la sociedad estamental; la elección mecánica es reemplazada por el crecimiento orgánico de los líderes; en lugar de la coerción burocrática existe una responsabilidad interior que viene de la autodeterminación genuina; el placer de las masas es sustituido por el derecho de la personalidad del pueblo».
Otro de los lugares comunes de la RC es la autoconciencia de quienes pertenecían a la misma de no ser meramente conservadores. Es más, se esmeraban en distanciarse de los grupos encuadrados en el “viejo conservadurismo” (Altkonservativen) y de las ideas de los “reaccionarios” que sólo deseaban “restaurar” lo antiguo. La preocupación central era “combinar las ideas revolucionarias con las conservadoras” o “impulsarlas de un modo revolucionario-conservador” como proponía Moeller van den Bruck.
Por supuesto que la “revolución conservadora”, por más que les pese a los mal llamados “neoconservadores” (sean del tipo Reagan, Bush, Thatcher, Aznar, Sarkozy o Merkel), no tiene nada que ver con la “reacción conservadora” (una auténtica “contrarrevolución”) que éstos pretenden liderar frente al liberalismo progre, el comunismo posmoderno y el contraculturalismo de la izquierda. La debilidad de la derecha clásico-tradicional estriba en su inclinación al centrismo y a la socialdemocracia (“la seducción de la izquierda”), en un frustrado intento por cerrar el paso al socialismo, simpatizando, incluso, con los únicos valores posibles de sus adversarios (igualitarismo, universalismo, falso progresismo). Un grave error para los que no han comprendido jamás que la acción política es un aspecto más de una larvada guerra ideológica entre dos concepciones del mundo completamente antagónicas.
En fin, la derecha neoconservadora no ha captado el mensaje de Gramsci, no ha sabido ver la amenaza del poder cultural sobre el Estado y como éste actúa sobre los valores implícitos que proporcionan un poder político duradero, desconociendo una verdad de perogrullo: no hay cambio posible en el poder y en la sociedad, si la transformación que se trata de imponer no ha tenido lugar antes en las mentes y en los espíritus. Se trata de una apuesta por el “neoconservadurismo” consumista, industrial y acomodaticio, todo lo contrario de lo que se impone hoy: recrear una “revolución conservadora” con patente europea que, en frase de Jünger, fusione el pasado y el futuro en un presente ardiente.
Entre tanto, el “neoconservadurismo” contrarrevolucionario, partiendo del pensamiento del alemán emigrado a norteamérica Leo Strauss, no es sino una especie de “reacción” frente a la pérdida de unos valores que tienen fecha de caducidad (precisamente los suyos, propios de la burguesía angloamericana mercantilista e imperialista). Sus principios son el universalismo ideal y humanitario, el capitalismo salvaje, el tradicionalismo académico y el burocratismo totalitario. Para estos neocons, Estados Unidos aparece como la representación más perfecta de los valores de la libertad, la democracia y la felicidad fundadas en el progreso material y en el regreso a la moral judeocristiana, siendo obligación de Europa el copiar este modelo triunfante.
El “neoconservadurismo” angloamericano, reaccionario y contrarrevolucionario es, en realidad, un neoliberalismo democratista y tradicionalista –lean si no a Fukuyama-, heredero de los principios de la Revolución Francesa. La Revolución Conservadora, sin embargo, puede definirse, según Mohler, como la auténtica “antirRevolución Francesa”: la Revolución Francesa disgregó la sociedad en individuos, la conservadora aspiraba a restablecer la unidad del conjunto social; la francesa proclamó la soberanía de la razón, desarticulando el mundo para aprehenderlo en conceptos, la conservadora trató intuir su sentido en imágenes; la francesa creyó en el progreso indefinido en una marcha lineal; la conservadora retornó a la idea del ciclo, donde los retrocesos y los avances se compensan de forma natural.
En la antagónica Revolución Conservadora, ni la “conservación” se refiere al intento de defender forma alguna caduca de vida, ni la “revolución” hace referencia al propósito de acelerar el proceso evolutivo para incorporar algo nuevo al presente. Lo primero es propio del viejo conservadurismo reaccionario –también del mal llamado neoconservadurismo– que vive del pasado; lo segundo es el logotipo del falso progresismo, que vive del presente-futuro más absoluto.
Mientras que en gran parte del llamado mundo occidental la reacción ante la democratización de las sociedades se ha movido siempre en la órbita de un conservadurismo sentimental proclive a ensalzar el pasado y lograr la restauración del viejo orden, los conservadores revolucionarios no escatimaron ningún esfuerzo por marcar diferencias y distancias con lo que para ellos era simple reaccionarismo, aunque fuera, en expresión de Hans Freyer, una Revolución desde la derecha. La RC fue simplemente una rebelión espiritual, una revolución sin ninguna meta ni futuro reino mesiánico.
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samedi, 04 mai 2013
Grossraum: International Conference of Global Revolutionary Alliance
Grossraum: International Conference of Global Revolutionary Alliance
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jeudi, 18 avril 2013
Oswald Spengler. The decline of the West.
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mardi, 16 avril 2013
Othmar Spann: Vom klerikalfaschistischen Ständestaat und seinen Kontinuitäten
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Othmar Spann: Vom klerikalfaschistischen Ständestaat und seinen Kontinuitäten von Heide Hammer Ex: http://www.contextxxi.at/ Einer wollte den Führer führen. Nein: Einige wollten den Führer führen und wirkten so im Zeichen des Führers. Ob Heidegger, Rosenberg oder Spann, die Qualität ihrer Beiträge bleibt in diesem Kontext sekundär, wenn auch im Sinne der üblichen Vorwegnahme bei Spann die Betonung auf der philosophischen Stupidität liegen kann. Ihm gelang jedoch die Formierung eines Kreises, der mehr als sechzig Jahre nach seiner eigenen Entfernung von der Universität, der heutigen WU-Wien, das Gewäsch von Ganzheit wiederholt und daneben peinlich bemüht wirkt, keinen runden Geburtstag des Meisters oder seines ersten Schülers, manchmal auch des zweiten oder folgender, zu vergessen und zumeist mit einem Presseartikel, besser mit einem Jubiläumsband zu bedenken. Othmar Spann inthronisierte sich in einem hierarchischen Ständemodell - an der Spitze - und war als Lehrer geistiges Zentrum der von ihm Erwählten. In seinem 1921 erstmals veröffentlichten Werk Der wahre Staat. Vorlesungen über Abbruch und Neubau der Gesellschaft ordnet er "Stände nach ihren geistigen Grundlagen"1 und ficht gegen Demokratie, Liberalismus und vor allem marxistischen Sozialismus. Ordnendes Prinzip sei: "daß jeder niedere Stand geistig vom jeweils höheren geführt wird (im Original gesperrt), nach dem geistigen Lebensgesetz aller Gemeinschaft und Gemeinschaftsverbindung 'Unterordnung des Niedern unter das Höhere'" (Der wahre Staat, S.176). Die Figur des Kreises Auch er hatte zumindest einen Koch dabei - um "Vollstand" also "handelnd" (Ebd., S. 176) zu werden - diese sind durchaus zahlreich, er führt seine Schüler in Privatseminaren (Sonntag Vormittag bei sich zuhause) in die Grundlagen seiner Gesellschaftslehre ein.2 Primus wird - mit überaus langem Atem in seinem Wirken - Walter Heinrich. Er promoviert 1925 bei Spann, wird 1927 sein Assistent, habilitiert sich 1928 und erhält 1933 an der Wiener Hochschule für Welthandel einen Lehrstuhl für Nationalökonomie. Viele Jahre später zeichnet er in der Zeitschrift für Ganzheitsforschung ein Bild wunderbarer Harmonie dieser Lehrer-Schüler-Beziehung, ein Arbeitszusammenhang, der sehr auf politischen Einfluss zielte, hingegen in der Erinnerung jeweils von der konkreten historischen Situation abstrahiert und metaphysische Distanz beansprucht. Der Meister einer elitären Verbindung provoziert den Terminus "Genie", Kritik wird folglich zu einer inadäquaten Form der Auseinandersetzung, lediglich Analogien zu genialen Personen auf anderen Gebieten (Mozart) erleichtern die Übersetzung jener "Größe", die nunmehr in der Erzählung wirkt:3 "Eine ... tiefer schürfende Erklärung für seine [Spanns] Wirksamkeit liegt sicherlich in der geschlossenen Einheit von Leben und Lehre, von Persönlichkeit und geistigem Werk. Hier war das Eroshafte und das Logoshafte, freundschaftliche Nähe und Geisteskraft in seltener Einheit zusammengewachsen und haben vermöge dieser schöpferischen Verbindung einen Gründungsakt eingeleitet, der weiterwirkt. Vom ersten Geistesblitz der Gründung bis zur Entfaltung des Werkes ... der Wurzelgrund der Lehre wurde niemals verlassen. Dieser Wurzelgrund ... ist der Befund, daß Geist nur am anderen Geist werden kann, also gliedhaft; und die Erkenntnis: wo Glied, da Ganzheit. Damit ist eine neue Eroslehre begründet, eine neue Gemeinschaftslehre, eine neue Gesellschaftslehre." J. Hanns Pichler, ein später Apologet und heute Vorstand des Instituts für Volkswirtschaftstheorie und -politik an der WU-Wien, übernimmt u.a. die Aufgabe, in gegebenen Abständen auch an den Schüler zu erinnern, an Geburtstagen, später posthum4 oder die Erinnerung an Spann und Heinrich zu verbinden3. Daneben oder danach protegiert Spann Jakob Baxa, der Rechtswissenschaften studiert hatte; von Spann zum Dank für seine intensive und wertvolle Auseinandersetzung mit der Romantik im Fach Gesellschaftslehre habilitiert (Siegfried, S. 72). Wilhelm Andrae wechselt ebenso unter dem Einfluss Spanns von der klassischen Philologie, mit der er an der Berliner Universität nicht reüssieren konnte, zur Nationalökonomie; er erhält 1927 in Graz einen Lehrstuhl für Politische Ökonomie (Ebd.). Seine Übersetzung von Platons Staat, woran Spann gerne seine Überlegungen knüpft, wird hier als Habilitationsschrift anerkannt. Hans Riehl promoviert 1923 bei Spann, die Habilitation 1928 kann bereits bei seinem Freund Wilhelm Andrae in Graz erfolgen (Ebd., S. 73). Ernst von Salomon5, selbst in jenem Kräftefeld aktiv, das in der Weimarer Republik von Konservativen Revolutionären gebildet wird (u.a. an der Ermordung von Außenminister Walter Rathenau am 24. Juni 1922 beteiligt und verurteilt), hielt sich auf Einladung Spanns in Wien auf und beschreibt in seinem Bestseller, Der Fragebogen6 das alltägliche politische Verhalten der Spann-Schüler (Zit. nach Siegfried, S. 71): "Die 'Spannianer' bildeten auf der Universität eine besondere Gruppe, die größte Gruppe von allen, und, wie ich wohl behaupten darf, auch die geistig lebendigste. In jeder Verschwörerenklave auf den Gängen, in den Hallen und vor den Toren waren Spannianer, mit dem Ziel einer kleinen Extraverschwörung, wie ich vermute, - die beiden Spannsöhne vermochten schon gar nicht anders durch die Universität zu schlendern, wo sie gar nichts zu suchen hatten, ohne ununterbrochen nach allen Seiten vertrauensvoll zu blinzeln. Jeder einzelne von den Spannschülern mußte das Bewußtsein haben, an etwas selber mitzuarbeiten, was mit seiner Wahrheit mächtig genug war, die Welt zu erfüllen, jedes Vakuum auszugleichen, an einem System, so rund, so glatt, so kristallinisch in seinem inneren Aufbau, daß jedermann hoffen durfte, in gar nicht allzulanger Zeit den fertigen Stein der Weisen in der Hand zu haben."7 Die Protagonisten dieser Art Universalismus richten ihre Aktivitäten nach verschiedenen Polen, um in der zeitweiligen Konkurrenz von Nationalsozialismus, Faschismus und Ständestaat ebenso ein Netz zu bilden, wie in den Kontinuitäten der 2. Republik. Ein Blick auf die umfangreiche Publikationsliste J. Hanns Pichlers, des nunmehrigen Vorstands der Gesellschaft für Ganzheitsforschung, dokumentiert eine der Traditionslinien. Sein Bemühen gilt den Klein- und Mittelbetrieben, dem Kleinbürgertum, eine mögliche ideologische Parallele zu Othmar Spann, und - entsprechend seiner Funktion - den Anwendungsgebieten des ganzheitlichen Denkens.8 Dass er im gegebenen politischen Kräftefeld die Publikationsmöglichkeit im Organ der Freiheitlichen Akademie, Freiheit und Verantwortung wahrnimmt, verwundert kaum.9 Gerne bespricht er in der von ihm herausgegebenen Zeitschrift für Ganzheitsforschung Übersetzungen oder Neuauflagen der Schriften Julius Evolas10, jenes faschistischen Philosophen und Mystikers, der Mussolini von seiner Philosophie überzeugen wollte, die SS liebte und heute Inspiration vieler rechter AktivistInnen ist. Evolas 'Cavalcare la tigre' (Den Tiger reiten) sieht Pichler "ungemein aufrüttelnd und zeitgemäß zugleich", der beliebte Plot 'Untergang des Abendlandes' wird diesmal durch die "Auflösung im Bereich des Gemeinschaftslebens" gegeben und Pichler konkretisiert, "von Staat und Parteien, einer weithin endemisch gewordenen Krise des Patriotismus, von Ehe und Familie bis hin zu den Beziehungen der Geschlechter untereinander" (Zeitschrift für Ganzheitsforschung 4 (1999), S. 209). Denn, so die Diagnose Pichlers in einer Rezension des von Caspar von Schrenck-Notzing herausgegebenen Lexikon des Konservativismus (Zeitschrift für Ganzheitsforschung 2 (1998), S. 93), "in einer pluralistisch zerrissenen und 'unkonservativen' Zeit" dürfen dahingehend mutige Leistungen (das vorliegende Lexikon) nicht geschmälert werden - obgleich er die "notorische und offenbar nicht auszumerzende[!] Fehlinterpretation" der inneren Ordnung der Werke Spanns bedauert -, den Wirren der Zeit werden der ganzheitlichen "Geistestradition verpflichtete Autoren" vor- und gegenübergestellt, allen voran immer wieder Spann. Fragen der politischen Funktion, der Adressaten und Verbündeten der universalistischen Staatslehre werden insoweit unterschiedlich beantwortet, als AutorInnen wie Meyer11, Schneller12 oder Resele13 einen Zusammenhang des ideologischen KSpanns und der sozialen Interessen der kleinbürgerlichen Mittelschicht betonen, während Siegfried darauf beharrt, dass sich dahingehend keine eindeutige Beziehung feststellen ließe, die konkreten Bündnispartner (Heimwehr, Stahlhelm) vielmehr Oberklassen repräsentierten (Vgl. Siegfried, S. 14). Spann wirkt im Zeichen eines "dritten Weges", ein Motiv, das im Kontext der Konservativen Revolution14 an unterschiedlichen Positionen deutlich wird und später gerne von VertreterInnen einer vermeintlich "Neuen Rechten" (Nouvelle Droite)15 affirmiert wird. Das Ständestaatskonzept bietet in seinem Kampf gegen den Historischen Materialismus und die politische Organisation der ArbeiterInnenbewegung eine vorgeblich konsensuale Alternative, die als Wirtschaftsordnung "... jeden, Arbeiter wie Unternehmer, aus seiner Vereinzelung herausreißt und ihm jene Eingliederung in eine Ganzheit gewährt, welche Aufgehobenheit und Beruhigung bedeutet statt vernichtenden Wettbewerb, statt der hastigen Unruhe und Erregung der kapitalistischen Wirtschaftsordnung" (Der wahre Staat, S. 234). In Anlehnung an die Gesellschafts- und Staatslehre der politischen Romantik (Adam Müller) war Spann bemüht, soziale Antagonismen, Phänomene des Klassenkampfes in einem geistigen Gesamtzusammenhang aufzulösen (Vgl. Siegfried, S. 32-34) und das Glück der Unterordnung, der freudigen Hingabe an die subalterne Funktion im hierarchischen Gefüge in unglaublichen Variationen und Auflagen zu verbreiten. In den Anfängen seiner akademischen Karriere, Spann habilitiert sich 1907 an der Deutschen Technischen Hochschule in Brünn, positioniert er sich in den nationalistischen Auseinandersetzungen der Germanisierungspolitik in der österreichischen Monarchie (Zit. nach Siegfried, S. 43): Heimwehrkontakte Als nach dem Eingreifen der Polizei 86 Tote die Empörung der ArbeiterInnen - kumuliert im Brand des Justizpalastes - kennzeichnen, erzwingt die Heimwehr den Abbruch der sozialdemokratischen Kampfmaßnahmen und erfreut sich daraufhin der Zuwendung heterogener reaktionärer Kräfte, die Heimwehr wird (besonders bäuerliche) Massenbewegung (Siegfried, S. 81). In dieser zweiten Legislaturperiode der Regierung Seipel dominiert Spanns universalistische Lehre die Wiener Universität, sein Kreis hatte sich kontinuierlich vergrößert, nun kommt es zu intensiven Kontakten zwischen dem Führer der Christlichsozialen Partei, der Heimwehr-Führung und Mitgliedern des Spann-Kreises. Im Sommer 1929 wird Walter Heinrich Generalsekretär der Bundesführung des österreichischen Heimatschutzes, im Oktober übernimmt Hans Riehl die Leitung der Propagandaabteilung der Selbstschutzverbände (Siegfried, S. 84). Die Spannungen innerhalb der Heimwehren, unterschiedlicher Flügel, wie sie z.T. für die ÖVP charakteristisch sind, sollten durch ein Gelöbnis (Korneuburger Eid, 18. Mai 1930) beseitigt werden, dessen Text wesentlich von Walter Heinrich formuliert wurde. Der Versuch der Beschwörung der Einheit misslingt, Aristokraten siegen über kleinbürgerliche Repräsentanten der Heimwehren und beenden die Tätigkeit des Spann-Kreises in der Organisation (Siegfried, S. 100). Versuche in Italien Seit 1929 wenden sich Vertreter der universalistischen Lehre dem Faschismus zu, die italienische Regierung bedachte im übrigen die Heimwehren mit bedeutenden Geld- und Waffenlieferungen, den Mangel eines konkreten politischen Programms will Spann kompensieren (Zit. nach Siegfried, S. 102): Austrofaschismus In Österreich war die Transformation der parlamentarischen Demokratie zu einem klerikalfaschistischen Ständestaat durch die Ausschaltung von Parlament und Verfassungsgerichtshof gelungen. Spann verweist auf seine "organisch universalistische Gesellschafts- und Wirtschaftslehre" und betont deren Unvereinbarkeit mit demokratischen Formen der Repräsentation (Zit. nach Siegfried, S. 139): Spanns Ausführungen gelten der Ablehnung liberaldemokratischer Verfassungen, seine Argumentation richtet sich gegen das zentrale Element der Forderung nach Gleichheit. Diese sei "die Herrschaft der Mittleren, Schlechteren, der den Schwächsten zu sich herauf, den Stärkeren herabzieht. Sofern dabei durchgängig die große Menge die Höheren herabzieht und beherrscht, in der großen Menge jedoch abermals der Abschaum zur Herrschaft drängt, drängt Gleichheit zuletzt gar auf Herrschaft des Lumpenproletariats hin" (Der wahre Staat, S. 44). In der weiteren Illustration der Modi des allgemeinen Wahlrechts muss das "politisch gänzlich unbelehrte ländliche Dienstmädchen" die männliche Qualität der "politisch wenigstens teilweise unterrichteten Staatsbürger", Handwerker oder "gehobene Arbeiter" zwangsläufig mindern, "die Stimme des akademisch Gebildeten, des politischen Führers,..." wird entwertet (ebd.). Nationalsozialismus 1929 beginnt Spann Kontakte zu nationalsozialistischen Organisationen zu pflegen, er unterstützt die von Alfred Rosenberg 1927 gegründete Nationalsozialistische Gesellschaft für deutsche Kultur, deren Aufgabe die Begeisterung akademisch Gebildeter für die Bewegung sein soll (Siegfried, S. 153). Spann gilt in der Analyse der Arbeiterzeitung bereits 1925 als der intellektuelle Führer des Hakenkreuzlertums an der Wiener Universität, er tritt der NSDAP bei und erhält eine geheime, nicht nummerierte Mitgliedskarte (ebd.). Die Schulungsabende des Nationalsozialistischen Deutschen Studentenbundes finden in den Räumen seines Seminars statt, der Unterricht wird vom Spann-Schüler Franz Seuchter gestaltet (Siegfried, S. 153f.). In einem 1933 veröffentlichten Aufsatz bietet Spann nun dem Nationalsozialismus seine universalistische Gesellschaftslehre als ideologische Grundlage des notwendigen ständischen Aufbaus dar (Zit. nach Siegfried, S. 156f.): Sein Bemühen wird von Repräsentanten der Schwerindustrie, besonders Thyssen, honoriert, der die Idee die Vertretungen der ArbeiterInnen in die Industrieverbände einzugliedern reizvoll findet und für die dahingehende Überzeugungsarbeit die Gründung eines Instituts für Ständewesen (in Düsseldorf) unterstützt. Die wissenschaftliche Leitung des am 23. Juni 1933 feierlich eröffneten Instituts übernimmt Walter Heinrich, weitere Vertreter des Spann-Kreises (Andrae, Riehl, Paul Karrenbrock) werden aktiv (Siegfried, S. 175f). Der wiederholte Ruf nach "ständischer Selbstverwaltung" läuft den Interessen und Machtpositionen der Stahlindustriellen zuwider, Unterstützungen für die Zeitschrift Ständisches Leben werden 1935 eingestellt, eine Kontroverse mit der Führung der Deutschen Arbeitsfront (DAF) führt 1936 zum Ende der Propagandatätigkeit des Spann-Kreises am Institut für Ständewesen (Siegfried, S. 186f. und 195). Spanns Ablehnung der NS-Rassentheorie trug neben seinen politischen Fehleinschätzungen zu den Disharmonien bei. Der Begriff der Nation wird in der universalistischen Gesellschaftslehre kulturell definiert, eine "geistige Gemeinschaft", die antisemitische Diskriminierung ermöglicht, nicht erfordert (Siegfried, S. 201f). Ab 1935 werden die Antagonismen der beiden faschistischen Konzeptionen in zahlreichen Zeitungsbeiträgen offensiv ausgetragen, nach der Annexion Österreichs werden Othmar Spann, Rafael Spann und Walter Heinrich verhaftet. Das daraus gebildete Konstrukt einer vorzeitigen Abkehr konservativer Kräfte vom Nationalsozialismus ohne jegliche Reflexion ihrer Funktion in der Phase der Konstituierung eröffnet rechten Parteien und Einzelpersonen die Verherrlichung bewunderter und geliebter Meister und in diesem Sinne die Relativierung des Nazisystems. Die Lehre von der Ganzheit diente der Zerschlagung demokratisch verfasster Gesellschaften, dass sie zum Dienst und nicht zur Herrschaft gelangte, liegt an den realen Kräfteverhältnissen und auch am dürftigen Angebot, das Zufriedenheit in Unterdrückungsverhältnissen fordert im Tausch gegen "Beruhigung". Die perpetuierte Distribution des Modells liegt gleichsam am Puls der Zeit, ebenso wie ein Dollfußportrait im Parlamentsbüro Khols, Wirtschafts- und Arbeitsminister Bartenstein, die ÖVP Frauenpolitik und Schwester Herbert. 1 Spann, Othmar [1931]: Der wahre Staat. Vorlesungen über Abbruch und Neubau der Gesellschaft. Jena: Fischer, S. 175. → zurück 2 Vgl., Siegfried, Klaus-Jörg [1974]: Universalismus und Faschismus. Das Gesellschaftsbild Othmar Spanns. Wien: Europa Verlag, S. 72. → zurück 3 Zit. nach Pichler, J. H. (Hrsg.)[1988]: Othmar Spann oder die Welt als Ganzes. Wien/Köln/Graz: Böhlau, S. 26ff. Dieses Werk ist Walter Heinrich posthum zugeeignet. → zurück 4 Vgl., Pichler, J. H. [1992]: Betrachtungen zum Vaterunser. Im Gedenken des 90. Geburtstages von Walter Heinrich. Zeitschrift für Ganzheitsforschung, 36. Jg., IV/1992. → zurück 5 http://motlc.wiesenthal.com/text/x29/xm2933.html → zurück 6 Roman in autobiographischer Form, in welchem er die 131 Fragen der Entnazifizierungsbehörden dokumentieren und ad absurdum führen möchte. 1951 publiziert wurde das 800 Seiten Werk zum ersten Bestseller der BRD. → zurück 7 von Salomon, Ernst [1969]: Der Fragebogen. Reinbek bei Hamburg, S. 172. → zurück 8 Vgl. Pichler, J. Hanns [1990]: Woran könnte der Osten sich halten? Ganzheitliche Staatsidee und Wirtschaftsordnung als ein Programm der Mitte. Wiss. Arbeitskreis, Institut für Gewerbeforschung, Wien (Vortrag). ders., [1993]: Ganzheitliches Verfahren in seinem universalistisch überhöhenden Anspruch. In: Klein, H. D./Reikersdorfer, J. (Hrsg.): Philosophia perennis. Erich Heintel zum 80. Geburtstag, Teil 1, Frankfurt/Main, Berlin, Bern, New-York, Wien. → zurück 9 ders., [1999]: Europa und das Europäische. Auf der Suchen nach seiner 'Begrifflichkeit' von der Antike bis zur Neuzeit. In: Berchthold, J./Simhandl, F. (Hrsg.) [1999]: Freiheit und Verantwortung. Europa an der Jahrtausendwende. Jahrbuch für politische Erneuerung. Wien: Freiheitliche Akademie. → zurück 10 Vgl. http://www.trend.partisan.net/trd1298/t351298.html → zurück 11 Vgl. Meyer, Thomas [1997]: Stand und Klasse. Kontinuitätsgeschichte korporativer Staatskonzeptionen im deutschen Konservativismus. Opladen: Westdeutscher Verlag. → zurück 12 Vgl. Schneller, Martin [1970]: Zwischen Romantik und Faschismus. Der Beitrag Othmar Spanns zum Konservativismus in der Weimarer Republik. Stuttgart: Klett. → zurück 13 Resele, Gertraud [2001]: Othmar Spanns Ständestaatskonzeption und politisches Wirken. Wien (Diplomarbeit). → zurück 14 Vgl. Fischer, Kurt R./Wimmer, Franz M. (Hrsg.) [1993]: Der geistige Anschluß. Philosophie und Politik an der Universität Wien 1930-1950. Wien: WUV. Heiß, Gernot/Mattl, Siegfried/Meissl, Sebastian/Sauer, Edith, Stuhlpfarrer, Karl (Hrsg.Innen) [1989]: Willfährige Wissenschaft. Die Universität Wien 1938-1945. Wien: Verlag für Gesellschaftskritik. → zurück 15 Einer der deutschsprachigen Epigonen ist der eifrige Rezensent der Zeitschrift für Ganzheitsforschung Gerd-Klaus Kaltenbrunner, der ebenso im rechtsextremen Criticon (hrsg. von Caspar von Schrenck-Notzing), Sieg oder Aula, Publikation der "Arbeitsgemeinschaft Freiheitlicher Akademikerverbände Österreichs" publiziert. Ein weiterer regelmäßiger Autor der Zeitschrift für Ganzheitsforschung ist der katholische Antisemit Friedrich Romig, früher Europa-Beauftragter Kurt Krenns (Vgl. www.doew.at Neues von ganz rechts - April 2000), der seine antidemokratische Überzeugung gerne hinter ökologischen Bedenken verbirgt (Vgl. Zeitschrift für Ganzheitsforschung 2 (1997), S. 71-86). → zurück |
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lundi, 15 avril 2013
Ernst Jünger: yo soy la acción
Ernst Jünger: yo soy la acción
por José Luis Ontiveros
Ex: http://culturatransversal.wordpress.com/
En torno a la obra del escritor alemán Ernst Jünger se ha producido una polémica semejante a la que preocupó a los teólogos españoles en relación con la existencia del alma de los indios. De alguna manera, el hecho de que se le haya discutido en medios intelectuales mundiales con asiduidad, y el que una nueva política literaria tienda a revalorizarlo, le otorga, como lo hizo a los naturales el Papa Paulo III, la posibilidad de una lectura conversa; ya no traumatizada por su historia maldita, absolutoria de su derecho a la diferencia, y exoneradora de un pasado marcado por la gloria y la inmundicia.
La polémica sobre Jünger que en medio de lamentaciones previsorias sobre su “ceguera histórica” ha reconocido la posibilidad de que también poseía un alma personal, se ha mantenido, sin embargo, en los límites del conocimiento de su obra.
Pareciera que profundizar en Jünger puede indicar de alguna manera una proclividad secreta, una oscura complicidad con este peligroso ”junker”, intelectual orgánico de los desarraigados, al que se suele evocar como el cazador y animal de presa, que en la adolescencia se enrola en la Legión Extranjera francesa, testimonio que deja en Juegos Africanos; se le presenta como situado ”de pronto a la sombra de las espadas” (1), y esta exaltación hecha tipología se presenta como el truco con que se evade el contenido de su obra. Por ello debe partirse de un principio: Jünger sigue siendo el mismo, es un réprobo permanente y resuelto, una conciencia erguida y soberana: “yo siempre he tenido las mismas ideas, sólo que la perspectiva ha cambiado con los años” (2). En Jünger hay una sola línea ascendente, un impulso de creación unívoco que arranca en 1920 con Tempestades de Acero, se afirma en Juegos Africanos, obra intermedia, que precede a En los acantilados de mármol (1939), Heliópolis (1940), y Eumeswil (1977).
Resulta entonces necesario para llegar a Heliópolis y a un acercamiento a su comprensión, hacer referencia a un problema histórico. Jünger en la línea de Saint-Exupéry y de Henry de Montherlant ama la acción como el supremo valor de la vida: no existe una renuncia a las pompas del mal, a los frutos concretos de la acción. Hay, al contrario, a lo largo de su obra, un reflejo centelleante que nace de la negación deliberada de la bondad; un aliento nietzscheano de que ”no encontraremos nada grande que no lleve consigo un gran crimen”. Por ello es que debe ahorrarse la gratuidad de perdonarlo, de ver en Jünger al intelectual víctima de sus demonios. De esta forma si Jünger ha padecido un Núremberg simbólico, la actitud rectora de su creación ha permanecido firme sobre la marejada, sobre los prejuicios políticos y aún sobre la ”conmiseración” que nunca ha necesitado. No hay en su obra, como producto de la derrota de Alemania en la II Guerra Mundial, una disociación de un antes y un después; una versión suavizada del mal, que habría retrocedido de su estado agudo a su estado moderado.
Por ello, si su texto La Guerra, nuestra madre escrito en 1934 ha recorrido una suerte semejante a Bagatelas para una masacre de Louis Ferdinand Céline, en el sentido de que ambos son unánimemente ”condenados” y prácticamente inencontrables a excepción de fragmentos; el joven escritor alemán, que afirmaba que: ” la voluptuosidad de la sangre flota por encima de la guerra como una vela roja sobre una galera sombría” (3), es el mismo que canta el poder de la sangre, treinta y un años después de cieno, fuego y derrota: ”los gigantescos cristales tienen forma de lanzas y cuchillos, como espadas de colores grises y violetas, cuyos filos se han templado en el ardiente soplo de fuego de fraguas cósmicas” (4).
El nuevo intelectual
El viejo ”junker”, ha nacido como hijo de la burguesía industrial tradicional, en Heidelberg, el 29 de marzo de 1895, ha permanecido a sus 93 años de edad como un fiel artesano de sus sueños, un celoso guardián de sus obsesiones, un claro partidario de la acción. Por otra parte, se presenta el problema histórico. Jünger, herido siete veces en la I Guerra Mundial, portador de la Cruz de Hierro de primera clase y de la condecoración “Pour le Mérite” (la más alta del Ejército Alemán); miembro juvenil de los “cascos de acero” y de los ”bolcheviques nacionales”; y ayudante del gobernador militar de París durante la ocupación alemana, es un nuevo intelectual, que rompe con el molde tradicional que tiene de la función intelectual la Ilustración y la cultura burguesa. En cierta medida corresponde a los atributos que describe Gramsci del “nuevo” intelectual: “el modo de ser del nuevo intelectual ya no puede consistir en la elocuencia motora, exterior y momentánea, de los efectos y de las pasiones, sino que el intelectual aparece insertado activamente en la vida práctica, como constructor, organizador, persuasivo permanentemente” (5). En este sentido Jünger va más allá de la “elocuencia motora”, de la relación productiva y mecánica de una condición económica precisa.
Puede decirse entonces que si bien Jünger tiene atributos de “junker” prusiano, teniendo parentesco con la ”casta sacerdotal militar que tiene un monopolio casi total de las funciones directivas organizativas de la sociedad política” (6), esta relación funcional y productiva está rota en el caos, en el nihilismo y la decepción que acompañan a la derrota de Alemania en la I Guerra Mundial. Jünger, que quizá en la época guillermina del orgulloso II Reich, hubiera podido reproducir las características de su clase, se encuentra libre de todo orden social como un intelectual del desarraigo, de la tribu de los nómadas en el poderoso grupo disperso de los solitarios que han luchado en las trincheras.
Detengámonos en el análisis de este estado espiritual y de esta circunstancia histórica, cuya trascendencia se manifiesta en toda su narrativa, especialmente en el carácter unitario de su obra y en su posición ideológica, lo que a su vez nos permitirá comprender la clave de una de sus novelas más significativas del período de la última postguerra: Heliópolis, cuyos nervios se hallan ya entre el tumulto que sobrecoge al joven Jünger, como un brillante fruto de la acción interna que sujetará su espíritu.
Así podremos apreciar cabalmente a este autor central de la literatura alemana del siglo XX, para determinar cuál es el rostro que se ha cincelado, en la multiplicidad de espectros que lo reflejan con caras distintas. ¿Acaso es Jünger, como quiere Erich Kahler, al que “incumbe la mayor responsabilidad por haber preparado a la juventud alemana para el estado nazi, aunque él mismo nunca haya profesado el nazismo?” (7). ¿Se trata del escéptico autor de la ”dystopía” o utopía congelada que se expresa en su relato Eumeswil? ¿Quién es entonces este contardictorio anarquista autoritario?
La trilogía del desarraigo
Podemos intentar responder con un juego de conceptos en los que se articulase su radiografía espiritual, con su naturaleza compleja y una historia convulsionada y devoradora. Esta visión nos dará un Jünger revelado en una trilogía: se trata del demiurgo del mito de la sangre, del cantor del complejo de inferioridad nihilista de la cultura alemana, del emisario del dominio del hombre faústico y guerrero. Sólo así podremos entender cómo Jünger pudo dirigir desde “fuera de sí” un pelotón de fusilamiento, certificar la estética del dolor con una “segunda conciencia más fría” o experimentar los viajes místicos del LSD o de la mezcalina. Requerimos verlo en su dimensión auténtica: la del “condottiero” que huye hacia delante en un mundo ruinoso.
Memorias de un condottiero
La aventura de Jünger cobra el símbolo de una organicidad rotunda enla relación social del intelectual con la producción de una clase concreta; se trata fundamentalmente de una personalidad que de alguna manera expresa Drieu la Rochelle: ”(es) el hombre de mano comunista, el hombre de las ciudades, neurasténico, excitado por el ejemplo de los fascios italianos, así como por el de los mercenarios de las guerras chinas, de los soldados de la Legión Extranjera” (8). Se verdadera patria son las llamas, la tensión del combate, la experiencia de la guerra. Su conformación íntima se encuentra manifestada en otro de aquellos que vivieron ”la encarnación de una civilización en sus últimas etapas de decadencia y disolución”, así dice Ernst Von Salomon en Los proscritos: ”sufríamos al sentir que en medio del torbellino y pese a todos los acontecimientos, las fatalidades, la verdad y la realidad siempre estaban ausentes” (9). Es este el territorio en que Jünger preparará la red invisible de su obra, recogiendo las brasas, los escombros, las banderas rotas. Cuando todo en Alemania se tambalea: se cimbran los valores humanitarios y cristianos, la burguesía se declara en bancarrota y los espartaquistas establecen la efímera República de Münich, aparecen los elementos vitales de su escritura, que atesorará como una trinchera imbatible heredera del limo, con la llave precisa que abrirá las puertas de la putrefacción a la literatura.
Es la época en que Jünger, interpretando la crisis existencial de una generación que ha pretendido disolver todos sus vínculos con el mundo moribundo, toma conciencia de sí con un poder vital que no quiere tener nada que deber al exterior, que se exige como destino: ”nosotros no queremos lo útil, práctico y agradable sino lo que es necesario y que el destino nos obliga a desear”. Participa entonces en las violentas jornadas de los ”cascos de acero”. Sin embargo, pese a ser un colaborador radical del suplemento Die Standart, ógano de los ”Stahlhelm”, se mantendrá siempre con una altiva distancia del poder. Llegará a compartir páginas incendiarias en la revista Arminius con el por entonces joven doctor en letras y ”bolchevique nacional” Joseph Goebels y con el extraño arquitecto de la Estonia germana, Alfred Rosenberg.
Cuando Jünger escribe en 1939 En los acantilados de mármol (que se ha interpretado como una alegoría contra el orden nacionalsocialista), han pasado los días ácratas en que ”los que volvían de las trincheras, en las que por largos años habían vivido sometidos al fuego y a la muerte, no podían volver a las escuálidas vivencias del comprar y el vender de una sociedad mercantilista” (10). Ahora una parte considerable de los excombatientes se ha sumado a una revolución triunfante, en que la victoria es demasiado tangible. Jünger decide separarse en el momento del éxito. Hay un brillo superlativo, una atmósfera de saciedad, una escalera ideológica para arribar a la prosperidad de un nuevo orden.
En el momento en que Jünger ha decidido replegarse, abandonar el signo de los tiempos, batirse a contracorriente, encuentra, una vez más, la salida frente a la organización del poder en la permanente rebeldía y en la conciencia crítica. Mas esta fuga no es una deserción: hasta el crepúsculo wagneriano sigue vistiendo el uniforme alemán. Su revuelta se manifiesta en la creencia en las ”situaciones privilegiadas”, es decir, en los instantes en que la vida entera cobra sentido mediante un acto definitivo. Resuelve así, en la rápida decisión que impone la guerra, retornar a una selva negra personal con la desnudez irrenunciable de sus cicatrices, aislado del establecimiento y de la estructura del poder.
El color rojo, emblema del ”condottiero”, baño de fuego sobre la bandera de combate se ha vuelto, finalmente, equívoco: ”la sustancia de la revuelta y de los incendios se transformaba con facilidad en púrpura, se exaltaba en ella” (11); Jünger, mirando las olas de la historia restallar sobre los acantilados de mármol, asistiendo al naufragio de la historia alemana, desolado en el retiro de las letras, exalta en la acción la única emergencia que no se descompone, ”el juego soberbio y sangriento que deleita a los dioses”.
El tambor de hojalata
Hemos mencionado que una parte significativa del materail de sueños que forma su novela Heliópolis, se encuentra en el poderoso torrente de la aventura en que Jünger se desenvuelve desde sus años juveniles. En realidad, de sus dos grandes novelas de la última postguerra, quizá Heliópolis sea más profundamente Jüngeriana que Eumeswil en el sentido en que su universo estámás nítidamente plasmado, de que no existe el ”pathos” de una mala conciencia parasitaria, y de que, a diferencia del usufructo de la fácil politización en que la literatura se manipula como una parábola social o histórica , retine un poder metapolítico, esto es, un orbe estético que se explica a sí mismo, que se sustenta como un valor para sí.
No está de más subrayar que, independientemente de la opinión de una gran parte de la crítica sobre En los acantilados de mármol y sobre Eumeswil como un mensaje críptico antihitleriano, la primera, y como una denuncia contra el totalitarismo, la segunda, su interés real sobrepasa la circunstancia política, concediendo que ésta haya sido la intención del autor. Intencionalidad difícil de mantener en un análisis que busque la esencialidad de Jünger, por encima del escándalo y del criterio convencional.
Heliópolis reconquista la tensión narrativa, el libre empleo de una simbología anagógica, el espacio de expresión que se ha purificado de lo inmediato y de las presiones externas del quehacer literario. Ello quizá se explique por razones propiamente literarias y en este caso también históricas. Usamos la palabra ”reconquista” como aquella que designa un esfuerzo que surge de la derrota, que se elava sobre la postración, que recupera el valor existencial de la experiencia.
De alguna manera, y luego de un sordo y pertinaz silenciamiento, el universo de Jünger ha recobrado su sentido original, su autónomo impulso poético. Más allá de la tramposa equivalencia entre sus imágenes y una determinada concepción de la realidad. Si bien ha manifestado ya “que no existe ninguna fortaleza sobre la tierra en cuya piedra fundamental no esté grabada la aniquilación”, trátese de un mito, de un movimiento social o de una organización del poder. Heliópolis encarna la idea de que si los edificios se alzan sobre sus ruinas, ”también el espíritu se eleva por encima de todos los torbellinos, también por encima de la destrucción” (12).
Esta es, entonces, una de las características fundamentales de la novela: el tiempo histórico siguiendo su cauce se ha absorbido. Lo ocurrido (su propia participación en la historia alemana contemporánea) se ha filtrado entre las simas de los heleros como un agua nueva e incontaminada. Su escritura se ha librado del lastre y ha retomado un vuelo límpido, en el que narra la épica y eclipse de La ciudad del Sol, como la crónica del reino de Campanella, más distinta a la construcción intelectual de la utopía. Hallamos en Heliópolis nuevamente al Jünger de siempre, al artista independiente, que ha sepultado con el relámpago de su lenguaje, las bajas nubes sombrías del rapsoda de la eficacia militar y despiadada.
Notas y bibliografía
1.- Michael Tournier, Ernst Jünger Libreta Universitaria nº 58 UNAM, Acatlán, 1984.
2.- Nigel Jones, Una visita a Ernst Jünger, La Gaceta del FCE nº 165.
3.- Roger Caillois, La cuesta de la guerra, Tres fragmentos de la Guerra Nuestra Madre, Ed. FCE breviarios nº 277, México.
4.- Ernst Jünger, Heliópolis, Ed. Seix Barral, Barcelona.
5.- Antonio Gramsci, Los intelectuales y la organización de la cultura, Jaun pablos Edr. México.
6.- Antonio Gramsci. Obra cit.
7.- Erich Kahler, Los alemanes Ed. FCE breviarios nº 165, México.
8.- Pierre Drieu La Rochelle, Notas para comprender el siglo.
9.- Ernst Von Salomon, Los proscritos Ed. L. De Caralt, Barcelona.
10.- Carlos Caballero, Los Fascismos desconocidos, Ed. Huguin.
11.- Ernst Jünger. Obra cit.
12.- Idem.
(Texto publicado en la revista Fundamentos para una Nueva Cultura N° 11, Madrid, 1988.)
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dimanche, 14 avril 2013
La sombra del mal en Ernst Jünger y Miguel Delibes
La sombra del mal en Ernst Jünger y Miguel Delibes
por Vintila Horia
Ex: http://culturatransversal.wordpress.com/
De dónde viene esto, cómo ha ocurrido, hasta dónde puede extenderse su hechizo. Todos lo vemos o lo intuimos de alguna manera, pero no basta leer libros o asistir a películas -que lo ponen en evidencia. Habría que actuar, intervenir, pasar de la constatación a la resistencia. Y ni siquiera esto bastaría en el momento amenazador en que nos encontramos. Habría que reconocer y definir abiertamente el mal y acabar con él. Al mismo tiempo, cada uno de nosotros, y de un modo más o menos comprometido, está implicado en el mal, gozando de sus favores, para vivir y hacer vivir. Aun cuando lo reconocemos y estamos de acuerdo con los escritores que lo delatan, algo nos impide protestar, nuestro mismo beneficio cotidiano, nuestra relación con su magnificencia. «La cuestión es saber si la libertad es aún posible —escribe Jünger—, aunque fuese en un dominio restringido. No es, desde luego, la neutralidad la que la puede conseguir, y menos todavía esta horrorosa ilusión de seguridad que nos permite dictar desde las gradas el comportamiento de los luchadores en el circo.»
O sea se trata de intervenir, de arriesgarlo todo con el fin de que todo sea salvado.
Lo que nos amenaza es la técnica y lo que ella implica en los campos de la moral, la política, la estética, la convivencia, la filosofía. Y la rebeldía que hoy sacude los fundamentos de nuestro mundo tiene que ver con este mal, al que llamo el mayor porque no conozco otro mejor situado para sobrepasarlo en cuanto eficacia. Ya no nos interesa de dónde proviene y cuáles son sus raíces. Estamos muy asustados con sus efectos, y buscar sus causas nos parece un menester de lujo, digno de la paz sin fallos de otros tiempos. Sin embargo hay un momento clave, un episodio que marca el fin de una época dominada por lo natural —tradiciones, espiritualidad, relaciones amistosas con la naturaleza, dignidad de comportamiento humano, moral de caballeros, decencia, en contra de los instintos—, episodio desde el cual se produce el salto en el mal. Este momento es, según Ernst Jünger, la Primera Guerra Mundial, cuando el material, obra de la técnica, desplazó al hombre y se impuso como factor decisivo en los campos de batalla de Europa, luego del mundo, luego en todos los campos de la vida. Fue así como el hombre occidental universaliza su civilización a través de la técnica, lo que es una victoria y una derrota a la vez.
Este proceso, definido desde un punto de vista moral, ha sido proclamado como una «caída de los valores», o desvalorización de los valores supremos, entre los cuales, por supuesto, los cristianos. Nietzsche fue su primer observador y logró realizar en su propia vida y en su obra lo que Husserl llamaba una reducción o epoché. En el sentido de que, al proclamarse en un primer tiempo «el nihilista integral de Europa», logró poner entre paréntesis el nihilismo, lo dejó atrás como él mismo solía decirlo, y pasó a otra actitud o a otro estadio, superior, y que es algo opuesto, precisamente, al nihilismo. Desde el punto de vista de la psicología profunda, esta evolución podría llamarse un proceso de individuación. Pero tal proceso, o tal reducción eidética, no se realizó hasta ahora más que en el espíritu de algunas mentes privilegiadas, despertadas por los gritos de Nietzsche. Las masas viven en este momento, en pleno, la tragedia del nihilismo anunciada por el autor de La voluntad del poder. Aun los que, como los jóvenes, se rebelan contra la técnica caen en la descomposición del nihilismo, ya que lo que piden y anhelan no representa sino una etapa más avanzada aún en el camino del nihilismo o de la desvalorización de los valores supremos. Esta exacerbación de un proceso de por sí aniquilador constituye el drama más atroz de una generación anhelando una libertad vacía, introducción a la falta absoluta de libertad.
Todo esto ha sido intuido y descrito por algunos novelistas anunciadores, como lo fueron Kafka, Hermann Broch en sus Sonámbulos o en sus ensayos, Roberto Musil en su Hombre sin atributos, Rilke en su poesía o Thomas Mann. Pero fue Jünger quien lo ha plasmado de una manera completa, en cuanto pensador, en su ensayo El obrero, publicado en 1931, y en el ciclo Sobre el hombre y el tiempo, o bien en sus novelas.
En opinión de Jünger, escritor que representa, mejor que otros, el afán de hacer ver y comprender lo que sucede en el mundo y su porqué, y también de indicar un camino de redención, hay unos poderes que acentúan la obra del nihilismo, desvalorizándolo todo con el fin de poder reinar sobre una sociedad de individuos que han dejado de ser personas, como decía Maritain, y estos poderes son hoy lo político, bajo todos los matices, y la técnica. Y hay, por el otro lado, una serie de principios resistenciales, que Jünger expone en su pequeño Tratado del rebelde y también en Por encima de la línea, que indican la manera más eficaz de conservar la libertad en medio de unos tiempos revueltos, como diría Toynbee, ni primeros ni últimos en la historia de la humanidad. Tanatos y Eros son los elementos que nos ayudan en contra de las tiranías de la técnica o de lo político. «Hoy, igual que en todos los tiempos, los que no temen a la muerte son infinitamente superiores a los más grandes de los poderes temporales.» De aquí la necesidad, para estos poderes, de destruir las religiones, de infundir el miedo inmediato. Si el hombre se cura del terror, el régimen está perdido. Y hay regiones en la tierra, escribe Jünger, en las que «la palabra metafísica es perseguida como una herejía». Quien posee una metafísica, opuesta al positivismo, al llamado realismo de los poderes constituidos, quien logra no temer a la muerte, basado en una metafísica, no teme al régimen, es un enemigo invencible, sean estos poderes de tipo político o económico, partidos o sinarquías.
El segundo poder salvador es Eros, ya que igual que en 1984, el amor crea un territorio anímico sobre el cual Leviatán no tiene potestad alguna. De ahí el odio y el afán destructor de la policía, en la obra de Orwell, en contra de los dos enamorados, los últimos de la tierra. Lo mismo sucede en Nosotros, de Zamiatín. Al contrario, según Jünger, el sexo, enemigo del amor, es un aliado eficaz del titanismo contemporáneo, o sea, del amor supremo y resulta tan útil a éste como los derramamientos de sangre. Por el simple motivo de que los instintos no constituyen oposición al mal, sino en cuanto nos llevan a un más allá, en este caso el del amor, única vía hacia la libertad.
El drama queda explícito en la novela Las abejas de cristal. En este libro aparecen los principios expuestos por Jünger en El obrero, comentados por Heidegger, en Sobre la cuestión del Ser. El personaje principal de Jünger es un antiguo oficial de caballería, Ricardo, humillado por la caída de los valores, es decir, por el tránsito registrado por la Historia, desde los tiempos del caballo a los del tanque, desde la guerra aceptable o humana a la guerra de materiales, la guerra técnica, fase última y violenta del mundo oprimido por el mal supremo. El capitán Ricardo evoca los tiempos en que los seres humanos vivían aun los tiempos caballerescos que habían precedido a la técnica y habla de ellos como de algo definitivamente perdido. Es un hombre que ha tenido que seguir, dolorosamente, conscientemente incluso, el itinerario de la caída. Se ha pasado a los tanques no por pasión, sino por necesidad, y ha traicionado unos principios, y seguirá traicionándolos hasta el fin. Porque no tiene fuerzas para rebelarse. Su mujer lo espera en casa y todo el libro se desarrolla en tomo a un encuentro entre el ex capitán sin trabajo y el magnate Zapparoni, amo de una inmensa industria moderna, creadora de sueños y de juguetes capaces de hundir más y más al hombre en el reino de Leviatán. Símbolo perfecto de lo que sucede alrededor nuestro. Zapparoni encargara a Ricardo una sección de sus industrias, y este aceptará, después de una larga discusión, verdadera guerra fría entre el representante de los tiempos humanos y el de la nueva era, la del amo absoluto y de los esclavos deshumanizados. Zapparoni sabía lo que se traía entre manos. «Quería contar con hombres-vapor, de la misma manera en que había contado con caballos-vapor. Quería unidades iguales entre sí, a las que poder subdividir. Para llegar a ello había que suprimir al hombre, como antes el caballo había sido suprimido». Las mismas abejas de cristal, juguetes perfectos que Zapparoni había ideado y construido y que vuelan en el jardín donde se desarrolla la conversación central de la novela, son más eficaces que las naturales. Logran recoger cien veces más miel que las demás, pero dejan las flores sin vida, las destruyen para siempre, imágenes de un mundo técnico, asesino de la naturaleza y, por ende, del ser humano.
Hay, sí, un tono optimista al final del libro. La mujer de Ricardo se llama Teresa, símbolo ella también, como todo en la literatura de Jünger, de algo que trasciende este drama, de algo metafísico y poderoso en sí, capaz de enfrentarse con Zapparoni. Teresa representa el amor, aquella zona sobre la que los poderes temporales no tienen posibilidad de alcance. Es allí donde, probablemente, Ricardo y lo que él representa encontrará cobijo y salvación. Porque, como decía Hólderlin en un poema escrito a principios del siglo pasado, “Allí donde está el peligro, está también la salvación”.
En cambio, no veo luz de esperanza en Parábola del náufrago, de Miguel Delibes, novela de tema inédito en la obra del escritor castellano, una de las más significativas de la novelística española actual. El mal lo ha copado todo y su albedrío es sin límites. Lo humano puede regresar a lo animal, sea bajo el influjo moral de la técnica y de sus amos, sea con la ayuda de los métodos creados a propósito para realizar el regreso. Quien da señales de vida humana, o sea, de personalidad, quien quiere saber el fin o el destino de la empresa —símbolo ésta de la mentalidad técnica que está envolviendo el mundo— esta condenado al aislamiento y esto quiere decir reintegración en el orden natural o antinatural. Uno de los empleados de don Abdón, el amo supremo de la ciudad —una ciudad castellana que tiene aquí valor de alegoría universal—, ha sido condenado a vivir desnudo, atado delante de una casita de perro y, en poco tiempo, ha regresado a la zoología. Incluso acaba como un perro, matado por un hortelano que le dispara un tiro, cuando el ex empleado de don Abdón persigue a una perra y están escañando el sembrado. Y cuando Jacinto San José trata de averiguar lo que pasa en la institución en que trabaja y donde suma cantidades infinitas de números y no sabe lo que representan, el encargado principal le dice: «Ustedes no suman dólares, ni francos suizos, ni kilovatios-hora, ni negros, ni señoritas en camisón (trata de blancas), sino SUMANDOS. Creo que la cosa está clara.» Y, como esto de saber lo que están sumando sería una ofensa para el amo, el encargado «… le amenaza con el puño y brama como un energúmeno: «¿Pretende usted insinuar, Jacinto San José, que don Abdón no es el padre más madre de todos los padres?» Y, puesto que Jacinto se marea al sumar SUMANDOS, lo llevan a un sitio solitario, en la sierra, para descansar y recuperarse. Le enseñan, incluso, a sembrar y cultivar una planta y lo dejan solo entre peñascales en medio del aire puro.
Sólo con el tiempo, cuando las plantas por él sembradas alrededor de la cabaña, crecen de manera insólita y se transforman en una valla infranqueable, Jacinto se da cuenta de que aquello había sido una trampa. Igual que las abejas de cristal de Jünger, un fragmento de la naturaleza, un trozo sano y útil, ha sido desviado por el mal supremo y encauzado hacia la muerte. Las abejas artificiales sacaban mucha miel, pero mataban a las plantas, la planta de Delibes, instrumento de muerte imaginado por don Abdón, es una guillotina o una silla eléctrica, algo que mata a los empleados demasiado curiosos e independientes. Cuando se da cuenta de que el seto ha crecido y lo ha cercado como una muralla china, ya no hay nada que hacer. Jacinto se empeña en encontrar una salida, emplea el fuego, la violencia, su inteligencia de ser humano razonador e inventivo, su lucha toma el aspecto de una desesperada epopeya, es como un naufrago encerrado en el fondo de un buque destrozado y hundido, que pasa sus últimas horas luchando inútilmente, para salvarse y volver a la superficie. Pero no hay salvación. Más que una. La permitida por don Abdón. El híbrido americano lo ha invadido todo, ha penetrado en la cabaña, sus ramas han atado a Jacinto y le impiden moverse, como si fuesen unos tentáculos que siguen creciendo e invadiendo el mundo. El prisionero empieza a comer los tallos, tiernos de la trepadora. No se mueve, pero ha dejado de sufrir. Come y duerme. Ya no se llama Jacinto, sino jacinto, con minúscula, y cuando aparecen los empleados de don Abdón y lo sacan de entre las ramas, lo liberan, lo pinchan para despertarlo, «jacintosanjosé» es un carnero de simiente.
“Los doctores le abren las piernas ahora y le tocan en sus partes, pero Jacinto no siente el menor pudor, se deja hacer y el doctor de más edad se vuelve hacia Darío Esteban, con una mueca admirativa y le dice:
-¡Caramba! Es un espléndido semental para ovejas de vientre -dice. Luego propina a Jacinto una palmada amistosa en el trasero y añade-: ¡Listo! »
Así termina la aventura del náufrago, o la parábola, como la titula Delibes. Fábula de clara moraleja, integrada en la misma línea pesimista de la literatura de Jünger y de otros escritores utópicos de nuestro siglo. En el fondo Parábola del náufrago es una utopía, igual que Las abejas de cristal, o La rebelión en la granja, de Orwell; Un mundo feliz o 1984. Encontramos la utopía entre los mayores éxitos literarios de nuestro siglo, porque nunca hemos tenido, como hoy, la necesidad de reconocer nuestra situación en un mito universal de fácil entendimiento. La utopía es una síntesis contada para niños mayores y asustados por sus propias obras, aprendices de brujo que no saben parar el proceso de la descomposición, pero quieren comprenderlo hasta en sus últimos detalles filosóficos. Con temor y con placer, aterrorizados y autoaplacándose, los hombres del siglo XX viven como jacinto, aplastados, atados a sus obras que les invaden y sujetan, los devuelven a la zoología, pero ellos saben encontrar en ello un extraño placer. El mal supremo es como el híbrido americano de Delibes, que invade la tierra, la occidentaliza y la universaliza en el mal. Quien quiere saber el porqué de la decadencia y no se limita a sumar SUMANDOS arriesga su vida, de una manera o de otra, está condenado a la animalidad del campo de concentración, a la locura contraida entre los locos de un manicomio, donde se le recluye con el fin de que la condenación tenga algo de sutileza psicológica, pero el fin es el mismo Campo o manicomio, el condenado acabará convirtiéndose en lo que le rodea, a sumergirse en el ambiente, como Jacinto. Y de esta suerte quedará eliminado. O bien no logrará encontrar trabajo y se morirá al margen de la sociedad. O bien como el capitán Ricardo, aceptará un empleo poco caballeresco y perfeccionará su rebeldía en secreto, al amparo de un gran amor anticonformista, sobre el cual podrá levantarse el mundo de mañana, conservado puro por encima del mal. El rebelde, que lleva consigo la llave de este futuro de libertad, es el que se ha curado del miedo a la muerte y encuentra en «Teresa» la posibilidad metafísica de amar, o sea, de situarse por encima de los instintos zoológicos de la masa, que son el miedo a la muerte y la confusión aniquiladora entre amor y sexo. Es así como el hombre del porvenir vuelve a las raíces de su origen metafísico.
«Desde que unas porciones de nosotros mismos como la voz o el aspecto físico pueden entrar en unos aparatos y salirse de ellos, nosotros gozamos de algunas de las ventajas de la esclavitud antigua, sin los inconvenientes de aquella», escribe Jünger en Las abejas de cristal. Todo el problema del mal supremo está encerrado en estas palabras. Somos, cada vez más, esclavos felices, desprovistos de libertad, pero cubiertos de comodidades. Basta mover los labios y los tiernos tallos de la trepadora están al alcance de nuestro hambre. Sin embargo, al final de este festín está el espectro de la oveja o del perro de Delibes. La técnica y sus amos tienden a metamorfosearnos en vidas sencillas, no individualizadas, con el fin de mejor manejarnos y de hacernos consumir en cantidades cada vez más enormes los productos de sus máquinas. Creo que nadie ha escrito hasta ahora la novela de la publicidad, pero espero que alguien lo haga un día, basado en el peligro que la misma representa para el género humano, y utilizando la nueva técnica del lenguaje revelador de todos los misterios y de las fuerzas que una palabra representa. Una novela semiológica y epistemológica a la vez, capaz de revelar la otra cara del mal supremo: la conversión del ser humano a la instrumentalidad del consumo, su naufragio y esclavitud por las palabras.
Sería, creo, esclarecedor desde muchos puntos de vista establecer lazos de comparación entre Parábola del náufrago y Rayuela, de Julio Cortázar, en la que el hombre se hunde en la nada por no haber sabido transformar su amor en algo metafísico o por haberlo hecho demasiado tarde y haber aceptado, en un París y luego en un Buenos Aires enfocados como máquinas quemadoras de desperdicios humanos, una línea de vida y convivencia instintual, doblegada por las leyes diría publicitarias de un existencialismo mal entendido, laicizado o sartrianizado, que todo lo lleva hacia la muerte. La tragedia de la vida de hoy, situada entre el deseo de rebelarse y la comodidad de dejarse caer en las trampas de don Abdón y de Zapparoni, trampas técnicas, confortables, o bien literarias, políticas y filosóficas, inconfortables pero multicolores y tentadoras, es una tragedia sin solución y la humanidad la vivirá hasta el fondo, hasta alcanzar la orilla de la destrucción definitiva, donde la espera quizá algún mito engendrador de salvaciones.
Extraído de: Centro Studi La Runa
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samedi, 13 avril 2013
La presencia de René Guénon en Mircea Eliade y Carl Schmitt
La presencia de René Guénon en Mircea Eliade y Carl Schmitt
por Francisco García Bazán (Universidad A.J.F. Kennedy-CONICET)
Ex: http://culturatransversal.wordpress.com/
Al final de mi libro en colaboración René Guénon y la tradición viviente (1985), apuntaba algunos rasgos sobre la influencia de René Guénon en una diversidad de estudiosos contemporáneos. Allí escribí:
«El mundo de habla española, por su parte, se abre velozmente en los últimos decenios a la gravitación guenoniana. Hemos de reconocer que la Argentina, en este sentido, no sólo ha jugado un papel preponderante, sino que incluso fue oportunamente una verdadera precursora de este florecimiento del pensamiento de Guénon [en la geografía hispana].
Ya en 1945 se publicó en Buenos Aires la Introducción general al estudio de las doctrinas hindúes y la crítica periodística porteña recibió favorablemente la novedad de [la presencia] de un credo de inspiración tradicionalista [en la cultura francesa]. A esta traducción siguieron en años sucesivos: El teosofismo (1954), con varias ediciones, La crisis del mundo moderno (1967), Símbolos fundamentales de la ciencia sagrada (1969 y El esoterismo de Dante (1976). Mucho más reciente, [por el contrario], es el interés de los españoles por nuestro autor. Pero aunque la traducción de la primera de las obras citadas es de la década del 40, la evidencia de una lectura y conocimiento del autor francés ya se reflejó con anterioridad en individuos y grupos de intelectuales argentinos.
Los primeros que demostraron interés por el pensamiento de R. Guénon en nuestro país fueron pensadores del campo católico, hondamente preocupados por la esencia y el futuro de la nación. Se agruparon en Buenos Aires y Córdoba, en torno a las revistas Número y Sol y Luna, y Arx y Arkhé, respectivamente. Entre estos [escritores] por la influencia y uso que hicieron de las obras de Guénon sobresalen: César Pico, José María de Estrada y, muy probablemente, el poeta Leopoldo Marechal –todos ellos en Buenos Aires y vinculados a los Cursos de Cultura Católica-. En la Provincia mediterránea, Fray Mario Pinto y Rodolfo Martínez Espinosa, autor [este último] del primer artículo escrito en la Argentina sobre nuestro pensador [tradicional] y su corresponsal [con un intercambio de correspondencia entre los años 1929 y 1934], cuando Guénon residía en El Cairo. [Las dos cartas del autor franco-egipcio son del 24 de agosto de 1930 y del 23 de febrero de 1934. La última es una larga misiva de ocho carillas, en la que a las dudas expuestas por Martínez Espinosa responde Guénon condensando en ella la doctrina tradicional y anticipando incluso soluciones sobre las diversas vías espirituales, que posteriormente hará públicas. Estas cartas fueron primeramente publicadas por mí traducidas al castellano el domingo 13 de julio de 1980 en el Suplemento Literario de “La Nación”, cuando era dirigido por Jorge Emilio Gallardo, posteriormente fueron publicadas en edición bilingüe en el libro al que nos estamos refiriendo y poco después aparecieron en Francia en Les Dossier H René Guénon, dirigido por Pierre-Marie Sigaud, editado por L’Age d’Homme, Lausana, 1984, 286-289, gracias al contacto del que tomó la iniciativa André Coyné]…El ilustre filósofo de la ciencia, Armando Asti Vera, ofreció al público hispanohablante en 1969 una elegante y correcta primicia sobre la vida, obra y filosofía de Guénon de amplísima difusión. La casi totalidad de su obra escrita y de dirección docente llevan el sello indeleble del pensamiento guenoniano que frecuentaba desde su madura juventud» (pp. 171-172 y notas).
Lo dicho se refiere a nuestro país y medio cultural, pero en ese mismo libro, páginas más adelante, hacíamos referencia a la influencia de René Guénon en investigadores franceses, judíos e indios, sobre todo en el gran especialista en Shankara, T.M.P. Mahadevan, en cuya tesis sobre Gaudapâda. A Study in Early Advaita (University of Madras, 1975), el tradicionalista nacido en Blois está a menudo citado y es altamente reconocido por su profunda comprensión del Vedânta advaita o no dual. En esa ocasión, sin embargo, apenas nos habíamos referido a Mircea Eliade. Pero, posteriormente, y después de haber leído el artículo del profesor rumano, «Some Notes on Theosophia perennis» publicado en la revista de la Universidad de Chicago History of Religions (1979), pp. 167-176, nuestra opinión cambió y admitimos la influencia de Guénon en su obra como historiador de las religiones. Posteriormente hemos comprobado que un investigador particularmente calificado en el conocimiento de la vida y obra de Guénon, como lo es Jean-Pierre Laurant, de L’ École Pratique des Hautes Études. Section Sciences des Religions, escribe en el Diccionario Crítico del Esoterismo, dirigido por Jean Servier, publicado en 1998 por P.U.F. y recientemente traducido por la Ed. AKAL al castellano, en la entrada correspondiente a “René Guénon”, que firma: «También desempeñó [Guénon] un papel muy importante [lo subrayamos] en la formación del pensamiento de Mircea Eliade e influyó sobre el conjunto de la renovación de la historia de las religiones, hasta tal punto que Gaétan Picón lo integra dentro de su Panorama des idées contemporaines (1954). Su influjo [en esta dirección] se prolonga, hasta nuestros días, a través de una renovada reflexión sobre el simbolismo, la “Tradición” y las tradiciones en los trabajos de J. Borella en Francia, R. Martínez Espinosa y F. García Bazán en Argentina o, en Estados Unidos, en los de Joseph E. Brown sobre los indios» ( Vol. I, p. 754). [Permítaseme hacer la aclaración en paralelo que respecto del cultivo de los estudios sobre Guénon en nuestro medio y la recepción de su pensamiento, también Piero Di Vona, profesor de la Universidad de Nápoles y autor de un respetable libro sobre Evola e Guénon. Tradizione e civiltà (1985), en su ponencia sobre “René Guénon e il pensiero de destra”, presentada en la Università degli Studi di Urbino, a fines de los 80’, ya reconocía asimismo en confrontación con el desarrollo de la teología de la liberación sudamericana, que frente a ella: «Tutte queste osservazioni rivestono almeno per noi una grande importanza perché nell’attuale cultura sudamericana Guénon è oggetto di attento studio in ambienti qualificati. (Rimandiamo al libro di F. García Bazán, René Guénon y la tradición viviente, etc.)»].
Pero más recientemente todavía y con motivo de la publicación consecutiva de las Memorias de Eliade, la perspectiva sobre la irradiación guenoniana se ha ampliado y así hemos tenido la oportunidad de leer un erudito artículo del estudioso italiano Cristiano Grottanelli, bajo el acápite de «Mircea Eliade, Carl Schmitt, René Guénon, 1942», en la Revue de l’Histoire des Religions Tome 219, fascículo 3, julio-septiembre 2002, pp. 325-356, que arroja nuevas luces y sombras sobre la cuestión claramente anticipada en el título y que amplia el panorama con la mención del gran jurista y experto en derecho internacional, Carl Schmitt, tan apreciado en los comienzos de los años 30 por el régimen nacionalsocialista, como posteriormente repudiado tanto por la SS y el nazismo que representaban, como por sus vencedores aliados.
El período más difícil de determinar en la vida de Eliade es el que va de los años 1934, cuando ya ha residido tres años en la India (1929-1931) dirigido por el eminente profesor de filosofía hindú Surendranath Dasgupta, y ha cumplido prácticas de Yoga en Rishikesh, en el Himalaya, en Svargashram con Swami Shivananda. Vuelto a Bucarest ha publicado la novela Maitreyi de gran éxito de ventas (1934) y ha presentado hacia fines de año su tesis de doctorado sobre la filosofía y prácticas de liberación yóguicas como una perspectiva dentro del pensamiento indio, siendo nombrado asistente de Naë Ionesco, profesor de Lógica y Metafísica en la Universidad de Bucarest. Desde esa fecha hasta fines de 1944 en que fallece su esposa Nina Mares y en que al año siguiente (1945) establece relaciones culturales y esporádicamente docentes en París como exiliado con el apoyo de la colonia rumana y colegas y amigos como Georges Dumézil, su biografía es bastante movida y es también durante ese período en el que apoyado en su formación de indólogo incipiente, se cimentó asimismo su método e ideas como teórico de las religiones. Después que obtiene la adjuntía de cátedra a través de su titular Ionesco traba relación estrecha con los cuadros de la Legión del Arcángel San Miguel o Guardia de Hierro, formación política de extrema derecha y de ideología nacionalista, agrega sus actividades de escritor a sus responsabilidades universitarias regulares con el dictado de seminarios: “Sobre el problema del mal en la filosofía india”, “Sobre la Docta ignorancia de Nicolás de Cusa”, “Sobre el libro X de la Metafísica de Aristóteles”, “Las Upanishads y el budismo”, etc.; publica el libro Yoga. Ensayo sobre los orígenes de la mística india, con pie de imprenta París-Bucarest, por lo editores Paul Geuthner/Fundación Real Carol I y aparecen tres números de la revista de historia de las religiones con colaboradores internacionales y de muy buen nivel que dirige, Zalmoxis. En l940 es nombrado agregado cultural de la Embajada Real de Rumania en Londres y al año siguiente Consejero de la Embajada Real de Rumania en Lisboa, aquí reside hasta 1945, cuando concluida la segunda guerra europea, le sobreviene la condición de exiliado. Durante este período que estamos teniendo en cuenta de gran fecundidad intelectual y de estabilidad político-laboral, se da el acontecimiento que registra el autor en el II volumen de las Memorias, Las promesas del soltiscio:
«Nos detuvimos durante dos días en Berlín. Uno de los agregados de prensa, Goruneanu, me llevó hasta Dahlem, a la casa de Carl Schmitt. Éste acababa de concluir en ese tiempo su librito sobre la Tierra y el mar y quería hacerme algunas preguntas sobre Portugal y las civilizaciones marítimas. Le hablé de Camoens y en particular del simbolismo acuático –Goruneanu le había ofrecido el volumen segundo de Zalmoxis en donde habían aparecido las “Notas sobre el simbolismo acuático”-. En la perspectiva de Carl Schmitt, Moby Dick constituía la mayor creación del espíritu marítimo después de la Odisea. No parecía entusiasmado por Los Lusiadas, que había leído en una traducción alemana. Conversamos durante tres horas. Nos acompañó hasta el subterráneo y, mientras caminábamos, nos explicó por qué consideraba la aviación como un símbolo terrestre….».
El encuentro tuvo lugar en julio de 1942, según precisa Mac Linscott Rioketts en su extensa y bien documentada biografía de Eliade.
Ahora bien, Ernst Jünger, gran amigo de Schmitt, que por esas fechas era oficial del Ejército alemán, estaba en Berlín con permiso y fue llamado a París para hacerse cargo de sus obligaciones militares. El 12 de noviembre fue a visitar a Dahlem a su amigo Schmitt a modo de despedida, estando con él del 12 al 17. El 15 estaba Jünger en casa del amigo y escribe lo siguiente en su Diario:
«Lectura de la revista Zalmoxis, cuyo título procede de un Hércules escita citado por Heródoto. He leído dos ensayos de ella, uno dedicado a los ritos de la extracción y uso de la mandrágora y el otro trataba del Simbolismo acuático, y de las relaciones entre la luna, las mujeres y el mar. Ambos de Mircea Eliade, el director de la revista. C.S. me proporcionó informaciones detalladas sobre él y sobre su maestro René Guénon. Las relaciones etimológicas entre las conchas marinas y el órgano genital de la mujer son particularmente significativas, como se ve en la palabra latina conc[h]a y en la danesa Kudefisk, en donde kude tiene el mismo sentido que vulva.
La mentalidad que se dibuja en esta revista es muy prometedora; en lugar de una escritura lógica, se trata de una escritura figurada. Son estas las cosas que me hacen el efecto del caviar, de las huevas de peces, se siente la fecundidad en cada frase».
En vísperas de Navidad del mismo año Eliade recibió Tierra y mar de parte de Schmitt, y Goruneanu le informa que el número 3 de Zalmoxis que había enviado a Schmitt lo acompañaba a Jünger en su mochila. Y esta triple relación de personas, directa, en un caso, e indirecta en el otro – por medio de la revista Zalmoxis-, se repite en 1944 y posteriormente. El primer caso se concretó por un nuevo encuentro de Schmitt -quien consideraba a Guénon: “El hombre más interesante de su tiempo” según señala Eliade en Fragmentos de Diario- con éste en Lisboa. En la visita de 1942, conjetura Grottanelli, de acuerdo con los testimonios de una simpatía recíproca de ambos personajes sobre Guénon, conversarían sobre él posiblemente no sólo como maestro sino también como teórico de la Tradición. El segundo encuentro a que nos hemos referido de Jürgen y Eliade y que nos interesa menos en este trabajo, llevó a que un tiempo después Jünger y Eliade dirigieran la revista Antaios.
Pues bien, de la mutua admiración que Schmitt y Eliade confesaban a mediados del año 1942, en plena guerra europea, por Guénon, el caso de C. Schmitt es documentalmente más accesible y claro, puesto que éste en un notable y bien conocido libro de 1938, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politisches Symbols (El Leviatán en la teoría del estado de Thomas Hobbes. Sentido y fracaso de un símbolo político), entendía la componente esotérica como central en su composición, ya que Hobbes, exaltado por él dos años antes como el “gran inventor de la época moderna”, aparecía ahora en una nueva dimensión como quien había utilizado por error un símbolo en su tesis de política, el del monstruo marino de ascendencia religioso-cultural judía, que lo superaba en sus intenciones y se le imponía por su misma fuerza simbólica interna, poniéndolo bajo su control y manejándolo como un aprendiz de brujo. Y ahí mismo en el libro, en la nota 28, Schmitt recordaba a René Guénon, quien en la Crisis del mundo moderno de 1927, afirmaba la noción paralela y clave para la interpretación simbólica de que: «La rapidez con la que toda la civilización medieval sucumbió al ataque del siglo XVII es inconcebible sin la hipótesis de una misteriosa voluntad directriz que queda en la sombra y de una idea preconcebida». La ambivalencia del símbolo que tanto señala a la permanencia oculta de la Tradición como a los ataques aparentemente invisibles que asimismo recibe de la antitradicón y de la contratradición, y que puede aplicarse como un modo de justificación de la teoría política del complot o la conjuración político-social basada en la metafísica de la historia, es lo que le interesaba hacer notar a Schmitt, quien había sufrido dos años antes siendo Presidente de la Asociación de Juristas Alemanes y Consejero de Estado un ataque contra él en la revista de los SS Das Schwarze Korps, viéndose obligado a renunciar a todas sus funciones públicas. El empleo de la capacidad velada del símbolo para mostrar y ocultar por su poder esotérico de comunicación, es lo que veía Schmitt en Leviatán, serpiente marina guardiana del tesoro a veces para la enseñanza semítica y en otros momentos monstruo destructivo que proviene del mar, en el caso concreto aplicado su dimensión oscura y demoledora a la civilización cristiana y occidental más que milenaria. En este sentido igualmente el personaje que el libro encubría como destructor era Himmler y no Hitler.
Pero resultaba que si en este momento el libro de Guénon citado es La crisis del mundo moderno, Schmitt conocía mucho más del autor francés lo que explica el entusiasmo por él, según registra Eliade, pues en correspondencia entrecruzada unos años después con Armin Moler quien prepara su tesis sobre el jurista, al que le envía una carta el 19 de octubre de 1948 y que es respondida por Schmitt el 4 de diciembre. En las cartas cruzadas tenemos los siguientes datos:
«A la noche, después de haber trabajado en la tesis, siempre leo sus escritos, incluso los que aún no conozco. Os lo he referido ya que después de la visita que le hecho en Plettemberg, todo me parece más claro, con la sola excepción del Leviatán. Esta obra me sigue desorientando, y no sólo allí en donde, como al final del segundo capítulo, se hace alusión a un tema absolutamente nuevo [...]. La aparición de Guénon me ha sorprendido. ¿Conoce usted los escritos de este hombre singular? Siegfried Lang, uno de nuestros poetas más inspirados, me ha introducido hace algún tiempo en el estudio de su pensamiento».
Y esta es la contestación de C. Schmitt:
«Respecto del Leviatán, ya le he dicho que se trata de una obra totalmente esotérica; recuerde la “nota del autor” y las consideraciones del final del Prefacio, incluso si se trata de fórmulas evasivas. He leído mucho de Guénon, pero no la totalidad [de lo que ha escrito], lamentablemente. Nunca le he encontrado personalmente, pero he conocido a dos de sus amigos. Os interesará saber que el barón Julius Evola ha sido uno de sus fieles discípulos, pero no sé si Guénon vive todavía; según las últimas noticias que he recibido, pero que son de algunos años, vivía en el Cairo, con amigos musulmanes» (ver Grottanelli, 739).
Se advierte, por lo tanto, más allá del respeto intelectual y estimulante para la comprensión de los hechos histórico-políticos que Guénon inspiraba al jurista y filósofo político alemán, el uso aplicado que hacia del esoterismo, basado en el esoterismo riguroso de Guénon y Evola.
Está llegando el momento de dejar a C. Schmitt, porque estas jornadas están más centradas en Eliade y Guénon, pero para terminar con él, en confirmación de lo dicho vienen otras manifestaciones del autor, que la traducción española de la Ed. Trotta de Tierra y Mar ha incluido en una “Nota Final” debida a Franco Volpi. En ella se escribe, por medio de Nicolás Sombart, el hijo del famoso sociólogo e historiador de la economía, en referencia a Schmitt, que él se auto percibía como el guardián de un misterio, como un “iniciado”, al punto de que arcanum era una de las palabras que más repetía. Así Sombart cuenta esta anécdota en su relación con C. Schmitt, que:
«Un día [el mismo] Nicolaus preparaba una ponencia sobre la crítica teatral hebrea… Y consultado el profesor Schmitt, éste le repuso, no sabes en dónde te estás metiendo ¿Conoces la cuestión judía de C. Marx?, ¿Y a Disraeli?: Ni siquiera conoces a Disraeli y pretendes ocuparte de los judíos…Así puso en sus manos su novela Tancredo o la nueva cruzada, final de la trilogía que Benjamín Disraeli había publicado en 1847. Allí el gran político inglés, como buen esotérico, había encerrado en una obra literaria sus convicciones políticas más profundas. De este modo, en un pasaje borrado en la segunda edición de Tierra y mar lo llama Schmitt: “un iniciado, un sabio de Sión” y en Dahlen no tenía el jurista colgado un retrato de Hitler, sino de Disraeli. Y Schmitt asimismo le apunta a Nicolaus cual es la frase decisiva del libro, la que dice que: “El cristianismo es judaísmo para el pueblo”. Es la frase que da vuelta a dos mil años de historia. El conflicto entre judaísmo y catolicismo sobre la interpretación del sentido de la historia obsesionaba a Schmitt y la Modernidad era el campo de batalla del enfrentamiento…Los grandes pensadores hebreos del siglo XIX habían entendido que para llegar a la victoria en el plano de la historia universal necesitaban romper con el antiguo orden cristiano del mundo y acelerar la secularización y la disgregación de ese orden. El más temible teórico habría sido Disraeli, pues según su frase el cristianismo sería la estrategia urdida por los judíos para conquistar el sentido de la historia universal…La escatología estaba a punto de imponerse sobre el mesianismo…un orden universal en el que la “Nueva Jerusalén” colocada en el más acá es buscada por la élite judía…La Revolución Francesa aceleró el camino y la visión judía de dominio universal y la potencia marítima inglesa se fundieron en una simbiosis como un inmenso proyecto para la humanidad…El concepto de “retención” (katékhon) del cristianismo es ineficaz para poder guiar a la humanidad. Todo ello, remarca Schmitt, porque los judíos manejan el arte secreto de tratar con el Leviatán, saben domesticarlo para en el momento oportuno descuartizarlo. Era necesario descubrir las técnicas ocultas para penetrar en los arcana imperii y salir sin daños definitivos de la lucha, una lucha por el simbolismo y su tradición, frente a los intentos destructivos de sus dominadores profanos e inmanentes».
Resulta transparente que de esta convicción y familiaridad con los diversos niveles de sentido del símbolo y del contacto con el fondo subyacente que circula ocultamente en el tiempo histórico, había extraído Schmitt confianza y serenidad para profundizar la comprensión teórica y sobrellevar la existencia práctica. Así lo demostró al haber aceptado voluntariamente ser juzgado por el Tribunal de Núremberg, denunciado por un ex colega de la Universidad de Berlín docente ahora en una universidad estadounidense, Karl Loewenstein y legal adviser del Jurado. La defensa personal que llevó a cabo Schmitt le exige trazar una sutil, pero precisa frontera, entre su pensamiento y la ideología nacionalsocialista y de este modo afirma que de ninguna manera podría haber influido en la política de los grandes espacios del III Reich, ni a preparar la guerra de agresión con sus consecuencias criminales, ni a gravitar en cualquier tipo de decisiones de los funcionarios de alto rango. Por ejemplo, defendió que su concepto de Grossraum (gran espacio) se basaba en el derecho internacional y no en el sentido nacionalista que le dio el régimen. A la categoría moderna de estado, válida desde Hobbes a Hegel, él contrapone la de “gran espacio”, que no es simplemente “espacio terrestre”, sino también “espacio imperial”. Aquí es en donde se juega el nuevo ordenamiento político-jurídico del planeta. Esta categoría no depende de la concepción biológico-racista del “espacio vital” (Lebensraum) ni de la categoría nacionalista (völkisch) nacionalsocialistas, para entender su concepción del “gran espacio”; sino que mejor, este último concepto se aproxima más a la doctrina Monroe norteamericana del principio de no injerencia de una potencia extranjera en un gran espacio terrestre ajeno, organizado según un orden jurídico-político propio. Un gran espacio imperial se forma cuando un estado desarrolla una potencia que excede sus propios límites y tiende a agregar en torno a sí a otros estados y es esta conveniencia de formar grandes bloques continentales la que puede generar un nuevo escenario de organización internacional, rompiendo la impotencia de las Naciones Unidas de Ginebra y conteniendo el ascenso de una superpotencia individual. Justamente el pequeño libro Tierra y mar si de entrada parecía aportarle complicaciones, explicado en su doctrina, le trajo la definitiva absolución en mayo de 1947, con curiosos diálogos durante el interrogatorio como el siguiente: «”En aquel tiempo me sentía superior. Quería dar un sentido propio a la palabra nacionalsocialismo”. “Por tanto, ¿Hitler tenía un nacionalsocialismo y usted otro distinto?”. “Yo me sentía superior”. “¿Superior a Hitler?” “Desde el punto de vista intelectual, infinitamente”.
Mircea Eliade, sin embargo, más joven y perteneciente a un país de cultura minoritaria, Rumania, si bien padeció el exilio y los severos obstáculos de un intelectual emigrado en París, no tuvo que enfrentarse con tan grandes dificultades. Las bases guenonianas de la organización de sus ideas, aunque menos conocidas por estar escritas en rumano y hechas conocer en publicaciones locales y muy poco difundidas, igualmente están registradas. Escribe así por primera vez M. Eliade en la revista Azi en abril de 1932, refiriéndose a Guénon, en una cita que se refiere al Teosofismo: historia de una falsa religión:
«Remito al lector al libro de Guénon, quien es un ocultista muy importante y muy bien informado, con una mentalidad sólida y que, al menos, sabe de lo que habla [a diferencia de Elena Blavatsky]» (Grottanelli, p. 346).
En 1937 escribe un artículo sobre Ananda Coomaraswamy en la Revista Fundaitilior Regale, republicado en 1943, y allí expresa que «es de lamentar que los escritos de Guénon, como Oriente y Occidente (1924) y La crisis del mundo moderno (1927), no hayan tenido sino una difusión limitada, ya que ellos mostraban que el tradicionalismo religioso no tenía nada que temer en Europa a la influencia de la metafísica oriental, contrariamente a lo que pensaban algunos escritores católicos» (Grottanelli, 346). Es razonable deducir, sin embargo, pese a las lamentaciones de Eliade y si se piensa en Schmitt y Evola, que el libro de Guénon La crisis del mundo moderno había tenido al menos repercusión propia en la derecha europea, como también lo tuvo en la Argentina, como hemos dicho, poco después de ser publicado.
En otro artículo aparecido en Vremea el l° de mayo de 1938, nuevamente Eliade se queja de la falta de difusión de la obra de Guénon y que sea tan poco conocida como la de Evola y Coomaraswamy . Hace igualmente aquí un curioso elogio de la personalidad de René Guénon como testigo de la tradición, «que era capaz de mostrar un desprecio absoluto y olímpico por el mundo moderno en su conjunto. Un menosprecio sin cólera, sin irritación y sin melancolía. Un desdén que alejaba a este pensador de los hombres de su tiempo y de su obsesión por la historia. Una actitud heroica, comparable, aunque preferible, a aquella de que hablaba André Malraux en su libro Le temps du mépris, que era el tema del ensayo de Eliade” (Grottanelli, 347).
Eliade en estos tiempos en los inicios de sus treinta años, cuando está forjando su personalidad de teórico e investigador considera a Guénon como un auténtico maestro en el campo de las ideas tradicionales, lo que incluso ratifica a su juicio la serena posición de desapego ante las corrientes de ideas modernas, aunque no emite el mismo juicio favorable en el campo de la investigación, como también lo ha expresado en el artículo dedicado a Coomaraswamy. A éste sí lo considera lingüística y filológicamente competente, mientras que para Guénon y Evola, en este campo, se le escapa la baja calificación de “dilettantes”. La evaluación en este último caso de M. Eliade es compleja, porque incluye aproximación y simpatía respecto de las ideas de fondo, pero alejamiento en el método de llegar a ellas, un fenómeno que vamos enseguida a comentar, pero antes debemos facilitar también otra ratificación que es de la misma época, y que se contiene en el libro Comentarii la legenda Mesterului Manole, que se refiere a las leyendas rumanas y balcánicas de los sacrificios de niños durante la construcción de edificios, en particular de monasterios y de puentes, que es publicado en Lisboa siete años después, en marzo de 1943, y en donde el autor confirma en el prefacio:
«Esta obra se publica con una demora de al menos seis años. En uno de los cursos de historia y de filosofía de las religiones que habíamos profesado en la Facultad de Letras de Bucarest (1936-1937, en reemplazo del curso de metafísica del Prof. Nae Ionescu), tuvimos la oportunidad de exponer en sus grandes líneas, el contenido y los resultados de este libro. Una versión técnica de estas lecciones, provista de todo el aparato científico necesario, se preparó hace ya bastante tiempo – bajo el título de Manole et les rites de cosntruction – para la revista Zalmoxis. Pero las circunstancias, y sobre todo la larga residencia del editor en el extranjero, han impedido la aparición regular de Zalmoxis, de modo que antes de publicar la versión técnica, hemos considerado que no estaría desprovisto de interés publicar los presentes Comentarios». Y prosigue el prólogo aportando esclarecimientos críticos y justificativos del mayor interés:
«Evidentemente es indispensable reunir, clasificar e interpretar los documentos etnográficos, pero esto no puede revelar mucho sobre la espiritualidad arcaica. Es necesario ante todo un conocimiento satisfactorio de la historia de las religiones y de la teoría metafísica implícita en los ritos, los símbolos, las cosmogonías y los mitos. La mayor parte de la bibliografía internacional que trata del folclore y de la etnografía es valiosa en la medida en que presenta el material auténtico de la espiritualidad popular, pero deja mucho que desear cuando trata de explicar este material, por medio de “leyes” al uso, a la moda del tiempo de Taylor, Mannhardt o Frazer. No es este el lugar de entablar un examen crítico de los diferentes métodos de interpretación de los documentos de la espiritualidad arcaica. Cada uno de estos métodos ha tenido, en su tiempo, determinados méritos. Pero casi todos se han ajustado a la historia (correcta o incorrectamente comprendida) de este o aquel documento folclórico o etnográfico, con preferencia a tratar de descubrir el sentido espiritual que ha tenido y restaurar su consistencia íntima. La reacción contra estos métodos positivistas no ha tardado en hacerse sentir y es especialmente expresada por un Olivier Leroy, entre los etnólogos, por un René Guénon y un Julius Evola, entre los filósofos, por un Ananda Coomaraswamy entre los arqueólogos, etcétera. Ella ha ido tan lejos que a veces ha negado la evidencia de la historia e ignorado en su totalidad los hechos recogidos por los investigadores» (Grottanelli, 350-351).
Nuevamente en este texto transparente están reunidas por Eliade las dos puntas de su posición de aceptación y crítica en relación con Guénon y otros autores vecinos por las ideas: simbolismo e ideas tradicionales garantizadores de la universalidad de las creencias sagradas como fondo organizador, pero a partir de la investigación científica. El reunir y avecinar documentos no es erudición positivista ni vacía, sino que en el allegamiento surgen ante la mente sensible y perspicaz a los fenómenos aproximadamente las ideas y principios transcendentes que subyacen. Las hierofanías, como manifestaciones de lo sagrado, revelan uniones o integraciones mediadoras que ligan a los contrarios –lo profano y lo sagrado- con equilibrio, lo organizan en sistemas estructurales en el lenguaje del símbolo y del mito, y permiten al alma religiosa arcaica y actual ascender a los orígenes constitutivos. No hay una diferencia insalvable acerca del reconocimiento del fondo espiritual entre Eliade y Guénon, sí lo hay en cuanto al método de acceso. Firmeza de la tradición y de la iniciación en cuanto a Guénon, ingreso por el reconocimiento de los fenómenos sagrados reflejados en la conciencia que cada vez exigen mayor comprensión, para Mircea Eliade. Guénon aspira a romper con lo profano para tener acceso no reflejo, sino directo a lo sagrado; Eliade, se sumerge en la dialéctica de lo sagrado y lo profano que acompaña a la vida del cosmos y la sociedad. Lo primero da una existencia digna de iniciados; lo segundo, de hombres en el mundo vitalmente sacro, que eligen diferentes destinos.
Esta diferencia de posiciones explica las relaciones entre ambos autores, que parecen incluir fuertes contrastes. Guénon desde 1940 en adelante comenta libros y artículos de Mircea Eliade en la revista Études Traditionelle, reconociendo sus aciertos de exposición e interpretación por momentos, así como desautorizándole agriamente en otras, abrogándose la postura de señor indiscutido del campo tradicional que le compete (Técnicas del Yoga, el tomo II de Zalmoxis, «Le “dieu lieur” et le symbolisme des noeuds» -RHR y referencia positiva en “Ligaduras y nudos”É.T., marzo 1950-, Le mythe de l’éternel retour, y otros escritos incluidos en Compte Rendus), una especie de rictus del tradicionalista francés que también ha dado origen a lo que podemos considerar lo más alejado de su magisterio, la “ideología guenoniana”. Mircea Eliade, por su parte, cuando comienza a publicar su difundida obra de especialista en Historia de la religiones a partir del Tratado de historia de las religiones que le publica Payot en l947, en donde recoge materiales anteriormente redactados y otros nuevos, apenas tiene en cuenta en la bibliografía del último capítulo sobre “La estructura de los símbolos”, un escrito de Guénon, Le symbolisme de la croix. Ni siquiera aparece el magisterio expressis verbis del maestro Guénon en los capítulos V (“Las aguas y el simbolismo acuático”) del Tratado y el IV de Imágenes y símbolos (1955), que reedita el primitivo artículo del número 2 de Zalmoxis que tanto le había interesado a Ernst Jünger. Sin embargo, en Le Voile d’Isis (Octubre de 1931) hay un artículo sobre Shet con una referencia a Behemot -en plural- del Libro de Job, como una designación general para todos los grandes cuadrúpedos, lo que es ampliado en el número de agosto-septiembre de 1938 en Études Traditionnelle en una colaboración sobre “Los misterios de la letra nun” (ambos artículos están recogidos más tarde por Michel Valsan –otro rumano- en Símbolos fundamentales de la ciencia sagrada) en donde Guénon se refiere al aspecto benéfico y maléfico de la ballena, con su doble significado de muerte y resurrección, y su vinculación con el Leviatán hebreo y Behemot, como “los hijos de la ballena”. Este trabajo está dentro de la línea de símbolos desarrollados por C. Schmitt en Tierra y mar –Behemot, Leviatán, Grifo- y puede haber sido conocido por el autor alemán.
Mircea Eliade, sin embargo, en su fecunda y subsiguiente producción hace silencio sobre Guénon. Recién en escritos de la década del setenta, el artículo que hemos citado antes sobre la “Theosophia oculta” se refiere a él con elogios y en Ocultismo, brujería y modas culturales, publicado por la Universidad de Chicago en la segunda mitad de los 70, le dedica dos referencias elogiosas a su postura intransigente y bien fundada frente al ocultismo acrítico y optimista de la segunda mitad del siglo XX y algo más de tres páginas para presentarlo como el renovador del esoterismo contemporáneo. Por otra parte, su interpretación de la doctrina cíclica del autor como pesimista y catastrófica en esas páginas demuestra no haber comprendido la concepción guenoniana de los ciclos cósmicos fundada en el Vedânta no dualista de Shankara que incluye ciclos internos espiralados contenidos en el ciclo mayor de un kalpa o “día de Brahman”, con sus manvantaras y yugas, identificando esta visión hindú con la mítico-greca de los pueblos arcaicos, una ligereza de interpretación que el mismo Guénon le había reprochado en la reseña que le dedicó al Mito del eterno retorno. Los silencios y lagunas de comprensión de Eliade sobre R. Guénon, al que reconocía como maestro y orientador en su juventud son sospechosos y el haberlo acantonado a ser “el representante más prominente del esoterismo moderno” sin rastros de su influencia docente sobre él mismo, tal vez despunte una solución en la opinión enseguida proferida en el escrito al que nos estamos refiriendo: «Durante su vida Guénon fue más bien un autor impopular. Tuvo admiradores fanáticos, pero muy pocos. Sólo después de su muerte, y en especial en los diez o doce años últimos, sus libros fueron reeditados y traducidos, difundiendo ampliamente sus ideas» (p. 107).
Casi contemporáneamente en los diálogos sostenidos con Claude-Henri Rocquet y que se han publicado en español bajo el título de La prueba del laberinto (1980) respondiendo a una pregunta del entrevistador, torna a hacer Eliade declaraciones sobre Guénon, pero en este caso resultan incluso más desconcertantes para el lector, por ser contradictorias con lo que hasta ahora se ha podido demostrar. Porque afirma primero el estudioso rumano: «Leí a René Guénon muy tarde y algunos de sus libros me han interesado mucho, concretamente L’Homme et son devenir selon le Vedanta, que me ha parecido bellísimo, inteligente y profundo». A continuación vienen expresadas algunas reservas del autor acerca de lo que no le agrada del escritor francés: su lado exageradamente polémico, un cierto tic de superioridad y un balance de repulsa de toda la cultura occidental -incluida la universitaria- y el respaldo persistente en un concepto complejo y carente de univocidad como es el que pretende sostener sobre la tradición. Este último análisis es bastante discutible, porque Eliade no demuestra poder facilitar un concepto rigurosamente diáfano de tradición, pero sobre todo, creemos que hay que llamar la atención sobre la aclaración de que «leyó a René Guénon muy tarde», puesto que los datos recopilados de su historia de juventud confirman lo contrario. Parece ser que el libro que era el estandarte de la cruzada en la que participaba con otros jóvenes intelectuales en los años treinta en Bucarest, La crisis del mundo moderno, era un obstáculo difícil de salvar para un exitoso profesor que se movía con facilidad en el ambiente universitario estadounidense.
Conclusiones sobre René Guénon y su influencia sobre Eliade y Schmitt.
La atmósfera cultural de la posguerra en París en la que un estudioso rumano de las religiones próximo a los cuarenta años o ya entrados en ellos, hubo de abrirse camino en la Sorbona y los círculos de investigación que la rodeaban, debieron gravitar pesadamente sobre el refugiado político Mircea Eliade. Se sabe de los problemas que tuvo Guénon para que le fuera admitida como tesis universitaria la Introducción general a las doctrinas hindúes, la que finalmente le fue rechazada, y su reacción de abandono del medio universitario. Si el refugiado Eliade, no obstante el apoyo que le prodigaron especialistas franceses como H.Ch. Puech, G. Dumézil, M. Masson-Oursel, L. Renou y otros, tuvo muy serias dificultades para insertarse en el entorno universitario parisino e incluso que en ciertos momentos las dificultades provinieron de la presión política con que lo asediaba el aparato de la inteligencia policial de su país de origen, el silenciar los contactos doctrinales con Guénon cuando era integrante de la Guardia de Hierro durante parte de los años 30 y los primeros del cuarenta, miembro activo de sus avatares políticos y publicaba en sus órganos de prensa y, además, la previsión de no irritar a sus benefactores parisinos inmediatos rompiendo “la conspiración del silencio” que pesaba sobre Guénon en los grupos universitarios oficiales franceses, era cuestión de vida o muerte en aquella etapa para la existencia académica y de investigación del notable universitario que llegó a ser el exiliado rumano. Posteriormente insertado sólidamente en el contexto de la vida universitaria de occidente, el prejuicio lo persiguió como un fantasma. En el fondo, del entramado teórico de sus trabajos quedaba, sin embargo, la influencia teórica subyacente con la que gracias al estímulo doctrinal de Guénon organizó sus aspiraciones de transcendencia al definir la naturaleza religiosa, simbólica y mítica del hombre arcaico y de su desarrollo cósmico.
El caso de Carl Schmitt, sin embargo, fue diverso y transparente, puesto que cuando tiene casi concluido Tierra y mar y está obsesionado por su contenido y recibe a un joven funcionario de Embajada rumano -el que había llevado un mensaje privado a Antunesco, el hombre fuerte del régimen militar de Bucarest del par portugués Salazar-, tiene 54 años. Alemania está en plena guerra europea y el jurista prestigioso se encuentra enfrentado con parte del entorno nacionalsocialista. Las lecturas que había realizado de Guénon estimulaban sus creencias católicas firmes y le permitían utilizar el simbolismo para la interpretación transcendente y velada de los acontecimientos histórico-políticos. Ningún riesgo de fondo corría, al contrario, con este tipo de incursiones culturales profundas, según su mejor inclinación, le era posible ampliar su figura de gran jurista del derecho internacional y afirmarse como filósofo e intérprete político-jurídico del difícil momento del proceso bélico alemán.
El tiempo transcurrido desde entonces hasta hoy parece darnos la razón. Y al ver confluir las tres poderosas personalidades sobre un mismo tema, el de la interpretación de los fenómenos visibles y próximos de la religión, la política y la historia, permite dar asimismo una pincelada de profundidad a lo que hoy día se está mostrando incontrolable y difícil de silenciar en la esfera de la política práctica y de la teoría política: que no es posible pensar en los hechos actuales si no nos liberamos de ellos elevándonos al plano de la metapolítica, bien sea desde la teología o desde la metafísica. La teología política de Jacobo Taubes y de Jian Assmann así lo están reclamando en los centros de estudio internacionales, pero las dos figuras que hemos tratado inspiradas por René Guénon, confirman que la necesidad de implantar el llamado “modelo dualista”, que no es ni simplemente teocrático ni representativo individualista, ofrece matices y recursos para que el ciudadano de los comienzos del siglo XXI se ponga a pensar seriamente que la marcha de los pueblos y sus ordenamientos políticos, jurídicos y económicos son inseparables de algún modo de trascendencia sagrada y tradicional.
Bibliografía
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F. García Bazán y otros, René Guénon o la tradición viviente, Hastinapura, Buenos Aires, 1985.
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C. Schmitt, Tierra y mar. Una reflexión sobre la historia universal con un prólogo de Ramón Campderrich y un epílogo de Franco Volpi, Trotta, Madrid, 2007.
J. Taubes, La teología política de Pablo, Trotta, Madrid, 2007
Fuente: Centro de Estudios Evoliano
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jeudi, 11 avril 2013
Thomas Carlyle: Over helden en heldenverering
(vertaling Bert Bultinck)
Over helden en heldenverering
| Vijfde Lezing – De Held als Literator.
Dinsdag, 19 mei 1840
Held-goden, Profeten, Poëten, Priesters. Het zijn allemaal vormen van Heroïsme die tot de oude tijden behoren, die al in de vroegste tijden verschijnen; sommige van die vormen lijken niet langer mogelijk, en kunnen zichzelf niet meer tonen in deze wereld. De Held als Literator, waarover we vandaag zullen spreken, is al bij al een product van onze nieuwe tijden; en zolang de wonderlijke kunst van het Schrift, of van het Paraat-Schrift dat we Drukwerk noemen, blijft bestaan, mag men veronderstellen dat hij één van de belangrijkste vormen van het Heroïsme zal blijven voor alle tijden die nog volgen. Hij is, in verschillende opzichten, een zeer bijzonder fenomeen.
Ik zeg dat hij nieuw is; hij is er amper langer dan een eeuw. Nooit, tot zo’n honderd jaar geleden, was er enig beeld van een Grote Ziel die op zo’n abnormale manier apart leefde, niemand die poogde de inspiratie die in hem was uit te spreken in Gedrukte Boeken en die plaats en levensonderhoud vond door middel van wat het de wereld behaagde hem daarvoor te geven. Er was al veel ver- en gekocht; en achtergelaten om de eigen prijs op de markt te vinden; maar de bezielde wijsheid van een Heroïsche Ziel nog nooit, op die naakte wijze. Hij, met zijn copy-rights en copy-wrongs, in zijn vieze zolderkamertje, in zijn versleten jas; die vanuit het graf hele naties en generaties regeert (want dat is wat hij doet) die hem tijdens zijn leven al dan niet brood wilden geven – hij is een curieus spektakel! Er zijn weinig vormen van Heroïsme die nog meer onverwacht zouden kunnen zijn.
Helaas, de Held uit de oude dagen heeft zich in vreemde vormen moeten wringen: de wereld weet bij tijden niet goed wat met hem aan te vangen, zo vreemd is zijn verschijning in deze wereld! Het leek ons absurd, dat mensen, in hun brute bewondering, één of andere wijze grote Odin als god namen en hem als zodanig vereerden; of een wijze grote Mohammed voor een door god bezielde, om diens Wet twaalf eeuwen religieus na te leven: maar dat een wijze grote Johnson, een Burns, een Rousseau als doelloze slampampers worden beschouwd, en af en toe een paar muntstukken toegeworpen krijgen om van te leven, als zouden die enkel bestaan om de leegheid te amuseren: dit zal misschien, zoals reeds eerder gesuggereerd, ooit nog wel een veel absurdere stand van zaken lijken! – Ondertussen moet, aangezien het spirituele altijd het materiële bepaalt, deze Literator-Held als onze belangrijkste moderne persoon worden beschouwd. Hij, hoe hij ook moge zijn, is de ziel van alles en iedereen. Wat hij verkondigt, zal de hele wereld doen en maken. Hoe de wereld hem behandelt is het meest significante kenmerk van de algehele staat van de wereld. Als we goed naar zijn leven kijken, kunnen we misschien een glimp opvangen, zo diep als ook maar mogelijk is voor ons, van het leven van die bijzondere eeuwen die hem hebben voortgebracht en waarin wij zelf leven en werken.
Er zijn authentieke Literatoren en inauthentieke; zoals bij elke soort zijn er authentieke en onechte. Als we Held als authentiek opvatten, dan zeg ik dat de Held als Literator voor ons een functie zal blijken te vervullen die voor altijd de meest eerbiedwaardige, de hoogste is. Hij spreekt, op zijn eigen manier, zijn eigen geïnspireerde ziel uit; alles wat een man, in elk geval, kan doen. Ik zeg geïnspireerd, dat wat we ‘originaliteit’, ‘oprechtheid’, ‘genie’ noemen, die heroïsche kwaliteit waar we geen goede naam voor hebben. De Held is hij die leeft in de innerlijke sfeer van de dingen, in het Ware, Goddelijke en Eeuwige, dat altijd, onopgemerkt voor de meesten, onder het Tijdelijke, Triviale leeft: daarin ligt zijn wezen; hij openbaart dat uitgebreid, door een handeling of een uitspraak, en door zichzelf uitgebreid te openbaren. Zijn leven, zoals we vroeger al zeiden, is een stuk van het eeuwige hart van de Natuur zelf: dat is het leven van iedereen, – maar de zwakke velen kennen dat feit niet, en zijn het meestal ontrouw; de sterke weinigen zijn sterk, heroïsch, standvastig, want het kan zich niet voor hen verstoppen. De Literator, net als elke Held, is er om dit uit te dragen, zoals hij dat kan. Intrinsiek is het dezelfde functie waarvoor de oude generaties een man Profeet, Priester of Godheid noemden; om die dingen te doen, door woord of daad, waarvoor alle soorten van Helden de wereld ingestuurd worden.
Zo’n veertig jaar geleden gaf de Duitse Filosoof Fichte een zeer opmerkelijke reeks lezingen over dit onderwerp in Erlangen: ‘Über das Wesen des Gelehrten, Over De Natuur van de Literaire Mens.’ In overeenstemming met de Transcendentale Filosofie waarvan hij een groot leermeester was, stelt Fichte eerst en vooral: Dat alle dingen die we zien of waarmee we werken op deze Aarde, in het bijzonder onszelf en alle mensen, als een soort overjas of zinnelijke Verschijning zijn: dat er onder dat alles, als hun essentie, datgene ligt wat hij de ‘Goddelijke Idee van de Wereld’ noemt; dit is de Realiteit die ‘aan de grond ligt van elke Verschijning’. Voor de massa is zo’n Goddelijke Idee niet te herkennen in de wereld; zij leven enkel, zegt Fichte, onder de oppervlakkigheden, de praktische probleempjes en de uiterlijkheden van de wereld, en dromen niet dat daaronder ook maar iets goddelijks is. Maar de Literator wordt speciaal hierheen gezonden om, voor zichzelf, dezelfde Goddelijke Idee te onderscheiden en om die, voor ons, duidelijk te maken: elke nieuwe generatie zal dit Idee aan zichzelf kenbaar maken in een nieuw dialect; en de Literator is er om dat te doen. In die bewoordingen drukt Fichte zich uit; en wij hoeven dat niet te betwisten. Wat hij op zijn manier benoemt is datgene wat ik hier, in andere woorden, op onvolmaakte wijze tracht te benoemen: dat waar momenteel geen naam voor is: De onuitsprekelijke Goddelijke Betekenis, vol van glans, van wonder en terreur, dat in het wezen van elke man ligt, van elk ding,– de Aanwezigheid van de God die elke mens en elk ding heeft gemaakt. Mohammed verkondigde dit in zijn dialect; Odin in het zijne: alle denkende harten zijn hier om dat, in één of ander dialect, aan te leren.
Daarom noemt Fichte de Literator een profeet, of zoals hij hem liever noemt, een Priester, die voortdurend het Goddelijke voor de mensen ontvouwt: van tijdperk tot tijdperk vormen Literatoren een eeuwig Priesterschap, dat alle mensen leert dat er nog steeds een God is in hun leven; dat elke ‘Verschijning’, wat we ook zien in de wereld, niet meer dan een overjas is voor de ‘Goddelijke Idee van de Wereld’, voor ‘dat wat op de bodem van de Verschijning ligt’. In de ware Literator is er dus altijd een, al dan niet door de wereld erkende, wijding: hij is het licht van de wereld, de Priester van de wereld: - hij leidt de wereld, als een heilige Vuurpilaar, in diens donkere pelgrimstocht door de woestijn van de Tijd. Fichte onderscheidt gepassioneerd de ware Literator, die we hier de Held als Literator noemen, van de massa valse onheldhaftigen. Wie niet volledig in deze Goddelijke Idee leeft, of voor wie er slechts gedeeltelijk in leeft en er niet naar streeft, als naar het enige goede, om er volledig in te leven, – hij is, waar hij ook leeft, in welke praal en voorspoed dan ook, geen Literator; hij is, zegt Fichte, een ‘zielige, een Stümper’. Of, hij kan, op zijn best, als hij van de prozaïsche streken is, een ‘loonslaaf’ zijn; Fichte noemt hem elders zelfs een nul, en heeft, om kort te gaan, geen genade voor hem, geen verlangen dat hij blijmoedig onder ons blijft! Dit is Fichtes opvatting van de Literator. In zijn eigen uitdrukkingsvorm zegt het precies wat we hier bedoelen.
Vanuit dit standpunt beschouw ik Fichtes landgenoot Goethe als de meest opmerkelijke Literator van de laatste honderd jaar. Wat we een leven in de Goddelijke Idee van de Wereld kunnen noemen was ook, op een vreemde manier, aan die man gegeven; een visioen van het innerlijke, goddelijke mysterie: en vreemd genoeg, rijst uit zijn boeken de wereld eens te meer op als goddelijk verbeeld, werk en tempel van een God. Geheel verlicht, niet in woeste onzuivere vuurglans als bij Mohammed, maar in milde, hemelse stralen; -waarlijk een Profetie in deze hoogst onprofetische tijden; mijns inziens, veruit het grootste, zij het één van de stilste, van alle dingen die in deze tijden gebeurd zijn. Als specimen van de Held als Literator zouden we deze Goethe verkiezen. En het zou me zeer aangenaam zijn om het hier over zijn heroïsme te hebben: want ik beschouw hem als een echte Held; heroïsch in wat hij zei en deed, en misschien nog heroïscher in wat hij niet zei en niet deed; wat mij betreft een nobel spektakel: een groot heroïsch man van vroeger, die sprak en zweeg als een Held van de oude tijd, in de verschijning van een uiterst moderne, welopgevoede, zeer gecultiveerde Literator! Wij hebben zo geen spektakel gehad; geen man die daartoe in staat was, de laatste honderdvijftig jaar.
Maar momenteel is de algemene kennis van Goethe zodanig dat het meer dan zinloos zou zijn om het in deze kwestie over hem te hebben. Hoe ik ook over hem zou spreken, Goethe zou voor de meesten onder jullie vaag en problematisch blijven; geen indruk behalve een valse zou ik kunnen meegeven. We moeten hem voor later bewaren. Johnson, Burns, Rousseau, drie grote figuren van een vorige tijd, uit een veel slechtere staat van omstandigheden, passen hier beter. Drie mannen van de Achttiende Eeuw; hun levensomstandigheden lijken veel meer op wat die van ons nog altijd zijn, dan op die van Goethe in Duitsland. Helaas, deze mannen overwonnen niet zoals hij; ze vochten moedig, en vielen. Ze waren geen heroïsche bezorgers van het licht, maar heroïsche zoekers ervan. Ze leefden in bittere omstandigheden; worstelden als onder bergen van obstakels, en konden zich niet ontvouwen in duidelijkheid, of in een zegevierende interpretatie van die ‘Goddelijke Idee’. Het zijn eerder de Graftombes van drie Literaire Helden die ik u wil tonen. Daar zijn de monumentale bergen, waaronder drie spirituele reuzen begraven liggen. Zeer somber, maar ook groots en vol belang voor ons. We blijven een tijdje bij hen.¹
In deze tijden wordt er vaak geklaagd over wat we de gedesorganiseerde staat van deze maatschappij noemen: hoe slecht veel geordende maatschappelijke krachten hun taak vervullen; men kan zien hoe zoveel machtige krachten op een spilzieke, chaotische, zeg maar ongeordende manier functioneren. De klacht is meer dan terecht, zoals we allemaal weten. Maar misschien, als we dit bekijken vanuit het standpunt van Boeken en van de Schrijvers van Boeken, zullen we er als het ware de samenvatting van elke andere desorganisatie vinden; – een soort van hart, van waaruit, en waar naar toe, alle andere verwarring in de wereld circuleert. Als ik kijk naar wat schrijvers in de wereld doen, en wat de wereld met schrijvers doet, dan zou ik zeggen dat dat het meest abnormale ding is wat de wereld vandaag laat zien. – We zouden in een onmetelijk diepe zee terechtkomen, als we hier verslag van zouden willen doen: maar omwille van ons onderwerp moeten we er even een blik op werpen. Het ergste onderdeel van het leven van deze drie Literaire Helden was dat ze hun zaken en maatschappelijke positie zo chaotisch vonden. Via de platgetreden paden kan men behoorlijk makkelijk reizen; maar het is hard labeur, en velen gaan eraan ten onder, als men een pad door het ondoordringbare moet creëren!
Onze devote Vaders, die goed aanvoelden hoe belangrijk het spreken van man tot menigte was, stichtten kerken, vonden fondsen en maakten reglementen; overal in de beschaafde wereld is er een Preekstoel, omringd door allerlei soorten van complexe, waardige accessoires en hulpmiddelen, zodat van op die preekstoel een welbespraakte man zijn naasten zo voordelig mogelijk kan toespreken. Ze vonden dat dit het belangrijkste was; dat er zonder dit niets goeds was. Dat werk van hen is waarlijk vroom; mooi om te aanschouwen! Maar nu, met de kunst van het Schrift, met de kunst van het Drukken, is die hele aangelegenheid totaal veranderd. De Schrijver van een Boek, is hij geen Predikant, die niet preekt voor deze of gindse parochie, op één of andere dag, maar voor alle mensen van alle tijden en plaatsen? Zeker, het is van het grootste belang dat hij zijn werk goed doet, wie anders het ook slecht moge doen; – dat het oog niet foutief rapporteert; want dan dwalen alle andere leden! Wel; hoe hij zijn werk doet, of hij het goed of slecht doet, of hij het überhaupt doet, is iets waarvoor geen mens in de wereld ooit de moeite heeft gedaan om over na te denken. Voor één of andere winkelier, die geld voor diens boeken probeert te verkrijgen, als hij geluk heeft, is hij nog van een zeker belang; maar voor elke andere man van geen enkel. Waar hij vandaan kwam, en waar hij naar toe trekt, via welke wegen hij hier aankwam, en via welke hij zijn tocht zou kunnen voortzetten, vraagt niemand. In de maatschappij is hij een accident. Hij zwerft rond als een wilde Ismaëliet, in een wereld waarvan hij als het ware het spirituele licht is, ofwel de juiste ofwel de verkeerde gids!
Van alle dingen die de mens ontworpen heeft, is de kunst van het schrift zeker het meest miraculeuze. Odins Runen waren de eerste vorm van het werk van een Held; Boeken, geschreven woorden, zijn nog altijd miraculeuze Runen, in hun meest recente vorm! In Boeken ligt de ziel van de hele Voorbije Tıjd; de heldere, hoorbare stem van het Verleden, wanneer het lichaam en de materie ervan volkomen verdwenen zijn als een droom. Machtige vloten en legers, havens en arsenalen, uitgestrekte steden, met hoge koepels en veel werktuigen,- ze zijn kostbaar, groot: maar wat wordt er van hen? Agamemnon, de vele Agamemnons, Periclessen, en hun Griekenland; alles is nu verworden tot enkele brokstukken, stomme, sombere wrakken en blokken: maar de Boeken van Griekenland! Daar leeft Griekenland – zeer letterlijk – nog steeds voor elke denker; en kan het terug tot leven geroepen worden. Geen magische Rune is vreemder dan een Boek. Alles wat de mensheid ooit heeft gedaan, gedacht, gewonnen of is geweest: het ligt als in magische bewaring in de bladzijden van een boek. Ze zijn het uitverkoren bezit van de mensen. Is het niet zo dat Boeken nog altijd de mirakels verrichten die volgens de legenden de Runen altijd deden? Ze overtuigen de mensen. Geen roman uit een leesgezelschap, beduimeld en verslonden door dwaze meiden in afgelegen dorpen, zo verschrikkelijk, of hij helpt de praktische kant van trouwerijen en huishoudens van deze dwaze meiden in goede banen leiden. Zoals ‘Celia’ zich voelde, zo handelde ‘Clifford’: het dwaze Theorema van het Leven, in deze jonge breinen gestampt, komt op een dag terug te voorschijn als vaste Werkwijze. Vraag u eens af of enige Rune, in de wildste verbeelding van de mytholoog ooit zulke wonders heeft verricht, als diegene die, op de feitelijke vaste aarde, sommige Boeken hebben gedaan! Wat heeft St. Paul’s Cathedral gebouwd? In essentie, was het dat goddelijke Hebreeuwse BOEK – gedeeltelijk de wereld van de man Mozes, een vogelvrij verklaarde die zijn Midianitische kudden hoedde, vierduizend jaar geleden, in de wildernissen van Sinaï! Het is uiterst vreemd, maar niets is meer waar dan dat. Met de kunst van het Schrift, waarvan de Boekdrukkunst een eenvoudig, onvermijdelijk en relatief onbetekenend uitvloeisel is, begon voor de mensen de ware heerschappij van mirakelen. Het Schrift verbond, met wonderlijke nieuwe raakpunten en eeuwige nabijheid, het Verleden en het Verre met het Heden in tijd en ruimte; alle tijden en alle plaatsen met ons feitelijk Hier en Nu. Alle dingen veranderden voor de mensen: leren, preken, regeren, en alle andere dingen.
Laten we eens naar het Leren kijken, bijvoorbeeld. Universiteiten zijn een opmerkelijk, respectabel product van de moderne tijden. Ook hun bestaan is wezenlijk aangepast door het bestaan van Boeken. Universiteiten ontstonden wanneer er nog geen boeken verkrijgbaar waren; wanneer een man, voor één enkel boek, een heel landgoed moest geven. In die omstandigheden was het noodzakelijk dat, wanneer een man enige kennis wou meedelen, hij dat deed door de mensen die wilden leren, van aangezicht tot aangezicht, rond zich te verzamelen. Als je wou weten wat Abélard wist, dan moest je naar Abélard gaan luisteren. Duizenden, wel dertigduizend, gingen naar Abélard en diens metafysische theologie luisteren. En nu kwam er voor elke andere leraar die iets van zichzelf had aan te leren een nieuw gemak: zoveel duizenden die gretig wilden leren, waren daar al verzameld; van alle plaatsen was dat de beste voor hem. Voor elke derde leraar was het nog beter; en werd het altijd maar beter, naarmate er meer leraars kwamen. De Koning moest nu alleen nog dit nieuwe verschijnsel opmerken; de verscheidene scholen doen fusioneren; het gebouwen, privileges en aanmoedigingen geven en het Universitas, of School van Alle Wetenschappen noemen: en de Universiteit van Parijs, in grote trekken, was er. Het model van alle volgende Universiteiten; die tot op vandaag, zes eeuwen lang al, doorgegaan zijn met zichzelf te stichten. Dat, stel ik mij voor, was de oorsprong van Universiteiten.
Het is niettemin duidelijk dat met deze eenvoudige omstandigheid, het gemak om Boeken te verkrijgen, alle voorwaarden van de zaak veranderden. Eens je de Boekdrukkunst uitvindt, verander je ook alle Universiteiten, of maak je ze overbodig! De Leraar moest nu niet langer alle mensen persoonlijk rond zich verzamelen, om zo hen te kunnen zeggen wat hij wist: druk het in een Boek, en alle leerlingen van heinde en verre, hadden het elk bij hun haardvuur, voor een kleinigheid, en konden het veel efficiënter studeren! – Zonder twijfel heeft het Spreken nog steeds een bijzondere kwaliteit; zelfs schrijvers van Boeken kunnen het, in sommige omstandigheden, passend vinden om ook te spreken, – getuige onze huidige bijeenkomst hier! Men zou kunnen zeggen – en dat moet zo blijven zolang de mens een tong heeft – dat er een apart domein voor het Spreken is, zowel als één voor Schrijven en Drukken. In alle opzichten moet dit zo blijven; zoals onder andere bij de Universiteiten. Maar de grenzen van beide zijn nog nooit aangetoond, vastgesteld; laat staan in praktijk gebracht. De Universiteit die zich volledig rekenschap zou geven van het grootse nieuwe feit van het bestaan van Gedrukte Boeken, en van eenzelfde niveau zou zijn voor de Negentiende Eeuw als die van Parijs was voor de Dertiende Eeuw, is nog niet tot stand gekomen. Als we er goed over nadenken, is alles wat een Universiteit, of een Hogeschool, kan doen, nog steeds slechts wat de eerste School begon te doen – ons leren lezen. We leren lezen, in verschillende talen, in verschillende wetenschappen; we leren het alfabet en de letters van allerlei Boeken. Maar de plaats waar we onze kennis gaan halen, zelfs theoretische kennis, is bij de Boeken zelf! Het hangt af van wat we lezen, nadat allerlei Professoren voor ons hun best hebben gedaan. De ware Universiteit van deze dagen is een Verzameling Boeken.
Maar door de introductie van Boeken is voor de Kerk zelf, zoals ik al suggereerde, alles veranderd, wat het preken betreft, wat haar werking betreft. De Kerk is de werkende erkende Vereniging van Onze Priesters of Profeten, van zij die door wijze lessen de zielen van de mensen leiden. Zolang er geen Schrift was, vooral waneer er geen Gemak-Schrift of Drukken was, was de preek van de stem de enige natuurlijke methode om dit te doen. Maar nu er Boeken zijn! – Hij die een Boek kan schrijven, om Engeland te overtuigen, is hij niet de Bisschop en de Aartsbisschop, de Primaat van Engeland en Heel Engeland? Ik zeg dikwijls dat de schrijvers van Kranten, Pamfletten, Gedichten, Boeken de echte werkende en wezenlijke Kerk van een modern land zijn. Nee, niet alleen onze preken, maar zelfs onze eredienst, worden zij ook niet verricht door middel van Gedrukte Boeken? Het nobele gevoel dat een getalenteerde ziel voor ons in melodieuze woorden heeft aangekleed, woorden die melodie in ons hart brengen,– is dit niet essentieel, als we het goed begrijpen, voor het wezen van de eredienst? Er zijn er velen, in alle landen, die, in deze verwarde tijd, geen andere manier van verering hebben. Hij die ons, op welke manier dan ook, op een betere wijze dan we ervoor kenden, toont dat een veldlelie mooi is, toont hij ons dat niet als een uitvloeisel van de Fontein van alle Schoonheid; als het handschrift, daarin zichtbaar gemaakt, van de grote Maker van het Universum? Hij heeft voor ons een klein vers van een heilige Psalm gezongen, hij heeft het ons met hem doen meezingen. Wezenlijk wel. Hoeveel te meer hij die de nobele handelingen, gevoelens, stoutmoedigheden en beproevingen van een man en een broeder bezingt, uitspreekt of op een andere manier naar ons hart brengt! Hij heeft werkelijk ons hart geraakt als was het met een gloeiende kool van het altaar. Wellicht bestaat er geen eredienst die authentieker is.
Literatuur, in zoverre het Literatuur is, is een ‘apocalyps van de Natuur’, een openbaring van het ‘open geheim’. Het zou best, in de stijl van Fichte, een ‘voortdurende revelatie’ van het Goddelijke op het Aardse en het Gewone genoemd kunnen worden. Het Goddelijke duurt daar werkelijk steeds voort; het komt te voorschijn, nu eens in dit dialect, dan in dat, met verschillende graden van helderheid: alle werkelijk getalenteerde Zangers en Sprekers doen dit, bewust of onbewust. De donkere stormachtige verontwaardiging van een Byron, zo wispelturig en pervers, kan er enkele trekken van hebben; of nee, de verdorde spot van een Frans scepticus,– zijn bespotting van het Valse, een liefde en verering van het Ware. Hoeveel meer nog de sferenharmonie van een Shakespeare, van een Goethe; de kathedraal-muziek van een Milton! Zij zijn ook iets, die nederige echte leeuwerikennoten van een Burns, – veldleeuwerik, die begint van de nederige voor, ver boven het hoofd in de blauwe diepten, en die ons daar zo authentiek toezingen! Want alle werkelijke zang is wezenlijk een verering; zoals men inderdaad kan zeggen dat alle ware arbeid dat is, – waarvan die zang voor ons slechts de neerslag, en passende melodieuze voorstelling is. Fragmenten van een echte ‘Kerkliturgie’ en ‘Preekbundels’, vreemd verborgen voor het gewone oog, vind je zwalkend op die enorme schuimoceaan van het Gedrukte Woord dat we vaag Literatuur noemen! Boeken zijn ook onze Kerk.
noot
¹ Dat doen we niet: deze tekst is een fragment van een lezing waarin Carlyle zijn ideeën over de Held als Literator illustreert aan de hand van drie grote voorbeelden: Samuel Johnson, Jean-Jacques Rousseau en Robert Burns. Hier worden enkel de meer algemene opvattingen van Carlyle gepubliceerd.
http://www.yangtijdschrift.be/editorhtml.asp?page=19993L5
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mercredi, 10 avril 2013
Jünger und Frankreich - eine gefährliche Begegnung?
Jünger und Frankreich - eine gefährliche Begegnung?
Ein Pariser Gespräch. Mit 60 Briefen von Ernst Jünger an Julien Hervier
Ein Pariser Gespräch. Mit 60 Briefen von Ernst Jünger an Julien Hervier
Mit Abbildungen
204 Seiten, gebunden mit Schutzumschlag
2 Abbildungen
Aus dem Französischen von Dorothée Pschera
Preis: 19,90 € / 28,90 CHF
Der Briefwechsel Ernst Jüngers mit seinem französischen Übersetzer Julien Hervier
Pressestimmen
»Es ist eher unwahrscheinlich, dass ein neuer Briefwechsel das Bild Jüngers komplett ändert. Wohl aber vermag ein kleiner, schöner Briefband wie der von Matthes & Seitz das Bild durch persönliche und kenntnisreiche Kommentare zu verlebendigen.«
Jerker Spits, literaturkritik.de, Okotber 2012
»Der Verlag Matthes & Seitz kann sich damit rühmen, durch das Gespräch zwischen Pschera und Hervier eine Menge Hintergründiges über Jünger zutage befördert zu haben.«
Markus L. Kerber, Europolis, Juli 2012
"Alles in allem stellt das Bändchen ein Lesevergnügen dar und kann so als faszinierendes Einführungsbuch zu Jünger dienen."
Till Kinzel, Informationsmittel, Juni 2012
"Derartige, über fünfundzwanzig Jahre geführte Korrespondenzen zwischen Autor und Übersetzer sind ebenso selten wie kostbar."
Bernhard Gajek, Germanistik 53, 2012
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mardi, 09 avril 2013
Eté 1942, hiver 2010 : un échange
Eté 1942, hiver 2010 : un échange
Par Michael O'Meara
English original here [2]
Ex: http://www.counter-currents.com/
Durant l’été 1942 – alors que les Allemands étaient au sommet de leur puissance, totalement inconscients de l’approche de la tempête de feu qui allait transformer leur pays natal en enfer – le philosophe Martin Heidegger écrivit (pour un cours prévu à Freiberg) les lignes suivantes, que je prends dans la traduction anglaise connue sous le titre de Hölderlin’s Hymn “The Ister”: [1]
« Le monde anglo-saxon de l’américanisme » – notait Heidegger dans une note à son examen nationaliste/ontologique de son bien-aimé Hölderlin – « a résolu d’anéantir l’Europe, c’est-à-dire la patrie, et cela signifie : [il a résolu d’anéantir] le commencement du monde occidental. »
En anéantissant le commencement (les origines ou la naissance de l’être européen) – et ainsi en anéantissant le peuple dont le sang coulait dans les veines américaines – les Européens du Nouveau Monde, sans le savoir, détruisaient l’essence de leur propre existence – en désavouant leurs origines – en dénigrant la source de leur forme de vie, en se déniant ainsi à eux-mêmes la possibilité d’un avenir.
« Tout ce qui a un commencement est indestructible. »
Les Américains scellaient leur propre destruction en s’attaquant à leur commencement – en tranchant les racines de leur être.
Mais l’Europe – cette synergie unique de sang et d’esprit – ne peut pas être tuée, car son essence, nous dit Heidegger, est le « commencement » – l’originel – le renouvellement – la perpétuelle refondation et réaffirmation de l’être.
Ainsi, l’Europe resurgit toujours inévitablement – assise sur son taureau, elle resurgit des eaux, qui la recouvrent lorsqu’elle plonge avec intrépidité dans ce qui est à venir.
Sa dernière position est par conséquent toujours la première – un autre commencement – lorsqu’elle avance vers ses origines – renouvelant l’être non-corrompu de son commencement – lorsqu’elle s’authentifie dans la plénitude d’un avenir qui lui permet de commencer encore et encore.
* * *
L’opposé est vrai aussi.
L’anéantissement de son commencement par l’Amérique lui a révélé son propre manque inhérent de commencement.
Depuis le début, son projet fut de rejeter ses origines européennes – de désavouer l’être qui l’avait faite ce qu’elle était –, quand ses colons évangélistes adoptèrent la métaphore des Deux Mondes, l’Ancien et le Nouveau.
Pour Heidegger, « l’entrée [de l’Amérique] dans cette guerre planétaire n’est pas [son] entrée dans l’histoire ; au contraire, c’est déjà l’ultime acte américain d’a-historicité et d’auto-destruction ».
Pour avoir émergé, conçue de manière immaculée, des jérémiades de sa Mission Puritaine, l’Amérique s’est définie par un rejet de son passé, par un rejet de ses origines, par un rejet de son fondement le plus ontologique – comme si elle regardait vers l’ouest, vers le soleil couchant et la frontière toujours mouvante de son avenir sans racines et fuyant, mythiquement légitimé au nom d’un « Rêve américain » né de l’éthique protestante et de l’esprit du capitalisme.
Les Américains, l’homo oeconomicus rationnel, sans racines et uniforme qui domine aujourd’hui ne s’est jamais soucié de regarder devant lui parce qu’il n’a jamais regardé derrière lui. Passé et futur, racines et branches – tout cela a été déraciné et coupé.
Pas de mémoire, pas de passé, pas de sens.
Au nom du progrès – que Friedrich Engels imaginait comme un « char cruel passant sur des amas de corps brisés » –, l’être américain se dissout dans sa marche désordonnée vers le gouffre béant.
Mais bien que ce soit d’une manière indirecte, c’est à partir de la matrice européenne que les Américains entrèrent dans le monde, et c’est seulement en affirmant l’être européen de leur Patrie et de leur Lignée qu’ils pouvaient s’enraciner dans leur « Nouveau » Monde – sans succomber aux barbares et aux fellahs étrangers à la Mère-Patrie et à la Culture des Ancêtres.
Au lieu de cela, les fondateurs de l’Amérique entreprirent de rejeter leur Mère. Ils la traitèrent d’égyptienne ou de babylonienne, et prirent leur identité d’« élus », de « choisis », de « lumière des nations » chez les nomades de l’Ancien Testament, étrangers aux grandes forêts de nos terres nordiques, envieux de nos femmes aux yeux bleus et aux cheveux clairs, et révulsés par les hautes voûtes de nos cathédrales gothiques.
L’abandon de leur être originel unique fit des Américains les éternels champions de l’amélioration du monde, les champions idéologiques de l’absurdité consumériste, la première grande « nation » du nihilisme.
* * *
Pendant que Heidegger préparait son cours, des dizaines de milliers de chars, de camions et de pièces d’artillerie commençaient à faire mouvement de Detroit à Mourmansk, puis vers le front de l’Est.
Quelque temps plus tard, le feu commença à tomber du haut du ciel – le feu portant la malédiction de Cromwell et les idées de terre brûlée de Sherman –, le feu qui transforma les familles allemandes en cendres, avec leurs belles églises, leurs musées splendides, leurs quartiers ouvriers densément peuplés et d’une propreté éclatante, leurs bibliothèques anciennes et leurs laboratoires de pointe.
La forêt qui a besoin d’un millier d’années pour s’épanouir périt en une seule nuit dans le feu du phosphore.
Il faudrait longtemps – le moment n’est pas encore venu – avant que les Allemands, le Peuple du Milieu, le centre de l’être européen, se relèvent de leurs ruines, aujourd’hui plus spirituelles que matérielles.
* * *
Heidegger ne savait pas qu’une tempête apocalyptique était sur le point de détruire son Europe.
Mais suspecta-t-il du moins que le Führer avait fourvoyé l’Allemagne dans une guerre qu’elle ne pouvait pas gagner ? Que non seulement l’Allemagne, mais aussi l’Europe s’opposant aux forces anglo-américaines de Mammon serait détruite ?
* * *
« L’esprit caché du commencement en Occident n’aura même pas un regard de mépris pour cette épreuve d’autodestruction sans commencement, mais attendra que son heure stellaire surgisse de la sérénité et de la tranquillité qui appartiennent au commencement. »
Une Europe réveillée et renaissante promet donc de répudier la trahison de soi accomplie par l’Amérique – l’Amérique, cette stupide idée européenne baignant dans l’hubris des Lumières, et qui devra être oubliée (comme un squelette de famille) quand l’Europe se réaffirmera.
Mais en 1942, Heidegger ne savait pas que des Européens, et même des Allemands, trahiraient bientôt en faveur des Américains, que les Churchill, les Adenauer, les Blum – les lèche-bottes de l’Europe – monteraient au sommet de la pyramide yankee de l’après-guerre, pyramide conçue pour écraser toute idée de nation, de culture et de destin.
C’est la tragédie de l’Europe.
* * *
Dès que l’Europe se réveillera – elle le fera un jour –, elle se réaffirmera et se défendra, ne se laissera plus distraire par le brillant et le clinquant de l’Amérique, ne se laissera plus intimider par ses bombes H et ses missiles guidés, comprenant enfin clairement que toutes ces distractions hollywoodiennes dissimulent un vide immense – ses incessants exercices de consumérisme insensé.
Par conséquent, incapable d’un recommencement, s’étant dénié elle-même un commencement, la mauvaise idée que l’Amérique est devenue se désintégrera probablement, dans les temps de feu et d’acier qui approchent, en parties disparates.
A ce moment, les Américains blancs seront appelés, en tant qu’Européens du Nouveau Monde, à réaffirmer leur « droit » à une patrie en Amérique du Nord – pour qu’ici ils puissent au moins avoir un endroit pour être ce qu’ils sont.
S’ils devaient réussir dans cette entreprise apparemment irréalisable, ils fonderont la nation – ou les nations – américaine(s) pour la première fois non pas comme le simulacre universaliste que les francs-maçons et les déistes concoctèrent en 1776, mais comme la pulsation du sang du destin américain de l’Europe.
« Nous pensons seulement à moitié ce qui est historique dans l’histoire, c’est-à-dire que nous ne le pensons pas du tout, si nous calculons l’histoire et son ampleur en termes de longueur… de ce qui a été, plutôt qu’attendre ce qui vient et ce qui est dans le futur. »
Le commencement, en tant que tel, est « ce qui vient et ce qui est dans le futur », ce qui est l’« historique dans l’histoire », ce qui remonte le plus loin dans le passé et qui surgit loin dans le futur en cours de dévoilement – comme la charge d’infanterie manquée de Pickett à Gettysburg, dont Faulkner nous a dit qu’elle devait être tentée encore et encore, jusqu’à ce qu’elle réussisse.
* * *
« Nous nous trouvons au commencement de la véritable historicité, c’est-à-dire de l’action dans le domaine de l’essentiel, seulement quand nous sommes capables d’attendre ce qui nous est destiné. »
« Ce qui nous est destiné » – cette affirmation de nous-mêmes –, affirme Heidegger, ne viendra que si nous défions la conformité, les conventions, et le conditionnement artificiel pour réaliser l’être européen, dont le destin est le seul à être nôtre.
A ce moment, si nous devions réussir à rester debout, de la manière dont nos ancêtres le firent, nous atteindrons devant nous et au-delà ce qui commence par chaque affirmation futuriste de ce que nous sommes, nous Européens-Américains.
Cette affirmation, cependant, ne sera pas « sans action ni pensée, en laissant les choses venir et passer… [mais] quelque chose qui se tient devant nous, quelque chose se tenant dans ce qui est indestructible (à quoi le voisinage désolé appartient, comme une vallée à une montagne) ».
Car désolation il y aura – dans ce combat attendant notre race – dans cet avenir destiné conservant avec défi une grandeur qui ne rompt pas en pliant dans la tempête, une grandeur certaine de venir avec la fondation d’une nation européenne en Amérique du Nord, une grandeur dont je crains souvent que nous ne l’ayons plus en nous-mêmes et que nous devons donc appeler par les ardents rites guerriers qui étaient jadis dédiés aux anciens dieux célestes aryens, aussi éloignés ou fictionnels qu’ils puissent être devenus.
–Hiver 2010
Note
1. Martin Heidegger, Hölderlin’s Hymn ‘The Ister’, trans W. McNeill and J. Davis (Bloomington: Indiana University Press, 1996), p. 54ff.
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
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lundi, 08 avril 2013
La Tradition dans la pensée de Martin Heidegger et de Julius Evola
Le primordial et l’éternel :
La Tradition dans la pensée de Martin Heidegger et de Julius Evola
par Michael O'Meara
Ex: http://www.counter-currents.com/
L’opposé de la tradition, dit l’historien Dominique Venner, n’est pas la modernité, une notion illusoire, mais le nihilisme [1]. D’après Nietzsche, qui développa le concept, le nihilisme vient avec la mort des dieux et « la répudiation radicale de [toute] valeur, sens et désirabilité » [2]. Un monde nihiliste – comme le nôtre, dans lequel les valeurs les plus élevées ont été dévaluées – est un monde incapable de canaliser les courants entropiques de la vie dans un flux sensé, et c’est pourquoi les traditionalistes associés à l’éternalisme guénonien, au traditionalisme radical, au néo-paganisme, au conservatisme révolutionnaire, à l’anti-modernisme et à l’ethno-nationalisme se rassemblent contre lui.
La tradition dont les vérités signifiantes et créatives sont affirmées par ces traditionalistes contre l’assaut nihiliste de la modernité n’est pas le concept anthropologique et sociologique dominant, défini comme « un ensemble de pratiques sociales inculquant certaines normes comportementales impliquant une continuité avec un passé réel ou imaginaire ». Ce n’est pas non plus la « démocratie des morts » de G. K. Chesterton, ni la « banque générale et le capital des nations et des âges » d’Edmund Burke. Pour eux la tradition n’avait pas grand-chose à voir avec le passé comme tel, des pratiques culturelles formalisées, ou même le traditionalisme. Venner, par exemple, la compare à un motif musical, un thème guidant, qui fournit une cohérence et une direction aux divers mouvements de la vie.
Si la plupart des traditionalistes s’accordent à voir la tradition comme orientant et transcendant à la fois l’existence collective d’un peuple, représentant quelque chose d’immuable qui renaît perpétuellement dans son expérience du temps, sur d’autres questions ils tendent à être en désaccord. Comme cas d’école, les traditionalistes radicaux associés à TYR s’opposent aux « principes abstraits mais absolus » que l’école guénonienne associe à la « Tradition » et préfèrent privilégier l’héritage européen [3]. Ici l’implication (en-dehors de ce qu’elle implique pour la biopolitique) est qu’il n’existe pas de Tradition Eternelle ou de Vérité Universelle, dont les vérités éternelles s’appliqueraient partout et à tous les peuples – seulement des traditions différentes, liées à des peuples différents dans des époques et des régions culturelles différentes. Les traditions spécifiques de ces histoires et cultures incarnent, comme telles, les significations collectives qui définissent, situent et orientent un peuple, lui permettant de triompher des défis incessant qui lui sont spécifiques. Comme l’écrit M. Raphael Johnson, la tradition est « quelque chose de similaire au concept d’ethnicité, c’est-à-dire un ensemble de normes et de significations tacites qui se sont développées à partir de la lutte pour la survie d’un peuple ». En-dehors du contexte spécifique de cette lutte, il n’y a pas de tradition [4].
Mais si puissante qu’elle soit, cette position « culturaliste » prive cependant les traditionalistes radicaux des élégants postulats philosophiques et principes monistes étayant l’école guénonienne. Non seulement leur projet de culture intégrale enracinée dans l’héritage européen perd ainsi la cohésion intellectuelle des guénoniens, mais il risque aussi de devenir un pot-pourri d’éléments disparates, manquant de ces « vues » philosophiques éclairées qui pourraient ordonner et éclairer la tradition dont ils se réclament. Cela ne veut pas dire que la révolte de la tradition contre le monde moderne doive être menée d’une manière philosophique, ou que la renaissance de la tradition dépende d’une formulation philosophique spécifique. Rien d’aussi utilitaire ou utopique n’est impliqué, car la philosophie ne crée jamais – du moins jamais directement – « les mécanismes et les opportunités qui amènent un état de choses historique » [5]. De telles « vues » fournissent plutôt une ouverture au monde – dans ce cas, le monde perdu de la tradition – montrant la voie vers ces perspectives que les traditionalistes radicaux espèrent retrouver.
Je crois que la pensée de Martin Heidegger offre une telle vision. Dans les pages qui suivent, nous défendrons une appropriation traditionaliste de la pensée heideggérienne. Les guénoniens sont ici pris comme un repoussoir vis-à-vis de Heidegger non seulement parce que leur approche métaphysique s’oppose à l’approche historique européenne associée à TYR, mais aussi parce que leur discours possède en partie la rigueur et la profondeur de Heidegger. René Guénon représente cependant un problème, car il fut un apostat musulman de la tradition européenne, désirant « orientaliser » l’Occident. Cela fait de lui un interlocuteur inapproprié pour les traditionalistes radicaux, particulièrement en comparaison avec son compagnon traditionaliste Julius Evola, qui fut l’un des grands champions contemporains de l’héritage « aryen ». Parmi les éternalistes, c’est alors Evola plutôt que Guénon qui offre le repoussoir le plus approprié à Heidegger [6].
Le Naturel et le Surnaturel
Etant donné les fondations métaphysiques des guénoniens, le Traditionalisme d’Evola se concentrait non sur « l’alternance éphémère des choses données aux sens », mais sur « l’ordre éternel des choses » situé « au-dessus » d’elles. Pour lui Tradition signifie la « sagesse éternelle, la philosophia perennis, la Vérité Primordiale » inscrite dans ce domaine supra-humain, dont les principes éternels, immuables et universels étaient connus, dit-on, des premiers hommes et dont le patrimoine (bien que négligé) est aujourd’hui celui de toute l’humanité [7].
La « méthode traditionaliste » d’Evola vise ainsi à recouvrer l’unité perdue dans la multiplicité des choses du monde. De ce fait il se préoccupe moins de la réalité empirique, historique ou existentielle (comprise comme un reflet déformé de quelque chose de supérieur) que de l’esprit – tel qu’on le trouve, par exemple, dans le symbole, le mythe et le rituel. Le monde humain, par contre, ne possède qu’un ordre d’importance secondaire pour lui. Comme Platon, il voit son domaine visible comme un reflet imparfait d’un domaine invisible supérieur. « Rien n’existe ici-bas », écrit-il, « …qui ne s’enracine pas dans une réalité plus profonde, numineuse. Toute cause visible n’est qu’apparente » [8]. Il refuse ainsi toutes les explications historiques ou naturalistes concernant le monde contingent de l’homme.
Voyant la Tradition comme une « présence » transmettant les vérités transcendantes obscurcies par le tourbillon éphémère des apparences terrestres, Evola identifie l’Etre à ses vérités immuables. Dans cette conception, l’Etre est à la fois en-dehors et au-delà du cours de l’histoire (c’est-à-dire qu’il est supra-historique), alors que le monde humain du Devenir est associé à un flux toujours changeant et finalement insensé de vie terrestre de sensations. La « valeur suprême et les principes fondateurs de toute institution saine et normale sont par conséquent invariables, étant basés sur l’Etre » [9]. C’est de ce principe que vient la doctrine évolienne des « deux natures » (la naturelle et la surnaturelle), qui désigne un ordre physique associé au monde du Devenir connu de l’homme et un autre ordre qui décrit le royaume métaphysique inconditionné de l’Etre connu des dieux.
Les civilisations traditionnelles, affirme Evola, reflétaient les principes transcendants transmis dans la Tradition, alors que le royaume « anormal et régressif » de l’homme moderne n’est qu’un vestige décadent de son ordre céleste. Le monde temporel et historique du Devenir, pour cette raison, est relégué à un ordre d’importance inférieur, alors que l’unité éternelle de l’Etre est privilégiée. Comme son « autre maître » Joseph de Maistre, Evola voit la Tradition comme antérieure à l’histoire, non conditionnée par le temps ou les circonstances, et donc sans lien avec les origines humaines » [10]. La primauté qu’il attribue au domaine métaphysique est en effet ce qui le conduit à affirmer que sans la loi éternelle de l’Etre transmise dans la Tradition, « toute autorité est frauduleuse, toute loi est injuste et barbare, toute institution est vaine et éphémère » [11].
La Tradition comme Überlieferung
Heidegger suit la voie opposée. Eduqué pour une vocation dans l’Eglise catholique et fidèle aux coutumes enracinées et provinciales de sa Souabe natale, lui aussi s’orienta vers « l’ancienne transcendance et non la mondanité moderne ». Mais son anti-modernisme s’opposait à la tradition de la pensée métaphysique occidentale et, par implication, à la philosophie guénonienne de la Tradition (qu’il ne connaissait apparemment pas).
La métaphysique est cette branche de la philosophie qui traite des questions ontologiques majeures, la plus fondamentale étant la question : Qu’est-ce que l’Etre ? Commençant avec Aristote, la métaphysique tendit néanmoins à s’orienter vers la facette non-physique et non-terrestre de l’Etre, tentant de saisir la transcendance de différents êtres comme l’esprit, la force, ou l’essence [12]. En recourant à des catégories aussi généralisées, cette tendance postule un royaume transcendant de formes permanentes et de vérités inconditionnées qui comprennent l’Etre d’une manière qui, d’après Heidegger, limite la compréhension humaine de sa vérité, empêchant la manifestation d’une présence à la fois cachée, ouverte et fuyante. Dans une formulation opaque mais cependant révélatrice, Heidegger écrit : « Quand la vérité [devient une incontestable] certitude, alors tout ce qui est vraiment réel doit se présenter comme réel pour l’être réel qu’il est [supposément] » – c’est-à-dire que quand la métaphysique postule ses vérités, pour elle la vérité doit se présenter non seulement d’une manière autoréférentielle, mais aussi d’une manière qui se conforme à une idée préconçue d’elle-même » [13]. Ici la différence entre la vérité métaphysique, comme proposition, et l’idée heideggérienne d’une manifestation en cours est quelque peu analogue à celle différenciant les prétentions de vérité du Dieu chrétien de celles des dieux grecs, les premières présupposant l’objectivité totale d’une vérité universelle éternelle et inconditionnée préconçue dans l’esprit de Dieu, et les secondes acceptant que la « dissimulation » est aussi inhérente à la nature polymorphe de la vérité que l’est la manifestation [14].
Etant donné son affirmation a-historique de vérités immuables installées dans la raison pure, Heidegger affirme que l’élan préfigurant et décontextualisant de la métaphysique aliène les êtres de l’Etre, les figeant dans leurs représentations momentanées et les empêchant donc de se déployer en accord avec les possibilités offertes par leur monde spécifique. L’oubli de l’être culmine dans la civilisation technologique moderne, où l’être est défini simplement comme une chose disponible pour l’investigation scientifique, la manipulation technologique et la consommation humaine. La tradition métaphysique a obscurci l’Etre en le définissant en termes essentiellement anthropocentriques et même subjectivistes.
Mais en plus de rejeter les postulats inconditionnés de la métaphysique [15], Heidegger associe le mot « tradition » – ou du moins sa forme latinisée (die Tradition) – à l’héritage philosophique occidental et son oubli croissant de l’être. De même, il utilise l’adjectif « traditionell » péjorativement, l’associant à l’élan généralisant de la métaphysique et aux conventions quotidiennes insouciantes contribuant à l’oubli de l’Etre.
Mais après avoir noté cette particularité sémantique et son intention antimétaphysique, nous devons souligner que Heidegger n’était pas un ennemi de la tradition, car sa philosophie privilégie ces « manifestations de l’être » originelles dans lesquelles naissent les grandes vérités traditionnelles. Comme telle, la tradition pour lui n’est pas un ensemble de postulats désincarnés, pas quelque chose d’hérité passivement, mais une facette de l’Etre qui ouvre l’homme à un futur lui appartenant en propre. Dans cet esprit, il associe l’Überlieferung (signifiant aussi tradition) à la transmission de ces principes transcendants inspirant tout « grand commencement ».
La Tradition dans ce sens primordial permet à l’homme, pense-t-il, « de revenir à lui-même », de découvrir ses possibilités historiquement situées et uniques, et de se réaliser dans la plénitude de son essence et de sa vérité. En tant qu’héritage de destination, l’Überlieferung de Heidegger est le contraire de l’idéal décontextualisé des Traditionalistes. Dans Etre et Temps, il dit que die Tradition « prend ce qui est descendu vers nous et en fait une évidence en soi ; elle bloque notre accès à ces ‘sources’ primordiales dont les catégories et les concepts transmis à nous ont été en partie authentiquement tirés. En fait, elle nous fait oublier qu’elles ont eu une telle origine, et nous fait supposer que la nécessité de revenir à ces sources est quelque chose que nous n’avons même pas besoin de comprendre » [17]. Dans ce sens, Die Tradition oublie les possibilités formatives léguées par son origine de destination, alors que l’Überlieferung, en tant que transmission, les revendique. La pensée de Heidegger se préoccupe de retrouver l’héritage de ces sources anciennes.
Sa critique de la modernité (et, contrairement à ce qu’écrit Evola, il est l’un de ses grands critiques) repose sur l’idée que la perte ou la corruption de la tradition de l’Europe explique « la fuite des dieux, la destruction de la terre, la réduction des êtres humains à une masse, la prépondérance du médiocre » [18]. A présent vidé de ses vérités primordiales, le cadre de vie européen, dit-il, risque de mourir : c’est seulement en « saisissant ses traditions d’une manière créative », et en se réappropriant leur élan originel, que l’Occident évitera le « chemin de l’annihilation » que la civilisation rationaliste, bourgeoise et nihiliste de la modernité semble avoir pris » [19].
La tradition (Überlieferung) que défend l’antimétaphysique Heidegger n’est alors pas le royaume universel et supra-sensuel auquel se réfèrent les guénoniens lorsqu’ils parlent de la Tradition. Il s’agit plutôt de ces vérités primordiales que l’Etre rend présentes « au commencement » –, des vérités dont les sources historiques profondes et les certitudes constantes tendent à être oubliées dans les soucis quotidiens ou dénigrées dans le discours moderniste, mais dont les possibilités restent néanmoins les seules à nous être vraiment accessibles. Contre ces métaphysiciens, Heidegger affirme qu’aucune prima philosophia n’existe pour fournir un fondement à la vie ou à l’Etre, seulement des vérités enracinées dans des origines historiques spécifiques et dans les conventions herméneutiques situant un peuple dans ses grands récits.
Il refuse ainsi de réduire la tradition à une analyse réfléchie indépendante du temps et du lieu. Son approche phénoménologique du monde humain la voit plutôt comme venant d’un passé où l’Etre et la vérité se reflètent l’un l’autre et, bien qu’imparfaitement, affectent le présent et la manière dont le futur est approché. En tant que tels, Etre, vérité et tradition ne peuvent pas être saisis en-dehors de la temporalité (c’est-à-dire la manière dont les humains connaissent le temps). Cela donne à l’Etre, à la vérité et à la tradition une nature avant tout historique (bien que pas dans le sens progressiste, évolutionnaire et développemental favorisé par les modernistes). C’est seulement en posant la question de l’Etre, la Seinsfrage, que l’Etre de l’humain s’ouvre à « la condition de la possibilité de [sa] vérité ».
C’est alors à travers la temporalité que l’homme découvre la présence durable qui est l’Etre [20]. En effet, si l’Etre de l’homme n’était pas situé temporellement, sa transcendance, la préoccupation principale de la métaphysique guénonienne, serait inconcevable. De même, il n’y a pas de vérité (sur le monde ou les cieux au-dessus de lui) qui ne soit pas ancrée dans notre Etre-dans-le-monde – pas de vérité absolue ou de Tradition Universelle, seulement des vérités et des traditions nées de ce que nous avons été… et pouvons encore être. Cela ne veut pas dire que l’Etre de l’humain manque de transcendance, seulement que sa possibilité vient de son immanence – que l’Etre et les êtres, le monde et ses objets, sont un phénomène unitaire et ne peuvent pas être saisis l’un sans l’autre.
Parce que la conception heideggérienne de la tradition est liée à la question de l’Etre et parce que l’Etre est inséparable du Devenir, l’Etre et la tradition fidèle à sa vérité ne peuvent être dissociés de leur émergence et de leur réalisation dans le temps. Sein und Zeit, Etre immuable et changement historique, sont inséparables dans sa pensée. L’Etre, écrit-il, « est Devenir et le Devenir est Etre » [21]. C’est seulement par le processus du devenir dans le temps, dit-il, que les êtres peuvent se déployer dans l’essence de leur Etre. La présence constante que la métaphysique prend comme l’essence de l’Etre est elle-même un aspect du temps et ne peut être saisie que dans le temps – car le temps et l’Etre partagent une coappartenance primordiale.
Le monde platonique guénonien des formes impérissables et des idéaux éternels est ici rejeté pour un monde héraclitien de flux et d’apparition, où l’homme, fidèle à lui-même, cherche à se réaliser dans le temps – en termes qui parlent à son époque et à son lieu, faisant cela en relation avec son héritage de destination. Etant donné que le temps implique l’espace, la relation de l’être avec l’Etre n’est pas simplement un aspect individualisé de l’Etre, mais un « être-là » (Dasein) spécifique – situé, projeté, et donc temporellement enraciné dans ce lieu où l’Etre n’est pas seulement « manifesté » mais « approprié ». Sans « être-là », il n’y a pas d’Etre, pas d’existence. Pour lui, l’engagement humain dans le monde n’est pas simplement une facette située de l’Etre, c’est son fondement.
Ecarter la relation d’un être avec son temps et son espace (comme le fait la métaphysique atemporelle des guénoniens) est « tout aussi insensé que si quelqu’un voulait expliquer la cause et le fondement d’un feu [en déclarant] qu’il n’y a pas besoin de se soucier du cours du feu ou de l’exploration de sa scène » [22]. C’est seulement dans la « facticité » (le lien des pratiques, des suppositions, des traditions et des histoires situant son Devenir), et non dans une supra-réalité putative, que tout le poids de l’Etre – et la « condition fondamentale pour… tout ce qui est grand » – se fait sentir.
Quand les éternalistes interprètent « les êtres sans s’interroger sur [la manière dont] l’essence de l’homme appartient à la vérité de l’Etre », ils ne pourraient pas être plus opposés à Heidegger. En effet, pour eux l’Etre est manifesté comme Ame Cosmique (le maître plan de l’univers, l’Unité indéfinissable, l’Etre éternel), qui est détachée de la présence originaire et terrestre, distincte de l’Etre-dans-le-monde de Heidegger [23]. Contre l’idée décontextualisée et détachée du monde des métaphysiciens, Heidegger souligne que la présence de l’Etre est manifestée seulement dans ses états terrestres, temporels, et jamais pleinement révélés. Des mondes différents nous donnent des possibilités différentes, des manières différentes d’être ou de vivre. Ces mondes historiquement situés dictent les possibilités spécifiques de l’être humain, lui imposant un ordre et un sens. Ici Heidegger ne nie pas la possibilité de la transcendance humaine, mais la recherche au seul endroit où elle est accessible à l’homme – c’est-à-dire dans son da (« là »), sa situation spécifique. Cela fait du Devenir à la fois la toile de fond existentielle et l’« horizon transcendantal » de l’Etre, car même lorsqu’elle transcende sa situation, l’existence humaine est forcément limitée dans le temps et dans l’espace.
En posant la Seinsfrage de cette manière, il s’ensuit qu’on ne peut pas partir de zéro, en isolant un être abstrait et atomisé de tout ce qui le situe dans un temps et un espace spécifiques, car on ignorerait ainsi que l’être de l’homme est quelque chose de fini, enraciné dans un contexte historiquement conditionné et culturellement défini – on ignorerait, en fait, que c’est un Etre-là (Dasein). Car si l’existence humaine est prisonnière du flux du Devenir – si elle est quelque chose de situé culturellement, linguistiquement, racialement, et, avant tout, historiquement –, elle ne peut pas être comprise comme un Etre purement inconditionné.
Le caractère ouvert de la temporalité humaine signifie, de plus, que l’homme est responsable de son être. Il est l’être dont « l’être est lui-même une question », car, bien que située, son existence n’est jamais fixée ou complète, jamais déterminée à l’avance, qu’elle soit vécue d’une manière authentique ou non [24]. Elle est vécue comme une possibilité en développement qui se projette vers un futur « pas encore réel », puisque l’homme cherche à « faire quelque chose de lui-même » à partir des possibilités léguées par son origine spécifique. Cela pousse l’homme à se « soucier » de son Dasein, individualisant ses possibilités en accord avec le monde où il habite.
Ici le temps ne sert pas seulement d’horizon contre lequel l’homme est projeté, il sert de fondement (la facticité prédéterminée) sur lequel sa possibilité est réalisée. La possibilité que l’homme cherche dans le futur (son projet) est inévitablement affectée par le présent qui le situe et le passé modelant son sens de la possibilité. La projection du Dasein vient ainsi « vers lui-même d’une manière telle qu’il revient », anticipant sa possibilité comme quelque chose qui « a été » et qui est encore à portée de main [25]. Car c’est seulement en accord avec son Etre-là, sa « projection », qu’il peut être pleinement approprié – et transcendé [26].
En rejetant les concepts abstraits, inconditionnés et éternels de la métaphysique, Heidegger considère la vérité, en particulier les vérités primordiales que la tradition transmet, comme étant d’une nature historique et temporelle, liée à des manifestations distinctes (bien que souvent obscures) de l’Etre, et imprégnée d’un passé dont l’origine créatrice de destin inspire le sens humain de la possibilité. En effet, c’est la configuration distincte formée par la situation temporelle, l’ouverture de l’Etre, et la facticité situant cette rencontre qui forme les grandes questions se posant à l’homme, puisqu’il cherche à réaliser (ou à éviter) sa possibilité sur un fondement qu’il n’a pas choisi. « L’histoire de l’Etre », écrit Heidegger, « n’est jamais le passé mais se tient toujours devant nous ; elle soutient et définit toute condition et situation humaine » [27].
L’homme n’affronte donc pas les choix définissant son Dasein au sens existentialiste d’être « condamné » à prendre des décisions innombrables et arbitraires le concernant. L’ouverture à laquelle il fait face est plutôt guidée par les possibilités spécifiques à son existence historiquement située, alors que les « décisions » qu’il prend concernent son authenticité (c’est-à-dire sa fidélité à ses possibilités historiquement destinées, son destin). Puisqu’il n’y a pas de vérités métaphysiques éternelles inscrites dans la tradition, seulement des vérités posées par un monde « toujours déjà », vivre à la lumière des vérités de l’Etre requiert que l’homme connaisse sa place dans l’histoire, qu’il connaisse le lieu et la manière de son origine, et affronte son histoire comme le déploiement (ou, négativement, la déformation) des promesses posées par une prédestination originelle [28]. Une existence humaine authentique, affirme Heidegger, est « un processus de conquête de ce que nous avons été au service de ce que nous sommes » [29].
Le Primordial
Le « premier commencement » de l’homme – le commencement (Anfangen) « sans précédent et monumental » dans lequel ses ancêtres furent « piégés » (gefangen) comme une forme spécifique de l’Etre – met en jeu d’autres commencements, devenant le fondement de toutes ses fondations ultérieures [30]. En orientant l’histoire dans une certaine direction, le commencement – le primordial – « ne réside pas dans le passé mais se trouve en avant, dans ce qui doit venir » [31]. Il est « le décret lointain qui nous ordonne de ressaisir sa grandeur » [32]. Sans cette « reconquête », il ne peut y avoir d’autre commencement : car c’est en se réappropriant un héritage, dont le commencement est déjà un achèvement, que l’homme revient à lui-même, s’inscrivant dans le monde de son propre temps. « C’est en se saisissant du premier commencement que l’héritage… devient l’héritage ; et seuls ceux qui appartiennent au futur… deviennent [ses] héritiers » [33]. L’élève de Heidegger, Hans-Georg Gadamer dit que toutes les questions concernant les commencements « sont toujours [des questions] sur nous-mêmes et notre futur » [34].
Pour Heidegger, en transmettant la vérité de l’origine de l’homme, la tradition défie l’homme à se réaliser face à tout ce qui conspire pour déformer son être. De même qu’Evola pensait que l’histoire était une involution à partir d’un Age d’Or ancien, d’où un processus de décadence, Heidegger voit l’origine – l’inexplicable manifestation de l’Etre qui fait naître ce qui est « le plus particulier » au Dasein, et non universel – comme posant non seulement les trajectoires possibles de la vie humaine, mais les obstacles inhérents à sa réalisation. Se déployant sur la base de sa fondation primordiale, l’histoire tend ainsi à être une diminution, un déclin, un oubli ou une dissimulation des possibilités léguées par son « commencement », le bavardage oisif, l’exaltation de l’ordinaire et du quotidien, ou le règne du triomphe médiocre sur le destin, l’esprit de décision et l’authenticité des premières époques, dont la proximité avec l’Etre était immédiate, non dissimulée, et pleine de possibilités évidentes.
Là où Evola voit l’histoire en termes cycliques, chaque cycle restant essentiellement homogène, représentant un segment de la succession récurrente gouvernée par certains principes immuables, Heidegger voit l’histoire en termes des possibilités posées par leur appropriation. C’est seulement à partir des possibilités intrinsèques à la genèse originaire de sa « sphère de sens » – et non à partir du domaine supra-historique des guénoniens – que l’homme, dit-il, peut découvrir les tâches historiquement situées qui sont « exigées » de lui et s’ouvrir à leur possibilité [35]. En accord avec cela, les mots « plus ancien », « commencement » et « primordial » sont associés dans la pensée de Heidegger à l’essence ou la vérité de l’Etre, de même que le souvenir de l’origine devient une « pensée à l’avance de ce qui vient » [36].
Parce que le primordial se trouve devant l’homme, pas derrière lui, la révélation initiale de l’Etre vient dans chaque nouveau commencement, puisque chaque nouveau commencement s’inspire de sa source pour sa postérité. Comme Mnémosyne, la déesse de la mémoire qui était la muse principale des poètes grecs, ce qui est antérieur préfigure ce qui est postérieur, car la « vérité de l’Etre » trouvée dans les origines pousse le projet du Dasein à « revenir à lui-même ». C’est alors en tant qu’« appropriation la plus intérieure de l’Etre » que les origines sont si importantes. Il n’y a pas d’antécédent ou de causa prima, comme le prétend la logique inorganique de la modernité, mais « ce dont et ce par quoi une chose est ce qu’elle est et telle qu’elle est… [Ils sont] la source de son essence » et la manière dont la vérité « vient à être… [et] devient historique » [37]. Comme le dit le penseur français de la Nouvelle Droite, Alain de Benoist, l’« originel » (à la différence du novum de la modernité) n’est pas ce qui vient une fois pour toutes, mais ce qui vient et se répète chaque fois qu’un être se déploie dans l’authenticité de son origine » [38]. Dans ce sens, l’origine représente l’unité primordiale de l’existence et de l’essence exprimées dans la tradition. Et parce que l’« appropriation » à la fois originelle et ultérieure de l’Etre révèle la possibilité, et non l’environnement purement « factuel » ou « momentané » qui l’affecte, le Dasein n’accomplit sa constance propre que lorsqu’il est projeté sur le fondement de son héritage authentique [39].
La pensée heideggérienne n’est pas un existentialisme
Evola consacre plusieurs chapitres de Chevaucher le tigre (Calvacare la Tigre) à une critique de l’« existentialisme » d’après-guerre popularisé par Jean-Paul Sartre et dérivé, à ce qu’on dit, de la pensée de Heidegger » [40]. Bien que reconnaissant certaines différences entre Sartre et Heidegger, Evola les traitait comme des esprits fondamentalement apparentés. Son Sartre est ainsi décrit comme un non-conformiste petit-bourgeois et son Heidegger comme un intellectuel chicanier, tous deux voyant l’homme comme échoué dans un monde insensé, condamné à faire des choix incessants sans aucun recours transcendant. Le triste concept de liberté des existentialistes, affirme Evola, voit l’univers comme un vide, face auquel l’homme doit se forger son propre sens (l’« essence » de Sartre). Leur notion de liberté (et par implication, celle de Heidegger) est ainsi jugée nihiliste, entièrement individualiste et arbitraire.
En réunissant l’existentialisme sartrien et la pensée heideggérienne, Evola ne connaissait apparemment pas la « Lettre sur l’Humanisme » (1946-47) de Heidegger, dans laquelle ce dernier – d’une manière éloquente et sans ambiguïté – répudiait l’appropriation existentialiste de son œuvre. Il semble aussi qu’Evola n’ait connu que le monumental Sein und Zeit de Heidegger, qu’il lit, comme Sartre, comme une anthropologie philosophique sur les problèmes de l’existence humaine (c’est-à-dire comme un humanisme) plutôt que comme une partie préliminaire d’une première tentative de développer une « ontologie fondamentale » recherchant le sens de l’Etre. Il mettait donc Sartre et Heidegger dans le même sac, les décrivant comme des « hommes modernes », coupés du monde de la Tradition et imprégnés des « catégories profanes, abstraites et déracinées » de la pensée. Parlant de l’affirmation nihiliste de Sartre selon laquelle « l’existence précède l’essence » (qu’il attribuait erronément à Heidegger, qui identifiait l’une à l’autre au lieu de les opposer), le disciple italien de Guénon concluait qu’en situant l’homme dans un monde où l’essence est auto-engendrée, Heidegger rendait le présent concret ontologiquement primaire, avec une nécessité situationnelle, plutôt que le contexte de l’Etre [41]. L’Etre heideggérien est alors vu comme se trouvant au-delà de l’homme, poursuivi comme une possibilité irréalisable [42]. Cela est sensé lier l’Etre au présent, le détachant de la Tradition – et donc de la transcendance qui seule illumine les grandes tâches existentielles.
La critique évolienne de Heidegger, comme que nous l’avons suggéré, n’est pas fondée, ciblant une caricature de sa pensée. Il se peut que l’histoire et la temporalité soient essentielles dans le projet philosophique de Heidegger et qu’il accepte l’affirmation sartrienne qu’il n’existe pas de manières absolues et inchangées pour être humain, mais ce n’est pas parce qu’il croit nécessaire d’« abandonner le plan de l’Etre » pour le plan situationnel. Pour lui, le plan situationnel est simplement le contexte où les êtres rencontrent leur Etre.
Heidegger insiste sur la « structure événementielle temporelle » du Dasein parce qu’il voit les êtres comme enracinés dans le temps et empêtrés dans un monde qui n’est pas de leur propre création (même si l’Etre de ces êtres pourrait transcender le « maintenant » ou la série de « maintenant » qui les situent). En même temps, il souligne que le Dasein est connu d’une manière « extatique », car les pensées du passé, du présent et du futur sont des facettes étroitement liées de la conscience humaine. En effet, c’est seulement en reconnaissant sa dimension extatique (que les existentialistes et les métaphysiciens ignorent) que le Dasein peut « se soucier de l’ouverture de l’Etre », vivre dans sa lumière, et transcender son da éphémère (sa condition situationnelle). Heidegger écrit ainsi que le Dasein est « l’être qui émerge de lui-même » – c’est le dévoilement d’une essence historique-culturelle-existentielle dont le déploiement est étranger à l’élan objectifiant des formes platoniques [43].
En repensant l’Etre en termes de temporalité humaine, en le restaurant dans le Devenir historique, et en établissant le temps comme son horizon transcendant, Heidegger cherche à libérer l’existentiel des propriétés inorganiques de l’espace et de la matière, de l’agitation insensée de la vie moderne, avec son évasion instrumentaliste de l’Etre et sa « pseudo-culture épuisée » – et aussi de le libérer des idéaux éternels privilégiés par les guénoniens. Car si l’Etre est inséparable du Devenir et survient dans un monde-avec-les-autres, alors les êtres, souligne-t-il, sont inhérents à un « contexte de signification » saturé d’histoire et de culture. Poursuivant son projet dans ces termes, les divers modes existentiels de l’homme, ainsi que son monde, ne sont pas formés par des interprétations venant d’une histoire d’interprétations précédentes. L’interprétation elle-même (c’est-à-dire « l’élaboration de possibilités projetées dans la compréhension ») met le présent en question, affectant le déploiement de l’essence. En fait, la matrice chargée de sens mise à jour par l’interprétation constitue une grande part de ce qui forme le « là » (da) dans le Dasein [44].
Etant donné qu’il n’y a pas de Sein sans un da, aucune existence sans un fondement, l’homme, dans sa nature la plus intérieure, est inséparable de la matrice qui « rend possible ce qui a été projeté » [45]. A l’intérieur de cette matrice, l’Etre est inhérent à « l’appropriation du fondement du là » [46]. Contrairement à l’argumentation de Chevaucher le tigre, cette herméneutique historiquement consciente ne prive pas l’homme de l’Etre, ni ne nie la primauté de l’Etre, ni ne laisse l’homme à la merci de sa condition situationnelle. Elle n’a rien à voir non plus avec l’« indéterminisme » radical de Sartre – qui rend le sens contextuellement contingent et l’essence effervescente.
Pour Heidegger l’homme n’existe pas dans un seul de ses moments donnés, mais dans tous, car son être situé (le projet qu’il réalise dans le temps) ne se trouve dans aucun cas unique de son déploiement (ou dans ce que Guénon appelait « la nature indéfinie des possibilités de chaque état »). En fait, il existe dans toute la structure temporelle s’étendant entre la naissance et la mort de l’homme, puisqu’il réalise son projet dans le monde. Sans un passé et un futur pas-encore-réalisé, l’existence humaine ne serait pas Dasein, avec un futur légué par un passé qui est en même temps une incitation à un futur. A la différence de l’individu sartrien (dont l’être est une possibilité incertaine et illimitée) et à la différence de l’éternaliste (qui voit son âme en termes dépourvus de références terrestres), l’homme heideggérien se trouve seulement dans un retour (une « écoute ») à l’essence postulée par son origine.
Cette écoute de l’essence, la nécessité de la découverte de soi pour une existence authentique, n’est pas une pure possibilité, soumise aux « planifications, conceptions, machinations et complots » individuels, mais l’héritier d’une origine spécifique qui détermine son destin. En effet, l’être vient seulement de l’Etre [47]. La notion heideggérienne de la tradition privilégie donc l’Andenken (le souvenir qui retrouve et renouvelle la tradition) et la Verwindung (qui est un aller au-delà, un surmonter) – une idée de la tradition qui implique l’inséparabilité de l’Etre et du Devenir, ainsi que le rôle du Devenir dans le déploiement de l’Etre, plutôt que la négation du Devenir [48].
« Le repos originel de l’Etre » qui a le pouvoir de sauver l’homme du « vacarme de la vie inauthentique, anodine et extérieure » n’est cependant pas aisément gagné. « Retrouver le commencement de l’existence historico-spirituelle afin de la transformer en un nouveau commencement » (qui, à mon avis, définit le projet traditionaliste radical) requiert « une résolution anticipatoire » qui résiste aux routines stupides oublieuses de la temporalité humaine [49]. Inévitablement, une telle résolution anticipatoire ne vient que lorsqu’on met en question les « libertés déracinées et égoïstes » qui nous coupent des vérités en cours déploiement de l’Etre et nous empêchent ainsi de comprendre ce que nous sommes – un questionnement dont la nécessité vient des plus lointaines extrémités de l’histoire de l’homme et dont les réponses sont intégrales pour la tradition qu’elles forment » [50].
L’histoire pour Heidegger est donc un « choix pour héros », exigeant la plus ferme résolution et le plus grand risque, puisque l’homme, dans une confrontation angoissante avec son origine, réalise une possibilité permanente face à une conventionalité amnésique, auto-satisfaite ou effrayante [51]. Les choix historiques qu’il fait n’ont bien sûr rien à voir avec l’individualisme ou le subjectivisme (avec ce qui est arbitraire ou volontaire), mais surgissent de ce qui est vrai et « originel » dans la tradition. Le destin d’un homme (Geschick), comme le destin d’un peuple (Schicksal), ne concerne pas un « choix », mais quelque chose qui est « envoyée » (geschickt) depuis un passé lointain qui a le pouvoir de déterminer une possibilité future. L’Etre, écrit Heidegger, « proclame le destin, et donc le contrôle de la tradition » [52].
En tant qu’appropriation complète de l’héritage dont l’homme hérite à sa naissance, son destin n’est jamais forcé ou imposé. Il s’empare des circonstances non-choisies de sa communauté et de sa génération, puisqu’il recherche la possibilité léguée par son héritage, fondant son existence dans sa « facticité historique la plus particulière » – même si cette appropriation implique l’opposition à « la dictature particulière du domaine public » [53]. Cela rend l’identité individuelle inséparable de son identité collective, puisque l’Etre-dans-le-monde reconnaît son Etre-avec-les-autres (Mitsein). L’homme heideggérien ne réalise ce qu’il est qu’à travers son implication dans le temps et l’espace de sa propre existence destinée, puisqu’il se met à « la disposition des dieux », dont l’actuel « retrait demeure très proche » [54].
La communauté de notre propre peuple, le Mitsein, est le contexte nécessaire de notre Dasein. Comme telle, elle est « ce en quoi, ce dont et ce pour quoi l’histoire arrive » [55]. Comme l’écrit Gadamer, le Mitsein « est un mode primordial d’‘Etre-nous’ – un mode dans lequel le Je n’est pas supplanté par un vous [mais] …englobe une communauté primordiale » [56]. Car même lorsqu’elle s’oppose aux conventions dominantes par besoin d’authenticité individuelle, la recherche de possibilité par le Dasein est une « co-historisation » avec une communauté – une co-historisation dans laquelle un héritage passé devient la base d’un futur plein de sens [57]. Le destin qu’il partage avec son peuple est en effet ce qui fonde le Dasein dans l’historicité, le liant à l’héritage (la tradition) qui détermine et est déterminé par lui [58].
En tant qu’horizon de la transcendance heideggérienne, l’histoire et la tradition ne sont donc jamais universelles, mais plurielles et multiples, produit et producteur d’histoires et de traditions différentes, chacune ayant son origine et sa qualité d’être spécifiques. Il peut y avoir certaines vérités abstraites appartenant aux peuples et aux civilisations partout, mais pour Heidegger il n’y a pas d’histoire ou de tradition abstraites pour les inspirer, seulement la pure transcendance de l’Etre. Chaque grand peuple, en tant qu’expression distincte de l’Etre, possède sa propre histoire, sa propre tradition, sa propre transcendance, qui sont sui generis. Cette spécificité même est ce qui donne une forme, un but et un sens à son expérience d’un monde perpétuellement changeant. Il se peut que l’Etre de l’histoire et de la tradition du Dasein soit universel, mais l’Etre ne se manifeste que dans les êtres, l’ontologie ne se manifeste que dans l’ontique. Selon les termes de Heidegger, « c’est seulement tant que le Dasein existe… qu’il y a l’Etre » [59].
Quand la métaphysique guénonienne décrit la Vérité Eternelle comme l’unité transcendante qui englobe toutes les « religions archaïques » et la plupart des « religions terrestres », elle offre à l’homme moderne une hauteur surplombante d’où il peut évaluer les échecs de son époque. Mais la vaste portée de cette vision a pour inconvénient de réduire l’histoire et la tradition de peuples et de civilisations différents (dont elle rejette en fait les trajectoires singulières) à des variantes sur un unique thème universel (« La pensée moderne, les Lumières, maçonnique », pourrait-on ajouter, nie également l’importance des histoires et des traditions spécifiques).
Par contre, un traditionaliste radical au sens heideggérien se définit en référence non à l’Eternel mais au Primordial dans son histoire et sa tradition, même lorsqu’il trouve des choses à admirer dans l’histoire et la tradition des non-Européens. Car c’est l’Europe qui l’appelle à sa possibilité future. Comme la vérité, la tradition dans la pensée de Heidegger n’est jamais une abstraction, jamais une formulation supra-humaine de principes éternels pertinents pour tous les peuples (bien que ses effets formatifs et sa possibilité futurale puissent assumer une certaine éternité pour ceux à qui elle parle). Il s’agit plutôt d’une force dont la présence illumine les extrémités éloignées de l’âme ancestrale d’un peuple, mettant son être en accord avec l’héritage, l’ordre et le destin qui lui sont singuliers.
Héraclite et Parménide
Quiconque prend l’histoire au sérieux, refusant de rejeter des millénaires de temporalité européenne, ne suivra probablement pas les éternalistes dans leur quête métaphysique. En particulier dans notre monde contemporain, où les forces régressives de mondialisation, du multiculturalisme et de la techno-science cherchent à détruire tout ce qui distingue les peuples et la civilisation de l’Europe des peuples et des civilisations non-européens. Le traditionaliste radical fidèle à l’incomparable tradition de la Magna Europa (et fidèle non pas au sens égoïste du nationalisme étroit, mais dans l’esprit de l’« appartenance au destin de l’Occident ») ne peut donc qu’avoir une certaine réserve envers les guénoniens – mais pas envers Evola lui-même, et c’est ici le tournant de mon argumentation. Car après avoir rejeté la Philosophie Eternelle et sa distillation évolienne, il est important, en conclusion, de « réconcilier » Evola avec les impératifs traditionalistes radicaux de la pensée heideggérienne – car l’alpiniste Evola ne fut pas seulement un grand Européen, un défenseur infatigable de l’héritage de son peuple, mais aussi un extraordinaire Kshatriya, dont l’héroïque Voie de l’Action inspire tous ceux qui s’identifient à sa « Révolte contre le monde moderne ».
Bien qu’il faudrait un autre article pour développer ce point, Evola, même lorsqu’il se trompe métaphysiquement, offre au traditionaliste radical une œuvre dont les motifs boréens demandent une étude et une discussion approfondies. Mais étant donné l’argument ci-dessus, comment les incompatibilités radicales entre Heidegger et Evola peuvent-elles être réconciliées ?
La réponse se trouve, peut-être, dans cette « étrange » unité reliant les deux premiers penseurs de la tradition européenne, Héraclite et Parménide, dont les philosophies étaient aussi antipodiques que celles de Heidegger et Evola. Héraclite voyait le monde comme un « grand feu », dans lequel tout était toujours en cours de consumation, de même que l’Etre fait perpétuellement place au Devenir. Parménide, d’autre part, soulignait l’unité du monde, le voyant comme une seule entité homogène, dans laquelle tous ses mouvements apparents (le Devenir) faisaient partie d’une seule universalité (l’Etre), les rides et les vagues sur le grand corps de la mer. Mais si l’un voyait le monde en termes de flux et l’autre en termes de stase, ils reconnaissaient néanmoins tous deux un logos unifiant commun, une structure sous-jacente, une « harmonie rassemblée », qui donnait unité et forme à l’ensemble – que l’ensemble se trouvât dans le tourbillon apparemment insensé des événements terrestres ou dans l’interrelation de ses parties innombrables. Cette unité est l’Etre, dont la domination ordonnatrice du monde sous-tend la sensibilité parente animant les distillations originelles de la pensée européenne.
Les projets rivaux de Heidegger et Evola peuvent être vus sous un éclairage similaire. Dans une métaphysique soulignant l’universel et l’éternel, l’opposition de l’Etre et du Devenir, et la primauté de l’inconditionné, Evola s’oppose à la position de Heidegger, qui met l’accent sur le caractère projeté et temporel du Dasein. Evola parvient cependant à quelque chose qui s’apparente aux vues les plus élevées de la pensée heideggérienne. Car quand Heidegger explore le fondement primordial des différents êtres, recherchant le transcendant (l’Etre) dans l’immanence du temps (le Devenir), lui aussi saisit l’Etre dans sa présence impérissable, car à cet instant le primordial devient éternel – pas pour tous les peuples (étant donné que l’origine et le destin d’un peuple sont inévitablement singuliers), mais encore pour ces formes collectives de Dasein dont les différences sont de la même essence (dans la mesure où elles sont issues du même héritage indo-européen).
L’accent mis par Heidegger sur le primordialisme est, je crois, plus convainquant que l’éternalisme d’Evola, mais il n’est pas nécessaire de rejeter ce dernier en totalité (en effet, on peut se demander si dans Etre et Temps Heidegger lui-même n’a pas échoué à réconcilier ces deux facettes fondamentales de l’ontologie). Il se peut donc que Heidegger et Evola approchent l’Etre depuis des points de départ opposés et arrivent à des conclusions différentes (souvent radicalement différentes), mais leur pensée, comme celle d’Héraclite et de Parménide, convergent non seulement dans la primauté qu’ils attribuent à l’Etre, mais aussi dans la manière dont leur compréhension de l’Etre, particulièrement en relation avec la tradition, devient un antidote à la crise du nihilisme européen.
Notes
[1] Dominique Venner, Histoire et tradition des Européens : 30.000 ans d’identité (Paris : Rocher, 2002), p. 18. Cf. Michael O’Meara, « From Nihilism to Tradition », The Occidental Quarterly 3: 2 (été 2004).
[2] Friedrich Nietzsche, The Will to Power, trad. par W. Kaufmann et R. J. Hollingdale (New York: Vintage, 1967), pp. 9-39 ; Friedrich Nietzsche, The Gay Science, trad. par W. Kaufmann (New York: Vintage, 1975), § 125. Cf. Martin Heidegger, Nietzsche : 4. Nihilism, trad. par F.A. Capuzzi (San Francisco: Harper, 1982).
[3] « Editorial Prefaces », TYR : Myth – Culture – Tradition 1 et 2 (2002 et 2004).
[4] M. Raphael Johnson, « The State as the Enemy of the Ethnos », at http://es.geocities.com/sucellus23/807.htm. Dans Humain, trop humain (§ 96), Nietzsche écrit : La tradition émerge « sans égard pour le bien ou le mal ou autre impératif catégorique, mais… avant tout dans le but de maintenir une communauté, un peuple ».
[5] Martin Heidegger, Introduction to Metaphysics, trad. par G. Fried et R. Polt (New Haven: Yale University Press, 2000), p. 11.
[6] Bien que Guénon eut un effet formatif sur Evola, qui le considérait comme son « maître », l’Italien était non seulement suffisamment indépendant pour se séparer de Guénon sur plusieurs questions importantes, particulièrement en soulignant les origines « boréennes » ou indo-européennes de la Tradition, mais aussi en donnant au projet traditionaliste une tendance nettement militante et européaniste (je soupçonne que c’est cette tendance dans la pensée d’Evola, combinée à ce qu’il prend à Bachofen, Nietzsche et De Giorgio, qui le met – du moins sourdement – en opposition avec sa propre appropriation de la métaphysique guénonienne). En conséquence, certains guénoniens refusent de le reconnaître comme l’un des leurs. Par exemple, le livre de Kenneth Oldmeadow, Traditionalism : Religion in Light of the Perennial Philosophy (Colombo : The Sri Lanka Institute of Traditional Studies, 2000), à présent le principal ouvrage en anglais sur les traditionalistes, ne fait aucune référence à lui. Mon avis est que l’œuvre d’Evola n’est pas aussi importante que celle de Guénon pour l’Eternalisme, mais que pour le « radical » européen, c’est sa distillation la plus intéressante et la plus pertinente. Cf. Mark Sedgwick, Against the Modern World: Traditionalism and the Secret History of the Twentieth Century (New York: Oxford University Press, 2004) ; Piero Di Vona, Evola y Guénon: Tradition e civiltà (Naples: S.E.N., 1985) ; Roger Parisot, « L’ours et le sanglier ou le conflit Evola-Guénon », L’âge d’or 11 (automne 1995).
[7] L’attrait tout comme la mystification du concept évolien sont peut-être le mieux exprimés dans l’extrait suivant de la fameuse recension de Révolte contre le monde moderne par Gottfried Benn : « Quel est donc ce Monde de la Tradition ? Tout d’abord, son évocation romancée ne représente pas un concept naturaliste ou historique, mais une vision, une incantation, une intuition magique. Elle évoque le monde comme un universel, quelque chose d’à la fois céleste et supra-humain, quelque chose qui survient et qui a un effet seulement là où l’universel existe encore, là où il est sensé, et où il est déjà exception, rang, aristocratie. A travers une telle évocation, la culture est libérée de ses éléments humains, historiques, libérée pour prendre cette dimension métaphysique dans laquelle l’homme se réapproprie les grands traits primordiaux et transcendants de l’Homme Traditionnel, porteur d’un héritage ». « Julius Evola, Erhebung wider die moderne Welt » (1935), http://www.regin-verlag.de.
[8] Julius Evola, « La vision romaine du sacré » (1934), dans Symboles et mythes de la Tradition occidentale, trad. par H.J. Maxwell (Milan : Arché, 1980).
[9] Julius Evola, Men Among the Ruins, trad. par G. Stucco (Rochester, Vermont: Inner Traditions, 2002), p. 116 ; Julius Evola, « Che cosa è la tradizione » dans L’arco e la clava (Milan: V. Scheiwiller, 1968).
[10] Luc Saint-Etienne, « Julius Evola et la Contre-Révolution », dans A. Guyot-Jeannin, ed., Julius Evola (Lausanne : L’Age d’Homme, 1997).
[11] Julius Evola, Revolt against the Modern World, trad. par G. Stucco (Rochester, Vermont: Inner Traditions International, 1995), p. 6.
[12] En accord avec une ancienne convention des études heideggériennes de langue anglaise, « Etre » est utilisé ici pour désigner das Sein et « être » das Seiende, ce dernier se référant à une entité ou à une présence, physique ou spirituelle, réelle ou imaginaire, qui participe à l’« existence » de l’Etre (das Sein). Bien que différant en intention et en ramification, les éternalistes conservent quelque chose de cette distinction. Cf. René Guénon, The Multiple States of Being, trad. par J. Godwin (Burkett, N.Y.: Larson, 1984).
[13] Martin Heidegger, The End of Philosophy, trad. par J. Stambaugh (Chicago: University of Chicago Press, 1973), p. 32.
[14] Cf. Alain de Benoist, On Being a Pagan, trad. par J. Graham (Atlanta: Ultra, 2004).
[15] On dit que la métaphysique guénonienne est plus proche de l’identification de la vérité et de l’Etre par Platon que de la tradition post-aristotélicienne, dont la distinction entre idée et réalité (Etre et être, essence et apparence) met l’accent sur la seconde, aux dépens de la première. Heidegger, The End of Philosophy, pp. 9-19.
[16] Martin Heidegger, Being and Time, trad. par J. Macquarrie et E. Robinson (New York: Harper & Row, 1962), § 6 ; aussi Martin Heidegger, “The Age of the World Picture”, dans The Question Concerning Technology and Others Essays, trad. par W. Lovitt (New York: Harper & Row, 1977).
[17] Heidegger, Being and Time, § 6.
[18] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 47.
[19] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 41.
[20] Heidegger, Being and Time, § 69b.
[21] Martin Heidegger, Nietzsche: 1. The Will to Power as Art, trad. par D. F. Krell (San Francisco: Harper, 1979), p. 22.
[22] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 35.
[23] Martin Heidegger, “Letter on Humanism”, dans Pathmarks, prep. par W. McNeil (Cambridge: Cambridge University Press, 1998).
[24] Heidegger, Being and Time, § 79.
[25] Heidegger, Being and Time, § 65.
[26] Certaines parties de ce paragraphe et plusieurs autres plus loin sont tirées de mon livre New Culture, New Right: Anti-Liberalism in Postmodern Europe (Bloomington: 1stBooks, 2004), pp. 123ff.
[27] Heidegger, “Letter on Humanism”.
[28] Martin Heidegger, Plato’s Sophist, trad. par R. Rojcewicz et A. Schuwer (Bloomington: Indiana University Press, 1976), p. 158.
[29] Heidegger, Being and Time, § 76.
[30] Martin Heidegger, Contributions to Philosophy (From Enowning), trad. par P. Emad et K. Mahy (Bloomington: Indiana University Press, 1999), § 3 et § 20.
[31] Martin Heidegger, Parmenides, trad. par A. Schuwer et R. Rojcewicz (Bloomington: Indiana University Press, 1992), p. 1.
[32] Martin Heidegger, “The Self-Assertion of the German University”, dans The Heidegger Controversy, prep. par Richard Wolin (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1993). Aussi : « Seul ce qui est unique est recouvrable et répétable… Le commencement ne peut jamais être compris comme le même, parce qu’il s’étend en avant et ainsi va chaque fois au-delà de ce qui est commencé à travers lui et détermine de même son propre recouvrement ». Heidegger, Contributions to Philosophy, § 20.
[33] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 101.
[34] Hans-Georg Gadamer, Heidegger’s Ways, trad. par J. W. Stanley (Albany: State University of New York Press, 1994), p. 64.
[35] Gadamer, Heidegger’s Ways, p. 33.
[36] Martin Heidegger, Hölderlin’s Hymn “The Ister”, trad. par W. McNeil et J. Davis (Bloomington: Indiana University Press, 1996), p. 151.
[37] Martin Heidegger, “The Origin of the Work of Art”, dans Basic Writings, prep. par D. F. Krell (New York: Harper & Row, 1977).
[38] Alain de Benoist, L’empire intérieur (Paris: Fata Morgana, 1995), p. 18.
[39] Heidegger, Being and Time, § 65.
[40] Julius Evola, Ride the Tiger, trad. par J. Godwin et C. Fontana (Rochester, Vermont: Inner Traditions, 2003), pp. 78-103.
[41] Cf. Martin Heidegger, The Basic Problems of Phenomenology, trad. par A. Hofstader (Bloomington: Indiana University Press, 1982), pt. 1, ch. 2.
[42] Quand Evola écrit dans Ride the Tiger que Heidegger voit l’homme « comme une entité qui ne contient pas l’être… mais [se trouve] plutôt devant lui, comme si l’être était quelque chose à poursuivre ou à capturer » (p. 95), il interprète très mal Heidegger, suggérant que ce dernier dresse un mur entre l’Etre et l’être, alors qu’en fait Heidegger voit le Dasein humain comme une expression de l’Etre – mais, du fait de la nature humaine, une expression qui peut ne pas être reconnue comme telle ou authentiquement réalisée.
[43] Heidegger, Parmenides, p. 68.
[44] Heidegger, Being and Time, § 29 ; Contributions to Philosophy, § 120 et § 255.
[45] Heidegger, Being and Time, § 65.
[46] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 92.
[47] Heidegger, Being and Time, § 37.
[48] Gianni Vattimo, The End of Modernity, trad. par J. R. Synder (Baltimore: The John Hopkins University Press, 1985), pp. 51-64.
[49] Heidegger, Introduction to Metaphysics, pp. 6-7.
[50] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 117 et § 184 ; cf. Carl Schmitt, Political Theology, trad. par G. Schwab (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1985).
[51] Heidegger, Being and Time, § 74.
[52] Martin Heidegger, “The Onto-theo-logical Nature of Metaphysics”, dans Essays in Metaphysics, trad. par K. F. Leidecker (New York: Philosophical Library, 1960).
[53] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 5.
[54] Heidegger, Contributions to Philosophy, § 5.
[55] Heidegger, Introduction to Metaphysics, p. 162.
[56] Gadamer, Heidegger’s Ways, p. 12.
[57] Heidegger, Being and Time, § 74.
[58] Heidegger, Being and Time, § 74.
[59] Heidegger, Being and Time, § 43c.
Source: TYR: Myth — Culture — Tradition, vol. 3, ed. Joshua Buckley and Michael Moynihan (Atlanta: Ultra, 2007), pp. 67-88.
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samedi, 23 mars 2013
Othmar Spann: A Catholic Radical Traditionalist
Othmar Spann:
A Catholic Radical Traditionalist
By Lucian Tudor
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Othmar Spann was an Austrian philosopher who was a key influence on German conservative and traditionalist thought in the period after World War I, and he is thus considered a representative of the intellectual movement known as the “Conservative Revolution.” Spann was a professor of economics and sociology at the University of Vienna, where he taught not only scientific social and economic theories, but also influenced many students with the presentation of his worldview in his lectures. As a result of this he formed a large group of followers known as the Spannkreis (“Spann Circle”). This circle of intellectuals attempted to influence politicians who would be sympathetic to “Spannian” philosophy in order to actualize its goals.[1]
Othmar Spann himself was influenced by a variety of philosophers across history, including Plato, Aristotle, Thomas Aquinas, J. G. Fichte, Franz von Baader, and most notably the German Romantic thought of Adam Müller. Spann called his own worldview “Universalism,” a term which should not be confused with “universalism” in the vernacular sense; for the former is nationalistic and values particularity while the latter refers to cosmopolitan or non-particularist (even anti-particularist) ideas. Spann’s term is derived from the root word “universality,” which is in this case synonymous with related terms such as collectivity, totality, or whole.[2] Spann’s Universalism was expounded in a number of books, most notably in Der wahre Staat (“The True State”), and essentially taught the value of nationality, of the social whole over the individual, of religious (specifically Catholic) values over materialistic values, and advocated the model of a non-democratic, hierarchical, and corporatist state as the only truly valid political constitution.
Social Theory
Othmar Spann declared: “It is the fundamental truth of all social science . . . that not individuals are the truly real, but the whole, and that the individuals have reality and existence only so far as they are members of the whole.”[3] This concept, which is at the core of Spann’s sociology, is not a denial of the existence of the individual person, but a complete denial of individualism; individualism being that ideology which denies the existence and importance of supra-individual realities. Classical liberal theory, which was individualist, held an “atomistic” view of individuals and regarded only individuals as truly real; individuals which it believed were essentially disconnected and independent from each other. It also held that society only exists as an instrumental association as a result of a “social contract.” On the other hand, sociological studies have disproven this theory, showing that the whole (society) is never merely the sum of its parts (individuals) and that individuals naturally have psychological bonds with each other. This was Othmar Spann’s position, but he had his own unique way of formulating it.[4]
While the theory of individualism appears, superficially, to be correct to many people, an investigation into the matter shows that it is entirely fallacious. Individuals never act entirely independently because their behavior is always at least in part determined by the society in which they live, and by their organic, non-instrumental (and thus also non-contractual) bonds with other people in their society. Spann wrote, “according to this view, the individual is no longer self-determined and self-created, and is no longer based exclusively and entirely on its own egoicity.”[5] Spann conceived of the social order, of the whole, as an organic society (a community) in which all individuals belonging to it have a pre-existing spiritual unity. The individual person emerges as such from the social whole to which he was born and from which he is never really separated, and “thus the individual is that which is derivative.”[6]
Therefore, society is not merely a mechanical aggregate of fundamentally disparate individuals, but a whole, a community, which precedes its parts, the individuals. “Universalists contend that the mental or spiritual associative tie between individuals exists as an independent entity . . .”[7] However, Spann clarified that this does not mean that the individual has “no mental self-sufficiency,” but rather that he actualizes his personal being only as a member of the whole: “he is only able to form himself, is only able to build up his personality, when in close touch with others like unto himself; he can only sustain himself as a being endowed with mentality or spirituality, when he enjoys intimate and multiform communion with other beings similarly endowed.”[8] Therefore,
All spiritual reality present in the individual is only there and only comes into being as something that has been awakened . . . the spirituality that comes into being in an individual (whether directly or mediated) is always in some sense a reverberation of that which another spirit has called out to the individual. This means that human spirituality exists only in community, never in spiritual isolation. . . . We can say that individual spirituality only exists in community or better, in ‘spiritual community’ [Gezweiung]. All spiritual essence and reality exists as ‘spiritual community’ and only in ‘communal spirituality’ [Gezweitheit].[9]
It is also important to clarify that Spann’s concept of society did not conceive of society as having no other spiritual bodies within it that were separate from each other. On the contrary, he recognized the importance of the various sub-groups, referred to by him as “partial wholes,” as constituent parts and elements which are different yet related, and which are harmonized by the whole under which they exist. Therefore, the whole or the totality can be understood as the unity of individuals and “partial wholes.” To reference a symbolic image, “Totality [the Whole] is analogous to white light before it is refracted by a prism into many colors,” in which the white light is the supra-temporal totality, while the prism is cosmic time which “refracts the totality into the differentiated and individuated temporal reality.”[10]
Nationality and Racial Style
Volk (“people” or “nation”), which signifies “nationality” in the cultural and ethnic sense, is an entirely different entity and subject matter from society or the whole, but for Spann the two had an important connection. Spann was a nationalist and, defining Volk in terms of belonging to a “spiritual community” with a shared culture, believed that a social whole is under normal conditions only made up of a single ethnic type. Only when people shared the same cultural background could the deep bonds which were present in earlier societies truly exist. He thus upheld the “concept of the concrete cultural community, the idea of the nation – as contrasted with the idea of unrestricted, cosmopolitan, intercourse between individuals.”[11]
Spann advocated the separation of ethnic groups under different states and was also a supporter of pan-Germanism because he believed that the German people should unite under a single Reich. Because he also believed that the German nation was intellectually superior to all other nations (a notion which can be considered as the unfortunate result of a personal bias), Spann also believed that Germans had a duty to lead Europe out of the crisis of liberal modernity and to a healthier order similar to that which had existed in the Middle Ages.[12]
Concerning the issue of race, Spann attempted to formulate a view of race which was in accordance with the Christian conception of the human being, which took into account not only his biology but also his psychological and spiritual being. This is why Spann rejected the common conception of race as a biological entity, for he did not believe that racial types were derived from biological inheritance, just as he did not believe an individual person’s character was set into place by heredity. Rather what race truly was for Spann was a cultural and spiritual character or type, so a person’s “racial purity” is determined not by biological purity but by how much his character and style of behavior conforms to a specific spiritual quality. In his comparison of the race theories of Spann and Ludwig Ferdinand Clauss (an influential race psychologist), Eric Voegelin had concluded:
In Spann’s race theory and in the studies of Clauss we find race as the idea of a total being: for these two scholars racial purity or blood purity is not a property of the genetic material in the biological sense, but rather the stylistic purity of the human form in all its parts, the possession of a mental stamp recognizably the same in its physical and psychological expression.[13]
However, it should be noted that while Ludwig Clauss (like Spann) did not believe that spiritual character was merely a product of genetics, he did in fact emphasize that physical race had importance because the bodily racial form must be essentially in accord with the psychical racial form with which it is associated, and with which it is always linked. As Clauss wrote,
The style of the psyche expresses itself in its arena, the animate body. But in order for this to be possible, this arena itself must be governed by a style, which in turn must stand in a structured relationship to the style of the psyche: all the features of the somatic structure are, as it were, pathways for the expression of the psyche. The racially constituted (that is, stylistically determined) psyche thus acquires a racially constituted animate body in order to express the racially constituted style of its experience in a consummate and pure manner. The psyche’s expressive style is inhibited if the style of its body does not conform perfectly with it.[14]
Likewise Julius Evola, whose thought was influenced by both Spann and Clauss, and who expanded Clauss’s race psychology to include religious matters, also affirmed that the body had a certain level of importance.[15]
On the other hand, the negative aspect of Othmar Spann’s theory of race is that it ends up dismissing the role of physical racial type entirely, and indeed many of Spann’s major works do not even mention the issue of race. A consequence of this was also the fact that Spann tolerated and even approved of critiques made by his students of National Socialist theories of race which emphasized the role of biology; an issue which would later compromise his relationship with that movement even though he was one of its supporters.[16]
The True State
Othmar Spann’s Universalism was in essence a Catholic form of “Radical Traditionalism”; he believed that there existed eternal principles upon which every social, economic, and political order should be constructed. Whereas the principles of the French Revolution – of liberalism, democracy, and socialism – were contingent upon historical circumstances, bound by world history, there are certain principles upon which most ancient and medieval states were founded which are eternally valid, derived from the Divine order. While specific past state forms which were based on these principles cannot be revived exactly as they were because they held many characteristics which are outdated and historical, the principles upon which they were built and therefore the general model which they provide are timeless and must reinstituted in the modern world, for the systems derived from the French Revolution are invalid and harmful.[17] This timeless model was the Wahre Staat or “True State” – a corporative, monarchical, and elitist state – which was central to Universalist philosophy.
1. Economics
In terms of economics, Spann, like Adam Müller, rejected both capitalism and socialism, advocating a corporatist system relatable to that of the guild system and the landed estates of the Middle Ages; a system in which fields of work and production would be organized into corporations and would be subordinated in service to the state and to the nation, and economic activity would therefore be directed by administrators rather than left solely to itself. The value of each good or commodity produced in this system was determined not by the amount of labor put into it (the labor theory of value of Marx and Smith), but by its “organic use” or “social utility,” which means its usefulness to the social whole and to the state.[18]
Spann’s major reason for rejecting capitalism was because it was individualistic, and thus had a tendency to create disharmony and weaken the spiritual bonds between individuals in the social whole. Although Spann did not believe in eliminating competition from economic life, he pointed out that the extreme competition glorified by capitalists created a market system in which there occurred a “battle of all against all” and in which undertakings were not done in service to the whole and the state but in service to self-centered interests. Universalist economics aimed to create harmony in society and economics, and therefore valued “the vitalising energy of the personal interdependence of all the members of the community . . .”[19]
Furthermore, Spann recognized that capitalism also did result in an unfair treatment by capitalists of those underneath them. Thus while he believed Marx’s theories to be theoretically flawed, Spann also mentioned that “Marx nevertheless did good service by drawing attention to the inequality of the treatment meted out to worker and to entrepreneur respectively in the individualist order of society.”[20] Spann, however, rejected socialist systems in general because while socialism seemed superficially Universalistic, it was in fact a mixture of Universalist and individualist elements. It did not recognize the primacy of the State over individuals and also held that all individuals in society should hold the same position, eliminating all class distinctions, and should receive the same amount of goods. “True universalism looks for an organic multiplicity, for inequality,” and thus recognizes differences even if it works to establish harmony between the parts.[21]
2. Politics
Spann asserted that all democratic political systems were an inversion of the truly valuable political order, which was of even greater importance than the economic system. A major problem of democracy was that it allowed, firstly, the manipulation of the government by wealthy capitalists and financiers whose moral character was usually questionable and whose goals were almost never in accord with the good of the community; and secondly, democracy allowed the triumph of self-interested demagogues who could manipulate the masses. However, even the theoretical base of democracy was flawed, according to Spann, because human beings were essentially unequal, for individuals are always in reality differentiated in their qualities and thus are suited for different positions in the social order. Democracy thus, by allowing a mass of people to decide governmental matters, meant excluding the right of superior individuals to determine the destiny of the State, for “setting the majority in the saddle means that the lower rule over the higher.”[22]
Finally, Spann noted that “demands for democracy and liberty are, once more, wholly individualistic.”[23] In the Universalist True State, the individual would subordinate his will to the whole and would be guided by a sense of selfless duty in service to the State, as opposed to asserting his individual will against all other wills. Furthermore, the individual did not possess rights because of his “rational” character and simply because of being human, as many Enlightenment thinkers asserted, but these rights were derived from the ethics of the particular social whole to which he belonged and from the laws of the State.[24] Universalism also acknowledged the inherent inequalities in human beings and supported a hierarchical organization of the political order, where there would be only “equality among equals” and the “subordination of the intellectually inferior under their intellectual betters.”[25]
In the True State, individuals who demonstrated their leadership skills, their superior nature, and the right ethical character would rise among the levels of the hierarchy. The state would be led by a powerful elite whose members would be selected from the upper levels of the hierarchy based on their merit; it was essentially a meritocratic aristocracy. Those in inferior positions would be taught to accept their role in society and respect their superiors, although all parts of the system are “nevertheless indispensable for its survival and development.”[26] Therefore, “the source of the governing power is not the sovereignty of the people, but the sovereignty of the content.”[27]
Othmar Spann, in accordance with his Catholic religious background, believed in the existence of a supra-sensual, metaphysical, and spiritual reality which existed separately from and above the material reality, and of which the material realm was its imperfect reflection. He asserted that the True State must be animated by Christian spirituality, and that its leaders must be guided by their devotion to Divine laws; the True State was thus essentially theocratic. However, the leadership of the state would receive its legitimacy not only from its religious character, but also by possessing “valid spiritual content,” which “precedes power as it is represented in law and the state.”[28] Thus Spann concluded that “history teaches us that it is the validity of spiritual values that constitutes the spiritual bond. They cannot be replaced by fire and sword, nor by any other form of force. All governance that endures, and all the order that society has thus achieved, is the result of inner domination.”[29]
The state which Spann aimed to restore was also federalistic in nature, uniting all “partial wholes” – corporate bodies and local regions which would have a certain level of local self-governance – with respect to the higher Authority. As Julius Evola wrote, in a description that is in accord with Spann’s views, “the true state exists as an organic whole comprised of distinct elements, and, embracing partial unities [wholes], each possesses a hierarchically ordered life of its own.”[30] All throughout world history the hierarchical, corporative True State appears and reappears; in the ancient states of Sparta, Rome, Persia, Medieval Europe, and so on. The structures of the states of these times “had given the members of these societies a profound feeling of security. These great civilizations had been characterized by their harmony and stability.”[31]
Liberal modernity had created a crisis in which the harmony of older societies was damaged by capitalism and in which social bonds were weakened (even if not eliminated) by individualism. However, Spann asserted that all forms of liberalism and individualism are a sickness which could never succeed in fully eliminating the original, primal reality. He predicted that in the era after World War I, the German people would reassert its rights and would create revolution restoring the True State, would recreate that “community tying man to the eternal and absolute forces present in the universe,”[32] and whose revolution would subsequently resonate all across Europe, resurrecting in modern political life the immortal principles of Universalism.
Spann’s Influence and Reception
Othmar Spann and his circle held influence largely in Germany and Austria, and it was in the latter country that their influence was the greatest. Spann’s philosophy became the basis of the ideology of the Austrian Heimwehr (“Home Guard”) which was led by Ernst Rüdiger von Starhemberg. Leaders of the so-called “Austro-fascist state,” including Engelbert Dollfuss and Kurt Schuschnigg, were also partially influenced by Spann’s thought and by members of the “Spann circle.”[33] However, despite the fact that this state was the only one which truly attempted to actualize his ideas, Spann did not support “Austro-fascism” because he was a pan-Germanist and wanted the German people unified under a single state, which is why he joined Hitler’s National Socialist movement, which he believed would pave the way to the True State.
Despite repeated attempts to influence National Socialist ideology and the leaders of the NSDAP, Spann and his circle were rejected by most National Socialists. Alfred Rosenberg, Robert Ley, and various other authors associated with the SS made a number of attacks on Spann’s school. Rosenberg was annoyed both by Spann’s denial of the importance of blood and by his Catholic theocratic position; he wrote that “the Universalist school of Othmar Spann has successfully refuted idiotic materialist individualism . . . [but] Spann asserted against traditional Greek wisdom, and claimed that god is the measure of all things and that true religion is found only in the Catholic Church.”[34]
Aside from insisting on the reality of biological laws, other National Socialists also criticized Spann’s political proposals. They asserted that his hierarchical state would create a destructive divide between the people and their elite because it insisted on their absolute separateness; it would destroy the unity they had established between the leadership and the common folk. Although National Socialism itself had elements of elitism it was also populist, and thus they further argued that every German had the potential to take on a leadership role, and that therefore, if improved within in the Volksgemeinschaft (“Folk-Community”), the German people were thus not necessarily divisible in the strict view of superior elites and inferior masses.[35]
As was to be expected, Spann’s liberal critics complained that his anti-individualist position was supposedly too extreme, and the social democrats and Marxists argued that his corporatist state would take away the rights of the workers and grant rulership to the bourgeois leaders. Both accused Spann of being an unrealistic reactionary who wanted to revive the Middle Ages.[36] However, here we should note here that Edgar Julius Jung, who was himself basically a type of Universalist and was heavily inspired by Spann’s work, had mentioned that:
We are reproached for proceeding alongside or behind active political forces, for being romantics who fail to see reality and who indulge in dreams of an ideology of the Reich that turns toward the past. But form and formlessness represent eternal social principles, like the struggle between the microcosm and the macrocosm endures in the eternal swing of the pendulum. The phenomenal forms that mature in time are always new, but the great principles of order (mechanical or organic) always remain the same. Therefore if we look to the Middle Ages for guidance, finding there the great form, we are not only not mistaking the present time but apprehending it more concretely as an age that is itself incapable of seeing behind the scenes.[37]
Edgar Jung, who was one of Hitler’s most prominent radical Conservative opponents, expounded a philosophy which was remarkably similar to Spann’s, although there are some differences we would like to point out. Jung believed that neither Fascism nor National Socialism were precursors to the reestablishment of the True State but rather “simply another manifestation of the liberal, individualistic, and secular tradition that had emerged from the French Revolution.”[38] Fascism and National Socialism were not guided by a reference to a Divine power and were still infected with individualism, which he believed showed itself in the fact that their leaders were guided by their own ambitions and not a duty to God or a power higher than themselves.
Edgar Jung also rejected nationalism in the strict sense, although he simultaneously upheld the value of Volk and the love of fatherland, and advocated the reorganization of the European continent on a federalist basis with Germany being the leading nation of the federation. Also in contrast to Spann’s views, Jung believed that genetic inheritance did play a role in the character of human beings, although he believed this role was secondary to cultural and spiritual factors and criticized common scientific racialism for its “biological materialism.”
Jung asserted that what he saw as superior racial elements in a population should be strengthened and the inferior elements decreased: “Measures for the raising of racially valuable components of the German people and for the prevention of inferior currents must however be found today rather than tomorrow.”[39] Jung also believed that the elites of the Reich, while they should be open to accepting members of lower levels of the hierarchy who showed leadership qualities, should marry only within the elite class, for in this way a new nobility possessing leadership qualities strengthened both genetically and spiritually would be developed.[40]
Whereas Jung constantly combatted National Socialism to his life’s end, up until the Anschluss Othmar Spann had remained an enthusiastic supporter of National Socialism, always believing he could eventually influence the Third Reich leadership to adopt his philosophy. This illusion was maintained in his mind until the takeover of Austria by Germany in 1938, soon after which Spann was arrested and imprisoned because he was deemed an ideological threat, and although he was released after a few months, he was forcibly confined to his rural home.[41] After World War II he could never regain any political influence, but he left his mark in the philosophical realm. Spann had a partial influence on Eric Voegelin and also on many Neue Rechte (“New Right”) intellectuals such as Armin Mohler and Gerd-Klaus Kaltenbrunner.[42] He has also had an influence on Radical Traditionalist thought, most notably on Julius Evola, who wrote that Spann “followed a similar line to my own,”[43] although there are obviously certain marked differences between the two thinkers. Spann’s philosophy thus, despite its flaws and limitations, has not been entirely lacking in usefulness and interest.
Notes
1. More detailed information on Othmar Spann’s life than provided in this essay can be found in John J. Haag, Othmar Spann and the Politics of “Totality”: Corporatism in Theory and Practice (Ph.D. Thesis, Rice University, 1969).
2. See Othmar Spann, Types of Economic Theory (London: George Allen and Unwin, 1930), p. 61. We should note to the reader that this book is the only major work by Spann to have been published in English and has also been published under an alternative title as History of Economics.
3. Othmar Spann as quoted in Ernest Mort, “Christian Corporatism,” Modern Age, Vol. 3, No. 3 (Summer 1959), p. 249. Available online here: http://www.mmisi.org/ma/03_03/mort.pdf [2].
4. For a more in-depth and scientific overview of Spann’s studies of society, see Barth Landheer, “Othmar Spann’s Social Theories.” Journal of Political Economy, Vol. 39, No. 2 (April, 1931), pp. 239–48. We should also note to our readers that Othmar Spann’s anti-individualist social theories are more similar to those of other “far Right” sociologists such as Hans Freyer and Werner Sombart. However, it should be remembered that sociologists from nearly all political positions are opposed to individualism to some extent, whether they are of the “moderate Center” or of the “far Left.” Furthermore, anti-individualism is a typical position among many mainstream sociologists today, who recognize that individualistic attitudes – which are, of course, still an issue in societies today just as they were an issue a hundred years ago – have a harmful effect on society as a whole.
5. Othmar Spann, Der wahre Staat (Leipzig: Verlag von Quelle und Meyer, 1921), p. 29. Quoted in Eric Voegelin, Theory of Governance and Other Miscellaneous Papers, 1921–1938 (Columbia: University of Missouri Press, 2003), p. 68.
6. Spann, Der wahre Staat, p. 29. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 69.
7. Spann, Types of Economic Theory, pp. 60–61.
8. Ibid., p. 61.
9. Spann, Der wahre Staat, pp. 29 & 34. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, pp. 70–71.
10. J. Glenn Friesen, “Dooyeweerd, Spann, and the Philosophy of Totality,” Philosophia Reformata, 70 (2005), p. 6. Available online here: http://members.shaw.ca/hermandooyeweerd/Totality.pdf [3].
11. Spann, Types of Economic Theory, p. 199.
12. See Haag, Spann and the Politics of “Totality,” p. 48.
13. Eric Voegelin, Race and State (Columbia: University of Missouri Press, 1997), pp. 117–18.
14. Ludwig F. Clauss, Rasse und Seele (Munich: J. F. Lehmann, 1926), pp. 20–21. Quoted in Richard T. Gray, About Face: German Physiognomic Thought from Lavater to Auschwitz (Detroit: Wayne State University Press, 2004), p. 307.
15. For an overview of Evola’s theory of race, see Michael Bell, “Julius Evola’s Concept of Race: A Racism of Three Degrees.” The Occidental Quarterly, Vol. 9, No. 4 (Winter 2009–2010), pp. 101–12. Available online here: http://toqonline.com/archives/v9n2/TOQv9n2Bell.pdf [4]. For a closer comparison between the Evola’s theories and Clauss’s, see Julius Evola’s The Elements of Racial Education (Thompkins & Cariou, 2005).
16. See Haag, Spann and the Politics of “Totality,” p. 136.
17. A more in-depth explanation of “Radical Traditionalism” can be found in Chapter 1: Revolution – Counterrevolution – Tradition” in Julius Evola, Men Among the Ruins: Postwar Reflections of a Radical Traditionalist, trans. Guido Stucco, ed. Michael Moynihan (Rochester: Inner Traditions, 2002).
18. See Spann, Types of Economic Theory, pp. 162–64.
19. Ibid., p. 162.
20. Ibid., p. 226.
21. Ibid., p. 230.
22. Spann, Der wahre Staat, p. 111. Quoted in Janek Wasserman, Black Vienna, Red Vienna: The Struggle for Intellectual and Political Hegemony in Interwar Vienna, 1918–1938 (Ph.D. Dissertion, Washington University, 2010), p. 80.
23. Spann, Types of Economic Theory, pp. 212.
24. For a commentary on individual natural rights theory, see Ibid., pp.53 ff.
25. Spann, Der wahre Staat, p. 185. Quoted in Wassermann, Black Vienna, Red Vienna, p. 82.
26. Haag, Spann and the Politics of “Totality,” p. 32.
27. Othmar Spann, Kurzgefasstes System der Gesellschaftslehre (Berlin: Quelle und Meyer, 1914), p. 429. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 301.
28. Spann, Gesellschaftslehre, p. 241. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 297.
29. Spann, Gesellschaftslehre, p. 495. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 299.
30. Julius Evola, The Path of Cinnabar (London: Integral Tradition Publishing, 2009), p. 190.
31. Haag, Spann and the Politics of “Totality,” p. 39.
32. Ibid., pp. 40–41.
33. See Günter Bischof, Anton Pelinka, Alexander Lassner, The Dollfuss/Schuschnigg Era in Austria: A Reassessment (New Brunswick, NJ: Transaction Publishers, 2003), pp. 16, 32, & 125 ff.
34. Alfred Rosenberg, The Myth of the Twentieth Century (Sussex, England: Historical Review Press, 2004), pp. 458–59.
35. See Haag, Spann and the Politics of “Totality,” pp. 127–29.
36. See Ibid., pp. 66 ff.
37. Edgar Julius Jung, “Germany and the Conservative Revolution,” in: The Weimar Republic Sourcebook, edited by Anton Kaes, Martin Jay, and Edward Dimendberg (Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1995), p. 354.
38. Larry Eugene Jones, “Edgar Julius Jung: The Conservative Revolution in Theory and Practice,” Conference Group for Central European History of the American Historical Association, Vol. 21, No. 02 (1988), p. 163.
39. Edgar Julius Jung, “People, Race, Reich,” in: Europa: German Conservative Foreign Policy 1870–1940, edited by Alexander Jacob (Lanham, MD, USA: University Press of America, 2002), p. 101.
40. For a more in-depth overview of Jung’s life and thought, see Walter Struve, Elites Against Democracy: Leadership Ideals in Bourgeois Political Thought in Germany, 1890–1933 (Princeton, N.J.: Princeton University, 1973), pp. 317 ff. See also Edgar Julius Jung, The Rule of the Inferiour, 2 vols. (Lewiston, New York: Edwin Mellon Press, 1995).
41. Haag, Spann and the Politics of “Totality,” pp. 154–55.
42. See our previous citations of Voegelin’s Theory of Governance and Race and State; Armin Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918–1932 (Stuttgart: Friedrich Vorwerk Verlag, 1950); “Othmar Spann” in Gerd-Klaus Kaltenbrunner, Vom Geist Europas, Vol. 1 (Asendorf: Muth-Verlag, 1987).
43. Evola, Path of Cinnabar, p. 155.
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dimanche, 17 mars 2013
Videojuegos, una realidad virtual para una esclavitud real
Por Fernando Trujillo
Nuestra generación fue testigo del nacimiento y auge de los videojuegos, nuestra infancia estuvo marcada por los juegos de atari, Nintendo, por Super Mario Bros y las peleas de Street Fighter.
Eran principios de los noventa cuando tuve mi primer Nintendo, al igual que muchos niños pasaba mis tardes jugando Super Mario, gastaba mis centavos en las maquinas de videojuegos jugando a Street Fighter y tratando de hacer un “fatality” de Mortal Kombat, al igual que muchos de ustedes lectores. Los videojuegos marcaron nuestra vida y continúan marcando nuestras vidas, del Nintendo pasamos al Super Nintendo, al Nintendo 64, el Game Boy, el Virtual Boy.
Conocimos el Playstation y sus sucesivas entregas, el fallido Dreamcast, el Xbox y el Nintendo Wii. Sagas interminable como Resident Evil, Tomb Raider, Final Fantasy o King of Fighters que cada año lanzan una nueva entrega para millones de fanáticos que se hacen llamar a si mismos “gamers”.
Para muchos los videojuegos es una forma de entretenimiento, para asociaciones moralistas y cristianos son una forma de fomentar la violencia en los niños y adolescentes, los videojuegos en sus aspectos positivos o negativos—como veremos en mas adelante estos aspectos son más numerosos—son parte importante de una cultura cada vez mas mecanizada.
No obstante un tema que no se toca es la manipulación que existe dentro de la industria de los videojuegos, al igual que la industria del cine y la música que sirven como maquinas de propaganda del Sistema, es a través de los videojuegos que este lanza mensajes subliminales a los millones de gamers en todo el mundo.
Rápidamente los videojuegos se han convertido en un arma para mantener a los jóvenes esclavizados en una realidad virtual. Detrás de exitosas franquicias, de todas las empresas y de toda esa cultura de los videojuegos se encuentra la mejor arma de este sistema orwelliano: el entretenimiento.
Los videojuegos nos introducen a una realidad virtual en la que somos guerreros, héroes, hombres de acción mientras que sin saberlo vivimos en una esclavitud real.
Se dice que en el verano de 1981en la ciudad de Portland en el estado de Oregon, una camioneta Traffic negra dejaba algunas cabinas de un juego llamado Polybius (se estima que fueron seis o siete), la camioneta desapareció misteriosamente.
Durante todo ese día –algunos aseguran que era el 11 de julio—el enigmático juego llamo la atención de algunos curiosos comienzan a jugarlo.
En la tarde de dicho día los relatos de quienes lo habían jugado, cada uno hablaba de su experiencia y de lo que le habia producido física y mentalmente.
Las historias hacían referencia a combinaciones de luces, gráficos destellantes con mensajes subliminales ocultos.
Esto les generaba efectos en el subconsciente y en algunas personas fue de gravedad, muchos se sentían mal después de jugar.
Después de haber sido sacado del mercado vinieron argumentos que hablaban de una gran adicción hasta efectos demoledores tales como convulsiones, vómitos y pérdida de memoria, incluyendo algunos más inquietantes.
Algunos testimonios de quienes lo jugaron hablaban de que el juego provocaba graves efectos en el cerebro, alucinaciones auditivas y ópticas, ataques epilépticos y pesadillas.
Aseguraban ver caras fantasmales por el rabillo del ojo recorriendo la pantalla del juego a una velocidad casi imperceptible, así como mensajes que instaban al suicidio o al asesinato, tales como "Kill Yourself" (mátate), "No Imagination" (sin imaginación) "No Thought" (no pienses), "Conform" (confórmate) "Honor apathy" (honra la apatía) "Do not question authority" (no cuestiones a la autoridad) o "Surrender" (ríndete) entre otros. Muchos afirman haber oído voces y lamentos entremezclados con el fortísimo y confuso sonido electrónico del videojuego.
La compañía Sinneslöschen (en alemán "pérdida de los sentidos"); que creó el juego era una subdivisión de Atari, creando un proyecto secreto para la CIA, al menos eso es lo que dicen algunas teorías de conspiración.
Quienes hayan jugado ese videojuego fueron sin saberlo parte de una operación MK Ultra de la CIA, controlar la mente de las personas a base de las consolas de videojuego, recordemos que eran los primeros años de este nuevo sistema de entretenimiento.
La historia de Polybius ha quedado como una leyenda urbana sin embargo las teorías acerca de MK Ultra parecen ser más reales de lo que a muchos les gustaría creer.
Real o no lo cierto es que los videojuegos están diseñados para manipular la mente de quien los juega a un nivel subliminal.
A últimas fechas han salido al mercado juegos en el que el protagonista es un tirador en tercera persona. Juegos como Halo, Resident Evil, Call of Duty, Medal of Honor y Bioshock por mencionar solo a los más exitosos.
El objetivo es ir matando enemigo tras enemigo, el jugador va manejado al personaje principal disparando contra los objetivos y estos son objetivos son zombies, alienígenas, nazis, en resumen los enemigos de la humanidad, de la libertad y del Sistema.
Encontramos todo eso en la exitosa franquicia Call of Duty, en donde el protagonista comete torturas y homicidios en nombre del honor y de su país.
Es bien sabido que los reclutas americanos juegan Call of Duty como una forma de entrenamiento, el juego en si ha sido creado para reclutar jóvenes en el ejercito.
La mayoría de los jugadores de Call of Duty son niños entre los trece y los dieciséis años a los cuales se les enseña lo fácil que es matar pero matar sin responsabilidad, en un videojuego a los tipos que matan no son nadie, no tienen familia ni sentimientos, no pasa nada al fin que el jugador es el héroe. El proyecto MK Ultra está detrás de todas estas franquicias, la mayoría de los gamers son niños y adolescentes que son introducidos en esta realidad virtual donde se les enseña a odiar y a matar a los enemigos del Sistema anglo-sionista.
Por poner un ejemplo en la franquicia Halo los enemigos son una civilización alienígena gobernada por una jerarquía religiosa. ¿Irán? ¿Palestinos? De esta manera los enemigos ficticios son relacionados con un objetivo real.
La serie Medal of Honor diseñada por el jefe de propaganda anglo-sionista Steven Spielberg traslada al jugador a la Segunda Guerra en donde podrá matar alemanes en nombre de la democracia.
Setenta años después y la propaganda anti germánica continua esta vez dentro de los videojuegos. Los enemigos son los alemanes, los europeos, ellos representan todo lo malo, lo opuesto al ideal de democracia y deben ser asesinados, torturados, aplastados por el jugador.
Medal of Honor tiene una secuela ubicada en Afganistán, un ambiente mas moderno pero en donde el jugador continuara con su misión de destruir a los enemigos del Sistema.
La mente de los jugadores son condicionadas en estos juegos, matar y odiar, sus mentes están siendo manipuladas cada vez que pasan a un nivel y en muchos casos estos jóvenes se enlistan en el ejercito creyendo que se trata de un videojuego.
Son maquinas de matar, sus cerebros están diseñados para matar, están listos para ser enviados a Medio Oriente a combatir y matar.
Con estos antecedentes no es nada raro que los marines torturen, violen o asesinen civiles sin misericordia. Han sido entrenados desde casa para ello.
La manipulación MK Ultra no se encuentra solo en los videojuegos de guerra si no también en los videojuegos de contenido sexual. Los videojuegos eróticos son cada vez más frecuentes en el mercado y el mejor ejemplo de esto es Catherine.
Este videojuego que combina el terror con el erotismo el jugador maneja a Vincent un hombre común y corriente el cual engaña a su novia Katherine con un súcubo de nombre Catherine, una mujer atractiva que seduce al protagonista…..y al jugador.
Durante el juego debes responder a las preguntas personales, estas preguntas son emparejadas con las respuestas de otros jugadores para formar parte de algunas estadísticas en línea de muestra.
Hay seis posibles finales, todos determinados por la sinceridad de las respuestas del jugador. ¿Estadísticas en línea? ¿Preguntas personales? Manipulación MK Ultra, usando a una mujer seductora se acceden a los deseos, pensamientos y sueños de los jugadores haciendo más sutil y fácil poder dominar sus mentes.
Otro juego que vale la pena mencionar es la franquicia “Dead Or Alive” un juego de peleas bastante mediocre pero que sin embargo sobresale por una edición especial en el que los personajes femeninos juegan voleibol en bikini.
Los personajes virtuales resaltan por su sensualidad, sus curvas bien delineadas y el libido que despiertan en el jugador.
Las mujeres diseñadas virtualmente van poco a poco desplazando a las mujeres reales, las chicas de DOA son objeto de fetiche para los videojugadores quienes pasan horas y horas frente a la televisión jugando con las chicas.
La mayoría de los gamers son incapaces de entablar una relación sexual sana y muchos sufren de timidez con las mujeres. Es entonces que ellos encuentran en DOA o Catherine a las mujeres de sus fantasías.
Las chicas de los videojuegos actuales además de poseer cuerpos sensuales están diseñadas para coquetear con el jugador, haciéndole creer que es amado y deseado para compensar sus fantasías sexuales frustradas.
En muchos videojuegos de tipo hentai—pornografia japonesa—los jugadores toman el rol de un violador o de un pervertido que secuestra colegialas y las desviste, en estos juegos la mujer (niñas o adolescentes en su mayoría) se encuentran atadas, llorando y sumisas para un jugador que sacia sus frustraciones y fantasías en una realidad virtual diseñada para él.
Es mas fácil desnudar a una colegiala japonesa, tener sexo con Cahterine o jugar con las chicas de DOA que entablar contacto con una mujer real.
Manipulación psicológica en la que el jugador vive en su habitación teniendo sexo virtual con un personaje virtual diseñado de acuerdo a las fantasías masculinas.
La generación gamer es en su mayoría una generación apática de gente que vive encerrada en sus habitaciones, viviendo en un mundo virtual sin saber que viven en una esclavitud real.
Gordos, comiendo nachos o papas fritas mientras están simulando ser héroes, soldados o guerreros. El Sistema ha creado una generación apática, temerosa de salir a la calle, temerosa de vivir y que les ha dado mundos de fantasía donde vivir en la que son seductores, valientes, gente audaz y sin miedo pero encerrados en una falsa realidad.
El abuso de los videojuegos en los niños resulta nocivo y más si es desde temprana edad, un niño debe salir a divertirse, correr en un parque, pelearse con otros niños, jugar con otros niños no estar encerrado en una habitación jugando Call of Duty o matando zombies en Resident Evil sin embargo muchos padres prefieren que sus hijos se queden en casa jugando que en la calle donde se pueden lastimar de verdad al jugar o correr.
Consecuencias pueden ser tendencias violentas descontroladas, desarrollar timidez, sobrepeso o una conducta inestable, generar una adicción hasta desarrollar epilepsia.
Estas consecuencias son reales y muchos padres aun las desconocen. No obstante la tendencia a sobreproteger a los niños los aísla de la acción real que requiere que se lastimen jugando o resolviendo sus problemas en la vida cotidiana, que ellos vivan y desarrollen sus instintos en parques y en la calle es mal visto, lo mejor es que estén en una burbuja mirando televisión.
Vivimos en una época de padres sobreprotectores que les administran dosis de medicamentos a sus hijos mientras los mantienen encerrados en casa frente a la televisión o una consola de videojuegos. Generaciones de jóvenes holgazanes que ya no salen a la calle, ya no andan en bicicleta, ya no leen libros si no que se la pasan horas y horas jugando videojuegos, atrapados en una realidad virtual. Estos jóvenes no lucharan, no vivirán, sus instintos morirán mientras sus cuerpos se hacen más obesos y sus neuronas se van muriendo pero ellos creerán que son héroes de grandes proezas.
Sin saberlo mientras ellos viven en su mundo virtual, ellos son esclavos, su esclavitud es la usura, la política destructiva de los bancos, las leyes que restringen la libertad, la represión militar cada vez más fuerte del Sistema que cada vez más se acerca al Nuevo Orden Mundial.
Su mismo entretenimiento es su esclavitud.
Una esclavitud real solo que esta vez las cadenas han sido sustituidas por el playstation, el Xbox y una realidad virtual que nos aleja de los problemas del mundo.
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